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Italian Pages 1076
KEN FOLLETT MONDO SENZA FINE (World Without End, 2007)
Prima parte 1° NOVEMBRE 1327 1 Gwenda aveva otto anni, ma il buio non le faceva paura. Quando aprì gli occhi non vide nulla, però non fu questo a spaventarla. Sapeva di trovarsi al priorato di Kingsbridge, nel lungo edificio di pietra chiamato ospitale, stesa a terra su un giaciglio di paglia. Accanto a lei era sdraiata la madre; dal tiepido profumo, Gwenda comprese che stava allattando il piccolo, ancora senza nome. Vicino alla mamma c'erano il papà e poi il fratello maggiore Philemon, di dodici anni. L'ospitale era affollato, e benché la bambina non riuscisse a vedere le al-
tre famiglie coricate sul pavimento, stipate come pecore in un recinto, percepiva l'odore acre dei loro corpi caldi. All'alba sarebbe stato Ognissanti, che quell'anno cadeva di domenica e quindi era un giorno particolarmente benedetto. La sera che lo precedeva, la vigilia, era un momento pericoloso in cui gli spiriti maligni circolavano liberamente. Al pari della famiglia di Gwenda, centinaia di persone erano accorse a Kingsbridge dai villaggi vicini per trascorrere la festa entro i confini consacrati del priorato e assistere all'alba al servizio religioso. Come tutte le persone di buonsenso, Gwenda temeva gli spiriti maligni, ma ancor più la terrorizzava quel che avrebbe dovuto fare durante la funzione. Scrutò nell'oscurità cercando di non pensarci. Sapeva che nella parete di fronte a lei c'era una finestra ad arco priva di vetri - solo gli edifici più importanti avevano vetri alle finestre -, con appena una tenda di lino a riparare dalla fredda aria autunnale. Tuttavia non scorse alcun bagliore grigiastro nel punto in cui doveva trovarsi l'apertura, e se ne rallegrò. Sperava che il mattino tardasse ancora. Non c'era nulla da vedere, ma molto da ascoltare. La paglia che copriva il pavimento frusciava in continuazione, ogni volta che la gente si agitava o cambiava posizione mentre dormiva. Un bimbo si mise a piangere, forse svegliato da un brutto sogno, e fu subito tranquillizzato da un affettuoso bisbiglio. Di tanto in tanto qualcuno farfugliava una mezza parola nel sonno. Da qualche parte arrivarono i rumori di due persone che stavano facendo le cose che tutti i genitori facevano ma di cui non parlavano mai, quello che Gwenda chiamava "grugnire", perché non sapeva come definirlo altrimenti. Molto presto scorse una luce. Dalla porta a est del lungo stanzone, dietro l'altare, entrò un monaco con una candela in mano; l'accostò a un accenditoio posto lì accanto e con quello fece ardere le lampade alle pareti. Ogni volta la sua lunga ombra si proiettava sul muro come un riflesso, mentre l'accenditoio incrociava la propria sullo stoppino del lume. La luce crescente illuminò le file di corpi indistinti raggomitolati a terra, avvolti in mantelli di lana grezza o addossati ai vicini in cerca di calore. I malati occupavano i pagliericci accanto all'altare per trarre il massimo beneficio dalla sacralità del luogo. Sul lato opposto, una scala conduceva al piano superiore, dove erano alloggiati i nobili in visita: in quella occasione, il conte di Shiring con alcuni membri della sua famiglia. Il monaco si sporse verso Gwenda per accendere il lume sopra la sua te-
sta e sorrise nell'incrociarne lo sguardo. Lei ne studiò il viso alla tremula luce e riconobbe in lui frate Godwyn. Era giovane e bello, e la notte precedente aveva rivolto a Philemon parole gentili. Vicino a Gwenda c'era un'altra famiglia del suo villaggio: Samuel, un prospero contadino con un vasto podere, la moglie e i due figli, il più piccolo dei quali, Wulfric, era un bambino pestifero di sei anni, convinto che lanciare ghiande alle femmine e poi darsela a gambe fosse la cosa più divertente del mondo. La famiglia di Gwenda non era ricca. Il padre non possedeva terre e faceva il bracciante per chiunque fosse disposto a pagarlo. Il lavoro non mancava mai durante l'estate, ma dopo il raccolto, quando cominciavano i primi freddi, spesso pativano la fame. Per questo lei era costretta a rubare. Immaginò di essere sorpresa in flagrante: una mano forte l'afferrava in una morsa, mentre lei si dibatteva disperatamente; una voce profonda e crudele diceva: "Bene, bene, ecco una ladruncola"; il dolore e l'umiliazione delle frustate, e poi la cosa peggiore, la straziante sofferenza di vedersi mozzare la mano. Suo padre aveva già subito quella punizione: il braccio sinistro terminava in un orrendo moncherino rattrappito. Se la cavava bene con una mano sola, riusciva a maneggiare la pala, a sellare un cavallo e perfino a costruire una rete per catturare gli uccelli, e tuttavia era sempre l'ultimo bracciante a venire ingaggiato in primavera e il primo a essere lasciato a casa in autunno. Non poteva cercare lavoro fuori del villaggio, perché l'amputazione lo marchiava come ladro e quindi nessuno era disposto ad assumerlo. Negli spostamenti, copriva il moncherino con un guanto imbottito per non essere scansato da ogni estraneo che incontrava, ma l'espediente non ingannava a lungo le persone. Gwenda non aveva assistito alla punizione del padre, subita prima che lei nascesse, ma se l'era spesso immaginata, e in quel momento non riusciva a smettere di pensare che la stessa cosa sarebbe accaduta a lei. Nella mente vedeva la lama della scure abbattersi sul suo polso, tranciando pelle e ossa fino a recidere per sempre la mano dal braccio. Dovette serrare i denti per impedirsi di gridare a squarciagola. I pellegrini cominciavano ad alzarsi; si stiravano, sbadigliavano, si stropicciavano gli occhi. Gwenda si mise in piedi e si rassettò i vestiti. Aveva ereditato tutti gli indumenti dal fratello maggiore: sopra una camiciola di lana lunga fino alle ginocchia portava una tunica fermata in vita da un cor-
done di canapa; i calzari, un tempo allacciati, avevano gli occhielli ormai laceri e le stringhe si erano consumate, per cui li legava con paglia intrecciata. Infilò i capelli in un berretto di code di scoiattolo e fu pronta. Incrociò lo sguardo del padre, che le indicò furtivamente una famiglia: una coppia di mezza età con due figli poco più grandi di lei. L'uomo, basso e magro, aveva la barba rossa e ricciuta. Stava affibbiandosi la spada, il che lo identificava come armigero o cavaliere: alla gente comune, infatti, non era concesso portare la spada. La moglie era una donna esile e accigliata, dai modi bruschi. Mentre Gwenda li studiava, frate Godwyn li salutò rispettosamente con un cenno del capo. «Buongiorno, sir Gerald, lady Maud.» Gwenda vide che cosa aveva attirato l'attenzione del genitore: la borsa che sir Gerald teneva appesa alla cintola con una cinghietta di cuoio. Una borsa rigonfia che poteva contenere parecchie centinaia di sottili penny d'argento e monetine da mezzo e da un quarto di penny, i soldi che circolavano in Inghilterra: una quantità di denaro che suo padre avrebbe guadagnato in un anno, se fosse riuscito a trovare lavoro, sufficiente per sfamare tutta la famiglia fino all'aratura di primavera. Forse quella borsa conteneva addirittura monete d'oro straniere, fiorini fiorentini o ducati veneziani. Gwenda portava al collo un piccolo coltello in un fodero di legno. Grazie alla lama affilata avrebbe potuto tagliare con un colpo deciso la cinghietta e far cadere la borsa nella sua mano, a meno che sir Gerald, avvertendo qualcosa di strano, non l'avesse bloccata prima... Godwyn alzò la voce per sovrastare il brusio. «Per amore di Cristo, che ci insegna la carità, la colazione sarà servita dopo la messa di Ognissanti» disse. «Per intanto, è possibile dissetarsi all'acqua pura della fontana nel cortile. Ricordate, prego, di usare le latrine esterne: non si orina qui dentro!» Frati e suore erano rigorosi in fatto di pulizia. La sera precedente, Godwyn aveva sorpreso un bambino di sei anni mentre faceva pipì in un angolo e lo aveva buttato fuori con tutta la famiglia. Senza un penny per pagarsi la taverna, sarebbero stati costretti a passare la fredda notte di ottobre sul pavimento di pietra del portico nord della cattedrale. Anche gli animali erano banditi. Hop, il cane a tre zampe di Gwenda, era stato scacciato. La bambina si chiese dove avesse trascorso la notte. Quando tutti i lumi furono accesi, Godwyn aprì il massiccio portone di legno. Gwenda sentì l'aria pungente della notte sulle orecchie e sulla punta del naso. Gli ospiti si strinsero nei mantelli e cominciarono a defluire.
Quando sir Gerald e i familiari si incamminarono, il papà e la mamma si misero in fila dietro di loro, seguiti da Gwenda e Philemon. Fino ad allora era stato Philemon a rubare, ma il giorno prima, al mercato di Kingsbridge, aveva rischiato di essere acciuffato. Si era lasciato sfuggire di mano un vasetto di costoso olio che aveva arraffato dal chiosco di un mercante italiano; per fortuna non si era rotto nel cadere, però tutti avevano visto. Il ragazzino se l'era cavata sostenendo di averlo accidentalmente urtato sul banco. Philemon, fino a poco tempo prima basso e poco appariscente come Gwenda, nel corso dell'ultimo anno era cresciuto parecchio, la voce si era fatta profonda e lui si muoveva in modo goffo e maldestro, come se non riuscisse ad abituarsi alle nuove dimensioni del suo corpo. La sera precedente, dopo l'incidente del vasetto d'olio, il papà aveva dichiarato che Philemon era ormai troppo grande per rubare cose di valore, e quindi da quel momento sarebbe stato compito di Gwenda farlo. Era per questo che lei aveva dormito così male, quella notte. Il vero nome di Philemon era Holger. All'età di dieci anni aveva deciso di farsi frate, per cui aveva annunciato a tutti che da quel momento si sarebbe chiamato Philemon, un nome molto più adatto a un religioso. Stranamente la maggior parte delle persone si era mostrata condiscendente verso quel suo desiderio, mentre i genitori avevano continuato a chiamarlo Holger. Oltre la porta si profilarono due file di monache tremanti che reggevano torce accese per illuminare la strada che dall'ospitale conduceva al grande portale ovest della cattedrale di Kingsbridge. Le ombre vacillavano intorno alle torce, come se gli spiriti e i demoni della notte danzassero lì vicino, tenuti a distanza solo dalla santità delle monache. Gwenda si aspettava di vedere Hop appena fuori, invece il cagnolino non c'era. Forse aveva trovato un posto al caldo dove passare la notte. Mentre avanzavano verso la chiesa, il papà fece in modo di stare alle calcagna di sir Gerald. Qualcuno, da dietro, le tirò con forza i capelli e Gwenda gridò, temendo che si trattasse di uno spirito maligno, ma voltandosi vide Wulfric, che con una risata schizzò indietro per sfuggire alle sue mani. «Stai bravo!» lo rimbrottò il padre, allungandogli uno scappellotto, e il bambino scoppiò a piangere. L'immensa chiesa era una forma indistinta che torreggiava sulla folla accalcata. Soltanto le parti inferiori erano chiaramente visibili, archi e montanti delineati dalla tremula luce arancione e rossa delle torce. La proces-
sione rallentò nell'avvicinarsi all'ingresso della cattedrale. Gwenda vide arrivare dalla direzione opposta una fiumana di gente proveniente dalla città. Erano centinaia, pensò, se non migliaia, anche se non aveva un'idea precisa di quante persone ci volessero per fare un migliaio, perché non sapeva contare fino a mille. La folla attraversò lentamente il vestibolo. La luce inquieta delle torce cadeva sulle figure scolpite lungo i muri, facendole danzare all'impazzata. Al livello inferiore vi erano demoni e mostri. Gwenda guardò con apprensione draghi e grifi, un orso dalla testa di uomo, un cane con due corpi e un solo muso. Alcuni demoni lottavano con esseri umani: un diavolo metteva un cappio al collo di un uomo, un mostro dai tratti di volpe trascinava una donna per i capelli, un'aquila con le mani artigliava un uomo nudo. Al di sopra di queste scene, una fila di santi rappresentati al riparo di un baldacchino e poi, ancora più in alto, gli apostoli assisi in trono; infine, nell'arco sovrastante il portale principale, san Pietro con la chiave e san Paolo con una pergamena alzavano lo sguardo adorante su Gesù Cristo. Gwenda sapeva che Gesù le diceva di non peccare se non voleva subire il tormento dei diavoli, ma gli esseri umani la terrorizzavano ben di più. Se non fosse riuscita a rubare la borsa di sir Gerald, avrebbe assaggiato la frusta del padre e, quel che era peggio, alla famiglia non sarebbe restato che nutrirsi di zuppa di ghiande. Lei e Philemon avrebbero patito la fame per intere settimane, la mamma avrebbe perso il latte e il piccolo sarebbe morto come gli ultimi due fratellini. Il papà sarebbe scomparso per giorni, senza altro da mettere in pentola al suo ritorno che uno scarno airone o un paio di scoiattoli. La fame era ancora peggio delle frustate: faceva soffrire più a lungo. Fin da piccola le era stato insegnato a rubacchiare: una mela da un banco, un uovo appena deposto dalla gallina di un vicino, un coltello distrattamente lasciato cadere a terra da un ubriaco in una taverna. Ma col denaro era tutt'altra cosa. Se fosse stata sorpresa a rubare a sir Gerald, non sarebbe servito a nulla scoppiare in lacrime e sperare di essere trattata da piccola monella, come una volta le era riuscito dopo avere sottratto un paio di calzari di cuoio buono a una suora dal cuore tenero. Tagliare il legaccio della borsa di un cavaliere era non un peccatuccio da bambini, ma un vero e proprio reato da adulti, e lei sarebbe stata trattata di conseguenza. Si sforzò di non pensarci. Era piccola, agile e svelta, e avrebbe preso la borsa senza farsene accorgere, come un fantasma; a patto che fosse riuscita a non tremare.
La grande chiesa era già gremita. Nelle navate laterali monaci incappucciati reggevano torce che proiettavano baluginii rossastri. Gli imponenti pilastri si innalzavano verso l'oscurità. Gwenda si tenne vicina a sir Gerald mentre la folla si accalcava verso l'altare. Il cavaliere dalla barba rossa e la moglie smilza non si accorsero di lei, e i due figli non le dedicarono più attenzione di quanta ne dedicassero ai muri di pietra della cattedrale. Gwenda perse di vista i familiari, rimasti indietro. La navata centrale si riempì in fretta. La ragazzina non aveva mai visto tanta gente tutta insieme: più che in un giorno di mercato sul prato della cattedrale. Le persone si salutavano, felici di trovarsi in quel luogo sacro al riparo dagli spiriti maligni, e il suono di tutte le conversazioni crebbe fino a diventare una specie di sordo boato. Al rintocco della campana, scese il silenzio. Sir Gerald era accanto a una famiglia di cittadini. Indossavano tutti mantelli di tessuto fine, quindi probabilmente erano ricchi mercanti di lana. Vicino al cavaliere c'era una bambina sui dieci anni. Gwenda si mise alle loro spalle. Cercò di passare inosservata ma, con suo grande sgomento, la bambina si voltò per rivolgerle un sorriso rassicurante, come a dirle di non avere paura. I frati che circondavano la folla spensero le torce a una a una, finché la grande chiesa fu immersa nella più completa oscurità. Gwenda si chiese se la bambina ricca si sarebbe ricordata di lei in seguito. Non le aveva soltanto lanciato un'occhiata distratta per poi ignorarla, come in genere facevano tutti. L'aveva notata, forse avvertendo il suo timore, e per quello le aveva sorriso con aria amichevole. Ma nella cattedrale c'erano centinaia di bambini. Nella luce fioca, non poteva essersi fatta un'impressione molto chiara di lei, cercò di rassicurarsi Gwenda. Invisibile al buio, mosse un passo avanti per insinuarsi con cautela tra le due figure. Sentì la morbida lana del mantello della bambina da un lato e il tessuto più ruvido della vecchia sopravveste del cavaliere dall'altro. Era l'occasione giusta per puntare alla borsa. Introdusse la mano nella scollatura della tunica e sfilò dal fodero il piccolo coltello. Il silenzio fu interrotto da un urlo raccapricciante. Gwenda se lo aspettava, la mamma le aveva spiegato che cosa sarebbe accaduto durante la funzione, eppure ne fu sconvolta. Sembrava il grido di una persona sotto tortura. Seguì un suono stridulo e ripetuto, come se qualcuno battesse su un piat-
to metallico. Poi altri rumori: pianti, risate folli, un corno da caccia, un crepitio, versi di animali, una campana fessa. Nella congregazione, un bambino scoppiò a piangere, imitato ben presto da altri. Alcuni adulti ridevano nervosamente: tutti sapevano che quei rumori erano prodotti dai monaci, e tuttavia la cacofonia risultava agghiacciante. Non era il momento di prendere la borsa, pensò Gwenda spaventata. Tutti erano vigili, tesi. Il cavaliere avrebbe percepito anche il minimo sfioramento. Il rumore diabolico si intensificò finché non si inserì un nuovo suono: una musica. Sul principio era così impercettibile che Gwenda pensò di averla immaginata, poi pian piano prese vigore. Le suore intonarono un canto. Gwenda sentì il corpo entrare in tensione. Il momento era ormai vicino. Muovendosi come un fantasma, leggera come l'aria, si voltò indietro verso sir Gerald. Sapeva esattamente che cosa indossava il cavaliere: una veste di lana pesante fermata in vita da un'ampia cintura borchiata. La borsa era legata alla cintura con una cinghietta di cuoio. Sulla veste portava una sopravveste ricamata, costosa ma logora, con bottoni d'osso ingiallito sul petto. Ne aveva allacciato solo qualcuno, forse impigrito dalla sonnolenza, oppure perché il tratto dall'ospitale alla chiesa era molto breve. Con la massima delicatezza, Gwenda appoggiò le piccole dita sulla sopravveste. Immaginò che la mano fosse un ragno, talmente leggero da risultare inavvertibile. Fece avanzare la mano ragno e, trovata l'apertura, la insinuò sotto l'orlo della sopravveste, fino alla pesante cintura, sfiorando la borsa. Il pandemonio andò attenuandosi mentre la musica cresceva di volume. Un mormorio riverente salì dalle prime file di fedeli. Gwenda non riusciva a vedere nulla, ma sapeva che sull'altare era stata accesa una lampada per illuminare un reliquiario, una teca di avorio e oro riccamente intarsiata, contenente le ossa di sant'Adolfo, che non era lì quando le luci si erano spente. La folla avanzò perché tutti cercavano di avvicinarsi ai sacri resti. Premuta tra sir Gerald e l'uomo che gli stava davanti, Gwenda sollevò la mano destra e appoggiò la lama del coltello alla cinghietta della borsa. Il cuoio, resistente, non cedette al primo tentativo. La bambina usò il coltello come un seghetto, sperando con tutta se stessa che sir Gerald fosse troppo interessato alla scena in atto sull'altare per accorgersi di quanto stava accadendo sotto il suo naso. Alzò gli occhi e si rese conto di cominciare a vedere il profilo della gente intorno a lei: frati e suore stavano accenden-
do le candele. La luce sarebbe presto diventata più intensa. Non c'era tempo da perdere. Gwenda diede un colpo secco con il coltello e sentì la cinghietta cedere. Sir Gerald emise una sorta di grugnito: aveva sentito qualcosa oppure quel verso era la sua reazione allo spettacolo che si svolgeva sull'altare? La borsa cadde, atterrando sulla mano di Gwenda, ma era talmente grossa che lei non riuscì ad afferrarla bene. In un attimo di terrore pensò che le sarebbe scivolata a terra, fra i piedi delle persone incuranti, allora chiuse con forza il pugno per trattenerla. Avvertì un lampo di sollievo euforico: l'aveva presa. La situazione, però, era ancora molto pericolosa. Il cuore le batteva così forte che tutti, le sembrava, avrebbero potuto sentirlo. Si voltò in fretta per dare la schiena al cavaliere. Nello stesso istante infilò la pesante borsa nello scollo della tunica. Si rese conto che quel rigonfiamento al di sopra della cintola, prominente come il ventre di un vecchio, non poteva passare inosservato. Spostò la borsa sul fianco, per coprirla in parte con il braccio. Con la luce più forte sarebbe stata comunque visibile, ma non aveva altro posto in cui nasconderla. Rimise il coltello nel fodero. Doveva allontanarsi in fretta, prima che sir Gerald si accorgesse del furto, ma la ressa dei fedeli, che l'aveva aiutata a prendere la borsa senza essere notata, a quel punto ostacolava la sua fuga. Tentò di retrocedere, di aprirsi un varco tra i corpi dietro di lei, ma tutti spingevano avanti per cercare di guardare le ossa del santo. Era intrappolata, impossibilitata a muoversi, proprio davanti all'uomo che aveva derubato. Una voce all'orecchio le disse: «Stai bene?». Era la bambina ricca. Gwenda si sforzò di soffocare il panico. Non doveva farsi notare. Una bambina più grande pronta ad aiutarla era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Non rispose. «Attenti!» disse la bambina ai vicini. «State schiacciando questa piccolina.» Gwenda ebbe voglia di gridare. Quell'atteggiamento premuroso avrebbe finito per farle mozzare la mano. Nel tentativo disperato di allontanarsi, spinse con forza l'uomo davanti a lei, con l'unico risultato di retrocedere. Riuscì soltanto ad attirare l'attenzione di sir Gerald. «Non riesci a vedere niente da lì in basso, vero?» chiese la sua vittima in tono gentile e, con grande orrore di Gwenda, l'afferrò sotto le braccia per
sollevarla. Si sentì impotente. La mano dell'uomo sotto l'ascella quasi sfiorava la borsa. Gwenda era rivolta in avanti, quindi lui poteva vederle soltanto la nuca, e guardava al di sopra della calca l'altare intorno al quale frati e suore stavano accendendo altre candele mentre cantavano per il santo morto da tanto tempo. Sullo sfondo, una debole luce apparve oltre il grande rosone sul lato est: stava sorgendo il sole, che avrebbe scacciato tutti gli spiriti maligni. Il frastuono era cessato e i canti risuonarono con più forza. Un frate alto e di bell'aspetto salì all'altare, e Gwenda lo riconobbe: era Anthony, il priore di Kingsbridge. Sollevando le mani in un gesto benedicente, disse a voce alta: «E così, ancora una volta, per grazia di Cristo Gesù, il male e le tenebre di questo mondo vengono scacciati dall'armonia e dalla luce della santa Chiesa di Dio». I fedeli esplosero in un urlo di gioia, poi cominciarono a rilassarsi. Il momento culminante della cerimonia era passato. Gwenda si dimenò, sir Gerald colse il messaggio e la rimise a terra. Tenendo il viso voltato per non farsi vedere, lei lo superò per aprirsi un varco verso la parte posteriore della chiesa. La folla non si accalcava più per guardare l'altare, quindi la bambina riuscì a farsi strada tra i corpi. Più si allontanava, più diventava facile, finché finalmente si trovò vicino al grande portale ovest e scorse la sua famiglia. Il padre la scrutò pieno di aspettativa, pronto a montare su tutte le furie se lei non fosse riuscita nell'intento. Gwenda estrasse la borsa dalla tunica e gliela lanciò, ben lieta di liberarsene. Lui l'afferrò al volo, la girò lentamente e vi guardò dentro. Un sorriso beato si dipinse sul viso. Poi passò la borsa alla madre, che si affrettò a nasconderla tra le pieghe della copertina in cui era avvolto il suo piccolo. Quella terribile prova era finita, ma Gwenda correva ancora dei rischi. «Una bambina ricca mi ha notato» disse, consapevole dell'acuto terrore nella propria voce. Gli occhi piccoli e scuri del padre furono attraversati da un lampo di collera. «Ha visto quel che hai fatto?» «No, ma ha detto agli altri di non schiacciarmi, e poi il cavaliere mi ha sollevato per farmi vedere meglio.» La mamma emise un cupo lamento. «Dunque, ti ha visto in faccia» disse il papà. «Ho cercato di tenere la testa voltata.» «Comunque, è meglio evitare che ti incontri di nuovo. Non ci torniamo,
all'ospitale dei frati. Andiamo alla taverna per la colazione.» «Non riusciremo a nasconderci per tutto il giorno» osservò la mamma. «No, ma possiamo confonderci tra la folla.» Gwenda cominciò a sentirsi meglio. Il papà sembrava convinto che non ci fosse un pericolo reale, e comunque la rassicurava che a quel punto fosse lui a decidere, sollevandola dal peso della responsabilità. «E poi» continuò lui «voglio pane e carne, non il porridge acquoso dei frati. Me lo posso permettere, adesso!» Uscirono dalla chiesa. Il cielo era soffuso del chiarore perlaceo dell'alba. Gwenda voleva prendere la mamma per mano, ma il piccolo si mise a piangere e la madre si distrasse. Poi Gwenda vide un cagnolino senza una zampa, tutto bianco con il muso nero, attraversare di corsa il recinto della cattedrale e venirle incontro con un familiare passo sbilenco. «Hop!» gridò lei, e lo sollevò per abbracciarlo. 2 Merthin aveva undici anni, uno più del fratello Ralph, che però, con suo grande disappunto, era più alto e più forte di lui. Questo complicava il rapporto con i genitori. Il padre, sir Gerald, era un uomo d'armi e non riusciva a nascondere la delusione ogni volta che Merthin si dimostrava incapace di sollevare la pesante lancia, si stancava subito quando tentava di abbattere un alberello o correva a casa in lacrime per avere avuto la peggio in uno scontro. La madre, lady Maud, aggravava la situazione: con il suo atteggiamento protettivo metteva in imbarazzo Merthin, il cui unico desiderio era che lei fingesse di non accorgersi di nulla. Se il padre manifestava orgoglio per la forza di Ralph, la madre cercava di compensare criticandolo per la sua ottusità. In effetti, Ralph era alquanto lento di comprendonio, ma non poteva farci nulla, e le critiche servivano soltanto a fargli montare la collera, che veniva sfogata in continue zuffe con gli altri bambini. Entrambi i genitori erano particolarmente irritabili, quella mattina di Ognissanti. Il padre era andato a Kingsbridge controvoglia, solo perché costretto. Doveva al priorato una grossa somma che non era in grado di restituire. La madre sosteneva che gli avrebbero portato via le terre: era infatti il signore di tre villaggi vicino a Kingsbridge. Ma lui le ricordò di essere un discendente diretto di quel Thomas divenuto conte di Shiring l'anno in cui l'arcivescovo Beckett era stato ucciso da re Enrico II. Il conte Thomas
era figlio di Jack il costruttore, l'architetto della cattedrale di Kingsbridge, e di lady Aliena di Shiring: una coppia quasi leggendaria la cui storia veniva raccontata, nelle lunghe sere d'inverno, insieme a quella delle gesta eroiche di Carlo Magno e Rolando. Con antenati del genere, era impossibile che un frate gli confiscasse la terra, gridò sir Gerald, tanto meno quella donnicciola del priore Anthony. Quando lui si mise a urlare, un'espressione di stanca rassegnazione si dipinse sul viso di Maud, che si affrettò a distogliere lo sguardo. «Però Richard, il fratello di lady Aliena, era un vero perdigiorno, capace soltanto di combattere» la sentì mormorare Merthin. Il priore Anthony poteva anche essere una donnicciola, ma si era dimostrato abbastanza uomo da protestare per i debiti insoluti di sir Gerald. Si era rivolto al grande feudatario di Shiring, il conte Roland, che fra l'altro era cugino di secondo grado di Gerald. Il conte aveva fissato per quel giorno un incontro a tre a Kingsbridge con Gerald e il priore, per trovare una soluzione. Da questo derivava il malumore del padre. Poi sir Gerald era stato derubato. Lo scoprì dopo la funzione di Ognissanti. A Merthin era piaciuta molto l'atmosfera drammatica: il buio, i rumori inquietanti, la musica all'inizio sommessa e poi in crescendo, fino a riempire la chiesa immensa, e il baluginio delle candele. Aveva anche notato, quando si erano accesi i lumi, che alcuni avevano approfittato dell'oscurità per commettere qualche peccato veniale per il quale a quel punto sarebbero stati perdonati: due frati avevano di colpo smesso di baciarsi e un malizioso mercante aveva scostato la mano dal seno generoso di una donna sorridente che forse non era sua moglie. Merthin era ancora in quello stato d'animo euforico quando tornarono all'ospitale. Mentre aspettavano che le monache servissero la colazione, un ragazzo di cucina attraversò la stanza e salì la scala reggendo un vassoio con una grossa brocca di birra chiara e un piatto di manzo caldo salato. La madre osservò in tono arcigno: «Pensavo che il tuo parente, il conte, ci invitasse a colazione in camera sua. Dopotutto, tua nonna era sorella di suo nonno». «Se non ti va il porridge» ribatté il padre «possiamo andare alla taverna.» Merthin drizzò le orecchie. Gli piaceva molto fare colazione alla taverna, con pane fresco e burro salato. Ma la madre rispose: «Non possiamo permettercelo». «Certo che possiamo» disse il padre, cercando la borsa con la mano. Fu
allora che si rese conto della sparizione. Dapprima guardò per terra, nella speranza che gli fosse caduta, poi notò i due capi recisi della cinghietta e allora lanciò un urlo di indignazione. Tutti lo fissarono tranne la madre, che distolse gli occhi. «Era tutto quello che ci restava» mormorò. Sir Gerald passò uno sguardo accusatore sugli altri visitatori dell'ospitale. La lunga cicatrice che correva dalla tempia destra all'occhio sinistro sembrò scurirsi per la furia. Nel locale scese un silenzio carico di tensione: un cavaliere adirato, benché fosse in disgrazia come evidentemente lo era lui, era sempre pericoloso. «Ti hanno di sicuro derubato in chiesa» commentò la madre. Aveva ragione, pensò Merthin. Al buio, la gente non rubava solo baci. «È anche un sacrilegio!» tuonò il padre. «Immagino che sia successo quando hai sollevato quella bambina» continuò la madre con una smorfia, come se avesse ingoiato un boccone amaro. «Probabilmente il ladro, da dietro, ti ha passato la mano intorno alla vita.» «Bisogna trovarlo!» «Sono davvero dispiaciuto per l'accaduto, sir Gerald» intervenne il giovane frate di nome Godwyn. «Vado subito a parlarne con John il conestabile. Forse riuscirà a individuare un povero concittadino che all'improvviso si comporta da ricco.» Il piano, a Merthin, parve assai poco promettente. A Kingsbridge c'erano migliaia di abitanti, oltre a centinaia di visitatori. Il conestabile non poteva controllare tutti. Ma il padre si addolcì leggermente. «Quel mascalzone deve finire impiccato!» esclamò con voce appena più bassa. «Intanto voi, lady Maud e i vostri figli potete farci l'onore di sedere al tavolo che stanno apparecchiando davanti all'altare» disse Godwyn in tono accomodante. Il padre sbuffò. Merthin sapeva che apprezzava quel riconoscimento della sua superiorità rispetto alla massa degli ospiti, destinati a mangiare per terra dove avevano dormito. Il momento di potenziale violenza passò e Merthin si tranquillizzò un poco ma, non appena tutti e quattro ebbero preso posto, si chiese con ansia che cosa sarebbe accaduto alla sua famiglia. Suo padre era noto a tutti come un valoroso uomo d'armi. Aveva combattuto per il vecchio re a Boroughbridge, dove la spada di un ribelle del Lancashire gli aveva lasciato
quella cicatrice in fronte. Però non aveva fortuna. Alcuni cavalieri tornavano dalle battaglie con un ricco bottino di gioielli, carri carichi di pregiati tessuti fiamminghi e sete italiane, oppure con l'adorato padre di una nobile famiglia per il quale si poteva chiedere un riscatto di mille sterline; sir Gerald, invece, pareva non riuscire mai a mettere le mani su qualcosa di prezioso, e tuttavia doveva comprare armi, armature e costosi cavalli da guerra per poter fare il proprio dovere e servire il re. In qualche modo, le rendite delle sue terre non bastavano mai. Così, contro la volontà della moglie, aveva cominciato a chiedere prestiti. Gli inservienti di cucina portarono un calderone fumante. Per prima fu servita la famiglia di sir Gerald: porridge di orzo, insaporito con rosmarino e sale. Ralph, che non si era reso conto del momento di crisi, cominciò a parlare tutto infervorato della messa di Ognissanti, ma il tetro silenzio che accolse i suoi commenti lo zittì ben presto. Terminato il porridge, Merthin andò dietro l'altare, dove aveva nascosto l'arco e le frecce. La gente avrebbe esitato a rubare qualcosa vicino a un altare. Forse poteva superare la paura se il bottino fosse stato considerevole, ma un arco fatto a mano non era granché, e infatti si trovava ancora lì. Il bambino ne andava molto fiero. Era piccolo, certo: per piegare un arco normale, che misurava quasi sei piedi, ci voleva la forza di un adulto, e Merthin era esile e alto appena quattro piedi. Per altri aspetti, però, quello era molto simile al tipico longbow, l'arco lungo inglese le cui frecce avevano trafitto parecchi scozzesi di montagna, ribelli gallesi e cavalieri francesi con tanto di armatura. Il padre non aveva ancora detto nulla dell'arco, che sembrò vedere per la prima volta. «Dove hai preso il legno?» gli chiese. «Costa caro.» «Non questo; è troppo corto. Me l'ha regalato un fabbricante d'archi.» Il padre annuì. «Però è perfetto» osservò prendendolo in mano. «È ricavato dalla parte interna del tasso, dove l'alburno incontra il durame.» Indicò i due diversi colori. «Lo so» disse Merthin con entusiasmo. Non gli capitava spesso di fare colpo sul padre. «L'alburno, elastico, va molto bene per la parte anteriore, perché tende a recuperare la forma originale, mentre il durame, resistente, è ottimo per l'interno della curva, perché preme all'indietro quando l'arco è teso.» «Esatto» disse il padre. Gli restituì l'arco. «Ricorda, però, che questa non è un'arma da nobili. I figli dei cavalieri non divengono arcieri. Regalalo a un ragazzo di campagna.»
Merthin si sentì avvilito. «Ma non l'ho ancora provato!» Intervenne la madre. «Lasciali giocare, sono bambini.» «È vero» convenne sir Gerald, perdendo interesse. «Chissà se i frati ce la portano una brocca di birra.» «Su, andate» disse Maud ai figli. «Merthin, tieni d'occhio tuo fratello.» Gerald sbuffò. «È più probabile che succeda il contrario.» Merthin si sentì punto sul vivo. Il padre non aveva idea di come stessero le cose. Lui era in grado di badare a se stesso, mentre Ralph, da solo, finiva regolarmente per azzuffarsi con qualcuno. Però Merthin sapeva che era meglio non discutere con il padre quando era di quell'umore, così lasciò l'ospitale senza dire nulla, seguito a ruota dal fratello. Era una limpida e fredda giornata di novembre, e alte nuvole grigiastre striavano il cielo. I due fratelli uscirono dal recinto della cattedrale e si incamminarono lungo la strada principale superando Cookshop Street, Fish Lane e Leather Yard. Ai piedi della collina attraversarono il ponte di legno sul fiume, lasciando la città vecchia per arrivare a un sobborgo chiamato Newtown, dove tra pascoli e orti si snodavano strade fiancheggiate da casupole di legno. Merthin guidò il fratello su un prato detto "il campo degli Innamorati", dove il conestabile della città e i suoi aiutanti avevano eretto alcuni bersagli per il tiro con l'arco. Le esercitazioni dopo la messa, per ordine del re, erano obbligatorie per tutti gli uomini. Non era necessario imporlo con la forza: scagliare qualche freccia la domenica mattina non era un compito sgradito, e infatti un centinaio di giovani della città era già in fila in attesa del proprio turno, osservato da donne, bambini e da quegli uomini che si consideravano troppo vecchi o troppo altolocati per tirare. Alcuni avevano un arco di loro proprietà ma, per quelli che non potevano permetterselo, John il conestabile metteva a disposizione qualche modesto arco di frassino o di nocciolo. Era un giorno di festa. Dick Brewer, il birraio, vendeva boccali di birra chiara che spillava da un barile su un carro, e le quattro figlie adolescenti di Betty Baxter giravano con vassoi vendendo ciambelle speziate. I più abbienti esibivano berretti di pelliccia e scarpe nuove, e perfino le donne povere avevano acconciato i capelli e guarnito i mantelli con passamanerie. Merthin era l'unico ragazzo a possedere un arco, e subito attrasse l'attenzione dei coetanei, che gli si affollarono intorno. I maschi, invidiosi, lo bersagliarono di domande, mentre le femmine si mostrarono ammirate o sdegnose, a seconda del temperamento. Una bambina gli domandò: «Come hai imparato a costruirlo?».
Merthin la riconobbe: se l'era trovata accanto nella cattedrale. Doveva avere un anno meno di lui, pensò, e indossava un abito e un mantello di costosa lana tessuta fitta. In genere Merthin trovava noiose le femmine, perché sapevano solo ridacchiare e non prendevano niente sul serio. Ma questa gli piacque per la sincera curiosità con cui osservava lui e il suo arco. «Ho cercato di immaginare come si poteva fare» rispose. «Sei stato bravo. Funziona?» «Non l'ho ancora provato. Come ti chiami?» «Caris, della famiglia dei lanaioli. E tu chi sei?» «Merthin. Mio padre è sir Gerald.» Abbassò il cappuccio del mantello e vi pescò dentro una corda arrotolata. «Perché la tieni nel cappuccio?» «Così non si bagna se piove. È quello che fanno i veri arcieri.» Fissò la corda alle tacche su entrambe le estremità, incurvando lievemente il legno in modo da farla tendere. «Hai intenzione di tirare al bersaglio?» «Sì.» «Non te lo permetteranno» commentò un altro bambino. Merthin lo guardò. Alto e magro, con mani e piedi grandi, doveva avere più o meno dodici anni: Merthin l'aveva notato, insieme ai familiari, la notte precedente nell'ospitale del priorato. Si chiamava Philemon e si aggirava con i frati facendo domande e aiutandoli a servire la cena. «Certo che me lo permetteranno» gli disse. «Perché mai non dovrebbero?» «Sei troppo piccolo.» «Che sciocchezza.» Mentre pronunciava quelle parole, però, si rese conto di avere qualche dubbio: spesso gli adulti si comportavano da stupidi. Tuttavia quella presunzione di Philemon lo irritava, tanto più dopo essersi mostrato così sicuro di sé con Caris. Si allontanò per raggiungere un gruppo di uomini in attesa di usare un bersaglio. Ne riconobbe uno eccezionalmente alto, con le spalle ampie, era Mark Webber, il tessitore. Questi notò l'arco e gli domandò in tono gentile: «Dove l'hai preso?». «L'ho fatto io» rispose Merthin con orgoglio. «Guarda, Elfric» disse Mark a un vicino. «Un gran bel lavoro.» Elfric era un tipo muscoloso dall'aria scaltra. Diede una rapida occhiata all'arco. «È troppo piccolo per tirare una freccia capace di penetrare nell'armatura di un cavaliere francese» sentenziò in modo sprezzante. «Può darsi» ribatté Mark in tono conciliante «ma immagino che il ra-
gazzo debba aspettare ancora un paio d'anni prima di andare a combattere contro i francesi.» John il conestabile annunciò ad alta voce: «Siamo pronti, quindi cominciamo. Mark, tu sei il primo». Il gigante avanzò fino alla linea di tiro. Prese un robusto arco e lo provò flettendo senza fatica il legno. Soltanto allora il conestabile notò Merthin. «Niente bambini» disse. «Perché no?» protestò lui. «Non importa perché. Togliti dai piedi.» Merthin sentì qualche coetaneo ridacchiare. «Non c'è ragione!» affermò indignato. «Non sono tenuto a dare spiegazioni ai bambini» disse John. «Bene, Mark. Tira.» Merthin era mortificato. Quel viscido di Philemon l'aveva umiliato davanti a tutti. Voltò le spalle ai bersagli. «Te l'avevo detto» commentò Philemon. «Oh, piantala. Vattene.» «Non puoi costringermi ad andarmene» disse Philemon, che era un palmo più alto di Merthin. Si intromise Ralph. «Io potrei, però.» Merthin sospirò. Poteva sempre fare affidamento sulla lealtà del fratello, il quale però non si rendeva conto che battersi contro Philemon avrebbe fatto apparire lui debole oltre che sciocco. «Comunque, me ne stavo andando» ribatté Philemon. «Vado ad aiutare frate Godwyn.» E si allontanò. I bambini cominciarono a disperdersi in cerca di altre distrazioni. Caris si rivolse a Merthin. «Potresti provare l'arco da un'altra parte.» Era evidentemente ansiosa di vedere se funzionava. Lui si guardò intorno. «Ma dove?» Se fosse stato sorpreso a tirare in assenza di un adulto avrebbero potuto confiscargli l'arco. «Perché non andiamo nella foresta?» Merthin fu molto sorpreso. Ai bambini era proibito andare nella foresta, dove si nascondevano i briganti, uomini e donne che vivevano rubando. Si rischiava di vedersi strappare via gli abiti o di essere trasformati in schiavi, e poi c'erano pericoli peggiori ai quali i genitori accennavano solo di sfuggita. Anche riuscendo a scansarli, il solo fatto di avere contravvenuto alla regola avrebbe scatenato le frustate paterne. Tuttavia Caris non sembrava intimorita, e Merthin non voleva apparire
meno audace di lei. Inoltre, il secco rifiuto del conestabile aveva suscitato in lui un senso di ribellione. «Benissimo» disse. «Ma dobbiamo stare attenti che nessuno ci veda.» Lei aveva la soluzione. «Conosco una strada.» Si avviò verso il fiume, seguita da Merthin e Ralph. Un piccolo cane a tre zampe trotterellò dietro di loro. «Come si chiama il tuo cane?» chiese Merthin a Caris. «Non è mio, ma gli ho dato un pezzo di pancetta ammuffita e ora non riesco più a togliermelo di torno.» Camminarono lungo la riva fangosa del fiume, superando magazzini, pontili e chiatte. Merthin studiò di nascosto la bambina che con piglio sicuro faceva loro da guida: un viso quadrato e deciso, né bello né brutto, e occhi verdi con pagliuzze dorate dai quali traspariva una vena di malizia. I capelli castano chiaro erano raccolti sul capo in due trecce, come era costume tra le donne ricche. I vestiti erano costosi ma ai piedi la bambina portava pratici stivali di pelle anziché i calzari di tessuto ricamato preferiti dalle nobildonne. Caris si allontanò dal fiume per guidarli oltre un cortile pieno di legname, quindi i tre si ritrovarono all'improvviso nel fitto della boscaglia. Merthin avvertì una fitta di apprensione al pensiero che nella foresta poteva esserci un brigante in agguato dietro una quercia. Si pentì della sua bravata, ma l'idea di tornare indietro lo colmava di vergogna. Continuarono a procedere in cerca di uno spiazzo abbastanza ampio per tirare con l'arco. D'un tratto Caris parlò in tono di cospirazione. «Vedete quel grosso cespuglio di agrifoglio?» «Sì.» «Appena lo superiamo, acquattatevi come me e non fiatate.» «Perché?» «Lo vedrete.» Un momento dopo, Merthin, Ralph e Caris si rannicchiarono dietro il cespuglio. Il cane a tre zampe sedette con loro e rivolse a Caris uno sguardo fiducioso. Ralph fece per chiedere qualcosa, ma lei lo zittì. Poco dopo comparve una bambina. Caris balzò in piedi per bloccarla, facendola gridare. «Piano!» le ordinò. «Non siamo lontani dalla strada e non vogliamo che ci sentano. Perché ci segui?» «È il mio cane che vi sta seguendo, e non vuole tornare indietro!» singhiozzò la piccola.
«Ti conosco. Ti ho visto in chiesa questa mattina» le disse Caris in tono più gentile. «Bene, non c'è ragione di piangere: non vogliamo farti del male. Come ti chiami?» «Gwenda.» «E il cane?» «Hop.» Gwenda prese in braccio l'animale, che le leccò le lacrime. «Bene, adesso l'hai recuperato, ma faresti meglio a venire con noi, nel caso gli salti in mente di scappare di nuovo. E poi forse non riusciresti a ritrovare la strada da sola.» Proseguirono. «Che cosa ha otto braccia e undici gambe?» domandò Merthin. «Io mi arrendo» si affrettò a rispondere Ralph, come sempre. «Io lo so» disse Caris con un sorriso. «Siamo noi. Quattro bambini e un cane.» Si mise a ridere. «Questa è buona.» Merthin era molto compiaciuto. Non sempre gli altri comprendevano i suoi indovinelli, soprattutto le femmine. Un attimo dopo sentì che Gwenda lo spiegava a Ralph: «Due braccia, due braccia, due braccia e due braccia fanno otto. Due gambe...». In giro non si vedeva nessuno, il che era molto positivo. Le poche persone che andavano nella foresta per motivi legittimi - taglialegna, carbonai, fonditori - quel giorno non lavoravano e anche una battuta di caccia di nobili sarebbe stata molto insolita la domenica. Le probabilità di incontrare qualcuno erano scarse ma, nel caso, si sarebbe trattato sicuramente di un brigante. La foresta, molto grande, si estendeva per miglia. Merthin non si era mai spinto tanto avanti da vederne la fine. Arrivarono a un'ampia radura. «Qui va bene» disse lui. A una cinquantina di piedi, di fronte a loro, c'era una quercia dal tronco massiccio. Merthin si dispose di fianco rispetto al bersaglio, come aveva visto fare agli uomini. Prese una delle tre frecce e appoggiò la cocca alla corda dell'arco. Fare le frecce era stato difficile quanto costruire l'arco. Erano di frassino, con l'impennaggio di piume d'oca. Non era riuscito a procurarsi il ferro per le punte, così si era limitato ad affilare la parte terminale e poi a bruciacchiare il legno per indurirlo. Mirò al tronco, poi tese indietro la corda con grande sforzo e scoccò. La freccia cadde a poca distanza dal bersaglio. Hop trotterellò attraverso la radura per recuperarla. Merthin rimase sconcertato. Si era aspettato che la freccia fendesse l'aria conficcandosi nell'albero. Si rese conto di non avere incurvato abbastanza
l'arco. Provò ad afferrare l'arma con la destra e la freccia con la sinistra. Sotto questo aspetto lui era strano, perché non era né destro né mancino, ma un po' entrambe le cose. Tirò a sé la corda e tese l'arco con tutte le sue forze, riuscendo a incurvarlo molto più di prima. Questa volta la freccia arrivò quasi all'albero. Per il terzo tentativo puntò l'arco verso l'alto, nella speranza che la freccia tracciasse una parabola in aria prima di scendere verso il tronco, ma esagerò, con il risultato che essa finì tra i rami, prima di cadere a terra in un turbinio di foglie secche. Merthin provò un grande imbarazzo. Il tiro con l'arco era più complicato del previsto. Si disse che probabilmente il problema stava non nell'arco ma nella sua abilità o, meglio, nella sua mancanza di abilità. Ancora una volta, Caris sembrò non rilevare il suo disagio. «Lascia che provi io» disse. «Le femmine non sanno tirare» sentenziò Ralph, strappando l'arco dalle mani del fratello. Sistemandosi di fianco rispetto all'albero, come già aveva fatto Merthin, non tirò subito, ma fletté l'arco parecchie volte per saggiarlo. Come il fratello, lo trovò più duro del previsto, però dopo qualche istante parve intuire come funzionava. Hop aveva deposto le tre frecce ai piedi di Gwenda, che le raccolse per porgerle a Ralph. Lui prese la mira senza tendere l'arco, puntando la freccia verso l'albero, evitando di esercitare pressione con le braccia. Merthin comprese che quella era la tecnica giusta. Perché certe cose venivano tanto naturali a Ralph, che pure era incapace di risolvere un indovinello? A quel punto Ralph tese l'arco, con un certo sforzo ma con un movimento fluido, e parve accumulare tutta la tensione nei muscoli delle cosce. Scoccò la freccia, che colpì il tronco della quercia conficcandosi nella morbida corteccia. Ralph scoppiò in una risata di trionfo. Hop corse a recuperare la freccia, ma arrivato davanti all'albero si fermò, perplesso. Ralph stava di nuovo tendendo l'arco. Merthin comprese le sue intenzioni. «No...» gridò, ma troppo tardi. Suo fratello aveva mirato al cane. La freccia affondò nel collo della bestiola, che cadde in avanti contorcendosi per il dolore. Gwenda si mise a urlare. «Oh, no!» mormorò Caris, correndo verso il cane insieme a lei.
Ralph sorrideva soddisfatto. «Visto che mira!» esclamò con tracotanza. «Hai colpito il cane!» sbottò Merthin adirato. «Che importa? Aveva solo tre zampe.» «La bambina gli voleva bene, idiota che non sei altro. Guarda come piange.» «Sei solo invidioso perché tu non sai tirare.» Qualcosa attrasse l'attenzione di Ralph. Con un movimento armonioso incoccò un'altra freccia, si voltò lentamente e la scagliò mentre ancora si stava girando. Merthin non vide a che cosa aveva mirato il fratello fintanto che la freccia non raggiunse il bersaglio, una grassa lepre che saltò per aria con il dardo conficcato nei quarti posteriori. Merthin non riuscì a nascondere la propria ammirazione. Anche con la pratica, non tutti erano capaci di colpire una lepre in corsa. Ralph aveva un dono naturale. Merthin era davvero invidioso, anche se per niente al mondo lo avrebbe ammesso. Desiderava con tutto se stesso diventare un cavaliere forte e coraggioso, e combattere per il re come il padre, e si scoraggiava profondamente ogni volta che si scopriva inesperto in un'attività come il tiro con l'arco. Ralph spaccò a sassate il cranio della lepre mettendo fine alle sue sofferenze. Merthin si inginocchiò vicino alle due bambine e a Hop. Il cane non respirava. Caris estrasse con delicatezza la freccia dal collo dell'animale e la porse a Merthin. Non uscì neppure una goccia di sangue. Hop era morto. Per un momento nessuno parlò. Nel silenzio, si udirono le grida di un uomo. Merthin balzò in piedi con il batticuore. Seguì un altro urlo, diverso: c'erano due persone, ed entrambe sembravano infuriate. Merthin fu preso dal panico, come pure gli altri. Raggelati, tesero l'orecchio e percepirono il rumore di un uomo che correva a perdifiato attraverso la boscaglia, calpestando rami caduti, piegando arboscelli, schiacciando foglie secche. Veniva verso di loro. Fu Caris a parlare per prima. «Nei cespugli» disse, indicando una grande macchia di arbusti sempreverdi. Probabilmente era la tana della lepre uccisa da Ralph, pensò Merthin. Un momento dopo, sdraiata sulla pancia, Caris strisciò nel folto. Gwenda la seguì, trascinando il corpo di Hop. Ralph si unì a loro dopo avere recuperato la lepre morta. Merthin era già in ginocchio, quando si rese conto che la freccia conficcata nel tronco dell'albero avrebbe potuto tradirli. Attraversò di volata la radura, la strappò via,
corse indietro e si tuffò in mezzo ai cespugli. Udirono l'affanno dell'uomo prima ancora di vederlo. Ansimava forte mentre correva, prendendo corti respiri come se fosse sul punto di crollare. Le urla provenivano dai suoi inseguitori, che si chiamavano a vicenda. «Da questa parte! Qui!» Caris aveva detto che non erano lontani dalla strada, ricordò Merthin. Il fuggitivo era forse un viaggiatore sorpreso dai briganti? Un attimo dopo, l'uomo uscì allo scoperto nella radura. Era un cavaliere sui venticinque anni, con una spada e un lungo pugnale attaccati alla cintola. Era ben vestito, con una tunica da viaggio di pelle e stivali alti dal bordo rivoltato. Incespicò e cadde, rotolò su un fianco, si rialzò e appoggiò la schiena alla quercia per riprendere fiato. Sfoderò le armi. Merthin guardò i compagni. Caris, bianca di paura, si mordeva il labbro. Gwenda teneva stretto a sé il corpo esanime di Hop come se quel gesto la rassicurasse. Anche Ralph pareva spaventato, ma non tanto da non riuscire a estrarre la freccia dal dorso della lepre e a infilarsi l'animale morto sotto la tunica. Per un attimo il cavaliere sembrò fissare la boscaglia, come se avesse visto i bambini nascosti o forse le tracce di rami spezzati e foglie schiacciate che avevano lasciato mentre si inoltravano nel fitto del boschetto. Con la coda dell'occhio, Merthin notò che Ralph incoccava una freccia. Arrivarono gli inseguitori, due armigeri massicci con l'aria da malintenzionati e le spade in pugno. Indossavano tuniche bicolori molto particolari, gialle a sinistra e verdi a destra. Uno portava una sopravveste marrone di lana grezza, l'altro un sudicio mantello nero. Tutti e tre gli uomini si fermarono, cercando di riprendere fiato. Merthin era sicuro che il cavaliere sarebbe stato fatto a pezzi e avvertì il vergognoso impulso di scoppiare in lacrime. Poi, all'improvviso, il cavaliere girò la spada e porse l'elsa in gesto di resa. L'armigero più vecchio, quello col mantello nero, mosse un passo avanti e la prese con la sinistra. Con circospezione la passò al compagno, poi accettò il pugnale offerto dal cavaliere. «Non sono le tue armi che voglio, Thomas Langley» disse. «Voi mi conoscete, ma io non conosco voi» ribatté Thomas. Se era impaurito, non lo dava a vedere. «Dalle vostre livree, dovete essere uomini della regina.» L'armigero più vecchio puntò la spada alla gola di Thomas facendolo ar-
retrare contro un albero. «Tu hai una lettera.» «Istruzioni del conte allo sceriffo in materia di tasse. Prego, potete leggerle voi stessi.» Era una chiara provocazione. I due armigeri, infatti, erano quasi sicuramente analfabeti. Thomas aveva un bel sangue freddo, si disse Merthin, a prendere in giro uomini che parevano pronti a ucciderlo. Il secondo armigero allungò la mano sotto la spada tesa dal compagno e afferrò la sacchetta appesa alla cintola di Thomas. Con impazienza tagliò la cintura con la propria spada, la buttò a terra e l'aprì. Ne estrasse una custodia più piccola fatta di quella che sembrava lana cerata e da questa prese un foglio di pergamena arrotolato e sigillato. Possibile che quello scontro fosse causato soltanto da una lettera? In tal caso, che cosa c'era scritto sulla pergamena? Di sicuro non istruzioni in materia di tasse. Merthin pensò che si trattasse di qualche terribile segreto. «Se mi uccidi» disse il cavaliere «chi è nascosto in quel cespuglio sarà testimone dell'assassinio.» Tutti raggelarono per una frazione di secondo. L'uomo col mantello nero tenne la punta della spada premuta contro la gola di Thomas e resistette alla tentazione di guardare oltre la spalla. Quello vestito di marrone esitò, poi scrutò la boscaglia. A quel punto, Gwenda lanciò un urlo. L'uomo con la sopravveste marrone sollevò la spada e mosse due lunghi passi attraverso la radura. Gwenda balzò in piedi e corse fuori dalla vegetazione. L'armigero si lanciò all'inseguimento. Ralph si alzò di scatto, puntò l'arco e, con un'agile mossa, scagliò una freccia che trapassò l'occhio dell'uomo conficcandosi in profondità nella sua testa. L'armigero sollevò la mano sinistra come per afferrare la freccia ed estrarla, ma poi si afflosciò e cadde come un sacco di granaglie con un tonfo sordo. Ralph rincorse Gwenda. Con la coda dell'occhio, Merthin vide che anche Caris li aveva seguiti; sarebbe voluto scappare a sua volta, ma i piedi parevano inchiodati a terra. Udì un urlo dall'altra parte della radura e vide che Thomas aveva spinto via la spada che lo minacciava e aveva estratto, da qualche parte sotto le sue vesti, un piccolo coltello con la lama lunga come la mano di un uomo. Ma il soldato dal mantello nero con prontezza balzò indietro schivando il colpo, poi sollevò la spada e la calò con forza sul capo del cavaliere. Thomas si scansò, ma non abbastanza in fretta. La lama si abbatté sul suo braccio sinistro, incise il farsetto di pelle e penetrò nella carne. Lui
gridò di dolore, eppure non cadde a terra. Con un movimento rapido, di straordinaria agilità, sollevò la mano destra e conficcò il coltello nella gola dell'avversario, quindi lo spostò di lato, disegnando un arco, fino a mozzargli quasi completamente il collo. Il sangue zampillò come una fontana dalla gola dell'uomo. Thomas arretrò barcollando per evitare lo spruzzo. L'uomo in nero crollò a terra con la testa attaccata al collo solo per un lembo sottile di carne. Thomas lasciò cadere il coltello per stringersi il braccio ferito. Seduto a terra, parve improvvisamente molto debole. Merthin era rimasto solo con il cavaliere ferito, due armigeri morti e il cadavere di un cane a tre zampe. Sapeva che avrebbe dovuto rincorrere gli altri bambini, ma la curiosità lo tratteneva. Thomas sembrava ormai innocuo, si disse. Il cavaliere aveva la vista acuta. «Puoi uscire» gridò. «In queste condizioni non posso certo farti del male.» Merthin, esitante, si aprì un varco tra i cespugli e attraversò la radura, per fermarsi a debita distanza dal cavaliere seduto. «Se scoprono che giocavate nella foresta, verrete fustigati» osservò Thomas. Merthin annuì. «Manterrò il vostro segreto, se voi manterrete il mio.» Merthin annuì di nuovo. Nell'accettare quel patto, non faceva alcuna concessione. Di certo nessuno dei bambini era disposto a rivelare quanto aveva visto perché, in quel caso, sarebbe incorso in una dura punizione. Che fine avrebbe fatto Ralph, che aveva ucciso uno degli uomini della regina? «Vuoi essere così gentile da aiutarmi a fasciare la ferita?» chiese Thomas. Malgrado l'accaduto, parlava in tono cortese. La compostezza del cavaliere era straordinaria. Merthin pensò che da grande avrebbe voluto assomigliargli. Finalmente la sua gola contratta riuscì a pronunciare una parola. «Sì.» «Prendi quella cintola recisa e stringimela intorno al braccio, per cortesia.» Merthin fece come gli era stato detto. La tunica del cavaliere era intrisa di sangue e il braccio squarciato sembrava un pezzo di carne sul tagliere di un macellaio. Merthin avvertì un lieve senso di nausea, ma si sforzò di serrare la cintola intorno al braccio di Thomas per accostare i lembi della ferita e rallentare il sanguinamento. Fece un nodo che Thomas tirò con forza
con la mano destra. Poi, con fatica, il cavaliere si rimise in piedi. Guardò i due morti. «Non possiamo seppellirli» disse. «Morirei dissanguato prima di avere finito di scavare le fosse.» Lanciò un'occhiata a Merthin e soggiunse: «Anche se tu mi aiutassi». Rifletté per un momento. «D'altra parte, non voglio che vengano scoperti da un paio di innamorati in cerca di un posto... per appartarsi. Trasciniamo questi mascalzoni nel cespuglio dove eri nascosto tu. Prima il marrone.» Si accostarono al corpo. «Una gamba ciascuno» ordinò Thomas. Con la destra afferrò la caviglia sinistra del morto. Merthin prese l'altro piede inerte con entrambe le mani e lo sollevò. Insieme trascinarono il cadavere nella boscaglia, vicino a Hop. «Va bene così» disse Thomas. Era pallido per il dolore. Dopo un momento si chinò per estrarre la freccia dall'occhio del morto. «È tua?» chiese sollevando un sopracciglio. Merthin prese la freccia e la strofinò a terra per pulirla dal sangue e dai brandelli di cervello attaccati all'asticciola. Allo stesso modo, trascinarono per la radura il secondo cadavere, con la testa quasi divelta dal corpo, e lo abbandonarono vicino al primo. Thomas prese le spade degli uomini e le lanciò tra i cespugli, poi recuperò le proprie armi. «Ora devo chiederti un grosso favore.» Porse il pugnale al ragazzo. «Me lo scavi un piccolo buco?» «Va bene.» Merthin afferrò l'arma. «Proprio qui, davanti alla quercia.» «Quanto grande?» Thomas raccolse la sacchetta di pelle che prima portava alla cintola. «Abbastanza per nascondere questo per cinquant'anni.» Merthin fece appello a tutto il suo coraggio per saperne di più. «Perché?» «Scava, e io ti dirò quello che posso.» Merthin tracciò un riquadro ai suoi piedi e si mise a dissodare con il pugnale la terra fredda, che poi rimuoveva con le mani. Thomas raccolse la pergamena, la infilò nella custodia di lana cerata e la chiuse bene dentro la sacchetta. «Mi è stata data questa lettera perché la consegnassi al conte di Shiring» spiegò. «Ma contiene un segreto talmente pericoloso che stanno cercando di uccidere il latore per evitare che ne parli a qualcuno. Per questo devo sparire. Avevo deciso di rifugiarmi in un mo-
nastero, di diventare frate. Ne ho abbastanza di combattere e ho molti peccati da espiare. Non appena sono scomparso dalla circolazione, però, quelli che mi avevano affidato la lettera hanno cominciato a darmi la caccia, e sfortunatamente mi hanno individuato in una taverna di Bristol.» «Perché gli uomini della regina ti inseguivano?» «Anche lei vuole evitare che il segreto venga svelato.» Quando la buca ebbe raggiunto una profondità adeguata, Thomas aggiunse: «Va bene così» e vi calò dentro la sacchetta. Merthin la ricoprì di terra e il cavaliere dispose foglie e ramoscelli sopra il terreno appena rivoltato, finché non fu più possibile distinguerlo da quello circostante. «Se vieni a sapere che sono morto» disse Thomas «vorrei che tu recuperassi la lettera e la consegnassi a un prete. Posso contarci?» «Certo.» «Finché non succede, però, non devi parlarne con nessuno. Se sanno che la lettera è in mano mia e ignorano dove si trova, avranno paura di agire. Ma se tu riveli il segreto, due sono le cose che accadranno: uccideranno prima me, e poi te.» Merthin era terrorizzato. Gli sembrava ingiusto trovarsi in una situazione tanto pericolosa solo per aver aiutato un uomo a scavare una buca. «Mi dispiace spaventarti, ma non è tutta colpa mia. In fin dei conti, non sono stato io a chiederti di venire qui.» «No.» Merthin rimpianse con tutto il cuore di non avere obbedito all'ordine della madre di tenersi alla larga dalla foresta. «Adesso io mi dirigerò verso la strada. Perché tu non torni da dove sei venuto? Scommetto che non lontano da qui troverai i tuoi amici che ti aspettano.» Merthin si voltò per andarsene. «Come ti chiami?» gli gridò il cavaliere. «Merthin. Sono il figlio di sir Gerald.» «Davvero?» Dal tono, pareva che conoscesse suo padre. «Be', non dire una parola, neppure a lui.» Merthin annuì e si allontanò. Percorsi pochi passi, diede di stomaco, dopodiché si sentì un po' meglio. Come Thomas aveva previsto, gli altri lo aspettavano proprio ai margini della foresta, vicino al deposito di legname. Gli si affollarono intorno e lo toccarono per accertarsi che stesse bene, sollevati e al tempo stesso imbarazzati, come se si sentissero in colpa per averlo abbandonato.
Erano tutti scossi, anche Ralph. «Quello là...» disse. «L'uomo che ho colpito. Ha una brutta ferita?» «È morto» rispose Merthin. Mostrò al fratello la freccia ancora sporca di sangue. «Gliel'hai cavata dall'occhio?» Merthin avrebbe voluto rispondere di sì, ma preferì dire la verità. «No, l'ha fatto il cavaliere.» «Che ne è stato dell'altro armigero?» «Il cavaliere gli ha tagliato la gola, poi abbiamo nascosto i corpi tra i cespugli.» «E ti ha lasciato andare sano e salvo?» «Dobbiamo assolutamente mantenere il segreto» si raccomandò Caris d'impulso. «Se qualcuno scopre quello che abbiamo fatto, ci troveremo nei guai.» «Io non lo dirò a nessuno» affermò Ralph. «Bisogna fare un giuramento solenne» insistette Caris. Formarono un piccolo cerchio. Caris tese il braccio per mettere la mano al centro. Merthin appoggiò la mano sopra la sua. La pelle era morbida e calda. Poi Ralph e Gwenda fecero lo stesso e tutti giurarono sul sangue di Gesù. Dopodiché tornarono in città. L'esercitazione di tiro con l'arco era finita e ormai si avvicinava l'ora di pranzo. Mentre attraversavano il ponte, Merthin disse a Ralph: «Da grande voglio diventare come quel cavaliere: sempre gentile, mai spaventato, micidiale in battaglia». «Anch'io» replicò Ralph. «Micidiale.» Nella città vecchia, Merthin fu stranamente sorpreso nel constatare che la vita andava avanti come al solito: pianti di bambini, profumo di carne arrostita, uomini che bevevano birra davanti alla taverna. Caris si fermò di fronte a una grande casa sulla strada principale, dirimpetto all'ingresso del recinto del priorato. Circondò con un braccio le spalle di Gwenda e le disse: «Il mio cane ha fatto i cuccioli. Vuoi vederli?». Gwenda, ancora spaventata e sul punto di piangere, annuì con entusiasmo. «Sì, grazie.» Era un gesto intelligente oltre che gentile, pensò Merthin. I cuccioli avrebbero consolato e anche distratto la bambina, che, al ritorno in famiglia, avrebbe parlato di loro. Ci sarebbero state minori probabilità che confessasse di essere andata nella foresta. Si salutarono e le bambine entrarono in casa. Merthin si sorprese a chie-
dersi quando avrebbe rivisto Caris. Poi gli tornarono alla mente gli altri suoi problemi. Come sarebbe finita la questione dei debiti paterni? Entrò nel recinto della cattedrale con il fratello che reggeva ancora l'arco e la lepre morta. Tutto appariva tranquillo. La foresteria era vuota, a parte qualche raro ammalato. «Vostro padre è in chiesa con il conte di Shiring» li avvertì una monaca. I due si avviarono verso la grande cattedrale e incontrarono i genitori nel vestibolo. La madre era seduta ai piedi di un pilastro, sulla sporgenza dove la colonna cilindrica incontrava la base quadrata. Nella luce fredda proveniente dalle alte finestre, il suo viso era immobile e sereno, come scolpito nella stessa pietra grigia del pilastro al quale appoggiava la testa. Il padre, accanto a lei, teneva le ampie spalle curvate in un atteggiamento rassegnato. Il conte Roland li fissava. Più anziano di Gerald, appariva però più giovane per via dei capelli neri e dei modi vigorosi. Il priore Anthony era al suo fianco. I due bambini indugiavano sulla soglia, ma la madre fece loro un segno con la testa. «Venite» disse. «Il conte Roland ci ha aiutato a trovare un accordo con il priore Anthony per risolvere tutti i nostri problemi.» Il padre sbuffò, come se non fosse affatto contento della piega degli eventi. «Così il priorato si prende tutte le mie terre. Voi due non erediterete un bel niente.» «Verremo a vivere qui, a Kingsbridge» continuò la madre in tono vivace. «Saremo conversi del priorato.» «Cosa vuol dire "converso"?» chiese Merthin. «Significa che i frati ci offriranno una casa in cui vivere e due pasti al giorno per il resto della nostra vita. Non è meraviglioso?» Merthin capiva bene che in realtà lei non lo riteneva affatto meraviglioso: il suo compiacimento era soltanto una finzione. Il padre era chiaramente pieno di vergogna per aver perduto le sue terre. Il bambino si rese conto che in tutto ciò c'era ben più che un segno di sventura. Il padre si rivolse al conte. «Che ne sarà dei miei figli?» Il conte Roland si voltò a guardarli. «Quello più grande sembra promettente» commentò. «L'hai uccisa tu la lepre, ragazzo?» «Sì, signore» rispose Ralph, colmo di orgoglio. «L'ho trafitta con una freccia.» «Tra un paio d'anni potrà venire da me come scudiero» disse bruscamente. «Lo addestreremo perché diventi un cavaliere.» Il padre parve soddisfatto.
Merthin, invece, era sconcertato: troppo in fretta venivano prese grandi decisioni. E poi era mortalmente offeso che il fratello minore fosse tanto favorito, mentre a lui non si era neppure accennato. «Non è giusto!» sbottò. «Anch'io voglio diventare cavaliere!» «No!» tagliò corto la madre. «Ma l'arco l'ho fatto io!» Con aria disgustata, il padre emise un sospiro di esasperazione. «L'hai fatto tu, piccolino?» chiese il conte, con un'espressione sdegnosa in viso. «In questo caso, tu diventerai apprendista carpentiere.» 3 La casa di Caris era una lussuosa costruzione di legno con i pavimenti e il camino di pietra. Al pianterreno c'erano tre stanze: la sala con il grande tavolo da pranzo, la piccola stanza in cui il padre trattava gli affari privati e, sul retro, la cucina. Quando Caris e Gwenda entrarono furono accolte da un profumo appetitoso di prosciutto bollito. Caris guidò Gwenda oltre la sala da pranzo e poi su per la scala interna. «Dove sono i cuccioli?» si informò Gwenda. «Prima voglio vedere la mamma» spiegò Caris. «È malata.» Entrarono nella camera da letto sul fronte della casa, dove la madre giaceva in un letto di legno intarsiato. Era così piccola ed esile che Caris era già alta quanto lei. Appariva estremamente pallida e i capelli, non ancora acconciati, le stavano incollati alle guance umide. «Come ti senti?» le chiese Caris. «Un po' debole, oggi.» Quelle poche parole pronunciate con sforzo la lasciarono senza fiato. Caris avvertì il familiare senso di ansiosa impotenza. La madre era ammalata da un anno. Tutto era iniziato con dolori alle articolazioni, seguiti ben presto da ulcere in bocca e inspiegabili lividi su tutto il corpo. Era troppo debilitata per muoversi. La settimana precedente si era presa il raffreddore, e da allora la febbre alta le impediva di respirare bene. «Hai bisogno di qualcosa?» le domandò Caris. «No, grazie.» La solita risposta, che Caris trovava intollerabile perché le dava la consapevolezza di non poter fare nulla per lei. «Vuoi che vada a chiamare madre Cecilia?» La badessa di Kingsbridge era l'unica persona capace di arrecarle un po' di sollievo. Mescolava estratto di papavero con miele e vino
caldo e con ciò alleviava per qualche tempo i suoi dolori. Caris la considerava alla stregua di un angelo. «Non è necessario, cara» rispose la madre. «Com'è stata la funzione di Ognissanti?» Caris notò quanto fossero esangui le sue labbra. «Mi sono presa una gran paura» raccontò. La madre riposò per un attimo, poi chiese: «Cos'hai fatto questa mattina?». «Sono andata a vedere gli arcieri.» Caris trattenne il respiro, nel timore che lei riuscisse a scoprire il suo colpevole segreto, come spesso accadeva. La madre in quel momento si accorse di Gwenda. «Chi è la tua amichetta?» «Gwenda. L'ho portata a vedere i cuccioli.» «Che bello!» D'improvviso parve esausta. Chiuse gli occhi e piegò la testa di lato. Le bambine uscirono in punta di piedi. Gwenda sembrava profondamente turbata. «Che cos'ha?» «Un morbo che la consuma.» Caris detestava parlarne. La malattia della madre le dava la sconvolgente sensazione che al mondo non ci fosse nulla di sicuro, che potesse succedere qualsiasi cosa, che non esistesse possibilità di scampo. La spaventava ancor più dello scontro a cui aveva assistito nella foresta. Se pensava a quanto poteva accadere, all'eventualità che lei morisse, avvertiva nel petto una vibrante fitta di panico che le faceva venire voglia di gridare. La stanza da letto centrale in estate era usata dagli italiani, mercanti di lana di Firenze e Prato che trattavano affari con il padre. In quel momento era vuota. I cuccioli si trovavano nella camera sul retro, dove dormivano Caris e la sorella Alice. Avevano sette settimane e quindi erano pronti per essere separati dalla madre, sempre meno paziente con loro. Con un sospiro di gioia Gwenda si accovacciò a terra. Caris prese il più piccolo della cucciolata, una femmina assai vivace, sempre propensa ad allontanarsi da sola per esplorare il mondo. «Lei starà con me» dichiarò. «Si chiama Scrap.» Tenere in braccio la cagnolina era per lei una grande consolazione, la aiutava a distrarsi dalle sue apprensioni. Gli altri quattro si precipitarono subito addosso a Gwenda per annusarla e morderle il vestito. Lei sollevò un brutto cucciolo marrone con il muso lungo e gli occhi ravvicinati. «A me piace questo» disse. Il cagnolino le si
acciambellò in grembo. «Vuoi prenderlo?» «Posso?» Gwenda sentì salirle agli occhi lacrime di commozione. «Abbiamo il permesso di darli via.» «Davvero?» «Papà non vuole altri cani. Se ti piace, è tuo.» «Oh, grazie» mormorò Gwenda con un filo di voce. «Come hai intenzione di chiamarlo?» «Con un nome che mi ricordi Hop. Skip, per esempio.» «Bello.» Caris notò che Skip si era già addormentato in braccio a Gwenda. Le due bambine sedettero tranquille con i cuccioli. Caris ripensò ai suoi nuovi amici: il bambino rosso di capelli con gli occhi dorati e il fratello minore, alto e bello. Che cosa l'aveva spinta a condurli nella foresta? Non era la prima volta che assecondava uno stupido impulso. Succedeva sempre quando qualcuno dall'alto le vietava qualcosa. La zia Petranilla non faceva che impartire ordini: "Non dare da mangiare a quel gatto, altrimenti non ce lo togliamo più di torno", "Non si gioca a palla in casa", "Stai lontana da quel bambino, è di famiglia contadina". Caris non sopportava quelle regole che limitavano la sua libertà. Ma prima di allora non aveva mai commesso una stupidaggine del genere. Si sentì tremare al pensiero. Due uomini erano morti, e ancor peggio era ciò che sarebbe potuto accadere. Tutti e quattro i bambini avevano rischiato di venire uccisi. Si chiese la ragione di quello scontro, e perché gli armigeri fossero all'inseguimento del cavaliere. Non si trattava certo di una semplice rapina. Si era parlato di una lettera, ma Merthin non vi aveva neppure accennato. Forse non sapeva nulla di più. Era un altro dei tanti misteri della vita degli adulti. Le piaceva molto, Merthin. Ralph, quel noioso del fratello, era proprio come ogni altro maschio di Kingsbridge, tracotante, aggressivo e stupido. Merthin, invece, appariva diverso. L'aveva incuriosita fin dall'inizio. Tre nuovi amici in un solo giorno, pensò osservando Gwenda. La bambina non era bella, con quegli occhi marrone scuro molto ravvicinati sopra il naso aquilino. "Ha scelto un cane che le assomiglia" pensò Caris divertita. Portava indumenti vecchi, che prima di lei dovevano essere stati indossati da molti altri bambini. Pareva tranquilla; non dava più l'impressione di stare per scoppiare in lacrime da un momento all'altro. Anche a lei i cuccioli avevano dato conforto.
Dalla sala sottostante giunse un familiare rumore di passi irregolari, e subito dopo una voce tuonò: «Portatemi una caraffa di birra, per l'amor del cielo. Sono assetato come un cavallo da tiro». «È mio padre» annunciò Caris. «Vieni a conoscerlo.» Nel leggere apprensione sul viso di Gwenda, aggiunse: «Non preoccuparti, urla sempre così, ma in realtà è molto gentile». Le bambine scesero con i loro cagnolini. «Dov'è finita la servitù?» strepitò il padre. «Sono scappati tutti con la gente della fiera?» Emerse dalla cucina, trascinando come al solito la gamba destra deforme, con una grossa coppa di legno traboccante di birra tra le mani. «Salve, mio piccolo ranuncolo» disse a Caris in tono più dolce. Si sedette sulla grande seggiola a capotavola e bevve un lungo sorso dalla coppa. «Così va meglio» commentò, pulendosi la barba rada con la manica. A quel punto notò Gwenda. «Una piccola margherita per fare compagnia al mio ranuncolo?» «Gwenda di Wigleigh, mio signore» si presentò lei, intimorita. «Le ho regalato un cucciolo» spiegò Caris. «Buona idea! I cuccioli hanno bisogno di affetto, e nessuno può amarli quanto una bambina.» Sullo sgabello vicino al tavolo Caris scorse un mantello di tessuto scarlatto. Doveva venire dall'estero, perché i tintori inglesi non erano capaci di ottenere un rosso tanto brillante. Il padre seguì il suo sguardo. «È per la mamma» spiegò. «Ha sempre desiderato un mantello rosso italiano. Spero che serva a darle la forza di indossarlo.» Caris lo toccò. Soltanto gli italiani riuscivano a produrre un tessuto di lana così morbido e dalla trama così fitta. «È bellissimo» commentò. La zia Petranilla entrò in casa. Assomigliava vagamente al padre, ma la sua espressione era arcigna, mentre quella di lui era cordiale. Ricordava di più l'altro fratello, Anthony, priore di Kingsbridge: entrambi avevano una figura alta e imponente, mentre il padre era basso, zoppo, con il torace carenato. Caris detestava Petranilla, perspicace e al tempo stesso meschina, una combinazione letale in un adulto. Non le riusciva mai di superarla in astuzia. Gwenda percepì l'ostilità dell'amica e guardò con apprensione la nuova arrivata. Solo il padre si mostrò contento di vederla. «Vieni, sorella» disse. «Dove sono finiti tutti i miei servi?»
«Non capisco come potrei saperlo, dato che arrivo in questo momento da casa mia, in fondo alla strada; ma se devo tirare a indovinare, Edmund, direi che la cuoca è nel pollaio in cerca di un uovo per prepararti il dolce e la cameriera è di sopra ad aiutare tua moglie a sedere sulla seggetta, che di solito le serve intorno a mezzodì. Quanto ai tuoi apprendisti, spero che siano entrambi di guardia al magazzino sul fiume per accertarsi che a qualche festaiolo ubriaco non venga in mente di accendere un falò a poca distanza dalle tue scorte di lana.» Petranilla parlava sovente in quel modo, impartendo un intero sermone in risposta a una semplice domanda. Aveva modi altezzosi, ma il padre pareva non badarvi o, almeno, fingeva. «Mia straordinaria sorella, sei tu ad avere ereditato la saggezza di papà.» Petranilla si rivolse alle bambine. «Nostro padre discendeva da Tom il costruttore, patrigno e maestro di Jack il costruttore, architetto della cattedrale di Kingsbridge» spiegò. «Fece voto di offrire il suo primogenito a Dio, ma sfortunatamente gli nacque prima una femmina, cioè io. Mi diede il nome di santa Petranilla, la figlia di san Pietro, come sicuramente sapete, e pregò che il secondo figlio fosse un maschio. Ma purtroppo nacque deforme e, poiché non voleva dare a Dio un dono imperfetto, allevò Edmund perché a tempo debito gli subentrasse nel commercio della lana. Il suo terzo figlio fu nostro fratello Anthony, un bambino bravo e timorato di Dio, che entrò in monastero da ragazzo e adesso, con nostro grande orgoglio, ne è il priore.» Se fosse stata un uomo, Petranilla sarebbe diventata un prete, ma poiché non lo era aveva fatto ciò che più gli si avvicinava, ovverosia crescere il proprio figlio, Godwyn, perché diventasse frate al priorato. Come il padre lanaiolo, aveva offerto un figlio a Dio. Caris aveva sempre compianto Godwyn, il cugino più grande, che aveva per madre una donna come Petranilla. La zia notò il mantello rosso. «Di chi è? Questa lana italiana costa una fortuna!» «L'ho preso per Rose» rispose il padre. Petranilla lo fissò per un momento. Caris capì che lo riteneva uno sciocco a comprare un indumento del genere per una donna che non usciva di casa da un anno. «Sei molto buono con lei» si limitò tuttavia a commentare Petranilla. Non si capiva se fosse un complimento. Lui non vi badò. «Vai a trovarla» la esortò. «Le farà piacere vederti.»
Caris ne dubitava, ma Petranilla non nutriva apprensioni del genere, quindi si avviò su per la scala. In quel momento arrivò Alice, la sorella di Caris. Aveva undici anni, uno più di Caris. Squadrò Gwenda, poi chiese: «Chi è?». «La mia nuova amica Gwenda. Prende un cucciolo.» «Ma ha scelto quello che volevo io!» protestò Alice. Non ne aveva mai fatto parola. «Senti, tu non avevi scelto proprio un bel niente!» ribatté Caris indignata. «Lo dici solo per malignità.» «Perché mai deve prendere uno dei nostri cuccioli?» «Basta, ora» intervenne il padre. «Non possiamo tenerli tutti.» «Caris avrebbe dovuto chiedere prima a me quale volevo!» «Sì, è vero» osservò Edmund, seppure consapevole che quelli di Alice erano solo capricci. «Non farlo più, Caris.» «D'accordo, papà.» La cuoca arrivò dalla cucina con brocche e coppe. Caris, quando stava imparando a parlare, per qualche ignota ragione aveva preso a chiamarla Tutty, e il nomignolo le era rimasto. «Grazie, Tutty» disse Edmund. «Sedetevi a tavola, bambine.» Gwenda esitò, non sapendo bene se l'invito fosse esteso anche a lei, ma Caris le fece un cenno con il capo, sicura che il padre la volesse con loro: di solito chiedeva a tutti quelli compresi nel suo raggio visivo di fermarsi a pranzo. Tutty riempì di birra la coppa del padre, poi servì ad Alice, Caris e Gwenda birra mista ad acqua. Gwenda scolò d'un fiato la sua, e Caris pensò che probabilmente non le era capitato spesso di assaggiare la birra: i poveri bevevano sidro di mele selvatiche. Poi la cuoca mise davanti a ciascuno una larga fetta di pane di segale tagliata spessa. Gwenda fece per mangiarla, e Caris si rese conto che non doveva avere mai pranzato seduta a tavola prima di allora. «Aspetta» le sussurrò, e Gwenda posò il pane. Tutty arrivò con un prosciutto caldo su un tagliere e un piatto di cavolo. Il padre tagliò il prosciutto con un grosso coltello e poi dispose le fette sul pane. Gwenda guardò sbalordita la quantità di carne che le veniva offerta. Caris dispose qualche foglia di cavolo sopra il prosciutto. Elaine, la cameriera, scese di corsa le scale. «La signora Rose sembra peggiorata» disse. «La signora Petranilla dice di andare a chiamare madre Cecilia.» «Allora corri al priorato e pregala di venire» replicò Edmund.
La cameriera si precipitò fuori. «Su, mangiate, bambine» le esortò lui, infilzando una fetta di prosciutto con il coltello, ma Caris si accorse che il padre non provava più alcun piacere per il pranzo e aveva un'espressione assente. Gwenda mangiò un po' di cavolo e sussurrò: «Questo cibo viene dal cielo». Caris lo assaggiò: era cotto con lo zenzero, che forse Gwenda non aveva mai gustato perché solo i ricchi potevano permetterselo. Petranilla scese, mise un po' di prosciutto su un piatto di legno e lo portò alla malata, ma tornò pochi minuti dopo con il cibo intatto. Sedette a tavola e la cuoca le servì una grossa fetta di pane. «Quando ero piccola, la nostra era la sola famiglia di Kingsbridge a mangiare carne a ogni pranzo» osservò. «Tranne che nei giorni di digiuno, perché mio padre era molto pio. Fu il primo mercante di lana a trattare direttamente con gli italiani. Oggigiorno lo fanno tutti, anche se il più importante resta sempre mio fratello Edmund.» Caris aveva perso l'appetito e dovette masticare il cibo a lungo prima di riuscire a ingoiarlo. Finalmente arrivò madre Cecilia, una donna piccola e vivace dai modi decisi e rassicuranti. L'accompagnava suor Juliana, una persona semplice e di buon cuore. Caris cominciò a sentirsi meglio nel vederle salire le scale, un cinguettante passerotto seguito da una gallina dall'incedere dondolante. Di sicuro andavano a lavare la mamma con acqua di rose per far scendere la febbre, e la fragranza le avrebbe sollevato lo spirito. Tutty portò in tavola mele e formaggio. Il padre sbucciò un frutto con aria distratta e Caris ricordò che, quando era piccola, lui le offriva le fette mondate e poi mangiava le bucce. Suor Juliana tornò dabbasso con un'espressione angosciata dipinta sul viso paffuto. «La badessa vuole che frate Joseph veda la signora Rose» disse. Joseph era il medico più autorevole del monastero: aveva studiato con i maestri di Oxford. «Vado a chiamarlo» annunciò prima di uscire trafelata di casa. Edmund posò la mela ancora intatta. «Che succederà?» chiese Caris. «Non lo so, ranuncolo. Pioverà? Quanti sacchi di lana compreranno i fiorentini? Ci sarà la moria delle pecore? Il nascituro sarà una femmina o un maschio dalla gamba deforme? È...» Distolse lo sguardo. «Per questo è tanto difficile.» Le porse la mela, che Caris passò all'amica. Gwenda la mangiò tutta, con torsolo e semi.
Frate Joseph arrivò pochi minuti dopo con un giovane assistente che Caris riconobbe per Saul Testabianca, così chiamato per via dei capelli biondo cenere, quanto meno quei pochi che gli erano rimasti dopo la tonsura. Cecilia e Juliana scesero al pianterreno, senza dubbio per fare spazio ai due uomini nella piccola camera da letto. Cecilia sedette a tavola ma non toccò cibo. Aveva un viso piccolo dai tratti spigolosi: nasetto a pulita, occhi luminosi e un mento che ricordava la prua di una barca. «Bene, allora» disse in tono vivace. «Chi sono tutte queste bambine? Vogliono bene a Gesù e alla sua Santa Madre?» «Mi chiamo Gwenda e sono amica di Caris.» Rivolse un'occhiata ansiosa a Caris, nel timore di essersi mostrata presuntuosa a dichiararsi sua amica. «La Vergine Maria aiuterà la mamma a guarire?» chiese Caris. Cecilia inarcò le sopracciglia. «Che domanda diretta! Si capisce subito che sei figlia di Edmund.» «Tutti la pregano, ma non tutti guariscono» osservò Caris. «Lo sai perché?» «Forse perché non aiuta mai nessuno; chi è forte guarisce da solo, chi è debole no.» «Su, andiamo, non dire sciocchezze» intervenne il padre. «Tutti sanno che la Santa Vergine ci aiuta.» «Proprio così» incalzò Cecilia. «Ma è normale che i bambini facciano domande, specialmente quelli intelligenti. Caris, i santi sono molto potenti, ma certe preghiere sono più efficaci di altre, lo capisci?» Caris annuì con riluttanza, poco convinta ma battuta in astuzia. «Deve venire a studiare da noi» disse Cecilia. Le monache avevano una scuola per le figlie dei nobili e dei cittadini più ricchi. I frati avevano una loro scuola per i maschi. Il padre sembrava scettico. «Rose ha insegnato a entrambe le bambine a leggere e a scrivere, e Caris è brava quanto me a far di conto. Già mi aiuta nel mio lavoro.» «Dovrebbe imparare altre cose. Di certo non vuoi che passi la vita a servirti, vero?» Petranilla si intromise. «Non le serve imparare sui libri. Farà un matrimonio vantaggioso. Entrambe le sorelle avranno frotte di corteggiatori: figli di mercanti e anche di cavalieri aspireranno a imparentarsi con la nostra famiglia. Ma Caris è una bambina ostinata, e dobbiamo stare attenti che non si butti via con qualche menestrello squattrinato.»
Caris notò che la zia non prevedeva difficoltà con l'arrendevole Alice, che probabilmente avrebbe sposato chiunque le avessero imposto. «Dio potrebbe chiamare Caris al suo servizio» osservò Cecilia. Il padre parve accigliarsi. «Dio ha già chiamato due membri di questa famiglia, mio fratello e mio nipote. Penso che possa essere soddisfatto, a questo punto.» Cecilia si rivolse a Caris. «E tu che dici? Vuoi lavorare nel commercio della lana, sposare un cavaliere o farti monaca?» L'idea di entrare in convento fece inorridire Caris. Avrebbe dovuto obbedire agli ordini di qualcun altro a ogni ora del giorno: sarebbe stato come restare bambini per tutta la vita, con Petranilla come madre. Essere la moglie di un cavaliere, o di chiunque altro, le pareva altrettanto insopportabile, perché le donne dovevano sottostare al volere dei mariti. Aiutare il padre, per poi forse subentrare al suo posto quando fosse stato troppo vecchio, pareva l'opzione meno insopportabile, ma d'altra parte non era certo il suo sogno. «Niente di tutto questo» rispose. «C'è qualcosa che ti piacerebbe davvero?» domandò Cecilia. C'era, anche se Caris non ne aveva mai parlato con nessuno; anzi, fino a quel momento non l'aveva neppure ben chiara nella mente. Ma l'ambizione c'era, e all'improvviso lei comprese senza ombra di dubbio che quello sarebbe stato il suo destino. «Farò il medico» affermò. Dopo un momento di silenzio tutti scoppiarono a ridere. Caris arrossì, senza capire che cosa ci fosse di tanto divertente. Il padre si intenerì. «Soltanto gli uomini possono diventare medici; non lo sapevi, ranuncolo?» Caris ne fu sconcertata. Si rivolse a Cecilia. «E voi, allora?» «Io non sono un medico. Noi monache assistiamo i malati, certo, ma seguendo le indicazioni di uomini ben preparati. I monaci che hanno studiato sotto la guida dei maestri conoscono gli umori corporali, che si scompensano durante la malattia, e sono in grado di riportarli al giusto equilibrio per ottenere la guarigione. Sanno quale vena salassare per l'emicrania, la lebbra o l'affanno; dove applicare ventose e cauterizzare; se ricorrere a cataplasmi o a irrorazioni.» «Ma queste cose non può impararle anche una donna?» «Forse, ma Dio ha disposto altrimenti.» Ogni volta che gli adulti non sapevano come rispondere, se la cavavano con quella frase fatta, notò Caris frustrata. Prima che potesse controbattere, frate Saul scese le scale con una ciotola di sangue e attraversò la cucina per
svuotarla nel cortile sul retro. Quella scena le fece salire le lacrime agli occhi. Tutti i medici usavano i salassi come cura, quindi dovevano essere efficaci, eppure la inorridiva vedere la forza vitale della madre buttata via come immondizia. Saul tornò nella camera della malata e dopo qualche minuto scese insieme a Joseph. «Ho fatto quel che potevo per lei» annunciò frate Joseph al padre in tono solenne. «E ha confessato i suoi peccati.» "Confessato i suoi peccati!" Caris sapeva che cosa significava. Scoppiò a piangere. Il padre pescò sei penny d'argento dalla borsa e li porse al monaco. «Grazie, fratello.» La voce era rauca. Quando i frati furono usciti, le suore tornarono al piano di sopra. Alice sedette in grembo al padre e gli affondò il viso nell'incavo del collo; Caris piangeva abbracciata a Scrap. Petranilla ordinò a Tutty di sparecchiare la tavola. Gwenda osservava con gli occhi sbarrati. Rimasero tutti seduti in silenzio, in attesa. 4 Frate Godwyn era affamato. Aveva già mangiato stufato di rape e pesce salato, ma non si sentiva soddisfatto. Il pranzo dei monaci consisteva quasi invariabilmente di pesce e birra leggera, anche quando non era giorno di digiuno. Non era così per tutti, però. Il priore Anthony godeva di una dieta privilegiata. In quell'occasione, poi, avrebbe mangiato particolarmente bene perché aveva come ospite la badessa, madre Cecilia. Lei era abituata al cibo raffinato. Le suore, che sembravano disporre di più denaro dei frati, uccidevano un maiale o una pecora ogni tre o quattro giorni e l'annaffiavano con vino di Guascogna. Toccava a Godwyn sovrintendere al pranzo, un compito sgradito quando si ha lo stomaco che brontola. Parlò con il cuciniere del monastero, controllò la grassa oca nel forno e la salsa di mele che sobbolliva nella pentola sul fuoco. Chiese al dispensiere di riempire una brocca di sidro dal barile e prese una pagnotta di segale, rafferma perché la domenica non si panificava. Recuperò nel baule chiuso a chiave piatti e coppe d'argento e li dispose sul tavolo della sala grande nella casa del priore. Il priore e la badessa pranzavano insieme una volta al mese. Il monastero
dei frati e quello delle suore erano due istituzioni distinte, ciascuna con la propria sede e le proprie fonti di reddito. Il priore e la badessa avevano compiti diversi di cui rispondevano al vescovo di Kingsbridge. Tuttavia condividevano la grande cattedrale e parecchi altri edifici tra cui l'ospitale, dove i frati lavoravano come medici e le suore come infermiere. Per questo i due avevano sempre qualcosa di cui parlare: le funzioni nella cattedrale, i visitatori e i pazienti dell'ospitale, la politica cittadina. Anthony tentava spesso di far pagare a Cecilia spese che, a rigor di logica, avrebbero dovuto ripartire equamente (le vetrate della casa capitolare, i letti per l'ospitale, la rimbiancatura dell'interno della cattedrale) e lei di solito accettava di accollarsele. Quel giorno, però, era più probabile che si parlasse di politica. Anthony era tornato il giorno prima da un soggiorno di due settimane a Gloucester, dove aveva assistito alla sepoltura di re Edoardo II, che a gennaio aveva perso il trono e a settembre la vita. Madre Cecilia voleva sentire i pettegolezzi pur fingendosi al di sopra di tutto. Godwyn aveva ben altro per la mente. Desiderava discutere con Anthony del proprio futuro. Da quando il priore era rientrato, aspettava con ansia il momento giusto. Si era studiato bene il discorso, senza che gli si fosse mai presentata l'occasione per farlo. Sperava di averne l'opportunità nel pomeriggio. Anthony entrò nella sala mentre Godwyn disponeva sulla credenza il formaggio e una ciotola di pere. Il priore sembrava una versione più vecchia di Godwyn. Erano entrambi alti, con tratti regolari e capelli castano chiaro, e come tutti in famiglia avevano occhi verdastri con pagliuzze dorate. Anthony si avvicinò al fuoco: la sala era fredda e il vecchio edificio era attraversato da correnti d'aria gelida. Godwyn gli versò una coppa di sidro. «Padre priore, oggi è il mio compleanno» disse mentre l'altro beveva. «Compio ventun anni.» «Così sia» disse Anthony. «Ricordo benissimo il giorno in cui sei nato. Io avevo quattordici anni. Mia sorella Petranilla strillava come un cinghiale trafitto da una freccia mentre ti metteva al mondo.» Sollevò il calice in un brindisi rivolgendo a Godwyn uno sguardo affettuoso. «E ora sei un uomo.» Godwyn decise che quello era il suo momento. «Sono al priorato da dieci anni» disse. «Così tanto?» «Sì, prima allievo, poi novizio e infine monaco.»
«Santo cielo.» «Spero di avere fatto onore a mia madre e a te.» «Tu ci riempi entrambi di orgoglio.» «Grazie.» Godwyn deglutì. «E ora voglio andare a Oxford.» Quella città era da lungo tempo il centro dei maestri di teologia, medicina e giurisprudenza. Preti e monaci vi andavano per istruirsi e dibattere con gli insegnanti e gli altri studenti. Nell'ultimo secolo i maestri erano stati riuniti in un'unica corporazione, o università, che aveva ottenuto dal re la facoltà di effettuare esami e conferire il dottorato. Il priorato di Kingsbridge manteneva nella città una dipendenza, un piccolo monastero, noto come collegio di Kingsbridge, dove otto monaci studiavano mentre conducevano la loro vita religiosa di rinuncia al mondo. «Oxford!» esclamò Anthony, e un'espressione di ansia e disgusto gli si dipinse in viso. «Perché?» «Per istruirmi. Come è compito dei monaci.» «Io non sono mai stato a Oxford, eppure sono il priore.» Era vero, ma proprio per quello Anthony si trovava talvolta in difficoltà con i confratelli più anziani. Il sacrista, il tesoriere e parecchie altre autorità del monastero, i cosiddetti "obedientari", avevano frequentato l'università, come pure tutti i medici. Pronti di ingegno e abili nelle argomentazioni, facevano spesso sfigurare Anthony, specialmente durante il capitolo, la riunione quotidiana di tutti i monaci. Godwyn desiderava ardentemente acquisire le capacità logiche e la sicurezza che riscontrava negli uomini di Oxford. Non voleva essere come lo zio. Tuttavia, non poteva confessarlo. «Desidero imparare» disse. «Perché mai imparare l'eresia?» ribatté Anthony sprezzante. «Gli studenti di Oxford mettono in discussione gli insegnamenti della Chiesa!» «Per comprenderli meglio.» «È inutile e pericoloso.» Godwyn si domandò il motivo di quella reazione esagerata. Il priore non si era mai preoccupato dell'eresia e Godwyn non aveva alcun interesse a confutare le dottrine accettate. Si accigliò. «Credevo che tu e mia madre nutriste qualche ambizione per me. Non volete che progredisca, che divenga obedientario, e forse un giorno priore?» «Sì, certo, ma per raggiungere questo fine non è necessario lasciare Kingsbridge.» "Non vuoi che faccia carriera troppo in fretta perché temi che ti soppianti, e non vuoi che lasci la città per paura che io sfugga al tuo controllo"
pensò Godwyn in un lampo di intuizione. Rimpianse di non avere previsto quella resistenza ai suoi progetti. «Non voglio studiare teologia» dichiarò. «Che cosa, allora?» «Medicina. È una parte molto importante del nostro lavoro qui.» Anthony increspò le labbra. Godwyn aveva già visto quell'espressione di disapprovazione sul viso della madre. «Il monastero non può permettersi di pagare i tuoi studi» disse il priore. «Ti rendi conto che un solo libro costa almeno quattordici scellini?» Godwyn fu colto di sorpresa. Sapeva che gli studenti potevano prendere a nolo singole pagine di libro, ma non era quello il punto. «E gli studenti già a Oxford? Chi paga per loro?» «Due sono mantenuti dalla famiglia e uno dalle suore. Il priorato paga per gli altri tre, ma non può accollarsene di più. In effetti, proprio per mancanza di fondi, nel collegio ci sono due posti vacanti.» Godwyn conosceva le difficoltà economiche del priorato, che, d'altra parte, disponeva di ampie risorse: migliaia di acri di terra, mulini, peschiere e boschi, oltre agli enormi proventi del mercato di Kingsbridge. Stentava a credere che lo zio gli negasse il denaro per andare a Oxford. Si sentì tradito. Anthony era per lui un maestro oltre che un parente, e aveva sempre favorito il nipote rispetto agli altri giovani frati, ma in quel momento lo stava ostacolando. «I medici portano denaro al priorato» sottolineò. «Se non addestri i giovani, quando i vecchi moriranno il priorato sarà più povero.» «Dio provvederà.» Quell'esasperante frase fatta era la tipica risposta di Anthony. Da alcuni anni il denaro proveniente dall'annuale fiera della lana continuava a diminuire. I cittadini avevano esortato Anthony a investire in strutture migliori per i mercanti (tende, banchi coperti, latrine, addirittura un edificio per le contrattazioni), ma lui aveva sempre rifiutato adducendo come scusa la mancanza di fondi. E quando il fratello Edmund gli aveva detto che di quel passo la fiera sarebbe andata in malora, la sua risposta era stata: "Dio provvederà". «Bene» ribatté Godwyn. «Forse provvederà anche al denaro che mi è necessario per andare a Oxford.» «Può darsi.» Godwyn provò una cocente delusione. Sentiva un bisogno impellente di allontanarsi dalla città natale per respirare aria nuova. Al collegio di Kingsbridge sarebbe stato assoggettato alla stessa disciplina monastica, certo,
e tuttavia lo allettava enormemente la prospettiva di prendere le distanze dallo zio e dalla madre. Non era ancora pronto a lasciar cadere l'argomento. «Mia madre si cruccerà molto se non vado.» Anthony parve imbarazzato. Non voleva incorrere nella collera della temibile sorella. «Allora preghiamo di trovare il denaro.» «Forse potrei ottenerlo altrove» propose Godwyn. «In che senso?» Mentre si affannava a cercare una risposta, d'un tratto gli venne un'ispirazione. «Potrei fare come te, chiedere a madre Cecilia.» Era una possibilità. Cecilia lo innervosiva e lo metteva in soggezione come sua madre, ma era sensibile al fascino maschile. Forse si sarebbe lasciata persuadere a pagare per l'istruzione di un giovane monaco brillante. L'idea colse Anthony di sorpresa. Godwyn si accorse che annaspava in cerca di un'obiezione. Aveva basato il suo rifiuto sulla mancanza di denaro e ora gli risultava difficile spostarsi su un altro terreno. Cecilia entrò mentre Anthony ancora esitava. Portava un pesante mantello di lana fine, il solo lusso che si concedeva perché pativa molto il freddo. Dopo avere salutato il priore, si rivolse a Godwyn. «Tua zia Rose è molto grave.» La voce aveva una cadenza musicale. «Forse non passerà la notte.» «Che Dio sia con lei.» Godwyn avvertì una fitta di compassione. In una famiglia in cui tutti erano capi, Rose era l'unica seguace. I suoi petali sembravano tanto più fragili in confronto ai rovi che la circondavano. «È un colpo che non arriva inatteso» aggiunse. «Ma per le mie cugine, Alice e Caris, sarà molto triste.» «Per fortuna ci sarà tua madre a consolarle.» «Già.» La capacità di consolare non era la dote principale di Petranilla, molto più brava a raddrizzarti la spina dorsale per impedirti di cadere nel vizio; tuttavia Godwyn evitò di contraddire la badessa. Le riempì invece la coppa di sidro. «Trovate che faccia freddo qui dentro, reverenda madre?» «Si gela» rispose lei decisa. «Vado subito ad aggiungere altra legna.» «Mio nipote Godwyn è tanto premuroso perché vuole che voi gli diate il denaro per andare a Oxford» commentò malignamente Anthony. Godwyn lo fulminò con un'occhiataccia. Avrebbe preferito prepararsi un bel discorso e propinarglielo al momento opportuno, invece Anthony aveva spiattellato la richiesta nel modo più brutale. «Non credo che possiamo permetterci di mantenerne altri due» osservò Cecilia.
A quel punto fu Anthony a sorprendersi. «Qualcun altro vi ha chiesto il denaro per andare a Oxford?» «Forse non dovrei dirlo. Non voglio creare problemi a nessuno.» «Non ha importanza» tagliò corto Anthony in tono risentito. Poi si ricompose e aggiunse: «Vi siamo comunque grati per la vostra generosità». Godwyn aggiunse legna sul fuoco, poi uscì. La casa del priore si trovava a nord della cattedrale. Il chiostro e tutti gli altri edifici del priorato erano sul lato meridionale. Rabbrividì mentre attraversava il prato verso le cucine del monastero. Aveva previsto che Anthony avrebbe avanzato obiezioni riguardo a Oxford, sostenendo che doveva aspettare di essere un po' più grande o finché uno degli studenti avesse terminato gli studi, perché era cavilloso per natura. Ma sapeva di essere il suo protetto, e quindi si era aspettato che lo zio avrebbe finito per sostenerlo. Quel suo netto rifiuto lo aveva sconvolto profondamente. Si domandò chi altri avesse chiesto l'appoggio della badessa. Dei ventisei frati, sei erano più o meno suoi coetanei: poteva trattarsi di chiunque di loro. In cucina Theodoric, l'aiuto dispensiere, stava dando una mano al cuciniere. Era forse lui l'altro aspirante al denaro di Cecilia? Godwyn lo osservò posare l'oca su un piatto da portata accanto a una ciotola di salsa di mele. Theodoric aveva abbastanza cervello per studiare. Poteva essere un rivale. Godwyn tornò a casa del priore con il pranzo. Era molto preoccupato. Non sapeva che cosa avrebbe fatto se Cecilia avesse deciso di aiutare Theodoric. Doveva elaborare un piano di ripiego. Aspirava a diventare priore di Kingsbridge, un giorno, ed era certo di essere più adatto di Anthony per quel ruolo. E se come priore avesse avuto successo avrebbe potuto ambire a posizioni di rilievo: vescovo, arcivescovo, forse dignitario di corte o consigliere del re. Aveva idee molto vaghe su cosa fare con tanto potere, ma era assolutamente convinto di essere destinato a un ruolo preminente. Tuttavia, c'erano soltanto due strade per elevarsi a tali altezze: i nobili natali o l'istruzione. Godwyn proveniva da una famiglia di mercanti di lana, e l'università era la sua unica speranza. Per questo aveva bisogno del denaro di Cecilia. Posò la cena sul tavolo. «Ma come è morto il re?» stava chiedendo la badessa. «Per una caduta» rispose Anthony. Godwyn affettò l'oca. «Posso servirvi un po' di petto, reverenda madre?» «Sì, grazie. Una caduta?» Pareva scettica. «Fate sembrare il re un vec-
chio insicuro sulle gambe, ma aveva solo quarantatré anni!» «Così hanno detto i suoi carcerieri.» Dopo essere stato deposto, l'ex sovrano era stato rinchiuso nel castello di Berkeley, a un paio di giorni di cavallo da Kingsbridge. «Ah, già, i carcerieri, gli uomini di Mortimer.» Cecilia disapprovava Roger Mortimer, conte di March. Non solo aveva capeggiato la ribellione contro Edoardo II, ma aveva anche sedotto la moglie del re, la regina Isabella. I due cominciarono a mangiare. Godwyn si chiese se sarebbe avanzato qualcosa. «Dal tono, si direbbe che sospettiate qualcosa di sinistro» osservò Anthony. «Assolutamente no, anche se altri la pensano così. Corre voce...» «Che sia stato assassinato? Lo so. Ma ho visto il corpo, nudo, e non presentava segni di violenza.» Godwyn sapeva che non doveva interrompere, ma non riuscì a trattenersi. «Si racconta che durante l'agonia le sue urla strazianti siano state udite da tutti nel villaggio di Berkeley.» Anthony gli lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Quando muore un re, le dicerie abbondano.» «Questo re non è soltanto morto» osservò Cecilia. «Prima è stato deposto dal Parlamento, un fatto senza precedenti.» Anthony abbassò la voce. «I motivi erano più che validi. Sono stati commessi atti impuri.» Parlava in modo enigmatico, ma Godwyn sapeva che cosa intendeva. Edoardo aveva avuto dei "favoriti", giovanotti verso i quali aveva provato un'attrazione innaturale. Il primo, Peter Gaveston, aveva ottenuto da lui tanto potere e tanti privilegi da suscitare la gelosia e l'astio dei baroni, e alla fine era stato giustiziato per tradimento. Ma ce n'erano stati altri. Non bisognava stupirsi, diceva la gente, che la regina si fosse presa un amante. «Io non posso crederci» dichiarò Cecilia, fervente sostenitrice del re. «Può darsi che i fuorilegge nella foresta si abbandonino a tali pratiche oscene, ma è impossibile che un uomo di sangue reale si abbassi a tanto. C'è ancora un po' d'oca?» «Sì.» Godwyn, cercando di nascondere il proprio risentimento, tagliò l'ultimo pezzo di carne e lo servì alla badessa. «Quanto meno, ora il nuovo sovrano non corre rischi» commentò Anthony. Il figlio di Edoardo II e della regina Isabella era diventato re con il
nome di Edoardo III. «Ha quattordici anni, ed è stato messo sul trono da Mortimer. Chi sarà a governare, in realtà?» «I nobili amano la stabilità.» «Specialmente quelli fra loro che sono amici di Mortimer.» «Come il conte Roland di Shiring, intendete?» «Oggi aveva un'aria entusiasta.» «Non vorrete dire che...» «Che c'entra qualcosa con la "caduta" del re? Assolutamente no.» La badessa mangiò l'ultimo pezzo di carne. «Anche tra amici, è pericoloso parlare così.» «Infatti.» Alcuni leggeri colpi alla porta annunciarono l'arrivo di Saul Testabianca. Aveva la stessa età di Godwyn. Era forse lui il rivale? Intelligente e capace, godeva del grande vantaggio di essere lontano parente del conte di Shiring, ma Godwyn dubitava che nutrisse l'ambizione di andare a Oxford. Era pio e timido, il tipo d'uomo per il quale l'umiltà non è una virtù, perché fa parte della sua natura. Ma tutto era possibile. «È arrivato all'ospitale un cavaliere con una ferita da spada» disse. «Notizia interessante» lo rimbeccò Anthony «ma non tale da giustificare l'interruzione del pranzo del priore e della badessa.» Saul parve intimorito. «Chiedo scusa, padre priore» balbettò «però c'è disaccordo sulla cura.» Anthony sospirò. «Bene, tanto l'oca è finita.» Si alzò in piedi. Cecilia si allontanò con lui, seguita da Godwyn e Saul. Entrarono nella cattedrale dal transetto nord e attraversarono la crociera per poi uscire dal transetto sud. Oltrepassato il chiostro, entrarono nell'ospitale. Il cavaliere ferito giaceva sul letto più vicino all'altare, com'era consono al suo rango. Al priore sfuggì un involontario moto di sorpresa. Per un attimo sembrò sconvolto e spaventato, ma si ricompose in fretta e assunse un'espressione più distesa. Cecilia, tuttavia, se ne accorse. «Conoscete quest'uomo?» gli chiese. «Mi pare di sì. È sir Thomas Langley, uno degli uomini del conte di Monmouth.» Era un bel giovane sui venticinque anni, con le spalle larghe e le gambe lunghe. Nudo fino alla vita, esibiva sul torace possente numerose cicatrici riportate in precedenti scontri. Appariva pallido ed esausto. «L'hanno assalito per strada» spiegò Saul. «È riuscito a sopraffare gli
aggressori, ma poi si è dovuto trascinare per un miglio o più fino in città. Ha perso molto sangue.» L'avambraccio sinistro del cavaliere era squarciato dal gomito al polso: un taglio netto lasciato senza dubbio da una spada affilata. Al capezzale del paziente c'era il medico più esperto del monastero, frate Joseph. Aveva già superato la trentina ed era un uomo minuto, con un grande naso e denti guasti. «La ferita dovrebbe essere tenuta aperta e curata con un unguento per farla spurgare» disse. «Così verranno espulsi gli umori cattivi e la guarigione avverrà dall'interno.» Anthony annuì. «Dunque, dove sta il disaccordo?» «Matthew il barbiere ha un'altra idea.» Matthew era un cerusico della città. Fino a quel momento si era tenuto rispettosamente in disparte, ma a quel punto si avvicinò con la custodia in cuoio che conteneva i suoi costosi e affilati coltelli. Piccolo e magro, aveva occhi azzurri luminosi e un'espressione intensa. Anthony non lo salutò e si rivolse invece a Joseph. «Che ci fa qui?» «Il cavaliere, che lo conosce, l'ha mandato a chiamare.» «Se vuoi essere macellato» chiese allora il priore a Thomas «come mai sei venuto all'ospitale del priorato?» L'ombra di un sorriso comparve per un attimo sul viso cereo del cavaliere, troppo spossato per rispondere. Matthew prese la parola con sorprendente sicurezza, incurante del disprezzo di Anthony. «Ho visto molte ferite del genere sul campo di battaglia, padre priore. La cura migliore è la più semplice: bisogna lavare la ferita con vino caldo, poi cucirla ben stretta e bendarla.» Non era sottomesso come pareva a prima vista. «Mi chiedo se i due giovani monaci hanno un'opinione in proposito» intervenne a quel punto madre Cecilia. Anthony sembrò spazientirsi, ma Godwyn capì che cosa aveva in mente la badessa. Quella era una prova, e forse era proprio Saul il suo rivale. La risposta era semplice, quindi Godwyn si lanciò per primo. «Frate Joseph ha studiato gli antichi maestri e di sicuro sa quel che dice. Immagino che Matthew non sappia neppure leggere.» «Non è così, frate Godwyn» protestò Matthew. «Ho anche un libro.» Anthony si mise a ridere. L'idea di un barbiere con un libro era assurda quanto quella di un cavallo con il cappello. «Quale libro?» «Il Canone di Avicenna, il grande medico islamico. Tradotto dall'arabo in latino. L'ho letto tutto, pian piano.»
«E la tua cura è consigliata da Avicenna?» «No, ma...» «Be', allora...» Matthew insistette. «Comunque ho imparato di più viaggiando con gli eserciti e curando i feriti che da quel libro.» «Saul, tu cosa ne pensi?» domandò madre Cecilia. Godwyn si aspettava che Saul desse la sua stessa risposta, per cui la questione sarebbe rimasta aperta, e invece, anche se intimidito e nervoso, lo contraddisse. «Il barbiere può avere ragione» affermò. Godwyn era felicissimo. Saul aveva preso le parti della persona sbagliata. «La cura proposta da padre Joseph potrebbe essere più adatta per ferite da compressione o martellate, quelle che si riportano nei cantieri, in cui la pelle e la carne attorno al taglio si presentano frastagliate, e allora accostare prematuramente la ferita potrebbe sigillare dentro il corpo gli umori cattivi; ma questo è un taglio netto, prima lo si chiude prima guarisce.» «Sciocchezze» sentenziò il priore. «Com'è possibile che un barbiere di città ne sappia più di un monaco istruito?» Godwyn sfoderò un sorriso di trionfo. La porta si spalancò ed entrò un giovane in abito talare. Godwyn riconobbe Richard di Shiring, il minore dei due figli del conte Roland. Il lieve cenno del capo al priore e alla badessa fu talmente frettoloso da risultare scortese. Andò dritto al capezzale per parlare al cavaliere. «Cosa diavolo è successo?» Thomas sollevò la mano indebolita e gli fece segno di avvicinarsi. Il giovane prete si chinò sul paziente e il cavaliere gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Padre Richard si allontanò sconvolto. «Assolutamente no!» disse. Thomas gli fece un altro cenno, e la scena si ripeté: altre parole sussurrate, altra reazione indignata. Questa volta, Richard domandò: «Ma perché?». Il cavaliere non rispose. «Mi chiedi una cosa che non è in nostro potere concedere» disse il prete. Thomas annuì con decisione. «Non ci lasci scelta.» Thomas scosse lentamente la testa. Richard si rivolse quindi al priore. «Sir Thomas desidera diventare frate del priorato.» Seguì un istante di silenzio colmo di stupore. Madre Cecilia fu la prima
a reagire. «Ma è un uomo di guerra!» «Andiamo, non è la prima volta che un combattente decide di abbandonare una vita di violenza per chiedere il perdono dei suoi peccati» ribatté Richard con impazienza. «Da vecchio, forse» replicò madre Cecilia. «Ma quest'uomo avrà al massimo venticinque anni. Sta fuggendo da qualche pericolo.» Guardò Richard con espressione dura. «Chi minaccia la sua vita?» «Frenate la vostra curiosità» le ordinò seccamente Richard. «Vuole farsi frate, non suora, quindi non è il caso che facciate ulteriori domande.» Era oltraggioso parlare in quel modo a una badessa, ma ai figli dei conti spesso si perdonava l'impudenza. Si rivolse a Anthony. «Dovete accettarlo.» «Il priorato è troppo povero per accettare altri frati, a meno che non venga fatta una donazione consistente per pagare i costi...» «Questo è un problema che si può risolvere.» «Dovrebbe essere adeguata ai bisogni...» «Si può risolvere!» «Molto bene.» Cecilia era diffidente. «Sapete qualcosa di quest'uomo che non mi avete detto?» chiese al priore. «Non vedo ragione di respingerlo.» «Che cosa vi fa pensare che sia sinceramente pentito?» Tutti gli sguardi si concentrarono su Thomas, che teneva gli occhi chiusi. «Dovrà dimostrare la sua buona fede durante il noviziato, come chiunque altro» affermò Anthony. Era evidente che madre Cecilia non era soddisfatta, ma aveva le mani legate perché per una volta Anthony non chiedeva a lei del denaro. «Meglio curargli la ferita» disse. «Ma ha rifiutato le cure di frate Joseph» spiegò Saul. «Per questo abbiamo dovuto chiamare il padre priore.» Anthony si chinò sul paziente. Ad alta voce, come se parlasse a un sordo, disse: «Devi sottoporti alle cure prescritte da frate Joseph. Lui sa il fatto suo». Thomas sembrava aver perso conoscenza. «Non fa più obiezioni» comunicò il priore a Joseph. «Ma potrebbe perdere il braccio!» esclamò Matthew il barbiere. «Meglio che tu te ne vada» fu la secca risposta del priore. Matthew si allontanò con aria adirata.
Anthony rivolse un invito a Richard. «Perché non venite nella casa del priore per una coppa di sidro?» «Grazie.» Prima di uscire, Anthony si rivolse a Godwyn. «Tu resta qui e aiuta la madre badessa. Prima dei vespri vieni a darmi notizie del cavaliere.» Di solito il priore non si preoccupava dei progressi dei singoli pazienti, ma evidentemente nutriva per quello un particolare interesse. Godwyn osservò frate Joseph applicare un unguento sul braccio del cavaliere privo di sensi. Pensò di essersi assicurato il sostegno economico di madre Cecilia dando la risposta giusta alla sua domanda, ma era ansioso di ottenere un esplicito consenso. Quando frate Joseph ebbe terminato, mentre Cecilia umettava la fronte di Thomas con acqua di rosa, Godwyn si decise a parlare. «Mi auguro che consideriate con favore la mia richiesta.» Lei gli lanciò un'occhiata severa. «Tanto vale che ti dica subito che ho deciso di dare il denaro a Saul.» Godwyn rimase sgomento. «Ma io ho dato la risposta giusta!» «Ah, sì?» «Di certo non penserete che abbia ragione il barbiere!» Lei sollevò le sopracciglia. «Non accetto di essere interrogata da te, frate Godwyn.» «Chiedo scusa, ma proprio non capisco.» «Lo so.» Se aveva deciso di fare la misteriosa, non valeva la pena di insistere. Godwyn si voltò, fremente di frustrazione e disappunto. Dava il denaro a Saul! Era forse per via della sua parentela con il conte? Gli parve improbabile: madre Cecilia aveva uno spirito molto indipendente. Decise che era stata l'esibizione di misericordia di Saul a far pendere l'ago della bilancia dalla sua parte. Tuttavia, Saul non sarebbe mai stato un capo. Che spreco. Godwyn si chiese come avrebbe fatto a rivelare la notizia alla madre. Si sarebbe infuriata, e a chi avrebbe dato la colpa? A Anthony? A lui? Un familiare senso di terrore lo pervase nell'immaginare la collera materna. Mentre pensava a lei, la vide entrare, alta e prosperosa, dalla porta in fondo all'ospitale. I loro sguardi si incrociarono e lei rimase sulla soglia, in attesa che il figlio le andasse incontro. Godwyn avanzò lentamente, pensando a che cosa dire. «Tua zia Rose sta morendo» lo informò Petranilla non appena lui le fu vicino. «Possa Dio benedire la sua anima. Madre Cecilia mi aveva avvertito.»
«Sembri sconvolto, eppure sapevi quanto stava male.» «Non è per la zia Rose. Ho un'altra brutta notizia.» Deglutì. «Non posso andare a Oxford. Zio Anthony non è disposto a pagare per me, e neppure madre Cecilia.» Lei non esplose immediatamente, con grande sollievo di Godwyn. Tuttavia, serrò la bocca in una smorfia di disappunto. «Ma perché?» «Lui non ha i soldi, e lei preferisce mandarci Saul.» «Saul Testabianca? Non combinerà mai nulla.» «Be', però diventerà medico.» Petranilla lo fissò negli occhi e Godwyn si fece piccolo piccolo. «Secondo me hai gestito male la questione» affermò lei. «Avresti dovuto discuterne prima con me.» Godwyn aveva temuto che lei prendesse quella posizione. «Come puoi dire che l'ho gestita male?» protestò. «Dovevi lasciare che ne parlassi prima io con Anthony. L'avrei ammorbidito.» «Avrebbe risposto di no comunque.» «E prima di rivolgerti a Cecilia avresti fatto meglio a scoprire se qualcun altro le aveva avanzato la stessa richiesta. Così avresti potuto far desistere Saul prima di parlarle.» «In che modo?» «Ha di sicuro qualche debolezza. Una volta scoperta, avresti fatto in modo di portarla all'attenzione di Cecilia. Poi, approfittando della sua delusione, le avresti presentato la tua proposta.» Godwyn si accorse che il ragionamento filava. «Non ci avevo pensato» ammise, chinando la testa. Controllando la rabbia, lei aggiunse: «Bisogna prepararle queste cose, come un conte prepara le battaglie». «Ora capisco.» Evitò di guardarla negli occhi. «Non ripeterò mai più lo stesso errore.» «Lo spero.» «Che cosa faccio, adesso?» «Io non ho intenzione di rinunciare.» Il viso di Petranilla assunse la consueta espressione determinata. «Lo procurerò io, il denaro.» Godwyn sentì crescere in sé la speranza, pur non capendo come la madre avrebbe potuto mantenere quella promessa. «Dove lo prenderai?» «Venderò la mia casa e mi trasferirò da Edmund.» «E lui sarà d'accordo?» Edmund era un uomo generoso, ma a volte si
scontrava con la sorella. «Penso di sì. Presto rimarrà vedovo e avrà bisogno di una governante. Non è che Rose fosse tanto abile in quel ruolo.» Godwyn scosse la testa. «Ti servirà comunque del denaro.» «Per cosa? Edmund mi darà da mangiare e da dormire, e pagherà le poche cose che mi sono necessarie. In cambio, io dirigerò la servitù e crescerò le sue figlie. E tu avrai il denaro che io ho ereditato da tuo padre.» Il tono era fermo, ma Godwyn leggeva un amaro rimpianto nella smorfia sulla sua bocca. Sapeva che sarebbe stato un grosso sacrificio per lei, orgogliosa com'era della propria indipendenza. Era una delle donne più in vista della città, figlia di un uomo ricco e sorella del più importante mercante di lana, e tutto questo per lei contava molto. Le piaceva invitare a pranzo i potenti di Kingsbridge e offrire il vino migliore. E in quel momento stava suggerendo la possibilità di trasferirsi dal fratello per vivere come una parente povera, lavorare come una serva e dipendere da lui in tutto e per tutto. Sarebbe stato terribilmente umiliante. «È un sacrificio troppo grande. Non puoi farlo.» Il viso di lei divenne duro. Scrollò lievemente le spalle, come se si preparasse a sobbarcarsi un pesante fardello. «Certo che posso» dichiarò. 5 Gwenda raccontò tutto al padre. Aveva giurato sul sangue di Gesù di mantenere il segreto, e così sarebbe finita all'inferno, ma temeva suo padre molto più dell'inferno. Quando lui le aveva chiesto dove avesse preso Skip, il suo nuovo cucciolo, Gwenda era stata costretta a spiegargli che Hop era morto, e così era saltata fuori tutta la storia. Con sua grande sorpresa, il padre non la frustò, anzi, parve compiaciuto. Le chiese di condurlo nella radura dove i due uomini erano stati uccisi. Non fu facile ritrovare il posto, ma lei riuscì ad arrivarci e lì rinvennero i corpi dei due soldati nelle livree verdi e gialle. Prima il padre aprì le loro borse: contenevano venti o trenta penny ciascuna. Fu ancora più contento quando vide le spade, che valevano molto più di qualche penny. Prese a spogliare i cadaveri, ma aveva qualche difficoltà a farlo con una mano sola, quindi ordinò a Gwenda di aiutarlo. I corpi senza vita erano pesantissimi, strani da toccare. Il padre le disse di togliere tutti gli indumenti, anche le brache infangate e i luridi mutandoni,
poi vi avvolse le armi, in modo che l'involto sembrasse un fagotto di stracci. Dopodiché, insieme a Gwenda, trascinò i corpi nudi tra i cespugli sempreverdi. Era di ottimo umore quando rientrarono a Kingsbridge. Portò la figlia in fosso dei Macelli, una strada vicino al fiume, in una grande e sudicia locanda chiamata Cavallo Bianco. Le offrì una coppa di birra chiara mentre lui scompariva nel retro del locale con il taverniere, che chiamava "giovane Davey". Era la seconda volta, quel giorno, che Gwenda beveva birra. Il padre riapparve pochi minuti dopo senza il fagotto. Tornati sulla strada principale incontrarono la mamma, Philemon e il piccolino alla locanda Bell, accanto ai cancelli del priorato. Il padre ammiccò in modo evidente nel porgere alla mamma una grossa manciata di monete da nascondere tra le coperte del piccolo. Era pomeriggio inoltrato e i pellegrini erano per la maggior parte tornati ai loro villaggi. Ormai era tardi per raggiungere Wigleigh, quindi la famiglia avrebbe passato la notte alla locanda. Come il padre continuava a ribadire, a quel punto potevano permetterselo. La mamma, però, non era d'accordo. «Non far sapere in giro che adesso hai dei soldi!» Gwenda era molto stanca. Si era alzata presto e aveva camminato per tutto il giorno. Si allungò su una panca e ben presto si addormentò. Fu svegliata dal fracasso della porta che veniva spalancata con furia. Aprì gli occhi, spaventata, e vide entrare due armigeri. Per un attimo pensò con terrore che fossero i fantasmi degli uomini uccisi nella foresta, ma poi si rese conto che erano diversi, pur indossando la stessa livrea, mezzo gialla e mezzo verde. Il più giovane reggeva in mano un fardello di stracci dall'aria familiare. Il più anziano si rivolse al padre. «Tu sei Joby di Wigleigh, giusto?» Gwenda fu intimorita dal tono minaccioso. Il soldato non si dava arie, ma appariva determinato, disposto a tutto pur di ottenere quel che voleva. «No» mentì il padre. «State sbagliando persona.» Lo ignorarono. Il secondo uomo posò il fagotto sul tavolo e lo aprì. Dentro c'erano due livree gialle e verdi avvolte intorno a due spade e due pugnali. «Da dove vengono questi?» chiese. «Non li ho mai visti prima, lo giuro sulla croce.» Era stupido negarlo, pensò Gwenda terrorizzata: gli avrebbero estorto la verità, come lui aveva fatto con lei. Il più vecchio degli armigeri disse: «Davey, il padrone del Cavallo Bian-
co, sostiene di averli comprati da Joby di Wigleigh». Il tono si era fatto duro e i pochi altri avventori presenti si alzarono per sgattaiolare fuori, lasciando sola la famiglia di Gwenda. «Joby se n'è andato poco fa» arrischiò il padre, disperato. L'uomo annuì. «Già, con la moglie, due bambini e un neonato.» «Sì.» La reazione dell'armigero fu rapida e improvvisa. Afferrò con forza il padre per la tunica e lo spinse contro il muro. La madre si mise a urlare e il piccolino scoppiò in lacrime. Gwenda notò che il soldato aveva la mano destra coperta da un guanto imbottito rivestito di maglia di ferro. L'uomo ritrasse il braccio, poi colpì con forza il padre allo stomaco. «Aiuto! Assassinio!» strillò la mamma. Philemon scoppiò a piangere. Il padre, impallidito per il dolore, si accasciò, ma l'altro lo tenne contro il muro per impedirgli di cadere e gli assestò un pugno in faccia, facendogli sanguinare naso e bocca. Gwenda voleva gridare, ma non le usciva alcun suono dalla bocca spalancata. Pensava che il padre fosse fortissimo, anche se spesso astutamente si fingeva debole o vile per fare compassione o evitare la collera altrui, e la sgomentava vederlo così impotente. Il locandiere apparve sulla soglia che dava sul retro della casa. Era un tipo grande e grosso sulla trentina. Una bambina paffuta sbirciava alle sue spalle. «Cosa succede?» chiese con voce autoritaria. L'armigero non lo degnò di uno sguardo. «Sta' alla larga» gli intimò, poi sferrò un altro pugno nello stomaco dell'uomo, che vomitò sangue. «Smettila» ordinò il locandiere. «Ma chi ti credi di essere?» «Sono Paul Bell, e questa è casa mia.» «Bene, allora, Paul Bell. Fatti gli affari tuoi, se ci tieni alla pelle.» «Evidentemente credi di poter fare quello che vuoi, con quella livrea addosso.» C'era disprezzo nel suo tono. «Più o meno.» «E di chi è quella livrea, comunque?» «Della regina.» Paul si rivolse alla bambina dietro di lui. «Bessie, corri a chiamare John il conestabile. Se uccidono un uomo nella mia locanda, voglio che lui sia testimone.» La piccola scomparve. «Non verrà ucciso nessuno» disse l'armigero. «Joby ha cambiato idea. Si
è deciso a condurmi nel posto dove ha derubato due morti, vero, Joby?» Il padre annuì, incapace di parlare. Quando l'armigero mollò la presa, lui cadde in ginocchio, tossì e vomitò. L'armigero guardò il resto della famiglia. «E il bambino che ha assistito allo scontro...» «No!» urlò Gwenda. Lui annuì soddisfatto. «La piccola con il muso di topo, ovvio.» Gwenda corse dalla madre, che implorò: «Maria, madre di Dio, salva la mia creatura». L'armigero afferrò Gwenda per il braccio e la scostò bruscamente dalla madre. La bambina si mise a gridare. «Piantala con questo fracasso, se non vuoi fare la fine del tuo ignobile padre.» Gwenda strinse i denti per cercare di controllarsi. «Alzati, Joby.» L'armigero fece rialzare il padre. «Rimettiti in sesto, perché adesso ti aspetta una bella cavalcata.» Il secondo soldato raccolse armi e indumenti. Mentre uscivano dalla locanda, la madre gridò, agitata: «Fate tutto quello che vi dicono!». Gli uomini avevano due cavalli. Gwenda salì in sella davanti all'armigero più vecchio, mentre il padre montò davanti all'altro. Joby si lamentava, annichilito, e quindi fu Gwenda a guidarli. Ricordava molto bene la strada, dopo averla percorsa due volte. Avanzarono rapidi, ma quando arrivarono alla radura stava già imbrunendo. L'armigero più giovane tenne a bada Gwenda e il padre, mentre il capo estraeva dai cespugli i corpi dei compagni. «Quel Thomas deve combattere come un diavolo se è riuscito a uccidere Harry e Alfred insieme» disse il più vecchio guardando i cadaveri. Gwenda si rese conto che non sapevano degli altri bambini. Voleva confessare che non era sola, che Ralph aveva ammazzato uno dei due, ma era troppo terrorizzata per parlare. «Ha quasi mozzato la testa ad Alfred» continuò l'uomo. Poi si voltò verso Gwenda. «Ha per caso parlato di una lettera?» «Non lo so!» esclamò lei, ritrovando la voce. «Tenevo gli occhi chiusi perché avevo paura, e non sentivo di cosa parlavano! È vero! Ve lo direi se lo sapessi.» «Comunque, anche se sono riusciti a strappargli la lettera, lui se l'è di sicuro ripresa dopo averli uccisi» disse l'uomo al compagno. Osservò gli alberi intorno alla radura, come se la lettera potesse essere appesa tra le foglie morenti. «È probabile che ora l'abbia con sé al priorato, dove non pos-
siamo raggiungerlo senza violare la sacralità del monastero.» «Quanto meno possiamo riferire esattamente quel che è successo» disse l'altro «e riportare i corpi a casa perché ricevano una sepoltura cristiana.» Ci fu un trambusto improvviso. Il padre si liberò dalla presa e attraversò di volata la radura. L'armigero che l'aveva in consegna partì subito all'inseguimento, ma fu fermato dal più anziano. «Lascialo andare. A che serve ucciderlo, adesso?» Gwenda si mise a piangere. «E la bambina?» chiese il giovane. L'avrebbero ammazzata, Gwenda ne era sicura. Non vedeva niente fra le lacrime, e singhiozzava troppo forte per implorare che la risparmiassero. Sarebbe morta e bruciata all'inferno. Aspettò la fine. «Lasciala libera» disse il vecchio. «Non sono capace di uccidere le bambine.» Il giovane allentò la stretta, poi le diede uno spintone. Gwenda incespicò e cadde a terra. Dopo essersi rialzata, si sfregò gli occhi per poter vedere e cominciò ad allontanarsi, incerta sulle gambe. «Su, scappa» le gridò dietro l'uomo. «Oggi è il tuo giorno fortunato!» Caris non riusciva a prendere sonno. Si alzò per andare nella camera della madre. Il padre, seduto su uno sgabello, fissava la figura immobile nel letto. La madre teneva gli occhi chiusi e le candele illuminavano il velo di sudore sul suo viso. Respirava a fatica. Caris le prese la mano pallida: era terribilmente fredda. La strinse tra le sue, cercando di scaldarla. «Perché le hanno tolto il sangue?» chiese. «Pensano che a volte la malattia sia causata dalla presenza eccessiva di un umore. Sperano di portarlo via con il sangue.» «Ma non ne ha tratto alcun giovamento.» «No, anzi, sembra peggiorata.» Gli occhi di Caris si riempirono di lacrime. «Perché glielo hai permesso, allora?» «Preti e monaci studiano le opere degli antichi filosofi, e ne sanno più di noi.» «Non ci credo.» «È difficile sapere a cosa credere, piccolo ranuncolo.» «Se io fossi un medico, farei solo le cose che fanno star meglio la gente.»
Il padre non l'ascoltava più. Mentre fissava con attenzione la moglie, si chinò in avanti e infilò la mano sotto la coperta per toccarle il petto all'altezza del seno sinistro. Caris scorse la forma delle grosse dita sotto la lana sottile. Lui emise un debole suono soffocato, poi spostò la mano e la premette con più forza, trattenendola alcuni istanti. Chiuse gli occhi. Sembrò cadere pian piano in avanti, finché si ritrovò in ginocchio di fianco al letto, come se pregasse, con l'ampia fronte appoggiata sulla gamba della moglie, e la mano ancora sul suo petto. Caris comprese che il padre stava piangendo. Era la cosa più terribile che le fosse mai capitata, molto più che vedere uccidere un uomo nella foresta. I bambini piangevano, le donne piangevano, e anche le persone disperate, ma suo padre non piangeva mai. Ebbe la sensazione che le crollasse il mondo addosso. Doveva chiedere aiuto. Lasciò che la mano fredda della mamma sgusciasse fuori dalla sua per ricadere sulla coperta, dove rimase inerte. Tornò in camera e scosse per la spalla la sorella addormentata. «Svegliati, Alice!» Alice non aprì subito gli occhi. «Papà sta piangendo!» disse Caris. Alice scattò a sedere. «Non può essere.» «Alzati!» Alice scese dal letto. Caris prese per mano la sorella maggiore e l'accompagnò nella camera della mamma. Il padre, in piedi, con le guance rigate di lacrime, fissava il viso immobile sul cuscino. Alice lo osservò sconvolta. «Te l'avevo detto» le sussurrò Caris. Dall'altro lato del letto c'era Petranilla. Il padre vide le bambine sulla soglia e lasciò il capezzale della moglie per raggiungerle. Le cinse entrambe con le braccia e le strinse forte a sé. «Vostra madre è andata con gli angeli» mormorò con dolcezza. «Pregate per la sua anima.» «Siate coraggiose, bambine» le esortò Petranilla. «D'ora in avanti, sarò io la vostra mamma.» Caris si asciugò le lacrime e alzò lo sguardo sulla zia. «Oh, no, proprio no» disse. Seconda parte 8-14 GIUGNO 1337
6 La domenica di Pentecoste, l'anno in cui Merthin doveva compiere ventun anni, un mare di pioggia si riversò sulla cattedrale di Kingsbridge. Grossi goccioloni rimbalzavano dal tetto di ardesia, torrenti intasavano gli scolatoi, fontane sgorgavano dalle bocche dei doccioni, cascate d'acqua scendevano dai contrafforti e ruscelli correvano sopra gli archi per riversarsi ai piedi delle colonne, infradiciando le statue dei santi. Il cielo, la grande chiesa e la città circostante apparivano dipinti in diverse sfumature di grigio. La Pentecoste commemorava la discesa dello Spirito Santo sui discepoli di Gesù. Cadeva a maggio o a giugno, la settima domenica dopo la Pasqua, quando quasi tutte le greggi d'Inghilterra erano state tosate, e quindi coincideva sempre con il primo giorno della fiera della lana di Kingsbridge. Merthin dovette attraversare la fiera per dirigersi alla cattedrale per la messa del mattino, il cappuccio calato sulla fronte nel vano tentativo di riparare il viso dalla pioggia battente. Sull'ampio prato a occidente della chiesa centinaia di mercanti avevano allestito i loro banchi, che si erano poi affrettati a coprire con teli di iuta incerata o tessuto feltrato per evitare che si bagnassero. I mercanti di lana erano le figure principali della fiera, frequentata dai piccoli fornitori che raccoglievano la produzione di pochi villaggi sparsi, fino ai grandi rivenditori come Edmund, con un magazzino zeppo di sacchi di lana da offrire. Intorno a loro si accalcavano banchi accessori che proponevano quasi tutto quello che si può comprare con il denaro: vini pregiati di Renania, broccati di seta intessuti d'oro di Lucca, coppe di vetro di Venezia, zenzero e pepe provenienti da lontani luoghi in Oriente di cui pochi conoscevano il nome. E infine c'era chi offriva a visitatori ed espositori ogni sorta di mercanzia: fornai, birrai, pasticcieri, indovini e prostitute. Gli espositori non si lasciavano scoraggiare dalla pioggia: scherzavano tra loro cercando di creare un'atmosfera festosa, pur sapendo che il maltempo avrebbe nuociuto agli affari. Alcuni dovevano assolutamente concludere, con la pioggia o il sole: gli acquirenti italiani e fiamminghi avevano bisogno della morbida lana inglese per non lasciare inattivi migliaia di telai a Firenze e Bruges. Però altri clienti meno motivati sarebbero rimasti a casa: la moglie di un cavaliere avrebbe rinunciato alla noce moscata e alla cannella; una prospera contadina si sarebbe fatta durare il vecchio mantello per un altro inverno; un avvocato avrebbe deciso che in fin dei conti
la sua amante non aveva bisogno di un bracciale d'oro. Merthin non poteva comprare nulla perché non aveva denaro. Era un apprendista non pagato e abitava a casa del suo maestro, Elfric il costruttore. Mangiava a tavola con la famiglia, dormiva sul pavimento di cucina e indossava gli abiti smessi di Elfric, però non riceveva alcun salario. Nelle lunghe sere d'inverno intagliava ingegnosi oggetti che vendeva per pochi penny: uno scrigno per gioielli con comparti segreti, un galletto che tirava fuori la lingua se gli veniva premuta la coda, ma in estate non aveva tempo libero perché gli artigiani lavoravano fino all'imbrunire. Tuttavia l'apprendistato era quasi finito. Nel giro di sei mesi, il primo di dicembre, avrebbe compiuto ventun anni, e lo stesso giorno sarebbe diventato membro a pieno titolo della corporazione dei carpentieri di Kingsbridge. Non ne vedeva l'ora. Le grandi porte occidentali della cattedrale erano spalancate per accogliere le migliaia di cittadini e visitatori accorsi per la messa. Appena entrato, Merthin si scosse via la pioggia dagli abiti. Il pavimento di pietra era reso scivoloso da acqua e fango. Nelle belle giornate l'interno della chiesa era illuminato dai raggi del sole, ma in quel momento era tetro; dai vetri colorati delle finestre non traspariva alcuna luce e i fedeli, con gli abiti fradici e scuri, aspettavano l'inizio della funzione. Dove finiva tutta la pioggia? Non c'erano bacini di raccolta intorno alla chiesa. Migliaia e migliaia di galloni d'acqua inzuppavano il terreno: scendevano sempre più in basso per ricadere come pioggia sull'inferno? No. La cattedrale era costruita su un declivio e l'acqua viaggiava sotto terra, scorrendo sotto la collina da nord a sud. Le fondamenta del grande edificio di pietra erano state progettate in modo da permetterne il deflusso, per evitare un accumulo eccessivo e assai pericoloso. Tutta quella pioggia confluiva quindi nel fiume sul confine meridionale del recinto del priorato. Merthin immaginò di sentire il torrente sotterraneo, e la sua vibrazione martellante trasmessa dalle fondamenta alle piastrelle del pavimento e poi alle piante dei piedi. Un cagnolino nero trotterellò verso di lui, agitando festoso la coda in segno di saluto. «Ehi, Scrap» disse lui, accarezzando la bestiola. Alzò lo sguardo per cercare la padrona, Caris, e si sentì il cuore in gola. La giovane indossava un mantello rosso scarlatto ereditato dalla madre. Era la sola chiazza di colore in tutto quel grigiore. Merthin, felice di vederla, le rivolse un gran sorriso. Era difficile dire che cosa la rendesse tanto attraente. Aveva il viso piccolo e tondo con lineamenti delicati e regolari,
capelli castani e occhi verdi con riflessi dorati. Non era diversa da cento altre ragazze di Kingsbridge, ma aveva un suo modo sbarazzino di portare il cappello, uno sguardo intelligente e ironico e un sorriso malizioso che prometteva vaghe ma allettanti delizie. Il giovane la conosceva da dieci anni, ma solo negli ultimi mesi si era reso conto di amarla. Caris lo trascinò dietro un pilastro e lo baciò sulla bocca, sfiorandogli le labbra con la punta della lingua. Si baciavano ogni volta che se ne presentava l'occasione: in chiesa, nella piazza del mercato, quando si incontravano per strada e - il momento migliore - quando lui andava a trovarla e rimanevano soli in casa. Merthin viveva per quei momenti. Pensava ai suoi baci prima di addormentarsi e non appena si svegliava. Le faceva visita due o tre volte la settimana. Il padre di lei, Edmund, gli dimostrava simpatia, ma non la zia, Petranilla. Edmund, un uomo molto cordiale, lo invitava spesso a restare a cena e Merthin accettava con gratitudine, sapendo che avrebbe mangiato molto meglio che a casa di Elfric. Lui e Caris giocavano a scacchi o a dama, oppure chiacchieravano semplicemente. Gli piaceva molto guardarla mentre raccontava una storia o spiegava qualcosa, tracciando disegni in aria, con espressione divertita o stupita, e interpretando i vari personaggi come in una rappresentazione teatrale. Peraltro, la maggior parte del tempo il giovane aspettava solo il momento per rubarle un bacio. Merthin lanciò un'occhiata intorno a sé nella chiesa: nessuno guardava nella loro direzione. Insinuò la mano dentro il mantello di Caris e la toccò attraverso il morbido lino del vestito. Il corpo era caldo. Le prese un seno, piccolo e tondo, nella mano. Adorava sentire la carne cedevole sotto la pressione delle dita. Non l'aveva mai vista nuda, ma conosceva intimamente il suo seno. Nei suoi sogni si spingevano oltre: erano soli da qualche parte, una radura nei boschi o la grande camera da letto di un castello, entrambi nudi. Ma stranamente il sogno terminava sempre troppo presto, subito prima che lui la penetrasse, e così Merthin si svegliava con un senso di profonda frustrazione. "Un giorno" pensava. "Un giorno." Non avevano ancora parlato di matrimonio. Gli apprendisti non potevano sposarsi, quindi lui avrebbe dovuto aspettare. Caris si era senz'altro chiesta quali progetti il giovane avesse in mente per loro, ma non si era mai spinta a esprimere la propria curiosità. Sembrava contenta di vivere al-
la giornata. E lui nutriva una sorta di timore superstizioso a parlare del loro futuro insieme. Si diceva che i pellegrini non dovevano dedicare troppo tempo a preparare il viaggio, perché prendere in considerazione i tanti possibili pericoli poteva indurli a desistere. Merthin si affrettò a ritirare la mano dal seno di Caris vedendo passare una suora, che in ogni caso non fece caso a loro. Nell'ampio spazio della cattedrale la gente faceva di tutto. L'anno precedente Merthin aveva scorto una coppia impegnata in un atto sessuale contro il muro della navata sud durante la messa della vigilia di Natale. I due erano stati buttati fuori. Si chiese se lui e Caris sarebbero riusciti ad amoreggiare inosservati per tutta la funzione. Ma la ragazza aveva altre idee in mente. «Andiamo davanti» gli disse. Lo prese per mano per guidarlo tra la folla. Lui conosceva molte delle persone presenti, anche se non tutte: Kingsbridge era una delle più grandi città d'Inghilterra, con circa settemila abitanti. Seguì Caris nella crociera, dove i transetti incontravano la navata, e poi fino a una barriera di legno che bloccava l'ingresso all'estrema parte orientale, il presbiterio, riservato al clero. Merthin si trovò accanto a Buonaventura Caroli, il più importante dei mercanti italiani, un uomo massiccio dal mantello di lana spessa elegantemente ricamato. Originario di Firenze, che lui diceva essere la più grande città del mondo cristiano, dieci volte più grande di Kingsbridge, si era poi trasferito a Londra per amministrare i molti affari che legavano la famiglia ai produttori inglesi di lana. I Caroli erano ricchi al punto di prestare denaro ai re, ma Buonaventura era amabile e modesto, anche se correva voce che nelle trattative fosse inflessibile. Caris lo salutò con grande familiarità: Buonaventura, infatti, era ospite a casa sua. L'uomo rivolse a Merthin un cenno amichevole, benché dall'età e dai vestiti dimessi dovesse averlo riconosciuto come un semplice apprendista. Buonaventura stava osservando l'architettura. «Vengo a Kingsbridge da cinque anni» disse, tanto per fare conversazione «ma solo oggi ho notato che le finestre del transetto sono molto più grandi di quelle del resto della chiesa.» Parlava francese, ma ogni tanto vi inframmezzava termini toscani. Merthin non aveva difficoltà a capirlo. Come la maggior parte dei figli dei cavalieri inglesi, era cresciuto parlando il francese dei normanni con i genitori e l'inglese con i coetanei, e comprendeva il significato di molte parole italiane perché alla scuola dei frati aveva imparato il latino. «Posso
spiegarvelo io perché le finestre sono così» disse. Buonaventura inarcò le sopracciglia, sorpreso che un apprendista potesse vantare tale conoscenza. «La chiesa è stata costruita due secoli fa, quando queste strette finestre a ogiva nelle navate e nel presbiterio rappresentavano una straordinaria innovazione architettonica. Poi, cent'anni dopo, il vescovo volle una torre più alta, e al contempo fece ricostruire i transetti, inserendo finestre più grandi che allora erano diventate di moda.» Buonaventura fu molto colpito. «Come fai a saperlo?» «Nella biblioteca del monastero c'è una storia del priorato, il Libro di Timothy, che racconta la costruzione della cattedrale. In gran parte fu scritto all'epoca del grande priore Philip, ma in seguito è stato aggiornato. Io l'ho letto da ragazzo alla scuola dei frati.» Buonaventura studiò a lungo il viso di Merthin, come per imprimerselo nella memoria, poi aggiunse distrattamente: «È uno splendido edificio». «Sono molto diversi in Italia?» Merthin era incuriosito dai paesi lontani; gli piaceva farsi raccontare particolari sulla vita quotidiana e soprattutto sulle caratteristiche dei principi costruttivi. Buonaventura parve pensieroso. «Credo che i principi siano gli stessi ovunque, ma in Inghilterra non ho mai visto una cupola.» «Cos'è?» «Un tetto tondo, come una mezza palla.» Merthin era sbalordito. «Non ne ho mai sentito parlare! Come si fa a costruirla?» Buonaventura si mise a ridere. «Giovanotto, io faccio il mercante di lana. Posso dirti se un vello viene da una pecora delle Cotswolds oppure di Lincoln solo strofinando la lana tra l'indice e il pollice, ma non so neppure come si costruisce un pollaio, figurarsi una cupola.» In quel mentre sopraggiunse Elfric, il maestro di Merthin. Era un uomo ricco e indossava abiti costosi, che però su di lui davano sempre l'impressione di appartenere a qualcun altro. Ignorò Caris e Merthin ma, servile come d'abitudine, fece un profondo inchino a Buonaventura. «È un onore avervi di nuovo nella nostra città, signore» disse. Merthin distolse lo sguardo. «Secondo te, quante lingue esistono?» gli chiese Caris. Diceva sempre cose strampalate. «Cinque» rispose il giovane senza pensare. «No, sul serio. Ci sono l'inglese, il francese e il latino, che fanno tre. Poi
i fiorentini e i veneziani parlano in modo diverso, pur avendo alcuni vocaboli in comune.» «Hai ragione» convenne Merthin, entrando nel gioco. «Sono già cinque. Poi c'è il fiammingo.» Pochi erano in grado di comprendere la lingua dei mercanti che arrivavano a Kingsbridge dalle città manifatturiere delle Fiandre: Ypres, Bruges e Ghent. «E il danese.» «Ma anche gli arabi hanno la loro lingua e, quando scrivono, usano caratteri diversi dai nostri.» «Madre Cecilia mi ha raccontato che i barbari, scozzesi, gallesi, irlandesi e probabilmente altri, hanno le loro lingue che nessuno sa scrivere. E quindi siamo a undici; ma possono anche esserci popoli di cui non conosciamo l'esistenza!» Merthin sorrise. Caris era la sola persona con cui poteva abbandonarsi a quei discorsi. Tra i loro coetanei nessuno comprendeva l'emozione di immaginare popoli sconosciuti e modi di vita diversi. Lei faceva una domanda delle sue: come sarà vivere ai confini del mondo? E se i preti sbagliano riguardo a Dio? Come fai a essere sicuro di non sognare in questo momento? Poi partivano per un viaggio ipotetico, facendo a gara per partorire le idee più stravaganti. Il brusio nella chiesa cessò all'improvviso e Merthin vide che frati e suore stavano prendendo posto. Il maestro del coro, Carlus il cieco, entrò per ultimo. Pur menomato, camminava senza assistenza per la chiesa e per gli edifici monastici muovendosi lento ma con il passo sicuro di chi ci vede, perfettamente a conoscenza di ogni pilastro e di ogni pietra. Intonò una nota con la sua forte voce baritonale e il coro attaccò un inno. Merthin era alquanto critico nei confronti del clero: spesso i religiosi godevano di un potere eccessivo rispetto alla loro cultura, un po' come il suo capo, Elfric. Però gli piaceva andare in chiesa. Le funzioni inducevano in lui una sorta di estasi. La musica, l'architettura e la magia dei canti in latino lo incantavano, dandogli l'impressione di sognare a occhi aperti. Ancora una volta ebbe la strana sensazione di sentire un torrente di acqua piovana scorrere sotto i suoi piedi. Lasciò vagare lo sguardo sui tre livelli della navata: colonnato, galleria e cleristorio. Sapeva che le colonne erano formate da pietre sovrapposte, ma davano un'impressione diversa, almeno a prima vista. I blocchi di pietra erano stati intagliati in modo che ogni colonna sembrasse formata da un fascio di fusti. Il giovane percorse con gli occhi uno dei quattro gigante-
schi pilastri angolari della crociera, dall'enorme base quadrata su cui poggiava fin dove la lesena si estendeva verso nord tracciando un arco sulla navata laterale, poi su al livello della tribuna, dove un'altra lesena proseguiva verso ovest a formare l'arcata della galleria, e poi ancora più in alto dove si dipartiva l'arco del cleristorio finché le ultime lesene si separavano, come un mazzo di fiori, per formare le costole curve dell'altissima volta sovrastante. Dalla nervatura centrale al punto più alto della volta, seguì la costola in discesa fino al pilastro corrispondente all'angolo opposto della crociera. Mentre Merthin era concentrato, accadde qualcosa di strano. Ebbe l'impressione che la vista gli si offuscasse e la parte orientale del transetto si muovesse. Poi ci furono un rumore sordo, quasi impercettibile all'inizio, e un tremito sotto i piedi, come se nelle vicinanze fosse caduto un albero. I cantori esitarono. Sulla parete sud del presbiterio, accanto al pilastro che Merthin aveva a lungo osservato, comparve una crepa. Il giovane si voltò verso Caris. Con la coda dell'occhio vide dei calcinacci cadere sul coro e nella crociera. Poi vi fu soltanto rumore: grida di uomini e di donne e l'assordante fragore di enormi massi che finivano a terra. Fu un momento interminabile. Quando calò il silenzio, Merthin si ritrovò premuto contro Caris, il braccio sinistro a cingerle le spalle, il destro a proteggerle la testa, il proprio corpo a farle scudo dal crollo della grande chiesa. Era un miracolo che non ci fossero state vittime. Il danno più grave riguardava la navata sud del presbiterio, che durante la funzione era rimasto completamente vuoto. I fedeli non erano ammessi in quella zona e il clero era tutto raccolto nella parte centrale, il coro. Parecchi monaci se l'erano cavata per un soffio, e ciò non fece che alimentare i discorsi sui miracoli, mentre altri, colpiti da schegge di pietra, avevano riportato brutti tagli ed ecchimosi. Tra i devoti vi fu solo qualche ferito leggero. Evidentemente erano stati tutti protetti dall'alto da sant'Adolfo, le cui ossa erano custodite sotto l'altare maggiore, al quale si attribuivano molte guarigioni e salvataggi di vite umane. Tuttavia, fu opinione comune che Dio avesse mandato un avvertimento alla gente di Kingsbridge. Ma non era chiaro da cosa li volesse mettere in guardia. Un'ora più tardi quattro uomini ispezionarono i danni. Frate Godwyn, il cugino di Caris, era il sacrista, responsabile della chiesa e di tutti i suoi te-
sori. Suo sottoposto in funzione di matricularius, incaricato di sovrintendere alle opere di costruzione e di riparazione, era frate Thomas, che dieci anni prima si chiamava sir Thomas Langley. Elfric, addestrato come carpentiere ma in realtà con funzioni di costruttore, aveva un contratto per la manutenzione della cattedrale. Merthin era apprendista di Elfric. La parte orientale della chiesa era divisa da pilastri in quattro sezioni, chiamate campate. Il crollo aveva coinvolto le due campate più vicine alla crociera. La volta di pietra sovrastante la navata sud era stata completamente distrutta a livello della prima campata e in parte della seconda. La galleria presentava alcune crepe, e dalle finestre del cleristorio erano caduti dei montanti di pietra. «Una fragilità della calcina ha provocato lo sbriciolamento della volta, che di conseguenza ha causato le crepe ai livelli superiori» spiegò Elfric. Merthin non la pensava così, ma non aveva una spiegazione alternativa. Detestava il suo maestro. Prima il giovane era stato apprendista del padre di Elfric, Joachim, un costruttore di grande esperienza che aveva lavorato a chiese e ponti di Londra e Parigi. L'anziano provava un gran gusto a spiegare a Merthin le tecniche dei mastri progettisti, quelli che venivano chiamati i loro "misteri", per lo più formule aritmetiche, come il rapporto fra l'altezza di un edificio e la profondità delle fondamenta. A Merthin piacevano molto i numeri e assimilava avidamente gli insegnamenti di Joachim. Ma, dalla morte di Joachim, era stato Elfric a prenderne il posto. Secondo lui, la prima cosa che un apprendista doveva imparare era l'obbedienza. Merthin trovava difficile accettarlo, così Elfric lo puniva lesinandogli il cibo e gli indumenti e costringendolo a lavorare all'aperto nelle giornate più gelide. A peggiorare le cose, Griselda, la figlia grassottella di Elfric, coetanea di Merthin, mangiava invece molto bene e disponeva di abiti caldi. Tre anni prima, alla morte della moglie, Elfric si era risposato con Alice, la sorella maggiore di Caris. La gente pensava che fosse lei la più carina delle due, e in effetti aveva lineamenti più regolari, tuttavia le mancavano i modi accattivanti di Caris, e Merthin la giudicava ottusa. Alice gli aveva sempre dimostrato simpatia proprio come Caris, e così lui aveva sperato che questo inducesse Elfric a trattarlo un po' meglio, invece era accaduto esattamente il contrario: Alice sembrava convinta che fosse suo dovere di moglie unirsi a Elfric per tormentarlo. Merthin sapeva che molti altri apprendisti soffrivano al par suo, ma sopportavano in silenzio perché l'apprendistato era l'unica strada per conqui-
stare un lavoro ben remunerato. Le corporazioni degli artigiani tenevano lontani i lavoratori in proprio. Nessuno poteva trovare un'occupazione in città se non apparteneva a una corporazione. Perfino i preti, i monaci e le donne che volevano commerciare lana o produrre birra per venderla dovevano entrare in una corporazione. E fuori dalle città le occasioni di lavoro erano ben poche, perché i contadini si costruivano le case e si cucivano le camicie da soli. Alla fine dell'apprendistato, molti giovani rimanevano con il maestro come operai a giornata salariati. Alcuni finivano per diventare soci, per poi subentrare alla guida dell'impresa alla morte del principale. Ma non sarebbe stato quello il destino di Merthin, che odiava troppo Elfric. Aveva intenzione di andarsene il prima possibile. «Diamo un'occhiata dall'alto» propose Godwyn. I quattro si incamminarono verso la parte orientale. «Mi fa piacere che tu sia tornato qui dopo Oxford, frate Godwyn» disse Elfric. «Anche se deve mancarti molto la compagnia di tutti quei dotti.» Godwyn annuì. «I maestri sono davvero eccezionali.» «E anche gli altri studenti; immagino siano giovani molto in gamba. Sebbene abbia sentito parlare di cattivi comportamenti.» Godwyn parve afflitto. «Temo che alcune di queste dicerie siano vere. Quando un giovane prete o frate è lontano da casa per la prima volta, è facile che cada in tentazione.» «Eppure... qui a Kingsbridge siamo molto fortunati a poter trarre beneficio dalla presenza di uomini che hanno studiato all'università.» «Sei molto gentile.» «È quello che penso.» Merthin avrebbe voluto dirgli: "Taci, per l'amor del cielo". Ma quello era lo stile di Elfric, un povero artigiano, impreciso nel lavoro e poco perspicace, molto abile a ingraziarsi quelli da cui voleva qualcosa e arrogante con chi non aveva nulla da offrirgli. Godwyn, però, lo stupiva davvero. Com'era possibile che un uomo intelligente e colto si lasciasse ingannare così da Elfric? Forse le sue lusinghe risultavano meno ovvie alle persone che erano oggetto di adulazione. Godwyn aprì una porticina che conduceva a una stretta scala a chiocciola nascosta nel muro. Merthin fu preso dall'eccitazione: adorava addentrarsi nei passaggi segreti della cattedrale e, incuriosito da quel crollo drammatico, era ansioso di scoprirne le cause. Le navate laterali erano strutture a un solo piano che sporgevano da en-
trambi i lati del corpo principale della chiesa. Avevano soffitti di pietra dalle volte innervate. Al di sopra della volta, un tetto inclinato digradava dalla base del cleristorio fino al margine esterno della navata. Sotto il tetto spiovente vi era uno spazio vuoto di forma triangolare, il cui pavimento era il lato nascosto, o estradosso, del soffitto a volta. Fu lì che i quattro salirono per studiare il danno dall'alto. L'unica luce proveniva dalle aperture delle finestre affacciate sull'interno della chiesa, ma Thomas aveva avuto il buonsenso di portare un lume a olio. La prima cosa che Merthin notò fu che le volte, viste da lassù, non erano esattamente uguali in ogni campata. La più orientale formava una curva lievemente meno accentuata della vicina, e quella successiva, in parte distrutta, sembrava ancora differente. Avanzarono lungo l'estradosso, tenendosi vicini al bordo, dove la volta era più solida, e si avvicinarono alla parte crollata fin dove il coraggio glielo permise. La volta era costruita come il resto della chiesa, con grosse pietre fissate con calcina, tranne quelle del soffitto, molto sottili e leggere. Nella parte iniziale la volta era quasi verticale, ma poi si curvava all'interno fino a incontrare la struttura in pietra che si innalzava dal lato opposto. «Bene, la prima cosa da fare è ricostruire le volte sopra le prime due campate della navata» osservò Elfric. «È passato molto tempo da quando qui a Kingsbridge qualcuno ha costruito volte innervate» ribatté Thomas. Poi, rivolto a Merthin, aggiunse: «Tu saresti in grado di fare le casseforme?». Merthin sapeva a che cosa si riferiva. All'estremità inferiore della volta, dove la parte in muratura era quasi verticale, le pietre rimanevano al loro posto grazie al peso, ma alla sommità, nel punto in cui la curva diventava quasi orizzontale, era necessario un sostegno per puntellare la struttura mentre la calcina asciugava. Il metodo più usato era costruire un'armatura in legno, chiamata appunto cassaforma o centina, al di sopra della quale venivano posate le pietre. Era un lavoro complesso per un carpentiere, perché le curve dovevano essere precise. Thomas conosceva bene la grande abilità di Merthin, in quanto da parecchi anni seguiva con attenzione il lavoro che faceva per Elfric nella cattedrale. Tuttavia, fu poco diplomatico da parte sua rivolgersi all'apprendista anziché al capo, e la reazione di Elfric non si fece attendere. «Sotto la mia supervisione può farlo, sì» disse. «Sono capace di costruire le casseforme» dichiarò Merthin, già immaginando la struttura sostenuta dall'impalcatura e il tavolato su cui avrebbero
dovuto lavorare i muratori. «Ma queste volte non sono state realizzate con quel sistema.» «Non dire sciocchezze, ragazzo» lo zittì Elfric. «Certo che sì. Tu non ne sai un bel niente.» Non era saggio discutere con il suo datore di lavoro, Merthin lo sapeva bene; d'altra parte, nel giro di sei mesi sarebbe stato in concorrenza con lui e avrebbe avuto bisogno che persone come frate Godwyn si fidassero della sua competenza. Inoltre, era stato punto sul vivo dal tono sprezzante di Elfric e provava l'irresistibile desiderio di dimostrare che il suo maestro sbagliava. «Guardate l'estradosso» disse risentito. «Terminata una campata, se i muratori avessero usato la stessa cassaforma per la successiva, ogni volta presenterebbe un'identica curvatura. Invece sono tutte diverse.» «È chiaro che non riutilizzavano la stessa» replicò Elfric irritato. «Perché mai?» insistette Merthin. «Di sicuro volevano risparmiare il legno, per non parlare dei salari ai carpentieri qualificati.» «Comunque, è impossibile costruire una volta senza la cassaforma.» «Non è vero. Un metodo c'è...» «Basta così. Tu sei qui per imparare, non per insegnare.» Godwyn si intromise. «Un attimo, Elfric. Se il ragazzo ha ragione, il priorato potrebbe risparmiare un sacco di denaro.» Guardò Merthin. «Cosa stavi per dire?» Merthin quasi rimpianse di aver sollevato l'argomento. L'avrebbe scontata duramente, più tardi. Ma ormai non poteva più tirarsi indietro, per non dare l'impressione di aver parlato a vanvera. «È un metodo descritto in un libro che si trova nella biblioteca del monastero, ed è molto semplice» disse. «Si posa una pietra, e sopra vi si avvolge una corda. Un capo della corda viene fissato al muro, l'altro appesantito da un blocco di legno. La corda forma un angolo retto col bordo inferiore della pietra, e le impedisce di scivolare via dal sottostante strato di calcina e cadere a terra.» Nel momento di silenzio che seguì, tutti si concentrarono per visualizzare la tecnica. «Potrebbe funzionare» commentò Thomas. Elfric pareva furibondo. Godwyn mostrò interesse. «Di che libro si tratta?» «Si chiama il Libro di Timothy» rispose Merthin. «So che esiste, ma non l'ho mai studiato. Meglio che provveda a farlo.» Godwyn si rivolse agli altri. «Abbiamo visto abbastanza?» Elfric e Thomas annuirono. Mentre i quattro lasciavano lo spazio sotto il tetto, Elfric bisbigliò a Merthin: «Ti rendi conto che con le tue chiacchiere
ti sei bruciato parecchie settimane di lavoro? Scommetto che non ti comporterai così quando sarai in proprio». Elfric aveva ragione: dimostrando l'inutilità delle casseforme, si era bruciato un'opportunità. Ma c'era qualcosa di profondamente sbagliato nell'atteggiamento del suo capo; era ingiusto far spendere agli altri più del necessario solo per conservarsi il lavoro. Merthin non voleva guadagnarsi da vivere ingannando la gente. Mentre scendevano la scala a chiocciola che conduceva al presbiterio, Elfric si rivolse a Godwyn. «Vengo domani a mostrarti il preventivo.» «Ottimo.» «Tu resta qui a contare quante pietre ci sono in una volta» disse Elfric a Merthin. «Mi darai la risposta a casa.» «D'accordo.» Elfric e Godwyn si allontanarono, ma Thomas indugiava. «Ti ho messo nei guai» disse. «Hai solo cercato di incoraggiarmi.» Il frate si strinse nelle spalle e con il braccio destro fece un gesto rassegnato. Il sinistro gli era stato amputato all'altezza del gomito dieci anni prima, quando si era infettata la ferita riportata nello scontro a cui Merthin aveva assistito. Merthin ripensava di rado a quella scena nella foresta e ormai si era abituato a vedere Thomas vestito da frate, ma in quel momento gli venne in mente tutto: gli armigeri, i bambini nascosti nella boscaglia, l'arco e le frecce, la lettera sotterrata. Thomas era sempre gentile nei suoi confronti, forse per ciò che era accaduto quel giorno. «Non ho parlato a nessuno della lettera» disse a bassa voce. «Lo so. Se l'avessi fatto, saresti già morto.» Le grandi città erano in genere governate dalla corporazione mercantile, l'associazione dei cittadini più eminenti. Da questa dipendevano numerose corporazioni degli artigiani, ognuna relativa a un particolare settore di attività: muratori, carpentieri, conciatori di pelli, tessitori, sarti. Poi c'erano le corporazioni parrocchiali, piccoli gruppi raccolti intorno alla chiesa locale, nati allo scopo di racimolare denaro per i paramenti dei preti e gli arredi sacri e per sostenere vedove e orfani. Le città cattedrali erano particolari. Kingsbridge, come St Albans e Bury St Edmunds, era amministrata dal monastero, che possedeva quasi tutte le terre all'interno della città e nei dintorni. I priori avevano sempre negato il
permesso alla costituzione di una corporazione mercantile. Tuttavia, gli artigiani e i commercianti più importanti appartenevano alla corporazione parrocchiale di sant'Adolfo; senza dubbio, nel lontano passato l'istituzione era sorta per opera di un gruppo di devoti con l'intento di raccogliere denaro per la cattedrale, ma ormai era divenuta la più importante associazione cittadina. Stabiliva regole per la conduzione degli affari ed eleggeva un castaldo e sei consiglieri che avevano il compito di farle rispettare. Nel Palazzo delle corporazioni venivano conservate le unità di misura che stabilivano il peso ufficiale di un sacco di lana, l'ampiezza di una pezza di tessuto e il volume di uno staio da usare in tutte le attività commerciali di Kingsbridge. Peraltro, i mercanti non potevano istruire processi e amministrare la giustizia come facevano invece nelle città autonome, perché il priore di Kingsbridge arrogava a sé tali poteri. Per il pomeriggio di Pentecoste la corporazione parrocchiale aveva organizzato un banchetto nel proprio palazzo per i più importanti compratori venuti da fuori. Il castaldo era Edmund il lanaiolo e Caris era andata con lui per accogliere gli ospiti, quindi Merthin doveva fare a meno della sua compagnia. Per fortuna anche Elfric e Alice partecipavano al banchetto, così Merthin poté restarsene in cucina ad ascoltare la pioggia e a riflettere. Non faceva freddo, ma c'era un piccolo fuoco per cucinare, e quel rosso bagliore lo rallegrava. Sentì Griselda, la figlia di Elfric, muoversi al piano di sopra. La casa era bella, benché meno spaziosa di quella di Edmund, con una sala e la cucina al pianterreno. La scala conduceva a un pianerottolo, dove dormiva Griselda, su cui si affacciava la camera da letto chiusa per il padrone e la moglie. Merthin dormiva in cucina. In passato, tre o quattro anni prima, Merthin di notte era stato tormentato dalla fantasia di salire la scala e scivolare sotto le coperte accanto al corpo caldo e formoso di Griselda. Ma lei si considerava superiore, lo trattava come un servo e non gli aveva mai dato il minimo incoraggiamento. Seduto su una panca, Merthin fissò il fuoco e cercò di visualizzare l'impalcatura che avrebbe costruito per i muratori impegnati nel rifacimento delle volte della cattedrale. Il legno era costoso e i tronchi lunghi difficili da trovare: i proprietari dei boschi di solito cedevano alla tentazione di vendere il legname prima che fosse pienamente maturo. Così i costruttori cercavano di ridurre al minimo le impalcature. Anziché partire da terra, risparmiavano legno appoggiando orizzontalmente le assi sui muri esistenti.
Mentre lui era immerso nei suoi pensieri, Griselda entrò in cucina e prese una coppa di birra dal barile. «Ne vuoi?» gli chiese. Merthin fu molto stupito da quel gesto gentile, e si sorprese ancora di più quando lei sedette su uno sgabello di fronte a lui. L'innamorato di Griselda, Thurstan, era sparito da tre settimane. Di sicuro lei si sentiva sola e forse per questo desiderava la compagnia di Merthin. La bevanda gli riscaldò lo stomaco ed ebbe sul ragazzo un effetto rilassante. Nel tentativo di fare un po' di conversazione, le domandò: «Che ne è di Thurstan?». Griselda scosse la testa come una vivace puledra. «Gli ho detto che non intendevo sposarlo.» «Perché no?» «È troppo giovane per me.» A Merthin parve un po' strano. Thurstan aveva diciassette anni, Griselda venti, e non sembrava particolarmente matura. Era più probabile, si disse, che Thurstan fosse di famiglia troppo umile. Arrivato a Kingsbridge da chissà dove un paio di anni prima, aveva lavorato come manovale non specializzato per parecchi artigiani della città. Forse si era semplicemente stancato di Griselda, o di Kingsbridge, e aveva deciso di cambiare aria. «Dov'è andato?» «Non lo so e non mi interessa. Io vorrei sposare uno della mia età, capace di assumersi delle responsabilità... magari in grado, un giorno, di subentrare a mio padre nell'impresa.» A Merthin venne in mente che stesse accennando a lui. "Impossibile" pensò. "Mi ha sempre guardato dall'alto in basso." Poi lei si alzò per andare a sedergli vicino sulla panca. «Mio padre ti tratta molto male. L'ho sempre pensato» gli confessò. Merthin era sbalordito. «Be', hai impiegato un bel po' per dirlo, visto che vivo qui da sei anni e mezzo.» «Non è facile per me mettermi contro la mia famiglia.» «Comunque, come mai è tanto ostile nei miei confronti?» «Perché tu credi di saperne più di lui, e non riesci a nasconderlo.» «Può darsi che davvero io ne sappia di più.» «Ecco cosa intendo.» Merthin scoppiò a ridere. Era la prima volta che Griselda gli faceva quell'effetto. La ragazza si avvicinò, fino a sfiorare con la gamba coperta dal vestito di lana quella di lui. Merthin percepiva il calore del suo corpo attraverso la
logora camicia di lino che gli arrivava a mezza coscia e le brache indossate da tutti gli uomini. Che cosa stava succedendo? La guardò incredulo. Lei aveva luminosi capelli scuri e occhi marrone. Il viso era attraente, anche se molto in carne. Aveva una bella bocca che attirava i baci. «Mi piace stare in casa quando c'è un temporale. Dà un senso di intimità» disse Griselda. Sentendo salire l'eccitazione, Merthin distolse lo sguardo. Cosa avrebbe pensato Caris se fosse entrata in quel momento? Cercò di mettere a tacere il desiderio, ma non fece che peggiorare la situazione. Tornò a guardare Griselda, che con le labbra umide e socchiuse si sporse verso di lui. La baciò e sentì immediatamente la lingua di lei nella bocca. Era una sensazione improvvisa di intimità che trovò esaltante, sorprendente, e che lo indusse a risponderle allo stesso modo. Non era come baciare Caris... Quel pensiero lo bloccò all'istante. Si scostò da Griselda e si alzò. «Che succede?» Non voleva dirle la verità, quindi rispose: «Non mi è mai parso di piacerti». Lei sembrò infastidita. «Dovevo schierarmi con mio padre, te l'ho già detto.» «Sei cambiata di colpo.» Lei gli si avvicinò. Merthin indietreggiò, fino a trovarsi con le spalle contro il muro. Griselda gli prese la mano e se la premette sul petto. I seni erano tondi e opulenti, e Merthin non resistette alla tentazione di toccarli. «L'hai mai fatto sino in fondo con una ragazza?» Merthin scoprì di non riuscire a parlare, quindi si limitò ad annuire. «Hai mai pensato di farlo con me?» «Sì.» «Se vuoi, possiamo farlo adesso, mentre gli altri sono fuori. Saliamo di sopra e ci stendiamo sul mio letto.» «No.» Lei premette il corpo contro quello di lui. «Baciarti mi ha fatto diventare tutta calda e umida dentro.» Merthin l'allontanò. La spinta fu più violenta di quanto intendesse, per cui lei cadde all'indietro, atterrando sul sedere bene imbottito. «Lasciami in pace» le disse. Forse non era troppo convinto, ma Griselda lo prese in parola. «Va' all'inferno, allora» imprecò. Si alzò e salì le scale pestando i piedi.
Merthin, ansante, rimase dov'era. A quel punto, rimpianse di averla respinta. Gli apprendisti non costituivano una grande attrattiva per le giovani, che non volevano aspettare anni e anni prima di sposarsi. Tuttavia, Merthin aveva amoreggiato con parecchie ragazze di Kingsbridge. Una, Kate Brown, si era a tal punto infatuata di lui che un tiepido pomeriggio dell'anno precedente gli aveva permesso di andare sino in fondo nell'orto di casa. Poi il padre era morto all'improvviso e la madre aveva trasferito la famiglia a Portsmouth. Era la sola donna con cui Merthin aveva fatto l'amore. Era forse diventato matto, per rifiutare l'offerta di Griselda? Si disse che se l'era cavata egregiamente. Griselda era una ragazza meschina, che in realtà non lo apprezzava. Doveva sentirsi orgoglioso di essere riuscito a resistere alla tentazione. Non aveva seguito l'istinto come una bestia ottusa, ma aveva preso una decisione, come si confà a un uomo. Poi Griselda si mise a piangere. Non singhiozzava ad alta voce, tuttavia lui la sentiva bene. Merthin andò alla porta che dava sul cortile. Come ogni casa della città, quella di Elfric aveva sul retro una striscia di terra lunga e stretta con una latrina e un cumulo di rifiuti. Di solito le donne vi tenevano i polli, un maiale e un orto con frutta e verdura; invece quel cortile veniva usato come deposito per assi di legno, pietre, rotoli di corda, secchi, carriole e scale a pioli. Il ragazzo guardò la pioggia battente, ma il pianto di Griselda continuava ad arrivargli alle orecchie. Decise di uscire ma, arrivato alla porta principale, si disse che non sapeva dove andare. A casa di Caris c'era solo Petranilla, che non lo avrebbe certo accolto a braccia aperte. Poteva recarsi dai genitori, che però erano le ultime persone che aveva voglia di vedere quando era in quello stato. Non aveva neppure la possibilità di parlare con Ralph, suo fratello, che era atteso a Kingsbridge più avanti nella settimana. Inoltre, si rese conto che non sarebbe potuto uscire senza un mantello: non tanto a causa della pioggia, perché non gli importava di bagnarsi, ma per la protuberanza che gli gonfiava la veste e non accennava a diminuire. Si sforzò di pensare a Caris. Di sicuro era occupata a bere vino buono e mangiare carne arrostita e pane bianco. Si chiese che cosa indossasse. Il suo abito più bello era rosso tendente al rosa, con lo scollo quadrato che faceva risaltare la pelle candida del collo sottile. Il pianto di Griselda, però, continuava a intromettersi nei suoi pensieri. Voleva consolarla, dirle che gli dispiaceva se si era sentita respinta, spiegarle che lei era molto attraen-
te, ma non erano fatti l'uno per l'altra. Sedette, poi si alzò di nuovo. Difficile sopportare il pianto di una donna. Impossibile pensare alle impalcature quando quel suono riempiva la casa. Non poteva restare, non poteva andarsene, non riusciva a stare fermo. Salì al piano di sopra. Lei giaceva a faccia in giù sul pagliericcio che costituiva il suo letto. Aveva la veste sollevata sulle cosce carnose. La pelle delle gambe appariva bianchissima e morbida. «Mi dispiace» disse Merthin. «Vattene.» «Non piangere.» «Ti odio.» Lui si inginocchiò per accarezzarle la schiena. «Non posso starmene in cucina a sentirti piangere.» Griselda si voltò a guardarlo. Aveva il viso rigato di lacrime. «Sono brutta e grassa, e tu mi detesti.» «Non è vero.» Le asciugò le guance umide con il dorso della mano. Lei gli afferrò il polso per attirarlo a sé. «Sul serio?» «Sì, ma...» Gli pose la mano sulla nuca, lo costrinse a chinarsi e lo baciò. Lui mugolò, sempre più eccitato. Si distese accanto a lei sul pagliericcio. "Tra un attimo me ne vado" si disse. "La consolo ancora un poco, poi mi alzo e scendo dabbasso." Griselda gli prese la mano e se la infilò sotto la gonna, tra le gambe. Merthin sentì i peli ispidi, la pelle morbida, la fessura umida, e comprese di essere perduto. L'accarezzò goffamente, poi la penetrò con il dito. Si sentì sul punto di esplodere. «Non riesco a fermarmi» disse. «Sbrigati» disse lei ansimando. Gli sollevò la camicia, abbassò le brache, e lui le rotolò sopra. Merthin sentì di perdere il controllo quando lei lo guidò dentro di sé. Il rimorso lo colpì ancora prima di finire. «Oh, no» disse. Alla prima spinta non riuscì più a trattenersi e in un istante tutto terminò. Si accasciò su di lei, con gli occhi chiusi. «Oddio. Vorrei essere morto» mormorò. 7 Buonaventura Caroli fece lo sconvolgente annuncio il lunedì a colazione, il giorno dopo il grande banchetto nel Palazzo delle corporazioni.
Caris non si sentiva bene: aveva il mal di testa e la nausea. Prese posto al tavolo di quercia nella sala da pranzo della casa paterna, ma mangiò solo una scodella di pane e latte tiepido per mettere a tacere lo stomaco. Le era piaciuto molto il vino servito al banchetto e forse aveva esagerato. Era quella la sensazione da "mattino dopo" su cui scherzavano uomini e ragazzi quando si vantavano della quantità di birra e di vino che riuscivano a ingollare? Il padre e Buonaventura mangiavano montone freddo, mentre zia Petranilla raccontava una storia. «Quando avevo quindici anni ero promessa a un nipote del conte di Shiring. Era considerato un buon matrimonio: suo padre era un cavaliere di rango medio e il mio un ricco mercante di lana. Poi il conte e il suo unico figlio morirono in Scozia, nella battaglia di Loudon Hill. Il mio fidanzato, Roland, divenne conte e ruppe il fidanzamento. È l'attuale conte. Se lo avessi sposato prima della battaglia, oggi sarei la contessa di Shiring.» Intinse il pane abbrustolito nella birra. «Forse non era la volontà di Dio» commentò Buonaventura. Lanciò un osso a Scrap, che vi si avventò come se non vedesse cibo da una settimana, poi si rivolse a Edmund. «Amico mio, c'è una cosa che devo dirti prima che iniziamo la giornata di lavoro.» Dal tono Caris percepì che si preparavano brutte notizie, e il padre doveva avere avuto la stessa impressione, perché commentò: «Suona minaccioso». «Negli ultimi tempi gli affari sono calati. Ogni anno la mia famiglia vende meno tessuto, e così ogni anno compriamo un po' meno lana in Inghilterra.» «È sempre così negli affari. Un po' vanno bene, un po' vanno male, e nessuno capisce il perché.» «Ma ora si è intromesso il vostro re.» Era vero. Edoardo III, resosi conto di quanto rendeva la lana, aveva deciso che una parte di quel denaro dovesse andare alla corona, così aveva introdotto la tassa di una sterlina a sacco. La misura ufficiale del sacco era stata fissata in trecentosessantaquattro libbre, e ogni sacco veniva venduto intorno alle quattro sterline, per cui una sterlina rappresentava un quarto del valore della lana: una fetta enorme. «Quel che è peggio» continuò Buonaventura «è che il re ha pure reso più difficile l'esportazione della lana. Ho dovuto allungare molte mance sottobanco.» «Il bando sulle esportazioni verrà presto tolto» lo rassicurò Edmund. «I
mercanti della Compagnia della lana di Londra stanno negoziando con i funzionari reali...» «Mi auguro che tu abbia ragione ma, allo stato attuale, la mia famiglia non se la sente più di partecipare a due diverse fiere della lana in questa parte del paese.» «Giustissimo! Venite qui e lasciate perdere la fiera di Shiring.» La città di Shiring si trovava a due giorni di viaggio da Kingsbridge. Era più o meno delle stesse dimensioni e, anche se non vantava una cattedrale o un priorato, era la sede del castello dello sceriffo e del tribunale della contea. Una volta l'anno vi si teneva una fiera della lana che faceva concorrenza a quella di Kingsbridge. «Temo di non trovare la stessa varietà di lana, qui. Vedi, la fiera di Kingsbridge sembra in declino. Sono sempre più numerosi i venditori che scelgono Shiring. Quella fiera offre una più ampia varietà di tipi e qualità.» Caris era sgomenta. Quello poteva rivelarsi un disastro per suo padre. Decise di intervenire. «Come mai i venditori preferiscono Shiring?» Buonaventura si strinse nelle spalle. «La corporazione mercantile ha reso la fiera molto allettante. Niente più code per accedere alla porta della città, e i mercanti possono affittare tende e chioschi; inoltre c'è un edificio, la Loggia dei lanaioli, dove si svolge la compravendita nei giorni di pioggia come questo...» «Anche noi potremmo farlo» disse lei. Suo padre sbuffò. «Già, proprio.» «Perché no, papà?» «Shiring è una città autonoma per decreto reale, e l'organizzazione della fiera della lana è compito della corporazione mercantile. Kingsbridge, invece, appartiene al priorato...» «Per la gloria di Dio» lo interruppe Petranilla. «Senza dubbio» convenne Edmund. «Tuttavia, la nostra corporazione parrocchiale non può far nulla senza l'approvazione del priorato; i priori sono prudenti e conservatori, e mio fratello non fa eccezione, con il risultato che la maggior parte dei piani di miglioramento viene respinta.» Buonaventura riprese la parola. «Per il lungo sodalizio della mia famiglia con te, Edmund, e con tuo padre prima di te, abbiamo continuato a venire a Kingsbridge, ma in tempi difficili non ci si può permettere di fare i sentimentali.» «Allora lascia che proprio in nome del nostro lungo sodalizio io ti chieda un piccolo favore» disse Edmund. «Non prendere una decisione definitiva,
per il momento. Mantieni un atteggiamento aperto.» "Una mossa abile" pensò Caris. Rimase colpita, come spesso le accadeva, dall'abilità del padre nelle trattative. Edmund non aveva cercato di convincere Buonaventura a cambiare idea, perché questo l'avrebbe spinto ad arroccarsi sulle sue posizioni. Era molto più accettabile per l'italiano rinviare la decisione finale. In tal modo non si sarebbe impegnato e, al contempo, avrebbe lasciato uno spiraglio. Buonaventura trovò difficile rifiutare la proposta. «D'accordo, ma a che scopo?» «Voglio tentare di migliorare la fiera, in particolare quel ponte» rispose Edmund. «Se potessimo offrire a Kingsbridge strutture di accoglienza migliori di quelle di Shiring, e quindi attirare più venditori, tu continueresti a venire qui, vero?» «Certamente.» «Allora punteremo su quello.» Si alzò. «Vado subito a parlarne con mio fratello. Caris, vieni con me. Gli mostreremo la coda al ponte. No, anzi, vai a prendere quel bravo costruttore, il giovane Merthin. Il suo parere di esperto può tornarci utile.» «Probabilmente è al lavoro.» «Di' al suo maestro che il castaldo della corporazione parrocchiale vuole vedere il ragazzo» disse Petranilla. Era estremamente orgogliosa della carica del fratello e coglieva ogni occasione per accennarvi. Peraltro, aveva ragione. Elfric sarebbe stato costretto a lasciare libero Merthin. «Vado a cercarlo» disse Caris. Mise il mantello con il cappuccio e uscì. Pioveva ancora, anche se non forte come il giorno precedente. Elfric, come la maggior parte dei cittadini in vista, abitava nella strada principale, che dal ponte conduceva ai cancelli del priorato. L'ampia via era affollata di persone e carri diretti alla fiera, che a fatica avanzavano tra pozzanghere e rigagnoli. Come sempre, Caris era ansiosa di vedere Merthin. Le piaceva da dieci anni, da quel giorno di Ognissanti in cui il giovane si era presentato all'esercitazione di tiro con un arco fatto con le sue mani. Era intelligente e arguto e, come lei, sapeva che il mondo era più grande e affascinante di quanto pensasse la maggior parte dei cittadini di Kingsbridge. Ma sei mesi prima avevano scoperto che c'era qualcosa di più divertente dell'essere solo amici. Caris aveva già baciato qualche giovane prima di Merthin, tuttavia la cosa l'aveva lasciata indifferente. Con lui era diverso: eccitante, sensuale.
Possedeva una vena malandrina che rendeva tutto quel che faceva lievemente malizioso. Le piaceva anche quando la toccava. Avrebbe voluto di più, ma cercava di non pensarci. "Di più" significava il matrimonio, la subordinazione della moglie al marito, il suo padrone, e Caris odiava l'idea. Per fortuna non era ancora costretta a preoccuparsene, perché Merthin non avrebbe potuto sposarsi prima della fine dell'apprendistato, che sarebbe durato altri sei mesi. Arrivata a casa di Elfric, entrò. Alice, sua sorella, era a tavola in sala insieme alla figliastra, Griselda. Stavano mangiando pane e miele. Alice era molto cambiata nei tre anni di matrimonio con Elfric. Era sempre stata di temperamento forte, come Petranilla, ma sotto l'influenza del marito si era fatta ancora più diffidente, astiosa e ingenerosa. Quel giorno, però, si mostrò abbastanza gentile. «Siedi, sorella. Abbiamo pane fresco, stamattina.» «Non posso. Sto cercando Merthin.» Alice le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Così presto?» «Lo vuol vedere nostro padre.» Caris attraversò la cucina per guardare nel cortile sul retro. La pioggia cadeva sullo squallido paesaggio del deposito del costruttore. Uno dei lavoranti di Elfric stava caricando pietre su una carriola. Nessun segno di Merthin. La ragazza rientrò in casa. «Probabilmente è alla cattedrale» disse Alice. «Sta costruendo una porta.» Caris ricordò che Merthin gliene aveva accennato. La porta sul lato settentrionale era marcia, e lui ne stava facendo una nuova. «Sta intagliando vergini» precisò Griselda. Sorrise e si ficcò in bocca un pezzo di pane e miele. Caris lo sapeva. La vecchia porta era decorata da intarsi che illustravano la storia raccontata da Gesù sul Monte degli Ulivi, quella delle vergini savie e delle vergini stolte, e Merthin era incaricato di copiarli. Ma c'era qualcosa di sgradevole nel sorriso di Griselda: quasi volesse deridere Caris perché era ancora vergine. «Proverò alla cattedrale.» Fece un saluto distratto con la mano e uscì. Risalì la strada principale ed entrò nel recinto della cattedrale. Mentre avanzava tra i banchi del mercato, le parve che un'atmosfera cupa incombesse sulla fiera. Forse quella sensazione le derivava da ciò che aveva detto Bonaventura? Ne dubitava. Ricordava che la fiera della lana della sua infanzia era più affollata e vivace. A quei tempi il terreno del priorato non era abbastanza grande per contenere le mercanzie, per cui tutte le strade
circostanti erano intasate da banchi privi di licenza, spesso semplici tavolini coperti di carabattole, e da una folla di venditori ambulanti, giocolieri, indovini, musici e predicatori itineranti che invitavano i peccatori a pentirsi. A Caris parve che invece quel giorno ci sarebbe stato posto per altri chioschi. «Probabilmente Buonaventura ha ragione. La fiera è sempre più piccola.» Un mercante le rivolse una strana occhiata e allora Caris si rese conto di avere espresso il proprio pensiero ad alta voce. Era una cattiva abitudine: la gente pensava che parlasse con gli spiriti. Si sforzava di trattenersi, ma a volte non ci riusciva, soprattutto quando era turbata. Girò intorno alla grande chiesa per raggiungere il lato settentrionale. Merthin stava lavorando nel portico, un ampio spazio spesso utilizzato per le riunioni. La porta era sostenuta in verticale da un robusto telaio di legno che la teneva ferma mentre lui scolpiva. Dietro, la vecchia porta piena di crepe e fenditure era ancora al suo posto, nell'arcata. Merthin le volgeva la schiena, e la luce cadeva sulle sue spalle e sul legno davanti a lui. Non l'aveva vista e il rumore della pioggia aveva sovrastato quello dei suoi passi, così Caris poté studiarlo inosservata per qualche minuto. Era poco più alto di lei, con una grande testa e la faccia dall'espressione intelligente su un corpo snello e muscoloso. Muoveva le mani piccole e agili sull'intarsio e, mentre scolpiva le figure, scavava via i trucioli di legno con un coltello affilato. Aveva la pelle molto chiara e i capelli folti e rossi. "Non è granché bello" aveva commentato Alice storcendo la bocca quando Caris le aveva confessato di essersene innamorata. Merthin non possedeva l'aspetto avvenente del fratello Ralph, ma Caris trovava molto attraente il suo viso irregolare, sveglio, saggio e pronto al riso che rispecchiava il carattere del giovane. «Salve» disse lei, facendolo sobbalzare. «Non è da te spaventarti così facilmente» scherzò. «Mi hai colto di sorpresa.» Merthin esitò un attimo prima di baciarla. Pareva un po' a disagio, ma a volte gli capitava quando era concentrato sul lavoro. Lei guardò l'intarsio. C'erano cinque vergini su ciascun battente della porta, le savie che festeggiavano le nozze e le stolte all'esterno, con in mano le lampade capovolte per mostrare che non c'era olio. Merthin aveva copiato il disegno della vecchia porta introducendo qualche modifica. Le vergini erano in fila, cinque da un lato e cinque dall'altro, come gli archi della cattedrale, ma nella porta nuova non erano tutte esattamente identi-
che. Merthin aveva dato a ciascuna tratti distintivi: l'una era bella, l'altra aveva i capelli ricci, l'una piangeva, l'altra aveva un occhio chiuso in un gesto malizioso. Le aveva rese reali, e a quel punto la scena sulla porta vecchia appariva fredda e senza vita al confronto. «È meravigliosa» disse Caris. «Ma mi chiedo cosa ne penseranno i monaci.» «A frate Thomas piace.» «E al priore Anthony?» «Non l'ha ancora vista, però l'accetterà. Non vuole certo pagare due volte.» Era vero, pensò Caris. Lo zio Anthony non apprezzava le novità, ma era anche assai parsimonioso. L'accenno al priore le ricordò l'incarico ricevuto. «Mio padre vuole che tu incontri lui e il priore al ponte.» «Ha detto perché?» «Credo che voglia chiedere a Anthony di costruire un nuovo ponte.» Merthin infilò gli strumenti in un sacchetto di cuoio, quindi spazzò via velocemente dal portico segatura e trucioli. Poi, sotto la pioggia, attraversò con Caris la fiera e discese la strada principale fino al ponte di legno. Caris gli riferì il discorso fatto da Buonaventura a colazione. Anche Merthin era convinto, come lei, che le fiere degli ultimi tempi non fossero affollate come quelle che ricordava dall'infanzia. Malgrado ciò, c'era una lunga coda di gente e carri in attesa di entrare a Kingsbridge. Sulla parte del ponte più vicina alla città, in una piccola guardiola sedeva un monaco incaricato di riscuotere un penny di pedaggio da ogni mercante che arrivava con merci da vendere. Il ponte era stretto, quindi era impossibile saltare la coda, e di conseguenza quelli che non erano tenuti al pagamento, sostanzialmente gli abitanti della città, dovevano comunque fare la fila. Inoltre, alcune assi che formavano l'impalcato si erano gonfiate o spaccate, per cui i carri dovevano procedere molto lentamente, con il risultato che la coda, interminabile, si estendeva lungo la strada oltre le casupole suburbane e scompariva nella pioggia. Il ponte era anche troppo corto. Un tempo, sicuramente, le spalle poggiavano sulla terra asciutta, però o il fiume si era allargato oppure, più probabilmente, il passaggio di carri e persone nel corso di decenni e secoli aveva livellato le rive, tanto che ormai la gente doveva percorrere un tratto nel fango. Caris notò che Merthin ne studiava la struttura. Conosceva quella sua espressione: si stava domandando come facesse il ponte a reggersi. Spesso
lei lo sorprendeva a fissare qualcosa a quel modo, di solito nella cattedrale, ma talvolta persino davanti a una casa o a uno spettacolo naturale, come un biancospino in fiore o uno sparviero in volo. Assolutamente immobile, con lo sguardo acceso e attento quasi a illuminare un posto buio, cercava di comprendere ciò che vedeva. Quando lei gli chiedeva spiegazioni, diceva che stava tentando di vedere l'interno delle cose. Caris seguì il suo sguardo sforzandosi di immaginare che cosa percepisse nel vecchio ponte. Era il più lungo che lei avesse mai visto, una sessantina di iarde da un capo all'altro. La travatura poggiava su due file di enormi piloni di quercia, simili ai pilastri che correvano su entrambi i lati della navata della cattedrale. C'erano cinque coppie di piloni; quelli terminali, dove l'acqua era meno profonda, erano più corti, mentre quelli centrali emergevano di una quindicina di piedi sopra il livello dell'acqua. Ogni pilone era formato da un gruppo di quattro tronchi di quercia tenuti insieme da rinforzi di fasce di legno. Secondo la leggenda, il re aveva donato al priorato di Kingsbridge le ventiquattro querce migliori di tutta l'Inghilterra per costruire le tre coppie centrali di piloni. La parte superiore dei piloni era collegata da due file di travi parallele. Travi più corte incrociavano quelle lunghe, formando l'impalcato, su cui erano poste assi longitudinali che costituivano la carreggiata. Su entrambi i lati una staccionata in legno fungeva da parapetto precario. Ogni paio d'anni un contadino ubriaco la sfondava con il carro e moriva nel fiume insieme al suo cavallo. «Che cosa stai guardando?» chiese Caris a Merthin. «Le fenditure.» «Io non ne vedo.» «I legni su entrambi i lati del pilone centrale sono danneggiati. Vedi, Elfric li ha rinforzati con fasce di ferro.» Quando gliele indicò, Caris notò le strisce metalliche inchiodate sulle fenditure. «Sembri preoccupato» osservò. «Non capisco come mai il legno si sia spaccato.» «È importante?» «Certo che lo è.» Non era molto loquace, quel mattino. Lei stava per chiedergliene la ragione, quando lui annunciò: «Ecco tuo padre». Caris guardò verso la strada. I due fratelli formavano una strana coppia. Anthony, molto alto, teneva sollevato l'orlo della tonaca monacale e saltellava per evitare le pozzanghere con un'espressione di fastidio e disgusto
sul viso pallido di chi passa poco tempo all'aria aperta. Edmund, più vigoroso malgrado fosse più vecchio, aveva il viso rosso e la barba grigia incolta, e camminava incurante, trascinando la gamba deforme nel fango mentre parlava e gesticolava con entrambe le mani. Nel vedere il padre da lontano, come avrebbe potuto fare un estraneo, Caris avvertì un moto di affetto. La discussione era nel pieno del fervore quando i due uomini arrivarono al ponte e continuò senza pause. «Guarda che coda!» gridò Edmund. «Centinaia di persone che non vendono o non comprano nulla perché impossibilitate ad arrivare alla fiera. E puoi giurarci che metà di loro incontrerà un compratore o un venditore mentre aspetta, concludendo l'affare sul posto, e poi se ne andrà a casa senza aver messo piede in città!» «Questo si chiama accaparramento, ed è contro la legge.» «Potresti andarglielo a dire, se riuscissi ad attraversare il ponte, ma non puoi perché è troppo stretto! Ascolta, Anthony. Se gli italiani ci abbandonano, la fiera della lana non sarà mai più la stessa. La tua e la mia prosperità si basano sulla fiera: non puoi lasciare che vada in malora!» «Non siamo in grado di costringere Buonaventura a trattare qui i suoi affari.» «No, però possiamo rendere la nostra fiera molto più interessante di quella di Shiring. Ci basta annunciare un grande progetto simbolico proprio adesso, questa settimana, per convincere tutti che la fiera della lana non è finita, che abbiamo intenzione di abbattere il vecchio ponte per costruirne uno nuovo, due volte più grande.» Poi, d'impulso, si voltò verso Merthin. «Quanto tempo ci vorrà, ragazzo?» Merthin, benché sbalordito, riuscì a rispondere. «La parte più difficile sarà trovare gli alberi: servono tronchi molto lunghi e stagionati. Poi bisogna piantare i piloni nel fiume: è complicato, perché significa lavorare nell'acqua corrente. Dopodiché è solo una questione di carpenteria. Potrebbe essere finito per Natale.» «Non possiamo avere la certezza che la famiglia Caroli cambi programma, se costruiamo un nuovo ponte» fece presente Anthony. «Certo che sì. Te lo garantisco io» ribatté Edmund. «Comunque, non me lo posso permettere. Non ho il denaro.» «Di' piuttosto che non puoi permetterti di non costruirlo» gridò Edmund. «Altrimenti finirai in malora insieme alla città.» «È fuori questione. Non so neppure quando avrò il denaro per la ripara-
zione della navata sud.» «E allora, che intendi fare?» «Confidare in Dio.» «Chi confida in Dio e semina poi può raccogliere. Ma tu non semini.» Anthony si irritò. «So che per te è difficile capirlo, ma il priorato di Kingsbridge non è un'impresa commerciale. Noi siamo qui per venerare Dio, non per far soldi.» «Non venererai Dio a lungo se non hai niente da mangiare.» «Dio provvederà.» Il viso rosso di Edmund diventò violaceo per la collera. «Quando eri bambino l'attività di nostro padre ti ha nutrito, vestito e ha pagato la tua istruzione. Poi, da frate, i cittadini di questa città e i contadini della campagna circostante ti hanno mantenuto con affitti, decime, tasse per i banchi del mercato, pedaggi del ponte e una dozzina di altre imposte. Per tutta la vita hai vissuto come una pulce sulla schiena di chi lavora. E ora hai la faccia tosta di dirci che Dio provvederà.» «Stai rasentando la blasfemia.» «Non scordare che ti conosco da quando sei nato, Anthony. Scansare la fatica è sempre stata la tua specialità.» Edmund, che quasi sempre urlava nel parlare, abbassò all'improvviso il tono: un segno, secondo Caris, che era veramente fuori di sé. «Quando era ora di vuotare la latrina, tu te ne andavi a letto per poter essere ben riposato per la scuola, il giorno dopo. Tu, il dono del papà a Dio, hai sempre avuto il meglio, senza mai alzare un dito per guadagnartelo: cibo nutriente, la camera da letto più calda, gli indumenti migliori. Io ero l'unico bambino a portare gli abiti smessi del fratello minore!» «E hai sempre fatto in modo di rinfacciarmelo.» Caris aveva aspettato il momento giusto per interrompere quello scontro, e a quel punto pensò che fosse arrivato. «Deve pur esserci una soluzione.» La guardarono entrambi, sorpresi dell'interruzione. «Per esempio, non potrebbero essere i cittadini stessi a costruire il ponte?» proseguì lei. «Non dire sciocchezze» la zittì Anthony. «La città appartiene al priorato. Un servo non arreda la casa del padrone.» «Ma se ti chiedessero il permesso, tu non avresti motivo di rifiutarlo.» Anthony non la contraddisse immediatamente, il che era incoraggiante, ma Edmund scosse la testa. «Dubito di riuscire a persuaderli a tirar fuori il denaro» disse. «Certo, sul lungo periodo andrebbe a loro vantaggio, ma la
gente è molto restia a pensare in modo lungimirante quando le viene chiesto di sborsare del denaro.» «Ah!» fece Anthony. «Però tu chiedi a me di pensare a lungo termine.» «Tu ti occupi della vita eterna, no?» lo rintuzzò Edmund. «Proprio tu dovresti essere capace di vedere al di là della fine della settimana. Inoltre, incassi un penny di pedaggio da chiunque attraversi il ponte, quindi riceveresti indietro il denaro che hai speso e in più trarresti profitto dall'incremento degli affari.» «Ma zio Anthony è una guida spirituale» disse Caris «e dunque non pensa che questo sia compito suo.» «Eppure possiede la città» protestò Edmund. «È il solo a poterlo fare!» Poi, rendendosi conto che di sicuro lei non l'aveva contraddetto senza una ragione, le lanciò uno sguardo inquisitorio. «A cosa stai pensando?» «Supponiamo che i cittadini costruiscano il ponte e siano pagati con il denaro dei pedaggi.» Edmund aprì la bocca per esprimere un'obiezione, ma non gli riuscì di trovarla. Caris guardò Anthony. «Quando il priorato fu istituito le sue uniche entrate derivavano dal ponte» fece presente Anthony. «Non posso rinunciarci.» «Pensa però a quello che guadagneresti se la fiera della lana e il mercato settimanale ritornassero allo splendore originario: ricaveresti non solo i pedaggi per il ponte, ma anche le tasse dei mercanti che vogliono un banco, la percentuale su tutte le transazioni della fiera, e poi anche le donazioni alla cattedrale!» «E i profitti sulle tue vendite» incalzò Edmund. «Lana, granaglie, pellame, libri, statuette dei santi...» «L'avete preparata, vero?» Anthony puntò un dito accusatore verso il fratello maggiore. «Hai dato l'imbeccata a tua figlia, e anche al ragazzo. Lui non avrebbe mai escogitato un piano del genere, e lei è solo una donna. C'è il tuo zampino in tutto questo. È un complotto per privarmi dei pedaggi del ponte. Be', è fallito. Per grazia del Signore, non sono uno stupido!» Si voltò per incamminarsi nella fanghiglia. «Mi chiedo come mio padre abbia potuto generare un imbecille del genere» commentò Edmund, poi si avviò anche lui con passo pesante. Caris si rivolse a Merthin. «Be', che ne pensi?» «Non lo so.» Si voltò per evitare lo sguardo di lei. «Meglio che torni al lavoro.» Si allontanò senza baciarla.
«Bene» esclamò lei quando lui non poté più sentirla. «Cosa diavolo gli prende?» 8 Il conte di Shiring arrivò a Kingsbridge il martedì della settimana di fiera. Lo accompagnavano i due figli, vari familiari e un gran numero di cavalieri e scudieri. Prima del suo arrivo, il ponte venne sgomberato dalle sue avanguardie e a nessuno fu permesso di attraversarlo per evitargli una disdicevole attesa insieme alla gente comune. I membri del seguito, in livrea rossa e nera, entrarono nella città fangosa sventolando gli stendardi, mentre gli zoccoli dei loro cavalli inzaccheravano i passanti con schizzi d'acqua sporca. Il conte Roland aveva prosperato negli ultimi dieci anni, sotto la regina Isabella e in seguito sotto suo figlio Edoardo III, e voleva farlo sapere a tutti, com'era consuetudine dei ricchi e dei potenti. In sua compagnia c'era Ralph, figlio di sir Gerald e fratello di Merthin. Nel periodo in cui Merthin iniziava l'apprendistato con il padre di Elfric, Ralph, con grande soddisfazione per la propria posizione, era diventato scudiero del conte Roland. Ben nutrito e vestito, aveva imparato a cavalcare e a combattere, e trascorreva la maggior parte del tempo a caccia o impegnato in giochi e gare. In quei sei anni e mezzo nessuno gli aveva mai chiesto di leggere o scrivere una parola. Mentre cavalcava dietro il conte tra i banchi stipati della fiera della lana, seguito da sguardi al tempo stesso invidiosi e spaventati, compianse i mercanti e i piccoli rivenditori che si dibattevano nel fango per mettere insieme qualche penny. Il conte smontò da cavallo davanti alla casa del priore, sul lato settentrionale della cattedrale, imitato dal figlio minore, Richard. Quest'ultimo era vescovo di Kingsbridge e la cattedrale, in teoria, era la sua chiesa. Peraltro, la sede del Palazzo vescovile si trovava a Shiring, il capoluogo di contea, a due giorni di viaggio. Questo era molto conveniente per il vescovo, i cui compiti erano politici oltre che religiosi, e anche per i frati, che preferivano evitare un controllo troppo diretto. Richard aveva soltanto ventotto anni, ma il padre era uno stretto alleato del re, il che contava ben più dell'età. Il resto del seguito si avviò verso la parte meridionale del recinto della cattedrale. Il primogenito del conte, Lord William di Caster, ordinò agli scudieri di ricoverare i cavalli mentre una mezza dozzina di cavalieri si sistemava nell'ospitale. Ralph accorse dalla moglie di William, lady Philip-
pa, per aiutarla a scendere da cavallo. Era una donna alta e bella, con le gambe lunghe e il seno prosperoso, e Ralph nutriva per lei un amore senza speranza. Sistemati i cavalli, Ralph andò a far visita ai genitori. Alloggiavano gratuitamente in una piccola casa nel quartiere sudoccidentale della città, vicino al fiume, una zona resa maleodorante dalle tante concerie. Mentre si avvicinava, Ralph si fece piccolo piccolo per la vergogna dentro la livrea rossa e nera. Per fortuna lady Philippa non era lì a vedere l'indecorosa situazione dei suoi genitori. Non li incontrava da un anno e sembravano invecchiati: tra i capelli della madre spiccavano molti fili grigi e il padre stava perdendo la vista. Gli offrirono sidro prodotto dai frati e fragole selvatiche raccolte dalla madre nei boschi. Il padre ammirò la sua livrea. «Il conte ti ha già fatto cavaliere?» chiese ansioso. Ogni scudiero ambiva a diventare cavaliere, ma per Ralph era un'assoluta priorità. Il padre non aveva mai superato l'umiliazione, subita dieci anni prima, di vedersi degradato a semplice converso del priorato. Quel giorno, una freccia aveva trapassato il cuore di Ralph e soltanto restituire l'onore alla famiglia avrebbe alleviato il suo dolore. Ma non tutti gli scudieri divenivano cavalieri. Ciò nonostante, il padre ne parlava sempre come se per Ralph fosse solo una questione di tempo. «Non ancora» rispose. «Ma è probabile che presto entriamo in guerra con la Francia e quella sarà la mia grande occasione.» Parlava volutamente in tono leggero, senza dare a vedere con quale ansia aspettasse la possibilità di distinguersi in battaglia. La madre parve disgustata. «Ma perché i re vogliono sempre la guerra?» «È per questo che sono fatti gli uomini» ribatté il padre con una risata. «Non è vero. Quando ho partorito Ralph, nel dolore e nella sofferenza, non intendevo metterlo al mondo perché si facesse mozzare la testa dalla spada di un francese o trafiggere il cuore da una freccia.» Il padre la liquidò con un cenno della mano, poi si rivolse a Ralph. «Cosa ti fa pensare che ci sarà una guerra?» «Re Filippo di Francia ha confiscato la Guascogna.» «Non possiamo tollerarlo.» I re inglesi governavano da generazioni la provincia della Guascogna, nella Francia occidentale. Avevano concesso ai mercanti di Bordeaux e Bayonne privilegi commerciali, e questi facevano affari più con Londra che con Parigi. Eppure, i problemi non mancavano.
«Re Edoardo ha inviato ambasciatori nelle Fiandre per stringere alleanze» precisò Ralph. «Gli alleati spesso esigono denaro.» «Per questo il conte Roland è qui a Kingsbridge. Il re vuole un prestito dai mercanti di lana.» «Di quanto?» «Si parla di duecentomila sterline in tutta la nazione, come anticipo sulla tassa della lana.» «Il re dovrebbe stare attento a non dissanguare i mercanti di lana» commentò cupa la madre. «I mercanti sono pieni di soldi; basta guardare come si vestono» osservò il padre. C'era amarezza nel suo tono e Ralph notò che portava una logora camicia di lino e calzari consumati. «Comunque, pretendono che noi impediamo alla flotta francese di interferire con il loro commercio.» Nell'ultimo anno, le navi francesi avevano assalito le città sulla costa meridionale dell'Inghilterra saccheggiando i porti e appiccando il fuoco alle imbarcazioni ormeggiate. «I francesi ci attaccano, così noi attacchiamo loro» disse la madre. «Che senso ha?» «Le donne non capiranno mai» sentenziò il padre. «Ma è la verità» ribatté lei, piccata. Ralph cambiò argomento. «Come sta mio fratello?» «È un abile artigiano» rispose il padre, come un mercante di cavalli che vanti un pony di taglia minuscola sostenendo che è molto adatto a una donna. «È innamorato della figlia di Edmund il lanaiolo» spiegò la madre. «Caris?» Ralph scoppiò a ridere. «Gli è sempre piaciuta. Giocavamo insieme da piccoli. Era una bambina prepotente e sfacciata, ma Merthin non ci faceva caso. Ha intenzione di sposarla?» «Immagino di sì, quando avrà finito l'apprendistato.» «Avrà il suo bel daffare con lei.» Ralph si alzò. «Dove pensate che sia, adesso?» «Lavora nel portico nord della cattedrale. Forse ora sta pranzando.» «Lo troverò.» Ralph baciò i genitori e uscì. Ritornò al priorato e vagabondò per la fiera. Aveva smesso di piovere e il sole faceva capolino tra le nuvole, riflettendosi nelle pozzanghere e sollevando vapore dalle coperte umide sui banchi degli espositori. Scorse un profilo familiare, il naso dritto e la mascella forte di lady Philippa, e il bat-
tito del suo cuore accelerò. Era più grande di lui, sui venticinque anni. Davanti a un banco, stava osservando pezze di seta italiana. Ralph si bevve con gli occhi la curva di quei fianchi fasciati dal leggero tessuto estivo. Le fece un inchino esageratamente elaborato. Lei alzò lo sguardo e lo salutò con un lieve cenno del capo. «Splendide stoffe» osservò lui, cercando di intavolare un discorso. «Già.» In quel momento si avvicinò una figura minuscola dai capelli scarmigliati rosso carota: Merthin. Ralph si rallegrò molto nel vederlo. «Questo è il mio intelligentissimo fratello maggiore» disse a Philippa. «Comprate quella verde chiaro» le disse Merthin. «Si intona con i vostri occhi.» Ralph fece una smorfia. Merthin non avrebbe dovuto rivolgersi a lei con tanta familiarità. Philippa, però, non parve farci caso. Gli parlò in tono di leggero rimprovero. «Quando desidero avere l'opinione di un ragazzino, la chiedo a mio figlio.» Ma intanto gli rivolse un sorriso quasi civettuolo. «Questa è lady Philippa, stupido!» intervenne Ralph. «Mi scuso per la sfrontatezza di mio fratello, mia signora.» «Come si chiama, tra l'altro?» «Sono Merthin Fitzgerald, al vostro servizio ogni qual volta vi troverete a esitare sulla scelta di una seta.» Ralph lo prese per un braccio e lo trascinò via prima che potesse aggiungere qualche altra sfacciataggine. «Ma cosa ti è venuto in mente?» lo apostrofò, esasperato e al tempo stesso ammirato. «"Si intona con i vostri occhi", eh? Se le avessi detto io una cosa del genere, mi avrebbe fatto frustare.» Stava esagerando, ma era vero che Philippa di solito reagiva con asprezza all'insolenza. Non sapeva se essere divertito o risentito per l'indulgenza da lei mostrata nei confronti di Merthin. «Sono fatto così. Il sogno di ogni donna.» Ralph rilevò l'amarezza nel tono. «Qualcosa non va? Come sta Caris?» «Ho commesso una sciocchezza» rispose Merthin. «Te ne parlerò più tardi. Diamo un'occhiata in giro, finché c'è luce.» Ralph notò un banco dove un frate dai capelli biondo cenere vendeva formaggi. «Sta' a vedere» disse a Merthin. Si avvicinò al banco. «Questo ha un'aria gustosa, fratello. Da dove viene?» «Lo facciamo a St-John-in-the-Forest, un piccolo convento sussidiario del priorato di Kingsbridge. Io ne sono il priore. Mi chiamo Saul Testa-
bianca.» «Mi viene fame solo a guardarlo. Vorrei comprarne un poco, ma il conte non dà un penny a noi scudieri.» Il frate tagliò una fetta di formaggio e la porse a Ralph. «Allora ne avrai un poco senza pagare, nel nome di Gesù» disse. «Grazie, frate Saul.» Mentre si allontanavano, Ralph si rivolse a Merthin. «Visto? Facile come rubare una mela a un bambino.» «E altrettanto ammirevole.» «Che stupido, dar via il formaggio al primo che ti racconta una storia lacrimevole!» «Forse preferisce rischiare di fare la figura dello stupido piuttosto che negare il cibo a un uomo che muore di fame.» «Sei alquanto acido, oggi. Com'è che tu puoi fare l'impertinente con una nobildonna e io non posso convincere uno stupido frate a darmi il formaggio senza pagare?» Merthin lo sorprese con un sorriso. «Proprio come quando eravamo piccoli, eh?» «Esatto!» Ralph non sapeva se essere divertito o arrabbiato. Prima che si decidesse, una bella ragazza lo avvicinò con un vassoio di uova. Era snella, con il busto sottile sotto l'abito tessuto a mano, e lui immaginò che avesse seni piccoli e tondi come le uova. Le sorrise. «Quanto?» chiese, malgrado non gli occorressero uova. «Un penny la dozzina.» «Sono buone?» Lei indicò un banco vicino. «Le hanno fatte quelle galline.» «E le galline sono state servite a dovere da un vigoroso gallo?» Ralph notò che Merthin alzava gli occhi al cielo. Ma la ragazza stette al gioco. «Sì, signore.» «Galline fortunate, eh?» «Non saprei.» «Certo che no. Una giovane donna non le sa, queste cose.» Ralph la esaminò con attenzione. Bionda, con il nasino all'insù, doveva essere sui diciotto anni. Lei sbatté le palpebre. «Non fissarmi, ti prego.» Il contadino dietro il banco, senza dubbio il padre della ragazza, continuava a gridare: «Annet, vieni qui!». «Dunque, ti chiami Annet.» Lei ignorò il richiamo.
«Chi è tuo padre?» «Perkin di Wigleigh.» «Davvero? Il signore di Wigleigh è Stephen, un mio amico. È bravo con voi?» «Lord Stephen è giusto e clemente» rispose lei, compita. Ralph sapeva perché Perkin cercava di richiamarla. Non gli sarebbe dispiaciuto che la figlia sposasse uno scudiero, per lei avrebbe significato salire un gradino più in alto nella scala sociale, ma temeva che Ralph avesse solo voglia di spassarsela un poco per poi disfarsene. E aveva ragione. «Non andartene, Annet di Wigleigh» la pregò Ralph. «Non me ne vado finché non comprate quello che offro.» Merthin, accanto a loro, mormorò: «Uno peggio dell'altra». «Perché non posi le uova e vieni a fare una passeggiata con me lungo la riva del fiume?» Tra il fiume e le terre del priorato c'era un'ampia riva, in quel periodo dell'anno coperta di fiori e cespugli, tradizionale luogo d'incontro degli innamorati. Ma Annet non era una ragazza facile. «Mio padre se ne dispiacerebbe.» «Non preoccupiamoci di lui.» Un contadino non aveva modo di opporsi al volere di uno scudiero, tanto più quando questi indossava la livrea di un grande conte. Mettere le mani addosso a uno del suo seguito rappresentava un insulto al nobile. Il contadino poteva cercare di dissuadere la figlia, ma avrebbe corso qualche rischio trattenendola con la forza. Qualcun altro, però, giunse in soccorso di Perkin. Una voce giovane disse: «Salve, Annet! Tutto bene?». Ralph si voltò verso il nuovo arrivato. Sui sedici anni, era alto quasi quanto lui, con spalle larghe e grandi mani. Era straordinariamente bello, con tratti regolari che parevano intagliati dallo scultore di una cattedrale. Aveva folti capelli fulvi e un accenno di barba dello stesso colore. «Chi diavolo sei?» gli chiese. «Wulfric di Wigleigh, signore.» Il tono era rispettoso ma per nulla intimorito. «Sono venuto ad aiutarti a vendere qualche uovo» disse, rivolto ad Annet. La spalla muscolosa del giovane si insinuò tra Ralph e Annet, per proteggere la ragazza e al tempo stesso escludere lo scudiero. Era un gesto alquanto insolente, e Ralph avvertì un moto di stizza. «Togliti di torno, Wulfric di Wigleigh. Non sei il benvenuto qui.» Wulfric gli rivolse un'occhiata da pari a pari. «Io sono promesso a questa donna, signore» disse. Ancora una volta, il tono denotava rispetto e nessu-
na paura. «È vero, signore» intervenne Perkin. «Presto si sposeranno.» «Lascia perdere le vostre tradizioni contadine» disse Ralph sprezzante. «Non mi importa se è promessa a quel sempliciotto.» Lo faceva imbestialire che degli inferiori gli parlassero in quel modo. Non toccava a loro insegnargli come comportarsi. Merthin si intromise. «Andiamo, Ralph, ho fame, e Betty Baxter vende focacce calde.» «Focacce? A me interessano di più le uova.» Prese un uovo dal vassoio e lo tastò in modo provocatorio, poi lo posò e, nel mentre, sfiorò il seno sinistro della ragazza. Era sodo e a forma di uovo. «Che credi di fare?» chiese lei indignata, ma senza scostarsi. Lui strinse delicatamente il seno, gustando la sensazione. «Esamino le merci esposte.» «Toglimi le mani di dosso.» «Tra un momento.» A quel punto Wulfric gli assestò un violento spintone. Ralph fu colto di sorpresa. Non si aspettava di venire aggredito da un contadino. Barcollò, incespicò e poi cadde a terra con un tonfo sordo. Sentì una risata e lo stupore cedette all'umiliazione. Balzò in piedi, infuriato. Non portava la spada, ma alla cintola teneva un lungo pugnale. Tuttavia, sarebbe stato poco dignitoso usarlo contro un contadino disarmato: un gesto del genere gli avrebbe fatto perdere il rispetto dei cavalieri e degli altri scudieri del re. Doveva punire Wulfric a mani nude. Perkin uscì da dietro il banco e parlò in fretta. «Un gesto sbadato, signore, involontario. Il ragazzo è profondamente rincresciuto, ve l'assicuro...» La figlia, però, non pareva spaventata. «Ah, gli uomini, gli uomini!» esclamò in tono di finto rimprovero, ma in realtà sembrava più che altro compiaciuta. Ralph li ignorò entrambi. Mosse un passo verso Wulfric sollevando il pugno destro. Poi, mentre Wulfric alzava le braccia per pararsi il viso, gli affondò il sinistro nello stomaco. Non era molle come si aspettava, eppure Wulfric si piegò in avanti con una smorfia di dolore, stringendosi la vita; a quel punto Ralph gli sferrò un colpo con la destra, prendendolo sullo zigomo. Quel pugno gli fece dolere la mano, ma portò gioia nel suo cuore. Con grande sorpresa di Ralph, Wulfric reagì all'istante. Invece di crollare a terra immobile in attesa di essere preso a calci, il
giovane contadino si riscosse subito e gli allungò un destro caricato da tutta la forza delle spalle poderose. Ralph sentì un fiotto di sangue uscire dal naso dolorante. Lanciò un urlo di rabbia. Wulfric arretrò. Forse si era reso conto di cosa aveva combinato, per cui ritrasse le mani con le palme rivolte all'insù. Ma il pentimento era tardivo. Ralph lo colpì con entrambi i pugni sul viso e sul corpo, una gragnola di colpi che Wulfric cercò debolmente di schivare sollevando le braccia e abbassando la testa. Mentre lo malmenava, Ralph si chiese perché mai non scappasse: forse preferiva farsi punire subito anziché affrontare un castigo ben peggiore in seguito. Quel ragazzo aveva fegato, non c'erano dubbi, e questo non faceva che attizzare la sua rabbia. Lo pestò con crescente accanimento, pervaso da un senso di collera e al tempo stesso di piacere. Merthin cercò di intervenire. «Per amor di Dio, basta» disse al fratello, posandogli una mano sulla spalla. Ma Ralph se la scrollò di dosso. Alla fine, Wulfric abbandonò le braccia lungo i fianchi e barcollò inebetito, il bel viso coperto di sangue, gli occhi socchiusi, prima di crollare a terra. Ralph iniziò a prenderlo a calci. Allora si fece avanti un uomo massiccio in brache di pelle, che parlò in tono autoritario. «Basta, giovane Ralph: non ucciderlo.» Ralph riconobbe John, il conestabile della città. «Ma mi ha aggredito!» esclamò. «Be', non mi pare che ti stia ancora aggredendo, giusto, signore? Se ne sta sdraiato a terra a occhi chiusi.» John si parò davanti a Ralph. «Preferirei evitare un'inchiesta del magistrato.» Molti si accalcarono intorno a Wulfric: Perkin, Annet, rossa di eccitazione, lady Philippa e parecchi passanti. La sensazione di euforia svanì e a Ralph rimase il dolore lancinante al naso. Riusciva a respirare solo con la bocca. Sentì il gusto del sangue. «Quell'animale mi ha dato un pugno sul naso.» Parlava come un uomo colpito da un forte raffreddore. «Allora verrà punito» disse John. Comparvero due uomini che assomigliavano molto a Wulfric: il padre e il fratello maggiore, pensò Ralph. Gli lanciarono occhiate di fuoco mentre aiutavano il ragazzo a rimettersi in piedi. Perkin, grasso e dall'espressione scaltra, intervenne: «Il primo pugno l'ha sferrato lo scudiero». «Ma il contadino mi ha spinto di proposito!»
«Lo scudiero ha insultato la futura moglie di Wulfric.» «Non importa cosa abbia detto lo scudiero» affermò il conestabile. «Wulfric dovrebbe sapere che non si mettono le mani addosso a un servitore del conte Roland. Credo che il conte esigerà una punizione adeguata.» Il padre di Wulfric non riuscì più a tacere. «C'è forse una legge, John il conestabile, per cui un uomo in livrea può fare quel che vuole?» Un brusio di assenso si levò dalla piccola folla che era andata radunandosi intorno al gruppetto. I giovani scudieri creavano continuamente problemi e spesso evitavano la punizione perché indossavano i colori di qualche signorotto, ma la cosa veniva mal tollerata dai contadini e dai mercanti rispettosi della legge. «Io sono la nuora del conte» intervenne lady Philippa «e ho assistito a tutta la scena.» La voce era bassa e melodiosa, ma lei parlava con l'autorevolezza di una persona di alto rango. Ralph si aspettava che prendesse le sue parti ma, con suo sgomento, lei continuò con queste parole: «Mi spiace dover dire che è stata tutta colpa di Ralph. Ha toccato la ragazza in modo scandaloso». «Grazie, mia signora» disse John il conestabile con deferenza. Poi abbassò la voce per conferire con lei. «Tuttavia, al conte non farà piacere che il giovane contadino resti impunito.» Lei annuì con aria pensierosa. «Non vogliamo che questo sia l'inizio di una lunga disputa. Mettete il ragazzo ai ceppi per ventiquattr'ore. Non soffrirà più di tanto, data l'età, e tutti sapranno che giustizia è stata fatta. Questo darà soddisfazione al conte: ne rispondo io.» John esitava. Ralph si rese conto che al conestabile non piaceva ricevere ordini da altri che non fossero il suo capo, il priore di Kingsbridge, però la decisione di Philippa era in grado di soddisfare tutte le parti. Ralph sarebbe stato contento di vedere Wulfric fustigato, ma cominciava a sospettare che non sarebbe uscito dalla vicenda come un eroe e chiedere una punizione più dura avrebbe solo peggiorato le cose. Dopo un momento, il conestabile disse: «Sta bene, lady Philippa. Se ve ne assumete voi la responsabilità». «Certo.» «D'accordo.» John prese Wulfric per un braccio e lo trascinò via. Il ragazzo si era ripreso in fretta e ormai camminava normalmente. I familiari li seguirono. Forse gli avrebbero portato da mangiare e da bere mentre era ai ceppi, e si sarebbero assicurati che non venisse preso a sassate. «Come stai?» chiese Merthin al fratello. Ralph sentiva la parte centrale del viso gonfia come una vescica piena.
La vista era offuscata, le parole uscivano con suono nasale e lui soffriva molto. «Tutto bene. Mai stato meglio.» «Cerchiamo un frate che ti curi il naso.» «No.» Ralph non aveva alcun timore di battersi, ma odiava le cose che facevano i medici: salassi, coppettazioni e incisioni di pustole. «Ho solo bisogno di una bottiglia di vino forte. Portami alla taverna più vicina.» «Come vuoi» replicò Merthin, ma non si mosse. Guardava il fratello in modo strano. «Che ti prende?» «Non cambi mai, vero?» Ralph si strinse nelle spalle. «Perché, qualcuno cambia?» 9 Godwyn rimase affascinato dal Libro di Timothy. Era la storia del priorato di Kingsbridge e, come molte analoghe ricostruzioni, iniziava dalla creazione del cielo e della terra. Ma soprattutto raccontava l'epoca del priore Philip, due secoli prima, quando era stata edificata la cattedrale: epoca ormai considerata dai frati come un'età dell'oro. L'autore, frate Timothy, sosteneva che il leggendario Philip era stato severo nella disciplina eppure compassionevole. Godwyn si chiese come fosse possibile mostrare al contempo entrambe queste qualità. Il mercoledì della settimana della fiera, nell'ora di studio che precedeva l'ufficio di sesta, Godwyn sedeva su un alto sgabello nella biblioteca del monastero, il libro aperto sul leggio di fronte. Era il posto che prediligeva nel priorato: un'ampia stanza, bene illuminata dalle alte finestre, con quasi un centinaio di volumi nell'armadio chiuso a chiave. Di solito vi regnava il più assoluto silenzio, ma quel giorno, dal lato più lontano della cattedrale, giungeva il boato distante delle migliaia di persone che alla fiera vendevano e compravano, mercanteggiavano e litigavano, vantavano le loro merci e urlavano incitazioni ai combattimenti dei galli e a quelli dei cani contro l'orso. Sul retro del libro, autori successivi avevano annotato i discendenti dei costruttori della cattedrale fino a quel giorno. Godwyn fu compiaciuto, e francamente sorpreso, di trovare conferma alla teoria di sua madre secondo cui lei discendeva da Tom il costruttore attraverso la figlia di questi, Martha. Si chiese quali tratti fossero stati tramandati da Tom alla famiglia. Un mastro muratore doveva essere abile negli affari, si disse, una qualità che
di certo vantavano il nonno e lo zio Edmund. Anche la cugina Caris mostrava segni della stessa disposizione. Forse Tom aveva avuto occhi verdi con riflessi dorati come tutti loro. Godwyn lesse anche del figliastro di Tom il costruttore, Jack, l'architetto della cattedrale di Kingsbridge, che aveva sposato lady Aliena dando inizio alla dinastia dei conti di Shiring. Era l'antenato dell'innamorato di Caris, Merthin Fitzgerald. Tutto tornava: il giovane Merthin dimostrava già un'impareggiabile abilità come carpentiere. Il Libro di Timothy accennava anche ai capelli rossi di Jack, ereditati da sir Gerald e Merthin, ma non da Ralph. Quel che più destò il suo interesse fu il capitolo sulle donne. Pareva che non ci fossero suore a Kingsbridge all'epoca del priore Philip. Alle donne era severamente proibito l'ingresso negli edifici del monastero. L'autore, citando Philip, sosteneva che, se possibile, un frate, per la pace della mente, non dovesse mai posare gli occhi su una femmina. Philip disapprovava la contiguità di conventi maschili e femminili, argomentando che il vantaggio della condivisione di alcune strutture era decisamente ben poca cosa rispetto alle possibili tentazioni indotte dal diavolo. Laddove esisteva un doppio convento, la separazione tra frati e suore doveva essere la più rigida possibile, precisava. Godwyn si rallegrò di trovare autorevole conferma a una sua radicata convinzione. A Oxford, al collegio di Kingsbridge, aveva avuto il piacere di vivere in un ambiente esclusivamente maschile: i docenti erano tutti uomini, come pure gli studenti, senza alcuna eccezione. Per sette anni gli era capitato molto raramente di rivolgere la parola a una donna e se attraversava la città a occhi bassi riusciva addirittura a evitare di guardarle. Al rientro al priorato, lo disturbava vedere tanto spesso le suore: le incontrava di continuo in chiesa, nell'ospitale e in altre zone comuni, anche se avevano chiostro, refettorio, cucina e altri edifici riservati soltanto a loro. In quel momento, vicinissima a lui, una giovane suora molto bella, di nome Mair, stava consultando un libro illustrato sulle erbe medicinali. Ancora peggio era imbattersi nelle fanciulle della città, con quegli abiti aderenti e la capigliatura bene acconciata, che attraversavano l'area del priorato per sbrigare le commissioni quotidiane, portare rifornimenti in cucina o visitare l'ospitale. Chiaramente, pensò, il priorato era decaduto rispetto all'elevato modello di Philip: un altro esempio della negligenza che caratterizzava la direzione dello zio Anthony. Ma forse lui avrebbe potuto fare qualcosa al riguardo.
La campana annunciò l'ufficio di sesta, per cui Godwyn chiuse il libro. Lo stesso fece suor Mair: le labbra rosse si incurvarono dolcemente mentre gli rivolgeva un sorriso. Lui distolse lo sguardo e si affrettò a uscire. Il tempo cominciava a migliorare e, tra uno scroscio di pioggia e l'altro, faceva capolino il sole. In chiesa, le finestre di vetro colorato si illuminavano per poi sbiadire al passaggio delle nuvole in cielo. La mente di Godwyn era altrettanto irrequieta, distratta dalla preghiera al pensiero di come meglio utilizzare il Libro di Timothy per ispirare la rinascita del priorato. Decise di sollevare l'argomento durante il capitolo, la riunione quotidiana di tutti i frati. I muratori procedevano celermente alle riparazioni nel presbiterio dopo il crollo della domenica precedente. I detriti erano stati sgomberati e la zona cintata con funi. Nel transetto si stava accumulando una pila di pietre sottili e leggere. Gli uomini non smettevano di lavorare quando i frati iniziavano a cantare, perché altrimenti le opere di risanamento avrebbero subito un grave ritardo, considerate le tante funzioni che si svolgevano nell'arco di una giornata. Merthin Fitzgerald aveva temporaneamente abbandonato la porta nuova per costruire nella navata sud un'elaborata ragnatela di funi, rami e graticci su cui i muratori sarebbero rimasti in piedi mentre ricostruivano il soffitto a volta. Thomas Langley, che aveva il compito di supervisore, si trovava nel transetto sud con Elfric, e indicava con l'unico braccio la volta crollata; evidentemente stava discutendo del lavoro di Merthin. Thomas era un matricularius efficiente e determinato, non si lasciava sfuggire nulla. Se una mattina un muratore non si presentava, un caso frequente, andava a cercarlo e gliene chiedeva la ragione. Se Thomas aveva un difetto, era l'eccessiva indipendenza: raramente riferiva sui progressi o chiedeva l'opinione di Godwyn, e procedeva invece autonomamente, come se non fosse un suo subordinato. Godwyn aveva lo sgradevole sospetto che dubitasse delle sue capacità; lui era sì più giovane, ma solo di poco: aveva trentun anni e Thomas trentaquattro. Forse il matricularius pensava che lui fosse stato promosso sacrista da Anthony per le pressioni di Petranilla. Non lasciava trapelare alcun risentimento, però faceva le cose a modo suo. Mentre Godwyn li osservava, mormorando meccanicamente le risposte alle preghiere, la conversazione tra Thomas ed Elfric si interruppe. Lord William di Caster attraversò la chiesa con passo deciso. Alto, con la barba nera come il padre e altrettanto duro, si diceva però che si lasciasse a volte addolcire dalla moglie Philippa. Si avvicinò a Thomas e spinse via Elfric.
Thomas si voltò verso di lui e qualcosa nel suo atteggiamento ricordò a Godwyn che un tempo era stato un cavaliere, e che era arrivato al priorato sanguinante per una ferita da spada che aveva richiesto l'amputazione del braccio sinistro all'altezza del gomito. Godwyn si rammaricò di non poter udire le parole di lord William: chinato in avanti con fare aggressivo, l'uomo puntava il dito contro Thomas che, imperterrito, rispondeva con pari decisione. Godwyn ricordò all'improvviso di averlo visto parlare con lo stesso piglio combattivo dieci anni prima, il giorno del suo arrivo. In quell'occasione aveva discusso con il fratello minore di William, Richard, allora prete, poi vescovo di Kingsbridge. Forse era una fantasia, ma Godwyn immaginò che stessero litigando per la stessa ragione. Di che si trattava? Possibile che dopo dieci anni rimanesse ancora una questione aperta tra un frate e una famiglia nobile? Lord William si allontanò, chiaramente insoddisfatto, e Thomas tornò a parlare con Elfric. Dieci anni prima lo scontro si era concluso con l'ingresso di Thomas nel priorato. Godwyn ricordava che, per assicurarne l'ammissione, Richard aveva promesso una donazione. Non ne aveva più sentito parlare: si chiese se fosse mai stata fatta. In tutto quel tempo nessuno al priorato aveva appreso di più sulla vita precedente di Thomas. Strano, perché i frati non facevano che spettegolare. Vivendo a stretto contatto in un piccolo gruppo, erano in ventisei al momento, sapevano quasi tutto l'uno dell'altro. Quale signore aveva servito Thomas? Dove aveva vissuto? La maggior parte dei cavalieri governava alcuni villaggi, incassando affitti che consentivano loro di pagare cavalli, armatura e armi. Aveva moglie e figli? In tal caso, che ne era stato di loro? Nessuno lo sapeva. A parte il mistero sul suo passato, Thomas era un bravo frate, pio e industrioso. Sembrava che quella vita gli si confacesse più di quella di cavaliere. Malgrado la precedente professione di violenza, c'era qualcosa di femminile in lui, come in molti frati. Era in grande amicizia con frate Matthias, una persona molto dolce, poco più giovane di lui. Ma se commettevano atti impuri erano assai prudenti, perché non erano mai state mosse accuse. Verso la fine della funzione, Godwyn lanciò un'occhiata nella navata centrale buia e intravide sua madre, Petranilla, immobile accanto a un pilastro, l'altera testa grigia illuminata da un raggio di sole. Era sola. Godwyn si chiese da quanto tempo fosse lì. I laici non venivano incoraggiati a par-
tecipare alle funzioni nei giorni feriali, e Godwyn immaginò che desiderasse vedere lui. Avvertì la solita sensazione di piacere misto ad apprensione. Sua madre era disposta a fare qualsiasi cosa per lui, lo sapeva bene. Aveva venduto la casa e si era stabilita dal fratello Edmund come governante per consentire a lui di studiare a Oxford, e quando ripensava al sacrificio che questo aveva significato per lei, tanto orgogliosa, sentiva salirgli agli occhi lacrime di gratitudine. Eppure la sua presenza lo rendeva sempre ansioso, quasi temesse di venire rimproverato per qualche mancanza. Mentre frati e suore sfilavano verso l'uscita, Godwyn si staccò dalla processione per avvicinarsi alla madre. «Buongiorno, mamma.» Lei lo baciò sulla fronte. «Sei troppo magro» gli disse, con preoccupazione materna. «Mangi poco?» «Pesce salato e porridge, ma ce n'è in abbondanza.» «Perché tanta animazione?» Petranilla riusciva sempre a indovinare il suo umore. Le parlò del Libro di Timothy. «Potrei leggere quel passaggio durante il capitolo» disse. «Ma gli altri ti appoggerebbero?» «Theodoric e i frati più giovani senz'altro. In molti trovano fastidiosa la continua presenza delle donne; in fin dei conti, hanno scelto di vivere in una comunità tutta maschile.» Lei manifestò la propria approvazione con un cenno del capo. «Questo ti fa assumere un ruolo di guida. Eccellente.» «Inoltre, mi apprezzano per via delle pietre calde.» «Pietre calde?» «Ho introdotto una nuova regola in inverno. Nelle notti gelide, quando si va in chiesa per il mattutino, a ogni frate viene data una pietra calda avvolta in un panno. Impedisce la comparsa di geloni sui piedi.» «Ottima idea. Comunque, accertati di essere appoggiato prima di agire.» «Certo. In ogni caso, è coerente con ciò che insegnano i maestri di Oxford.» «E cioè?» «Che l'essere umano è fallibile, quindi è meglio non basarsi sul ragionamento. Non si può sperare di comprendere il mondo: l'unica cosa da fare è contemplare ammirati la creazione di Dio. La vera conoscenza deriva solo dalla rivelazione. Non dovremmo mettere in discussione la saggezza ricevuta.» La madre parve scettica, come spesso accadeva quando gli uomini colti
cercavano di spiegare l'alta filosofia ai profani. «È questo che credono vescovi e cardinali?» «Sì. L'università di Parigi ha infatti bandito le opere di Aristotele e Tommaso d'Aquino, perché si fondano più sulla ragione che sulla fede.» «Questo modo di pensare ti aiuterà a conquistare il favore dei superiori?» Solo quello le importava. Voleva che il figlio diventasse priore, vescovo, arcivescovo, addirittura cardinale. Anche lui lo desiderava, pur augurandosi di non essere cinico quanto lei. «Ne sono sicuro» rispose. «Bene. Ma non è per questo che sono venuta. Tuo zio Edmund ha ricevuto un duro colpo. Gli italiani minacciano di trasferirsi a Shiring.» La notizia lo lasciò sgomento. «Ma questo danneggerà pesantemente i suoi affari!» Tuttavia non capiva perché lei gli avesse fatto una visita per quel motivo. «Edmund ritiene che potrebbe riconquistarli se rilanceremo la fiera della lana e, soprattutto, se butteremo giù il vecchio ponte per sostituirlo con uno nuovo, più largo.» «Lasciami indovinare: zio Anthony ha respinto la proposta.» «Edmund, però, non intende rinunciare.» «Vuoi che parli a Anthony?» Petranilla scosse il capo. «Non riusciresti a persuaderlo. Però, se la questione emergesse durante il capitolo, tu dovresti dare la tua approvazione.» «E schierarmi contro lo zio Anthony?» «Ogni qual volta una proposta sensata viene avversata dalla vecchia guardia, tu devi assumere il ruolo di capo dei riformatori.» Godwyn la guardò con ammirazione. «Mamma, come fai a saperne tanto, di politica?» «Te lo spiego subito.» Si girò a guardare il grande rosone all'estremità orientale della chiesa, la mente rivolta al passato. «Quando mio padre iniziò a commerciare con gli italiani, fu trattato come un novellino dai cittadini più eminenti di Kingsbridge. Guardavano con aria di superiorità lui e la sua famiglia, e facevano il possibile per impedirgli di mettere in pratica le sue idee innovatrici. La mamma era già morta e io, adolescente, divenni la sua confidente. Mi raccontava tutto.» Il suo viso, di solito fisso in un'espressione di calma glaciale, si distorse in una maschera di amarezza e risentimento: strinse gli occhi, increspò le labbra e arrossì al ricordo della vergogna provata. «Lui comprese che non si sarebbe liberato di loro finché non avesse assunto il controllo della corporazione parrocchiale. Così si
concentrò su questo obiettivo, e io lo aiutai.» Fece un respiro profondo, come se raccogliesse le forze in vista di una lunga battaglia. «Dividemmo il gruppo dei potenti, aizzammo una fazione contro l'altra, formammo alleanze prima con gli uni, poi con gli altri, indebolimmo senza pietà gli avversari e usammo i nostri sostenitori finché non ci tornò utile scaricarli. Ci vollero dieci anni ma, alla fine, lui diventò il castaldo della corporazione e il mercante più ricco della città.» Godwyn conosceva già la storia del nonno, ma mai nessuno gliel'aveva raccontata in termini tanto espliciti. «Dunque, tu gli hai fatto da assistente, come Caris con Edmund?» Petranilla fece una risatina aspra. «Sì, tranne che quando subentrò Edmund noi eravamo ormai i cittadini più eminenti. A scalare la montagna fummo mio padre e io, mentre Edmund dovette soltanto percorrere la strada già spianata.» Furono interrotti da Philemon, entrato in chiesa dal chiostro: alto, pelle e ossa, sui ventidue anni, aveva i piedi vari e zampettava come un uccellino. Teneva in mano la scopa perché aveva il compito di fare le pulizie nel priorato. Sembrava eccitato. «Ti stavo cercando, frate Godwyn.» Petranilla non fece caso alla sua evidente premura. «Salve, Philemon. Non ti hanno ancora ordinato frate?» «Non posso fare la donazione richiesta, signora Petranilla. Vengo da una famiglia umile.» «Ma non è insolito per il priorato esentare dalla donazione un postulante che si dimostri devoto. E tu da anni servi il priorato, pagato e non pagato.» «Frate Godwyn ha appoggiato la mia richiesta, ma alcuni dei frati più anziani non ne vogliono sapere.» «Carlus il cieco detesta Philemon. Non so perché» spiegò Godwyn. «Parlerò con mio fratello Anthony. È il superiore di Carlus e in fondo tocca a lui decidere. Sei un buon amico di mio figlio e mi piacerebbe vederti progredire.» «Grazie, signora.» «Be', è evidente che scoppi dalla voglia di dire a Godwyn qualcosa di cui non puoi parlare davanti a me, quindi mi congedo.» Diede un bacio al figlio. «Ricorda quel che ho detto.» «Senz'altro, mamma.» Godwyn si sentì sollevato, come se una nuvola tempestosa avesse solcato il cielo prima di scaricarsi su un'altra città. Appena Petranilla non poté più udirli, Philemon annunciò: «Riguarda il vescovo Richard!».
Godwyn sollevò le sopracciglia. Philemon aveva la specialità di scoprire i segreti altrui. «Che cosa hai saputo?» «È nell'ospitale, proprio in questo momento, in una delle camere private al primo piano... insieme a sua cugina Margery!» Margery era una bella ragazza di sedici anni. I suoi genitori, il fratello minore del conte Roland e una sorella della contessa di Marr, erano entrambi morti. Era la pupilla di Roland, che aveva combinato per lei il matrimonio con il figlio del conte di Monmouth per creare un'alleanza politica mirata a consolidare la sua posizione di più importante gentiluomo dell'Inghilterra sudoccidentale. «Che cosa stanno facendo?» chiese Godwyn, malgrado lo avesse intuito. Philemon abbassò la voce. «Si baciano!» «Come lo sai?» «Te lo mostro.» Philemon lo guidò all'uscita del transetto meridionale, oltre il chiostro e su per una scala che conduceva al dormitorio. Era una stanza spoglia, confinante con l'ospitale, con due file di semplici letti di legno coperti da un pagliericcio. Philemon si avvicinò a un grande armadio pieno di coperte. Con grande sforzo, lo spinse avanti. Nella parete retrostante, una pietra appariva smossa. Per un attimo Godwyn si chiese come avesse fatto a trovare quello spioncino: forse mentre cercava di nascondere qualcosa nella breccia. Philemon estrasse la pietra, attento a non fare rumore, e sussurrò: «Guarda, presto!». Godwyn esitava. A voce bassa chiese: «Quanti altri ospiti hai spiato da qui?». «Tutti» rispose Philemon, come se fosse ovvio. Godwyn immaginava la scena che gli sarebbe toccato vedere, e di certo non la pregustava. Osservare di nascosto il cattivo comportamento di un vescovo poteva andare bene per Philemon, ma a lui sembrava vergognoso. La curiosità, però, lo attizzava. Alla fine si chiese quale sarebbe stato il consiglio della madre: gli avrebbe detto di guardare, senza ombra di dubbio. Il buco nel muro era lievemente al di sotto del livello degli occhi. Si chinò. Sbirciava in una delle due stanze private riservate ai visitatori di riguardo al primo piano dell'ospitale. In un angolo, davanti a un dipinto murale della crocifissione, c'era un inginocchiatoio. Accanto, due sedie comode e
un paio di sgabelli. Quando gli ospiti importanti erano numerosi, gli uomini venivano sistemati in una camera e le donne nell'altra: quella era evidentemente la camera delle donne, perché su un tavolino erano posati parecchi articoli femminili quali pettini, nastri, misteriose boccette e fiale. Su uno dei due pagliericci stesi a terra, Richard e Margery si erano spinti ben oltre i baci. Il vescovo Richard, con i capelli castani ondulati e i tratti regolari, era un uomo attraente. Margery, che doveva avere la metà dei suoi anni, era una giovane snella dalla carnagione chiara, sul cui viso spiccavano le sopracciglia brune. Erano sdraiati fianco a fianco. Richard la baciava e le parlava all'orecchio; un sorriso di piacere trionfava sulle sue labbra carnose. Margery aveva la veste sollevata intorno alla vita. Le gambe erano bellissime, lunghe e candide. Lui le teneva tra le cosce una mano, che muoveva con esercitata maestria. Pur non avendo alcuna esperienza di donne, Godwyn comprese che cosa stava facendo. Margery lo fissava con occhi adoranti, la bocca socchiusa, e ansimava eccitata, il viso acceso di passione. Forse Godwyn era prevenuto, ma percepì che Richard la considerava soltanto un giocattolo temporaneo, mentre la ragazza lo vedeva come il grande amore della sua vita. Il sacrista li fissò pieno di orrore per un momento, poi, quando Richard tolse la mano, scorse il triangolo di peli ispidi tra le cosce di Margery, scuro come le sopracciglia contro la pelle bianca. Si affrettò a distogliere lo sguardo. «Lasciami vedere» disse Philemon. Godwyn si spostò. La scena era sconvolgente, ma che doveva fare, se mai doveva fare qualcosa? Philemon guardò dal buco e ansimò eccitato. «Le vedo la fica! Gliela sta strofinando!» sussurrò. «Vieni via da lì. Abbiamo visto abbastanza... anzi, troppo.» Philemon esitò, affascinato, poi, con qualche riluttanza, si scostò per rimettere a posto la pietra. «Dobbiamo subito diffondere la voce che il vescovo fornica!» esclamò. «Taci e lasciami pensare.» Seguendo il suggerimento di Philemon si sarebbe inimicato Richard e la sua potente famiglia, e senza alcuno scopo. Ma doveva pur esserci il modo di volgere tutto a suo vantaggio. Si sforzò di pensare che cosa avrebbe fatto sua madre. Se non c'era niente da guadagnare nel divulgare il peccato del vescovo, era possibile fare la figura del virtuoso nascondendola? Forse Richard gliene sarebbe stato grato.
L'idea sembrava allettante, ma perché funzionasse Richard doveva sapere che Godwyn lo stava proteggendo. «Vieni con me» ordinò a Philemon. Il giovane rimise a posto l'armadio. Godwyn si domandò se dalla stanza attigua si fosse sentito il rumore del legno che raschiava sul pavimento. Ne dubitava e, comunque, Richard e Margery erano troppo presi da quello che stavano facendo per prestare orecchio ai suoni al di là del muro. Godwyn fece strada giù per i gradini e oltre il chiostro. Due scale davano accesso alle camere private: una dal pianterreno dell'ospitale e l'altra dall'esterno, per permettere agli ospiti importanti di andare e venire senza attraversare la zona riservata alla gente comune. Godwyn salì di corsa la scala esterna. Si bloccò davanti alla camera in cui si trovavano Richard e Margery. «Seguimi dentro» sussurrò a Philemon. «Non fare e non dire nulla, ed esci quando esco io.» Philemon posò la scopa. «No, portala.» «D'accordo.» Godwyn spalancò la porta ed entrò a grandi passi. «Voglio che questa camera sia pulita da cima a fondo» disse ad alta voce. «Spazza ogni angolo e... oh, chiedo scusa! Credevo non ci fosse nessuno!» Nell'arco di tempo impiegato da Godwyn e Philemon per correre dal dormitorio all'ospitale, gli amanti si erano dati da fare: Richard stava sopra Margery, con la lunga veste talare sollevata intorno alla vita. Le belle gambe bianche di lei erano sollevate in aria contro i fianchi del vescovo. L'atteggiamento era inequivocabile. Richard cessò di spingere e guardò Godwyn con espressione di rabbiosa frustrazione e al contempo di colpevole timore. Margery lanciò un urlo di orrore e fissò Godwyn con occhi pieni di paura. Il sacrista protrasse il momento. «Vescovo Richard!» esclamò, fingendosi sbalordito. Voleva che Richard sapesse senza ombra di dubbio di essere stato riconosciuto. «Ma come... E Margery?» Diede a vedere di comprendere solo allora. «Perdonatemi!» Girò sui tacchi. Poi, rivolto a Philemon, aggiunse: «Fuori! Vai via subito!». Philemon si affrettò a uscire, sempre con la scopa in mano. Godwyn lo seguì, ma sulla soglia si voltò indietro per accertarsi che Richard lo vedesse bene. I due amanti erano rimasti raggelati nella loro posizione, stretti nell'atto sessuale, ma la loro espressione era cambiata. La
mano di Margery era volata alla bocca nel gesto tipico di chi è colto in flagrante. Richard stava freneticamente cercando una via d'uscita. Voleva dire qualcosa, ma non trovava le parole. Godwyn decise di risparmiare loro ulteriore imbarazzo: in fondo aveva fatto tutto quello che gli serviva. Mentre stava per chiudere la porta alle sue spalle, si bloccò sgomento. Una donna stava salendo le scale. Fu assalito dal panico. Era Philippa, la moglie dell'altro figlio del conte. Comprese all'istante che il segreto avrebbe perso valore se condiviso con altri. Doveva avvertire Richard. «Lady Philippa!» esclamò ad alta voce. «Benvenuta al priorato di Kingsbridge!» Dall'interno provenne un trambusto concitato. Con la coda dell'occhio Godwyn vide che Richard balzava in piedi. Per fortuna, Philippa si fermò a parlargli. «Forse mi puoi aiutare.» "Dalla sua posizione, non vede dentro la stanza" pensò Godwyn. «Ho perduto un bracciale; non vale granché, è di legno intagliato, ma mi piace molto.» «Che peccato» fece Godwyn in tono partecipe. «Chiederò ai frati e alle suore di cercarlo.» «Io non l'ho visto» disse Philemon. «Forse vi è scivolato dal polso» suggerì Godwyn. Lei corrugò la fronte. «La cosa strana è che da quando sono qui non l'ho mai messo. Appena arrivata l'ho tolto e l'ho posato sul tavolo, e adesso non lo trovo più.» «Forse è rotolato in un angolo buio. Lo cercherà il nostro Philemon. È lui a pulire le camere degli ospiti.» Philippa squadrò il giovane. «Sì, ti ho incontrato mentre uscivo, più o meno un'ora fa. Non lo hai visto mentre pulivi?» «Non ho fatto in tempo a spazzare, perché la signorina Margery è entrata proprio quando stavo per cominciare.» Intervenne Godwyn. «Philemon è tornato adesso per pulire la vostra camera, ma la signorina Margery è...» Lanciò un'occhiata nella stanza. «... In preghiera» concluse. Margery era chinata sull'inginocchiatoio con gli occhi chiusi. Godwyn si augurò che stesse chiedendo perdono per il suo peccato. Richard, dietro di lei con le mani giunte, a capo chino, muoveva le labbra in un mormorio indistinto. Godwyn si spostò di lato per fare entrare Philippa. Lei rivolse al cognato un'occhiata sospettosa. «Salve, Richard. Non è da te pregare nei giorni feriali.»
Lui portò le dita alle labbra come a zittirla, e indicò Margery sull'inginocchiatoio. «Margery può pregare quanto le pare» ribatté Philippa seccamente «ma questa è la camera delle donne, e quindi devi andartene.» Richard nascose il suo sollievo e uscì lasciando sole le due donne. Lui e Godwyn si trovarono faccia a faccia nell'ingresso. Il sacrista si rese conto che il vescovo esitava sulla strategia da adottare. Probabilmente l'istinto gli suggeriva di dire: "Come osi irrompere in una stanza senza bussare?" ma era così palesemente in torto che gliene mancava il coraggio. D'altronde, non poteva certo scongiurare Godwyn di tenere per sé quel che aveva visto, perché sarebbe stato come ammettere di essere in suo potere. Fu un momento di doloroso imbarazzo. Poiché Richard esitava, fu Godwyn a parlare. «Nessuno lo verrà a sapere da me.» Il vescovo parve sollevato, poi guardò Philemon. «E lui?» «Desidera farsi frate e sta imparando la virtù dell'obbedienza.» «Ti sono debitore.» «Bisogna confessare i propri peccati, non quelli degli altri.» «Comunque, ti sono grato, fratello...» «Godwyn, il sacrista. Sono il nipote del priore Anthony.» Era meglio mettere in chiaro che con le sue parentele influenti avrebbe potuto procurargli guai seri. Tuttavia, per addolcire la minaccia, aggiunse: «Mia madre era promessa a vostro padre, molti anni fa, prima che lui diventasse conte». «Ho già sentito questa storia.» "E tuo padre l'ha poi respinta sdegnosamente, proprio come farai tu con la povera Margery" avrebbe voluto aggiungere, e invece osservò in tono divertito: «Avremmo potuto essere fratelli, noi due». «Già.» Suonò la campana del pranzo. I tre si separarono, sollevati dall'imbarazzo: Richard si diresse a casa del priore Anthony, Godwyn al refettorio e Philemon in cucina per aiutare a servire. Godwyn attraversò il chiostro assorto nei suoi pensieri. Era molto turbato dalla scena animalesca a cui aveva assistito, però riteneva di avere gestito molto bene la situazione. Alla fine, Richard era parso fidarsi. In refettorio, Godwyn sedette vicino a Theodoric, un frate intelligente di un paio d'anni più giovane di lui. Non aveva studiato a Oxford e di conseguenza guardava Godwyn con grande ammirazione. Quest'ultimo lo tratta-
va da pari, il che lusingava molto Theodoric. «Ho appena letto una cosa che di sicuro ti interessa» disse il sacrista. Gli riassunse i commenti del reverendo priore Philip nei confronti delle donne in generale e delle monache in particolare. «Proprio quello che ripeti sempre tu» concluse. In realtà, Theodoric non aveva mai espresso un'opinione sull'argomento, limitandosi invece ad assentire quando Godwyn si lamentava della mancanza di rigore del priore Anthony. «Certo» confermò Theodoric. Aveva gli occhi azzurri e l'incarnato chiaro, e arrossì per l'animazione. «Come possiamo alimentare pensieri puri quando siamo costantemente distratti dalle femmine?» «Che si può fare?» «Dobbiamo affrontare il priore.» «Nel capitolo, intendi?» Godwyn lo disse come se quella fosse un'idea di Theodoric, non sua. «Sì, un piano eccellente. Ma gli altri ci sosterranno?» «I frati giovani sì, di sicuro.» Probabilmente i giovani sarebbero stati più pronti a criticare gli anziani, pensò Godwyn, consapevole che erano molti quelli che preferivano vivere una vita in cui le donne erano del tutto assenti, o quanto meno invisibili. «Se parli con qualcuno prima del capitolo, fammi sapere cosa ne pensa.» Questo avrebbe incoraggiato Theodoric a muoversi per trovare appoggi. Venne servito il pranzo, stufato di pesce salato e fagioli. Godwyn stava per cominciare a mangiare, quando fu interrotto da frate Murdo. Murdo apparteneva all'ordine dei frati minori spirituali, cioè quei frati che vivevano in mezzo alla gente anziché rinchiudersi nei monasteri. Ritenevano che la loro rinuncia fosse più rigorosa rispetto a quella dei monaci conventuali, il cui voto di povertà era compromesso dagli splendidi edifici e dalle tante proprietà in loro possesso. In passato i frati non possedevano nulla, neppure le chiese, ma molti avevano deviato da quegli ideali dopo che fedeli devoti avevano donato loro terre e denaro. Coloro che ancora vivevano secondo i principi originari elemosinavano il cibo e dormivano per terra. Predicavano nelle piazze del mercato e davanti alle taverne, e venivano ricompensati con qualche penny. Non esitavano a scroccare vitto e alloggio agli altri frati quando se ne presentava l'occasione. Ma la loro presunzione di superiorità veniva mal tollerata, com'era prevedibile. Frate Murdo rappresentava un esempio particolarmente sgradevole: grasso, sporco, ingordo, spesso ubriaco, veniva a volte visto in compagnia di prostitute. Però era anche un predicatore carismatico, capace di richiamare una folla di centinaia di persone con i suoi coloriti sermoni, alquanto
dubbi dal punto di vista teologico. Frate Murdo si era alzato e, senza essere stato invitato, si mise a pregare ad alta voce. «Padre nostro, benedici questo cibo destinato al nostro corpo sporco e corrotto, così pieno di peccati come un cane morto è pieno di vermi...» Le preghiere di Murdo non erano mai brevi. Godwyn posò il cucchiaio con un sospiro. Durante il capitolo si leggeva sempre qualcosa, di solito un brano della Regola di san Benedetto, della Bibbia, oppure di qualche altro testo religioso. Mentre i frati prendevano posto sulle gradinate di pietra disposte lungo i lati della casa del capitolo, di forma ottagonale, Godwyn cercò il giovane incaricato della lettura quel giorno e gli disse, in tono gentile ma deciso, che l'avrebbe sostituito in quel compito. Poi, quando venne il momento, propose la pagina cruciale del Libro di Timothy. Si sentiva nervoso. Era tornato da Oxford da un anno, e da allora non aveva fatto che parlare della riforma del priorato; fino a quel momento, però, senza mai affrontare Anthony direttamente. Il priore era debole e pigro, e doveva essere scosso dal suo letargo. Inoltre, san Benedetto aveva scritto: "Occorre consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore". Godwyn aveva pieno titolo a parlare nel capitolo e a chiedere una più stretta osservanza delle regole monastiche, tuttavia sentiva di correre un rischio e rimpiangeva di non avere riflettuto più a lungo su come utilizzare al meglio il Libro di Timothy. Era troppo tardi, però, per i rimpianti. Chiuse il libro e disse: «La domanda che pongo a me stesso e ai confratelli è questa: siamo ancora all'altezza dei precetti del priore Philip per quanto riguarda la separazione tra i monaci e le femmine?». Nelle discussioni studentesche aveva imparato a presentare la sua tesi sotto forma di domanda ogni qual volta possibile, per dare all'avversario poco appiglio a cui aggrapparsi. Il primo a rispondere fu il vicepriore Carlus il cieco, vicario di Anthony. «Alcuni monasteri si trovano lontani da ogni centro popolato, su un'isola disabitata, immersi nella foresta, oppure situati in cima a una montagna solitaria» disse. Quel suo modo di parlare lento e cadenzato spazientiva Godwyn. «In tali case, i fratelli si isolano da ogni contatto con il mondo secolare» continuò senza fretta. «Kingsbridge non è mai stato così. Noi risiediamo nel cuore di una grande città, abitata da settemila anime. Ci pren-
diamo cura di una delle più splendide cattedrali di tutto il mondo cristiano. Molti di noi sono medici, perché san Benedetto ha scritto: "L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona". Il lusso dell'isolamento totale a noi non è concesso. Dio ci ha assegnato una missione diversa.» Godwyn si aspettava qualcosa del genere. Carlus detestava che si spostassero i mobili perché correva il rischio di urtarli e cadere, e manifestava la stessa difficoltà a confrontarsi con ciò che non gli era familiare, per cui si opponeva a qualunque forma di cambiamento. Ma Theodoric aveva la risposta pronta. «Ragione di più per conformarci rigidamente alle regole» disse. «Chi vive vicino a una taverna deve prestare più attenzione di altri a evitare l'ubriachezza.» Si levò un compiaciuto mormorio di assenso: i frati apprezzavano molto le controffensive. Godwyn annuì in segno di approvazione. Il viso pallido di Theodoric arrossì per la soddisfazione. Rinfrancato, un novizio di nome Juley sussurrò in modo da farsi sentire: «Le donne non infastidiscono Carlus: non le vede». Parecchi frati si misero a ridere, mentre altri scossero la testa con aria severa. Godwyn aveva la sensazione che tutto procedesse per il meglio. Per il momento sembrava che i suoi argomenti prevalessero. A quel punto prese la parola il priore Anthony. «Che cosa proponi esattamente, frate Godwyn?» Il priore non era stato a Oxford, ma ne sapeva abbastanza per indurre l'avversario a esplicitare il proprio pensiero. Godwyn, con qualche riluttanza, mise le carte in tavola. «Si potrebbe valutare l'ipotesi di riportare le cose com'erano al tempo del priore Philip.» Anthony non mollava. «Che cosa intendi, di preciso? Niente suore?» «Sì.» «E dove dovrebbero andare?» «Potrebbero spostarsi in un'altra sede, dando origine a un convento sussidiario, come il collegio di Kingsbridge o St-John-in-the-Forest.» La proposta suscitò un vespaio di commenti, che il priore mise a tacere con non poca difficoltà. La voce che emerse dalla confusione fu quella del medico capo Joseph. Era un uomo intelligente ma orgoglioso, e Godwyn ne diffidava. «Come possiamo mandare avanti l'ospitale senza le suore?» chiese. Impastava le sibilanti a causa dei denti guasti, e questo lo faceva sembrare un ubriaco, ma parlava comunque in tono autorevole. «Somministrano i medicinali, cambiano le fasciature, danno da mangiare agli invali-
di, pettinano gli anziani dementi...» «Potrebbero occuparsene i monaci» ribatté Theodoric. «Anche dei parti? Spesso abbiamo a che fare con donne che hanno difficoltà a mettere al mondo un figlio. Come potranno aiutarle i frati senza le suore, che compiono le... manovre necessarie?» Parecchi concordarono con lui, ma Godwyn aveva previsto la domanda. «Perché non spostare le suore nel vecchio lazzaretto?» Il lazzaretto, o lebbrosario, si trovava su un'isoletta sul fiume, a sud della città. Nei tempi antichi era pieno di malati, ma la lebbra sembrava quasi debellata e ormai non restavano che due occupanti, entrambi anziani. Frate Cuthbert, che era spiritoso, borbottò: «Non vorrei essere io a dire a madre Cecilia che si deve trasferire al lebbrosario». La battuta fu accolta da uno scoppio di ilarità. «Le donne devono ricevere ordini dagli uomini» affermò Theodoric. «E madre Cecilia li riceve dal vescovo Richard. Una decisione del genere può prenderla solo lui» dichiarò il priore. «Dio non voglia» commentò una voce nuova. Era Simeon, il tesoriere. Magro, col viso lungo, si schierava contro qualsiasi proposta che comportasse una spesa. «Non possiamo cavarcela senza le suore.» Godwyn fu colto di sorpresa. «Perché mai?» «Non abbiamo abbastanza denaro» rispose Simeon prontamente. «Quando la cattedrale necessita di riparazioni, chi paga i muratori, secondo te? Non certo noi: non possiamo permettercelo. Li paga madre Cecilia. È lei a comprare le forniture per l'ospitale, la pergamena per lo scriptorium e il foraggio per le stalle. Tutto ciò che è di uso comune per frati e suore lo paga lei.» Godwyn era costernato. «Come può essere? Perché dipendiamo da loro?» Simeon si strinse nelle spalle. «Nel corso degli anni, molte donne devote hanno ceduto al monastero le loro terre e altri beni.» C'era dell'altro, Godwyn ne era sicuro. Anche i frati disponevano di ingenti risorse. Ricevevano affitti e imposte varie da quasi tutti i cittadini di Kingsbridge, oltre a possedere migliaia di acri di terreno coltivato. Il problema doveva stare nel modo in cui quelle ricchezze venivano amministrate. Ma non era il caso di approfondire la cosa, in quel momento. Aveva perso. Anche Theodoric taceva. «Bene, è stata una discussione oltremodo interessante» concluse Anthony in tono compiacente. «Grazie, Godwyn, per avere sollevato la que-
stione. Ora preghiamo.» Godwyn era troppo arrabbiato per pregare. Non aveva ottenuto nulla di quel che voleva, e non capiva dove avesse sbagliato. Mentre i frati sfilavano verso l'uscita, Theodoric gli rivolse un'occhiata sgomenta. «Non sapevo che le suore pagassero tante cose» disse. «Nessuno di noi lo sapeva» replicò Godwyn. Si accorse di fissare Theodoric con uno sguardo furioso e cercò di rimediare. «Ma tu sei stato splendido: hai dibattuto meglio di molti di Oxford.» Era proprio la cosa giusta da dire, e Theodoric parve felice. Quella era l'ora in cui i frati leggevano in biblioteca o passeggiavano nel chiostro in meditazione, ma Godwyn aveva altri progetti. Un pensiero l'aveva assillato durante il pranzo e il capitolo, ma si era affrettato ad accantonarlo perché erano intervenute cose più importanti. A quel punto gli tornò in mente. Sospettava di sapere dove si trovasse il bracciale di lady Philippa. C'erano pochi nascondigli nel monastero. I frati vivevano in spazi comuni: soltanto il priore aveva una camera tutta per sé. Perfino nella latrina sedevano fianco a fianco su una vasca continuamente dilavata da un flusso d'acqua convogliato da un tubo. Non potevano possedere nulla di personale, quindi nessuno aveva un armadietto e neppure una scatola. Ma quel giorno Godwyn aveva scoperto un possibile nascondiglio. Salì al dormitorio. Era deserto. Scostò l'armadio delle coperte dal muro e tolse la pietra smossa. Non guardò nel buco, ma vi infilò dentro la mano per esplorarlo. Tastò in alto, in basso, su entrambi i lati. Sulla destra c'era una piccola fessura. Vi insinuò il dito e toccò qualcosa che non era né pietra né calce. Estrasse l'oggetto con le unghie. Un bracciale di legno intagliato. Godwyn lo sollevò alla luce. Era di legno molto duro, forse quercia. La superficie interna era levigata, ma quella esterna presentava un intarsio estremamente preciso di quadrati e rombi intrecciati: comprese perché quell'oggetto piacesse tanto a lady Philippa. Lo rimise nel nascondiglio, sistemò la pietra e riportò l'armadio nella posizione abituale. Perché Philemon teneva tanto a quel bracciale? Avrebbe potuto venderlo per uno o due penny, ma con grande rischio, visto che era facilmente riconoscibile. Di sicuro non poteva indossarlo. Godwyn uscì dal dormitorio e scese nel chiostro. Non era dell'umore giusto per lo studio o la meditazione. Doveva parlare con qualcuno degli
eventi della giornata. Sentì il bisogno di incontrare la madre. Quel pensiero lo mise in ansia. Forse si sarebbe adirata con lui per come erano andate le cose nel capitolo, però lo avrebbe lodato per il modo in cui aveva gestito la questione del vescovo Richard; ne era sicuro, e non vedeva l'ora di raccontarle tutto. Decise di andare a cercarla. A rigore, questo non era consentito. Ai monaci non era permesso girovagare a loro piacimento per le strade della città. Dovevano avere una buona ragione e, in teoria, potevano lasciare il priorato solo con il permesso del priore. In pratica, però, gli obedientari, le autorità del monastero, ricorrevano a decine di scuse. Il priorato trattava di continuo con i mercanti per comprare cibo, tessuto, scarpe, pergamena, candele, attrezzi per l'orto, finimenti per i cavalli, tutti i beni necessari alla vita quotidiana del monastero. I frati erano proprietari terrieri e possedevano quasi l'intera città, e i monaci medici potevano essere chiamati a visitare un paziente impossibilitato a raggiungere l'ospitale: era dunque frequente vedere i frati per strada ed era improbabile che Godwyn, in quanto sacrista, venisse interrogato sulle ragioni che lo spingevano fuori del monastero. Ciò nonostante era saggio muoversi con discrezione, e quindi lui si accertò di non essere visto quando uscì dal priorato. Attraversò la fiera affollata e percorse in fretta la strada principale fino alla casa dello zio Edmund. Come sperava, trovò la madre sola con la servitù perché Edmund e Caris erano fuori per i loro affari. «È un dono speciale per una madre vedere il figlio due volte nello stesso giorno!» disse lei. «E questo mi offre anche l'occasione di darti da mangiare come si deve.» Gli versò un grosso boccale di birra forte e ordinò alla cuoca di portargli un piatto di carne fredda. «Com'è andata al capitolo?» Godwyn le riferì tutto. «Ho avuto troppa fretta» concluse. Lei annuì. «Mio padre ripeteva sempre: "Non convocare mai una riunione a meno che il risultato non sia sicuro".» Godwyn sorrise. «Devo tenerlo a mente.» «Comunque, secondo me non è successo niente di male.» Era un sollievo che non si fosse adirata. «Però ne sono uscito sconfitto.» «Ma hai stabilito la tua posizione come guida del gruppo dei giovani riformatori.» «Anche se ho fatto la figura dello sciocco?» «Sempre meglio che non essere nessuno.» Godwyn non era certo che lei avesse ragione ma, come sempre quando
metteva in dubbio la saggezza dei consigli materni, evitò di farlo presente. Decise di pensarci più tardi. «È accaduta una cosa molto strana» aggiunse e le raccontò di Richard e Margery evitando i particolari troppo scandalosi. Lei ne fu sorpresa. «Richard dev'essere pazzo! Se il conte di Monmouth scopre che Margery non è vergine romperà la promessa di matrimonio, e il conte Roland andrà su tutte le furie. Richard potrebbe essere sospeso dall'ufficio.» «Però sono molti i vescovi che hanno un'amante, no?» «È diverso. Un prete può avere una "perpetua", che è sua moglie a tutti gli effetti tranne che nel nome. Un vescovo può averne più di una. Ma privare della verginità una nobildonna poco prima delle nozze... Anche il figlio di un conte può incontrare difficoltà a rimanere nelle gerarchie ecclesiastiche dopo un atto del genere.» «Cosa dovrei fare, secondo te?» «Niente. Per il momento hai gestito la faccenda alla perfezione.» Godwyn si gonfiò di orgoglio. «Un giorno questa informazione diventerà un'arma potente nelle tue mani. Non dimenticarlo» aggiunse. «Un'altra cosa. Mi sono chiesto come abbia fatto Philemon a trovare la pietra smossa, e mi è venuto in mente che forse inizialmente ha usato quel posto come nascondiglio. Avevo ragione, e infatti vi ho ritrovato il bracciale perduto da lady Philippa.» «Interessante. Ho la netta sensazione che Philemon ti tornerà utile. È privo di scrupoli morali, sai? Pronto a tutto. Mio padre aveva un socio sempre disposto a fare il lavoro sporco in vece sua: diffondere voci, pettegolezzi velenosi, fomentare la discordia. Uomini del genere possono risultare assai preziosi.» «Dunque, ritieni che io non debba riferire del furto.» «Assolutamente no. Fagli restituire il bracciale, se lo credi importante. Può sempre dire di averlo trovato mentre faceva le pulizie. Ma non smascherarlo. Ne raccoglierai i benefici, te lo garantisco.» «Quindi dovrei proteggerlo?» «Come faresti con un cane aggressivo che tiene alla larga gli intrusi. È pericoloso, ma può rendersi utile.» 10 Merthin ultimò l'intarsio sulla porta il giovedì. Per il momento aveva finito il lavoro nella navata sud: l'impalcatura era
a posto e non doveva fare le casseforme per i muratori, perché Godwyn e Thomas avevano deciso di risparmiare mettendo alla prova il metodo da lui suggerito. Così, aveva ripreso a intagliare la porta ma si era reso conto che gli restava poco da fare. Aveva passato un'ora a rifinire i capelli di una vergine savia e un'altra ora a ritoccare il sorriso sciocco di una vergine stolta, ma non era certo di avere migliorato l'opera. Trovava difficile concentrarsi perché continuava a riandare con la mente a Caris e Griselda. Per tutta la settimana non aveva trovato il coraggio di parlare con Caris, tale era la vergogna che provava. Ogni volta che la vedeva pensava a come aveva abbracciato e baciato Griselda, a come aveva consumato con lei, una ragazza che non gli piaceva e tanto meno amava, l'atto d'amore più grande nella vita di un uomo. Pur avendo trascorso molte ore in passato a immaginare quando l'avrebbe fatto con Caris, a quel punto la prospettiva lo colmava di terrore. Non c'era niente che non andasse in Griselda... be', per la verità sì, ma non era quello a disturbarlo. Si sarebbe sentito allo stesso modo con qualsiasi donna che non fosse Caris. Aveva tolto ogni significato all'atto facendolo con Griselda e ora non riusciva ad affrontare la donna che amava. Mentre fissava il suo lavoro, sforzandosi di non pensare più a Caris per decidere se la porta fosse finita, Elizabeth Clerk entrò nel portico nord. Era una bella fanciulla di venticinque anni pallida e snella, con una nuvola di riccioli biondi. Suo padre era stato vescovo di Kingsbridge prima di Richard. Come quest'ultimo, aveva vissuto nel palazzo vescovile di Shiring, ma nelle sue frequenti visite a Kingsbridge si era innamorato di una cameriera della locanda Bell, Sairy, la madre di Elizabeth. Figlia illegittima, Elizabeth era molto sensibile riguardo alla propria posizione sociale, sempre attenta alla minima scortesia e facile a offendersi. Ma a Merthin piaceva perché era intelligente, e perché quando lui aveva diciott'anni si era fatta baciare e gli aveva permesso di toccarle il seno, che era sodo e piccolo, come plasmato in una coppa poco profonda, con capezzoli che si inturgidivano al minimo sfioramento. La loro storia d'amore era finita per un motivo che era parso banale a lui e imperdonabile a lei: una battuta di Merthin sui preti lussuriosi. Comunque, lei continuava a piacergli. Elizabeth gli sfiorò la spalla mentre osservava la porta. Mise la mano alla bocca e trattenne il fiato. «Sembrano vive!» esclamò. Lui ne fu molto felice: la giovane non era tipo da complimenti di cortesia. Tuttavia, ebbe l'impulso di mostrarsi modesto. «È solo che le ho fatte una diversa dall'altra. Sulla vecchia porta le vergini erano tutte uguali.»
«È più di questo. Sembra che possano avvicinarsi a noi per parlarci.» «Grazie.» «Però è completamente diversa dal resto della cattedrale. Che ne diranno i monaci?» «A frate Thomas piace.» «E al sacrista?» «Godwyn? Non ne ho idea. Ma se trova qualcosa da ridire mi appellerò al priore Anthony, che di sicuro non vuole commissionare un'altra porta e pagare due volte.» «Be', la Bibbia non dice certo che erano tutte uguali, ma solo che cinque avevano avuto il buonsenso di prepararsi in anticipo, mentre le altre avevano aspettato fino all'ultimo minuto con il risultato di perdersi la festa. Che ne pensa Elfric?» «Non lo riguarda.» «Ma è il tuo maestro.» «A lui interessa soltanto che gliela paghino.» Elizabeth non ne era convinta. «Il problema è che come artigiano tu sei più bravo di lui. Ormai è evidente da un paio d'anni, e lo sanno tutti. Elfric non lo ammetterebbe mai, però, ed è per questo che ti odia. Può darsi che te la faccia scontare.» «Tu vedi sempre il lato peggiore delle cose.» «Davvero?» Parve offesa. «Bene, presto scopriremo se ho ragione. Mi auguro di no.» Si voltò per andarsene. «Elizabeth?» «Sì?» «Sono molto contento che ti piaccia.» Lei non rispose, ma parve addolcirsi un po'. Lo salutò con la mano e si allontanò. Merthin decise che la porta era finita e l'avvolse in una rozza tela di sacco. Doveva mostrarla a Elfric, prima o poi, e quello gli parve il momento giusto: la pioggia era cessata, almeno per un po'. Chiamò uno dei manovali per farsi aiutare. I costruttori avevano una loro tecnica per trasportare oggetti pesanti e poco maneggevoli. Posavano per terra due pali robusti, paralleli, poi vi disponevano sopra di traverso una fila di assi per formare una base salda su cui poggiare l'oggetto; dopodiché si mettevano tra i pali, un uomo a ciascuna estremità, e sollevavano il carico. Il sistema, chiamato "barella", veniva usato anche per trasportare i malati all'ospitale.
Nonostante quell'accorgimento, la porta era ancora molto pesante. Merthin, però, era abituato a sollevare carichi considerevoli: Elfric non gli aveva mai permesso di accampare come scusa la bassa statura, e di conseguenza lui era diventato sorprendentemente forte. I due uomini raggiunsero la casa di Elfric e trasportarono la barella all'interno. Griselda era seduta in cucina. Sembrava ingrassare a vista d'occhio: il seno, già prosperoso, era diventato ancora più florido. Merthin non sopportava l'ostilità della gente, quindi si mostrò amichevole. «Vuoi vedere la mia porta?» le chiese mentre le passava accanto. «Perché dovrei?» «È scolpita. La storia delle vergini savie e delle vergini stolte.» Lei fece una risata amara. «Non venirmi a parlare di vergini.» Merthin e il manovale proseguirono fino al cortile. Merthin proprio non le capiva, le donne. Da quando avevano fatto l'amore, Griselda si era mostrata fredda con lui. Perché gli si era concessa, se lo disprezzava? Lasciava chiaramente intendere di non voler ripetere l'esperienza. Merthin avrebbe potuto rassicurarla dicendole che anche lui la pensava allo stesso modo, e in effetti la sola idea gli ripugnava, ma aveva preferito tacere per non essere offensivo. La barella fu calata a terra e l'aiutante di Merthin se ne andò. Elfric era in cortile, il corpo muscoloso chino su una catasta di legname, e contava le assi battendo su ciascuna con un bastone lungo un paio di piedi. Teneva la lingua premuta all'interno della guancia, come sempre quando affrontava un problema che metteva alla prova la sua intelligenza. Incenerì Merthin con un'occhiata e proseguì nel suo lavoro. Merthin rimase in silenzio, limitandosi a scoprire la porta e ad appoggiarla a una pila di blocchi di pietra. Era estremamente soddisfatto del risultato. Pur seguendo il modello tradizionale, aveva fatto qualcosa di originale che lasciava tutti senza fiato. Non vedeva l'ora che la porta venisse installata in chiesa. «Quarantasette» disse Elfric, poi si voltò verso Merthin. «Ho finito la porta» annunciò lui, pieno di orgoglio. «Che ne pensate?» Elfric la osservò per un momento. Dapprima arricciò sorpreso le narici del grosso naso, poi, senza preavviso, percosse Merthin al volto con il bastone che aveva usato per contare. Era un pezzo di legno robusto e il colpo fu duro. Merthin urlò di dolore, barcollò all'indietro e cadde a terra. «Tu, pezzo di merda!» strillò Elfric. «Hai disonorato mia figlia!» Merthin cercò di farfugliare una protesta, ma aveva la bocca piena di sangue.
«Come hai osato?» tuonò Elfric. Come dietro un segnale, Alice comparve sulla soglia. «Serpe!» gridò. «Ti sei intrufolato in casa nostra per deflorare la nostra piccola!» I due si sforzavano di sembrare spontanei, ma dovevano avere preparato tutta la scena, pensò Merthin. Sputò sangue e disse: «Deflorato? Ma non era vergine!». Elfric brandì di nuovo la mazza improvvisata. Merthin rotolò di lato per scansarla, ma un colpo violento si abbatté sulla sua spalla. «Come hai potuto fare una cosa del genere a Caris?» chiese Alice. «La mia povera sorella... quando lo scoprirà, ne avrà il cuore spezzato!» Merthin non riuscì a tenere a freno la lingua. «E tu farai in modo di dirglielo, vero, cagna?» «Be', di certo tu non sposerai Griselda in segreto» sentenziò Alice. Merthin rimase sbalordito. «Sposarla? Ma io non voglio sposarla. Lei mi odia!» In quel momento comparve Griselda. «È ovvio che non ho alcuna voglia di sposarti, ma devo. Sono incinta.» Merthin la fissò. «Impossibile... l'abbiamo fatto una sola volta.» Elfric scoppiò in una risata amara. «Una volta basta e avanza, piccolo idiota.» «Io, comunque, non la sposo.» «In questo caso verrai licenziato.» «Non potete farlo.» «Perché no?» «Non mi interessa. Io non la sposo.» Elfric mollò la mazza per prendere un'ascia. «Gesù Cristo!» esclamò Merthin. Alice fece un passo avanti. «Elfric, non macchiarti di omicidio.» «Togliti dai piedi, donna.» Sollevò l'ascia. Merthin, ancora a terra, si spostò temendo per la propria vita. Elfric calò l'ascia, ma non su Merthin, bensì sulla porta. «No!» urlò il giovane. La lama affilata affondò sul viso della vergine dai capelli lunghi spaccando il legno lungo la venatura. «Fermatevi!» Elfric sollevò l'ascia e l'abbatté di nuovo con maggior forza. La porta si spaccò in due. Merthin si alzò in piedi. Con orrore si accorse di avere gli occhi pieni di
lacrime. «Non ne avete il diritto!» Avrebbe voluto gridare, ma la voce gli uscì come un bisbiglio. Elfric sollevò l'ascia e si voltò verso di lui. «Sta' indietro, ragazzo. Non mi tentare.» Una luce malvagia gli brillava negli occhi. Merthin arretrò. Elfric calò un'altra volta l'ascia sulla porta. Merthin si alzò in piedi e rimase a guardare con il viso rigato di lacrime. 11 Skip e Scrap, i due cani, si fecero grandi feste. Provenivano dalla stessa cucciolata, benché non si somigliassero affatto. Skip era un maschio marrone, Scrap una femmina piccola e nera. Lui il classico cane di campagna magro e sospettoso, lei una cagnetta di città paffuta e ben disposta. Dieci anni prima, il giorno in cui era morta la madre di Caris, Gwenda aveva raccolto Skip dalla cuccia dei bastardini in un angolo della camera da letto di Caris, nella grande casa del mercante di lana. Da allora lei e Caris erano diventate amiche per la pelle. Si vedevano solo due o tre volte l'anno, ma si confidavano sempre i loro segreti. Gwenda sentiva che nulla di quello che avesse rivelato all'amica sarebbe mai giunto all'orecchio dei genitori o di qualunque altro abitante di Wigleigh. Supponeva che Caris riponesse altrettanta fiducia in lei: Gwenda non conosceva altre ragazze a Kingsbridge e quindi non rischiava di lasciarsi sfuggire qualcosa in un momento di leggerezza. Gwenda era arrivata a Kingsbridge il venerdì della settimana in cui si svolgeva la fiera della lana. Joby, il padre, si era diretto nello spiazzo del mercato davanti alla cattedrale per vendere le pelli degli scoiattoli catturati con le trappole nella foresta vicino a Wigleigh, mentre Gwenda era andata subito a casa di Caris, dove i cani si erano ritrovati. Le due amiche parlarono come al solito di ragazzi. «Merthin si comporta in modo strano» esordì Caris. «Domenica era normale e in chiesa mi ha baciato; poi, lunedì, non mi ha quasi guardato in faccia.» «Si sente in colpa per qualcosa» suggerì Gwenda. «Forse c'entra Elizabeth Clerk. Gli sta addosso da sempre, benché sia una cagna insensibile e troppo vecchia per lui.» «Tu e Merthin l'avete già fatto?» «Fatto cosa?» «Sai... da piccola lo chiamavo "grugnire", perché mi pareva di sentire
quel verso quando gli adulti facevano quella cosa.» «Ah, quella cosa? Non ancora.» «Perché no?» «Non so...» «Non vuoi?» «Sì, ma... non ti preoccupa passare la vita a eseguire gli ordini di un uomo?» Gwenda alzò le spalle. «L'idea non mi piace, però non mi preoccupa.» «E tu? L'hai fatto?» «Non nel modo giusto. Anni fa ho detto sì a un ragazzo di un villaggio vicino, tanto per vedere com'era. Dà una bella sensazione di calore, come bere vino. È stata l'unica volta. Ma a Wulfric glielo lascerei fare in qualsiasi momento.» «Wulfric? Questa è nuova!» «Lo so. Ci conosciamo da bambini, da quando mi tirava i capelli e scappava via. Poi un giorno, subito dopo Natale, vedendolo entrare in chiesa ho capito che era diventato un uomo. Be', non soltanto un uomo, ma un uomo davvero stupendo. Aveva la neve tra i capelli e una specie di sciarpa color senape attorno al collo: era semplicemente fantastico.» «Ne sei innamorata?» Gwenda sospirò. Non sapeva spiegare i suoi sentimenti. Non era solo amore: pensava a Wulfric in continuazione e si chiedeva come avrebbe potuto vivere senza di lui. Immaginava di rapirlo e chiuderlo a chiave in un capanno nel folto della foresta, per impedirgli per sempre di sfuggirle. «Be', dalla tua faccia si capisce la risposta» disse Caris. «E lui contraccambia?» Gwenda scosse la testa. «Non mi rivolge mai la parola. Vorrei che mi dimostrasse in qualche modo che sa della mia esistenza, anche solo tirandomi i capelli. Ma è innamorato di Annet, la figlia di Perkin. È sciocca ed egoista, ma lui l'adora. I loro padri sono i più ricchi del villaggio: quello di lei alleva e vende galline da uova, quello di lui possiede cinquanta acri.» «Da come parli sembri senza speranze.» «Senza speranze? Non so. Magari Annet muore e Wulfric all'improvviso si rende conto che ha sempre amato me. Magari mio padre diventa conte e gli ordina di sposarmi.» Caris sorrise. «Hai ragione. In amore non bisogna mai disperare. Mi piacerebbe conoscerlo, questo tipo.» «Speravo proprio che lo dicessi. Andiamo a cercarlo.»
Le due ragazze uscirono di casa, seguite a ruota dai cani. I temporali che nei giorni precedenti avevano flagellato la città si erano ridotti a sporadici acquazzoni, tuttavia la strada principale era ancora un fiume di fango. Con la fiera, e un migliaio di visitatori, al fango erano mescolati escrementi di animali, verdure marce e rifiuti di ogni genere. Mentre avanzavano sguazzando nelle pozzanghere fetide, Caris si informò sulla famiglia di Gwenda. «La mucca è morta. Mio padre deve comprarne un'altra, ma non so come farà: ha solo qualche pelle di scoiattolo da vendere.» «Quest'anno una mucca costa dodici scellini» disse Caris preoccupata. «Sono centoquarantaquattro penny d'argento.» Caris faceva sempre i calcoli a mente: Buonaventura Caroli le aveva insegnato i numeri arabi che, secondo lei, semplificavano il computo. «Quella mucca ci ha tenuto in vita per alcuni inverni... specialmente i miei fratellini.» Gwenda sapeva che cosa voleva dire soffrire la fame. Nonostante il latte della mucca, quattro piccoli erano morti. Non c'era da stupirsi che Philemon avesse desiderato ardentemente farsi frate: la certezza di pasti sostanziosi tutti i giorni valeva qualsiasi sacrificio. «Cosa farà tuo padre?» domandò Caris. «Qualcosa di illegale. Rubare una mucca è difficile, non si può infilare nella borsa, però avrà in mente qualche astuzia.» Gwenda voleva apparire più fiduciosa di quanto in realtà si sentisse. Suo padre era disonesto, ma non intelligente. Per avere una mucca avrebbe fatto qualsiasi cosa, legale o no, ma poteva anche fallire. Raggiunsero la vasta area della fiera passando per i cancelli del priorato. Dopo cinque giorni di maltempo i mercanti erano zuppi e assai sconfortati. Avevano esposto la loro mercanzia sotto la pioggia, senza però fare grandi affari. Gwenda si sentiva a disagio. Lei e Caris non parlavano quasi mai delle diverse condizioni economiche delle loro famiglie. Ogni volta che Gwenda andava a farle visita, Caris le allungava con discrezione qualcosa da portare a casa: una forma di formaggio, un pesce affumicato, una pezza di stoffa, un vaso di miele. Gwenda la ringraziava, le era sempre profondamente riconoscente, ma poi non ne parlavano più. Quando il padre cercava di indurla ad approfittare della fiducia di Caris istigandola a rubarle in casa, Gwenda ribatteva che, nel caso, non avrebbe più potuto farle visita, mentre comportandosi onestamente riceveva in dono qualcosa almeno due o tre volte l'anno. Perfino il padre capiva che era un'obiezione sensata.
Gwenda cercò il banco dove Perkin vendeva le galline. Probabilmente Annet era con lui e di conseguenza Wulfric non sarebbe stato molto distante. Aveva ragione. C'erano Perkin, grasso e furbo, untuoso coi clienti e brusco con tutti gli altri, e Annet, che reggeva un vassoio pieno di uova sfoggiando un sorriso civettuolo: il seno era messo in risalto dalla veste tesa dal vassoio e ciocche di capelli biondi le fuoriuscivano dal cappello spargendosi sulle guance rosee e sul lungo collo. E c'era anche Wulfric, che pareva un arcangelo smarrito, finito per sbaglio tra gli esseri umani. «Eccolo» mormorò Gwenda. «Quello alto con...» «Ho inteso qual è» la interruppe Caris. «Lo mangerei tanto è bello.» «Adesso capisci cosa intendevo.» «È un po' giovane, no?» «Sedici anni. Io ne ho diciotto, e anche Annet.» «D'accordo.» «So cosa stai pensando...» disse Gwenda. «Che è troppo bello per me.» «No...» «Gli uomini belli non si innamorano mai delle donne brutte, vero?» «Tu non sei brutta...» «Mi sono guardata allo specchio.» Nel ricordare quel momento, Gwenda fece una smorfia. «Quando ho visto com'ero, ho pianto: naso grosso e occhi troppo vicini. Assomiglio a mio padre.» «Hai occhi castani dolci e bellissimi, e meravigliosi capelli folti» protestò Caris. «Ma non sono certo all'altezza di Wulfric.» Wulfric, di fianco rispetto a Gwenda e Caris, offriva loro il bel profilo scolpito. Lo ammirarono entrambe per qualche attimo, poi lui si voltò e Gwenda restò senza fiato. L'altro lato del viso era completamente diverso: gonfio e tumefatto, e con l'occhio chiuso. Lei gli corse incontro. «Cosa ti è successo?» gridò. Lui trasalì. «Salve, Gwenda. C'è stata una zuffa.» Distolse il viso con evidente imbarazzo. «Con chi?» «Con uno scudiero del conte.» «Sei ferito!» «Non preoccuparti, sto benissimo» rispose il ragazzo impaziente. Non riusciva a capire perché lei se la prendesse tanto. Forse pensò addirittura che godesse della sua disgrazia.
«Chi era lo scudiero?» domandò Caris. Wulfric la guardò con interesse poiché dal vestito aveva capito che era ricca. «Si chiama Ralph Fitzgerald.» «Oh... il fratello di Merthin!» esclamò Caris. «Si è fatto male?» «Gli ho rotto il naso» rispose Wulfric con orgoglio. «Non sei stato punito?» «Una notte ai ceppi.» Gwenda emise un lieve grido d'angoscia. «Poveretto!» «Non è stato poi tanto male. Mio fratello ha prestato attenzione che nessuno mi tirasse pietre.» «Comunque...» Gwenda era inorridita. L'idea di una qualsiasi forma di prigionia le pareva una tortura intollerabile. Annet, che aveva finito di servire un cliente, si unì alla conversazione. «Ah, Gwenda, sei tu» disse gelida. Forse Wulfric ignorava i sentimenti di Gwenda, ma Annet ne era a conoscenza e la trattava con un misto di ostilità e disprezzo. «Wulfric si è battuto con uno scudiero che mi ha oltraggiato» aggiunse, incapace di nascondere la propria soddisfazione. «Proprio come i cavalieri delle ballate.» «Io non vorrei che lui si facesse spaccare la faccia per amor mio» ribatté Gwenda. «Fortunatamente non è molto probabile, vero?» Annet sorrise con aria trionfante. «Non si può mai sapere che cosa ha in serbo il futuro» sentenziò Caris. Annet trasalì per l'intromissione e si mostrò sorpresa nel vedere gli abiti lussuosi indossati dall'amica di Gwenda. Caris prese Gwenda per un braccio. «Piacere di avere fatto la vostra conoscenza, gente di Wigleigh» disse con grazia. «Arrivederci.» Gwenda ridacchiò mentre si allontanavano. «Hai dato ad Annet proprio la risposta che meritava.» «Mi ha infastidito. Tipi come lei gettano discredito su tutte le donne.» «Quanto è compiaciuta che Wulfric le abbia prese per lei! Vorrei tanto strapparle gli occhi.» «A parte il bell'aspetto, lui com'è veramente?» domandò Caris pensierosa. «Forte, orgoglioso, leale... proprio il tipo che si batte per qualcun altro. Ma è anche il genere d'uomo che sa provvedere alla famiglia, instancabile, anno dopo anno, fino al giorno della morte.» Caris non fece commenti.
«A te non piace tanto, vero?» le domandò Gwenda. «Da quel che dici, mi sembra un po' limitato.» «Se tu avessi un padre come il mio, non giudicheresti limitato uno che sa provvedere alla famiglia.» «Lo so.» Caris le strinse forte il braccio. «Penso che per te lui vada benissimo e, per dimostrartelo, ti aiuterò ad accalappiarlo.» Gwenda non se l'aspettava. «Come?» «Vieni con me.» Lasciarono la fiera e si diressero verso la parte settentrionale della città. Caris condusse Gwenda in un vicolo vicino alla chiesa parrocchiale di St Mark e le indicò una casetta. «Qui abita un'esperta di arti magiche.» Lasciarono fuori i cani e chinarono la testa per varcare la soglia di una porta molto bassa. C'era un'unica stanza al pianterreno, angusta e divisa da una tenda. Sul davanti, una sedia e una panca. Il focolare doveva essere sul retro, pensò Gwenda, chiedendosi come mai qualcuno volesse nascondere quello che succedeva in cucina. La stanza era pulita, soffusa di un forte odore di erbe leggermente acido: non esattamente un profumo, però non sgradevole. «Mattie, sono io!» gridò Caris. Dopo un attimo, una donna sulla quarantina scostò la tenda e si avvicinò. Aveva i capelli opachi e l'incarnato pallido di chi non esce mai. Sorrise alla vista di Caris, poi rivolse a Gwenda uno sguardo penetrante. «Vedo che la tua amica è innamorata, ma il ragazzo non le parla quasi.» «Come fai a saperlo?» chiese Gwenda, sbalordita. Mattie si lasciò cadere pesantemente sulla sedia: era corpulenta e respirava con affanno. «La gente viene qui per tre motivi: malattia, vendetta e amore. Tu sembri in salute e sei troppo giovane per cercare vendetta, quindi devi essere innamorata. E probabilmente il ragazzo ti dimostra indifferenza, altrimenti non avresti bisogno del mio aiuto.» Gwenda lanciò un'occhiata a Caris, che le disse, compiaciuta: «Te l'ho detto che è una maga». Le due ragazze sedettero sulla panca e fissarono la donna piene di aspettativa. «Lui vive vicino a te, probabilmente nello stesso villaggio, ma la sua famiglia è più ricca della tua» continuò Mattie. «Tutto vero.» Gwenda era stupefatta. Senza dubbio Mattie tirava a indovinare, ma era così precisa nelle sue affermazioni da sembrare una veggente. «È bello?»
«Molto.» «Ma è innamorato della ragazza più carina del villaggio.» «Se ti piace quel genere.» «E anche la famiglia di lei è più ricca della tua.» «Sì.» Mattie annuì. «Una storia molto comune. Posso aiutarti, però prima devi capire una cosa: io non ho niente a che fare con il mondo degli spiriti. Solo Dio sa fare miracoli.» Gwenda era confusa. Tutti sapevano che gli spiriti dei morti avevano il controllo sul destino degli uomini: se erano contenti di te, guidavano i conigli nelle tue trappole, ti davano neonati pieni di salute e facevano maturare il tuo grano con un sole splendente; ma, se li irritavi, ti mettevano i vermi nelle mele, si adoperavano perché la tua mucca desse alla luce un vitellino deforme e rendevano impotente tuo marito. Perfino i medici del priorato ammettevano che appellarsi ai santi era più efficace delle loro medicine. «Non disperare. Posso venderti una pozione d'amore» proseguì Mattie. «Mi dispiace, non ho denaro.» «Lo so, ma la tua amica Caris nutre per te un affetto speciale e vuole che tu sia felice. È venuta qui già disposta a pagare la pozione. Tuttavia, devi somministrarla correttamente. Riesci a stare sola con il ragazzo per un'ora?» «Troverò il sistema.» «Versagli la pozione in una bevanda. Dopo qualche istante si innamorerà. Ma in quel momento bada bene di essere sola con lui: se è presente un'altra ragazza, rischi che si innamori di lei. Quindi, tienilo lontano dalle altre e sii molto dolce. Penserà che tu sia la donna più desiderabile al mondo. Bacialo, digli che è meraviglioso e, se vuoi, fai l'amore con lui. Subito dopo si addormenterà. Al risveglio ricorderà di avere trascorso tra le tue braccia l'ora più felice della sua vita, e vorrà farlo di nuovo, il più presto possibile.» «Ma non ci sarà bisogno di un'altra dose?» «No, la seconda volta saranno sufficienti il tuo amore, la tua passione e la tua femminilità. Una donna può rendere enormemente felice un uomo, se lui gliene dà la possibilità.» Al solo pensiero, Gwenda si sentì ardere dal desiderio. «Non vedo l'ora.» «Allora prepariamo la mistura.» Mattie si alzò faticosamente dalla sedia. «Potete venire dall'altra parte della tenda.» Gwenda e Caris la seguirono.
«L'ho messa solo per gli ignoranti.» Nella cucina dal lindo pavimento di pietra c'era un grande focolare munito di sostegni e ganci per pentole e casseruole, assai più di quante potessero servire a una donna sola per prepararsi il cibo. C'erano anche un vecchio tavolo massiccio macchiato e bruciacchiato, ma tenuto pulito con energiche strofinate, scaffali su cui erano allineati vasetti di ceramica e una credenza chiusa a chiave dove probabilmente Mattie conservava gli ingredienti più preziosi per le sue pozioni. Appesa alla parete c'era una grande lastra d'ardesia su cui erano incisi numeri e lettere, forse di ricette. «Perché devi nascondere tutto questo dietro una tenda?» domandò Gwenda. «Se un uomo prepara unguenti e medicine è uno speziale, ma se una donna fa le stesse cose corre il rischio di essere definita una strega. In città c'è una donna chiamata Nell la pazza che va in giro urlando cose sul diavolo. Frate Murdo l'ha accusata di eresia. Nell è scombinata, è vero, ma non fa nulla di male. Ciò nonostante, Murdo insiste che venga processata. Agli uomini piace ammazzare una donna di tanto in tanto: Murdo fornirà loro la scusa e poi passerà a raccogliere i penny delle elemosine. Ecco perché dico sempre che solo Dio sa fare miracoli. Io non evoco gli spiriti: uso semplicemente le erbe della foresta e la mia capacità di osservazione.» Mentre Mattie parlava, Caris girava per la cucina con la disinvoltura di chi è di casa. Posò sul tavolo una ciotola e una boccetta. Mattie le allungò la chiave della credenza. «Metti tre gocce di essenza di papavero in un cucchiaio di vino distillato» le ordinò. «Dobbiamo stare attenti che la pozione non sia troppo carica, altrimenti lui si addormenterà prima del tempo.» Gwenda era stupefatta. «Caris, la fai tu la pozione?» «Qualche volta aiuto Mattie. Non dire nulla a Petranilla, perché disapproverebbe.» «Non glielo direi neanche se i capelli le andassero a fuoco.» La zia di Caris non amava Gwenda, forse per la stessa ragione per cui diffidava di Mattie: erano entrambe di ceto basso, e lei dava molta importanza a quel genere di cose. Ma perché Caris, figlia di un ricco mercante, faceva l'apprendista nella cucina di una sorta di alchimista? Mentre Caris preparava il miscuglio, Gwenda rammentò che l'amica era sempre stata incuriosita dalle malattie e dalle cure. Da bambina voleva diventare medico e non capiva perché solo ai preti fosse permesso studiare medicina. A Gwenda venne in mente che, dopo la morte della madre, Caris aveva chiesto: "Ma perché la gente si
ammala?". Madre Cecilia le aveva risposto che era a causa del peccato, mentre Edmund aveva sostenuto che in realtà nessuno lo sapeva. Né l'una né l'altra teoria l'aveva convinta. Forse lì, nella cucina di Mattie, stava cercando una spiegazione. Caris versò il liquido nella boccetta, assicurò bene il tappo con uno spago e fece un nodo alle due estremità. Poi porse la fiala a Gwenda, che la infilò nella borsa di cuoio fissata alla cintura, domandandosi come sarebbe riuscita a stare da sola con Wulfric per un'ora. Se prima aveva affermato con disinvoltura che avrebbe trovato il modo, dopo essere entrata in possesso della pozione d'amore l'impresa le parve quasi impossibile. Tutte le volte che gli rivolgeva la parola, lui manifestava segni di insofferenza e voleva passare ogni momento libero con Annet. Che scusa inventare per appartarsi con lui? "Voglio mostrarti un posto dove possiamo trovare uova di anitra selvatica." Ma perché avrebbe dovuto dirlo a lui e non al padre? Wulfric era un po' ingenuo, ma non stupido: avrebbe capito che lei aveva in mente qualcosa. Caris diede a Mattie dodici penny d'argento, il guadagno di due settimane del padre di Gwenda. «Grazie, Caris» le disse. «Spero che tu venga al mio matrimonio!» Caris rise. «Ecco come voglio vederti: fiduciosa!» Si congedarono da Mattie per tornare alla fiera. Gwenda decise di accertarsi prima di tutto dove fosse alloggiato Wulfric. La sua famiglia era troppo benestante per essere ospitata senza spese al priorato, come chi sosteneva di essere povero. Probabilmente dormivano in una locanda. Avrebbe potuto chiederlo con noncuranza a lui o al fratello, tanto per informarsi sulla qualità della sistemazione, come se le interessasse sapere quale fosse la migliore in città. Passò un monaco e lei si sentì d'un tratto in colpa per non avere pensato di far visita al fratello Philemon. Il padre non sarebbe andato a trovarlo perché da anni tra i due non correva buon sangue, ma lei gli voleva bene, pur sapendo che era scaltro, bugiardo e maligno. Avevano patito insieme la fame per molti inverni. Decise che lo avrebbe cercato in seguito, dopo avere trovato Wulfric. Ma, prima di raggiungere con Caris l'area della fiera, si imbatté nel padre. Joby era vicino ai cancelli del priorato, davanti alla locanda Bell. Insieme a lui c'era un uomo dall'aria rozza in tunica gialla, con un fagotto sulle spalle... e una mucca marrone.
Joby chiamò la figlia con un cenno della mano. «Ho trovato una mucca.» Gwenda si avvicinò per osservarla: sui due anni, magra e bizzosa, sembrava però sana. «Mi pare che vada benissimo» commentò lei. «Lui è Sim Chapman, l'ambulante.» Il padre indicò col pollice la tunica gialla. Gli ambulanti andavano di villaggio in villaggio a vendere piccoli oggetti utili come aghi, fermagli, specchi e pettini. Forse la mucca era rubata, ma al padre non importava, se il prezzo era buono. «Come ti sei procurato il denaro?» domandò Gwenda. «In realtà, non la pago» rispose il padre con aria evasiva. Gwenda si era aspettata che avesse qualcosa in mente. «E allora?» «Più che altro è un baratto.» «Cosa gli dai in cambio della mucca?» «Te.» «Non dire sciocchezze.» Ma in quell'istante sentì un cappio scenderle sulla testa e stringersi attorno al corpo fino a bloccarle le braccia lungo i fianchi. Rimase sconcertata. Una cosa del genere non poteva succedere. Cercò di divincolarsi, ma Sim tirò più forte la fune. «Su, non fare tante storie» le disse il padre. Lei non riusciva a credere che parlasse sul serio. «Ma cosa ti salta in mente?» domandò incredula. «Sei pazzo, non puoi vendermi!» «A Sim serve una donna, e a me una mucca» disse il padre. «Semplicissimo.» Sim parlò per la prima volta. «È piuttosto brutta, tua figlia.» «Ma è ridicolo!» esclamò Gwenda. Sim le sorrise. «Gwenda, non preoccuparti. Sarò buono con te, se ti comporterai bene e farai quello che ti dico.» Gwenda capì che non era uno scherzo: quei due erano decisi a procedere allo scambio. Il timore che ciò potesse veramente accadere la trafisse come una lama gelida. «Questo gioco è durato fin troppo» intervenne Caris, la voce chiara e forte. «Liberatela subito.» Sim non si lasciò intimorire dal tono perentorio. «E tu chi sei, per dare ordini?» «Mio padre è castaldo della corporazione parrocchiale.» «Ma tu no e, se anche lo fossi, non avresti alcuna autorità su di me o sul mio amico Joby.»
«Non si può barattare una ragazza con una mucca.» «Perché no?» chiese Sim. «La mucca è mia, e la ragazza è sua figlia.» La discussione animata attrasse l'attenzione dei passanti, che si fermarono a guardare la ragazza legata con la fune. «Cosa succede?» chiese qualcuno. «Ha barattato la figlia con una mucca» rispose un altro. Gwenda scorse un'espressione di panico sul volto del padre: evidentemente rimpiangeva di non aver fatto lo scambio in un vicolo tranquillo. Ma non era tanto acuto da prevedere la reazione della gente. Gwenda si rese conto che i passanti potevano essere la sua unica speranza. Caris fece un cenno con la mano a un monaco che stava uscendo dai cancelli del priorato. «Frate Godwyn!» chiamò. «Vieni a risolvere questa controversia, per favore.» Guardò Sim con aria di trionfo. «Il priorato ha giurisdizione su tutti gli scambi che si concludono alla fiera della lana» disse. «Frate Godwyn è il sacrista. Penso che dobbiate accettare la sua autorità.» «Salve, cugina Caris. Cosa succede?» si informò Godwyn. Sim emise un grugnito di disappunto. «Tuo cugino, eh?» Godwyn gli lanciò un'occhiata gelida. «Qualunque sia l'oggetto del contendere, come uomo di Dio cercherò di giudicare con equità... Potete fare affidamento su di me, spero.» «Siamo ben felici di sentirlo, signore» replicò Sim, d'un tratto ossequioso. Joby fu altrettanto viscido. «Io ti conosco, fratello: mio figlio Philemon ti è molto affezionato. Per lui tu sei la gentilezza in persona.» «Va bene, basta così» disse Godwyn. «Cosa succede?» «Questo tipo, Joby, vuole barattare Gwenda con una mucca. Digli che non può» spiegò Caris. «È mia figlia, signore, ha diciotto anni e non è ancora sposata; dal momento che è mia, fa quello che voglio io» ribatté Joby. «Ciò nonostante, vendere i propri figli mi pare una pratica vergognosa» commentò Godwyn. Joby assunse un'aria patetica. «Non lo farei, signore, ma a casa ho altri tre figli. Sono un bracciante, non possiedo terra e d'inverno non riesco a sfamarli senza una mucca. Quella che avevamo è morta.» Dalla folla che si radunava sempre più numerosa si levò un mormorio di solidarietà. Tutti conoscevano la rigidità dell'inverno e a quali estremi rimedi talvolta si doveva ricorrere per provvedere alla famiglia. Gwenda
cominciò a disperare. «Tu puoi anche considerarlo vergognoso, frate Godwyn, ma è peccato?» Sim parlò come se conoscesse già la risposta, e Gwenda pensò che probabilmente non era la prima volta che si trovava coinvolto in una disputa del genere. Con ovvia riluttanza, Godwyn rispose: «Sembra proprio che la Bibbia autorizzi la vendita di una figlia come schiava. Libro dell'Esodo, capitolo ventuno». «Bene, hai visto!» esclamò Joby. «È una legge cristiana.» Caris era fuori di sé. «Il Libro dell'Esodo!» disse sprezzante. «Noi non siamo figli di Israele» si intromise una donna tra la folla. Piccola e massiccia, aveva un mento prominente che le conferiva un'aria determinata. Era sicura di sé, nonostante fosse vestita poveramente. Gwenda la riconobbe: era Madge, la moglie di Mark Webber. «Non ci sono più schiavi, al giorno d'oggi» aggiunse la donna. «Allora cosa mi dici degli apprendisti che non vengono pagati e possono essere picchiati dal loro padrone? O delle suore e dei monaci novizi? O di quelli che sgobbano nei palazzi dei nobili in cambio di vitto e alloggio?» ribatté Sim. «Magari la loro vita è dura, però non possono essere venduti e comprati. Vero, frate Godwyn?» insistette Madge. «Non intendo dire che questo baratto sia legittimo» rispose Godwyn. «A Oxford ho studiato medicina, non legge. Però, dalle Sacre Scritture e dagli insegnamenti della Chiesa non risulta che questi uomini stiano commettendo peccato.» Guardò Caris stringendosi nelle spalle. «Mi dispiace, cugina.» Madge Webber incrociò le braccia sul petto. «Bene, ambulante, come hai intenzione di far uscire la ragazza dalla città?» «Legata a una fune. Nello stesso modo in cui ho fatto entrare la mucca.» «Ah, ma prima non sei stato costretto a far passare la mucca davanti a me e a queste persone.» Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Non sapeva quanti fra gli astanti fossero dalla sua parte ma, se si fosse arrivati alle mani, molto probabilmente sarebbero stati con Madge, che era una della città, mentre Sim era forestiero. «Ho già avuto a che fare con donne ostinate» disse Sim con una smorfia «e non sono mai state un grosso problema.» Madge posò la mano sulla fune. «Forse ti è andata bene.»
Lui le strappò la fune. «Non toccare la mia proprietà e non ti succederà niente.» Madge posò provocatoriamente la mano sulla spalla di Gwenda. Sim le allungò uno spintone e lei indietreggiò barcollando, ma dalla folla si alzò un mormorio di protesta. «Non lo faresti se conoscessi suo marito» affermò qualcuno. Seguì uno scroscio di risate. Gwenda pensò a Mark, il marito di Madge, il gigante buono. Se solo si fosse fatto vedere! Invece arrivò John il conestabile. Un naso molto sensibile all'odore di guai lo portava verso ogni assembramento nel momento stesso in cui si formava. «Niente spintoni, qui» disse. «Stai creando guai, ambulante?» Gwenda ricominciò a sperare. I venditori ambulanti godevano di una pessima reputazione e il conestabile aveva subito supposto che fosse Sim la causa del trambusto. Sim ritornò ossequioso, cosa che sapeva fare più in fretta che cambiare cappello. «Chiedo scusa, mastro conestabile, ma quando un uomo paga il prezzo pattuito per un acquisto, gli si deve permettere di uscire da Kingsbridge con la propria mercanzia intatta.» «Certamente.» John non poté fare a meno di confermarlo. La fama di una città sede di mercato si basava sulla correttezza negli affari. «Ma cos'hai comprato?» «Questa ragazza.» «Ah.» John parve pensieroso. «Chi l'ha venduta?» «Io» disse Joby. «Sono il padre.» «E questa donna dal mento sporgente vuole impedirmi di portare via la ragazza» continuò Sim. «Infatti» disse Madge. «Perché né io né nessun altro qui abbiamo mai sentito che al mercato di Kingsbridge si può vendere o comprare una donna.» «Un uomo può fare del proprio figlio ciò che vuole.» Joby si guardò intorno in cerca di consenso. «C'è qualcuno che non è d'accordo?» Gwenda sapeva che nessuno l'avrebbe contraddetto. Alcuni trattavano i figli con gentilezza, altri con durezza, ma tutti concordavano sul fatto che un padre avesse potere assoluto sulla propria prole. Gwenda sbottò rabbiosa: «Se aveste un padre come lui non ve ne stareste qui muti come pesci. Quanti di voi sono stati venduti dai genitori? Quanti di voi da bambini sono stati costretti a rubare perché potevano infilare facilmente le loro piccole mani nelle borse della gente?».
Joby cominciava a preoccuparsi. «Sta farneticando, mastro conestabile» protestò. «Nessuno dei miei figli ha mai rubato.» «Non importa» disse John. «Ascoltatemi tutti. Prenderò una decisione, e quelli che non sono d'accordo potranno andare a lamentarsi dal priore. Se vedo spintoni, o qualsiasi altro comportamento violento, arresto tutti i responsabili. Spero di essere stato chiaro.» Si guardò attorno con aria bellicosa. Tutti tacquero, impazienti di conoscere la sua decisione. «Non vedo motivo di ritenere illegittimo questo baratto, pertanto Sim l'ambulante è autorizzato ad andarsene con la ragazza» concluse. «Te lo dicevo anch'io, non...» «Chiudi quella boccaccia, Joby, sciocco che non sei altro» lo interruppe il conestabile. «Sim, vattene, e in fretta. Madge, se alzi un dito ti metto ai ceppi, e neppure tuo marito mi fermerà. E tu, Caris, non dire una parola, per favore: se vuoi, lamentati con tuo padre.» John non aveva ancora finito di parlare che Sim diede uno strattone alla fune. Gwenda fece un balzo in avanti e piantò il piede per non cadere; poi, mezzo incespicando e mezzo correndo, si avviò lungo la strada. Con la coda dell'occhio vide Caris al suo fianco. Un attimo dopo l'amica fu fermata da John il conestabile; non fece in tempo a protestare che scomparve dalla visuale di Gwenda. Sim camminava veloce per la strada fangosa tirando la fune e mantenendo Gwenda sempre in equilibrio precario. Mentre si avvicinavano al ponte, lei cominciò a disperare. Fece uno scatto all'indietro, ma lui rispose con un forte strattone che la fece cadere nel fango. Le braccia erano ancora legate, quindi non poté proteggersi con le mani. Cadde in avanti, il petto e la faccia nella melma. A quel punto rinunciò a opporre qualsiasi resistenza e tentò in tutti i modi di rimettersi in piedi. Imbrigliata come un animale, dolente, terrorizzata e coperta di fango fetido, attraversò il ponte e seguì barcollando il suo nuovo padrone lungo la strada che portava alla foresta. Sim l'ambulante condusse Gwenda attraverso i sobborghi di Newtown fino a un crocevia chiamato "incrocio del Patibolo", dove venivano impiccati i criminali. Poi prese verso sud, in direzione di Wigleigh. Si assicurò la fune al polso per impedire alla ragazza di fuggire, qualora si fosse distratto. Skip li seguiva, ma Sim gli lanciò addosso dei sassi e quando uno lo colpì al naso il cane di Gwenda si ritirò con la coda tra le zampe. Dopo parecchie miglia, quando il sole cominciava a calare, Sim svoltò nella foresta. Gwenda non aveva colto alcun segnale indicatore lungo la
strada, ma le sembrò che Sim avesse scelto con attenzione: percorso qualche centinaio di passi tra gli alberi, infatti, arrivarono a un sentiero. Abbassando lo sguardo, Gwenda scorse sul terreno piccole impronte nitide di decine di zoccoli e si rese conto che era una pista dei cervi. Portava sicuramente all'acqua, pensò. E in effetti arrivarono a un piccolo ruscello, ai lati del quale la vegetazione era stata calpestata. Sim si inginocchiò, riempì di acqua pulita le mani e si abbeverò. Poi, per liberare quelle di Gwenda, le spostò la fune intorno al collo e la condusse all'acqua. Lei si lavò le mani nel ruscello e bevve avidamente. «Lavati la faccia» ordinò lui. «Sei già abbastanza brutta di tuo.» Gwenda fece come le era stato ordinato, domandandosi stancamente perché gli importasse del suo aspetto. Proseguirono lungo il sentiero che continuava dal lato opposto della pozza. Gwenda era una ragazza robusta, in grado di camminare una giornata intera, ma sconfitta, infelice e terrorizzata com'era si sentiva esausta. Una volta giunti a destinazione, probabilmente l'attendeva un destino assai triste, ma ciò nonostante non vedeva l'ora di arrivare per potersi sedere. Si stava facendo buio. La pista dei cervi si insinuava tra gli alberi per un miglio, poi terminava ai piedi di una collina. Sim si fermò accanto a una quercia imponente e lanciò un breve fischio. Qualche attimo dopo, dalla semioscurità della foresta si materializzò una figura. «Tutto bene, Sim.» «Tutto bene, Jed.» «Cos'hai lì, una crostata di frutta?» «Puoi averne una fetta, Jed, come gli altri, solo se hai una moneta da sei penny.» Gwenda si rese conto del piano di Sim. L'avrebbe fatta prostituire. Quel pensiero fu un colpo duro: la ragazza vacillò e cadde sulle ginocchia. «Sei penny, eh?» La ragazza percepì eccitazione nella voce di Jed, che peraltro le sembrava lontana. «Quanti anni ha?» «Il padre sostiene che ne ha sedici, ma io credo che sia vicina ai diciotto.» Sim diede uno strattone alla fune. «Alzati, tu, vacca pigra, non siamo ancora arrivati.» Gwenda si alzò. "Ecco perché ha voluto che mi lavassi la faccia" pensò e, per qualche ragione, quella consapevolezza la fece piangere. Disperata, avanzò incespicando sulle orme di Sim finché giunsero a una radura, al centro della quale c'era un falò. Attraverso le lacrime, intravide
quindici o venti persone sdraiate lungo i bordi, la maggior parte delle quali avvolte in coperte o mantelli. Quasi tutti quelli che la guardavano alla luce del fuoco erano maschi, però scorse anche il volto bianco di una donna, con l'espressione dura ma il mento delicato, che le lanciò una rapida occhiata per poi scomparire nuovamente nel suo giaciglio di stracci. Un barile di vino capovolto e tazze di legno sparpagliate ovunque erano ciò che restava di un'ubriacatura generale. Gwenda capì che Sim l'aveva condotta in un covo di fuorilegge. Gemette. A quanti di loro avrebbe dovuto cedere? Nel momento in cui si pose la domanda conosceva già la risposta: a tutti. Sim la trascinò dalla parte opposta della radura, verso un uomo che sedeva con la schiena appoggiata a un albero. «Tutto bene, Tam» disse Sim. Gwenda capì subito chi era quell'uomo: Tam il latitante, il fuorilegge più famoso della contea. Aveva un bel viso, benché arrossato dal bere. Dicevano che fosse di nobili origini, ma era una leggenda popolare che riguardava tutti i banditi famosi. Osservandolo, Gwenda si sorprese della sua giovane età: non doveva avere più di venticinque anni. D'altronde, uccidere un fuorilegge non era un crimine, per cui, con tutta probabilità, pochi arrivavano alla vecchiaia. «Tutto bene, Sim» gli fece eco Tam. «Ho barattato la mucca di Alwyn con una ragazza.» «Bravo.» Tam aveva la voce leggermente impastata. «Faremo pagare sei penny a tutti, ma ovviamente per te sarà un omaggio. Immagino ti farà piacere essere il primo.» Tam scrutò attentamente Gwenda, gli occhi iniettati di sangue. Forse era perché lei se lo augurava con tutte le forze, ma credette di scorgere una punta di pietà nel suo sguardo. «No, grazie, Sim» disse il fuorilegge. «Comincia pure tu e fai divertire i ragazzi, anche se forse dovrai aspettare fino a domani. Abbiamo intercettato un barile di buon vino che due monaci stavano portando a Kingsbridge, e adesso sono quasi tutti ubriachi fradici.» Il cuore di Gwenda ebbe un sussulto di speranza. Forse la tortura sarebbe stata rimandata. «Devo sentire Alwyn» disse Sim dubbioso. «Grazie, Tam.» Se ne andò tirandosi dietro Gwenda. Poco più avanti, un uomo dalle spalle larghe tentava di mettersi in piedi. «Tutto bene, Alwyn» disse Sim. Sembrava che i fuorilegge usassero quella frase come forma di saluto e anche come parola d'ordine. Alwyn era nella fase irritabile della sbornia. «Cos'hai lì?»
«Una fresca pollastrella.» Alwyn afferrò il mento di Gwenda, stringendolo con forza ingiustificata, e la costrinse a voltare il viso verso il fuoco. Lei dovette guardarlo negli occhi. Era giovane, come Tam il latitante, e con la stessa aria malsana di chi conduce una vita dissoluta. L'alito gli puzzava di vino. «Cristo, ne hai portata una brutta.» Una volta tanto, Gwenda fu felice di essere ritenuta tale: forse Alwyn non avrebbe fatto niente con lei. «Ho preso quel che potevo» replicò Sim stizzito. «Se quell'uomo aveva una figlia bella, non me la cedeva in cambio di una mucca, no? Anzi, la faceva sposare al figlio di un ricco mercante di lana.» Al pensiero del padre, Gwenda si adirò: lui doveva sicuramente sapere, o almeno sospettare, ciò che sarebbe accaduto. Come aveva potuto farle una cosa del genere? «Va bene, va bene, non importa» tagliò corto Alwyn. «Con solo due donne nel gruppo, quasi tutti i ragazzi stanno morendo dalla voglia.» «Tam ha detto che dovremmo aspettare fino a domani, perché stanotte sono troppo ubriachi; comunque sta a te decidere.» «Tam ha ragione. La metà di loro dorme già.» La paura di Gwenda diminuì un poco. Durante la notte poteva succedere di tutto. «Bene» disse Sim. «Anch'io sono stanco morto.» Guardò Gwenda. «Sdraiati, tu.» Non la chiamava mai per nome. Lei si stese e Sim le legò insieme i piedi e poi le mani dietro la schiena, quindi lui e Alwyn si sistemarono di fianco alla ragazza, uno per parte, e si addormentarono dopo pochi istanti. Gwenda era esausta, ma non pensava assolutamente a dormire. Con i polsi legati dietro la schiena, tutte le posizioni erano dolorose. Cercò di muoverli dentro la fune, ma Sim l'aveva stretta saldamente e annodata bene. Il risultato fu che si procurò un'escoriazione, e la fune le bruciò la carne viva. La disperazione si trasformò in impotenza rabbiosa, e Gwenda immaginò la vendetta sui suoi aguzzini: li avrebbe presi a frustate mentre loro si facevano piccoli davanti a lei. Vane fantasie. Volse la mente a concrete ipotesi di fuga. Prima di tutto doveva farsi slegare, dopodiché sarebbe scappata. Le sarebbe bastato assicurarsi di non essere seguita e catturata di nuovo. Sembrava impossibile.
12 Gwenda si svegliò infreddolita. Era piena estate, ma l'aria era fresca e addosso non aveva altro che il vestito leggero. Il cielo stava schiarendo dal nero al grigio. Diede un'occhiata alla radura circostante immersa nella debole luce: non si muoveva nessuno. Aveva bisogno di orinare. Pensò di farlo lì e di inzupparsi il vestito. Se questo la rendeva disgustosa, tanto meglio. Ma accantonò subito l'idea: avrebbe significato arrendersi, e non era quello che voleva. Che fare? Alwyn dormiva accanto a lei, il lungo pugnale nel fodero ancora assicurato alla cintura, e questo le fece balenare l'idea. Non era sicura di avere il fegato per realizzare il piano che stava prendendo forma nella sua mente, tuttavia ignorò la paura: doveva tentare. Aveva le caviglie legate, però riusciva a muovere le gambe. Diede un calcio ad Alwyn, che parve non accorgersene. Tirò un altro calcio, e lui si scosse. La terza volta si mise a sedere. «Sei stata tu?» chiese confuso. «Devo orinare.» «Non nella radura. È una regola di Tam: venti passi per pisciare, cinquanta per cacare.» «Allora anche i fuorilegge seguono delle regole.» Lui la fissò interdetto senza cogliere l'ironia. Non era intelligente, si rese conto Gwenda, e questo le sarebbe tornato utile, però era forte e cattivo. Doveva fare molta attenzione. «Legata in questo modo non posso andare da nessuna parte.» Lui grugnì, ma le slegò le caviglie. La prima parte del piano aveva funzionato, eppure Gwenda si sentì ancor più spaventata. Faticò a mettersi in piedi. Le dolevano i muscoli delle gambe per non averle mai potute muovere durante la notte. Fece un passo, vacillò e cadde. «È troppo difficile con le mani legate.» Lui la ignorò. La seconda parte del piano non aveva funzionato. Doveva tentare di nuovo. Si alzò e si infilò tra gli alberi. Alwyn, alle sue spalle, contava i passi sulle dita. Arrivato a dieci, ricominciò. Quando finì le dita la seconda volta, disse: «Lì va bene».
Lei lo guardò desolata. «Non posso alzare il vestito.» Ci sarebbe cascato? La fissò senza dire una parola. Le sembrava di sentire gli ingranaggi del cervello dell'uomo che si muovevano con il rumore dei mulini a vento. Alwyn avrebbe potuto tenerle sollevato il vestito mentre lei orinava, ma questo era ciò che facevano le madri con i bambini piccoli e per lui sarebbe stato umiliante. Oppure avrebbe potuto slegarle la corda attorno ai polsi. Con mani e piedi liberi, Gwenda se la sarebbe data a gambe. Ma era piccola, stanca e con i muscoli intorpiditi: era impossibile che corresse più veloce di un uomo con gambe lunghe e muscolose. Probabilmente lui stava pensando che liberarla non avrebbe rappresentato un rischio. Slegò la corda che le stringeva i polsi. Gwenda distolse lo sguardo per nascondere l'espressione trionfante e si massaggiò le braccia per riattivare la circolazione. Avrebbe voluto cavargli gli occhi, invece gli sorrise il più dolcemente possibile. «Grazie» disse, come se le avesse fatto una gentilezza. Lui rimase a guardarla muto, in attesa. Gwenda si aspettava che l'uomo guardasse altrove mentre lei sollevava la gonna e si accucciava, invece continuò a fissarla con insistenza. Decisa a non mostrarsi imbarazzata nel fare una cosa naturale, lo ignorò. Alwyn schiuse la bocca e a lei parve che avesse il respiro concitato. A quel punto l'aspettava la parte più difficile del piano. Si alzò lentamente, permettendogli di darle una bella occhiata prima di far ricadere il vestito. Lui si leccò le labbra. Lei capì di averlo in pugno. Gwenda gli si avvicinò. «Vuoi essere il mio protettore?» chiese con una voce da bambina che non le apparteneva. Alwyn non si mostrò sospettoso. Senza parlare le afferrò il seno con la mano ruvida e lo strizzò. Lei rimase senza fiato per il dolore. «Non così forte!» Gli prese la mano tra le sue. «Con più delicatezza.» Se la portò contro il seno sfregando il capezzolo, che si inturgidì. «È più bello se fai piano.» L'uomo grugnì, ma continuò ad accarezzarla dolcemente. Poi con la mano sinistra le afferrò lo scollo del vestito e con la destra estrasse il pugnale. Era lungo un piede e appuntito; la lama brillava per la recente affilatura: era ovvio che voleva tagliarle il vestito. Non andava bene, perché sarebbe rimasta nuda. Gwenda gli strinse leggermente il polso e lo trattenne per un momento. «Non c'è bisogno di usare il coltello. Guarda.» Fece un passo indietro,
sciolse la cintura e con un movimento rapido si sfilò il vestito dalla testa. Era il suo unico indumento. Lo distese per terra e vi si sdraiò sopra, quindi abbozzò un sorriso, che probabilmente assomigliava di più a un'orrenda smorfia. Poi aprì le gambe. Lui esitò solo un attimo. Il pugnale nella mano destra, si calò i mutandoni e si inginocchiò tra le sue cosce. Le puntò la lama contro il viso. «Se fai la furba, ti affetto la guancia.» «Non ce ne sarà bisogno» lo ammonì lei, cercando disperatamente di pensare alle parole che un uomo del genere avrebbe voluto sentire da una donna. «Mio grande e forte protettore.» Lui non reagì. Si sdraiò sopra di lei, spingendo alla cieca. «Non così in fretta» disse Gwenda serrando i denti per il dolore provocato da quei movimenti maldestri. Allungò la mano per guidarlo dentro di sé, poi con uno scatto alzò le gambe per facilitargli il compito. Lui si sollevò spostando tutto il peso sulle braccia. Posò il pugnale sull'erba accanto alla testa di lei, la palma destra sull'impugnatura. In attesa del momento propizio, Gwenda lo assecondò, fingendo disponibilità, mentre lui si muoveva gemendo, e, con gli occhi fissi sul suo viso, si impose di non spostare lo sguardo sul pugnale. Era terrorizzata e disgustata, ma una piccola parte della sua mente rimaneva lucida e calma. L'uomo, sempre sollevato sulle braccia tese, chiuse le palpebre alzando la testa come un animale che annusi la brezza. Gwenda azzardò un'occhiata al pugnale: la mano di lui si era spostata leggermente e copriva solo in parte l'impugnatura. Avrebbe potuto afferrarlo, ma quanto veloce sarebbe stata la reazione di Alwyn? Lo guardò di nuovo in faccia. Era concentrato, la bocca distorta in una smorfia. Accelerò le spinte e lei lo assecondò. Con sgomento, sentì un calore diffondersi nei lombi. Era disgustata di se stessa. L'uomo era un fuorilegge, un assassino, poco più che una bestia, intenzionato a farla prostituire per sei penny. Lei stava agendo così per salvarsi la vita, non certo per divertimento! Eppure si sentì improvvisamente bagnata. Lui accelerò il movimento. Gwenda sentì che l'uomo stava per raggiungere il piacere. "Ora o mai più" pensò. Quando Alwyn emise un lamento e sembrò abbandonarsi, lei entrò in azione. Gli sfilò rapidamente il pugnale da sotto la mano. Non vi fu alcun mutamento nell'espressione estatica di lui: non si era accorto di nulla. Terro-
rizzata che Alwyn capisse quello che lei stava facendo e la fermasse all'ultimo istante, con uno scatto non esitò a sferrargli una coltellata dal basso. Lui avvertì il colpo e spalancò gli occhi: sul volto, si dipinsero sconcerto e paura. Gwenda lo colpì selvaggiamente conficcandogli la lama in gola, appena sotto la mandibola, poi imprecò nel rendersi conto di avere mancato le parti vitali del collo, la trachea e la vena giugulare. Lui ruggì di rabbia e di dolore, ma Gwenda comprese di non averlo neutralizzato: non era mai stata tanto vicina alla morte. Agì d'istinto, senza riflettere. Col braccio sinistro gli diede un colpo all'interno del gomito, che cedette. Preso alla sprovvista, Alwyn si abbatté su di lei. Gwenda spinse a fondo il pugnale che, con il peso dell'uomo, penetrò nella testa da sotto il mento. Mentre la lama si conficcava, dalla bocca uscì un fiotto di sangue che le schizzò in faccia. Di riflesso lei distolse il viso, ma continuò a spingere il pugnale. Per un attimo la lama fece resistenza, poi scivolò finché uno dei bulbi oculari sembrò esplodere e la punta uscì dall'orbita con uno schizzo di sangue misto a materia cerebrale. L'uomo crollò inerte su di lei, morto. O quasi. Il peso del corpo abbandonato le tolse il respiro: era come essere incastrati sotto un albero caduto. Per un attimo Gwenda fu incapace di muoversi. Inorridita, lo sentì eiaculare dentro di sé. Era annientata da un terrore irrazionale: lui era più spaventoso così di quando l'aveva minacciata con il pugnale. In preda al panico, riuscì a sgusciargli da sotto. Scattò in piedi tremante, con il respiro affannoso, il sangue sul seno, il seme tra le cosce. Lanciò un'occhiata timorosa verso l'accampamento dei banditi. Qualcuno era sveglio e aveva sentito Alwyn urlare oppure, se dormiva, era stato destato dal rumore? Gwenda si infilò il vestito e allacciò la cintura, con appesi la borsa e il coltellino che usava soprattutto per mangiare. Non osava quasi staccare lo sguardo da Alwyn, terrorizzata che potesse essere ancora vivo. Sapeva che avrebbe dovuto finirlo, ma gliene mancava il coraggio. Un rumore proveniente dalla radura la fece trasalire. Doveva allontanarsi in fretta. Si guardò intorno per orientarsi, poi puntò verso la strada. Fu colta da un brivido di paura nel rammentare che c'era un uomo di guardia accanto alla grande quercia. Per raggiungere l'albero, attraversò il bosco con passo leggero, attenta a non fare rumore. Poi scorse Jed, la sentinella, profondamente addormentato per terra. Gwenda gli passò accanto in punta di piedi. Dovette fare ricorso a tutta la sua forza di volontà per
non mettersi a correre all'impazzata. Lui non si mosse. Trovò la pista dei cervi e la seguì fino al ruscello. Pareva che nessuno la seguisse. Si lavò il volto e il petto insanguinati, poi spruzzò acqua sulle parti intime. Bevve a lungo sapendo di avere tanta strada da fare. Leggermente sollevata, ma sempre con l'orecchio teso, proseguì lungo la pista. Quanto avrebbero impiegato a trovare Alwyn? Non le era neanche venuto in mente di nascondere il corpo. Una volta compreso cos'era successo, i banditi l'avrebbero sicuramente inseguita, perché per lei avevano dato una mucca che valeva dodici scellini, il corrispettivo di mezzo anno di paga per un bracciante come suo padre. Giunse sulla strada aperta, che per una donna in viaggio da sola era rischiosa quanto un sentiero nella foresta. Tam il latitante e i suoi non erano gli unici banditi, c'erano tanti altri uomini - scudieri, giovani contadini, bande di armigeri - che avrebbero potuto approfittare di una ragazza indifesa. Ma la prima cosa da fare era fuggire da Sim l'ambulante e dai suoi compari, pertanto era di vitale importanza che lei si sbrigasse. Quale direzione scegliere? Se fosse tornata a casa, a Wigleigh, Sim l'avrebbe seguita per reclamarla indietro, e lei non poteva prevedere la reazione di suo padre. Aveva bisogno di amici fidati. Caris... lei l'avrebbe aiutata. Si incamminò in direzione di Kingsbridge. Benché fosse una giornata limpida, il fango accumulatosi per le piogge dei giorni precedenti rendeva molto faticoso avanzare. Arrivò in cima a una collina. Si guardò indietro e riuscì a vedere circa un miglio di strada. Nel punto più lontano, una figura solitaria stava venendo verso di lei. Indossava una tunica gialla. Sim l'ambulante. Gwenda iniziò a correre a più non posso. Il processo contro Nell la pazza fu celebrato nel transetto nord della cattedrale il sabato a mezzogiorno. Il vescovo Richard presiedeva il tribunale ecclesiastico; alla sua destra c'era il priore Anthony e alla sinistra l'arcidiacono Lloyd, il suo assistente personale: un prete arcigno dai capelli neri che si diceva portasse avanti tutto il lavoro della diocesi. Era presente una fitta folla di gente della città. Un processo per eresia costituiva un bello spettacolo, e a Kingsbridge non se ne vedeva uno da anni. Molti artigiani e manovali finivano di lavorare il sabato a mezzogiorno. La fiera della lana che si teneva fuori della cattedrale era ormai arrivata
alla fine: i mercanti smontavano i banchi e impacchettavano le merci invendute; i compratori si preparavano al viaggio di ritorno o affidavano i loro acquisti alle zattere che discendevano il fiume fino al porto di Melcombe. In attesa che iniziasse il processo, Caris pensava con tristezza a Gwenda. Chissà cosa stava facendo in quel momento. Sim l'ambulante l'aveva certamente costretta ad accoppiarsi con lui, ma forse quella non era la cosa peggiore che potesse capitarle. Che altro le sarebbe toccato fare come schiava? Non dubitava che l'amica avrebbe tentato la fuga, ma ci sarebbe riuscita? In caso contrario, come l'avrebbe punita Sim? Caris si rese conto che forse non l'avrebbe mai scoperto. Era stata una settimana strana. Buonaventura Caroli non aveva cambiato idea: i compratori fiorentini non intendevano tornare a Kingsbridge, almeno fin quando il priorato non avesse migliorato i servizi per la fiera della lana. Per il resto della settimana, il padre di Caris e gli altri importanti mercanti di lana erano rimasti chiusi in consiglio con il conte Roland. Merthin continuava ad avere un umore strano, era taciturno e depresso. E aveva ricominciato a piovere. Nell venne trascinata in chiesa da John il conestabile e da frate Murdo. Il suo unico indumento era una sopravveste senza maniche, allacciata davanti, che le lasciava scoperte le spalle ossute. Non portava né cappello né calzari. Si divincolava debolmente dalla stretta degli uomini, urlando imprecazioni. Quando riuscirono a zittirla, numerosi cittadini si fecero avanti per testimoniare di averla udita rivolgersi al diavolo. Dicevano la verità: il diavolo compariva sempre nelle sue minacce quando le rifiutavano l'elemosina, si trovavano a incrociarla per strada, indossavano una bella veste, o anche per nessun motivo in particolare. Ogni testimone riferì di qualche disgrazia avvenuta in seguito a una sua maledizione: la moglie di un orafo aveva perso una spilla di valore, le galline di un locandiere erano tutte morte, una vedova si era ritrovata con una vescica dolorosa sul fondoschiena. Quest'ultima lamentela provocò una risata generale, ma al contempo accrebbe la convinzione della colpevolezza di Nell, perché era ben noto il maligno senso dell'umorismo delle streghe. Mentre le testimonianze si susseguivano, Merthin comparve accanto a Caris. «Tutta questa storia è assurda» protestò lei indignata. «Potrebbero presentarsi testimoni dieci volte più numerosi a dire che Nell li ha maledetti e la cosa non avrebbe alcuna conseguenza.»
Merthin alzò le spalle. «La gente crede quello che vuole.» «Magari la gente comune, ma il vescovo e il priore dovrebbero essere superiori; loro sono istruiti.» «Devo dirti una cosa» mormorò Merthin. Caris si rianimò. Forse avrebbe finalmente saputo la ragione del suo malumore. Fino a quel momento l'aveva guardato di profilo, ma quando si voltò verso di lei vide che sulla parte sinistra della faccia aveva un enorme livido. «Cosa ti è successo?» La folla scoppiò in una risata per qualche battuta di Nell, e l'arcidiacono Lloyd dovette reclamare ripetutamente il silenzio. Quando Caris riuscì nuovamente a sentirlo, Merthin disse: «Non qui. Possiamo andare in un posto più tranquillo?». Stava per allontanarsi con lui, ma qualcosa la bloccò. Per tutta la settimana il giovane l'aveva sconcertata e ferita con la sua freddezza e, adesso che lui finalmente si decideva a rivelarle che cosa aveva per la testa, lei era obbligata a scattare ai suoi ordini? Perché doveva essere lui a decidere qual era il momento giusto? Se Merthin l'aveva fatta aspettare cinque giorni, lei poteva farlo aspettare un'ora o anche di più. «No» rispose. «Non adesso.» Lui parve sorpreso. «Perché no?» «Perché non mi va. E ora lasciami ascoltare.» Voltandosi, Caris colse un'espressione addolorata sul volto di Merthin e si pentì immediatamente della propria freddezza; ma ormai era troppo tardi e non aveva intenzione di chiedergli scusa. I testimoni avevano terminato e il vescovo Richard disse: «Donna, tu affermi che il diavolo governa la terra?». Caris era furiosa. Gli eretici veneravano Satana perché erano convinti che avesse il controllo sulla terra, e Dio soltanto quello sul cielo. Nell la pazza non era neanche in grado di capire quelle sofisticate distinzioni. Era vergognoso che Richard sostenesse l'accusa ridicola di frate Murdo. «Ti puoi infilare il cazzo su per il culo» urlò Nell di rimando. La folla rise, divertita dall'insulto osceno rivolto al vescovo. «Se questa è la sua difesa...» disse Richard. Intervenne l'arcidiacono Lloyd. «Qualcuno dovrebbe parlare a sua discolpa.» Aveva usato un tono rispettoso, per nulla imbarazzato di correggere il proprio superiore. Di sicuro il pigro Richard contava su di lui perché gli ricordasse la procedura. Richard osservò la folla riunita nel transetto. «Chi vuole parlare in difesa di Nell?» chiese a voce alta.
Caris aspettò, ma non uno dei presenti si fece avanti. Era inammissibile. Qualcuno doveva far notare l'assurdità della procedura. Visto che nessuno parlava, si alzò lei. «Nell è matta» disse. Tutti si guardarono attorno chiedendosi chi mai potesse essere tanto sciocco da prendere le parti di Nell. Si levò un mormorio quando la maggior parte della gente, che conosceva Caris, la identificò. Ma la reazione non fu di sorpresa, perché lei aveva fama di essere imprevedibile. Il priore Anthony si sporse verso il vescovo per sussurrargli qualcosa all'orecchio, poi Richard dichiarò: «Caris, la figlia di Edmund il lanaiolo, afferma che la donna accusata è matta. Noi eravamo arrivati alla stessa conclusione senza il suo aiuto». Caris andò su tutte le furie per quel sottile sarcasmo. «Nell non ha idea di quello che dice! Si rivolge al diavolo, ai santi, alla luna e alle stelle, ma le sue parole hanno lo stesso valore dell'abbaiare di un cane. Sarebbe come impiccare un cavallo perché ha nitrito al re.» Non riusciva a controllare lo sdegno nella voce, benché sapesse che era da scriteriati lasciar trasparire il disprezzo nel rivolgersi alla nobiltà. Tra la folla, qualcuno che amava le discussioni animate mormorò parole di approvazione. «Ma tu hai sentito le testimonianze sui danni provocati dalle sue maledizioni» ribatté Richard. «Ieri ho perso un penny» replicò Caris. «Ho fatto bollire un uovo, ed era marcio. Mio padre è stato sveglio per tutta la notte a causa della tosse. Ma nessuno ci aveva maledetto. Le cose brutte succedono e basta.» Molti scossero la testa. Quasi tutti erano convinti che dietro ogni piccola o grande disgrazia vi fosse una qualche influenza maligna. Caris aveva perso il sostegno della folla. Il priore Anthony, suo zio, conosceva le opinioni della nipote e ne aveva già discusso con lei. A quel punto si sporse in avanti e chiese: «Non penserai certo che sia Dio il responsabile di malattie, disgrazie e lutti, vero?». «No...» «E chi, allora?» Caris imitò il tono affettato di Anthony «Non penserai certo che siano Dio o Nell i responsabili di ogni disgrazia della vita, vero?» «Rivolgiti con rispetto al priore» ordinò bruscamente l'arcidiacono Lloyd. Non aveva capito che Anthony era lo zio di Caris. La gente rideva, conoscendo sia il formalismo del priore, sia lo spirito libero della nipote. «Sono convinta che Nell sia innocua. Pazza, sì, ma innocua» concluse
Caris. All'improvviso frate Murdo scattò in piedi. «Monsignore, cittadini di Kingsbridge, amici» esordì con voce tonante. «Il maligno si aggira tra noi per indurci al peccato della menzogna, della gola, dell'ubriachezza, della tronfia boria e della lussuria.» Alla gente piacevano le descrizioni del frate: evocavano deliziose scene di appagamento che venivano purificate dal suo biasimo sulfureo. «Ma non può passare inosservato» continuò Murdo alzando la voce per l'eccitazione. «Come il cavallo imprime nel fango le orme degli zoccoli, come il topo in cucina lascia tracce leggere sul burro e come il lascivo deposita il suo vile seme perché cresca nel ventre della fanciulla sedotta con l'inganno, così il diavolo non può non lasciare... il suo segno!» I presenti gridarono in segno di plauso. Sapevano cosa intendeva, e anche Caris. «I servitori del maligno possono essere riconosciuti dal segno impresso sul loro corpo. Perché egli succhia il sangue caldo da loro come un poppante succhia il latte dai seni turgidi della madre. E, come un bambino, il maligno ha bisogno di una tetta da succhiare... un terzo capezzolo!» Caris notò che la gente lo ascoltava rapita. Il frate cominciava a voce bassa e tranquilla, poi la alzava per pronunciare frasi di grande impatto emotivo in un crescendo, fino a raggiungere il culmine: la folla reagiva entusiasta, prima con il silenzio, poi con grida di approvazione. «Questo segno scuro e corrugato come un capezzolo spicca sulla pelle chiara. Può trovarsi su qualsiasi parte del corpo. A volte nel morbido avvallamento fra i seni di una donna, dove questa presenza innaturale imita crudelmente la natura. Ma i luoghi preferiti dal diavolo sono le zone segrete del corpo: l'inguine, le parti intime, specialmente...» «Grazie, frate Murdo, non c'è bisogno di andare oltre» disse a voce alta il vescovo Richard. «Tu stai chiedendo che il corpo di questa donna venga esaminato per individuare il segno del diavolo.» «Sì, monsignore, per...» «Benissimo. Basta argomentare, il tuo pensiero è chiaro.» Si guardò attorno. «Madre Cecilia è nei paraggi?» La badessa sedeva su una panca a un lato del tribunale insieme alla fedele assistente di una vita, suor Juliana - che adesso, con rispetto, tutti chiamavano "Venerabile Julie" - e ad alcune consorelle più anziane. Il corpo nudo di Nell la pazza non poteva essere esaminato dagli uomini, così avrebbero provveduto le donne in privato, per poi riferire. Le suore erano la
scelta più ovvia. Caris non le invidiava. La gente che abitava in città si lavava le mani e la faccia ogni giorno e le parti fetide del corpo una volta la settimana. Il bagno completo era un rituale, necessario seppur dannoso alla salute, che si svolgeva al massimo due volte l'anno. Comunque, pareva che Nell la pazza non si lavasse per niente. Aveva il viso incrostato di sudiciume, la mani luride e puzzava come un letamaio. Cecilia si alzò e Richard le diede l'ordine: «Per favore, portate questa donna in una stanza, denudatela, esaminatele con attenzione il corpo e tornate a riferire fedelmente ciò che avete scoperto». Le suore balzarono subito in piedi e si avvicinarono a Nell. Cecilia le parlò dolcemente e la prese con delicatezza per il braccio, ma Nell non si fece raggirare. Si divincolò, gettando le braccia in aria. A quel punto frate Murdo urlò: «Lo vedo! Lo vedo!». Quattro suore riuscirono a tenere ferma Nell. «Non c'è bisogno di spogliarla. Guardatele sotto il braccio destro» esclamò il frate. Nell tentò di liberarsi nuovamente, ma lui la raggiunse a lunghi passi, le sollevò il braccio e glielo tenne alzato sulla testa. «Ecco!» disse indicando l'ascella. La folla si accalcò per guardare. «Lo vedo!» gridò qualcuno e gli altri gli fecero eco. Caris non riuscì a scorgere altro che una normale peluria, ma non volle commettere l'oltraggio di scrutare. Nell doveva avere sicuramente una specie di macchia o escrescenza. Molte persone avevano segni sulla pelle, specialmente gli anziani. L'arcidiacono Lloyd richiamò i presenti all'ordine e John il conestabile fece indietreggiare la folla con una verga. Quando alla fine la chiesa tornò silenziosa, Richard si alzò. «Nell la pazza di Kingsbridge, ti dichiaro colpevole di eresia» sentenziò. «Ora verrai legata a un carro e fustigata per tutta la città; poi sarai portata nel luogo chiamato incrocio del Patibolo e appesa per il collo finché morte non sopraggiunga.» La folla era in delirio. Caris distolse lo sguardo, disgustata. Con un simile sistema di giustizia nessuna donna era al sicuro. I suoi occhi si posarono su Merthin, che l'attendeva paziente. «Bene» disse imbronciata. «Di che cosa volevi parlarmi?» «Ha smesso di piovere» rispose lui. «Vieni giù al fiume.» Il priorato possedeva diversi pony che venivano usati nei viaggi dai monaci più anziani e dalle suore, e inoltre alcuni cavalli da tiro per il trasporto
delle merci. Erano ospitati, insieme agli animali da sella dei ricchi dignitari in visita, in una fila di scuderie di pietra all'estremità meridionale del recinto della cattedrale. L'orto adiacente veniva concimato con lo strame proveniente dalle scuderie. Ralph si trovava nel cortile delle scuderie col resto del seguito del conte Roland. I cavalli erano stati sellati in vista del viaggio di due giorni fino alla residenza di Roland a Earlscastle, vicino a Shiring. Mancava solo il conte. Ralph teneva le redini del proprio cavallo, un baio di nome Griff, mentre parlava con i genitori. «Non capisco perché Stephen sia stato nominato signore di Wigleigh mentre io non ho ottenuto nulla. Abbiamo la stessa età e lui non è più bravo di me a cavallo, nei tornei o nella scherma.» Tutte le volte che si vedevano, sir Gerald gli rivolgeva le solite domande cariche di aspettativa, e Ralph gli dava sempre risposte che deludevano le sue attese. Ralph avrebbe sopportato più facilmente la frustrazione se non fosse stato per il desiderio patetico del padre di vederlo progredire con successo. Griff era un cavallo giovane, adatto alla caccia: un semplice scudiero non meritava un costoso cavallo da guerra. Ma a Ralph piaceva perché lo gratificava molto quando lo lanciava al galoppo durante le battute di caccia. Griff, eccitato da tutto il trambusto nel cortile, era impaziente di partire. «Tranquillo, mio buon compagno, ti sgranchirai le zampe più tardi» gli mormorò Ralph all'orecchio. Il cavallo si acquietò al suono della sua voce. «Sii sempre pronto a compiacere il conte in qualsiasi modo» lo ammonì sir Gerald. «Allora lui si ricorderà di te quando ci sarà un posto vacante.» "Più che giusto" pensò Ralph, convinto peraltro che le vere opportunità si presentavano soltanto in battaglia. Comunque, la guerra era forse un po' più vicina della settimana precedente. Ralph non era stato presente agli incontri fra il conte e i mercanti di lana, ma si era fatto l'idea che questi fossero disposti a prestare denaro a re Edoardo. Volevano che il sovrano intraprendesse un'azione decisiva come rappresaglia contro gli attacchi francesi ai porti della costa meridionale. Nel frattempo, Ralph continuava a desiderare ardentemente di distinguersi in qualche modo e riconquistare, non solo per suo padre ma anche per orgoglio personale, l'onore che la sua famiglia aveva perso dieci anni prima. Griff scalpitava e scuoteva la testa. Ralph lo fece camminare avanti e in-
dietro per calmarlo e suo padre si unì a lui. La madre, in disparte, si tormentava per il naso rotto del figlio. Ralph e Gerald passarono accanto a lady Philippa, che teneva per la briglia il suo destriero focoso e parlava con lord William, il marito. Indossava abiti aderenti, adatti a cavalcare, che le mettevano in evidenza il seno generoso e le gambe lunghe. Ralph era sempre alla ricerca di una scusa per parlarle, ma aveva scarso successo: essendo lui soltanto uno del seguito di suo suocero, lady Philippa non gli rivolgeva mai la parola a meno di non esservi costretta. Lei sorrise al marito dandogli un colpetto affettuoso sul petto col dorso della mano, in un gesto di finto rimprovero. Ralph si sentì colmo di invidia. Perché non era lui a condividere con Philippa quel momento di gioiosa intimità? Senza dubbio ciò sarebbe stato possibile se, come William, lui fosse stato signore di quaranta villaggi. Ralph si rese conto che la sua vita era fatta solo di aspirazioni. Quando avrebbe potuto realizzare concretamente qualcosa? Lui e il padre percorsero il lato lungo del cortile, poi si voltarono per tornare indietro. Ralph vide un monaco senza un braccio uscire dalla cucina e attraversare il cortile e fu colpito dall'aspetto familiare del suo volto. Un attimo dopo rammentò chi fosse: Thomas Langley, il cavaliere che dieci anni prima aveva ucciso due armigeri nella foresta. Da quel giorno non l'aveva più rivisto, a differenza del fratello Merthin: il cavaliere fattosi monaco, infatti, sovrintendeva alle riparazioni degli edifici del priorato. Thomas indossava un ruvido saio invece dei raffinati abiti da cavaliere e sul suo capo spiccava la chierica. Si era appesantito attorno alla vita, ma manteneva ancora il portamento del guerriero. Mentre Thomas gli passava davanti, Ralph disse con noncuranza a lord William: «Eccolo lì, il monaco del mistero». «Cosa intendi?» chiese William, brusco. «Frate Thomas. Un tempo era cavaliere e tutti ignorano perché si sia fatto monaco.» «Cosa diavolo sai di lui?» Il tono di William era irritato, benché Ralph non avesse detto nulla di offensivo. Forse era di malumore, nonostante i sorrisi amorevoli della bellissima moglie. Ralph si pentì di aver sollevato l'argomento. «Ricordo il giorno in cui arrivò a Kingsbridge» spiegò. Poi esitò, rammentando il giuramento fatto quel pomeriggio con gli altri bambini. Per quel motivo, e per l'inspiegabile insofferenza di William, Ralph non raccontò tutta la storia. «Arrivò in città
malfermo sulle gambe e sanguinante per una ferita da spada» proseguì. «A un ragazzo queste cose rimangono impresse.» «Curioso» disse Philippa guardando il marito. «Tu conosci la storia di frate Thomas?» «No di certo» sbottò William. «Come potrei conoscere una storia del genere?» Lei alzò le spalle e se ne andò. Ralph riprese a camminare, contento di allontanarsi. «Lord William ha mentito» sussurrò al padre. «Mi chiedo per quale motivo.» «Non fare mai più domande su quel monaco» lo rimproverò il padre. «È ovvio che l'argomento è assai pericoloso.» Finalmente apparve il conte Roland. Con lui c'era il priore Anthony. Cavalieri e scudieri montarono a cavallo. Ralph baciò i genitori e con un balzo salì in sella. Griff fece dei passetti di lato, impaziente di partire. A causa di quel movimento, Ralph sentì il naso rotto bruciare come il fuoco. Strinse i denti: non poteva far altro che sopportare. Roland si avvicinò al suo cavallo, Victory, uno stallone nero con una macchia bianca sopra un occhio. Non montò, prese invece le briglie e cominciò a camminare, intrattenendosi ancora con il priore. William ordinò ad alta voce: «Sir Stephen di Wigleigh e Ralph Fitzgerald vadano avanti a evacuare il ponte». Ralph e Stephen attraversarono il prato della cattedrale. A causa della fiera della lana, l'erba era calpestata e il terreno fangoso. Alcuni banchi erano ancora affollati di avventori, ma la maggior parte dei mercanti stava chiudendo e molti se n'erano già andati. I due varcarono i cancelli del priorato. Sulla strada principale, Ralph vide il ragazzo che gli aveva spaccato il naso: si chiamava Wulfric ed era di Wigleigh, il villaggio di Stephen. Il lato sinistro del suo volto, dove Ralph l'aveva ripetutamente preso a pugni, era contuso e gonfio. Wulfric era davanti alla locanda Bell in compagnia del padre, della madre e del fratello. Sembravano in partenza. "Spera solo di non incontrarmi un'altra volta" pensò Ralph. Cercò nella mente qualche insulto da urlargli, ma fu distolto da un rumore di folla. Mentre lui e Stephen scendevano giù dalla collina lungo la strada principale e i cavalli avanzavano senza difficoltà nel fango, si videro preceduti da una moltitudine che li costrinse a fermarsi. Centinaia di uomini, donne e bambini gridavano, ridevano e si spintona-
vano per riuscire ad avere una visuale migliore. Erano tutti di spalle rispetto a Ralph. Lui guardò sopra le loro teste. Quella processione indisciplinata era aperta da un carro tirato da un bue. Legata al retro del carro c'era una donna mezza nuda. Ralph aveva già assistito a una scena del genere: venire fustigati per tutta la città era una punizione diffusa. La donna indossava solo una sottana di lana ruvida assicurata in vita da uno spago. Da quanto lui riusciva a vedere, il suo viso era imbrattato, i capelli luridi, tanto da farla sembrare, a una prima occhiata, una vecchia. Poi Ralph le scorse il seno e si rese conto che la donna non doveva avere più di trent'anni. Le mani unite erano legate al carro. Lei avanzava incespicando, a volte cadeva e veniva trascinata nel fango finché, agitandosi convulsamente, non riusciva a rimettersi in piedi. La seguiva il conestabile della città, che le sferzava vigorosamente la schiena nuda con una specie di frusta, una striscia di cuoio legata alla sommità di una verga. La folla, guidata da un manipolo di giovani, si faceva beffe della donna, le urlava insulti, rideva buttandole addosso fango e immondizia. Lei, tra l'ilarità generale, reagiva con strilli, imprecazioni e sputi su chiunque si avvicinasse. Ralph e Stephen spronarono i cavalli in mezzo alla gente. «Fate largo!» urlò Ralph con tutta la voce che aveva. «Largo al conte!» Stephen lo imitò. Nessuno diede loro ascolto. A sud del priorato, il terreno declinava ripido sino al fiume, dove la riva era rocciosa e inadatta all'attracco di chiatte e zattere. Tutti i pontili si trovavano quindi sul più accessibile lato sud del fiume, nel quartiere suburbano di Newtown. In quella stagione la sponda nord era un'esplosione di fiori selvatici e arbusti rigogliosi. Merthin e Caris sedettero su una roccia alta sul fiume. Il corso d'acqua era gonfio di pioggia. Merthin notò che scorreva più veloce del solito e ne comprese il motivo: l'alveo si era ristretto con l'espandersi della sponda. Quando lui era bambino, la maggior parte della riva sud era una spiaggia ampia e fangosa costeggiata da un acquitrino. Allora il fiume scorreva lento e lui si lasciava galleggiare sulla schiena da una riva all'altra. Ma i nuovi pontili, protetti dalle inondazioni da muraglioni di pietra, comprimevano la stessa quantità d'acqua in una sorta di imbuto attraverso il quale essa fluiva veloce, come ansiosa di superare il ponte. Al di
là, il fiume si allargava e rallentava il suo flusso attorno all'isola dei Lebbrosi. «Ho fatto una cosa terribile» disse Merthin. Sfortunatamente, Caris quel giorno era più graziosa del solito. Indossava un abito di lino rosso scuro e la sua pelle sembrava brillare di vitalità. Al processo contro Nell la pazza si era arrabbiata, ma ora appariva solo preoccupata, e questo le conferiva un'aria vulnerabile che toccava il cuore di Merthin. Doveva essersi accorta di come per tutta la settimana lui non avesse osato guardarla negli occhi. Ma quello che aveva da dirle era forse peggio di qualsiasi cosa lei potesse immaginare. Dallo scontro con Griselda, Elfric e Alice, lui non aveva più parlato del suo problema, e nessuno sapeva che la porta era stata distrutta. Non vedeva l'ora di togliersi quel peso, ma fino allora si era trattenuto. Ai genitori non voleva dirlo: la madre l'avrebbe criticato e il padre gli avrebbe imposto di comportarsi da uomo. Avrebbe potuto confidarsi con Ralph, però tra loro si era creato un gelo dal giorno della zuffa con Wulfric: Merthin pensava che Ralph si fosse comportato da prepotente, e il fratello lo sapeva. Aveva il terrore di confessare a Caris la verità. Per un attimo se ne chiese la ragione; non era per paura della sua reazione: lei poteva dimostrarsi sprezzante, in questo era brava, ma non avrebbe detto niente di peggio di ciò che lui continuava a ripetere a se stesso. Ciò che temeva veramente, se ne rese conto, era di ferirla. Riusciva a sopportarne la rabbia, ma non il dolore. «Mi ami ancora?» gli chiese lei. Sebbene non si aspettasse quella domanda, rispose "sì" senza esitare. «E io amo te. Qualunque sia il problema, lo possiamo risolvere insieme.» Merthin avrebbe tanto desiderato che lei avesse ragione. Lo desiderava al punto che i suoi occhi si riempirono di lacrime. Distolse lo sguardo per non farsi vedere. Una folla stava avvicinandosi al ponte, alle spalle di un carro che procedeva lento, e lui capì che probabilmente stavano fustigando Nell la pazza per tutta la città prima di trascinarla all'incrocio del Patibolo a Newtown. Il ponte era già gremito di mercanti in partenza con i loro carri e il traffico era quasi bloccato. «Cosa succede?» domandò Caris. «Piangi?» «Sono stato a letto con Griselda» confessò Merthin d'un fiato. Caris rimase a bocca aperta. «Griselda?» ripeté incredula. «Mi vergogno moltissimo.»
«Pensavo si trattasse di Elizabeth Clerk.» «Lei è troppo orgogliosa per concedersi.» La reazione di Caris lo sorprese. «Ah, così l'avresti fatto anche con lei se te lo avesse proposto?» «Non volevo dire questo.» «Griselda! Vergine santa, pensavo di valere più di lei.» «È così.» «Lupa» disse lei, usando il termine latino per "puttana". «E non mi piace neppure. Farlo mi ha riempito di disgusto.» «Pensi che per questo dovrei sentirmi meglio? Stai dicendo che non saresti avvilito se ti fosse piaciuto?» «No!» Merthin era costernato. Sembrava che Caris fraintendesse volutamente tutto quello che lui diceva. «Cosa ti ha preso?» «Piangeva.» «Ah, per l'amor di Dio! Tu lo fai con ogni ragazza che vedi piangere?» «Ovviamente no! Stavo cercando di spiegarti cos'è successo, anche se non lo volevo.» Il disprezzo di Caris non faceva che crescere. «Non dire scemenze. Se tu non avessi voluto, non sarebbe successo.» «Per favore, ascoltami» supplicò Merthin frustrato. «Lei me lo ha chiesto e io ho detto no. Allora si è messa a piangere e l'ho cinta con un braccio per consolarla, poi...» «Risparmiami i particolari ripugnanti... preferisco non sapere.» Lui cominciò a risentirsi. Era consapevole di aver sbagliato e si aspettava la sua collera, ma il disprezzo gli bruciava. «Benissimo» disse, e tacque. Ma Caris non voleva che stesse zitto. Lo fissò insoddisfatta. «Che altro?» Lui si strinse nelle spalle. «A cosa serve parlarne? Tu non fai che buttarmi addosso il tuo disprezzo.» «Non voglio ascoltare scuse patetiche. Ma c'è qualcosa che non mi hai detto, lo sento.» Merthin sospirò. «È incinta.» La reazione di Caris lo sorprese nuovamente. La rabbia l'aveva abbandonata. Il viso, fino a quel momento contratto per l'indignazione, sembrò distendersi. Vi rimase soltanto tristezza. «Un bambino» disse. «Griselda avrà il tuo bambino.» «Potrebbe non succedere. A volte...»
Caris scosse la testa. «Griselda è una ragazza sana, ben nutrita. Non vi è ragione che abortisca.» «Non che me lo auguri» precisò lui, anche se non era del tutto sicuro che fosse la verità. «Ma tu cosa farai? Sarà tuo figlio. Gli vorrai bene anche se odi la madre.» «Devo sposarla.» Caris rimase a bocca aperta. «Sposarla? Sarà per sempre!» «Ho concepito un figlio e dovrò prendermi cura di lui.» «Ma anche passare tutta la vita con Griselda.» «Lo so.» «Non sei obbligato» disse lei decisa. «Pensa al padre di Elizabeth Clerk: lui non ha sposato la madre.» «Era un vescovo.» «C'è Maud Roberts di fosso dei Macelli: ha tre figli e tutti sanno che il padre è Edward il macellaio.» «Lui è già sposato, e da sua moglie ha avuto altri quattro figli.» «Sto dicendo che non sempre si è costretti a sposarsi. Puoi andare avanti come adesso.» «No, è impossibile. Elfric mi sbatterebbe fuori.» Lei rimase pensierosa. «Allora hai già parlato con Elfric?» «Parlato?» Merthin si toccò la guancia tumefatta. «Ho temuto che mi uccidesse.» «E la moglie... mia sorella?» «Mi ha fatto una scenata.» «Quindi, lei sa.» «Sì. Ha detto che dovevo sposare Griselda. Comunque, lei non ha mai voluto che stessi con te. Non so perché.» «Ti voleva per sé» mormorò Caris. Merthin non lo immaginava. Pareva poco probabile che l'altezzosa Alice fosse attratta da un modesto apprendista. «Non me lo ha mai fatto capire.» «Solo perché tu non la degnavi di uno sguardo, e lei proprio non lo sopportava. Ha sposato Elfric per ripicca. Tu hai spezzato il cuore di mia sorella, e ora il mio.» Merthin distolse lo sguardo. Stentava a vedersi come uno spezzacuori. Come mai era andato tutto storto? Caris taceva e lui fissava cupo il fiume che scorreva verso il ponte. Vide che la folla si era fermata. Un carro pesante carico di sacchi di lana
era bloccato all'estremità sud, forse a causa di una ruota rotta. Anche il carro che tirava Nell non poteva più procedere. C'era una gran ressa attorno ai due carri e qualcuno era salito sui sacchi di lana per vedere meglio. Anche il conte Roland stava aspettando di passare. Si trovava con il suo seguito dal lato del ponte rivolto alla città, in groppa al cavallo, e aveva difficoltà a farsi strada tra la gente. Merthin individuò il fratello, Ralph, sul suo baio marrone con la coda e la criniera nere. Il priore Anthony, che a quanto pareva era andato a congedarsi dal conte, si torceva le mani ansioso, mentre gli uomini di Roland spingevano i loro cavalli tra la folla nel vano tentativo di aprirsi un varco. Merthin fu messo in allarme da un presentimento: stava per succedere qualcosa di tremendo, ne era certo, anche se non sapeva che cosa. Guardò più attentamente il ponte. Il lunedì precedente aveva notato che le enormi travi di quercia che collegavano i due piloni a nord del ponte presentavano alcune fenditure su cui erano stati inchiodati rinforzi di ferro. Merthin non era stato chiamato per quel lavoro e quindi non aveva fatto un esame approfondito. Quel lunedì si era chiesto perché le travi si fendessero. Il punto debole non era a metà fra i due piloni, come accade quando il legno si deteriora col passare del tempo: le spaccature erano vicine al pilone centrale, dove la sollecitazione era minore. Da allora non ci aveva più pensato, aveva avuto ben altro per la testa, però in quel momento riuscì a spiegarselo. Era come se il pilone centrale non sostenesse più le travi, ma piuttosto le trascinasse verso il basso. Ciò significava che qualcosa lo aveva minato alle fondamenta. Non appena ebbe elaborato quell'idea, capì cos'era successo: la corrente più rapida doveva avere scavato il letto del fiume sotto il pilone. Rammentò che da bambino, camminando scalzo in riva al mare, aveva notato che quando si fermava sulla battigia per farsi lambire dalle onde, queste, ritirandosi, gli scavavano la sabbia sotto i piedi. Il fenomeno lo aveva sempre affascinato. Se non sbagliava, il pilone centrale, senza più una base su cui poggiare, a quel punto era appeso al ponte: ecco il motivo delle fenditure. I rinforzi di ferro di Elfric non erano serviti, anzi, forse avevano peggiorato la situazione impedendo al ponte di trovare gradualmente un nuovo assetto stabile. Merthin pensò che il pilone parallelo, sul lato a valle e più distante da lui, fosse ancora saldo. Sicuramente la corrente era molto più forte contro quello a monte e attaccava il secondo con minore violenza. Solo uno era danneggiato e sembrava che il resto della struttura fosse abbastanza solido
per reggere, a meno che non fosse sottoposto a sollecitazioni eccessive. Ma quel giorno le fenditure sembravano più grandi del lunedì precedente, e non era difficile capire il perché: sul ponte c'erano centinaia di persone, un carico superiore al normale. E c'era anche un carro con venti o più occupanti seduti su pesanti sacchi di lana. Una morsa di paura strinse il cuore di Merthin. Pensò che il ponte non avrebbe resistito a lungo a quello sforzo. Era vagamente consapevole che Caris stesse dicendo qualcosa, ma le sue parole non riuscivano a insinuarsi tra i suoi pensieri, finché lei non alzò la voce. «Non mi stai neppure a sentire!» «Sta per accadere un disastro terribile» replicò lui. «Cosa vuoi dire?» «Dobbiamo far allontanare tutti dal ponte.» «Sei matto? Stanno tormentando Nell la pazza. Persino il conte Roland non riesce a farli muovere. Non ascolteranno certo te.» «Temo che la struttura possa crollare.» «Oh, guarda!» disse Caris puntando il dito. «Vedi quella persona che corre sulla strada proveniente dalla foresta e si avvicina all'estremità sud del ponte?» Merthin si chiese che cosa c'entrasse ciò con tutto il resto, ma guardò in direzione del dito puntato. E vide una ragazza che correva, i capelli al vento. «Sembra Gwenda» disse Caris. Un uomo con una tunica gialla la inseguiva affannato. Gwenda non era mai stata tanto stanca in vita sua. Sapeva che il modo più veloce per coprire lunghe distanze era procedere camminando per venti passi e correndo per altri venti. Lo stava facendo dal mattino, quando aveva individuato Sim l'ambulante un miglio dietro di lei. Per un po' lui era sparito dalla sua visuale ma, quando la strada le aveva consentito di vedere meglio alle sue spalle, si era accorta che anche lui alternava il cammino alla corsa, miglio dopo miglio, ora dopo ora, guadagnando terreno. A metà mattina si era resa conto che, a quell'andatura, Sim l'avrebbe raggiunta prima di arrivare a Kingsbridge. Disperata, si era inoltrata nella foresta. Tuttavia, non aveva potuto allontanarsi troppo dalla strada per paura di perdersi. Alla fine, sentendo avvicinarsi passi veloci e un respiro affannoso, nascosta fra la vegetazione del sottobosco aveva scorto Sim proseguire lungo la strada. Non appena si fos-
se trovato su un lungo rettilineo sgombro, l'uomo avrebbe di certo indovinato le sue mosse. E, infatti, poco dopo lei lo aveva visto tornare indietro. Si era addentrata ancora di più nella foresta, fermandosi ogni pochi minuti con l'orecchio teso, in silenzio. Era riuscita a sfuggirgli a lungo, ma sapeva che lui l'avrebbe cercata nei boschi su entrambi i lati della strada per assicurarsi che non vi si fosse nascosta. Anche lei procedeva a rilento, perché doveva districarsi tra la rigogliosa vegetazione estiva e verificare in continuazione di non essersi allontanata troppo dalla strada. Quando sentì da lontano il rumore della folla, capì di non essere distante dalla città e pensò che dopotutto ce l'avrebbe fatta. Si diresse verso la strada e si affacciò cauta da un cespuglio: via libera in entrambe le direzioni. A un quarto di miglio verso nord riuscì a scorgere il campanile della cattedrale. Era quasi arrivata. Udì un abbaiare familiare e Skip uscì dai cespugli lungo la strada. Gwenda si chinò a dargli qualche colpetto affettuoso e lui scodinzolò felice, leccandole le mani. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Di Sim non c'era traccia, così Gwenda si avventurò sulla strada aperta. Riprese faticosamente a correre per venti passi e a camminare per altrettanti, in compagnia di Skip che trotterellava felice accanto a lei, convinto che quello fosse un nuovo gioco. A ogni cambio di passo, lei si guardava alle spalle. Al terzo, vide Sim. Era a circa duecento iarde da lei. L'angoscia la travolse come un'onda di marea. Avrebbe voluto buttarsi per terra e morire, ma si trovava già nei sobborghi e il ponte era solo a un quarto di miglio. Si impose di continuare. Tentò di mettersi a correre, però le gambe rifiutarono di obbedire. Il massimo che riuscì a fare fu accelerare il passo, seppur vacillando. I piedi le dolevano. Abbassò gli occhi e vide il sangue filtrare dai buchi delle scarpe sbrindellate. Svoltato l'angolo all'incrocio del Patibolo, notò un'immensa folla stipata sul ponte davanti a sé. Erano tutti intenti a guardare qualcosa, e nessuno badò a lei che scappava per salvarsi la vita, rincorsa da Sim l'ambulante. Gwenda non aveva armi a parte il coltellino per mangiare, che al massimo avrebbe potuto tagliare una lepre arrostita, ma che difficilmente avrebbe messo fuori combattimento un uomo. Rimpianse con tutto il cuore di non avere avuto il coraggio di estrarre il lungo pugnale dalla testa di Alwyn per portarlo con sé. A quel punto, era praticamente inerme.
Da un lato c'era una fila di piccole case, quelle dei sobborghi dove abitava la gente troppo povera per vivere in città, e dall'altro un pascolo, il campo degli Innamorati, di proprietà del priorato. Sim le era così vicino che lei ne sentiva il respiro, forte e ansimante come il suo. Il terrore le infuse un ultimo guizzo di energia. Skip abbaiò, ma nel suo latrato c'era più paura che sfida: non aveva dimenticato la pietra che lo aveva colpito sul naso. Nei pressi del ponte si era creato un pantano di fango appiccicoso, smosso da stivali, zoccoli e ruote di carri. Gwenda lo attraversò augurandosi che Sim, più pesante, facesse più fatica di lei. Finalmente raggiunse il ponte. Si addentrò nella calca, meno fitta da quel lato. Tutti guardavano dalla parte opposta, dove un carro pesante carico di lana stava bloccando il passaggio di un altro tirato da un bue. Doveva arrivare fino alla casa di Caris, che riusciva quasi a scorgere sulla strada principale. «Lasciatemi passare!» gridò. Le parve che soltanto una persona l'avesse udita, e quando si voltò riconobbe suo fratello Philemon. Lui, rimasto a bocca aperta, cercò allarmato di avvicinarsi; la folla tra loro, però, li respingeva entrambi. Gwenda tentò di farsi largo oltre il carro dei sacchi di lana, ma uno dei due buoi che lo trainava mosse di scatto la testa massiccia e la scaraventò di lato. La ragazza perse l'equilibrio e, in quel momento, una grossa mano le afferrò il braccio in una stretta poderosa; capì allora di essere stata nuovamente catturata. «Ti ho preso, puttana» ansimò Sim. La tirò a sé e la schiaffeggiò sul viso con violenza. Lei non aveva più la forza di reagire. Skip cercò inutilmente di addentargli i calcagni. «Non mi scapperai un'altra volta.» Gwenda fu sopraffatta dalla disperazione. Era stato tutto inutile: sedurre Alwyn, ammazzarlo, correre per miglia e miglia. Era al punto di partenza, prigioniera di Sim. Poi il ponte parve muoversi. 13 Merthin vide il ponte piegarsi. Tutto l'impalcato sostenuto dal pilone centrale si insellò come un cavallo dal dorso spezzato. Le persone che stavano tormentando Nell sentirono vacillare la superficie sotto i piedi e si aggrapparono ai vicini per sostener-
si. Uno cadde all'indietro, oltre il parapetto, e finì nel fiume; poi un altro e un altro ancora. Le urla e i fischi diretti a Nell furono rapidamente sovrastati da grida allarmate e di paura. «Oh, no» esclamò Merthin. «Cosa sta succedendo?» strillò Caris. "Tutte quelle persone" avrebbe voluto dire Merthin "le persone con cui siamo cresciuti, donne che sono state gentili con noi, uomini che detestiamo, bambini che ci ammirano, madri e figli, zii e nipoti, padroni crudeli, nemici giurati e innamorati ardenti stanno per morire." Ma non riuscì a pronunciare nemmeno una parola. Per un attimo, più breve di un sospiro, Merthin sperò che la struttura potesse stabilizzarsi nella nuova posizione, ma rimase deluso. Il ponte cedette ulteriormente e le tavole cominciarono a staccarsi dai travetti. Le assi longitudinali su cui stava la gente scattarono come molle dai loro cavicchi di legno; i travetti trasversali che sostenevano la carreggiata uscirono dai loro alloggiamenti e i rinforzi di ferro che Elfric aveva inchiodato sulle fenditure si strapparono dal legno. La parte centrale del ponte sembrò piegarsi verso il lato a monte, quello più vicino a Merthin. Il carro della lana si inclinò e gli spettatori in piedi e seduti sulla pila di sacchi furono proiettati in acqua. Grosse tavole si spezzarono e volarono in aria uccidendo tutti quelli che colpivano. Il fragile parapetto cedette e il carro scivolò lentamente giù dal bordo, mentre i buoi impotenti muggivano terrorizzati; precipitò nel vuoto con una lentezza spaventosa e colpì l'acqua col fragore del tuono. Le persone saltavano o cadevano nel fiume a dieci, poi a venti per volta. Quelli già in acqua venivano colpiti dagli altri corpi che precipitavano e da blocchi di legno che si disintegravano, alcuni piccoli, altri enormi. Cadevano cavalli con o senza cavalieri, e i carri su di loro. Il primo pensiero di Merthin fu per i suoi genitori. Nessuno dei due era andato al processo di Nell la pazza, e non avrebbero voluto vederne la punizione: la madre riteneva quelle manifestazioni pubbliche inadatte alla propria dignità e il padre non era interessato se in gioco c'era soltanto la vita di una squilibrata. Avevano preferito andare al priorato a salutare Ralph. Ma Ralph, in quel momento, si trovava sul ponte. Merthin riusciva a vedere il fratello lottare per mantenere il controllo del suo cavallo, Griff, che indietreggiava e si impennava sulle zampe posteriori. «Ralph!» urlò inutilmente. Poi le tavole sotto Griff precipitarono in acqua. «No!» gridò, mentre cavallo e cavaliere scomparivano dalla sua vista.
Volse di scatto lo sguardo all'altra estremità del ponte, dove Caris aveva individuato Gwenda, che in quel momento stava lottando con un uomo dalla tunica gialla. Poi anche quel punto cedette ed entrambe le parti terminali furono trascinate in acqua dal crollo della parte centrale. Nel fiume c'era un intrico di gente che si agitava convulsamente, cavalli impazziti dalla paura, schegge di legno, carri fracassati e corpi sanguinanti. Merthin si rese conto che Caris non era più al suo fianco e la vide precipitarsi lungo la riva del fiume verso il ponte, inerpicarsi su per le rocce e poi correre sull'argine fangoso. Si voltò a guardarlo e gridò: «Sbrigati! Cosa aspetti? Vieni a dare una mano!». "Un campo di battaglia dev'essere così" si disse Ralph. "Urla, colpi a caso, gente che cade, cavalli atterriti." Fu l'ultimo pensiero che gli attraversò la mente prima che la carreggiata cedesse sotto di lui. Fu assalito da un terrore indicibile. Non capiva che cosa fosse successo. Poco prima il ponte era sotto gli zoccoli del suo cavallo, poi all'improvviso non c'era più, e lui e il suo animale stavano precipitando nel vuoto. Tra le cosce non sentì più la mole familiare di Griff e si rese conto che si erano separati. Dopo un attimo, l'impatto con l'acqua fredda. Finì sott'acqua e trattenne il respiro. Il panico lo aveva lasciato. Ora era spaventato, ma calmo. Da bambino aveva giocato in mare, poiché tra i possedimenti del padre c'era un villaggio costiero. Sapeva che sarebbe riemerso, anche se aveva l'impressione di impiegarci troppo. Era appesantito dagli spessi abiti da viaggio, ormai zuppi, e dalla spada. Se avesse avuto indosso l'armatura sarebbe finito sul fondo e vi sarebbe rimasto per sempre. Finalmente sbucò con la testa fuori dall'acqua e riprese fiato ansimando. Da ragazzo nuotava molto, ma erano passati tanti anni. Ciò nonostante ricordava più o meno come si faceva a tenersi in superficie. Cominciò a battere le braccia verso la riva settentrionale. Riconobbe il manto marrone e la criniera nera di Griff accanto a sé: anche lui stava nuotando verso la riva più vicina. Il cavallo cambiò andatura e Ralph capì che aveva trovato un punto d'appoggio. Allungò le gambe verso il basso e scoprì di toccare il fondo. Guadò il fiume tenendosi nell'acqua bassa. Il fango vischioso sotto i suoi piedi sembrava volesse risucchiarlo nella corrente. Griff si trascinò su una stretta striscia di spiaggia sotto le mura del priorato. Ralph lo seguì, poi si voltò indietro: in acqua c'erano centinaia di persone, molte sanguinavano,
urlavano, parecchie erano morte. Vicino alla riva individuò una sagoma con la livrea rossa e nera del conte di Shiring che galleggiava a faccia in giù. Fece un passo in acqua, afferrò l'uomo per la cintola e lo trascinò all'asciutto. Rivoltò il corpo pesante e il cuore gli sobbalzò nel petto: il suo amico Stephen. Il volto non presentava ferite, ma il torace appariva sfondato. Gli occhi sbarrati non mostravano segni di vita. Non respirava. Il corpo era troppo martoriato e Ralph, benché gli fosse amico, non osò tastarlo per sentire il battito. "Pochi minuti fa lo invidiavo" si disse. "Ora il fortunato sono io." Chiuse gli occhi di Stephen provando un irragionevole senso di colpa. Pensò ai genitori. Li aveva lasciati solo pochi minuti prima nel cortile delle scuderie. Anche se l'avessero seguito, non avrebbero fatto in tempo a raggiungere il ponte. Probabilmente erano salvi. Dov'era lady Philippa? Ralph riandò con la mente alla scena appena precedente il crollo: lord William e Philippa erano in fondo al corteo e non avevano ancora raggiunto il ponte. Ma il conte sì. Ralph ricordò nitidamente che il conte Roland gli stava dietro e spronava impaziente il cavallo, Victory, perché si infilasse nel varco tra la folla aperto da lui in sella a Griff. Roland doveva essergli caduto vicino. Rammentò le parole del padre: "Sii sempre pronto a compiacere il conte in qualsiasi modo". "Forse questa è la grande occasione che cercavo" pensò euforico. Non avrebbe dovuto aspettare la guerra: poteva distinguersi quel giorno stesso. Avrebbe salvato il conte Roland, o anche solo Victory. Il pensiero gli infuse energia. Osservò attentamente il fiume, in cerca della ricca veste viola e della sopravveste di velluto nero indossate dal conte. Era difficile distinguere un individuo fra una massa di corpi inzuppati, morti o vivi che fossero. Poi scorse uno stallone nero con un'inconfondibile macchia bianca sopra un occhio e il suo cuore sussultò: il cavallo di Roland. Victory si agitava nell'acqua e non riusciva a nuotare in linea retta, forse a causa di una o più zampe spezzate. Accanto al cavallo galleggiava una lunga sagoma con una veste viola. Il momento di Ralph era arrivato. Si tolse gli indumenti, che lo avrebbero ostacolato nei movimenti, e con i soli mutandoni addosso si tuffò nel fiume per raggiungere a nuoto il conte. Dovette farsi largo tra la massa di uomini, donne e bambini. Molti, ancora vivi, si aggrappavano disperatamente a lui rallentandolo. Spietato, li
cacciò via con durezza, a pugni. Finalmente raggiunse Victory. L'animale lottava debolmente. Si immobilizzò per un attimo, cominciò ad affondare; quando la testa finì sott'acqua, riprese a reagire. «Calmo, bello, calmo» gli disse Ralph all'orecchio, sicuro però che il cavallo sarebbe affogato. Roland galleggiava sul dorso, gli occhi chiusi, svenuto o morto. Un piede era impigliato in una staffa; probabilmente era stato quello a impedirgli di affondare. Aveva perso il cappello e la testa appariva completamente coperta di sangue. Ralph non riusciva a capacitarsi di come si potesse sopravvivere a una ferita del genere. Ciò nonostante l'avrebbe portato in salvo: ci sarebbe stata comunque una ricompensa anche solo per il cadavere, in considerazione del fatto che era del conte. Tentò di liberargli il piede dalla staffa, ma vide che la cinghia era stretta intorno alla caviglia. Cercò a tastoni il coltello fissato alla cintura: si accorse che l'aveva lasciato a riva col resto degli indumenti. Ma il conte aveva su di sé delle armi. Ralph estrasse il pugnale di Roland dal fodero. I movimenti convulsi di Victory gli impedivano di tagliare la cinghia. Ogni volta che riusciva ad afferrare bene la staffa, il cavallo agonizzante gliela strappava di mano prima che lui riuscisse ad avvicinarvi il coltello. Durante la lotta si tagliò il dorso della mano. Infine, appoggiò entrambi i piedi sul fianco del cavallo e in quella posizione stabile riuscì nel suo intento. Non gli restava che trascinare a riva il conte privo di conoscenza. Ralph non era un nuotatore allenato ed era già esausto e ansimante. A peggiorare le cose, a causa del naso rotto doveva respirare con la bocca aperta, e continuava a bere. Si riposò per qualche istante, appoggiandosi su Victory, ormai spacciato, nel tentativo di prendere fiato, ma il corpo del conte, privo di sostegno, cominciò a colare a picco. Ralph capì di non potere indugiare oltre. Afferrò la caviglia di Roland con la destra e cominciò a nuotare in direzione della riva. Con una sola mano libera per rimanere a galla, gli era più difficile tenere il capo fuori dall'acqua. Non si girò a guardare il conte: anche se la testa gli finiva sott'acqua, lui non poteva farci niente. Dopo alcuni secondi era senza fiato e gli dolevano gli arti. Non era abituato a fatiche del genere. Giovane e forte, passava il tempo a cacciare, fare tornei e tirare di scherma. Era in grado di cavalcare per tutto il giorno e vincere la sera stessa un incontro di lotta, ma in quel momento doveva affidarsi a muscoli non esercitati. Il collo gli faceva male per lo
sforzo di tenere la testa eretta. Non poteva fare a meno di inghiottire acqua, tossiva e soffocava. Continuando a battere freneticamente la mano sinistra riusciva a malapena a stare a galla. Si avvicinò alla riva con penosa lentezza, cercando di tenere in superficie il corpo massiccio del conte, reso più pesante dagli indumenti inzuppati. Finalmente poté posare i piedi sul fondo. Inspirò avidamente e cominciò a camminare trascinando Roland. Quando l'acqua gli arrivò all'altezza della coscia, si voltò, prese il conte fra le braccia e percorse alcuni passi sulla riva. Depose il corpo a terra e vi si accasciò accanto, esausto. Con le ultime energie gli tastò il petto: il battito cardiaco era forte. Il conte Roland era vivo. Al crollo del ponte, Gwenda restò impietrita dalla paura. Un attimo dopo, tuttavia, il contatto improvviso con l'acqua fredda la riportò in sé. Quando con la testa riemerse in superficie, si trovò circondata da gente che sbraitava. Qualcuno si teneva a galla aggrappato a un pezzo di legno, ma tutti gli altri cercavano di sostenersi appoggiandosi ai vicini, che sentendosi andare a fondo mulinavano i pugni nel tentativo di liberarsi. Molti colpi andavano a vuoto, ma quelli ricevuti venivano restituiti. Sembrava di essere davanti a una taverna di Kingsbridge a mezzanotte. Avrebbe potuto essere una scena comica se quella gente non fosse stata prossima alla morte. Gwenda aspirò una boccata d'aria e finì sott'acqua. Non sapeva nuotare. Quando riemerse, vide con orrore Sim l'ambulante proprio davanti a sé, la bocca che sprizzava acqua come una fontana. Poi cominciò ad andare sotto: era ovvio che neanche lui sapeva nuotare. Le si aggrappò disperato alla spalla nel tentativo di trovare un sostegno, ma lei affondò immediatamente. Vedendo che non ce la faceva a tenerlo a galla, Sim la lasciò. Sott'acqua, trattenendo il fiato e cercando di controllare il panico, Gwenda pensò: "Non posso annegare proprio adesso, dopo tutto quello che ho passato". Quando tornò in superficie si sentì spingere di lato da un corpo pesante, e con la coda dell'occhio scorse il bue che l'aveva urtata con violenza sul ponte un attimo prima del crollo. A quanto pareva, era illeso e nuotava con forza. Lei allungò una mano e agitando vigorosamente i piedi cercò di afferrare un corno dell'animale. In questo modo gli piegò la testa di lato, ma dopo un attimo il bue raddrizzò il poderoso collo. Gwenda riuscì ad afferrarsi saldamente.
Skip si materializzò accanto a lei nuotando senza sforzo e, nel vederla, guaì di gioia. Il bue si dirigeva verso la spiaggia dei sobborghi. Gwenda rimase attaccata al suo corno, ma avvertiva che il braccio stava per cedere. Si sentì afferrare da qualcuno e si guardò alle spalle: era Sim. Stava cercando di usarla come sostegno per tenersi a galla e la spingeva giù. Lei, allora, senza mollare la presa sul bue, lo scacciò con la mano libera. Sim si rovesciò all'indietro e finì con la testa vicino ai suoi piedi. Gwenda, presa attentamente la mira, gli sferrò un calcio in faccia con tutte le sue forze. Lui emise un grido di dolore, che si spense quando la testa finì sott'acqua. Trovato un punto d'appoggio, il bue si trascinò pesantemente fuori dal fiume, sbuffando e sollevando spruzzi. Gwenda lo lasciò andare non appena poté a sua volta poggiare i piedi sul fondo. Skip abbaiò una volta, spaventato, e Gwenda si guardò attorno circospetta: Sim non era sulla riva. Osservò con attenzione il fiume in cerca della macchia gialla di una tunica tra i corpi e i legni galleggianti. Lo vide, aggrappato a un'asse, che sbattendo le gambe puntava dritto verso di lei. Gwenda non ce la faceva a correre: non aveva più forze e il vestito completamente zuppo la ostacolava. Da quella parte del fiume non c'era possibilità di nascondersi. E, con il ponte crollato, sfumava ogni possibilità di raggiungere Kingsbridge. Tuttavia, non aveva intenzione di farsi prendere. Notò che lui si agitava molto e questo le infuse speranza. L'asse l'avrebbe sostenuto se fosse rimasto fermo, ma Sim scalciava per raggiungere la riva e quei movimenti convulsi lo rendevano instabile. Premeva sulla tavola per sollevarsi, poi batteva i piedi con frenesia e spesso la testa finiva sott'acqua. Forse non ce l'avrebbe fatta a raggiungere la riva. Gwenda comprese che doveva a tutti i costi impedirglielo. Lanciò un rapido sguardo attorno a sé: l'acqua era piena di legni di ogni dimensione, dalle travi portanti alle schegge. Individuò un pezzo massiccio lungo circa una iarda, entrò in acqua e lo afferrò. Poi andò incontro al suo aguzzino guadando il fiume. Ebbe la soddisfazione di vedere nei suoi occhi un lampo di terrore. Sim smise di battere i piedi: di fronte a lui c'era la donna che aveva tentato di rendere schiava, furibonda, determinata, con una poderosa mazza in mano. Dietro, la morte certa per annegamento. Sim avanzò verso di lei. Gwenda, ferma, con l'acqua alla vita, aspettava il momento giusto.
Anche Sim si era bloccato di nuovo e lei immaginò che stesse cercando il fondo coi piedi. "Adesso o mai più." Gwenda riprese ad avanzare, il legno brandito alto sopra la testa. Sim capì le sue intenzioni e cercò disperatamente di allontanarsi, ma non aveva un punto d'appoggio, non stava né nuotando né camminando e non poteva scansarsi. Gwenda gli calò il legno sulla testa con tutte le sue forze. Sim girò gli occhi all'indietro e perse i sensi. Lei allungò la mano e lo afferrò per la tunica gialla, decisa a non farselo sfuggire: lui sarebbe potuto sopravvivere. Lo tirò a sé, poi gli prese il capo fra le mani e lo spinse sott'acqua. Tenere un corpo immerso, anche se inerte, era più difficile di quanto avesse immaginato. I capelli unti erano scivolosi; dovette stringergli la testa con il braccio, poi sollevare i piedi dal fondo e spingerlo giù con tutto il proprio peso. Cominciò a convincersi che ce l'avrebbe fatta. Quanto tempo impiegava un uomo ad affogare? Non ne aveva idea. I polmoni di Sim dovevano già essere pieni d'acqua. Come faceva a sapere quando lasciarlo andare? All'improvviso, lui cominciò a dimenarsi. Gwenda gli strinse più forte la testa e per un attimo faticò a mantenere la presa. Non capiva se fosse tornato in sé o se quello fosse stato un riflesso involontario. Gli scatti erano violenti, ma sembravano casuali. Gwenda chiamò a raccolta le forze per non cedere. Si guardò attorno. Non le badava nessuno: erano tutti troppo preoccupati a mettersi in salvo. Ancora qualche momento e i movimenti di Sim, sempre più deboli, cessarono del tutto. Gwenda allentò a poco a poco la presa e l'uomo si posò lentamente sul fondo. Non riemerse più. Gwenda tornò a riva ansimando e si lasciò cadere pesantemente a terra. Cercò con la mano la borsa di pelle: c'era ancora. I fuorilegge non gliel'avevano rubata e non era andata perduta nonostante tutte le sue vicissitudini. Conteneva la preziosa pozione di Mattie la guaritrice. Gwenda la aprì, ma non trovò che cocci. La boccetta era andata in frantumi. Scoppiò in lacrime. La prima persona che Caris vide intenta a fare una cosa sensata fu Ralph, il fratello di Merthin. Non indossava che un paio di mutandoni in-
zuppati e non era ferito, a parte il naso gonfio che aveva già prima. Ralph tirò fuori dall'acqua il conte di Shiring e lo adagiò sulla riva accanto al cadavere in livrea. Il conte aveva una spaventosa ferita alla testa, forse mortale. Ralph pareva esausto per lo sforzo e indeciso sul da farsi. Caris pensò come consigliarlo. Si guardò attorno. Da quel lato del fiume c'erano piccole spiagge fangose intervallate da affioramenti rocciosi. Non c'era molto spazio: i morti e i feriti dovevano essere trasportati altrove. A qualche iarda di distanza, una gradinata di pietra portava dal fiume ai cancelli che si aprivano nelle mura del priorato. Caris prese una decisione. «Porta il conte nel priorato passando da quella parte» disse a Ralph puntando il dito. «Adagialo delicatamente sul pavimento della cattedrale, poi corri all'ospitale. Di' alla prima suora che incontri di chiamare subito madre Cecilia.» Ralph sembrò lieto che una persona decisa gli dicesse cosa fare ed eseguì gli ordini. Merthin cominciò a camminare nell'acqua, ma Caris lo fermò. «Guarda quella folla di idioti» disse indicando l'estremità del ponte crollato dalla parte della città. Decine di persone fissavano impalate la scena terrificante sotto di loro. «Fai scendere tutti gli uomini robusti» continuò. «Che aiutino a tirare fuori la gente dall'acqua e a trasportarla alla cattedrale.» Lui esitò. «Non possono arrivare fin qui da lassù.» Caris comprese l'obiezione. Avrebbero dovuto arrampicarsi sui resti del ponte crollato, con il rischio di ferirsi. Però le case da quel lato della strada principale avevano i giardini a ridosso delle mura del priorato, e l'abitazione sull'angolo, di proprietà di Ben il carrettiere, aveva una piccola porta nel muro per poter accedere al fiume direttamente dal giardino. Merthin stava pensando la stessa cosa. «Li faccio passare dalla casa di Ben e poi dal suo cortile.» «Bene.» Lui si arrampicò su per le rocce, spalancò la porta e scomparve. Caris scrutò il fiume. Un'alta figura stava avanzando a fatica in direzione della sponda vicina. Era Philemon. «Hai visto Gwenda?» le domandò ansimando. «Sì... poco prima del crollo del ponte» rispose Caris. «Scappava, inseguita da Sim l'ambulante.» «Lo so... ma dov'è adesso?» «Non la vedo. La cosa migliore che puoi fare è cominciare a tirare fuori
la gente dall'acqua.» «Voglio trovare mia sorella.» «Se è viva, è di sicuro tra loro.» «D'accordo.» Philemon riprese a camminare rapido nell'acqua sollevando alti spruzzi. Caris voleva disperatamente scoprire dove fossero i suoi familiari, ma c'era troppo da fare. Si ripromise di cercare il padre non appena possibile. Ben il carrettiere apparve sul cancello; tozzo, con le spalle larghe e il collo taurino, aveva sempre vissuto usando più i muscoli del cervello. Scese velocemente alla spiaggia, poi si guardò attorno senza sapere cosa fare. Ai piedi di Caris giaceva un uomo del conte Roland; indossava la livrea rossa e nera e sembrava morto. «Ben, trasporta quest'uomo nella cattedrale» disse lei. Li raggiunse anche la moglie di Ben, Lib, con un bambino in braccio. Era un po' più sveglia del marito. «Non dovremmo cominciare prima dai vivi?» osservò. «Per capire se sono vivi o morti dobbiamo recuperarli, e non possiamo lasciare i corpi sulla riva perché intralcerebbero i soccorsi. Portalo in chiesa.» Lib comprese. «Sarà meglio fare come dice Caris.» Ben raccolse il corpo senza alcuno sforzo e si allontanò. Caris si rese conto che il trasporto dei corpi sarebbe stato più veloce con le barelle usate dai muratori. Avrebbero potuto pensarci i monaci, ma dov'erano? Aveva detto a Ralph di dare l'allarme a madre Cecilia, però fino a quel momento non si era visto nessuno. C'era bisogno di bende, unguenti e liquidi per lavare le ferite: servivano tutti, frati e suore. Dovevano far venire anche Matthew il barbiere, perché di sicuro erano molte le ossa rotte da sistemare. E Mattie la guaritrice, per somministrare ai feriti lenitivi per il dolore. Caris doveva dare l'allarme, ma era riluttante a lasciare la riva prima che le operazioni di salvataggio fossero organizzate in modo adeguato. Perché Merthin non tornava? Una donna stava arrancando verso la riva. Caris entrò in acqua e la tirò verso di sé. Era Griselda. Il vestito bagnato le stava incollato addosso e Caris notò il seno pieno e la curva abbondante delle cosce. «Stai bene?» le domandò ansiosa, sapendo che era incinta. «Credo di sì.» «Sanguini?» «No.»
«Grazie a Dio.» Caris si guardò attorno e vide con sollievo che Merthin stava scendendo dal giardino di Ben alla testa di una fila di uomini, alcuni dei quali con la livrea del conte. «Sorreggi Griselda e aiutala a salire al priorato» gli gridò. «Dovrebbe sedersi e riposare un po'.» Poi aggiunse rassicurante: «Comunque, sta bene». Merthin e Griselda la guardarono entrambi in modo strano, e lei si rese immediatamente conto di quanto fosse assurda quella situazione. Per un attimo, i tre formarono un raggelante triangolo: la futura madre, il padre del bambino e la donna che lo amava. Poi Caris si voltò, rompendo l'incantesimo, e cominciò a dare ordini agli uomini. Gwenda pianse per un po'. In realtà non era triste per la boccetta rotta: Mattie avrebbe potuto prepararle un'altra pozione, e Caris l'avrebbe pagata, posto che le due fossero ancora vive. Le lacrime erano dovute a tutto ciò che le era successo nelle ultime ventiquattr'ore: dal tradimento del padre ai piedi sanguinanti. Non aveva rimorsi per i due uomini uccisi: Sim e Alwyn avevano cercato di renderla schiava e poi di farla prostituire. Meritavano di morire. E non era neppure assassinio, perché sopprimere un fuorilegge non era un crimine. Ciò nonostante, non riusciva a impedire alle proprie mani di tremare. Era felice di avere battuto i suoi nemici per conquistarsi la libertà, ma nello stesso tempo provava disgusto per quel che aveva fatto. Non avrebbe mai dimenticato lo spasmo finale del corpo agonizzante di Sim. E temeva di rivedere in sogno Alwyn con la punta del pugnale che sbucava dall'orbita. Presa in una morsa di sensazioni tanto forti e contrastanti, non poté fare a meno di rabbrividire. Cercò di scacciare dalla mente quelle immagini atroci. Chi altri era morto? I suoi genitori avevano deciso di lasciare Kingsbridge il giorno prima. Ma suo fratello Philemon? Caris, la sua più cara amica? Wulfric, l'uomo che amava? Guardò dalla parte opposta del fiume e si rassicurò subito sul conto di Caris: era sulla riva di fronte con Merthin, e sembravano intenti a organizzare un gruppo di uomini per recuperare la gente in acqua. Gwenda si sentì pervadere dalla gratitudine: non era rimasta sola al mondo. Ma Philemon? Era l'ultima persona che aveva visto prima del crollo. Sarebbe dovuto cadere vicino a lei, data la situazione; invece non riusciva a scorgerlo.
E dov'era Wulfric? Chissà se aveva voluto assistere allo spettacolo della strega fustigata in giro per la città. In ogni caso, doveva tornare a Wigleigh con la famiglia quel giorno stesso, ed era possibile ("Dio non voglia" pensò) che stessero attraversando il ponte proprio al momento del crollo. Gwenda scrutò ansiosamente la superficie dell'acqua in cerca della sua inconfondibile chioma bruna dai riflessi fulvi; pregò di vederlo nuotare con vigorose bracciate verso riva, piuttosto che galleggiare a testa in giù. Ma non riuscì proprio a individuarlo. Decise di attraversare il fiume. Non sapeva nuotare, ma se avesse trovato un pezzo di legno abbastanza grosso per tenersi a galla sarebbe potuta arrivare dall'altra parte battendo le gambe. Pescò un'asse dall'acqua e camminò sulla riva verso monte per una cinquantina di iarde, in modo da tenersi alla larga dall'ammasso di corpi. Poi rientrò in acqua. Skip la seguì fiducioso. Fu più impegnativo di quanto si fosse aspettata e il vestito bagnato, sempre più pesante, la ostacolava, tuttavia riuscì a raggiungere la riva opposta. Corse da Caris e l'abbracciò. «Cos'è successo?» le domandò l'amica. «Sono scappata.» «E Sim?» «Era un bandito.» «Era?» «È morto.» Caris parve impressionata. «Ucciso nel crollo del ponte» si affrettò ad aggiungere Gwenda. Non voleva rivelare neppure alla sua più cara amica cos'era realmente avvenuto. «Hai visto qualcuno della mia famiglia?» continuò. «I tuoi genitori hanno lasciato la città ieri. Ho visto Philemon qualche attimo fa; ti sta cercando.» «Grazie a Dio! E Wulfric?» «Non so. Dal fiume non l'hanno tirato fuori. La sua fidanzata è partita ieri, ma i genitori e il fratello erano nella cattedrale questa mattina, al processo di Nell la pazza.» «Devo cercarlo.» «Buona fortuna.» Gwenda salì di corsa la scala che portava al priorato e attraversò il prato. Alcuni mercanti stavano ancora riponendo le loro cose, e le sembrò incredibile che potessero occuparsi tranquillamente dei loro affari quando centinaia di persone erano appena state uccise in una catastrofe. Poi si rese
conto che probabilmente non lo sapevano ancora; era successo solo da pochi minuti, benché sembrassero ore. Attraversò i cancelli del priorato e si avviò lungo la strada principale. Wulfric e la sua famiglia erano alloggiati alla locanda Bell. Vi entrò di corsa. C'era un adolescente dall'aria spaventata accanto a un barile di birra. «Sto cercando Wulfric di Wigleigh» disse Gwenda. «Qui non c'è nessuno» rispose il ragazzo. «Io sono l'apprendista. Mi hanno messo a fare la guardia alla birra.» "Qualcuno ha chiamato tutti a raccolta giù al fiume" pensò Gwenda. Corse di nuovo fuori. Mentre varcava la soglia, apparve Wulfric. Gwenda si sentì così sollevata che gli buttò le braccia al collo. «Sei vivo, grazie a Dio!» gridò. «Ho sentito che il ponte è crollato» disse lui. «Allora è vero?» «Sì... una cosa terribile. Dove sono i tuoi?» «Sono usciti un momento fa. Io sono rimasto indietro a riscuotere un credito.» Sollevò un piccolo sacchetto di pelle. «Spero che non fossero sul ponte quando è crollato.» «So come scoprirlo» disse Gwenda. «Vieni con me.» Lo prese per mano e lui, senza ritrarla, si lasciò condurre nel recinto del priorato. Lei non lo aveva mai toccato così a lungo. Nonostante ciò che era successo, quella mano grande, con le dita ruvide per il lavoro e la palma morbida, la faceva fremere in tutto il corpo. Attraversarono il prato per entrare nella cattedrale. «Stanno tirando la gente fuori dal fiume per portarla qui» gli spiegò. C'erano già venti o trenta corpi sul pavimento di pietra della navata, e continuavano ad arrivarne. Le poche suore che assistevano i feriti sembravano minuscole rispetto ai maestosi pilastri intorno a loro. Il monaco cieco che normalmente si occupava del coro sembrava avere assunto il comando delle operazioni. «Mettete i morti nel lato nord» ordinò a voce alta mentre Gwenda e Wulfric entravano nella navata. «I feriti a sud.» All'improvviso Wulfric emise un grido disperato. Gwenda seguì il suo sguardo e vide David, il fratello, che giaceva tra i feriti. Si inginocchiarono entrambi accanto a lui sul pavimento. David aveva un paio d'anni più di Wulfric e la stessa corporatura imponente. Respirava e aveva gli occhi aperti, ma sembrava non vederli. Wulfric gli parlò. «Dave!» disse a voce bassa ma pressante. «Dave, sono io, Wulfric.» Gwenda sentì qualcosa di appiccicoso e si rese conto che David giaceva
in una pozza di sangue. «Dave, dove sono mamma e papà?» Nessuna risposta. Gwenda si guardò attorno e vide la madre di Wulfric. Era nel punto più lontano della chiesa, la navata laterale nord, dove Carlus il cieco aveva ordinato di portare i morti. «Wulfric» disse Gwenda piano. «Cosa?» «La tua mamma.» Lui si alzò a guardare. «Oh, no.» I due ragazzi attraversarono l'ampia chiesa. La madre di Wulfric giaceva accanto a sir Stephen, il signore di Wigleigh, ora suo pari. Era una donna molto piccola: incredibile come avesse potuto dare alla luce due ragazzi robusti come i suoi figli. In vita era stata instancabile e piena di energie, ma ora sembrava così fragile, bianca ed esile. Wulfric le passò la mano sul petto, per sentire il battito cardiaco. Quando premette, dalla bocca di sua madre uscì un rivolo d'acqua. «È affogata!» sussurrò. Gwenda gli cinse con il braccio le ampie spalle, nel tentativo di consolarlo. Non riusciva a capire se se ne fosse accorto. Un armigero con la livrea rossa e nera del conte arrivò trasportando il corpo senza vita di un uomo massiccio. Wulfric trasalì di nuovo: era suo padre. «Mettilo qui, accanto alla moglie» disse Gwenda. Wulfric era sconvolto. Non diceva niente, pareva non capire. Gwenda stessa era costernata. Che cosa poteva mai dire in quelle circostanze all'uomo che amava? Tutte le frasi che le venivano in mente suonavano stupide. Desiderava ardentemente confortarlo, ma non sapeva come. Mentre Wulfric fissava i corpi dei genitori, Gwenda guardò il fratello dall'altra parte della chiesa. Pareva immobile. Si diresse rapidamente verso di lui: gli occhi fissavano il vuoto e non respirava più. Gli sentì il petto. Il cuore era fermo. Come avrebbe potuto sopportarlo Wulfric? Si asciugò le lacrime e tornò da lui. Non aveva alcun senso nascondergli la verità. «È morto anche David.» Wulfric sembrava assente, inebetito. Gwenda pensò terrorizzata che forse la tragedia improvvisa gli avesse fatto perdere il lume della ragione. Ma poi lui parlò. «Tutti» sussurrò. «Tutti e tre. Morti.» Guardò Gwenda con gli occhi colmi di lacrime.
Lei lo abbracciò e sentì il suo corpo scosso dai singhiozzi. Lo strinse forte. «Povero Wulfric» disse. «Povero, amatissimo Wulfric.» «Grazie a Dio, ho ancora Annet» mormorò lui. Un'ora più tardi i corpi dei morti e dei feriti coprivano quasi tutto il pavimento della navata. Carlus il cieco, il vicepriore, stava in mezzo a loro e Simeon, il tesoriere dal volto sottile, gli era accanto per fargli da guida. Carlus aveva assunto il controllo della situazione perché il priore Anthony non si trovava. «Frate Theodoric, sei tu?» chiese, a quanto pare riconoscendo il passo del monaco con la pelle chiara e gli occhi azzurri che era appena entrato. «Trova il becchino. Digli di procurarsi sei uomini forti per farsi aiutare. Avremo bisogno di almeno cento nuove fosse, e in questa stagione non è il caso di rinviare le sepolture.» «Subito, fratello» rispose Theodoric. Caris era impressionata dalle doti organizzative di Carlus, malgrado la cecità. Aveva lasciato Merthin impegnato a gestire con efficienza il recupero dei corpi in acqua. Si era assicurata che suore e frati fossero stati avvertiti del disastro, poi era andata a chiamare Matthew il barbiere e Mattie la guaritrice. Infine, si era data alla ricerca dei suoi familiari. Solo lo zio Anthony e Griselda erano sul ponte al momento del crollo. Aveva trovato il padre al Palazzo delle corporazioni in compagnia di Buonaventura Caroli. "Adesso dovranno costruirlo per forza, un nuovo ponte!" aveva esclamato Edmund. Poi era sceso claudicante al fiume, a dare una mano nei soccorsi. Gli altri erano salvi: la zia Petranilla, a casa a cucinare; Alice, la sorella di Caris, alla locanda Bell con Elfric; il cugino Godwyn nella cattedrale a controllare le riparazioni sul lato sud del presbiterio. Griselda era andata a casa a riposare, Anthony era ancora disperso. Caris non amava lo zio, ma non gli avrebbe augurato di morire, e ogni volta che un corpo veniva recuperato dal fiume e portato nella navata controllava ansiosamente se fosse il suo. Madre Cecilia e le suore lavavano ferite, applicavano miele come lenitivo, avvolgevano bende e distribuivano tazze ristoratrici di birra calda speziata. Matthew il barbiere, il vivace ed efficiente cerusico sui campi di battaglia, lavorava fianco a fianco con la corpulenta e ansimante Mattie la guaritrice: lei somministrava calmanti poco prima che lui intervenisse a rimettere a posto braccia e gambe rotte. Caris si diresse al transetto sud. Laggiù, lontano dal rumore, dalla confu-
sione e dal sangue della navata, i più autorevoli monaci medici erano riuniti attorno al corpo del conte di Shiring, ancora privo di sensi. Gli avevano tolto gli abiti bagnati per coprirlo con una pesante coperta. «È vivo» disse frate Godwyn «ma la ferita è molto brutta.» Indicò la nuca. «Il cranio è in parte fracassato.» Caris scrutò al di sopra della spalla di Godwyn. Riusciva a vedere il cranio, che sembrava la crosta rotta di una torta, macchiato di sangue. Tra le fratture si intravedeva la materia grigia. Davvero non si poteva fare nulla per una ferita così orribile? Frate Joseph, il più esperto dei medici, pareva pessimista. Si sfregò il grosso naso e parlò, la bocca piena di denti guasti. «Dobbiamo portare qui le reliquie del santo» disse impastando le sibilanti come un ubriaco. «Sono la sua ultima speranza.» Caris non era molto convinta che le ossa di un santo morto da tanto tempo avessero il potere di guarire la testa rotta di un uomo vivo. Non disse nulla, però: sapeva di pensarla diversamente a quel proposito e teneva quasi sempre per sé il suo punto di vista. I figli del conte, lord William e il vescovo Richard, rimasero in piedi a guardare. William, con la sua figura alta, militaresca, e i capelli neri, era la versione più giovane dell'uomo privo di sensi adagiato su un giaciglio improvvisato. Richard era più chiaro e massiccio. Ralph, il fratello di Merthin, era con loro. «Sono stato io a tirare fuori dall'acqua il conte.» Era la seconda volta che Caris glielo sentiva dire. «Sì, ben fatto» rispose William. La moglie di William, Philippa, era insoddisfatta quanto Caris delle parole di frate Joseph. «Non c'è qualcosa che potete fare voi per aiutare il conte?» domandò. «La preghiera è la cura più efficace» rispose Godwyn. Le reliquie erano conservate in una teca chiusa a chiave sotto l'altare maggiore. Non appena Godwyn e Joseph si furono allontanati per andarle a prendere, Matthew il barbiere si chinò sul conte per esaminare la testa ferita. «Così non guarirà mai» disse. «Neppure con l'aiuto del santo.» «Cosa intendi?» chiese William in un tono brusco che a Caris ricordò il modo di parlare del conte, suo padre. «Il cranio è un osso come tutti gli altri» rispose Matthew. «Non si ripara da sé, e i pezzi devono essere al posto giusto, altrimenti si salderanno male.» «Pensi di saperne più dei monaci?»
«Mio signore, i monaci sanno come appellarsi al mondo spirituale. Io mi limito ad aggiustare ossa.» «E da dove ti viene questa competenza?» «Ho fatto il cerusico per molti anni negli eserciti del re. Ho marciato al fianco di vostro padre, il conte, nelle guerre di Scozia. Ne ho viste tante, di teste rotte.» «Cosa faresti adesso per mio padre?» Caris percepiva che l'aggressività di William innervosiva Matthew, ma il barbiere sembrava sicuro di quel che diceva. «Io toglierei dal cervello le schegge di osso, le pulirei e cercherei di rimetterle insieme.» Caris trasalì. Non riusciva quasi a immaginare un'operazione tanto audace. Come faceva Matthew ad avere il fegato di proporla? E se qualcosa fosse andato storto? «E lui guarirà?» «Non lo so» rispose Matthew. «A volte una ferita alla testa ha strani effetti, come la menomazione nel camminare o nel parlare. Quello che posso fare io è riparare il cranio. Se volete un miracolo, rivolgetevi al santo.» «Dunque, non puoi garantire il successo.» «Solo Dio è onnipotente. Gli uomini devono fare quello che possono e sperare per il meglio. Io però credo che se questa ferita non viene curata vostro padre morirà.» «Ma Joseph e Godwyn hanno letto i libri degli antichi filosofi della medicina.» «E io ho visto uomini feriti morire o guarire sul campo di battaglia. A voi decidere a chi dare credito.» William guardò la moglie. «Lascia che il barbiere faccia quello che sa e prega sant'Adolfo di aiutarlo» lo esortò Philippa. William annuì. «Va bene» disse a Matthew. «Procedi pure.» «Voglio che distendiate il conte su un tavolo» ordinò Matthew perentorio. «Vicino alla finestra, in modo che la luce illumini la ferita.» William schioccò le dita a due novizi. «Fate qualunque cosa vi chieda quest'uomo» ordinò. «Mi serve solo una ciotola di vino caldo» disse il barbiere. I monaci portarono dall'ospitale una tavola appoggiata su cavalletti e la sistemarono sotto la grande finestra del transetto sud. Due scudieri sollevarono il conte Roland e ve lo adagiarono sopra.
«A faccia in giù, per favore.» Lo voltarono. Matthew aveva una borsa di pelle contenente attrezzi affilati, tipici della sua professione. Prima di tutto estrasse un piccolo paio di forbici. Si chinò sulla testa del conte e cominciò a tagliare i capelli attorno alla ferita. Il conte aveva folti riccioli neri, particolarmente grassi. Matthew recise alcune ciocche e le gettò per terra. Quando ebbe rasato un cerchio intorno alla ferita, la lesione risultò più visibile. Frate Godwyn riapparve con il reliquiario, la teca intagliata in avorio e oro che conteneva il cranio di sant'Adolfo, oltre alle ossa di un braccio e di una mano. «Cosa sta succedendo qui?» esclamò indignato quando vide Matthew intento a operare il conte Roland. Matthew alzò lo sguardo. «Se volete sistemare le sacre reliquie sulla schiena del conte, il più vicino possibile alla testa, sono convinto che il santo mi aiuterà a tenere il polso saldo.» Godwyn esitò, chiaramente contrariato che un semplice barbiere avesse preso in mano la situazione. «Fa' come ti dice, fratello» comandò lord William «o sarai ritenuto responsabile della morte di mio padre.» Godwyn non obbedì e si rivolse a Carlus il cieco, poco distante. «Frate Carlus, lord William mi ordina di...» «Ho sentito quel che ha detto lord William» lo interruppe Carlus. «Sarebbe meglio fare come desidera.» Non era la risposta che Godwyn si aspettava: frustrato e irritato, sistemò con palese disgusto il contenitore sacro sull'ampia schiena del conte Roland. Matthew prese un paio di pinze sottili e con un tocco delicato afferrò l'estremità visibile di un pezzo di osso sollevandolo senza toccare la materia grigia sottostante. Caris osservava rapita. L'osso proveniva direttamente dalla testa, con il cuoio capelluto e i capelli ancora attaccati. Matthew lo posò delicatamente nella ciotola di vino caldo. Procedette allo stesso modo con altri due frammenti. I suoni che provenivano dalla navata, i lamenti dei feriti e i singhiozzi di chi era in lutto, sembravano essersi ridotti a un rumore di sottofondo. Intorno a Matthew e al conte privo di sensi si era formato un cerchio di persone immobili e mute. Matthew prese poi a occuparsi dei frammenti che erano rimasti attaccati al resto del cranio. Ogni volta radeva i capelli, lavava scrupolosamente la
parte con una pezzuola di lino imbevuta nel vino e poi usava le pinze per premere con delicatezza l'osso in quella che pensava fosse la posizione originale. Caris tratteneva il respiro; la tensione era enorme. Non aveva mai ammirato nessuno come Matthew il barbiere in quel momento. Che coraggio, abilità e sicurezza. E stava facendo quell'operazione così delicata proprio sul conte! Se avesse fallito, probabilmente sarebbe finito sulla forca. Eppure le sue mani erano ferme come quelle degli angeli scolpiti nella pietra all'ingresso della cattedrale. Infine Matthew risistemò i tre frammenti che aveva messo nella ciotola di vino e li unì tra loro come se stesse riparando un vaso rotto. Tirò la pelle del cuoio capelluto sulla ferita e la cucì con punti rapidi e precisi. A quel punto, il cranio di Roland era stato ricomposto. «Il conte deve riposare per una notte e un giorno» istruì Matthew. «Se si sveglia, dategli una dose abbondante della pozione per dormire di Mattie la guaritrice. Deve stare a letto, immobile, per quaranta giorni e quaranta notti. Se necessario, legatelo.» Poi chiese a madre Cecilia di procedere con la fasciatura. Godwyn, frustrato e irritato, uscì dalla cattedrale e corse in direzione del fiume. Mancava una vera autorità: Carlus lasciava fare alla gente tutto quello che voleva. Il priore Anthony era debole, ma era sempre meglio di Carlus. Bisognava trovarlo. La maggior parte dei corpi era ormai stata recuperata dall'acqua. Chi era soltanto ammaccato o sconvolto se n'era già andato. Quasi tutti i morti e i feriti erano stati portati alla cattedrale. Gli altri erano in qualche modo intrappolati sotto le macerie del ponte. Godwyn era al tempo stesso eccitato e spaventato all'idea che Anthony potesse essere morto. Desiderava ardentemente un nuovo regime per il priorato: un'interpretazione più rigorosa della Regola di san Benedetto, insieme a una gestione meticolosa delle finanze. Ma, nel contempo, sapeva che Anthony era il suo protettore e che sotto un altro priore forse non avrebbe potuto assumere incarichi sempre più prestigiosi. Merthin aveva requisito una barca. Era insieme a due giovani in mezzo al fiume, dove galleggiava gran parte di ciò che prima costituiva il ponte. Con addosso solo i mutandoni, i tre cercavano di sollevare una pesante trave per liberare qualcuno. Merthin era basso di statura, ma gli altri due
avevano un aspetto forte e ben nutrito, e Godwyn pensò che fossero scudieri al seguito del conte. Nonostante l'evidente forma fisica, trovavano difficile fare leva sui pesanti pezzi di legno, costretti com'erano nel pozzetto di una piccola barca a remi. Godwyn, in mezzo a una folla di cittadini, dibattuto fra paura e speranza, osservò i due scudieri sollevare una pesante trave da sotto la quale Merthin estrasse un corpo. Dopo un breve esame, annunciò: «Marguerite Jones... morta». Marguerite era una donna anziana, che non contava niente. Godwyn gridò impaziente: «Non riuscite a vedere il priore Anthony?». Gli uomini che erano sulla barca si scambiarono un'occhiata e Godwyn si rese conto di essere stato troppo perentorio. Merthin, comunque, rispose: «Riesco a vedere un saio». «Allora è il priore!» gridò Godwyn. Anthony era l'unico monaco che mancava all'appello. «Puoi dirmi come sta?» Merthin si sporse dal bordo della barca. Era evidentemente impossibile avvicinarsi da quella posizione, così si lasciò scivolare in acqua. Dopo qualche istante gridò: «Respira ancora!». Godwyn si sentì felice e deluso al tempo stesso. «Allora tiralo fuori. Sbrigati!» urlò. «Per favore» aggiunse. Nessuno gli rispose, però vide Merthin immergersi sotto un'asse in parte sommersa e poi impartire istruzioni agli altri due. Questi sollevarono la trave che tenevano da un lato e la fecero scivolare delicatamente in acqua, dopodiché si sporsero dalla prua della barca per afferrare l'asse sotto cui si trovava Merthin. Il giovane sembrava avere qualche difficoltà a liberare gli indumenti di Anthony da un intrico di legnetti e schegge. Godwyn osservava teso, perché non poteva fare nulla per accelerare l'operazione. Si rivolse a due persone lì accanto. «Andate al priorato e fate portare una barella da un paio di monaci. Dite che vi manda Godwyn.» I due salirono la scala ed entrarono nel recinto del priorato. Alla fine Merthin riuscì a liberare il corpo privo di sensi dai resti del ponte. Lo trascinò vicino alla barca e gli altri due lo sollevarono per poi deporlo. Merthin fece leva sulle mani per salire a bordo e si avviarono verso riva spingendo la barca con una pertica. Volontari impazienti prelevarono Anthony dalla barca e lo adagiarono sulla barella. Godwyn esaminò velocemente il priore: respirava, ma il polso era debole. Gli occhi erano chiusi e la faccia sinistramente bianca. La testa e il petto erano solo ammaccati, ma il bacino sembrava fracassato e
sanguinava. I monaci lo sollevarono. Godwyn fece strada attraverso il recinto del priorato sino alla cattedrale. «Lasciate passare!» gridava. Ordinò che il priore fosse portato lungo la navata fin dentro il presbiterio, la parte più sacra della chiesa, poi disse ai monaci di adagiare il corpo davanti all'altare maggiore. La veste inzuppata metteva chiaramente in evidenza i fianchi e le gambe di Anthony, così contorti e deformi che solo la metà superiore del corpo appariva umana. Dopo pochi attimi, tutti i monaci si erano raccolti attorno al corpo privo di sensi del loro priore. Godwyn recuperò il reliquiario dal conte Roland e lo pose ai piedi di Anthony. Joseph gli sistemò un crocifisso incastonato di gemme sul petto e vi avvolse attorno le mani. Madre Cecilia si inginocchiò accanto a Anthony. Gli pulì il viso con un panno imbevuto di un liquido lenitivo. «Sembra che abbia molte ossa rotte. Vuoi che Matthew il barbiere lo veda?» domandò a Joseph. Lui scosse la testa in silenzio. Godwyn era contento. Il barbiere avrebbe profanato quel luogo sacro. Meglio lasciare tutto al volere di Dio. Frate Carlus impartì l'estrema unzione al priore, poi intonò un inno per i monaci. Godwyn non sapeva che cosa sperare. Da alcuni anni aspettava con ansia la fine del priorato di Anthony, ma nell'ultima ora si era fatto una vaga idea di chi avrebbe potuto prenderne il posto: forse Carlus e Simeon insieme. Erano amici intimi del priore, e non sarebbero stati migliori di lui. Poi vide Matthew il barbiere ai margini della folla che, sopra le spalle dei monaci, studiava la metà inferiore del corpo di Anthony. Godwyn, indignato, stava quasi per ordinargli di uscire dal presbiterio, quando lui scosse impercettibilmente la testa e se ne andò. Anthony aprì gli occhi. «Dio sia lodato!» gridò frate Joseph. Sembrava che il priore volesse parlare. Madre Cecilia, che era ancora inginocchiata accanto a lui, si sporse sul suo viso per cogliere le parole. Godwyn vide Anthony muovere le labbra e avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire ciò che diceva. Dopo un attimo, il priore tacque. Cecilia sembrava sconvolta. «È vero?» domandò. Tutti la fissarono. «Cos'ha detto, madre Cecilia?» volle sapere Godwyn. Lei non rispose. Anthony chiuse gli occhi. Sopravvenne un leggero cambiamento dei
tratti del viso, poi il corpo rimase completamente immobile. Godwyn si chinò su di lui. Non respirava. Gli posò una mano sul cuore: nessun battito. Gli afferrò il polso: nessuna pulsazione. Si alzò. «Il priore Anthony ha lasciato questo mondo» annunciò. «Voglia Dio benedire la sua anima e accoglierlo al suo sacro cospetto.» «Amen» risposero in coro i monaci. "Ora ci saranno le elezioni" pensò Godwyn. Terza parte GIUGNO - DICEMBRE 1337 14 La cattedrale di Kingsbridge era un luogo di orrore. I feriti urlavano per il dolore e invocavano l'aiuto di Dio, dei santi o delle madri; i parenti si aggiravano in cerca di una persona cara, e quando la trovavano priva di vita gridavano affranti per l'improvviso strazio. Le vittime della disgrazia giacevano in posizioni grottescamente contorte a causa delle ossa rotte, erano coperte di sangue e avevano gli abiti strappati e inzuppati. Il pavimento di pietra della chiesa era un misto scivoloso di acqua, sangue e fango del fiume. In mezzo a quell'orrore, madre Cecilia rappresentava una piccola oasi di serenità ed efficienza: si spostava veloce come un uccellino tra i corpi adagiati sul pavimento, seguita da un gruppetto di suore incappucciate, tra cui la fedele assistente di una vita, suor Juliana, che tutti adesso chiamavano con rispetto "Venerabile Julie". Mentre esaminava ogni paziente, la badessa impartiva ordini su lavaggi, unguenti, bende e medicine a base di erbe. Per i casi più gravi chiamava Mattie la guaritrice, Matthew il barbiere o frate Joseph. Dava istruzioni semplici e precise, sempre sottovoce e con chiarezza. Quando li lasciava, i pazienti si sentivano sollevati e i loro parenti apparivano rassicurati e colmi di speranza. A Caris tornò alla mente, con atroce lucidità, il giorno della morte della madre. Anche in quell'occasione regnavano confusione e terrore, benché solo dentro il suo cuore, e persino allora Cecilia aveva dato l'impressione di sapere che cosa fare. Nonostante la sua assistenza, la madre era morta, proprio come sarebbero morti molti feriti quel giorno; ma Caris aveva avuto la sensazione che l'inferma fosse stata curata scrupolosamente e che tutto il possibile fosse stato fatto.
Quando qualcuno si ammalava, c'era sempre chi invocava la Vergine e i santi. Quell'abitudine non faceva che causare a Caris maggiore incertezza e paura, perché non c'era modo di sapere se gli spiriti avessero sentito e se sarebbero intervenuti. Madre Cecilia non era potente come i santi, Caris lo aveva capito già a dieci anni, ma ciò nonostante la sua presenza efficiente e rassicurante le aveva trasmesso speranza e rassegnazione insieme, infondendole pace nell'anima. Caris trovò quindi naturale accodarsi a Cecilia, senza neppure un attimo di esitazione. Eseguiva gli ordini della persona più competente e sicura di sé in quella circostanza, proprio come la gente al fiume aveva obbedito alle sue indicazioni subito dopo il crollo del ponte, quando nessun altro aveva chiaro in mente che cosa fare. Il dinamismo e il senso pratico di Cecilia erano contagiosi e molte persone che aiutavano la badessa li fecero propri. Caris si ritrovò con una ciotola di aceto in mano, mentre una bellissima novizia di nome Mair vi intingeva un panno per detergere dal sangue il viso di Susanna Chepstow, la moglie del mercante di legname. Da quel momento non ci fu più un istante di sosta fino a notte inoltrata. Grazie alla lunga giornata estiva, tutti i corpi che galleggiavano sul fiume furono recuperati prima che facesse buio, anche se forse nessuno avrebbe mai saputo quanti degli affogati fossero finiti sul fondo o trascinati via dalla corrente. Di Nell la pazza, legata al carro precipitato nel fiume, non vi era traccia. Per un iniquo destino, invece, frate Murdo se l'era cavata solo con una distorsione alla caviglia, e aveva potuto raggiungere zoppicando la locanda Bell per rifocillarsi con prosciutto caldo e birra forte. Le cure ai feriti, comunque, proseguirono durante la notte a lume di candela. Alcune suore, esauste, dovettero fermarsi; altre, sopraffatte dall'immensità della tragedia, erano crollate: fraintendevano le istruzioni e si muovevano in modo maldestro, tanto che fu necessario congedarle. Ma Caris e un piccolo gruppo di instancabili continuarono finché non rimase più nulla da fare. Doveva essere all'incirca mezzanotte quando l'ultimo nodo fu stretto sull'ultima fasciatura, e Caris attraversò barcollando il prato per tornare a casa. Edmund e Petranilla sedevano nella sala da pranzo tenendosi per mano, addolorati dalla morte del fratello Anthony. Lui aveva gli occhi arrossati dalle lacrime e sua sorella piangeva inconsolabile. Caris li baciò, ma non le venne in mente niente da dire. Se si fosse seduta si sarebbe addormentata, così salì di sopra. Si infilò nel letto accanto a Gwenda, come sempre sua ospite; l'amica, sfinita, dormiva un sonno profondo e non si mosse.
Caris chiuse gli occhi, il corpo stremato, il cuore gonfio di tristezza. Il padre piangeva una persona fra tante, ma lei sentiva il peso di tutte le vittime. Pensò agli amici, ai vicini e ai conoscenti che giacevano sul freddo pavimento di pietra della cattedrale. Immaginò la tristezza dei loro genitori, dei figli, dei fratelli e delle sorelle e fu oppressa da un dolore immenso. Si mise a singhiozzare nel guanciale. Senza una parola, Gwenda allungò un braccio e la strinse a sé. Dopo pochi attimi, svuotata di ogni forza, Caris si addormentò. Si alzò all'alba e tornò alla cattedrale per riprendere il lavoro, lasciando Gwenda ancora avvolta in un sonno profondo. La maggior parte dei feriti era stata mandata a casa. Coloro che dovevano rimanere sotto osservazione, tra cui il conte Roland, ancora privo di sensi, vennero trasferiti nell'ospitale. I corpi dei defunti furono allineati in file ordinate nel presbiterio, all'estremità orientale della chiesa, in attesa di sepoltura. Senza un attimo di requie, il tempo volò. Poi, nel tardo pomeriggio della domenica, madre Cecilia impose a Caris di prendersi una pausa. Guardandosi intorno, la ragazza si rese conto che la maggior parte del lavoro era stata fatta. Fu allora che cominciò a pensare al futuro. Fino a quel momento aveva avuto la sensazione che la vita normale non esistesse più, che il mondo si fosse trasformato in un luogo di orrore e tragedia. Ma allora comprese che, come tutto, anche quello sarebbe passato. Sepolti i morti e guariti gli ultimi feriti, in qualche modo la città sarebbe faticosamente tornata alla normalità. E rammentò che, poco prima del crollo del ponte, c'era stata un'altra tragedia improvvisa e, a suo modo, devastante. Trovò Merthin al fiume che, insieme a Elfric e a Thomas Langley, stava organizzando la rimozione completa del legname con l'aiuto di una cinquantina di volontari. L'animosità tra Elfric e Merthin era stata evidentemente accantonata di fronte all'emergenza. La maggior parte dei legni che galleggiavano sul fiume era stata recuperata e accatastata sulla riva, ma molte parti tenute insieme dai travetti e un gran numero di grosse assi unite fra loro fluttuavano ancora in superficie, assecondando il lieve movimento dell'acqua, con l'inconsapevole calma di una grossa bestia feroce che abbia appena ucciso e divorato la preda. Gli uomini stavano cercando di ridurre i resti del ponte crollato in pezzi facili da maneggiare: un lavoro pericoloso per il rischio costante di un ulteriore crollo che avrebbe potuto causare feriti fra i volontari. Avevano assicurato il blocco centrale del ponte, in parte sommerso, con una fune che
una squadra di uomini tirava da riva. Su una barca al centro del fiume c'erano Merthin e Mark il tessitore, con un altro ai remi. Quando gli uomini a riva smettevano di tirare, la barca si avvicinava ai resti del ponte e Mark, su indicazione di Merthin, aggrediva le travi con un'enorme ascia da boscaiolo. Poi la barca si spostava a distanza di sicurezza e, al comando di Elfric, la squadra a terra tesava la fune. Mentre Caris guardava, un grosso pezzo di ponte fu liberato. Il groviglio di legni venne trainato a riva tra la soddisfazione generale. Arrivarono le mogli di alcuni volontari con pagnotte e brocche di birra, e Thomas Langley ordinò una pausa. Mentre gli uomini riposavano, Caris condusse Merthin in disparte. «Non puoi sposare Griselda» gli disse senza preamboli. Merthin non fu sorpreso da quella dichiarazione. «Non so come comportarmi» replicò. «Continuo a pensarci.» «Ti va di fare due passi?» «Va bene.» Si allontanarono dalla folla sul fiume e imboccarono la strada principale. Dopo il trambusto della fiera della lana, la città era silenziosa come un cimitero. Erano tutti in casa a curare i feriti o a piangere i morti. «Devono essere poche le famiglie in città che non hanno perso qualcuno» disse Caris. «Erano almeno un migliaio le persone sul ponte, fra quelle in partenza e quelle impegnate a tormentare Nell. Ci sono più di cento cadaveri in chiesa, e abbiamo assistito circa quattrocento feriti.» «E gli altri cinquecento possono dirsi fortunati» commentò Merthin. «Anche noi avremmo potuto trovarci sul ponte o nei pressi. Ora tu e io potremmo giacere sul pavimento del presbiterio, freddi e immobili. Ma ci è stato fatto un dono: continuare a vivere. E noi non dobbiamo sprecare questo dono a causa di un errore.» «Non è un errore» ribatté lui aspro. «Si tratta di un bambino, una persona con un'anima.» «Anche tu sei una persona con un'anima, un'anima eccezionale. Guarda cosa stai facendo ora. Giù al fiume ci sono tre uomini a dirigere le operazioni: il costruttore più ricco della città, il matricularius del priorato e il terzo è... un semplice apprendista di neppure ventun anni. Eppure ti obbediscono tutti prontamente come obbediscono a Elfric o a Thomas.» «Questo non significa che io possa sottrarmi alle mie responsabilità.» Svoltarono nel recinto del priorato. Il prato davanti alla cattedrale era calpestato e pieno di solchi a causa della fiera, con tratti di pantano e gran-
di pozzanghere. Sulle tre ampie finestre del lato occidentale della chiesa, Caris vide riflessi un sole pallido e nubi frastagliate, un'immagine divisa come in un trittico d'altare. Una campana cominciò a battere i rintocchi per il vespro. «Pensa quante volte ti sei proposto di andare a vedere i palazzi di Parigi e Firenze. Te la senti di rinunciare a tutto questo?» «Immagino di sì. Un uomo non può abbandonare moglie e figlio.» «Quindi stai già pensando a lei come a tua moglie.» «Io non ho mai pensato a lei come a mia moglie» reagì lui, brusco. «Sai chi amo.» Per una volta a Caris non venne in mente una risposta intelligente. Aprì la bocca per parlare, ma la voce non uscì. Avvertì, invece, un groppo alla gola. Sbatté le palpebre per cacciare indietro le lacrime e guardò in basso per nascondere l'emozione. Lui la afferrò per le braccia e la tirò a sé. «Lo sai, vero?» Caris si impose di guardarlo negli occhi. «Lo so?» Tutto divenne sfocato. Merthin la baciò sulla bocca. Un bacio particolare, diverso da tutti quelli che le aveva dato in precedenza. Muoveva le labbra contro le sue con delicatezza ma anche con una certa insistenza, come se fosse determinato a ricordare quel momento. Merthin stava pensando che quello sarebbe stato il loro ultimo bacio: Caris se ne rese conto con orrore. Gli si avvinghiò come per far durare per sempre quel momento, ma lui si staccò troppo presto. «Ti amo» le disse «ma sposerò Griselda.» Si continuava a vivere e a morire. Nascevano bambini e i vecchi se ne andavano. La domenica, Emma, la moglie di Edward il macellaio, in un raptus di furibonda gelosia aggredì il marito adultero con la mannaia più grossa. Il lunedì, una delle galline di Bess Hampton sparì e fu trovata in pentola sul focolare di Glynnie Thompson, che per punizione fu denudata e fustigata da John il conestabile. Il martedì, mentre Howell Tyler stava riparando il tetto della chiesa di St Mark, una trave marcia cedette, lui precipitò al suolo sfondando il soffitto e morì all'istante. I resti del ponte finirono di essere rimossi il mercoledì, tutti tranne i monconi di due dei piloni principali, e il legname fu accatastato sulla riva. Liberato il corso d'acqua navigabile, chiatte e zattere poterono ripartire da
Kingsbridge per Melcombe, cariche di lana e altre mercanzie della fiera destinate alle Fiandre e all'Italia. Quando Caris e Edmund andarono al fiume per controllare i progressi nelle riparazioni, Merthin stava costruendo con le tavole recuperate una zattera per traghettare le persone da una riva all'altra. «È meglio di una barca» spiegò. «Il bestiame può salire e scendere, e si possono caricare anche i carri.» Edmund annuì cupo. «Per il mercato settimanale dovremo accontentarci di questa. Per fortuna avremo un ponte nuovo prima della prossima fiera della lana.» «È poco probabile» ribatté Merthin. «Ma tu mi hai detto che per costruire un nuovo ponte ci sarebbe voluto un anno!» «Per un ponte di legno, sì; ma se lo ricostruiamo di legno, crollerà un'altra volta.» «Perché?» «Vi faccio vedere.» Merthin li condusse a una catasta di legna e indicò un gruppo di poderosi pali. «Questi formavano i piloni: probabilmente sono i famosi ventiquattro tronchi di quercia donati al priorato dal re, i migliori del paese. Osservate la parte terminale.» Caris notò che gli enormi pali erano stati in origine resi acuminati da un lato, ma che dopo anni sott'acqua la punta si era smussata. «Un ponte di legno non ha fondamenta» spiegò Merthin. «I pali sono semplicemente conficcati nel letto del fiume. Così non può funzionare.» «Ma questo ponte è rimasto in piedi per centinaia di anni!» esclamò indignato Edmund. Ogni volta che discuteva, assumeva un tono litigioso. Merthin, abituato ai suoi modi, non vi diede importanza. «E adesso è crollato» disse paziente. «Qualcosa è cambiato. Una volta i piloni di legno erano sufficientemente solidi, ora non più.» «Cosa può essere cambiato? Il fiume è il fiume.» «Be', tanto per cominciare, tu hai costruito sulla riva una baracca e un pontile e li hai protetti con un muraglione. Parecchi altri mercanti hanno fatto la stessa cosa. La vecchia spiaggia di fango dove giocavo da bambino è quasi completamente scomparsa. Così, il fiume non può più allargarsi nei campi. Il risultato è che l'acqua scorre più velocemente di una volta, specialmente dopo piogge abbondanti come quelle di quest'anno.» «Allora dovrà essere un ponte di pietra?» «Sì.»
Edmund alzò lo sguardo e vide Elfric fermo ad ascoltare. «Merthin dice che per un ponte di pietra servono tre anni.» Elfric annuì. «Tre stagioni di lavoro.» In genere si costruiva nei mesi più caldi, Caris lo sapeva. Merthin le aveva spiegato che non si potevano erigere muri di pietra col freddo, perché si sarebbe corso il rischio che la calcina gelasse prima di consolidarsi. «Una stagione per le fondamenta, una per le arcate e una per l'impalcato» continuò Elfric. «Dopo ogni strato, la calcina deve essere lasciata indurire per tre o quattro mesi prima di posarvi sopra il successivo.» «Tre anni senza ponte» commentò Edmund cupo. «Quattro, a meno che non si cominci subito.» «Faresti meglio a preparare un preventivo per il priorato.» «Ho già cominciato, ma è un lavoro lungo. Mi ci vorranno altri due o tre giorni.» «Fai il più in fretta possibile.» Edmund e Caris lasciarono il fiume e si incamminarono verso la strada principale. Lui procedeva spedito con il suo passo strascicato. Non si sarebbe mai appoggiato al braccio di qualcuno nonostante la gamba deforme: per mantenere l'equilibrio muoveva le braccia come se stesse correndo a tutta velocità. I suoi concittadini sapevano di dovergli lasciare molto spazio, specialmente quando andava di fretta. «Tre anni!» esclamò. «Sarà un danno tremendo per la fiera della lana. Non so quanto impiegheremo per tornare alla normalità. Tre anni!» A casa c'era Alice, la sorella di Caris. Aveva i capelli raccolti sotto il copricapo, in una pettinatura elaborata copiata da lady Philippa. Sedeva al tavolo con zia Petranilla e, dall'espressione delle due, Caris capì immediatamente che stavano parlando di lei. Petranilla andò in cucina e tornò con birra, pane e burro fresco. Riempì una tazza a Edmund. La domenica aveva pianto, ma da allora si era mostrata solo vagamente segnata dal lutto per la morte di Anthony. Edmund, invece, che non aveva mai mostrato troppo attaccamento al fratello priore, sembrava soffrire maggiormente: di tanto in tanto gli occhi gli si riempivano di lacrime, che comunque si asciugavano in fretta. Si mise a raccontare le novità sul ponte. Alice tendeva a mettere in discussione il parere di Merthin, ma Edmund la zittì con impazienza. «Quel ragazzo è un genio» affermò. «Ne sa più di molti mastri costruttori, eppure non ha ancora finito l'apprendistato.»
«Ed è proprio un peccato che abbia intenzione di passare tutta la vita con Griselda» aggiunse Caris con amarezza. Alice prese immediatamente le difese della figliastra. «Non c'è niente che non vada in Griselda.» «Invece, sì» ribatté Caris. «Non lo ama. Lo ha sedotto solo perché il suo ragazzo se n'è andato, tutto qui.» «È questa la versione di Merthin?» Alice rise con sarcasmo. «Se un uomo non vuole farlo, non lo fa, parola mia.» «Gli uomini possono essere indotti in tentazione» bofonchiò Edmund. «Ah, allora stai dalla parte di Caris, vero, papà?» disse Alice. «Non mi sorprende. Lo fai sempre.» «La questione non è da che parte sto io» replicò Edmund. «Può succedere che un uomo all'inizio non voglia farlo, e che se ne penta subito dopo, ma nel frattempo non ha resistito a un attimo di debolezza, specialmente se la donna usa l'astuzia.» «Astuzia? Perché devi dare per scontato che sia stata lei a buttarsi fra le sue braccia?» «Non ho detto questo, ma ho saputo che la cosa è cominciata quando Griselda si è messa a piangere e Merthin ha cercato di consolarla.» Era stata Caris stessa a raccontarglielo. Alice fece un verso di disgusto. «Hai sempre avuto un debole per quell'apprendista ribelle.» Caris mangiò un po' di pane e burro, ma non aveva appetito. «Immagino che avranno una dozzina di figli grassi» commentò. «Merthin erediterà l'attività di Elfric e diventerà uno dei tanti artigiani della città, impegnato a costruire case per i mercanti e a blandire i preti per ottenere un contratto, esattamente come il suocero.» «Davvero una bella fortuna!» osservò Petranilla. «Sarà uno degli uomini più importanti della città.» «Lui merita un destino migliore.» «Davvero?» Petranilla si finse sbalordita. «Proprio lui, il figlio di un cavaliere caduto in disgrazia, che non ha nemmeno uno scellino per comprare i calzari alla moglie! A cosa pensi sia destinato, esattamente?» Caris si sentì ferita dal suo scherno. Era vero, i genitori di Merthin erano poveri conversi che dipendevano dal priorato per vitto e alloggio. Per il giovane ereditare un'attività di successo nel campo delle costruzioni avrebbe sicuramente significato un progresso nella scala sociale. Eppure lei sentiva che Merthin meritava di più. Non era ancora in grado di dire quale
futuro avesse in mente per lui, ma sapeva che era diverso da tutti gli altri e non sopportava l'idea che diventasse uno dei tanti. Il venerdì, Caris condusse Gwenda da Mattie la guaritrice. Gwenda era rimasta in città perché Wulfric era ancora lì per occuparsi dei funerali della sua famiglia. Elaine, la serva di Edmund, aveva asciugato il vestito di Gwenda davanti al fuoco e Caris le aveva fasciato i piedi e regalato un vecchio paio di scarpe. Caris sentiva che l'amica non le stava dicendo tutta la verità sull'avventura nella foresta: sosteneva che Sim l'aveva portata dai briganti e poi lei era scappata; lui l'aveva rincorsa ed era morto nel crollo del ponte. John il conestabile aveva creduto a quella versione dei fatti: i briganti stavano fuori dalla legge, quindi non c'erano problemi di eredità riguardo alle proprietà di Sim. Gwenda era libera. Ma nella foresta era successo qualcos'altro, Caris ne era certa. Qualcosa di cui Gwenda non voleva parlare. Non fece pressioni sull'amica: certe cose era meglio seppellirle. Quella settimana i funerali erano divenuti l'attività principale in città. Lo straordinario evento che aveva provocato tanti morti non modificò i rituali della sepoltura: bisognava lavare i corpi, cucire sudari per i poveri, inchiodare bare per i ricchi, scavare fosse e pagare i preti. Non tutti i monaci potevano amministrare i sacramenti al pari dei preti, ma alcuni sì, e si davano il turno quotidianamente, per tutto il giorno, per celebrare le esequie nel cimitero sul lato settentrionale della cattedrale. A Kingsbridge c'era una mezza dozzina di piccole chiese parrocchiali e i loro parroci erano molto indaffarati. Gwenda aveva aiutato Wulfric nei preparativi: si era addossata i compiti tradizionalmente assegnati alle donne come il lavaggio dei corpi e la confezione dei sudari, e aveva fatto il possibile per dargli conforto. Lui viveva in una sorta di stordimento. Era riuscito a occuparsi in qualche modo dei particolari della sepoltura, ma passava ore con lo sguardo fisso nel vuoto, l'espressione confusa, come se cercasse la spiegazione di un enorme enigma. Il venerdì i funerali erano terminati, ma Carlus, il vicepriore, aveva annunciato per la domenica una funzione speciale a suffragio delle anime di tutte le vittime. Wulfric, dunque, si sarebbe trattenuto fino al lunedì. Gwenda aveva raccontato a Caris che lui sembrava riconoscente per l'appoggio di un compaesano, ma si animava solo parlando di Annet. Caris si era allora offerta di comprarle un'altra pozione d'amore.
Mattie la guaritrice era in cucina, intenta a preparare medicamenti. La piccola abitazione odorava di erbe, olio e vino. «Sabato e domenica ho usato quasi tutto quello che avevo» disse «e devo rifarmi la scorta.» «Avrai ricavato un bel po' di denaro, comunque» osservò Gwenda. «Avrei dovuto, ma non sempre riesco a farmi pagare.» «Hanno fatto i furbi?» domandò Caris sbalordita. «Qualcuno. Cerco sempre di riscuotere in anticipo da chi sta male. Ma se non hanno il denaro sul momento, non posso rifiutarmi di curarli. La maggior parte ha pagato dopo, ma non tutti.» Caris si sentì indignata per l'amica. «Come si giustificano?» «Con scuse di ogni genere: che non possono permetterselo, che la pozione non gli ha fatto bene, che gli è stata data contro la loro volontà... qualsiasi cosa. Ma non preoccuparti. C'è abbastanza gente onesta che mi permette di tirare avanti. Cosa ti serve?» «Gwenda ha perso la pozione d'amore quando è crollato il ponte.» «Si può rimediare facilmente. Perché non la prepari tu?» Mentre si occupava del miscuglio, Caris chiese a Mattie: «Quante sono le gravidanze che non vanno a buon fine?». Gwenda sapeva perché aveva fatto quella domanda. Caris le aveva parlato del dilemma di Merthin. Le due ragazze avevano passato molto tempo a discutere dell'indifferenza di Wulfric e dei nobili principi di Merthin. Caris era stata addirittura tentata di comprare una pozione d'amore per se stessa e di usarla con Merthin, ma qualcosa l'aveva trattenuta. Mattie la guardò a lungo, poi rispose con aria indifferente: «Non si sa. Molte volte una donna salta un mese, ma il ciclo torna il mese dopo. Impossibile dire se era incinta e ha perso il bambino oppure se c'era qualche altra ragione». «Ah.» «Comunque, se è questo che ti preoccupa, nessuna di voi due è incinta.» «Come fai a saperlo?» chiese subito Gwenda. «Basta guardarti. Una donna cambia quasi subito. Non solo il ventre e il seno, ma anche la carnagione, il modo di muoversi, l'umore. Percepisco queste cose meglio di tanti altri, ecco perché qualcuno dice che sono una maga. Allora, chi è incinta?» «Griselda, la figlia di Elfric.» «Ah, sì. L'ho vista. Ha passato i tre mesi.» «Quanti?» Caris era stupefatta. «Tre mesi, più o meno. Dalle un'occhiata. Non è mai stata magra, ma
adesso è ancora più formosa. Allora, perché sei così sorpresa? Immagino sia il bambino di Merthin, vero?» Mattie indovinava sempre quel genere di cose. «Pensavo che fosse accaduto di recente» disse Gwenda a Caris. «Merthin non ha precisato esattamente quando, ma ho avuto la sensazione che non fosse molto tempo fa, e che sia successo una sola volta. E ora sembra che faccia l'amore con lei da mesi!» Mattie aggrottò la fronte. «Perché dovrebbe mentire?» «Per non dare un'impressione tanto negativa di sé?» suggerì Gwenda. «Come potrebbe essere peggiore?» «Gli uomini hanno un modo di pensare tutto particolare.» «Glielo chiederò» disse Caris. «Subito.» Posò la fiala e il misurino. «E la mia pozione d'amore?» domandò Gwenda. «Finisco io di prepararla» la rassicurò Mattie. «Caris ha troppa fretta.» «Grazie» disse Caris e uscì. Si diresse al fiume di buon passo, ma per una volta Merthin non c'era. Non lo trovò neppure a casa di Elfric. Pensò che potesse essere al laboratorio dei muratori. Sul lato occidentale della cattedrale, ben inserita in una delle torri, c'era la bottega del mastro muratore. Caris vi arrivò su per una stretta scala a chiocciola ricavata in un contrafforte della torre. Il locale era spazioso e bene illuminato da alte finestre a ogiva. Lungo una parete erano accatastate le forme di legno splendidamente modellate e impiegate a suo tempo dagli scalpellini per la costruzione della cattedrale originale. Erano conservate con cura e usate per provvedere alle riparazioni. Una zona del pavimento era destinata ai disegni: le assi erano ricoperte da uno strato di gesso e il primo mastro muratore, Jack il costruttore, vi aveva inciso lo schizzo dei suoi progetti con un pezzo di ferro appuntito. I graffiti erano bianchi appena venivano incisi, ma col passare del tempo sbiadivano e quindi era possibile fare nuovi disegni sui vecchi. Quando i progetti erano troppi e diventava difficile distinguerli l'uno dall'altro, veniva steso un nuovo strato di gesso e così si poteva ricominciare. La pergamena, la pelle sottile su cui i monaci ricopiavano i libri della Bibbia, era troppo costosa per tracciarvi gli schizzi. Ai tempi di Caris era apparso un nuovo materiale su cui scrivere, la carta, ma siccome arrivava dagli arabi i monaci non l'avevano presa in considerazione, in quanto invenzione di musulmani miscredenti. In ogni caso, dovendo essere importata dall'Italia, non era meno costosa della pergamena. E il pavimento aveva
un altro vantaggio: il falegname poteva posare direttamente sul disegno il pezzo di legno e ritagliare la sua forma seguendo esattamente le linee tracciate dal mastro muratore. Merthin, inginocchiato sul pavimento, intagliava un pezzo di legno di quercia seguendo un disegno, ma non stava facendo una forma: stava costruendo una ruota a sedici denti. Poco distante ce n'era un'altra più piccola, e Merthin smise un attimo di intagliare per unirle e controllare se la dentellatura combaciasse. Caris aveva visto nei mulini ad acqua gli stessi ingranaggi per collegare la pala alla macina. Di certo doveva avere sentito i passi di lei sulla scala di pietra, ma era troppo assorto nel suo lavoro per alzare gli occhi. La ragazza lo fissò per un attimo, nel cuore un alternarsi di rabbia e amore. Merthin aveva quell'aria di assoluta concentrazione che lei conosceva bene: il corpo magro curvo sul lavoro, le mani forti e le dita abili in grado di fare i più precisi ritocchi, il volto immobile, lo sguardo attento. Aveva la grazia perfetta di un giovane cervo che chini il capo per abbeverarsi al ruscello. "Così dev'essere un uomo" pensò lei "quando fa ciò per cui è nato." Merthin era in uno stato simile all'appagamento, ma più profondo: stava realizzando il suo destino. «Perché mi hai mentito?» sbottò lei. Lo scalpello gli sfuggì di mano: lui lanciò un grido di dolore e si guardò il dito. «Cristo!» esclamò e si mise il dito in bocca. «Scusa. Ti sei fatto male?» «Niente di grave. Quando ti ho mentito?» «Mi hai fatto credere che Griselda ti aveva sedotto solo una volta. La verità è che voi due lo state facendo da mesi.» «No.» Merthin succhiò il dito sanguinante. «È incinta di tre mesi.» «Non può essere: è successo due settimane fa.» «Lo è, lo si può capire dal suo corpo.» «Davvero?» «Me lo ha detto Mattie la guaritrice. Perché mi hai mentito?» Merthin la guardò negli occhi. «Ma io non ti ho mentito; è successo la domenica dell'inaugurazione della fiera. Quella è stata la prima e unica volta.» «Allora come fa a essere sicura di aspettare un bambino dopo due sole settimane?» «Non so. Quando lo capiscono le donne, comunque?»
«Non lo sai?» «Non l'ho mai chiesto. In ogni caso, tre mesi fa Griselda era ancora con...» «Oddio!» esclamò Caris. Una scintilla di speranza si accese nel suo cuore. «Lei era ancora col suo ragazzo di prima, Thurstan.» La scintilla divenne una fiamma. «Il bambino dev'essere suo, di Thurstan... non tuo. Non sei tu il padre!» «Possibile?» Merthin non osava quasi sperarlo. «Certo... questo spiega tutto. Se lei si fosse improvvisamente innamorata di te, ti starebbe dietro ogni momento, mentre tu dici che quasi non ti rivolge la parola.» «Pensavo che dipendesse dal fatto che sono riluttante a sposarla.» «Tu non le sei mai piaciuto. Le serviva solo un padre per il bambino. Thurstan se l'è data a gambe, probabilmente quando lei gli ha rivelato di essere incinta, e tu eri là in casa, sotto mano, e tanto ingenuo da cadere nel tranello. Oh, Dio ti ringrazio!» «Ringrazia Mattie la guaritrice.» Caris osservò il dito sanguinante. «Oh, ti sei fatto male per colpa mia!» esclamò. Gli prese la mano sinistra ed esaminò il taglio. Era piccolo ma profondo. «Scusami.» «Non è così grave.» «Invece sì» insistette, non sapendo se stesse parlando del taglio o di qualcos'altro. Gli baciò la mano e sentì sulle labbra il sangue caldo. Si infilò il dito in bocca e lo succhiò per pulire la ferita. Quel gesto era così intimo da sembrare un atto sessuale, e lei chiuse gli occhi, in estasi. Ingoiò, assaporando il sangue, e fremette di piacere. Una settimana dopo il crollo del ponte, Merthin aveva costruito un traghetto. Era pronto all'alba del sabato mattina, in tempo per il mercato settimanale di Kingsbridge. Aveva lavorato tutto il venerdì notte alla luce della lampada; di certo, immaginò Caris, non aveva avuto tempo di dire a Griselda che sapeva che il bambino era di Thurstan. Caris e il padre scesero al fiume per vedere la novità sensazionale mentre arrivavano i primi venditori: donne dei villaggi vicini con ceste di uova, contadini con carri carichi di burro e formaggio, e pastori con greggi di agnelli. Caris ammirò il lavoro di Merthin. La zattera era abbastanza grande da trasportare un cavallo con il carro senza doverlo staccare dalle stanghe e
aveva un solido parapetto di legno per impedire alle pecore di cadere nel fiume. Al livello dell'acqua, nuove piattaforme di legno su entrambe le rive rendevano agevole la salita e la discesa dei carri. Ogni passeggero pagava un penny, che veniva raccolto da un monaco: il traghetto, come il ponte, apparteneva al priorato. Il sistema studiato da Merthin per muovere la zattera da una riva all'altra era assolutamente ingegnoso. Una lunga fune, attaccata a un'estremità della zattera, attraversava il fiume, girava attorno a un palo, poi riattraversava il fiume e grazie a un tamburo rotante veniva fissata all'altra estremità della zattera. Il tamburo, per mezzo di un ingranaggio di legno, era collegato a una ruota che veniva fatta muovere da un bue. Caris aveva visto Merthin intagliare l'ingranaggio il giorno prima. Una leva azionava il meccanismo che faceva girare il tamburo in una direzione o nell'altra, a seconda che la zattera andasse o venisse, senza dover staccare il bue per voltarlo nella direzione opposta. «È semplicissimo» disse Merthin vedendo l'espressione stupita di Caris; e in effetti lei se ne convinse quando osservò con maggiore attenzione. La leva si limitava a sollevare e a estrarre da una catena una grossa ruota dentata per alloggiare al suo posto due ruote più piccole, allo scopo di invertire la direzione in cui girava il tamburo. Nonostante fosse elementare, nessuno a Kingsbridge aveva mai visto un meccanismo del genere. Nel corso della mattinata, mezza città andò a guardare il nuovo, incredibile marchingegno di Merthin. Caris scoppiava di orgoglio per lui. Elfric si teneva nei pressi e spiegava il meccanismo a chiunque facesse domande, prendendosi il merito del lavoro del suo apprendista. Caris si chiese dove Elfric trovasse tutto quel coraggio: aveva distrutto la porta di Merthin, un atto di violenza che avrebbe scandalizzato la città se non fosse stato oscurato dalla tragedia del crollo del ponte; aveva preso a bastonate il giovane, ancora pieno di lividi sul viso, ed era complice dell'inganno per costringerlo a sposare Griselda e crescere il figlio di un altro. Merthin aveva continuato a lavorare per lui, convinto che la situazione di emergenza fosse ben più importante del loro contrasto, però Caris non si capacitava che Elfric riuscisse a tenere ancora la testa alta. Il traghetto era geniale, ma si rivelò insufficiente. Edmund lo fece notare. Sulla riva opposta del fiume una coda di carri e venditori si snodava lungo la strada, oltre i sobborghi, a perdita d'occhio. «Andrebbe più veloce con due buoi» disse Merthin. «Due volte più veloce?»
«No, non proprio. Potrei costruire un altro traghetto.» «Ce n'è già un altro» disse Edmund indicando col dito. Aveva ragione: Ian il barcaiolo stava trasportando a remi alcuni passeggeri. Non era in grado di caricare carri, non accettava bestiame e faceva pagare due penny. Normalmente faticava a racimolare qualcosa per vivere: trasportava un monaco all'isola dei Lebbrosi due volte al giorno e per il resto aveva ben poco da fare. Ma, adesso, anche per i suoi servizi c'era la coda. «Be', hai ragione. In fin dei conti un traghetto non è un ponte» confermò Merthin. «Questa è una catastrofe» disse Edmund. «L'annuncio di Buona ventura era già tragico, ma questo... questo potrebbe portare in rovina la città.» «Allora ti serve un ponte nuovo.» «Non dipende da me, bensì dal priorato. Il priore è morto, ed è difficile prevedere quanto impiegheranno a eleggerne un altro. Dobbiamo fare pressioni sul reggente perché prenda una decisione. Andrò a trovare Carlus. Vieni con me, Caris.» Padre e figlia percorsero la strada principale ed entrarono nel priorato. Quasi tutti i visitatori erano tenuti a passare prima dall'ospitale per dire a un inserviente che volevano parlare con un monaco; Edmund però era un personaggio troppo importante, e troppo orgoglioso, per abbassarsi a chiedere il favore di un colloquio secondo quella prassi. Il priore era il signore di Kingsbridge, ma Edmund era castaldo della corporazione parrocchiale, il capo dei mercanti che avevano reso prospera la città, e nel governo di Kingsbridge lui si rapportava al priore su un piano di parità. Inoltre, negli ultimi tredici anni il priore era stato il suo fratello minore. Così, andò diretto all'abitazione del priore sul lato settentrionale della cattedrale. Era una casa con la struttura in legno come quella di Edmund, con un ingresso e una saletta al pianterreno e due camere da letto al primo piano. Non vi era cucina, perché i pasti del priore venivano preparati in quella del monastero. Molti vescovi e priori vivevano in palazzi, infatti il vescovo di Kingsbridge aveva una dimora bellissima a Shiring, ma il priore di Kingsbridge viveva modestamente. Tuttavia, le sedie erano comode, alle pareti erano appesi arazzi con scene della Bibbia e un grande camino rendeva la casa accogliente durante l'inverno. Caris e Edmund arrivarono a metà mattina, il momento in cui i monaci più giovani si dedicavano al lavoro manuale e i più anziani leggevano. Nell'ingresso di casa trovarono Carlus il cieco tutto preso a conversare con Simeon, il tesoriere. «Dobbiamo parlare del nuovo ponte» esordì Edmund
senza preamboli. «Molto bene, Edmund» disse Carlus riconoscendolo dalla voce. L'accoglienza non era stata calda, notò Caris, e si chiese se per caso quello fosse un brutto momento. Edmund era altrettanto sensibile nel cogliere l'atmosfera, tuttavia si imponeva sempre con la violenza di un uragano. Prese una sedia e domandò: «Quando pensi che ci sarà l'elezione del nuovo priore?». «Caris, puoi accomodarti anche tu» disse Carlus. Lei si chiese come avesse percepito la sua presenza. «Non è stata fissata alcuna data per l'elezione» continuò. «Il conte Roland ha il diritto di proporre un candidato, ma non ha ancora ripreso conoscenza.» «Non possiamo aspettare» ribatté Edmund. Caris pensò che fosse troppo brusco ma, sapendo che lui era fatto così, non disse nulla. «Dobbiamo avviare i lavori per il nuovo ponte immediatamente» continuò il padre. «Di legno non va bene, dobbiamo costruirlo di pietra. Ci vorranno tre anni... quattro se rimandiamo.» «Un ponte di pietra?» «È fondamentale. Ho parlato con Elfric e Merthin: un altro ponte di legno crollerebbe come quello vecchio.» «Costerà uno sproposito!» «Circa duecentocinquanta sterline, a seconda del progetto. Sono calcoli di Elfric.» «Un nuovo ponte di legno verrebbe a costare cinquanta sterline» disse frate Simeon. «Eppure il priore Anthony aveva respinto l'idea la settimana scorsa a causa del prezzo.» «E guarda il risultato! Cento morti, un numero enorme di feriti, bestiame e carri persi, il priore defunto e il conte a un passo dalla morte.» «Spero che tu non intenda incolpare il defunto priore Anthony di tutto questo» ribatté Carlus seccamente. «Non possiamo fingere che la sua decisione abbia avuto buoni effetti.» «Dio ci ha punito per i nostri peccati.» Caris si sentiva frustrata. Tutte le volte che i monaci avevano torto, tiravano in ballo Dio. «Per noi, semplici uomini, è difficile conoscere le intenzioni divine» disse Edmund sospirando. «Sappiamo, però, che senza ponte questa città morirà. Stiamo già perdendo terreno rispetto a Shiring. Se non costruiamo un nuovo ponte di pietra il più in fretta possibile, Kingsbridge tornerà a essere un piccolo villaggio.»
«Potrebbe essere un disegno di Dio.» Edmund cominciò a mostrare segni di esasperazione. «È possibile che Dio sia così contrariato con voi monaci? Perché, credimi, se la fiera della lana e il mercato di Kingsbridge muoiono, qui non ci sarà più il priorato con venticinque frati, quaranta suore e cinquanta inservienti, un ospitale, un coro e una scuola. Potrebbe non esserci più neppure una cattedrale. Il vescovo di Kingsbridge ha sempre vissuto a Shiring... Che accadrebbe se i suoi ricchi mercanti gli offrissero di costruire una splendida cattedrale nella loro città coi proventi del mercato, sempre più florido? Invece a Kingsbridge niente mercato, niente città, niente cattedrale, niente priorato... è questo che vuoi?» Carlus era sgomento. Evidentemente non aveva pensato che le conseguenze del crollo del ponte potessero a lungo termine modificare drasticamente la situazione del priorato. Intervenne Simeon. «Se il priorato non può permettersi di costruire un ponte di legno, ancor meno sono le possibilità di costruirne uno in pietra.» «Ma voi dovete farlo!» «I muratori lavoreranno senza paga?» «Ovviamente no. Devono mantenere la famiglia. Ma abbiamo già spiegato che i cittadini potrebbero raccogliere i fondi da prestare al priorato, se ricevessero la garanzia di incassare i futuri pedaggi del ponte.» «E così ci portate via le entrate del ponte!» esclamò Simeon indignato. «Sempre lo stesso imbroglio, eh?» «Ora dal ponte non ricavate nessuna entrata» gli fece notare Caris. «Invece stiamo raccogliendo il pedaggio sul traghetto.» «Ma il denaro per pagare Elfric per la zattera l'avete trovato.» «Molto meno di quello che serve per un ponte, e anche così i nostri forzieri si sono svuotati.» «Ma il traghetto è troppo lento, e quindi il pagamento del pedaggio non vi farà guadagnare granché.» «Può darsi che in futuro arrivi il giorno in cui il priorato potrà costruire un nuovo ponte. Dio ci darà i mezzi, se vorrà. E allora saremo sempre noi a incassare il pedaggio.» «Dio ha già fornito i mezzi: ha ispirato mia figlia suggerendole un modo tutto nuovo per raccogliere i fondi.» «Per favore, lasciate decidere a noi quali sono le vie del Signore» disse Carlus in modo compassato. «Molto bene.» Edmund si alzò, e così pure Caris. «Mi dispiace che tu
abbia questo atteggiamento. Sarà una catastrofe per Kingsbridge e per tutti quelli che vivono qui, monaci compresi.» «Io devo essere guidato da Dio, non da te.» Edmund e Caris fecero per uscire. «Ancora una cosa, se posso» disse Carlus. Edmund si voltò. «Certamente.» «Non è ammissibile che i laici entrino a piacimento negli edifici del priorato. La prossima volta che desideri parlare con me, passa per favore dall'ospitale e manda un novizio o un inserviente a chiamarmi, come fanno tutti.» «Io sono il castaldo della corporazione parrocchiale!» protestò Edmund. «Ho sempre avuto accesso diretto al priore.» «Senza dubbio, il fatto di essere tuo fratello rendeva il priore riluttante a importi delle regole. Ma quei tempi sono finiti.» Caris guardò il padre in faccia. Stava reprimendo la rabbia. «Molto bene» rispose teso. «Dio ti benedica.» Edmund uscì, seguito dalla figlia. Attraversarono insieme il prato fangoso, passando davanti a un gruppo penosamente ridotto di bancarelle del mercato. Caris avvertì il peso degli obblighi del padre. La maggior parte della gente si preoccupava solo di sfamare la propria famiglia. Edmund, invece, si faceva carico di tutta la città. Gli lanciò un'occhiata e vide sul suo volto un'espressione cupa e preoccupata. A differenza di Carlus, Edmund non si limitava ad alzare in aria le braccia per dire "Sia fatta la volontà di Dio"; lui si sarebbe spremuto le meningi per trovare una soluzione al problema. Caris provò compassione per il padre, che lottava per fare la cosa giusta senza alcun aiuto da parte del priorato e non si lamentava mai delle responsabilità, anzi, se le accollava. Le venne voglia di piangere. Lasciarono il recinto e attraversarono la strada principale. «Cosa faremo?» chiese Caris arrivando alla porta di casa. «Ovvio, no?» rispose il padre. «Dobbiamo assicurarci che Carlus non venga eletto priore.» 15 Godwyn voleva diventare priore di Kingsbridge. Lo desiderava con tutto se stesso. Non vedeva l'ora di mettere ordine nelle finanze del priorato,
dando un giro di vite alla gestione delle terre e delle proprietà, in modo che i monaci non dovessero più ricorrere al denaro di madre Cecilia. Ci doveva essere una separazione dei frati dalle suore, e di entrambi dai cittadini, così che si potesse respirare solo aria di santità. Ma dietro quegli ineccepibili motivi c'era qualcos'altro: lui ambiva all'importanza e all'autorevolezza che quel titolo conferiva. La notte, immaginava di essere già priore. "Fai sparire tutto quel ciarpame dal chiostro!" avrebbe detto a un monaco. "Sì, padre priore, subito." "Padre priore" suonava bene, gli piaceva molto. "Buona giornata, vescovo Richard" avrebbe detto con cordialità, e non in modo ossequioso. "Buona giornata anche a voi, priore Godwyn" avrebbe risposto il vescovo, come ci si saluta fra ecclesiastici di rango. "Mi auguro che siate soddisfatto di tutto, arcivescovo" avrebbe potuto dire, questa volta con maggiore deferenza, ma sempre come un collega più giovane di un uomo di prestigio, non come un subalterno. "Oh, certo, Godwyn, avete fatto un lavoro straordinario." "Vostra eminenza è molto gentile." E forse, un giorno, passeggiando nel chiostro con un sovrano riccamente abbigliato avrebbe detto: "Maestà, ci fate un grande onore a visitare il nostro umile priorato". "Grazie, padre Godwyn, ma sono venuto a chiedervi consiglio." Voleva raggiungere quella posizione, ma non sapeva come fare. Vi rifletté per tutta la settimana, mentre sovrintendeva a un centinaio di sepolture e preparava la funzione solenne della domenica per il funerale di Anthony e anche in suffragio di tutti i defunti di Kingsbridge. Nel frattempo, non rivelò a nessuno le sue speranze. Solo dieci giorni prima aveva pagato lo scotto della propria schiettezza. Si era presentato al capitolo con il Libro di Timothy e valide argomentazioni per una riforma, e quelli della vecchia guardia gli si erano rivoltati contro compatti, quasi si fossero messi d'accordo, schiacciandolo come un rospo sotto la ruota di un carro. Non doveva permettere che accadesse un'altra volta. La domenica mattina, mentre i monaci sfilavano nel refettorio per la colazione, un novizio gli sussurrò all'orecchio che la madre avrebbe voluto incontrarlo presso il portico nord della cattedrale. Godwyn sgusciò via
senza farsi notare. Attraversando il chiostro e la chiesa, avvertiva una certa apprensione. Immaginava che cosa potesse essere successo: il giorno prima qualcosa aveva messo in agitazione Petranilla, che era rimasta sveglia per metà della notte a preoccuparsi. All'alba, aveva già elaborato un piano d'azione che lo coinvolgeva. Sarebbe stata impaziente e dispotica come non mai. Probabilmente il piano era buono ma, anche se non lo fosse stato, la madre avrebbe insistito perché lui lo realizzasse. Lo aspettava nell'oscurità del portico col mantello bagnato: aveva ricominciato a piovere. «Mio fratello Edmund ieri è venuto a trovare Carlus il cieco» esordì. «Sostiene che lui si comporta già da priore, come se l'elezione fosse una pura formalità.» Nella sua voce c'era una nota di rimprovero come se fosse colpa di Godwyn, e lui si mise sulla difensiva. «La vecchia guardia si è schierata con Carlus prima ancora che il corpo di zio Anthony fosse freddo. Non vogliono sentir parlare di altri candidati.» «Mmh. E i giovani?» «Ovviamente desiderano che mi presenti. Hanno apprezzato il modo in cui ho tenuto testa al priore Anthony a proposito del Libro di Timothy, anche se le mie argomentazioni sono state respinte. Però non ho detto niente.» «Qualche altro candidato?» «Thomas Langley, quello venuto da fuori. Alcuni disapprovano perché una volta era un cavaliere e, per sua stessa ammissione, ha ucciso delle persone. Ma è capace, svolge il suo lavoro in silenzio e con efficacia, e non fa mai il prepotente coi novizi...» La madre parve pensierosa. «Che storia ha alle spalle? Perché si è fatto monaco?» Godwyn cominciò a rilassarsi. A quanto pareva, lei non intendeva accusarlo di non darsi da fare. «Thomas dice che ha sempre aspirato a consacrare la vita a Dio, e quando venne qui per farsi curare una ferita da spada decise di restare.» «Me lo ricordo. È stato dieci anni fa. Ma non ho mai saputo perché sia stato ferito.» «Neanch'io. Non ama parlare del suo passato violento.» «Chi ha pagato per la sua ammissione al priorato?» «Strano, ma non lo so.» Godwyn spesso si meravigliava della capacità della madre di porre la domanda più appropriata. Nonostante a volte fosse
dispotica, lui l'ammirava. «Potrebbe essere stato il vescovo Richard; rammento che gli promise la consueta donazione. Ma allora era solo un prete, non era ancora diventato vescovo, e lui personalmente non avrebbe potuto permetterselo. Forse parlava a nome del conte Roland.» «Scoprilo.» Godwyn esitò. Avrebbe dovuto controllare tutti gli atti nella biblioteca del priorato. Frate Augustine, il bibliotecario, non avrebbe osato fare domande al sacrista, ma qualcun altro magari sì. A quel punto Godwyn si sarebbe trovato nell'imbarazzo di dover fornire una spiegazione plausibile. Se la donazione fosse stata in denaro, anziché in terre o altre proprietà, cosa insolita ma possibile, lui avrebbe dovuto cercare tra i rotoli contabili... «Cosa c'è?» domandò brusca Petranilla. «Niente. Hai ragione.» Godwyn ricordò a se stesso che quell'atteggiamento dispotico della madre era un segno d'amore nei suoi confronti, forse l'unico modo in cui lei riusciva a esprimere i propri sentimenti. «Ci dev'essere un documento. Fammici pensare...» «Ebbene?» «Una donazione di solito è sempre strombazzata a gran voce. Il priore ne dà l'annuncio in chiesa e invoca la benedizione sul capo del benefattore, poi tiene un sermone su come le persone che cedono terre al priorato saranno ricompensate in cielo. Ma non ricordo che niente di tutto questo sia mai accaduto quando Thomas si è stabilito fra noi.» «Una ragione in più per controllare gli atti. Credo che Thomas abbia un segreto, e un segreto è sempre un punto debole.» «Controllerò. Secondo te, cosa dovrei dire a quelli che fanno pressioni affinché io mi candidi?» Petranilla sorrise maliziosamente. «Penso che dovresti dir loro che non ne hai l'intenzione.» Quando Godwyn si congedò dalla madre, la colazione era già finita. Secondo un'antica regola, ai ritardatari non era permesso mangiare, ma frate Reynard, il cuciniere, riusciva sempre a tenere da parte un boccone per quelli che gli erano simpatici. Godwyn andò in cucina e ottenne una fetta di formaggio e l'avanzo di una pagnotta. Mangiò in piedi, mentre intorno a lui gli inservienti del priorato riportavano dal refettorio le scodelle della colazione e fregavano la pentola di ferro dove era stato cotto il porridge. Mentre masticava, rimuginava sul consiglio della madre. Più vi rifletteva, più gli sembrava una strategia intelligente. Una volta annunciato che
non si sarebbe candidato, tutto ciò che avrebbe detto sarebbe stato considerato il commento autorevole di una persona disinteressata. Avrebbe potuto manipolare l'elezione senza essere sospettato di fini egoistici, quindi avrebbe sferrato il suo colpo all'ultimo momento. Si sentì pervaso da una calda, affettuosa gratitudine per la perspicacia della madre, dal cervello sempre in attività e dal cuore indomito e leale. Frate Theodoric, il viso rosso per l'indignazione, lo raggiunse in cucina. «Durante la colazione, frate Simeon ci ha parlato di Carlus come possibile priore» disse «per dare continuità alle sagge tradizioni di Anthony. Lui non ha intenzione di cambiare nulla!» "Mossa astuta" pensò Godwyn: Simeon aveva approfittato della sua assenza per dire, dall'alto della propria autorevolezza, cose che lui avrebbe messo in discussione se fosse stato presente. «Vergognoso» commentò solidale. «Ho chiesto se agli altri candidati sarebbe stato concesso di rivolgersi ai monaci allo stesso modo, durante la colazione.» Godwyn sorrise. «Ben fatto!» «Simeon ha sostenuto che non c'è bisogno di altri candidati. "Non stiamo facendo una gara di tiro con l'arco" ha detto. Dal suo punto di vista, la decisione è già stata presa: con la nomina a vicepriore, il priore Anthony aveva scelto Carlus come successore.» «Una vera sciocchezza.» «Esatto. I monaci sono furiosi.» "Benissimo" pensò Godwyn. Carlus aveva offeso perfino i suoi sostenitori cercando di sottrarre loro il diritto di votare. Stava minando la propria candidatura. «Penso che dovremmo fare pressione su Carlus perché rinunci a presentarsi» continuò Theodoric. Godwyn avrebbe voluto chiedergli se era impazzito. Si morse la lingua e fece finta di meditare sulle parole del frate. «È la mossa migliore?» chiese come se fosse sinceramente dubbioso. La domanda sorprese Theodoric. «Cosa intendi?» «Tu dici che tutti i fratelli sono furiosi con Simeon e Carlus. Se non cambiano idea, non voteranno Carlus. Ma se Carlus si ritira, la vecchia guardia tirerà fuori un candidato migliore. Magari un monaco popolare come frate Joseph, per esempio.» Theodoric rimase sbalordito. «Non ci avevo proprio pensato.» «Forse dovremmo sperare che Carlus rimanga il candidato della vecchia
guardia. Tutti sanno che è contrario a qualsiasi cambiamento. La ragione per cui si è fatto monaco è che i giorni per lui devono essere sempre uguali: percorrere gli stessi sentieri, sedere sugli stessi sedili, mangiare, pregare e dormire negli stessi luoghi. Forse dipende dalla cecità, ma sospetto che sarebbe stato così comunque. La causa non è importante: è convinto che qui dentro non ci sia bisogno di cambiare nulla. In realtà, non sono tanti i frati pienamente soddisfatti della situazione attuale, il che rende Carlus relativamente facile da battere. Un candidato che rappresentasse la vecchia guardia ma sostenesse di fare alcune riforme di poco conto avrebbe molte più probabilità di vincere.» Godwyn si rese conto di avere abbandonato l'atteggiamento dubbioso: si era messo a pontificare. Fece rapidamente marcia indietro. «Non so... tu che ne pensi?» aggiunse. «Penso che tu sia un genio.» "Non sono un genio" si disse Godwyn. "Però imparo in fretta." Andò all'ospitale, dove trovò Philemon intento a spazzare la camera degli ospiti al primo piano. Lord William era ancora là ad assistere il padre, in attesa che si svegliasse o morisse. Accanto a lui c'era lady Philippa. Il vescovo Richard era tornato al palazzo di Shiring, ma era atteso quel giorno per il solenne rito funebre. Godwyn portò Philemon in biblioteca: non sapeva quasi leggere, però sarebbe stato utile per tirare fuori gli atti. Il priorato ne aveva più di cento. Molti riguardavano proprietà terriere, per la maggior parte nei pressi di Kingsbridge, e alcune sparpagliate per l'Inghilterra e il Galles. Altri atti sancivano il diritto dei monaci di fondare un priorato, costruire una chiesa, prelevare gratuitamente la pietra dalla cava del conte di Shiring, dividere la terra attorno al priorato in appezzamenti edificabili e affittarli, istruire processi, tenere il mercato settimanale, far pagare il pedaggio per l'attraversamento del ponte, ospitare l'annuale fiera della lana e spedire le merci a Melcombe per via fluviale senza pagare tasse ai signori delle terre attraversate dal fiume. I documenti erano vergati con inchiostro su pergamena, una pelle sottile che veniva accuratamente pulita, raschiata, sbiancata e tesa in modo da formare una superficie adatta alla scrittura. I più lunghi erano arrotolati e legati con un sottile laccio di pelle. Venivano raccolti in un baule con rinforzi di ferro. Il baule era chiuso a chiave, e questa era conservata in biblioteca in un piccolo scrigno intarsiato. Quando aprì il baule, Godwyn aggrottò la fronte in segno di disapprovazione. I rotoli non erano disposti in file ordinate, ma buttati dentro alla rin-
fusa, apparentemente senza un criterio. Alcuni erano leggermente strappati o presentavano bordi sfilacciati, e tutti erano coperti di polvere. Avrebbero dovuto essere disposti in ordine cronologico e numerati, pensò, e avrebbe dovuto esserci un elenco fissato nella parte interna del coperchio, in modo da potere individuare velocemente ogni singolo documento. "Se diventerò priore..." Philemon estrasse gli atti uno alla volta, soffiò via la polvere e li appoggiò sul tavolo a disposizione di Godwyn. Philemon non era molto amato. Uno o due frati più anziani diffidavano di lui, ma non Godwyn: difficile non fidarsi di uno che ti considerava un dio. La maggior parte dei monaci era abituata alla sua presenza, dato che stava con loro da molto tempo. Godwyn lo ricordava quando da ragazzo, alto e goffo, bighellonava per il priorato e chiedeva ai monaci quale santo fosse meglio pregare e se avessero mai assistito a un miracolo. Quasi tutti gli atti in origine venivano trascritti due volte su un unico foglio. Le due copie erano inframmezzate dalla scritta CHIROGRAFO a grandi lettere, poi il foglio veniva diviso a metà lungo la parola con un taglio a zigzag. Ognuna delle due parti interessate conservava una copia, e la prova dell'autenticità del documento era data dal combaciare della dentellatura dei fogli. Alcuni fogli presentavano dei fori, probabilmente dovuti al fatto che la pecora da cui proveniva la pergamena era stata morsa da un insetto. Altri sembravano essere stati mangiucchiati, probabilmente dai topi. I documenti erano scritti in latino, ovviamente. I più recenti si leggevano facilmente, mentre la calligrafia antica spesso era per Godwyn difficile da decifrare. Li passò in rassegna a uno a uno in cerca di una data particolare, un giorno di dieci anni prima, qualche tempo dopo la festa di Ognissanti. Esaminò tutti i fogli ma non trovò nulla. L'atto che più si avvicinava a quella data risaliva a qualche settimana dopo: il conte Roland dava a sir Gerald il permesso di cedere al priorato le sue terre, in cambio delle quali il priorato avrebbe cancellato i suoi debiti e mantenuto lui e la moglie per tutta la vita. In realtà, Godwyn non era deluso; semmai, il contrario. O Thomas era stato ammesso senza l'abituale donazione, il che sarebbe stato di per sé curioso, oppure l'atto era conservato da qualche altra parte, lontano da occhi indiscreti. In un caso o nell'altro, sembrava sempre più probabile che l'intuizione di Petranilla fosse giusta e che Thomas nascondesse un segreto. Nel monastero non c'erano molti luoghi privati. Ai frati non era concesso
avere proprietà personali o segreti. Benché in qualche ricco monastero vi fossero celle private per i frati più anziani, a Kingsbridge dormivano tutti insieme in una grande stanza; tutti, tranne il priore. Quasi certamente l'atto che aveva consentito l'ammissione di Thomas si trovava in casa sua. Che al momento attuale era occupata da Carlus. Questo complicava le cose. Carlus non avrebbe permesso a Godwyn di frugare. Ma forse non sarebbe stato necessario, perché probabilmente da qualche parte, bene in vista, c'era una scatola o un borsa contenente gli ultimi documenti personali del priore Anthony: un diario del suo noviziato, una lettera amichevole dell'arcivescovo, alcuni sermoni. Era probabile che Carlus ne avesse esaminato il contenuto dopo la morte di Anthony, ma era da escludere che avrebbe permesso a Godwyn di fare la stessa cosa. Godwyn rifletté, accigliato. Qualcun altro sarebbe potuto andare a dare un'occhiata? Edmund e Petranilla avrebbero potuto chiedere di vedere gli effetti personali del fratello, e per Carlus sarebbe stato difficile rifiutare la richiesta. Ma lui avrebbe avuto tutto il tempo di far sparire qualsiasi documento del priorato. No, la ricerca doveva essere effettuata di nascosto. La campana chiamò a terza, l'ufficio del mattino. Godwyn si rese conto che l'unico momento in cui Carlus sicuramente non sarebbe stato in casa era durante una funzione in cattedrale. Avrebbe dovuto saltare la terza, inventando una scusa plausibile. Non sarebbe stato facile, dato che era sacrista, l'unico tenuto a essere sempre presente alle funzioni religiose. Ma non aveva alternative. «Voglio che tu venga con me in chiesa» disse a Philemon. «Benissimo» acconsentì, assumendo tuttavia un'aria preoccupata: ai dipendenti del priorato non era permesso entrare nel presbiterio durante il culto. «Vieni subito dopo il Versetto. Sussurrami qualcosa all'orecchio, non importa cosa. Non badare alla mia reazione, e continua.» Philemon aggrottò la fronte ansioso, ma assentì con un cenno del capo. Per Godwyn era pronto a fare qualsiasi cosa. Godwyn uscì dalla biblioteca e si unì alla processione diretta alla chiesa. Nella navata centrale c'era solo qualche persona: il grosso della cittadinanza sarebbe arrivato più tardi per assistere alla messa in memoria delle vittime del ponte. I monaci presero posto nel presbiterio e il rituale cominciò: «O Dio, concedimi il tuo aiuto» recitò Godwyn insieme agli altri. Alla fine del versetto cominciò il primo inno, e allora apparve Philemon. Tutti i monaci lo fissarono, come succedeva sempre quando qualcosa di
insolito interrompeva un rito. Frate Simeon aggrottò la fronte in segno di disapprovazione. Carlus, che dirigeva il canto, percepì una certa inquietudine attorno a sé e parve confuso. Philemon si diresse allo stallo di Godwyn e si inginocchiò. «Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi» sussurrò. Godwyn finse sorpresa e continuò ad ascoltare Philemon che gli recitava all'orecchio il Salmo numero uno. Dopo qualche attimo scosse vigorosamente la testa, come per rifiutare una richiesta. Poi rimase ancora un po' in ascolto. Avrebbe dovuto inventare una storia complicata per giustificare quella messinscena. Forse avrebbe detto che la madre aveva insistito per parlargli immediatamente del funerale del fratello, il priore Anthony, e che minacciava di entrare nel presbiterio se Philemon non gli avesse comunicato il messaggio. La personalità dispotica di Petranilla combinata al lutto familiare rendeva la storia quasi plausibile. Godwyn assunse un'espressione rassegnata, si alzò e uscì dal coro dietro Philemon. Girarono intorno alla cattedrale e si diressero a passo spedito verso la casa del priore. Un giovane inserviente stava spazzando il pavimento, però di sicuro non avrebbe osato fare domande a un monaco. Avrebbe potuto riferire a Carlus che Godwyn e Philemon erano stati là, ma ormai sarebbe stato tardi. Godwyn pensò che la casa del priore era una vergogna, più piccola di quella dello zio Edmund sulla via principale. Un priore avrebbe dovuto abitare in un palazzo adatto al suo rango, come il vescovo. Quella casa non aveva nulla di prestigioso. Alle pareti c'era sì qualche arazzo che rappresentava scene bibliche e riparava dalle correnti d'aria, ma ovunque l'arredo era sciatto e ordinario, in tutto simile al defunto Anthony. I due monaci fecero una perlustrazione veloce e trovarono subito quel che stavano cercando. Nella camera da letto al primo piano, in un baule accanto all'inginocchiatoio, c'era una grossa borsa. Era di morbida pelle di capra marrone rossiccio e cucita splendidamente con filo scarlatto: Godwyn era certo che fosse un dono di un pellettiere della città. L'aprì, mentre Philemon lo osservava attentamente. All'interno c'erano circa trenta fogli di pergamena distesi, intervallati da panni protettivi di lino. Godwyn li esaminò velocemente. Parecchi recavano commenti sui Salmi: Anthony a un certo punto doveva avere contemplato l'idea di scrivere un libro di chiose ma, a quanto pareva, il lavoro era stato abbandonato. Il foglio più sorprendente conteneva una poesia d'amore in latino, intitolata Virent oculi. Era indirizzata a un
uomo dagli occhi verdi. Lo zio Anthony aveva occhi verdi con pagliuzze dorate, come tutti in famiglia. Godwyn si domandò chi l'avesse scritta. Non molte donne conoscevano tanto bene il latino da poter comporre una poesia. Una suora aveva amato Anthony? O la poesia era opera di un uomo? La pergamena era vecchia e ingiallita: la relazione amorosa, se tale era stata, doveva risalire a quando Anthony era un ragazzo. Però lui aveva conservato la poesia. Forse lo zio non era poi così insignificante come lo considerava Godwyn. «Cos'è?» chiese Philemon. Godwyn si sentì in colpa. Aveva sbirciato in un angolo privato della vita dello zio, e se ne pentì. «Niente» disse «solo una poesia.» Prese il foglio successivo... e colpì nel segno. Era un atto che risaliva al Natale di dieci anni prima. Riguardava una proprietà fondiaria di cinquecento acri vicino a Lynn, nel Norfolk, il cui signore era morto da poco. L'atto assegnava il titolo vacante al priore di Kingsbridge e specificava quello che gli era dovuto ogni anno in granaglie, velli, vitelli e galline, da parte dei servi della gleba e dei manenti che coltivavano la terra. Assegnava a un contadino l'incarico di balivo, con la responsabilità di consegnare annualmente i prodotti agricoli al priorato. Stabiliva anche pagamenti in denaro anziché in prodotti, una pratica che andava diffondendosi sempre più, specialmente se la terra si trovava a molte miglia dalla residenza del signore. Era un tipico atto di cessione. Ogni anno, dopo il raccolto, i rappresentanti di decine di comunità analoghe si recavano in pellegrinaggio al priorato per consegnare il dovuto. Chi risiedeva vicino si presentava all'inizio dell'autunno; gli altri arrivavano in ordine sparso durante l'inverno, e quelli che venivano da molto lontano solo dopo Natale. L'atto specificava anche che la donazione era subordinata all'accettazione di sir Thomas Langley tra i monaci del priorato. Anche quella precisazione era consueta. Però il documento aveva una caratteristica che consueta non era: la firma della regina Isabella. Interessante. Isabella era la moglie infedele del re Edoardo II. Con un atto di ribellione, aveva deposto il consorte per mettere sul trono il figlio quattordicenne. Poco dopo, il deposto re era morto e il priore Anthony aveva presenziato al suo funerale a Gloucester. Thomas era arrivato a Kingsbridge all'incirca nello stesso periodo. La regina e il suo amante, Roger Mortimer, avevano governato l'Inghil-
terra per alcuni anni, ma non era trascorso molto tempo prima che Edoardo III imponesse la propria autorità, nonostante la giovane età. A soli ventiquattro anni il nuovo re teneva saldamente in mano le redini del regno. Ormai Mortimer era morto e Isabella, poco più che quarantenne, si era ritirata nella ricca residenza del castello di Rising, nel Norfolk, non lontano da Lynn. «Ecco!» disse Godwyn a Philemon. «Fu la regina Isabella a consentire a Thomas di farsi monaco.» Philemon era perplesso. «Ma perché?» Benché ignorante, era perspicace. «Già, perché?» ripeté Godwyn. «Probabilmente voleva ricompensarlo, o metterlo a tacere, o forse tutt'e due le cose. E questo accadde l'anno in cui il re fu deposto.» «Probabilmente lui le aveva reso qualche servigio.» Godwyn annuì. «Era latore di un messaggio, o forse aprì le porte del castello, rivelò a lei i piani del re, oppure le assicurò il sostegno di qualche barone importante. Ma perché è un segreto?» «Non lo è» rispose Philemon. «Il tesoriere probabilmente lo sa, come chiunque altro a Lynn. Quando il balivo viene qui, di sicuro parla con parecchia gente.» «Ma nessuno può sapere che tutto questo fu fatto a beneficio di Thomas, a meno che qualcuno non abbia visto l'atto.» «Quindi il segreto è che fu la regina Isabella a fare la donazione a favore di Thomas.» «Esatto.» Godwyn rimise a posto i documenti, intervallandoli con cura ai panni di lino, poi ripose la borsa nel baule. «Ma perché tenerlo segreto?» domandò Philemon. «Non c'è nulla di scorretto o vergognoso in una disposizione del genere; succede tutti i momenti!» «Non so perché sia un segreto, e forse non c'è bisogno di saperlo. Ma può tornarci comodo il fatto che lo si voglia tenere nascosto. Usciamo da questa casa.» Godwyn era soddisfatto. Thomas aveva un segreto, e lui lo conosceva. Questo lo avvantaggiava. A quel punto si sentiva abbastanza sicuro di sé da correre il rischio di proporgli la candidatura a priore, se pur con qualche timore: Thomas non era uno stupido. I due monaci tornarono alla cattedrale. L'ufficio di terza finì dopo qualche minuto e Godwyn cominciò a preparare la chiesa per il solenne rito funebre. Diede istruzione a sei frati di sistemare il feretro di Anthony su un
catafalco davanti all'altare e di disporvi intorno molte candele. I cittadini cominciarono a radunarsi nella navata. Godwyn fece un cenno col capo alla cugina Caris, che aveva rivestito di seta nera il cappello che portava abitualmente. Poi individuò Thomas che, con l'aiuto di un novizio, trasportava un grande scanno riccamente decorato. Era il trono del vescovo, o cattedra, che elevava la chiesa al rango di cattedrale. Godwyn toccò il braccio a Thomas. «Lascia che lo faccia Philemon.» Thomas si irrigidì, pensando che Godwyn gli stesse offrendo aiuto perché era privo di un braccio. «Ce la faccio.» «Lo so, ma vorrei parlarti.» Thomas, che aveva trentaquattro anni, era più vecchio di Godwyn, che ne aveva trentuno, però gli era inferiore nella gerarchia monastica. Nonostante ciò, Godwyn nutriva una certa soggezione nei confronti del matricularius, che, sebbene mostrasse al sacrista la dovuta deferenza, dava la sensazione di trattarlo solo con il rispetto che pensava lui meritasse, niente di più. Benché ligio alla disciplina imposta dalla Regola di san Benedetto, Thomas sembrava comunque avere mantenuto all'interno del priorato quei tratti di indipendenza e autonomia che gli erano caratteristici. Ingannarlo non sarebbe stato facile, e tuttavia era proprio quello l'obiettivo di Godwyn. Dopo che Thomas ebbe acconsentito che Philemon reggesse lo scanno al posto suo, Godwyn lo condusse nella navata laterale. «Si parla di te come del possibile nuovo priore.» «Si dice lo stesso di te» replicò Thomas. «Rifiuterò la candidatura.» Thomas inarcò le sopracciglia. «Mi meraviglia, fratello.» «Per due motivi: il primo è che penso che tu faresti meglio.» Thomas apparve ancora più sorpreso, probabilmente perché dal sacrista non si sarebbe mai aspettato tanta modestia. E aveva ragione: Godwyn stava mentendo. «Il secondo» continuò Godwyn «è che tu hai molte più probabilità di vincere.» In quel momento stava dicendo la verità. «Io piaccio ai giovani, ma tu sei apprezzato dai monaci di tutte le età.» Thomas assunse un'espressione interrogativa, in attesa dell'affondo. «Voglio aiutarti» disse Godwyn. «Sono convinto che la cosa più importante sia avere un priore in grado di riformare il monastero e risollevarne le finanze.» «Penso di esserne in grado, ma cosa vuoi in cambio del tuo sostegno?»
Non poteva non chiedere nulla, Godwyn lo sapeva bene. Thomas non gli avrebbe creduto. Tirò fuori una menzogna plausibile. «Vorrei essere tuo vice.» Thomas annuì, ma non accettò subito. «In che modo mi aiuteresti?» «Prima di tutto, portandoti l'appoggio della cittadinanza.» «Solo perché Edmund il lanaiolo è tuo zio?» «Non è così semplice. I cittadini sono in ansia per il ponte. Carlus non dice quando intende cominciare i lavori, se mai ne ha intenzione, e quindi loro vogliono a tutti i costi impedirgli di diventare priore. Se riferisco a Edmund che tu ti impegni, non appena eletto, a iniziare l'opera, tutta la città sarà con te.» «Questo non garantisce i voti di molti monaci.» «Non esserne così certo. Ricorda, la scelta dei monaci deve essere ratificata dal vescovo. I vescovi sono in genere abbastanza saggi da consultare l'opinione pubblica, e Richard è più di ogni altro interessato a evitare problemi. L'appoggio della cittadinanza sarà fondamentale.» Godwyn capiva che Thomas non si fidava e lo stava studiando. Sentì un rivolo di sudore scorrergli lungo la schiena mentre cercava di rimanere impassibile sotto lo sguardo tagliente del matricularius, che tuttavia prestava orecchio alle sue argomentazioni. «Il ponte è senza dubbio indispensabile» disse Thomas. «Carlus sbaglia a tergiversare.» «Quindi tu ti impegneresti a fare una cosa di cui sei già convinto.» «Sei molto persuasivo.» Godwyn alzò le mani in un gesto difensivo. «Non è mia intenzione: tu devi fare quella che pensi sia la volontà di Dio.» Thomas apparve scettico. Non credeva che Godwyn fosse così disinteressato. «Benissimo» disse, poi aggiunse: «Pregherò per questo». Godwyn avvertì che per quel giorno Thomas non si sarebbe impegnato oltre; insistere poteva rivelarsi controproducente. «Lo farò anch'io.» E se ne andò. Thomas avrebbe pregato, come promesso. Per lui non si trattava di realizzare un desiderio personale. Si sarebbe candidato solo se fosse stato convinto che quello era il volere di Dio. Godwyn non poteva più fare altro, con lui, per il momento. Il feretro di Anthony era circondato da un bagliore di candele. La navata si stava riempiendo di una folla proveniente dalla città e dai villaggi vicini. Godwyn spaziò con lo sguardo in cerca di Caris, che aveva intravisto qual-
che minuto prima. La individuò nel transetto sud intenta a osservare l'impalcatura di Merthin nella navata laterale. Conservava ricordi affettuosi di Caris bambina, quando lui era il cugino grande che sapeva tutto. Dal giorno del crollo del ponte l'aveva vista depressa, ma in quel momento gli parve allegra. Ne era contento: aveva un debole per lei. Le toccò il gomito. «Sembri felice.» «Infatti.» Sorrise. «Si è appena sciolto un nodo amoroso. Ma tu non puoi capire.» «Senza ombra di dubbio.» "Non hai idea" pensò "di quanti grovigli amorosi vi siano tra i monaci." Ma non disse nulla: meglio lasciare i laici nell'ignoranza dei peccati commessi all'interno del priorato. «Tuo padre dovrebbe parlare della ricostruzione del ponte al vescovo Richard.» «Davvero?» Sembrava scettica. Da bambina lo venerava come un eroe, ma ormai aveva meno soggezione di lui. «A che scopo? Il ponte non è suo.» «Il priore scelto dai monaci deve ottenere l'approvazione del vescovo. Richard potrebbe far sapere che non intende dare il proprio appoggio a chi si rifiuta di ricostruire il ponte. Qualche monaco forse non si sottometterà, ma gli altri diranno che non ha senso votare qualcuno che non verrà poi confermato.» «Capisco. Pensi veramente che mio padre possa essere d'aiuto?» «Assolutamente.» «Allora glielo suggerirò.» «Grazie.» Suonò la campana. Godwyn sgusciò fuori dalla chiesa e si unì nuovamente alla processione che si stava formando nel chiostro. Era mezzogiorno. Aveva fatto un buon lavoro, quella mattina. 16 Wulfric e Gwenda partirono da Kingsbridge il lunedì mattina presto per il lungo viaggio a piedi verso il villaggio di Wigleigh. Caris e Merthin li osservarono attraversare il fiume sul nuovo traghetto. Merthin era soddisfatto del suo buon funzionamento. Gli ingranaggi di legno erano destinati a consumarsi in fretta, lo sapeva. Certo, sarebbe stato meglio se fossero stati di ferro, ma... Caris seguiva altri pensieri. «Gwenda è così innamorata» mormorò.
«Non ha alcuna possibilità con Wulfric» disse Merthin. «Non si sa mai. È una ragazza determinata. Guarda com'è riuscita a scappare da Sim l'ambulante.» «Ma Wulfric è fidanzato con quella Annet, che è molto più carina.» «La bellezza fisica non è tutto in una storia d'amore.» «Ragion per cui ringrazio Dio ogni giorno.» Caris rise. «Non sai quanto mi piaccia il tuo viso strano.» «Wulfric si è picchiato con mio fratello per Annet. Deve essere proprio innamorato.» «Gwenda ha una pozione d'amore.» Merthin le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Allora credi sia giusto che una ragazza manovri un uomo per farsi sposare, quando lui ama un'altra?» Per un attimo Caris ammutolì. La morbida pelle della gola le si arrossò. «Non ho mai pensato alla faccenda in questi termini» disse. «È davvero la stessa cosa?» «Simile.» «Ma non lo sta obbligando: vuole solo che lui la ami.» «Dovrebbe cercare di ottenerlo senza pozione.» «Adesso mi vergogno di averla aiutata.» «Troppo tardi.» Wulfric e Gwenda stavano scendendo dal traghetto sulla riva opposta del fiume. Si voltarono a salutare, poi si incamminarono seguiti da Skip lungo la via che attraversava i sobborghi. Merthin e Caris risalirono la strada principale. «Non hai ancora parlato con Griselda» disse Caris. «Ho intenzione di farlo adesso. Non so se sono più impaziente o terrorizzato.» «Non hai nulla da temere. È stata lei a mentire.» «È vero.» Merthin si toccò il viso. Il livido era quasi scomparso. «Mi auguro solo che suo padre non abbia di nuovo una reazione violenta.» «Vuoi che venga con te?» Sarebbe stato felice del suo sostegno, ma scosse la testa. «Ho combinato io questo guaio, e io devo rimediare.» Si fermarono davanti alla casa di Elfric. «Buona fortuna» gli disse Caris. «Grazie.» Merthin le diede un bacio veloce sulle labbra, resistette alla tentazione di baciarla di nuovo ed entrò. Elfric, seduto a tavola, mangiava pane e formaggio. Davanti aveva una coppa di birra; alle sue spalle, in cucina, Merthin vide Alice e la serva.
Di Griselda non vi era traccia. «Dove sei stato?» gli chiese Elfric. Merthin decise che, non avendo nulla da temere, era meglio assumere un atteggiamento spavaldo. Ignorò la domanda. «Dov'è Griselda?» «Ancora a letto.» Merthin gridò rivolto alle scale: «Griselda! Devo parlarti». «Non c'è tempo. Abbiamo da fare» disse Elfric. Merthin lo ignorò. «Griselda! Faresti meglio ad alzarti subito.» «Ehi!» esclamò Elfric. «Chi ti credi di essere per dare ordini?» «Volete che la sposi, no?» «E allora?» «Allora è bene che si abitui a fare quello che il marito le dice.» Merthin gridò di nuovo. «Vieni giù subito, o verrai a sapere da qualcun altro quel che ho da dirti.» Griselda apparve in cima alle scale. «Arrivo!» rispose irritata. «Perché tanta agitazione?» Merthin attese che scendesse. «Ho scoperto chi è il padre del bambino.» Un lampo di paura balenò negli occhi della ragazza. «Non fare lo stupido. Sei tu.» «No, è Thurstan.» «Non sono mai andata a letto con lui!» Griselda guardò il padre. «Davvero.» «Lei non dice bugie» affermò Elfric. Alice uscì dalla cucina. «È vero.» «Io sono stato con Griselda la domenica della fiera della lana, quindici giorni fa, ma lei è incinta di tre mesi.» «Non è vero!» Merthin si rivolse ad Alice, lo sguardo duro. «Tu lo sapevi, vero?» Lei distolse gli occhi. «Eppure hai mentito perfino a Caris, tua sorella.» «Non puoi sapere da quanto tempo è incinta» osservò Elfric. «Guardatela. Si vede già la pancia. Non molta, ma c'è.» «Cosa ne sai tu, di queste cose? Sei solo un ragazzo.» «Sì, e tutti voi contavate sulla mia ignoranza, non è così? Aveva quasi funzionato.» Elfric agitò il dito. «Tu sei stato a letto con Griselda, e adesso la sposi.» «Ah, no. Lei non mi ama ed è venuta con me solo per dare un padre al figlio, dopo che Thurstan è scappato. So di avere fatto una cosa sbagliata, ma non ho intenzione di punirmi per il resto della vita sposandola.»
Elfric si alzò. «Invece lo farai.» «No.» «Devi.» «No.» La faccia di Elfric diventò paonazza. «Tu la sposerai!» gridò. «Per quanto dovrò continuare a rispondervi di no?» Elfric si rese conto che faceva sul serio. «In questo caso, sei licenziato» disse. «Esci da casa mia e non farti più vedere.» Merthin se l'aspettava e si sentì sollevato. Significava che la discussione era finita. «Benissimo.» Fece per incamminarsi. Elfric gli si parò innanzi. «Dove credi di andare?» «In cucina, a prendere le mie cose.» «Gli attrezzi, intendi?» «Sì.» «Non sono tuoi. Li ho pagati io.» «A un apprendista vengono sempre lasciati gli attrezzi alla fine del...» Merthin si interruppe. «Non hai finito l'apprendistato, quindi non avrai gli attrezzi.» Questo non se l'era aspettato. «Ho fatto sei anni e mezzo!» «Dovevi farne sette!» Senza strumenti di lavoro, Merthin non avrebbe potuto guadagnarsi da vivere. «È sleale. Mi appellerò alla corporazione dei carpentieri.» «Voglio proprio vedere» disse Elfric compiaciuto. «Sarà interessante sentirti sostenere che un apprendista licenziato per essere andato a letto con la figlia del padrone dovrebbe essere ricompensato con gli attrezzi come regalo. I carpentieri della corporazione hanno tutti degli apprendisti, e la maggior parte anche delle figlie. Ti butteranno fuori a calci in culo.» Merthin si rese conto che aveva ragione. «Ecco, adesso sei proprio nei pasticci, vedi?» disse Alice. «Sì, ma qualsiasi cosa succeda non sarà peggio che vivere con Griselda e la sua famiglia.» Più tardi, quella mattina, Merthin andò alla chiesa di St Mark per il funerale di Howell Tyler, nella speranza di trovare qualcuno che gli desse un lavoro. La chiesa non aveva la volta in pietra e, alzando gli occhi al soffitto di legno dipinto, Merthin poté vedere un buco a forma di uomo: la macabra testimonianza del modo in cui Howell era morto. Lassù era tutto marcio,
come sostenevano con aria competente i costruttori presenti al funerale. Ma lo dissero solo dopo l'incidente, quando ormai era tardi per salvare Howell. Il tetto era chiaramente troppo malconcio per essere riparato; bisognava demolirlo completamente e ricostruirlo da zero, e ciò avrebbe significato chiudere la chiesa. Quella di St Mark era una parrocchia povera. Possedeva solo una misera proprietà: una fattoria a dieci miglia di distanza, mandata avanti dal fratello del prete e appena sufficiente a sfamare la sua famiglia. Il reddito di padre Joffroi, il parroco, proveniva dagli otto, novecento fedeli che risiedevano nella zona settentrionale della città, la più povera. Quelli che non erano davvero indigenti si fingevano tali, in modo da versare una somma modesta per le decime. Lui si guadagnava da vivere con battesimi, matrimoni e funerali, per i quali si faceva pagare molto meno dei monaci della cattedrale. I suoi parrocchiani si sposavano presto, avevano molti figli e morivano giovani, così a padre Joffroi il lavoro non mancava e, tutto sommato, se la passava abbastanza bene. Ma, se avesse dovuto chiudere la chiesa, la sua rendita si sarebbe prosciugata e non sarebbe stato in grado di pagare i costruttori. Di conseguenza i lavori al tetto erano stati interrotti. Tutti i costruttori della città andarono al funerale, compreso Elfric. Merthin cercò di non mostrarsi imbarazzato e rimase in chiesa, sebbene gli risultasse difficile: quasi tutti sapevano del suo licenziamento. Era stato trattato in modo ingiusto ma, sfortunatamente, non era del tutto privo di colpa. La giovane moglie di Howell aveva sempre avuto rapporti amichevoli con Caris, che in quel momento entrò in chiesa con la vedova e la famiglia del defunto. Merthin si spostò accanto a lei per raccontarle cos'era successo con Elfric. Padre Joffroi celebrò la funzione vestito con una vecchia tonaca. Merthin pensò al tetto: doveva esserci un modo per smantellarlo senza chiudere la chiesa. Il metodo generalmente seguito quando le riparazioni erano state rimandate troppo a lungo e il legno era ormai troppo marcio per reggere il peso degli operai consisteva nell'erigere un'impalcatura intorno alla chiesa e far cadere tutta la struttura di legno nella navata. L'edificio rimaneva così esposto alle intemperie finché il nuovo tetto non fosse stato ultimato e ricoperto di tegole. Tuttavia, per evitare di far cadere la massa di legno nella navata, si sarebbe potuto costruire un argano rotante sostenuto dal solido muro laterale della chiesa. L'argano avrebbe sollevato dal tetto le travi di legno una alla volta per spostarle al di là del muro e poi scaricar-
le nel cimitero. In quel modo il soffitto sarebbe rimasto intatto e sarebbe stato sostituito dopo la ricostruzione del tetto. Quando tutti si raccolsero intorno alla fossa, Merthin osservò gli uomini a uno a uno, chiedendosi chi fra loro sarebbe stato disposto ad assumerlo. Decise di tentare con Bill Watkin, il secondo più importante costruttore della città, che non nutriva grande stima per Elfric. Bill aveva la sommità della testa calva con una corona di capelli neri: una versione naturale della chierica. Aveva costruito la maggior parte delle case di Kingsbridge e, come Elfric, aveva alle proprie dipendenze uno scalpellino e un carpentiere, alcuni manovali e un paio di apprendisti. Howell non era ricco e il suo corpo fu inumato senza bara, avvolto in un sudario. Quando padre Joffroi se ne fu andato, Merthin si avvicinò a Bill Watkin. «Buona giornata, mastro Watkin» lo salutò in tono formale. La replica di Bill fu brusca. «Ebbene, giovane Merthin?» «Non lavoro più con Elfric.» «Lo so. E so anche perché.» «Voi avete sentito solo la versione di Elfric.» «Ho sentito tutto quello che dovevo sentire.» Merthin si rese conto che Elfric ne aveva parlato prima e durante la funzione, ovviamente sorvolando, ne era certo, sul tentativo di Griselda di fargli fare da padre al figlio di Thurstan. Ma capì che trovare delle scuse sarebbe stato controproducente. Meglio ammettere le proprie colpe. «Mi rendo conto di avere sbagliato, e mi dispiace, ma resto pur sempre un bravo carpentiere.» Bill annuì. «Il nuovo traghetto ne è la dimostrazione.» Merthin si sentì incoraggiato. «Volete assumermi?» «Con quale qualifica?» «Come carpentiere. Avete detto che sono bravo.» «Hai gli attrezzi?» «Elfric non me li ha dati.» «E con ragione, perché non hai finito l'apprendistato.» «Allora prendetemi come apprendista per sei mesi.» «Per poi darti alla fine gli attrezzi in regalo? Non posso permettermi tanta generosità.» Gli attrezzi erano venduti a caro prezzo perché il ferro e l'acciaio erano costosi. «Lavorerò come manovale e risparmierò per comprarmeli.» Ci sarebbe voluto molto tempo, ma Merthin era disperato.
«No.» «Perché no?» «Perché ho una figlia anch'io.» Quell'affermazione lo offese. «Non sono una minaccia per le ragazze, lo sapete.» «Ma sei un esempio per gli apprendisti. Se tu la passi liscia, perché mai gli altri non dovrebbero provarci?» «È un'ingiustizia!» Bill alzò le spalle. «Sarà. Ma interpella qualsiasi altro mastro carpentiere della città e vedrai che la pensano tutti allo stesso modo.» «Cosa devo fare, allora?» «Non lo so. Avresti dovuto pensarci prima di fotterla.» «Non vi importa perdere un bravo carpentiere?» Bill alzò nuovamente le spalle. «Tutto lavoro in più per noialtri.» Merthin si allontanò. Quello era il guaio delle corporazioni, pensò amaramente: era loro interesse escludere la gente, per buone o cattive ragioni. La scarsità di carpentieri avrebbe fatto lievitare i loro compensi. Non avevano alcun incentivo a essere onesti. La vedova di Howell se ne andò accompagnata dalla madre. Caris, liberata dal dovere di confortarla, si avvicinò a Merthin. «Perché quell'aria triste?» domandò. «Howell lo conoscevi appena.» «Può darsi che debba andarmene da Kingsbridge.» Lei sbiancò. «Perché mai dovresti?» Merthin le raccontò cosa gli aveva detto Bill. «Capisci? A Kingsbridge non mi assumerà nessuno, e io non posso lavorare per conto mio perché non ho gli attrezzi. Potrei vivere con i miei genitori, ma non me la sento di togliere loro il pane di bocca. Non mi resta che cercare lavoro in qualche posto dove nessuno sa di Griselda. Col tempo, risparmiando, potrei riuscire a comprare martello e scalpello. A quel punto dovrei trasferirmi in un'altra città nella speranza di essere ammesso nella corporazione dei carpentieri.» Mentre le parlava, si rese conto di trovarsi in una situazione disperata. Guardò i tratti familiari di Caris come se li vedesse per la prima volta e fu incantato di nuovo dagli occhi verdi luminosi, dal naso piccolo e regolare, dalle mascelle volitive. Notò che la bocca discordava dal resto del viso: era troppo grande, con labbra troppo carnose. Era in contrasto con i lineamenti regolari proprio come la sensualità di Caris era in contraddizione con la sua razionalità. Era una bocca fatta per il sesso, e il pensiero di dovere an-
dare via e non baciarla mai più lo colmò di tristezza. Caris era furiosa. «È ingiusto. Non hanno alcun diritto di farti una cosa del genere.» «È quello che penso anch'io, ma pare che non ci sia nulla da fare. Devo accettarlo e basta.» «Un attimo, lasciami pensare: potresti abitare dai tuoi e pranzare a casa mia.» «Non voglio dipendere dagli altri come mio padre.» «Non sarai costretto a farlo. Puoi comprare gli attrezzi di Howell Tyler: la sua vedova stava giusto dicendomi che li vende a una sterlina.» «Non ho neanche un penny.» «Fatti fare un prestito da mio padre. Tu gli sei sempre piaciuto e sono sicura che te lo concederà.» «Ma è contro le regole ingaggiare un carpentiere che non appartenga alla corporazione.» «Le regole si possono infrangere. Ci sarà pure qualche disperato in città che osi opporsi alla corporazione.» Merthin si rese conto che aveva permesso a quei vecchi di soffocare il suo spirito, ed era grato a Caris che si rifiutava di accettare la sconfitta. Lei aveva ragione: doveva rimanere a Kingsbridge e combattere contro l'ingiustizia di certe regole. Inoltre, conosceva qualcuno che aveva bisogno del suo talento. «Padre Joffroi» disse. «È disperato? Perché mai?» Merthin le spiegò il problema del tetto. «Andiamo a trovarlo» disse Caris. Il parroco viveva in una casetta vicino alla chiesa. Lo trovarono intento a preparare la cena, a base di pesce salato stufato con cavolo selvatico. Joffroi era sulla trentina e aveva la corporatura di un soldato: alto con le spalle larghe. Nonostante i modi bruschi, aveva fama di battersi per i poveri. «Posso riparare il vostro tetto senza chiudere la chiesa» disse Merthin. Joffroi apparve cauto. «Se sei in grado di farlo, sei la risposta alle mie preghiere.» «Costruirò un argano per sollevare le travi del tetto e depositarle nel cimitero.» «Elfric ti ha licenziato.» Il prete lanciò uno sguardo imbarazzato in direzione di Caris. «So cosa è successo, padre» precisò lei. «Mi ha licenziato perché non volevo sposare sua figlia. Ma il bambino
che porta in grembo non è mio.» Joffroi annuì. «Alcuni dicono che sei stato trattato ingiustamente. Posso crederci. Non amo le corporazioni: le loro decisioni sono quasi sempre egoistiche. Ciò nonostante non hai completato l'apprendistato.» «Tra i membri della corporazione dei carpentieri c'è qualcuno che vi sa riparare il tetto senza chiudere la chiesa?» «Ho sentito che non hai neppure gli attrezzi.» «Questo è un mio problema.» Joffroi sembrava pensieroso. «Quanto vuoi essere pagato?» Merthin raddrizzò il collo. «Quattro penny al giorno, più il costo del materiale.» «È il compenso di un carpentiere qualificato.» «Se non ho le capacità di un carpentiere qualificato, non dovreste assumermi.» «Sei impertinente.» «Sto solo dicendo quello che so fare.» «L'arroganza non è il peccato peggiore a questo mondo. E, se la chiesa rimane aperta, posso permettermi quattro penny al giorno. Quanto impiegherai a costruire l'argano?» «Due settimane al massimo.» «Ti pagherò solo quando sarò sicuro che funziona.» Merthin fece un grosso respiro. Sarebbe stato per un po' senza denaro, ma poteva far fronte a quella difficoltà. Avrebbe vissuto con i suoi genitori e mangiato alla tavola di Edmund il lanaiolo. Se la sarebbe cavata. «Pagatemi il materiale e serbate il mio compenso finché la prima trave non sarà stata rimossa e depositata al suolo senza danni.» Joffroi esitò. «Mi attirerò molte ostilità... ma non ho altra scelta.» Tese la mano. Merthin la strinse. 17 Durante tutto il viaggio da Kingsbridge a Wigleigh, un tragitto di venti miglia che richiedeva una giornata di cammino, Gwenda sperò in un'occasione per usare la pozione d'amore, ma rimase delusa. Non che Wulfric fosse diffidente; anzi, era aperto e amichevole. Parlava dei suoi familiari e le raccontava quanto piangesse, ogni mattina al risveglio, nel rendersi conto che la loro morte non era solo un brutto sogno. Era
premuroso e le chiedeva se fosse stanca e desiderasse riposare. Le disse che per lui la terra era un bene che un uomo teneva per tutta la vita per poi lasciarlo agli eredi, e che se fosse riuscito a migliorare la sua, coltivando i campi, costruendo ovili per le pecore e liberando i pascoli dalle pietre, avrebbe realizzato se stesso. Fece anche qualche carezza a Skip. Alla fine della giornata, lei era più innamorata che mai. Wulfric, sfortunatamente, le dimostrava soltanto una sorta di cameratismo affettuoso, ma nessun trasporto. Quando era stata portata nella foresta da Sim l'ambulante, Gwenda aveva desiderato con tutto il cuore che gli uomini non fossero simili a bestie feroci; però in quel momento avrebbe voluto che in Wulfric vi fosse qualcosa di animalesco e faceva di tutto per stuzzicare i suoi istinti. Come per caso, gli mostrava le gambe dritte e ben tornite; approfittava di piccole salite per inspirare a fondo e sporgere il seno. Ogni occasione era buona per strofinarsi leggermente contro di lui, sfiorargli un braccio o mettergli una mano sulla spalla. Ma tutto questo non produceva alcun effetto. Non era carina, lo sapeva, benché qualcosa in lei catturasse spesso l'attenzione degli uomini, che la guardavano con insistenza a bocca aperta. Con Wulfric, però, non succedeva. A mezzogiorno si erano fermati a riposare e a mangiare il pane e formaggio che avevano portato con sé; avevano bevuto a un ruscello limpido con le mani a coppa, e lei non aveva trovato l'occasione di somministrargli la pozione. Ciò nonostante era felice: lo aveva tutto per sé per una giornata intera. Poteva guardarlo, parlargli, farlo ridere, mostrargli solidarietà e, di tanto in tanto, toccarlo. Fingeva con se stessa che avrebbe potuto baciarlo ogni qual volta lo desiderava, ma che in quel momento non ne aveva voglia. Era quasi come essere sposati. Ma finì troppo presto. Arrivarono a Wigleigh verso sera. Il villaggio, sempre ventilato, si trovava su un'altura da cui digradavano i campi. Dopo due settimane trascorse nel trambusto di Kingsbridge, quel luogo familiare parve a Gwenda piccolo e tranquillo: qua e là, lungo la strada che portava al maniero del feudatario e alla chiesa, sorgeva qualche povera abitazione. Il maniero era grande come la casa di un mercante di Kingsbridge, con le camere da letto al primo piano. Anche quella del prete era una bella dimora, e alcune case dei contadini erano ben costruite. Ma per la maggior parte si trattava di tuguri di due stanze, di cui una generalmente era occupata dal bestiame, mentre l'altra fungeva da cucina e camera da letto per tutta la famiglia. L'unico e-
dificio di pietra era la chiesa. La prima delle case più dignitose apparteneva alla famiglia di Wulfric. Le porte e le finestre chiuse le conferivano un aspetto desolato. Senza fermarsi, lui si diresse alla seconda casa, dove Annet viveva con i genitori. Si congedò da Gwenda con un gesto distratto della mano ed entrò col sorriso sulle labbra. Lei provò lo strazio acuto della perdita, come se si fosse appena risvegliata da un sogno meraviglioso. Ingoiò la tristezza e prese per i campi. La prima pioggia di giugno aveva giovato alle messi e il grano e l'orzo erano verdi, ma ora avevano bisogno di sole per maturare. Le donne del villaggio avanzavano curve tra le spighe per estirpare le erbacce. Qualcuna la salutò con la mano. Avvicinandosi a casa, provò un misto di apprensione e rabbia. Non vedeva i genitori da quando il padre l'aveva ceduta a Sim l'ambulante in cambio di una mucca. Quasi sicuramente lui la credeva ancora con Sim e sarebbe rimasto sconvolto dalla sua ricomparsa. Cosa le avrebbe detto? E lei, cosa aveva intenzione di dire a un padre che aveva tradito la sua fiducia? Era sicura che la madre non sapesse nulla del baratto. Forse il marito le aveva raccontato che Gwenda era scappata con un ragazzo e, nell'apprendere la verità, sarebbe andata su tutte le furie. La rallegrò l'idea di vedere i fratellini, Cath, Joanie ed Eric. Solo in quel momento si rese conto di quanto le fossero mancati. La sua abitazione si trovava all'estremità di un campo di cento acri, ai margini della foresta e in parte nascosta dagli alberi. Ancora più piccola delle casupole dei contadini, aveva una sola stanza che di notte veniva divisa con la mucca. Era fatta di canniccio ricoperto di fango: rami infilati nella terra, coi ramoscelli intrecciati a mo' di canestro e gli interstizi riempiti di un impasto di fango, paglia e sterco di mucca. Un'apertura nel tetto di paglia permetteva la fuoriuscita del fumo quando veniva acceso il fuoco al centro del pavimento di terra battuta. Case del genere duravano solo qualche anno, poi dovevano essere ricostruite. A Gwenda parve più squallida che mai. Era decisa a non passare la vita in un posto del genere, sfornando figli ogni anno o due per poi vederli morire quasi tutti per mancanza di cibo. Non avrebbe vissuto come la madre; preferiva morire, piuttosto. Quando era ancora a un centinaio di iarde di distanza, vide il padre camminare nella sua direzione. Aveva una brocca in mano: probabilmente andava a rifornirsi da Peggy Perkins, la madre di Annet, l'unica nel villag-
gio a fare la birra. In quel periodo dell'anno il padre aveva sempre un po' di denaro, perché il lavoro nei campi non mancava. Non la vide subito. Lei ne osservò attentamente la figura esile avanzare lungo il solco che divideva due strisce coltivate. Indossava un grembiule lungo fino alle ginocchia, un berretto logoro e sandali fatti in casa legati con fili intrecciati di paglia. Si muoveva col solito passo circospetto e al tempo stesso disinvolto dello straniero che, con fare provocatorio, finge di trovarsi a casa propria. Aveva occhi ravvicinati, naso grosso, grandi mascelle, mento puntuto, tanto che la faccia sembrava un triangolo bitorzoluto. Gwenda sapeva di somigliargli. Lui superò le donne nel campo, guardandole di sottecchi, come se non volesse far sapere che le stava osservando. Quando fu più vicino a Gwenda, le lanciò una delle sue occhiate furtive, con le palpebre socchiuse. Abbassò gli occhi all'istante, poi risollevò lo sguardo su di lei. Gwenda alzò il mento e lo fissò sprezzante. «Tu!» disse il padre, lo stupore dipinto in volto. «Cos'è successo?» «Sim l'ambulante non era uno stagnaio, ma un brigante.» «E dov'è adesso?» «All'inferno, papà. Vi incontrerete lì.» «L'hai ucciso?» Da tempo aveva deciso di mentire in proposito. «L'ha ucciso Dio. Il ponte di Kingsbridge è crollato mentre lui lo stava attraversando. Dio l'ha punito per il suo peccato. Ha già punito anche te?» «Dio perdona i buoni cristiani.» «È tutto quello che hai da dirmi? Che Dio perdona i buoni cristiani?» «Come hai fatto a scappare?» «Con l'astuzia.» «Sei una brava ragazza» disse lui, con espressione scaltra. Lei lo fissò sospettosa. «Quale altra cattiveria hai in mente ora?» «Sei una brava ragazza» ripeté lui. «Va' da tua madre, ora. Per cena avrai anche una tazza di birra.» E se ne andò. Gwenda, perplessa, aggrottò la fronte. Lui sembrava non temere la reazione della madre, una volta che avesse appreso la verità. Forse pensava che, per la vergogna, Gwenda non gliel'avrebbe rivelata. Be', si sbagliava. Cath e Joanie erano fuori a giocare. Quando videro Gwenda balzarono in piedi e le corsero incontro. Skip abbaiò eccitato. Gwenda abbracciò le sorelle rammentando quanto avesse temuto di non rivederle mai più; e in quel momento provò una gioia selvaggia al pensiero di avere ficcato il
lungo pugnale nella testa di Alwyn. Entrò. La madre, seduta su uno sgabello, stava dando al piccolo Eric un po' di latte e lo aiutava a tenere la tazza dritta per non versarlo. Quando vide Gwenda emise un grido di gioia. Posò la tazza e si alzò per abbracciarla. Gwenda scoppiò a piangere. Una volta cominciato, non riuscì più a fermarsi. Pianse perché Sim l'aveva portata via dalla città legata a una fune, perché lei aveva permesso ad Alwyn di possederla, perché tutta quella gente era morta quando il ponte era crollato e perché Wulfric amava Annet. Quando i singhiozzi si acquietarono quel tanto da permetterle di parlare, disse: «Papà mi ha venduto, mamma. Mi ha venduto per una mucca, e io sono dovuta andare con i briganti». «Ha fatto una cosa sbagliata» commentò la madre. «Peggio che sbagliata! Lui è malvagio, è il male... è il diavolo.» La madre si scostò da lei. «Non dire cose del genere!» «Sono vere!» «Lui è tuo padre.» «Un padre non vende i figli come se fossero bestie. Io non ho un padre.» «Ti sfama da diciotto anni.» Gwenda la fissò incredula. «Come puoi essere così dura? Mi ha venduto ai briganti!» «E ci ha portato una mucca. Così, anche se il mio seno si è prosciugato, c'è il latte per Eric. E tu sei qui, no?» Gwenda era sconvolta. «Tu lo difendi!» «Lui è tutto quello che ho, Gwenda. Non è un principe, e neppure un contadino. È un bracciante, non ha terra. Ma da quasi venticinque anni fa tutto il possibile per la famiglia. Ha lavorato quando ha potuto e rubato quando è stato costretto. Ha mantenuto in vita te e tuo fratello, e se il vento sarà favorevole farà la stessa cosa per Cath, Joanie ed Eric. Quali che siano le sue colpe, senza di lui staremmo peggio. Perciò non chiamarlo diavolo.» Gwenda ammutolì. Non si era ancora del tutto abituata all'idea che il padre l'avesse tradita, e ora doveva prendere atto che la madre era altrettanto malvagia. Si sentì disorientata, come quando il ponte si era mosso sotto i suoi piedi e non riusciva a capire che cosa le stesse succedendo. Suo padre entrò con la brocca di birra. Sembrava non rendersi conto dell'atmosfera tesa. Prese tre tazze di legno dalla mensola sopra il focolare. «Allora» disse allegro «brindiamo al ritorno della nostra figlia grande.» Gwenda era affamata e assetata dopo avere camminato per tutto il gior-
no. Prese la tazza e bevve lunghe sorsate. Aveva già visto suo padre di quell'umore. «Cos'hai in mente?» «Be', dunque, la settimana prossima c'è la fiera di Shiring, no?» «E allora?» «Be'... potremmo farlo di nuovo.» Gwenda stentava a credere alle sue orecchie. «Fare di nuovo cosa?» «Ti vendo, tu vai con chi ti compra, poi scappi e torni a casa. Non ci rimetti niente.» «Non ci rimetto niente?» «E ci portiamo a casa una bella moneta da dodici scellini! Sai, per guadagnare dodici scellini mi tocca faticare nei campi per quasi mezzo anno.» «E dopo questo che altro?» «Be', ci sono altre fiere: Winchester, Gloucester, non so quante.» Le riempì la tazza di birra. «Insomma, potrebbe andare meglio dell'anno in cui rubasti la borsa a sir Gerald!» Gwenda non bevve. Aveva un sapore amaro in bocca, come se avesse mangiato qualcosa di guasto. Aveva voglia di fargli una sfuriata. Le affiorarono alle labbra parole dure, accuse pesanti, insulti, ma ricacciò indietro tutto. Ormai aveva capito che era inutile arrabbiarsi. A cosa sarebbe servito litigare? Non avrebbe mai più potuto fidarsi di suo padre, e neppure della madre, che si rifiutava di schierarsi contro di lui. «Cosa devo fare?» disse a voce alta, ma non voleva una risposta: la domanda era rivolta a se stessa. Per la sua famiglia lei era diventata una merce da vendere alle fiere. Non era disposta ad accettarlo, ma cosa poteva fare? Poteva andarsene. Sconvolta, comprese che quella non era più la sua casa. Fu un colpo che scosse le fondamenta della sua esistenza. Viveva in quel posto da sempre, da prima che fosse in grado di ricordare, e in quel posto non si sentiva più sicura. Doveva andarsene da lì. Non la settimana successiva, pensò, e neppure l'indomani mattina: doveva andarsene subito. Non aveva dove rifugiarsi, ma non importava. Rimanere e mangiare il pane che il padre metteva sulla tavola avrebbe significato piegarsi alla sua autorità. Sarebbe stata costretta ad accettare di essere considerata merce di scambio. Le dispiacque di avere bevuto la tazza di birra. La sua unica possibilità era rinnegare il padre e non indugiare oltre sotto il suo tetto. Guardò la madre. «Ti sbagli, lui è il diavolo. E i vecchi proverbi dicono
la verità: quando fai un patto col diavolo, finisci sempre col pagare più di quanto pensavi.» La madre distolse lo sguardo. Gwenda si alzò, la tazza piena ancora in mano. La capovolse e versò la birra per terra. Skip cominciò subito a leccarla. «Ho pagato un quarto di penny per questa brocca di birra» gridò il padre, infuriato. «Addio» disse Gwenda, e uscì. 18 La domenica successiva, Gwenda andò ad assistere all'udienza in cui si sarebbe deciso il destino dell'uomo che amava. Il tribunale feudale si riuniva in chiesa, dopo la funzione religiosa, e si pronunciava sulle questioni che riguardavano gli abitanti del villaggio. Spesso dirimeva controversie, dispute sui confini, accuse di furto o stupro, liti per debiti, ma per lo più si occupava di questioni pragmatiche, per esempio quando iniziare l'aratura con gli otto buoi di proprietà comune. In teoria, toccava al signore feudale decidere dei suoi sottoposti, ma la legge normanna, introdotta in Inghilterra dagli invasori francesi quasi tre secoli prima, obbligava i signori a seguire gli usi dei loro predecessori; per sapere quali fossero, essi dovevano quindi consultarsi formalmente con dodici uomini di provata reputazione nel villaggio. Insomma, una giuria. Quindi, nella pratica, spesso le assisi si risolvevano in una trattativa fra il signore e gli abitanti del villaggio. Quella domenica, Wigleigh non aveva un signore feudale, visto che sir Stephen era morto nel crollo del ponte. Era stata Gwenda a riferire la notizia al villaggio e a rendere inoltre noto che il conte Roland, il quale avrebbe dovuto nominare un sostituto, era rimasto gravemente ferito. Il giorno prima della partenza di Gwenda da Kingsbridge, il conte aveva ripreso conoscenza, ma aveva la febbre altissima e delirava. Pertanto, non si sapeva fino a quando Wigleigh sarebbe dovuto restare senza signore feudale. Non era un fatto insolito: i signori si assentavano spesso, perché andavano in guerra, in Parlamento, a discutere questioni legali o anche solo a fare visita al conte o al re. Quando il conte Roland non c'era, in genere nominava un vice, solitamente uno dei suoi figli, ma in questo caso non ne aveva avuto la possibilità. In assenza del feudatario, toccava al balivo gestire le proprietà nel modo migliore.
Il compito del balivo era applicare le decisioni del feudatario, e questo gli dava inevitabilmente un certo potere. Quanto grande fosse questo potere dipendeva dal feudatario: alcuni preferivano mantenere uno stretto controllo, altri erano più morbidi. Sir Stephen era fra questi ultimi, mentre il conte Roland amava notoriamente usare il pugno di ferro. Nathan Reeve era balivo dai tempi di sir Henry e presumibilmente lo sarebbe rimasto anche con il successore di sir Stephen. Era basso, curvo e gobbo, magro come un chiodo ma pieno di energia. Era anche astuto e avido, sempre determinato ad approfittare del proprio limitato potere per estorcere denaro agli abitanti del villaggio. A Gwenda era molto antipatico, e non per la sua avidità, caratteristica comune a tutti i balivi, ma perché era pieno di astio e di rancore. Figlio del balivo del conte di Shiring, non era riuscito a ereditare il posto prestigioso del padre ed era convinto di essere finito nel piccolo villaggio di Wigleigh per colpa della propria deformità. Sembrava detestare chiunque fosse giovane, bello e forte. Nel tempo libero, beveva spesso vino con Perkin, il padre di Annet, che pagava sempre per tutti e due. L'assise si era riunita quella domenica per decidere che cosa fare della terra della famiglia di Wulfric. Era un grosso appezzamento. I contadini non erano tutti uguali, e non tutti avevano la stessa quantità di terra. In quella regione, la maggioranza ne aveva trenta acri, che teoricamente corrispondevano alla quantità di terra che un uomo era in grado di coltivare da solo, sufficiente a sfamare una famiglia. Tuttavia molti, a Wigleigh, ne avevano soltanto quindici acri, e per mantenere moglie e figli erano costretti ad arrangiarsi: tendevano reti nel bosco per catturare gli uccelli, pescavano nel torrente che attraversava Brookfield, fabbricavano cinture e sandali con ritagli di cuoio, tessevano per i mercanti di Kingsbridge e cacciavano di frodo i cervi del re. Solo pochi contadini facoltosi avevano più di trenta acri di terra: Perkin ne aveva cento e il padre di Wulfric, Samuel, novanta. Naturalmente, per coltivarla si facevano aiutare da figli e parenti, o da braccianti come il padre di Gwenda. Quando moriva un servo della gleba, la terra poteva andare alla vedova, ai figli maschi e anche alle femmine, purché fossero sposate. Il passaggio doveva comunque essere autorizzato dal signore e comportava il pagamento di un tributo alquanto oneroso. In circostanze normali, la terra di Samuel sarebbe andata automaticamente ai due figli e non ci sarebbe stato bisogno di riunire il tribunale feudale. I figli avrebbero unito le forze per pagare il
tributo e poi avrebbero potuto dividersi la terra oppure coltivarla insieme, provvedendo in qualche modo alla madre. Però con Samuel era morto anche uno dei due figli e questo complicava le cose. Di solito all'assise presenziavano tutti gli adulti del villaggio, ma Gwenda quel giorno aveva un motivo particolare per prendervi parte: era in gioco il futuro di Wulfric, e il fatto che lui avesse intenzione di viverlo con un'altra donna non diminuiva il suo interesse. A volte pensava che avrebbe dovuto augurargli vita grama con Annet, ma non ci riusciva: voleva che lui fosse felice. Finita la messa, dal maniero vennero portate in chiesa una grande sedia di legno e due panche. Nathan si sedette sullo scanno e i giurati sulle panche. Tutti gli altri restarono in piedi. Wulfric parlò con semplicità. «Mio padre aveva novanta acri delle terre del signore di Wigleigh» disse. «Cinquanta gli erano venuti da suo padre e quaranta dallo zio alla sua morte, dieci anni fa. Essendo deceduti anche mia madre e mio fratello e non avendo io sorelle, sono l'unico erede.» «Quanti anni hai?» domandò Nathan. «Sedici.» «Non sei ancora un uomo, dunque.» Nathan era evidentemente intenzionato a mettergli i bastoni fra le ruote e Gwenda sapeva anche il perché: il balivo voleva del denaro da Wulfric. Questi, però, non aveva più un soldo. «L'età non è tutto» replicò il ragazzo. «Sono più alto e più forte di tanti uomini fatti.» Aaron Appletree, uno dei giurati, intervenne: «David Johns ha ereditato da suo padre all'età di diciotto anni». «Diciotto anni non sono sedici» ribatté Nathan. «Non ricordo casi in cui un sedicenne abbia ricevuto un'eredità.» David Johns, che non faceva parte della giuria, era in piedi accanto a Gwenda. «E comunque non ho ereditato novanta acri!» dichiarò, scatenando alcune risatine. David aveva quindici acri di terra, come la maggior parte dei presenti. Prese la parola un altro giurato. «Novanta acri sono troppi per un uomo solo, giovane o adulto che sia. Eravate in tre a coltivarli, fino al crollo del ponte.» A parlare era stato Billy Howard, che aveva venticinque anni ed era stato respinto da Annet: forse era per quello che si schierava con Nate per rendere la vita difficile a Wulfric. «Io ho quaranta acri e nella stagione del raccolto devo prendere dei braccianti.»
Molti annuirono, d'accordo con lui. Gwenda cominciava a sentirsi scoraggiata: le cose per Wulfric non si stavano mettendo bene. «Posso farmi aiutare anch'io» disse il ragazzo. «Hai il denaro per pagare i braccianti?» ribatté Nathan. Wulfric abbassò la testa e Gwenda provò un moto di compassione per lui. «La borsa di mio padre è andata perduta nel crollo e il poco che avevo io è stato speso per i funerali» rispose. «Posso offrire ai braccianti una parte del raccolto, però.» Nathan scosse la testa. «Tutti qui al villaggio sono impegnati, con le proprie terre o al soldo di qualcuno: nessuno rinuncerebbe a un lavoro pagato in denaro sonante per un altro retribuito con una parte di raccolto incerto.» «Farò tutto da solo, allora» dichiarò Wulfric con appassionata fermezza. «Lavorerò giorno e notte, se necessario. Vi dimostrerò che ce la posso fare.» C'era una tale determinazione nel suo bel viso che Gwenda ebbe l'impulso di alzarsi in piedi e sostenerlo a gran voce. Ma i presenti scuotevano la testa: erano tutti consapevoli che un uomo solo non poteva occuparsi di un appezzamento così grande. Nathan si rivolse a Perkin. «È il fidanzato di tua figlia. Non puoi fare qualcosa per lui?» Perkin assunse un'aria dubbiosa. «Forse potreste trasferire le sue terre a me, almeno temporaneamente. Io mi accollerò il pagamento del tributo. Quando sposerà Annet, si potrà riprendere i suoi novanta acri.» «No!» si oppose subito Wulfric. Gwenda sapeva perché era contrario: Perkin era un uomo astuto e avrebbe cercato in tutti i modi di tenersi le terre anche dopo che il ragazzo si fosse sposato con sua figlia. «Se non hai denaro, come pagherai il tributo?» domandò Nathan a Wulfric. «Avrò il denaro dopo il raccolto.» «Sempre che sia buono. Tuo padre pagò tre sterline per le terre di suo padre e due per quelle di suo zio.» Gwenda rimase senza fiato: cinque sterline erano una somma esorbitante. Come avrebbe fatto Wulfric a metterla insieme? Probabilmente ci sarebbero voluti tutti i risparmi di famiglia. «Inoltre» continuò Nathan «il tributo normalmente si paga prima che l'erede prenda possesso della terra, non dopo il raccolto.»
«Date le circostanze, Nathan, su questo punto potresti essere un po' più indulgente» gli fece notare Aaron Appletree. «Tu dici? Potrà essere indulgente il signore, visto che si tratta di roba sua. Ma un balivo non può disporre dell'oro altrui.» «La nostra sarà soltanto una raccomandazione, in ogni caso: non ci possono essere provvedimenti definitivi finché Wigleigh non avrà un nuovo signore.» Era vero, pensò Gwenda. Ma era anche vero che il nuovo signore difficilmente si sarebbe opposto a una decisione che decretava il passaggio di terre di padre in figlio. «Signore, mio padre pagò molto meno di cinque sterline» disse Wulfric. «Occorrerà controllare i rotoli, allora.» La risposta di Nathan fu così immediata che Gwenda ebbe l'impressione che si aspettasse che Wulfric mettesse in dubbio l'ammontare del tributo pagato dal padre. Nathan trovava sempre il modo di interrompere l'udienza, forse per dare ai contendenti l'opportunità di corromperlo. Evidentemente, credeva che Wulfric avesse ancora qualche soldo da parte. Due giurati portarono dalla sacrestia il baule dove erano conservati i documenti del feudo, lunghe pergamene arrotolate su cui erano registrate le decisioni del tribunale feudale. Nathan sapeva leggere e scrivere: per fare il balivo era indispensabile, dato che occorreva tenere l'archivio e stendere resoconti per il signore. Controllò nel baule, cercando il rotolo giusto. Gwenda pensò che Wulfric avesse affrontato la questione nel modo sbagliato: il suo modo di parlare semplice e la sua evidente sincerità non bastavano. Nathan voleva prima di tutto assicurarsi il tributo feudale, Perkin manovrava per ottenere le terre del ragazzo e Billy Howard approfittava della situazione per dare sfogo al proprio rancore. Il problema era che Wulfric non aveva soldi per corrompere Nathan. Ed era anche ingenuo: credeva che esponendo chiaramente il suo caso avrebbe ottenuto giustizia e non si rendeva conto che la situazione andava, invece, gestita con furbizia. Forse lei sarebbe riuscita ad aiutarlo: alla figlia di Joby non poteva certo mancare almeno un minimo di astuzia. Nelle sue argomentazioni, Wulfric non aveva fatto appello agli interessi personali degli altri abitanti del villaggio, ma Gwenda poteva rimediare. Si voltò verso David Johns, che era in piedi vicino a lei. «Mi sorprende che questa cosa non vi preoccupi» disse. Lui la guardò perplesso. «Cosa vuoi dire?»
«Nonostante la morte improvvisa, questa è un'eredità, un passaggio di terre di padre in figlio. Se lasciate che Nathan metta troppe condizioni stavolta, poi lo farà sempre. Prenderà l'abitudine di trovare qualcosa che non va tutte le volte che muore qualcuno. Non avete paura che interferisca nei diritti dei vostri figli?» David fece una faccia spaventata. «Hai ragione, ragazza mia» mormorò. E si voltò a parlare con l'uomo che aveva a fianco. Gwenda riteneva che fosse sbagliato da parte di Wulfric pretendere che la questione venisse risolta definitivamente quel giorno. A suo parere sarebbe stato meglio cercare una soluzione temporanea, che i giurati avrebbero concesso con meno riserve. Andò a parlargli. Wulfric stava discutendo con Perkin e Annet. Nel vedere Gwenda, Perkin assunse un'espressione diffidente e Annet arricciò il naso, ma Wulfric fu cortese come sempre. «Buongiorno, mia cara compagna di viaggio» disse. «Ho saputo che hai lasciato la casa di tuo padre.» «Ha minacciato di vendermi.» «Un'altra volta?» «Tutte le volte che riuscirò a scappare... È convinto di avere trovato il modo per guadagnare una fortuna.» «Dove alloggi?» «Dalla vedova Huberts. Lavoro per il balivo, nelle terre del feudatario. Un penny al giorno, dall'alba al tramonto. E Nathan è uno che manda a casa stanchi i suoi braccianti. Pensi che accoglierà le tue richieste?» Wulfric fece una smorfia. «Mi è sembrato riluttante.» «Una donna avrebbe affrontato la questione in modo diverso, sai?» Wulfric parve sorpreso. «In che senso?» Annet la guardava male, ma Gwenda fece finta di niente. «Una donna non avrebbe chiesto una sentenza, specie sapendo che le decisioni prese oggi non possono essere definitive. Insomma, non rischierebbe un "no", potendo ottenere un "forse".» Wulfric ci pensò. «E, allora, una donna che cosa farebbe?» «Chiederebbe l'autorizzazione a continuare a lavorare le terre, prima di tutto, e per la decisione definitiva aspetterebbe il nuovo signore. Saprebbe che nel frattempo tutti si abituerebbero al fatto che le terre sono sue e che alla fine l'autorizzazione del feudatario sarebbe una semplice formalità. Insomma, raggiungerebbe il proprio obiettivo senza dare modo agli altri di metterlo in discussione.» Wulfric non era del tutto convinto. «Be'...»
«Non è quello che vuoi, ma oggi come oggi non riuscirai a ottenere di più. E Nathan non te lo può negare, visto che non c'è nessun altro che possa occuparsi del raccolto.» Wulfric annuì, vagliando le varie possibilità. «La gente mi vedrebbe mietere e si abituerebbe all'idea. A quel punto, sembrerebbe un'ingiustizia a tutti quanti negarmi l'eredità. E io potrei pagare comunque il tributo, almeno in parte.» «E saresti molto più vicino al tuo obiettivo di quanto sei adesso.» «Grazie. Sei molto saggia.» Le posò la mano sul braccio per un istante, quindi si rivolse di nuovo ad Annet, che gli sussurrò qualcosa in tono brusco. Anche il padre della ragazza sembrava seccato. Gwenda si voltò. "Non dirmi che sono saggia, dimmi che sono... bella? No, non succederà mai. La donna della tua vita? No, quella è Annet. Una vera amica? Al diavolo! Ma allora che cosa voglio? Perché faccio di tutto per aiutarti?" Non sapeva che cosa rispondersi. Notò che David Johns parlava in tono enfatico a uno dei giurati, Aaron Appletree. Nathan aprì il rotolo. «Il padre di Wulfric, Samuel, pagò trenta scellini per le terre del padre e una sterlina per quelle dello zio.» Uno scellino equivaleva a dodici penny. Non esistevano monete da uno scellino, ma la gente parlava di scellini comunque. Venti scellini equivalevano a una sterlina. La somma di cui aveva parlato Nathan era quindi esattamente il doppio di quella poi accertata. Prese la parola David Johns. «Le terre del padre dovrebbero andare ai suoi figli» dichiarò. «Non vogliamo dare al nuovo signore, chiunque egli sarà, l'impressione di poter decidere lui chi eredita la terra.» Si alzò un mormorio di approvazione. Wulfric fece un passo avanti. «Balivo, so che oggi non si può prendere una decisione definitiva e che occorre aspettare il successore di sir Stephen. Io chiedo solo che mi venga concesso di poter continuare a lavorare le terre di mio padre. Il raccolto sarà buono, lo prometto. Se non dovessi farcela, nessuno perderà nulla. Se invece ce la farò, nessuno mi ha promesso qualcosa comunque. Sono alla mercé del nuovo signore, insomma.» Nathan era con le spalle al muro. Gwenda era certa che avesse sperato di ricavare qualche soldo per sé: forse si aspettava che Perkin, il futuro suocero di Wulfric, cercasse di corromperlo. Sembrava alla disperata ricerca di qualche appiglio per rifiutare la richiesta di Wulfric ma, mentre esitava, al-
cuni degli abitanti del villaggio cominciarono a borbottare fra loro e Nathan si rese conto che non gli conveniva mostrarsi troppo riluttante. «Molto bene» disse con un'ostentata buona grazia che non convinse nessuno. «La giuria cosa dice?» Aaron Appletree conferì brevemente con gli altri giurati, quindi dichiarò: «La richiesta di Wulfric è modesta e ragionevole. Occuperà le terre di suo padre finché non verrà nominato il nuovo signore di Wigleigh». Gwenda tirò un sospiro di sollievo. Nathan ringraziò i giurati: la seduta era sciolta. La gente si incamminò verso casa per pranzare. La maggior parte di loro poteva permettersi di mangiare carne solo una volta la settimana e in genere lo faceva la domenica. Anche Joby ed Ethna di solito riuscivano a mettere in pentola uno scoiattolo o un riccio per il pranzo domenicale e, in quella stagione, i giovani conigli non erano troppo difficili da catturare. La vedova Huberts aveva preparato uno stufato con un collo di montone. Uscendo dalla chiesa, Gwenda incrociò lo sguardo di Wulfric. «Ottimo lavoro» gli disse. «Nathan non ha potuto respingere la tua richiesta, anche se forse avrebbe voluto.» «L'idea è stata tua» replicò lui ammirato. «Mi hai suggerito tu che cosa era meglio fare. Non so come ringraziarti.» Gwenda si trattenne dal dirglielo. Mentre attraversavano il cimitero, gli chiese: «Come farai con il raccolto?». «Non lo so.» «Perché non mi lasci venire a lavorare per te?» «Non ho soldi.» «Mi accontenterei di vitto e alloggio.» Wulfric si fermò al cancello, si voltò e la guardò con aria sincera. «No, Gwenda. Non penso che sarebbe una buona idea. Annet non gradirebbe e, in verità, non avrebbe tutti i torti.» Gwenda arrossì: non c'erano dubbi sul significato di quelle parole. Se Wulfric avesse rifiutato la sua proposta perché pensava che lei fosse troppo debole per quel lavoro, o per altri motivi simili, non avrebbe avuto bisogno di guardarla negli occhi e, soprattutto, non avrebbe coinvolto la sua fidanzata. Invece lei si rese conto che Wulfric sapeva che lo amava e non voleva incoraggiare la sua infatuazione senza speranza. «Capisco» sussurrò, abbassando gli occhi. «Come preferisci.» Wulfric le sorrise affettuosamente. «Grazie lo stesso per l'offerta.» Gwenda non replicò e, dopo un attimo, si voltò per andarsene.
19 Gwenda si alzò che era ancora buio. Dormiva per terra, su un pagliericcio, in casa della vedova Huberts. Forse si rendeva conto dell'ora anche nel sonno, perché si svegliava sempre appena prima dell'alba. La vedova, sdraiata al suo fianco, non si mosse quando lei scostò la coperta, si alzò e, a tastoni, trovò la porta sul retro e uscì in cortile. Skip la seguì e si diede una scrollatina. Per un momento Gwenda rimase immobile. Tirava un vento fresco, come sempre a Wigleigh, e la notte non era completamente buia: la ragazza riconobbe le sagome indistinte della stia delle anatre, della latrina e del pero. Non vedeva la casa accanto, quella di Wulfric, ma sentiva ringhiare il suo cane, incatenato fuori dal piccolo recinto delle pecore. Mormorò qualcosa perché riconoscesse la sua voce e si tranquillizzasse. Assaporò quel momento di pace, sebbene ormai la sua esistenza fosse fin troppo tranquilla. Dopo avere vissuto per tutta la vita in una casupola piena di bambini che non facevano che chiedere da mangiare, piangere e urlare, le sembrava impossibile sentire la mancanza di quella confusione. Invece era proprio così: la vedova Huberts era una donna pacata e taciturna, e a volte Gwenda si ritrovava a rimpiangere di non avere vicino qualche bambino in lacrime da prendere in braccio e consolare. Si avvicinò al vecchio secchio di legno e si lavò le mani e il viso, poi tornò dentro, si avvicinò a tastoni al tavolo, aprì il contenitore del pane, tagliò una spessa fetta dalla pagnotta ormai vecchia di una settimana e uscì di nuovo. Mangiandola, si incamminò. Il villaggio era immerso nel silenzio. I contadini lavoravano dall'alba al tramonto e in quel periodo dell'anno le giornate erano lunghe e faticose, quindi ogni ora di riposo era preziosa. Solo Gwenda iniziava prima che sorgesse il sole e continuava anche dopo il crepuscolo. Quando si lasciò le case alle spalle e cominciò ad attraversare i campi, il cielo iniziava a rischiararsi. I campi di Wigleigh erano tre, molto estesi: Hundredacre, Brookfield e Longfield. Seguendo una rotazione triennale, ogni anno venivano coltivati in modo diverso: il primo a frumento e segale, i cereali più pregiati; il secondo a cereali meno importanti, come avena e orzo, e a legumi come piselli e fagioli; il terzo venivano lasciati incolti. Quell'anno, Hundredacre era stato seminato a frumento e segale, Brookfield a legumi e Longfield era incolto. I campi erano divisi in strisce di
circa un acro l'una e a ogni servo della gleba ne veniva assegnato un certo numero nei diversi campi. Gwenda andò nel campo di Hundredacre e cominciò a strappare la gramigna e i fiori di prato fra le piante di frumento di Wulfric. Le faceva piacere potergli dare una mano, anche se a sua insaputa: ogni volta che si chinava gli risparmiava una fatica, ogni erbaccia che strappava le sue messi crescevano più rigogliose. Era un po' come fargli un regalo. Mentre lavorava per lui, pensava alla sua faccia, al suo sorriso, alla sua voce profonda di uomo animata dall'entusiasmo di un bambino. Sfiorava le verdi piantine di frumento e immaginava di accarezzargli i capelli. Estirpò erbacce fino a che non fu sorto il sole e quindi si incamminò verso le terre del signore di Wigleigh, dove lavorava come bracciante. Sir Stephen era morto, ma le sue messi andavano comunque raccolte e il suo successore ne avrebbe certamente chiesto un accurato resoconto. Al calar del sole, dopo essersi guadagnata il pane quotidiano, Gwenda sarebbe tornata alle terre di Wulfric e avrebbe lavorato lì finché la luce glielo avesse consentito. Se c'era la luna, avrebbe proseguito fino a tarda sera. A Wulfric non aveva mai detto niente, ma in un villaggio di duecento anime i segreti rimanevano tali per poco. La vedova Huberts le aveva chiesto, con affettuosa curiosità, che cosa sperasse di ottenere. "Sposerà la figlia di Perkin, lo sai. Non puoi impedirlo." "Voglio solo il suo bene" aveva risposto Gwenda. "Merita di farcela. È un uomo onesto, di gran cuore, e non si tira indietro davanti alla fatica. Voglio che sia felice, anche se sposerà quella strega." Quel giorno Gwenda era a Brookfield, a raccogliere i primi baccelli delle piante di piselli e fagioli. Wulfric era lì nei pressi a scavare un canale di scolo, perché dopo le forti piogge dei primi di giugno la terra era un acquitrino. Era a torso nudo, chino sulla zappa, e Gwenda lo guardò lavorare di gran lena, con la schiena muscolosa bagnata di sudore. Solo quelle gocce scintillanti sulla sua pelle tradivano lo sforzo che faceva. A mezzogiorno arrivò Annet, molto graziosa con un nastro verde fra i capelli, a portargli una brocca di birra, e pane e formaggio avvolti in un panno. Al suono della campana di Nathan Reeve i braccianti si fermarono e si ritirarono verso gli alberi sul margine settentrionale del campo. Nathan distribuì a tutti sidro, pane e cipolle: il pranzo faceva infatti parte della loro paga. Gwenda si sedette, appoggiandosi al tronco di un carpine, e guardò Wulfric e Annet con lo stesso spirito del condannato a morte che osservi il falegname costruirgli la forca.
Annet faceva la civetta come al solito, piegando la testa di lato e sbattendo le ciglia. Poi, a un tratto, si finse indispettita per qualcosa che Wulfric aveva detto e dopo un po' si fece seria e gli parlò con foga, mentre lui pareva affermare la propria innocenza. A un certo punto entrambi si voltarono verso di lei e allora Gwenda capì di essere l'oggetto del loro bisticcio: probabilmente Annet aveva scoperto che andava a lavorare nelle terre di Wulfric tutte le mattine e tutte le sere. Alla fine, Annet si allontanò con aria imbronciata e Wulfric, pensieroso, terminò il suo pasto in solitudine. Dopo mangiato, tutti riposavano fino alla ripresa del lavoro. I più vecchi si sdraiavano per terra a sonnecchiare, i giovani chiacchieravano. Quel giorno, Wulfric si avvicinò a Gwenda e le si accucciò accanto. «Togli le erbacce dai miei campi?» Gwenda non aveva intenzione di scusarsi. «Annet ti ha sgridato, suppongo.» «Non vuole che lavori per me.» «Cosa vorrebbe che facessi, che ti ripiantassi le erbacce che ho già tolto?» Wulfric si guardò intorno e abbassò la voce per non farsi sentire, anche se tutti immaginavano di che cosa stessero parlando. «So che lo fai per aiutarmi e te ne sono grato, però mi crei un sacco di problemi.» A Gwenda faceva piacere stargli così vicina. Wulfric odorava di terra e di sudore. «Hai bisogno di aiuto» gli disse. «Non credo che Annet te ne dia. O sbaglio?» «Non criticarla, per favore. Non mi va che parliamo di lei.» «Va bene. Da solo, però, non puoi farcela.» Wulfric sospirò. «Se solo venisse un po' di sole...» Automaticamente, alzò gli occhi verso il cielo, che era coperto. Il grano stentava a crescere, con quel tempo umido e freddo. «Lascia che io ti dia una mano» lo implorò Gwenda. «Dille che ne hai bisogno. Dovrebbe essere l'uomo a comandare, non sua moglie.» «Ci penserò su» fu la sua risposta. Ma il giorno dopo assoldò un bracciante. Era un viandante, che arrivò verso sera. Al crepuscolo gli abitanti del villaggio si radunarono intorno a lui per ascoltare la sua storia. Si chiamava Gram e veniva da Salisbury. Disse che gli era bruciata la casa e che sua moglie e suo figlio erano morti nell'incendio. Stava andando a Kingsbridge, dove sperava di trovare lavoro nel priorato, visto che suo fratello era frate e viveva lì.
«Probabilmente lo conosco» gli disse Gwenda. «Ho un fratello, Philemon, che lavora da anni al monastero. Come si chiama?» «John.» C'erano due frati che si chiamavano John ma, prima che Gwenda avesse il tempo di chiedergli quale dei due fosse, Gram continuò: «Avevo qualche soldo per comprare di che sfamarmi lungo la via, ma sono stato derubato dai briganti e adesso sono senza un penny». Il racconto di Gram suscitò grande compassione fra gli abitanti del villaggio. Wulfric lo invitò a dormire a casa sua e il giorno dopo, sabato, lo straniero cominciò a lavorare per lui in cambio di vitto, alloggio e una parte del futuro raccolto. Lavorò indefessamente per tutto il sabato. Wulfric doveva arare le sue strisce di terra nel campo a maggese di Longfield per distruggere i cardi selvatici che vi erano cresciuti: Gram teneva il cavallo, frustandolo se accennava a fermarsi, e Wulfric guidava l'aratro. La domenica riposarono. In chiesa, Gwenda scoppiò in lacrime nel vedere Cath, Joanie ed Eric, che le mancavano tantissimo, e tenne in braccio Eric per tutta la funzione. Dopo la messa, sua madre le parlò in tono brusco. «Ti struggi dietro a quel Wulfric, ma non lo farai innamorare di te strappandogli le erbacce. Lui ama già quell'insulsa di Annet.» «Lo so» rispose Gwenda. «Ma voglio aiutarlo lo stesso.» «Dovresti andartene da qui. Non c'è più niente che ti trattiene in questo villaggio.» Gwenda sapeva che sua madre aveva ragione. «Me ne andrò il giorno dopo le loro nozze.» La madre abbassò la voce. «Se resti, sta' attenta a tuo padre. Non ha ancora rinunciato all'idea di intascare dodici scellini.» «Cosa vuoi dire?» Ethna si limitò a scuotere la testa. «Non può vendermi» disse Gwenda. «Me ne sono andata da casa sua, non mi dà più né da mangiare né da dormire. Lavoro per il signore di Wigleigh, adesso. Mio padre non può più disporre di me.» «Sta' attenta comunque» ripeté la madre. Poi tacque. Fuori della chiesa Gram fermò Gwenda, parlò un po' con lei e le propose di fare una passeggiata insieme dopo mangiato. Gwenda intuì quali fossero le sue mire e rifiutò. Poi, però, lo vide in compagnia della bionda Joanna, la figlia di David Johns, che aveva soltanto quindici anni ed era abbastanza stupida da credere alle lusinghe di un viandante. Il lunedì, prima che sorgesse il sole, Gwenda stava togliendo le erbacce
intorno al frumento di Wulfric nel campo di Hundredacre, quando il giovane arrivò di corsa, con la faccia scura. Lei non si era lasciata dissuadere dalle sue parole e aveva continuato a lavorare per Wulfric tutti i giorni, mattino e sera. Forse lui se l'era presa, ma aveva intenzione di picchiarla per quel motivo? Se l'avesse fatto, tutti avrebbero pensato che Gwenda se l'era andata a cercare, visto che l'aveva provocato, e probabilmente lui sarebbe rimasto impunito. Oltretutto, ora che la ragazza non viveva più con i suoi genitori, nessuno l'avrebbe difesa. Si spaventò: aveva visto Wulfric spaccare il naso a Ralph Fitzgerald. Dopo un attimo, però, si disse di non essere sciocca. Benché avesse fatto a botte in diverse occasioni, Wulfric non aveva fama di essere uno che picchiava le donne o i bambini. Ma quella mattina sembrava davvero furibondo. Non c'era da aver paura, tuttavia. Non appena fu abbastanza vicino, infatti, Wulfric gridò: «Hai visto Gram?». «No, perché?» Il ragazzo si fermò accanto a lei e, senza fiato, le chiese: «Da quanto tempo sei qui?». «Sono arrivata prima dell'alba.» Wulfric sembrò abbattuto. «Allora, se è passato da qua, ormai non riuscirò più a raggiungerlo.» «Che cosa è successo?» «È scomparso... con il mio cavallo.» Ecco perché Wulfric era così arrabbiato. Un cavallo valeva una fortuna e solo i contadini più benestanti, come lo era stato suo padre, potevano permettersene uno. A Gwenda venne in mente che Gram aveva cambiato discorso quando lei gli aveva domandato del fratello: probabilmente non aveva nessun fratello al monastero e anche la storia della moglie e del figlio morti nell'incendio della casa era una bugia. Si era inventato tutto per suscitare la compassione degli abitanti del villaggio con l'intenzione di derubarne qualcuno. «Siamo stati degli stupidi a credergli» disse Gwenda. «Io sono stato il più stupido di tutti, ad accoglierlo in casa mia» replicò Wulfric amareggiato. «È rimasto il tempo sufficiente perché le bestie prendessero confidenza con lui, in modo che il cavallo si lasciasse portare via e il cane non abbaiasse.» A Gwenda dispiaceva moltissimo che Wulfric avesse perso il cavallo proprio quando ne aveva più bisogno. «Non credo che sia passato di qui prima che arrivassi io» disse pensosa. «Era troppo buio. E se fosse stato
dietro di me l'avrei visto.» C'era soltanto una strada che attraversava il villaggio, quella che terminava al maniero, ma i campi erano pieni di sentieri. «Avrà preso la stradina che passa fra i campi di Brookfield e Longfield: è la più rapida per raggiungere il bosco.» «Il cavallo nel bosco non può andare molto veloce. Forse posso ancora raggiungerlo.» Wulfric si voltò e corse via per la strada da cui era venuto. «Buona fortuna!» gli augurò Gwenda. Lui fece un cenno con la mano, senza voltarsi a guardarla. Ma Wulfric non ebbe fortuna. Quel pomeriggio, mentre Gwenda portava un sacco di piselli da Brookfield al granaio del feudatario, costeggiò il campo di Longfield e vide Wulfric che zappava i suoi terreni incolti. Evidentemente non era riuscito ad acciuffare Gram e a recuperare il cavallo. Gwenda posò il sacco per terra e si avviò nei campi verso di lui. «Non puoi andare avanti così» gli disse. «Hai trenta acri in questo campo e ne hai arati quanti... dieci? È impossibile zappare venti acri di terra!» Lui non alzò la testa e continuò imperterrito, cupo. «Non posso ararli» disse. «Non ho più il cavallo.» «Puoi tirare tu l'aratro» gli suggerì lei. «Sei forte e non è un lavoro pesante: devi solo togliere i cardi selvatici, in fondo.» «Non ho nessuno che guidi l'aratro.» «Sì, invece.» Wulfric la guardò. «Ti aiuterò io.» Lui scosse la testa. «Prima hai perso la famiglia, ora anche il cavallo. Non puoi farcela da solo. Non hai scelta: devi lasciare che ti aiuti io.» Wulfric guardò lontano, verso il villaggio, e Gwenda intuì che stava pensando ad Annet. «Possiamo cominciare domattina» disse lei. Il ragazzo la guardò di nuovo, lacerato fra l'amore per la propria terra e il desiderio di compiacere Annet. «Verrò a bussare alla tua porta» continuò Gwenda. «Areremo il resto insieme.» Si voltò e si incamminò, poi si fermò e si guardò indietro. Wulfric non aveva detto di sì. Ma neanche di no. Ararono per due giorni, poi fecero il fieno e quindi raccolsero i legumi.
Ora che Gwenda non guadagnava più denaro per pagare il vitto e l'alloggio alla vedova Huberts, aveva bisogno di un posto per dormire. Si trasferì quindi nella stalla di Wulfric; gliene spiegò la ragione e lui non fece obiezioni. Dopo il primo giorno, Annet smise di portare il pranzo al fidanzato, così Gwenda preparava da mangiare per lei e Wulfric, usando ciò che c'era nella sua dispensa: pane, birra, uova, maiale, cipolline e barbabietole. Il ragazzo accettò il cambiamento senza commentare. Gwenda conservava ancora la pozione d'amore. Teneva la boccetta di terracotta in una borsina di pelle che portava legata intorno al collo, nascosta fra i seni. Avrebbe potuto versare la pozione nella birra di Wulfric ogni volta che pranzavano insieme, ma i suoi effetti sarebbero cominciati nei campi in pieno giorno e lei non avrebbe potuto approfittarne. La sera Wulfric andava a casa di Perkin a mangiare con Annet e i suoi familiari, lasciando Gwenda da sola. Spesso tornava incupito, ma non le diceva niente e quindi lei dava per scontato che avesse messo a tacere le obiezioni della promessa sposa. Siccome Wulfric andava subito a letto, senza mangiare né bere nulla, Gwenda non poteva dargli la pozione. Il sabato dopo la fuga di Gram, Gwenda preparò per cena verdure bollite e maiale salato. Wulfric aveva in casa provviste sufficienti a sfamare quattro adulti e quindi il cibo non mancava mai. La sera era fresca, benché ormai fosse luglio, e dopo mangiato la ragazza mise un altro ceppo nel camino e si sedette a guardarlo bruciare pensando alla vita semplice e tranquilla che aveva vissuto fino a poche settimane prima, stupita di come tutto fosse poi crollato improvvisamente come il ponte di Kingsbridge. Quando sentì aprirsi la porta, pensò che Wulfric fosse di ritorno. In genere, quando arrivava, scambiavano qualche parola, poi lui andava a dormire e lei si ritirava nella stalla. Alzò gli occhi trepidante, aspettandosi di vedere il bel viso dell'amato. Invece rimase di sasso. Sulla porta non c'era Wulfric, bensì suo padre. Era insieme a uno sconosciuto dall'aria feroce. Gwenda trasalì, spaventata. «Che cosa volete?» Skip cominciò ad abbaiare, ma poi si ritrasse di fronte a Joby, impaurito. «Bambina mia, non devi aver paura. Sono il tuo papà.» A Gwenda tornarono alla mente i vaghi avvertimenti che le aveva fatto sua madre in chiesa. «Chi è costui?» chiese, indicando l'altro uomo. «Jonah di Abingdon, un mercante di pelli.» Poteva anche essere un mercante di Abingdon, pensò Gwenda, ma aveva
gli stivali consunti, gli abiti lerci e non doveva vedere un barbiere da anni. Mostrando più coraggio di quel che in realtà avesse, intimò loro: «Andatevene». «Ti avevo avvertito che è un po' ribelle» disse Joby a Jonah. «Ma è una brava ragazza. Ed è anche forte.» Jonah aprì bocca per la prima volta. «Non è un problema» replicò. Si leccò le labbra e squadrò la ragazza da capo a piedi. Gwenda rimpianse di avere addosso soltanto un vestito di lana leggera. «Ne ho domate parecchie, in vita mia» aggiunse l'uomo. Gwenda era certa che suo padre l'avesse venduta di nuovo, come aveva minacciato di fare. Lei aveva pensato che andandosene di casa sarebbe stata al sicuro e che gli abitanti del villaggio l'avrebbero difesa, invece... Era buio, nessuno si sarebbe accorto di nulla fino al mattino e a quel punto lei ormai sarebbe stata lontana. Non l'avrebbe aiutata nessuno, però lei avrebbe cercato comunque di difendersi. Si guardò intorno disperata, alla ricerca di un'arma. Il ceppo che aveva aggiunto al fuoco poco prima stava già bruciando a un'estremità, ma era lungo e anche abbastanza comodo da afferrare. Gwenda si chinò velocemente e lo prese. «Non fare così» disse Joby. «Non vorrai fare del male al tuo papà, vero?» Fece un passo verso di lei. Gwenda si sentì invadere dall'ira: come osava parlarle in quel modo visto che stava cercando di venderla? Tutt'a un tratto, le venne una gran voglia di fargli del male. Urlando di rabbia, gli si lanciò contro con il ceppo ardente in mano. Joby fece un salto all'indietro, lei però continuò ad avvicinarsi minacciosa, in preda a una terribile collera. Skip abbaiava furioso. Joby alzò le mani per proteggersi, ma Gwenda riuscì lo stesso a colpirlo al volto. Il padre lanciò un urlo di dolore. La sua barba prese fuoco mandando un nauseante odore di bruciato. Gwenda si sentì afferrare da dietro: era Jonah che cercava di bloccarla. Lasciò cadere il ceppo e la paglia per terra si incendiò all'istante. Skip, che aveva il terrore delle fiamme, scappò subito fuori. Gwenda cercava di divincolarsi, ma Jonah era più forte di lei e la sollevò da terra. Sulla soglia apparve un'ombra. Gwenda la vide solo un istante prima che scomparisse. Poi Jonah la scaraventò a terra e lei perse i sensi. Quando tornò in sé, vide che Jonah era chino su di lei e le stava legando
i polsi con una corda. L'ombra sulla porta riapparve e Gwenda riconobbe Wulfric, che aveva in mano un grosso secchio di legno. Rapido, lo svuotò sulla paglia, spegnendo le fiamme, quindi lo abbatté sulla testa di Jonah, in ginocchio accanto a Gwenda. Libera dalla sua stretta, lei si sciolse rapidamente i legacci. Wulfric colpì di nuovo Jonah, ancora più forte, e questa volta l'uomo chiuse gli occhi e crollò per terra. Premendosi la manica sulla barba, Joby era riuscito a spegnere le fiamme e gemeva di dolore, accovacciato sul pavimento. Wulfric afferrò Jonah per la tunica e lo sollevò, ancora privo di sensi. «Chi è costui?» «Si chiama Jonah. Mio padre voleva vendermi a lui.» Wulfric lo prese per la cintola e lo scaraventò fuori dalla porta. Joby continuava a lamentarsi per il dolore. «Aiutatemi, ho la faccia bruciata.» «Aiutarti?» disse Wulfric. «Dai fuoco alla mia casa, aggredisci la mia bracciante e poi mi chiedi aiuto? Vattene subito!» Joby si alzò in piedi gemendo e uscì barcollando. Gwenda non sentiva alcuna compassione per lui: si accorse che il poco affetto che provava ancora per suo padre si era spento definitivamente quella sera. Sperava che non le avrebbe mai più rivolto la parola. In quel momento arrivò Perkin, con una candela in mano. «Che cosa succede?» domandò. «Mi è sembrato di sentire delle grida.» Gwenda vide che dietro di lui c'era Annet. «Joby è venuto qui con un altro furfante» spiegò Wulfric. «Hanno cercato di portare via Gwenda.» Perkin sbuffò. «Vedo che il problema è stato risolto.» «Già, senza troppa fatica.» Wulfric si rese conto di avere ancora il secchio in mano e lo posò. «Ti sei fatto male?» gli chiese Annet. «No.» «Hai bisogno di qualcosa?» «Voglio solo andare a dormire.» Perkin e Annet capirono il messaggio e si congedarono. Sembrava che nessun altro avesse sentito niente. Wulfric chiuse la porta e guardò Gwenda al bagliore del fuoco nel camino. «Come ti senti?»
«Un po' scossa.» Si sedette sulla panca e appoggiò i gomiti sul tavolo. Wulfric si avvicinò alla credenza. «Bevi un po' di vino, ti farà bene.» Posò sul tavolo una botticella e prese due tazze dallo scaffale. Gwenda si riscosse: forse era arrivato il momento di usare la pozione. Cercò di riflettere. Doveva agire in fretta. Wulfric versò il vino nelle tazze e andò a rimettere la botticella nella credenza. Gwenda aveva soltanto un attimo a disposizione. Mentre lui le voltava le spalle, estrasse la boccetta dalla borsina che teneva al collo, la stappò con mano tremante e ne versò il contenuto in una tazza. Wulfric si voltò mentre Gwenda stava rimettendo via la boccetta. Lei finse di aggiustarsi la veste, ma Wulfric non aveva notato nulla di strano. Si sedette di fronte a lei. Gwenda alzò la tazza per brindare. «Mi hai salvato la vita» disse. «Grazie.» «Ti tremano le mani» osservò lui. «Sei ancora sconvolta.» Bevvero entrambi. Gwenda si chiese quanto tempo avrebbe impiegato la pozione per fare effetto. Wulfric disse: «Anche tu mi hai salvato la vita, aiutandomi nei campi. Grazie». Bevvero di nuovo. «Non so che cosa sia peggio» rifletté Gwenda a voce alta. «Se avere un padre come il mio o non averlo per niente.» «Mi dispiace per te» disse Wulfric pensoso. «Almeno io ho un buon ricordo dei miei genitori.» Svuotò d'un fiato la sua tazza. «Non bevo quasi mai vino, perché mi intorpidisce. Ma questo è buonissimo.» Gwenda lo osservò attentamente. Mattie la guaritrice l'aveva avvisata che sarebbe diventato languido. Di certo Wulfric la stava guardando come se la vedesse per la prima volta. Dopo un momento, le sussurrò: «Hai davvero un bel viso, sai? Molto dolce». Per sedurlo, Gwenda adesso avrebbe dovuto fare ricorso alla propria femminilità, ma si accorse con sgomento che non sapeva da che parte cominciare. Certe donne, come Annet, erano brave a farsi corteggiare, ma lei non era abituata a sorridere con aria civettuola e a sbattere le ciglia... Si sarebbe sentita una stupida. «Sei gentile» gli disse, cercando di prendere tempo. «Ma nei tuoi occhi non vedo soltanto gentilezza.»
«E cos'altro vedi?» «Forza. Quella che non viene dai muscoli, ma dalla determinazione.» «Stasera mi sento forte, è vero.» Wulfric sorrise. «Dici che nessun uomo può zappare venti acri, ma io sento che potrei farcela, stanotte.» Gwenda posò la mano su quella di lui, appoggiata al tavolo. «Riposati, piuttosto» gli disse. «Per zappare c'è sempre tempo.» Lui osservò le dita minute. «Guarda, abbiamo la pelle così diversa!» disse, come se fosse una cosa straordinaria. «La tua è più scura.» «Abbiamo anche gli occhi e i capelli diversi, non solo la pelle. Chissà come sarebbero i nostri figli...» Wulfric sorrise, al pensiero. Poi però cambiò espressione, come se lei avesse detto qualcosa che non andava, e si fece serio. Gwenda avrebbe forse potuto ridere di quel brusco cambiamento, se non l'avesse turbata tanto. «Non avremo figli insieme» disse lui in tono solenne. E ritrasse la mano. «Cambiamo discorso» mormorò lei, disperata. «Non pensi mai a come sarebbe bello se...» Wulfric lasciò la frase a metà. «Se cosa?» domandò lei. «Se il mondo fosse diverso.» Gwenda si alzò e si andò a sedere accanto a lui. «Desiderarlo non basta» gli disse. «Siamo soli, è notte: possiamo fare ciò che vogliamo.» Lo guardò negli occhi. «Tutto ciò che vogliamo.» Wulfric la fissò intensamente e lei si accorse che la desiderava. C'era voluta una pozione perché accadesse, ma la sua passione era sincera. In quel momento, l'unica cosa al mondo che gli importava era fare l'amore con lei. Tuttavia, non osava fare la prima mossa. Gwenda gli prese la mano e, senza che lui opponesse resistenza, se l'avvicinò alle labbra. Accarezzando le dita ruvide e forti, si premette la palma contro la bocca, la baciò e poi la sfiorò appena con la punta della lingua. Quindi se la posò sul seno. Wulfric glielo accarezzò, ansimando. Gwenda inclinò la testa all'indietro, invitandolo a baciarla. Ma Wulfric rimase immobile. Allora lei si alzò in piedi e si sfilò la veste da sopra la testa, lasciandola cadere a terra e rimanendo nuda davanti a lui. Wulfric la guardò con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, come se avesse appena assistito a un miracolo. Gwenda gli prese di nuovo la mano e, questa volta, se la avvicinò al ven-
tre, posandosela sul triangolo di peli fra le cosce. Era così bagnata che il dito di Wulfric scivolò dentro di lei, facendola gemere di piacere. Ma Wulfric non stava facendo niente di propria iniziativa, paralizzato dall'indecisione. La desiderava, ma pensava ancora ad Annet. Gwenda avrebbe potuto muoverlo come un burattino per tutta la notte e fare l'amore con il suo corpo inerte, ma non sarebbe servito a niente. Bisognava che lui lo volesse. Si chinò, sempre tenendo la sua mano fra le cosce, e gli disse: «Baciami». Avvicinò la bocca alle sue labbra. «Ti prego.» Era a un soffio da lui, ma non voleva avvicinarsi di più: doveva essere lui a colmare quell'ultima distanza. Tutt'a un tratto, Wulfric si mosse. Ritrasse la mano, voltò la testa dall'altra parte e si alzò in piedi. «Non va bene» disse. E Gwenda capì che aveva perso. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Raccolse la veste e si coprì. «Mi dispiace» mormorò Wulfric. «Non avrei dovuto fare queste cose. Ti ho ingannato, sono stato crudele.» "Non è vero" pensò lei. "Sono stata io a ingannarti. Io sono stata crudele. Tu, invece, sei forte, fedele e leale. Sei troppo buono per me." Lo pensò, ma non disse niente. Lui cercava di non guardarla. «Meglio che tu torni nella stalla» le sussurrò. «Dormiamoci su. Domattina non ci sentiremo più così, spero. Tutto tornerà come prima.» Gwenda corse via dalla porta sul retro, senza neppure infilarsi la veste. La luna brillava in cielo, ma in giro non c'era nessuno e, comunque, non le importava. Nel giro di pochi secondi era nella stalla. In fondo alla costruzione di legno c'era un soppalco con il fieno pulito. Era lì che lei dormiva la notte. Vi salì e si gettò sulla paglia a piangere, delusa e piena di vergogna, troppo disperata per sentire la paglia che le pungeva la pelle nuda. Quando alla fine si calmò, si alzò, si rivestì e si mise una coperta sulle spalle. In quel momento sentì un rumore di passi e guardò da una fessura nel graticcio. La luna era quasi piena, la notte chiara. Fuori della stalla c'era Wulfric. A un certo punto, lo vide andare verso la porta e le balzò il cuore in gola: forse aveva cambiato idea! Ma poi lui esitò e tornò indietro verso casa. Prima di entrarvi, però, si voltò di nuovo e ritornò sui suoi passi.
Gwenda, con il cuore che batteva all'impazzata, lo osservò andare avanti e indietro, indeciso, ma non si mosse: aveva fatto tutto il possibile per incoraggiarlo, adesso toccava a lui. Wulfric, alla fine, si fermò davanti alla porta sul retro, illuminato dalla luna. Gwenda lo vide, di profilo, portarsi la mano ai mutandoni e capì che cosa stava per fare, avendo spiato diverse volte il fratello maggiore. Lo sentì gemere, mentre compiva quel gesto che imitava l'amplesso, e lo guardò sgomenta sprecare il suo desiderio, temendo che le si sarebbe spezzato il cuore. 20 Godwyn sferrò l'attacco contro Carlus il cieco la domenica prima della festa di Sant'Adolfo. In quell'occasione, ogni anno le ossa del santo venivano portate in processione nella cattedrale di Kingsbridge dal priore e dai monaci, e si pregava per il bel tempo nella stagione del raccolto. Toccava a Godwyn preparare la chiesa per la funzione, sistemare candele, incenso e arredi sacri, aiutato dai novizi e dagli inservienti come Philemon. Per la festa di Sant'Adolfo veniva usato un altare di legno finemente intagliato, fissato su una piattaforma che poteva essere sollevata e portata in processione. Godwyn lo sistemò nel lato est della crociera e vi posò sopra due candelabri argentati. Durante i preparativi, rifletté sulla propria situazione. Ora che aveva convinto Thomas a presentarsi come candidato all'elezione del priore, la mossa successiva era eliminare l'opposizione. Carlus era un bersaglio relativamente facile, ma Godwyn doveva stare attento a non esagerare, se non voleva apparire spietato. Posò al centro dell'altare il reliquiario, un crocifisso d'oro tempestato di pietre preziose dentro cui era conservato un pezzo della croce di Gesù, miracolosamente ritrovata mille anni prima da Elena, madre di Costantino il Grande. Molte chiese, in tutta Europa, ne conservavano i frammenti. Mentre preparava l'altare, Godwyn vide madre Cecilia e si interruppe per parlare con lei. «Ho saputo che il conte Roland ha ripreso conoscenza» disse. «Sia lodato Dio.» «E sempre sia lodato» replicò la badessa. «Ha avuto la febbre per così tanti giorni che temevamo per la sua vita. Quando si è fratturato il cranio, devono essergli entrati nel cervello umori cattivi, perché delirava. Invece stamattina si è svegliato e ha ricominciato a parlare normalmente.»
«Voi lo avete guarito.» «Dio lo ha guarito.» «Roland vi sarà molto grato, comunque.» Madre Cecilia sorrise. «Tu sei giovane, frate Godwyn. Con il tempo imparerai che gli uomini di potere non mostrano mai gratitudine. Qualsiasi cosa venga data loro, la considerano un diritto.» La sua condiscendenza irritò Godwyn, che comunque cercò di non darlo a vedere. «Adesso potremo finalmente eleggere il nuovo priore.» «Chi sarà?» «Dieci frati hanno promesso di votare per Carlus, sette per Thomas. Con i voti dei due candidati, saremmo undici a otto. Restano ancora sei indecisi.» «Dunque, il risultato è ancora incerto.» «Sì, anche se Carlus per ora è in vantaggio. Potreste dare voi una mano a Thomas, madre Cecilia.» «Non sono tra i votanti.» «Lo so, ma siete una persona influente: se diceste che il monastero ha bisogno di riforme e di una mano ferma, e che per questo la persona più adatta è Thomas, sono certo che gli indecisi ne terrebbero conto.» «Non mi è concesso prendere posizione.» «Forse. Ma potreste minacciare di tagliare le sovvenzioni, se il monastero non dimostrerà di farne un uso migliore. Questo vi è concesso.» Madre Cecilia fece una faccia divertita: non si lasciava convincere tanto facilmente. «Sarebbe un modo velato per sostenere Thomas.» «Sì.» «Io, invece, devo essere neutrale. Lavorerò con gioia con chiunque i monaci sceglieranno. Non parliamone più, fratello.» Godwyn abbassò il capo, in segno di deferenza. «Rispetto la vostra decisione, naturalmente.» Madre Cecilia si congedò con un cenno di assenso. Godwyn era compiaciuto. Non si aspettava che madre Cecilia prendesse le parti di Thomas, perché era una conservatrice e tutti pensavano che i suoi favori andassero a Carlus. Adesso, però, Godwyn poteva spargere la voce che la badessa si era dichiarata neutrale, minando il suo implicito sostegno a Carlus. Forse lei si sarebbe irritata per l'uso che Godwyn intendeva fare delle sue parole, ma non avrebbe potuto certo rimangiarsele. "Sono davvero astuto" pensò lui soddisfatto. "Mi merito proprio di diventare priore."
Neutralizzare madre Cecilia era stato utile, ma non sufficiente. Occorreva che i frati si convincessero che Carlus non era adatto a fare il priore. A tale scopo, Godwyn sperava che quel giorno avrebbe avuto l'opportunità di dimostrare quanto lui fosse incompetente. Nel frattempo, Carlus e Simeon erano arrivati in chiesa per preparare la funzione. In quanto vicario del priore, Carlus avrebbe guidato la processione con il reliquiario d'oro e d'avorio contenente le ossa del santo. Simeon, in veste di tesoriere e suo amico, lo avrebbe accompagnato. Godwyn vide che Carlus contava i passi per essere sicuro di farcela da solo. I fedeli rimanevano colpiti ogni volta che vedevano il frate muoversi con sicurezza nonostante la cecità: sembrava quasi un piccolo miracolo. Per tradizione, la processione aveva inizio dall'altare maggiore, dove erano conservate le reliquie. Il priore le toglieva dallo stipo in cui erano conservate sotto chiave e le portava dal presbiterio al transetto nord, quindi lungo la navata nord, per poi percorrere il lato ovest e risalire la navata centrale fino alla crociera, dove saliva i due gradini per sistemare il reliquiario sul secondo altare predisposto per l'occasione, sul quale i sacri resti rimanevano esposti ai fedeli per tutta la durata della messa. Godwyn si guardò intorno e decise di andare a controllare come procedevano i lavori di riparazione nel lato sud del presbiterio. Elfric aveva licenziato Merthin, ma continuava a adottare il metodo da lui proposto: invece di sostenere i nuovi lavori di muratura con costose casseforme di legno, finché la calcina non seccava, le pietre venivano messe al loro posto con un sistema di funi e tenute in posizione con un peso. Per la volta non era possibile, perché le pietre erano più lunghe e sottili e necessitavano di casseforme, ma Merthin aveva comunque fatto risparmiare al priorato una piccola fortuna in opere di carpenteria. Godwyn riconosceva il genio di Merthin, però non si sentiva a proprio agio con lui e preferiva lavorare con Elfric, che era più malleabile e gli causava meno problemi, mentre l'apprendista voleva sempre fare a modo suo. Carlus e Simeon uscirono dalla chiesa. Ogni dettaglio della cerimonia era ormai stato messo a punto, e Godwyn congedò tutti gli uomini che lo avevano aiutato, a parte Philemon, che stava spazzando il pavimento della crociera. Per un attimo, nella cattedrale deserta rimasero solo loro due. Era un'occasione da cogliere al volo. Godwyn aveva un piano chiaro nella mente. Era rischioso, ma riuscì a vincere l'esitazione.
Chiamò Philemon. «Presto, aiutami a spostare avanti la piattaforma dell'altare di una iarda!» Per Godwyn, la cattedrale era soprattutto un luogo in cui lavorare, uno spazio da utilizzare e mantenere in ordine, una fonte di guadagno e al tempo stesso un onere finanziario. In occasioni come quella, tuttavia, con la luce delle candele che faceva brillare i candelabri d'oro massiccio, i frati e le suore con le vesti cerimoniali che si muovevano silenziosi fra gli antichi pilastri di pietra e le voci del coro che si innalzavano sino alle alte volte, ne sentiva tutta la maestosità. Era naturale che le centinaia di fedeli presenti rimanessero senza parole di fronte a tanto splendore. Carlus, accompagnato dagli inni dei monaci, aprì lo scomparto sotto l'altare maggiore e, a tastoni, prese il reliquiario. Lo sollevò perché tutti lo vedessero e cominciò a portarlo in processione per la cattedrale. Con la sua barba bianca e gli occhi ciechi, sembrava un santo. Sarebbe caduto nella trappola che Godwyn gli aveva teso? Sembrava fin troppo semplice. A qualche passo di distanza da Carlus, il sacrista si mordeva le labbra e cercava di restare calmo. I fedeli seguivano la scena, soggiogati. Godwyn non mancava mai di stupirsi di quanto fossero disposti a lasciarsi manipolare: non vedevano le ossa del santo, non sapevano neppure se fossero veramente le sue ma, suggestionati dalla preziosità del manufatto che le conteneva, dalla sonorità dei canti, dalla bellezza delle vesti dei monaci e dall'imponenza della cattedrale, si convincevano di essere in presenza di una manifestazione della divinità. Godwyn osservava attentamente Carlus, e lo vide girare a sinistra, senza alcuna esitazione, quando ebbe raggiunto l'ultima campata della navata laterale nord. Simeon era pronto a guidarlo al minimo segno di titubanza, ma non ce ne fu bisogno. Meglio così: più Carlus si sentiva sicuro, più era probabile che inciampasse al momento opportuno. Contando i passi, Carlus raggiunse il centro della navata e si girò nuovamente per dirigersi verso l'altare. Il canto si fermò perché l'ultima parte della processione avvenisse in un silenzio riverente. Godwyn pensò che Carlus doveva sentirsi come si sentiva lui quando cercava la latrina nel cuore della notte. Il cieco conosceva la chiesa e aveva fatto quel percorso molte volte in vita sua ma, alla testa della processione, doveva comunque provare una certa tensione. Sembrava calmo, tuttavia, e solo il lieve movimento delle labbra lasciava intuire che stava contando i passi. Godwyn aveva fatto però in modo che i suoi conti risultassero sba-
gliati e si chiese se Carlus se ne sarebbe accorto in tempo o si sarebbe reso ridicolo agli occhi di tutti. Al passaggio dei sacri resti, i fedeli si ritraevano timorosi. Sapevano che toccare il reliquiario poteva avere effetti miracolosi, tuttavia avevano paura che mancare di rispetto alle cose sacre avrebbe causato conseguenze disastrose. Lo spirito dei morti restava legato alle spoglie terrene fino al giorno del Giudizio e chi aveva condotto una vita santa aveva un potere praticamente illimitato sui vivi, potendoli punire o premiare a suo piacimento. A Godwyn venne in mente che sant'Adolfo avrebbe potuto adirarsi con lui per ciò che stava per succedere nella cattedrale di Kingsbridge e, per un attimo, fu colto dal terrore. Poi però si rassicurò, pensando che stava agendo per il bene del priorato. Il santo, che era capace di leggere nel cuore degli uomini, non poteva non saperlo. In prossimità dell'altare, Carlus rallentò e Godwyn trattenne il fiato. Prima di fare il passo che, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto portarlo davanti all'altare, Carlus ebbe un attimo di esitazione. Godwyn osservò la scena con il cuore in gola, temendo che il monaco avesse fiutato l'inganno. Invece Carlus andò avanti, fiducioso. Colpì con il piede il bordo dell'altare prima di quanto si aspettasse. Nel silenzio, il rumore del suo sandalo contro il legno parve risuonare fortissimo. Il monaco emise un gemito, di sorpresa e di spavento, e perse l'equilibrio. Godwyn tirò un sospiro di sollievo, provando una sensazione di trionfo. Fu questione di un attimo, poi scoppiò il pandemonio. Simeon si lanciò a sorreggere Carlus, afferrandolo per un braccio, ma era troppo tardi: il reliquiario gli era già sfuggito di mano. Fra lo sgomento generale, il prezioso scrigno cadde per terra e si aprì, spargendo intorno le ossa del santo. Carlus crollò sull'altare di legno intagliato, che scivolò giù dalla piattaforma su cui era posato, facendo cadere per terra candele, candelabri e addobbi vari. Godwyn inorridì: era molto peggio di quello che aveva previsto. Il cranio del santo rotolò sul pavimento, finendo ai suoi piedi. Il piano aveva funzionato... anche troppo: Godwyn voleva che Carlus cadesse e facesse la figura dell'inetto, ma non che le sacre reliquie venissero profanate. Atterrito, fissò il cranio per terra, le cui orbite vuote parevano fissarlo con rimprovero. Quale terribile castigo gli sarebbe toccato, per ciò che aveva fatto? Sarebbe mai riuscito a rimediare a quel crimine orrendo?
Siccome se lo aspettava, era leggermente meno scosso degli altri e fu il primo a riaversi. Alzò le braccia al cielo e gridò: «Fratelli, inginocchiamoci e preghiamo!». I fedeli più vicini obbedirono e quelli dietro seguirono il loro esempio. Godwyn intonò una preghiera, cui subito si unirono frati e suore. Mentre le voci salmodianti riempivano la cattedrale, Godwyn raccolse il reliquiario, che sembrava indenne. Quindi, con un gesto drammatico e lentissimo, prese il cranio di sant'Adolfo fra le mani, scosso da un tremito colmo di superstizione. Mormorando le parole latine della preghiera, andò a riporlo dentro lo scrigno. Vide che Carlus faticava a rialzarsi e fece un cenno a due suore. «Aiutate il vicepriore e portatelo all'ospitale» disse. «Frate Simeon, madre Cecilia, volete accompagnarlo anche voi?» Raccolse un altro osso. Era spaventato, sapendo che la colpa di ciò che era successo era tutta sua e non di Carlus. Ma le sue intenzioni erano pure e lui sperava di riuscire a placare l'ira del santo. Inoltre, si rendeva conto che i presenti dovevano apprezzarlo per quello che stava facendo: aveva preso in mano la situazione, si era dimostrato un uomo capace. Il momento di terrore e sgomento non doveva durare troppo a lungo, però: occorreva rimettere a posto le ossa il prima possibile. «Frate Thomas» disse. «Frate Theodoric. Venite ad aiutarmi.» Philemon fece un passo avanti, ma Godwyn gli ordinò con un cenno di restare dov'era: non era un monaco, e solo gli uomini di Dio potevano toccare i sacri resti. Carlus uscì zoppicando, sorretto da Simeon e Cecilia, e lasciò Godwyn padrone indiscusso della situazione. Questi chiamò Philemon e un altro aiutante, Otho, perché raddrizzassero l'altare. Una volta che lo ebbero riposizionato sulla piattaforma, Otho prese i candelabri e Philemon il crocifisso tempestato di pietre preziose. Li posero con riverenza sull'altare e quindi raccolsero da terra le candele. Quando le ossa furono di nuovo tutte dentro lo scrigno, Godwyn provò a chiuderlo, ma non ci riuscì: evidentemente si era deformato. Lo posò sull'altare con grande solennità, facendo in modo che non si notasse che era rotto. Ricordò appena in tempo che era Thomas, almeno per il momento, a dover uscire vittorioso da quella situazione, non lui, perciò prese il libro che Simeon aveva portato in processione e glielo porse. Non ebbe bisogno di dirgli che cosa doveva fare: Thomas aprì il tomo, trovò subito la pagina giusta e lesse i versetti. Frati e suore si allinearono ai lati dell'altare e il
canto dei Salmi cominciò. Anche se con una certa difficoltà, la funzione fu portata a termine. Godwyn ricominciò a tremare appena uscì dalla chiesa: era stato sfiorato il disastro, ma lui era riuscito a cavarsela. Quando la processione raggiunse il chiostro e si concluse, i monaci si misero a parlare tutti eccitati. Godwyn si appoggiò a un pilastro, cercando di darsi un contegno, e ascoltò quello che dicevano. Secondo alcuni, era stato un segno del cielo: Dio non voleva che Carlus diventasse priore. Era la reazione che Godwyn voleva. La maggior parte dei frati, tuttavia, provava compassione per Carlus, e Godwyn, sgomento, temette di avergli dato involontariamente un grande vantaggio. Appena si fu ripreso, corse all'ospitale. Doveva incontrare Carlus finché era demoralizzato, prima che gli giungesse voce che i monaci erano con lui. Il vicepriore era a letto, con un braccio al collo e la testa bendata, pallido e scosso. Ogni pochi secondi, un movimento involontario del volto tradiva il suo nervosismo. Simeon, al suo capezzale, lanciò a Godwyn un'occhiata torva. «Sarai contento» disse. Godwyn lo ignorò. «Frate Carlus, ti farà piacere sapere che le reliquie sono state rimesse al loro posto fra inni e preghiere. Il santo ci vorrà certamente perdonare per questo tragico incidente.» Carlus scosse la testa. «Gli incidenti non esistono» replicò. «Tutto ciò che accade è per volere di Dio.» Godwyn sentì crescere in sé la speranza: era un inizio promettente. Anche Simeon aveva intuito dove Carlus voleva andare a parare e cercò di prevenirlo. «Non essere affrettato, fratello.» «È stato un segno divino» continuò Carlus. «Dio ha voluto farci capire che non desidera che io diventi priore.» Era ciò che Godwyn sperava. «Sciocchezze» disse Simeon. Prese una tazza dal comodino e la mise in mano al ferito. Godwyn pensò che si trattasse di vino caldo e miele, il rimedio di madre Cecilia contro tutti i malanni. «Su, bevi.» Carlus bevve, ma non si lasciò distrarre. «Sarebbe peccato ignorare una simile premonizione.» «Non è facile interpretare le premonizioni» osservò Simeon. «Può darsi. Ma, anche ammesso che tu abbia ragione, chi voterà un prio-
re che non è nemmeno capace di portare in processione le reliquie di un santo?» «Credo che molti provino compassione per te, più che dispetto» ribatté Godwyn. Simeon gli lanciò un'occhiata perplessa, chiedendosi che cosa stesse tramando. Aveva ragione a essere diffidente: Godwyn stava facendo l'avvocato del diavolo per indurre Carlus a ritirarsi definitivamente. Come sperava, Carlus replicò: «Non si elegge un priore per compassione, ma perché i confratelli lo rispettano e sono convinti che li possa guidare con saggezza». Parlò nel tono amareggiato di chi sa, per esperienza, cosa significhi essere menomato dalla nascita. «Sì, capisco ciò che vuoi dire» replicò Godwyn con finta riluttanza, come ammettendo di avere sbagliato. «Ma forse Simeon ha ragione: è meglio che tu rimandi qualsiasi decisione a quando ti sarai ripreso.» «Non ho nessun bisogno di riprendermi!» ribatté Carlus, rifiutando di ammettere la propria fragilità di fronte al giovane Godwyn. «Non cambierà nulla. Domani mi sentirò come mi sento oggi: non voglio candidarmi alla carica di priore.» Era quello che Godwyn sperava. Si alzò di colpo e chinò la testa, come in segno di accettazione. In realtà, voleva nascondere la propria espressione trionfante. «Sei sempre un esempio di limpidezza, frate Carlus» disse. «Comunicherò la tua volontà ai confratelli.» Simeon stava per protestare, ma in quel momento entrò affannata la badessa. «Il conte Roland chiede di vedere il vicepriore» disse. «Ha minacciato di scendere dal letto, ma non deve assolutamente farlo, in quello stato. Però neanche frate Carlus dovrebbe muoversi...» Godwyn guardò Simeon. «Possiamo andare noi» propose. I due monaci seguirono madre Cecilia su per le scale. Godwyn era soddisfatto: Carlus non aveva avuto il minimo sospetto e si era ritirato di propria iniziativa. A quel punto, restava solo Thomas, che poteva essere eliminato in qualsiasi momento. Il piano era andato straordinariamente bene, almeno fino a quel momento. Il conte Roland era sdraiato supino con la testa fasciata, ma emanava comunque un'aura di potere. Doveva avere appena ricevuto la visita del barbiere, perché era perfettamente rasato e i pochi capelli scuri che gli uscivano dalle bende erano in ordine. Indossava una corta tunica viola e un
paio di calzebrache nuove, una gamba gialla e una rossa, come voleva la moda. Nonostante fosse a letto, aveva il pugnale alla cintola e gli stivali ai piedi. Accanto a lui c'erano il figlio maggiore, William, e sua moglie Philippa. Allo scrittoio poco distante era seduto il giovane segretario del conte, padre Jerome, con l'abito talare. Sul piano erano pronti penna e ceralacca. Il messaggio era chiaro: il conte era di nuovo al comando. «Il vicepriore è qui?» chiese con voce ferma e chiara. Godwyn fu più pronto di Simeon e rispose per primo. «Il vicepriore è caduto e si trova anche lui nell'ospitale, vostra signoria. Io sono il sacrista, Godwyn, e con me c'è il tesoriere, Simeon. Ringraziamo il Signore per la vostra miracolosa guarigione. Dio ha ben guidato la mano dei monaci e delle suore che vi hanno curato.» «È stato il barbiere a operarmi» disse Roland. «Ringraziamo lui.» Siccome il conte era supino e con la testa rivolta al soffitto, Godwyn non gli vedeva bene il volto, ma ebbe la sensazione che avesse un'espressione particolarmente vacua e si domandò se la botta non avesse avuto effetti permanenti. «Avete tutto ciò che vi serve?» gli chiese. «Se così non fosse, lo direi. Ma adesso ascoltate. Mia nipote Margery andrà in sposa al figlio minore di Monmouth, Roger. Presumo che lo sappiate.» «Sì.» Godwyn ricordò la giovane Margery in quella stessa stanza, fra le braccia del cugino Richard, vescovo di Kingsbridge, e con le gambe all'aria. «Le nozze sono state inopinatamente rimandate a causa del mio incidente.» Non era vero, pensò Godwyn, visto che il ponte era crollato soltanto un mese prima. In realtà il conte aveva bisogno di dimostrare che l'incidente non lo aveva piegato e che il suo potere era ancora così forte da valere un'alleanza con il conte di Monmouth. Roland proseguì: «Si terranno nella cattedrale di Kingsbridge fra tre settimane esatte». A rigore, il conte avrebbe dovuto chiedere, non pretendere. Se al suo cospetto ci fosse stato un priore regolarmente eletto, forse si sarebbe risentito di tanta arroganza. Ma il priore non c'era, e in ogni caso Godwyn non vedeva perché Roland non avrebbe dovuto essere accontentato. «Bene, mio signore» disse. «Mi occuperò dei preparativi.» «Voglio che ci sia un nuovo priore a celebrare le nozze» aggiunse Ro-
land. Simeon fece un gemito di sorpresa. Godwyn rifletté che stringere i tempi poteva essere un vantaggio, per lui. «Molto bene» replicò. «Avevamo due candidati, ma oggi il vicepriore Carlus si è ritirato. Resta perciò soltanto frate Thomas, il matricularius. Possiamo tenere le elezioni quando volete.» Non riusciva a credere alla propria fortuna. Simeon sapeva di essere a un passo dalla sconfitta. «Un momento» disse. Ma Roland non lo stava ascoltando. «Non voglio Thomas» dichiarò. Godwyn questa non se l'aspettava. Simeon sorrise, soddisfatto di quell'inatteso sviluppo. Sgomento, Godwyn disse: «Ma, mio signore...». Roland non ammetteva di essere interrotto. «Chiamate mio nipote, Saul Testabianca, da St-John-in-the-Forest» disse. Il cuore di Godwyn si riempì di cattivi presagi: Saul aveva la sua stessa età ed erano stati novizi insieme. Dopo Oxford, le loro strade si erano separate: Saul era diventato sempre più devoto, Godwyn sempre più mondano. Saul era il competente priore del convento sussidiario di St John, prendeva molto sul serio la regola monastica dell'umiltà e non avrebbe mai avanzato la propria candidatura a priore di Kingsbridge. Ma era un frate intelligente, devoto e amato da tutti. «Fatelo venire qui al più presto» ordinò Roland. «Lo nominerò priore di Kingsbridge.» 21 Merthin era seduto sul tetto della chiesa di St Mark, all'estremità settentrionale di Kingsbridge, da cui si vedeva tutta la città. A sudest, dove il fiume formava un'ansa, c'era il priorato, i cui edifici e terreni circostanti, con il cimitero, il mercato, gli orti e i frutteti, occupavano un quarto del territorio cittadino. Al suo interno, la cattedrale si ergeva come una quercia in un campo di ortiche. Merthin riusciva persino a vedere gli inservienti del priorato che raccoglievano gli ortaggi, spalavano il letame e scaricavano botti da un carro. Il centro della città era la zona più ricca, specie lungo la strada principale che saliva dal fiume e seguiva il cammino percorso dai monaci centinaia di anni prima. Alcuni facoltosi mercanti, riconoscibili dalle variopinte giubbe
di lana fine, la percorrevano rapidi, indaffarati come sempre. La intersecava, all'altezza dell'angolo nordoccidentale del priorato, la via maestra, larga ed elegante, che andava da ponente a levante, tagliando in due la città. All'incrocio sorgeva anche il Palazzo delle corporazioni, l'edificio più imponente fuori dalle mura del priorato. I cancelli del priorato si aprivano sulla strada principale, vicino alla locanda Bell e di fronte alla casa di Caris, che era più alta della maggior parte delle altre costruzioni. Fuori dalla locanda, Merthin scorse frate Murdo con un gruppo di persone intorno. Il monaco, che non sembrava legato ad alcun ordine religioso in particolare, era rimasto a Kingsbridge dopo il crollo del ponte. La gente, scossa e afflitta, era particolarmente sensibile ai sermoni infervorati che Murdo pronunciava per strada e lui raccoglieva non poche monete d'argento da mezzo penny e da un quarto. Merthin credeva che fosse un imbroglione e che dietro le sue lacrime di sacra indignazione si celassero cinismo e avidità, ma era uno dei pochi a pensarla così. In fondo alla strada principale spuntavano dall'acqua i resti del ponte, vicino ai quali l'invenzione di Merthin stava traghettando al di là del fiume un carro carico di tronchi d'albero. Nella parte sudoccidentale della città si trovavano macelli, concerie, birrerie, forni e botteghe di ogni tipo, ospitati in grandi edifici su vasti appezzamenti. Era un quartiere troppo sporco e fetido per i cittadini benestanti, ma vi circolava parecchio denaro. Lì il fiume era più ampio e si biforcava in corrispondenza dell'isola dei Lebbrosi. Merthin vide Ian il barcaiolo che remava verso l'isolotto con un monaco a bordo, il quale, probabilmente, portava da mangiare all'unico lebbroso rimasto. Sulla riva meridionale si allineavano banchine e magazzini, di fronte ai quali chiatte e zattere scaricavano le loro merci. Più in là, c'era il sobborgo di Newtown, con le sue file di misere case tra frutteti, pascoli e orti che fornivano cibo ai frati e alle suore. La zona settentrionale della città, dove si ergeva la chiesa di St Mark, ospitava il quartiere più misero, in cui si ammassavano le casupole che davano riparo a braccianti, vedove, anziani e indigenti. St Mark era una chiesa povera e per Merthin questa era una fortuna. Quattro settimane prima, il disperato padre Joffroi gli aveva affidato l'incarico di costruire un argano e riparare il suo tetto. Caris aveva convinto Edmund a prestargli i soldi per comprare gli attrezzi e Merthin aveva assoldato un ragazzo di quattordici anni, Jimmie, per mezzo penny a giornata. Adesso l'argano era finito. Chissà come, si era sparsa la voce che Merthin quel giorno avrebbe pro-
vato un nuovo macchinario. La gente era rimasta impressionata dal traghetto ed era curiosa di vedere la sua nuova invenzione. Così, nel cimitero si era raccolta una piccola folla, per la maggior parte perdigiorno, ma fra loro c'erano anche padre Joffroi, Edmund, Caris e un certo numero di costruttori della città, compreso Elfric. Se la sua macchina avesse fallito, per Merthin sarebbe stato uno smacco di fronte ad amici e nemici. Non solo: quel lavoro, per il momento, gli aveva permesso di non lasciare la città, ma la prospettiva di dover andare altrove in cerca di fortuna era ancora tutt'altro che remota. Se l'argano non avesse funzionato, la gente avrebbe avuto conferma che Merthin era perseguitato dalla sventura. Avrebbe sostenuto che gli spiriti gli erano avversi e l'avrebbe costretto a dire addio a Kingsbridge. E a Caris. In quelle ultime quattro settimane, mentre tagliava il legno e montava i pezzi del suo argano, Merthin per la prima volta in vita sua aveva davvero temuto di perdere Caris, e quel pensiero l'aveva atterrito. La ragazza era la vera fonte di gioia nella sua vita. Se il tempo era bello, voleva passeggiare al sole con lei; appena vedeva qualcosa che gli piaceva, gli veniva voglia di mostrarglielo; quando sentiva qualcosa di divertente, il suo primo pensiero era di riferirglielo per vederla sorridere. Il suo lavoro lo gratificava, soprattutto quando trovava una soluzione ai problemi più difficili, ma era una soddisfazione fredda, cerebrale. Insomma, Merthin sapeva che la sua vita senza Caris sarebbe stata un lungo inverno. Si alzò in piedi. Era venuto il momento di dimostrare la propria bravura. Quello che aveva realizzato era un normale argano, ma con una caratteristica innovativa. Come tutti gli argani, comprendeva una fune e una serie di pulegge. In cima a uno dei muri della chiesa, sul bordo del tetto, Merthin aveva costruito una struttura in legno simile a una forca, con un braccio che si estendeva oltre il tetto. La fune arrivava fino in cima al braccio. All'altra estremità, per terra, c'era una ruota, azionata dal peso di Jimmie, che vi avrebbe camminato dentro, intorno alla quale si avvolgeva la fune. Fin lì, tutto normale. La novità era che nella struttura di legno era incorporato un perno girevole, che permetteva al braccio di muoversi da una parte e dall'altra. Per non fare la fine di Howell Tyler, Merthin si era legato a una solida guglia di pietra con una cinghia che gli passava sotto le ascelle. Se anche avesse perso l'equilibrio, la sua caduta sarebbe stata limitata. Così protetto, aveva tolto le tegole da una parte di tetto e quindi aveva legato la fune dell'argano a una trave.
Merthin chiamò Jimmie. «Aziona la ruota!» gli gridò, poi trattenne il respiro. Era certo che la macchina avrebbe funzionato, ma provava comunque una grande ansia. Jimmie cominciò a camminare dentro la ruota, che poteva girare in una sola direzione a causa di un fermo che premeva sui denti asimmetrici: da una parte i denti erano lievemente inclinati, per consentire al fermo di scivolare lungo la pendenza, dall'altra erano verticali, in maniera da arrestare immediatamente il movimento nella direzione opposta. Quando la ruota cominciò a girare, la trave si sollevò. Non appena fu abbastanza lontana dal tetto, Merthin lanciò un grido. Jimmie smise di camminare, la ruota fu bloccata dal fermo e la trave rimase ondeggiante a mezz'aria. Fino a quel punto era andato tutto liscio. Ma il difficile arrivava proprio adesso. Merthin ruotò l'argano in maniera che il braccio cominciasse a girare e lo osservò, trattenendo il respiro. La struttura era sottoposta a sollecitazioni nuove per il peso del carico che si spostava e cigolò paurosamente. Il braccio fece mezzo giro, spostando la trave sopra il piccolo cimitero della chiesa. Dalla folla si levò un brusio meravigliato: nessuno aveva mai visto un argano girevole. «Falla scendere!» gridò Merthin. Jimmie spostò il fermo e girò la ruota facendo scorrere la fune a poco a poco. Il carico si abbassò a scatti, un piede alla volta. Tutti guardavano in silenzio, ma appena la trave toccò terra si scatenarono gli applausi. Jimmie staccò la trave dalla fune. Merthin si concesse un momento di trionfo: la sua nuova macchina funzionava. Scese la scala fra le grida entusiaste della folla. Caris gli diede un bacio e padre Joffroi gli strinse la mano. «È una meraviglia» esclamò. «Non avevo mai visto una cosa simile!» «Non l'aveva mai vista nessuno» replicò Merthin orgoglioso. «L'ho inventata io.» Molti uomini andarono a fargli i complimenti, fieri di essere stati i primi ad assistere a quella novità. Non Elfric, però, che se ne stava in disparte con aria truce. Merthin finse di non vederlo e disse a padre Joffroi: «Il patto era che mi avreste pagato, se la macchina avesse funzionato». «Lo farò con molto piacere» replicò Joffroi. «Finora ti devo otto scellini,
ma appena potrò, ti pagherò anche perché tu mi tolga le altre travi dal tetto.» Aprì il borsellino e prese un sacchetto pieno di monete. Elfric si intromise. «Un momento!» Tutti si voltarono dalla sua parte. «Non potete pagarlo, padre Joffroi» disse. «Non è un carpentiere qualificato.» Merthin non riusciva a credere alle proprie orecchie: non pagarlo per il suo lavoro sarebbe stata una terribile ingiustizia. Ma evidentemente a Elfric non importava della giustizia. «Sciocchezze!» esclamò Joffroi. «Nessun altro carpentiere di questa città sarebbe in grado di fare quello che ha fatto lui.» «Non fa parte della corporazione, però.» «Volevo entrarci» protestò Merthin. «Ma non mi avete ammesso.» «Ne abbiamo tutti i diritti.» «Secondo me, non è giusto» disse Joffroi «e molti altri qui in città la pensano allo stesso modo. Merthin ha fatto sei anni e mezzo di apprendistato per un tozzo di pane dormendo sul pavimento della cucina, senza paga. Sono anni che fa il lavoro di un carpentiere qualificato. Non avreste dovuto mandarlo via senza dargli nemmeno gli attrezzi.» Si levò un mormorio di assenso. Tutti ritenevano che Elfric avesse esagerato. «Con rispetto parlando» ribatté Elfric «è la corporazione a dover decidere, non voi.» «E va bene» disse il prete incrociando le braccia. «Voi mi diffidate dal pagare Merthin, benché sia l'unico in città a poter riparare la chiesa senza costringermi a chiuderla. Invece io lo pago lo stesso.» Diede le monete a Merthin. «Adesso, se volete, portate la cosa in tribunale.» «Il tribunale del priorato.» Elfric fece una smorfia stizzita. «Quando uno litiga con un prete, avrà forse giustizia in un tribunale di monaci?» Alcuni borbottarono che aveva ragione: sapevano di molti casi in cui il tribunale del priorato era stato troppo parziale nei casi di disputa con il clero. Ma Joffroi non si scompose. «E un apprendista troverà forse giustizia in una corporazione di maestri?» Tutti scoppiarono a ridere, ammirati dall'arguzia del sacerdote. Elfric si incupì. Poteva averla vinta su Merthin, forse, ma non su un prete. Risentito, disse: «È un brutto giorno, per Kingsbridge, quello in cui gli apprendisti sfidano i maestri e i preti danno ragione a loro». Ma, intuendo
di aver perso, si voltò e se ne andò. Merthin era felice di aver ricevuto le sue monete: otto scellini, novantasei penny d'argento, due quinti di sterlina. Avrebbe dovuto contarle, lo sapeva, ma in quel momento era troppo felice per pensarci. Aveva guadagnato la sua prima paga. Si voltò verso Edmund. «Questi sono vostri» gli disse. «Per ora dammi cinque scellini, gli altri me li darai poi» replicò questi magnanimo. «Tieni qualcosa per te. Te lo meriti.» Merthin sorrise. Gli sarebbero rimasti tre scellini, e non aveva mai avuto tanti soldi in vita sua. Non sapeva che cosa farne. Magari avrebbe comprato una gallina per sua madre. Era mezzogiorno e la folla cominciò a disperdersi; tutti tornavano a casa a mangiare, e Merthin andò con Caris e Edmund. Sentiva finalmente di avere davanti a sé un futuro radioso. Si era dimostrato un valido carpentiere e pochi avrebbero esitato a dargli lavoro, dopo che padre Joffroi gli aveva concesso la sua fiducia. Poteva guadagnarsi da vivere e presto sarebbe riuscito ad avere una casa tutta sua. E a sposarsi. Petranilla li stava aspettando. Mentre Merthin contava cinque scellini per Edmund, mise in tavola pesci cotti al forno con erbe aromatiche, che mandavano un profumo delizioso. Per festeggiare il trionfo di Merthin, Edmund versò del vino dolce della Renania per tutti, poi, guardando già al futuro, disse: «Dobbiamo pensare al nuovo ponte, adesso. Ormai sono passate cinque settimane e non si è fatto ancora niente». «Ho sentito che il conte si sta ristabilendo in fretta» osservò Petranilla «quindi è probabile che i monaci presto eleggeranno il nuovo priore. Devo chiedere a Godwyn. Non lo vedo da ieri, da quando Carlus il cieco è caduto durante la processione.» «Vorrei avere pronto il progetto» disse Edmund. «I lavori potrebbero cominciare subito dopo l'elezione del priore.» Merthin si incuriosì. «Che cosa avete in mente?» «Voglio un ponte di pietra, abbastanza largo perché vi passino due carri per volta.» Merthin annuì. «Con una rampa a ciascuna estremità, in maniera che la gente possa scendere dal ponte sulla terra asciutta, non in un pantano.» «Giusto!» «Ma come si fa a erigere una costruzione di pietra nell'acqua?» domandò
Caris. Edmund rispose: «Non lo so, ma dev'essere possibile. Esistono tantissimi ponti di pietra». «Ho sentito che bisogna costruire dei cassoni di fondazione» disse Merthin. «Sono strutture speciali per tenere lontana l'acqua dal cantiere. Non è difficile, credo, ma occorre stare attenti che siano a tenuta idraulica.» In quel momento arrivò Godwyn, con l'aria preoccupata. In teoria non gli era concesso andare in visita in città e poteva lasciare il priorato solo per svolgere incarichi specifici. Merthin si chiese che cosa potesse essere successo. «Carlus non vuole farsi eleggere priore» annunciò il sacrista. «Che bella notizia!» esclamò Edmund. «Bevi una coppa di vino.» «Aspettate a festeggiare» disse Godwyn. «E perché? L'unico altro candidato è Thomas, che è d'accordo perché venga costruito un nuovo ponte. Il nostro problema è risolto.» «Thomas non è più l'unico altro candidato. Il conte vuole nominare Saul Testabianca.» «Ah.» Edmund era pensoso. «Ed è una brutta notizia?» «Sì. Saul è molto amato e a St-John-in-the-Forest si è dimostrato un priore competente. Se accetta la nomina, prenderà i voti di quelli che prima sostenevano Carlus. Questo significa che potrebbe vincere. A quel punto, essendo stato nominato dal conte, di cui peraltro è nipote, presumibilmente farà quello che lui vorrà. E il conte potrebbe ostacolare la costruzione del nuovo ponte, in quanto toglierebbe lavoro al mercato di Shiring.» Edmund aveva un'espressione preoccupata. «Possiamo fare qualcosa?» «Spero di sì. Bisogna che qualcuno vada a St John a informare Saul e ad accompagnarlo a Kingsbridge. Mi sono offerto di andarci io. Spero di riuscire a convincerlo a rifiutare.» Intervenne Petranilla: «Non è detto che questo risolva il problema». Merthin prestò attenzione: Petranilla non gli piaceva, ma era una donna intelligente. «Il conte potrebbe nominare un altro candidato. Qualsiasi priore eletto con il suo sostegno si opporrebbe alla costruzione del ponte.» Godwyn assentì. «Quindi, anche supposto che io riesca a tenere fuori Saul, dobbiamo fare in modo che il conte scelga qualcuno che poi non venga eletto.» «Hai in mente qualcuno?» gli chiese sua madre. «Frate Murdo.» «Giusto.»
«Ma è un uomo terribile!» esclamò Caris. «Appunto» replicò Godwyn. «Avido, ubriacone, parassita e attaccabrighe: i monaci non lo voteranno mai. Per questo vogliamo che il conte lo nomini.» Godwyn era come sua madre, pensò Merthin, bravissimo a ordire complotti. «Come procediamo, allora?» chiese Petranilla. «Prima di tutto dobbiamo convincere Murdo a candidarsi.» «Non sarà difficile. Basterà dirgli che ha la possibilità di essere eletto. Fare il priore non gli dispiacerebbe certo.» «È vero. Ma non posso farlo io, perché si insospettirebbe. Sanno tutti che sostengo Thomas.» «Gli parlerò io» si offrì Petranilla. «Gli dirò che tu e io la vediamo diversamente, che io non voglio Thomas come priore. Gli dirò che il conte sta cercando qualcuno da nominare e che lui potrebbe essere la persona giusta. In città è benvisto, soprattutto dai poveri e dagli ignoranti, che lo credono uno di loro. Per farsi appoggiare dal conte dovrà soltanto fargli capire chiaramente di essere disponibile a fare quello che vuole lui.» «Molto bene.» Godwyn si alzò in piedi. «Cercherò di essere presente quando Murdo parlerà con Roland.» Diede un bacio sulla guancia alla madre e se ne andò. Merthin finì il pesce e mangiò la fetta di pane raffermo che aveva usato come piatto, intrisa di sugo. Edmund gli offrì un'altra coppa di vino, ma lui rifiutò, per non rischiare di cadere dal tetto della chiesa di St Mark quel pomeriggio. Poi Petranilla andò in cucina, Edmund si ritirò nella saletta per un pisolino e Merthin e Caris rimasero soli. Lui andò a sederlesi accanto e la baciò. «Sono fiera di te» gli disse lei. Merthin si illuminò. Anche lui si sentiva orgoglioso. La baciò di nuovo, a lungo, e le sfiorò il seno sopra la camiciola, soffermandosi a strizzarle dolcemente un capezzolo. Questo lo fece eccitare. Caris gli accarezzò il pube e ridacchiò nel sentire che aveva un'erezione. «Vuoi che ti faccia venire?» gli sussurrò. Lo faceva la sera tardi, di solito, quando suo padre e Petranilla erano a dormire e lei e Merthin rimanevano da soli al pianterreno. Adesso, però, era pieno giorno e qualcuno poteva sorprenderli. «No!» disse lui. «Faccio presto» bisbigliò lei, continuando ad accarezzarlo. «Mi vergogno.» Merthin si alzò e tornò a sedersi dall'altra parte del ta-
volo. «Scusa.» «Be', fra poco non dovremo più comportarci così.» «Così come?» «Nasconderci, preoccuparci che entri qualcuno...» Caris fece una faccia offesa. «Non ti piace più?» «Certo che mi piace! Però vorrei che fossimo soli. Adesso che vengo pagato, posso pensare di prendermi una casa.» «Sei stato pagato una volta soltanto.» «Sì, ma... perché sei così pessimista, tutto d'un tratto? Ho detto qualcosa di sbagliato?» «No, però... Per quale motivo vuoi cambiare le cose?» Merthin rimase sconcertato dalla domanda. «Vorrei solo che potessimo fare queste cose quando ne abbiamo voglia, senza nessuno intorno.» Caris gli lanciò uno sguardo di sfida. «Io sono felice così.» «Anch'io. Ma niente dura in eterno.» «Perché no?» Gli sembrava di avere a che fare con una bambina piccola. «Non possiamo abitare con i genitori e baciarci di nascosto per tutta la vita. Dobbiamo andare a stare per conto nostro, vivere come marito e moglie, dormire insieme tutte le notti, fare l'amore come si deve e mettere su famiglia.» «Perché?» domandò lei. «Non lo so perché» esclamò lui esasperato. «Perché è così che si fa. Basta, non te lo voglio più spiegare. Sono convinto che tu non voglia capire. O forse fai finta.» «Va bene.» «E poi devo andare a lavorare.» «Vai, allora.» Era inconcepibile: erano sei mesi che Merthin si tormentava al pensiero di non poter sposare Caris e dava per scontato che anche lei non vedesse l'ora di andare a vivere con lui. Invece non era così. Anzi, era irritata che lui lo desse per scontato. Pensava seriamente di poter continuare così, come se fossero ancora due ragazzini? La guardò, cercando di leggerle negli occhi quello che pensava, ma Caris aveva l'espressione ostinata. Merthin si voltò e uscì. Fuori di casa, si fermò un istante. Forse sarebbe dovuto tornare da Caris e chiederle che cosa le passava per la mente. Ricordando la sua espressio-
ne, però, decise che non era il momento adatto. Così si incamminò verso la chiesa di St Mark. Com'era possibile che quel giorno meraviglioso fosse di colpo diventato tanto triste. 22 Godwyn stava preparando la cattedrale di Kingsbridge per la sontuosa cerimonia nuziale: la chiesa doveva essere perfetta. Oltre al conte di Monmouth e al conte di Shiring, ci sarebbero stati diversi baroni e centinaia di cavalieri. Bisognava sostituire le pietre rotte nel pavimento, riparare i muri scheggiati e le modanature più deteriorate, imbiancare le pareti, verniciare i pilastri e pulire tutto da cima a fondo. «Voglio anche che siano portati a termine i lavori nel lato sud del presbiterio» disse a Elfric, mentre camminavano per la chiesa. «Non credo che sarà possibile...» «È indispensabile. Non possiamo celebrare un matrimonio tanto importante con le impalcature nel presbiterio.» Godwyn vide che Philemon gli faceva cenni concitati di avvicinarsi alla porta del transetto sud. «Scusami.» «Non ho abbastanza uomini!» gli gridò dietro Elfric. «Non licenziarli tanto facilmente, allora» replicò Godwyn, senza nemmeno voltarsi. Philemon sembrava eccitato. «Frate Murdo ha chiesto di vedere il conte» annunciò. «Bene.» Petranilla aveva parlato con il frate la sera prima e quella mattina Godwyn aveva incaricato Philemon di appostarsi nei pressi dell'ospitale e avvertirlo se Murdo fosse andato a fare visita a Roland. Sapeva che non avrebbe atteso a lungo. Si affrettò a raggiungerlo, seguito da Philemon, e tirò un sospiro di sollievo nel vedere che il frate non era ancora stato ricevuto e aspettava nella grande sala a pianterreno. Per l'occasione, Murdo si era dato una rassettata, si era pettinato i capelli intorno alla tonsura e aveva pulito le macchie più grosse dalla tonaca. Non aveva certo l'aspetto del priore, ma sembrava quasi un monaco. Godwyn lo ignorò e salì di sopra. Di guardia davanti alla camera del conte c'era il fratello di Merthin, Ralph, che era uno degli scudieri di Roland. Era un bell'uomo, a parte il naso, che gli era stato rotto di recente. Gli scudieri subivano spesso fratture e lesioni varie. «Salute a te, Ralph» disse
Godwyn in tono cordiale. «Che cosa ti è successo al naso?» «Ho fatto a pugni con un bastardo di un contadino.» «Dovresti fartelo mettere a posto. Il frate è arrivato?» «Sì. Gli è stato detto di aspettare.» «Chi c'è con il conte?» «Padre Jerome, il suo segretario, e lady Philippa.» «Domandagli se può ricevermi.» «Lady Philippa non vuole che il conte veda nessuno.» Godwyn gli sorrise, da uomo a uomo. «Lady Philippa è soltanto una donna.» Ralph gli restituì il sorriso, aprì la porta e fece capolino nella stanza. «Frate Godwyn, il sacrista?» chiese. Dopo un momento di silenzio, lady Philippa uscì e si chiuse la porta alle spalle. «Ho detto niente visite. Il conte Roland deve riposare.» «Lo so, mia signora» disse Ralph «ma frate Godwyn non lo disturberebbe, se non fosse assolutamente necessario.» Lo disse in un tono tale che Godwyn si voltò a osservarlo e vide che aveva un'espressione adorante. Guardando Philippa, il frate si rese conto solo allora che era molto bella. Indossava un abito rosso scuro con una cintura in vita, che metteva in risalto le curve del seno e dei fianchi. Una vera tentazione, pensò, e per l'ennesima volta si ripromise di trovare il modo per vietare l'ingresso alle femmine nel priorato. Era già abbastanza grave che a innamorarsi di una donna sposata fosse uno scudiero; se fosse capitato a un monaco, sarebbe stata una catastrofe. «Mi dispiace dover disturbare il conte» disse. «Ma di sotto c'è un frate che desidera vederlo.» «Lo so: Murdo. È una cosa tanto urgente?» «Al contrario. Ma è meglio che avverta il conte e gli spieghi che cosa deve aspettarsi.» «Dunque, tu sai che cosa ha intenzione di dirgli il frate?» «Ritengo di sì.» «Be', forse è meglio che vediate il conte insieme.» Godwyn disse: «Ma...» Poi finse di trattenersi dal protestare. Philippa si rivolse a Ralph. «Di' al frate di salire, per cortesia.» Ralph andò a chiamare Murdo e Philippa fece entrare i due frati nella stanza del conte. Roland era a letto, completamente vestito, ma questa volta era seduto, con la testa fasciata appoggiata ai guanciali di piuma. «Cosa c'è?» doman-
dò, nel suo solito tono brusco. «Una riunione del capitolo? Che cosa volete da me?» Godwyn lo vedeva in faccia per la prima volta dopo il crollo del ponte e rimase di sasso nel constatare che aveva la parte destra del viso completamente paralizzata: l'occhio era semichiuso, la guancia si muoveva appena e la bocca aveva una strana piega. A rendere ancora più inconsueto l'effetto, il lato sinistro della faccia si muoveva animatamente. Quando parlava, il conte aggrottava il sopracciglio sinistro, spalancava un occhio solo e parlava con autorevolezza a mezza bocca. Godwyn era colpito: sapeva che le ferite alla testa potevano avere effetti imprevedibili, ma non aveva mai visto una cosa simile. «Non mi fissate» ordinò seccato il conte. «Sembrate due vacche inebetite che sbirciano da sopra una siepe. Parlate: che cosa volete?» Godwyn si fece coraggio: doveva usare la massima cautela. Sapeva che Roland non vedeva Murdo di buon occhio, ma doveva convincerlo che era l'alternativa migliore a Saul Testabianca come candidato alla carica di priore. Paradossalmente, l'avrebbe fatto obiettando alla sua nomina. In questo modo, Roland avrebbe dedotto che Murdo non era in combutta con i monaci e sarebbe stato fedele a lui soltanto. Il suo scopo era quello, in fondo. D'altra parte, Godwyn doveva stare attento a non sbilanciarsi troppo, altrimenti il conte avrebbe capito il suo gioco. Insomma, non aveva un compito facile. Murdo prese la parola per primo e tuonò, quasi fosse sul pulpito: «Mio signore, sono venuto a chiedervi di prendermi in considerazione come futuro priore di Kingsbridge. Credo che...». «Parla più piano, per tutti i santi del paradiso!» protestò Roland. Murdo abbassò la voce: «Mio signore, credo che...». «Perché vuoi diventare priore?» domandò Roland, interrompendolo di nuovo. «Credevo che voi frati minori foste per definizione monaci senza chiesa.» Era un'opinione superata, in realtà. In origine, infatti, i frati minori non avevano possedimenti terreni né fissa dimora, ma ormai alcuni dei loro ordini erano ricchi come quelli dei monaci tradizionali. Roland lo sapeva, ma voleva essere provocatorio. Murdo rispose: «Credo che Dio accolga tutt'e due le forme di sacrificio». «Dunque, sei pronto a cambiare abito.» «Sono giunto alla conclusione che i talenti che il Signore mi ha dato sarebbero più utili in un priorato. Perciò, sì, sarei felice di abbracciare la regola benedettina.»
«E perché io dovrei appoggiarti?» «Sono anche prete.» «Mi sembra che di preti ce ne siano già abbastanza.» «E ho un certo seguito a Kingsbridge e dintorni. Tale da potermi definire, senza falsa modestia, l'uomo di Dio più influente della regione.» Padre Jerome intervenne per la prima volta. Era un giovane sicuro di sé, con lo sguardo intelligente. Godwyn pensò che doveva essere un uomo molto ambizioso. «È vero» disse. «Frate Murdo è molto benvisto.» Non fra i monaci, naturalmente, ma questo non lo sapevano né Roland né Jerome, e Godwyn non aveva alcuna intenzione di dirglielo. E neanche Murdo, questo era chiaro. Chinò il capo e disse, viscido: «Grazie di cuore, padre Jerome». «È molto benvisto dal popolo ignorante» precisò Godwyn. «Come il Salvatore» aggiunse prontamente Murdo. «I monaci dovrebbero condurre una vita di povertà e sacrificio» dichiarò Godwyn. «A giudicare dall'abito che porta, mi sembra abbastanza povero» osservò Roland. «Quanto alla vita di sacrifici, ho l'impressione che i monaci di Kingsbridge mangino meglio di molti contadini.» «Frate Murdo è stato visto ubriaco in molte taverne!» protestò Godwyn. «La regola benedettina non proibisce ai monaci di bere vino» ribatté Murdo. «Solo se malati, o quando lavorano nei campi.» «Io predico nei campi.» Godwyn notò che frate Murdo era un ottimo avversario, in quanto a oratoria. Nel caso specifico, tuttavia, era una buona cosa. Si voltò verso Roland. «In veste di sacrista del priorato, posso solo dirvi che vi sconsiglio vivamente di nominare Murdo priore di Kingsbridge.» «Ne terrò conto» replicò Roland gelido. Philippa lanciò a Godwyn un'occhiata sorpresa e lui si rese conto che aveva capitolato troppo in fretta. Roland, però, non se ne era accorto: non era uomo che prestasse attenzione alle sfumature. Murdo non aveva finito. «Il priore di Kingsbridge deve servire Dio, naturalmente, ma nelle faccende temporali deve farsi guidare dal re e dai conti e baroni suoi sudditi.» Godwyn pensò che Murdo non avrebbe potuto essere più chiaro: praticamente aveva detto a Roland che avrebbe fatto tutto quello che il conte desiderava. I monaci sarebbero inorriditi e non l'avrebbero mai sostenuto.
Godwyn non fece commenti, ma Roland lo guardò incuriosito. «Vuoi aggiungere ancora qualcosa, sacrista?» «Sono certo che il frate non intendeva dire che il priorato di Kingsbridge deve sottomettersi al conte di Shiring, neppure nelle faccende temporali. Vero, Murdo?» «Volevo dire quel che ho detto» ribadì Murdo, nel tono che usava dal pulpito. «Basta così» tagliò corto Roland, annoiato. «State perdendo il vostro tempo, tutti e due. Io nominerò Saul Testabianca. Andate, ora.» St-John-in-the-Forest era una versione in miniatura del priorato di Kingsbridge. Chiesa, chiostro e dormitorio erano edifici in pietra di piccole dimensioni e le restanti costruzioni semplici baracche di legno. Non c'erano suore e i monaci erano soltanto otto. Conducevano una vita di preghiera e meditazione, si mantenevano con i loro raccolti e producevano un formaggio di capra che era famoso in tutto il Sudovest dell'Inghilterra. Godwyn e Philemon arrivarono in vista del monastero in serata, dopo due giorni di viaggio. Quando la strada emerse dalla foresta, si trovarono davanti un vasto terreno diboscato con al centro la chiesa. Godwyn capì subito che le sue paure erano fondate e che le voci sul conto di Saul Testabianca erano veritiere: doveva essere un ottimo priore, perché ordine e pulizia regnavano sovrani. Le siepi erano perfettamente tosate, i canali drittissimi, gli alberi da frutto in filari allineati, i campi di grano privi di erbacce. Sicuramente le funzioni erano puntuali e seguite con devozione. L'unica speranza era che Saul non fosse un uomo ambizioso. Mentre cavalcavano lungo il sentiero che si snodava fra i campi, Philemon chiese: «Perché il conte vuole suo nipote alla guida del priorato di Kingsbridge?». «Per gli stessi motivi per cui ha voluto il figlio minore vescovo di Kingsbridge» replicò Godwyn. «Vescovi e priori sono potenti e il conte desidera che gli uomini più influenti della regione siano suoi alleati, non nemici.» «Su cosa potrebbero non essere d'accordo?» Godwyn sorrise al pensiero che il giovane Philemon stava iniziando a interessarsi di politica e potere. «Terre, imposte, diritti, privilegi... Per esempio, il priore potrebbe volere la costruzione di un nuovo ponte per portare più gente alla fiera della lana di Kingsbridge, mentre il conte potrebbe opporsi per non correre il rischio che la sua fiera a Shiring ne risenta.»
«Non vedo come il priore possa mettersi contro il conte, però. Non ha soldati...» «Gli uomini di Chiesa hanno grande influenza sulle masse. Se predicano contro il conte, o pregano perché qualche santo interceda contro di lui, il popolo prima o poi si convince che il conte è maledetto e gli dà sempre meno potere e fiducia. Può essere assai difficile per un nobile avere contro un religioso molto determinato. Basti pensare a cosa successe a re Enrico II dopo l'assassinio di Thomas Becket.» Godwyn e Philemon entrarono nella corte e scesero da cavallo, lasciando che le bestie si dissetassero all'abbeveratoio. In giro non c'era nessuno, a parte un monaco con il saio alzato, che puliva il porcile dietro le stalle. Doveva essere uno degli ultimi arrivati, visto che svolgeva quella mansione. Godwyn lo chiamò. «Ehi, fratello! Vieni ad aiutarci con i cavalli.» «Arrivo!» rispose il monaco. Diede le ultime passate con il rastrello e lo appoggiò al muro della stalla. Poi si diresse verso di loro. Godwyn stava per dirgli di sbrigarsi, ma riconobbe appena in tempo la frangia bionda di Saul. La sua disapprovazione era totale: a suo parere, un priore non doveva abbassarsi a pulire il recinto dei maiali. Quell'ostentazione di umiltà era, per l'appunto, un'ostentazione. In ogni caso, per i suoi scopi, era meglio che Saul praticasse la virtù dell'umiltà. Godwyn lo accolse con un sorriso. «Salute, fratello. Non era mia intenzione ordinare al priore di togliere la sella al mio cavallo.» «E perché no?» chiese Saul. «Qualcuno deve pur farlo, e voi avete viaggiato tutto il giorno.» Saul condusse i cavalli nella stalla. «I confratelli sono tutti nei campi» spiegò. «Torneranno a momenti per il vespro.» Uscì di nuovo dalla stalla. «Venite in cucina.» I due non erano mai stati amici e Godwyn interpretava la devozione di Saul come un'implicita critica nei suoi confronti. Saul non era mai stato scortese ma, con quieta determinazione, si comportava semplicemente in modo molto diverso da lui. Si impose di mantenere la calma e di non irritarsi. I tre monaci si avviarono verso una costruzione di legno con il tetto piuttosto alto e un camino di pietra. Entrarono e si sedettero su una ruvida panca accanto a un vecchio tavolo. Saul versò due generose coppe di birra per i suoi ospiti e si sedette di fronte a loro. Philemon bevve avidamente, ma Godwyn si trattenne, perché
Saul non aveva offerto nulla da mangiare: probabilmente non avrebbero messo qualcosa sotto i denti fino a dopo la preghiera serale. Peraltro, era talmente nervoso che non sarebbe riuscito a mandare giù niente. Era un altro momento delicato, pensò Godwyn agitato: prima aveva dovuto protestare contro la nomina di Murdo in maniera tale da non dissuadere Roland, adesso doveva presentare la situazione a Saul in modo da indurlo a rifiutare la carica. Sapeva che cosa dire, ma doveva scegliere le parole con cura. Al primo passo falso, Saul si sarebbe insospettito. E allora chissà che cosa sarebbe successo. Saul non gli diede il tempo di lasciarsi prendere dall'ansia. «Che cosa ti porta qui, fratello?» domandò. «Il conte Roland è guarito.» «Che Dio sia lodato.» «Ciò significa che possiamo eleggere il nuovo priore.» «Bene. Non bisogna andare avanti troppo tempo senza un priore.» «Chi eleggiamo, però?» Saul aggirò la domanda. «Ci sono candidati?» «Frate Thomas, il matricularius.» «Sarebbe un ottimo amministratore. Nessun altro?» Godwyn azzardò una mezza verità: «Non ufficialmente». «E Carlus? Quando sono venuto a Kingsbridge per il funerale del priore Anthony, sembrava che dovesse essere lui a succedergli.» «Non si sente adeguato all'incarico.» «Per via della cecità?» «Forse.» Saul non sapeva che Carlus era caduto durante la processione in onore di sant'Adolfo e Godwyn preferiva non dirglielo. «Ha riflettuto e pregato molto, dopodiché ha preso la sua decisione.» «Il conte non ha fatto nomi?» «Sta riflettendo» rispose Godwyn esitante. «Per questo siamo qui. Il conte pensava di nominare te.» Non era propriamente una bugia, si disse Godwyn: solo un modo diverso per affermare lo stesso concetto. «Sono onorato.» Godwyn lo studiò. «Ma non del tutto sorpreso. O sbaglio?» Saul arrossì. «Chiedo venia. Il grande Philip è stato prima priore qui e poi a Kingsbridge, e così diversi altri. Non che io sia degno quanto loro, naturalmente. Ma confesso che il pensiero mi è venuto.» «Non c'è nulla di cui vergognarsi. Ti piacerebbe candidarti, dunque?» «Perché me lo chiedi?» domandò Saul, perplesso. «Che mi piaccia o no
poco importa. Se il conte lo desidera, mi candiderà. E se i miei confratelli mi vogliono, mi voteranno. Io sono un semplice servitore di Dio.» Non era quella la risposta in cui Godwyn sperava. Bisognava che Saul prendesse una decisione: parlare del volere di Dio era soltanto controproducente. «Non è così semplice» disse. «Non devi per forza accettare la candidatura. Per questo il conte mi ha mandato a parlarti.» «Non è da Roland chiedere: lui ordina e basta.» Godwyn si trattenne a stento dal fare una smorfia: non doveva dimenticare quanto era acuto Saul. Ritornò velocemente sui suoi passi. «No, infatti. Tuttavia, se pensi di rifiutare, deve saperlo il prima possibile, per poter avanzare un'altra candidatura.» Probabilmente era vero, anche se Roland non ne aveva parlato. «Non credevo funzionasse così.» Infatti non funzionava così, pensò Godwyn. Ma disse: «La scorsa volta, quando venne eletto padre Anthony, tu e io eravamo novizi e non sapevamo nulla di quanto succedeva». «È vero.» «Pensi di avere le capacità per ricoprire la carica di priore a Kingsbridge?» «Certo che no.» «Ah.» Godwyn si finse deluso. In verità sperava con tutto il cuore che Saul gli desse quella risposta. «Però...» «Però?» «Con l'aiuto di Dio, tutto è possibile.» «Parole sante.» Godwyn nascose la propria irritazione. Quell'umile risposta era solo una formalità: in verità Saul si riteneva all'altezza. «Naturalmente, dovrai rifletterci. E pregare.» «Sono sicuro che non penserò ad altro.» In quel momento udirono delle voci in lontananza. «I confratelli stanno tornando dal lavoro.» «Ne riparleremo domattina, allora» disse Godwyn. «Se decidessi di accettare, dovresti venire a Kingsbridge con noi.» «Benissimo.» Il pericolo che Saul accettasse era tutt'altro che remoto, pensò Godwyn. Tuttavia, aveva ancora una freccia al proprio arco. «C'è una cosa di cui dovresti tenere conto nelle tue preghiere» aggiunse. «I nobili non danno mai niente per niente.» Saul assunse un'espressione preoccupata. «Che cosa intendi dire?»
«Conti e baroni dispensano titoli, terre, cariche, monopoli... ma sempre a un prezzo.» «Nel caso specifico?» «Se verrai eletto, Roland vorrà essere ricompensato. Sei suo nipote, è lui che ha fatto il tuo nome. Sarai la sua voce nel capitolo, dovrai assicurargli che il priorato non faccia nulla che vada contro i suoi interessi.» «È una condizione esplicita legata alla nomina?» «No, esplicita no. Ma quando verrai a Kingsbridge con noi, il conte ti farà delle domande, per valutare le tue intenzioni. Se ti dichiarerai indipendente, se vedrà che non hai intenzione di favorirlo in quanto tuo zio e sostenitore, nominerà qualcun altro.» «A questo non avevo pensato.» «Naturalmente, potrai dargli le risposte che vuole sentire e poi fare di testa tua dopo l'elezione.» «Sarebbe disonesto.» «Per alcuni, forse.» «Per Dio sicuramente.» «Un motivo in più per rifletterci.» Un gruppo di monaci entrò in cucina. Erano ancora infangati per avere lavorato nei campi e parlavano animatamente. Saul si alzò per versare loro da bere e Godwyn notò che era turbato. Gli parve pensieroso anche quando si ritirarono per il vespro nella chiesetta con l'affresco del giorno del Giudizio sopra l'altare e in seguito, quando venne servita la cena e Godwyn poté assaporare il delizioso formaggio di capra per cui il convento era rinomato. Quella notte Godwyn non dormì, nonostante la stanchezza dei due giorni di viaggio. Aveva posto Saul di fronte a un dilemma morale. Molti monaci avrebbero cercato di rassicurare il conte Roland lasciandogli intendere di essere più bendisposti di quanto fossero realmente, ma Saul era diverso. Lui teneva molto agli imperativi morali. Sarebbe riuscito a sciogliere il dilemma e ad accettare la nomina? Godwyn pensava proprio di no. E infatti, anche il mattino dopo, quando i monaci si alzarono per le laudi, Saul aveva l'aria turbata. Dopo la colazione, gli annunciò la propria intenzione di rifiutare la nomina. Godwyn non riusciva ad abituarsi alla faccia del conte Roland. Era di una stranezza inaudita. Il conte portava un copricapo per nascondere le
bende ma, quanto più normale si sforzava di sembrare, tanto più risaltava la paralisi alla parte destra del volto. Sembrava anche di umore più cupo del solito. Forse soffriva ancora di terribili mal di testa. «Dov'è mio nipote Saul?» domandò, vedendo entrare Godwyn. «È rimasto al convento di St John, mio signore. Gli ho portato il vostro messaggio...» «Messaggio? Era un ordine!» Lady Philippa, accanto al letto, gli sussurrò: «Non agitarti. Sai che ti fa male». «Frate Saul ha semplicemente detto di non potere accettare la nomina» spiegò Godwyn. «E perché diavolo non può?» «Ha riflettuto e pregato...» «Certo che ha pregato: non è questo che fanno i monaci? Che motivi ha addotto per contraddire il mio volere?» «Non si sente all'altezza di un incarico tanto difficile.» «Sciocchezze. Perché mai sarebbe difficile? Non gli ho chiesto di guidare mille cavalieri in battaglia, ma solo di far cantare inni a un po' di monaci alle giuste ore del giorno.» Era una sciocchezza, e Godwyn si limitò a chinare il capo senza ribattere. Il tono del conte cambiò di colpo. «Adesso ho capito chi sei. Sei il figlio di Petranilla, vero?» «Sì, mio signore.» "Quella Petranilla che hai piantato in asso" pensò Godwyn. «Era una donna astuta e immagino che tu non sia da meno. Come faccio a sapere che non hai convinto Saul a non accettare? Tu vuoi che diventi priore Thomas Langley, dico bene?» "Ho piani ben più ambiziosi, sciocco che non sei altro" disse fra sé Godwyn e poi, a voce alta: «Saul mi ha chiesto che cosa potreste volere voi in cambio della sua nomina». «Ah, ecco. E tu che cosa gli hai risposto?» «Che vi aspettate che vi presti ascolto, in quanto siete un conte, suo zio e suo sostenitore.» «E lui è stato troppo cocciuto per accettarlo, presumo. Va bene, ho capito, nominerò quel grassone di un frate. Adesso vattene.» Godwyn dovette stare attento a non mostrare quanto fosse contento. Chinò la testa e uscì. La penultima fase del suo piano aveva funzionato alla
perfezione. Il conte Roland non sospettava minimamente di essere stato raggirato. Adesso occorreva passare alla fase finale. Uscì dall'ospitale ed entrò nel chiostro. Era l'ora dedicata allo studio, prima della funzione di sesta, a mezzogiorno, e quasi tutti i monaci erano intenti a leggere, ad ascoltare le letture degli altri o a meditare. Godwyn vide Theodoric, il suo giovane alleato, e lo chiamò a sé con un cenno del capo. A voce bassissima gli disse: «Il conte Roland nominerà frate Murdo. Vuole che diventi lui priore». Theodoric rimase sbigottito. «Che cosa?» esclamò ad alta voce. «Sst.» «Ma è impossibile!» «Lo so.» «Nessuno voterà per lui.» «Per questo sono soddisfatto.» Theodoric finalmente capì. «Ah, be'... certo! Dunque per noi è una buona notizia.» Godwyn si domandò come mai gli toccasse sempre spiegare certe cose anche ai più intelligenti. Sembrava che nessuno, a parte lui e sua madre, sapesse vedere oltre la superficie delle cose. «Spargi la voce in giro, senza farti vedere troppo indignato. Si arrabbieranno anche senza incoraggiamento.» «Devo dire che è una svolta positiva per Thomas?» «No di certo.» «Va bene» assentì Theodoric. «Capisco.» Evidentemente non aveva capito nulla, invece, ma Godwyn era sicuro che avrebbe comunque seguito le sue istruzioni. Si congedò da lui e andò a cercare Philemon. Lo trovò che spazzava il refettorio. «Sai dov'è Murdo?» gli chiese. «Sarà in cucina.» «Vallo a cercare e dagli appuntamento nella casa del priore all'ora di sesta, quando tutti saranno in chiesa a pregare. Non voglio che vi vedano insieme.» «D'accordo. Che cosa gli devo dire?» «Prima di tutto, digli: "Frate Murdo, nessuno deve sapere quel che vi rivelerò". È chiaro?» «"Nessuno deve sapere quel che vi rivelerò." Sì, va bene.» «Poi fagli vedere l'atto della regina. Ti ricordi dov'è, vero? Nella camera
da letto, dietro l'inginocchiatoio, c'è un baule con dentro una borsa rossiccia.» «È tutto?» «Fagli notare che le terre che Thomas ha portato al priorato in origine appartenevano alla regina Isabella e che questo fatto è rimasto segreto per dieci anni.» Philemon sembrava confuso. «Ma noi non sappiamo che cosa stia nascondendo Thomas.» «No, ma c'è sempre un motivo per tenere un segreto.» «Non pensi che Murdo userà queste informazioni contro di lui?» «Certamente.» «Che cosa farà?» «Non lo so ma, qualsiasi cosa faccia, sono certo che andrà a scapito di Thomas.» Philemon aggrottò la fronte. «Pensavo che noi fossimo dalla sua parte.» Godwyn sorrise. «Questo è ciò che pensano tutti.» Suonò la campana per la preghiera di mezzogiorno. Philemon andò a cercare Murdo e Godwyn si unì agli altri monaci in chiesa. Unendosi al coro, recitò: «Signore, vieni in mio aiuto, Signore, affrettati ad aiutarmi» con insolito fervore. Nonostante si fosse mostrato sicuro di sé in presenza di Philemon, sapeva infatti di correre un grosso rischio. Aveva puntato tutto sul segreto di Thomas, ma non sapeva come sarebbe andata a finire. Il suo piano aveva funzionato: i monaci sembravano agitatissimi. Inquieti, parlottavano fra loro, tanto che Carlus dovette richiamarli due volte durante i Salmi. Provavano antipatia per i frati minori in generale, che si credevano superiori perché non avevano possedimenti terreni e poi vivevano alle spalle degli altri, ma soprattutto per Murdo, che era pomposo, ubriacone e arrogante. Avrebbero votato chiunque, pur di non avere lui come priore. Uscendo dalla chiesa dopo la funzione, Simeon disse a Godwyn: «Non possiamo far eleggere frate Murdo». «Sono d'accordo con te.» «Carlus e io abbiamo deciso di non proporre un altro nome: se sembreremo divisi, il conte imporrà il suo candidato. Appoggeremo Thomas, dunque. Se dimenticheremo le nostre differenze, mostrandoci uniti, il conte farà più fatica a opporsi a noi.» Godwyn si fermò e lo guardò negli occhi. «Grazie, fratello» disse, sfor-
zandosi di apparire umile e di nascondere la contentezza. «È per il bene del priorato.» «Lo so. Dimostri comunque grande generosità di spirito.» Simeon annuì e si allontanò. Godwyn sentì di essere vicino alla vittoria. I frati si riunirono in refettorio per il pranzo. C'era anche Murdo, che spesso e volentieri mancava alle funzioni, però mai ai pasti. I monasteri, in genere accoglievano alla loro mensa chiunque si presentasse, monaco o frate minore che fosse. Ma nessuno ne approfittava quanto Murdo. Godwyn lo osservava: pareva eccitato, come se non vedesse l'ora di rivelare il segreto appena appreso. Si trattenne per tutta la durata del pasto, tuttavia, e rimase zitto ad ascoltare il novizio che leggeva. Il brano di quel giorno era la storia di Susanna e i perfidi anziani. Godwyn disapprovava che venisse letta in una comunità votata al celibato, in quanto troppo sensuale. Quel giorno, però, i tentativi di due vecchi lascivi di ricattare una donna affinché si concedesse loro non attirarono più di tanto l'attenzione dei presenti, che continuavano a borbottare e a guardare Murdo in tralice. Quando il pasto fu terminato, e il profeta Daniele ebbe dimostrato l'innocenza di Susanna sottolineando le incongruenze fra il racconto dei due uomini, interrogati separatamente, i monaci si apprestarono a lasciare il refettorio. In quel momento, Murdo si rivolse al matricularius. «Quando arrivasti qui, frate Thomas, mi risulta che fossi ferito. Una ferita di spada, se ben ricordo.» Lo disse a voce abbastanza alta perché tutti lo sentissero. I monaci si fermarono ad ascoltare. Thomas lo guardò, impassibile. «Sì, è così.» «Quella ferita ti causò poi la perdita del braccio sinistro. Mi chiedo: ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?» Thomas impallidì. «Sono in questo monastero da dieci anni. La mia vita precedente è dimenticata.» Murdo continuò imperterrito. «Te lo chiedo per via delle terre che portasti al priorato quando vi entrasti. Cinquecento acri, nei pressi di un fiorente villaggio vicino a Norfolk: Lynn, dove vive la regina.» Godwyn intervenne, fingendosi indignato. «Che cosa può sapere un forestiero delle nostre proprietà?» «Ho letto i documenti» disse Murdo. «Queste non sono cose segrete.»
Godwyn guardò Carlus e Simeon, che erano seduti vicini e avevano l'aria sgomenta. Essendo vicepriore e tesoriere, erano al corrente di tutto. Probabilmente si chiedevano come avesse fatto Murdo a trovare l'atto. Simeon aprì la bocca per parlare. Murdo lo precedette. «O, per lo meno, non dovrebbero esserlo.» Simeon chiuse di nuovo la bocca. Se avesse chiesto a Murdo come aveva fatto a scoprirlo, gli altri avrebbero potuto domandare a lui come mai l'aveva tenuto segreto. Murdo continuò: «Le terre di Lynn vennero donate al priorato da...». Fece una pausa, per aumentare la curiosità di tutti. «... dalla regina Isabella.» Godwyn si guardò intorno. I monaci erano tutti costernati, a parte Carlus e Simeon, i cui volti sembravano scolpiti nella pietra. Frate Murdo si protese in avanti, il prezzemolo dello stufato che aveva mangiato a pranzo incastrato fra i denti, e, in tono aggressivo, si rivolse ancora a Thomas: «Te lo chiedo un'altra volta: quella ferita ti venne inferta mentre eri al servizio della regina Isabella?». «Tutti sanno che prima di farmi monaco ero un cavaliere. Combattevo in battaglia e uccidevo i nemici» rispose Thomas. «Ho confessato i miei peccati e sono stato assolto.» «Un monaco può lasciarsi alle spalle il proprio passato, ma il priore di Kingsbridge porta fardelli ben più onerosi: deve rendere conto di chi ha ucciso e per quale motivo, e soprattutto delle ricompense ricevute per il sangue versato.» Thomas lo fissò senza ribattere. Pareva turbato, in preda a forti emozioni. Godwyn cercò di indovinare quali fossero. Thomas non sembrava afflitto da senso di colpa o imbarazzo: qualsiasi fosse il suo segreto, non lo riteneva vergognoso. Non era neppure rabbia, quella che lo animava. Il tono petulante di Murdo avrebbe provocato una reazione violenta in molti, ma non in lui. No, quella che Thomas sembrava provare era un'emozione diversa, più fredda dell'imbarazzo e meno focosa della rabbia. Paura, ecco cos'era! Thomas aveva paura. Di Murdo? Godwyn non lo credeva proprio. Il matricularius temeva piuttosto che a causa di Murdo potesse succedere qualcosa, che la rivelazione del suo segreto avesse conseguenze nefaste. Murdo insistette: «Se non rispondi qui, adesso, dovrai risponderne in altra sede». La buona riuscita del piano di Godwyn richiedeva che a quel punto Thomas cedesse, ma il sacrista non era affatto sicuro che l'avrebbe fatto. Il matricularius era tenace: in quei dieci anni aveva dimostrato di avere un
carattere riservato, paziente e incrollabile. Quando Godwyn gli aveva chiesto di candidarsi per la carica di priore, doveva aver pensato che ormai il suo passato fosse stato dimenticato. Invece ora capiva che non era così. Quale sarebbe stata la sua reazione? Avrebbe ammesso il proprio errore e si sarebbe ritirato in buon'ordine, oppure avrebbe mostrato i denti e cercato di raggiungere comunque il proprio obiettivo? Godwyn si morse un labbro, ansioso. Alla fine, Thomas dichiarò: «Penso che tu abbia ragione: se non rispondo adesso, dovrò farlo in un'altra sede. Credo che ti adopereresti in qualunque modo, per quanto pericoloso e poco fraterno, perché succedesse». «Stai forse insinuando...» «Basta così!» esclamò Thomas, alzandosi di colpo in piedi. Murdo trasalì. La stazza di Thomas, il suo fisico da soldato e il tono di voce deciso lo fecero rimanere, per una volta, senza parole. «Non ho mai dato risposta alle domande sul mio passato» disse Thomas, abbassando di nuovo la voce. Tutti stavano zitti ad ascoltare. «E mai lo farò.» Puntando il dito contro Murdo, aggiunse: «Ma questo verme mi ha fatto capire che, se diventassi priore, certe domande mi verrebbero ripetute fino alla nausea. Un monaco può tenere per sé il proprio passato, un priore no. Ora lo capisco. Un priore può avere nemici e i segreti lo indeboliscono. E, se il suo capo è debole, anche l'istituzione ne risente. Sarei dovuto giungere da solo alle conclusioni cui mi ha portato la malvagità di frate Murdo, e cioè che un uomo che non vuole dare spiegazioni sul proprio passato non può essere eletto priore. Pertanto...» Il giovane Theodoric esclamò: «No!». «Ritiro la mia candidatura.» Godwyn tirò un sospiro di sollievo: aveva raggiunto il proprio obiettivo. Thomas si sedette. Murdo aveva l'aria soddisfatta e gli altri cercavano di parlare tutti insieme. Carlus batté il pugno sul tavolo e a poco a poco nella sala tornò il silenzio. «Frate Murdo» gli disse «non avendo tu il diritto di votare all'elezione, ti chiedo di lasciarci soli.» Murdo si avviò lentamente, con espressione trionfante. Non appena se ne fu andato, Carlus aggiunse: «È una tragedia! Murdo rimane l'unico candidato!». «Non dovremmo permettere a Thomas di ritirarsi» suggerì Theodoric. «Lo ha già fatto!» «Cerchiamo un altro candidato» propose Simeon.
«Giusto» approvò Carlus. «Propongo Simeon.» «No!» si oppose Theodoric. «Posso dire una cosa?» intervenne Simeon. «Dobbiamo scegliere chi fra di noi ha più probabilità di essere votato da tutti i confratelli, e io non sono adatto perché credo di non godere dell'appoggio dei più giovani. Il nuovo candidato deve avere il favore di tutti.» Si voltò verso Godwyn. «Sì!» esclamò Theodoric. «Godwyn!» I giovani lanciarono urla esultanti, i più anziani fecero una faccia rassegnata. Godwyn scosse la testa, come se non volesse rispondere. Ma i monaci iniziarono a battere le palme sul tavolo e a scandire il suo nome: «God-wyn! God-wyn!». Alla fine, Godwyn si alzò. Era euforico, ma cercò di non farsene accorgere. Alzò le mani per zittire le grida. Non appena ci fu silenzio, disse in tono modesto, a voce bassissima: «Obbedisco al volere dei miei confratelli». Nel refettorio scrosciò un applauso. 23 Godwyn rimandò l'elezione il più possibile, sapendo che il conte non sarebbe stato contento del risultato. Quanto più vicina alle nozze si fosse tenuta, tanto meno tempo avrebbe avuto Roland per opporsi. La verità era che aveva paura: si stava mettendo contro uno degli uomini più potenti di tutta l'Inghilterra. I conti erano solo tredici e governavano il regno insieme con una quarantina di baroni, ventuno vescovi e pochi altri. Quando il re riuniva il Parlamento, sedevano nelle file dei Lord, gli aristocratici, opposti ai Comuni, ovvero i cavalieri, i borghesi e i mercanti. Il conte di Shiring era uno degli uomini più influenti ed eminenti del suo rango. Eppure frate Godwyn, trentunenne, figlio della vedova Petranilla, semplice sacrista del priorato di Kingsbridge, osava contrastarlo. E, soprattutto, averla vinta. Così, cercò in tutti i modi di prendere tempo, ma sei giorni prima delle nozze, Roland puntò i piedi e disse: «Domani!». Stavano già arrivando i primi invitati. Il conte di Monmouth si era sistemato nell'ospitale e usava la camera privata vicino a quella di Roland, mentre lord William e lady Philippa si erano dovuti trasferire alla locanda Bell. Il vescovo Richard alloggiava nella casa del priore insieme a Carlus.
Le locande erano piene di baroni e cavalieri, con relativo seguito di mogli, figli, scudieri, servitori e cavalli. In città stava affluendo parecchio denaro: un bene, dopo i magri profitti della fiera della lana, funestata dalla pioggia. La mattina dell'elezione, Godwyn e Simeon andarono nella stanza del tesoro, un vano piccolo e senza finestre, protetto da una pesante porta di legno, al quale si accedeva dalla biblioteca. Gli arredi sacri più preziosi, quelli che venivano usati nelle occasioni speciali, erano conservati lì, in un baule di legno e ferro. Ad avere le chiavi era il tesoriere, Simeon. Tutti tranne il conte Roland sapevano già come sarebbe finita l'elezione e nessuno sospettava le trame di Godwyn. Il momento peggiore era stato quando Thomas aveva chiesto come avesse fatto frate Murdo a venire in possesso dell'atto di donazione della regina Isabella. "Non può averlo trovato per caso: non va mai in biblioteca. E, comunque, quel documento non era insieme agli altri" aveva detto a Godwyn. "Deve avergliene parlato qualcuno. Ma chi? Solo Carlus e Simeon ne erano a conoscenza. Perché avrebbero dovuto svelare il segreto? Non volevano certo dare una mano a Murdo." Godwyn era stato zitto e Thomas era rimasto con i suoi dubbi. Godwyn e Simeon spostarono il baule con i preziosi arredi sacri nella biblioteca, dove c'era più luce. I tesori della cattedrale erano avvolti in teli azzurri e protetti da pezze di pelle. Simeon frugò nel baule e tirò fuori i vari pezzi per ammirarli e controllare che fossero integri. C'erano un bassorilievo in avorio finemente scolpito, raffigurante la crocifissione di sant'Adolfo - in cui il martire chiedeva a Dio di concedere salute e lunga vita a coloro che l'avrebbero venerato -, e candelabri e crocifissi d'oro e d'argento, tempestati di pietre preziose, che scintillavano alla luce proveniente dalle grandi vetrate della biblioteca. Quegli oggetti erano stati donati al priorato nel corso dei secoli dai fedeli più ricchi e avevano un enorme valore. Molti non avevano mai visto una simile ricchezza tutta insieme. Godwyn e Simeon stavano cercando il pastorale, il bastone usato nelle celebrazioni più importanti. Era in legno rivestito d'oro, con un manico riccamente decorato di gemme e pietre preziose. Il rito voleva che venisse consegnato a ogni nuovo priore al termine della cerimonia di insediamento. Siccome erano tredici anni che non veniva usato, era in fondo al baule. Mentre Godwyn lo estraeva, Simeon lanciò un grido. Godwyn alzò di scatto la testa. Il tesoriere aveva in mano un grande crocifisso su un piedistallo, che doveva essere sistemato sull'altare. «Che cosa c'è?» gli chiese. Simeon gli mostrò la parte posteriore del crocifisso, dove si vedeva una
rientranza vuota, proprio sotto il braccio orizzontale. Godwyn si rese conto subito che lì mancava un rubino. «Dev'essere caduto...» disse guardandosi in giro: lui e Simeon erano soli. Erano preoccupati: in quanto sacrista e tesoriere, sarebbero stati ritenuti responsabili di qualsiasi perdita. Controllarono tutti i pezzi a uno a uno, scrollando i teli azzurri e le pezze di cuoio alla ricerca del rubino mancante. Poi guardarono nel baule e per terra: ma la gemma non c'era. «Quando è stato usato il crocifisso l'ultima volta?» domandò Simeon. «Alla festa di Sant'Adolfo, quando Carlus l'ha fatto cadere urtando contro l'altare.» «Probabilmente il rubino si è staccato dal crocifisso proprio allora. Possibile che nessuno se ne sia accorto?» «Era nella parte posteriore, e con tutta quella confusione... Però avremmo dovuto notare un rubino sul pavimento di pietra!» «Chi ha raccolto il crocifisso?» «Non ricordo» rispose Godwyn. «In quel trambusto...» In realtà, lo ricordava benissimo. Era stato Philemon. Gli sembrava di rivedere la scena. Philemon e Otho avevano risistemato l'altare sulla piattaforma, poi Otho aveva raccolto i candelabri e Philemon il crocifisso. Sempre più sgomento, Godwyn ricordò il braccialetto che era sparito a lady Philippa. Che Philemon avesse rubato un'altra volta? Tremava al pensiero delle conseguenze che quel fatto avrebbe potuto avere su di lui. Tutti sapevano che Philemon era un suo protetto, anche se non formalmente. Un peccato tanto terribile come rubare un rubino da un crocifisso sacro avrebbe coperto d'infamia il reo e tutti coloro che gli erano vicini. Godwyn rischiava di non venire eletto priore. Simeon, evidentemente, non ricordava la scena bene quanto lui e gli aveva creduto quando aveva finto di non sapere chi avesse raccolto il crocifisso dopo la rovinosa caduta di Carlus. Ma a qualcun altro di certo sarebbe venuto in mente che era stato Philemon. Era indispensabile mettere tutto a tacere prima che scoppiasse un pandemonio. Godwyn doveva agire in fretta, e soprattutto da solo. «Andiamo a cercare la gemma in chiesa» propose il tesoriere. «Sono passate due settimane» protestò Godwyn. «Non è possibile che sia rimasta lì e nessuno l'abbia vista.»
«È improbabile, sono d'accordo, ma non impossibile. Dobbiamo verificare.» Godwyn decise di accompagnarlo e di cogliere la prima occasione per allontanarsi e andare da Philemon. «Certo.» Misero via gli arredi sacri e chiusero la porta della stanza del tesoro. Uscendo dalla biblioteca, Godwyn disse: «Meglio non dire niente finché non siamo sicuri che il rubino è davvero perduto. Prenderci la colpa prima del tempo non servirebbe a nulla». «Giusto.» Corsero nel chiostro, entrarono in chiesa e si diressero alla crociera. Controllarono dappertutto, senza trovare niente. Fino a un mese prima sarebbe stato possibile perdere di vista una gemma rotolata per terra, ma dopo i lavori non c'erano più crepe e fessure in cui potesse nascondersi un rubino. «Ora che ci penso...» disse Simeon. «Non è stato Philemon a raccogliere da terra il crocifisso?» Godwyn lo fissò negli occhi: il suo sguardo era forse accusatorio? Difficile dirlo. «Può darsi» rispose. Colse l'occasione al volo. «Vado a chiamarlo. Forse lui ricorderà dov'era esattamente.» «Buona idea. Io resto qui e continuo a cercare.» Si inginocchiò e cominciò a passare le dita sulle pietre del pavimento, come se fosse più facile cercare un rubino usando il tatto anziché la vista. Godwyn corse fuori e andò nel dormitorio. L'armadio delle coperte era al solito posto. Lo scostò dal muro, trovò la pietra smossa e la tolse. Quindi infilò la mano nel nascondiglio in cui Philemon aveva riposto il braccialetto di lady Philippa. Non c'era niente. Imprecò: sarebbe stato più difficile del previsto. "Dovrò mandarlo via dal monastero, prima o poi" pensò mentre cercava Philemon in tutti gli edifici del priorato. "Se è stato lui a rubare il rubino, stavolta non posso coprirlo. Ha esagerato!" Subito dopo, però, si rese conto con un brivido di sgomento che non avrebbe potuto cacciare Philemon né in quell'occasione né, forse, mai: infatti, era stato lui a mostrare a frate Murdo l'atto di donazione della regina Isabella. Se Godwyn l'avesse allontanato dal monastero, Philemon avrebbe senza dubbio svelato il segreto, dicendo chi era stato a istigarlo. E tutti gli avrebbero creduto. Thomas aveva intuito che Murdo doveva avere appreso da qualcuno dell'esistenza del documento e, se Philemon avesse parlato,
avrebbe avuto conferma dei suoi sospetti. I monaci sarebbero rimasti scandalizzati di fronte a un simile sotterfugio. Anche se fosse venuto alla luce dopo l'elezione, le conseguenze sarebbero state inimmaginabili: la sua autorità ne sarebbe uscita minata, così come il prestigio necessario a guidare il priorato. Per difendere se stesso e la propria posizione, Godwyn avrebbe dovuto proteggere anche Philemon. Lo trovò nell'ospitale, intento a spazzare. Gli fece cenno di uscire e lo portò dietro le cucine, dove era meno probabile che qualcuno li vedesse. Lo guardò negli occhi e gli disse: «Manca un rubino». Philemon abbassò lo sguardo. «Che cosa terribile.» «Al crocifisso che Carlus ha fatto cadere durante la processione.» Philemon si finse innocente. «Come può essere successo?» «Deve essersi staccato quando il crocifisso è caduto per terra. Ma sul pavimento della chiesa non c'è, ho appena guardato. Qualcuno deve averlo trovato... e se lo è tenuto.» «Impossibile.» Godwyn stava iniziando a irritarsi per la finta aria innocente di Philemon. «Sciocco, ti abbiamo visto tutti raccogliere il crocifisso!» «Io non ne so niente...» replicò l'altro con voce strozzata. «Non mentirmi! Dobbiamo sistemare questa faccenda prima che sia troppo tardi. Potrei perdere l'elezione per colpa tua.» Lo spinse contro il muro del forno. «Dove l'hai messo?» Con suo grande stupore, Philemon scoppiò a piangere. «Per tutti i santi!» esclamò Godwyn disgustato. «Smettila! Non sei più un bambino!» Philemon continuava a singhiozzare. «Mi dispiace» borbottò. «Mi dispiace.» «Se non la smetti immediatamente...» Godwyn cercò di controllarsi: era inutile strapazzare quell'uomo patetico. In tono meno brusco, aggiunse: «Calmati e dimmi dove hai messo quel rubino». «L'ho nascosto.» «Sì...» «Nel camino del refettorio.» Godwyn subito si voltò e corse verso il refettorio. «Che Maria ci salvi! Non sarà caduto nel fuoco?» Philemon gli corse dietro, asciugandosi le lacrime. «In luglio non accendiamo mai il fuoco. L'avrei spostato prima che venisse il freddo.» Entrarono nel refettorio. Il caminetto era in fondo alla lunga sala. Phile-
mon infilò un braccio nella canna fumaria e frugò dentro. Poi tirò fuori la mano, nella cui palma era racchiuso un rubino delle dimensioni di un uovo di passero, tutto coperto di fuliggine. Lo pulì in una manica. Godwyn lo prese. «Ora vieni con me» ordinò. «Dove andiamo?» «Voglio che sia Simeon a ritrovarlo.» I due tornarono nella cattedrale, dove Simeon era ancora carponi a cercare la gemma per terra. «Sforzati di ricordare dov'eri esattamente quando hai raccolto il crocifisso» disse Godwyn a Philemon. Simeon guardò il ragazzo e, vedendolo turbato, gli parlò con dolcezza. «Non ti preoccupare, non hai fatto nulla di male.» Philemon si posizionò sul lato est della crociera, vicino ai gradini che portavano al presbiterio. «Mi pare che fosse qui» disse. Godwyn salì i due gradini e guardò sotto i banchi del coro, fingendo di cercare la gemma. Senza farsene accorgere, infilò il rubino sotto i sedili in fondo, dove sarebbe stato più difficile da notare. Poi, come cambiando idea sul posto in cui continuare le ricerche, si spostò nel lato sud del presbiterio. «Vediamo se per caso è qui, Philemon» disse. Come aveva sperato, Simeon andò a cercare la gemma dov'era lui prima. In ginocchio, controllò sotto i sedili mormorando una preghiera. Godwyn trattenne il fiato, sempre facendo finta di cercare, in attesa di sentire le esclamazioni di giubilo del confratello. Simeon, però, non diceva nulla e Godwyn iniziò a temere che avesse perso la vista. Gli sarebbe dispiaciuto se fosse toccato a lui "ritrovare" il rubino. Finalmente Simeon esclamò: «Eccolo!». Godwyn si finse eccitato. «L'hai trovato?» «Sì! Alleluia!» «Dov'era?» «Qui, sotto i sedili del coro!» «Sia lodato Iddio!» disse Godwyn. Godwyn si ripeté che non doveva avere paura del conte Roland ma, salendo la scala di pietra dell'ospitale, si chiese ansioso come avrebbe reagito. Ammesso e non concesso che fosse in grado di scendere dal letto e sguainare la spada, non sarebbe stato così sprovveduto da attaccare un monaco all'interno del priorato: nemmeno il re poteva permettersi certe libertà. Ralph Fitzgerald lo annunciò e lo fece entrare.
Ai due lati del letto erano presenti i figli del conte. William, alto, con le calzebrache marrone da soldato e gli stivali infangati, stava già perdendo i capelli. Richard, con la veste porpora da vescovo, era ingrassato: di carattere voluttuoso, aveva anche i mezzi per soddisfare le proprie voglie. William aveva trent'anni, uno meno di Godwyn, e lo stesso carattere forte e volitivo del padre, anche se l'influenza della moglie Philippa lo addolciva un poco. Richard ne aveva ventotto e doveva assomigliare alla defunta madre, perché non aveva nulla dell'imponenza e della forza del conte. «Allora, frate» esordì Roland, muovendo solo la metà sinistra della bocca. «Avete eletto il nuovo priore?» Godwyn si risentì di quel tono scortese, ma si tranquillizzò al pensiero che un giorno il conte sarebbe stato costretto a chiamarlo "padre priore". In ogni caso, la collera gli diede il coraggio di fare il suo annuncio. «Sì, mio signore. Ho l'onore di informarvi che i monaci di Kingsbridge hanno scelto me.» «Che cosa?» urlò il conte. «Te?» Godwyn chinò la testa, fingendosi umile. «Sono rimasto sorpreso io stesso, signore.» «Sei ancora un poppante!» L'insulto spinse Godwyn a ribattere: «Sono più vecchio di vostro figlio, il vescovo di Kingsbridge». «Quanti voti hai ottenuto?» «Venticinque.» «E frate Murdo?» «Nessuno. I monaci sono stati unanimi nel...» «Nessun voto?» tuonò Roland. «Qui si tratta di una cospirazione! Questo è alto tradimento!» «L'elezione si è svolta nel pieno rispetto di tutte le regole, signore.» «Con le vostre regole io mi pulisco il culo. Non lascerò che un branco di monaci effeminati ignori i miei ordini.» «I confratelli hanno voluto eleggere me, mio signore. La cerimonia dell'insediamento si celebrerà domenica ventura, prima delle nozze.» «La decisione dei monaci deve essere ratificata dal vescovo, e ti dico fin da adesso che il vescovo non permetterà che tu divenga priore. Ripetete l'elezione e questa volta portami il risultato che voglio io.» «Come desiderate, conte Roland.» Godwyn andò verso la porta. Aveva ancora qualche carta da giocare, ma non voleva scoprirle tutte insieme. Prima di uscire, si rivolse a Richard. «Se vogliamo discutere insieme della
questione, sarò nella casa del priore.» Mentre usciva, sentì Roland che gridava: «Non sei ancora priore!». Godwyn tremava dalla testa ai piedi. Roland faceva paura, quando si arrabbiava. E si arrabbiava spesso. Lui, però, gli aveva tenuto testa. Petranilla ne sarebbe stata fiera. Scese le scale con le gambe malferme e si diresse verso la casa del priore. Carlus aveva già portato via le sue cose. Per la prima volta da quindici anni a quella parte, Godwyn avrebbe avuto una camera da letto tutta per sé. Il piacere era solo in parte guastato dall'obbligo di dividere la casa con il vescovo, che tradizionalmente alloggiava lì quando era in visita. In teoria, il vescovo era abate di Kingsbridge ex officio, e dunque, benché il suo potere fosse limitato, il suo rango era superiore a quello del priore. Richard era quasi sempre fuori durante il giorno, ma dormiva lì tutte le notti, nella stanza migliore. Godwyn entrò nella saletta al pianterreno e si sedette in poltrona ad aspettare. Il vescovo sarebbe arrivato entro breve, ne era certo, con le orecchie ancora brucianti per le infiammate proteste del padre. Era un uomo ricco e potente e, nonostante non avesse la tempra del conte, non si sarebbe lasciato mettere i piedi in testa da un monaco troppo ambizioso. Se Godwyn non avesse avuto un piccolo asso nella manica, e non fosse stato al corrente di qualche peccatuccio di Richard, avrebbe certamente perso la sua battaglia. Il vescovo arrivò pochi minuti dopo, ostentando una sicurezza che Godwyn sapeva esser ben lungi dal provare. «Ho trovato un compromesso» disse senza preamboli. «Murdo sarà priore, ma tu gli farai da vice e ti occuperai della gestione del priorato. A Murdo non interessa amministrare il monastero: lui vuole il prestigio e basta. Il potere sarà tutto tuo, ma mio padre salverà le apparenze.» «Dunque, se Murdo è d'accordo ad avere me come vice, bisognerà andare dai monaci e dire loro che il vescovo intende ratificare la sua nomina. Come pensate che reagiranno?» «Non hanno scelta.» «Vi faccio un'altra proposta. Direte al conte che i monaci vogliono che sia nominato priore il frate che hanno eletto, cioè io, e che ciò dovrà avvenire prima della celebrazione delle nozze, altrimenti non prenderanno parte alla funzione. Né loro, né le suore.» Godwyn non sapeva se i monaci sarebbero stati d'accordo, e tanto meno la badessa e le sue suore, ma ormai doveva rischiare il tutto per tutto.
«Non oserebbero mai fare una cosa del genere!» «Credo proprio di sì, invece.» Richard parve terrorizzato all'idea. «Mio padre non vorrà sottostare alle vostre minacce!» Godwyn scoppiò a ridere. «Lo so. Che si dimostri più ragionevole, allora.» «Farà celebrare comunque le nozze. Sono il vescovo, posso sposare io la coppia. Non ho bisogno dei monaci.» «Lo so bene. Non ci saranno canti, però, né candele, né Salmi, né incensi... Ci sarete solo voi e l'arcidiacono Lloyd.» «Si sposeranno comunque.» «Pensate che il conte di Monmouth sarà contento? In fondo, si tratta del matrimonio di suo figlio...» «No di certo, ma farà buon viso a cattivo gioco. Questa alleanza è importante anche per lui.» Godwyn pensò che probabilmente era vero, e temette di non farcela. Doveva tirare fuori il suo asso nella manica. «Mi dovete una cortesia» disse. Sulle prime, Richard finse di non capire. «Davvero?» «Ho tenuto nascosto un vostro peccato. Non fate finta di esservene dimenticato: è passata solo qualche settimana.» «Ah, certo! Molto generoso da parte tua...» «Vi ho visto con i miei occhi fornicare con Margery nella stanza degli ospiti.» «Zitto, per l'amor del cielo!» «È giunto il momento che voi mi restituiate il favore. Intercedete presso vostro padre, convincetelo ad arrendersi. Ditegli che il matrimonio è la cosa più importante. Insistete perché mi nomini priore.» Richard era sull'orlo della disperazione, lacerato fra emozioni contrastanti. «Non posso» rispose, con voce spaventata. «Mio padre non accetterà. Sai com'è fatto!» «Provateci, almeno.» «Ci ho già provato! Sono stato io a convincerlo a nominarti vicepriore.» Godwyn dubitava che Roland avesse fatto una concessione del genere. Era quasi sicuro che Richard si fosse inventato tutto quanto, sapendo che la sua era una promessa che poteva facilmente non mantenere. Ciò nonostante disse: «Ve ne ringrazio». E poi aggiunse: «Ma non mi basta». «Pensaci, almeno» lo implorò Richard. «Ti chiedo solo questo.»
«Ci penserò. E vi consiglio di dire a vostro padre di rifletterci anche lui.» «Dio mio! Sarà una catastrofe!» gemette Richard. Le nozze erano programmate per la domenica. Il sabato, al posto della funzione di sesta, Godwyn chiese che venissero fatte le prove generali, prima della cerimonia per l'insediamento in carica del nuovo priore e poi delle nozze. Era un'altra giornata senza sole, il cielo percorso da nuvole grigie cariche di pioggia, e l'interno della cattedrale era buio. Al termine delle prove, mentre frati e suore andavano a pranzo e i novizi pulivano la chiesa, Godwyn venne avvicinato da Carlus e Simeon. Avevano l'espressione seria. «Mi sembra che sia andato tutto bene, no?» disse Godwyn contento. «Pensi che si terrà davvero la cerimonia per il tuo insediamento?» gli domandò Simeon. «Sì, certo.» «Abbiamo sentito dire che il conte vuole che ripetiamo l'elezione.» «Pensi che abbia il diritto di farlo?» «Ovvio che no» rispose Simeon. «Ha il potere di presentare un candidato e basta. Però sostiene che il vescovo Richard non ratificherà la tua nomina a priore.» «E il vescovo cosa dice?» «Non abbiamo parlato con lui.» «Lo immaginavo. Io invece credo che Richard lo farà.» Parlò in tono sincero e sicuro, benché in realtà avesse parecchi dubbi in proposito. Carlus chiese, ansioso: «Hai detto a Richard che non avremmo preso parte allo sposalizio?». «Sì.» «È stata una mossa incauta. Non siamo qui per opporci alla volontà dei nobili.» Se Godwyn avesse ribattuto con sufficiente fermezza, probabilmente Carlus avrebbe moderato i termini. Tuttavia, non era il momento per mettere alla prova la determinazione del suo confratello. «Non ti preoccupare, non succederà. La mia è stata soltanto una vuota minaccia. È meglio che il vescovo non lo sappia, però.» «Dunque non chiederai ai monaci di non presenziare alla cerimonia?» «No.» «Il tuo è un gioco pericoloso» gli disse Simeon.
«Forse. Ma l'unico che può rimetterci sono io.» «Non volevi neppure che ti eleggessimo. Non l'hai chiesto tu e hai accettato soltanto quando non restavano alternative.» «Non è mio desiderio fare il priore, infatti» mentì Godwyn. «Ma il conte di Shiring non deve permettersi di scegliere al posto nostro, e questo è più importante di ciò che penso o voglio io.» Simeon lo guardò con rispetto. «È molto nobile da parte tua.» «Come te, fratello, cerco solo di fare la volontà di Dio.» «Che il Signore ti benedica.» I due vecchi frati si congedarono e Godwyn provò un rimorso di coscienza per aver fatto credere loro di agire in modo disinteressato. Era vero, però, che voleva solo fare la volontà di Dio. Si guardò intorno: la chiesa pareva tornata alla normalità. Godwyn stava per andare a mangiare, quando vide sua cugina Caris; la notò per il vestito azzurro che indossava, in contrasto con il grigio spento della cattedrale. «Da domani sarai ufficialmente priore, dunque?» gli domandò. Godwyn sorrise. «Mi fate tutti la stessa domanda. La risposta è sì.» «Si dice che il conte non sia d'accordo.» «Non l'avrà vinta, stavolta.» Gli occhi verdi di Caris lo scrutarono, penetranti. «Ti conosco da quando eri un ragazzo. So quando menti.» «Non sto mentendo.» «Ti fingi più sicuro di quel che sei.» «Non è un peccato.» «Mio padre è preoccupato per il ponte. Frate Murdo dimostrerà al conte ancora maggiore obbedienza di Saul Testabianca.» «Murdo non diventerà priore di Kingsbridge.» «Insisti?» La perspicacia di Caris irritava Godwyn. «Non so che dirti» sbottò. «Sono stato eletto e intendo assumere la carica. Il conte Roland vuole impedirmelo, ma non ne ha il diritto, e io lotterò con tutti i mezzi a mia disposizione. Mi vedi spaventato? Sì, lo sono. Ma ho comunque intenzione di vincere.» Caris sorrise. «Erano le parole che volevo sentire.» Gli diede un colpetto sulla spalla. «Va' da tua madre. È nella casa del priore che ti aspetta. Sono venuta per dirtelo.» Poi si voltò e se ne andò. Godwyn uscì dal transetto nord. Caris era intelligente, pensò con un misto di ammirazione e di irritazione: lo aveva costretto a rivelarle cose che
non aveva ammesso con nessun altro. Era contento di avere la possibilità di parlare con sua madre: era l'unica a non dubitare che lui potesse avere la meglio nella battaglia con il conte. Petranilla confidava nella sua vittoria e forse sarebbe stata in grado anche di dargli qualche consiglio strategico. La trovò seduta a tavola, apparecchiata per due con pane, birra e un piatto di pesce salato. Godwyn le diede un bacio in fronte, rese grazie per il cibo e si accomodò, concedendosi un momento di soddisfazione. «Bene» esordì. «Sono stato eletto, alla fine, e stiamo per pranzare nella casa del priore.» «Roland però è contro di te» gli fece notare Petranilla. «È più determinato di quanto mi aspettassi. Dopotutto ha diritto a una nomina, non alla scelta. Non è scritto da nessuna parte che sia lui a decidere chi debba diventare priore.» «Molti conti lo accettano, lui no» dichiarò Petranilla. «Si sente superiore a tutti.» Lo disse con un tono amareggiato in cui Godwyn lesse il dolore della rottura del fidanzamento con Roland trent'anni prima. Petranilla sorrise con aria vendicativa. «Ben presto si accorgerà di averci sottovalutato.» «Sa che sono tuo figlio.» «E questo avrà un peso. Probabilmente gli ricordi quanto si è comportato male con me, quindi ti odia.» «È un peccato.» Godwyn abbassò la voce, nel caso ci fosse stato qualcuno fuori dalla porta. «Finora il tuo piano ha funzionato perfettamente. Ritirarmi dalla competizione per poi eliminare tutti gli altri candidati è stata una mossa brillante.» «Sì, ma adesso rischiamo di perdere tutto. Hai parlato con il vescovo?» «Gli ho ricordato che so di lui e Margery. Si è spaventato, ma non abbastanza da mettersi contro suo padre, temo.» «Sbaglia: se la cosa dovesse venire fuori, suo padre non lo perdonerebbe mai e lui potrebbe fare la fine di sir Gerald. Non se ne rende conto?» «Forse ritiene che io non abbia il coraggio di rivelare il suo segreto.» «Sorprendilo, allora, e vallo a riferire al conte.» «Cielo! Andrà su tutte le furie!» «E tu mantieni i nervi saldi.» Petranilla dispensava spesso quel genere di consigli ed era uno dei motivi per cui il figlio la temeva: voleva sempre che lui osasse più di quanto si sentiva in grado di fare. Tuttavia, Godwyn non riusciva mai a dirle di no. «Se si scoprisse che Margery non è più vergine» continuò Petranilla «le
nozze potrebbero saltare. Roland non può permetterselo. Accetterà il male minore e lascerà che la tua nomina venga ratificata.» «Mi sarà nemico sino alla fine dei suoi giorni, però.» «Lo sarà comunque.» "Magra consolazione" pensò Godwyn. Ma non ribatté, perché sapeva che sua madre aveva ragione. Bussarono alla porta: era lady Philippa. Godwyn e Petranilla si alzarono in piedi. «Ho bisogno di parlarti» disse Philippa a Godwyn. «Posso presentarvi mia madre, Petranilla?» Petranilla fece un inchino e annunciò: «Meglio che vada. Immagino siate venuta per proporre un patto a mio figlio, mia signora». Philippa la guardò divertita. «Se sapete questo, sapete tutto ciò che conta. Forse fareste meglio a restare.» Mentre le due donne si parlavano, l'una di fronte all'altra, Godwyn rifletté che erano molto simili: alte uguali, avevano un fisico statuario e la stessa espressione imperiosa. Philippa era più giovane di una ventina d'anni e aveva un'autorevolezza rilassata e più senso dell'umorismo, mentre Petranilla era animata da una testarda determinazione: forse la ragione stava nel fatto che Philippa aveva un marito e Petranilla era vedova. Ma se Philippa esercitava il proprio potere attraverso un uomo, lord William, Petranilla non era da meno: usava Godwyn. «Vogliamo sederci?» disse Philippa. «Avete l'approvazione del conte, riguardo a ciò che state per proporre a mio figlio?» le chiese Petranilla. «No» rispose Philippa con un gesto che significava la sua impotenza. «Roland è troppo orgoglioso per approvare qualcosa che può ancora essere rifiutato. Ma, se Godwyn accetterà, confido di riuscire a persuaderlo.» «Lo immaginavo.» «Volete qualcosa da mangiare, mia signora?» le domandò Godwyn. Philippa rifiutò con un cenno. «Adesso come adesso, nessuno ha quello che desidera» iniziò. «In un modo o nell'altro le nozze verranno celebrate, sì, ma senza la pompa che si conviene a una simile cerimonia, e così l'alleanza fra Roland e il conte di Monmouth comincerà sotto i peggiori auspici. Il vescovo si rifiuterà di ratificare la nomina di Godwyn a priore, quindi occorrerà coinvolgere l'arcivescovo; questi si sbarazzerà sia di lui sia di Murdo e farà priore qualcun altro, magari un personaggio scomodo di cui desidera liberarsi. Insomma, nessuno raggiungerà il proprio scopo. Dico
bene?» Lo chiese a Petranilla, che sospirò, senza parlare. «Perché non arrivare a un compromesso prima di coinvolgere l'arcivescovo, dunque?» continuò Philippa. «Decidiamo noi un terzo candidato. Anzi, fai tu il nome, Godwyn, e fatti promettere la carica di vice.» Godwyn rifletté sulle parole di Philippa. La sua soluzione l'avrebbe sollevato dallo scontro diretto con il conte e dalla necessità di metterlo al corrente di suo figlio. Lo svantaggio, però, era che sarebbe rimasto vicepriore per chissà quanto e, alla morte del nuovo eletto, avrebbe dovuto combattere di nuovo la stessa battaglia. Era incline a rifiutare, nonostante le proprie inquietudini. Guardò la madre, che scosse impercettibilmente la testa: la proposta di Philippa non piaceva neanche a lei. «Mi dispiace» disse Godwyn a Philippa. «I monaci hanno eletto il loro priore e la decisione deve essere ratificata.» Philippa si alzò in piedi. «In tal caso, devo riferirvi il motivo ufficiale di questa mia visita: domattina il conte si alzerà dal suo letto di infermo e controllerà che la cattedrale sia pronta per le nozze. Alle otto in punto dovrete essere lì tutti, frati e suore nelle vesti da cerimonia, e la chiesa dovrà essere addobbata per le grandi occasioni.» Godwyn chinò la testa in segno di accettazione e lady Philippa uscì. All'ora stabilita, Godwyn aspettava il conte nella chiesa silenziosa e deserta. Era da solo. Frati e suore non erano venuti e gli arredi non erano stati esposti: non c'erano candele, né crocifissi, né calici, né fiori. Il pallido sole che ogni tanto spuntava fra i nuvoloni grigi illuminava la navata di una luce incerta e fredda. Godwyn teneva le mani dietro la schiena, per non mostrare quanto gli tremavano. Il conte arrivò puntuale all'appuntamento. Con lui c'erano lord William, lady Philippa, il vescovo Richard e il suo assistente, l'arcidiacono Lloyd, oltre a padre Jerome. Anche Godwyn sarebbe voluto arrivare accompagnato, ma i monaci non sapevano quanto fosse rischioso il suo piano e, se l'avessero saputo, non avrebbero avuto il coraggio di appoggiarlo. Perciò si era deciso ad affrontare il conte da solo. Roland non aveva più la testa fasciata e camminava lentamente, ma con passo fermo. Dopo tanto tempo a letto doveva sentirsi debole, però pareva determinato a non farsene accorgere. Sembrava normale, a parte la paralisi
al volto. Evidentemente voleva dimostrare in pubblico di essersi ristabilito e di avere di nuovo il controllo della situazione. Godwyn, però, stava minacciando di rompergli le uova nel paniere. Tutti guardarono increduli la chiesa spoglia e vuota. Tuttavia, il conte non si mostrò sorpreso. «Sei un frate molto arrogante» disse a Godwyn storcendo la bocca. Godwyn stava rischiando il tutto per tutto, e non aveva nulla da perdere a provocarlo. «E voi un conte molto ostinato» replicò. Roland posò la mano sull'elsa della spada. «Dovrei ucciderti, per le parole che hai appena pronunciato.» «Uccidetemi pure» disse Godwyn allargando le braccia. «Uccidete il priore di Kingsbridge nella cattedrale, come i cavalieri di re Enrico uccisero l'arcivescovo Thomas Becket a Canterbury. Mandate me nel regno dei Cieli e condannate voi stesso alla dannazione eterna.» Philippa rimase senza fiato, davanti a tanta sfrontatezza. William fece un passo avanti per intervenire, ma Roland lo fermò con un gesto e disse al monaco: «Il vescovo ti ha ordinato di preparare la chiesa per le nozze che vi verranno celebrate. Non hai fatto voto di obbedienza?». «Lady Margery non può sposarsi qui.» «E perché mai? Perché tu vuoi essere priore?» «No, perché non è più vergine.» Philippa si portò una mano alla bocca, Richard emise un gemito e William sguainò la spada. «Questo è alto tradimento!» esclamò Roland. «Mettete via la spada, lord William» disse Godwyn. «Non potrete comunque restituirle l'onore.» «E tu, frate, come fai a sapere certe cose?» gli chiese Roland. «Due persone, qui al priorato, l'hanno sorpresa fra le braccia di un uomo in una stanza privata dell'ospitale. La stessa in cui siete stato ricoverato voi, mio signore.» «Non ti credo.» «Il conte di Monmouth mi crederà.» «Non oserai dirglielo.» «Dovrò pure spiegargli perché suo figlio non può sposare lady Margery nella cattedrale di Kingsbridge, almeno finché la ragazza non avrà confessato il suo peccato e ricevuto la santa assoluzione.» «Non hai le prove. È solo una calunnia.» «Ho due testimoni. E, comunque, chiedetelo alla futura sposa: sono cer-
to che confesserà. Immagino che il suo cuore sia per colui che le ha tolto la verginità e non per l'uomo che suo zio le impone di sposare per i propri scopi politici.» Ancora una volta Godwyn stava azzardando, ma aveva visto l'espressione di Margery quando Richard l'aveva baciata e aveva dedotto che fosse follemente innamorata di lui. Essere costretta a sposare il figlio del conte doveva essere un dolore per lei. E, se i suoi sentimenti erano quelli che Godwyn pensava, difficilmente sarebbe riuscita a mentire in maniera convincente. La metà faccia di Roland che ancora funzionava era contratta in una smorfia rabbiosa. «E chi avrebbe commesso un simile crimine? Perché, se mi dimostrerai la veridicità delle tue accuse, quel mascalzone finirà sulla forca, lo giuro. Altrimenti, frate, ci finirai tu. Fammi il suo nome, dunque. Lo manderò a chiamare e vedremo cos'avrà da dire in sua discolpa.» «È già qui, signore.» Roland guardò incredulo i quattro uomini presenti: i suoi due figli, William e Richard, e i due preti, Lloyd e Jerome. Godwyn guardò Richard. Roland se ne accorse. Nel giro di un attimo, tutti fissavano il vescovo. Godwyn tratteneva il fiato. Che cosa avrebbe detto Richard? Avrebbe dato in escandescenze, accusandolo di mentire? Avrebbe perso la testa e aggredito il suo accusatore? Ma sul viso di Richard si leggeva sconfitta, non collera. Dopo un momento abbassò la testa e disse: «È inutile. Quel maledetto frate ha ragione: Margery non saprebbe mentire». Il conte Roland sbiancò. «Sei stato tu?» Per una volta non alzò la voce, ma il risultato fu ancora più terrificante. «Hai deflorato la promessa sposa del figlio di un conte?» Richard non rispose e continuò a tenere lo sguardo fisso per terra. «Sei uno sciocco!» urlò il conte. «Un traditore! Un...» «Chi altri lo sa?» lo interruppe Philippa. Roland smise di sbraitare e tutti si voltarono verso di lei. «Le nozze possono ancora essere celebrate» disse Philippa. «Grazie a Dio, il conte di Monmouth non è qui in questo momento.» Guardò Godwyn. «Chi lo sa, a parte i presenti e i due uomini del priorato che hanno sorpreso gli amanti?» Godwyn cercò di calmarsi: aveva il cuore che batteva all'impazzata. Era così vicino alla vittoria, che gli pareva già di pregustarne il sapore. «Nessun altro, mia signora.»
«Noi che siamo dalla parte del conte possiamo mantenere il segreto» disse allora Philippa. «E i due testimoni?» «Obbediranno al loro priore» rispose Godwyn. Philippa si voltò verso Roland. «Allora celebriamo queste nozze.» «Purché prima venga insediato il nuovo priore» precisò Godwyn. Tutti fissarono il conte. Roland fece un passo avanti e colpì Richard in pieno volto. Fu uno schiaffo potente, sferrato con rabbia e con tutta l'esperienza di un soldato. Richard crollò a terra. Esterrefatto, alzò lo sguardo verso il padre, con il sangue che gli usciva dalla bocca. Roland era sudato e bianco come un cencio: sembrava avesse dato fondo alle sue riserve di energie e adesso appariva debole e tremante. Ci fu un lungo silenzio, poi il conte parve riprendersi. Lanciò uno sguardo colmo di disprezzo all'uomo vestito di porpora che giaceva ancora a terra, girò i tacchi e uscì dalla cattedrale, con passo lento ma fermo. 24 Caris era di fronte alla cattedrale di Kingsbridge, con metà della popolazione della città, ad aspettare che gli sposi uscissero dal grande portale sul lato occidentale della chiesa. Non sapeva nemmeno lei perché era lì. Provava sentimenti negativi nei confronti del matrimonio dal giorno in cui Merthin aveva collaudato l'argano e le aveva parlato del loro futuro. Era arrabbiata con lui, benché le cose che diceva non fossero affatto insensate. Era naturale che volesse avere una casa tutta sua e vivere con lei, dormire insieme tutte le notti e avere dei figli. Era quello che volevano tutti. Tutti tranne lei, evidentemente. In realtà, da un certo punto di vista, erano cose che desiderava anche lei. Le sarebbe piaciuto tantissimo coricarsi di fianco a lui ogni sera, abbracciarlo tutte le volte che ne aveva voglia, sentire le sue mani sulla pelle svegliandosi la mattina e dare alla luce un piccolo Merthin, da amare e accudire. Quello che non voleva era ciò che il matrimonio portava con sé: desiderava un compagno, non un padrone; vivere con lui, non dedicare a lui la propria vita. Ed era in collera con Merthin perché la metteva di fronte a quel dilemma. Per quale ragione non potevano semplicemente andare avanti così? Erano tre settimane che quasi non gli rivolgeva la parola. Aveva finto di avere il raffreddore, poi le era venuta una dolorosa piaga su un labbro, che
le aveva dato la scusa per non baciarlo. Merthin continuava a mangiare a casa sua e a parlare affabilmente con suo padre ma, quando Edmund e Petranilla si ritiravano in camera loro, non si tratteneva ulteriormente. Adesso il labbro di Caris era guarito e la sua collera si era placata. Era sempre determinata a non diventare proprietà di Merthin, ma avrebbe voluto ricominciare a baciarlo. Quel giorno, però, Merthin non era con lei. Era tra la folla, abbastanza distante, e parlava con Bessie Bell, la figlia del locandiere. Bessie era una ragazza piuttosto bassa di statura, tutta curve e con un sorriso che gli uomini giudicavano provocante e le donne da puttanella. Merthin la stava facendo ridere. Caris si voltò dall'altra parte. Le porte della chiesa si aprirono e dalla folla si levò un'esclamazione festosa. Apparve la sposa, una bella ragazza di sedici anni, vestita di bianco e con una ghirlanda di fiori tra i capelli, seguita dallo sposo, alto, con l'aria seriosa, di una decina d'anni più vecchio di lei. Entrambi avevano una faccia tristissima. Si conoscevano appena. Si erano visti una sola volta, sei mesi prima, quando i due conti avevano combinato il matrimonio. Correva voce che Margery fosse innamorata di un altro, ma naturalmente disobbedire al conte Roland era fuori discussione. Lo sposo aveva l'aria da studioso e l'espressione di chi sarebbe stato più volentieri in biblioteca a leggersi un libro, magari di geometria. Che vita avrebbero fatto insieme? Era difficile che potessero provare la passione che legava Caris e Merthin. Caris vide che Merthin le stava venendo incontro e di colpo si sentì un'ingrata: quanto era fortunata a non essere la nipote di un conte! Nessuno l'avrebbe fatta maritare per forza a un uomo che non le piaceva; era libera di sposare il suo innamorato. Eppure... cercava in tutti i modi di evitarlo. Lo accolse con un abbraccio e un bacio sulla bocca. Lui parve sorpreso, ma non fece commenti. Un altro si sarebbe innervosito di fronte a quel brusco cambiamento di umore, ma Merthin era un uomo davvero di un equilibrio incrollabile. Fianco a fianco, guardarono uscire dalla chiesa il conte Roland, il conte e la contessa di Monmouth, il vescovo Richard e il priore Godwyn. Caris notò che suo cugino sembrava soddisfatto e preoccupato al tempo stesso, nemmeno fosse stato lui lo sposo. Il suo turbamento dipendeva dal fatto che da quella mattina era ufficialmente priore di Kingsbridge. Si formò un corteo di cavalieri: quelli di Shiring in livrea rossa e nera, quelli di Monmouth in giallo e verde. Erano diretti al Palazzo delle corporazioni, dove il conte Roland aveva fatto allestire un banchetto per gli invi-
tati. Edmund vi avrebbe partecipato accompagnato da Petranilla, perché Caris aveva preferito non accettare l'invito. Mentre il corteo nuziale lasciava il recinto del priorato cominciò a piovigginare e Caris e Merthin andarono a ripararsi sotto il portico della cattedrale. «Vieni con me nel presbiterio» disse lui. «Voglio andare a vedere i lavori che ha fatto Elfric.» Gli invitati stavano ancora uscendo dalla chiesa. Controcorrente, Merthin e Caris raggiunsero la navata centrale e si avviarono verso il lato sud del presbiterio. Era una zona riservata al clero, e monaci e suore avrebbero disapprovato se vi avessero visto Caris, ma se n'erano andati tutti. Caris si guardò intorno: non c'era nessuno, a parte una donna sconosciuta, sulla trentina, rossa di capelli e molto ben vestita. Doveva essere un'invitata alle nozze e stava certamente aspettando qualcuno. Merthin allungò il collo per osservare la volta. I lavori di riparazione non erano finiti e restava una piccola apertura sulla quale era stato teso un telo dipinto di bianco, così che nessuno se ne accorgesse. «Sta facendo un buon lavoro» disse. «Mi chiedo quanto resisterà, però.» «Perché non dovrebbe resistere?» chiese Caris. «Non sappiamo che cosa abbia fatto crollare la volta. Questi eventi hanno cause precise, non sono atti di Dio, checché ne dicano i preti. Se è crollata in un'occasione, potrebbe venir giù di nuovo.» «Si può scoprire il perché?» «Non è facile. Elfric di sicuro non è all'altezza. Io, forse, potrei riuscirci.» «Ma tu sei stato licenziato.» «Infatti.» Merthin rimase lì un momento, con la testa rivolta all'indietro, poi disse: «Voglio guardare da sopra. Salgo nel solaio». «Vengo con te.» Si guardarono intorno, ma vicino a loro non c'era nessuno, a parte l'invitata dai capelli rossi nel transetto sud. Merthin condusse Caris verso una porticina che dava su una stretta scala a chiocciola. Lei lo seguì su per le scale, chiedendosi che cosa avrebbero pensato i monaci se avessero saputo che una donna stava percorrendo i loro passaggi segreti. La scala li portò in un locale direttamente sopra la navata laterale. La ragazza era curiosa di osservare la volta dall'altra parte. «Questo che vedi è l'estradosso» spiegò Merthin. A Caris piaceva la disinvoltura con cui le dava informazioni tecniche, sicuro del fatto che lei fosse interessata e che potesse capirle. Merthin non
faceva mai battute idiote sull'incapacità delle donne di comprendere certe cose. Il giovane avanzò sulla stretta passerella e quindi si abbassò per controllare da vicino come erano state disposte le pietre. Caris, maliziosa, gli si coricò accanto e lo cinse con un braccio, come se fossero stati a letto. Merthin toccò la calcina e si portò un dito alla bocca. «Sta asciugando molto in fretta» osservò. «È pericoloso, quando è bagnata?» Merthin la guardò. «Tu sei pericolosa, quando sei bagnata.» «Allora sono pericolosa anche adesso...» Merthin la baciò e Caris chiuse gli occhi. Dopo un minuto lei disse: «Andiamo a casa mia. Non c'è nessuno: mio padre e mia zia sono al banchetto di nozze». Stavano per alzarsi, quando udirono delle voci. Appartenevano a un uomo e a una donna che si trovavano proprio sotto la volta, e dal telo che copriva i lavori ancora da completare arrivavano chiarissime fino a loro. «Tuo figlio ha tredici anni, ormai» diceva la donna. «E vuole diventare cavaliere.» «Come tutti i ragazzi» fu la risposta. Merthin sussurrò a Caris: «Non ti muovere, o ci sentiranno». Caris presumeva che la donna fosse l'invitata dai capelli rossi. La voce dell'uomo le era familiare: le sembrava quella di un monaco... Ma un monaco non poteva avere un figlio! «E tua figlia ne ha dodici. Diventerà bellissima.» «Come sua madre.» «Mi assomiglia un po', sì.» Dopo un attimo di silenzio, la donna proseguì: «Non posso trattenermi: la contessa mi cercherà». Dunque era al seguito della contessa di Monmouth, forse una delle sue dame di compagnia. Stava dando notizie dei figli al loro padre, che evidentemente non li vedeva da anni. Chi poteva mai essere? «Perché hai voluto incontrarmi, Loreen?» «Solo per vederti. Mi spiace che tu abbia perso il braccio.» Caris rimase senza fiato. C'era solo un monaco senza un braccio: Thomas. Avrebbe preferito non aver sentito. Ma, adesso che aveva capito chi era, riconobbe perfettamente la voce. Possibile che avesse una moglie e due figli? Caris guardò Merthin, e vide che anche lui era incredulo. «Che cosa hai detto di me ai bambini?» domandò Thomas. «Che il loro padre è morto» rispose Loreen brusca. Poi scoppiò a pian-
gere. «Perché lo hai fatto?» «Non avevo scelta. Se non fossi entrato in monastero, mi avrebbero ammazzato. Anche adesso, non esco quasi mai dal priorato.» «Perché dovrebbero ucciderti?» «Per proteggere un segreto.» «Se tu fossi morto davvero, la mia vita sarebbe diversa. Potrei risposarmi, trovare qualcuno che si occupi dei miei figli. Invece, così, ho tutti gli oneri dell'essere moglie e madre, senza nessuno che mi aiuti... o che mi abbracci la notte.» «Mi spiace di essere ancora vivo.» «Non intendevo dire questo. Non ti voglio morto, tutt'altro. Ti ho amato, lo sai.» «Anch'io ti ho amato. Quanto un uomo come me può amare una donna.» Caris fece una faccia perplessa: che cosa intendeva per "un uomo come me"? Che fosse uno di quelli che preferivano i maschi alle femmine? Fra i monaci ce n'erano parecchi. Loreen, comunque, parve aver capito, perché replicò con dolcezza: «Lo so». Seguì un lungo silenzio. Caris sapeva che lei e Merthin non avrebbero dovuto origliare una conversazione tanto intima, ma ormai non potevano più farci nulla: era troppo tardi. Loreen chiese: «Sei felice?». «Sì. Non ero fatto per essere un marito o un cavaliere. Prego ogni giorno per i miei figli e per te, e chiedo perdono a Dio per tutto il sangue che ho versato. Conduco la vita che ho sempre sognato.» «Sono felice per te.» «Sei molto generosa.» «Non ci vedremo mai più, credo.» «Lo so.» «Dammi un bacio d'addio.» Dopo un lungo silenzio, Caris avvertì un fievole rumore di passi. Immobile, non osava respirare. Poi sentì Thomas che piangeva. I suoi singhiozzi erano appena udibili, ma sembravano sgorgare dal profondo. Si commosse anche lei. Alla fine Thomas si ricompose, tirò su con il naso, tossì e mormorò qualcosa, forse una preghiera. Quindi si allontanò. Finalmente lei e Merthin potevano muoversi di nuovo. Si alzarono e tornarono verso la scala a chiocciola, la scesero e giunsero nella navata della
cattedrale, senza dire una parola. Caris aveva la sensazione di essere rimasta a osservare un quadro che ritraeva una scena tragica, i cui due personaggi, dei quali si poteva solo indovinare il passato e il futuro, erano stati immortalati in una posa drammatica. Al pari di un dipinto, che scatena emozioni diverse in chi lo guarda, anche quella scena aveva colpito in maniera diversa lei e Merthin. Usciti nell'umido pomeriggio estivo, lui infatti commentò: «Che storia triste». «Io non provo tristezza, ma collera» ribatté Caris. «Quella donna è stata rovinata da Thomas.» «Che colpa ne ha lui? L'alternativa era morire...» «E così ha distrutto la vita di lei, che è senza marito ma non si può risposare ed è costretta a tirare su due figli da sola. Almeno Thomas ha il monastero.» «E lei la contessa.» «Non c'è paragone!» sbottò Caris irritata. «Sarà una lontana parente che la contessa tiene con sé per carità in cambio di qualche servizio, come acconciarle i capelli o sceglierle gli abiti. Quella povera donna è in trappola!» «Anche lui, però. Hai sentito che diceva di non poter uscire dal monastero.» «Ha comunque una posizione: è matricularius, prende decisioni, svolge dei compiti.» «Loreen ha i suoi figli...» «Esattamente! Lui si occupa dell'istituzione più importante nel raggio di miglia e miglia e lei si occupa dei suoi figli.» «La regina Isabella ha avuto quattro figli e per un certo periodo di tempo è stata una delle personalità più influenti di tutta Europa.» «Prima, però, si è dovuta sbarazzare del marito.» I due giovani uscirono dal recinto del priorato e proseguirono in silenzio verso la strada principale della città fino alla casa di Caris. Stavano bisticciando di nuovo, sempre sullo stesso argomento: il matrimonio. Merthin disse: «Vado a mangiare alla locanda Bell». Era la locanda del padre di Bessie. «Come vuoi» rispose Caris di malumore. Mentre Merthin si allontanava, gli gridò dietro: «Loreen starebbe molto meglio, se non si fosse mai sposata». Lui replicò, senza nemmeno voltarsi: «Ah, sì? E cos'altro farebbe?». Era proprio quello il problema, pensò Caris risentita, entrando in casa.
Che cos'altro poteva fare una donna, a parte sposarsi? In casa non c'era nessuno: Edmund e Petranilla erano al banchetto e la servitù aveva il pomeriggio libero. A salutare Caris c'era solo Scrap. Caris l'accarezzò distrattamente e si sedette a tavola, cupa. In tutto il mondo conosciuto le ragazze anelavano a sposare un uomo che amavano: perché quella prospettiva la riempiva di orrore allora? Perché provava sentimenti così fuori del comune? Di certo non assomigliava a sua madre: Rose desiderava soltanto essere una buona moglie per Edmund e pensava che i maschi avessero ragione a ritenersi superiori alle femmine. Il suo atteggiamento sottomesso era sempre stato causa di imbarazzo per Caris e, benché Edmund non se ne fosse mai lamentato, a suo parere infastidiva anche lui. Caris nutriva più rispetto per la determinata e poco affettuosa zia Petranilla che per sua madre, sempre così compiacente. Ma anche Petranilla aveva permesso che a forgiare la sua vita fossero gli uomini. Per anni aveva tramato affinché il padre diventasse il castaldo di Kingsbridge. Era animata da astio e risentimento: verso il conte Roland che l'aveva lasciata e verso il marito che era morto. Da quando era vedova si dedicava a Godwyn, cercando di fargli fare carriera. La regina Isabella non aveva agito molto diversamente: deposto il marito, re Edoardo II, aveva lasciato che a governare l'Inghilterra fosse il suo amante, Roger Mortimer, finché il figlio non era stato abbastanza grande e sicuro di sé da scalzarlo. Era questo che avrebbe dovuto fare anche Caris? Vivere la propria vita nell'ombra di un uomo? Suo padre voleva che lei lo aiutasse nel commercio della lana. Avrebbe anche potuto aiutare Merthin a procurarsi incarichi per costruire chiese e ponti, però, facendolo diventare il costruttore più ricco e importante di tutta l'Inghilterra. Si riscosse da quei pensieri sentendo bussare alla porta. Era madre Cecilia, la badessa. «Buongiorno!» la salutò sorpresa Caris. «Stavo proprio riflettendo sul fatto che le donne sono costrette a vivere la loro vita nell'ombra degli uomini. Ed ecco che arrivate voi a dimostrarmi il contrario.» «Non è proprio così» precisò Cecilia con un sorriso affettuoso. «Io vivo nell'ombra di Gesù Cristo, che fu uomo anche lui, benché figlio di Dio.» Caris non era sicura che fosse precisamente la stessa cosa. Aprì la credenza e prese una botticella del vino migliore. «Volete una tazza del renano di mio padre?» «Due dita soltanto, mischiate con l'acqua.»
Caris riempì a metà due coppe e vi versò l'acqua dalla brocca. «Mio padre e mia zia sono al banchetto.» «Lo so. Sono venuta a trovare te.» Caris lo immaginava. La badessa non se ne andava in giro per la città senza un motivo. Cecilia bevve un sorso e disse: «Ho pensato molto a te, e al modo in cui hai reagito il giorno in cui è crollato il ponte». «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» «Tutt'altro. Ti sei comportata in maniera esemplare: sei stata dolce ma ferma con i feriti, hai obbedito ai miei ordini ma hai anche preso delle iniziative. Insomma, sono rimasta impressionata.» «Grazie.» «E sembrava anche che quel lavoro... Non dico che ti piacesse, ma che ti desse soddisfazione.» «Le persone erano sofferenti e noi abbiamo cercato di portare loro sollievo e conforto: certo che mi ha dato soddisfazione!» «Infatti. Ne dà anche a me. È il motivo per cui mi sono fatta monaca.» Caris capì dove voleva arrivare madre Cecilia. «Non potrei passare la mia vita in convento.» «La tua naturale predisposizione per la cura degli infermi è solo una delle qualità che ho notato in te. Il giorno del crollo, quando la gente ha cominciato a portare nella cattedrale morti e feriti, ho chiesto loro chi avesse dato istruzioni sul da farsi. E mi hanno risposto che era stata Caris Wooler.» «Era evidente ciò che bisognava fare...» «Lo era per te» precisò madre Cecilia. Poi si protese verso la ragazza. «Non tutti posseggono capacità organizzative. Io lo so, perché le ho e le riconosco negli altri. Quando chi ci sta intorno è confuso, in preda al panico o paralizzato dalla paura, tu e io sappiamo assumere il comando.» Caris capì che era vero. «Già» ammise riluttante. «Ti osservo dal giorno in cui morì tua madre.» «Le portaste sollievo e conforto nella sofferenza.» «Quel giorno, parlando con te, capii che saresti diventata una donna eccezionale. E ne ebbi conferma quando frequentasti la nostra scuola. Adesso hai vent'anni, starai pensando a che cosa fare della tua vita. Io credo che Dio abbia del lavoro per te.» «Come fate a sapere che cosa pensa Dio?» Cecilia si indispettì. «Se a farmi questa domanda fosse stata un'altra per-
sona, l'avrei costretta a chiedere perdono in ginocchio. Capisco che la tua richiesta è sincera, però, e quindi ti rispondo: so che cosa pensa Dio perché accetto gli insegnamenti della sua Chiesa. E sono convinta della sua volontà che tu prenda i voti.» «Mi piacciono troppo gli uomini.» «È stato un problema anche per me, quando ero giovane. Ma, ti assicuro, con il tempo passa.» «Non tollero che mi si dica come devo vivere.» «Non fare la beghina.» «A cosa vi riferite?» «Le beghine sono monache che non accettano regole e considerano temporanei i loro voti. Vivono in comunità, coltivando la terra e allevando bestiame, e si rifiutano di essere dominate dagli uomini.» Caris era incuriosita al pensiero che ci fossero donne che sfidavano le regole. «E dove stanno?» «Nei Paesi Bassi, soprattutto. La fondatrice, Margherita Porete, ha scritto un libro intitolato Lo specchio delle anime semplici.» «Lo leggerei volentieri.» «È fuori questione: le beghine sono state condannate dalla Chiesa in quanto eretiche. Credevano nel Libero Spirito, ovvero che fosse possibile ottenere la perfezione spirituale su questa terra.» «La perfezione spirituale? E che cosa significa? Non capisco.» «Se chiudi la mente a Dio, non potrai mai capire.» «Mi dispiace, madre Cecilia, ma tutte le volte che un semplice essere umano mi parla di Dio, penso che gli uomini sono fallibili e quindi non possono avere la verità in pugno.» «Ritieni che la Chiesa non dica la verità?» «Be', i musulmani credono in cose diverse.» «Ma sono pagani!» «Loro ci chiamano "infedeli": è la stessa cosa. E Bonaventura Caroli dice che ci sono più musulmani che cristiani, a questo mondo. Una delle due religioni sbaglia, dunque.» «Attenta» ammonì severa Cecilia. «Non lasciarti portare alla blasfemia dalla tua smania di argomentare.» «Scusate.» Caris sapeva che Cecilia amava parlare con lei ma, ogni volta che discutevano, a un certo punto la badessa si zittiva e cominciava a pregare, costringendo Caris a fare marcia indietro. Invariabilmente, lei si sentiva in qualche modo tradita.
Cecilia si alzò in piedi. «So di non poterti convincere se questo va contro la tua volontà, ma volevo manifestarti le mie opinioni. Entrare nel nostro convento e dedicare la vita a confortare il prossimo sarebbe la cosa migliore per te. Grazie del vino.» Prima che la badessa andasse via, Caris le chiese: «Che fine ha fatto Margherita Porete? È ancora viva?». «No» rispose la badessa. «Fu bruciata sul rogo.» Uscì in strada e chiuse la porta. Caris fissò l'uscio, pensando che le donne se ne trovavano davanti tantissime, di porte chiuse, nel corso della loro vita: non potevano fare le apprendiste, studiare all'università, diventare preti o medici, tirare con l'arco o di spada, e neppure sposarsi senza sottomettersi alla tirannia dei mariti. Si chiedeva che cosa stesse facendo Merthin. Stava bevendo la birra migliore della locanda seduto vicino a Bessie, che gli sorrideva civettuola e si chinava per fargli vedere il seno sotto la scollatura? Merthin la stava forse corteggiando? E Bessie lo stuzzicava, rovesciando la testa all'indietro per mostrargli la morbida pelle bianca del collo? Sorrideva per fargli vedere i denti candidi e regolari? O Merthin stava forse parlando con Paul Bell, ponendogli domande interessate e rispettose per ingraziarselo? E se poi, ubriaco, avesse allungato le mani per abbracciare Bessie, spingendosi magari ad accarezzarle quel punto sensibile fra le cosce nude, come faceva anche con lei? Le vennero le lacrime agli occhi. Aveva l'uomo migliore della città e lo stava lasciando a una locandiera. Perché? In quel momento, entrò Merthin. Caris aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che non riusciva a capire che espressione avesse: era venuto per fare la pace o per dirgliene quattro con la foga di chi ha tracannato troppa birra? Si alzò in piedi, inquieta. Poi Merthin chiuse la porta e le andò vicino. «Non importa quello che fai e che dici: io ti amo.» Caris gli gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi. Lui le accarezzò i capelli e rimase in silenzio. Dopo un po', cominciarono a baciarsi. Caris provò un desiderio più forte, quel giorno: voleva le sue mani su di sé, la sua lingua nella bocca, le sue dita dentro di lei. Voleva Merthin, e lo voleva in un modo diverso. «Spogliamoci» disse. Non erano mai stati nudi insieme. Merthin sorrise felice. «Va bene. Ma se arriva qualcuno?» «Il banchetto durerà ore. E poi possiamo andare di sopra.»
Lo condusse in camera da letto e si tolse le scarpe. Di colpo, era intimidita: che cosa avrebbe pensato Merthin vedendola nuda per la prima volta? Sapeva di piacergli, sapeva che amava il suo seno, le sue gambe, il suo collo e il suo sesso: glielo diceva sempre, quando l'accarezzava. Adesso, però, avrebbe notato che aveva i fianchi troppo larghi, le gambe un po' corte, il seno piuttosto piccolo... Merthin non sembrava avere le stesse inibizioni. Si tolse la camicia, si abbassò le brache e le si mise di fronte disinvolto. Era magro ma forte e sembrava pieno di energia e vigore, come un giovane cervo. Caris notò che aveva i peli pubici del colore delle foglie in autunno. Guardandogli il pene eretto, Caris si sfilò il vestito da sopra la testa. Lui la squadrò da capo a piedi, ma ormai Caris non era più imbarazzata. Anzi, il suo sguardo emozionato la eccitava più delle carezze. «Sei bellissima» sussurrò Merthin. «Anche tu.» Si coricarono vicini sul sacco di paglia che fungeva da letto. Mentre si baciavano e si accarezzavano, Caris si rese conto che quel giorno i soliti giochetti non l'avrebbero soddisfatta. «Voglio fare l'amore» sussurrò. «Vuoi dire... sino in fondo?» Le venne in mente che sarebbe potuta rimanere incinta, ma scacciò quel pensiero. Era troppo eccitata per pensare alle conseguenze. «Sì» bisbigliò. «Lo voglio anch'io.» Merthin si sdraiò sopra di lei. Era da tanto tempo che Caris immaginava quel momento. Lo guardò in faccia: aveva l'espressione concentrata che a lei piaceva moltissimo, quella di quando lavorava e dava forma al legno con mani abili ed esperte. Merthin le schiuse il sesso con le dita: era bagnata e pronta a riceverlo. Le chiese: «Sei sicura?». Ancora una volta, Caris scacciò il timore di una gravidanza. «Sicurissima.» Ebbe un attimo di paura quando lui la penetrò e istintivamente si contrasse. Merthin si fermò, sentendo che lei gli resisteva. «Continua» lo esortò allora Caris. «Spingi più forte, non mi farai male.» Si sbagliava, perché quando lui spinse più forte Caris sentì una fitta improvvisa e si lasciò sfuggire un gemito di dolore. «Scusami» sussurrò lui. «Aspetta solo un momento.» Rimasero lì, fermi. Merthin le baciò le palpebre, la fronte e la punta del naso. Lei gli accarezzò il viso e lo guardò negli occhi nocciola. Poi il dolo-
re passò, tornò il desiderio e Caris cominciò a muoversi, felice di avere dentro di sé per la prima volta l'uomo che amava. La emozionava vedere l'intensità del suo desiderio. La fissava, sorridendo, mentre il ritmo dei loro movimenti aumentava. A un certo punto le disse, ansimando: «Non riesco più a fermarmi». «Non ti fermare, non ti fermare.» Lo osservò. Nel giro di pochi attimi, Merthin venne travolto dal piacere, serrò gli occhi e socchiuse le labbra, il corpo teso come un arco. Caris avvertì i suoi spasmi dentro di lei, lo sentì eiaculare e pensò che nulla al mondo l'aveva preparata a una simile felicità. Un istante dopo, anche lei venne travolta dal piacere. Era una sensazione che aveva già provato, ma mai con tanta intensità. Chiuse gli occhi, si spinse forte contro di lui e si lasciò andare a un brivido che la scosse come un fuscello al vento. Rimasero vicini a lungo, dopo. Lui le nascose la faccia sul collo e Caris sentì il suo fiato caldo sulla pelle e gli accarezzò la schiena sudata. Piano piano, lei sentì il suo battito rallentare e fu pervasa da una dolcissima sensazione di beatitudine, come davanti a un tramonto in una sera d'estate. «Allora è questo ciò di cui si fa tanto parlare» disse dopo un po'. 25 Il giorno dopo la nomina di Godwyn a priore di Kingsbridge, di mattina Edmund Wooler andò a casa dei genitori di Merthin. Merthin tendeva a dimenticare che Edmund era un personaggio importante, perché lui lo trattava come uno di famiglia, ma Gerald e Maud si comportavano come se a far loro visita fosse un membro della famiglia reale. Si vergognavano dell'umile dimora in cui abitavano, di una stanza sola, con i pagliericci per terra, un caminetto, un tavolo e un cortiletto sul retro. Erano tutti svegli dall'alba, per fortuna. Si erano lavati e vestiti e avevano messo un po' in ordine. Ciò nonostante, quando Edmund entrò zoppicante in casa, la madre di Merthin spolverò uno sgabello, si aggiustò i capelli, chiuse la porta che dava sul retro, la riaprì e mise un ceppo nel fuoco. Il padre si inchinò ripetutamente, si infilò la sopravveste e offrì a Edmund una tazza di birra. «Grazie, sir Gerald, preferisco di no» rispose Edmund, intuendo che non ne avevano in abbondanza. «Gradirei piuttosto un po' di zuppa, lady Maud, se si può.» In tutte le case c'era sempre una pentola di avena sul fuoco, cui
si aggiungevano ossa, torsoli di mela, gusci di piselli e altri avanzi, che cuocevano lentamente per giorni. Con un po' di sale e di erbe aromatiche, era un piatto dal sapore sempre diverso. Soprattutto, a buon mercato. Lusingata, Maud versò un po' di zuppa in una ciotola e la posò sul tavolo con un cucchiaio e una fetta di pane. Merthin era ancora euforico dal pomeriggio precedente e si sentiva quasi ebbro. Si era addormentato pensando al corpo nudo di Caris e si era svegliato con il sorriso. Adesso, però, gli venne in mente il confronto avuto con Elfric a proposito di Griselda e, per un attimo, temette che Edmund fosse venuto per picchiarlo con un pezzo di legno e urlargli: "Hai deflorato mia figlia!". Tuttavia si tranquillizzò appena Edmund si sedette a tavola. L'uomo prese in mano il cucchiaio ma, prima di cominciare a mangiare, disse a Merthin: «Adesso che abbiamo un priore, vorrei che cominciassimo a costruire il nuovo ponte». «Bene» rispose il giovane. Edmund assaggiò la zuppa e si leccò le labbra. «È la migliore che abbia mai mangiato, lady Maud.» La donna sembrava soddisfatta. Merthin era grato a Edmund per la cortesia con cui trattava i suoi genitori, i quali si vergognavano molto della loro condizione ed erano senza dubbio assai lieti che il castaldo sedesse al loro desco e li chiamasse sir Gerald e lady Maud. «Ho rischiato di non sposarla, sapete?» disse Gerald. Merthin era sicuro che Edmund conoscesse già la storia. Tuttavia il castaldo rispose: «Davvero? E come mai?». «La vidi una domenica di Pasqua alla messa e mi innamorai subito di lei. Nella cattedrale di Kingsbridge dovevano esserci mille persone, quel giorno, ma lei era la più bella!» «Non esagerare, Gerald!» protestò scherzosamente la moglie. «Poi scomparve tra la folla e io non riuscii a ritrovarla. Non sapevo il suo nome e chiesi in giro chi fosse quella bella ragazza con i capelli biondi, ma sembrava che tutte le giovani donne fossero bionde e belle.» Intervenne Maud: «Andai via subito dopo la messa. Stavamo alla locanda dell'Agrifoglio e mia madre non si sentiva bene, perciò corsi da lei appena possibile». «La cercai in ogni angolo della città senza trovarla» riprese Gerald. «Dopo Pasqua, tutti tornarono a casa. Io abitavo a Shiring, lei a Casterham,
ma io non lo sapevo. Pensavo che non l'avrei più rivista, immaginavo fosse un angelo sceso dal cielo per assicurarsi che tutti andassero alla funzione pasquale.» «Ti prego, Gerald» si schermì la donna. «Ma ormai il mio cuore era tutto per lei. Le altre non mi interessavano più ed ero pronto a passare la vita alla ricerca dell'angelo di Kingsbridge. Andò avanti per due anni, poi la vidi a un torneo, a Winchester.» Maud spiegò: «Mi avvicinò un perfetto sconosciuto e mi disse: "Sei tu... Dopo tutto questo tempo! Devo sposarti, prima che tu scompaia una seconda volta". Lo presi per matto». «Incredibile!» esclamò Edmund. Merthin pensò che la pazienza del castaldo fosse già stata messa a dura prova e tornò a parlare di affari. «Ho fatto dei disegni sul pavimento di gesso nel laboratorio dei muratori, alla cattedrale.» Edmund annuì. «Di un ponte di pietra largo abbastanza da consentire il passaggio di due carri affiancati?» «Come avevate detto voi. E con una rampa su ciascuna sponda. Ho trovato il modo di ridurre i costi di un terzo.» «Straordinario! E come?» «Ve lo mostrerò appena avrete finito di mangiare.» Edmund ingollò l'ultimo cucchiaio di zuppa e si alzò in piedi. «Ho finito. Andiamo.» Si voltò verso Gerald e chinò il capo in segno di ringraziamento. «Grazie dell'ospitalità.» «È stato un piacere.» Merthin e Edmund uscirono ma, invece di dirigersi verso la cattedrale, Merthin condusse l'uomo al fiume. Piovigginava. La camminata di Edmund era caratteristica e quasi tutti per la strada lo riconoscevano e si inchinavano in segno di rispetto o gli dicevano qualcosa. Merthin tutto a un tratto si sentì agitato. Erano mesi che studiava il progetto per il nuovo ponte. Ci aveva pensato persino mentre lavorava alla chiesa di St Mark e supervisionava i carpentieri che costruivano il nuovo tetto demolendo contemporaneamente il vecchio. In quel momento, per la prima volta, lo avrebbe sottoposto al giudizio di un'altra persona. Edmund non aveva idea di quanto fosse innovativo. La strada fangosa scendeva fra case e botteghe. In due secoli di pace le mura della città erano via via crollate e in alcuni punti ciò che ne restava era stato incorporato nei recinti degli orti. Sulla riva del fiume c'erano le botteghe che facevano il più grande consumo di acqua, come quelle dei
tintori e dei conciatori. Merthin e Edmund passarono fra una macelleria che emanava fetore di sangue e una fucina rumorosa, e arrivarono sulla sponda fangosa. Direttamente davanti a loro c'era l'isola dei Lebbrosi. «Perché siamo venuti qui?» domandò Edmund. «Il ponte è a un quarto di miglio più a monte!» «Un tempo» replicò Merthin. Poi prese fiato e aggiunse: «Secondo me, dovremmo costruirlo qui, adesso». «Vuoi costruire un ponte da qui all'isola?» «E dall'isola all'altra sponda. Due ponti, più corti, anziché uno lungo. Costa molto meno.» «Ma la gente dovrà attraversare l'isola per passare da uno all'altro.» «E allora?» «È un lebbrosario!» «È rimasto un lebbroso soltanto, e possiamo trasferirlo altrove. La malattia pare debellata, ormai.» Edmund rifletté. «Dunque si entrerà in città proprio da qui, dove siamo noi ora.» «Dovremo costruire una nuova strada e buttare giù qualcuna di queste costruzioni, ma i costi saranno minimi, rispetto a quanto risparmieremo sul ponte.» «E sull'altra sponda?» «C'è un pascolo che appartiene al priorato. Dal tetto della chiesa di St Mark si vede tutta la zona. Per questo mi è venuta l'idea.» Edmund era favorevolmente colpito. «Geniale. Mi chiedo perché non l'avessero costruito qui già in origine.» «Il primo ponte fu eretto centinaia di anni fa, forse allora il fiume era diverso da adesso. Nel corso dei secoli le sponde cambiano conformazione. Magari il braccio fra l'isola e il pascolo era più largo, una volta. Se così fosse stato, non avrebbe avuto senso costruirlo qui.» Edmund osservò l'isola e Merthin seguì il suo sguardo. Il lebbrosario era costituito da una serie di baracche di legno su una superficie di tre o quattro acri. La terra era troppo rocciosa per poter essere coltivata, ma qua e là crescevano un po' d'erba e qualche albero sparuto. L'isolotto era infestato dai conigli, che gli abitanti della città non mangiavano a causa della superstizione che voleva fossero gli spiriti dei lebbrosi morti. Un tempo i malati allevavano polli e maiali. Adesso, però, era più semplice portare il cibo dal priorato all'unico lebbroso rimasto. «Hai ragione» convenne Edmund. «In
città non ci sono casi di lebbra da almeno dieci anni.» «Io non ho mai visto un lebbroso» confermò Merthin. «Già» fece Edmund pensoso. Poi si voltò verso gli edifici alle loro spalle. «Bisognerà fare un'opera di convincimento» disse. «Persuadere la gente a cui dovremo buttar giù la casa a considerarsi fortunata, perché andrà a stare in un posto più bello. E magari benedire l'isolotto con l'acqua santa, per eliminare la superstizione. Ma possiamo farcela.» «Ho disegnato i due ponti con gli archi a sesto acuto, come la cattedrale» disse Merthin. «Saranno bellissimi.» «Mostrami i disegni.» I due si allontanarono dal fiume e salirono verso il priorato. La cattedrale era lucida di pioggia e avvolta dalle nuvole basse, che parevano fumo denso. Era una settimana che Merthin non entrava nel laboratorio. Era ansioso di rivedere i suoi disegni e di spiegarli a Edmund. Aveva riflettuto molto sulle correnti che avevano minato le fondamenta del vecchio ponte e aveva cercato una soluzione per far sì che quello nuovo non subisse lo stesso destino. Accompagnò Edmund su per la scala a chiocciola. I calzari bagnati scivolavano sulla pietra consunta, ma l'uomo si tirava dietro la gamba offesa con grande energia. Nel laboratorio erano accese diverse lampade. Lì per lì Merthin ne fu contento, perché i disegni sarebbero stati più visibili. Poi però scorse Elfric disegnare sul gesso. Provò un senso di frustrazione: l'ostilità fra lui e il suo vecchio maestro era più accesa che mai. Elfric non era riuscito a impedire che gli abitanti della città gli dessero lavoro, ma continuava a negargli l'ammissione alla corporazione dei carpentieri, costringendolo a restare in una posizione anomala e illegale, benché tollerata. Quello di Elfric era un atteggiamento sterile, dettato solo dal rancore. La sua presenza lì non avrebbe permesso a Merthin di parlare liberamente con Edmund. Si disse di non prendersela troppo: non poteva essere Elfric a sentirsi a disagio? Tenne la porta aperta per Edmund ed entrò con lui nel laboratorio. E rimase sgomento. Elfric era chino a disegnare sul pavimento di gesso, sul quale aveva appena steso uno strato fresco con cui aveva cancellato il lavoro di Merthin. Il ragazzo esclamò, incredulo: «Che cosa avete fatto?». Elfric gli lanciò un'occhiataccia e continuò a disegnare, senza neppure
rispondergli. «Ha cancellato i miei disegni» spiegò Merthin a Edmund. «Come pensi di giustificarti?» domandò il castaldo in tono severo. Elfric non poteva evitare di rispondere a suo suocero. «Non devo giustificarmi» disse. «Dopo un po', è permesso applicare uno strato nuovo di gesso.» «Ma hai coperto disegni importanti!» «Davvero? Il priore non ha commissionato alcun disegno a questo ragazzo, che peraltro non è neppure autorizzato a usare il nostro pavimento di gesso.» Edmund era un uomo collerico e la fredda insolenza di Elfric lo irritava moltissimo. «Non fare lo sciocco!» lo rimproverò. «Ho chiesto io a Merthin di preparare un progetto per il nuovo ponte.» «Mi spiace, ma l'unico che ha l'autorità per fare una simile richiesta è il priore.» «È la corporazione a tirare fuori i soldi, però!» «Si tratta di un prestito, che verrà restituito a tempo debito.» «Ci dà comunque il diritto di dire la nostra.» «Sul serio? Parlane con il priore, è meglio. Non credo che approverà la tua scelta di affidare i lavori a un apprendista di scarsa esperienza.» Merthin osservò i disegni di Elfric. «Immagino che questo sia il vostro progetto per il ponte» disse. «Il priore Godwyn ha affidato a me l'incarico.» Edmund rimase di sasso. «Senza consultarsi con noi?» Elfric rispose risentito: «Cosa c'è, non vuoi che il lavoro venga dato al marito di tua figlia?». «Archi tondi...» disse Merthin, osservando il disegno di Elfric. «E luci strette. Quanti piloni avete previsto?» Elfric era riluttante a rispondere, ma Edmund si aspettava una spiegazione. «Sette» disse. «Il ponte di legno ne aveva solo cinque!» esclamò Merthin. «Perché tanto spessi e con luci tanto strette?» «Per reggere il peso del lastricato.» «Non è necessario avere piloni così massicci. Guardate la cattedrale: le sue colonne reggono tutto il peso del tetto, eppure sono sottili e distanziate.» Elfric sbuffò. «Non si tirano carri, sui tetti delle chiese.» «Sì, però...» Merthin non finì la frase: la pioggia sul tetto della cattedrale
probabilmente pesava molto di più di un carro pieno di pietre tirato da buoi, ma perché spiegarlo a Elfric? Non aveva alcuna voglia di insegnare a un costruttore incompetente. Il progetto di Elfric valeva poco o niente, ma Merthin non voleva perfezionarlo: il suo scopo era farne uno migliore. Dunque, rimase zitto. Edmund si rese conto che stava sprecando il fiato. «Non sarete voi due a prendere la decisione» dichiarò. E se ne andò. La figlia di John il conestabile venne battezzata nella cattedrale dal priore Godwyn. Le fu concesso questo onore perché il padre svolgeva una mansione importante nel priorato. Alla cerimonia parteciparono tutte le personalità di rilievo di Kingsbridge. Benché John non avesse né ricchezze né legami importanti, suo padre aveva lavorato nelle stalle del priorato, e Petranilla sosteneva che le persone rispettabili dovevano mostrargli amicizia e sostegno. Caris pensava che, se erano tutti così ben disposti nei confronti di John, era perché avevano bisogno di lui per proteggere le loro proprietà. Pioveva di nuovo e la gente intorno al fonte battesimale era più bagnata della neonata spruzzata di acqua benedetta. Nel vedere quell'esserino minuscolo, Caris provò una strana sensazione. Dopo essersi data a Merthin, aveva cercato di non pensare che poteva essere rimasta incinta, ma quel giorno la vista di un bambino piccolo la commosse. La chiamarono Jesca. Godwyn non aveva mai avuto dimestichezza con i bambini e, non appena il breve rito si fu concluso, si voltò per andarsene. Ma Petranilla lo prese per una manica. «E il ponte?» chiese al figlio. Lo aveva detto a voce bassissima, tuttavia Caris sentì e decise di stare ad ascoltare. Godwyn rispose: «Ho chiesto a Elfric di preparare un progetto e una stima di tutti i costi». «Bene. Meglio che la cosa resti in famiglia.» «Elfric è il costruttore del priorato.» «Potrebbero volersi intromettere anche altri.» «Sono io a decidere chi costruirà il ponte.» Caris, irritata, non riuscì a fare a meno di intervenire. «Come ti permetti?» chiese a Petranilla. «Non stavo parlando con te» replicò sua zia. Caris la ignorò. «Perché il progetto di Merthin non può neanche essere
preso in considerazione?» «Perché Merthin non è di famiglia.» «Ma se vive praticamente con noi!» «Non siete sposati, però. Se lo foste, sarebbe diverso.» Caris sapeva di essere in posizione svantaggiata e quindi cambiò discorso. «Hai sempre avuto pregiudizi nei confronti di Merthin» le disse. «Ma lo sanno tutti che è più bravo di Elfric.» Sua sorella Alice udì e intervenne. «Elfric gli ha insegnato tutto e adesso lui pretende di saperne di più!» Era una bugia e Caris si stizzì. «Chi ha costruito il traghetto?» domandò, alzando la voce. «Chi ha riparato il tetto della chiesa di St Mark?» «Merthin lavorava con Elfric, quando ha costruito il traghetto. E a Elfric non è mai stato chiesto di riparare il tetto della chiesa di St Mark.» «Perché si sapeva già che non sarebbe riuscito a risolvere il problema.» Godwyn le interruppe. «Per favore!» disse alzando le mani come per proteggersi. «So che siete mie parenti, ma io sono il priore e siamo nella cattedrale. Non potete fare questo baccano.» «Stavo per dirlo io: abbassate la voce!» esclamò Edmund avvicinandosi. «Dovresti appoggiare tuo genero» replicò Alice in tono di accusa. Caris pensò che sua sorella stava diventando come Petranilla. Sebbene avesse solo ventun anni, meno della metà di quelli di Petranilla, aveva la stessa faccia colma di disapprovazione. E stava anche ingrassando: il seno le faceva gonfiare la veste come una vela al vento. Edmund la guardò severo. «Certe decisioni non si prendono sulla base dei rapporti familiari» dichiarò. «Il fatto che Elfric abbia sposato mia figlia non renderà il suo ponte più solido.» Su certe cose il padre aveva le idee chiare, rifletté Caris: era sua ferma convinzione che fosse meglio rivolgersi sempre ai fornitori più affidabili e ai lavoranti più esperti, che fossero o no di famiglia. Era solito dire che chi si circonda di accoliti fedeli non crede veramente in se stesso. "E, se non crede in se stesso lui, perché dovrei crederci io?" concludeva. Petranilla domandò: «Su che basi si prendono, allora?». Lo guardò incuriosita. «Evidentemente hai già un'idea in proposito.» «Il priorato e la corporazione esamineranno i progetti di Elfric e di Merthin, e tutti gli altri che verranno presentati» rispose fermo Edmund. «Sia i disegni sia i costi previsti, che potranno essere valutati anche dagli altri costruttori.» Alice borbottò: «Non si è mai sentito! Questa non è una gara di tiro con
l'arco! Elfric è il costruttore del priorato, dovrebbe essere lui a occuparsi del ponte». Suo padre la ignorò. «Alla fine, gli autori dei progetti risponderanno alle domande dei cittadini della corporazione parrocchiale riunita in assemblea. E infine...» Guardò Godwyn, che cercava di rimanere impassibile nonostante fosse sgomento per come la decisione gli fosse stata strappata dalle mani. «... sarà il priore a scegliere.» L'assemblea si riunì nel Palazzo delle corporazioni, che aveva una sala sotterranea in pietra e una struttura superiore in legno, con il tetto di tegole e due camini di pietra. Nel sotterraneo c'erano un'ampia cucina in cui venivano preparati i pranzi in occasione delle feste, la prigione e l'ufficio del conestabile. Il pianterreno aveva le dimensioni di una chiesa, lungo cento piedi e largo trenta. In fondo, c'era una cappella. Siccome la sala principale era molto grande, e le travi abbastanza lunghe per un tetto di trenta piedi erano rare e costose, era divisa da un colonnato in legno, che sosteneva le putrelle. Era un edificio all'apparenza poco pretenzioso, fatto con gli stessi materiali delle abitazioni più umili ma, come soleva dire Edmund, da quelle parti il denaro dei cittadini veniva usato per rendere sempre più maestosa la cattedrale. E, comunque, il Palazzo delle corporazioni era funzionale senza ostentazione. C'erano arazzi alle pareti e vetri alle finestre, oltre a due enormi caminetti che riuscivano a riscaldarlo anche in pieno inverno. Quando gli affari andavano bene, il cibo che vi veniva servito era degno di un re. La corporazione parrocchiale era stata costituita centinaia di anni prima, quando Kingsbridge era ancora una piccola città. Un ristretto numero di mercanti si era unito per raccogliere il denaro necessario per gli arredi della cattedrale. Ma quando i ricchi mangiano e bevono insieme è inevitabile che finiscano col parlare dei propri interessi comuni e ben presto la raccolta dei soldi era divenuta secondaria rispetto alla politica. I mercanti di lana erano stati dominanti nella corporazione sin dall'inizio e per questo motivo a un'estremità del Palazzo delle corporazioni c'erano una gigantesca bilancia e un peso da trecentosessantaquattro libbre, l'equivalente di un sacco di lana. Poi la città era cresciuta e si erano formate altre corporazioni, a rappresentare diverse categorie di artigiani, come carpentieri, muratori, birrai e orafi, i cui esponenti principali facevano parte anche della corporazione parrocchiale, che continuava a essere la più importante di tutte. Aveva me-
no potere di quella mercantile, che governava la maggior parte delle città inglesi, ma il priorato di Kingsbridge, a capo della città, ne aveva proibito l'istituzione nelle sue terre. Merthin non aveva mai preso parte ad assemblee o banchetti nel Palazzo delle corporazioni, ma vi era entrato diverse volte e aveva studiato la complessa disposizione delle travi, imparando come il peso di un tetto molto ampio potesse venire retto da pochi tronchi di legno. L'architettura dell'edificio era molto bella, ma uno o due elementi a Merthin sembravano superflui, se non addirittura dannosi, perché trasferivano il peso ad aree più deboli. In realtà, nessuno sapeva che cosa facesse stare in piedi le case e i costruttori si lasciavano guidare dall'istinto e dall'esperienza. Perciò a volte sbagliavano. Quella sera Merthin era terribilmente in ansia, troppo agitato per apprezzare le soluzioni costruttive del Palazzo delle corporazioni. L'assemblea stava per giudicare il suo progetto. Era convinto che fosse di gran lunga migliore di quello di Elfric, ma... sarebbe riuscito a convincere anche gli altri? Elfric aveva utilizzato il pavimento di gesso del laboratorio della cattedrale per i propri disegni. Merthin avrebbe potuto chiedere a Godwyn il permesso di usarlo anche lui ma, temendo ulteriori sabotaggi da parte del suo avversario, aveva escogitato un'alternativa: aveva teso una pergamena su un telaio di legno e vi aveva disegnato sopra con pennino e inchiostro. Quella sera il suo stratagemma gli sarebbe tornato utile, perché gli avrebbe permesso di portare con sé i propri disegni e mostrarli all'assemblea. Elfric, invece, poteva solo sperare che i presenti ricordassero che cosa aveva tracciato sul gesso. Merthin posò il disegno su un cavalletto a tre gambe che aveva inventato per l'occasione e lo posizionò all'ingresso della sala, così che tutti, arrivando, potessero vederlo di nuovo. Lo avevano già esaminato nei giorni precedenti, così come erano saliti nel laboratorio della cattedrale a guardare i disegni di Elfric. Merthin pensava che molti preferissero il suo progetto, ma fossero riluttanti ad appoggiare un giovane piuttosto che un artigiano esperto. I più non avevano ancora espresso il loro parere. Il brusio si faceva sempre più forte, quante più persone entravano nella sala. Erano vestite a festa, come quando andavano in chiesa: gli uomini indossavano costose giubbe di lana, benché fosse estate, e le donne esibivano elaborate acconciature. Sebbene tutti sostenessero che le donne erano inferiori e inaffidabili, nella pratica molte delle personalità più importanti
in città erano di sesso femminile. Madre Cecilia, per esempio, che sedeva in prima fila insieme alla Venerabile Julie, la sua assistente personale. Anche Caris era presente, riconosciuta da tutti come il braccio destro del padre. Quando andò a sistemarsi accanto a Merthin e gli sfiorò una gamba con la sua, il ragazzo provò un brivido di desiderio. Tutti quelli che esercitavano un mestiere in città dovevano fare parte di una corporazione e i forestieri potevano esercitarlo solo nei giorni di mercato. Anche monaci e preti sottostavano allo stesso obbligo, se volevano commerciare, cosa che spesso facevano. Quando un uomo moriva, poi, era consuetudine che la vedova continuasse la sua attività. Betty Baxter era la fornaia più ricca della città, Sarah Taverner gestiva la locanda dell'Agrifoglio. Sarebbe stato difficile, oltre che crudele, impedire a quelle donne di guadagnarsi da vivere: molto meglio lasciarle entrare nella corporazione. Di norma a presiedere l'assemblea era Edmund, che sedeva su uno scanno di legno posto su una pedana a un'estremità della sala. Quel giorno, però, le sedie sulla pedana erano due. Edmund prese posto su una e, quando arrivò il priore Godwyn, gli fece cenno di andare ad accomodarsi sull'altra. Godwyn era accompagnato dai monaci anziani e Merthin fu lieto di vedere Thomas fra loro. C'era anche Philemon, alto e dinoccolato, e Merthin si chiese fugacemente perché Godwyn se lo fosse portato appresso. Godwyn aveva l'aria turbata. Aprendo la seduta, Edmund sottolineò che la decisione finale spettava al priore, essendo responsabile del ponte. Nella pratica, gli aveva già tolto questo potere convocando l'assemblea. Se quella sera avessero raggiunto una chiara maggioranza, per Godwyn sarebbe stato difficile andare contro il parere espresso dai mercanti su una questione legata più al commercio che alla religione. Edmund invitò il priore a cominciare con una preghiera e Godwyn lo accontentò. Sapeva di essere stato manovrato, però, ed era per questo che aveva la faccia afflitta. Edmund si alzò in piedi e disse: «I progetti di Elfric e Merthin sono corredati dai costi, calcolati con lo stesso metodo». Elfric intervenne: «Certo che il metodo è lo stesso: Merthin l'ha imparato da me!». In sala qualcuno tra i più anziani si mise a ridere. Era la verità: esistevano formule per calcolare i costi per ogni piede quadrato di muro, ogni iarda cubica di materiale da riempimento, ogni piede di campata di tetto e anche per lavori più complessi, come gli archi e le volte. I costruttori usavano tutti lo stesso metodo, anche se con piccole variazioni personali. I calcoli relativi al ponte erano stati difficili, seppure non quanto quelli necessari per la costruzione di una chiesa.
Edmund riprese la parola: «Hanno controllato ciascuno i costi dell'altro, per cui su tali questioni non ci sarà discussione». «Lo sappiamo» interloquì Edward il macellaio. «I costruttori chiedono tutti lo stesso sovrapprezzo!» I presenti scoppiarono a ridere. Edward godeva delle simpatie dei suoi concittadini perché era molto spiritoso, e delle sue concittadine perché era un bell'uomo, con gli occhi scuri e lo sguardo seducente. L'unica a non trovarlo granché simpatico era la moglie, che sapeva delle sue scappatelle e un giorno lo aveva aggredito con uno dei suoi coltellacci da macellaio. Edward aveva ancora il braccio fasciato. «Il ponte di Elfric costerà duecentottantacinque sterline» dichiarò Edmund, appena si fu ristabilito il silenzio. «Quello di Merthin trecentosette. C'è una differenza di ventidue sterline, come molti di voi avranno calcolato più velocemente di me.» Anche queste parole scatenarono risatine: era noto che Edmund si faceva fare i calcoli dalla figlia. Usava ancora i numeri romani, perché non riusciva ad abituarsi a quelli arabi, che sveltivano moltissimo i conteggi. «Ventidue sterline sono tante» osservò Bill Watkin, il costruttore che si era rifiutato di far lavorare Merthin. Con la testa quasi calva, sembrava un monaco. Dick il birraio ribatté: «Sì, ma il ponte di Merthin è largo il doppio. Eppure costa molto meno del doppio, perché è un progetto più intelligente». Dick era un grande estimatore della birra che produceva e aveva una pancia prominente come quella di una donna incinta. Bill replicò: «Quanti giorni in un anno ci serve un ponte largo abbastanza da far passare due carri?». «Tutti quelli di mercato, più la settimana della fiera della lana.» «Non per tutto il giorno» precisò Bill. «Soltanto per un'ora la mattina e un'ora la sera.» «A me è già capitato di aspettare due ore buone per passare di là del fiume con un carro d'orzo.» «Perché non hai scelto un giorno tranquillo per trasportarlo.» «Io l'orzo lo trasporto tutti i giorni.» Dick aveva la più grossa birreria della contea, con un'enorme cisterna di rame della capacità di cinquecento galloni, da cui aveva preso il nome la sua taverna, il Calderaio. Edmund interruppe il battibecco. «I problemi causati dal traffico sul ponte non sono solo questi» rimarcò. «Certi mercanti preferiscono andare a Shiring, dove non c'è ponte e non ci sono code. Altri fanno affari mentre aspettano di poter passare e se ne vanno senza neppure entrare in città, ri-
sparmiando sia il pedaggio sia le imposte del mercato. È illegale, lo sappiamo, ma non siamo in grado di impedirlo. E poi c'è il problema di come la gente vede Kingsbridge. In questo momento è la città in cui è crollato il ponte. Se vogliamo recuperare i commerci che stiamo perdendo, dobbiamo fare in modo che la gente cambi idea e pensi che la nostra sia la città con il ponte migliore di tutta l'Inghilterra.» Edmund era un uomo assai influente, e Merthin cominciò a pensare di potercela fare. Betty Baxter, una donna molto grassa che aveva già superato i quarant'anni, si alzò in piedi e indicò il disegno di Merthin. «Cos'è questa cosa nel mezzo del parapetto, sopra il pilone?» domandò. «Quella specie di piattaforma che spunta sull'acqua? Serve per pescare?» Altre risate. «È una piattaforma di sicurezza per i pedoni» rispose Merthin. «Se stai attraversando il ponte a piedi e arriva il conte di Shiring con venti cavalieri a cavallo, ti togli dalla strada e ti rifugi lì.» «Ma ci sta anche Betty?» disse Edward il macellaio. Ci fu una risata generale. Betty continuò a fare domande. «Perché il pilone è smussato? Quelli di Elfric sono squadrati.» «Per deviare i detriti. Se guardate i ponti sui fiumi, vedrete che i piloni immancabilmente sono pieni di crepe e di fessure. Perché? Probabilmente a causa dei tronchi d'albero e dei pezzi di legno trasportati dalla corrente che ci sbattono contro.» «Come Ian il barcaiolo quando è ubriaco» commentò ancora Edward. «Che siano detriti o barche, ai miei piloni non faranno niente, visto che hanno questa forma. Invece quelli di Elfric patiranno tutti gli urti.» Elfric ribatté: «Qualche pezzo di legno non li danneggerà certamente, robusti come sono». «Non ne sarei tanto sicuro» disse Merthin. «I tuoi archi sono più stretti dei miei e quindi l'acqua scorrerà fra i piloni a velocità superiore e i detriti sbatteranno contro la pietra con forza maggiore, provocando danni più gravi.» Dalla sua espressione, Merthin capì che Elfric non ci aveva pensato. Ma le persone riunite in assemblea non erano esperti costruttori: come avrebbero fatto a decidere chi aveva ragione? Alla base di ogni pilone, Merthin aveva disegnato una fondazione di pietrame per impedire alla corrente di minarne la stabilità, com'era successo al vecchio ponte di legno. Nessuno però gli fece domande su quella soluzione
e lui non ne spiegò il motivo. Betty non aveva finito. «Perché il tuo ponte è così lungo? Quello di Elfric va da una sponda all'altra, il tuo invece prosegue per diverse iarde sulla terraferma. Non è una spesa inutile?» «Il mio ponte ha una rampa su entrambe le estremità, così quando scendi sei sulla terra asciutta e non nel fango. Basta carri impantanati che bloccano il traffico per un'ora.» «Sarebbe meno costoso lastricare la strada» puntualizzò Elfric, che cominciava ad avere un tono disperato. Si alzò in piedi Bill Watkin. «Io non capisco chi ha ragione e chi ha torto sulle questioni tecniche» dichiarò. «Quando questi due discutono mi confondono le idee. Eppure sono un costruttore. Immaginate un po' chi fa un altro mestiere!» Molti sembravano d'accordo. Bill continuò: «Dunque propongo di decidere in base all'uomo, non al progetto». Era proprio ciò che Merthin temeva. Rimase ad ascoltare, scoraggiato. «Chi conosciamo meglio, fra i due?» continuò Bill. «Su chi sappiamo di poter contare? Elfric fa il costruttore in questa città da vent'anni, ormai. Sappiamo che le case che ha tirato su sono ancora in piedi. Abbiamo visto le riparazioni che ha fatto alla cattedrale. Dall'altra parte c'è Merthin, un ragazzo in gamba, nessuno lo nega, ma un po' avventato, che non ha nemmeno finito il suo apprendistato. Non ha granché per dimostrare che è in grado di assumersi la responsabilità del progetto più grandioso di Kingsbridge dopo la costruzione della cattedrale. Io non ho dubbi: so a chi dare la mia fiducia.» Si risedette. Diversi si dissero d'accordo a non giudicare il progetto, ma l'uomo. Era un'ingiustizia. Prese la parola frate Thomas. «Chi, qui a Kingsbridge, ha mai costruito qualcosa che comportasse l'esecuzione di lavori sott'acqua?» Merthin sapeva che nessuno aveva quel tipo di esperienza, in città, e provò un barlume di speranza. Forse quella poteva essere la sua salvezza. Thomas continuò: «Vorrei sapere come i due progetti affrontano il problema». Merthin aveva chiara la soluzione, ma non voleva parlare per primo per non rischiare che Elfric gliela copiasse. Strinse le labbra e sperò che Thomas, che di solito lo aiutava, capisse il messaggio. Thomas incrociò il suo sguardo e chiese: «Elfric, tu come hai intenzione di fare?». «La risposta è molto semplice» disse lui. «Nei punti in cui si vuole co-
struire il pilone si butta del pietrisco sul letto del fiume fino al pelo dell'acqua. Poi, su quella base, si costruisce.» Come Merthin si aspettava, Elfric aveva esposto la soluzione più rudimentale. A quel punto, spiegò la sua: «Ci sono due punti deboli nel metodo di Elfric. Il primo è che un mucchio di pietrisco è poco stabile sott'acqua come fuori dell'acqua: con il passare del tempo si muove e cede e il risultato è che il ponte sprofonda. Se vogliamo un ponte che duri solo qualche anno, va più che bene. Ma se desideriamo che resista nel tempo, allora no». In sala si alzò un brusio. «Il secondo problema è che il pietrisco sotto il livello dell'acqua scivola naturalmente verso l'esterno restringendo il passaggio per le imbarcazioni, specie quando l'acqua è bassa. E gli archi di Elfric sono già abbastanza stretti.» Elfric replicò seccato: «Tu come faresti, invece?». Merthin si trattenne dal sorridere: era esattamente la domanda che sperava di sentirsi fare. Inoltre, con quelle parole Elfric aveva ammesso di non saper dare una risposta migliore. «Ve lo spiego subito» disse. "E vi dimostrerò che sono più bravo di questo idiota." Si guardò intorno e vide che tutti erano attenti e si riservavano di decidere in base alla sua risposta. Prese fiato e cominciò: «In primo luogo pianterei nel letto del fiume un palo di legno appuntito. Poi ne pianterei un altro vicino, a toccarlo, e quindi un altro ancora, fino ad avere un anello di pali nel punto in cui devo costruire il pilone». «Un anello di pali?» lo schernì Elfric. «L'acqua ci passerà in mezzo!» Frate Thomas, che aveva posto la domanda, intervenne: «Ascoltalo, per favore. Lui ha ascoltato te». Merthin proseguì: «Poi pianterei un secondo anello di pali all'interno del primo, a una distanza di circa mezzo piede». I presenti erano tutt'orecchi. «E l'acqua continuerà a passarci in mezzo» osservò Elfric. «Sta' zitto, per piacere. È interessante» intervenne Edmund. Merthin riprese: «Quindi verserei malta di argilla fra i due anelli, tappando tutte le fessure fra i pali e rendendo gli anelli stagni. Questa struttura si chiama "cassone di fondazione"». Il silenzio in sala era assoluto. «A quel punto, toglierei l'acqua all'interno dell'anello a secchiate e, arrivato al letto del fiume, costruirei le fondamenta di pietra e calcina.» Elfric era rimasto senza parole. Sia Edmund sia Godwyn avevano gli oc-
chi fissi su Merthin. «Grazie a tutti e due» disse Thomas. «Per quanto mi riguarda, la risposta alla mia domanda ha reso la decisione molto più semplice.» «Sì» confermò Edmund. «Sono d'accordo.» Caris era sorpresa che Godwyn avesse chiesto a Elfric di costruire il ponte. Capiva che fosse la scelta più sicura, ma aveva sempre pensato che Godwyn fosse un riformista, non un conservatore, e si aspettava più entusiasmo da parte sua per un progetto rivoluzionario e ingegnoso come quello proposto da Merthin. Invece suo cugino aveva preferito prendere la strada meno rischiosa. Fortunatamente Edmund era stato bravo ad aggirarlo e adesso Kingsbridge avrebbe avuto un ponte solido e meraviglioso che avrebbe permesso il passaggio di due carri contemporaneamente. Tuttavia, il fatto che Godwyn avesse preferito un adulatore servile privo di immaginazione a un inventivo giovane di talento le pareva un segnale molto preoccupante per il futuro. Peraltro, Godwyn non era mai stato bravo a perdere. Da piccolo, quando Petranilla gli aveva insegnato il gioco degli scacchi e lo lasciava vincere per incoraggiarlo, Godwyn aveva sfidato suo zio Edmund e, dopo avere perduto due partite una di seguito all'altra, si era immusonito e aveva smesso di giocare. Quando uscì dal Palazzo delle corporazioni dopo l'assemblea, aveva la stessa faccia di quella volta. Caris non credeva che fosse attratto in maniera particolare dal progetto di Elfric, ma era convinta che si fosse risentito perché gli era stata tolta di mano la decisione. Il giorno dopo, Caris andò da lui con suo padre, in preda a una certa inquietudine. Godwyn li accolse con freddezza e non offrì loro né da bere né da mangiare. Come sempre, Edmund fece finta di niente. «Voglio che Merthin cominci i lavori al più presto» disse sedendosi al tavolo. «Ho già raccolto la somma necessaria e...» «Chi si è impegnato a prestare il denaro?» lo interruppe Godwyn. «I commercianti più facoltosi della città.» Godwyn continuò a guardarlo con aria interrogativa. Edmund si strinse nelle spalle e fece l'elenco: «Betty Baxter ha dato cinquanta sterline, Dick il birraio ottanta, io settanta e undici altri ne hanno date dieci ciascuno». «Ignoravo che i nostri concittadini fossero così ricchi» osservò Godwyn.
Sembrava stupito e al tempo stesso invidioso. «Dio è stato generoso.» «Sì, e ha premiato una vita di tribolazioni e di duro lavoro» aggiunse Edmund. «Già.» «Proprio per questo devo garantire loro un ritorno sul denaro che metteranno nell'impresa. Quando il ponte sarà finito, i pedaggi andranno alla corporazione parrocchiale, che li userà per ripagare i prestiti. Ma chi li raccoglierà? Secondo me, l'incarico dovrebbe essere affidato a un membro della corporazione.» «Non ho mai dato il mio assenso a tutto ciò» fece notare Godwyn. «Lo so. Per questo te ne sto parlando.» «Voglio dire che non ho mai dato il mio assenso a che i pedaggi andassero alla corporazione parrocchiale.» «Che cosa?» Caris guardò Godwyn stupefatta: certo che aveva dato il suo assenso! Di che cosa stava parlando? Era presente anche lei, quando aveva assicurato a Edmund che frate Thomas... «Certo» disse. «Tu ci hai assicurato che Thomas avrebbe fatto costruire il ponte se fosse stato eletto priore. Perciò, quando Thomas si è ritirato e ti sei candidato tu, noi abbiamo dato per scontato...» «Appunto: l'avete dato per scontato.» Godwyn fece un sorrisetto trionfante. Edmund era sul punto di esplodere. «È scorretto!» disse con voce strozzata. «Avevamo fatto un patto!» «No, non abbiamo fatto nessun patto. Dovresti chiamarmi "padre priore", a proposito.» Edmund alzò la voce. «Siamo di nuovo al punto di partenza, dunque? Esattamente dove eravamo con il priore Anthony tre mesi fa? Solo che adesso, invece di avere un ponte inadeguato, non abbiamo nessun ponte! Non pensare che possiamo costruirlo senza costi per te. Gli abitanti di Kingsbridge sono disposti a prestare i risparmi di una vita al priorato avendo la sicurezza di riavere indietro i soldi grazie ai pedaggi, ma non li daranno via senza avere nulla in cambio... padre priore.» «E allora dovranno arrangiarsi senza ponte. Sono appena stato eletto: non posso cominciare ad alienare diritti che sono del mio priorato da centinaia di anni!» «È solo una cosa temporanea!» esplose Edmund. «E, se non lo farai, nessuno guadagnerà dai pedaggi perché non ci sarà nessun maledetto pon-
te!» Caris era furibonda, ma si morse la lingua e cercò di riflettere. Che cosa poteva volere Godwyn? Si stava certamente vendicando di quello che era successo il giorno prima, ma... parlava sul serio? «Che cosa vuoi, Godwyn?» gli chiese. Edmund parve sorpreso dalla domanda, ma rimase in silenzio: il motivo per cui portava Caris con sé quando doveva incontrare qualcuno era che lei vedeva cose che a lui sfuggivano e faceva domande che a lui non venivano in mente. «Non so che cosa intendi» rispose Godwyn. «Ci hai preso alla sprovvista» replicò lei. «D'accordo, ammetto che avevamo dato per scontato una cosa che tu non avevi mai espressamente dichiarato. Ma qual è la tua motivazione? Vuoi semplicemente farci sentire stupidi?» «Avete chiesto voi questo colloquio, non io.» Edmund sbottò. «È il modo di parlare a uno zio e a una cugina?» «Aspetta un momento, papà» disse Caris. Era certa che Godwyn avesse un motivo per comportarsi così, anche se lui non voleva ammetterlo, ma era decisa ad arrivarci da sola. «Lasciatemi riflettere un momento.» Godwyn voleva il ponte, non poteva essere diversamente. Ciò che aveva detto a proposito dell'alienazione degli antichi diritti del priorato era pura retorica, il genere di discorso vuoto e pomposo che si poteva udire a Oxford. Voleva forse che Edmund cedesse e accettasse il progetto di Elfric? No, era improbabile. Godwyn si era chiaramente risentito per il modo in cui Edmund aveva fatto decidere all'assemblea anziché a lui, ma senza dubbio aveva capito che il ponte di Merthin offriva molto di più a un prezzo di poco superiore. Perché, allora? Forse mirava semplicemente a un accordo più vantaggioso. Caris immaginò che avesse controllato la situazione economica del priorato. Dopo essersi lagnato a lungo per l'inefficienza di Anthony, adesso doveva dimostrare di saper fare di meglio, e forse questo si stava rivelando più difficile del previsto. Che si stesse accorgendo di essere meno bravo di quanto credeva e volesse rimediare pretendendo sia il ponte sia i soldi dei pedaggi? Come pensava di riuscire a ottenere una cosa del genere, però? «Che cosa possiamo offrirti, per farti cambiare idea?» chiese Caris. «La costruzione del ponte senza pretese sui pedaggi» rispose subito Godwyn. Dunque il suo obiettivo era questo. Del resto, pensò Caris, Godwyn era
sempre stato un po' meschino. Le venne un'ispirazione e domandò: «A quanto ammontano i pedaggi?». Godwyn reagì con diffidenza. «Perché me lo chiedi?» «Possiamo calcolarlo» replicò Edmund. «Nei giorni di mercato attraversa il ponte un centinaio di persone, senza contare gli abitanti di Kingsbridge che non pagano; i carri sborsano due penny Ora che c'è il traghetto, il traffico sarà inferiore, immagino.» Caris fece due calcoli. «Diciamo centoventi penny la settimana, ovvero dieci scellini. In totale, ventisei sterline l'anno.» Edmund proseguì: «Più, durante la fiera della lana, un migliaio di persone il primo giorno e duecento i successivi». «Quindi duemiladuecento, più i carri. Duemilaquattrocento penny, ovvero dieci sterline.» Caris guardò Godwyn. «Dico bene?» «Dici bene» borbottò lui scontento. «Quindi vorresti da noi trentasei sterline l'anno.» «Sì.» «Non è possibile!» esclamò Edmund. «Perché no?» si intromise Caris. «Supponiamo che il priorato affitti alla corporazione parrocchiale il ponte, più un acro di terreno di qua e uno di là del fiume, più l'isolotto in mezzo, per trentasei sterline l'anno, ad infinitum.» Stava improvvisando, consapevole del fatto che quei terreni, una volta costruito il ponte, sarebbero stati praticamente senza prezzo. «Sarebbe accettabile, padre priore?» «Sì.» Godwyn evidentemente pensava che trentasei sterline l'anno per terre senza valore fosse un ottimo affare. Non si rendeva conto di quanto poteva chiedere per l'affitto del terreno di qua e di là del ponte. "Chi si crede troppo in gamba è il peggior negoziatore del mondo" pensò Caris. «Come farà la corporazione parrocchiale a rifarsi dei costi della costruzione, però?» domandò Edmund. «Con il ponte progettato da Merthin il numero di attraversamenti dovrebbe aumentare. In teoria, potrebbe addirittura raddoppiare. Tutto il ricavato oltre le trentasei sterline andrà alla corporazione. E poi si potrebbero costruire taverne, stalle e botteghe per fornire servizi diversi ai viandanti. Gli affari non mancherebbero e gli affitti potrebbero essere alti.» «Non lo so» mormorò Edmund. «Mi sembra molto rischioso.» Per un attimo Caris si arrabbiò con suo padre: la sua era un'idea brillante, perché doveva a tutti i costi trovarci dei difetti? Poi, però, gli lesse negli
occhi un entusiasmo che cercava in tutti i modi di nascondere e si rese conto che fingeva. Era d'accordo con lei, ma non voleva farsene accorgere da Godwyn, per paura che cercasse di spuntare di più. Era un trucco a cui ricorrevano spesso, quando contrattavano insieme sulla lana. Stette al gioco. «Sì, è rischioso, lo so anch'io» disse in tono scoraggiato. «Potremmo anche perdere tutto. Che alternative abbiamo, però? Siamo con le spalle al muro: se non costruiamo il ponte, perderemo i nostri commerci.» Edmund scosse la testa dubbioso. «Non posso esprimermi prima di avere consultato l'assemblea e, soprattutto, quelli che ci metteranno i soldi. Sinceramente, non so che cosa mi risponderanno.» Guardò Godwyn negli occhi. «Farò di tutto per convincerli, se questa è la tua offerta migliore.» Godwyn non aveva fatto alcuna offerta, per la verità. Ma forse se ne era dimenticato. «Sì, è la mia offerta migliore.» Era caduto nella trappola. «Sei davvero astuta» disse Merthin. Era sdraiato fra le gambe di Caris, con la testa posata sulla sua coscia, e la accarezzava. Avevano appena finito di fare l'amore. Questa volta era stato ancora più bello che la prima. Dopo l'amplesso, mentre giacevano languidi come tutti gli amanti soddisfatti, Caris gli aveva raccontato del colloquio con Godwyn. Merthin era rimasto colpito. «Ma il bello è che lui è convinto di aver fatto un affare!» disse Caris. «In realtà, un affitto ad infinitum sul ponte e la terra circostante è senza prezzo.» «È preoccupante, però, che sia un amministratore ancora peggiore di tuo zio Anthony.» Erano nel bosco, in una radura dietro alte betulle riparata da rovi e cespugli, vicino a un ruscello che proprio in quel punto si allargava a formare un laghetto. Probabilmente era un luogo dove gli amanti si recavano da centinaia di anni. Caris e Merthin si erano spogliati e avevano fatto il bagno, poi si erano stesi sull'erba e avevano fatto l'amore. Se anche fosse passato qualcuno nel bosco non li avrebbe visti, e gli unici a poterli sorprendere erano i bambini che si avvicinavano ai rovi per raccogliere le more. Caris disse a Merthin che lei aveva scoperto così quel posticino delizioso. «Perché hai compreso nella trattativa anche l'isolotto?» le chiese Merthin.
«Non lo so. Non ha certo lo stesso valore della terra intorno al ponte e non è neppure coltivabile, ma qualcosa ci si può fare di sicuro. Per la verità, ho nominato anche quello perché pensavo che Godwyn non avesse obiezioni.» «Rileverai l'attività di tuo padre, un giorno?» «No.» «Perché sei così sicura?» «È troppo facile per il re imporre tributi sulla lana. Ha appena introdotto una nuova tassa di una sterlina al sacco, oltre a quella di due terzi di sterlina già esistente. Il prezzo della lana ormai è salito al punto che gli italiani la vanno a cercare in altri paesi, come la Spagna. In questo mestiere si è completamente alla mercé del re.» «È comunque un mestiere redditizio. Cos'altro vorresti fare?» Merthin stava cercando di portare la conversazione verso il tema del matrimonio, che Caris non affrontava mai. «Non lo so.» Sorrise. «Quando avevo dieci anni, sognavo di fare il dottore. Ero convinta che, se avessi avuto abbastanza nozioni di medicina, avrei potuto salvare mia madre. Ridevano tutti di me. Non sapevo che le donne non potevano fare il medico.» «Puoi sempre fare la guaritrice, come Mattie.» «Sì, per attirarmi la riprovazione di tutta la famiglia... Immagini che cosa direbbe Petranilla? Madre Cecilia è convinta che il mio destino sia entrare in convento.» Merthin rise. «Se ti vedesse in questo momento cambierebbe idea!» Le baciò la coscia. «Forse vorrebbe essere al tuo posto» disse Caris. «Sai cosa si racconta delle monache.» «Perché vuole che tu entri in convento?» «Dice che ha visto come mi sono comportata dopo il crollo del ponte, quando l'ho aiutata a prendersi cura dei feriti. Sostiene che sono portata.» «È vero. L'ho notato anch'io.» «Mi sono limitata a fare quello che diceva lei.» «Tutti però si sentivano meglio, con te vicino. Si sentivano ascoltati: non ti limitavi a dare loro istruzioni.» Caris gli accarezzò i capelli. «Non posso farmi suora. Ti voglio troppo bene.» Il triangolo di peli sul suo ventre assumeva una sfumatura rossiccia, con quella luce. «Hai un neo proprio qui» disse Merthin. «A sinistra del ses-
so.» «Lo so. Lo avevo anche da piccola. Mi sembrava orribile e sono stata felice quando hanno cominciato a crescermi i peli, perché così si vedeva di meno. Mi illudevo che mio marito non l'avrebbe notato: non immaginavo che avrebbe guardato così da vicino.» «Frate Murdo direbbe che sei una strega: meglio che non glielo fai vedere.» «Nemmeno se fosse l'ultimo uomo sulla terra!» «Questo neo ti salva dalla blasfemia.» «Che significa?» «Per gli arabi le opere d'arte devono avere tutte un piccolo difetto per non competere con la perfezione di Dio.» «E tu come fai a saperlo?» «Me l'ha detto un fiorentino. Senti, pensi che la corporazione parrocchiale vorrà l'isolotto?» «Perché me lo domandi?» «Perché mi piacerebbe averlo.» «Quattro acri di pietre e conigli? E perché mai?» «Potrei farci una banchina e un cantiere, dove fare arrivare direttamente via fiume le pietre e il legno. Quando poi il ponte sarà finito, potrei costruirci una casa.» «Bell'idea. Ma non te lo daranno gratis.» «E se lo chiedessi come saldo parziale per il pagamento dei lavori? Potrei prendere la metà del compenso per due anni.» «Visto che chiedi quattro penny al giorno, l'isola verrebbe... poco più di cinque sterline. Penso che la corporazione sarebbe ben contenta di prendere quella cifra per una pietraia.» «Davvero ti sembra una buona idea?» «Una volta che il ponte sarà finito potresti costruirci delle case da affittare. La gente potrà andare e venire facilmente.» «Sì» disse Merthin pensoso. «Converrà che ne parli a tuo padre.» 26 Mentre rientrava a Earlscastle al termine di una giornata di caccia, con tutti gli uomini del seguito del conte Roland di buonumore, Ralph Fitzgerald si sentiva felice. Attraversarono il ponte levatoio come un esercito invasore, cavalieri,
scudieri e cani. La pioggia che cadeva sottile e leggera rappresentava un fresco benvenuto per gli uomini e gli animali, che erano accaldati, stanchi e soddisfatti. Avevano abbattuto parecchie femmine di cervo che, ingrassate durante l'estate, sarebbero state ottime da mangiare. Avevano preso anche un grosso, vecchio maschio, troppo coriaceo e buono solo come cibo per cani, ucciso per le magnifiche corna. Smontarono da cavallo nella corte esterna, all'interno dell'anello inferiore del fossato a forma di otto. Ralph tolse la sella a Griff, gli sussurrò qualche parola di ringraziamento all'orecchio, lo premiò con una carota e lo passò a uno stalliere perché lo strigliasse. Gli sguatteri trascinarono via le carcasse sanguinanti dei cervi. Gli uomini parlavano ad alta voce degli episodi del giorno, vantandosi, scherzando e ridendo, ricordando i salti più spettacolari, le cadute più rischiose e i pericoli scampati per un soffio. Le narici di Ralph si riempirono di un aroma che amava, un misto di cavalli sudati, cani bagnati, cuoio e sangue. Ralph si ritrovò accanto a lord William di Caster, il figlio maggiore del conte. «Una grande giornata di caccia» gli disse. «Magnifica» concordò William. Si tolse il berretto e si grattò la testa fra i capelli che andavano diradandosi. «Però mi dispiace avere perso il vecchio Bruno.» Bruno, il capo della muta, era scattato per finire la preda con qualche istante di anticipo. Il cervo, troppo esausto per continuare a correre, si era voltato verso i segugi, ansimante, sporco di sangue, e Bruno gli era saltato alla gola, ma con un ultimo guizzo il cervo aveva abbassato la testa, ruotando il collo muscoloso e conficcandogli la punta delle corna nel ventre morbido. Lo sforzo l'aveva sfinito e un attimo dopo gli altri cani lo stavano già sbranando. Ma, mentre il cervo si dimenava agonizzante, le viscere di Bruno si erano riversate sulle corna come una fune aggrovigliata e William era stato costretto a mettere fine alle sue sofferenze tagliandogli la gola con un lungo pugnale. «Era un cane coraggioso» disse Ralph, e posò una mano sulla spalla di William in un gesto di solidarietà. «Come un leone» concordò William. Sullo slancio del momento, Ralph decise di parlare delle sue aspettative. Non ci sarebbe mai stato un momento migliore. Era un uomo di Roland ormai da sette anni, era forte e coraggioso e, quando il ponte era crollato, aveva salvato la vita del suo signore... e tuttavia non aveva avuto alcuna promozione ed era ancora uno scudiero. Cosa gli si poteva chiedere di più?
Il giorno prima, per caso, Ralph aveva incontrato suo fratello in una taverna sulla strada che da Kingsbridge portava a Shiring. Merthin, che stava andando alla cava del priorato, gli aveva raccontato un mucchio di cose. Stava per costruire il più bel ponte d'Inghilterra. Sarebbe diventato ricco e famoso e i loro genitori erano euforici. Ralph si era sentito ancora più frustrato. In quel momento, mentre parlava con lord William, non riuscì a trovare un modo elegante per introdurre l'argomento che aveva in mente, perciò decise di buttarsi. «Sono passati tre mesi da quando ho salvato la vita di vostro padre, a Kingsbridge.» «Sono molte le persone che reclamano questo onore» ribatté William. L'espressione dura che gli comparve sul viso rammentò a Ralph quella di Roland. «Sono stato io a tirarlo fuori dall'acqua.» «E Matthew il barbiere gli ha medicato la testa, le suore e li hanno cambiato le bende e i frati hanno pregato per lui. Ma è stato Dio che gli ha salvato la vita.» «Amen» disse Ralph. «Comunque sia, speravo in qualche segno di riconoscenza.» «Mio padre è un uomo difficile da soddisfare.» Il fratello di William, Richard, sudato e con il viso arrossato, era poco distante e aveva udito per caso l'ultima osservazione. «Parole sante» disse. «Non lamentarti» replicò William. «La durezza di nostro padre ci ha reso forti.» «Per quello che mi ricordo, ci ha reso infelici.» William si voltò e si allontanò, probabilmente perché non voleva discutere di quell'argomento davanti a un subalterno. Quando i cavalli furono fatti rientrare nelle stalle, gli uomini attraversarono lo spiazzo cintato, passando davanti alle cucine, alle baracche degli armigeri e alla cappella, e superarono il secondo ponte levatoio, che dava nel complesso interno più piccolo, l'anello superiore dell'otto. Era lì che il conte abitava, in un torrione tradizionale con i magazzini a pianterreno, una sala grande al piano superiore e la camera da letto privata del conte a un piccolo piano alto. Gli alberi svettanti che circondavano l'edificio erano popolati da una colonia di corvi che saltellavano sui bastioni, impettiti come sergenti, e gracchiavano la loro insoddisfazione. Roland, che si era tolto gli abiti sporchi della caccia e aveva indossato una veste color porpora, era già nel salone.
Ralph si fermò in piedi accanto a lui, deciso a sollevare ancora al più presto il problema della sua promozione. Il conte stava conversando amabilmente con la moglie di William, lady Philippa, una delle poche persone che potevano contraddirlo e farla franca. Stavano parlando del castello. «Credo che in cento anni non sia mai cambiato» disse Philippa. «Perché è stato progettato benissimo» replicò Roland, sputando le parole dal lato sinistro della bocca. «Il nemico sprecherebbe la maggior parte delle sue energie per conquistare il complesso inferiore e poi dovrebbe affrontare daccapo un'altra battaglia per arrivare al torrione.» «Proprio così!» esclamò Philippa. «È stato costruito per la difesa, non per la comodità. Ma quando è stata l'ultima volta che in questa parte d'Inghilterra è stato attaccato un castello? Non durante la mia vita.» «Neppure durante la mia.» Il conte sorrise con la metà ancora mobile del viso. «Forse perché le nostre difese sono così forti.» «C'era un vescovo che, ovunque si trovasse a viaggiare, spargeva ghiande sulla strada per proteggersi dai leoni» disse Philippa. «Quando gli spiegarono che in tutta l'Inghilterra non c'era un solo leone, commentò: "Il sistema è più efficace di quanto pensassi".» Roland rise. Philippa aggiunse: «Al giorno d'oggi la maggior parte delle famiglie nobili vive in case più confortevoli». A Ralph il lusso non interessava, ma gli interessava Philippa. Ne studiò la figura voluttuosa, mentre la donna continuava a parlare, inconsapevole del suo sguardo. La immaginò contorcere il corpo nudo sotto il suo, gridando per il piacere, o per il dolore, o per tutti e due. Se fosse stato un cavaliere, avrebbe potuto avere una donna come quella. «Dovreste buttare giù questa vecchia fortezza e costruire una casa moderna» stava dicendo Philippa al suocero. «Una casa con grandi finestre e tanti caminetti, il salone al pianterreno e gli appartamenti della famiglia su un lato, così avremmo tutti un posto privato dove dormire quando veniamo a trovarvi. E le cucine sul lato opposto, in modo che i cibi siano ancora caldi quando arrivano in tavola.» All'improvviso Ralph si rese conto che poteva dare un contributo alla conversazione. «Io conosco chi potrebbe disegnare una casa del genere» disse. Il conte e Philippa si voltarono sorpresi. Che poteva mai saperne uno scudiero di progettazione di case?
«Chi?» chiese la donna. «Mio fratello Merthin.» Philippa sembrò riflettere. «Quel ragazzo con la faccia strana che mi ha detto di comprare seta verde perché si intonava ai miei occhi?» «Non intendeva mancare di rispetto.» «Non sono sicura di cosa intendesse. È un mastro costruttore?» «Il migliore» disse Ralph con orgoglio. «Ha ideato il nuovo traghetto di Kingsbridge, poi ha trovato il modo di riparare il tetto di St Mark, cosa che nessun altro era riuscito a fare, e adesso è stato incaricato di costruire il più bel ponte d'Inghilterra.» «In un certo senso non mi sorprende» replicò Philippa. «Quale ponte?» domandò Roland. «Il nuovo ponte di Kingsbridge. Avrà archi a sesto acuto, come una chiesa, e sarà abbastanza largo da consentire il passaggio di due carri!» «Non ne sapevo niente» disse Roland. Ralph si accorse che il conte era irritato. Che cosa lo aveva inquietato? «Il ponte deve essere ricostruito, non è vero?» domandò. «Non ne sono così sicuro» ribatté Roland. «Al giorno d'oggi c'è a malapena commercio sufficiente per due mercati così vicini come Kingsbridge e Shiring. Ma, se siamo costretti ad accettare il mercato di Kingsbridge, questo non significa che dobbiamo sopportare anche uno sfacciato tentativo del priorato di sottrarci clienti a Shiring.» Nel frattempo era arrivato il vescovo Richard, e fu a lui che Roland si rivolse. «Non mi avevi detto del nuovo ponte di Kingsbridge.» «Perché non ne so niente» rispose Richard. «Dovresti. Tu sei il vescovo.» Richard arrossì al rimprovero. «Il vescovo di Kingsbridge risiede a Shiring o nei dintorni fin dai tempi della guerra civile tra re Stefano e l'imperatrice Matilda, due secoli fa. I monaci preferiscono così, e lo stesso vale per la maggior parte dei vescovi.» «Questo non dovrebbe impedirti di tenere gli occhi aperti e di avere qualche idea di ciò che succede laggiù.» «Visto che non è così, forse sarai così cortese da dirmi quello che hai saputo.» Roland rimase indifferente a quella fredda insolenza. «Il ponte sarà abbastanza ampio da lasciar passare contemporaneamente due carri. Porterà via affari al mio mercato di Shiring.» «Non c'è niente che io possa fare.»
«Perché no? Tu sei l'abate, ex officio. I monaci dovrebbero fare quel che dici tu.» «Invece non è così.» «Ma forse cambieranno idea, se gli sottrarremo il mastro costruttore. Ralph, pensi di poter persuadere tuo fratello a rinunciare al progetto?» «Posso provarci.» «Offrigli un lavoro migliore. Digli che voglio costruire un nuovo palazzo, qui a Earlscastle.» Pur eccitato all'idea che il conte gli avesse affidato un compito speciale, Ralph si sentiva anche preoccupato. Non era mai riuscito a convincere Merthin a fare una qualsiasi cosa, anzi, era sempre accaduto il contrario. «Va bene» rispose. «Saranno in grado di andare avanti con il ponte senza di lui?» «Mio fratello ha avuto l'incarico perché a Kingsbridge non c'è nessun altro che sappia costruire sott'acqua.» «Ma di certo non è l'unico uomo in tutta l'Inghilterra che possa progettare un ponte» osservò Richard. «In ogni caso, senza il costruttore i lavori saranno ritardati» intervenne William. «È probabile che non possano cominciare almeno per un altro anno.» «Allora vale la pena tentare» disse Roland in tono deciso. Sulla metà mobile della faccia gli passò un'espressione d'odio. «Bisogna dare una bella lezione a quel priore arrogante.» Ralph scoprì che le cose erano cambiate nella vita di Gerald e Maud: sua madre aveva indossato un abito verde nuovo per andare in chiesa e suo padre portava calzari di pelle. A casa c'era un'oca ripiena di mele che arrostiva sul fuoco, riempiendo l'ambiente di un profumo che faceva venire l'acquolina in bocca. Sul tavolo c'era un pane di grano, del tipo più costoso. Ralph venne subito informato che il denaro arrivava da Merthin. «Lo pagano quattro penny per ogni giorno di lavoro a St Mark» disse Maud con orgoglio. «Sta anche costruendo una nuova casa per Dick il birraio e si prepara a occuparsi del nuovo ponte.» Mentre il padre tagliava l'oca, Merthin spiegò che per il ponte riceveva un salario più basso perché, come pagamento parziale, gli era stata data l'isola dei Lebbrosi. L'ultimo lebbroso sopravvissuto, vecchio e costretto a letto, era stato trasferito in una capanna nel frutteto dei monaci, sull'altro lato del fiume.
Ralph si accorse che la palese felicità della madre gli lasciava un sapore amaro in bocca. Fin da ragazzo, aveva sempre creduto che il destino della famiglia fosse tutto nelle sue mani. A quattordici anni era stato mandato alla corte del conte di Shiring e, perfino allora, aveva avuto la consapevolezza che stesse a lui lavare l'umiliazione di suo padre diventando cavaliere, e magari barone, o addirittura conte. Merthin invece era stato mandato a fare l'apprendista carpentiere e avviato lungo una strada che poteva condurlo soltanto più in basso nella scala sociale. I costruttori non venivano fatti cavalieri. Era di una certa consolazione il fatto che il padre non fosse particolarmente colpito dai successi di Merthin, anzi, mostrava segni d'impazienza quando Maud ne parlava. «Il mio figlio maggiore sembra avere ereditato il sangue di Jack il costruttore, il mio unico antenato di umili natali» disse, e il tono era più stupito che orgoglioso. «Ralph, raccontaci come te la passi alla corte del conte Roland.» Per sua sfortuna, fino a quel momento Ralph aveva misteriosamente fallito nella sua scalata nobiliare, mentre adesso il fratello comprava ai genitori abiti nuovi e cibi costosi. Ralph sapeva che avrebbe dovuto sentirsi grato perché almeno uno di loro aveva avuto successo e perché i genitori, pur restando di umile condizione, potevano se non altro vivere meglio. Tuttavia, sebbene la sua mente gli dicesse di rallegrarsi, il cuore gli ribolliva di risentimento. E adesso doveva persuadere suo fratello a rinunciare al ponte. Il guaio era che Merthin non vedeva mai niente in termini semplici. Non era come i cavalieri e gli scudieri con cui Ralph aveva trascorso gli ultimi sette anni. Quelli erano guerrieri. Nel loro mondo i valori erano chiari: la virtù principale era il coraggio e il vero problema era vivere o morire. Non c'era mai bisogno di riflessioni profonde. Merthin, invece, rifletteva su tutto. Non poteva neppure fare una partita a scacchi senza suggerire un cambiamento delle regole. In quel momento stava spiegando ai genitori come mai avesse accettato quattro acri di nuda roccia in parziale pagamento del suo lavoro per il ponte. «Tutti pensano che quella terra non valga niente perché è un'isola. Ciò di cui non si rendono conto è che quando il ponte sarà stato costruito l'isola diventerà parte integrante della città. La gente attraverserà il ponte a piedi così come adesso cammina lungo la strada principale. E quattro acri di terreno cittadino sono molto preziosi. Se ci costruirò delle case, gli affitti mi renderanno una fortuna.»
«Dovrai aspettare qualche anno» osservò Gerald. «Ci sto già guadagnando qualcosa. Jake Chepstow ha preso in affitto mezzo acro che usa come deposito per il legname. Importa tronchi dal Galles.» «Perché dal Galles?» chiese Gerald. «La New Forest è più vicina... quel legno dovrebbe essere più a buon mercato.» «Dovrebbe, ma il conte di Shaftesbury fa pagare un pedaggio o una tassa a ogni guado e ponte nel suo territorio.» Era un capestro noto a tutti. Molti signori trovavano sistemi per tassare le merci che passavano attraverso le loro terre. Mentre tutti cominciavano a mangiare, Ralph disse al fratello: «Ti devo comunicare un'altra opportunità: il conte vuole costruire un nuovo palazzo a Earlscastle». Merthin lo guardò sospettoso. «Ti ha mandato a chiedermi di progettarglielo?» «Sono stato io a suggerire il tuo nome. Lady Philippa lo stava tormentando per quanto è fuori moda il castello e io ho detto che conoscevo la persona giusta con cui parlare.» Maud era estasiata. «Non è meraviglioso?» Merthin continuò a sembrare scettico. «E il conte ha dichiarato di volere me?» «Sì.» «Incredibile. Qualche mese fa non riuscivo a trovare lavoro, adesso ne ho fin troppo. Ed Earlscastle è a due giorni di viaggio da qui. Non vedo come possa costruire contemporaneamente un palazzo là e un ponte qui.» «Oh, dovrai rinunciare al ponte» ribatté Ralph. «Cosa?» «I lavori per il conte devono avere la precedenza su qualsiasi altro incarico, naturalmente.» «Non sono sicuro che sia giusto.» «Fidati di me.» «È stato il conte a dirlo?» «Sì. Di fatto sì.» «È un'occasione meravigliosa, Merthin» intervenne il padre. «Costruire un palazzo per un conte!» «Certo» ammise Merthin. «Ma un ponte per questa città è altrettanto importante.» «Non essere stupido» disse suo padre.
«Faccio del mio meglio per non esserlo» ribatté Merthin, sarcastico. «Il conte di Shiring è uno dei grandi del paese. Al suo confronto il priore di Kingsbridge non è nessuno.» Ralph tagliò un pezzo di coscia dell'oca e se lo mise in bocca, ma non riusciva quasi a deglutire. Aveva temuto una situazione del genere: Merthin faceva il difficile. E non era disposto ad accettare ordini neppure dal padre. Non era mai stato obbediente, nemmeno da bambino. Ralph fu preso dalla disperazione. «Senti» disse a suo fratello «il conte non vuole che il nuovo ponte venga costruito. Pensa che porterebbe via affari a Shiring.» «Ah!» fece Gerald. «Non vorrai certo metterti contro il conte, Merthin.» «È questo che c'è dietro, Ralph? Roland mi offre quel lavoro solo per evitare la costruzione del ponte?» «Non solo per quello.» «Però è una condizione: se voglio costruire il suo palazzo, devo rinunciare al ponte.» «Non hai altra scelta!» esclamò esasperato Gerald. «Il conte non chiede: ordina.» Ralph avrebbe voluto dirgli che un'argomentazione basata sull'autorità non era il sistema migliore per convincere suo fratello. «Non credo che il conte possa dare ordini al priore di Kingsbridge, che mi ha commissionato la costruzione del ponte» replicò Merthin. «Però può dare ordini a te.» «Davvero? Roland non è il mio signore.» «Non essere sciocco, figliolo. Non puoi competere con un conte.» «Io non credo che la questione sia fra Roland e me, padre. È tra il conte e il priore. Roland vuole servirsi di me come un cacciatore si serve del suo cane, ma io penso che farò meglio a restarne fuori.» «Io credo invece che dovresti fare quello che dice il conte. Non dimenticare che Roland è anche parente tuo.» Merthin tentò un approccio diverso. «Non hai pensato che sarebbe un tradimento nei confronti del priore Godwyn?» Gerald emise un verso di disgusto. «Che lealtà dobbiamo noi al priorato? Sono stati i monaci a ridurci in povertà.» «E i tuoi vicini? La gente di Kingsbridge in mezzo alla quale hai vissuto per dieci anni? Hanno bisogno del ponte: è la loro unica salvezza.» «Noi apparteniamo alla nobiltà» ribatté il padre. «Non siamo tenuti a preoccuparci delle esigenze di semplici mercanti.» Merthin annuì. «Tu forse la pensi così, ma da semplice carpentiere non
posso condividere la tua opinione.» «Qui non si tratta solo di te!» esplose Ralph. Si rese conto che doveva parlare chiaramente. «Il conte mi ha affidato una missione. Se la porto a termine con successo, è possibile che mi faccia cavaliere o almeno lord. Se fallisco, potrei rimanere scudiero per sempre.» «È molto importante che tutti noi cerchiamo di compiacere il conte» aggiunse Maud. Merthin sembrava turbato. Era sempre pronto a scontrarsi con suo padre, ma non gli piaceva discutere con la madre. «Ho accettato di costruire il ponte» disse. «La città conta su di me. Non posso rinunciare.» «Certo che puoi» ribatté Maud. «Non voglio farmi la reputazione di persona inaffidabile.» «Tutti capirebbero, se tu dessi la precedenza al conte.» «Forse potrebbero capire, ma di certo non mi rispetterebbero.» «Dovresti mettere la tua famiglia al primo posto.» «Madre, io mi sono battuto per questo ponte» replicò Merthin testardo. «Ho disegnato un progetto bellissimo e ho convinto l'intera città ad avere fiducia in me. Nessun altro è in grado di costruirlo, non nel modo in cui deve essere fatto.» «Se sfidi il conte, questo condizionerà tutta la vita di Ralph!» esclamò Maud. «Non lo capisci?» «La vita di Ralph non dovrebbe dipendere da una cosa del genere.» «Però è così. Sei disposto a sacrificare tuo fratello per un ponte?» «Immagino che sia un po' come se io chiedessi a lui di salvare vite umane non andando in guerra» rispose Merthin. «Suvvia!» disse Gerald. «Non puoi paragonare un carpentiere a un soldato.» Era una frase priva di tatto, pensò Ralph. Dimostrava la preferenza di Gerald per il figlio minore. Capì che Merthin si era sentito ferito da quelle parole: era arrossito e si era morso il labbro, come per impedirsi di dare una risposta pungente. Dopo una pausa, Merthin riprese a parlare con quella voce calma che Ralph sapeva essere il segnale di una decisione irrevocabile. «Non ho chiesto io di fare il carpentiere. Come Ralph, volevo diventare cavaliere. Un'aspirazione folle, adesso me ne rendo conto. In ogni caso, sei stato tu a decidere che dovevo diventare quello che sono adesso. E, per come sono andate le cose, sono bravo nel mio mestiere. Saprò conquistarmi il successo in quello che mi hai costretto a fare. Un giorno costruirò l'edificio più
alto di tutta l'Inghilterra. Questo è ciò che hai voluto che fossi... Perciò farai meglio ad accettarlo.» Prima di rientrare a Earlscastle con la cattiva notizia, Ralph si spremette il cervello per trovare un modo che gli consentisse di trasformare la sconfitta in vittoria. Se non era in grado di convincere suo fratello a rinunciare al ponte, c'era qualche altro modo per annullare o ritardare il progetto? Parlare con il priore Godwyn o con Edmund il lanaiolo sarebbe stato inutile, di questo era certo. Sicuramente tenevano al ponte più dello stesso Merthin, e comunque non si sarebbero mai lasciati convincere da un semplice scudiero. Cosa poteva fare il conte? Forse mandare una squadra di cavalieri a uccidere gli operai, ma questo avrebbe potuto provocare più problemi di quanti ne avrebbe risolti. Fu proprio Merthin a dargli l'idea. Aveva detto che Jake Chepstow, il mercante di legname che usava l'isola dei Lebbrosi come deposito, acquistava tronchi nel Galles per evitare di pagare le tasse imposte dal conte di Shaftesbury. «Mio fratello ritiene di dover sottostare all'autorità del priore di Kingsbridge» disse Ralph a Roland. Prima che il conte avesse il tempo di arrabbiarsi, aggiunse: «Ma forse c'è un modo migliore per ritardare la costruzione del ponte. La cava del priorato si trova nel cuore della vostra contea, fra Shiring e Earlscastle». «Ma appartiene ai monaci» ringhiò Roland. «Il re gliela regalò secoli fa. Non possiamo impedire ai monaci di prendersi le pietre.» «Però potete tassarle» disse Ralph. Si sentiva in colpa: stava sabotando un progetto al quale suo fratello teneva con tutto il cuore, ma non aveva alternative e mise a tacere la propria coscienza. «Dovranno trasportare le pietre attraverso la vostra contea. Quei carri pesanti consumeranno le vostre strade e abbasseranno i guadi nel fiume. Dovrebbero pagare.» «Strilleranno come maiali. Si rivolgeranno al re.» «Facciano pure» disse Ralph, mettendo nelle sue parole più sicurezza di quella che provava. «Ci vorrà del tempo. Quest'anno restano solo due mesi per costruire. Dovranno interrompere i lavori prima che comincino le gelate. Se abbiamo fortuna, potremo ritardare le opere del ponte fino all'anno prossimo.» Roland fissò Ralph. «È possibile che ti abbia sottovalutato. Forse non sai soltanto trarre in salvo i conti sul punto di affogare.» Ralph nascose un sorriso di trionfo. «Grazie, mio signore.»
«Ma come faremo a imporre questa tassa? Di solito deve esserci un crocevia, un guado nel fiume, qualche punto dove il carro sia costretto a passare.» «Dato che a noi interessano solo i blocchi di pietra, potremmo semplicemente piazzare degli uomini davanti alla cava.» «Eccellente» disse il conte. «E sarai tu a guidarli.» Due giorni dopo, Ralph si dirigeva verso la cava con quattro armigeri a cavallo e due ragazzi che guidavano una fila di cavalli da soma con tende e cibo per una settimana. Per il momento si sentiva soddisfatto di sé. Gli era stato affidato un compito impossibile ed era riuscito a ribaltare la situazione. Il conte adesso lo riteneva in grado di fare qualcosa di più di un'opera di salvataggio in un fiume. Le cose stavano girando per il verso giusto. Tuttavia si sentiva profondamente a disagio per quello che stava facendo a Merthin. Era rimasto sveglio per gran parte della notte, ripensando all'infanzia trascorsa insieme. Aveva sempre rispettato il fratello maggiore e la sua intelligenza. Da ragazzi si erano scontrati spesso e, quando vinceva, Ralph si era sempre sentito peggio di quando era stato sconfitto. A quei tempi, dopo facevano sempre la pace. Ma le dispute fra adulti erano più difficili da dimenticare. Non aspettava con ansia l'imminente confronto con i cavatori dei monaci, ma sicuramente non sarebbe stata una prova troppo dura per dei soldati. Ralph non aveva cavalieri con sé, una missione del genere era al di sotto della loro dignità, però al suo fianco c'erano Joseph Woodstock, che sapeva essere un uomo duro, e altri tre. In ogni caso, sarebbe stato felice quando tutto si fosse concluso e lui avesse raggiunto il suo obiettivo. Era appena spuntata l'alba. Il gruppo aveva trascorso la notte accampato nella foresta a qualche miglio dalla cava, dove Ralph aveva in programma di arrivare in tempo per affrontare il primo carro che quella mattina avesse tentato di partire. I cavalli procedevano cauti lungo una strada fangosa impastata dagli zoccoli dei buoi e arata in profondità dalle ruote di pesanti carri. Il sole si alzò in un cielo di nubi cariche di pioggia, interrotte da scampoli di azzurro. Il manipolo di Ralph era di buonumore: tutti aspettavano con piacere il momento di esercitare il loro potere su uomini inermi, senza correre rischi. Ralph sentì odore di legna che bruciava, poi vide il fumo di numerosi fuochi alzarsi sopra gli alberi. Qualche momento dopo la strada si allargò in uno spiazzo pantanoso davanti al più grande scavo che avesse mai visto. Era largo cento iarde e si estendeva per almeno un quarto di miglio. Una
rampa fangosa scendeva verso le tende e le capanne di legno dei cavatori, la maggioranza dei quali in quel momento era raccolta intorno ai falò per preparare la colazione. Alcuni erano già al lavoro un po' più lontano e Ralph sentì i tonfi sordi dei martelli che conficcavano i cunei nelle fessure della roccia per staccare grandi lastre dalla massa rocciosa. La cava era a un giorno di viaggio da Kingsbridge, perciò la maggior parte dei carrettieri arrivava alla sera e ripartiva il mattino seguente. Ralph vide numerosi carri, alcuni già carichi di pietre. Uno stava avanzando lentamente lungo la pista fra gli scavi, verso la rampa di uscita. I cavatori alzarono la testa al rumore dei cavalli, ma nessuno si avvicinò: gli operai non avevano mai troppa fretta di conversare con uomini armati. Ralph aspettò paziente. Sembrava esserci un'unica via per uscire dalla cava: il lungo pendio che portava al punto in cui lui si trovava. Il primo carro risalì faticosamente la rampa: il carrettiere sollecitava il bue con una lunga frusta e l'animale metteva una zampa davanti all'altra con muto risentimento. Sul pianale del carro erano impilate quattro enormi lastre, rozzamente tagliate e incise con il marchio dell'uomo che le aveva estratte. La produzione di ogni cavatore veniva contata una prima volta alla cava e di nuovo al sito della costruzione. L'operaio veniva pagato per ogni pietra. Mentre il carro si avvicinava, Ralph vide che il carrettiere era un abitante di Kingsbridge, Ben Wheeler. Assomigliava un po' al suo bue, con il collo grosso e le spalle massicce. Anche il viso aveva un'espressione di ottusa ostilità simile a quella del muso dell'animale. Era possibile che Wheeler creasse problemi, pensò Ralph. In ogni caso, lo si poteva sottomettere. Ben guidò il suo bue verso lo sbarramento di cavalli che bloccava la strada e, invece di fermarsi a una certa distanza, lasciò che l'animale si avvicinasse sempre di più. I cavalli, animali da sella non addestrati al combattimento, sbuffarono nervosamente e si fecero indietro. Il bue si fermò di sua volontà. L'atteggiamento di Ben irritò Ralph, che gli gridò: «Sei uno zoticone arrogante!». «Perché mi bloccate la strada?» domandò il carrettiere. «Per incassare la tassa.» «Non c'è nessuna tassa.» «Per trasportare pietre nel territorio del conte di Shiring bisogna pagare un penny per ogni carico.»
«Io non ho soldi.» «Allora devi trovarne.» «Mi impedite di passare?» L'uomo non era spaventato quanto avrebbe dovuto, cosa che fece infuriare Ralph. «Non avere la presunzione di farmi domande. Le pietre resteranno qui finché qualcuno non avrà pagato la tassa.» Ben lo fissò per qualche istante e Ralph ebbe la netta sensazione che si stesse chiedendo se buttarlo o no giù da cavallo. «Ma io non ho soldi» ripeté il carrettiere. Ralph avrebbe voluto trapassarlo con la spada, ma si controllò. «Non fingere di essere più stupido di quel che sei» disse sprezzante. «Va' dal capo dei cavatori e digli che gli uomini del conte non ti lasciano passare.» Ben lo fissò di nuovo, riflettendo. Poi, in silenzio, si voltò e scese la rampa a piedi, lasciando il carro lì dove si trovava. Furioso, Ralph aspettò, fissando il bue. Ben entrò in una baracca di legno a metà strada lungo la cava. Ne uscì qualche minuto dopo accompagnato da un uomo sottile che indossava una tunica marrone. All'inizio Ralph pensò che fosse il capo della cava. Ma la figura aveva un'aria familiare e, mentre i due si avvicinavano, Ralph riconobbe suo fratello, Merthin. «Oh, no» disse ad alta voce. A quello non era preparato. Si sentì sprofondare per la vergogna mentre guardava Merthin risalire la lunga rampa. Sapeva di trovarsi alla cava per tradire suo fratello, ma non si era aspettato che Merthin fosse lì ad assistere al tradimento. «Salve, Ralph» gli disse Merthin, avvicinandosi. «Ben dice che non vuoi lasciarlo passare.» Costernato, Ralph pensò che Merthin era sempre riuscito ad avere la meglio su di lui in una discussione. Decise di essere formale. Ciò gli avrebbe permesso di nascondere le sue emozioni, e di certo non si sarebbe messo nei guai se si fosse limitato a ripetere le istruzioni ricevute, così rispose rigidamente: «Il conte ha deciso di esercitare il suo diritto di imporre una tassa sul trasporto di pietre lungo le sue strade». Merthin ignorò la risposta. «Non vuoi scendere da cavallo per parlare con tuo fratello?» Ralph avrebbe preferito restare in sella, però non voleva sottrarsi a quella che sembrava una specie di sfida, così smontò da cavallo. E a quel punto ebbe la sensazione di essere già stato battuto.
«Non c'è nessuna tassa sulle pietre estratte qui» disse Merthin. «Adesso c'è.» «Sono centinaia di anni che i monaci lavorano in questa cava. La cattedrale di Kingsbridge è stata costruita con questa pietra. Non ci sono mai state tasse.» «Forse il conte ha lasciato perdere perché si trattava della chiesa» improvvisò Ralph. «Ma non è disposto a fare lo stesso per un ponte.» «Lui non vuole che la città abbia un nuovo ponte. È questa la vera ragione. Prima manda te per cercare di comprarmi, poi si inventa una nuova tassa.» Merthin guardò assorto il fratello. «È stata una tua idea, vero?» Ralph era mortificato. Come aveva fatto a indovinare? «No!» esclamò, ma si sentì arrossire. «Te lo leggo in faccia che è così. E sono sicuro di essere stato io a suggerirtela, quando ho parlato di Jake Chepstow che importa legname dal Galles per non pagare la tassa al conte di Shaftesbury.» Ralph si sentiva sempre più stupido e arrabbiato ogni momento che passava. «Non c'è alcuna relazione» insistette caparbio. «Mi hai rimproverato di mettere il ponte prima di mio fratello, ma tu sei ben contento di distruggere le mie speranze per amore del tuo conte.» «Non importa di chi sia stata l'idea: il conte ha deciso di tassare la pietra.» «Ma non ne ha il diritto.» Ben Wheeler seguiva attento la conversazione, in piedi accanto a Merthin con le gambe aperte e le mani sui fianchi. «Significa che questi uomini non hanno il diritto di fermarmi?» chiese rivolgendosi a lui. «È esattamente quello che sto dicendo.» Ralph avrebbe voluto mettere in guardia il fratello che era un errore trattare un uomo del genere come se fosse stato intelligente. Il carrettiere interpretò le parole di Merthin come un permesso per andarsene. Fece schioccare la frusta sulle spalle del bue. L'animale si chinò nel suo collare di legno e prese lo slancio. «Fermo!» gridò Ralph con rabbia. Ben diede un'altra frustata al bue e lo sollecitò: «Oop!». L'animale tirò con maggior forza e il carro si mosse con un sobbalzo che spaventò i cavalli. Quello di Joseph Woodstock nitrì e si sollevò sulle zampe posteriori, roteando gli occhi. Joseph tirò le redini e riprese il controllo dell'animale. Poi dalla bisaccia della sella estrasse una lunga mazza di legno. «Devi stare zitto e immobile,
quando ti viene ordinato» disse a Ben. Spronò il cavallo e calò con forza la mazza. Ben evitò il colpo, afferrò la mazza e tirò. Joseph era già sbilanciato sulla sella e lo strattone improvviso gli fece perdere del tutto l'equilibrio. Cadde da cavallo. «Oh, no!» gridò Merthin. Ralph sapeva la ragione dell'ansia di suo fratello. Un soldato non poteva ignorare una simile umiliazione. A quel punto non c'era più modo di evitare lo scontro violento. Ma a Ralph non dispiaceva: Merthin non aveva trattato gli uomini del conte con la dovuta deferenza e adesso avrebbe assistito alle conseguenze. Ben stringeva la mazza di Joseph con tutt'e due le mani. Joseph balzò in piedi. Vedendo il carrettiere brandire la mazza, fece per afferrare il pugnale. Ma Ben fu più veloce e Ralph si rese conto che in passato doveva avere combattuto in battaglia. Wheeler alzò la mazza e calò un colpo potente sulla testa di Joseph, che crollò a terra e rimase immobile. Ralph ruggì di rabbia. Sguainò la spada e si lanciò sul carrettiere. «No!» urlò Merthin. Ralph colpì Ben al petto, conficcandogli la spada tra le costole con tutta la forza che aveva. La lama trapassò il corpo robusto dell'uomo e uscì dalla schiena. Il carrettiere cadde a terra e Ralph estrasse la spada. Il sangue sgorgò dal corpo come una fontana. Ralph sentì un'ondata di trionfante soddisfazione. Non ci sarebbero state altre insolenze da parte di Ben Wheeler. Si chinò accanto a Joseph. Gli occhi dell'uomo fissavano il vuoto senza vedere. Il cuore non batteva. Era morto. In un certo senso era un bene. Questo semplificava le spiegazioni: Ben Wheeler aveva ucciso un uomo del conte e per questo era morto. Nessuno vi avrebbe visto un'ingiustizia, meno di tutti il conte Roland, che non aveva alcuna pietà per chi sfidava la sua autorità. Non era così che Merthin valutava la situazione. Il viso era trasfigurato dal dolore. «Cos'hai fatto?» domandò incredulo. «Ben Wheeler ha un figlio di due anni!» «Allora la vedova farà meglio a cercarsi un altro marito» replicò Ralph. «E speriamo che questa volta si scelga un uomo che sappia stare al proprio posto.» 27
Il raccolto era scarso. In agosto c'era stato così poco sole che in settembre le granaglie erano a malapena maturate. Nel villaggio di Wigleigh il morale era basso. L'abituale euforia del tempo del raccolto era completamente assente: non c'erano balli, bevute, storie d'amore fugaci. Le messi bagnate correvano il rischio di marcire. Molti abitanti del villaggio avrebbero patito la fame prima che arrivasse la primavera. Wulfric mieteva l'orzo sotto la pioggia sferzante, falciando gli steli fradici. Gwenda lo seguiva e legava i covoni. Il primo giorno di sole di settembre avevano cominciato a mietere il grano, il raccolto più prezioso, nella speranza che il bel tempo sarebbe durato abbastanza da asciugarlo. A un certo punto Gwenda si era resa conto che era solo la rabbia a far andare avanti Wulfric. La perdita improvvisa di tutta la famiglia lo aveva fatto inferocire. Avrebbe voluto incolpare qualcuno per il suo lutto, ma non poteva: il crollo del ponte era sembrato un evento casuale, un atto degli spiriti maligni o una punizione divina, perciò il ragazzo non poteva dare sfogo al suo appassionato rancore se non nel lavoro. Per quanto riguardava Gwenda, lei era mossa dall'amore, che era un sentimento altrettanto potente. Andavano nei campi prima del sorgere del sole e smettevano di lavorare solo quando faceva troppo buio per poter vedere. Ogni sera Gwenda si coricava con la schiena che le doleva e si svegliava molto prima dell'alba, appena sentiva Wulfric sbattere la porta della cucina. In ogni caso, erano indietro con il lavoro rispetto a tutti gli altri. Gwenda aveva avvertito una graduale trasformazione nell'atteggiamento degli abitanti del villaggio nei confronti suoi e di Wulfric. Per tutta la vita l'avevano guardata dall'alto in basso quale figlia dello screditato Joby, e le donne l'avevano disapprovata ancora di più quando avevano capito che voleva sottrarre Wulfric ad Annet. Era difficile non provare simpatia per Wulfric, ma c'era chi riteneva che il suo desiderio di ereditare una tenuta così vasta fosse poco realistico e comunque un segno di avidità. Tuttavia la gente non poteva non restare colpita dagli sforzi fatti dai due giovani per salvare il raccolto: un ragazzo e una ragazza che cercavano di fare il lavoro di tre braccianti e che se la stavano cavando meglio di quanto chiunque si fosse potuto aspettare. Gli uomini avevano cominciato a guardare Wulfric con ammirazione e le donne a provare comprensione per Gwenda. Alla fine gli abitanti del villaggio decisero di aiutarli. Il parroco, padre Gaspard, chiuse un occhio sul fatto che lavorassero la domenica. Quando
la famiglia di Annet ebbe terminato il proprio raccolto, Perkin, il padre, e Rob, il fratello, andarono a dare una mano a Gwenda nei campi di Wulfric. Si presentò perfino la madre di Gwenda, Ethna. Mentre trasportavano gli ultimi fasci al granaio di Wulfric, ci fu un accenno del tradizionale spirito del raccolto e, camminando dietro il carro, tutti presero a cantare le vecchie canzoni. C'era anche Annet, in violazione del detto che si doveva prima seguire l'aratro, se poi si voleva danzare la giga del raccolto. Camminava di fianco a Wulfric com'era suo diritto, essendo la fidanzata ufficiale. Gwenda la guardava da dietro, notando con ostilità come muoveva i fianchi, gettava indietro la testa e rideva con fare civettuolo a qualunque cosa dicesse Wulfric. Ma lui come poteva essere così stupido e lasciarsi abbindolare da atteggiamenti del genere? Non si era accorto che Annet non aveva lavorato affatto la sua terra? Il giorno del matrimonio non era ancora stato fissato. Perkin era un uomo accorto e non avrebbe mai permesso che sua figlia si impegnasse prima che la questione dell'eredità venisse risolta. Wulfric aveva dimostrato la sua capacità di coltivare la terra. Questo nessuno l'avrebbe più messo in dubbio. La faccenda dell'età ormai sembrava irrilevante. L'unico ostacolo che restava era il tributo dovuto al signore alla morte del manente. Wulfric sarebbe riuscito a trovare il denaro necessario? Dipendeva da quanto avrebbe incassato dal raccolto: era stato scarso ma, se il maltempo aveva flagellato tutto il paese, probabilmente il prezzo del grano sarebbe stato alto. In circostanze normali, una prospera famiglia contadina avrebbe avuto da parte i soldi del tributo, ma i risparmi della famiglia di Wulfric erano in fondo al fiume a Kingsbridge. Per cui nulla era ancora deciso. E Gwenda poteva continuare a sognare che Wulfric avrebbe ereditato la terra e, in qualche modo, avrebbe riversato il suo amore su di lei. Tutto era possibile. Mentre stavano scaricando il carro, arrivò Nathan Reeve. Il gobbo balivo sembrava eccitatissimo. «Venite in chiesa, presto» disse. «Tutti quanti! Lasciate perdere quello che state facendo.» «Io non ho intenzione di abbandonare il mio raccolto all'aperto» dichiarò Wulfric. «Potrebbe piovere.» «Portiamo dentro il carro» propose Gwenda. «Cosa c'è di così urgente, Nate?» Il balivo si stava già affrettando verso la casa vicina. «Sta arrivando il nuovo signore» rispose.
«Aspettate!» Wulfric gli corse dietro. «Gli raccomanderete che io possa ereditare?» Tutti rimasero immobili a guardare, in attesa della risposta. Riluttante, Nathan si voltò verso Wulfric. Doveva guardare in alto perché il ragazzo lo superava di un piede. «Non lo so» rispose lentamente. «Ho dimostrato di saper coltivare la terra... Lo vedete anche voi. Guardate nel granaio!» «Te la sei cavata bene, su questo non c'è dubbio. Ma puoi pagare il tributo?» «Questo dipende dal prezzo del grano.» «Padre?» Era Annet. Gwenda si chiese che cosa stesse per succedere. Perkin sembrò esitare. Annet lo sollecitò: «Ricordi cosa mi hai promesso?». «Sì, mi ricordo» rispose Perkin alla fine. «Allora dillo a Nate.» Perkin si voltò verso il balivo. «Garantirò io il tributo, se il nuovo signore consentirà che Wulfric erediti.» La mano di Gwenda volò alla bocca. «Pagherai per lui?» domandò Nathan. «Sono due sterline e dieci scellini.» «Se Wulfric avrà bisogno di denaro, gli presterò io quello che gli occorre. Naturalmente, prima dovrà esserci il matrimonio.» Nathan abbassò la voce. «E, in aggiunta...?» Perkin rispose a voce così bassa che Gwenda non riuscì a sentire, ma poteva immaginare di cosa si trattasse: Perkin stava offrendo una ricompensa a Nathan, probabilmente un decimo del tributo, cioè cinque scellini. «Molto bene» disse Nathan. «Presenterò la mia raccomandazione. E adesso tutti in chiesa, presto!» Si allontanò in fretta. Wulfric fece un ampio sorriso e baciò Annet. Tutti andarono a stringere la mano al ragazzo. Gwenda si sentiva stringere il cuore. Le sue speranze erano andate in frantumi. Annet era stata troppo intelligente. Aveva convinto suo padre a prestare a Wulfric il denaro di cui aveva bisogno. E così Wulfric avrebbe ereditato la sua terra... e avrebbe sposato Annet. Gwenda si costrinse a dare una mano per spingere il carro all'interno del granaio, poi seguì la coppia felice mentre attraversava il villaggio per raggiungere la chiesa. Era tutto finito. Era poco probabile che un nuovo signo-
re, che non conosceva né il villaggio né la gente, andasse contro il parere del balivo su una questione come quella. Il fatto che Nathan si fosse preso il disturbo di negoziare la sua tangente indicava quanto fosse sicuro di sé. Gwenda pensò che in parte era colpa sua, naturalmente. Si era rotta la schiena per far sì che Wulfric avesse il suo raccolto, nella vana speranza che in qualche modo lui si accorgesse che come moglie sarebbe stata decisamente migliore di Annet. Mentre attraversava il cimitero per raggiungere la chiesa, pensò che per tutta l'estate non aveva fatto altro che scavarsi la tomba. Ma non se ne pentiva affatto. Non avrebbe mai potuto sopportare di vedere Wulfric lottare da solo. "Qualunque cosa accada" pensò "lui saprà sempre che sono stata io a dargli una mano." Era una magra consolazione. La maggior parte degli abitanti del villaggio era già in chiesa. Non c'era stato bisogno di molte sollecitazioni da parte di Nathan. Erano tutti ansiosi di essere tra i primi a porgere i loro omaggi al nuovo signore ed erano curiosi di vedere come fosse: giovane o vecchio, brutto o bello, allegro o irritabile, intelligente o stupido e, cosa più importante, crudele o gentile. Quell'uomo avrebbe condizionato le loro vite finché fosse stato il signore del villaggio, quindi per anni o addirittura decenni. Se il nuovo lord fosse stato una persona ragionevole, avrebbe potuto fare moltissimo per rendere Wigleigh un luogo felice e prospero. Se invece fosse stato uno sciocco, gli abitanti avrebbero dovuto subire decisioni poco sagge e editti ingiusti, tasse opprimenti e dure punizioni. E una delle sue prime decisioni sarebbe stata quella relativa all'eredità di Wulfric. Si sentì il tintinnio di finimenti e il mormorio delle conversazioni si spense. Gwenda udì la voce bassa e ossequiosa di Nathan e poi i toni autoritari tipici di un lord: un uomo grande e grosso, a giudicare dalla voce, sicuro di sé, ma giovane. Tutti si voltarono verso la porta della chiesa, che si spalancò. Gwenda trattenne il fiato per lo stupore. L'uomo che stava entrando a grandi passi non doveva avere più di vent'anni. Elegante nella costosa sopravveste di lana, era armato di spada e pugnale. Era alto e la sua espressione era orgogliosa. Sembrava compiaciuto di essere il signore di Wigleigh, anche se c'era un accenno di insicurezza nello sguardo altezzoso. Aveva capelli scuri ondulati e un viso bello, ma deturpato dal naso rotto. Era Ralph Fitzgerald. La prima udienza del tribunale feudale presieduta da Ralph si sarebbe
tenuta la domenica seguente. Wulfric, intanto, aveva il morale a terra. A Gwenda veniva da piangere ogni volta che lo guardava. Il ragazzo camminava tenendo gli occhi bassi, con le spalle ampie quasi afflosciate. Per tutta l'estate era stato instancabile e aveva lavorato nei campi con l'affidabilità paziente di un cavallo da tiro. Adesso sembrava esausto. Aveva fatto tutto ciò che era umanamente possibile, ma il suo destino era stato messo nelle mani di un uomo che lo odiava. Gwenda avrebbe voluto dirgli qualcosa che gli ridesse speranza e gli risollevasse il morale, ma la verità era che condivideva il suo pessimismo. I signori feudali erano spesso meschini e vendicativi, e niente in Ralph la incoraggiava a credere che si sarebbe dimostrato magnanimo. Da bambino era stato stupido e brutale. Non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui le aveva ucciso il cagnolino con l'arco e le frecce di Merthin. E non c'era alcun segno che da allora fosse migliorato. Si era trasferito nel maniero, la residenza del lord, con il suo aiutante, un giovane e tozzo scudiero che si chiamava Alan Fernhill, e i due bevevano il vino migliore, mangiavano pollo e tastavano il seno delle serve con la noncuranza tipica della loro classe sociale. Anche l'atteggiamento di Nathan Reeve confermava le paure di Gwenda: il balivo non si prendeva neppure il disturbo di trattare un aumento della sua bustarella, un segnale sicuro del fatto che si aspettava un fallimento. Pure Annet pareva essere pessimista per quanto riguardava le prospettive di Wulfric. In lei Gwenda vedeva un inequivocabile cambiamento. Annet non muoveva più la testa in modo così gaio, non camminava più con quell'ondeggiamento dei fianchi e la sua risata argentina non si sentiva più così spesso. Gwenda sperava che Wulfric non se ne accorgesse. Quel ragazzo aveva già abbastanza per cui rattristarsi. Comunque, le sembrava che la sera non si trattenesse più a lungo nella casa di Perkin e che, al ritorno, fosse sempre taciturno. Così, la domenica mattina restò sorpresa nel constatare che Wulfric nutriva ancora l'ombra di una speranza. Quando la funzione terminò e padre Gaspard cedette il posto a lord Ralph, Gwenda si accorse che Wulfric aveva gli occhi chiusi e muoveva le labbra, probabilmente pregando la Vergine Maria. Naturalmente in chiesa c'erano tutti gli abitanti del villaggio, Joby ed Ethna compresi. Gwenda non era accanto ai genitori. A volte parlava con sua madre, ma solo quando il padre non era nei dintorni. Joby, che aveva
ancora una chiazza rossa sulla guancia nel punto in cui Gwenda l'aveva colpito con il ceppo ardente, evitava sempre lo sguardo della figlia. Gwenda continuava ad avere paura di lui, ma intuiva che adesso anche il padre la temeva. Seduto sul grande scanno di legno, Ralph osservava i suoi servi della gleba con lo sguardo di un compratore al mercato del bestiame. Quel giorno le delibere della corte consistevano in una serie di annunci. Nathan declamò le disposizioni per il trasporto dei raccolti dai campi del lord, indicando in quali giorni della settimana seguente i vari abitanti del villaggio avrebbero dovuto prestare il loro abituale servizio nelle terre del loro signore. Non venne aperta alcuna discussione. Era chiaro che Ralph non intendeva governare tramite il consenso. Seguirono altri dettagli di cui Nathan si occupava ogni settimana: a Hundredacre la spigolatura doveva essere completata entro il lunedì sera, in modo che il bestiame potesse cominciare a brucare le stoppie il martedì mattina, e l'aratura autunnale di Longfield doveva iniziare il mercoledì. Normalmente ci sarebbero state piccole discussioni su quei programmi, e i contadini più polemici avrebbero trovato qualche ragione per proporre delle variazioni, ma quel giorno rimasero tutti in silenzio, in attesa di prendere le misure al nuovo signore. Quando la decisione arrivò, sembrò curiosamente neutra. Quasi si fosse trattato del semplice annuncio di un altro programma di lavoro, Nathan disse: «Wulfric non ha il permesso di ereditare i terreni di suo padre perché ha solo sedici anni». Gwenda guardò Ralph, che stava cercando di soffocare un sorriso di trionfo. Inconsciamente, pensò la ragazza, il nuovo lord si portò una mano al viso e si toccò il naso rotto. Nathan proseguì: «Lord Ralph valuterà cosa fare della terra e in seguito comunicherà le sue disposizioni». Il gemito di Wulfric fu così forte che tutti lo sentirono. La decisione era quella che si era aspettato, ma averne avuto conferma faceva male. Gwenda lo guardò voltare le spalle alla folla radunata in chiesa, coprirsi il viso con le mani e appoggiarsi al muro, come per evitare di cadere. «È tutto, per oggi» dichiarò Nathan. Ralph si alzò in piedi. Percorse la navata lentamente, spostando continuamente lo sguardo verso lo sconvolto Wulfric. Che razza di signore sarebbe stato, si chiese Gwenda, se il suo primo istinto era stato di usare il
potere per vendicarsi? Nathan seguiva Ralph con gli occhi fissi al pavimento: sapeva che era stata commessa un'ingiustizia. Non appena i due furono usciti dalla chiesa, si alzò il ronzio dei commenti. Gwenda non parlò con nessuno, continuando a osservare Wulfric. Il ragazzo si voltò e il suo viso era la rappresentazione stessa dell'infelicità. Gli occhi cercarono tra la folla e trovarono Annet. La ragazza sembrava furiosa. Gwenda aspettò che guardasse Wulfric, ma Annet sembrava decisa a non farlo. Gwenda si chiese cosa le stesse passando per la mente. Annet si avviò verso la porta, a testa alta. Suo padre e il resto della famiglia la seguirono. Non aveva neppure intenzione di parlare a Wulfric? Anche lui probabilmente pensò la stessa cosa, perché si affrettò a seguirla. «Annet!» la chiamò. «Aspetta.» Nella chiesa si fece silenzio. Annet si voltò e Wulfric le si parò davanti. «Ci sposiamo comunque, vero?» le domandò. Gwenda sbatté le palpebre sentendo nella sua voce quella poco dignitosa nota di implorazione. Annet lo fissò, apparentemente sul punto di parlare, ma tacque per qualche momento e così Wulfric riprese: «I signori hanno bisogno di buoni servi per coltivare la terra. Forse Ralph mi darà un podere più piccolo e...». «Tu gli hai rotto il naso» l'interruppe la ragazza con voce dura. «Non ti darà mai niente.» Gwenda ricordò quanto Annet fosse stata compiaciuta nel vedere i due uomini battersi per lei. «Allora farò il bracciante» disse Wulfric. «Sono forte, il lavoro non mi mancherà mai.» «Ma resterai povero per tutta la vita. È questo che mi stai offrendo?» «Staremo insieme... proprio come avevamo sognato quel giorno nella foresta, quando hai detto che mi amavi, non ti ricordi più?» «E che vita sarebbe la mia, sposata a un bracciante senza terra?» ribatté Annet rabbiosa. «Te lo dico io.» Alzò un braccio e indicò la madre di Gwenda, Ethna, in piedi accanto a Joby e ai tre bimbi piccoli. «Diventerei come lei... con la faccia raggrinzita per le preoccupazioni, magra come un manico di scopa.» Joby si risentì. Agitò il moncherino del braccio amputato verso Annet. «Stai attenta a come parli, sfacciata presuntuosa.» Perkin si mise davanti alla figlia e alzò entrambe le mani per calmarlo. «Perdonala, Joby: mia figlia è sconvolta, non intendeva offendere nessu-
no.» «Non voglio mancare di rispetto a Joby» disse Wulfric «ma io non sono come lui.» «E invece sì» ribatté Annet. «Tu non possiedi terra. È questa la ragione per cui Joby è povero ed è questa la ragione per cui tu sarai povero e i tuoi figli avranno fame e tua moglie diventerà brutta e trasandata.» Era vero. In tempi difficili erano sempre quelli che non avevano terra i primi a soffrire. Licenziare i dipendenti era il modo più veloce per risparmiare soldi. Ma per Gwenda era comunque difficile credere che una donna potesse rifiutare la possibilità di trascorrere la propria vita con Wulfric. Eppure sembrava che Annet stesse facendo proprio quello. Wulfric pensò la stessa cosa. Con voce lamentosa domandò: «Non mi ami più?». Aveva perso tutta la sua dignità e aveva un'aria patetica, tuttavia in quel momento Gwenda sentì per lui più passione di quanta ne avesse mai provata prima. «L'amore non si mangia» rispose Annet e uscì dalla chiesa. Due settimane più tardi, Annet sposò Billy Howard. Gwenda andò al matrimonio, come fecero tutti nel villaggio a eccezione di Wulfric. Nonostante i raccolti scarsi, fu una bella festa. Con quel matrimonio si univano due vaste proprietà: i cento acri di Perkin con i quaranta di Billy. Inoltre Perkin aveva chiesto a Ralph di cedergli la terra della famiglia di Wulfric. Se Ralph avesse accettato, i figli di Annet avrebbero potuto ereditare quasi metà del villaggio. Ma Ralph era andato a Kingsbridge, promettendo di decidere non appena fosse tornato. Perkin aveva messo a disposizione un barile della birra più forte di sua moglie e aveva macellato una vacca. Gwenda bevve e mangiò a sazietà. Il suo futuro era troppo incerto per rifiutare del buon cibo. Giocò con le sue sorelline, Cath e Joanie, lanciando e afferrando una palla di legno, poi prese in braccio il piccolo Eric e cantò per lui. Dopo un po' sua madre si sedette accanto a lei e le domandò: «Cosa farai adesso?». In fondo al cuore Gwenda non si era ancora riconciliata completamente con lei. Parlarono, ed Ethna le rivolse domande preoccupate. Gwenda provava ancora risentimento nei confronti della madre perché aveva perdonato Joby, ma rispose comunque. «Continuerò ad abitare nel granaio di Wulfric finché potrò. Forse ci resterò per sempre.» «E se Wulfric si trasferisce? Se lascia il villaggio?»
«Non lo so.» Per il momento Wulfric lavorava ancora nei campi, eliminando le stoppie ed erpicando gli appezzamenti incolti nelle terre che erano state della sua famiglia. Gwenda lo aiutava. Venivano pagati da Nathan a giornata come braccianti, come se il raccolto dell'anno seguente non dovesse riguardarli. Il balivo ci teneva molto che restassero a lavorare, altrimenti la terra si sarebbe deteriorata rapidamente. Perciò avrebbero continuato così fino a quando Ralph non avesse annunciato chi era il nuovo manente. A quei punto avrebbero dovuto offrirsi come braccianti. «Dov'è Wulfric adesso?» domandò Ethna. «Immagino che non abbia molta voglia di festeggiare questo matrimonio.» «Cosa prova per te?» Gwenda guardò sua madre con franchezza. «Mi dice che sono la migliore amica che abbia mai avuto.» «E questo cosa significa?» «Non lo so. Però non significa "ti amo", giusto?» «No» confermò sua madre. «Non significa quello.» Gwenda udì della musica. Aaron Appletree stava soffiando nella cornamusa, provando scale mentre si preparava a suonare una canzone. Gwenda vide Perkin uscire di casa con due piccoli tamburi fissati alla cintura. Le danze stavano per cominciare. Non era nello stato d'animo giusto per ballare. Avrebbe potuto mettersi a chiacchierare con le donne più anziane, che però non avrebbero fatto altro che rivolgerle le stesse domande di sua madre, e Gwenda non aveva voglia di passare il resto della giornata spiegando la sua difficile situazione. Ripensò all'ultimo matrimonio nel villaggio e a Wulfric che, un po' ubriaco, ballava facendo grandi salti e abbracciando tutte le donne, pur preferendo Annet. Senza di lui non poteva esserci festa per Gwenda. Affidò Eric a sua madre e se ne andò. Il suo cane, Skip, invece rimase, ben sapendo che feste del genere garantivano sempre un banchetto a base di bocconi caduti dai tavoli e avanzi. Gwenda entrò in casa di Wulfric sperando di trovarlo lì, ma il posto era deserto. Era un'abitazione in legno robusta, costruita con pali e travi, ma senza caminetto: lussi del genere erano riservati ai ricchi. La ragazza guardò sia nelle stanze al pianterreno sia nella camera da letto di sopra. La casa era pulita e ordinata come quando la madre di Wulfric era ancora viva, ma solo perché il ragazzo utilizzava un'unica stanza, la cucina, dove mangiava
e dormiva. L'ambiente era freddo e poco accogliente. Era una casa di famiglia senza una famiglia. Gwenda andò nella stalla, piena di balle di fieno - il foraggio per l'inverno - e di fasci di orzo e di frumento in attesa della battitura. Salì la scala che portava al soppalco e si distese. Poco dopo si addormentò. Si svegliò che era buio. Non aveva idea di che ora fosse. Uscì dalla stalla per guardare il cielo. Dietro strisce di nubi, la luna era bassa e Gwenda calcolò che fosse passata solo un'ora o due dal tramonto. In piedi davanti alla porta della stalla, ancora mezzo addormentata, sentì qualcuno che piangeva. Capì subito che era Wulfric. L'aveva sentito piangere già una volta, quando aveva visto i corpi dei genitori e del fratello distesi sul pavimento della cattedrale di Kingsbridge. Adesso i suoi singhiozzi violenti sembravano strappati dalle profondità del petto. Ascoltando il suo dolore, a Gwenda vennero le lacrime agli occhi. Dopo un po', entrò in casa. Lo vide al chiarore della luna. Era prono sul pagliericcio, con la schiena che sobbalzava nel pianto. Doveva averla sentita alzare il catenaccio, ma era troppo disperato perché gliene importasse e non sollevò lo sguardo. Gwenda si chinò accanto a lui e, con un gesto incerto, gli sfiorò i capelli. Wulfric non reagì. A Gwenda capitava raramente di toccarlo e accarezzargli i capelli fulvi era una delizia sconosciuta. Le sue carezze sembrarono in qualche modo calmarlo, perché il pianto diventò meno convulso. Dopo qualche minuto Gwenda provò a distendersi accanto a lui. Si aspettava che Wulfric la scacciasse, ma non accadde. Voltò invece il viso verso di lei, sempre con gli occhi chiusi. Gwenda gli tamponò le guance con la manica, asciugandogli le lacrime. La emozionava stare così vicina a lui e il fatto che le venissero consentite quelle piccole intimità. Avrebbe voluto baciargli le palpebre chiuse, ma temeva che sarebbe stato un passo di troppo e si trattenne. Poi si accorse che Wulfric si era addormentato. Ne fu contenta. Era un segno di come si sentisse a proprio agio in sua compagnia e significava anche che lei poteva restare, almeno fino a quando non si fosse svegliato. Era autunno e la sera era fredda. Quando il respiro di Wulfric diventò più lento e regolare, Gwenda si alzò cauta, staccò piano la coperta dal gancio sulla parete e coprì il ragazzo. Wulfric continuò a dormire tranquillo. Nonostante il freddo, Gwenda si sfilò la veste dalla testa e si distese nu-
da accanto a lui, sistemando la coperta in modo che riparasse tutti e due. Gli si fece più vicina e gli posò la guancia sul petto. Sentiva il battito del suo cuore e la brezza leggera del fiato sulla testa. Il tepore del corpo di Wulfric la riscaldava. Poi la luna tramontò e nella stanza il buio divenne assoluto. Gwenda pensò che sarebbe potuta restare così per sempre. Non dormì. Non aveva alcuna intenzione di sprecare nemmeno un attimo di quel tempo prezioso. Ne assaporò invece ogni momento, sapendo che un'occasione simile poteva anche non ripetersi mai più. Lo sfiorò con prudenza, attenta a non svegliarlo. Attraverso la lana leggera della camicia, gli esplorò con la punta delle dita i muscoli del petto e della schiena, le costole e le anche, la curva delle spalle e il gomito. Wulfric cambiò posizione parecchie volte nel sonno. Si voltò e restò supino, e Gwenda gli posò la testa sulla spalla e gli passò un braccio sul ventre piatto. Poi Wulfric si girò su un fianco e Gwenda gli si incollò, modellandosi nella forma a S del suo corpo, premendo il seno contro la schiena ampia, i fianchi contro i suoi, le ginocchia nell'incavo delle sue. Infine Wulfric si voltò di nuovo verso di lei, gettandole un braccio sulle spalle e una gamba sopra le cosce. La gamba del ragazzo era dolorosamente pesante, ma a Gwenda quel dolore faceva piacere perché era una prova che non stava sognando. Lui però sognava. All'improvviso, a metà della notte, la baciò, spingendole con forza la lingua in bocca e afferrandole un seno con la grande mano. Gwenda sentì la sua erezione mentre si strofinava goffamente contro di lei. Per un attimo rimase sconcertata. Wulfric avrebbe potuto prenderla in qualunque modo volesse, ma non era da lui non essere gentile. Gli mise una mano sull'inguine e gli afferrò il pene, che sbucava eretto dalla fessura nei mutandoni. Poi, altrettanto improvvisamente, Wulfric si voltò di nuovo sulla schiena, respirando ritmicamente, e Gwenda capì che non si era mai svegliato e che l'aveva toccata mentre sognava. Si rese conto con dolore che senza dubbio stava sognando Annet. Gwenda non dormì, ma sognò a occhi aperti. Immaginò Wulfric che la presentava a un estraneo dicendo: "Questa è mia moglie, Gwenda". Si vide incinta, ma ancora al lavoro nei campi, dove un pomeriggio sveniva. E, nella sua fantasia, Wulfric la prendeva in braccio, la portava a casa e le rinfrescava il viso con l'acqua fredda. Lo vide vecchio giocare con i loro nipotini e viziarli con mele e miele. "Nipotini?" pensò con amarezza. Era un castello in aria costruito sul solo fatto che Wulfric le aveva permesso di abbracciarlo mentre piangeva fino a
addormentarsi sfinito. Quando lei cominciò a pensare che ormai doveva essere quasi l'alba e che probabilmente il suo soggiorno in paradiso di lì a poco sarebbe finito, Wulfric cominciò ad agitarsi. Il ritmo del respiro cambiò. Il ragazzo si voltò sulla schiena. Gwenda gli passò un braccio sul petto e infilò la mano sotto il braccio di lui. Dopo qualche minuto capì che era sveglio e che stava riflettendo. Lei rimase immobile, timorosa che, se avesse parlato o si fosse mossa, avrebbe potuto spezzare l'incantesimo. Poi Wulfric si girò verso di lei e l'abbracciò. La ragazza sentì la sua mano sulla pelle nuda della schiena. Cominciò ad accarezzarla, ma Gwenda non capì il significato di quelle carezze: sembrava che lui la stesse esplorando, sorpreso nel trovarla nuda. Avvertì la mano salire fino al collo e poi scendere, seguendo la curva del fianco. Finalmente Wulfric parlò. Quasi temendo che qualcuno lo sentisse, sussurrò: «L'ha sposato». «Sì» sussurrò a sua volta Gwenda. «L'amore di Annet è debole.» «Il vero amore non è mai debole.» La mano di lui era sempre sul fianco, tormentosamente vicina a dove Gwenda voleva che la toccasse. «Smetterò mai di amarla?» Gwenda gli prese la mano e gliela guidò. «Annet ha due seni, come questi» disse, sempre mormorando. Non sapeva da dove le fosse venuta quell'iniziativa: era l'ispirazione che la stava conducendo e lei decise di seguirla, nel bene e nel male. Wulfric gemette. La ragazza sentì la sua mano stringerle delicatamente un seno, poi l'altro. «E ha i peli laggiù, come questi» disse, spostandogli di nuovo la mano. Il respiro di lui si fece più ansante. Lasciandogli la mano dov'era, Gwenda gli esplorò il corpo sotto la camicia da notte di lana e sentì che aveva un'erezione. «E le sue mani danno questa sensazione» disse afferrandogli il pene. Wulfric cominciò a muovere ritmicamente i fianchi. All'improvviso Gwenda temette che l'atto finisse prima ancora di essere consumato. Non voleva che accadesse. Doveva essere tutto o niente. Lo fece distendere sulla schiena, si sollevò in fretta e gli si mise a cavalcioni sopra. «Dentro è calda e bagnata» gli disse, e si abbassò su di lui. Anche se l'aveva già fatto una volta, non era stato niente di simile: si sentì riempire,
eppure non le bastava ancora. Cominciò a muoversi, abbassandosi alla spinta dei fianchi di Wulfric e sollevandosi quando lui si ritraeva. Avvicinò il viso a quello di lui e gli baciò la bocca circondata dalla barba. Lui le afferrò il viso e ricambiò il bacio. «Lei ti ama» gli sussurrò. «Ti ama tantissimo.» Wulfric gridò di passione e Gwenda, che lo cavalcava come un pony selvaggio, venne scossa su e giù finché lo sentì venire dentro di lei. Un ultimo grido e poi Wulfric disse: «Oh, ti amo anch'io! Ti amo, Annet!». 28 Wulfric si riaddormentò, ma Gwenda rimase sveglia. Era troppo eccitata per dormire. Si era conquistata l'amore di Wulfric, lo sapeva. E non le importava molto aver quasi dovuto fingere di essere Annet. Wulfric aveva fatto l'amore con lei con così tanta passione, e dopo l'aveva baciata con tale tenerezza e gratitudine, che si sentiva sicura che ormai fosse suo per sempre. Quando il cuore smise di batterle furiosamente e la mente si calmò, cominciò a pensare all'eredità. Non era disposta a rinunciare, specialmente adesso. Mentre fuori spuntava l'alba, si spremette il cervello per trovare una soluzione. Quando Wulfric si svegliò, gli disse: «Vado a Kingsbridge». «Perché?» le domandò lui, stupito. «Per vedere se c'è un modo per farti avere comunque l'eredità.» «E come?» «Non lo so. Ma Ralph non ha ancora assegnato la terra, perciò rimane una possibilità. E tu la meriti: hai lavorato e penato così tanto.» «Cos'hai intenzione di fare?» «Andrò a parlare con mio fratello Philemon: lui capisce queste cose meglio di noi. Saprà come dobbiamo agire.» Wulfric la fissava in modo strano. «Cosa c'è?» gli domandò Gwenda. «Tu mi ami sul serio, vero?» La ragazza sorrise, piena di felicità, e disse: «Facciamolo ancora, vuoi?». La mattina dopo, Gwenda era al priorato di Kingsbridge, seduta sulla panca di pietra accanto all'orto in attesa di Philemon. Durante la lunga
camminata da Wigleigh, aveva rivissuto ogni secondo di domenica notte, riassaporandone i piaceri e interrogandosi su ogni parola che era stata pronunciata. Wulfric non aveva dichiarato di amarla, però aveva detto: "Tu mi ami sul serio". Ed era sembrato contento, anche se forse un po' sconcertato dalla forza di quella passione. Gwenda desiderava con tutte le sue forze che lui ottenesse ciò che gli spettava per nascita. Lo desiderava quasi quanto desiderava Wulfric stesso. Lo voleva per entrambi. Anche se Wulfric fosse rimasto un bracciante senza terra come suo padre, lei lo avrebbe sposato ugualmente, se ne avesse avuto la possibilità. Ma voleva il meglio per tutti e due ed era decisa a ottenerlo. Philemon uscì dal priorato e Gwenda notò immediatamente che indossava il saio dei novizi. «Holger!» esclamò, usando per la sorpresa il vero nome del fratello. «Sei un novizio! È quello che hai sempre voluto!» Philemon sorrise orgoglioso e ignorò benevolmente l'uso del suo vecchio nome. «È stata una delle prime decisioni di Godwyn come priore. È un uomo meraviglioso ed è un vero onore servirlo.» Si sedette sulla panca accanto alla sorella. Era una tiepida giornata autunnale, nuvolosa ma priva di umidità. «E come vanno le tue lezioni?» domandò Gwenda. «A rilento. È difficile imparare a leggere e a scrivere quando sei già adulto.» Fece una smorfia. «I ragazzini fanno progressi più in fretta di me. Però sono già in grado di copiare il Padre Nostro in latino.» Gwenda lo invidiò: lei non sapeva scrivere neppure il proprio nome. «È meraviglioso!» Suo fratello stava per realizzare il sogno della sua vita diventando monaco. Forse il noviziato avrebbe attenuato la sensazione di inadeguatezza che, Gwenda ne era sicura, spiegava il fatto che a volte Philemon fosse subdolo e falso. «Ma cosa mi dici di te?» domandò Philemon. «Come mai sei venuta a Kingsbridge?» «Tu sai che Ralph Fitzgerald è diventato signore di Wigleigh?» «Sì. È qui in città e alloggia alla locanda Bell, spendendo e spandendo.» «Ha negato a Wulfric l'eredità delle terre di suo padre.» Raccontò tutta la storia al fratello. «Voglio sapere se la decisione di Ralph può essere impugnata.» Philemon scosse il capo. «In breve, la risposta è no. Naturalmente Wulfric potrebbe appellarsi al conte di Shiring chiedendogli di annullare la decisione di Ralph, ma il conte non interverrebbe mai, a meno che non aves-
se un interesse personale. Anche se ritenesse la decisione ingiusta, come evidentemente è, non minerebbe mai l'autorità di un lord che ha appena nominato. Ma tu che interesse hai in questa storia? Pensavo che Wulfric stesse per sposare Annet.» «Quando Ralph ha annunciato la sua decisione, Annet ha lasciato Wulfric e ha sposato Billy Howard.» «E così tu adesso hai una possibilità con Wulfric.» «Credo di sì.» Gwenda si sentì arrossire. «E come fai a saperlo?» le domandò Philemon con aria scaltra. «Ho approfittato di lui» confessò Gwenda. «Era disperato per il matrimonio di Annet e io mi sono infilata nel suo letto.» «Non preoccuparti. Chi, come noi, è nato povero deve usare l'astuzia per ottenere ciò che vuole. Gli scrupoli sono per i privilegiati.» A Gwenda non piaceva sentirlo parlare così. A volte Philemon sembrava pensare che qualsiasi comportamento potesse essere loro perdonato in virtù dell'infanzia difficile. Comunque, adesso era troppo delusa per preoccuparsi di questo. «Quindi non c'è proprio niente che io possa fare?» «Oh, non ho detto questo. Ho detto che la decisione non può essere impugnata. Ma forse è possibile riuscire a convincere Ralph.» «Non si farà certo convincere da me.» «Non saprei. Perché non vai a parlare con Caris, la cugina di Godwyn? Voi due siete amiche fin da bambine. Ti aiuterà, se può. Ed è molto vicina a Merthin, il fratello di Ralph. Magari a lui verrà in mente qualcosa.» Qualsiasi speranza era meglio di niente. Gwenda si alzò in piedi. «Vado subito da lei.» Si chinò per salutare suo fratello con un bacio, poi rammentò che contatti del genere adesso gli erano proibiti. Così gli strinse la mano, cosa che le sembrò strana. «Pregherò per te» le assicurò Philemon. La casa di Caris si trovava proprio di fronte ai cancelli del priorato. Quando Gwenda entrò, non vide nessuno nella sala grande, ma sentì delle voci provenire dalla stanza, dove Edmund di solito trattava i suoi affari. La cuoca, Tutty, la informò che Caris era là dentro con suo padre. Gwenda si sedette e si mise ad aspettare, battendo il piede con impazienza. La porta si aprì pochi minuti dopo. Edmund uscì con un uomo che Gwenda non conosceva. Era alto e le narici larghe gli conferivano un'espressione altera e arrogante. Indossava una tonaca nera da prete, ma senza croci o altri simboli sacri. Edmund salutò Gwenda con un cenno gentile e disse allo sconosciuto: «Vi riaccompagno
al priorato». Caris uscì a sua volta dalla stanza e abbracciò l'amica. «Chi era quell'uomo?» le domandò Gwenda. «Si chiama Gregory Longfellow. È l'avvocato assunto dal priore Godwyn.» «Assunto per cosa?» «Il conte Roland impedisce al priorato di portare via le pietre dalla cava. Vuole imporre la tassa di un penny su ogni carro. Godwyn presenterà appello al re.» «La tua famiglia è coinvolta in questa storia?» «Secondo Gregory dovremmo sostenere che, senza il ponte, la città non sarà in grado di pagare le tasse. Dice che questo è il modo migliore per convincere il re. Perciò mio padre andrà con Godwyn a deporre davanti al tribunale reale.» «Andrai anche tu?» «Sì. Ma dimmi: come mai sei qui?» «Ho giaciuto con Wulfric.» Caris sorrise. «Davvero? Finalmente! E com'è stato?» «Meraviglioso. Sono rimasta distesa accanto a lui per tutta la notte mentre dormiva e poi, quando si è svegliato, io... l'ho persuaso.» «Dimmi di più. Voglio tutti i dettagli.» Gwenda raccontò la sua storia. Alla fine, anche se era impaziente di passare al vero scopo della sua visita, insinuò: «Ma qualcosa mi fa credere che anche tu hai notizie dello stesso tipo». Caris annuì. «Ho giaciuto con Merthin. Gli avevo detto che non volevo sposarmi e lui aveva cominciato a frequentare quella grassa vacca di Bessie Bell. L'idea che lei gli sbattesse sotto il naso quelle sue grosse tette mi aveva talmente sconvolto che, quando lui è tornato da me, sono stata così contenta che non ho potuto non fare l'amore con lui.» «E ti è piaciuto?» «Moltissimo. È la cosa più bella che ci sia. E diventa sempre meglio. Lo facciamo ogni volta che ne abbiamo la possibilità.» «E se resti incinta?» «Non ci voglio nemmeno pensare. Non mi interessa se muoio. Una volta...» Caris abbassò la voce. «Una volta abbiamo fatto il bagno in uno stagno nella foresta e dopo lui mi ha leccata... laggiù.» «Ma è disgustoso! E com'è stato?» «Bello. È piaciuto anche a lui.»
«Non gli avrai fatto la stessa cosa, vero?» «Sì.» «E Merthin è...?» Caris annuì. «Nella mia bocca.» «Ma non aveva un sapore cattivo?» Caris si strinse nelle spalle. «Il sapore è strano... ma è così eccitante quando succede. E a lui è piaciuto moltissimo.» Gwenda era scioccata, ma anche intrigata. Forse avrebbe dovuto farlo a Wulfric. Conosceva un posto dove potevano andare a fare il bagno, un torrente nella foresta lontano da tutte le strade... «Comunque, non avrai fatto tutta questa strada solo per raccontarmi di Wulfric» disse Caris. «No. Si tratta della sua eredità.» Gwenda spiegò la decisione di Ralph. «Philemon pensa che forse Merthin potrebbe convincere Ralph a cambiare idea.» Caris scosse la testa con pessimismo. «Ne dubito. Hanno litigato.» «Oh, no.» «È stato Ralph a bloccare i carri che partivano dalla cava. E sfortunatamente Merthin era presente. C'è stato uno scontro. Ben Wheeler ha ucciso uno dei ruffiani del conte e Ralph ha ucciso Ben.» Gwenda trattenne il fiato. «Ma Lib Wheeler ha un bimbo di due anni!» «E ora il piccolo Bennie non ha più un padre.» Gwenda si sentì disperata sia per se stessa sia per Lib. «Perciò non si può contare sull'influenza del fratello.» «Andiamo comunque a parlare con Merthin. Oggi lavora all'isola dei Lebbrosi.» Uscirono di casa e scesero lungo la strada principale fino alla riva del fiume. Gwenda era scoraggiata. Tutti pensavano che le sue possibilità fossero esilissime. Era così ingiusto. Si fecero traghettare sull'isola da Ian il barcaiolo. Caris spiegò che il vecchio ponte sarebbe stato sostituito da due nuovi; l'isola avrebbe avuto la funzione di appoggio intermedio, una sorta di pietra da guado. Trovarono Merthin che, con il suo aiutante Jimmie, un ragazzino di quattordici anni, stava contrassegnando la posizione delle spalle del nuovo ponte. Lo strumento di misurazione era un'asta di ferro, alta più del doppio di un uomo. Servendosi di un martello, Merthin conficcava paletti appuntiti nel terreno sassoso per indicare il punto in cui dovevano essere scavate le fondamenta.
Gwenda osservò il modo in cui Caris e Merthin si baciarono. Era diverso. Nei loro corpi scorse un atteggiamento intimo e familiare che le sembrò nuovo. Era quello che Gwenda sentiva per Wulfric, il cui corpo non era soltanto desiderabile, ma anche da godere. Lei aveva la sensazione che le appartenesse come il suo stesso corpo. Gwenda e Caris guardarono Merthin finire ciò che stava facendo, e cioè legare un pezzo di spago tra due paletti. Poi lui disse a Jimmie di raccogliere gli attrezzi. «Immagino che tu non possa fare granché senza pietre» osservò Gwenda. «Possiamo comunque portare avanti il lavoro. Ho mandato tutti i muratori alla cava: preparano le pietre sul posto, invece di farlo qui, nel cantiere. Stiamo creando una scorta.» «Così, se vincete la causa al tribunale reale, potete cominciare subito a costruire.» «È quello che spero. Dipende da quanto durerà la causa... e dal tempo. Non possiamo costruire nel cuore dell'inverno perché il freddo potrebbe congelare la calcina. Siamo già in ottobre. Di solito interrompiamo i lavori a metà novembre.» Merthin alzò lo sguardo verso il cielo. «Quest'anno potremmo avere un po' più di tempo: le nuvole cariche di pioggia mantengono la terra calda.» Gwenda gli spiegò ciò che voleva. «Vorrei poterti aiutare» disse Merthin. «Wulfric è un ragazzo come si deve e quella famosa zuffa è stata tutta colpa di Ralph. Ma ho litigato con mio fratello. Prima di chiedergli un favore, dovrei fare la pace con lui. E non posso perdonargli di aver ucciso Ben Wheeler.» La terza risposta negativa di fila, pensò depressa Gwenda. Forse la sua era stata una spedizione a vuoto. «Dovrai cavartela da sola» le disse Caris. «Sì, lo farò» confermò decisa Gwenda. Era arrivato il momento di smettere di chiedere aiuto agli altri e ricominciare invece a contare solo su se stessa, come aveva fatto per tutta la vita. «Ralph è qui in città, vero?» «Sì» rispose Merthin. «È venuto a dare la buona notizia della sua promozione ai nostri genitori. Loro due sono gli unici a festeggiare in tutta la contea.» «Però Ralph non sta a casa dei tuoi.» «Ormai è troppo superiore per una cosa del genere. Alloggia alla locanda Bell.»
«Quale potrebbe essere il modo migliore per convincerlo?» Merthin rifletté qualche istante. «Ralph sente molto l'umiliazione di nostro padre... un cavaliere ridotto alla condizione di converso del priorato. Mio fratello farà qualsiasi cosa che gli sembri possa mettere in mostra la sua posizione sociale.» Gwenda rifletté su questo, mentre Ian il barcaiolo li traghettava tutti di nuovo in città. Come poteva formulare la sua richiesta in modo che Ralph vi vedesse un mezzo per enfatizzare il suo status? Era già mezzogiorno quando risalì la strada principale insieme ai due amici. Merthin stava andando a pranzo a casa di Caris, che la invitò a unirsi a loro, ma Gwenda era impaziente di parlare con Ralph e proseguì da sola, diretta alla locanda. Uno sguattero le disse che Ralph si trovava al piano di sopra, nella stanza migliore. La maggior parte dei viaggiatori dormiva in una sala comune: Ralph, invece, per sottolineare la sua nuova posizione, aveva affittato un'intera camera... pagata, pensò Gwenda, con i magri raccolti dei contadini di Wigleigh. Bussò alla porta ed entrò. Ralph era in compagnia del suo scudiero, Alan Fernhill, un ragazzo sui diciotto anni dalle spalle grosse e la testa piccola. Sul tavolo tra loro c'erano una brocca di birra, una pagnotta e un tegame di manzo bollente da cui si alzava una voluta di vapore. I due stavano finendo di pranzare e, pensò la ragazza, sembravano assolutamente soddisfatti della loro vita. Sperò che non fossero troppo ubriachi: in quello stato gli uomini non erano in grado di parlare con le donne, tutto ciò che sapevano fare era uscirsene con osservazioni volgari e ridere a crepapelle alle loro battute. Ralph la guardò, socchiudendo gli occhi: la stanza non era bene illuminata. «Sei una delle mie serve, vero?» «No, mio signore, ma vorrei diventarlo. Mi chiamo Gwenda, e mio padre è Joby, un bracciante senza terra.» «E cosa fai così lontano dal villaggio? Oggi non è giorno di mercato.» Gwenda fece un passo avanti, in modo da poter vedere meglio il viso di Ralph. «Signore, sono venuta a implorarvi per Wulfric, figlio del defunto Samuel. So che una volta vi ha mancato di rispetto, ma da allora ha sofferto i tormenti di Giobbe. I suoi genitori e suo fratello sono rimasti uccisi quando il ponte è crollato, tutto il denaro della famiglia è andato perduto e adesso la sua fidanzata ha sposato un altro. Io spero che possiate convincervi che Dio l'ha punito duramente per il torto che vi ha fatto e che per voi sia arrivato il momento di dimostrare pietà...» Ricordando ciò che Merthin
le aveva suggerito, aggiunse: «... la pietà caratteristica dell'autentico nobiluomo». Ralph ruttò rumorosamente e sospirò. «A te cosa importa se Wulfric eredita?» «Io lo amo, mio signore. Adesso che Annet lo ha lasciato, spero che possa decidere di sposare me... con il vostro permesso, naturalmente.» «Avvicinati» ordinò Ralph. Gwenda avanzò fino al centro della stanza e gli si fermò davanti. Lo sguardo di Ralph si soffermò lungamente sul suo corpo. «Non sei bella, ragazza» dichiarò. «Ma in te c'è qualcosa... Sei vergine?» «Signore, io... io...» «Ovviamente no.» Ralph rise. «Sei già stata con Wulfric?» «No!» «Bugiarda.» Ralph sogghignò. Si divertiva. «Be', e se decidessi che Wulfric, dopotutto, può ereditare la terra di suo padre? Magari dovrei. E allora?» «E allora Wigleigh e tutto il mondo direbbero che siete un vero nobile.» «Al mondo non interesserebbe affatto. Ma tu mi dimostreresti gratitudine?» Gwenda ebbe l'orribile sensazione di sapere già dove sarebbe andata a finire quella conversazione. «Naturalmente. Ve ne sarei profondamente grata.» «E come me lo dimostreresti?» Lei arretrò verso la porta. «In qualsiasi modo che non mi facesse vergognare.» «Ti spoglieresti?» Gwenda si sentì stringere il cuore. «No, signore.» «Ah. Non così tanta gratitudine, quindi.» Gwenda posò la mano sulla maniglia della porta, ma non uscì. «Cosa... cosa volete da me, signore?» «Voglio vederti nuda. Poi deciderò.» «Qui?» «Sì.» La ragazza guardò Alan. «Davanti a lui?» «Sì.» Non sembrava poi una gran cosa, mostrarsi a quei due... non a paragone del premio, ottenere l'eredità di Wulfric. Con gesti rapidi, Gwenda si sciolse la cintola e si passò la veste sopra la
testa. Poi tenne l'abito stretto in una mano, l'altra sulla maniglia, e fissò Ralph con espressione di sfida. Lui osservò avidamente il corpo della ragazza, dopodiché lanciò un'occhiata al suo compagno con un sorriso di trionfo. Gwenda capì che la scena serviva anche a dimostrare il suo potere. Ralph disse: «Una brutta vacca, ma con due belle poppe, vero, Alan?». «Io di certo non mi servirei di lei per arrivare a te» replicò lui. Ralph rise. «Adesso accoglierete la mia petizione?» chiese Gwenda. Ralph si portò la mano all'inguine e cominciò ad accarezzarsi. «Vieni con me. Su quel letto.» «No.» «Andiamo! L'hai già fatto con Wulfric, non sei vergine.» «No.» «Pensa alla terra: novanta acri, tutti quelli che aveva suo padre.» Gwenda ci pensò. Se avesse accettato, Wulfric avrebbe visto realizzarsi il suo desiderio più grande e loro due avrebbero avuto una vita di abbondanza. Se avesse continuato a rifiutare, Wulfric sarebbe rimasto un bracciante senza terra, come Joby, un uomo che avrebbe dovuto lottare tutta la vita per guadagnare abbastanza da nutrire i suoi figli, e che spesso non ci sarebbe riuscito. Tuttavia, il pensiero continuava a disgustarla. Ralph era un uomo sgradevole, meschino, vendicativo e prepotente, così diverso da suo fratello. Che fosse alto e bello faceva ben poca differenza. Sarebbe stato rivoltante giacere con un uomo che lei trovava così odioso. Il fatto che fosse stata con Wulfric solo il giorno prima rendeva la prospettiva del sesso con Ralph ancora più repellente. Dopo la notte di dolce intimità con Wulfric, sarebbe stato un tradimento terribile fare la stessa cosa con un altro. "Non essere stupida" si disse. "Per evitare cinque minuti sgradevoli ti condanni a una vita di stenti?" Pensò a sua madre e ai bambini che erano morti. Pensò ai furti che lei e Philemon erano stati costretti a commettere. Non era meglio prostituirsi con Ralph un'unica volta, solo per pochi minuti, che condannare i suoi figli non ancora nati a una vita di stenti? Ralph rimase in silenzio mentre Gwenda si dibatteva nell'incertezza. Si dimostrò saggio: qualsiasi parola da parte sua non avrebbe fatto altro che rafforzare l'ostilità della ragazza. Gli era più utile il silenzio. «Vi prego» lo implorò Gwenda. «Non costringetemi.» «Ah» fece Ralph. «Questo mi fa supporre che sei disposta a farlo.»
«È peccato» disse Gwenda, disperata. Non parlava spesso di peccato, ma pensò che l'argomento forse l'avrebbe fatto riflettere. «Peccato per voi chiedermelo e peccato per me accettare.» «I peccati possono essere perdonati.» «Cosa penserebbe di voi vostro fratello?» La domanda mise a tacere Ralph. Per un momento sembrò esitare. «Per favore» lo implorò di nuovo Gwenda. «Consentite che Wulfric erediti.» Il viso di Ralph si indurì di nuovo. «Ho preso la mia decisione e non ho intenzione di cambiarla... a meno che tu non riesca a persuadermi. E dire semplicemente "per favore" non basterà.» Gli occhi gli luccicavano di desiderio, il respiro era un po' più affannoso, la bocca socchiusa, le labbra, seminascoste dalla barba, bagnate. Gwenda lasciò cadere la veste sul pavimento e si avviò verso il letto. «Inginocchiati sul materasso» le ordinò Ralph. «No, con la schiena rivolta verso di me.» La ragazza fece ciò che le era stato detto. «È meglio vista così» disse Ralph, e Alan rise rumorosamente. Gwenda si chiese se Alan sarebbe rimasto a guardare, ma Ralph gli disse: «Lasciaci soli». Un attimo dopo la porta sbatté. Ralph si inginocchiò sul letto alle spalle di Gwenda, che chiuse gli occhi e pregò, chiedendo perdono. Si sentì esplorare dalle grosse dita dell'uomo. Lo udì sputare e poi la sua mano bagnata la toccò. Un momento dopo entrò in lei. La ragazza gemette per la vergogna. Ralph fraintese il lamento e disse: «Ti piace, vero?». Gwenda si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto. Ralph cominciò a muoversi ritmicamente. Per attenuare il disagio, Gwenda prese a muoversi con lui, che scoppiò in una risata trionfante, convinto di averla eccitata. Il timore più grande della ragazza era che quell'episodio potesse contaminare tutta la sua esperienza di amore fisico. In futuro, giacendo con Wulfric, avrebbe ripensato a quel momento? E poi, con orrore, sentì un'ondata calda di piacere spandersi nei lombi. Il viso le avvampò di vergogna. A dispetto della profonda ripugnanza, il corpo la tradì e all'improvviso si sentì bagnata dentro, cosa che attenuò la frizione delle spinte di Ralph. L'uomo percepì il cambiamento e cominciò a muoversi più velocemente. Disgustata di se stessa, Gwenda smise di seguire il ritmo di Ralph, ma lui le afferrò i fianchi, spingendo e ritraendosi alternativamente, e la ragazza non riuscì più a resistere. Ricordò con sgo-
mento che il suo corpo l'aveva tradita nello stesso, identico modo con Alwyn, quel giorno nella foresta. Allora, come adesso, aveva desiderato essere una statua di legno, insensibile e impassibile, ma entrambe le volte il corpo aveva reagito contro la sua volontà. Aveva ucciso Alwyn con il suo stesso coltello. Anche se avesse voluto, non sarebbe stata in grado di uccidere Ralph, dato che le stava alle spalle. Non poteva vederlo e aveva ben poco controllo sul proprio corpo. Era nelle mani di quell'uomo. Fu contenta quando intuì che lui si stava avvicinando all'orgasmo. Di lì a poco sarebbe finito tutto. Ma poi avvertì una sensazione analoga. Cercò di costringere il proprio corpo all'insensibilità e la mente al vuoto: sarebbe stato troppo umiliante, se avesse raggiunto l'orgasmo anche lei. Sentì Ralph eiaculare dentro di lei e rabbrividì, non di piacere, ma di odio. Ralph emise un sospiro di soddisfazione, si staccò da lei e si distese supino sul letto. Gwenda si alzò e si vestì rapidamente. «È stato meglio di quanto mi aspettassi» disse Ralph, quasi in una sorta di complimento. Gwenda uscì, sbattendo la porta dietro di sé. La domenica seguente, prima della funzione, Nathan Reeve si presentò a casa di Wulfric. Gwenda e Wulfric erano in cucina. Avevano già fatto colazione e spazzato la stanza. Adesso Wulfric si stava cucendo un paio di pantaloni di pelle, mentre Gwenda intrecciava una cintola di corda. Sedevano vicino alla finestra per avere più luce. Pioveva di nuovo. Gwenda fingeva di abitare ancora nella stalla, in modo da non offendere padre Gaspard, ma in realtà trascorreva ogni notte con Wulfric. Il ragazzo non aveva mai accennato al matrimonio, cosa che le dispiaceva. Tuttavia vivevano più o meno come marito e moglie, così come facevano spesso uomini e donne quando avevano intenzione di sposarsi non appena avessero sistemato tutte le formalità. Ai nobili e ai ricchi proprietari terrieri non era consentita una tale condotta, che però veniva tranquillamente tollerata fra i contadini. Come aveva temuto, adesso Gwenda provava una sensazione strana nel fare l'amore con Wulfric. Più cercava di scacciare Ralph dalla mente, più lui si intrometteva. Fortunatamente Wulfric non si era mai accorto del suo stato d'animo. Faceva l'amore con lei con tale entusiasmo e gioia da riuscire quasi a metterle a tacere la coscienza colpevole. Quasi, ma non comple-
tamente. Comunque, Gwenda aveva la consolazione di sapere che Wulfric, dopotutto, avrebbe ereditato le terre della sua famiglia. Quello compensava qualsiasi cosa. Non aveva potuto dirglielo, naturalmente, perché altrimenti avrebbe dovuto spiegargli cosa avesse fatto cambiare idea a Ralph. Gli aveva raccontato dei colloqui con Philemon, Caris e Merthin e gli aveva fornito una versione parziale del suo incontro con Ralph, dicendogli soltanto che il nuovo signore aveva promesso di riflettere sulla questione. Perciò Wulfric adesso era speranzoso, non trionfante. «Venite immediatamente al maniero, tutti e due» disse Nathan, infilando la testa bagnata dentro la porta. «Cosa vuole lord Ralph?» domandò Gwenda. «Ti rifiuterai di andare, se l'argomento non ti interessa?» le chiese sarcastico Nathan. «Non fare domande stupide. Vieni e basta.» Gwenda si mise una coperta sulla testa per andare alla grande casa. Non possedeva ancora un mantello. Wulfric avrebbe potuto comprarglielo, visto che aveva il denaro ricavato dalla vendita dei suoi raccolti, ma teneva da parte quei soldi per il tributo feudale. Corsero sotto la pioggia fino al maniero. Era una versione minore del castello di un nobile, con una sala grande e un lungo tavolo da pranzo, più un piccolo piano superiore con gli appartamenti privati del lord. L'edificio mostrava i segni di un luogo abitato da uomini senza mogli: le pareti erano prive di arazzi, la paglia sul pavimento emanava un odore pungente, i cani ringhiavano agli ospiti e sulla credenza c'era un topolino che rosicchiava una crosta di pane. Ralph sedeva a capotavola. Alla sua destra c'era Alan, che rivolse un sogghigno a Gwenda, la quale fece del suo meglio per ignorarlo. Un minuto dopo entrò Nathan, seguito dal grasso e scaltro Perkin, che si inchinò ossequioso sfregandosi le mani, i capelli così unti che davano l'impressione di un berretto di pelle. Perkin era accompagnato da suo genero, Billy Howard, che lanciò un'occhiata trionfante in direzione di Wulfric. "Mi sono preso la tua ragazza" pensava di certo "e adesso mi prenderò anche la tua terra." Ma stava per avere una sorpresa. Nathan si sedette alla sinistra di Ralph. Tutti gli altri rimasero in piedi. Gwenda aveva atteso con ansia quel momento. Era la ricompensa per il suo sacrificio. Aveva immaginato con gioia l'espressione sulla faccia di Wulfric, quando avesse sentito che gli veniva riconosciuta l'eredità. Sarebbe stato sopraffatto dalla felicità. E anche lei. Il loro futuro sarebbe stato
sicuro, almeno per quanto possibile in un mondo di stagioni imprevedibili e di prezzi del grano variabili. «Tre settimane fa» cominciò Ralph «ho detto che Wulfric, figlio di Samuel, non poteva ereditare le terre di suo padre perché è troppo giovane.» Parlava lentamente, in tono grave. "Gli piace" pensò Gwenda "starsene seduto a capotavola ed emettere sentenze, mentre tutti pendono dalle sue labbra." «Da allora, mentre riflettevo su chi dovesse succedere al vecchio Samuel, Wulfric ha continuato a lavorare la terra.» Ralph fece una pausa, poi riprese: «Mi sono sorti dei dubbi sul rifiuto che ho opposto a Wulfric». Perkin sobbalzò. Era stato sicuro del suo successo e adesso era scioccato. «Ma cosa succede?» domandò Billy Howard. «Pensavo che Nathan...» Perkin gli diede una leggera gomitata e Billy tacque. Gwenda non riuscì a trattenere un sorriso. Ralph riprese a parlare. «A dispetto della sua giovane età, Wulfric si è dimostrato capace.» Perkin fissava Nathan. Gwenda immaginò che il balivo gli avesse promesso la terra. Forse la tangente era già stata pagata. Nathan era sorpreso quanto Perkin. Fissò a bocca aperta Ralph per un momento, poi si rivolse a Perkin con un'espressione perplessa e infine guardò Gwenda con sospetto. «Wulfric ha avuto un valido aiuto da Gwenda» aggiunse Ralph. «La forza e lealtà che lei ha dimostrato mi hanno favorevolmente colpito.» Il balivo continuava a fissare la ragazza. Gwenda sapeva che cosa stava pensando. Aveva capito che lei in qualche modo era intervenuta e si stava chiedendo come fosse riuscita a far cambiare idea a Ralph. Forse aveva addirittura intuito la verità. Ma a Gwenda non importava, purché Wulfric restasse all'oscuro di tutto. All'improvviso Nathan sembrò aver preso una decisione. Si alzò in piedi e si piegò attraverso il tavolo per parlare sottovoce a Ralph. Gwenda non riuscì a sentire cosa diceva. «Davvero?» chiese Ralph con voce normale. «Quanto?» Nathan si voltò verso Perkin e gli sussurrò qualcosa. «Un momento» intervenne Gwenda. «Che cosa sono tutti questi sussurri?» Perkin sembrava arrabbiato, ma accettò riluttante: «Sì, va bene». «Va bene cosa?» insistette Gwenda, spaventata.
«Il doppio?» fece Nathan. Perkin annuì. Gwenda aveva un terribile presentimento. A voce alta, il balivo disse: «Perkin si offre di pagare il doppio del normale tributo, vale a dire cinque sterline». «Questo cambia le cose» osservò Ralph. «No!» gridò Gwenda. Wulfric parlò per la prima volta. «Il tributo feudale è stabilito dal diritto consuetudinario, registrato nell'archivio del castello» disse con la sua voce lenta di ragazzo ormai uomo. «Non si può negoziare.» «Però i tributi feudali possono cambiare» intervenne subito Nathan. «Non sono indicati nel Libro del catasto d'Inghilterra.» «Voi due siete avvocati?» chiese Ralph. «Se non lo siete, state zitti. Il tributo ammonta a due sterline e dieci scellini. Qualsiasi altra somma cambi di mano, non vi riguarda.» Con orrore, Gwenda si rese conto che Ralph stava per venire meno al loro patto. Parlò con voce bassa e accusatoria, lentamente, ma con chiarezza. «Signore, voi mi avevate fatto una promessa.» «E perché mai avrei dovuto fare una cosa del genere?» replicò Ralph. Era l'unica domanda a cui Gwenda non poteva rispondere. «Perché vi ho implorato» rispose debolmente. «E io ti ho detto che ci avrei riflettuto. Ma non ti ho fatto alcuna promessa.» Gwenda era impotente, non aveva modo di fargli mantenere la parola. Avrebbe voluto ucciderlo. «Invece sì, signore, me l'avete fatta!» «I lord non fanno trattative con i contadini.» Gwenda lo fissò, senza trovare più le parole. Era stato tutto inutile: il lungo cammino per arrivare a Kingsbridge, l'umiliazione di mostrarsi nuda davanti a Ralph e a Alan, l'atto vergognoso che aveva compiuto su quel letto. Aveva tradito Wulfric e lui non avrebbe comunque ereditato. Puntò un dito contro Ralph e con voce disperata gli disse: «Che Dio ti danni all'inferno, Ralph Fitzgerald». Lui impallidì. Tutti sapevano che la maledizione di una donna che aveva subito un torto era molto potente. «Attenta a quel che dici. C'è una punizione per una strega che lanci maledizioni.» Gwenda fece un passo indietro: nessuna donna poteva prendere alla leggera una minaccia del genere. L'accusa di stregoneria era facile da formulare e assai difficile da confutare. Tuttavia non riuscì a trattenersi e aggiun-
se: «Coloro che sfuggono alla giustizia in questa vita la troveranno nell'altra». Ralph la ignorò e si rivolse a Perkin. «Dov'è il denaro?» Perkin non era diventato ricco raccontando alla gente dove teneva i suoi soldi. «Vado a prenderlo immediatamente, signore.» «Andiamocene, Gwenda» disse Wulfric. «Qui non c'è pietà per noi.» La ragazza lottò per trattenere le lacrime. Alla rabbia ora si era sostituito il dolore. La battaglia era persa, a dispetto di tutto ciò che avevano fatto. Si voltò, la testa bassa per nascondere le emozioni. «Aspetta, Wulfric» disse Perkin. «Tu hai bisogno di lavorare e io ho bisogno di aiuto. Lavora per me. Ti pagherò un penny al giorno.» Wulfric arrossì per la vergogna nel sentirsi offrire un lavoro da bracciante nelle terre che erano state della sua famiglia. «Anche Gwenda» aggiunse Perkin. «Siete tutti e due giovani e volenterosi.» La ragazza capì che Perkin non intendeva essere malevolo. La sua mente era concentrata solo sul proprio interesse e ci teneva ad assumere due braccianti giovani e forti che lo aiutassero a coltivare i suoi accresciuti appezzamenti. Non gli interessava che per Wulfric la sua offerta fosse l'umiliazione finale, o forse non se ne rendeva neppure conto. «Fra tutti e due fa uno scellino alla settimana» continuò Perkin. «Avrete denaro più che a sufficienza.» Wulfric lo guardò amareggiato. «Lavorare per un salario le terre che la mia famiglia ha avuto per decenni? Mai.» Si voltò e uscì. Gwenda lo seguì pensando: "E adesso cosa faremo?". 29 La Westminster Hall era enorme, più vasta dell'interno di alcune cattedrali. Con il suo soffitto, sostenuto da una doppia fila di alte colonne, era così lunga e larga da intimidire. Era la sala più importante del Palazzo di Westminster. Il conte Roland si sentiva perfettamente a suo agio in quell'ambiente, pensò Godwyn con risentimento. Il conte e suo figlio William si muovevano sicuri e baldanzosi nelle loro vesti alla moda, con una gamba delle calzebrache rossa e l'altra nera. Ogni conte conosceva tutti i suoi pari, e anche la maggior parte dei baroni. I nobili si scambiavano pacche sulle spalle, si canzonavano a vicenda e ridevano sguaiatamente alle loro battute.
Godwyn avrebbe voluto ricordare loro che i processi che si tenevano in quella sala avevano il potere di condannare a morte chiunque, anche se nobile. Il priore e i suoi accompagnatori erano silenziosi, parlavano esclusivamente fra loro e, quando lo facevano, solo a voce bassa. E non per timore reverenziale, doveva ammettere Godwyn, ma per nervosismo. Edmund, Caris e lo stesso Godwyn erano a disagio. Nessuno di loro era mai stato a Londra prima di allora. L'unica persona che conoscevano nella capitale era Buonaventura Caroli, il quale al momento era fuori città. Loro tre non sapevano muoversi, i loro abiti sembravano di vecchia foggia e il denaro che avevano portato con sé, e che avevano pensato essere più che abbondante, stava per finire. Edmund, però, non nutriva timori e Caris sembrava distratta, come se avesse avuto per la mente pensieri più importanti, benché ciò paresse quasi impossibile, ma Godwyn era tormentato dall'ansia. Era un priore di recente elezione e stava sfidando uno dei più grandi aristocratici del paese. La posta in gioco era il futuro della città. Senza il ponte, Kingsbridge sarebbe morta. Il priorato, che attualmente costituiva il cuore pulsante di una delle più grandi città d'Inghilterra, poco alla volta si sarebbe ridotto a un solitario avamposto in un piccolo villaggio, abitato da pochi monaci che avrebbero recitato le loro devozioni nel vuoto echeggiante di una cattedrale in rovina. Godwyn non aveva lottato per diventare priore per vedere il suo premio trasformarsi in polvere. Con una posta tanto alta avrebbe voluto poter controllare gli eventi e, come gli accadeva a Kingsbridge, avere la certezza di essere più intelligente di chiunque altro. Ma lì la sensazione era esattamente opposta e l'insicurezza lo confondeva. La sua consolazione era Gregory Longfellow. Amico di Godwyn fin dai tempi dell'università, Gregory aveva una mente tortuosa che ben si adattava alla legge. Il tribunale reale gli era familiare. Aggressivo e sicuro di sé, Gregory aveva guidato Godwyn attraverso i meandri del labirinto legale. Aveva presentato la petizione del priorato al Parlamento, così come aveva presentato numerose petizioni in passato. L'argomento naturalmente non era stato dibattuto dal Parlamento, che aveva passato la causa al consiglio del re, presieduto dal cancelliere. La squadra di avvocati del cancelliere, tutti amici o conoscenti di Gregory, avrebbe potuto decidere di trasmettere la causa alla regia corte, il tribunale superiore che si occupava delle dispute nelle quali il re aveva un interesse personale. Ma, esattamente come Gregory aveva previsto, gli avvocati del
cancelliere avevano deciso che l'argomento era troppo insignificante per disturbare il sovrano e avevano quindi passato il caso al tribunale ordinario. Tutto ciò aveva richiesto ben sei settimane. Si era ormai a fine novembre e cominciava a fare freddo. La stagione edilizia era quasi terminata. Quel giorno finalmente le parti comparivano davanti a sir Wilbert Wheatfield, un giudice di grande esperienza che si diceva essere nelle grazie del re. Sir Wilbert era il figlio minore di un barone del Nord. Il fratello maggiore aveva ereditato il titolo e le proprietà, mentre Wilbert era stato allevato per diventare sacerdote, aveva studiato legge, si era trasferito a Londra e infine aveva trovato favore presso il tribunale reale. Gregory li aveva avvertiti che sir Wilbert sarebbe stato incline a parteggiare per un conte piuttosto che per un monaco, ma avrebbe comunque anteposto gli interessi del re a qualsiasi altra cosa. Il giudice sedeva dietro un banco rialzato, con le spalle rivolte alla parete orientale del palazzo, tra finestre che davano sul Green Yard e il Tamigi. Davanti a lui c'erano due scrivani seduti a un lungo tavolo. Non erano previsti sedili per le parti in causa. «Vossignoria, il conte di Shiring ha mandato uomini armati a bloccare la cava di proprietà del priorato di Kingsbridge» esordì Gregory non appena sir Wilbert posò lo sguardo su di lui. La voce dell'avvocato vibrava di simulata indignazione. «La cava, che si trova all'interno della contea, venne donata al priorato da re Enrico I circa duecento anni fa. Una copia dell'atto di donazione è stata presentata a questa corte.» Sir Wilbert, che aveva un volto roseo e i capelli bianchi, sembrava un bell'uomo finché non apriva la bocca per parlare, mettendo in mostra i denti guasti. «Ho l'atto qui davanti a me» confermò. Il conte Roland parlò senza aspettare di essere invitato. «La cava venne donata ai monaci perché potessero costruire la loro cattedrale» disse, strascicando le parole in tono annoiato. «Ma l'atto di donazione non proibisce l'uso della cava da parte dei monaci per altri scopi» precisò subito Gregory. «Adesso vogliono costruire un ponte» disse Roland. «Per sostituire quello crollato la settimana di Pentecoste, un ponte che era stato costruito molte centinaia di anni fa con legname donato dal re!» Gregory parlava come se si fosse sentito oltraggiato da ogni singola parola del conte. «I monaci non hanno bisogno di un permesso per ricostruire un ponte
preesistente» fece notare sir Wilbert in tono secco. «E l'atto di donazione dice sì che il re desidera favorire la costruzione della cattedrale, ma non che i monaci devono rinunciare ai loro diritti una volta completata la chiesa, né che è loro proibito utilizzare le pietre per altri scopi.» Godwyn si sentì sollevato. Il giudice sembrava avere capito immediatamente il punto di vista del priorato. Gregory allargò le mani con le palme rivolte verso l'alto, come se il giudice avesse appena detto qualcosa di assolutamente evidente. «E infatti, sir Wilbert, questo è stato l'accordo tra i priori di Kingsbridge e i conti di Shiring per due secoli.» Non era esattamente così, Godwyn lo sapeva: c'erano già state dispute sull'atto di donazione ai tempi del priore Philip. Ma questo sir Wilbert non lo sapeva, e neppure il conte Roland. Roland continuava a tenere un atteggiamento altezzoso, come se confrontarsi a parole con degli avvocati fosse lesivo della sua dignità; ma era una posa ingannevole: era preparatissimo sull'argomento. «L'atto non dice che il priorato può evadere le tasse.» «E come mai nessun conte, finora, ha mai imposto la tassa in discussione?» domandò Gregory. Roland aveva la risposta pronta. «I precedenti conti la condonarono come loro contributo alla cattedrale. Fu un atto di devozione. Ma nessuna devozione religiosa mi costringe a sovvenzionare un ponte. Eppure i monaci si rifiutano di pagare.» All'improvviso la prospettiva del problema si era capovolta. In tribunale succedeva in fretta, pensò Godwyn, non come in convento, dove le discussioni potevano andare avanti per ore. «Gli uomini del conte impediscono di portare via le pietre dalla cava» protestò Gregory. «E hanno anche ucciso un povero carrettiere.» «Allora sarà meglio che questa disputa venga risolta il più presto possibile» dichiarò sir Wilbert. «Cos'ha da dire il priorato sulla tesi secondo cui il conte ha il diritto, anche se in passato non l'ha mai esercitato, di tassare i carri che attraversano la sua contea e che utilizzano strade, ponti e guadi che gli appartengono?» «Il priorato sostiene che, siccome le pietre non attraversano le terre del conte, ma è proprio in quelle terre che hanno origine, la tassa equivale a richiedere ai monaci il pagamento delle pietre, contrariamente allo spirito dell'atto di donazione di Enrico I.» Godwyn notò costernato che il giudice sembrava poco colpito dalla re-
plica. Gregory però non aveva ancora finito. «I re che concessero a Kingsbridge un ponte e una cava lo fecero per un buon motivo: volevano che il priorato e la città prosperassero. E il castaldo di Kingsbridge è qui per testimoniare che la città non può prosperare senza un ponte.» Edmund si fece avanti. Spettinato e con i suoi abiti da provinciale, sembrava uno zoticone campagnolo a paragone dei nobili elegantemente vestiti intorno a lui ma, a differenza di Godwyn, non era affatto intimidito. «Sir Wilbert, io sono un mercante di lana» cominciò. «Senza il ponte non c'è commercio. E, senza commercio, Kingsbridge non potrà pagare le tasse al re.» Sir Wilbert si piegò in avanti. «Quanto ha versato la città nell'ultima decima?» Il giudice si riferiva alla tassa, imposta di tanto in tanto dal Parlamento, di un decimo o di un quindicesimo dei beni mobili di ogni individuo. Naturalmente nessuno in realtà versava mai un decimo, poiché tutti dichiaravano una ricchezza inferiore. Per questa ragione la somma che ogni città o contea doveva corrispondere era diventata un importo fisso, suddiviso più o meno equamente fra gli abitanti; i poveri e i contadini meno abbienti non pagavano nulla. Edmund si era aspettato quella domanda e rispose immediatamente: «Milleundici sterline, vossignoria». «E qual è l'effetto della perdita del ponte?» «Ritengo che oggi una decima ammonterebbe a meno di trecento sterline. Ma i nostri cittadini continuano i loro commerci nella speranza che il ponte venga ricostruito. Se oggi tale speranza dovesse essere infranta da questo tribunale, l'annuale fiera della lana e il mercato settimanale in pratica scomparirebbero e la decima scenderebbe a meno di cinquanta sterline.» «Quasi nulla in rapporto alle necessità del re» commentò il giudice. Non disse ciò che tutti sapevano e cioè che il re aveva disperatamente bisogno di denaro perché nelle settimane precedenti aveva dichiarato guerra alla Francia. Roland sembrava spazientito. «Questa udienza riguarda forse le finanze del re?» domandò sprezzante. Sir Wilbert non era disposto a lasciarsi intimidire, nemmeno da un conte. «Questo è il tribunale del re» disse in tono blando. «Cosa vi aspettavate?» «Giustizia» rispose Roland.
«E giustizia avrete.» Il giudice non aggiunse altro, ma lasciò intendere il seguito: "Che vi piaccia o no". «Edmund il lanaiolo, dove si trova il più vicino mercato concorrente?» «A Shiring, signore.» «Ah. Perciò gli affari che perderete si trasferiranno nella città del conte.» «No, vossignoria. Alcuni commerci si trasferiranno, ma altri semplicemente scompariranno. Molti commercianti di Kingsbridge non saranno in grado di spostarsi a Shiring.» Il giudice si rivolse a Roland. «A quanto ammonta una decima di Shiring?» Roland si consultò brevemente con il suo segretario, padre Jerome, poi rispose: «Seicentoventi sterline». «E se il commercio del mercato di Shiring aumentasse, potreste pagare milleseicentoventi sterline?» «Naturalmente no» rispose il conte con rabbia. Sir Wilbert continuò a parlare nel suo tono blando. «Quindi, la vostra opposizione al ponte costerebbe cara al re.» «Io ho i miei diritti» ribatté accigliato Roland. «E il re ha i suoi. Esiste qualche modo in cui voi possiate compensare il tesoro reale per la perdita di circa mille sterline l'anno?» «Combattendo al fianco del re in Francia... cosa che i mercanti di lana e i monaci non faranno mai.» «È vero» ammise sir Wilbert. «Ma i vostri cavalieri dovranno essere pagati.» «Questo è oltraggioso» disse Roland. Intuiva che stava perdendo la causa. Godwyn cercò di non mostrare il suo senso di trionfo. Al giudice non piaceva che le sue procedure venissero definite oltraggiose. Inchiodò Roland con lo sguardo. «Sono sicuro che, quando avete mandato i vostri armigeri a bloccare la cava del priorato, non intendevate danneggiare gli interessi del re.» Fece una pausa d'attesa. Roland intuì la trappola, ma era una sola la risposta che poteva dare: «Naturalmente no». «Ora che è stato chiarito alla corte, e anche a voi, come la costruzione del nuovo ponte sia utile agli interessi della corona, nonché a quelli del priorato e dell'intera città di Kingsbridge, immagino che sarete d'accordo sulla riapertura della cava.» Godwyn ammirò l'astuzia di sir Wilbert: stava costringendo Roland a di-
chiararsi d'accordo sulla sua decisione, rendendogli così molto difficile un eventuale, futuro appello personale al re. Dopo una lunga pausa, il conte rispose: «Sì». «E sul trasporto delle pietre attraverso il vostro territorio senza alcuna tassa.» Roland sapeva di aver perso. C'era rabbia nella sua voce, quando ripeté: «Sì». «Così ho deciso» concluse il giudice. «Il prossimo caso.» Era una grande vittoria, ma probabilmente era arrivata troppo tardi. Novembre era già diventato dicembre. I lavori di costruzione di solito si interrompevano più o meno in quel periodo. Grazie al tempo piovoso, le gelate sarebbero arrivate più tardi, ma anche così restava al massimo un paio di settimane. Merthin aveva centinaia di pietre impilate alla cava, già tagliate, modellate e pronte per essere utilizzate, però ci sarebbero voluti mesi per trasportarle tutte a Kingsbridge. Anche se il conte Roland aveva perso la causa, quasi sicuramente era riuscito a ritardare di un anno la costruzione del ponte. Caris tornò a Kingsbridge, insieme a Edmund e Godwyn, di umore tetro. Giunta nei pressi dei sobborghi, lungo la riva meridionale del fiume, rimise al passo il cavallo e vide che Merthin aveva già costruito i suoi cassoni di fondazione. In ognuno dei canali che scorrevano ai due lati dell'isola dei Lebbrosi, dalla superficie dell'acqua spuntavano di un paio di piedi le estremità di pali di legno che formavano un grande cerchio. Caris ricordò quando Merthin, nel Palazzo delle corporazioni, aveva spiegato come pensava di conficcare una serie di pali nel letto del fiume in modo da formare un doppio anello e poi di riempire di malta lo spazio tra i due anelli, creando così una struttura a tenuta stagna. A quel punto si sarebbe tolta l'acqua all'interno dei cassoni e gli operai avrebbero potuto gettare le fondamenta sul letto del fiume. Attraversando il fiume sul traghetto, Caris vide uno degli operai di Merthin, Harold il muratore, e gli chiese se i cassoni fossero già stati svuotati. «Non ancora» rispose l'uomo. «Il maestro vuole lasciarli pieni d'acqua fino a quando non saremo pronti a cominciare la costruzione.» La ragazza notò con piacere che Merthin adesso veniva chiamato "maestro", nonostante la giovane età. «Perché?» domandò. «Pensavo che volesse avere tutto pronto in modo da poter cominciare subito.» «Merthin dice che, se dentro non c'è l'acqua, la forza del fiume sollecita
di più il cassone di fondazione.» Caris si chiese come facesse Merthin a sapere queste cose. Aveva imparato le regole base del mestiere dal suo primo maestro, Joachim, il padre di Elfric. E parlava sempre molto con gli stranieri che capitavano in città, specie quelli che avevano avuto modo di vedere gli alti edifici di Firenze e di Roma. Inoltre, aveva letto tutto sulla costruzione della cattedrale nel Libro di Timothy. Ma sembrava avere anche una notevole intuizione in materia. Caris non avrebbe mai immaginato che un cassone vuoto fosse più fragile di uno pieno d'acqua. Nonostante all'arrivo in città fossero tutti stanchi, volevano comunicare subito la buona notizia a Merthin e sentire cosa eventualmente lui sarebbe riuscito a portare a termine prima della fine della stagione. Fecero solo una breve sosta per affidare i cavalli agli stallieri e poi andarono a cercarlo. Lo trovarono nel laboratorio dei muratori, in cima alla torre nordovest della cattedrale. Alla luce di numerose lampade a olio, stava incidendo il progetto di un parapetto sul pavimento coperto di gesso che fungeva da tavolo da disegno. Merthin alzò lo sguardo dallo schizzo, osservò i visi degli ospiti e fece un grande sorriso. «Abbiamo vinto?» domandò. «Abbiamo vinto» confermò Edmund. «Grazie a Gregory Longfellow» aggiunse Godwyn. «È costato un mucchio di soldi, ma li valeva.» Merthin abbracciò i due uomini, dimenticando, almeno per il momento, la lite con Godwyn. Baciò Caris con tenerezza. «Mi sei mancata» le sussurrò. «Sono passate otto settimane! Mi sembrava che non tornassi più.» La ragazza non rispose. Aveva qualcosa di incredibilmente importante da dirgli, ma avrebbe dovuto attendere di essere sola con lui. Il padre non notò la reticenza di Caris. «Adesso, Merthin, puoi cominciare a costruire immediatamente.» «Bene.» «Domani potrai iniziare a portare via le pietre dalla cava» disse Godwyn. «Ma immagino che sia troppo tardi per concludere granché prima delle gelate invernali.» «Ci ho riflettuto sopra» replicò Merthin. Lanciò un'occhiata verso le finestre. Era metà pomeriggio e la giornata stava già scurendosi nella sera. «Un modo ci potrebbe essere.» Edmund si mostrò subito entusiasta. «Be', allora parla, ragazzo! Qual è la tua idea?»
Merthin si rivolse al priore. «Concedereste un'indulgenza ai volontari che trasportassero pietre dalla cava?» L'indulgenza era uno speciale atto di perdono dei peccati. Come un dono in denaro, poteva pagare debiti passati o restare in cassa in vista di spese future. «Potrei» rispose Godwyn. «Che cos'hai in mente?» «Quanti a Kingsbridge possiedono un carro?» domandò Merthin a Edmund. «Fammi pensare» rispose lui, aggrottando la fronte. «Ogni commerciante di una certa importanza ne ha uno... per cui dovrebbero essere circa duecento, come minimo.» «Supponiamo di fare il giro della città questa sera e di chiedere a ognuno di loro di portare il carro alla cava domattina per caricare le pietre.» Edmund fissò Merthin e poi, lentamente, un sorriso gli si allargò in volto. «Be'» commentò deliziato «questa sì che è un'idea!» «Diremo a ognuno di loro che tutti gli altri parteciperanno» continuò Merthin. «Sarà come un giorno di festa. Potranno venire anche le famiglie, portando cibo e birra. Se ogni carro torna in città con un carico di pietra o pietrisco, in due giorni avremo abbastanza materiale per costruire i piloni del ponte.» Era un piano brillante, pensò Caris stupita. Era tipico di Merthin pensare a qualcosa che nessun altro avrebbe mai immaginato. Ma avrebbe funzionato? «E cosa mi dici del tempo?» domandò Godwyn. «La pioggia è stata una maledizione per i contadini, ma ha ritardato l'arrivo del grande freddo. Io credo che abbiamo ancora una settimana o due a disposizione.» Edmund era eccitato e camminava avanti e indietro nel laboratorio con la sua andatura sghemba. «Ma se riesci a costruire i piloni nei prossimi giorni...» «Per la fine dell'anno prossimo potremmo terminare il grosso del lavoro.» «E potremo servirci del ponte l'anno successivo?» «No... però, aspettate: potremmo sistemare un piano viabile provvisorio di legno in tempo per la fiera della lana.» «Così avremmo un ponte praticabile entro due anni... e perderemmo solo una fiera.» «Dovremo finire il piano viabile in pietra dopo la fiera della lana, in modo che si indurisca in tempo per essere utilizzato normalmente il terzo an-
no.» «Accidenti, dobbiamo farlo!» esclamò Edmund eccitato. Godwyn intervenne cauto: «Non hai ancora svuotato i cassoni». Merthin annuì. «Quello è un lavoro duro. Nel mio piano originale avevo previsto due settimane, ma avrei un'idea per risolvere anche questo problema. In ogni caso, prima di tutto organizziamo i carri.» Si avviarono tutti verso la porta, animati dall'entusiasmo. Mentre Godwyn e Edmund cominciavano a scendere la stretta scala a chiocciola, Caris afferrò Merthin per la manica, trattenendolo. Merthin pensò che la ragazza volesse un bacio e l'abbracciò, ma Caris lo respinse. «Ho una notizia» annunciò. «Un'altra?» «Sono incinta.» Caris studiò il viso di Merthin. All'inizio il giovane sembrò sorpreso e inarcò le sopracciglia castano rossicce. Poi sbatté le palpebre, inclinò la testa di lato e si strinse nelle spalle, come per dire: non c'è da sorprendersi. Sorrise, prima timidamente e poi con evidente felicità. Alla fine era raggiante. «È meraviglioso!» Per un momento Caris lo odiò per la sua stupidità. «No, non lo è!» «Perché no?» «Perché non voglio passare la mia vita a fare la schiava, nemmeno a mio figlio.» «La schiava? Le madri sono schiave?» «Sì! Come fai a non sapere che la penso così?» Merthin sembrò sconcertato e ferito. Una parte di Caris avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole, ma la ragazza aveva covato la rabbia troppo a lungo. «In passato lo sapevo, immagino» disse Merthin. «Ma poi hai giaciuto con me e così ho pensato che...» Esitò. «Però dovevi sapere che poteva succedere... che sarebbe successo, prima o poi.» «Certo che lo sapevo, ma mi comportavo come se non lo sapessi.» «Sì. Posso capirlo.» «Oh, smettila di essere così comprensivo. Sei troppo debole.» La faccia di Merthin sembrò raggelarsi. Dopo una lunga pausa, lui disse: «Va bene, smetterò di essere comprensivo. Dammi solo le informazioni. Qual è il tuo piano?». «Non ho un piano, stupido. So solo che non voglio avere un bambino.» «Quindi non hai un piano e io sono uno stupido e un debole. Vuoi qual-
cosa da me?» «No!» «Allora cosa ci fai qui?» «Non essere sempre così logico!» Merthin sospirò. «Non ho più intenzione di cercare di essere quello che tu vuoi io sia, e poi dici cose insensate.» Fece il giro della stanza per spegnere le lampade. «Io sono contento di avere un bambino e mi piacerebbe che ci sposassimo e crescessimo insieme nostro figlio, sempre presumendo che il tuo stato d'animo sia solo temporaneo.» Sistemò i suoi strumenti da disegno in una borsa di pelle e si passò la tracolla sulla spalla. «Ma per il momento sei così bisbetica che preferisco non discutere con te. E comunque ho del lavoro da fare.» Arrivato alla porta, si fermò. «Oppure potremmo baciarci e fare la pace.» «Vattene!» gridò Caris. Merthin si chinò per varcare la porticina e scomparve nella scala. Caris scoppiò a piangere. Merthin non aveva idea se gli abitanti di Kingsbridge avrebbero fatto fronte comune per la causa. Ognuno di loro aveva le sue preoccupazioni e il suo lavoro: l'impegno richiesto per costruire il ponte sarebbe stato considerato più importante? Non ne era sicuro. Sapeva, grazie alla lettura del Libro di Timothy, che nei momenti di crisi il priore Philip era spesso riuscito a prevalere appellandosi alla gente comune perché compisse uno sforzo importante. Ma Merthin non era Philip. Non aveva alcun diritto di guidare il popolo. Era solo un carpentiere. Venne stilato un elenco dei proprietari di carri, poi suddiviso in base alle strade. Edmund radunò dieci eminenti cittadini e Godwyn selezionò dieci monaci anziani, e tutti loro, in coppia, cominciarono il giro. Merthin era affiancato da frate Thomas. La prima porta cui bussarono fu quella di Lib Wheeler, la quale stava portando avanti il lavoro del marito Ben servendosi di mano d'opera salariata. «Potete prendervi entrambi i miei carri» disse. «E anche gli uomini per guidarli. Qualsiasi cosa per dare un pugno in un occhio a quel maledetto conte.» Ma la seconda visita sortì un rifiuto. «Non mi sento bene» dichiarò Peter Dyer, il tintore, il quale possedeva un carro per consegnare il tessuto di lana che tingeva di giallo, di verde o di rosa. «Non posso viaggiare.» A Merthin sembrava invece in ottima salute: probabilmente Peter era
spaventato all'idea di confrontarsi con gli uomini del conte. Non ci sarebbe stato alcuno scontro, di questo Merthin era sicuro, però poteva comprendere la paura dell'uomo. E se tutti gli altri cittadini l'avessero pensata così? La terza visita fu a Harold il muratore, un giovane che sperava in parecchi anni di lavoro grazie alla costruzione del ponte. Accettò immediatamente. «Verrà anche Jake Chepstow» assicurò. «Ci penso io.» Harold e Jake erano grandi amici. Quasi tutti gli altri risposero di sì. Non ci fu bisogno di spiegare quanto fosse importante il ponte, chi possedeva un carro era ovviamente un commerciante, e c'era l'ulteriore incentivo del perdono dei peccati. Ma il fattore più importante sembrò essere la promessa di un'inaspettata vacanza. Quasi tutti chiesero: "Il tale viene?". E, quando sentivano che amici e vicini si erano offerti volontari, non volevano restare esclusi. Effettuate tutte le visite, Merthin si separò da Thomas e andò al traghetto. I carri dovevano essere trasportati in nottata perché fossero pronti a partire all'alba. Il traghetto era in grado di imbarcare un solo carro alla volta: per muoverne duecento ci sarebbero volute parecchie ore. Naturalmente era quella la ragione per cui c'era bisogno di un ponte. Un bue stava facendo girare la grande ruota e i primi carri stavano già attraversando il fiume. Giunti sull'altra riva, i proprietari dei carri portavano le loro bestie a brucare nel pascolo e poi tornavano indietro con il traghetto e se ne andavano a dormire. Edmund aveva convinto John il conestabile e cinque o sei dei suoi uomini a passare la notte a Newtown per fare la guardia ai carri e agli animali. Il traghetto era ancora al lavoro quando, un'ora dopo mezzanotte, anche Merthin andò a dormire. Per un po' rimase disteso a pensare a Caris. L'imprevedibilità e la vivacità della ragazza erano parte di ciò che amava in lei, ma a volte Caris era davvero impossibile. Era la persona più intelligente di tutta Kingsbridge, eppure spesso si mostrava incredibilmente irragionevole. Ma soprattutto Merthin detestava sentirsi dare del debole. Non era sicuro che avrebbe mai perdonato Caris per quell'offesa. Dieci anni prima il conte Roland l'aveva umiliato dicendogli che non poteva diventare scudiero e che era adatto solo a fare l'apprendista carpentiere. Ma lui non era debole. Aveva sfidato la tirannia di Elfric. Aveva convinto il priore Godwyn riguardo al progetto del ponte e stava per salvare tutta la città. "Posso anche essere piccolo" pensò Merthin "ma, per Dio, sono forte."
Tuttavia non sapeva che cosa fare con Caris e si addormentò preoccupato. Edmund lo svegliò alle prime luci dell'alba. Quasi ogni carro di Kingsbridge era già sull'altra riva del fiume, in una lunga fila irregolare che attraversava il sobborgo di Newtown e si inoltrava nella foresta per mezzo miglio. Ci vollero altre due ore per traghettare la gente. L'eccitazione di organizzare ciò che assomigliava a un pellegrinaggio distolse la mente di Merthin dal problema di Caris e della sua gravidanza. Ben presto il pascolo sulla sponda opposta del fiume si trasformò in una scena di allegra confusione, con decine di persone che recuperavano i rispettivi buoi o cavalli, li portavano davanti ai carri e rimettevano i finimenti. Dick il birraio si presentò con un enorme barile e cominciò a distribuire birra. «Per incoraggiare la spedizione» disse, ma i risultati furono contraddittori: alcuni furono talmente "incoraggiati" che dovettero distendersi sull'erba. Lungo la riva cittadina del fiume si radunò una folla di spettatori e, non appena la fila di carri cominciò finalmente a muoversi, si alzò un grande applauso. Ma le pietre erano solo metà del problema. Merthin rivolse l'attenzione alla sfida successiva. Se voleva cominciare a posare le pietre non appena fossero arrivate dalla cava, doveva svuotare i cassoni in due giorni invece delle previste due settimane. Quando gli applausi si spensero, si rivolse alla folla a voce alta. Era il momento giusto per suscitare l'interesse, mentre l'eccitazione scemava e tutti cominciavano a chiedersi cosa fare dopo. «Ho bisogno degli uomini più forti rimasti in città!» gridò Merthin. Tutti fecero silenzio, interessati. «Ci sono ancora uomini forti a Kingsbridge?» La domanda era in parte una sorta di esca: il lavoro sarebbe stato pesante, ma chiedere soltanto uomini forti lanciava anche una sfida alla quale i giovani avrebbero trovato difficile resistere. «Prima che i carri tornino dalla cava domani sera, dobbiamo togliere tutta l'acqua dai cassoni. Sarà il lavoro più duro che abbiate mai fatto... perciò niente persone deboli, per favore.» Pronunciando l'ultima frase, cercò con gli occhi Caris tra la folla, incontrò il suo sguardo e la vide sussultare leggermente: la ragazza ricordava di avere usato quel termine e sapeva di averlo insultato. «Tutte le donne che ritengono di essere uguali agli uomini possono partecipare ai lavori» proseguì Merthin. «Trovatevi un secchio e incontriamoci sulla riva di fronte all'isola dei Lebbrosi il più presto possibile. Ricordate: solo i più forti!» Non era sicuro di averli convinti. Quando finì di parlare, individuò l'alta
figura di Mark il tessitore e si fece largo tra la ressa per raggiungerlo. «Mark, li stimolerai?» gli domandò ansioso. Mark era un gigante gentile, molto amato in città. Anche se era povero, aveva una certa influenza, specie sugli adolescenti. «Farò in modo che i ragazzi vengano tutti» assicurò. «Ti ringrazio.» Poi Merthin trovò Ian il barcaiolo. «Avrò bisogno di te per tutto il giorno, spero» gli disse. «Per traghettare la gente avanti e indietro dai cassoni. Potrai lavorare per denaro o per un'indulgenza: scegli tu.» Ian era eccessivamente interessato alla sorella minore di sua moglie, per cui con ogni probabilità avrebbe scelto l'indulgenza, per un peccato del passato o per un peccato che sperava di commettere presto. Merthin si avviò verso la riva dove si stava preparando a costruire il ponte. Sarebbe stato possibile svuotare i cassoni in due giorni? Non ne aveva idea. Si chiese quanti galloni d'acqua ci fossero in ognuno. Migliaia? Centinaia di migliaia? Doveva esserci un modo per calcolarlo. Probabilmente i filosofi greci avevano trovato un metodo ma, se così era, alla scuola del priorato non glielo avevano insegnato. Per scoprirlo sarebbe dovuto andare a Oxford, dove, secondo quanto diceva Godwyn, c'erano matematici famosi in tutto il mondo. Aspettò sulla riva del fiume, chiedendosi se sarebbe arrivato qualcuno. La prima persona a presentarsi fu Megg Robbins, la robusta figlia di un commerciante di grano che aveva muscoli ben sviluppati grazie agli anni trascorsi a sollevare sacchi di frumento. «Io posso far meglio della maggior parte degli uomini di questa città» dichiarò. Merthin non lo metteva in dubbio. Poi arrivò un gruppo di ragazzi, seguito da tre monaci novizi. Non appena Merthin si ritrovò con dieci persone munite di secchio, si fece traghettare con loro al più vicino dei due cassoni. Lungo il bordo dell'anello interno, aveva costruito una piattaforma sporgente, appena al di sopra del livello dell'acqua, abbastanza robusta da sostenere il peso degli uomini. Dalla piattaforma, quattro scale scendevano fino al letto del fiume. Al centro del cassone galleggiava una grande zattera. La zattera, che distava circa due piedi dalla piattaforma, era munita di paletti di legno sporgenti che arrivavano quasi a toccare la parete interna e che la tenevano quindi in posizione, impedendole di spostarsi in qualsiasi direzione per più di qualche pollice. «Lavorerete in coppia» disse Merthin. «Uno sulla zattera, uno sulla piat-
taforma. Quello sulla zattera riempie il secchio e lo passa al compagno sulla piattaforma, che butterà l'acqua nel fiume, al di là del bordo del cassone. Mentre il secchio vuoto torna indietro, ne viene passato uno pieno.» Megg Robbins domandò: «E cosa succede quando il livello interno dell'acqua scende e non riusciamo più a passarci il secchio?». «Ottima domanda, Megg. Sarà meglio che tu diventi il mio caposquadra. Quando in due non riuscirete più a raggiungervi, lavorerete in gruppi di tre, con uno di voi sulla scala.» Megg capì immediatamente. «E poi in quattro, con due persone sulla scala...» «Sì. Anche se, a quel punto, la squadra dovrà riposare e una fresca le darà il cambio.» «Giusto.» «Adesso cominciate. Tornerò con altre dieci persone... C'è ancora un mucchio di spazio.» Megg si voltò. «Sceglietevi tutti il vostro compagno» ordinò. I volontari cominciarono a tuffare i secchi in acqua. Merthin udì Megg dire: «Cerchiamo di darci un ritmo. Immergere il secchio, sollevarlo, passarlo, ricominciare! Uno, due, tre, quattro. Cosa ne dite di una canzone che ci dia il tempo?». Alzò la voce in un vigoroso tono di contralto. «Oh, c'era una volta un bel cavaliere...» Tutti conoscevano la canzone e tutti si unirono al verso seguente: «La sua lama era dritta e precisa, oh!». Merthin rimase a osservarli. Nel giro di pochi minuti erano tutti bagnati fradici. Non vide alcun evidente abbassamento del livello dell'acqua. Sarebbe stato un lavoro molto lungo. Salì sulla barca di Ian. Quando raggiunse la riva, trovò altri trenta volontari con relativi secchi. Avviò i lavori al secondo cassone di fondazione con Mark il tessitore come caposquadra, poi raddoppiò il numero degli uomini in entrambi i cantieri e infine cominciò a sostituire i volontari stanchi con quelli freschi. A quel punto Ian il barcaiolo era esausto e cedette i remi al figlio. All'interno dei cassoni l'acqua si abbassava di un lento, faticoso pollice alla volta. A mano a mano che il livello scendeva, il lavoro procedeva sempre più lentamente perché i secchi dovevano essere sollevati per un'altezza sempre maggiore per arrivare al bordo. Megg fu la prima a rendersi conto che una persona non poteva tenere un secchio pieno in una mano e uno vuoto nell'altra e mantenere contempora-
neamente l'equilibrio sulla scala, così studiò una catena di secchi a senso unico, con i secchi pieni che salivano su per una scala e quelli vuoti che scendevano da un'altra. Mark applicò lo stesso sistema al suo cassone. I volontari lavoravano per un'ora e riposavano per lo stesso tempo, ma Merthin non si fermò mai. Organizzava le squadre, sovrintendeva al trasporto dei volontari avanti e indietro dai cassoni, sostituiva i secchi che si rompevano. La maggior parte degli uomini beveva birra durante i momenti di riposo e di conseguenza ci furono parecchi incidenti nel pomeriggio, con gente che lasciava cadere i secchi o ruzzolava dalle scale. Madre Cecilia si presentò per prendersi cura dei feriti, aiutata da Mattie la guaritrice e da Caris. La luce cominciò a diminuire fin troppo presto e dovettero fermarsi. Ma entrambi i cassoni erano stati svuotati per oltre la metà. Merthin chiese a tutti di ripresentarsi la mattina seguente e poi se ne andò a casa. Dopo poche cucchiaiate della zuppa di sua madre, si addormentò sul tavolo, svegliandosi soltanto per avvolgersi in una coperta e buttarsi sul pagliericcio. Quando la mattina si destò, il suo primo pensiero fu chiedersi se i volontari si sarebbero presentati per il secondo giorno. Con il cuore in ansia, si affrettò a raggiungere il fiume alle prime luci dell'alba. Sia Mark il tessitore sia Megg Robbins erano già sul posto. Mark stava mangiando un grosso pezzo di pane e Megg si allacciava un paio di alti stivali nella speranza di non bagnarsi i piedi. Nessun altro si fece vedere nella mezz'ora successiva e Merthin cominciò a chiedersi cosa avrebbe fatto senza volontari. Poi però arrivarono alcuni giovani che avevano portato con sé la colazione, seguiti dai novizi e poi da una vera folla. Arrivò anche Ian il barcaiolo. Merthin gli fece traghettare Megg con alcuni volontari e i lavori ripresero. Quel giorno la fatica era ancora più grande. Tutti erano doloranti per gli sforzi del giorno prima e ogni secchio doveva essere sollevato per dieci piedi o più. Ma la fine era ormai in vista. Il livello continuava a scendere e i volontari cominciavano a intravedere il letto del fiume. A metà pomeriggio arrivò il primo carro dalla cava. Merthin disse al proprietario di scaricare le pietre nel pascolo e di traghettare il carro in città. Poco dopo nel cassone di Megg la zattera toccò il letto del fiume. C'era ancora molto da fare. Eliminata tutta l'acqua, la zattera dovette essere smontata e, asse dopo asse, trasportata su per le scale e fuori dal cassone. A quel punto videro decine di pesci agitarsi frenetici nelle pozze fangose sul fondo e bisognò raccoglierli con una rete e poi dividerli tra i vo-
lontari. Una volta terminato, Merthin si fermò sulla piattaforma, esausto ma soddisfatto, e guardò il fango liscio del letto del fiume, in fondo alla fossa profonda venti piedi. Il giorno dopo avrebbe gettato parecchie tonnellate di pietrisco in ognuna delle fosse e poi avrebbe inzuppato il pietrisco di calcina, creando così una massiccia e inamovibile fondazione. Poi avrebbe cominciato a costruire il suo ponte. Wulfric era demoralizzato. Non mangiava quasi niente e si dimenticava di lavarsi. Come sempre si alzava all'alba e si coricava quando faceva buio, ma non lavorava, e la notte non faceva l'amore con Gwenda. Quando la ragazza gli chiedeva che cosa avesse, diceva: "Non lo so, davvero". A qualsiasi domanda rispondeva sempre con frasi vaghe o, magari limitandosi a un grugnito. Nei campi, comunque, c'era poco da fare. Ormai si era nella stagione in cui i contadini si sedevano accanto al fuoco e cucivano calzari di pelle, intagliavano vanghe di legno di quercia, mangiavano maiale sotto sale, mele molli e cavolo conservato sotto aceto. Gwenda non si preoccupava di come si sarebbero nutriti (Wulfric aveva ancora il denaro ricavato dalla vendita dei suoi raccolti) ma era disperatamente in ansia per lui. Wulfric era sempre vissuto per il suo lavoro. Certi contadini non facevano che lamentarsi ed erano felici solo nei giorni di riposo, ma lui non era così. I campi, i raccolti, le bestie e il tempo... solo quello gli interessava veramente. La domenica era sempre stato irrequieto finché non riusciva a trovare qualche occupazione che non fosse proibita e nei giorni di festa faceva tutto il possibile per aggirare le regole. Gwenda sapeva che doveva farlo tornare al suo umore normale, altrimenti avrebbe potuto ammalarsi. E il denaro non sarebbe durato in eterno. Prima o poi tutti e due avrebbero dovuto cercarsi un lavoro. Tuttavia, gli diede la notizia solo dopo che furono passate due lune piene e si sentì sicura. Infine, una mattina di dicembre, gli annunciò: «Devo dirti una cosa». Wulfric grugnì. Era seduto al tavolo della cucina e stava facendo la punta a un bastoncino. Non alzò lo sguardo dalla sua inutile occupazione. Gwenda allungò le mani attraverso il tavolo e gli afferrò i polsi, interrompendolo. «Wulfric, vuoi guardarmi, per favore?» Il ragazzo obbedì con un'espressione scontrosa in viso, risentito per l'imposizione, ma troppo apatico per opporsi.
«È importante» disse Gwenda. Wulfric la guardò in silenzio. «Avrò un bambino.» L'espressione del ragazzo non cambiò, ma coltello e bastoncino caddero sul tavolo. Gwenda lo fissò per un lungo momento. «Hai capito?» Lui annuì. «Un bambino» ripeté. «Sì.» «Quando?» Gwenda sorrise. Era la prima domanda che Wulfric formulava in due mesi. «L'estate prossima, appena prima del raccolto.» «Bisognerà prendersi cura del bambino» disse Wulfric. «E anche di te.» «Sì.» «Devo lavorare.» Sembrò di nuovo triste. Gwenda trattenne il fiato. Cosa stava per succedere? Wulfric sospirò, poi serrò con forza le mascelle. «Andrò a parlare con Perkin. Avrà bisogno di aiuto per l'aratura invernale.» «E per la concimazione con il letame» aggiunse Gwenda felice. «Verrò con te. Si era offerto di assumerci tutti e due.» «Va bene.» Wulfric la stava ancora fissando. «Un bambino» ripeté, come se fosse stato un evento portentoso. «Sarà maschio o femmina?» Gwenda si alzò in piedi, fece il giro del tavolo e si sedette sulla panca accanto a lui. «Tu cosa preferiresti?» «Una bambina. Nella mia famiglia sono tutti maschi.» «Io vorrei un maschio, una tua versione in miniatura.» «Magari avremo due gemelli.» «Un maschio e una femmina.» Wulfric le passò un braccio intorno alle spalle. «Dovremmo farci sposare come si deve da padre Gaspard.» Gwenda sospirò felice e posò la testa sulla spalla di Wulfric. «Sì. Forse dovremmo.» Merthin lasciò la casa dei genitori poco prima di Natale. Si era costruito una casetta di una sola stanza sull'isola dei Lebbrosi, che ormai era sua. La spiegazione era stata che doveva fare la guardia alle crescenti scorte di preziosi materiali da costruzione che si trovavano sull'isola: legname, pietre, calce, funi e attrezzi di ferro. Nello stesso periodo, smise di andare a mangiare a casa di Caris.
Il penultimo giorno di dicembre Caris andò a trovare Mattie la guaritrice. «Non c'è bisogno che tu mi dica perché sei qui» le disse Mattie. «Sono passati tre mesi?» Caris annuì ed evitò di incrociare gli occhi della donna. Si guardò intorno nella piccola cucina piena di boccette e brocche. Mattie stava riscaldando qualcosa in un pentolino di ferro da cui usciva un odore acre che a Caris faceva venir voglia di starnutire. «Non voglio avere un bambino» dichiarò. «Vorrei avere un pollo per ogni volta che ho sentito questa frase.» «Sono cattiva?» Mattie si strinse nelle spalle. «Io distribuisco pozioni, non giudizi. La gente conosce la differenza tra il bene e il male... e se non la conosce, ci sono i preti per quello.» Caris era delusa. Aveva sperato di trovare comprensione. In tono più freddo domandò: «Hai una pozione per liberarmi da questa gravidanza?». «Sì...» Mattie sembrava a disagio. «C'è qualche problema?» «L'unico modo per sbarazzarsi di una gravidanza è avvelenarsi. Certe ragazze si bevono un gallone di vino forte. Io preparo una pozione con parecchie erbe tossiche. A volte funziona, a volte no. Ma comunque ti fa sempre stare malissimo.» «È pericoloso? Potrei morire?» «Sì. Anche se è meno pericoloso di un parto.» «Voglio la pozione.» Mattie tolse il pentolino dal fuoco e lo mise a raffreddare sopra una lastra di pietra. Poi si voltò verso il suo vecchio banco di lavoro scheggiato e dalla credenza estrasse una ciotola di terracotta, in cui versò piccole quantità di diverse polverine. «Cosa c'è?» le chiese Caris. «Hai detto che non dai giudizi, però hai l'aria di disapprovare.» Mattie annuì. «Hai ragione. Anch'io naturalmente do giudizi, come tutti.» «E adesso stai giudicando me.» «Io credo che Merthin sia un brav'uomo e che tu lo ami, ma non sembri capace di trovare la felicità con lui. E questo mi rattrista.» «Tu pensi che dovrei essere come tutte le altre e che mi dovrei gettare ai piedi di un uomo.»
«Sembra che questo renda felici le donne. Ma io ho scelto una vita diversa. E lo stesso farai anche tu, immagino.» «Tu sei felice?» «Io non sono nata per essere felice. Però aiuto la gente, mi guadagno da vivere e sono libera.» Mattie versò la mistura in una tazza, aggiunse un poco di vino e mescolò il tutto per sciogliere le polveri. «Hai fatto colazione?» «Solo un po' di latte.» Mattie mise nella tazza anche un po' di miele. «Bevi. E non prenderti la briga di pranzare: non faresti che vomitare.» Caris accettò la tazza, esitò per un attimo e poi bevve la pozione. «Ti ringrazio.» La mistura aveva un sapore disgustoso, solo in parte mascherato dalla dolcezza del miele. «Per domani mattina dovrebbe essere tutto finito... in un modo o nell'altro» disse Mattie. Caris la pagò e se ne andò. Mentre camminava verso casa provava una sensazione strana, un misto di euforia e tristezza. Si sentiva sollevata perché finalmente aveva preso una decisione, dopo tutte quelle settimane di preoccupazione. Ma provava anche un senso di perdita, come se stesse dicendo addio a qualcuno... a Merthin, forse. Si domandò se la loro separazione sarebbe stata definitiva. Ora poteva contemplare quella possibilità con calma perché era ancora arrabbiata con lui, ma sapeva che le sarebbe mancato terribilmente. Prima o poi Merthin si sarebbe trovato un'altra, magari Bessie Bell, ma Caris era sicura che lei non avrebbe fatto lo stesso. Non avrebbe più amato nessuno come aveva amato Merthin. Quando arrivò a casa, l'odore del maiale che arrostiva le diede la nausea, così uscì di nuovo. Non aveva voglia di scambiare pettegolezzi con altre donne lungo la strada principale, e neppure di parlare di lavoro con gli uomini nel Palazzo delle corporazioni, perciò entrò nella proprietà del priorato e, avvolta nel suo mantello di lana pesante, si sedette su una tomba nel cimitero, guardando la parete settentrionale della cattedrale e meravigliandosi ancora una volta per la perfezione delle modanature e la grazia slanciata dei contrafforti. Poco dopo si sentì male. Vomitò su una tomba, ma dallo stomaco vuoto uscì soltanto un fluido acido. La testa cominciò a dolerle. Avrebbe voluto sdraiarsi, ma non se la sentiva di tornare a casa per via degli odori di cucina. Decise di andare all'ospitale del priorato: le suore le avrebbero permesso di distendersi per
un momento. Uscì dal cimitero, attraversò il prato davanti alla cattedrale ed entrò nell'ospitale. All'improvviso aveva una sete terribile. Fu salutata dal viso tondo e gentile della Venerabile Julie. «Oh, suor Juliana» disse grata Caris. «Mi portereste una coppa d'acqua?» Il priorato disponeva d'acqua pompata a monte, fresca, chiara e buona da bere. «Stai male, bambina?» chiese ansiosa la Venerabile Julie. «Ho un po' di nausea. Vorrei distendermi per un momento, se posso.» «Ma certo. Vado a chiamare madre Cecilia.» Caris si distese su uno dei pagliericci ordinatamente allineati sul pavimento. Per qualche minuto si sentì meglio, ma poi il mal di testa peggiorò. Julie, accompagnata da madre Cecilia, ritornò con una brocca e una coppa. Caris bevve un po' d'acqua, vomitò e bevve di nuovo. Cecilia le rivolse qualche domanda e poi disse: «Hai mangiato qualcosa di avariato. Hai bisogno di una purga». La ragazza stava talmente male che non riuscì a rispondere. Cecilia si allontanò e tornò poco dopo con una bottiglia e un cucchiaio. Diede a Caris una cucchiaiata di medicina sciropposa che sapeva di spezie. Distesa a occhi chiusi, Caris desiderava solo che il dolore se ne andasse. Dopo un po' avvertì dei crampi allo stomaco, cui fece seguito una diarrea incontrollabile. La ragazza pensò vagamente che fosse stata provocata dal purgante. Dopo un'ora la diarrea cessò. Julie spogliò Caris, la lavò, le diede una veste da monaca da indossare al posto dell'abito insozzato e la fece distendere su un pagliericcio pulito. Caris chiuse di nuovo gli occhi, esausta. Il priore Godwyn andò a visitarla e dichiarò che aveva bisogno di un salasso. Si presentò un altro monaco per svolgere quel compito. Chiese a Caris di mettersi a sedere e di tendere il braccio, con il gomito sopra un grande catino. Poi impugnò un coltello affilato e le aprì la vena nella piega del braccio. Caris non si accorse quasi del dolore del taglio o del lento pulsare del sanguinamento. Dopo un po' il monaco premette un tampone sul taglio e le disse di tenerlo in posizione spingendo con forza. Portò via il catino che conteneva il sangue. Caris si accorse a malapena delle persone che andarono a trovarla: suo padre, Petranilla, Merthin. La Venerabile Julie ogni tanto le metteva una coppa davanti alle labbra e lei beveva sempre perché aveva una sete inestinguibile. A un certo punto notò le candele accese e capì che doveva essere notte. Cadde in un sonno agitato e fece sogni terrificanti pieni di sangue. Ogni volta che si svegliava, Julie le dava da bere. Finalmente si svegliò alla luce del giorno. Il dolore si era placato, la-
sciandole soltanto un mal di testa martellante. All'improvviso le sembrò che qualcuno le stesse lavando le cosce. Si sollevò su un gomito. Una novizia con un viso d'angelo era china accanto al pagliericcio. La veste di Caris era alzata sopra la vita e la suora la stava lavando con una pezza imbevuta d'acqua calda. Dopo un momento Caris ricordò il nome della ragazza. «Mair» disse. «Sì» confermò la novizia con un sorriso. Quando la suora strizzò la pezza nel catino, Caris si spaventò nel notare che l'acqua era rossa. «Sangue!» esclamò spaventata. «Non ti preoccupare» le disse Mair. «È soltanto il tuo ciclo mensile. Abbondante, ma normale.» Caris si accorse che veste e pagliericcio erano fradici di sangue. Tornò a distendersi e fissò il soffitto. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma non sapeva se stava piangendo di sollievo o di tristezza. Non era più incinta. Quarta parte GIUGNO 1338 - MAGGIO 1339 30 Il mese di giugno del 1338 fu secco e soleggiato, ma la fiera della lana fu una catastrofe, per Kingsbridge in generale e per Edmund in particolare. A metà della settimana, Caris aveva già capito che suo padre era rovinato. Gli abitanti della città si erano aspettati difficoltà e avevano fatto tutto il possibile per farvi fronte al meglio. Per integrare il traghetto e la barca di Ian, avevano incaricato Merthin di costruire tre grandi zattere che potessero attraversare il fiume spinte con una pertica. Merthin avrebbe anche potuto costruirne di più, ma sulle rive non c'era spazio sufficiente per attraccare. La proprietà del priorato venne aperta un giorno prima del solito e il traghetto lavorò tutta la notte alla luce delle torce. Godwyn era stato persuaso a concedere ai bottegai di Kingsbridge il permesso di passare sull'altra riva del fiume per vendere la loro merce alla gente in coda, nella speranza che la birra di Dick e le focacce di Betty avrebbero ammorbidito le persone in attesa. Non fu sufficiente. Alla fiera partecipò meno gente del solito, però le code furono le peggiori mai viste. Le zattere supplementari risultarono insufficienti e il suolo su
entrambe le rive diventò talmente molle e paludoso che i carri non facevano che impantanarsi nel fango e dovevano essere disincagliati aggiungendo altri buoi. Oltretutto, le zattere erano difficili da manovrare e in due occasioni ci furono collisioni che fecero finire i passeggeri in acqua, anche se fortunatamente nessuno annegò. Alcuni commercianti avevano previsto problemi del genere ed erano rimasti a casa. Altri erano tornati indietro non appena accortisi di quanto fosse lunga la coda. Di quelli disposti ad aspettare mezza giornata per arrivare in città, alcuni fecero affari così modesti che se ne andarono dopo un paio di giorni. Mercoledì il traghetto stava già portando via più gente di quanta ne trasportasse in città. Quella mattina Caris e Edmund accompagnarono Guillaume di Londra a vedere i lavori del ponte. Guillaume non era un cliente importante quanto Buonaventura Caroli, ma era il migliore che Caris e Edmund avessero quell'anno e lo ricoprivano di attenzioni. Era un uomo alto e grosso, avvolto in un mantello di costoso tessuto italiano rosso brillante. Noleggiarono la zattera di Merthin, che era dotata di un ponte sopraelevato e di un argano per trasportare il materiale da costruzione, e Jimmie, il giovane aiutante di Merthin, spinse l'imbarcazione nel fiume. I piloni realizzati in tutta fretta in dicembre erano ancora circondati dai rispettivi cassoni. Merthin aveva spiegato a Edmund e a Caris che li avrebbe lasciati in posizione finché il ponte non fosse stato quasi finito in modo da proteggere le opere murarie da eventuali danni provocati dai suoi stessi operai. Una volta demoliti i cassoni, al posto di ognuno avrebbe sistemato un mucchio di sassi, il pietrame per fondazioni subacquee che, a suo dire, avrebbe impedito alla corrente di indebolire i piloni. Le massicce colonne di pietra erano cresciute, come alberi, e tendevano i loro archi su entrambi i lati verso piloni più piccoli eretti nell'acqua bassa vicino alle rive. Anche questi, a loro volta, si sviluppavano in archi, da un lato in direzione dei piloni centrali e dall'altro verso le spalle del ponte sulla riva. Dieci o dodici muratori lavoravano alacremente sulla complessa impalcatura che se ne stava aggrappata all'opera muraria come un nido di gabbiano sulla scogliera. Caris, Edmund e Guillaume sbarcarono all'isola dei Lebbrosi e trovarono Merthin che, in compagnia di frate Thomas, sorvegliava i muratori che costruivano la spalla da cui il ponte avrebbe spiccato il balzo attraverso il ramo nord del fiume. Era ancora il priorato a detenere la proprietà e il controllo del ponte, anche se il terreno era stato affittato alla corporazione par-
rocchiale e la costruzione veniva finanziata da prestiti di privati cittadini. Thomas si recava spesso al cantiere. Il priore Godwyn nutriva un interesse da padrone nel ponte e, in particolare, in quello che sarebbe stato il suo aspetto estetico, evidentemente ritenendo l'opera una specie di monumento in suo onore. Merthin alzò gli occhi castano dorati sui visitatori e il cuore di Caris sembrò accelerare il battito. Ormai lo vedeva di rado e, quando parlava con lui, era sempre per discutere di lavoro. Ma si sentiva ancora strana in sua presenza. Doveva fare uno sforzo per respirare normalmente, per fingere indifferenza incontrando lo sguardo del giovane e per rallentare le parole a una velocità accettabile. Non si erano mai più chiariti dopo la loro lite. Caris non gli aveva confessato di avere preso la pozione tossica e quindi Merthin non sapeva se la gravidanza si fosse interrotta spontaneamente o no. Nessuno dei due aveva più accennato all'argomento. Per due volte Merthin era andato a parlare con lei, in tono solenne, e l'aveva pregata di ricominciare. Entrambe le volte Caris gli aveva risposto che non avrebbe mai amato un altro uomo, ma che non aveva intenzione di passare la vita come moglie di qualcuno e madre di qualcun altro. "E allora come passerai la tua vita?" le aveva domandato Merthin. Caris aveva risposto che non lo sapeva. Merthin non era più trasandato come un tempo. Barba e capelli erano ordinatamente spuntati: adesso era un cliente fisso di Matthew il barbiere. Indossava una tunica color ruggine, come tutti i muratori, ma aveva anche un mantello giallo bordato di pelliccia, segno della sua condizione di maestro, e un berretto con la piuma che lo faceva sembrare un po' più alto. Elfric, che continuava a essergli ostile, aveva obiettato al fatto che Merthin si vestisse come un mastro costruttore, dato che non era membro di alcuna corporazione. La risposta di Merthin era stata che lui era un maestro e che la soluzione del problema consisteva nell'ammetterlo nella corporazione. E la questione era rimasta in quei termini, irrisolta. Merthin aveva solo ventun anni. Guillaume lo guardò ed esclamò: «È giovane!». «È il miglior costruttore della città fin da quando aveva diciassette anni» lo informò Caris, sulla difensiva. Merthin scambiò qualche altra parola con Thomas e poi si avvicinò ai tre visitatori. «Le spalle di un ponte devono essere massicce, con fondamenta profonde» disse, spiegando l'imponente bastione di pietra che stava co-
struendo. «E come mai, giovanotto?» gli chiese Guillaume. Merthin era abituato a essere trattato con condiscendenza a causa della sua età e non se la prese. Con un sorrisetto, rispose: «Permettetemi di darvi una dimostrazione. Aprite le gambe quanto più possibile, così». Merthin fece vedere cosa intendeva e Guillaume, dopo un attimo di esitazione, lo imitò. «Avete la sensazione che i piedi vi possano scivolare ancora più lontano, non è vero?» «Sì.» «Anche le estremità di un ponte tendono ad allargarsi, proprio come i vostri piedi. Questo solleciterebbe le campate, esattamente come voi in questo momento avvertite una tensione all'inguine.» Merthin si raddrizzò e piazzò saldamente il proprio piede, calzato di stivale, contro la morbida scarpa in pelle di Guillaume. «Adesso il vostro piede non si muove più e la tensione all'inguine si è allentata, giusto?» «Sì.» «La spalla del ponte ha la stessa funzione del mio piede, che puntella il vostro e diminuisce lo sforzo.» «Molto interessante» commentò pensoso Guillaume, raddrizzandosi. Caris capì che stava dicendo a se stesso di non sottovalutare il ragazzo. «Lasciate che vi accompagni a vedere i lavori» propose Merthin. L'isola era completamente cambiata nel corso degli ultimi sei mesi. Ogni traccia della vecchia colonia di lebbrosi era scomparsa. Gran parte del terreno sassoso era adesso occupata dalle scorte di materiale: pile ordinate di pietre, barili di calce, cataste di legname e rotoli di funi. L'isola era ancora infestata dai conigli, che la gente continuava a rifiutarsi di mangiare per via della vecchia superstizione; adesso, però, si contendevano lo spazio con i costruttori. C'erano una fucina, dove un fabbro riparava i vecchi attrezzi e ne forgiava di nuovi, numerosi alloggi per i muratori e la nuova casa di Merthin, piccola ma dalle proporzioni eleganti e costruita con cura. Carpentieri, scalpellini e addetti alla calcina lavoravano instancabili per rifornire di materiali gli uomini sull'impalcatura. «Mi sembra che ci sia più gente del solito al lavoro» mormorò Caris all'orecchio di Merthin. Il ragazzo sorrise. «Ho messo il maggior numero possibile di uomini nelle posizioni più visibili» rispose sottovoce. «Voglio che ogni visitatore veda come procedono in fretta i lavori del nuovo ponte, che tutti si convincano che l'anno prossimo la fiera sarà tornata alla normalità.»
All'estremità occidentale dell'isola, lontano dai ponti gemelli, c'erano appezzamenti che Merthin aveva affittato a mercanti di Kingsbridge, che li utilizzavano come depositi di materiali o magazzini. Anche se gli affitti erano più bassi di quelli che i locatari avrebbero pagato all'interno delle mura della città, Merthin stava già guadagnando parecchio di più della somma simbolica che versava ogni anno alla corporazione parrocchiale. Si vedeva molto spesso con Elizabeth Clerk, che Caris considerava una cagna frigida, ma che era l'unica altra donna in città con un cervello in grado di interessare Merthin. Aveva una piccola cassa piena di libri che aveva ereditato dal padre, il vescovo, e Merthin passava le serate a casa sua, a leggere. Se tra loro c'era dell'altro, Caris non lo sapeva. Quando la visita fu terminata, Edmund riaccompagnò Guillaume sull'altra riva e Caris si trattenne per parlare con Merthin. «Un buon cliente?» le chiese il ragazzo, mentre osservava la zattera che si allontanava, spinta dalla pertica. «Gli abbiamo venduto solo due sacchi di lana di ultima scelta, e per meno di quello che l'avevamo pagata.» Un sacco corrispondeva a trecentosessantaquattro libbre di lana, lavata e asciugata. Quell'anno la lana di ultima scelta si vendeva a trentasei scellini il sacco, la qualità migliore al doppio. «Perché?» «Quando i prezzi scendono, è meglio avere denaro contante piuttosto che lana.» «Ma sicuramente avevate previsto una fiera con pochi affari.» «Non avevamo previsto che andasse così male.» «Sono sorpreso. In passato tuo padre ha sempre avuto un'abilità soprannaturale nell'intuire l'andamento del mercato.» Caris esitò. «È la combinazione di scarsità di domanda e mancanza del ponte.» In realtà anche lei era sorpresa. Aveva visto suo padre acquistare lana greggia nella stessa quantità di sempre, nonostante le prospettive scoraggianti, e si era chiesta come mai invece non si mettesse al riparo da rischi, riducendo gli acquisti. «Immagino che proverete a vendere le eccedenze alla fiera di Shiring» suggerì Merthin. «È quello che il conte Roland vuole che facciamo. Il guaio è che a Shiring non siamo espositori abituali. I mercanti locali si accaparreranno gli affari migliori. È quello che succede anche qui a Kingsbridge: mio padre e altri due o tre concludono grossi accordi con i compratori più importanti e lasciano i commercianti più piccoli a litigarsi gli avanzi. Sono sicura che i
mercanti di Shiring fanno lo stesso. Magari riusciremo a vendere qualche sacco, ma realisticamente non c'è alcuna possibilità di riuscire a smaltire tutto.» «Cosa farete?» «È per questo che sono venuta a parlarti. Forse dovremo fermare i lavori del ponte.» Merthin la fissò. «No» disse con calma. «Mi dispiace molto, ma mio padre non ha denaro. L'ha investito in lana che non riesce a vendere.» Merthin aveva l'espressione di un uomo appena schiaffeggiato. Dopo un momento esclamò: «Ci sarà pure un modo!». Caris con il cuore gli era vicino, ma non le venne in mente nulla di incoraggiante da dire. «Mio padre si era impegnato per un finanziamento di settanta sterline. Metà l'ha già versato. Il resto, temo, è nei sacchi che abbiamo in magazzino.» «Non può essere rimasto senza un penny.» «Quasi. E lo stesso vale per parecchi altri abitanti di Kingsbridge che avevano promesso denaro per il ponte.» «Potrei rallentare i lavori» ipotizzò Merthin, disperato. «Licenziare qualche artigiano, esaurire le scorte dei materiali.» «Così non avresti un ponte pronto per la fiera dell'anno prossimo e ci ritroveremmo in guai ancora peggiori.» «Sempre meglio che rinunciare del tutto.» «Sì, è vero» ammise Caris. «Per il momento, comunque, non prendere iniziative. Quando la fiera sarà finita, ne riparleremo. Volevo soltanto che tu fossi al corrente della situazione.» Merthin era ancora pallido. «Lo apprezzo molto.» La zattera tornò e Jimmie rimase ad aspettare Caris per riportarla sull'altra riva. Salendo a bordo, lei chiese a Merthin in tono indifferente: «Come sta Elizabeth Clerk?». Il giovane finse di essere un po' sorpreso dalla domanda. «Sta bene, credo» rispose. «Sembra che vi vediate molto, voi due.» «Non in modo particolare. Siamo sempre stati amici.» «Sì, certo» disse Caris, anche se sapeva che non era vero. Merthin aveva completamente ignorato Elizabeth per la maggior parte dell'anno precedente, quando passava tutto il tempo con lei. Ma contraddirlo non sarebbe stato dignitoso, così non aggiunse altro.
Salutò con la mano e Jimmie spinse la zattera lontano dalla riva. Merthin aveva voluto darle l'impressione che il suo rapporto con Elizabeth non fosse d'amore. Magari era così. O forse lo imbarazzava dirle che era innamorato di un'altra. Caris non sapeva quale fosse la verità. Di una cosa però era certa: da parte di Elizabeth si trattava di amore. Caris lo capiva dal modo in cui guardava Merthin. Poteva anche essere una fanciulla di ghiaccio, ma per Merthin si scaldava molto. La zattera cozzò contro la riva opposta. Caris scese, risalì la collina e raggiunse il centro della città. Merthin le era sembrato profondamente scosso dalle notizie che lei gli aveva comunicato. Le venne voglia di piangere, ripensando allo sconcerto e allo sgomento sul viso del giovane, la stessa espressione che aveva avuto quando lei si era rifiutata di riallacciare la loro storia. Non sapeva ancora in che modo avrebbe vissuto la propria vita. Aveva sempre pensato che, qualunque cosa avesse deciso di fare, avrebbe comunque abitato in una casa confortevole, che si sarebbe potuta permettere grazie a un'attività remunerativa. Adesso perfino quella certezza stava vacillando. Si lambiccò il cervello cercando un modo per uscire da quella situazione disastrosa. Suo padre era stranamente sereno, come se non avesse ancora afferrato l'entità delle sue perdite. Ma Caris sapeva che bisognava fare qualcosa. Risalendo la strada principale, incontrò la figlia di Elfric, Griselda, con il suo bambino di sei mesi. L'aveva chiamato Merthin, un rimprovero permanente al Merthin originale che non l'aveva sposata. Griselda continuava la sua finzione di innocenza ferita. Tutti ormai avevano accettato l'idea che il padre del bambino non fosse Merthin, anche se qualcuno riteneva che avrebbe dovuto sposarla comunque, dato che aveva giaciuto con lei. Mentre Caris arrivava davanti a casa, suo padre ne usciva. La giovane lo fissò stupefatta. Indossava solo la biancheria intima: una lunga camiciola, mutande e calze. «Dove sono i tuoi vestiti?» gli domandò. Edmund abbassò lo sguardo sul proprio corpo ed emise un suono di disgusto. «Sto diventando distratto» disse e rientrò in casa. Doveva essersi spogliato per andare alla latrina, pensò Caris, e poi si era scordato di rivestirsi. Era l'età? Ma suo padre aveva solo quarantotto anni e, inoltre, sembrava trattarsi di qualcosa di più grave di una semplice distrazione. Caris si sentì abbattuta. Edmund si ripresentò vestito normalmente. Padre e figlia attraversarono insieme la strada ed entrarono nella proprietà del priorato. «Hai informato
Merthin del denaro?» le chiese. «Sì. È rimasto sconvolto.» «Qual è la sua opinione?» «Sostiene che potrebbe spendere meno rallentando il ritmo dei lavori.» «Ma allora non avremmo un ponte in tempo per l'anno prossimo.» «Tuttavia, come ha detto lui, sarebbe sempre meglio che lasciare il ponte costruito solo a metà.» Arrivarono al banco di Perkin di Wigleigh, che vendeva galline ovaiole. Sua figlia Annet reggeva un vassoio di uova, trattenuto da una cinghia che le passava attorno al collo. Dietro il banco Caris vide la sua amica Gwenda, che ora lavorava per Perkin. Incinta di otto mesi, con il seno pesante e il ventre gonfio, Gwenda se ne stava in piedi con una mano sul fianco, stirandosi nella classica posizione della madre in attesa con la schiena dolorante. Caris calcolò che lei stessa sarebbe stata di otto mesi, se non avesse bevuto la pozione di Mattie. Dopo aver perso il bambino, dal seno le era uscito latte e non aveva potuto fare a meno di pensare che fosse un rimprovero del suo corpo per ciò che aveva fatto. Ogni tanto avvertiva una fitta di rimorso ma, se rifletteva razionalmente, si rendeva conto che, trovandosi di nuovo nella stessa situazione, avrebbe rifatto la stessa cosa. Gwenda incontrò lo sguardo di Caris e sorrise. Contro ogni probabilità, Gwenda aveva ottenuto ciò che voleva: aveva sposato Wulfric. C'era anche lui in quel momento: forte come un cavallo e due volte più bello, sollevava casse di legno e le sistemava su un carro. Caris era felice per Gwenda. «Come stai?» le domandò. «È tutta la mattina che mi fa male la schiena.» «Ormai non deve mancare molto.» «Un paio di settimane, credo.» «Chi è questa ragazza, mia cara?» domandò Edmund alla figlia. «Non ti ricordi di Gwenda?» replicò Caris. «È stata ospite in casa tua almeno una volta all'anno negli ultimi dieci anni!» Edmund sorrise. «Gwenda, non ti avevo riconosciuto, dev'essere la gravidanza. Comunque hai un bell'aspetto.» Padre e figlia proseguirono. Caris sapeva che Wulfric non aveva avuto la sua eredità: in quello Gwenda aveva fallito. Non era sicura di cosa fosse accaduto in settembre, quando l'amica era andata a implorare Ralph, ma, a quanto pareva, il fratello di Merthin le aveva fatto una promessa che poi non aveva mantenuto. In ogni caso, Gwenda adesso lo odiava con un'in-
tensità che faceva quasi paura. Poco lontano c'era una fila di banchi dove i locali mercanti di stoffe vendevano il burel, il ruvido tessuto di lana marrone a trama larga che veniva acquistato da tutti, tranne i ricchi, per confezionare in casa i propri capi. A differenza dei commercianti di lana, i mercanti di stoffe sembravano fare buoni affari. La lana greggia era venduta all'ingrosso e l'assenza di pochi, importanti compratori poteva rovinare il mercato. Ma il tessuto veniva smerciato al dettaglio. Tutti ne avevano bisogno, tutti lo compravano. Magari in quantità inferiore quando i tempi erano difficili, tuttavia la gente aveva sempre bisogno di abiti. Nella mente di Caris cominciò a formarsi un pensiero vago. Quando non si riusciva a vendere la lana, a volte la si faceva tessere e si provava a proporla come stoffa. Ma questo comportava un mucchio di lavoro e il burel non dava molto profitto. La varietà più a buon mercato era la più richiesta e i mercanti dovevano tenere bassi i prezzi. Caris guardò i banchi delle stoffe con occhi nuovi. «Mi chiedo quale sarà il tipo di tessuto che rende di più» disse. Il burel si vendeva a dodici penny la iarda. Se lo si voleva follato, cioè reso più spesso e compatto pestandolo in acqua, costava sei penny in più. E il prezzo aumentava per qualsiasi colore che non fosse l'opaco marrone naturale. Al banco di Peter il tintore erano in vendita tessuti verdi, gialli e rosa a due scellini la iarda, nonostante i colori non fossero molto vivaci. Caris si voltò verso suo padre per parlargli dell'idea che le era venuta in mente ma, prima ancora che avesse aperto bocca, accadde qualcosa. A Ralph trovarsi di nuovo alla fiera della lana ricordava spiacevolmente la stessa manifestazione dell'anno prima. Si toccò il naso storto. Com'era potuto accadere? Tutto era cominciato con lui che stuzzicava innocentemente quella ragazza di campagna, Annet, e poi impartiva una lezione sul rispetto al suo stupido spasimante; ma poi, in qualche modo, la vicenda si era conclusa con la sua umiliazione. Mentre si avvicinava al banco di Perkin, si consolò riflettendo su tutto ciò che era successo da allora. Aveva salvato la vita al conte Roland dopo il crollo del ponte, lo aveva compiaciuto grazie al suo decisivo intervento alla cava ed era stato finalmente nominato lord, anche se solo del piccolo villaggio di Wigleigh. Aveva ammazzato un uomo, Ben Wheeler. Un semplice carrettiere, per cui non c'era onore in quell'impresa, ma in ogni caso Ralph aveva provato a se stesso di essere in grado di uccidere.
Si era addirittura rappacificato con suo fratello. Era stata la madre a costringerli, invitandoli entrambi a pranzo il giorno di Natale e insistendo perché si stringessero la mano. Era una sfortuna, aveva detto il padre, che i suoi figli servissero padroni rivali tra loro, ma ognuno dei due aveva il dovere di fare del proprio meglio, come soldati che si ritrovano in schieramenti opposti in una guerra civile. Ralph era contento e pensava che lo fosse anche Merthin. Ralph era riuscito a vendicarsi in modo soddisfacente di Wulfric, negandogli l'eredità e al tempo stesso la sua ragazza: la bella Annet adesso si era sposata con Billy Howard e Wulfric doveva accontentarsi della brutta, anche se appassionata, Gwenda. Peccato che Wulfric non avesse un'aria più distrutta. Se ne andava in giro per il villaggio orgoglioso e a testa alta come se fosse lui, e non Ralph, il padrone. Tutti i suoi vicini lo apprezzavano e la moglie incinta lo adorava. Nonostante le sconfitte che Ralph gli aveva inflitto, in qualche modo l'eroe sembrava essere Wulfric. Forse perché sua moglie era così robusta e vigorosa. A Ralph sarebbe piaciuto raccontare a Wulfric della visita di Gwenda alla locanda Bell. "Ho giaciuto con tua moglie" avrebbe voluto dirgli. "E le è piaciuto." Gli avrebbe cancellato quell'espressione orgogliosa dalla faccia. Ma Wulfric sarebbe anche venuto a sapere che lui aveva fatto una promessa e poi vergognosamente non l'aveva mantenuta, cosa che sarebbe servita soltanto a far sì che si sentisse di nuovo superiore. Ralph rabbrividì all'idea del disprezzo che Wulfric e anche altri avrebbero provato per lui, se mai fossero venuti a conoscenza del suo tradimento. In particolare, suo fratello Merthin l'avrebbe disprezzato per sempre. No, la sua sgroppata con Gwenda doveva restare un segreto. Alla bancarella, Perkin fu il primo a notare Ralph che si avvicinava e gli si rivolse con ossequio, come sempre. «Buongiorno, lord Ralph» lo salutò inchinandosi, mentre sua moglie Peggy faceva la riverenza e Gwenda si massaggiava la schiena. Poi Ralph vide Annet con il suo vassoio di uova e ripensò a quando le aveva toccato i piccoli seni, rotondi e sodi proprio come quelle uova. La ragazza si accorse che lui la stava guardando e abbassò gli occhi pudica. Ralph avrebbe voluto toccarle di nuovo il seno. "E perché no?" si chiese. "Io sono il suo signore." Poi si accorse di Wulfric, dietro il banco. Il ragazzo aveva caricato casse su un carro fino a un attimo prima, adesso però era immobile e lo fissava. Il viso era privo di espressione, ma lo sguardo era calmo e deciso. Uno sguardo che non si poteva definire in-
solente, ma che per Ralph era inequivocabilmente una minaccia. Wulfric non avrebbe potuto essere più esplicito se gli avesse detto: "Toccala e ti ammazzo". "Forse dovrei farlo" pensò Ralph. "Lascerò che mi aggredisca e lo trafiggerò con la spada. E sarò assolutamente nel giusto, un lord che si difende da un contadino accecato dall'odio." Sostenendo lo sguardo di Wulfric, alzò una mano per toccare il seno di Annet... ma in quel momento Gwenda lanciò un grido acuto di dolore e di paura, e tutti gli occhi si spostarono su di lei. 31 Caris udì un grido straziante e riconobbe la voce di Gwenda. Avvertì una fitta di paura. Qualcosa stava andando storto. In pochi passi affrettati fu di nuovo al banco di Perkin. Gwenda sedeva su uno sgabello. Era pallida, con il viso contorto in una smorfia di dolore e la mano di nuovo sul fianco. La sua veste era bagnata. «Le si sono rotte le acque» disse seccamente Peggy, la moglie di Perkin. «Sta cominciando il travaglio.» «È troppo presto» osservò Caris ansiosa. «Be', il bambino sta arrivando comunque.» «È pericoloso.» Caris prese una decisione. «Portiamola nell'ospitale.» Di norma le donne non andavano nell'ospitale per partorire ma, se Caris avesse insistito, le suore avrebbero ammesso la sua amica. Un bambino prematuro poteva essere molto vulnerabile, lo sapevano tutti. Wulfric si avvicinò. Caris rimase colpita da quanto sembrasse giovane. Aveva diciassette anni e stava per diventare padre. «Mi gira un po' la testa» si lamentò Gwenda. «Ma tra un momento passerà.» «Ti porto io» dichiarò Wulfric, che senza sforzo la prese in braccio. «Seguitemi» disse Caris. Si avviò tra le bancarelle, facendo strada a Wulfric e gridando: «Fate largo, per favore! Fate largo!». Dopo un minuto erano arrivati all'ospitale. La porta era spalancata. I visitatori della notte erano stati buttati fuori già da ore e i materassi di paglia che avevano utilizzato adesso erano impilati contro la parete. Numerose novizie e inservienti, munite di secchi e scope, stavano lavando energicamente il pavimento. Caris si rivolse alla serva più vicina, una donna di mezza età a piedi nu-
di. «Va' a chiamare la Venerabile Julie, presto! Dille che ti manda Caris.» Trovò un materasso ragionevolmente pulito e lo distese sul pavimento vicino all'altare. Non era sicura dell'efficacia degli altari nell'aiutare i malati, ma seguì la tradizione. Wulfric adagiò Gwenda sul materasso con delicatezza, come se fosse stata di vetro. Lei rimase distesa con le ginocchia sollevate, a gambe aperte. Pochi minuti dopo arrivò la Venerabile Julie e Caris pensò a tutte le volte che in vita sua era stata confortata da quella suora, la quale con ogni probabilità non aveva superato di molto la quarantina, ma sembrava vecchissima. «È Gwenda di Wigleigh» le disse Caris. «Può darsi che vada tutto bene, ma il bambino sta arrivando con parecchie settimane di anticipo e io ho pensato che portarla all'ospitale fosse una precauzione ragionevole. Eravamo proprio qui vicino.» «Molto saggio» commentò Julie, che spinse con gentilezza Caris di lato per chinarsi accanto al pagliericcio. «Come ti senti, mia cara?» domandò a Gwenda. Mentre Julie parlava a bassa voce con la sua amica, Caris osservò Wulfric: il suo viso giovane e attraente era alterato dall'ansia. Caris sapeva che non aveva mai avuto intenzione di sposare Gwenda: era Annet quella che aveva sempre desiderato. Adesso, però, sembrava preoccupato per lei come se l'amasse da anni. Gwenda gridò di nuovo. «Buona, buona!» le disse Julie. Si chinò tra le gambe della giovane e guardò sotto la veste. «Il bambino sta per arrivare» annunciò. Comparve un'altra suora. Caris riconobbe Mair, la novizia dal viso d'angelo, che domandò: «Devo andare a chiamare madre Cecilia?». «Non c'è bisogno di disturbarla» rispose Julie. «Va' in magazzino e portami la cassetta di legno con la scritta PARTO.» Mair si allontanò in fretta. «Oh, Dio, che male!» disse Gwenda. «Continua a spingere» la sollecitò Julie. «Cosa c'è che non va?» domandò Wulfric. «Niente» rispose Julie. «È tutto nella norma. È così che le donne partoriscono. Tu devi essere il più giovane della tua famiglia, altrimenti avresti visto tua madre in queste condizioni.» Anche Caris era la più giovane della sua famiglia. Sapeva che il parto era doloroso, ma non aveva mai assistito ed era scioccata nel constatare
quanto fosse penoso. Mair tornò e posò una cassetta di legno sul pavimento, accanto a Julie. Gwenda smise di lamentarsi. Con gli occhi chiusi, sembrava quasi essersi addormentata, ma poi, qualche minuto dopo, urlò di nuovo. Julie disse a Wulfric: «Siediti accanto a lei e tienile la mano». Il ragazzo obbedì immediatamente. Julie continuava a guardare sotto la veste di Gwenda. «Adesso smetti di spingere» disse dopo un po'. «Fai molti respiri brevi.» Si mise ad ansimare per spiegare a Gwenda che cosa intendesse. La giovane obbedì e questo sembrò alleviarle il dolore per qualche minuto. Poi gridò di nuovo. Caris non riusciva quasi a sopportare la scena. Se quello era un parto normale, allora com'era uno difficile? Perse il senso del tempo: tutto stava accadendo molto rapidamente, ma il tormento di Gwenda sembrava infinito. Caris provava quella sensazione di impotenza che odiava tanto, la stessa che l'aveva travolta quando era morta sua madre. Avrebbe voluto essere di aiuto, ma non sapeva che cosa fare e questo la rese così ansiosa che si morse il labbro finché non sentì il sapore del sangue. «Ecco che arriva il bambino» annunciò Julie. Allungò le braccia tra le gambe di Gwenda. La veste venne sollevata e d'improvviso Caris vide chiaramente la testa, con il viso rivolto verso il basso e i capelli bagnati, emergere da un'apertura che sembrava tendersi in modo impossibile. «Che Dio ci aiuti, non mi stupisce che faccia male!» esclamò inorridita. Julie sosteneva la testa del piccolo con la mano sinistra. Il bambino ruotò lentamente di lato e poi comparvero le minuscole spalle. La pelle del neonato era viscida di sangue e di qualche altro fluido. «Ora rilassati» disse Julie. «È quasi finita. Il bambino è bellissimo.» "Bellissimo?" pensò Caris. A lei sembrava orribile. Sbucò anche il busto del piccolo, con un grosso, pulsante cordone azzurrognolo collegato all'ombelico. Poi, di colpo, uscirono gambe e piedi. Julie prese il bambino con entrambe le mani. Era minuscolo, la testa non molto più grande della palma della mano di Julie. Qualcosa non andava. Caris si accorse che il neonato non respirava. La suora avvicinò il viso a quello del bimbo e soffiò dentro le narici minuscole. E d'improvviso il neonato aprì la bocca, inspirò profondamente e pianse. «Dio sia lodato» disse Julie. Asciugò il viso del piccolo con la manica
della veste, pulendolo delicatamente intorno alle orecchie, agli occhi, al naso e alla bocca. Poi si strinse il neonato al seno e chiuse gli occhi. E in quell'istante Caris vide un'intera vita di rinunce. Il momento passò e Julie posò il bambino sul petto di Gwenda. Gwenda abbassò lo sguardo. «È un maschio o una femmina?» Caris si rese conto che nessuno di loro ci aveva fatto caso. Julie si chinò e allargò le ginocchia del bambino. «Un maschio» annunciò. Il cordone azzurro cessò di pulsare e diventò bianco. Julie estrasse dalla cassetta di legno due pezzetti di spago che usò per legarlo, poi afferrò un piccolo coltello affilato e tagliò di netto il cordone nel tratto fra i due nodi. Mair prese il coltello dalle mani di Julie e le porse una copertina che aveva estratto dalla cassetta. La suora tolse il neonato a Gwenda, lo avvolse nella coperta e lo restituì alla madre. Mair trovò qualche cuscino e lo sistemò dietro la schiena della puerpera, consentendole di sollevarsi. Gwenda si abbassò la scollatura della veste, mostrando un seno rigonfio, e porse il capezzolo al neonato, che cominciò subito a succhiare. Dopo un minuto il bimbo sembrò addormentarsi. L'altra estremità del cordone era ancora tra le gambe di Gwenda. Trascorse qualche minuto, il cordone si mosse e un'informe massa rossa scivolò fuori: la seconda. Il sangue allagò il materasso. Julie prese la massa sanguinolenta, la passò a Mair e le ordinò: «Brucia tutto». Poi esaminò la zona pelvica di Gwenda e aggrottò la fronte. Caris seguì lo sguardo della suora e vide che il flusso di sangue continuava. Julie asciugò le macchie sul corpo della giovane, ma i rivoli rossi ricomparvero immediatamente. Quando Mair tornò, Julie le disse: «Vai a chiamare madre Cecilia, immediatamente». «Qualcosa non va?» domandò Wulfric. «A questo punto dovrebbe avere smesso di sanguinare» rispose la suora. All'improvviso ci fu tensione nell'aria. Wulfric sembrava spaventato. Il bimbo pianse e Gwenda lo attaccò di nuovo al capezzolo. Il piccolo succhiò per pochi istanti e si riaddormentò. Julie continuava a lanciare occhiate verso la porta. Finalmente comparve Cecilia. Guardò Gwenda e poi chiese: «È uscita la seconda?». «Qualche minuto fa.» «Le hai messo il piccolo al seno?» «Subito dopo avere tagliato il cordone.»
«Vado a chiamare un medico.» Cecilia si allontanò velocemente. Quando tornò, pochi minuti dopo, aveva con sé una boccetta di vetro che conteneva un liquido giallastro. «Il priore Godwyn ha prescritto questo.» Caris era indignata. «Non vuole visitare Gwenda?» «Certo che no» rispose Cecilia seccamente. «Il priore Godwyn è un sacerdote oltre che un monaco. Non può guardare le parti intime di una donna.» «Podex» commentò sprezzante Caris. Era il termine latino per "idiota". Cecilia fece finta di non aver sentito. Si inginocchiò accanto a Gwenda. «Bevi questo, mia cara.» La giovane bevve la pozione, ma continuava a perdere sangue. Era pallida e sembrava più debole di quanto fosse stata subito dopo il parto. Il bimbo dormiva tranquillo sul suo seno, ma tutti gli altri erano spaventati. Wulfric non faceva che sedersi e rialzarsi in piedi. Julie asciugava il sangue lungo le cosce della puerpera e sembrava sul punto di mettersi a piangere. Gwenda chiese qualcosa da bere e Mair le portò una coppa di birra. Caris prese Julie da parte e le sussurrò: «Morirà dissanguata». «Abbiamo fatto tutto il possibile» replicò la suora. «Avete già visto casi del genere prima d'ora?» «Sì, tre.» «E come sono andati?» «Le donne sono morte.» Caris emise un basso gemito di disperazione. «Ci deve essere qualcosa che possiamo fare!» «Gwenda ormai è nelle mani di Dio. Possiamo soltanto pregare.» «Non è quello che intendevo dire con "fare qualcosa".» «Bada a come parli.» Caris si sentì immediatamente in colpa. Non aveva intenzione di litigare con una persona gentile come Julie. «Vi chiedo scusa, sorella. Non volevo negare il potere della preghiera.» «Spero proprio di no.» «Ma non sono ancora pronta a lasciare Gwenda nelle mani di Dio.» «Cos'altro possiamo fare?» «Lo vedrete.» Caris uscì in fretta dall'ospitale. Si fece largo con impazienza tra la gente che passeggiava alla fiera. Le sembrava assurdo che ci fossero ancora persone che compravano e vendevano, mentre a qualche iarda di distanza si stava svolgendo un dramma. Ma c'erano state molte occasioni in cui lei stessa aveva saputo che una
donna era entrata in travaglio e non aveva mai smesso di seguire le sue occupazioni, limitandosi ad augurare ogni bene alla partoriente. Uscì dal priorato e corse lungo le strade fino alla casa di Mattie la guaritrice. Bussò alla porta e la spalancò. Con suo grande sollievo, vide che la donna era in casa. «Gwenda ha appena avuto il suo bambino.» «Che cosa è andato storto?» chiese subito Mattie. «Il piccolo sta bene, Gwenda invece continua a perdere sangue.» «La seconda è uscita?» «Sì.» «L'emorragia dovrebbe essersi fermata.» «Puoi aiutarla?» «Forse. Ci proverò.» «Presto, per favore!» Mattie tolse una pentola dal fuoco, si mise i calzari e uscì con Caris, fermandosi un istante per chiudere la porta a chiave. «Io non avrò mai un bambino, lo giuro» dichiarò Caris con veemenza. Si precipitarono al priorato ed entrarono nell'ospitale. Caris avvertì il forte odore del sangue. Mattie fu attenta a rispettare l'autorità della Venerabile Julie. «Buon pomeriggio, suor Juliana» le disse. «Salve, Mattie.» L'espressione di Julie rivelava disapprovazione. «Tu pensi di poter aiutare questa donna, quando i rimedi del santo priore non sono stati benedetti dal successo?» «Se pregherete per me e per la paziente, sorella, chi può dire cosa potrà accadere?» Era una risposta diplomatica e Julie si ammorbidì. Mattie si inginocchiò accanto alla madre e al bambino. Gwenda era sempre più pallida e aveva gli occhi chiusi. Il neonato cercava ciecamente il capezzolo, ma sua madre sembrava troppo stanca per aiutarlo. «Deve continuare a bere» disse Mattie. «Ma non liquori forti. Per favore, portate una brocca di acqua tiepida con dentro un bicchierino di vino. Poi chiedete al cuciniere se ha una zuppa leggera, calda, ma non bollente.» Mair guardò Julie con aria interrogativa. Dopo un attimo di esitazione, Julie parlò. «Vai... ma non dire a nessuno che stai seguendo le istruzioni di Mattie.» La novizia si allontanò veloce. Mattie sollevò quanto più possibile la veste di Gwenda, esponendo tutto
l'addome. La pelle, che solo poche ore prima era stata tesissima, adesso era floscia e grinzosa. Mattie afferrò la carne molle e spinse le dita, delicatamente ma con fermezza, nel ventre di Gwenda. La ragazza emise un grugnito, ma era un suono più di disagio che di dolore. «Il grembo è molle» disse Mattie. «Non si è contratto come avrebbe dovuto. È per questo che continua a perdere sangue.» Wulfric, che sembrava prossimo alle lacrime, le domandò: «Puoi fare qualcosa per lei?». «Non lo so.» Mattie cominciò un massaggio, con le dita che apparentemente premevano sul grembo di Gwenda attraverso la pelle e la carne del ventre. «A volte questo provoca le contrazioni.» Tutti guardavano in silenzio. Caris aveva quasi paura di respirare. Mair tornò con la miscela di acqua e vino. «Dagliene un po', per favore» le disse Mattie, senza interrompere il massaggio. Mair portò la coppa alle labbra di Gwenda, che bevve avidamente. «Non troppo» ammonì Mattie. Mair allontanò la coppa. Mattie continuò il massaggio, controllando di tanto in tanto le parti intime della puerpera. Le labbra di Julie si muovevano in una silenziosa preghiera. Il sangue continuava a fluire ininterrottamente. Mattie, che sembrava preoccupata, cambiò posizione. Mise la mano sinistra sulla pancia di Gwenda, appena sotto l'ombelico, e poi la destra sulla sinistra. Cominciò a spingere, aumentando lentamente la pressione. Caris temeva che la manovra potesse causare dolore all'amica, ma Gwenda sembrava a malapena cosciente. Mattie premette ancora di più, fino a dare l'impressione di caricare tutto il proprio peso sulle mani. «Non sanguina più!» esclamò Julie. Mattie non si mosse. «Qualcuno qui sa contare fino a cinquecento?» «Sì» rispose Caris. «Lentamente, per favore.» Caris cominciò a contare a voce alta. Julie asciugò di nuovo il sangue, che questa volta non ricomparve. Iniziò a pregare a voce alta: «Santa Maria, madre di nostro Signore Gesù Cristo...». Tutti erano immobili, come un gruppo statuario: la madre e il bimbo sul pagliericcio, la guaritrice che premeva sul ventre della puerpera, il marito, la suora che pregava e Caris che contava: «Centoundici, centododici...». Oltre alla propria voce e a quella di Julie, Caris sentiva il rumore della fiera all'esterno, il rombo di centinaia di persone che parlavano contemporaneamente. Sul viso di Mattie cominciò ad affiorare la fatica, ma la donna
non si interruppe. Wulfric piangeva in silenzio, con le lacrime che gli scorrevano lungo le guance bruciate dal sole. Quando Caris arrivò a cinquecento, Mattie diminuì gradualmente la pressione sulla pancia di Gwenda. Tutti guardarono la vagina, temendo di vedere un nuovo fiotto di sangue. Non ci fu. Mattie emise un lungo sospiro di sollievo. Wulfric sorrise. «Dio sia lodato» esclamò Julie. «Datele ancora da bere, per favore» disse Mattie. Mair portò un'altra volta la coppa alle labbra di Gwenda, che aprì gli occhi e bevve. «Adesso starai bene» le disse Mattie. «Ti ringrazio» mormorò la ragazza, richiudendo gli occhi. Mattie si rivolse a Mair. «Forse dovresti andare a prendere la zuppa. Questa donna deve recuperare le forze, altrimenti non avrà latte.» Mair annuì e si allontanò. Il bimbo pianse e Gwenda sembrò risvegliarsi. Spostò il piccolo all'altro seno e lo aiutò a trovare il capezzolo. Poi alzò gli occhi su Wulfric e sorrise. «Che bel bambino» disse Julie. Caris guardò di nuovo il neonato e, per la prima volta, lo vide come un individuo. Come sarebbe diventato? Forte e sincero come Wulfric, o debole e disonesto come suo nonno Joby? Non assomigliava a nessuno dei due, pensò. «A chi somiglia?» domandò. «Ha i colori di sua madre» rispose Julie. Era vero, pensò Caris: il neonato aveva capelli neri e carnagione olivastra, mentre Wulfric era biondo scuro e di pelle chiara. Ma a Caris il viso del bimbo ricordava qualcuno e, dopo un attimo, si rese conto che le rammentava Merthin. Un pensiero folle le passò veloce per la testa, ma lo allontanò immediatamente. Tuttavia la somiglianza c'era. «Sapete chi mi ricorda?» disse. All'improvviso incontrò lo sguardo di Gwenda. Con gli occhi sbarrati e un'espressione di panico in viso, la ragazza scosse impercettibilmente la testa. Tutto durò meno di un istante, ma il messaggio era stato inequivocabile: "Zitta!". Caris strinse i denti. «Chi?» domandò Julie con innocenza. Caris esitò, cercando disperatamente una risposta. Poi ebbe un'ispirazione. «Philemon, il fratello di Gwenda» improvvisò.
«Naturalmente» disse Julie. «Qualcuno dovrebbe andare a dirgli di venire a vedere il suo nipotino appena nato.» Caris era sgomenta. Dunque il bambino non era di Wulfric. Di chi allora? Non poteva essere di Merthin. Forse lui avrebbe anche potuto giacere con Gwenda, di certo era vulnerabile alle tentazioni, ma dopo non sarebbe mai riuscito a tenerglielo nascosto. Ma se non era stato Merthin... Caris fu colpita da un pensiero terribile. Cos'era successo il giorno in cui Gwenda era andata a implorare Ralph per l'eredità di Wulfric? Possibile che il bambino fosse di Ralph? Era un'idea troppo terribile da contemplare. Caris guardò Gwenda, poi il bambino e poi Wulfric, il quale stava sorridendo di gioia, anche se il viso era ancora bagnato di lacrime. Non aveva alcun sospetto. «Avete già pensato al nome del bambino?» chiese Julie. «Oh, sì» rispose Wulfric. «Voglio chiamarlo Samuel.» Gwenda annuì, abbassando lo sguardo sul viso del piccolo. «Samuel» disse. «Sammy. Sam.» «Come mio padre» concluse Wulfric, felice. 32 A un anno dalla morte di Anthony, il priorato di Kingsbridge era un posto diverso, pensò soddisfatto Godwyn. Era nella cattedrale, la domenica dopo la fiera della lana. La differenza più importante era la separazione tra frati e suore. Non si ritrovavano più insieme nel chiostro, nella biblioteca e nello scriptorium. Perfino lì, in chiesa, un divisorio in legno di quercia intagliato, sistemato al centro del coro, impediva a frati e suore di guardarsi durante le funzioni. Solo nell'ospitale, a volte, erano costretti a mescolarsi. Nel corso della predica, il priore Godwyn disse che il crollo del ponte dell'anno precedente era stata la punizione di Dio per il lassismo di frati e suore e per i peccati degli abitanti della città. Il nuovo spirito di rigore e purezza nel priorato, e la devozione e la sottomissione della città, avrebbero garantito una vita migliore per tutti, in questo mondo e nell'altro. Godwyn aveva la sensazione che il suo discorso fosse stato recepito abbastanza bene. Più tardi pranzò con frate Simeon, il tesoriere, nella casa del priore. Philemon servì anguilla in umido e sidro. «Ho intenzione di costruire una nuova casa del priore» annunciò Godwyn.
La faccia lunga e sottile di Simeon sembrò allungarsi ancora di più per la sorpresa. «C'è forse qualche ragione particolare?» «Sono sicuro di essere l'unico priore in tutta la cristianità che vive in una casa che sembra quella di un conciatore. Pensa alle persone che abbiamo ospitato qui negli ultimi dodici mesi: il conte di Shiring, il vescovo di Kingsbridge, il conte di Monmouth. Questa casa non è all'altezza di personaggi del genere. Dà una brutta impressione sia di noi sia del nostro ordine benedettino. Abbiamo bisogno di una costruzione grandiosa, che rifletta il prestigio del priorato di Kingsbridge.» «Tu vuoi un palazzo» disse Simeon. Godwyn percepì una nota di disapprovazione nel tono del tesoriere, quasi che lo scopo della sua richiesta fosse rendere gloria a se stesso piuttosto che al priorato. «Chiamalo pure palazzo, se vuoi» ribatté con freddezza. «Perché no? Vescovi e priori vivono nei palazzi. E lo fanno non per il proprio agio bensì per quello dei loro ospiti e per la reputazione dell'istituto che rappresentano.» «Naturalmente» disse Simeon, rinunciando a quella linea di argomentazione. «Comunque non puoi permettertelo.» Godwyn aggrottò la fronte. In teoria, i monaci di grado più elevato erano incoraggiati a discutere con lui, ma la verità era che detestava essere contraddetto. «Ridicolo» ribatté. «Kingsbridge è uno dei monasteri più ricchi del paese.» «Così si è sempre detto. E in effetti possediamo vaste risorse. Ma il prezzo della lana è sceso, e per il quinto anno consecutivo. Le nostre entrate diminuiscono.» All'improvviso intervenne Philemon. «Dicono che i mercanti italiani adesso comprano la lana greggia in Spagna.» Philemon stava cambiando. Da quando aveva realizzato la sua ambizione ed era diventato novizio, non aveva più quell'aria da ragazzino goffo e la sua sicurezza era aumentata al punto di permettersi di intervenire in una conversazione tra priore e tesoriere, e dare magari un contributo interessante. «Può essere» disse Simeon. «Inoltre la fiera di quest'anno è andata peggio del solito perché siamo senza ponte, e di conseguenza abbiamo incassato molto meno in dazi e pedaggi.» «Però possediamo migliaia di acri di terreno coltivabile» obiettò Godwyn. «In questa parte del paese, dove si trova la maggior parte dei nostri ter-
reni, l'anno scorso il raccolto è stato scarso, dopo tutta quella pioggia. Molti dei nostri servi lottano per sopravvivere. È difficile costringerli a pagare l'affitto quando hanno fame.» «Devono pagare comunque» dichiarò Godwyn. «Anche i monaci hanno fame.» Philemon intervenne di nuovo. «Se il balivo di un villaggio dice che un servo non ha pagato l'affitto, o che un certo terreno non è occupato e pertanto nessun affitto è dovuto, in realtà non abbiamo modo di accertare se corrisponda al vero. I balivi possono farsi corrompere dai servi.» Godwyn si sentiva frustrato. Nel corso dell'anno precedente aveva già avuto numerose conversazioni come quella. Era stato ben deciso ad aumentare i controlli sulle finanze del priorato ma, ogni volta che cercava di cambiare le cose, trovava degli ostacoli. «Tu hai qualche suggerimento?» domandò irritato a Philemon. «Si potrebbe mandare un ispettore a fare il giro dei villaggi, ordinandogli di parlare con i balivi, di controllare i campi e di entrare nelle case dei servi che dicono di morire di fame.» «Se il balivo può essere corrotto, lo stesso vale per l'ispettore.» «Non se è un monaco. A noi cosa può servire il denaro?» Godwyn ripensò alla vecchia propensione al furto di Philemon. Era vero che i monaci non potevano spendere denaro personale, almeno in teoria, ma questo non significava che fossero incorruttibili. E tuttavia una visita dell'ispettore del priorato sarebbe certamente servita a mettere in riga i balivi. «È una buona idea» ammise. «Ti piacerebbe essere mio ispettore?» «Ne sarei onorato» rispose Philemon. «Allora è deciso.» Godwyn si rivolse di nuovo a Simeon: «Comunque sia, abbiamo lo stesso enormi entrate». «Ed enormi costi» ribatté Simeon. «Versiamo un sussidio al nostro vescovo. Diamo cibo, abiti e alloggio a venticinque monaci, sette novizi e diciannove pensionanti del priorato. Impieghiamo trenta persone come addetti alle pulizie, cuochi, mozzi di stalla e così via. Spendiamo una vera fortuna in candele. I sai dei monaci...» «Va bene, ho capito» lo interruppe Godwyn con impazienza. «Ma io voglio costruire lo stesso un palazzo.» «E dove troverai il denaro?» Godwyn sospirò. «Dove finiamo sempre per cercarlo: lo chiederò a madre Cecilia.» Le fece visita qualche minuto dopo. Di norma le avrebbe chiesto di an-
dare da lui, quale segno della superiorità maschile all'interno della chiesa, ma in quella particolare occasione ritenne fosse meglio tentare di blandirla. La casa della badessa era la copia esatta di quella del priore, ma l'atmosfera era diversa. C'erano cuscini e tappeti, fiori in una ciotola sul tavolo, quadri ricamati alle pareti con testi e storie della Bibbia e un gatto addormentato davanti al caminetto. Cecilia stava finendo di pranzare con agnello arrosto e vino rosso. Si coprì il viso con un velo all'arrivo di Godwyn, in obbedienza alla regola che il priore stesso aveva introdotto per le occasioni in cui i frati erano costretti a parlare con le suore. Velata o no, Godwyn trovava difficile capire Cecilia. La badessa aveva accettato formalmente la sua elezione a priore e si era adeguata senza proteste alle regole più severe relative alla separazione di frati e suore, sollevando solo occasionali osservazioni sulla gestione dell'ospitale. Non si era mai opposta a Godwyn, che tuttavia sentiva di non averla realmente al suo fianco. Gli sembrava di non essere più in grado di affascinarla. Da giovane era riuscito a farla ridere come una ragazzina. Ma adesso Cecilia non era più influenzabile... o forse Godwyn aveva perso il suo tocco magico. Era difficile scambiare chiacchiere di circostanza con una donna velata, così andò direttamente al punto. «Credo che dovremmo costruire due nuove case per ricevere gli ospiti nobili e di alto rango. Una per gli uomini e una per le donne. Si chiamerebbero casa del priore e casa della badessa, ma lo scopo essenziale sarebbe quello di ospitare i visitatori nello stile a cui sono abituati.» «È un'idea interessante» commentò Cecilia. Come sempre, era compiacente senza mostrarsi entusiasta. «Dovrebbero essere imponenti edifici di pietra» proseguì Godwyn. «Dopotutto, siete badessa da più di un decennio, e una delle monache più rispettate di tutto il regno.» «Gli ospiti devono restare colpiti non dalla nostra ricchezza, ma dalla santità del priorato e dalla devozione dei frati e delle suore» replicò Cecilia. «Certamente... ma gli edifici simboleggerebbero proprio questo, così come la cattedrale è simbolo della maestà di Dio.» «Dove penseresti di far costruire le nuove case?» "Bene" rifletté Godwyn: Cecilia stava già pensando ai dettagli. «Vicino a dove si trovano le attuali.» «Perciò la vostra sarà accanto all'estremità orientale della chiesa, vicino alla casa capitolare, e la mia quaggiù, accanto al vivaio dei pesci.»
A Godwyn passò per la mente che forse la monaca lo stava prendendo in giro. Non poteva vederne l'espressione. Imporre il velo alle donne presentava qualche svantaggio. «Forse voi preferireste una nuova ubicazione.» «Sì, forse.» Ci fu un breve silenzio. Godwyn aveva difficoltà ad affrontare l'argomento denaro. In futuro avrebbe cambiato la regola del velo, facendo magari un'eccezione per la badessa. Era troppo difficile negoziare in condizioni del genere. Fu costretto a buttarsi di nuovo. «Sfortunatamente non sarei in grado di contribuire ai costi di costruzione. Il monastero è molto povero.» «Ai costi della casa della badessa?» disse Cecilia. «Non l'avrei mai preteso.» «Ecco, in realtà parlavo dei costi della casa del priore.» «Oh. Quindi volete che le suore paghino la vostra nuova casa, oltre che la mia.» «Temo proprio di dovervelo chiedere. Spero che non vi dispiaccia.» «Be', se è per il prestigio del priorato di Kingsbridge...» «Sapevo che avreste capito.» «Vediamo... Al momento sto costruendo un nuovo chiostro per le suore, dato che non condividiamo più quello dei monaci.» Godwyn non fece commenti. Era irritato dal fatto che Cecilia avesse assunto Merthin per progettare il chiostro invece del meno costoso Elfric, il che costituiva un dispendioso spreco. Ma non era il momento di farglielo notare. Cecilia proseguì: «Una volta terminati i lavori al chiostro, dato che non possiamo più usare la vostra biblioteca, dovrò costruirne una nuova per le mie suore e acquistare qualche libro». Godwyn batteva il piede a terra con impazienza. La cosa gli sembrava irrilevante. «E poi avremo bisogno di un passaggio coperto per andare in chiesa, dato che adesso facciamo una strada diversa da quella dei monaci e non abbiamo alcuna protezione in caso di cattivo tempo.» «Molto ragionevole» osservò Godwyn, anche se in realtà avrebbe voluto dirle: "Smettila di tergiversare!". «Perciò» continuò Cecilia in tono conclusivo «credo che potremo esaminare la vostra proposta solo fra tre anni.» «Tre anni? Ma io voglio cominciare subito i lavori!» «Oh, non credo sia possibile prendere in considerazione l'idea adesso.»
«Perché no?» «Vedete, disponiamo di uno stanziamento preciso per le costruzioni.» «Ma il mio progetto non è più importante?» «Dobbiamo rispettare i limiti dello stanziamento.» «Perché?» «Per restare finanziariamente forti e indipendenti» rispose Cecilia, che poi aggiunse con intenzione: «Non mi piacerebbe dover andare a elemosinare soldi in giro». Godwyn non sapeva cosa ribattere. Ancora peggio, aveva la sgradevole sensazione che, dietro il velo, la badessa stesse ridendo di lui. Non sopportava di essere schernito. Si alzò in piedi di scatto. «Vi ringrazio, madre Cecilia» disse freddamente. «Ne riparleremo.» «Sì» confermò la monaca. «Fra tre anni. Non vedo l'ora.» Adesso Godwyn era sicuro che la suora stesse ridendo. Si voltò e se ne andò il più in fretta possibile. Rientrato nella sua casa, si lasciò cadere su una sedia, furioso. «Odio quella donna» disse a Philemon, che era ancora lì. «Ha detto di no?» «Ha detto che ci penserà fra tre anni.» «Questo è peggio di un no» osservò Philemon. «È un no lungo tre anni.» «Siamo in suo potere perché è lei ad avere i soldi.» «Io ascolto sempre le chiacchiere degli anziani.» Il commento di Philemon sembrava essere poco pertinente. «È sorprendente quante cose si imparino.» «Cosa intendi dire?» «In origine, quando il priorato costruì i mulini, effettuò gli scavi per i vivai dei pesci e recintò le conigliere, i priori imposero una legge in base alla quale gli abitanti della città avevano l'obbligo di servirsi delle strutture dei monaci e di pagarne l'utilizzo. La gente non aveva il permesso di macinare il grano per proprio conto o di follare il tessuto, né poteva possedere stagni per i pesci o conigliere... dovevano comprare tutto da noi. La legge assicurava che il priorato rientrasse dei costi.» «Ma poi la legge cadde in disuso?» «Cambiò. Il divieto fu annullato e alla gente venne consentito di possedere proprie strutture, purché pagasse una tassa. Ma poi anche questa disposizione è venuta meno, ai tempi del priore Anthony.» «Adesso in ogni casa c'è una macina a mano.» «E i pescivendoli hanno vivai, ci sono almeno cinque o sei conigliere e i
tintori follano i tessuti facendoli pestare da mogli e figli, invece di portarli alla gualchiera del priorato.» Godwyn era eccitato. «Se tutti pagassero una tassa per il privilegio di possedere strutture proprie...» «Sarebbe un mucchio di denaro.» «Strillerebbero come maiali.» Godwyn si accigliò. «Possiamo dimostrare quello che diciamo?» «C'è un mucchio di gente che ricorda ancora quelle tasse. Comunque la legge sarà di certo scritta da qualche parte nei documenti del priorato, probabilmente nel Libro di Timothy.» «Farai meglio a scoprire a quanto ammontavano esattamente quelle tasse. Se vogliamo basarci sui precedenti, dobbiamo citarli con precisione.» «Se posso dare un suggerimento...» «Naturalmente.» «Potresti annunciare il nuovo regime dal pulpito della cattedrale, domenica mattina. Servirebbe a enfatizzare che questo è il volere di Dio.» «Buona idea» disse Godwyn. «È esattamente quello che farò.» 33 «Ho trovato una soluzione» disse Caris a suo padre. Edmund si appoggiò allo schienale dell'alto scanno di legno a capotavola e accennò un sorriso. Caris conosceva quell'espressione: scettica, ma disponibile all'ascolto. «Dimmi» la incoraggiò il castaldo. La ragazza era un po' nervosa. Era sicura che la sua idea avrebbe funzionato, salvando i beni di suo padre e il ponte di Merthin, ma sarebbe riuscita a convincere il padre? «Facciamo tessere tutta la lana invenduta e coloriamo il tessuto» rispose semplicemente. Trattenne il fiato in attesa della reazione del padre. «I mercanti di lana ci provano spesso, quando i tempi sono difficili. Ma spiegami perché pensi che funzionerebbe. E quanto verrebbe a costare?» «Una volta che la lana sia stata lavata, filata e tessuta, quattro scellini al sacco.» «E quanto tessuto otterremmo?» «Un sacco di lana di bassa qualità che hai acquistato per trentasei scellini e fatto tessere per altri quattro darebbe quarantotto iarde di tessuto.» «Che tu venderesti a...?» «Non colorato, il tessuto grezzo si vende a uno scellino la iarda, perciò
quarantotto scellini... otto in più di quanto abbiamo speso.» «Non è molto, considerando tutto il lavoro che dovremmo fare.» «Ma questa non è la parte migliore.» «Continua.» «I tessitori vendono il burel perché hanno fretta di incassare. Ma se noi investiamo altri venti scellini per follare il tessuto, rendendolo più spesso, e poi lo coloriamo e lo rifiniamo, possiamo chiedere il doppio: due scellini la iarda, novantasei scellini per tutto il lotto... trentasei scellini più di quanto abbiamo speso!» Edmund sembrava dubbioso. «Se è così facile, perché non sono di più i mercanti che lo fanno?» «Perché non hanno il denaro per le spese.» «Neppure io!» «Puoi usare le tre sterline che ti ha pagato Guillaume di Londra.» «Per poi non avere più niente con cui comprare la lana l'anno prossimo?» «A questi prezzi è meglio chiudere bottega.» Edmund rise. «Per tutti i santi, hai ragione. Va bene, fai pure un tentativo con un po' di lana a buon mercato. Ho cinque sacchi di lana greggia del Devon che gli italiani non compreranno mai. Prendi un sacco di quella roba e vediamo se riesci a fare quello che dici.» Due settimane dopo, Caris si imbatté in Mark il tessitore che stava facendo a pezzi la sua macina a mano. Rimase enormemente sorpresa nel vedere un povero che distruggeva un attrezzo prezioso... così sorpresa che per un momento dimenticò i suoi guai personali. La macina a mano consisteva in due dischi di pietra, ognuno dei quali aveva una faccia leggermente ruvida. Il disco più piccolo veniva posto sopra il più grande, adattandosi perfettamente a un incavo poco profondo, lato ruvido contro lato ruvido. Un manico di legno consentiva di far girare la pietra più piccola, mentre quella sotto restava immobile. I chicchi di grano posti fra le due pietre venivano rapidamente macinati e ridotti in farina. Quasi tutti gli abitanti di Kingsbridge che appartenevano alle classi sociali più basse possedevano una macina a mano. I poverissimi non potevano permettersela e i ricchi non ne avevano bisogno, dato che potevano acquistare la farina già macinata direttamente dal mugnaio. Ma per famiglie come quella del tessitore, che avevano bisogno di ogni penny che riusciva-
no a guadagnare per dare da mangiare ai figli, una macina a mano era un dono di Dio per risparmiare denaro. Mark aveva piazzato la sua macina per terra, davanti alla piccola casa. Da qualche parte aveva preso in prestito un martello da fabbro dal manico lungo e la testa di ferro. Due dei suoi figli assistevano alla scena: una ragazzina magra con una veste stracciata e un bambino piccolo nudo. Mark sollevò il martello sopra la testa e poi lo calò con un ampio movimento ad arco. Era uno spettacolo da vedere: il tessitore era l'uomo più robusto di Kingsbridge, con le spalle muscolose quanto quelle di un cavallo da tiro. La pietra si sbriciolò come un guscio d'uovo e cadde in frantumi. «Ma cosa stai facendo?» gli chiese Caris. «Dobbiamo macinare il grano al mulino ad acqua del priorato e lasciare un sacco ogni ventiquattro come pagamento» rispose Mark. Sembrava calmo e imperturbabile, ma Caris era inorridita. «Pensavo che le nuove regole si applicassero soltanto ai mulini a vento e ad acqua non autorizzati.» «Domani dovrò fare il giro delle case con John il conestabile, perquisire le abitazioni e rompere le macine a mano illegali. Non voglio che qualcuno possa dire che mi sono tenuto la mia. Ecco perché l'ho distrutta in strada, dove tutti mi possono vedere.» «Non avevo capito che Godwyn intendesse togliere ai poveri il pane di bocca» commentò seria Caris. «Per fortuna noi abbiamo un po' di lavoro di tessitura da fare... grazie a te.» Caris riportò l'attenzione sulle questioni d'affari. «Come sta andando?» «Ho finito.» «Hai fatto in fretta!» «In inverno ci vuole più tempo, ma in estate, con sedici ore di luce, con l'aiuto di Madge posso tessere sei iarde al giorno.» «Stupendo!» «Vieni dentro, così ti faccio vedere.» La moglie di Mark, Madge, era in fondo all'unica stanza della casa, davanti al focolare, con un bimbo piccolo in braccio e un ragazzino timido di fianco. Era più bassa di suo marito di oltre un piede, ma aveva una struttura massiccia. Con il suo busto imponente e il didietro sporgente, a Caris faceva pensare a un piccione impettito. La mascella squadrata le dava un'aria aggressiva, impressione non del tutto fuorviante. Pur essendo una donna combattiva, aveva buon cuore e a Caris piaceva. Madge le offrì una taz-
za di sidro, ma la ragazza rifiutò, sapendo che la famiglia non poteva permetterselo. Il telaio di Mark era una struttura di legno che occupava più di una iarda quadrata, in pratica quasi tutto lo spazio disponibile. Dietro il telaio, vicino alla porta sul retro, c'erano un tavolo e due panche. Evidentemente tutta la famiglia dormiva sul pavimento, intorno al telaio. «Io faccio solo pezze basse da dodici» spiegò Mark. «Vale a dire pezze larghe una iarda e lunghe dodici. Non posso tessere a doppia altezza perché non ho spazio sufficiente per un telaio così grande.» C'erano quattro rotoli di burel appoggiati contro la parete. «Da un sacco di lana si ricavano quattro pezze da dodici.» Caris gli aveva consegnato la lana greggia in un sacco standard. Madge si era occupata di organizzare il lavaggio, la cernita e la filatura. Quest'ultima veniva eseguita dalle donne più povere della città, il lavaggio e la cernita erano compito dei loro bambini. Caris tastò il tessuto. Era eccitata: aveva portato a termine la prima fase del suo piano. «Come mai la trama è così larga?» domandò. Mark si inalberò. «Larga? Il mio tessuto ha la trama più fitta di tutta Kingsbridge!» «Lo so, non volevo criticarti. Ma al tatto il tessuto italiano è così diverso... eppure lo fanno con la nostra lana.» «In parte dipende dalla forza del tessitore, dall'energia con cui riesce ad abbassare la cassa battente per compattare la lana.» «Non credo che i tessitori italiani siano tutti più forti di te.» «Allora sono le loro macchine. Migliore è il telaio, più fitta è la tessitura.» «È quello che temevo.» L'implicazione era che Caris non poteva competere con la lana italiana di alta qualità, a meno che non comprasse telai italiani, e questo era impossibile. "Un problema alla volta" si disse. Pagò quattro scellini a Mark, il quale ne avrebbe dati circa la metà alle filatrici. In teoria, Caris aveva realizzato un profitto di otto scellini, che non avrebbero finanziato molti lavori al ponte. E a quel ritmo ci sarebbero voluti anni per tessere tutta la lana eccedente di suo padre. «C'è modo di produrre tessuto più rapidamente?» domandò a Mark. Fu Madge a rispondere. «Ci sono altri tessitori a Kingsbridge, ma quasi tutti sono impegnati con i mercanti di tessuti già in attività. Però posso trovarne qualcuno fuori città. I villaggi più grandi hanno spesso un tessitore
con un telaio di proprietà; di solito tesse il filato dei compaesani. È facile che gente del genere accetti un altro lavoro, se il guadagno è buono.» Caris cercò di nascondere la propria ansia. «Va bene, vi farò sapere. Nel frattempo potreste consegnare queste pezze a Peter il tintore?» «Naturalmente. Le porterò subito.» Caris si avviò verso casa per la cena, assorta nei suoi pensieri. Per ottenere un risultato tangibile, avrebbe dovuto spendere la maggior parte del denaro rimasto a suo padre. Se le cose fossero andate male, si sarebbero trovati in una situazione ancora peggiore. Ma qual era l'alternativa? Il suo piano comportava dei rischi, tuttavia nessun altro sembrava averne uno. Arrivò a casa mentre Petranilla stava servendo stufato di montone. Edmund sedeva a capotavola. Il rovescio finanziario della fiera sembrava averlo colpito più seriamente di quanto Caris si sarebbe mai aspettata. L'abituale esuberanza di suo padre era molto scemata e il castaldo sembrava spesso perso nei suoi pensieri, per non dire assente. Caris era preoccupata per lui. «Ho visto Mark il tessitore fare a pezzi la sua macina a mano» annunciò, mettendosi a sedere. «Che senso ha?» Petranilla puntò il naso in aria. «Godwyn sta solo esercitando i suoi diritti» dichiarò. «Quelle disposizioni sono cadute in disuso, ormai, e non vengono più applicate da anni. In quale altro luogo un priore fa cose simili?» «A St Albans» rispose Petranilla trionfante. «Ho sentito di St Albans» disse Edmund. «Gli abitanti della città si sollevano periodicamente contro il monastero.» «Il priorato di Kingsbridge ha il diritto di recuperare il denaro speso per costruire i mulini» argomentò Petranilla. «Esattamente come tu, Edmund, vuoi riavere il denaro che hai investito nel ponte. Come ti sentiresti, se qualcuno costruisse un secondo ponte?» Edmund non rispose, così lo fece Caris al posto suo. «Dipenderebbe da quando fosse costruito. I mulini del priorato risalgono a centinaia di anni fa, così come le conigliere e i vivai dei pesci. Nessuno può ostacolare lo sviluppo della città per sempre.» «Il priore ha il diritto di incassare quanto gli è dovuto» insistette Petranilla, caparbia. «Be', se continua così, non avrà più nessuno da cui incassare. La gente si trasferirà a Shiring, dove le macine a mano sono permesse.» «Ma non capisci che le necessità del priorato sono sacre?» disse Petra-
nilla, arrabbiata. «I monaci servono Dio! A paragone di questo, la vita della gente comune è insignificante.» «È questo che crede tuo figlio Godwyn?» «Naturalmente.» «Era ciò che temevo.» «Tu non ritieni che l'opera del priore sia sacra?» A questo Caris non aveva risposta, così si limitò a stringersi nelle spalle, mentre Petranilla la guardava trionfante. Il cibo era buono, ma Caris era troppo nervosa per mangiare. Non appena gli altri ebbero finito, disse: «Devo andare a parlare con Peter il tintore». «Hai intenzione di spendere altri soldi?» protestò Petranilla. «Hai già dato quattro scellini di tuo padre a Mark il tessitore.» «Sì... e il tessuto vale dodici scellini più di quanto valeva la lana, perciò ho guadagnato otto scellini.» «No, non è così» puntualizzò Petranilla. «Quel tessuto non l'hai ancora venduto.» Petranilla esprimeva un dubbio che, nei momenti di peggior pessimismo, condivideva anche Caris, la quale tuttavia era decisa a negarlo persino a se stessa. «Lo venderò... specialmente se sarà rosso.» «E quanto ti chiederà Peter per tingere e follare quattro pezze da dodici?» «Venti scellini... ma il tessuto rosso varrà il doppio del burel. Così guadagneremo altri ventotto scellini.» «Sempre se lo venderai. E se non ci riesci?» «Lo venderò.» «Lasciala stare» intervenne Edmund, rivolgendosi a Petranilla. «Le ho detto che può fare un tentativo.» Il castello di Shiring, che si ergeva in cima a una collina, era la sede dello sceriffo della contea. Ai piedi della collina c'era il patibolo. Ogni qual volta si doveva eseguire un'impiccagione, il prigioniero veniva trasportato fin lì dal castello a bordo di un carro per essere giustiziato davanti alla chiesa. La piazza del patibolo era anche il luogo in cui si teneva il mercato. Era lì che si svolgeva la fiera di Shiring, tra il Palazzo delle corporazioni e una grande costruzione in legno nota come Loggia dei lanaioli. Intorno alla piazza si affacciavano numerose taverne e anche il Palazzo vescovile. Quell'anno, a causa dei problemi di Kingsbridge, c'erano più banchi che
mai e la fiera si riversava anche nelle strade adiacenti alla piazza del mercato. Con dieci carri, Edmund aveva portato quaranta sacchi di lana e, se necessario, avrebbe potuto farne arrivare altri da Kingsbridge prima della fine della settimana. Ma, con sgomento di Caris, non fu necessario. Edmund vendette dieci sacchi il primo giorno, poi più nulla fino al termine della fiera, quando ne vendette altri dieci a meno di quanto li aveva pagati. Caris non ricordava di avere mai visto suo padre così abbattuto. La giovane aveva sistemato le sue quattro pezze di tessuto marrone rossiccio sul banco del padre e nel corso della settimana, iarda dopo iarda, ne aveva vendute tre. «Guardala così» gli disse l'ultimo giorno di fiera. «Prima avevi un sacco di lana invendibile e quattro scellini. Adesso hai trentasei scellini e una pezza di tessuto.» Ma quell'allegria era solo a beneficio del padre. La ragazza era profondamente avvilita. Si era vantata con spavalderia di poter vendere il suo tessuto. Il risultato non era un completo fallimento, ma neppure un trionfo. Se non era in grado di piazzare il tessuto a un prezzo maggiore del costo, allora non aveva trovato la soluzione al problema. Che cosa doveva fare? Si allontanò dal banco per andare a studiare le merci degli altri venditori. Il tessuto migliore arrivava dall'Italia, come sempre. Caris si fermò al banco di Paolo Fiorentino. Mercanti di tessuti come Paolo non acquistavano lana, sebbene lavorassero spesso in stretto contatto con i compratori. Caris sapeva che il commerciante italiano consegnava quanto guadagnava in Inghilterra a Buonaventura, il quale usava quel denaro per pagare la lana greggia ai commercianti inglesi. Poi, quando la lana arrivava a Firenze, la famiglia di Buonaventura la vendeva e con i profitti ripagava la famiglia di Paolo. Grazie a quel sistema, tutti loro evitavano i rischi di trasportare barili di monete d'oro e d'argento attraverso l'Europa. Paolo aveva sul banco solo due rotoli di tessuto, ma i colori erano molto più brillanti di quelli che erano in grado di realizzare i tintori locali. «Avete portato alla fiera solo questo?» gli chiese Caris. «Naturalmente no. Il resto l'ho venduto.» Caris ne fu sorpresa. «Per tutti gli altri la fiera sta andando male.» Paolo si strinse nelle spalle. «Il tessuto di alta qualità si vende sempre.» Nella mente di Caris andava formandosi un'idea. «Quanto costa il tessuto scarlatto?» «Solo sette scellini la iarda, signora.» Era sette volte il prezzo del burel. «Ma chi se lo può permettere?»
«Il vescovo ha acquistato molto del mio rosso, lady Philippa un tessuto azzurro e verde, poi hanno comprato le figlie di alcuni distillatori e fornai della città, e certi signori dei villaggi vicini. Anche in tempi difficili, qualcuno che prospera c'è sempre. Questo vermiglio starebbe benissimo su di voi.» Con un movimento rapido, l'italiano srotolò la pezza e ne drappeggiò una parte sulla spalla di Caris. «Meravigliosa. Vi stanno già guardando tutti.» La giovane sorrise. «Adesso capisco come fate a vendere tanto.» Tastò il tessuto. La trama era fitta. Caris possedeva un mantello di stoffa italiana scarlatta che aveva ereditato da sua madre. Era il suo capo preferito. «Che cosa usano i tintori per ottenere questo rosso?» «Robbia, come tutti.» «Ma come fanno a renderlo così brillante?» «Non è un segreto: l'allume. Ravviva il colore e lo fissa in modo che non sbiadisca. Un mantello di questa tinta su di voi sarebbe stupendo. Una gioia perenne.» «Allume» ripeté Caris. «Perché i tintori inglesi non lo adoperano?» «È molto costoso, viene dalla Turchia. Lussi del genere sono solo per donne speciali.» «E l'azzurro?» «Come i vostri occhi.» Gli occhi di Caris erano verdi, ma lei non lo corresse. «È un colore così intenso.» «I tintori inglesi usano il guado, ma noi adoperiamo l'indaco che viene dal Bengala. I commercianti moreschi lo portano in Egitto dall'India e i nostri mercanti italiani lo acquistano ad Alessandria.» Paolo sorrise. «Pensate quanta strada ha fatto... per ornare la vostra incredibile bellezza.» «Sì» disse Caris. «Incredibile.» La bottega lungo il fiume di Peter il tintore era una costruzione grande quanto la casa di Edmund, ma era in pietra e all'interno non aveva pareti né pavimenti: era solo un guscio. Sopra due grandi fuochi bollivano altrettanti calderoni di ferro, accanto a ognuno dei quali c'era un argano, come quelli impiegati da Merthin per i suoi lavori di costruzione. Gli argani venivano usati per sollevare enormi sacchi di lana o tessuto e calarli nei paioli. I pavimenti erano sempre bagnati e l'aria era densa di vapore. Gli apprendisti, che a causa dell'intenso calore lavoravano in mutandoni e a piedi nudi, avevano il viso bagnato di sudore e i capelli luccicanti di umidità. Nel loca-
le c'era un odore acre che prese Caris alla gola. La giovane mostrò a Peter la pezza di tessuto invenduto. «Voglio lo scarlatto brillante degli italiani. È il colore che si vende meglio.» Peter era un uomo lugubre che aveva sempre un'aria offesa, qualunque cosa gli venisse detta. Annuì tetro, come accettando una critica fondata. «Lo coloreremo di nuovo con la robbia.» «E con l'allume, per fissare il colore e renderlo più brillante.» «Noi non usiamo l'allume. Mai adoperato. E non conosco nessuno che lo usi.» Caris imprecò dentro di sé. Non aveva pensato a verificare quel particolare. Aveva dato per scontato che un tintore sapesse tutto di coloranti. «Non puoi provarci?» «Non ho allume.» Caris sospirò. Peter sembrava essere uno di quegli artigiani per i quali tutto è impossibile, a meno che non sia già stato fatto in precedenza. «E se riuscissi a trovartene?» «Dove?» «A Winchester, forse. Oppure a Londra. O magari a Melcombe.» A Melcombe, il porto più importante della zona, attraccavano navi provenienti da tutta Europa. «Se anche avessi dell'allume, non saprei come usarlo.» «Non puoi scoprirlo?» «E da chi?» «Allora cercherò di scoprire qualcosa io.» Peter scosse la testa con pessimismo. «Non so proprio...» Caris non voleva litigare con lui: era l'unico tintore su larga scala della città. «Ne riparleremo quando sarà il momento» disse in tono conciliatorio. «Adesso non voglio rubarti altro tempo. Prima di tutto devo vedere se riesco a trovare un po' di allume.» Caris se ne andò. Chi in città poteva sapere qualcosa dell'allume? Si pentì di non avere chiesto maggiori dettagli a Paolo Fiorentino. I monaci quasi certamente erano a conoscenza di questioni del genere, ma non avevano più il permesso di parlare con le donne. Caris decise di andare a parlare con Mattie la guaritrice. Lei non faceva altro che mescolare strani ingredienti: magari l'allume era uno di quelli. Cosa ancora più importante, se Mattie non avesse saputo risponderle, avrebbe ammesso la propria ignoranza, a differenza di un monaco o di un farmacista che con ogni probabilità si sarebbero inventati qualcosa pur di non passare da incompetenti.
Le prime parole di Mattie furono: «Come sta tuo padre?». «Mi pare un po' scosso per il fallimento alla fiera della lana» rispose Caris. Era tipico di Mattie capire sempre cosa la preoccupava. «Sta diventando distratto. Sembra invecchiato.» «Prenditi cura di lui. È un brav'uomo.» «Lo so.» Caris non era sicura di cosa intendesse Mattie. «Petranilla è una vacca egocentrica.» «So anche questo.» Mattie stava triturando qualcosa in un mortaio con un pestello. Spinse il tutto verso Caris. «Se ci pensi tu, ti verso una coppa di vino.» «Grazie.» Caris cominciò a pestare. Da una caraffa di pietra, Mattie versò un po' di vino bianco in due coppe di legno. «Come mai sei qui? Non sei ammalata.» «Tu sai cos'è l'allume?» «Sì. In piccole quantità, lo usiamo come astringente per far rimarginare le ferite. Serve anche per fermare la diarrea. Ma in grosse quantità è velenoso e, come la maggior parte dei veleni, fa vomitare. C'era un po' di allume nella pozione che ti ho dato l'anno scorso.» «Che cos'è, un'erba?» «No, è un sale minerale. I mori lo estraggono in Turchia e in Africa. I conciatori a volte lo usano per la preparazione delle pelli. Immagino che tu voglia adoperarlo per tingere i tessuti.» «Sì.» Come sempre, le ipotesi di Mattie risultavano esatte, quasi lei avesse poteri soprannaturali. «Agisce come mordente, aiuta il colore a penetrare nella lana.» «Tu dove lo compri?» «A Melcombe» rispose Mattie. Accompagnata da un dipendente di suo padre in veste di guardia del corpo, Caris fece il viaggio di due giorni fino a Melcombe, dove si era già recata molte volte in precedenza. Al porto trovò un mercante che trattava spezie, gabbie per uccelli, strumenti musicali e curiosità di ogni tipo provenienti da remote parti del mondo. L'uomo le vendette sia la tintura rossa ottenuta dalla radice della robbia, coltivata in Francia, sia un tipo di allume noto come spiralum che, le disse, proveniva dall'Etiopia. Le chiese sette scellini per un piccolo barilotto di robbia e una sterlina per un sacco di allume. Caris non aveva idea se stesse pagando un prezzo equo o no. Il mercante le vendette tutta la sua scorta, promettendo che si sarebbe rifornito
dalla prima nave italiana che fosse giunta in porto. Caris gli domandò che quantità di tintura e di allume avrebbe dovuto impiegare, ma l'uomo non glielo seppe dire. Rientrata a casa, cominciò a tingere campioni del suo tessuto invenduto in una pentola. Petranilla protestò per il cattivo odore, così Caris accese un falò nel cortile sul retro. Sapeva di dovere immergere il tessuto in una soluzione di tintura e poi lasciarlo bollire. Peter il tintore le aveva spiegato la corretta composizione della soluzione colorante. Nessuno però sapeva quanto allume servisse e tanto meno come impiegarlo. Caris cominciò una frustrante serie di tentativi e fallimenti. Immerse il tessuto nell'allume prima di tingerlo; versò l'allume contemporaneamente alla tintura; fece bollire il tessuto colorato in una soluzione di allume. Provò a usare allume e tintura nelle medesime quantità, poi aumentò la dose di allume, quindi la diminuì. Dietro suggerimento di Mattie, fece esperimenti aggiungendo altri ingredienti: galle di quercia, gesso, acqua di calce, aceto, urina. Aveva poco tempo. In tutte le città, il tessuto poteva essere venduto solo dai membri della corporazione, tranne che in occasione delle fiere, durante le quali le normali regole venivano allentate. E tutte le fiere si tenevano in estate. L'ultima in programma era quella di Sant'Egidio, che si sarebbe svolta nelle colline a est di Winchester il 12 settembre. Era già metà luglio e quindi Caris non aveva a disposizione che otto settimane. Cominciava a lavorare la mattina presto e proseguiva anche dopo che si era fatto buio. Agitare continuamente il tessuto e sollevarlo dentro e fuori il pentolone le aveva fatto venire il mal di schiena. Le mani erano doloranti e arrossate per le costanti immersioni nei prodotti coloranti, i capelli cominciavano a puzzare. Tuttavia, nonostante la frustrazione, Caris ogni tanto si sentiva felice e a volte mentre lavorava canticchiava a bocca chiusa, o addirittura a piena voce, vecchi motivi di cui ricordava a malapena le parole dall'infanzia. Nei loro cortili, i vicini la osservavano curiosi al di sopra degli steccati. Ogni tanto le passava per la mente un pensiero: "Sarà questo il mio destino?". Più di una volta aveva ammesso di non sapere che cosa fare della propria vita. Ma forse non avrebbe mai avuto la possibilità di una libera scelta. Non le avrebbero mai permesso di diventare medico, fare il mercante di lana le sembrava una pessima idea e non voleva trasformarsi nella schiava di un marito e dei figli... ma non aveva mai immaginato di poter diventare un tintore. Quando ci rifletteva si rendeva conto che in realtà non
era ciò che desiderava fare. Avendo cominciato, era decisa a concludere l'operazione con un successo, ma non sarebbe stato quello il suo destino. All'inizio riuscì soltanto a dare al tessuto un colore marrone rossiccio o rosa pallido. Quando cominciò ad avvicinarsi alla giusta tonalità di scarlatto, si infuriò scoprendo che il colore sbiadiva non appena metteva il tessuto ad asciugare al sole o lo lavava. Provò a tingerlo due volte, ma l'effetto risultò essere solo temporaneo. Peter le disse, piuttosto in ritardo, che il materiale avrebbe assorbito meglio la tintura se lei avesse lavorato il filato prima della tessitura, o addirittura se avesse tinto la lana greggia; questo migliorava il colore, ma non la sua resistenza ai lavaggi. «L'arte di tingere i tessuti si può imparare solo da un maestro» le ripeté Peter più e più volte. Caris si rendeva conto che la pensavano tutti così. Il priore Godwyn aveva appreso le nozioni di medicina leggendo libri vecchi di centinaia di anni e prescriveva rimedi senza neppure visitare i pazienti. Elfric aveva punito Merthin perché aveva scolpito la parabola delle vergini in un modo nuovo. Peter non aveva mai neppure pensato a un tessuto scarlatto. Solo Mattie basava le proprie decisioni su ciò che poteva constatare da sé, piuttosto che su una qualche autorità consacrata. Una sera tardi, Alice si mise a guardare sua sorella Caris a braccia conserte e con espressione imbronciata. Mentre il buio si addensava negli angoli del cortile, la luce del falò di Caris colorava di rosso la disapprovazione sul viso di Alice. «Quanto denaro di nostro padre hai già speso per questa follia?» domandò. Caris fece la somma. «Sette scellini per la robbia, una sterlina per l'allume, dodici scellini per il tessuto... trentanove scellini.» «Che Dio ci salvi!» Alice era inorridita. Caris stessa era sgomenta. Trentanove scellini erano più di un anno di salario della maggior parte degli abitanti di Kingsbridge. «È molto, ma guadagnerò di più.» Alice era arrabbiata. «Non hai il diritto di spendere in questo modo i soldi di nostro padre.» «Non ho il diritto? Ho il suo permesso, di cos'altro avrei bisogno?» «Papà sta mostrando i segni dell'età. Il suo giudizio non è più quello di una volta.» Caris finse di non saperlo. «Il suo giudizio è eccellente e molto migliore del tuo.» «Tu stai spendendo la nostra eredità!»
«È questo che ti tormenta? Non preoccuparti, recupererò i tuoi soldi.» «Io non voglio correre il rischio.» «Non sei tu che corri il rischio, è nostro padre.» «Non è giusto che lui butti via i soldi che dovrebbe lasciare a noi!» «Allora diglielo.» Alice si allontanò sconfitta, ma Caris non era sicura di sé come aveva finto di essere. Forse non sarebbe mai riuscita a ottenere il colore giusto. E allora cosa avrebbero fatto lei e suo padre? Quando finalmente trovò la formula esatta, scoprì che era molto semplice: un'oncia di robbia e due once di allume per ogni tre once di lana. Prima fece bollire la lana nell'allume, poi versò la robbia nel pentolone, e lo tolse dal fuoco prima che il liquido raggiungesse di nuovo l'ebollizione. L'ingrediente extra era l'acqua di calce. Caris non riuscì quasi a credere al risultato che aveva raggiunto: era migliore di quanto avesse sperato. Il rosso era brillante, quasi quanto quello italiano. Però aveva la certezza che il colore sarebbe sbiadito, dandole un'altra delusione, e invece rimase inalterato anche durante i processi di asciugatura, rilavaggio e follatura. La giovane comunicò la formula a Peter, il quale, sotto la sua attenta supervisione, usò tutto l'allume rimasto per tingere dodici iarde del miglior tessuto in uno dei suoi giganteschi calderoni. Una volta che il tessuto fu follato, Caris pagò un finitore perché sollevasse i fili sciolti con un garzo, cioè la testa piena di aculei di un cardo selvatico, ed eliminasse le piccole imperfezioni. Andò alla fiera di Sant'Egidio con una pezza di perfetto tessuto rosso brillante. Mentre stava ancora srotolandolo, si sentì rivolgere la parola da un uomo con l'accento londinese. «Quanto costa?» Caris lo guardò. I suoi abiti erano eleganti senza essere troppo appariscenti e lei capì che doveva essere ricco, ma non nobile. Cercando di controllare il tremito nella voce, rispose: «Sette scellini la iarda. È il miglior...». «No, intendevo quanto per tutta la pezza.» «Sono dodici iarde, perciò sarebbero ottantaquattro scellini.» L'uomo tastò il tessuto fra l'indice e il pollice. «La trama non è fitta come quella italiana, ma non è male. Vi darò ventisette fiorini d'oro.» La moneta d'oro di Firenze era d'uso comune perché l'Inghilterra non aveva ancora una propria valuta aurea. Il fiorino valeva circa tre scellini, trentasei penny inglesi d'argento. Il londinese proponeva di acquistare tutto
il tessuto per soli tre scellini in meno di quanto Caris avrebbe guadagnato vendendolo una iarda alla volta. Caris però intuiva che l'uomo non era realmente intenzionato a mercanteggiare, altrimenti sarebbe partito da un'offerta più bassa. «No» rispose, meravigliata dalla sua stessa temerarietà. «Voglio il prezzo pieno.» «Va bene» disse immediatamente l'uomo di Londra, confermando l'istinto della giovane, che lo guardò eccitata mentre estraeva il borsellino. Un momento dopo Caris aveva in mano ventotto fiorini d'oro. Ne esaminò attentamente uno. Era un po' più grande di un penny d'argento. Su una faccia era raffigurato san Giovanni Battista, il santo patrono di Firenze, e sull'altra c'era il giglio fiorentino. Caris mise la moneta su una bilancia per confrontare il peso con quello di un fiorino nuovo di zecca che suo padre conservava proprio a quello scopo. Era buona. «Vi ringrazio» disse, quasi incredula del suo successo. «Sono Harry Mercer di Cheapside, Londra» disse l'uomo. «Mio padre è il più importante mercante di tessuti d'Inghilterra. Quando avrete altro tessuto scarlatto come questo, venite a Londra. Vi compreremo tutto quello che riuscirete a portarci.» «Tessiamo tutto!» disse Caris a suo padre appena rientrò a casa. «Ti restano ancora quaranta sacchi di lana. La trasformeremo tutta in tessuto rosso.» «È un'impresa impegnativa» osservò Edmund, pensoso. Caris era certa che il suo piano avrebbe funzionato. «Ci sono moltissimi tessitori e sono tutti poveri. E Peter non è l'unico tintore di Kingsbridge, possiamo insegnare ad altri come usare l'allume.» «Una volta che il segreto non sarà più tale, altri ti copieranno.» Caris sapeva che suo padre aveva ragione, ma si sentiva comunque impaziente. «Che copino pure. Potranno guadagnare anche loro.» Edmund non era disposto a cedere alle pressioni di nessuno. «Il prezzo scenderà, se ci sarà molto tessuto in vendita.» «Dovrà scendere parecchio prima che l'affare non sia più remunerativo.» Edmund annuì. «È vero. Ma riuscirai a vendere tutto quel tessuto a Kingsbridge e a Shiring? Non ci sono poi così tanti ricchi.» «Allora lo porterò a Londra.» «Bene.» Edmund sorrise. «Sei talmente decisa. Il tuo è un buon piano... ma se anche non lo fosse, probabilmente lo faresti funzionare lo stesso.» Caris andò immediatamente a casa di Mark il tessitore, al quale diede di-
sposizioni perché cominciasse a lavorare un altro sacco di lana. Si accordò anche con Madge perché prendesse un carro e un bue di proprietà di Edmund e, con quattro sacchi di lana, andasse nei villaggi vicini in cerca di altri tessitori. Ma gli altri componenti della famiglia di Caris non erano contenti. Il giorno seguente, mentre tutti si sedevano a tavola per pranzo, Petranilla disse a Edmund: «Alice e io riteniamo che dovresti ripensare al tuo progetto del tessuto». Caris avrebbe voluto che suo padre rispondesse che la decisione era già stata presa e che ormai era troppo tardi per tornare indietro. Edmund invece domandò in tono blando: «Davvero? Spiegami perché». «Stai rischiando ogni tuo penny, ecco perché!» «La maggior parte del mio denaro è già a rischio» le fece notare Edmund. «Ho un magazzino pieno di lana che non riesco a vendere.» «Ma potresti peggiorare una situazione già difficile.» «Ho deciso di correre il rischio.» «Non è giusto nei miei confronti!» sbottò Alice. «E perché no?» «Caris sta spendendo la mia eredità!» Il viso di Edmund si rabbuiò. «Non sono ancora morto.» Petranilla serrò le labbra, riconoscendo la sfumatura di irritazione nella voce bassa di Edmund, ma Alice non si rese conto di quanto suo padre fosse arrabbiato e insistette: «Dobbiamo pensare al futuro. Perché a Caris dovrebbe essere consentito spendere ciò che mi spetta per nascita?». «Perché non è ancora tuo, e forse non lo sarà mai.» «Non puoi buttare via denaro che dovrebbe venire a me.» «Non permetto che mi si dica cosa devo fare con i miei soldi, e specialmente che me lo dicano le mie figlie.» La voce di Edmund era così piena di rabbia che se ne accorse perfino Alice. Con più calma, la giovane corresse il tiro: «Non intendevo irritarti». Il padre emise una specie di grugnito. Non era granché come richiesta di scuse, ma Edmund non era tipo da restare a lungo di cattivo umore. «Mangiamo e non parliamone più» concluse. E Caris capì che il suo progetto era sopravvissuto per un altro giorno. Dopo pranzo Caris andò a parlare con Peter il tintore per avvertirlo della grande quantità di lavoro che stava per arrivargli. «Non si può fare» dichiarò l'uomo. La frase colse Caris di sorpresa. Peter aveva sempre un'aria scontrosa,
ma di solito faceva ciò che lei gli chiedeva. «Non preoccuparti» gli disse. «Non dovrai tingere tu tutta la lana. Affiderò parte del lavoro ad altri.» «Non è questione della tintura. È la follatura.» «Perché?» «Non abbiamo il permesso di follare il tessuto per conto nostro. Il priore Godwyn ha emesso un nuovo editto: dobbiamo usare la gualchiera del mulino del priorato.» «Be', allora useremo quella.» «È troppo lenta. Il meccanismo ormai è vecchio e non fa che rompersi. Dato che è stato riparato parecchie volte, il legno un po' è vecchio e un po' è nuovo, perciò non funziona mai bene. Non è più veloce di un uomo che pesti il tessuto in un bagno d'acqua. E c'è solo una gualchiera: riuscirà a malapena a fare il normale lavoro dei tessitori e dei tintori di Kingsbridge.» C'era da impazzire. Di certo il progetto non sarebbe fallito a causa di una stupida regola imposta dal cugino Godwyn. Indignata, Caris disse: «Ma se la gualchiera non è in grado di fare tutto il lavoro, il priore deve permetterci di pestare il tessuto con i piedi!». Peter si strinse nelle spalle. «Vaglielo a dire.» «Lo farò!» Caris si avviò decisa verso il priorato ma, prima di arrivarci, ci ripensò. La sala della casa del priore veniva usata per incontrare i cittadini, ma sarebbe stato insolito che una donna vi entrasse da sola, senza appuntamento, e Godwyn stava diventando sempre più suscettibile riguardo a questioni del genere. Forse un confronto diretto non era il modo migliore per fargli cambiare idea. Caris si rese conto che avrebbe fatto meglio a riflettere con calma. Tornò a casa e si sedette nella saletta con suo padre. «Il giovane Godwyn si sta muovendo su un terreno molto pericoloso» disse Edmund. «Non si è mai pagato per usare la gualchiera. Secondo la leggenda, venne creata da un abitante di questa città, Jack il costruttore, per il grande priore Philip. E quando Jack morì, Philip concesse alla città il diritto di usare il mulino in perpetuo.» «Perché la gente smise di servirsene?» «Cadde in rovina, e penso ci siano state discussioni a proposito di chi doveva pagarne la manutenzione. La questione non venne mai risolta e la gente ricominciò a follare da sé i tessuti.» «Quindi Godwyn non ha alcun diritto di chiedere un pagamento o di costringere la gente a usare la sua gualchiera.»
«No, infatti.» Edmund mandò un messaggio al priorato, chiedendo quando Godwyn sarebbe stato disponibile a riceverlo. La risposta arrivò immediatamente: poteva andare subito, così Edmund e Caris attraversarono la strada e si diressero alla casa del priore. Godwyn in un anno era cambiato molto, pensò Caris. Non mostrava più alcun segno di impazienza giovanile. Sembrava diffidente, come se si aspettasse aggressività dai suoi visitatori. Caris cominciava a chiedersi se il cugino avesse la forza di carattere necessaria per essere priore. Con Godwyn c'era Philemon, come sempre pateticamente premuroso nel portare le sedie agli ospiti e versare bevande; ma nei suoi modi c'era un nuovo tocco di sicurezza e l'espressione era quella di un uomo consapevole di trovarsi nel proprio ambiente. «Allora, Philemon, adesso sei diventato zio» gli disse Caris. «Cosa pensi del tuo nipotino Sam?» «Io sono un monaco novizio» rispose Philemon, sostenuto. «Ho rinunciato a ogni relazione terrena.» Caris scrollò le spalle. Sapeva che Philemon voleva bene a sua sorella Gwenda, ma se voleva fingere che non fosse così, lei non aveva intenzione di discuterne. Con sobria chiarezza, Edmund espose il problema a Godwyn. «I lavori del ponte dovranno fermarsi, se i mercanti di lana di Kingsbridge non potranno incrementare i loro guadagni. Fortunatamente abbiamo trovato una nuova fonte di reddito: Caris ha scoperto come produrre tessuto scarlatto di alta qualità. C'è solo una cosa che impedisce il successo di questa nuova impresa: la gualchiera.» «Perché?» domandò Godwyn. «Il tessuto scarlatto può benissimo essere follato nella gualchiera del nostro mulino.» «A quanto pare, no. È vecchia e inefficiente. Riesce a malapena a soddisfare l'attuale produzione di tessuto. Non ha la capacità di lavorarne di più. O tu costruisci una nuova gualchiera...» «È fuori questione» lo interruppe Godwyn. «Non ho denaro disponibile per spese del genere.» «Benissimo» disse Edmund. «Allora dovrai permettere alla gente di follare il tessuto nel vecchio modo, vale a dire mettendolo a bagno nell'acqua e pestandolo con i piedi nudi.» L'espressione che passò sul viso di Godwyn era ben nota a Caris. Era una combinazione di risentimento, orgoglio ferito e ferma ostinazione. Du-
rante l'infanzia, suo cugino aveva assunto quell'espressione ogni volta che veniva contrariato. All'epoca era stata il segnale che Godwyn avrebbe cercato di costringere gli altri bambini alla sottomissione o, se non ci fosse riuscito, che avrebbe pestato i piedi in preda alla rabbia e se ne sarebbe tornato a casa. Ma la pretesa di Godwyn che le cose andassero sempre a modo suo era solo una parte del problema. A Caris sembrava quasi che il cugino si sentisse umiliato se qualcuno esprimeva un'opinione contraria alla sua, come se l'idea che si pensasse che lui aveva torto fosse troppo offensiva da sopportare. Qualunque fosse la spiegazione, non appena vide quell'espressione Caris capì che Godwyn non si sarebbe dimostrato ragionevole. «Sapevo che ti saresti messo contro di me» disse Godwyn a Edmund con voce petulante. «Tu sembri credere che il priorato esista a beneficio di Kingsbridge. Devi renderti conto che invece è l'esatto contrario.» Edmund giunse presto all'esasperazione. «Ma non capisci che si tratta di una dipendenza reciproca? Tutti eravamo convinti che tu comprendessi la natura di questo rapporto... è per questo che abbiamo fatto in modo che fossi eletto.» «Io sono stato eletto dai monaci, non dai mercanti. Può darsi che la città dipenda dal priorato, ma qui c'era un priorato prima che ci fosse una città e noi possiamo esistere anche senza di voi.» «Forse potete esistere, ma come un avamposto isolato, e non come cuore pulsante di una città fiorente.» «Godwyn, senza dubbio anche tu vuoi che Kingsbridge prosperi» intervenne Caris. «Altrimenti perché saresti andato a Londra per opporti al conte Roland?» «Sono andato davanti al tribunale reale per difendere gli antichi diritti del priorato... così come sto facendo adesso.» «Questo è tradimento!» esclamò Edmund, indignato. «Ti abbiamo sostenuto come priore perché ci avevi fatto credere che avresti costruito un ponte!» «Io non ti devo niente» replicò Godwyn. «Mia madre ha dovuto vendere la sua casa per mandarmi all'università... Dov'era allora il mio ricco zio?» Caris era stupita dal fatto che Godwyn provasse ancora risentimento per ciò che era accaduto dieci anni prima. L'espressione di Edmund si fece fredda e ostile. «Io non credo che tu abbia il diritto di costringere la gente a servirsi della tua gualchiera.» Tra Godwyn e Philemon passò un'occhiata, e Caris capì che ne erano
consapevoli. Godwyn allora disse: «Può darsi che ci siano stati tempi in cui il priore ha concesso generosamente agli abitanti di questa città l'uso gratuito del mulino». «Il priore Philip lo donò alla città.» «Io non ne so niente.» «Deve esserci un documento nei tuoi archivi.» Godwyn assunse un tono irato. «Gli abitanti di questa città hanno lasciato che il mulino andasse in rovina, tanto che adesso il priorato deve pagare per rimetterlo in funzione. Questo basta ad annullare qualsiasi donazione.» Caris capì che Edmund aveva ragione: Godwyn si stava muovendo su un terreno pericoloso. Sapeva del dono del priore Philip, ma era deciso a ignorarlo. Edmund fece un nuovo tentativo. «Sicuramente possiamo sistemare questa faccenda tra noi, non credi?» «Non mi rimangerò il mio editto» dichiarò Godwyn. «Darei l'impressione di essere un debole.» Era questo che lo preoccupava, pensò Caris. Godwyn temeva che, se avesse cambiato idea, la gente non l'avrebbe più rispettato. La sua ostinazione derivava, paradossalmente, da una sorta di debolezza. «Nessuno di noi vuole accollarsi le preoccupazioni e le spese di un'altra visita al tribunale reale» disse Edmund. Godwyn si irrigidì. «Mi stai minacciando di citarmi presso il tribunale reale?» «Sto cercando di evitarlo. Ma...» Caris chiuse gli occhi, pregando che i due uomini non spingessero il confronto oltre l'orlo del baratro. La sua preghiera non venne esaudita. «Ma cosa?» domandò Godwyn in tono di sfida. Edmund sospirò. «Ma sì: se costringi la gente a usare la gualchiera del tuo mulino e proibisci la follatura domestica, presenterò un appello al re.» «Così sia» disse Godwyn. 34 La cerva era giovane, doveva avere un anno o due, con fianchi snelli e muscoli tonici sotto la pelle morbida. Era in fondo alla radura e tendeva il lungo collo tra i rami di un cespuglio per arrivare a una chiazza d'erba stentata. Ralph Fitzgerald e Alan Fernhill erano a cavallo, ma il rumore degli zoccoli era attutito dal tappeto di foglie autunnali bagnate e i cani e-
rano addestrati al silenzio. Per questo, o forse perché era concentrata nel tentativo di raggiungere il cibo, la cerva non li sentì avvicinare finché non fu troppo tardi. Fu Ralph il primo a vederla e la indicò con il dito, sul lato opposto della radura. Alan stringeva nella mano sinistra sia le redini sia il suo longbow. Con la velocità dovuta alla lunga pratica, incoccò la freccia in un batter d'occhio e tirò. I cani furono più lenti. Reagirono solo quando udirono lo schiocco della corda e il sibilo della freccia che fendeva l'aria. Barley, la cagna, si immobilizzò sul posto, la testa alta, le orecchie dritte; Blade, suo figlio, ormai più grosso di lei, emise un basso latrato. La freccia era lunga una iarda, con l'impennaggio in penne di cigno. La punta era di solido ferro e lunga due pollici, con un incavo nel quale l'asta si inseriva saldamente. Era una freccia da caccia, con la punta aguzza: una freccia da guerra avrebbe avuto la testa squadrata, in modo da penetrare attraverso un'armatura senza essere deviata. Il tiro di Alan risultò buono, ma non perfetto. La freccia colpì l'animale alla base del collo. La cerva fece un balzo in aria sollevando tutte e quattro le zampe, presumibilmente scioccata dall'improvviso e acuto dolore. Alzò la testa dal cespuglio. Per un istante Ralph pensò che stesse per stramazzare a terra, morta, tuttavia un istante dopo la cerva fuggì con un balzo. La freccia era ancora conficcata nel collo, ma il sangue, invece di sgorgare a fiotti, usciva lento dalla ferita, segno che la punta doveva essersi piantata nei muscoli, mancando i vasi sanguigni principali. I cani scattarono in avanti come se anche loro fossero stati colpiti da una freccia e i due cavalli li seguirono immediatamente, senza essere sollecitati. In sella a Griff, il suo cavallo da caccia preferito, Ralph avvertiva quel flusso d'eccitazione che era ciò per cui principalmente viveva. Era un formicolio nei nervi, una tensione nel collo, un impulso irresistibile a urlare a squarciagola, un'eccitazione così simile a quella sessuale che quasi non avrebbe saputo descrivere la differenza. Uomini come Ralph erano nati per combattere. Il re e i suoi baroni li nominavano lord e cavalieri e davano loro villaggi e terre da governare per una buona ragione: perché potessero dotarsi di cavalli, scudieri, armi e corazze da impiegare ogni qual volta il re avesse avuto bisogno di un esercito. Ma non c'era una guerra ogni anno. A volte potevano passare anche due o tre anni senza che ci fosse neppure una modesta azione di polizia ai confini del Galles ribelle o della barbara Scozia. I cavalieri avevano bisogno di
qualcosa da fare nel frattempo. Dovevano mantenersi in forma, allenati nell'equitazione e, cosa forse più importante di tutte, conservare la sete di sangue. I soldati dovevano uccidere, e lo facevano al meglio quando ne sentivano il desiderio. La risposta era la caccia. Tutti i nobili, dal re fino ai piccoli signori come Ralph, la praticavano non appena ne avevano l'opportunità, spesso parecchie volte la settimana. Si divertivano e quell'attività faceva sì che fossero pronti alla battaglia, quando ce ne fosse stato bisogno. Ralph andava a caccia con il conte Roland in occasione delle sue frequenti visite a Earlscastle e spesso con lord William, a Caster. Quando si trovava nel suo villaggio di Wigleigh, invece, cacciava con il suo scudiero Alan nelle foreste dei dintorni. Di solito uccidevano cinghiali; non c'era molta carne nei maiali selvatici, ma era eccitante inseguirli perché assicuravano sempre una bella battaglia. Ralph cacciava anche volpi e, di tanto in tanto, qualche raro lupo. Ma l'ideale era il cervo: agile e veloce, cento libbre di buona carne da portare a casa. Adesso Ralph fremeva nel sentire Griff sotto di lui, nel percepirne la massa, la forza, l'azione potente dei muscoli e il ritmo tambureggiante dell'andatura. La cerva scomparve tra la vegetazione, ma Barley sapeva dov'era andata e i cavalli seguirono i cani. Nella mano destra Ralph teneva pronta la lancia, una lunga asta di legno di frassino con la punta indurita dal fuoco. Mentre Griff scartava e saltava, Ralph chinava la testa sotto i rami bassi e seguiva con il proprio corpo i movimenti del cavallo, gli stivali saldi nelle staffe, mantenendosi in sella senza sforzo con la pressione delle ginocchia. Nel sottobosco i cavalli non erano agili quanto la cerva e persero terreno, ma i cani erano avvantaggiati e Ralph li sentì abbaiare frenetici mentre si avvicinavano alla preda. Poi ci fu un attimo di pausa, e dopo pochi istanti Ralph scoprì perché: uscita dalla vegetazione, la cerva adesso correva lungo un sentiero e si stava lasciando la muta alle spalle. Lì erano i cavalli a essere avvantaggiati; infatti superarono rapidamente i cani e cominciarono a guadagnare terreno sulla cerva. Ralph capiva che la preda andava indebolendosi. Notò del sangue sul posteriore e dedusse che uno dei cani era riuscito a morderla. La cerva lottava per cercare di allontanarsi, ma la sua andatura era diventata irregolare. Era una creatura nata per brevi e rapide corse, e non poteva mantenere a lungo la velocità iniziale. Ralph sentì il sangue scorrergli veloce nelle vene a mano a mano che si
avvicinava alla preda. Strinse la lancia con più energia. Ci voleva una notevole forza per far penetrare una punta di legno nel corpo di un grosso animale: la pelle era spessa, i muscoli tonici, le ossa dure. Il bersaglio più cedevole era il collo, sempre che si riuscisse a evitare le vertebre e a centrare la giugulare. Si doveva scegliere il momento giusto e scagliare l'arma con tutta la forza possibile. Vedendo che i cavalli ormai le erano addosso, con un tuffo disperato la cerva saltò di lato, fra i cespugli. Questo le diede qualche secondo di respiro. I cavalli rallentarono nel sottobosco in cui la preda si era lanciata. Ma i cani recuperarono di nuovo terreno e Ralph capì che l'animale non avrebbe fatto ancora molta strada. Secondo lo schema abituale, i cani avrebbero inflitto alla preda innumerevoli altre ferite, rallentandola finché non fossero arrivati i cavalli e il cacciatore avesse inferto il colpo di grazia. Ma quel giorno ci fu un incidente. Quando i cani e i cavalli l'avevano quasi raggiunta, la cerva deviò bruscamente di lato. Blade, il cane più giovane, la inseguì con più entusiasmo che buonsenso, tagliando la strada a Griff. Il cavallo stava avanzando troppo velocemente per potersi fermare o anche solo per evitare il cane, e infatti lo colpì con un calcio della possente zampa anteriore. Blade era un mastino che pesava settanta o ottanta libbre e l'impatto fece inciampare il cavallo. Ralph venne disarcionato. Mentre volava in aria, lasciò andare la lancia. In quell'istante la sua più grande paura fu che il cavallo gli crollasse addosso ma, un attimo prima di cadere a terra, vide che Griff era riuscito in qualche modo a ritrovare l'equilibrio. Ralph finì in un roveto. Si graffiò dolorosamente le mani e la faccia, tuttavia i rami attutirono la caduta. Era comunque furioso. Alan rimise il suo cavallo al passo. Barley, che aveva inseguito la cerva, ritornò dopo pochi minuti: evidentemente la preda era riuscita a fuggire. Ralph si rimise faticosamente in piedi, imprecando. Alan afferrò le redini di Griff e poi smontò da cavallo, tenendo le redini di entrambi gli animali. Blade giaceva immobile sulle foglie morte. Dalla bocca gli colava sangue. Era stato colpito alla testa dallo zoccolo ferrato di Griff. Barley gli si avvicinò, lo annusò, lo spinse con il naso e gli leccò il sangue dal muso, poi si allontanò con un'espressione sconcertata. Alan diede qualche colpetto al cane con la punta dello stivale. Non ci fu reazione. Blade non respirava.
«È morto» disse Alan. «Quel maledetto cane se l'è meritata» commentò Ralph. Tenendo i cavalli per le redini, i due uomini si inoltrarono nel bosco in cerca di un posto dove riposare. Dopo un po' Ralph sentì rumore di acqua corrente e, seguendolo, arrivò a un torrente impetuoso. Riconobbe il corso d'acqua e capì che si trovavano a poca distanza dai campi di Wigleigh. «Mangiamo qualcosa» disse. Alan legò i cavalli e poi dalla bisaccia della sella estrasse una fiasca, due tazze di legno e il sacchetto di canapa che conteneva i viveri. Barley si avvicinò al torrente e lappò avidamente l'acqua fredda. Ralph si sedette sulla riva, appoggiando la schiena a un albero. Alan si accomodò accanto a lui e gli porse una tazza di birra e una fetta di formaggio. Ralph accettò la birra e rifiutò il cibo. Sapendo che il suo signore era di cattivo umore, Alan non disse nulla mentre Ralph beveva e, senza parlare, gli riempì di nuovo la tazza. Nel silenzio udirono tutti e due delle voci femminili. Alan guardò Ralph inarcando un sopracciglio. Barley ringhiò. Ralph si alzò in piedi, zittì il cane e, senza fare rumore, si avviò nella direzione da cui provenivano le voci. Lo scudiero lo seguì. Ralph si fermò qualche iarda più a valle e sbirciò attraverso la vegetazione. Un gruppetto di donne del villaggio stava facendo il bucato sulla riva del torrente, dove l'acqua scorreva veloce sopra una formazione di rocce. Era un'umida giornata di ottobre, fresca ma non fredda, e le donne si erano arrotolate le maniche e alzate le gonne sulle cosce per non bagnarle. Ralph le studiò una per una. C'erano Gwenda, tutta braccia e polpacci muscolosi, con il suo bambino, che adesso aveva quattro mesi, legato sulla schiena, e Peggy, la moglie di Perkin, che strofinava le mutande di suo marito con una pietra. C'era anche Vira, la serva personale di Ralph, una donna sui trent'anni dalla faccia dura che, quando una volta il padrone le aveva dato una pacca sul sedere, l'aveva guardato con un'aria così gelida che lui non si era mai più azzardato a sfiorarla. La voce che Ralph aveva sentito era quella della vedova Huberts, una gran chiacchierona, indubbiamente perché viveva sola. La vedova si era piazzata quasi al centro del torrente e parlava con le altre quasi urlando, spettegolando a distanza. E poi c'era Annet. Era in piedi su una roccia e lavava un piccolo indumento, chinandosi per immergerlo nell'acqua e poi rialzandosi per strofinarlo. Aveva lunghe gambe bianche che scomparivano in modo provocante sotto la veste rialza-
ta. Ogni volta che si chinava, la scollatura si scostava, rivelando i piccoli seni pallidi che pendevano come tentazioni da un albero. I capelli chiari avevano le punte bagnate e sul bel viso c'era un'espressione infastidita, come se Annet stesse pensando di non essere nata per quel genere di lavoro. Le donne dovevano trovarsi lì già da un po', suppose Ralph, e la loro presenza sarebbe potuta passare inosservata, se la vedova Huberts non avesse alzato la voce. Si chinò a terra dietro un cespuglio, sbirciando tra i rametti senza foglie. Alan si acquattò accanto a lui. A Ralph piaceva spiare le donne. Da adolescente l'aveva fatto spesso. Le donne si grattavano, si sedevano per terra a gambe aperte e si abbandonavano a discorsi che non avrebbero mai affrontato, se avessero saputo che c'era un uomo che le ascoltava. In pratica, si comportavano come i maschi. Ralph si lustrò gli occhi con le ignare donne del suo villaggio e si sforzò di sentire cosa stavano dicendo. Osservò Gwenda, ne studiò il corpo piccolo e forte e la rivide nuda, carponi sul letto, rivivendo la sensazione di quando l'aveva tenuta per i fianchi e l'aveva premuta contro di sé. Ripensò a come era cambiato l'atteggiamento della ragazza. All'inizio era stata fredda e passiva, sforzandosi di nascondere il risentimento e il disgusto per l'atto che stava compiendo, ma poi Ralph aveva notato un lento mutamento. Il collo le si era arrossato, il petto aveva tradito il respiro eccitato e poi Gwenda aveva chinato la testa e chiuso gli occhi in un gesto che a lui era sembrato un misto di vergogna e di piacere. Il ricordo gli fece accelerare il respiro e la fronte gli si imperlò di sudore, nonostante l'aria fresca di ottobre. Si chiese se avrebbe mai avuto l'occasione di giacere di nuovo con lei. Fin troppo presto per lui, le donne si prepararono ad andarsene. Ripiegarono il bucato bagnato e lo sistemarono nelle ceste, oppure lo avvolsero in fagotti che avrebbero tenuto in equilibrio sulla testa, e poi cominciarono ad avviarsi sul sentiero parallelo al torrente. Tra Annet e sua madre scoppiò una lite. Annet aveva lavato solo metà della biancheria che aveva portato al torrente e stava proponendo alla madre di riportare a casa la metà sporca, ma Peggy sembrava pretendere che la figlia restasse per terminare il lavoro. Alla fine Peggy si allontanò a passi pesanti e Annet, imbronciata, rimase. Ralph quasi non credeva alla sua fortuna. A bassa voce disse a Alan: «Adesso ci divertiremo un po' con lei. Fa' il giro in silenzio e tagliale la via di fuga». Alan scomparve.
Ralph guardò Annet immergere in modo frettoloso i capi ancora da lavare nel torrente e poi sedersi sulla riva e fissare arrabbiata l'acqua. Quando lui ritenne che le altre donne fossero ormai lontane per poter udire qualcosa e che Alan avesse preso posizione, si alzò in piedi e si avviò verso la ragazza. Annet lo sentì muoversi tra la vegetazione e alzò lo sguardo, stupita. A Ralph piacque vedere la sua espressione passare dalla sorpresa e dalla curiosità alla paura, mentre si rendeva conto di essere da sola con lui nella foresta. La ragazza balzò in piedi, ma ormai Ralph le era accanto e le afferrò un braccio con una stretta leggera, ma salda. «Salve, Annet» la salutò. «Cosa ci fai qui... tutta sola?» La giovane guardò al di sopra della spalla di Ralph nella speranza che fosse accompagnato da altri che avrebbero potuto trattenerlo, ma il suo viso mostrò sgomento quando vide soltanto Barley. «Sto andando a casa» rispose. «Mia madre se n'è appena andata.» «Non avere tanta fretta. Sei molto bella così, con i capelli bagnati e le ginocchia nude.» Annet cercò freneticamente di abbassarsi la gonna. Con la mano libera, Ralph le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo. «Cosa ne dici di un sorriso? Non avere quell'aria così preoccupata. Io non ti farei mai del male... sono il tuo signore.» Annet si sforzò di sorridere. «Sono solo un po' confusa. Mi avete spaventato.» Riuscì a chiamare a raccolta quel che rimaneva della sua abituale civetteria. «Forse potreste scortarmi fino a casa. Una ragazza ha bisogno di protezione nella foresta.» «Oh, ti proteggerò. Mi prenderò cura di te molto meglio di quell'idiota di Wulfric o di tuo marito.» Tolse la mano dal mento e le strinse un seno. Era come lo ricordava, piccolo e sodo. Le lasciò anche il braccio, in modo da poterla toccare con entrambe le mani. Ma non appena la lasciò andare, Annet scappò. Ralph rise guardandola correre lungo il sentiero e poi scomparire tra gli alberi. Un momento dopo sentì un grido di sorpresa. Alan gli riportò la ragazza, il braccio torto dietro la schiena e il seno che sporgeva in modo invitante. Ralph estrasse il suo coltello, un pugnale tagliente con la lama lunga un piede. «Togliti la veste.» Alan lasciò andare la ragazza, ma Annet non obbedì immediatamente. «Vi prego, signore, io vi ho sempre dimostrato rispetto...» «Togliti la veste o ti taglio le guance e rimarrai sfregiata per sempre.»
Era una minaccia efficace con una donna vanitosa come Annet, che cedette subito. Cominciò a piangere, mentre si passava la semplice veste di lana marrone sopra la testa. Poi tenne l'indumento sgualcito davanti a sé, coprendosi, ma Alan glielo strappò di mano e lo gettò di lato. Ralph guardò il corpo nudo della ragazza. Annet teneva gli occhi bassi e le lacrime le rigavano il viso. Aveva fianchi snelli, con un cespuglio biondo scuro. «Wulfric non ti ha mai visto così, vero?» le disse Ralph. Annet scosse la testa in un gesto di diniego, senza alzare lo sguardo. Ralph le mise una mano tra le gambe. «Ti ha mai toccato qui?» «Vi prego, signore, sono una donna sposata...» «Tanto meglio: non puoi perdere la verginità, non hai niente di cui preoccuparti. Distenditi per terra.» Annet cercò di indietreggiare, ma andò a urtare contro Alan, che con una mossa esperta la fece inciampare e cadere sulla schiena. Ralph le afferrò le caviglie in modo che non potesse rialzarsi, ma la ragazza si contorceva disperatamente. «Tienila ferma» ordinò a Alan. Lo scudiero le piantò le ginocchia sulle braccia e le mani sulle spalle. Ralph si prese in mano il membro e lo sfregò per farlo indurire. Poi si chinò tra le cosce di Annet. La ragazza cominciò a urlare, ma nessuno la sentì. 35 Per fortuna, Gwenda fu la prima a vedere Annet dopo l'incidente. Lei e Peggy avevano portato a casa la biancheria lavata e l'avevano messa ad asciugare attorno al focolare nella cucina di Perkin. Gwenda lavorava ancora per lui come bracciante ma adesso, in autunno, quando c'era meno da fare nei campi, aiutava Peggy nelle faccende domestiche. Dopo avere steso il bucato, avevano cominciato a preparare il pasto di mezzogiorno per Perkin, Rob, Billy Howard e Wulfric. Trascorsa un'ora, Peggy aveva detto: "Che cosa sarà mai capitato ad Annet?". "Vado a vedere." Gwenda prima aveva voluto dare un'occhiata al suo bambino. Sam era in una culla di vimini, avvolto in una vecchia coperta, e i suoi occhi scuri vivaci osservavano il fumo del focolare che si avvolgeva a spirale fin sotto il soffitto. Gwenda lo aveva baciato in fronte e poi era andata a cercare Annet. Aveva ripercorso i propri passi attraverso i campi spazzati dal vento. Lord Ralph e Alan Fernhill le erano passati accanto al galoppo, diretti al
villaggio. A quanto pareva la loro giornata di caccia era stata interrotta. Gwenda si era addentrata nella foresta e aveva seguito il breve sentiero che portava al luogo dove le donne facevano il bucato. Prima di arrivarci, incontrò Annet che veniva dalla direzione opposta alla sua. «Stai bene?» le domandò Gwenda. «Tua madre è preoccupata.» «È tutto a posto» rispose Annet. Gwenda intuì che c'era qualcosa che non andava. «Cos'è successo?» «Niente.» Annet evitava il suo sguardo. «Non è successo niente, lasciami in pace.» Gwenda sbarrò la strada ad Annet e la osservò da capo a piedi. Dal volto si capiva inequivocabilmente che invece era accaduta qualche disgrazia. A una prima occhiata non sembrava ferita, anche perché quasi tutto il suo corpo era nascosto dalla lunga veste di lana, ma poi Gwenda si accorse delle chiazze scure sul vestito, che sembravano macchie di sangue. Si ricordò di Ralph e Alan che l'avevano sorpassata al galoppo. «Lord Ralph ti ha forse fatto qualcosa?» «Sto andando a casa.» Annet cercò di scostare Gwenda per passare, ma lei le afferrò un braccio per fermarla. Non la strinse con troppa violenza, eppure Annet gridò per il dolore e si portò una mano sopra il gomito. «Sei ferita!» esclamò Gwenda. Annet scoppiò in lacrime. Gwenda le cinse le spalle. «Torniamo a casa» le disse. «Così racconterai tutto a tua madre.» Annet scosse il capo. «Non lo dirò a nessuno.» "Troppo tardi" pensò Gwenda. Mentre accompagnava Annet a casa di Perkin, Gwenda passò mentalmente in rassegna le ipotesi possibili. Era evidente che la ragazza aveva subito un qualche tipo di aggressione. Poteva essere stata assalita da uno o più viandanti, benché non ci fossero strade nei paraggi. C'era sempre il pericolo dei briganti, ma era da molto tempo, ormai, che non se ne vedevano nei dintorni di Wigleigh. No, i sospettati più probabili erano Ralph e Alan. Peggy fu sbrigativa. Fece sedere Annet su uno sgabello e le fece scivolare il vestito dalle spalle. Nella parte superiore di entrambe le braccia c'erano lividi rossi e gonfi. «Qualcuno ti ha tenuto ferma» disse in tono cupo. Annet non rispose. Peggy insistette. «Ho ragione? Rispondimi, bambina mia, o ti capiteranno guai peggiori. Qualcuno ti ha tenuto ferma?» Annet annuì.
«Quanti uomini? Dài, sputa il rospo.» Annet continuava a non aprire bocca, ma alzò due dita. Peggy arrossì di rabbia. «Ti hanno violentato?» Annet annuì di nuovo. «Chi erano?» Annet scosse il capo. Gwenda sapeva il motivo per cui lei non voleva rivelarlo: era pericoloso per un servo della gleba accusare di un crimine un signore feudale. Disse a Peggy: «Ho visto Ralph e Alan che si allontanavano a cavallo». Peggy domandò ad Annet: «Sono stati loro... Ralph e Alan?». Annet assentì. La voce di Peggy si abbassò fin quasi a diventare un sussurro. «Immagino che Alan ti avrà tenuto ferma mentre Ralph lo faceva.» Annet assentì ancora. Peggy si intenerì, dopo avere finalmente appreso la verità. Abbracciò la figlia e la strinse forte. «Povera bambina» le disse. «Povera bambina mia.» Annet cominciò a singhiozzare. Gwenda uscì di casa. Presto sarebbero arrivati gli uomini per pranzare e avrebbero scoperto subito che Ralph aveva violentato Annet. Suo padre, suo fratello, suo marito e il suo innamorato di un tempo sarebbero impazziti di rabbia. Perkin era troppo vecchio per commettere un gesto insensato, Rob avrebbe fatto quello che gli diceva Perkin e Billy Howard, probabilmente, non era abbastanza coraggioso da causare guai... ma Wulfric sarebbe andato su tutte le furie. Avrebbe ucciso Ralph. E poi sarebbe stato impiccato. Gwenda doveva fare qualcosa per impedire tutto ciò, altrimenti avrebbe perso suo marito. Attraversò di corsa il villaggio, senza parlare con anima viva, e si diresse verso il maniero, dove sperava le sarebbe stato detto che Ralph e Alan avevano finito di pranzare ed erano usciti di nuovo; ma era ancora troppo presto e, con suo grande sgomento, i due uomini si trovavano ancora lì. Li vide nelle scuderie dietro il maniero, intenti a esaminare lo zoccolo infetto di un cavallo. Di solito Gwenda si sentiva a disagio in presenza di Ralph o di Alan, perché era sicura che ogni volta che la guardavano si ricordavano di quando si era inginocchiata nuda sul letto nella locanda Bell a Kingsbridge. Ma in quel momento il pensiero non la sfiorò minimamente. Doveva trovare una scusa qualsiasi per allontanarli subito dal villaggio,
prima che Wulfric venisse a sapere ciò che avevano fatto. Che cosa poteva inventarsi? Per un istante rimase senza parole, poi, sopraffatta dalla disperazione, disse: «Mio signore, è giunto un messaggero da parte del conte Roland». Ralph rimase sorpreso. «Quando è arrivato?» «Un'ora fa.» Ralph osservò lo stalliere che stava reggendo la zampa del cavallo per ispezionarla, poi disse: «Qui non è venuto nessuno». Ovviamente, un messaggero sarebbe andato al maniero e avrebbe parlato con gli inservienti del signore. «Perché ha riferito il messaggio proprio a te?» le domandò Ralph. Gwenda, in preda al panico, improvvisò una risposta. «L'ho incontrato per strada appena fuori dal villaggio. Mi ha chiesto di voi, e io gli ho spiegato che eravate a caccia ma che sareste tornato per l'ora di pranzo. Lui, però, non poteva aspettare.» Era un comportamento davvero insolito da parte di un messaggero, che normalmente si sarebbe fermato per mangiare, bere e far riposare il cavallo. «Perché aveva tanta fretta?» le chiese Ralph. Inventandosi una scusa su due piedi, Gwenda rispose: «Doveva arrivare a Cowford prima del tramonto... Non ho avuto il coraggio di chiedergliene il motivo». Ralph bofonchiò. Quell'ultima affermazione era plausibile: un messaggero del conte Roland non si sarebbe certo sottoposto a un controinterrogatorio da parte di una contadina. «Perché non me l'hai detto prima?» «Sono venuta nei campi per cercarvi, ma voi non mi avete visto e vi siete allontanato al galoppo.» «Oh, invece credo proprio di averti visto. Non importa... qual è il messaggio?» «Il conte Roland desidera incontrarvi a Earlscastle il prima possibile.» Gwenda fece un respiro profondo e aggiunse un altro particolare poco verosimigliante. «Il messaggero mi ha anche ingiunto di riferirvi di non perdere tempo a pranzare, ma di prendere dei cavalli freschi e partire immediatamente.» Era difficile da credere, tuttavia lei doveva fare in modo che Ralph si trovasse già lontano quando Wulfric fosse giunto al maniero. «Sul serio? E non ha detto perché ha bisogno di me con tanta urgenza?» «No.» «Mmh.» Ralph parve riflettere per qualche istante, in silenzio.
Gwenda insistette, in tono ansioso: «Allora, avete intenzione di andare, adesso?». Lui le lanciò un'occhiataccia. «Questi non sono affari tuoi.» «È solo che non vorrei mi si rimproverasse di non aver rimarcato abbastanza l'urgenza.» «Oh, davvero? Be', non m'importa un accidente di quello che vuoi tu. Vattene.» Gwenda dovette allontanarsi. Tornò a casa di Perkin. Arrivò proprio nel momento in cui gli uomini giungevano dai campi. Sam era tranquillo e contento nella sua culla. Annet sedeva sempre nella stessa posizione, con il vestito abbassato per mostrare i lividi sulle braccia. «Dove sei stata?» domandò Peggy a Gwenda in tono di accusa. Gwenda non rispose e Peggy fu distratta da Perkin che, rientrando in quel momento, le chiese: «Be'? Cos'è successo ad Annet?». «Ha avuto la sfortuna di incontrare Ralph e Alan quando si trovava da sola nella foresta» rispose Peggy. Perkin si oscurò in volto, pieno di rabbia. «Perché era da sola?» «È colpa mia» disse Peggy, mettendosi a piangere. «Lei era così lenta a fare il bucato, come sempre, che l'ho costretta a rimanere per finire anche dopo che noi siamo tornate a casa, e dev'essere stato allora che quei due animali sono capitati lì.» «Li abbiamo visti poco fa che attraversavano a cavallo Brookfield» confermò Perkin. «È probabile che stessero tornando proprio da lì.» D'un tratto parve spaventato. «È una situazione molto pericolosa» aggiunse. «Il genere di disgrazie che possono rovinare una famiglia.» «Ma noi non abbiamo fatto niente di male!» protestò Peggy. «La colpa di Ralph lo porterà a odiarci per la nostra innocenza.» Probabilmente era vero, dovette ammettere Gwenda. Perkin era scaltro, nonostante i suoi modi ossequiosi. In quell'istante entrò il marito di Annet, Billy Howard, che si stava pulendo le mani infangate sulla camicia, seguito da presso dal cognato Rob. Billy lanciò un'occhiata ai lividi della moglie e le chiese: «Che cosa ti è capitato?». Fu Peggy a rispondere al posto suo: «Sono stati Ralph e Alan». Billy rimase a fissare la moglie. «Che cosa ti hanno fatto?» Annet abbassò lo sguardo e non aprì bocca. «Li ucciderò tutti e due» gridò Billy fuori di sé, ma era ovvio che si trat-
tava di una vuota minaccia: era un uomo mite, di costituzione esile, e non si era mai sentito dire che avesse partecipato a una zuffa, nemmeno quando era ubriaco. L'ultimo a entrare fu Wulfric. Gwenda si rese conto solo troppo tardi di quanto fosse attraente Annet in quella posa. Aveva il collo lungo e affusolato e spalle ben fatte, e il vestito abbassato metteva in mostra parte del seno. I brutti lividi non facevano che enfatizzare le sue doti attrattive. Wulfric si soffermò a guardarla senza riuscire a nascondere l'ammirazione... non era mai stato capace di dissimulare i propri sentimenti. Poi, dopo qualche istante, si accorse delle ecchimosi e si accigliò. «Ti hanno violentato?» le chiese Billy. Gwenda continuava a osservare Wulfric. Quando lui colse il significato di quella scena, la sua espressione non riuscì a celare lo stupore e lo sgomento, e la sua pelle chiara si soffuse di un rossore causato dalla forte emozione. «Allora, donna?» insistette Billy. Gwenda provò un moto di compassione per la sgradevole Annet. Perché tutti si credevano in diritto di porle domande in tono arrogante? Alla fine Annet rispose a Billy con un cenno del capo. Il volto di Wulfric si rabbuiò per la rabbia. «Chi è stato?» domandò a denti stretti. «Non sono affari tuoi, Wulfric» gli disse Billy. «Tornatene a casa.» Perkin intervenne con voce tremante: «Non voglio avere guai. Non dobbiamo permettere che questo incidente ci distrugga». Billy lanciò un'occhiata truce al suocero. «Che cosa intendi dire, che dobbiamo lasciar correre?» «Se ci inimichiamo lord Ralph, ne sopporteremo le conseguenze sino alla fine dei nostri giorni.» «Ma ha violentato Annet!» «È stato Ralph a fare questo?» chiese Wulfric incredulo. «Ci penserà Dio a punirlo» rispose Perkin. «E anch'io, per Gesù Cristo!» esclamò Wulfric. «Ti prego, Wulfric, non farlo!» lo supplicò Gwenda. Wulfric si avviò verso la porta. Gwenda lo rincorse, sconvolta dal terrore, e lo afferrò per un braccio. Erano trascorsi solo pochi minuti da quando lei aveva comunicato a Ralph il messaggio fasullo. Anche se lui ci avesse creduto, Gwenda non sapeva quanto avrebbe preso sul serio l'urgenza. C'erano buone probabilità che
non avesse ancora lasciato il villaggio. «Non andare al maniero» disse a Wulfric in tono implorante. «Ti prego.» Lui se la scrollò di dosso in modo brusco. «Sta' lontano da me» le intimò. «Pensa al tuo bambino!» gridò Gwenda, indicando Sam nella culla. «Hai intenzione di lasciarlo senza un padre?» Wulfric uscì dalla porta. Gwenda gli andò dietro, seguita dagli altri uomini. Wulfric attraversò il villaggio a passo di marcia, quasi fosse un angelo sterminatore, i pugni serrati lungo i fianchi, lo sguardo fisso in avanti, il volto deformato da una smorfia di rabbia. Alcuni abitanti di Wigleigh che lo incrociarono mentre tornavano a casa per il pranzo gli rivolsero la parola, ma non ricevettero risposta. Qualcuno si accodò a lui. Nei pochi minuti che Wulfric impiegò a percorrere il tragitto fino al maniero, radunò dietro di sé una piccola folla. Nathan Reeve uscì sulla soglia di casa e domandò a Gwenda che cosa stava succedendo, però lei riuscì solo a dire: «Fermatelo, vi prego, qualcuno lo fermi!». Ma era tutto inutile: nessuno di loro sarebbe riuscito a trattenere Wulfric anche se avesse osato provarci. Wulfric spalancò la porta d'ingresso del maniero ed entrò con passo deciso. Gwenda era proprio dietro di lui, e la folla si accalcò nel vano della porta per seguirli. La governante, Vira, esclamò in tono indignato: «Non sapete bussare?». «Dov'è il tuo padrone?» le chiese Wulfric. Vira notò l'espressione sul volto di Wulfric e si spaventò. «È andato alle scuderie» rispose. «Sta partendo per Earlscastle.» Wulfric le passò accanto spingendola di lato e attraversò la cucina. Mentre lui e Gwenda uscivano dalla porta sul retro, scorsero Ralph e Alan che montavano a cavallo. A Gwenda venne voglia di gridare: erano arrivati solo pochi secondi troppo presto! Wulfric balzò in avanti. Con un gesto ispirato dalla disperazione, Gwenda allungò il piede e agganciò la caviglia del marito, che cadde lungo e disteso nel fango. Ralph non fece in tempo a vederli. Spronò il suo cavallo e uscì al trotto dal cortile. Alan invece li scorse, e capì al volo la situazione, ma decise di evitare guai e seguì Ralph. Mentre si allontanavano dal maniero, Alan incitò il proprio destriero al galoppo, superando Ralph, il cui cavallo aumentò di buon grado l'andatura. Wulfric scattò in piedi, imprecando, e li inseguì. Gwenda gli corse die-
tro. Wulfric non poteva raggiungere i cavalli, ma Gwenda aveva paura che Ralph si sarebbe voltato indietro e si fosse fermato per vedere che cos'era tutta quella confusione. Ma i due cavalieri si stavano godendo l'energia vitale dei loro destrieri freschi e, senza guardarsi neppure una volta alle spalle, si allontanarono di gran carriera lungo il sentiero che conduceva fuori dal villaggio. Di lì a pochi secondi erano scomparsi. Wulfric si lasciò cadere sulle ginocchia, nel fango. Gwenda gli si avvicinò e lo prese per un braccio per aiutarlo a rimettersi in piedi. Wulfric la scacciò con una tale violenza che lei barcollò e quasi cadde. Gwenda ne fu sconvolta: non era da lui trattarla male. «Mi hai fatto inciampare» le rinfacciò lui mentre si alzava senza accettare il suo aiuto. «Ti ho salvato la vita» ribatté Gwenda. Wulfric la fissò con gli occhi pieni di odio e le disse: «Non te lo perdonerò mai». Quando Ralph giunse a Earlscastle, gli dissero che il conte Roland non l'aveva affatto mandato a chiamare, tanto meno con urgenza. I corvi sulle merlature lo derisero gracchiando. Alan azzardò una spiegazione. «C'entra con Annet» disse. «Proprio mentre stavamo partendo ho visto Wulfric che usciva dalla porta sul retro del maniero. Sul momento non ho dato importanza alla cosa, ma forse aveva intenzione di affrontarti.» «Ci scommetterei qualsiasi cosa» rispose Ralph. Sfiorò il lungo pugnale che portava alla cintola. «Avresti dovuto dirmelo: approfitterei di qualsiasi scusa per infilargli il mio coltello nella pancia.» «E non ci sono dubbi che Gwenda lo sa bene, ed è per questo, forse, che si è inventata la storia del messaggio per allontanarti dal marito assetato di vendetta.» «Ovvio» convenne Ralph. «E spiegherebbe anche perché nessun altro ha visto questo misterioso messaggero: non è mai esistito. Quella cagna astuta!» Avrebbero dovuto punirla, ma forse non sarebbe stato semplice. Lei avrebbe probabilmente detto di avere agito per il meglio e Ralph non poteva certo affermare che avesse sbagliato nell'impedire al marito di assalire il suo feudatario. Peggio ancora, se Ralph avesse protestato per quell'inganno, avrebbe attirato l'attenzione sul fatto che quella donna l'aveva beffato,
superandolo in astuzia. No, non ci sarebbero state punizioni formali... anche se si potevano trovare modi meno ufficiali per castigarla. Dal momento che si trovava a Earlscastle, Ralph colse l'opportunità per andare a caccia con il conte e il suo seguito, dimenticandosi di Annet, almeno fino alla sera del secondo giorno, quando Roland lo convocò nella sua stanza privata. Con lui c'era solo il segretario del conte, padre Jerome. Roland non chiese a Ralph di sedersi. «Il prete di Wigleigh è al castello» gli comunicò. Ralph ne fu sorpreso. «Padre Gaspard? A Earlscastle?» Il conte non si diede la pena di rispondere a quelle domande retoriche. «Ti accusa di avere violentato una donna di nome Annet, la moglie di Billy Howard, uno dei tuoi servi.» Ralph provò un tuffo al cuore. Non immaginava che quei contadini avrebbero avuto il coraggio di lamentarsi con il conte. Era molto difficile che i servi della gleba denunciassero un signore feudale presso un tribunale, ma sapevano essere molto subdoli, e in quel caso qualcuno a Wigleigh aveva astutamente persuaso il parroco a presentare la rimostranza. Ralph assunse un'aria di noncuranza. «Sciocchezze» disse. «D'accordo, ho giaciuto con lei, ma la donna era consenziente.» Rivolse a Roland un sorriso di complicità maschile. «Più che consenziente.» Sul volto di Roland si dipinse un'espressione di disgusto, poi il conte si rivolse a padre Jerome con uno sguardo interrogativo. Jerome era un giovane istruito e ambizioso, proprio il genere di persona che Ralph non sopportava. Con atteggiamento altezzoso, annunciò: «La ragazza è qui. La donna, dovrei dire, anche se ha solo diciannove anni. Ha lividi estesi sulle braccia e l'abito macchiato di sangue. Afferma che l'avete incontrata nella foresta, e che il vostro scudiero si è inginocchiato su di lei per tenerla ferma. L'ha accompagnata un uomo di nome Wulfric, che dice di avervi visto mentre fuggivate dal luogo del misfatto». Ralph intuì che doveva essere stato Wulfric a convincere padre Gaspard a presentarsi a Earlscastle. «Non è vero» ribatté, cercando di infondere nella voce una nota di indignazione. Jerome sembrava scettico. «Perché la donna dovrebbe mentire?» «Forse qualcuno ci ha visto e ha raccontato tutto al marito. È stato lui a farle quei lividi, scommetto. La donna si è inventata lo stupro perché lui smettesse di picchiarla. Poi si è macchiata l'abito con del sangue di pollo.» Roland sospirò. «È un comportamento po' sciocco, non credi, Ralph?» Ralph non era sicuro di cosa intendesse. Si aspettava forse che i suoi
uomini agissero come quei dannati monaci? «Mi avevano avvertito che avresti avuto questa reazione» proseguì il conte. «Mia nuora mi ha sempre detto che mi avresti creato problemi.» «Philippa?» «Lady Philippa, per te.» Ralph ebbe un'illuminazione e ribatté in tono incredulo: «Ecco perché non mi avete promosso dopo che vi ho salvato la vita... perché una donna era contro di me? Che genere di esercito avreste, se permetteste alle ragazze di scegliere i soldati?». «Hai ragione, naturalmente, ed è per questo che alla fine non ho dato retta ai suoi consigli. Ciò che le donne non capiscono è che un uomo senza un po' di bile è buono solo per lavorare la terra. Non possiamo portare in battaglia degli smidollati. Tuttavia, lei aveva ragione a mettermi in guardia sul fatto che mi avresti causato problemi. In tempo di pace non desidero essere importunato da dei dannati preti che vengono a piagnucolare perché le mogli dei servi vengono stuprate. Non farlo mai più. Non m'importa se giaci con le contadine. Per quel che mi riguarda, potresti anche farlo con gli uomini. Ma se scopi la moglie di un altro, consenziente o no, devi essere disposto a risarcire il marito, in qualche modo. La maggior parte dei contadini può essere comprata. Fa' solo in modo che non diventi un problema mio.» «Sì, mio signore.» «Che cosa devo dire a questo Gaspard?» domandò padre Jerome. «Vediamo un po'» disse Roland con aria pensierosa. «Wigleigh si trova al limite del mio territorio, non lontano dai possedimenti di mio figlio William, vero?» «Sì» rispose Ralph. «Quanto eri lontano dal confine quando hai incontrato questa ragazza?» «Un miglio. Eravamo appena fuori Wigleigh.» «Non importa.» Si rivolse a Jerome. «Capiranno tutti che si tratta solo di una scusa, ma dite a padre Gaspard che l'incidente ha avuto luogo nel territorio di lord William, quindi io non posso giudicare in materia.» «Molto bene, mio signore.» «E se vanno da William?» domandò Ralph. «Dubito che ci andranno, ma, se non desisteranno, dovrai trovare un accordo con William. Alla fine i contadini si stuferanno di protestare.» Ralph annuì, sollevato. Per un istante era stato assalito dal terribile dubbio di avere commesso un grave errore di valutazione e che, dopotutto, l'a-
vrebbero costretto a pagare per avere violentato Annet. Alla fine, però, ne era uscito indenne, come d'altronde era prevedibile. «Vi ringrazio, mio signore.» Si domandò che cosa avrebbe detto suo fratello di quella storia. Il pensiero lo riempì di vergogna. Ma forse Merthin non sarebbe mai venuto a saperlo. «Dobbiamo rivolgerci a lord William per le nostre lamentele» annunciò Wulfric rientrato a Wigleigh. Tutto il villaggio si era radunato in chiesa per discutere la questione. Padre Gaspard e Nathan Reeve erano presenti ma, non si capiva per quale motivo, a condurre la riunione sembrava essere Wulfric, nonostante la sua giovane età. Si era portato in prima fila, lasciando Gwenda e il piccolo Sam tra la folla. Gwenda pregava che decidessero di lasciar perdere la faccenda. Non era suo desiderio che Ralph restasse impunito... al contrario, avrebbe voluto vederlo bollire vivo. Lei stessa aveva ucciso due uomini solo perché avevano minacciato di violentarla, un episodio che di tanto in tanto le tornò alla mente durante la discussione, facendola rabbrividire. Tuttavia le dava fastidio che Wulfric si esponesse in prima persona, in parte perché capiva che lui era infiammato dal fuoco non ancora spento dei suoi sentimenti per Annet, e ciò la feriva e la rattristava. Ma, motivo ancora più importante, Gwenda temeva per lui. L'odio tra Wulfric e Ralph era già costato al marito la sua eredità. In quale altro modo si sarebbe vendicato adesso Ralph? «Io sono il padre della vittima» esordì Perkin «e non voglio che si sollevi altro clamore su questa faccenda. È molto pericoloso protestare per la condotta di un lord. Lui troverà sempre il modo per punire chi si è lamentato, a torto o a ragione. Lasciamo perdere.» «Troppo tardi» replicò Wulfric. «Abbiamo già protestato, o almeno l'ha fatto il nostro prete. Non abbiamo niente da guadagnare a tirarci indietro adesso.» «Abbiamo già ottenuto abbastanza» ribatté Perkin. «Ralph è stato umiliato davanti al suo conte. Ora sa che non può fare qualsiasi cosa gli salti in mente.» «Al contrario» dissentì Wulfric. «Adesso è convinto di averla passata liscia. Ho paura che lo farà di nuovo. Nessuna donna del villaggio sarà più al sicuro.» Anche Gwenda aveva già mosso a Wulfric le stesse obiezioni che stava
avanzando Perkin, ma il marito non le aveva nemmeno risposto. A dire il vero, non le aveva quasi più rivolto la parola da quando lei gli aveva fatto lo sgambetto al maniero. Dapprima Gwenda si era detta che Wulfric le teneva il broncio solo perché aveva fatto la figura dello stupido. Si era aspettata che lui dimenticasse la faccenda una volta tornato da Earlscastle. Ma si era sbagliata: Wulfric non l'aveva più toccata, nel letto o fuori per una settimana, raramente incrociava il suo sguardo e le aveva parlato solo a monosillabi o grugniti. Gwenda cominciava a scoraggiarsi. «Non vincerete contro Ralph» intervenne Nathan Reeve. «I servi non hanno mai la meglio sui lord» «Non ne sarei così sicuro» ribatté Wulfric. «Tutti hanno nemici. Probabilmente non siamo gli unici a desiderare che venga messo un freno alla tracotanza di Ralph Forse non riusciremo mai a vederlo condannare in tribunale, ma dobbiamo infliggergli il massimo delle tribolazioni e delle difficoltà se vogliamo che esiti la prossima volta che gli salterà in testa di commettere questo genere di violenze» Parecchi abitanti del villaggio assentirono per manifestare il loro accordo, ma nessuno osò aprire bocca per appoggiare Wulfric. Gwenda cominciò così a sperare che il marito avesse la peggio nella discussione. Invece lui, per confermare ancora una volta la sua cocciutaggine, si rivolse al prete. «Che cosa ne pensate, padre Gaspard?» Gaspard era giovane, povero e seguiva la propria coscienza. Soprattutto, non temeva la nobiltà. Non era ambizioso (non desiderava certo diventare vescovo e unirsi alla classe dominante), quindi non aveva alcun bisogno di compiacere i potenti. Per questo rispose: «Annet è stata crudelmente violata nel suo intimo, la pace del nostro villaggio è stata spezzata in modo delittuoso e lord Ralph ha commesso un peccato abietto e spregevole, per il quale deve confessarsi e pentirsi. Per rispetto nei confronti della vittima per la stima di noi stessi e per salvare lord Ralph dalle fiamme dell'inferno, dobbiamo andare da lord William». Ci fu un mormorio di assenso. Wulfric fissò Billy Howard e Annet, seduti fianco a fianco. In fin dei conti, pensò Gwenda, la gente avrebbe probabilmente fatto ciò che decidevano Annet e Billy. «Io non voglio guai» disse Billy «ma dovremmo portare a termine quel che abbiamo cominciato, per il buon nome di tutte le donne del villaggio.» Annet non alzò lo sguardo da terra, tuttavia approvò con un cenno del capo, e Gwenda si rese conto sgomenta che Wulfric aveva vinto.
«Bene, hai ottenuto ciò che volevi» gli disse quando uscirono dalla chiesa. Lui rispose con un grugnito. Gwenda insistette. «Quindi suppongo che continuerai a rischiare la vita per l'onore della moglie di Billy Howard, rifiutandoti di rivolgere la parola alla tua stessa moglie.» Wulfric non aprì bocca. Sam avvertì la tensione e cominciò a piangere. Gwenda provò un senso di disperazione. Aveva mosso mari e monti per avere l'uomo che amava, era riuscita a sposarlo e aveva avuto un figlio da lui, con il risultato che adesso la trattava come una nemica. Suo padre non si era mai comportato così con sua madre... non che la condotta di Joby potesse essere un modello per qualcuno. Tuttavia, lei non aveva proprio idea di come prendere il marito. Aveva cercato di usare Sam, tenendolo in braccio mentre con la mano libera sfiorava Wulfric, nel tentativo di riconquistare il suo affetto facendo in modo che l'associasse al figlio che lui adorava; invece Wulfric si era limitato ad allontanarli entrambi. Aveva persino provato col sesso, strusciando di notte il suo seno contro la schiena del marito, sfiorandogli la pancia con la mano, toccandogli il pene, ma non aveva funzionato: Gwenda avrebbe dovuto immaginarlo, ripensando a come le aveva resistito l'estate precedente, prima che Annet sposasse Billy. Adesso, in preda alla frustrazione, gridò: «Ma che cosa ti prende? Ho solo cercato di salvarti la vita!». «Non avresti dovuto farlo» ribatté lui. «Se ti avessi lasciato uccidere Ralph, ti avrebbero impiccato!» «Non ne avevi il diritto.» «Che cosa importa se ne avevo o no il diritto?» «Questa è la filosofia di tuo padre, vero?» Lei rimase interdetta. «Che cosa intendi?» «Tuo padre è convinto che non ha importanza se uno ha il diritto o no di fare qualcosa. Se lui lo ritiene giusto, lo fa. Come vendere te per sfamare la sua famiglia.» «Mio padre mi ha venduto per farmi violentare! Io, invece, ti ho fatto lo sgambetto per salvarti dalla forca. C'è una bella differenza.» «Finché continuerai a ragionare così, non capirai mai né lui né me.» Gwenda si rese conto che non sarebbe mai riuscita a riconquistare il suo affetto dimostrandogli che lui aveva torto. «Be'... allora vuol dire che non capisco.» «Mi hai privato del potere di decidere per conto mio. Mi hai trattato nel-
lo stesso modo in cui tuo padre ha trattato te, come un oggetto su cui avere il controllo, non come una persona. Non importa se avevo ragione o no. Il punto è che dovevo essere io a decidere, non tu. Ma non riesci a capirlo, proprio come tuo padre non capisce il male che ti ha fatto quando ti ha venduto.» Gwenda era ancora convinta che le due situazioni fossero completamente diverse, ma non si impuntò perché stava cominciando a comprendere che cosa l'avesse fatto andare su tutte le furie. Wulfric teneva tantissimo alla propria indipendenza, e su questo Gwenda era solidale con il marito, perché la pensava allo stesso modo. Invece lei gliel'aveva calpestata. «Io... io credo di capire» disse in tono esitante. «Davvero?» «In ogni caso, cercherò di non fare mai più una cosa del genere.» «Bene.» Gwenda credeva solo in parte di essere nel torto, ma desiderava disperatamente porre fine alla guerra che li metteva l'uno contro l'altra, così gli disse: «Mi dispiace». «D'accordo.» Wulfric non si era sbottonato molto, però lei avvertì che si stava addolcendo. «Sai che non voglio che tu vada a protestare da lord William contro Ralph... ma, se sei deciso a farlo, non cercherò di fermarti.» «Ne sono contento.» «In effetti» aggiunse Gwenda «potrei persino aiutarti.» «Oh, e come?» disse lui. 36 Un tempo la residenza di lord William e lady Philippa a Casterham era stata un castello. Esisteva ancora un torrione rotondo in pietra con tanto di merlature, benché fosse in rovina e venisse usato come stalla per il bestiame. Le mura intorno alla corte erano intatte, ma il fossato si era prosciugato e il terreno del leggero avvallamento superstite era impiegato per coltivare ortaggi e alberi da frutto. Il ponte levatoio di un tempo era stato sostituito da una semplice rampa che conduceva al corpo di guardia. Gwenda, con in braccio Sam, passò sotto l'arcata della guardiola insieme a padre Gaspard, Billy Howard, Annet e Wulfric. Un giovane armigero, presumibilmente di sentinella, stava ciondolando su una panca e quando vide l'abito talare non intimò l'altolà. Quell'atmosfera rilassata fece ben
sperare Gwenda. Confidava infatti di ottenere un'udienza privata con lady Philippa. Entrarono nel palazzo dalla porta principale e si ritrovarono in una sala grande, con alte vetrate come quelle di una chiesa, che sembrava occupare circa la metà della superficie complessiva della casa. Il resto doveva essere adibito alle stanze personali, secondo l'usanza moderna, che privilegiava il bisogno di intimità delle famiglie nobili a discapito delle difese militari. Un uomo di mezza età, con indosso una tunica di pelle, sedeva a un tavolo e calcolava le tacche su un bastone per far di conto. Alzò per un momento lo sguardo, concluse la sua somma, appuntò una nota su una lavagnetta, poi disse: «Buona giornata, forestieri». «Buona giornata a voi, mastro balivo» rispose Gaspard, intuendo la carica dell'uomo. «Siamo qui per incontrare lord William.» «Dovrebbe tornare per l'ora di cena, padre» disse il balivo in tono cortese. «Che affari dovete trattare con lui, se posso chiederlo?» Gaspard cominciò a spiegare e Gwenda sgattaiolò fuori. Girò attorno all'edificio fino ad arrivare alla zona riservata alla servitù. Scorse un fabbricato di legno separato dal corpo principale, che dedusse essere la cucina. Una sguattera era seduta su uno sgabello accanto alla porta con davanti un sacco pieno di cavoli, che affondava in un grosso catino pieno d'acqua per eliminare il fango. La ragazza era giovane e guardò con simpatia il piccolo. «Quanto tempo ha?» chiese. «Quattro mesi, quasi cinque. Di nome fa Samuel, ma lo chiamiamo tutti Sam.» Il bambino sorrise alla ragazza, che disse: «Ah». «Io sono una semplice donna del popolo, come te» proseguì Gwenda «ma ho urgenza di parlare con lady Philippa.» La giovane si accigliò e parve preoccuparsi. «E io sono una semplice sguattera di cucina» replicò. «Ma dovrai pur vederla qualche volta. Potresti parlarle al posto mio.» La ragazza si guardò alle spalle, come se temesse che qualcuno origliasse la loro conversazione. «Non mi va.» Gwenda capì che il suo piano poteva rivelarsi più problematico di quanto lei avesse previsto. «Non potresti almeno riferirle un messaggio da parte mia?» le chiese. La sguattera scosse il capo. In quell'istante giunse una voce dalla cucina. «Chi desidera farmi avere
un messaggio?» Gwenda si irrigidì e si domandò se si fosse messa nei guai. Lanciò un'occhiata alla porta. Qualche secondo più tardi, lady Philippa varcò la soglia. Non era propriamente bella, ma poteva definirsi di aspetto piacevole. Aveva il naso dritto, la mascella volitiva, occhi verdi grandi e limpidi. Non stava sorridendo, anzi, era abbastanza accigliata, ma nonostante ciò c'era un che di cordiale e indulgente nella sua espressione. Gwenda rispose alla sua domanda. «Sono Gwenda di Wigleigh, mia signora.» «Wigleigh.» Philippa aggrottò ancora di più la fronte. «E che cosa avresti da dirmi?» «Si tratta di lord Ralph.» «Temevo che si trattasse di lui. Bene, entra e vediamo di scaldare quel piccolino davanti al focolare della cucina.» Molte gentildonne si sarebbe rifiutate di parlare con qualcuno di così umili origini come Gwenda, ma lei aveva intuito che Philippa aveva un cuore tenero sotto quell'apparenza alquanto autoritaria. Gwenda seguì Philippa all'interno della cucina. Sam cominciò a frignare e la madre lo attaccò al seno. «Puoi sederti» le disse Philippa. Anche quel gesto era molto insolito. Una serva di solito sarebbe rimasta in piedi mentre parlava a una nobildonna. Gwenda sospettò che Philippa si comportasse così a causa del bambino. «Bene, adesso raccontami tutto» la esortò. «Che cosa ha combinato Ralph?» «Vi ricorderete, mia signora, di quella zuffa alla fiera della lana di Kingsbridge, l'anno scorso.» «Certamente. Ralph aveva allungato le mani su una giovane contadina e il suo aitante fidanzato gli ha spaccato il naso. Quel ragazzo non avrebbe dovuto farlo, naturalmente, ma ciò non toglie che Ralph sia un bruto.» «Potete ben dirlo. La settimana scorsa ha incontrato per caso la stessa ragazza, Annet, nella foresta. Lo scudiero di Ralph l'ha tenuta ferma mentre lui l'ha violentata.» «Oh, che Dio ci aiuti.» Philippa assunse un'espressione afflitta. «Ralph è una bestia, un porco. Sapevo che non doveva essere nominato lord. L'avevo detto a mio suocero che non si meritava questo onore.» «È un vero peccato che il conte non abbia seguito il vostro consiglio.»
«E immagino che adesso il fidanzato reclami giustizia.» Gwenda esitò. Non era sicura di quanto dovesse rivelare di quella storia complicata, ma intuì che sarebbe stato un errore tacere qualcosa. «Annet si è sposata, mia signora, ma con un altro.» «Allora, quale ragazza fortunata si è aggiudicata messer Bellezza?» «Si dà il caso che Wulfric abbia sposato me.» «Congratulazioni.» «Anche se lui adesso si trova qui, col marito di Annet, per testimoniare.» Philippa lanciò a Gwenda un'occhiata eloquente e parve sul punto di fare una qualche osservazione, poi ci ripensò. «Ma perché siete venuti qui? Wigleigh non si trova nel territorio di mio marito.» «L'incidente è avvenuto nella foresta, sulle proprietà di lord William. Stando a quanto afferma il conte, lui non può giudicare in materia.» «È solo una scusa. Roland giudica su qualsiasi questione gli vada a genio. Il fatto è che non vuole punire un uomo che ha appena elevato di rango.» «A ogni modo, il parroco del nostro villaggio ci ha accompagnato per raccontare a lord William che cosa è successo.» «E cosa vuoi che faccia?» «Voi siete una donna e potete capire. Sapete che gli uomini troverebbero qualsiasi scusa per giustificare uno stupro. Dicono che la ragazza era d'accordo o aveva atteggiamento provocante.» «Sì.» «Se Ralph la passerà liscia questa volta, potrebbe rifarlo... magari con me.» «O con me» disse Philippa. «Dovresti vedere in che modo mi guarda... come un cane che punti un'oca nello stagno.» Quell'affermazione era incoraggiante. «Forse potreste far capire a lord William quanto sia importante che Ralph non la faccia franca.» Philippa annuì. «Penso di poterci riuscire.» Sam aveva smesso di poppare e si era addormentato. Gwenda si alzò. «Vi ringrazio, mia signora.» «Sono contenta che tu sia venuta da me» le disse Philippa. Lord William li convocò la mattina seguente. Si incontrarono nella sala grande e Gwenda fu felice nel vedere seduta accanto a lui lady Philippa, che le rivolse un'occhiata amichevole. Gwenda sperò che significasse che la nobildonna aveva parlato al marito.
William era alto e aveva i capelli scuri, come il conte suo padre, ma si stava stempiando e l'ampia fronte, come la barba e le sopracciglia scure, suggeriva un atteggiamento autoritario più riflessivo, che corrispondeva alla sua reputazione. Esaminò il vestito macchiato di sangue e osservò le ecchimosi di Annet, che adesso dal rosso acceso di quattro giorni prima erano diventate blu. Nonostante ciò, provocarono un moto d'ira sul volto di lady Philippa. Gwenda immaginò che quella reazione fosse causata tanto dalle ferite quanto dalla scena brutale che evocavano: uno scudiero nerboruto inginocchiato sulle braccia di una ragazza per tenerla ferma, mentre un altro uomo la violentava. «Bene, finora hai fatto tutto correttamente» disse William ad Annet. «Ti sei recata subito nel villaggio più vicino, hai mostrato le tue ferite agli uomini rispettabili del posto e hai fatto il nome del tuo aggressore. Adesso devi presentare un'istanza a un giudice di pace del tribunale della contea di Shiring.» Annet fu colta dall'ansia. «Che cosa significa?» «Un'istanza è un atto d'accusa, scritto in latino.» «Non so scrivere nella mia lingua, mio signore, figuriamoci in latino.» «Lo può fare padre Gaspard al posto tuo. Il giudice sottoporrà l'istanza a una giuria e tu testimonierai su quel che è successo. Te la senti? Può darsi che ti chiedano particolari imbarazzanti.» Annet annuì con decisione. «Se crederanno a quello che dici, ordineranno allo sceriffo di convocare lord Ralph in tribunale il mese successivo per essere processato. A quel punto avrai bisogno di due mallevadori, due persone che si impegneranno a versare una somma di denaro per assicurare che tu presenzierai al processo.» «Ma chi saranno i miei mallevadori?» «Padre Gaspard può essere uno e io sarò il secondo. Il denaro lo verserò io.» «Grazie, mio signore!» «Ringrazia mia moglie, la quale mi ha convinto che non posso permettere che la pace del regno venga infranta sul mio territorio a causa di un atto di violenza.» Annet lanciò a lady Philippa un'occhiata carica di riconoscenza. Gwenda osservò Wulfric. Aveva riferito al marito la conversazione avuta con la moglie del lord. In quel momento i loro sguardi si incontrarono e lui fece un cenno impercettibile di approvazione: sapeva bene chi avesse
reso possibile quel risultato. «Al processo, esporrai di nuovo tutta la storia» proseguì lord William «e i tuoi amici dovranno testimoniare: Gwenda dirà che sei rientrata dalla foresta con la veste macchiata di sangue, padre Gaspard riferirà quel che tu gli hai raccontato, Wulfric testimonierà di avere visto Ralph e Alan che scappavano a cavallo dal luogo del misfatto.» Tutti annuirono solennemente. «Un'ultima cosa: dopo avere dato inizio a una procedura del genere, non è più possibile recedere. Ritirare un appello è un'offesa punita severamente... per non parlare delle possibili vendette che Ralph potrebbe mettere in atto contro di voi.» «Non cambierò idea» gli assicurò Annet. «Ma che cosa ne sarà di Ralph? Come sarà punito?» «Oh, c'è solo una possibile punizione per lo stupro» rispose lord William. «La forca.» Quella notte dormirono tutti nella sala grande del castello, avvolti nei loro mantelli e raggomitolati sul tappeto di giunco sul pavimento, insieme ai servitori, agli scudieri e ai cani di lord William. Quando le braci ardenti nell'enorme focolare si ridussero a un tenue bagliore, Gwenda con fare esitante allungò una mano incerta verso il marito e gliela posò sul braccio, accarezzando la lana del suo mantello. Non aveva più fatto l'amore con lui dal giorno dello stupro di Annet, e non sapeva se Wulfric ne avesse voglia. L'aveva fatto arrabbiare molto con quello sgambetto: la sua intercessione presso lady Philippa avrebbe riparato quel torto? La risposta di Wulfric fu immediata: l'attirò a sé e la baciò sulle labbra. Gwenda si rilassò riconoscente fra le sue braccia. Si scambiarono tenerezze per un po', e lei si sentiva così felice che quasi si sarebbe messa a piangere. Si aspettava che Wulfric rotolasse sopra di lei, ma lui non lo fece. Gwenda capiva che la desiderava, perché si stava comportando in modo molto affettuoso e il suo membro si era indurito, ma forse esitava trovandosi in compagnia di altre persone. La gente faceva sesso in grandi sale come quella, naturalmente; era una cosa normale e nessuno vi badava. Però forse Wulfric si sentiva intimidito. Tuttavia Gwenda era decisa a suggellare la loro riconciliazione, e dopo qualche istante fu lei a salire sopra il marito, coprendo entrambi col mantello. Mentre cominciavano a muoversi allo stesso ritmo, lei vide, a poche
iarde da loro, un adolescente che li osservava con gli occhi sbarrati. Gli adulti, in una situazione simile, avrebbero ovviamente distolto lo sguardo con discrezione, ma quel ragazzo era nell'età in cui il sesso è un mistero affascinante, ed era evidente che non riusciva a guardare altrove. Gwenda era così felice che quasi non le importò. Si mise a fissare a sua volta il ragazzo, poi gli sorrise, senza smettere di muoversi. Il giovane rimase a bocca aperta per lo stupore e fu assalito da un terribile imbarazzo. Con espressione mortificata, si girò dall'altra parte e si coprì gli occhi con un braccio. Gwenda si tirò il mantello sopra la testa, affondò il viso nel collo di Wulfric e si abbandonò al piacere. 37 Caris si sentiva più sicura la seconda volta che si presentò al tribunale reale. La vasta sala di Westminster Hall non le incuteva più soggezione, né lo faceva la moltitudine di ricchi e potenti che si affollava davanti ai banchi dei giudici. Era già stata lì in precedenza, ormai conosceva la trafila, e tutto ciò che le era parso così strano l'anno prima adesso le era familiare. Vestiva persino un abito alla moda di Londra, verde sul lato destro e azzurro su quello sinistro. Si divertiva a studiare chi le stava intorno e a indovinarne il carattere dal volto: arrogante o disperato, disorientato o scaltro. Dagli occhi sbarrati e dall'aria incerta riusciva a individuare le persone che erano giunte per la prima volta nella capitale, e provava nei loro confronti un piacevole senso di superiorità, sentendosi più esperta. I pochi dubbi che nutriva erano tutti rivolti al suo avvocato, Francis Bookman. Era giovane e bene informato e, come la maggior parte degli avvocati, pensò Caris, sembrava molto sicuro di sé. Era un uomo piccolo con i capelli biondo rossiccio, svelto nei movimenti e sempre pronto a ribattere: le faceva venire in mente un uccellino impertinente sul davanzale di una finestra, intento a beccare briciole e a scacciare i rivali con fare aggressivo. Aveva assicurato che il loro caso era incontrovertibile. Godwyn era difeso da Gregory Longfellow, com'era prevedibile. Gregory aveva vinto la causa contro il conte Roland, e Godwyn naturalmente gli aveva chiesto di rappresentare il priorato anche questa volta. L'avvocato aveva dimostrato la propria abilità, mentre Bookman era uno sconosciuto. Tuttavia, Caris aveva un asso nella manica, un elemento che avrebbe scioccato Godwyn. Questi non mostrava alcuna consapevolezza di avere tradito Caris, suo
padre e l'intera città di Kingsbridge. Aveva sempre dato di sé un'immagine da riformatore, insofferente dell'atteggiamento retrivo del priore Anthony, disposto ad andare incontro alle esigenze della città, desideroso di assicurare la prosperità sia ai frati sia ai mercanti. Poi, trascorso un anno dalla sua nomina a priore, aveva fatto un completo voltafaccia ed era diventato ancora più tradizionalista di Anthony. Eppure non sembrava che provasse vergogna. Caris arrossiva di rabbia ogni volta che ci pensava. Il priore non aveva alcun diritto di obbligare gli abitanti di Kingsbridge a usare la gualchiera. Le altre sue imposizioni - il bando delle macine a mano, le tasse sulle conigliere e sui vivai per pesci privati - erano tecnicamente corrette, anche se vergognosamente pesanti. Ma la gualchiera doveva essere gratuita, e Godwyn lo sapeva. Caris si domandò se lui fosse davvero convinto che qualsiasi inganno era perdonabile a patto che fosse fatto in nome dell'opera divina. Di certo gli uomini di Dio avrebbero dovuto essere più scrupolosi in fatto di onestà rispetto ai laici, non meno... Espresse quell'opinione a suo padre, mentre girovagavano nel tribunale in attesa che fosse dibattuto il loro caso. «Non mi fido mai di chi proclama la propria moralità dal pulpito» le rispose lui. «Quei tipi dai sani principi riescono sempre a trovare una scusa per infrangere le loro stesse regole. Preferisco fare affari con un peccatore comune, il quale sa che, a lungo andare, probabilmente torna a suo vantaggio dire la verità e mantenere le promesse. Di solito uno così non cambia idea.» In momenti come quello, quando suo padre pareva tornato l'uomo di un tempo, Caris si rendeva conto di come fosse cambiato. Di recente non capitava spesso che fosse sagace e pronto. Era più facile che fosse smemorato e sbadato. Caris sospettava che il declino fosse iniziato alcuni mesi prima che lei cominciasse a rendersene conto, e probabilmente ciò spiegava il suo totale fallimento nel prevedere il crollo del mercato della lana. Dopo un'attesa di parecchi giorni furono convocati al cospetto di sir Wilbert Wheatfield, il giudice dal colorito roseo e dai denti guasti che aveva deciso in favore del priore contro il conte Roland un anno prima. La fiducia di Caris cominciò a vacillare quando il giudice prese posto al suo banco appoggiato alla parete orientale. Era inquietante che un semplice mortale dovesse avere un tale potere. Se avesse preso la decisione sbagliata, la nuova impresa di produzione di tessuti di Caris sarebbe andata in rovina, suo padre si sarebbe ritrovato sul lastrico e nessuno sarebbe più stato in grado di pagare un ponte nuovo. Poi, quando l'avvocato prese la parola, cominciò a sentirsi meglio. Fran-
cis Bookman esordì con la storia della gualchiera, spiegando che era stata inventata dal leggendario Jack il costruttore, che aveva realizzato la prima, e come il priore Philip avesse concesso agli abitanti della città il diritto di usarla senza dover pagare. Confutò poi le argomentazioni di Godwyn, prevenendo il priore prima ancora che aprisse bocca. «È vero che il mulino è in cattivo stato, è lento e tende a rompersi spesso» concesse. «Ma come può il priore sostenere che la gente ha perso ogni diritto di usarlo? Il mulino è di proprietà del priore, ed è suo compito mantenerlo funzionale. Il fatto che lui abbia fallito nei suoi doveri non fa alcuna differenza. Non tocca agli abitanti della città riparare il mulino, e di certo loro non hanno alcun obbligo a farlo. La concessione del priore Philip non poneva condizioni.» A quel punto, Francis produsse la sua arma segreta. «Nel caso in cui il priore dovesse cercare di rivendicare che la concessione poneva condizioni, invito la corte a leggere la copia del testamento del priore Philip.» Godwyn rimase sbigottito. Aveva cercato di far credere che il testamento fosse andato perduto. Tuttavia Thomas Langley aveva acconsentito a cercarlo, come favore personale a Merthin, e l'aveva sottratto di nascosto dalla biblioteca per un giorno, il tempo sufficiente perché Edmund lo facesse copiare. Caris non poté fare a meno di godersi l'espressione sgomenta e irritata sul volto di Godwyn quando questi scoprì che il suo inganno era stato vanificato. Fece un passo avanti e domandò in tono indignato: «In che modo l'avete ottenuto?». La domanda era significativa. Non aveva chiesto: "Dove l'avete trovato?", la richiesta più logica se il testamento fosse davvero andato perduto. Gregory Longfellow assunse un'aria seccata e con un cenno gli intimò di tacere; allora Godwyn chiuse la bocca e fece un passo indietro, rendendosi conto di essersi tradito... ma ormai era troppo tardi, pensò Caris. Il giudice doveva avere capito che l'unico motivo plausibile per cui Godwyn si mostrava contrariato era perché sapeva che il documento favoriva gli abitanti di Kingsbridge, e quindi aveva cercato di occultarlo. Francis, dopo quel colpo di scena, giunse rapidamente alla conclusione: una saggia decisione, pensò Caris, perché in tal modo la doppiezza di Godwyn sarebbe stata ben presente nella mente del giudice mentre Gregory sosteneva le ragioni della difesa. Ma l'approccio di Gregory colse tutti di sorpresa.
Si fece avanti e si rivolse a sir Wheatfield dicendo: «Vossignoria, Kingsbridge non è una città dotata di autonomia». Concluse così, come se fosse tutto ciò che aveva da dire. Era vero, da un punto di vista legale. La maggior parte delle città godeva, grazie a un decreto reale, della libertà di commerciare e organizzare mercati senza alcun obbligo nei confronti del conte o del barone locale. I cittadini erano uomini liberi, che non dovevano giurare fedeltà a nessuno, tranne che al re. Tuttavia, un numero limitato di città, come appunto Kingsbridge, era ancora proprietà di un grande feudatario, solitamente un vescovo o un priore: St Albans e Bury St Edmunds erano altri esempi. Il loro stato giuridico era meno chiaro. «Questo cambia le cose» commentò il giudice. «Solo gli uomini liberi possono appellarsi al tribunale reale. Che cosa avete da dire in proposito, Francis Bookman? I vostri clienti sono servi della gleba?» Francis si voltò verso Edmund. A voce bassa e concitata, gli chiese: «Gli abitanti della città si sono già appellati al tribunale reale in passato?». «No. Il priore ha...» «Nemmeno la corporazione parrocchiale? Magari nelle generazioni passate?» «Non risulta da nessun documento...» «Allora non possiamo appellarci a un precedente. Dannazione.» Francis tornò a rivolgersi al giudice. In un batter d'occhio l'espressione del suo volto si trasformò da preoccupata a risoluta, e lui parlò come se si degnasse di trattare un argomento di scarso rilievo. «Vossignoria, i cittadini sono liberi. Godono del diritto di proprietà.» «Non c'è una definizione universale di diritto di proprietà» ribatté Gregory. «Significa cose diverse in luoghi diversi.» «Esiste una dichiarazione scritta di questa consuetudine?» domandò il giudice. Francis guardò Edmund, che scosse il capo. «Nessun priore consentirebbe mai che una cosa del genere venisse scritta» mormorò il castaldo. Francis si rivolse di nuovo al giudice. «Non esistono dichiarazioni scritte, vossignoria, ma è evidente che...» «Allora questa corte deve decidere se siete o no uomini liberi» affermò sir Wheatfield. Edmund parlò direttamente con il giudice. «Vossignoria, i cittadini hanno la libertà di comprare e vendere le loro case.» Questo era un diritto fondamentale che non veniva concesso ai servi della gleba, che avevano biso-
gno del permesso del loro feudatario. «Però avete obblighi feudali» ribatté Gregory. «Dovete usare i mulini e le peschiere del priore.» «Lasciate perdere le peschiere» disse il giudice. «Il fattore cruciale è il rapporto dei cittadini con il sistema della giustizia reale. La città accoglie liberamente lo sceriffo del re?» Fu Gregory a rispondere. «No, deve chiedere il permesso per entrare in città.» «Questa è una decisione del priore, non nostra!» protestò Edmund indignato. «Molto bene» disse sir Wheatfield. «I cittadini prestano servizio nelle giurie reali oppure chiedono l'esonero?» Edmund esitò. Godwyn era euforico. Prestare servizio nelle giurie era un compito che faceva perdere molto tempo e tutti lo evitavano, se appena potevano. Dopo una pausa Edmund rispose: «Chiediamo l'esonero». «Allora ciò mette fine alla questione» concluse il giudice. «Se voi vi sottraete a questo dovere adducendo il motivo che siete servi della gleba, non potete appellarvi alla giustizia del re scavalcando il vostro feudatario.» «Alla luce di ciò» dichiarò Gregory trionfante «vi chiedo di rigettare l'istanza dei cittadini.» «Richiesta accettata» rispose il giudice. Francis sembrava furioso. «Vossignoria, posso prendere la parola?» «Ovviamente no» ribatté il giudice. «Ma, vossignoria...» «Ancora una parola e vi tratterrò per oltraggio alla corte.» Francis chiuse la bocca e chinò il capo. «Il prossimo caso» declamò sir Wheatfield. Un altro avvocato cominciò a parlare. Caris era sbalordita. Francis affrontò lei e suo padre con parole di accusa. «Avreste dovuto dirmelo che eravate asserviti!» «Non lo siamo.» «Il giudice ha appena decretato il contrario. Non posso vincere le cause basandomi su informazioni parziali.» Caris decise che non valeva la pena di discutere con lui. Era il classico giovane che non ammetteva di sbagliare. Godwyn era così soddisfatto di sé che sembrava dovesse scoppiare. Prima di andarsene, non poté trattenersi dal lanciare un'ultima frecciata di
congedo, agitando un dito sotto il naso di Edmund e Caris. «Spero che, in futuro, comprenderete quanto sia saggio sottomettersi al volere di Dio» declamò in tono solenne. «Oh, levati dai piedi» gli disse Caris girandogli la schiena. Poi si rivolse al padre. «Questo ci rende del tutto impotenti! Abbiamo dimostrato di avere il diritto di usare la gualchiera a titolo gratuito, ma Godwyn può ancora negarci quel diritto!» «Così pare» rispose lui. Caris si girò verso Francis. «Deve pur esserci qualcosa che possiamo tentare» gli disse furente. «Be'» rispose l'avvocato «potreste fare in modo che Kingsbridge diventi una città autonoma, con un decreto reale che stabilisca i vostri diritti e le vostre libertà. Allora avreste accesso al tribunale reale.» Caris intravide un barlume di speranza. «E come possiamo riuscirci?» «Fate domanda al re.» «E lui ce lo concederà?» «Se adducete il motivo che ne avete bisogno per essere in grado di pagare le tasse, vi darà certamente ascolto.» «Almeno ci dobbiamo provare.» «Godwyn andrà su tutte le furie» la avvertì Edmund. «Che ci vada» replicò Caris in tono risoluto. «Non sottovalutare la sfida» insistette suo padre. «Sai bene quanto sia privo di scrupoli, persino nelle dispute di poco conto. Una provocazione del genere scatenerà una guerra su tutti i fronti.» «E guerra sia» disse Caris cupamente. «Su tutti i fronti.» «Oh, Ralph, come hai potuto?» gli disse sua madre. Merthin studiò il volto del fratello alla fioca luce della casa dei genitori. Ralph sembrava combattuto fra la tentazione di smentire categoricamente e quella di giustificare le proprie azioni. Alla fine, disse: «È s