Ogni volta unica, la fine del mondo
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Dello stesso Autore presso laJaca Book La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, 1968, nuova ed. 1984 Della grammatologia, 1969, nuova ed. 1998 Dove comincia e come finisce un corpo insegnante, in G. Dalmasso (a cura di), Il corpo insegnante e la filosofia, 1980 Di un tono apocalittico adottato di recente in filosu/ia, in G. Dalmasso (a cura di), Disegno, 1984 La farmacia di Platone, l 985 Introduzione a «[;origine della geometria» di Husserl, 1987 La disseminazione, 1989 Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, 1992 Memorie per Paul De Man. Saggio sull'autobiografia, l 995 Il segreto del nome, l 997 Addio a Emmanuel Lévinas, 1998 Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, 2000 Donare la morte, 2002, rist. 2003 Ogni volta unica, la fine del mondo, 2005 Economimesis. Politiche del bello, 2005 (in prep.)

Jacques Derrida OGNI VOLTA UNICA, LA FINE DEL MONDO

Testi presentati da Pascale-Anne Brault e Michael Naas

Il Jaca B~~k

Il

Titolo originale

Chaque /ois unique, la /in du monde Traduzione dal francese di Massimo Zannini ©2003 Éditions Galilée, Paris ©2005 Editoriale Jaca Book spa, Milano per l'edizione italiana Prima edizione italiana aprile 2005

In copertina Forma con attraversamento e apertura. Disegno Ufficio grafico Jaca Book

Questo volume viene pubblicato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri francese e del Ministero della Cultura francese - Centre National du Livre Ouvrage publié avec le concours du Ministère français des Affaires Étrangères et du Ministère français chargé de la Culture - Centre national du livre

Fotocomposizione e impaginazione Actualtype, Milano Stampa e confezione New Press, Como marzo2005 ISBN 88-16-40669-0 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book :;pa Servizio Lettori Via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02-48.56.15.20/29, fax 02-48.19.33.61 e-mail: [email protected]; internet: www.jacabook.it

L'ULTIMO SALUTO*

• Il 12 ottobre 2004, nel cimitero di Ris-Orangis, si sono svolti i funerali diJacques Derrida ed è stata data lettura del suo ultimo messaggio. Si ringrazia Marguerite Derrida per averne permesso la riproduzione.

hrP. n11l MntPH('n() cli PlatonP o clall'orazione funebre di Pericle-di cui Platone nd dialogo fa la parodia - la politica è legata al lutto e vi trova fondamento. Nel contesto ateniese, ad esempio, essa si lega a una retorica del lutto che tenta di rinchiuderlo, forse anche di porgli fine, accogliendo la morte nella gloria della «bella morte».

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Introduzione: Fare i conti con i morti sposta unica a un avvenimento assolutamente unico, a tal punto che il ricorso all'uso comune o al convenzionale sembrano essere «intollerabili o vani», e il silenzio sembra essere >. Così questo volume è irradiato dalla luce di queste stelle spente, fino ad esserne quasi consumato. E forse è proprio qui la sua forza, la sua forza di lutto, una forza che cresce solo disperdendo le pleiadi sempre più numerose nella notte dei tempi, interiorizzando e ricordando una singolare incandescenza che nessun libro e nessuna memoria saprebbero interiorizzare. Ogni volta che Derrida parla nel lutto, ci si immagina sentirlo dire che è una follia, che quel giorno non si presta a tali parole; ci si immagina sentirlo dire con le parole che assomigliano a quelle di un altro: «Un rendiconto? No, nessun rendiconto, mai più»27 • E tuttavia ogni volta renderà conto, e soprattutto di ciò che è sempre al di là di ogni scontatezza, suscitando una gratitudine incalcolabile in noi che restiamo a leggerlo.

Roland Barthes, La Chambre claire. Note sur la photographie, L'Etoile-GallimardLe Seui!, Paris 1980, pp. 126-128; tr. it. di R. Guidieri, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980. >, poi ai due bei libri seguenti, nel 1975, Tirannia del Logos e La rivoluzione strutturale, che bisognerà leggere erileggere, io lo faccio constatando che resistono bene al tempo e al passare delle mode). Ma oggi ho voglia di tornare indietro a quei «begli anni», quelli che piango dolcemente e che sono meno visibilmente pubblici: Londra, le numerose visite in occasione delle conferenze all'Istituto francese o ad Oxford, la meravigliosa ospitalità diJean-Marie e di Nathalie, o tutto ciò che succede tra amici intorno a un ambasciatore della cultura aperto, intelligente, allegro, inventivo, incisivo (anche da questo punto di vistaJean-Marie Benoist fu esemplare), gli incontri, le discussioni, le «partite», le traversate notturne della città. Rileggo in questo momento tutte le lettere di quel periodo, ce ne sono tante e tante (molte parlano dei suoi lavori in corso, dei grandi lihri promessi su Il proprio dell'uomo e i poeti metafisici inglesi - promessi e realizzati attraverso altri e sotto altri titoli); e da allora conservo sempre su uno scaffale un oggetto strano e prezioso, una cosa che in verità è più che preziosa, un segno senza prezzo firmato di suo pugno (scrittura grande e bella, nera, alta, angolosa, rapida, impaziente e nello stesso tempo perfetta): una scatola bianca sul cui fondo si leg~~ "Questa 11011 è w1a pipà11 poi, sotto la parola \\è», con un frego a forma di croce: «questa è una pipa». Il fatto è che, un giorno (è una lunga storia) avevo confidato a Jean"Maric quel che rappresentava

Ogni volta unica, la fine del mondo

per me un certo regalo, voglio dire il regalo che mio padre mi fece poco prima di morire, una pipa quadrata che egli teneva ritta sul fornello, mentre io la appoggiavo sulla scrivania, una pipa più volte persa, ritrovata, rotta, riparata - e un giorno dimenticata a Londra nel salone di Benoist. Ricevuto il mio telegramma, la riportò in Francia, ma a sua volta si dimenticò di riportarmela in occasione di una sua visita in rue d'Ulm, poi me la spedì per posta ricordandomi, sul fondo della scatola, che in verità, tra noi - e aveva ragione-, quella cosa donata, sebbene lo fosse stata, non era stata affatto una pipa. Sento chiaramente che a scrivere in un certo tono, e privilegiando questa o quella memoria, stasera mi lascio prendere da segni inglesi: inglesi perché sono stato così felice all'epoca degli incontri a Londra (certamente più che a Parigi che alla fine accuso- accusandomene sicuramente per primo -, pensando che sono cose ancora troppo «parigine», cioè provinciali, quelle piccole crepe dall'apparenza ideologico-politica, in verità piccole guerre di campanile che non ci riguardavano, non avrebbero dovuto riguardarci né lui né me, sono queste nuvole di quartiere che hanno fatto «ombra» tra noi; mi rimprovero oggi più che mai d'aver preso troppo sul serio quelle cose come se ne valesse la pena, come se la morte non fosse in agguato. Come se noi non dovessimo vederla venire. Ma ho sempre saputo - e oggi mi rimprovero di non averglielo detto - che quell'ombra dentro di me lasciava intatto quel poco di amicizia che sembrava obnubilare; e anche quando ci siamo, come si suol dire, persi di vista, io me ne rimanevo a distanza, affascinato da questo demonio d'uomo, anche se a volte disapprovavo); inglesi anche perché sentivo quanto l'Inghilterra l'avesse segnato nel pensiero e in particolare nella visione politica; inglesi infine, a causa di certe fascinazioni letterarie che, come ho detto, condividevo con lui, e che portavano sicuramente oltre la letteratura, verso ciò che chiamò, già ne La Géometrie des poètes métaphysiques, «Il nome proprio in brandelli» o «Il discorso sull'ombra» e, soprattutto, «L'anamorfosi e la lacrima». Sì, bisogna rileggere ciò cheJean-Marie Benoist ci ha confidato, e lo farò ancora, ma ora, tra confidenza e pensiero, che non sono mai estranei l'un l'altro, cerco di discernere quanto ci ha fatto intravedere delle lacrime: attraverso le lacrime. Egli non ci insegna che non bisogna piangere, ma ci ricorda che non bisogna a;; e: re il gusto delle lacrin1c: «l'atto di assaporare le lacrime è dunque il desiderio di riannettersi l'altro»; non bisogna «bere lacrime e indignarsi della stranezza del loro sapore rispetto alle nostre ... ». 126

Jean-Marie Benoist Dunque non bisogna piangere su se stessi (lo si fa? Si fa mai qualcos'altro? È la domanda tremolante in ogni lacrima, deplorazione o anche implorazione). Non si dovrebbe prendere gusto al lutto, che però è necessario. Bisogna farlo, ma non amare il lutto in sé, se esiste qualcosa del genere: non amarsi attraverso le proprie lacrime, ma amare soltanto l'altro, e ogni lacrima è dell'altro, dell'amico, del vivente come noi, che ci ricorda di custodire la vita.

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VI

LOUIS ALTHUSSER* 16 ottobre 1918 - 22 ottobre 1990

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Il testo è stato letto in occasione delle esequie di Louis Althusser ed è apparso in

L>) e l'interpretazione della selezione. Come se nell'accelerazione di questa corsa così breve, noi sapessimo in anticipo che non avremmo avuto mai il tempo di vedere e di sapere tutto dell'altro. Bisognava guidare velocemente, sempre di più. Perché parlare qui con insistenza della corsa e perché tante corse di macchine e di macchine da corsa? A causa della velocità, certo, e della crudeltà di un tempo che manca, ma anche a causa degli incidenti e della morte che ci aspetta ad ogni svolta. E poi anche perché io ho di Joe anche un altro ricordo che mi riempie e mi tiene il cuore. Fu un istante furtivo, lo scambio di uno sguardo senza durata, un lieve incidente alla fine di una giornata californiana. Questo ricordo non mi dà tregua da anni e vorrei condividerlo con voi. Era poco dopo la morte di Eugenio Donato, caro e vecchio amico comune, presso il quale ci eravamo d'altronde incontrati per la prima volta, e che aveva un culto esperto e raffinato per le automobili di rango, per quelle macchine nervose come dei cavalli da corsa, quelle che si guidano, se così si può dire, a mano, senza imbrigliature automatiche. Meno di un anno dopo la morte di Eugenio, dunque, ho rivisto Joe, nell'aprile 1984 a Irvine. Avevo appena parlato in una conferenza di Paul de Man e di Eugenio Donato, ambedue morti a qualche mese di distanza. Uscendo dall'Università accompagno Joe al parcheggio ed egli mi domanda con un sorriso complice, mostrandomi la macchina e spiando con occhio malizioso la mia reazione: «Guardi, che ne pensa? Le dice qual-

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Joseph N. Riddel cosa?». Ho subito riconosciuto la macchina di Eugenio. Joe aveva fatto quel che bisognava fare, l'aveva certamente acquistata per conservarla dopo la morte del nostro amico, per abitarla, guidarla, lasciarla correre ancora fino alla propria fine - e sono sicuro che in quel momento, nell'aprile 1984, eravamo almeno tre pazzi, due o tre amici a amare quel gesto. Un gesto firmato «Riddel» che giocava fedelmente con la vita e la morte come con l'enigma di un cambiamento di velocità, come la lettera del poema sulla strada o in città. Vorrei per finire rendere o lasciare la parola a Joe, la sua. Con la coscienza del sacrificio scelgo ancora velocemente questo brano in «Poem and City: The Sarcophagus of Time»(The Inverted Bell, p. 158):

As Williams puts it in Paterson, a «riddle (in the Joycean mode - :..)» which holds the enigma o/ death at its center: What end but love, that stares death in the eye? Sing me a song to make death tolerable, a song O/ a man and woman: the riddle o/ a man Anda woman****.

••••[«Come Williams in Paterson situa un 'indovinello (al modo di Joyce- ... )' che tiene saldo l'enigma della morte come suo centro: Quale fine se non l'amore, può guardare la morte negli occhi? l :antam1 una canzone per rendermi tollerabile la morte, il canto

di un uomo e una donna: l'indovinello di un uomo e di una donna»]. [ndt]

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IX

MICHEL SERVIÈRE* 21settembre1941 - 7 ottobre 1991

* Discorso pronunciato al Colloquio co-organizzato da Michd Servière - appena dopo li suo improvviso decesso-, «Art ajter phitosophy ... Art et concept», tenutosi dal 18 al 20 novembre 1991 al Centro Internazionale di Studi Pedagogici (CIEP) a Sèvres e ripreso nell'introduzione a Le Sujet de l'art, L'Harmattan, Paris 1997, pp. 5-8.

Come se ci fosse un'arte della firma

Potete capire la pena, il male, semplicemente il male e la pena, il male e la pena che sento in questo momento a riprendere il filo, rispondendo proprio a Michel Servière, dal momento che, in verità, noi abbiamo appena sentito lui, senza di lui. Desidero farlo, glielo dobbiamo, bisogna proprio farlo per lui. Non tanto rispondere per lui, ma rispondere a lui; a lui vivo, per conservarlo in vita, in noi, e là dove egli non ha cessato di parlare e di scrivere, di rivolgersi a noi, come ancora una volta l'abbiamo appena sentito, con una voce amica che recepiva la sua, abitandola o lasciandosi ancora abitare da quella. La prima volta che ho sentito la voce di Michel Servière, e già allora avevo cercato di rispondergli - anche se molto male -, fu circa vent'anni fa, nel luglio 1972. A Cerisy, in occasione di un Convegno su Nietzsche. Alla fine di una conferenza che avevo cominciato datando: «Nel settantadue (Nascita della tragedia) ... », Michel mi pose in quella occasione una difficile domanda proprio sull'occasione, su ciò che, al1' occasione, quel giorno chiamò l'«occasione». Il nome di occasione egli lo dava allora a una figura mitologica, quella di una certa castrazione. Quella a cui la donna non crede - e di cui avevo appena parlato. Gli domandai che cosa intendesse per «occasione». Descrisse una donna, come la vedesse in un quadro: analizzava una sorta di quadro, un' allegoria surrealista, un'altra silhouette dell'ispirazione poetica. Disegnò una figura minacciosa e allo stesso tempo minacciante, e anche un'allegoria della morte: con il rasoio in mano mentre un velo si spiegava al vento.

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Ogni volta unica, la fine del mondo Fui colpito, senza capire fino in fondo, ma me ne ricordo ancora con un'emozione la cui vivacità si rianima senza fatica. Non cesso di pensare, dopo la morte di Michel, a queste terribili occasioni, all'occasione della stessa occasione, a quegli strani appuntamenti che prendiamo con la morte e, a volte, come in questo caso, con gli amici morti, come se un orologio crudele e che la sa più lunga di noi avesse calcolato la caduta, l'incidente, il caso, la cadenza e l'occasione, la sfortuna e la scadenza perché ci trovassimo oggi, in questo momento, con la morte nell'anima, riuniti adesso da Michel Servière, proprio da lui, dalle sue mani, dall'organizzatore, dall'anfitrione, dal1'ospite, e lo spirito di questo assemblea, grazie a lui, intorno a lui come interno alla sua assenza, ma in presenza di un testo bello e ir.tcn so che egli, con un'eleganza regale, aveva terminato prima di finire. Perché l'aveva firmato prima di andarsene. Noi sappiamo che una firma non è solo una sigla, ma ci parla sempre della morte. Prima di ogni altra cosa, prima del nome stesso, una firma dice la morte possibile di chi porta il nome, ne dà la garanzia al di là della morte, che essa immediatamente richiama, la morte promessa, la morte data, la morte ricevuta, la morte che, quindi, arriva sempre prima di arrivare - e dunque, ahimè, avanti la sua ora. Sempre là dove attenderla significa non aspettarsela. A quella enigmatica domanda sull'occasione, come me la pose vent'anni fa, oggi raffronto, nella stessa incertezza di allora, le prime parole della lettera che mi ha scritto all'inizio di quest'anno. Ce l'ho sotto gli occhi. Era il 29 gennaio (1991). Con la sua bella grafia, abbondante e generosa, cominciava così: «L'anno è cominciato così male che esito a spedirle gli abituali auguri per l'anno nuovo». Sì, l'anno cominciava male. Penso, senza saperne di più, non ne diceva niente, che facesse allusione alla guerra (detta del Golfo) e ai morti che si stavano preparando per la loro occasione. L'anno finì male, ora lo sappiamo fin troppo. E la stessa lettera fissava l'occasione, preparava il posto alla fatalità per annunciare l'imprevedibile. Evocando questo colloquio e invitandomi, Miche! in effetti precisava: «Si tratterebbe sia di un suo intervento, sia di una libera discussione con me sul tema 'i\rte, concetto, firma'». Sì, la firma possiede l'ar te di parlare di morte, è il suo segreto, e suggella tutto ciò che si dice di questo epitaffio monumentale. Essa dà il concetto, il concetto del154

Michel Servière

la morte e tutti i concetti in quanto portano la morte. Ma si ritira, si cancella dal concetto. Se è bella, le capita anche di essere senza concetto, come una finalità senza fine. Se ci fosse un'arte della firma ... Certo che avevo accettato e di cuore, anzitutto perché desideravo parlare con lui, sentirlo, dirgli ancora, e pubblicamente, quanto ammiravo i suoi lavori. In particolare quelli sul ritratto e lautoritratto che per me furono testi di riferimento, quando l'anno scorso mi sono avventurato in quei paraggi - si trattava delle lacrime e di un certo lutto dello sguardo nell'arte del ritratto. Ma anche le sue ricerche sulla firma e, in genere, su tutto ciò che, a partire dalla pittura, viene a provocare la filosofia. Ed erano delle provocazioni di cui Michel non perdeva mai l'occasione. Non abbiamo parlato insieme abbastanza, Michel e io. Mi rimprovero di aver abusato della sua discrezione e d'aver lasciato che si tlicessero in silenzio, troppo silenzio, le cose, le cose dell'amicizia e le cose del pensiero che non sono mai separate. Ma oggi, per lui, per noi, per i suoi parenti, per quelli che l'ammirano, ho pensato fosse necessario scegliere di parlare, per amore della vita, e proprio perché quest'amore è stato ucciso. Ho pensato di parlare a Miche! Servière, di sentirlo e di cercare di rispondergli, comunque si viva o si interpreti lo strano tempo di questa risposta, e ciò che in esso sfida così bene le rappresentazioni tranquille del presente, del passato o del futuro anteriore. Ma siate indulgenti e perdonatemi se lo faccio con gran pena e troppo male.

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X

LOUIS MARIN* 22 maggio 1931 - 29 ottobre 1992

" Conterenza pronunciata il 28 ottobre 1993 al Centre Georges Pompidou, a Parigi, in occasione di un incontro in omaggio a Louis Marin e per salutare l'imminente apparizione di Des Pouvoirs de l'image. Gloses, Le Seuil, Paris 1993.

A forza di lutto

Chi mai dirà il lavoro di Louis Marin? I lavori di Louis Marin e il lavoro che li ha supportati, un lavoro smisurato, chi potrebbe, ormai, essere in grado di parlarne? Il lavoro: ciò che fa l'opera, certo; ciò che opera - e apre, ciò che fa l'opera e l'apertura: il lavoro dell'opera in quanto genera, produce e crea, ma anche il lavoro come sofferenza, resistenza della forza e male di chi dà. Di chi dà alla luce e dà a vedere, dà la possibilità, dà la forza di sapere e di poter vedere, e questi sono tutti poteri dell'immagine, il male di ciò che si dà e di chi si dà, il male di dare a vedere, a leggere, a pensare. Chi potrà mai dire il lavoro e i lavori di Louis Marin? Per quanto riguarda il lavoro - ma che si fa quando si lavora? Quando si lavora sul lavoro, sul lavoro del lutto, quando si lavora al lavoro del lutto, si/a già, sì, un tale lavoro, lo si soffre da quel primo momento, lo si lascia lavorare in sé, ci si dà la libertà della finitudine, la più degna e libera possibile. Non si può tenere un discorso sul >. La morte, o piuttosto il lutto, il lutto dell'assoluto della forza, ecco il nome, uno dei nomi del sentimento che unisce la forza al «senza forza», rapportando così la manifestazione della forza, come immagine, ali' essere senza forza di ciò che essa manifesta o dà a vedere, a vista d'occhio e secondo il lutto. Ciò che sembra più impressionante fin dall'inizio dell'ultimo libro, Des Pouvoirs de l'image, è il fatto che esso opera in maniera irresistibile una doppia conversione, per non dire un doppio ribaltamento. In primo luogo c'è un'esposizione in cui Marin sottrae la questione dell'immagine all'autorità dell'ontologia, ed è già questa una questione di forza e di potere. Poi c'è l'altra esposizione, nella quale la prima trova la sua verità o la sua legge, se ormai si può dire in maniera non ontologica, in ciò che sarei tentato di chiamare, in un codice che in senso proprio non ha niente di heideggeriano, l'essere-per-la-morte di una immagine. Diciamo, per evitare l'equivoco, l' essere-alla-morte di un'immagine che ha la forza, che non è altro che forza di resistere, di consistere e di esistere nella morte, proprio là dove essa non insiste nell'essere o nella presenza dell'essere. Questo essere-alla-morte obbligherebbe a pensare l'immagine non come la riproduzione indebolita di ciò che imita, non come un mimo, una semplice immagine, un idolo o un'icona, nella loro accezione convenzionale (perché si tratta di liberarsi da questa convenzione), ma come un supplemento di

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Louis Marin potere, la vera origine dell'autorità, l'immagine che diviene lo stesso autore, l'autore e l'aumento dell' aucton'tas in quanto questa trova il suo paradigma, che è anche la sua energeia, nell'immagine del morto. In altre parole, non ci sarebbero delle immagini, una tipologia delle immagini tra le quali individuarne alcune che rappresentano il morto o la morte. È a partire dalla morte, da ciò che si potrebbe chiamare il punto di vista della morte, più precisamente del morto o della morte, più precisamente dal punto di vista del viso del morto o della morte in quel ritratto, che un'immagine dà a vedere: non solo si dà a vedere, ma dà a vedere in quanto vede, come se fosse vedente in quanto visibile. Spiazzamento, dunque, del punto di vista. Evidentemente i saggi del libro sono in continuità con la tradizione di lavoro che Marin ha intrapreso da molto tempo, su ciò che fonda la fondazione e istituiSce l'istituzione del potere in una certa logica della rappresentazione. Questo lavoro, si sa, gli ha permesso, nel corso di tante analisi ricche, nuove, feconde e luminose, di articolare un pensiero del teologico-politico e una certa teoria icono-semiologica della rappresentazione. Ma qui mi pare (ed ecco un'ipotesi di lettura che forse, se posso dirlo, non riguarda che me, e non rappresenta che un momento della mia lettura in lutto) che, nello sviluppo consequenziale delle precedenti ricerche, un'inflessione o un'incrinatura vengano a iscriversi come un paradosso. E questo complica e di rimando chiarisce, mi pare, la precedente traiettoria. Riguarda il lutto della forza o la forza del lutto, cioè una legge secondo cui la forza maggiore non sta nell'estendersi continuo all'infinito, ma anzi, essa non sviluppa la sua massima intensità, se posso dire, che nell'istante folle della decisione, nel punto della sua assoluta interruzione, là dove la dynamis rimane a livello virtuale, cioè un'opera virtuale in quanto tale. Istante della rinuncia infinita come potenziamento dell'opera virtuale. Ma l'opera virtuale non è un tipo d'opera o di immagine tra le altre, essa è l'essenza dell' opera, un'essenza non essenziale, dal momento che è un'essenza che resta possibile in quanto tale. Ed è la morte (almeno ciò che qui significa la parola - e là dove non c'è una morte possibile come tale, non c'è che l'esperienza del lutto senza morte: il lutto è il fenomeno della morte ed è il solo fenomeno dietro il quale non c'è niente; il phainesthai di questo fenomeno è il solo accesso possibile a un pensiero originale dell'immagine, ecc.). Ecco la morte, dunque, là dove l'immagine annulla la sua presenza rappresentativa, là dove, più precisamente, l'intensità '165

Ogni volta unica, la fine del mondo non ri-produttiva del 'ri-' della rappresentazione acquista in potere ciò che il presente di quanto essa rappresenta perde in presenza. E questo punto, che puntualizza anche tutto un pensiero della temporalizzazione del tempo, è evidentemente il punto non tanto della morte stessa, ma del lutto, e del lutto dell'assoluto della forza. Da allora, se i primi esempi che Marin propone per rendere visibile e vitale il potere dell'immagine, per illustrarla, sono immagini del morto, non bisogna vedervi delle immagini qualunque. È nella rappresentazione che ri-presenta il morto che il potere dell'immagine è esemplare. Quando Marin si domanda che cosa ne sia del 'ri-' della rappresentazione, del valore di sostituzione che questori-indica, nell'i:slaule iu cui ciò che era presente non lo è più, e viene a essere ri-presentato, se a questo punto porta l'esempio dello sparire del presente come morto, non è solo per inseguire unari-presentazione o una sostituzione assoluta della rappresentazione alla presenza, ma è anche per svelare un supplemento, un ri-guadagno della forza o un supplemento di intensità nella presenza, dunque una sorta di potenza o di potenziamento del potere di cui lo schema del valore sostitutivo della pura sostituzione non può rendere conto. La rappresentazione non è più, qui, una semplice ri-presentazione riproduttiva, è, invece, una tale rinascita di presenza, un tale accrescimento, un tale arricchimento della presenza che è stata così intensificata, che induce a pensare la mancanza, il difetto di presenza o il lutto che in anticipo scavava la cosiddetta presenza primitiva o originaria, la presenza rappresentata, quella presenza che chiamiamo viva. Ecco, in una parola, la domanda dell'immagine, l'immagine in questione, non la domanda «Che cos'è l'immagine?» ma «immagine?». Leggiamo Marin:

Il prefisso ri-porta nel termine il valore della sostituzione. Qualcosa che era presente e non lo è più è ora rappresentato. Al posto di qualcosa che è presente altrove, ecco un presente, un dato ... (Des Pouvoirs de l'image, p. 11). Sottolineo altrove, ma tra poco vedremo che l'esempio radicale della morte fa di questo altrove, che qui cita un Vangelo, la metonimia fii nn possihile da neH1111a parte, wmunque di un altrove senza luogo, senza collocazione nello spazio rappresentabile, nello spazio dato della rappresentazione.

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Louis Marin ... ecco un presente, un dato, qui: un'immagine? ...

Tutta la questione in una sola parola: «immagine?» ritorna più di una volta. È un'immagine? Si può ancora parlare di immagine quando la rappresentazione sembra fare più che rappresentare e guadagna più intensità e forza, ha più potere ancora di ciò di cui si dice che è l'immagine o l'imitazione? La risposta di Mario sarà necessariamente doppia: sì e no: no, non è solamente un'immagine, se ci si contenta del concetto ontologico di immagine, dell'immagine come doppio mimetico e indebolito della cosa stessa; sì, e qui sta l'essenza stessa, il potere proprio, la dynamis dell'immagine, se si pensa l'immagine dopo la morte, cioè in verità dopo il lutto che le conferisce quel potere e quel supplemento di intensità di forza. Continuiamo la lettura: ... Immagine? Al posto della rappresentazione dunque, c'è un assente nel tempo o nello spazio, o meglio un altro...

La sostituzione di «assente>> con «altro», qui, significa senza dubbio che il valore di sostituzione non gioca più nella coppia «assenza/presenza», ma nella coppia «medesimo/altro» che a questo punto introduce la dimensione del lutto. ... un altro, e si opera una sostituzione di un altro di quest'altro, al suo posto. Così nella scena primitiva (o originaria) dell'Occidente cristiano, l'angelo alla tomba nel mattino della resurrezione - . E suggerire, come ho appena fatto, che «forza divina>> vuol dire «la forza più grande», non è solo chiamare divino il più grande, ciò di cui non si può pensare il maggiore, come ebbe a dire Sant'Anselmo, o ciò che unisce l'idea di Dio al superlativo, secondo uno schema del senso comune; è anche cogliere la divinità del divino a partire dalla morte o, meglio, come la potenza del lutto che uguaglia la forza più grande al senza-forza, al lutto dell'assoluto della «forza». E in queste condizioni, anche sottratti alla pura dogmatica cristiana, gli schemi della transustanziazione eucaristica, della trasfigurazione o della resurrezione, conservano un valore esemplare per i lavori di Marin, nel senso più enigmatico che qui riveste 1'esemplarità cristiana. Essa non ha il senso di un avvenimento tra gli altri, ma quello dell'unico e insostituibile avvenimento storico che permette di render conto di tutti gli effetti del «ritratto del re». Dando loro luogo, un luogo proprio, essa caratterizza le analisi così necessarie e rigorose di Marin a questo riguardo - sia nel libro che porta questo titolo (Il ritratto del re) sia nella seconda parte di quest'ultimo libro, «I poteri genealogici e politici dell'immagine». Che cosa mostrano tutte queste analisi di manifesta bellezza e verità? Per dirlo molto poveramente in una parola, mostrano e sviluppano ciò che nella storia permette di dire, seguendo Pascal, che «il ritratto del re, è il re» e che «è !"effetto del ritratto', l'effetto mimetico, l'effetto di rappresentazione, che/a il re» (p. 187). Questa logica presuppone che una sorta di morte del re venga in anticipo a dividere il corpo del re in due: da una parte il corpo individuale o reale, dall'altra il corpo artificialmente costituito dalla dignità - corpo ideale o rappresentativo. (La storia politico-giuridica dei due corpi del re nell'Europa cristiana, come la analizza Kantorowicz, svolge un ruolo di organizzazione nei testi di Marin; si sa che attraversa tutto il libro come filo conduttore di una assiomatica talmente indispensabile e così evidente che Kantorowicz non viene nemmeno menzionato). Ora questa partizione o questo raddoppiamento del corpo del re, questa morte funzionale del corpo fisico nel corpo di dignità, ciò che Marin chiama altrove (Lectures traversières, pp. 179ss.) la «Cesura del corpo del re», sappiamo bene che è insita nel diritto della monarchia assoluta ed ereditaria a partire dalla dottrina cristiana. Citiamo solamente qualche frase a conclusione della glossa 6 («Il ritratto del re come naufrago»), che qui bisognerebbe leggere passo passo: «Il re nel

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Louis Marin

suo ritratto, il re come immagine, il re-rappresentazione, in tal modo è, nella 'parabola', una parodia del mistero eucaristico, del corpo mistico e della presenza reale» (p. 194). Sarebbe facile, sia detto en passant, mostrare che questa logica resta all'opera dovunque si eserciti una monarchia in un paese cristiano, anche nel caso di una democrazia cristiana, voglio dire in regime democratico di cultura cristiana, fin dal momento in cui l'unità o l'indipendenza dello Stato-nazione si presenta nel corpo di un monarca o di un presidente, e quale che sia la durata del mandato o i modi di eredità per elezione (filiazione o successione), qualunque sia il modo di elezione. Torniamo all' Alberti: «Essa Oa pittura) ha una forza veramente divina [in se vim admodum divinam habet] che le permette di rendere presente, come si dice dell'amicizia, coloro che sono assenti, ma Qllche di mostrare ai vivi i morti dopo molti secoli [de/unctos longa post saecula viventibus exibeat] in modo da farli riconoscere con sommo piacere di chi guarda in grande ammirazione per l'artista». In ciò che descrive l' Alberti, vediamo così il piacere e l'ammirazione mescolarsi indissolubilmente al lutto, mentre la forza dei tre affetti si accresce per la loro composizione. Bisogna sottolineare qui un'evidenza lampante. Si rischia di dimenticarsene, perché è troppo evidente, come del naso in mezzo al viso. Il fatto è che l'immagine o la rappresentazione sono trattate dal1'Alberti - e da Marin che lo cita - a partire dal ritratto. Il ritratto non è una pittura qualunque. Bisogna almeno ricordarsi perché si deve interrogare la storia dell'immagine come ritratto, per analizzare il potere e, chiaramente, il potere teologico-politico della rappresentazione. Il ritratto non è una finzione o una figura tra le tante. Non solo perché rappresenta sia lo sguardo che ci guarda, sia la testa che comanda al corpo, sia il capo che governa il corpo sociale. (Nelle sue analisi politiche Marx si interessa sempre alla testa dei governanti come alla logica del capitale). Ma soprattutto perché, come nel ritratto fotografico, il rapporto al referente pare almeno irriducibile (ed è questa apparenza che conta anche se non bisogna fidarsene). Questa costruzione immaginaria della figura si presenta come non artefatta, come essenziale e pretende di offrirci ciò che è stato e non può non essere stato presente davanti allo sguardo o davanti all'obiettivo. Barthes ha fatto i conti a lungo, forse anche troppo, con questa pretesa. Ciò che dice un ritratto, il

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titolo del «ritratto» (ma il titolo è un discorso ed ecco che siamo nella glossa), è che ciò che viene mostrato, ritratto, è ciò che (si suppone) essere stato reale, e realmente presente. Questo evidentemente non è il caso di qualunque altra figura o finzione pittorica che, quindi, non merita a rigor di termini, il nome di rappresentazione, né al limite quello di immagine. Il ritratto è qui la rappresentazione fondamentale in quanto rappresenta l'elemento fondamentale del potere dell'immagine. Forzando appena le cose, si potrebbe dire che, almeno dal punto di vista del potere teologico-politico assicurato dal ritratto del re, e per ciò che Marin ne tira fuori con lanalisi, non ci sono differenze tra pittura e fotografia, e il ritratto fotografico continua ad assicurare, a volte perfino accentuandola, la funzione del ritratto dipinto. La tecnica fotografica porta a compimento, in modo anche più efficace, la vocazione pittorica, cioè quella di prendere il morto e trasfigurarlo di resuscitarlo, come colui che è stato quello che è stato (singolarmente, lui o lei). Oggi i ritratti presidenziali dicono, in tutti gli uffici pubblici (ministeri, comuni, prefetture, commissariati di polizia) lorigine, l'identità, il luogo di principale manifestazione del potere legittimo in quanto ci tiene tutti sotto lo sguardo e ci guarda mentre lo guardiamo ricordandoci chi ci sta guardando, vale a dire la nostra responsabilità di fronte a lui e ai suoi occhi. È vero che la fotografia contraddice nello stesso tempo il compito che realizza o che continua, perché mette il ritratto a disposizione di tutti. Con la democratizzazione tecnologica, essa tende a distruggere lalone e la rarità della pittura che confina la gravità del ritratto dipinto, a volte un capolavoro, a luoghi riservati la cui corte è quanto meno la figura metonimica. Comunque non bisogna sorprendersi di vedere Marin, che dopo aver detto «più intenso» e «più forte» a proposito dell'effetto di rappresentazione e poco prima di citare I'Alberti, fa un'allusione alla fotografia e più precisamente alla fotografia di ciò che si chiama lo «scomparso», dal momento che la fotografia, come il ritratto, è la virtù di fare apparire lo scomparso, di farlo ri-apparire con più evidenza ed energeia. Marin dice, come se portasse un esempio, en passant, prima di citare I' Alberti, in sette parole di illustrazione pedagogica: «Così la fotografia dello scomparso sul camino» (p. 11). È tempo di fermarmi, ma prima di dire qualche parola, per indicare in che direzione avrei voluto condividere con voi la lettura di qHesto grande libro, vorrei soprattutto confidarvi, cercando di non cedere all'emozione, con che pena io ne parli. La pena non è motivata dal 174

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tempo di cui disponiamo stasera; avremo in seguito, ahimè da soli, più tempo. Un po' più di tempo. La pena deriva dallo strano tempo di lettura che il tempo di scrittura di questo libro ha, come in anticipo, impresso in noi, negli amici di Louis. Lo immagino mentre scriveva queste righe, citando e glossando I'Alberti nella prefazione poco prima di morire, per un libro che non sapeva se avrebbe mai visto; se lo avrebbe visto uscire da vivo. Il libro, lo vedrete, voi, moltiplica le analisi, gli esempi, le immagini di ciò che potrei chiamare leffetto di sopravvivenza. Louis vedeva venire la morte non solo come tutti la vediamo venire senza vederla, prevedendola senza aspettarla. Egli si avvicinava a lei che si avvicinava sempre più in fretta, le si avvicinava precedendola, la preveniva con le immagini e le glosse di cui la grammatica del futuro anteriore non è certamente sufficiente a dire la forza e il tempo. Il futuro anteriore è ancora la modalizzazione semplicistica di un presente o di una rappresentazione fondamentale, semplicistica perché ancora troppo semplice per tradurre la strana temporalità che qui dà forza all'effetto del lutto di cui stiamo parlando. Come pure sarebbe troppo semplice, anche se vero, obliquamente, dire che allora Marin citando I'Alberti, parlando del ritratto degli altri, della morte e dell'amicizia, si dipingeva in anticipo e dipingeva anche gli amici in pena, indicava a dito e in anticipo proprio noi, e firmava anche quello straordinario enunciato, che altrove commenta, e che permette di dire «io sono morto» (l'incredibile grammatica, il tempo impossibile che egli analizza ne La Voix excommuniée, p. 64). Dire «io morii», «io sono morto», semplicemente non è futuro anteriore. Strano tempo di scrittura, strano tempo di lettura che stasera ci riguarda in anticipo, ci avrà riguardati, ci riguarderà per più tempo di quanto noi possiamo. Quell' «io morii» non è una mostruosità fenomenologico-grammaticale, uno scandalo per il buon senso, o una frase impossibile che non vuol dire niente. È il tempo, il tempo grafologico, il tempo implicito di ogni scrittura, di ogni pittura, di ogni traccia e anche di ogni preteso presente, di ogni cogito ergo sum (che molto tempo fa avevo altrove cercato di mostrare, e che implica necessariamente un «io sono morto», e che, anche in Cartesio, non si può diso:odare nel o:istema clefla sna enunciazione, chi ciò che viene conside-

rato come un discorso minore di Cartesio, cioè da quanto dice dell'Eucaristia, quando prova a intervenire, più o meno clandestinamen-

1.75

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te, nel dibattito teologico a riguardo. Più tardi, una volta avevo cercato di mostrarlo in un seminario dove, certamente, mi ero riferito ai lavori di Marin sull'Eucaristia aggiungendovi questa glossa cartesiana). Nel corso delle ultime settimane passate ad ammirare Des Pouvoirs de l'image, mi sono detto che non avevo mai provato una tale emozione a leggere un libro. Non è l'emozione del lutto che conosciamo e riconosciamo, anche se ogni volta, ahimè, essa ci assale in modo nuovo e singolare, come la fine del mondo, quella che ci invade ogni volta che tocchiamo con mano le testimonianze dell'amico perduto che sopravvivono, o tutte le «immagini» che lo «scomparso» ci lascia o ci dà in eredità. C'era. stavolta ancora di più. anche qualcos'altro. Mentre interveniva ad agitare questo primo lutto, quello comune, facendolo attorcigliare su se stesso, non oso dire riflettendolo fino alla vertigine, un'altra emozione, un'altra qualità e un'altra intensità di emozione, troppo dolorosa e, nello stesso tempo, stranamente serena, prendeva forma, credo, a un certo punto della lettura. Senza neanche provare a dire ancora qualcosa, per poco che sia, di questo magnifico libro e dello strano tempo di lettura nel quale mi ha sconvolto, vorrei provare a dire qualche parola a proposito del lutto, e del tempo del lutto interminabile, per non precipitarmi, cosa che giudicherei assolutamente insopportabile, a parlare stasera dell'ultimo libro di Marin come altrimenti, in altro tempo e in altre circostanze, avrei potuto parlare semplicemente del suo libro più recente. Tornando regolarmente ai luoghi comuni, voglio dire i luoghi che furono i nostri, sedendomi alla scrivania che ho condiviso con lui in Boulevard Raspai!, per così tanto tempo, camminando intorno all'Istituto di Scienze Umane, partecipando recentemente a una discussione nel seminario che egli animava da anni con alcuni di noi che vedo in sala, mi dicevo che in fondo l'immagine corrente attraverso la quale, dopo che la psicoanalisi ne ha segnato il discorso, noi caratterizziamo il lutto è quella di una interiorizzazione (incorporazione, introiezione, consumazione idealizzante dell'altro, in poche parole un'esperienza di cui una dimensione essenziale sarebbe offerta dall'Eucaristia che fu insomma la grande Cosa, il grande oggetto che Louis ha fatto oggetto del suo lutto e al quale ha consacrato un lavoro così originale e così tenace, interessandosi senza sosta al corpo eucaristico da tutti i lati. esegetici, filosofici, storici, logici, linguistici, come se bisognasse sapere che cosa sia il lutto prima di morire, come fare il proprio lutto sulla morte e come

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trasfigurare l'opera del morto in opera che dà e dà a vedere). Ora se in effetti, i modi dell'interiorizzazione o della soggettivazione di cui parla la psicanalisi sono, sotto certi aspetti, innegabili nel lavoro del lutto, quando la morte dell'amico ci lascia soli, mi dicevo questo, che non è certamente originale, ma che provo con singolare acutezza e con crescente intensità: se l'interiorizzazione non è possibile, se non deve, ed è il paradosso insopportabile della fedeltà, essere possibile e compiuta, questo non deriva tanto dal limite, da una delimitazione insuperabile, da una frontiera che viene a circondare uno spazio dato, ordinando la finitudine con un dentro e un fuori che alla fine sarebbero omogenei l'uno con l'altro, e simmetrici, commensurabili da una parte e dall'altra di una linea indivisibile. Ma piuttosto da un'altra organizzazione dello spazio e dell'ordine della divisibilità, del riguardante e del riguardato. Quale che sia realmente, ahimè, la verità di questa fatale interiorizzazione (l'amico non può più essere che in noi e qualunque cosa crediamo della sopravvivenza secondo tutte le modalità possibili della fede, è in noi che questi sentimenti possono apparire), questo essere-in-noi rivela una verità nella morte, al momento della morte, e a partire da prima della morte per tutto ciò che in noi si prepara e si volge ad essa, vale a dire nell'innegabile anticipazione del lutto di cui è fatta l'amicizia. Rivela la verità della sua topologia e della sua tropologia. Quando diciamo etit Poucet, con riferimento al protagonista di un racconto di C. Perrault intito-

luto J~e Petit Poucet. [ndt]

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Ogni volta unica, la fine dt'J mondo Come tradurre il fallimento [dt'.,ieu]? Nel suo contesto linguistico. Lei resiste alla cattura solo grazie ali' amore accattivante della lingua. Lei rileva come essa catturi attraverso le sue anfibolie. Per sedurla. 2. Il secondo tempo sarebbe propriamente il tempo, il tempo del tempo. Senza fare attendere ancora il passaggio al tu, questo tempo lo annuncia nella maniera più netta. Prendo qualche riga di «Ancora», titolo di questo secondo tempo, troncando ancora brutalmente. Troncando, ma sentirete che conclude con «con te e me, è questo che taglia». Egli decide risolutamente quanto a un certo «noi» che sarebbe prodotto dallo specchio che Jean-François dice di tendere a tutti e due: Lei mi dà la sua voce (Voix). Ma lei non ha niente da darmi. Se non la sospensione. Provo la sospensione [ ... ]. Lei sorride. Ancora uno che si sarà sbagliato. Lei mi guarda guardare il suo sguardo nello specchio che io tendo verso di noi (Miroir) [ ... ]. Corro a Tempo per vedere se il suo desiderio di piegare (fare piegare) la matrice manchi [... ] tuttavia lei dichiara il suo «sentimento», la sua rivolta o i suoi trucchi; c'è della simultaneità oltre tutte le differenze temporali. C'è un «a tutta velocità», a una velocità quasi infinita (ibid.) che opera delle sincronie, delle contemporaneità politiche, ad esempio, anche «ignobili», ma soprattutto quel «nello stesso tempo» graziato, assoluto, dell'essere insieme fuori campo, in una «diade» che sfugge a qualunque terzo (Miroir). Questo sei «tu», ci ritornerò. L'importanza del telefono per la velocità{ ... ] carezza amorosa e anche diligente. Mi domando se l'assoluta velocità, la sua «spoglia certezza» (Simultanéite} della simultaneità possibile, per così dire rubata alla differenza, sottratta a qualunque de-, è da prendere come una libertà, una liberazione come minimo scontata dal prigioniero dei ritardi e dei rinvii, oppure come una autoforzatura del desiderio, la cancellatura del suo ancora, un trucco della pazienza che simula l'impazienza assoluta. La risoluzione. Taglierebbe di netto. Con te e me, è questo che taglia. 3. Intitolato «Tu», il terzo tempo taglia netto e se si intitola direttamente, se posso dire, «Tu», sentirete che fa di tutto per evitare una «tesi sul tu». Nelle poche righe, che non è giusto isolare così, volevo sottolineare il motivo della simulazione e del simulacro, la questione del diritto (diritto di darsi del tu) e soprattutto il sopraggiungere di un «noi» come «noi postumo», parola con cui, secondo me, non bi-

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Jean-François Lyotard sogna intendere solo il post-mortem testamentario, ma respirarne in anticipo l'humus, la terra, la terra umida, l'umiltà, l'umano, l'inumano e l'inumato che echeggeranno alla fine del testo, nel quarto tempo e ultimo atto. Libertà o simulazione: l'opposizione è da mettere in scacco. Se si simula la sofferenza, è perché si soffre della possibilità infinita della simulazione (Simulation). [...]Voglio dire: nessuno di loro poteva essere te. «Si ha il diritto di darsi del tu?» (Droit). [... ] «Le parole che rivolgo solo a te e che pertanto tu firmi, delle quali sei la destinataria, egli direbbe la madre» (Sense). [. ..] Con te «voglio prendermi tutto il tempo» (Vitesse), tu che «mi dai il tempo che costruisce, zf you see what I mean» (Temps). C'è l'immortalità tra te e me che noi vedremo morire» (Immortalité). Da tradurre, ma lei traduce se stesso?». L'essenziale [è] che noi ci attendiamo, tu ed io, all'arrivo, nella lingua del nostro paese» (Traduireì. Ancora da tradurre. Ci provo. Ma ho paura di forzare, di forzare lei e di forzare me a una tesi del tu e sul tu. [. .. ] «Noi ci vedremo morire». Tu mi vedrai e io ti vedrò morire. Oppure: capiterà di morire a tutti e due insieme e lo sapremo insieme. La riva: ... Poco più avanti (ma mi dispiace di dover- per mancanza di tempo - non leggere tutto per affrettarmi verso un certo «noi» postumo): Mi fermo a questo «tu ed io» che lei disseziona [. ..] perché il tuo corpo per te e il mio per me ai quali né tu né io possiamo arrivare, non ci arriveremo, arriveremo ali' altro corpo. Sarà un altro paese. Buio? Tradurre. Dove non ci vedremo. Dove ci vedremo solamente scomparire, accecare, in-scrivere, dati in pasto ai traduttori e ai traghettatori. Siamo «noi» solo da postumi. Tu ed io ci stiamo preparando. Non è che la lingua scomparirà. Essa è sulla barca di tutti i transiti. Ma essa è la sua immagine in me L... ]. Firmi questo desiderio con la mia firma?

4. È nell'ultima parte del testo, nel quarto tempo intitolato «Lutto», d1c si trovano sia le parole che, all'inizio, avevo detto di voler citare, «lutto», «custodire», «piangere», «fede», sia la frase che ormai è postiibile ri-contestualizzare meglio, anche se non totalmente, «non ci 11urà alcun lutto», come ciò che tace, ammutolisce e si interra tra l'hu11111s, I inumano e l'inumato. Prendo ancora qualche briciola di questo t•unto del lutto. 24')

Ogni volta unica, la fine dd mondo Jean-Fraçois scrive: «Un segno di te, la mia lingua quotidiana. Ecco perché piango. Tradurre» (Signe). Già tradotto: mi fai piangere, io piango dopo di te, piangerò sempre fino all'arrivo. Non ci sarà alcun lutto. La memoria sarà custodita. «La mia fortuna è che la sola forma di dolore sia quella di perdere la memoria e non di conservarla[. .. ]»[. ..]. Non è per una pretesa perdita che io piango, ma a motivo e in seguito alla tua presenza a te stesso, la lingua mai abbandonata. Che avrà sempre avuto luogo, mentre io avrò scritto fuori luogo. Questo scarto dà spazio e tempo alle lacrime. [...] Si domanda a Lei: «Noi stiamo per cancellare il male» (ibid.). Il male della scrittura, ma il danno chiama in causa solo il litigio e la decisione, non il perdono, che.sfugge alla regolamentazione. Il perdono perdonerebbe il solo torto. Ma non è un gesto e non ne fa alcuno. Il perdono «ha già lasciato che [il torto] si cancellasse da solo: quello che chiamo la scrittura>> (ibid.). Ecco perché non c'è la prova. Mentre scrivo, tu mi fai torto e io ti perdono, ma tutto questo non sarà mai provato, nemmeno dalle lacrime. Mentre tu riempi di te la mia scrittura, senza che la santità non domandi niente, io ti faccio torto. Mi perdoni? Chi potrà provarlo? Muta.[ ... ] Ecco perché c'è questo scarto, la «malinconia>>, un torto eccedente il perdono dichiarato, che si compie e si consuma nella scrittura. Di cui tu non hai alcun bisogno. È per questo che il lutto non è mai tolto, né l'incendio spento. È inutile pensare di liberarsi della tua inafferrabilità con la cremazione [. .. ] con la consunzione della scrittura in un fuoco immediato e con una firma diventata cenere. Scimmiottatura di certe firme. La cenere è ancora materia. Io firmo nell'humus. Dell'inumano io testimonio l'inumato. Falsi testimoni. «Non amo che la fede, o piuttosto, nella fede, la sua prova irrdigiosa». Non so ancora come interpretare queste parole. Non so come identificarle attraverso, dentro e malgrado la dispersione delle frasi di cui dice che è peggio di una ~iaspora. Le citazioni frammentarie non hanno fatto altro che aggravarla. Non so come interpretare «non ci sarà alcun lutto», ora seguito a distanza dalla frase «ecco perché il lutto non è mai tolto, l'incendio spento». L'impossibilità di interpretare, di decidere, di disporre di queste frasi deriva senza dubbio sia dalla loro dispersione radicale, irrimediabile, sia dall'indeterminazione, per sempre, del loro destinatario - pubblico o meno che sia. Le «Note del Traduttore» hanno il significativo statuto di una riwwta. Vugliuuu n:spiran: pitllalllt:lllt: il «SÌ» Ji w1a rispusla d1t:, Jw1que, richiama un certo noi, ma di una risposta senza destinatario assegnabile o dimostrabile. L'impossibilità di interpretare, nondimeno,

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Jean-François Lyotard

che è e non è un'impossibilità ermeneutica, non la ritengo un male. È anche l'opportunità della lettura. Essa dice, al di là di ogni destinazione, il destino del lutto. Lo dà a pensare, questo destino, propriamente a pensare, se possibile, meglio di quanto non farebbe una decisione interpretativa o un destinatario riconoscibile. Perché, se per rassicurarmi nel decifrare, io tento di cercare soccorso ne Il dissidio, la cui stesura precede di circa un decennio le «Note del Traduttore» (che sono state scritte circa un decennio fa), vi trovo tutte le necessarie premesse al pensiero di questo destino senza destinazione. E singolarmente, là dove si tratta di noi, di te e di me. Il dissidio metteva già in opera la lettera stessa delle «Note del Traduttore». Questo conferma ancora che le Note e il loro «non ci sarà alcun lutlo», non si potevano limitare al contesto o alla destinazione apparente. Torno dunque, per finire, a questo ricorrere tre volte del «peggio» che rilevavo all'inizio: 1. la frase di Adorno: «Dopo Auschwitz, aver paura della morte significa aver paura di qualcosa di peggio della morte» (p. 132); 2. la frase di Lyotard che interpreta, diciotto pagine dopo, a proposito del fermare la morte ad Auschwitz,: «Bisogna dunque uccidere questa morte, ed è proprio questo che è peggio della morte. Perché se la morte può essere annientata, non c'è più niente che possa far morire. Neanche il nome di Ebreo» (p. 150); 3. e la terza ricorrenza tra le due: «Si tratterebbe della dispersione peggiore della diaspora, la dispersione delle frasi?» (p. 146). C'è anche un altro nome del peggio, del «peggio della morte», ma, mentre mi preparavo a questa seduta, quando ho letto il titolo scelto daJean-Luc Nancy, «Da una fine all'infinito», mi sono detto che forse stava citando una frase, che mi limito qui richiamare senza commentarla: «ciò che p11ò far sì che la morte non sia ancora il peggio, è che essa non sia semplkt:mente la fine, ma solo la fine del finito e la rivelazione dell'infinirn Peggio di questa morte magica sarebbe la morte senza rovesciamento, la semplice fine, ivi compresa la fine dell'infinito» (p. 134). In tutte queste pagine, che sono anche delle forti letture di Hegel t' di Adorno, ma innanzitutto delle meditazioni su Auschwitz, sull'impossibile possibilità della testimonianza, sulla sopravvivenza e sul «noi», che forse porterebbe al di là - come Lyotard dice molto bene \H ..;i(, che si ..::hiama "un'illusione trascendentale», di cui il (>, cioè un olocausto sacrificale, mettendo il popolo ebraico al posto di Isacco sul monte Moria, se non attraverso un abuso di retorica. «Retorica>> è la parola di Lyotard che analizza tali terrificanti ipotesi in quei paragrafi (161,170) su Abramo, che qui avrei voluto meditare pazientemente. Lungo tutte queste pagine sul «risultato» (ne Il dissidio), sul «dopo Auschwitz», sul testimone, sul terzo, sul sopravvissuto, sull'im1m:11sa questione Jd (in Psyché, t. II, Galilée, Paris 2003, p. :170, n. 1), che io ripropongo anche nel dossier della nostra discussione in corso sullo tua «decostruzione del cristianesimo».

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zione dell'origine». Testo generoso (Grane! non era «generoso», era la Generosità in persona, fino alla prodigalità negli slanci) e che, lui non l'ha mai saputo, provocò la collera di Foucault. Questi, che fino a quel momento mi aveva sempre offerto la sua calorosa amicizia, andò in collera e si mise a polemizzare con me per quindici anni - e questo determinò molte cose in questo scenario -, dopo aver cercato inutilmente nel mio ufficio di rue d'Ulm di convincermi ad impedire la pubblicazione in Critt'que di « ... la cancellazione dell'origine», un testo che trattava male lui, Foucault, lodando me, un testo che non era affatto gentile con lui, mentre in una nota chiamava me «gentile» - e oggi rispondo di rimando con la parola «gentile» in tutti i sensi; facevo parlt:, allora, Jd Consiglio

  • s~. R111timore.

    1996 Aesthetic Ideology, a cura di A. Warminski, University of Minnesota Press, Minneapolis. 303

    Michel Foucault

    Nato a Poitiers nel 1926 in una famiglia cattolica conservatrice, Paul Miche! Foucault è il secondo dei tre figli di Paul-André Foucault, chirurgo di fama, e di Anne-Marie Malapert, anch'essa figlia di un medico chirurgo. Michel inizia gli studi al collegio San Stanislao e li prosegue al liceo Henri IV di Poitiers. Nel 1942 è ammesso alla prima parte del baccalaureato classico, nel 1943 alla seconda, e l'autunno seguente comincia l'hypokhagne. Dopo un primo insuccesso al concorso per entrare all'École normale superieure, viene inviato per la khàgne al liceo Henri IV di Parigi dove incontra Jean Hyppolite. Nel 1946, al secondo tentativo, vince il concorso d'ingresso all'École normale superieure. Qui conosce Pierre Bourdieu, Paul Veyne e Maurice Pinguet. Per il diploma di studi superiori si orienta verso la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Tra tutti i professori Louis Althusser è quello che più lo colpisce. I due diventeranno amici. Foucault ottiene una licenza in filosofia nel 1948 e una licenza in psicologia nel 1949 alla Sorbona, dove già spiccano Jean Wahl, Jean Hyppolite e Merleau-Ponty. Nel giugno del 1951 passa I'agrégation dopo il fallimento agli orali dell'anno precedente. Nel 1951 Foucault diventa répétiteur di Psicologia all'École normale superieure dove, tra gli altri, seguono i suoi corsi Gérard Genette, Paul Veyne e Jacques Derrida. Nello stesso anno viene esonerato dal servizio militare per motivi di salute. Nel giugno del 1952 consegue il diploma di psicopatologia all'Istituto di Psicologia di Parigi e comincia a insegnare Psicologia all'Università di Lilla e all'École normale superieure. All'epoca grande lettore di letter.itura, si appassiona a Blanchot, Bataille e Char. Ncl 1953, ii.1ten:s:.ato ali.a p::.ichiatria tedesca, si reca in Svizzera a trovare Ludwig Binswanger, e traduce in francese Le Reve et l'Existence, testo per cui scrive una lunga prefazione. Nel 305

    Biografie e bibliografie 1954 segue i seminari di Lacan al Sant' Anna e pubblica Maladie mentale et personnalité. Dal 1955 al 1958 insegna all'Università di Uppsala in Svezia, prima di ottenere un posto al Centro francese di Varsavia. Nel 1959, anno della morte del padre, accetta un posto all'Istituto francese di Amburgo. Rientra in Francia nel 1960 per insegnare Filosofia e Psicologia all'Università di Clermont-Ferrand. Qui conosce Gilles Deleuze e Daniel Defert che dal 1963 diventerà suo grande amico fino alla morte. Nel 1961 appaiono Folie et Déraison. Histoire de la folie al'age classique, la sua tesi principale, e una traduzione de I:Anthropologie du point de vue pragmatique di Kant, che è la sua tesi complementare. Nel maggio dello stesso anno sostiene la tesi sotto la direzione di Georges Canguilhem e consegue il dottorato in Lettere. All'inizio degli anni '60 dedica molti scritti a temi e personalità del mondo letterario (Lra i.:ui RàymonJ R0usscl). Pubblica Naissancc dc la cliniquc. Une ar chéologie du regard médical e diventa membro del comitato di redazione della rivista Critique. Nello stesso tempo si lega ai membri del gruppo di Tel Quel e partecipa al famoso convegno di Royaumont su Nietzsche, organizzato da Deleuze nel luglio del 1964. Due anni dopo pubblica Les Mots et !es Choses. Une archéologie des sciences humaines e, in collaborazione con Roger Laporte, dirige un numero speciale della rivista Critique dedicato a Maurice Blanchot; il suo contributo «La pensée du dehors» rappresenta un alto contributo agli studi su Blanchot. Dal 1966 al 1968 risiede a Sidi-Bou-Sai:d, piccolo villaggio vicino a Tunisi, dove scrive I:Archéologie du savoir. Foucault rientra in Francia nel dicembre del 1968 per raggiungere i professori dell'Università sperimentale di Vincennes, diventando così collega e amico di Hélène Cixous. Incaricato di creare il Dipartimento di Filosofia, chiama Miche! Serres, René Schérer, François Chatelet, Étienne Balibar, Alain Badiou, Jacques Rancière e Gilles Deleuze. Nel 1969, Foucault pubblica il celebre articolo «Che cos'è un autore?». L'anno seguente - a 43 anni - gli viene offerta la cattedra di Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. La sua conferenza inaugurale viene pubblicata col titolo I:ordre du discours. Nel 1972 appare «Il mio corpo, il foglio, il fuoco», risposta critica e polemica a «Cogito e storia della follia», larticolo del 1963 di Jacques Derrida che svolgeva una critica al libro di Foucault sulla storia della follia. A seguito di tale scambio i due pensatori prenderanno strade divergenti. Nel 1982, tuttavia, Foucault fa circolare una lettera di solidarietà a Derrida per condannare il suo arresto arbitrario a Praga. Gli anni '70 sono anni di intensa attività politica per Foucault. Si interessa al movimento di riforma del sistema penitenziario e partecipa alla creazione del Gruppo di informazione sulle prigioni (GIP). Pubblica Surveiller et pu;;ù: Nai:;sa;;cc dc !a prison (1975), opera importante sulla storia de! sistema penale in Francia. In questi anni tiene un gran numero di conferenze in Brasile e in America del Nord, all'Università di Berkeley, Irvine, Claremont, 306

    Miche! Foucault Stanford, Dartmouth, Princeton e Columbia. L'uscita di ogni nuova traduzione in inglese accresce l'interesse del pubblico anglofono per i suoi lavori. Il primo volume dell'Histoire de la sexualité, pubblicato nel 1976 (nel 1978 in inglese), suscita una vasta eco in molte discipline accademiche. Nel 1981 partecipa a un importante convegno dedicato alla sua opera al Davidson Conference Center a Los Angeles. Agli inizi degli anni '80, Foucault comincia a soffrire dei sintomi del virus dell'AIDS: affaticamento, perdita di peso, problemi polmonari. Malgrado il suo stato di salute, continua i suoi corsi al Collège de France e nel 1984 corregge le bozze dei volumi in uscita della serie relativa alla storia della sessualità. Nel giugno 1984, il fratello Denis lo fa ricoverare all'ospedale Saint-Michel di Parigi, da cui in seguito viene trasferito alla Salpetrière. Qui muore il 25 giugno. Viene sepolto a Vandocuvrc-du-Poitou.

    1954 Maladie mentale et personnalité, PUF, Paris; nuova ed. civ. Maladie mentale et psychologie, 1962; tr. it. di F. Polidori, Malattia mentale e psicologia, Raffello Cortina Editore, Milano 1997. 1961 Folie et Déraison. Histoire de la /olie à l'age classique, Plon, Paris; 2• ed. con nuova prefazione e due appendici, Histoire de la folie à l'age classique, Gallimard, Paris 1972; tr. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell'età classica, Rizzoli, Milano 2002. 1963 Raymond Roussel, Gallimard, Paris; tr. it. di M. Guareschi, Ombre Corte, Verona 2001. 1963 Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, PVF, Paris; tr. it. di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino 1998. 1966 Les Mots et !es Choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris; tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose. Una archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1998. 1969 I.:Archéologie du savoir, Gallimard, Paris; tr. it. di G. Bogliolo, !.:archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. 1971 I.:Ordre du discours, Gallimard, Paris; tr. it. di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino 2004. 1973 Ceci rl est pas une pipe, Fata Morgana, Saint-Clément; tr. it. di R. Rossi, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988. 1975 Surveiller et Punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris; tr. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993. 1976 Histoirc dc!.: scx:.:a!ité, t. I, La ''olcnté dc sa-i·o:"r, Gallimurd, Paris; tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Storia della sessualità. 1. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2001.

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    Biografie e bibliografie 1984 Histoire de la sexualité, t. II, l.}Usage des plaisirs, Gallirnard, Paris; tr. it. di L. Guarino, Storia della sessualità. 2.1.}uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 2002. 1984 Histoire de la sexualité, t. III, Le Souci de soi, Gallimard, Paris; tr. it. di L. Guarino, Storia della sessualità. 3. La cura di sé, Feltrinelli, Milano 2001. Pubblicazioni postume 1989 Résumé des cours au Collège de France 1970-1982,Julliard, Paris; tr. it. di A. Pandolfi e A. Serra, I corsi al Collège de France. I Résumés, Feltrinelli, Milano 1999. 1994 Dits et Écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, t. I, 1954-1969; t. II, 19701975; t. m, 1976-1979; t. IV, 1980-1988, Gallimard, Paris (alcuni dci testi di questa ampia raccolta sono stati pubblicati in italiano). 1997 «Il /aut dé/endre la société». Cours au Collège de France 1975-1976, Gallimard-Le Seuil, Paris; tr. it. di M. Bertani e A. Fontana, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1988. 1999 Les Anormaux. Cours au Collège de France 1974-1975, Gallimard-Le Seuil; tr. it. di V. Marchetti e A. Salomoni, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2002. 2001 l.}Herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Gallimard-Le Seuil, Paris; tr. it. di M. Bertani, !.}ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003. 2003 Le Pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Le Seuil, Paris; tr. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004.

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    Max Loreau

    Poeta e filosofo, Max Loreau nasce a Bruxelles nel 1928, e trascorre la maggior parte dell'infanzia e dell'adolescenza a Wemmel, alla periferia di Bruxelles. Finiti gli studi secondari, studia Filologia Classica alla Libera Università di Bruxelles dove stringe amicizia con il suo professore di greco, Roger Goossens, scrittore e poeta. Questo incontro che gli farà prendere coscienza di sé. Anche se il lavoro di Loreau privilegia i poeti, i pittori e gli scrittori contemporanei, tuttavia egli conserverà sempre una affinità reale con autori antichi come Omero, Lucrezio o Virgilio che aveva studiato all'Università. Agli inizi degli anni '50, si sposa e mette su famiglia. Avrà tre figli. Dal 1951 al 1955 svolge il servizio militare, insegna per breve tempo in un liceo e continua gli studi di filosofia alla Libera Università di Bruxelles, dove, nel 1961, consegue il dottorato con una tesi intitolata «L'umanesimo retorico di Lorenzo Valla e la formazione del pensiero borghese in Italia». Le ricerche per il dottorato lo portano frequentemente a Firenze, città che, in seguito, ispirerà una raccolta di poemi Florence portée aux nues (1986). Nel 1961 diventa ricercatore al Fondo nazionale della ricerca scientifica O' equivalente belga del CNRS), e nel 1964 professore di Filosofia moderna e di Estetica alla Libera Università di Bruxelles da cui si dimette nel 1969 perché l'atmosfera dell'Università gli appariva come contraddittoria con il vero spirito della ricerca. Da quel momento decide di dedicarsi completamente alla scrittura. Nel 1966 sposa in seconde nozze Francine Loreau (nata Plumart), che è la destinataria della lettera di Derrida riportata in questo volume. Nel 1963 il1Lonlra il piltore Jtan Dubufft:t, Ji mi Jivient: il1timo amko e a cui dedicherà numerosi studi, da Dubuffet et le voyage au centre de la perception (1966) a Jean Dubuffet. Stratégie de la création (1973 ), passando chia309

    Biografie e bibliografie ramente dal testo «Arte, culture, subversion» pubblicato nel maggio 1968 e ripreso in seguito in La Peinture à l'oeuvre et l'énigme du corps (1980). Dirige in pari tempo la pubblicazione dei ventotto primi volumi del Catalogue des

    travaux de Jean Dubuffet. Come per la pittura di Dubuffet, i lavori visionari di Henri Michaux, che Loreau conosce nel 1964, servono da «rivelatori>> per le questioni filosofiche che lo preoccupavano confusamente. Durante gli anni '70 e '80 esplora le vie multiple della poesia, della filosofia e del saggio artistico, in un andirivieni continuo tra l'una e laltra. Nel 1967 appare il suo primo libro di poesia, Cerceaux 'sorcellent, illustrato da Dubuffet e, nel 1973, Cri. Éclat et phases, libro chiave in cui filosofia e scrittura poetica sono intimamente legate. Nello stesso periodo comincia la corrispondenza con Christian Dotrcmont, fondatore dcl movimento Cobra, di cui studia l'opera poetico-pittorica in Les Logogrammes de Christian Dotremont (1975). Pubblica delle novelle (Nouvelles des etres et des pas, 1976), altri poemi (Chants de perpétuelles venues, 1978) e diversi testi nella rivista Poésie di cui diventerà membro del comitato di redazione. Nel 1980 dedica un testo all'opera di Miche! Deguy, direttore della stessa rivista. Molti studi critici sull'arte e gli artisti (Alechinsky, Appel, Jorn, Magritte, ecc.) segnano questo periodo. Nel 1987 in En quete d'un autre commencement, Loreau mette insieme dei testi filosofici (Hegel), di pittura (Picasso), di poesia e letteratura (Saint-John Perse, Louis-René des Forets), testi sul ritmo o il volume, che hanno in comune loggetto cruciale della sua ricerca: la domanda su un'origine che non si concretizza laddove si tenti di localizzarla. L'anno seguente, in occasione dei suoi sessant'anni, gli si offre la possibilità di scegliere e di presentare, al Centro culturale della comunità francese a Bruxelles, una collezione selezionata della pittura contemporanea; per accompagnare l'esposizione appare VAttrait du commencement, un piccolo volume che, mentre scruta «l'enigma inesauribile della pittura», contiene anche l'abbozzo di un'autobiografia intellettuale e morale. Dans l'éclat du moment - Le matin d'Orphée, poema e libretto d'opera scritti per il compositore francese Gérard Garcin, che già in precedenza aveva messo in musica . A quest'epoca risale l'incontro decisivo con Georges Bataille, incontro che avrà grande influenza sui due pensatori. Ne verrà fuori, per tutti e due, un approfondimento della riflessione sull'erotismo, la letteratura e il sacro. Nel 1941 pubblica il suo primo libro, Thomas l'Obscur e, lanno seguente, un secondo romanzo, Aminadab (il cui titolo si riferisce al personaggio biblico, ma anche al fratello minore di Emmanuel Lévinas, ucciso dai nazisti, che aveva quel nome). Nel giro di tre anni (1941-1944) pubblica 171 articoli nel contesto della sua «Chronique de la vie intellettuelle» per il]ournal des débats. Parte di questi articoli verrà poi ripresa in Faux Pas (1943), la sua prima raccolta critica. Blanchot vi sviluppa le sue teorie letterarie a partire dai lavori, tra gli altri, di Lautréamont, Mallarmé, Baudelaire, Kafka, Holderlin, Rilke e Paulhan - figura che in questo periodo ha molta importanza per lui, e a cui dedica tre articoli ripresi in Comment la littérature est-elle possibile? (1942). Nei romanzi e nei saggi si resta ammirati per il rigore del pensiero e la qualità letteraria e filosofica della prosa. Come dice Paul de Man: «Non c'è niente di più seducente di questo linguaggio limpido, che non manca mai di continuità e coerenza». Se Blanchot non ha mai pubblicato nelle «riviste clandestine», ha però intrattenuto discreti legami con la resistenza, ed ha protetto clandestini e amici (in particolare la famiglia di Lévinas). Nel giugno del 1944, in occasione di un soggiorno alla casa patema di Quain, sfugge per poco alla morte. I.:Instant de ma mort (1994) racconta come sia scampato al plotone di esecuzione nazista. A partire dall'autunno 1944 è di nuovo a Parigi dove diventa incaricato della cronaca letteraria di !.:Arche. Pubblica anche in Actualité, rivista diretta da Georges Bataille. In casa di questi incontrerà Denise Rollin, con cui avrà un'intima relazione a µartin: Jal 1945, e continuerà con una lunga corrispondenza fino alla morte di questa nel 1978. I.:A"et de mort e Le Très-haut appaiono nel 1948. Dal 1949 fino al 1957, 360

    Maurice Blanchot Blanchot va ad abitare a Èze, nel sud della Francia. In questo periodo compaiono molte opere - romanzi, racconti, e opere di critica letteraria: La Part dufeu (1949), Lautréamont et Sade (1949), una versione abbreviata di Thomas l'Obscur (1950), Au moment volu (1951), Le Ressassement éternel (1951), Celui qui ne nlaccompagnait pas (1953 ), I.:Espace littéraire (1955) e Le Dernter Homme (1957). Nel 1948 pubblica nella rivista Critique un illuminante articolo, «La littérature et le droit à la mort» (ripreso in La Part du feu) e, nel 1949, nella rivista Empédocle, un racconto quasi autobiografic9 pubblicato in seguito con il titolo La Folie du jour (1973). L'articolo «La solitude essentielle», del gennaio 1953, segna l'inizio della collaborazione alla Nouvelle Revue /rançaise. Vi scriverà 128 articoli in 15 anni. Incoraggiato dal diretore editoriale Jean Paulhan, che voleva che si esprimesse in tulla libertà, Blarn.:hot sviluppa quelle teorie e quello stile che faranno di lui uno dei maggiori critici di quel periodo. I saggi formano il nucleo essenziale di I.:Espace littéraire (1955), Le Livre à venir (1959), I.:Entretien infini (1969) e I.:Amitié (1971). In queste opere critiche elabora, attraverso la lettura di molti scrittori e filosofi, la propria concezione dell'opera d'arte, della scrittura e del rapporto che essa intrattiene con la morte, la solitudine, l'ignoto, il neutro, la malattia, l'infanzia, la fascinazione, l'immaginario e la legge. In questo periodo contribuisce anche a diverse riviste come I.:Arche, Sai-

    sons, Critzque, Les Cahiers de la Pléiade, Les Temps modernes. Nel 1956 partecipa al Comitato degli intellettuali rivoluzionari insieme a Dionys Mascolo e André Breton. Torna a vivere a Parigi, e nel 1958 pubblica La Bete de Lascaux scritto in omaggio all'amico René Char. Conosce lo scrittore Roger Laporte come anche Robert Antelme, autore di I.:Éspece humaine, che per Blanchot rimane un'opera fondamentale. Quest'ultimo incontro, come pure l'amicizia con Emmanuel Lévinas favoriranno una nuova riflessione dell'autore sull'ebraismo e l'antisemitismo. Comincerà una lunga meditazione sull'ebraismo come pensiero del cammino e sul disastro che porta il nome di Auschwitz. Dal 1958 al 1959 Blanchot pubblica degli articoli in Le 14 Juillet, rivista fondata da Dionys Mascolo eJean Schuster, con l'intento di organizzare l'opposizione intellettuale al ritorno di De Gaulle al potere. Sarà con Mascolo uno dei principali redattori del «Manifesto dei 121» che condannava la guerra in Algeria e sosteneva l'ammutinamento dei soldati francesi. Continuando a collaborare regolarmente a La Nouvelle Revue /rançaise, nel 1962 pubblica I.: attente l'oubli. Miche! Foucault e Roger Laporte nel 1966 pubblicano un numero speciale di Critique su Blanchot in cui viene finalmente riconosciuto come un grande romanziere e un grande pensatore di letteratura. Malgrado una fragile salute, Blanchot si impegna pienamente negli a•-.-cnimcnti dd maggio '68 che chiamerà «un altro tempo nel tempo». Partecipa a molte manifestazioni e assemblee e, come membro del comitato di azione studenti-

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    Biografie e bibliografie scrittori, scrive diciotto articoli non firmati in Comité. Avendo incontrato

    I' anno prima Derrida in occasione dell' «affaire Beaufret», Blanchot lo va a trovare regolarmente nell'ufficio di Rue d'Ulm durante i fatti del maggio. Una serie di problemi di salute, a partire dagli anni '70, lo obbligherà a lasciare il domicilio parigino (Rue Madame) per stabilirsi presso il fratello René e la cognata Anna a Mesnil-Saint-Denis, piccolo sobborgo di Parigi (Yvelines). A partire da questo momento si ritira sempre più dalla vita pubblica, non vede praticamente più gli amici, anche i più prossimi. La riflessione sull'amicizia non cessa tuttavia di approfondirsi e per questo continua a tenere regolare corrispondenza con gli amici mantenendo un legame di grande fedeltà. Nel 1971 pubblica J;Amitié che termina con delle bellissime pagine dedicate all'amico Georges Bataille (morto nel 1962). Pensare la vita di Maurice Blanchot non è possibile sen:la parlare anche