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i prismi cinema direzione di Guglielmo Pescatore
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i prismi cinema direzione di Guglielmo Pescatore
i prismi in preparazione Michele Fadda Caratteri del cinema contemporaneo Giacomo Manzoli Il cinema popolare Francesco Pitassio e Paolo Noto Neorealismo
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Veronica Innocenti Guglielmo Pescatore Le nuove forme della serialità televisiva Storia, linguaggio e temi
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© Archetipolibri - Gedit Edizioni 2008 prima edizione: gennaio 2008 responsabile editoriale: Elisabetta Menetti responsabile di redazione: Daniela Artioli redazione: Daniela Ambrosi traduzioni: Simona Mambrini copertina e progetto grafico: Avenida (Modena) fotocomposizione: Nuova MCS (Firenze) stampa: Press Service (Osmannoro - Firenze) Archetipolibri Bologna, via Irnerio 12/5 telefono 051.4218740 fax 051.4210565 www.archetipolibri.it
Archetipolibri è a disposizione degli autori e degli editori che potrebbero avere diritti sui testi contenuti nell’antologia. Questo libro è stato interamente pensato, discusso ed elaborato dai due autori in collaborazione. Tuttavia, per quanto concerne la stesura materiale, Veronica Innocenti ha scritto il capitolo 1, il capitolo 2 e le introduzioni ai testi 6-13; Guglielmo Pescatore ha scritto il capitolo 3 e le introduzioni ai testi 1-5 e 14-17.
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Premessa Profilo critico
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1. 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5
La serialità: cenni storici I modelli narrativi della serialità televisiva Genere e format La serializzazione della serie Crossover e spin-off Dialogismo intertestuale
29 33 38 45 49
2. 2.1 2.2 2.3 2.4
Una nuova Golden Age All’interno del testo seriale: temi e forme linguistiche High Concept TV Series Serialità e nuovi media Spettatori, fan, adepti
53 57 60 63 67 70
3. 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5
La serialità nel sistema dei media L’innovazione tecnologica e l’esperienza mediale Spazio, tempo, durata L’eredità del fumetto Reale, reality, fiction Verso i media-community
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Cronologia Documenti
79 83 87 93 101 107
113 118 121 132 136 144 151 158
Alle origini del percorso teorico: gli studi sulla serialità in Italia tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta 1. Francesco Casetti, L’immagine al plurale – Introduzione 2. Francesco Casetti, Le scelte del telefilm: la prevalenza del quadro 3. Umberto Eco, L’innovazione nel seriale 4. Thomas Elsaesser, Melodramma e temporalità 5. Omar Calabrese, L’estetica della ripetizione nella fiction televisiva La complessità narrativa dei mondi seriali 6. Aldo Grasso, Il telefilm fa bene 7. Jason Mittell, La complessità narrativa nella televisione americana contemporanea 8. Giorgio Grignaffini, I generi narrativi 9. Attilio Coco, Le serie tv e l’esperienza del transito Le serie televisive nella cultura contemporanea 10. Franco La Polla, X-Files e l’orrore del pensiero tra fantascienza e parodia 11. Sue Tait, Visione autoptica e immaginario necrofilo in CSI
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12. Diego Del Pozzo, Buffy, Dawson e l'orrore della crescita 13. Roy Menarini, “You Americans!”, “You Americans What?” 24 e il crollo di tutte le certezze
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Culti seriali 14. Henry Jenkins, La costruzione sociale della comunità di fan di fantascienza 15. Massimo Scaglioni, Fan & the City. Il fandom nell’età della convergenza 16. Ina Rae Hark, La trasposizione dei personaggi televisivi in altri media 17. Tamar Liebes e Elihu Katz, Né carne né pesce: perché Dallas non ha avuto successo in Giappone
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Indice bibliografico
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Indice dei documenti
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Indice dei nomi
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Le forme televisive seriali hanno rappresentato, fin dalla nascita della televisione, un macrogenere di grande importanza, capace di catturare l’interesse dei telespettatori, di generare fenomeni di culto e, più prosaicamente, in grado di coprire una consistente quantità di ore di programmazione, garantendo la possibilità di uno sfruttamento ripetuto. La televisione americana, in particolare, ha da sempre investito su questa tipologia di prodotto, elaborando forme narrative originali, sperimentando con i generi e offrendo allo spettatore prodotti di qualità, esportati in tutto il mondo con grande successo. Dunque, la storia dei prodotti televisivi seriali ha radici piuttosto lontane nel tempo e l’evoluzione di questi formati narrativi va di pari passo con l’evoluzione del medium stesso. In parallelo ai cambiamenti che hanno investito la natura del medium e ai mutamenti nella modalità di fruizione, si è assistito a una trasformazione anche nella natura delle forme seriali. Esse si sono infatti rivelate capaci di incorporare al loro interno forme linguistiche e temi che costituiscono il riflesso delle nuove esigenze spettatoriali, delle nuove modalità di fruizione e delle contraddizioni della società che le produce. In questo senso, dunque, questo libro intende ripercorrere alcune tappe utili a inquadrare il prodotto televisivo seriale all’interno di un arco di tempo piuttosto ampio, che copre circa sessant’anni e che coincide dunque con l’apparizione e l’affermazione del medium televisivo. Il primo capitolo del libro è perciò dedicato alla ricostruzione delle origini della serialità televisiva, ma soprattutto all’analisi dei modelli narrativi che ne costituiscono la fase che potremmo definire “classica”. Lo studio di queste formule di racconto permette infatti di cogliere con maggiore facilità i punti di frattura e di disomogeneità che caratterizzano invece l’epoca contemporanea, focalizzandosi dunque sulle nuove forme di serialità televisiva, in particolare americana, considerate ormai da più parti come fenomeni di grande interesse, sia per ciò che riguarda la sperimentazione sulle forme narrative e sulla messa in scena, sia per quanto riguarda i complessi meccanismi promozionali attivati sia, infine, per la risposta che esse generano negli spettatori, da quelli più assidui e appassionati a quelli occasionali. Il secondo capitolo del libro è dedicato all’analisi della cosiddetta Second Golden Age (seconda età d’oro) della produzione televisiva seriale, che
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coincide in gran parte con il superamento delle forme narrative più tradizionali e con l’affermazione di fenomeni di ibridazione e di contaminazione tra generi che hanno prodotto alcuni dei risultati più interessanti (nonché alcuni dei più grandi successi) degli ultimi anni. In questo capitolo, inoltre, si sottolinea come il rinnovato interesse da parte del pubblico (ma anche da parte degli studiosi) nei confronti di queste forme di racconto sia il frutto di una complessa attività di ideazione e costruzione di questi prodotti, nonché di una sapiente attività di promozione e di marketing, che non si limita dunque al medium televisivo, ma che coinvolge tutti i media, rielaborando i prodotti seriali in forme adeguate al supporto mediale destinato ad accoglierle (da Internet ai videogame, dai fumetti ai mini-episodi per cellulare). In questo contesto, quindi, un certo rilievo è stato posto sulla questione del rapporto che si instaura tra gli spettatori e i prodotti seriali, in particolare facendo riferimento alle numerose esperienze di partecipazione che gli spettatori più attivi vivono, non limitandosi alla passiva visione di un episodio, ma appropriandosi di temi e personaggi, rielaborandoli in infinite nuove versioni e fornendo sempre nuove interpretazioni dei prodotti seriali. Il terzo capitolo, infine, è dedicato all’analisi dei prodotti seriali contemporanei all’interno del più ampio sistema dei media, dunque cercando di cogliere la relazione che si instaura tra il prodotto seriale e l’innovazione tecnologica, che favorisce evidentemente una modificazione dell’esperienza mediale, e rapportando inoltre la serie televisiva ad altri prodotti altrettanto peculiari per la televisione contemporanea, come ad esempio i reality show. Dal terzo capitolo emerge dunque la rilevanza di questi oggetti all’interno dell’articolato panorama mediale contemporaneo, nel quale la delocalizzazione e la de-istituzionalizzazione del processo di fruizione hanno favorito la pervasività, la personalizzazione e la tendenza cross-mediale di queste forme di racconto. Alla parte antologica che chiude il volume, infine, spetta il compito di ripercorrere – senza alcuna pretesa di esaustività, ma con l’intento di permettere al lettore di ricostruire un quadro ampio della questione – alcune tappe del discorso sulla serialità. Precedute da un’introduzione e da una contestualizzazione, le quattro sezioni che compongono l’antologia offrono al lettore una selezione di brani che, benché certamente caratterizzati da un margine di discrezionalità e di eterogeneità, si propongono di restituire un quadro del dibattito sulle forme seriali. In particolare, le quattro sezioni dell’antologia offrono un percorso attraverso alcuni degli studi sulla serialità prodotti in Italia tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, un’analisi della complessità narrativa dei mondi seriali, un approfondimento sul ruolo delle serie televisive nella cultura contemporanea e, infine, una riflessione sui fenomeni di culto generati da questo tipo di prodotti.
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Un sentito ringraziamento va a Franco La Polla e Giacomo Manzoli, con cui abbiamo discusso gli aspetti generali della ricerca e che ci hanno fornito utili consigli e continui stimoli. Grazie a Monica Dall’Asta e a Roy Menarini per le occasioni di confronto e per le indicazioni bibliografiche che ci hanno generosamente fornito. Durante le fasi della sua progettazione ed elaborazione, questo lavoro è stato discusso nell’ambito del seminario di Dottorato in Studi Teatrali e Cinematografici - Sezione Cinema: siamo grati a tutti i partecipanti al seminario, che ci hanno dato idee e suggerimenti e ci hanno incoraggiato a proseguire le nostre ricerche. Grazie inoltre agli studenti dei nostri corsi dedicati alla serialità televisiva, che in questi anni hanno sempre dimostrato, con la loro partecipazione, grande entusiasmo e grande curiosità nei confronti delle nostre proposte. Per la pazienza, il supporto e la cura con cui ha seguito questo lavoro grazie a Elisabetta Menetti. Per le pazienti letture, i preziosi suggerimenti, e per il costante incoraggiamento un sincero ringraziamento va, infine, a Claudio Bisoni.
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1. La serialità: cenni storici L’industria dell’audiovisivo ha, da sempre, attuato processi di serializzazione. Da un lato, la serialità sembra essere inscritta nelle caratteristiche stesse del mezzo, cinematografico prima e televisivo poi: il flusso di fotogrammi, la molteplicità insita nella riproducibilità dell’immagine e quella delle copie che circolano, la loro teoricamente infinita riproducibilità. Dall’altro, la serialità diventa ben presto, nella storia del cinema, un importante meccanismo narrativo, che dà vita a una stagione importante, quale quella del serial, e che mantiene comunque il suo influsso fino al cinema contemporaneo. La nascita della serialità in ambito cinematografico e televisivo non è perciò un fenomeno indipendente o scollegato da altri ambiti importanti della comunicazione e dell’arte. Come nota Francesco Casetti [1984a, 8] si afferma il declino dell’unicità e della individualità, mentre trionfano serialità e ripetizione: «È come se le immagini e i suoni rinunciassero ad una loro sia pur parziale singolarità e scegliessero di apparire per così dire al plurale». Va insomma sfatato il mito di poter trovare nel cinema «un baluardo dell’unicità della rappresentazione da opporre ai modelli di serializzazione della tv. In realtà quelli dell’unicità e della serialità sono modelli indipendenti dal medium che li trasmette: il cinema può benissimo veicolare contenuti seriali e la televisione contenuti unici» [Menoni 2001, 19]. In primo luogo, in ambito sociale ed economico, alla nascita del prodotto cinematografico di stampo seriale fa da sfondo naturale l’affermarsi dei processi di industrializzazione, che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fanno sì che nella produzione in serie si collochi l’espressione più rappresentativa di queste dinamiche. Come nella produzione di oggetti materiali è una peculiare forma, basata principalmente sull’utilizzo della catena di montaggio (il sistema cosiddetto fordista), a segnare le dinamiche industriali del periodo, così nel campo dell’arte e della comunicazione «prima ancora di arrivare alla riproduzione seriale di singole unità identiche (il giornale, il libro, il disco, la puntata di un programma radiofonico o televisivo), si impara a scomporre il modo di raccontarne il contenuto» [Cardini 2004, 19].
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Profilo critico
Fordismo/Postfordismo
Industrializzazione e produzione di massa
Ad Henry Ford, fondatore della Ford Motor Company e produttore di automobili già dai primi anni del 1900, va attribuita l’introduzione, negli anni Venti, della catena di montaggio come sistema di razionalizzazione e di automatizzazione del ciclo di produzione delle sue fabbriche. Questa modalità di organizzazione del lavoro ha preso il nome di fordismo e ha rappresentato una profonda influenza nella nostra società, permettendo una produzione e una diffusione di massa dei beni materiali di consumo. Questa tipologia di produzione, di massa e fortemente localizzata territorialmente, entra in crisi verso la metà degli anni Settanta, quando si assiste a una fase di trasformazione della produzione e del lavoro, veicolata dal ricorso sempre più massiccio alle tecnologie informatiche. Il termine postfordismo identifica pertanto quell’insieme di innovazioni nella produzione e nel sistema industriale che vedono uno spostamento verso una delocalizzazione della produzione e una centralità delle qualità immateriali dei beni prodotti. Come nota Italo Calvino: «è vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine [...] Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso» [Calvino 1988, 9-10).
La produzione in serie di prodotti culturali muove certamente, come nel caso della produzione di oggetti materiali, da ragioni economiche. Cardini [2004, 19] nota infatti come ci si accorga molto presto che la frammentazione, la serializzazione, la parcellizzazione in piccoli frammenti uguali tra loro non nel contenuto, ma nel formato, mantengono vivi l’interesse e la curiosità per sapere cosa succederà dopo, accrescendo l’attaccamento e l’affezione alla storia, e moltiplicano in maniera esponenziale il consumo del supporto che la contiene: il giornale, il cinema, la radio, il disco, la televisione ecc.
Considereremo quindi il prodotto culturale come oggetto comunicativo di massa, ma anche come oggetto culturale, come «luogo di sedimentazione, di espressione, di diffusione e di rafforzamento di conoscenze, credenze, atteggiamenti, valori, norme propri di una società o di una sua porzione» [Colombo e Eugeni 2001, 28]. Assieme alle modifiche strutturali subite dai sistemi e dalle logiche di produzione, si fa largo un’altra importante entità: il pubblico, che manifesta una grande propensione nei confronti dei prodotti seriali, facendo sì che essi costituiscano una forma necessaria, adottata da ogni medium di massa.A una maggiore disponibilità e competenza tecnologica, alla possibilità di allargare l’offerta di prodotti culturali e all’ampliarsi del bacino di
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utenza, corrisponde quindi una risposta positiva del pubblico, che si dimostra costantemente assetato di storie, ma anche incline a voler “ritrovare” elementi comuni nelle storie di cui fruisce. Come nota Umberto Eco [1985b, 129], «Nella serie l’utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi... La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, superficialmente mascherato». A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, in parallelo con l’aumento del grado di alfabetizzazione, si assiste dunque all’affermarsi di opere narrative pubblicate a puntate sulla stampa. Il romanzo a puntate costituisce quindi un primo, cruciale passo verso l’istituzionalizzazione delle forme narrative di tipo seriale. Il fenomeno della serializzazione della narrativa nella letteratura, come anche nella comunicazione visiva, risente significativamente della particolare organizzazione tecnologica ed economica che le congiunzioni del momento mettevano a disposizione, facendo della serie la sua espressione retorica più diretta.Thomas Elsaesser [1984] nota infatti come l’ideologia del romanzo a puntate, la particolare costruzione dei suoi enigmi e le ramificazioni delle sue linee narrative, dipendano direttamente dall’introduzione dei sistemi di stampa a basso costo, nonché dalla possibilità di assicurare una grande rapidità di circolazione del prodotto, impensabile fino a qualche tempo prima. In questo scenario vanno allora diffondendosi pubblicazioni che segnano la nascita di forme narrative di tipo seriale che ricoprono il ruolo di modelli di riferimento per lo sviluppo di strutture seriali nei racconti di altri media. I romanzi a puntate, ad esempio, vanno sviluppandosi numero dopo numero, senza possedere un itinerario narrativo predefinito. Non si tratta quindi di suddividere in segmenti una storia già scritta, quanto piuttosto di pensare a un’articolazione narrativa progressiva, stratificata e sempre più complessa. Questa caratteristica si adeguerà poi molto bene, come vedremo, alle dinamiche produttive dei prodotti audiovisivi seriali, e in particolare televisivi. Il momento di maggior successo della narrativa a puntate è forse rappresentato dal feuilleton, frutto dell’incontro tra la stampa e la letteratura. Per feuilleton si intende una forma narrativa comparsa all’inizio dell’Ottocento che consisteva in una sorta di “supplemento” al quotidiano, che ben presto inizia a ospitare novelle, racconti di viaggio e, successivamente, veri e proprio romanzi a puntate. Si rende dunque necessario «un nuovo modo di scrivere:si improvvisa sul momento un intreccio che,teoricamente,potrebbe non avere mai fine, infarcendolo di trame secondarie, nuovi personaggi, nuovi legami tra loro che vengono a complicare talmente la vicenda che l’autore stesso finisce per scordarne i particolari» [Cardini 2004, 29].
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Il romanzo a puntate
Forme seriali in letteratura
A partire dal 1831 Honoré de Balzac decide di anticipare alcuni capitoli dei romanzi che sta scrivendo a mezzo stampa, per stimolare attesa nei lettori. La pubblicazione di racconti inediti a puntate sui quotidiani diventerà intorno agli anni Trenta dell’Ottocento una strategia molto diffusa, che segnerà la nascita della narrativa seriale. Nel 1836 Il Circolo Pickwick di Charles Dickens viene pubblicato in 20 fascicoli mensili e, a differenza di altre pubblicazioni precedenti costituite da una segmentazione di opere preesistenti, nasce come opera in progress, articolata senza un andamento narrativo rigido. Tra le pubblicazioni a puntate più famose ritroviamo I misteri di Parigi, romanzo a puntate di Eugène Sue pubblicato tra il 1842 e il 1843, I tre moschettieri (1844) e Il conte di Montecristo (1845) di Alexandre Dumas.
Prende vita, insomma, una stampa popolare, che attraverso le strutture dell’industria culturale [vedi Profilo critico, 3] è in grado di raggiungere un pubblico molto vasto e che si incentra sugli elementi della ripetitività, della narrativa interrotta e del piacere del pubblico nel ritrovare personaggi e ambienti già noti e già percorsi. Altro fattore incisivo nel determinare il successo di questo tipo di prodotto, nonché nel provocare influenze significative sui prodotti seriali che verranno poi proposti da altri mezzi di comunicazione, quali il cinema e la televisione, è il fatto che la modalità di lettura di questi testi non è più individuale, bensì collettiva e dunque basata sul confronto e sulla condivisione. Alla letteratura si affianca poi anche il fumetto, la cui nascita viene fatta in genere risalire al 1895, quando su un supplemento domenicale del quotidiano New York World esordisce un personaggio illustrato da Richard F. Outcault. Si tratta di un bambino, piuttosto brutto e dalla testa calva, vestito con un camicione giallo, ribattezzato presto Yellow Kid, e individuato dagli storici del fumetto come l’evento che decreta la nascita del mezzo [Brancato 2001]. Contemporaneamente al cinema nasce quindi anche un altro mezzo, da più parti ritenuto a buon diritto appartenente alla categoria dell’audiovisivo, che basa molta della sua fortuna e del suo fascino proprio sul processo di serializzazione e che fa della frammentazione il suo carattere espressivo, con uno stile narrativo spesso debitore del feuilleton. Per quanto riguarda il cinema, secondo David Bordwell e Kristin Thompson [1994] il serial cinematografico è oggi ricordato principalmente in associazione a quei prodotti a basso budget che, tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, affollavano le matinée destinate agli spettatori più giovani. In realtà, gli autori rammentano come il serial sia stato una forma caratteristica del cinema fin dagli anni Dieci. In quegli anni, la produzione era infatti ricca di prodotti dalla durata variabile (alcuni erano molto brevi,
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altri duravano anche più di quarantacinque minuti), caratterizzati da molta azione, e ricchi di situazioni di suspense, scenari esotici e avventurosi salvataggi. Si trattava quindi di film caratterizzati da una struttura episodica, in cui una story-line veniva portata avanti per numerose puntate. La struttura dei singoli frammenti prevedeva l’interruzione del racconto proprio nel momento di apice della tensione, con un finale sospeso. La sistematica sospensione del finale, con il consueto cartello che rimandava alla puntata successiva, viene chiamata cliffhanger (dall’inglese cliff, scoglio e hanger, qualcosa che permette di stare appeso) proprio perché in genere l’episodio si chiudeva con il protagonista appeso a una roccia, o a penzoloni da un palazzo, in attesa di una risoluzione che sarebbe arrivata solo con l’episodio successivo, intrigando lo spettatore e incuriosendolo al punto da indurlo a tornare la settimana seguente. Con il serial degli anni Dieci, che si afferma pressoché contemporaneamente in Francia e negli Stati Uniti, si definiscono allora alcuni elementi molto importanti per l’evoluzione del cinema, ma che avranno ripercussioni anche sulla struttura dei prodotti televisivi. Come nota Monica Dall’Asta [1999], infatti, il serial nasce in un momento carico di trasformazioni significative, non ultimo un processo di modernizzazione delle tecniche pubblicitarie, per cui l’obiettivo diventa quello di “catturare” il pubblico. Così, come abbiamo già accennato, si va affermando il ruolo dello spettatore che «comincia a definirsi come un essere dotato di memoria», e che diventa quindi il destinatario di una serie di messaggi che il film costruisce in relazione anche ad altre forme di comunicazione, affermando il principio del «tie-in, il concatenamento intertestuale, che qui viene già sfruttato in una doppia forma: da un lato, nella forma della novellizzazione del film, dall’altro, in quella di un concorso a premi» [Dall’Asta 1999, 290]. La produzione di serial conosce in Francia un momento di grande entusiasmo con i film prodotti dalla Pathé e quelli di Louis Feuillade per la Gaumont, in particolare con la serie Fantômas [Dall’Asta 2004], mentre negli Stati Uniti il serial consolida la sua popolarità attraverso alcuni prodotti che hanno per protagoniste le donne e che alle donne sembrano essere in particolare rivolti: What Happened to Mary (W. Edwin, J. Searle Dawley, 1912) e The Perils of Pauline (L.J. Gasnier, D. MacKenzie, 1914) si affermano infatti come serial di grande successo, trasformando le loro protagoniste in dive, e inducendo le compagnie di produzione a lavorare su prodotti similari. In tal senso, i prodotti seriali cinematografici producono due effetti significativi, dipendenti uno dall’altro. In primo luogo, le caratteristiche che la produzione seriale presenta (si pensi ad esempio alla ripetitività del personaggio e delle situazioni, alla suspense legata alla sospensione della narrativa, ai processi di fidelizzazione che si instaurano tra il pubblico e il prodotto) incoraggiano lo svi-
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luppo del fenomeno del divismo, legato inizialmente a un personaggio, come nel caso di Fantômas. In America, poi, si provvederà a legare il racconto cinematografico seriale al volto di un attore, che verrà riconosciuto e percepito in relazione al personaggio che interpreta e che, grazie al concatenamento intermediale di cui il cinema si rende presto conto, potrà essere fruito anche attraverso altri media (dischi, radio, stampa popolare). In secondo luogo, la serialità sviluppa le dinamiche produttive e di diffusione dei suoi prodotti al massimo grado, anche in virtù delle logiche di sviluppo dell’industria cinematografica e delle sue dinamiche produttive. Il serial possiede infatti modalità di produzione di tipo industriale, che ne fanno «quanto di più vicino sia mai esistito in campo cinematografico a una rigida organizzazione fordista del lavoro. [...] Realizzati, a dispetto delle loro dimensioni (almeno tre volte quelle normali dei lungometraggi), con budget ridottissimi, i serial dispongono di tempi di lavorazione altrettanto ridotti» [Dall’Asta 1999, 315]. Il modello seriale diventa allora dominante. In primo luogo, per il tipo di struttura produttiva che lo caratterizza e che caratterizza la dimensione industriale della produzione cinematografica, in particolare americana. In secondo luogo, perché il modello seriale non rimane esclusivamente confinato alle logiche produttive del film, bensì estende il suo influsso, permeandone anche la struttura linguistica. I meccanismi dello studio system si coniugano allora con le sperimentazioni linguistiche, facendo sì che in questi anni si determinino alcuni dei canoni linguistici della ripetizione cinematografica, ad esempio con D.W. Griffith, sancendo l’ingresso della ripetizione nella struttura del cinema e definendo i termini di una eredità che influenzerà evidentemente tutta la futura struttura e produzione televisiva.
Fidelizzazione
Abitudini di consumo
La serialità televisiva, srotolando le sue narrazioni sulla lunga durata è tesa a ottenere un elevato grado di fedeltà dal proprio spettatore. Ciò è evidente nelle strutture narrative che sottendono ai prodotti seriali, finalizzate appunto a creare interesse nello spettatore, a coinvolgerlo all’interno della vicenda narrata e a lasciargli quel grado di incertezza e suspense necessario a far sì che egli si sintonizzi nuovamente sul medesimo programma quando andrà in onda la puntata successiva. Al concetto di fidelizzazione si associano anche gli studi relativi alle abitudini di consumo degli spettatori televisivi, da cui emerge frequentemente la presenza per gli spettatori di «appuntamenti fissi, punti di ancoraggio all’interno della programmazione, intorno a cui si organizzano percorsi di fruizione sempre più netti e definiti» [Fanchi 2001, 65].
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David Wark Griffith Regista, sceneggiatore e produttore statunitense. Dopo aver lavorato come attore, Griffith incominciò a dirigere film per la casa di produzione Biograph nel 1908. Suo merito è quello di aver sperimentato numerose tecniche di ripresa e montaggio, tra cui la più nota è il cosiddetto cross-cutting: la macchina da presa si sposta su due situazioni, facendoci assistere in tempo reale a due diversi momenti. Tra i suoi film più famosi troviamo Nascita di una nazione (Birth of a Nation, 1915) e Intolerance (1916).
Va ricordata, infine, l’influenza del medium radiofonico sulla organizzazione e diffusione dei prodotti seriali, in particolare la sua evidente importanza nella costruzione del prodotto seriale televisivo. La nascita del broadcasting – termine che indica una attività di diffusione di suoni (o suoni e immagini) da un sistema di trasmissione a un insieme di sistemi di ricezione – comporta la necessità di fornire una grande mole di contenuti a costi accessibili. In un sistema radiofonico commerciale come quello americano si fa pertanto da subito largo la necessità di catturare inserzionisti pubblicitari, e dunque di studiare e ideare i formati narrativi più adeguati a tale scopo. Da qui, la soluzione presto escogitata è quella di produrre trasmissioni seriali, i cui vantaggi sono molteplici: fidelizzano il pubblico grazie alla ricorsività di storie e caratteri; sono facilmente scomponibili in blocchi narrativi al fine di inserire messaggi pubblicitari; i prodotti pubblicizzati nelle interruzioni possono facilmente riferirsi all’universo finzionale costruito dalla serie, garantendo un più efficace effetto del messaggio pubblicitario. Nell’affermarsi della produzione di stampo seriale, letteraria/fumettistica prima e radiofonica poi, e nel passaggio di queste dinamiche al medium cinematografico, si rafforzano allora due tendenze importanti, due caratteri tipici del prodotto culturale che segneranno le sorti delle produzioni successive, operando una influenza forte sul consolidamento di tali dinamiche in ambito televisivo [Colombo e Eugeni 2001, 19]: la tendenza alla contaminazione tra generi differenti (storia, cronaca, fiction); e la tendenza alla narrazione seriale, vuoi nella forma della saga (un unico racconto tendenzialmente infinito o comunque ampio che procede in sequenza alternando vari personaggi: ad esempio Les Mystères de Paris, pubblicato da Eugène Sue tra il 1842 e il 1843), vuoi nella forma della serie (differenti racconti aventi al centro lo stesso personaggio o gli stessi personaggi: ad esempio i romanzi e i racconti di Sherlock Holmes, scaturiti tra il 1887 e il 1921 dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle).
Gli orientamenti della narrazione seriale intesi in termini di saga e di serie, come sottolineato da Colombo ed Eugeni, si prestano bene a un’analisi
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delle forme seriali audiovisive. È possibile notare un legame molto forte tra l’idea di saga come di un racconto tendenzialmente infinito, ampio, che procede in sequenza, e la struttura della soap opera televisiva (e, prima ancora, radiofonica).Allo stesso modo, per ciò che riguarda la serie, è piuttosto evidente il fatto che lo stesso termine venga utilizzato comunemente anche per i prodotti televisivi, e che caratterizzi la struttura di una certa produzione cinematografica. Vediamone allora più da vicino le caratteristiche e le peculiarità. 1.1 I modelli narrativi della serialità televisiva In Italia, si è diffuso per lungo tempo l’uso del termine telefilm per indicare tutti quei prodotti di stampo seriale, di provenienza in gran parte statunitense, che iniziano ad affollare i palinsesti italiani in particolare dalla fine degli anni Settanta in poi. Come ricorda Aldo Grasso [2007, 9], «telefilm è parola squisitamente italiana (poco usata in area anglofona dove si preferisce parlare di “tv series”, specificando il genere di appartenenza: western, hospital, soap, sit, drama, sci-fi, docu...)». Telefilm è un termine che suscita qualche perplessità, poiché sembra in effetti più adatto a descrivere un fenomeno complesso e altrettanto importante in termini quantitativi quale è quello dei made-for-TV movies, piuttosto che il panorama della serialità televisiva.
Made-for-TV movies
Tra serialità e unicità
I made-for-TV movies, o semplicemente tv movies, sono prodotti assimilabili al film per il grande schermo per durata e formato, ma pensati e realizzati esclusivamente per la diffusione televisiva. Spiccano nel panorama televisivo per la scarsa qualità delle immagini, che nascono senza eccessivo dispiego di mezzi e sono pensate per una visione esclusiva sul piccolo schermo. Predominano quindi le inquadrature in interni, in campo medio o in primo piano e campo/controcampo, è il dettaglio a dominare il quadro. Il tv movie è un prodotto indispensabile nel palinsesto dei network americani, di cui occupa circa il 20% del prime time e per cui rappresenta una delle risorse più significative per poter avere materiali inediti nel proprio palinsesto [Rapping 1992]. Viene spesso utilizzato un linguaggio standardizzato e di immediata comprensione anche alle fasce di pubblico meno sofisticate e meno famigliari con il linguaggio cinematografico. L’azione, come per sit-com e serial, è circoscritta fisicamente e intellettualmente per stare dentro ai confini del video e per rientrare nella realtà di una fruizione di tipo domestico. Peculiarità del tv movie è quella di riuscire ad esprimere in maniera didascalica e autoreferenziale i problemi che affronta, spesso ispirati a fatti di cronaca, fugando ogni possibile ambiguità e manifestando un chiaro giudizio morale [Innocenti 2006, 2007a].
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All’interno della macro-categoria della serialità, sembra invece ancora attuale la distinzione effettuata da Umberto Eco [1984, 1985b], che riconosce l’esistenza di svariate modalità in cui il prodotto seriale può declinarsi. Tendenzialmente, possiamo differenziare i prodotti televisivi seriali in due categorie principali, il serial e la serie. Ognuno di essi possiede caratteristiche ben definite e modelli narrativi ricorrenti. Per quanto riguarda il serial, esso è da considerarsi come un racconto articolato in un numero variabile di parti distinte, dette puntate, interdipendenti e intervallate nel tempo. La puntata è un segmento narrativo non autosufficiente, un frammento di una trama aperta, che occupa un posto preciso nella narrazione, ed è direttamente concatenato ai segmenti precedenti e successivi [Buonanno 2002]. Il serial si può articolare in due formule: la prima è detta continuous serial e si configura in due tipologie, la soap opera, proveniente principalmente da Europa e Stati Uniti e caratterizzata da una narrativa che non prevede risoluzione né finale, e la telenovela, proveniente dall’America Latina, dalla narrativa invece chiusa, sebbene comunque di lunghissima durata, e in cui tutto procede verso la risoluzione del racconto. Nella telenovela c’è pertanto un epilogo, ma la narrativa è comunque aperta, flessibile e modificabile anche a causa delle necessità produttive. Soap opera e telenovela sono esempi di saga, in cui il protagonista è seguito in maniera attenta anche in tutte quelle diramazioni narrative che sono relative ai suoi discendenti, ai figli, ad altri personaggi coinvolti, come accade per Dallas (1978-1991) o Beautiful (The Bold and the Beautiful, dal 1987). L’altra forma in cui si articola il serial è il cosiddetto miniserial, un prodotto composto da poche puntate distribuite entro un breve arco di tempo, è una sorta di ibrido, poiché il racconto interrotto lo rende appartenente alla famiglia del serial, ma si tratta di una forma di serialità debole, che chiede allo spettatore una fedeltà corta, a breve termine, e che è dotato di una chiusura narrativa inequivocabile. Nella serialità lunga è il dispositivo del ritorno del già noto che assicura fedeltà, esso è incorporato nelle strutture narrative, nell’articolazione protratta nel tempo di una identica situazione. Nella serialità corta, invece, questa risorsa manca, così per assicurare fidelizzazione spesso si ricorre a forme intertestuali e di ripetizione, giocando sulla familiarità e riconoscibilità di storie e temi che rimandano a materiali risaputi, ad esempio attraverso la ricostruzione di eventi storici o gli adattamenti di opere letterarie. A sua volta, la serie si caratterizza per la sua articolazione in segmenti, tendenzialmente autoconclusivi e marcati dalla presenza di un titolo (che spesso fa riferimento a quelli che saranno i temi affrontati): questi frammenti sono detti episodi e sono in larga misura autosufficienti nell’economia della serie. Le forme più comuni in cui questa tipologia si articola sono quelle della serie antologica, della sit-com (abbreviazione di situation comedy, commedia di situazione) e della serie propriamente detta. La serie non si identifica con qualche specifico sub-universo narrativo, ma
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con tutti, dal poliziesco al genere ospedaliero, dall’avventura alla fantascienza, dal western alla commedia familiare [Buonanno 2002]. Per serie antologica si intende una serie con episodi «di durata variabile da mezz’ora a un’ora e mezza, [che] non ruotavano intorno a personaggi o ambientazioni ricorrenti ma li diversificavano di continuo, come se ogni volta si trattasse di un nuovo film [...] Il fattore inter-episodico unificante poteva essere costituito dal genere (giallo, mistery), dal medesimo interprete (alcune star del cinema avevano le proprie antologie), da una stessa figura di narratore o presentatore che introduceva le storie e ne commentava la conclusione» [Buonanno 2002, 164]. Il riferimento d’obbligo qui va a prodotti come Ai confini della realtà (The Twilight Zone 19591964, questa serie ha avuto ben due revival nel 1985 e nel 2002) e Alfred Hitchcock presenta (Alfred Hitchcock Presents 1955-1962). Questa formula scompare però abbastanza presto, perché richiede un grosso sforzo creativo e produttivo, per creare ambienti, situazioni e personaggi sempre nuovi. La sit-com, invece, è articolata sulla base di episodi corti, di durata intorno alla mezz’ora, e possiede toni leggeri da commedia. In questo breve arco temporale si articola una commedia di situazione che coinvolge sempre il medesimo gruppo di personaggi, ripresi in uno o più ambienti fissi. Le
La fiction in Italia
Serialità debole
La serialità prodotta nel nostro paese viene indicata di norma con il nome di fiction, ma prima di cominciare a parlare di fiction in Italia si parlava di sceneggiato, romanzo sceneggiato o teleromanzo, formule che per almeno vent’anni sono state il genere privilegiato della produzione seriale della televisione italiana. Essenzialmente si trattava di un adattamento letterario, un racconto a puntate tratto da un’opera narrativa edita. Per lungo tempo, la serie all’italiana è stata caratterizzata da un numero limitato di episodi di durata intorno ai 90 minuti l’uno e da una struttura narrativa a “incastro”. Si è parlato spesso, per il modello italiano, di una serialità “debole” basata non tanto sulla lunga durata, quanto sulla familiarità del pubblico con le storie narrate: biografie di personaggi famosi, storie ispirate a fatti di cronaca o adattamenti letterari [Buonanno1996; 2002]. Di recente, la fiction nostrana ha fatto propri i meccanismi produttivi della lunga serialità, inaugurando la produzione di soap (Un posto al sole, in produzione dal 1996 e Centovetrine, in produzione dal 2001) e diffondendo il modello della serie serializzata. Inoltre, sempre più spesso si assiste all’offerta di prodotti che presentano una continuità multistagionale come accade per le serie americane (Distretto di polizia, giunto alla settima stagione nel 2007, La squadra, all’ottava stagione nel 2007 e RIS - Delitti imperfetti, alla quarta stagione nel 2007).
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diverse situazioni riguardano di solito la sfera dei rapporti interpersonali e sono complicate da motivi di contrasto, fra ruoli, fra sessi, fra classi sociali etc., da cui scaturiscono spunti umoristici [Jones 1992]. L’andamento è dunque simile a quello delle serie che Eco [1984, 27] definisce a spirale, in cui «apparentemente non solo vi accade sempre la stessa cosa, ma quasi non vi accade nulla, eppure ad ogni nuova striscia il carattere [di Charlie Brown] ne risulta arricchito e approfondito». Di recente, grande successo hanno riscosso sit-com come Seinfeld (19901998), Friends (1994-2004), Will & Grace (1998-2006): in questi casi, ogni episodio è articolato in tre momenti: «stato di equilibrio iniziale, presto scompigliato dall’ingresso di un elemento turbativo [...]; parabola ascendente della tensione o del conflitto al suo apice; risoluzione del problema e ritorno alla situazione di equilibrio iniziale» [Buonanno 2002, 174-175]. Il suo andamento è dunque circolare, il punto di arrivo tende a ricongiungersi idealmente al punto di partenza, così la sit-com sembra essere la forma seriale per eccellenza poiché, come nota Buonanno [2002, 175]: «in nessun altro caso ci troviamo di fronte, ogni volta, alla traduzione quasi letterale dell’essenza della serialità, vale a dire il ritorno del già noto, il ritorno al già noto». Nelle sit-com è vero infatti che le situazioni si ripetono secondo uno schema ciclico consueto (stato di calma iniziale – elemento di disturbo che porta scompiglio – ristabilimento della calma iniziale), ma è vero altresì che i personaggi evolvono, crescono, cambiano posizione. Sempre riferendoci a Friends, ad esempio, i suoi protagonisti, nonostante un’apparente inamovibilità, si sposano, fanno figli, si lasciano, cambiano lavoro. Lo spettatore sa, in tal modo, di poter ritrovare ogni settimana un contesto familiare, ma sa anche che i suoi beniamini crescono con lui, in una situazione che forse è ancora più evidente nelle serie giovanilistiche, dove i personaggi passano attraverso un percorso evolutivo, fisico e psicologico, che però non impedisce alla serie di mantenere certe caratteristiche inalterate o di ripetere all’infinito determinate dinamiche e situazioni. Anche dove c’è ciclicità e consuetudine si verifica comunque un progredire della narrazione. Va inoltre sottolineato come si sia consolidata, nella costruzione del palinsesto dei network americani – e per traslato sempre più anche nella costruzione dei palinsesti nostrani – la tendenza e la necessità di avere serie e sit-com come prodotti di punta nella organizzazione degli spazi del prime time televisivo [Rose 2003]. A caratterizzare le serie di stampo più tradizionale sono invece lo schema fisso e la presenza di un carattere fisso [Eco 1984]. Questa modalità prevede una situazione che si ripropone a ogni episodio grazie alla ricorrenza di caratteri «intorno ai quali ruotano dei personaggi secondari che mutano, proprio per dare l’impressione che la storia seguente sia diversa dalla storia precedente» [Eco 1984, 24]. Questa struttura è di norma adottata dalle serie poliziesche degli anni Settanta e Ottanta e fino agli inizi degli anni Novanta: pensiamo ad esempio a Colombo (Columbo 19681991), ma anche a Starsky and Hutch (1975-1979) e La signora in gial-
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lo (Murder, She Wrote 1984-1996). La serialità televisiva fa necessariamente ricorso ai caratteri fissi, tranne in rari casi, quali ad esempio le serie antologiche, in cui si ripropongono solo situazioni simili per atmosfera. Normalmente, qualsiasi tipo di serialità televisiva – serie, serial o sit-com – si definisce tale proprio in virtù di questa forma di ripetizione che non consiste solo nel ripresentare situazioni analoghe, ma nel farlo anche attraverso l’uso di un cast di personaggi ricorrenti. In questa struttura piuttosto rigida è però possibile che si inseriscano varianti e variazioni, come flashback ed episodi costruiti sull’idea del “what... if...”, cioè del “cosa sarebbe successo se...”. Spesso il flashback entra nella sit-com con intenti ironici e canzonatori, come nel caso di Friends, in cui la magrissima Monica e la bella Rachel vengono più volte mostrate da ragazzine, una grassa e l’altra con un naso deturpante. Proprio da queste caratteristiche si innescano meccanismi comici e battute a ripetizione. In altri casi il flashback si confonde con altre modalità, peculiari del genere di prodotto che abbiamo davanti, e cioè con l’apertura a mondi possibili e a linee narrative ancora mai considerate che in qualche modo rimettono in prospettiva tutto il materiale narrativo fino a quel momento sottoposto all’attenzione del pubblico, ma senza che questo alteri la fisionomia dei personaggi ricorrenti. È impossibile, in questo caso, non fare riferimento a Star Trek serie classica che è stata prodotta tra il 1966 e il 1969. Si tratta di una serie di culto su cui molto è stato scritto [La Polla 1995 e 1998; Hertenstein 1998; Gibberman 1991] e da cui sono nate diverse serie-sequel (Star Trek - The Next Generation 1987-1994; Star Trek - Deep Space Nine 1993-1999; Star Trek - Voyager 1995-2001; Star Trek: Enterprise 2001-2005). In alcuni episodi della serie classica e di Deep Space Nine, i protagonisti si ritrovano in un distopico universo parallelo, il cosiddetto universo dello specchio, in cui incontrano i propri alter ego malvagi e non esiste la Federazione dei PiaPrime Time
Fasce di palinsesto
La giornata televisiva viene convenzionalmente divisa in fasce orarie dedicate a conquistare precise tipologie di pubblico con l’obiettivo di massimizzare gli ascolti. Il “Prime Time” è la fascia serale, che corrisponde al momento in cui il maggior numero di spettatori è sintonizzato sui canali televisivi [Gitlin 1983]. Negli USA corrisponde convenzionalmente alla fascia 20.00-23.00 o 19-00-22.00, a seconda delle zone geografiche, mentre in Italia, tradizionalmente, la fascia oraria di prima serata corrisponde al periodo 21.00-23.30, momento in cui le reti generaliste propongono una programmazione il più possibile adatta ad un pubblico familiare ed allargato. Nel caso degli USA i programmi sono tendenzialmente strutturati per coprire blocchi di 60 minuti, mentre in Italia molti programmi hanno una durata media di 90 minuti al netto degli spazi pubblicitari.
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neti Uniti (istituzione fittizia dell’universo fantascientifico di Star Trek, che raccoglie sotto un unico governo l’umanità e molti altri popoli che hanno proceduto ad una unificazione planetaria dei loro governi). Questo tipo di meccanismo – grazie a una flessibilità narrativa straordinaria, dovuta in larga misura alla sua base fantasy che concede ampie possibilità di sperimentazione – è sfruttato in tempi più recenti anche da Buffy (Buffy the Vampire Slayer 1997-2003), in cui è più volte innescato con risultati interessanti. Nell’episodio Di nuovo normale (Normal Again, stagione 6, episodio 17), ad esempio, si incorpora in maniera interessante una sorta di “vacanza” all’interno di una linea narrativa che mantiene i personaggi e il contesto della serie, inscrivendosi in un più vasto insieme di puntate che permettono di allargare gli orizzonti della storia per entrare nel regime del “what... if...”. Qui, la protagonista viene ferita da un demone che le inocula un veleno attraverso il suo pungiglione: da quel momento la ragazza comincia ad avere strane visioni su una realtà altra, in cui Sunnydale, la città in cui vive, non esiste, ma è solo una proiezione della sua mente malata e lei stessa si trova in realtà rinchiusa in un manicomio, dove ha trascorso gli ultimi sei anni circondata da amici immaginari, abitando un mondo inesistente popolato da demoni e vampiri.Alla fine Buffy sceglierà di restare nel mondo di Sunnydale, riportando lo spettatore al suo universo finzionale di riferimento [Innocenti 2007b]. Altri esempi di serie che sfruttano questo espediente sono In viaggio nel tempo (Quantum Leap 1989-1993) e il più recente I viaggiatori (Sliders 1995-2000). Abbastanza classica la premessa nel primo caso: un esperimento con una macchina del tempo proietta il protagonista indietro di trent’anni, rendendolo impossibilitato a tornare nel presente. Così, per non svelare la sua identità di uomo del futuro il protagonista può, in ogni episodio, assumere una diversa identità, sperimentando diverse possibilità, assumendo le più varie incarnazioni. Senza marchingegni tipici della fantascienza, se non quello che inizialmente catapulta il protagonista nel passato, la serie è in grado di impiantare un meccanismo del tipo descritto in precedenza, facendo del what... if...” l’espediente narrativo portante. Nel secondo caso siamo invece davanti alle vicende di quattro personaggi che hanno la peculiarità di poter saltare indietro nel tempo, in dimensioni parallele rispetto a quanto scritto dalla Storia. Il telespettatore è dunque condotto a scoprire cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero perso la Guerra d’Indipendenza o come ci si potrebbe difendere da un asteroide senza possedere armi nucleari [Damerini e Margaria 2004]. Nel 1996 la Acclaim Comics si accordò con la Universal per produrre la versione a fumetti di questa serie televisiva. L’intenzione degli autori era sfruttare proprio le infinite possibilità offerte dalla trama, ma che non potevano essere riprodotte a causa della ristrettezza del budget televisivo. Non è dunque un caso che l’espediente del “what... if...”, di chiara derivazione fumettistica, venga ben accolto dai prodotti televisivi seriali e funga da fulcro intorno al quale creare innumerevoli variazioni sul medesimo canovaccio.
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La tipologia di prodotti seriali qui esposta, l’articolazione delle strutture narrative che abbiamo individuato – anche grazie al riferimento ai numerosi casi che compongono l’articolato panorama della serialità televisiva –, il ricorso a espedienti che permettono l’allargamento agli imaginary tales [Eco 1964], ci conducono ad esprimere ulteriori considerazioni, che affronteremo nel paragrafo dedicato alla serializzazione della serie. Quello che ci preme qui rimarcare è però il fatto che tali formule non si costituiscono in una rigida griglia all’interno della quale poco spazio è lasciato alla sperimentazione e all’innovazione.Al contrario, si tratta di una classificazione utile allo studio dei prodotti seriali, dal momento che fornisce una prima, chiara articolazione delle modalità di organizzazione della narrazione, ma che non esaurisce la complessità delle occorrenze in cui il prodotto seriale televisivo si manifesta [Creeber 2004]. Le formule narrative non sono schemi rigidi e intoccabili, esse si fondono, si sovrappongono, danno vita a uno scenario produttivo complesso, all’interno del quale si fanno avanti tipologie di prodotti più difficilmente classificabili, ma di grande interesse, a cui dedicheremo attenzione nelle prossime pagine. 1.2 Genere e format Sostanzialmente, la serialità è già di per sé un “genere” televisivo, se non addirittura il genere televisivo per eccellenza, poiché essa costituisce il tratto distintivo della maggior parte dei programmi televisivi che si caratterizzano proprio per la loro frammentazione in puntate ed episodi, indipendentemente dal fatto che siano prodotti di fiction o talk show o varietà. Ma prima di procedere, è bene fare un po’ di chiarezza rispetto ad alcuni termini che comunemente vengono usati quando si parla di prodotti televisivi. Al concetto di genere vengono infatti ad aggiungersi le nozioni di format e di formato che necessitano di essere definite. Il format è: Uno schema di programma (dall’idea di base ai meccanismi di svolgimento fino ai moduli produttivi e agli elementi scenografici) che viene commercializzato sui mercati internazionali, corredato da tutta una serie di informazioni riguardanti la possibile collocazione in palinsesto, le strategie promozionali ecc. [Grignaffini 2004, 45].
Il termine format è importante poiché è ampiamente utilizzato tra i produttori e i consumatori per identificare il tipo di prodotto con il quale hanno a che fare. I format possono essere prodotti originali, soggetti a copyright, esportati dietro una licenza e venduti esattamente come un qualsiasi altro prodotto commerciale o culturale, mentre il genere non possiede queste caratteristiche, né è possibile infilarlo all’interno di confini rigidi. A definire un programma televisivo in termini di formato, invece, saranno elementi quali la durata o il numero degli episodi in cui il programma si articola, mentre, come nota Grignaffini [2004, 45], «il genere si riferisce
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principalmente alle caratteristiche comunicative di un programma (il modo in cui produce significati condivisi socialmente)». In questo senso, la fiction di stampo seriale costituisce appunto il macrogenere del racconto audiovisivo, che può essere poi suddiviso in sottocategorie, in relazione al formato e quindi al tipo di serialità che articola e in base al genere narrativo. La classificazione dei testi all’interno di categorizzazioni che riescano di facile uso e applicazione agli spettatori è una delle spinte che muove alla costituzione di definizioni di genere, poiché il genere viene a determinare uno degli aspetti fondamentali del modo in cui i testi (letterari, audiovisivi) sono selezionati, distribuiti e interpretati. Immaginiamo di star guardando un film: improvvisamente uno dei personaggi inizia a ballare e cantare. Lo spettatore sarà a questo punto piuttosto certo di trovarsi davanti a un musical. Altri elementi contribuiscono al riconoscimento del genere da parte dello spettatore, elementi che sono spesso determinati dal tipo di promozione che viene fatta intorno a uno specifico prodotto: le recensioni, il materiale informativo, la presenza di un certo attore. Rick Altman [2004] ha indagato i generi cinematografici tenendo in considerazione gli elementi pertinenti alle strategie pragmatiche e produttive così come a quelle testuali nella sua definizione del genere. Un elemento importante, nell’analisi di Altman, risulta essere allora l’idea che i generi non siano categorie inerti, ma funzioni attivate da tutti coloro che le usano nelle situazioni concrete. Per quanto riguarda i generi specificamente televisivi, Glenn Creeber [Creeber 2001] ne fornisce un’interessante sistematizzazione. Gli studi sul genere televisivo sono stati sempre condizionati, secondo Creeber, dal concetto stesso di genere e dal modo in cui tale concetto è stato applicato agli studi sulla televisione, dal momento che la televisione ha adottato da sempre format e forme provenienti da altri media. Come si definisce allora un genere in televisione? Ciò che conta è prima di tutto un repertorio di elementi: ambientazione, iconografia, narrazione, stile.Tutti fattori che, però, possono essere portati all’attenzione anche di quelle altre forme a cui la televisione, più o meno indirettamente, si ispira. Sarà allora utile distinguere tra l’etichetta di genere per come la intendono e la applicano gli spettatori, gli studiosi e i produttori televisivi. Nei diversi casi, infatti, il concetto di genere assumerà specifiche caratteristiche e sfumature, dando vita a utilizzi diversi della nozione in esame. Per gli spettatori, il genere funziona infatti come un informante: li guida relativamente al testo che si apprestano a consumare.Attraverso la pubblicità che viene fatta dal canale televisivo, nelle recensioni delle guide tv, nelle esperienze intertestuali e intermediali, il concetto di genere aiuta ad inquadrare le aspettative dell’audience. Per il telespettatore (un’accurata disamina del termine telespettatore e delle sue accezioni si trova in Di Chio, Parenti 2003), il genere gioca un ruolo di grande rilievo nel determinare il modo in cui i testi televisivi sono classificati, scelti e interpretati.
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L’utilizzo di una categorizzazione di genere è inoltre un modo per restringere l’ampiezza dell’oggetto in analisi (la televisione) attraverso la sua riduzione a unità discrete e più facilmente comprensibili. Infatti, gli studi sulla televisione si sono spesso distinti per l’analisi di una forma specifica – la soap opera piuttosto che la fiction – poiché fin dal principio ci si è resi conto della necessità, per studiare la televisione in quanto forma culturale, di comprendere caratteristiche, convenzioni e specificità dei generi. Per i produttori, invece, il genere è necessario per definire un progetto produttivo in relazione agli altri testi, tenendo presente che oltre alla televisione generalista, nel cui palinsesto-tipo possiamo trovare una varietà di generi, con l’arrivo delle televisioni tematiche si verifica una condizione per cui interi canali sono rinominati alla luce del genere a cui appartengono le loro programmazioni (ad esempio History Channel, National Geographic Channel, Cartoon Network, Disney Channel etc.). Lo sviluppo della pay-tv, infatti, si è strutturato anche intorno a mercati di nicchia che rispecchiano le preferenze di genere del pubblico: video musicali, sport, documentari naturalistici, lifestyle programs (tipologia di programmi volti a dare al pubblico consigli sullo stile di vita, spesso declinati nella tipologia dei lifestyle show, come Estreme Makeover, in cui una televisione “generosa” offre a persone svantaggiate la possibilità di accedere a make over, cioè rifacimenti, della loro persona, del loro look, della loro abitazione). Caratteristica intrinseca dei generi e dei format televisivi è poi il loro sostanziale ibridismo: il dialogo tra generi diventa particolarmente importante ed è praticato profusamente dalla televisione [Newcomb 1984, 41]. I prodotti televisivi sembrano essere molto più riluttanti di quelli cinematografici a subire una classificazione in generi. Questa riluttanza si scontra con la realtà dei fatti e quindi con tutte quelle etichette di comodo che vengono applicate ai prodotti televisivi da parte, ad esempio, delle guide ai programmi televisivi, che presumono una sorta di facilità di classificazione dei prodotti, come se questi fossero facilmente identificabili ed etichettabili all’interno di categorie prestabilite. John Hartley [1983] ha parlato di una “dirtiness”, cioè di una “sporcizia” della televisione, che colpirebbe sia la classificazione in testi/generi/format, sia il flusso televisivo medesimo. L’idea di televisione di flusso è da attribuire agli studi di Raymond Williams, che parlava di flusso (o sequenza) definendolo «l’elemento caratteristico del broadcasting, sia come tecnologia sia come forma culturale» [Williams 2000, 106] e pensava alla televisione come a un oggetto che presenta se stesso già in termini di “programma”, di sequenza di unità temporalmente strutturate e marcate da chiari intervalli, al cui interno vengono poi incorporati spot pubblicitari e trailer di prodotti, dando vita a un flusso di unità differenti, ma tra loro collegate. Per Williams, l’offerta televisiva si può identificare in un “flusso pianificato”: il messaggio televisivo è continuo, ma allo stesso tempo è spezzato in unità discrete, i programmi, a loro volta suddivisi in blocchi e strutturati per catturare l’interesse del pubblico [Grasso e Scaglioni 2003].
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Genere è un concetto meno maneggevole e meno nitido di format. Se è semplice identificare un episodio di una serie come tale è più difficile individuare a quale genere la serie, nonché l’episodio stesso, appartenga. Prendendo ad esempio una serie come Scrubs - Medici ai primi ferri (Scrubs 2001. Mentre scriviamo pare che la serie si concluderà con la settima e ultima stagione tra il 2007 e il 2008), può apparire piuttosto complesso etichettarne un episodio in qualità di commedia, sit-com, sit-com per adulti o ancora come una sorta di sottogenere che ambienta le sue storie nel luogo di lavoro e tra i colleghi come sostituti della comunità familiare [Zynda 1983, 256]. Studiare il genere in ambito televisivo vuole quindi dire porsi nella condizione di considerare una serie di fattori e dinamiche che determinano una costante sovrapposizione e un combinarsi di caratteristiche all’interno dei singoli testi, cosicché approcciarsi alla idea di genere significhi, da un lato, lavorare su categorie già etichettate e, dall’altro, tracciare i contorni di categorie nuove, che si definiscono su una linea intertestuale e intermediale. Qualunque siano, comunque, le convenzioni di cui il genere si nutre e intorno alle quali si struttura, certamente esse non sono statiche e immutabili, ma la loro evoluzione e la loro trasformazione è costante. La mutevolezza, l’instabilità, la vocazione alla contaminazione sono imprescindibili nella lettura del testo televisivo in termini di genere, poiché questo ci conduce spesso al di fuori dei confini del mezzo [Waller 1997]. Ancora, la malleabilità dei generi è allora una delle caratteristiche principali del prodotto televisivo. Nel lavoro curato da Glenn Creeber [2001], gli autori dedicano accurate riflessioni ai generi televisivi operando una categorizzazione a partire da alcuni macro-generi, poi articolati in occorrenze specifiche. Tra i macro-generi individuati, troviamo allora drama, soap opera, e comedy, a loro volta passibili di sotto-articolazioni che, in una certa misura, non fanno che riprendere quelli che sono, a livello cinematografico, generi consolidati. Le serie televisive, in particolare, possono essere poliziesche, o di fantascienza, o western, riprendendo alcuni degli stilemi e degli archetipi che hanno contribuito a determinare certe etichette di genere utilizzate per il cinema. Frequentemente esse sono anche riferite al target designato dal prodotto, come ad esempio le serie per teenager, dette Teen Series o Teen Drama, quali Buffy, ma anche Smallville (dal 2001) e Dawson’s Creek (1998-2003). In particolare, come nota Franco La Polla [2007, 89], Buffy è «il risultato di una operazione da laboratorio, di una chimica sperimentale che mette audacemente insieme elementi apparentemente incompatibili: il tema generazionale tipico del campus movie, quello orrifico e fantastico legato al vampirismo, sì, ma anche alla demonologia, e l’azione di combattimento individuale nei termini tipici del film orientale d’arti marziali nella sua versione occidentalizzata». L’audience composta dai giovani e giovanissimi ha rappresentato, fin dagli anni Cinquanta, un target di grande importanza per l’industria televisiva, dando forma ad un settore, sempre in crescita, della programmazione tele-
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visiva. In questo ambito, sono innumerevoli i prodotti che di volta in volta venivano declinati secondo le regole della sit-com, della soap o della serie da prime time. Le sit-com risultano spesso centrate sui rapporti tra gli adolescenti e la famiglia e tra gli adolescenti e l’istituzione scolastica, mentre le soap opera hanno dedicato sempre più attenzione ai problemi dell’adolescenza, infarcendo le loro trame di gravidanze indesiderate, uso di droghe e altre problematiche tipiche dell’adolescenza televisiva. Gli anni Novanta vedono un ritorno prepotente del Teen Drama, con produzioni televisive chiave per il decennio, quali Beverly Hills, 90210 (1990-2000), Cinque in famiglia (Party of Five 1994-2000), Buffy, Dawson’s Creek e Roswell (1999-2002). Una larga fetta di queste produzioni, benché spesso costrette nello sviluppo delle loro storie da una durata massima di 45 o 60 minuti, rientra nella categoria della serialità di lunga durata, soprattutto se inquadrata nell’enfasi posta sulla ripetizione degli elementi narrativi e sul rinvio costante della risoluzione di un problema, tecnica che avvicina il prodotto serie sempre maggiormente al serial. La drammaticità e l’emotività tipiche delle trame dei Teen Drama vengono accentuate dall’uso di primi piani e dal ricorso a colonne sonore che incorporano di frequente successi pop ben noti ai teenager [Moseley 2001]. Questa natura melodrammatica del genere sembra evidenziarsi su due fronti: da un lato, concependo una struttura narrativa che lavora sempre più sulla sospensione della narrazione e sull’allungamento della durata del racconto; dall’altro, incorporando all’interno della narrazione una serie di argomenti che, benché da teenager (amicizia, amore, sesso, riti di passaggio), avvicinano la serie giovanilistica alla qualità tipica del prodotto seriale americano da prime time. 1.3 La serializzazione della serie Possiamo ora ripartire dalle considerazioni che John Ellis [1988] fa a proposito delle differenze tra serie e serial. Queste differenze sono infatti fondamentali, in particolare in relazione all’idea che la serie proceda per episodi autoconclusivi in opposizione al serial che procede invece per una narrazione continua e continuamente interrotta. Proprio da questa classificazione è necessario far ripartire una serie di osservazioni sul genere e sul fenomeno che porta a una sempre maggiore ibridazione: in moltissimi prodotti televisivi che potremmo targare come serie, infatti, sono contenuti oggi elementi seriali a profusione, facendoci pertanto parlare di serie serializzata. Una caratteristica importante di molta serialità televisiva americana contemporanea è da riscontrarsi nella disposizione del prodotto a “serializzarsi”, a tendere cioè sempre più verso la struttura della soap opera. Per capire questa evoluzione si rende necessaria una precisazione. La serie, come il serial, possiede un’articolazione segmentata della narrativa, ma si distingue dal serial per un diverso principio di organizzazione testuale: dove il serial sospende sistematicamente il racconto, la serie lo chiude,
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così che ogni nuovo episodio non sia la continuazione o la ripresa di quello precedente, ma l’inizio di una nuova storia. Il mutamento, l’ibridazione, sono allora parte di un processo continuo, che si nutre anche – a differenza di quanto accade per il cinema – della risposta immediata dei fruitori del testo televisivo, che tramite indici di ascolto e commenti indirizzati al network che trasmette un determinato prodotto, risultano coinvolti in maniera intensa, contribuendo largamente alla definizione e alla ri-definizione dei prodotti televisivi, facendo sì che i generi e i format televisivi evolvano e mutino a partire dalle premesse intorno alle quali si sono costruiti [Gertner 2005]. È in questo panorama, quindi, che assistiamo al fenomeno della “serializzazione” delle serie. Benché la forma classica della serie a episodi autosufficienti non sia scomparsa – si pensi ad esempio a prodotti come Cold Case (dal 2003) e Law&Order – I due volti della giustizia (Law&Order dal 1990) – le formule narrative passano attraverso un processo di mutazione e di ibridazione, e molte serie “si serializzano”, avvicinando la loro struttura sempre più a quella del serial, di un racconto, cioè, articolato in un numero variabile di puntate, interdipendenti tra loro e quindi in genere costituite da segmenti narrativi incompiuti e non autosufficienti, frammenti di una trama costantemente interrotta. In questa tipologia, i singoli segmenti mantengono un alto grado di autonomia, c’è dunque sempre una storia centrale che si conclude nell’episodio (detta anthology plot), ma c’è anche una cornice che si prolunga per più episodi (il cosiddetto running plot).Viene così aggiunto un elemento di progressione temporale e di parziale apertura narrativa, assente dalla formula tradizionale. Ad un primo sguardo, molti prodotti recenti provenienti dagli Stati Uniti sembrano funzionare come serie, essendo in possesso di molte delle marche tipiche di questa formula, quali ad esempio tematiche ricorrenti messe in scena da un cast ricorsivo in episodi dalla narrazione autoconclusiva. Ma Buffy, Six Feet Under (2001-2005) o Nip/Tuck (2003- ), oltre a possedere le caratteristiche appena elencate, resistono al rischio di atrofizzazione della narrazione creando un mondo diegetico dove le variazioni a tutti i livelli – dei personaggi, degli scenari, delle tecniche narrative – sono incoraggiate e celebrate dai fan. Lo stile ibrido di Buffy, ad esempio, fa sì che anche comportandosi come una serie, Buffy incorpori strumenti drammaturgici comunemente associati alla soap opera [Da Ros 2004].A partire dagli anni Novanta, allora, si è verificata una sempre maggiore tendenza verso una fusione tra la soap e le forme tipiche delle fiction prime time a bassa serialità. In questi prodotti, «le tematiche del privato e dei sentimenti hanno guadagnato parecchio terreno: per rendere sempre più credibili i personaggi è necessario costruire il loro passato e prevedere uno sviluppo futuro, ed è importante avvicinarli quanto più possibile alla sensibilità e all’esperienza del pubblico» [Cardini 2004, 68-69]. Nonostante sia suddivisa in episodi circoscritti e auto-conclusivi, in Buffy,
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come in altre serie contemporanee, esiste un chiaro arco narrativo in ogni stagione, verso il quale ogni episodio tende, e che costituisce più volte il punto di svolta di ognuna delle stagioni. Come sappiamo, la narrazione dilatata e continuata è cruciale per le soap, e gli eccessi che caratterizzano il personaggio di Buffy avvicinano sicuramente il prodotto alla soap. Buffy muore e risorge, scambia il suo corpo con quello di una Slayer malvagia, si innamora dei vampiri che è chiamata a combattere. Queste linee narrative si dilatano lungo l’arco delle sette stagioni, facendo sì che il telespettatore sia messo nella posizione di familiarizzare con queste storie e permettendo pertanto anche ai nuovi spettatori di non perdersi nel percorso evolutivo della serie grazie alla ripetitività e alla lentezza con cui certi obiettivi vengono raggiunti. Non infrequenti, durante le numerose stagioni in cui mediamente si articola una serie televisiva, sono, ad esempio, gli episodi doppi, che assieme a quelli caratterizzati da una struttura anomala che favorisce lo sviluppo di un racconto “altro” rispetto a quello principale, permettono una sospensione della narrazione primaria per lasciare spazio ad alternative narrative. Gli episodi doppi sembrano allora assolvere proprio alla funzione di “serializzare” la serie. L’episodio doppio fa infatti sì che la linea narrativa sviluppata all’interno di un singolo episodio non sia autoconclusiva. Il materiale narrativo che dovrebbe appartenere all’ambito dell’anthology plot, e pertanto esaurirsi nel corso del singolo episodio, viene trasformato in un running plot, in un materiale che viene quindi riproposto e dilatato per almeno due episodi, portando la serie a svolgersi in una dimensione che non le è costituzionalmente propria, cioè quella del serial. L’interdipendenza delle puntate, le concatenazioni causali tra gli eventi messi in scena, nonché il progresso cronologico della vicenda, sono spesso scavalcate attraverso la ripetitività della narrazione e, conseguentemente, attraverso le scelte stilistiche effettuate, dalla struttura delle inquadrature allo stile del montaggio, che mettono anche lo spettatore occasionale nella condizione di comprendere comunque le linee principali della storia. In molti casi, pertanto, le serie partono con una struttura narrativa ad episodi autoconclusivi, per poi intraprendere la strada della serializzazione dopo qualche stagione.Tale passaggio si rende necessario nel momento in cui il prodotto deve garantire al suo fruitore il giusto equilibrio tra il “ritorno del già noto” e la novità, tra l’approfondimento del carattere dei personaggi e la creazione di storylines sempre più appassionanti e coinvolgenti. D’altronde, è vero che questo tipo di prodotto televisivo punta, più di molti altri, alla creazione di un patto di fedeltà con il suo fruitore, alla costruzione di uno spettatore fedele e appassionato che non si perde un episodio/puntata. Ma è vero altresì che la forma seriale, e in particolare quella del serial – proprio per le sue caratteristiche di serialità “lunga” – è in grado di garantire un inserimento dello spettatore all’interno della vicenda anche in medias res.
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Certo, negli ultimi anni la complessità narrativa di alcune serie televisive rende forse la procedura più difficile: se prendiamo ad esempio Alias (2001-2006) ci rendiamo conto che l’ipertrofia di azioni e avvenimenti, i continui e repentini colpi di scena possono rendere difficile l’avvicinamento a questo prodotto. Ma il testo è comunque sempre dotato di marche che guidano lo spettatore verso la sua comprensione, in continuità con quanto notava Casetti [1984c, 28] e cioè la presenza di numerosi «nodi testuali chiamati ad attivare la capacità di inquadrare ed incaricati di condurre all’individuazione del genere». In questo senso, anche una serie il cui universo narrativo si caratterizza per una sorta di impenetrabilità quale appare essere Alias, mostra di possedere alcune chiavi che permettono allo spettatore neofita di entrare a far parte del meccanismo e di comprenderlo. Ci riferiamo, ad esempio, al lato spettacolare, particolarmente estremizzato in una serie come Alias (non a caso, il suo creatore J.J.Abrams è stato chiamato a dirigere il terzo capitolo della serie cinematografica Mission: Impossible, dove il lato spettacolare ed effettistico costituisce una delle colonne portanti del film), dove la logica narrativa prescinde dalle concatenazioni causali e avviene, invece, per contatto. In Alias c’è, dunque, un continuo susseguirsi di missioni, di compiti da svolgere,di accadimenti,di prove da superare.Vengono continuamente proposte allo spettatore delle nuove situazioni, che un po’ si somigliano tra loro, che sono in gran parte analoghe, che mantengono tra loro dei contatti, delle analogie, dei fili sottili. Paradossalmente, è talmente intricata la narrazione, talmente paradossale che, di fatto, non c’è più narrazione nel senso tradizionale. Dunque lo spettatore riesce comunque a trovare la via per dipanare la matassa di eventi e situazioni conseguenti, poiché certe logiche narrative paradossali – e da questo punto di vista Alias è l’esempio perfetto – ci offrono comunque degli appigli, dei ganci su cui articolare la nostra comprensione che, nel caso di Alias si identificano anche con la centralità e la forza del personaggio della protagonista, Sydney Bristow. Per usare nuovamente Buffy in qualità di caso emblematico di questo meccanismo, vediamo come in questo prodotto le due anime della serialità televisiva si fondano. Il personaggio protagonista [Maio 2005] viene ciclicamente inserito dal suo creatore in situazioni che si ripetono: la lotta contro nemici soprannaturali, la presa di coscienza della propria forza e della missione che la ragazza è chiamata a compiere, ma anche i problemi sentimentali e le relazioni affettive. Così, nonostante il tempo del racconto scorra in modo evidente – i personaggi crescono, si diplomano, vanno al college – si mantiene una forma di ripetitività e di ciclicità che è connaturata alla forma stessa della fiction televisiva e che è imprescindibile per il funzionamento dell’intero marchingegno narrativo. I prodotti seriali così costituiti riescono dunque a soddisfare tutti i possibili tipi di fruizione, da quella occasionale e discontinua a quella cultuale di chi non si perde neppure un episodio. Le serie televisive si serializzano costruendo dunque prodotti a incastro,
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in cui i singoli segmenti conservano un certo grado di autonomia, ma lasciando spazio anche a una cornice che si prolunga per più episodi. Questo fenomeno è ben evidente in Angel (1999-2004, serie spin-off di Buffy, con la quale intreccia numerosi episodi crossover, questi modelli sono analizzati nel paragrafo seguente), facendo addirittura sì che la terza e la quarta stagione della serie risultino assolutamente inscindibili e concatenate. Terza e quarta stagione, infatti, costituiscono un unico, lunghissimo arco narrativo e «l’azione si spezza alla fine della terza stagione in un finale aperto (to be continued...) per riprendere poi nella prima puntata della quarta» [Gomarasca 2004, 50]. Questa operazione crea un effetto sorprendente, facendo diventare gli episodi di due intere stagioni le tessere di un unico grande mosaico, un unico grande (e ambizioso) film, che rende la serie sempre più impenetrabile al neofita. Se da un lato, quindi, si calca la mano sull’effetto soap opera, dall’altro si prendono le distanze dal format, scardinandolo e stravolgendolo: «nella soap-opera, infatti, pur cambiando sempre tutto, la narrazione si dilata a tal punto che le cose sembrano restare sempre le stesse [...], mentre in Angel gli eventi precipitano a una velocità tale che si rischia di perdere il filo dell’azione» [Gomarasca 2004, 50]. 1.4 Crossover e spin-off Nella sua accezione più comune, lo spin-off è un prodotto che nasce intorno al successo di un personaggio secondario di uno show televisivo, al quale viene affidato il ruolo di protagonista in un nuovo programma. Questa pratica risulta essere particolarmente frequente nella produzione televisiva seriale statunitense già a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, periodo in cui diventa piuttosto comune la procedura di “ritagliare” una serie “su misura” addosso a un personaggio secondario di uno show affermato. I casi significativi sono numerosi. Ci sono serie che hanno generato un numero record di spin-off, alcuni dei quali di successo paragonabile a quello della loro “matrice”, come il Mary Tyler Moore Show (1970-1977), da cui sono nati Rhoda (1974-1978), Phyllis (1975-1977) e Lou Grant (1977-1982).Anche Happy Days (1974-1984) ha dato vita ad almeno due serie di discreto successo: Laverne & Shirley (1976-1983) e Mork & Mindy (1978-1982), partorendo inoltre il meno apprezzato Jenny e Chachi (Joanie Loves Cachi 1982-1983). È spesso percepibile il differente dispiego di mezzi economici e produttivi tra il prodotto “primo” e il prodotto “derivato”, assieme alla scarsa convinzione degli sceneggiatori che spesso limitano i loro sforzi ad una mera riproposta delle medesime situazioni e vicissitudini.A differenza di quanto è accaduto con prodotti come Lou Grant o Mork & Mindy, accade non di rado che il prodotto nato da una costola del prodotto “maggiore” non raggiunga il successo, né il cuore del pubblico, rimanendo confinato in una programmazione secondaria o esaurendosi dopo una brevissima stagione, come nel caso di Tabitha (1977-1978), spin-off inedito in Italia di Vita da strega (Bewitched 1964-1972, a cui si ispira anche l’omonimo film
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diretto da Nora Ephron nel 2005) e incentrato sul personaggio della figlia della protagonista, la strega Samantha, di cui lo show porta il nome. Ma lo spin-off non è solo una fiction generata da un’altra fiction. La molteplicità delle forme intertestuali fa sì che la casistica assuma contorni fluidi, tanto che lo spin-off può anche risultare come il prodotto di una forma di intertestualità che passa attraverso l’uso della star, protagonista di uno show, che re-interpreta un personaggio già proposto, eventualmente adattandolo alla nuova situazione narrativa [Innocenti 2003]. Questo accade, ad esempio, nel rapporto tra I Love Lucy (1951-1957) e i successivi The Lucy Show (1962-1968) e Here’s Lucy (1968-1974), in cui l’attrice Lucille Ball, dopo aver interpretato il ruolo di una giovane sposina di professione casalinga, interpreta il ruolo di una vedova che lavora come segretaria, suggerendo una sorta di evoluzione (anche legata all’età della protagonista) che passa però attraverso la riproposizione di situazioni e di personaggi già visti (e già amati dal pubblico) in I Love Lucy. Non va dimenticato, infatti, che una modalità tipica della struttura della serialità televisiva è la presenza delle guest star. Questo tipo di pratica, assolutamente comune nel contesto del prodotto seriale televisivo, conosce svariate forme, oltre alla dimensione meramente ludica, derivata dal piacere di riconoscere una star o, nello specifico, il personaggio da lei interpretato in un altro contesto [Smith 2005]. Un esempio interessante viene da Friends, dove Lisa Kudrow, che interpreta la buffa cantautrice Phoebe Buffay, appare talvolta nei panni di Ursula, sua sorella gemella e personaggio già presente in Innamorati pazzi (Mad About You 1992-1999). Il termine crossover viene invece comunemente utilizzato per indicare una situazione ormai piuttosto comune nel campo della serialità televisiva. Il crossover non amplia lo spazio fino a quel momento attribuito a uno dei personaggi di una determinata serie come lo spin-off, ma amplia piuttosto lo spazio dell’intera serie, inserendola all’interno di un mondo allargato che include anche personaggi appartenenti a un diverso universo narrativo. Attraverso le dinamiche che il crossover instaura, si favorisce una sorta di uscita dei personaggi dallo spazio claustrofobico e ristretto che caratterizza lo svolgersi delle loro vicende, in particolare per quanto riguarda episodi crossover inseriti all’interno del chiuso spazio riservato ai protagonisti delle sit-com. Sebbene non si aggiungano grandi novità alla struttura del mondo finzionale, che rimane comunque racchiuso in quell’andirivieni tra la cucina e la sala da pranzo (per esempio ne I Robinson, The Cosby Show, 1984-1992) e tra la casa e un luogo di ritrovo designato (gli appartamenti dei ragazzi e il caffé Central Perk in Friends), sembra ragionevole pensare che ci sia qualcosa oltre la porta. La sovrapposizione offre quindi numerose occasioni di scambio tra i protagonisti delle diverse serie, spesso associando prodotti appartenenti a generi tra loro similari. Questo tipo di relazione che si instaura tra prodotti diversi funziona piuttosto bene come forma di presentazione, una sorta di biglietto da visita, una garanzia, che sembra voler suggerire al pubblico determinati orienta-
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menti di consumo. Il crossover, quindi, attiva un effetto traino tra il prodotto già affermato e il prodotto esordiente, come è avvenuto tra Beverly Hills, 90210 e Melrose Place (1992-1999), due prodotti con caratteristiche simili e rivolti ad un pubblico più o meno intercambiabile. L’incontroscontro tra i protagonisti delle diverse serie li pone quindi nella posizione di funzionare come testimonial l’uno per l’altro, invitando i numerosi fan a non rimanere eventualmente divisi in fazioni, ma ad allearsi nel godimento di più prodotti che soddisfano le loro esigenze e che ripropongono temi e scenari similari. Nella tendenza più recente, poi, lo spin-off televisivo ha di fatto cambiato forma: non si tratta più semplicemente di un prodotto incentrato su un personaggio secondario di una serie di successo, quanto piuttosto di un prodotto costruito intorno alla situazione narrativa dominante della serie di successo (l’ospedale, la centrale di polizia, il tribunale, come luoghi privilegiati intorno al quale costruire variazioni sul tema). Prendiamo ad esempio il caso di C.S.I. Miami (2002- ) e C.S.I. NY (dal 2004): entrambe le serie vedono la loro genesi grazie a episodi crossover, nei quali i protagonisti dell’uno o dell’altro show si incontrano.Ad esempio, tra C.S.I. Scena del crimine (C.S.I. – Crime Scene Investigation 2000- ) e C.S.I. Miami si costruisce un legame che prevede che i protagonisti della prima serie si rechino a Miami per contribuire alla risoluzione di un caso. Attraverso questo passaggio di testimone si genera una forma di spin-off, che si caratterizza proprio per la ripresa delle situazioni narrative tipiche del modello di riferimento, piuttosto che per la presenza di un personaggio proveniente dal prodotto di successo. Lo scambio, la sovrapposizione, favoriscono allora il moltiplicarsi (e, contestualmente, il riproporsi) delle situazioni narrative. Ma questo non è sufficiente. Per garantire la riuscita della ricetta è infatti necessario rafforzare una certa dimensione cultuale in cui galleggiano i personaggi protagonisti delle serie più amate dal pubblico, consolidando inoltre quella sensazione di condivisione di un medesimo “passato narrativo”. Queste tipologie di scambio-contatto-sovrapposizione, che allargano il campo delle narrazioni seriali, sono ormai entrate a far parte dell’esperienza del telespettatore, anche se materialmente non sempre è possibile percepire appieno i rimandi e le sfumature su cui il meccanismo si innesta. Non si tratta qui, infine, di formalizzare rigide tipologie quanto piuttosto, tralasciando per un attimo la logica commerciale e le evidenti motivazioni economiche che possono spingere i produttori a intraprendere questo tipo di strada, di capire come le serie si incastrano, ma anche da dove nascano l’esigenza e il piacere di farle interferire. Le regole che governano il meccanismo di intarsio per cui una serie (e naturalmente i suoi protagonisti e le situazioni-tipo che la caratterizzano) valica i suoi confini, entrando a far parte di un altro universo narrativo-finzionale, sembrano scaturire da alcune caratteristiche tipiche delle forme di narrazione seriali: la ripetizione di elementi o schemi; l’organizzazione
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dei testi in una successione; una certa indefinitezza che caratterizza l’insieme, rendendo peraltro plausibile lo smisurato allargamento delle situazioni narrate assieme alla possibilità di inglobare materiali narrativi (ovviamente redditizi) sfruttati in altri contesti. Una caratteristica fondamentale della fiction televisiva, e cioè il suo srotolarsi in tempi lunghi secondo un andamento che prevede continue sovrapposizioni comunque alla luce dell’esistenza di punti fissi, fa emergere quella logica tipica dell’appuntamento televisivo inteso come una sorta di ricorrenza da celebrare. Per il telespettatore seguire gli sviluppi narrativi della propria serie preferita significa partecipare a una sorta di celebrazione, che puntualmente ritorna nel palinsesto e che, recentemente, ha mutato i suoi confini, come vedremo in seguito, esondando dai limiti del piccolo schermo per trasformarsi in un’esperienza immersiva e che coinvolge diversi media. 1.5 Dialogismo intertestuale Nel rapporto che intercorre tra prodotti seriali televisivi e altri ambiti della comunicazione, in particolare il cinema, è evidente che il ruolo della citazione stilistica sia predominante. Molti film hollywoodiani contemporanei prendono a prestito l’universo narrativo di una serie televisiva di qualche anno prima, riproponendolo, attualizzandolo e, in certi casi, sottoponendolo anche a una operazione di parodizzazione. Il caso della parodia [Menarini 2004] può riguardare ad esempio Starsky & Hutch (Todd Phillips 2004), che riprende la nota serie (prodotta tra il 1975 e il 1979), fungendo da prequel – il film racconta la storia del primo caso risolto assieme dai due poliziotti – ma soprattutto esasperando alcuni elementi, come ad esempio lo stile dell’abbigliamento e delle acconciature «tra permanenti e abiti vintage [prende corpo] la nostalgica operazione di modernariato [...] prendendosi bonariamente gioco della “disco era” in cui anche i poliziotti sfoggiavano improbabili pettinature ed eccentriche mise» [De Luca 2004, 79]. Esaltando gli spunti comici e mescolando «i tic della blaxpoitation a quelli del buddy movie» [De Luca 2004, 79] si ottiene una miscela comica che della serie originale ha ben poco.Toni più vicini a quelli dell’omaggio sono invece riscontrabili nella trasposizione cinematografica di Mission: Impossible (Brian De Palma, 1996 ispirato dall’omonima serie prodotta tra il 1966 e il 1973), che secondo De Luca [2004, 47] si dimostra capace di «interpretare in senso moderno gli aspetti più tecnologici e cool del telefilm». È evidente, allora, che queste modalità mettono in gioco, per dirla con Eco [1984, 31], un’enciclopedia intertestuale: «abbiamo cioè testi che citano altri testi e la conoscenza dei testi precedenti è presupposto necessario per l’apprezzamento del testo in esame». Nel caso di film ispirati a serie televisive, senza dubbio questo tipo di prodotto fa leva sul piacere di “ritrovare” il già noto, che lega lo spettatore al prodotto televisivo, dandogli pertanto la possibilità di continuare a “ritrovare” anche al cinema, o meglio, nella forma narrativa del film, personaggi
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e situazioni che ha imparato a conoscere attraverso le serie televisive. In certi casi, il carattere di prequel enfatizza il meccanismo, regalando allo spettatore un episodio che presuppone tutta la conoscenza di quanto avverrà successivamente ai protagonisti. Accade con il già citato Starsky & Hutch o con un prodotto anomalo, la serie “d’autore” I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks 1990) nata dalla immaginazione di David Lynch, che si apre con il ritrovamento del cadavere della giovane Laura Palmer. Nel 1992, Lynch realizza Fuoco cammina con me (Twin Peaks – Fire Walk with Me), prequel cinematografico alla serie, in cui si raccontano appunto le ultime settimane di vita di Laura Palmer. A parte casi come quello di X-Files – Il film (The X-Files, Rob Bowman, 1998 basato sulla omonima serie prodotta dal 1993 al 2002) che viene realizzato in contemporanea con la serie, prodotti di questo genere sono spesso frutto di un intervallo di tempo trascorso tra la messa in onda della serie e l’uscita del film. Abitualmente, l’intervallo di tempo tra la serie e l’uscita del film ad essa ispirato, costruisce un sistema di attese che si radica nell’apprezzamento che lo spettatore ha dimostrato nei confronti della serie e gioca sul chiamare in causa la memoria spettatoriale, assieme all’affezione nei confronti di un determinato universo narrativo che in questo modo viene reso nuovamente disponibile, ma anche attualizzato, rinfrescato e aperto alle possibilità del “what... if...”. A partire dalla serie Star Trek sono nati ben dieci film per il grande schermo, realizzati tra il 1979 e il 2002, a distanza notevole, dunque, dalla conclusione della serie classica e in grado di rilanciarne il culto, rinverdendo il successo del prodotto e sostanzialmente fungendo da traino per la produzione delle serie-sequel elencate sopra. I primi sei film della saga cinematografica presentano una omogeneità tra il cast della serie classica e quello dei film, mentre nei film successivi ci si riallaccia alla contemporaneità sostituendo l’equipaggio del Capitano Kirk, indiscusso beniamino della serie classica, con quello della “Next Generation” comandato dal capitano Picard. Le strategie soggiacenti a questi cambiamenti sono ben analizzate nel saggio di Ina Rae Hark La trasposizione dei personaggi televisivi in altri media, contenuto nella sezione di questo libro dedicata ai testi. Si tratta infatti di una situazione peculiare, in cui è necessario unire pubblici diversi nella fruizione e nel gradimento di uno stesso prodotto, che con il film Generazioni (Star Trek: Generations 1994) rappresenta l’anello di congiunzione tra i due differenti cast e li vede entrambi presenti. Si tratta di un caso peculiare, quindi, perché nel passaggio intermediale tra la serie televisiva e il film evidentemente non sempre viene mantenuta una continuità nell’attribuzione dei ruoli. Anzi, il fatto che ci sia una continuità, che l’attore che interpreta un certo personaggio nella serie sia chiamato a interpretare il medesimo ruolo al cinema, sembra essere una rarità piuttosto che una prassi. X-Files – Il film è invece un’operazione di exploitation, di sfruttamento immediato e tempestivo del successo di un prodotto televisivo tentando
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di replicarlo/prolungarlo attraverso un altro mezzo di comunicazione. Il funzionamento del film, in questo caso, è molto più simile a quello che potrebbe essere il meccanismo sotteso a un episodio speciale, a una puntata “natalizia”, a una sorta di chicca per lo spettatore che può prolungare il godimento derivato dalla fruizione di un determinato prodotto per un tempo più lungo rispetto alla canonica durata di un episodio/puntata. Mauro Gervasini [2001, 29] considera il film come un esempio di fedeltà al format originario: «Se X-Files The Movie deve essere, che almeno sia in tutto e per tutto come il telefilm. [...] di fatto il film è un episodio “fuori serie” che è possibile apprezzare in pieno soltanto conoscendo alcuni degli antefatti principali (l’ossessione di Mulder per gli alieni, ad esempio) e che difficilmente riesce ad avere vita autonoma». All’opposto, quando è il film a essere oggetto di un trasbordo verso il mezzo televisivo, pare invece che la conoscenza del film di riferimento non sia necessaria. In questo passaggio, infatti, vengono ripresi e riproposti per lo spettatore televisivo personaggi, ma soprattutto ambienti, situazioni e dinamiche presenti nel testo di riferimento, ma è altresì vero che la frammentazione della narrazione in episodi/puntate riempie il prodotto televisivo di elementi utili alla comprensione anche da parte dello spettatore che non ha visto il film. Se prendiamo ad esempio M.A.S.H. (M*A*S*H 1972-1983, dall’omonimo film di Robert Altman del 1970) o Saranno famosi (Fame 1982-1987, serie che si ispira al film omonimo diretto da Alan Parker nel 1980), o ancora, Buffy (dal film Buffy l’ammazzavampiri, Buffy the Vampire Slayer, F. Rubel Kuzui, 1992), ci rendiamo subito conto di come non sia assolutamente necessaria, per lo spettatore televisivo, la conoscenza dell’ipotesto-film. Ognuno di questi casi, è ovvio, presenta le sue peculiarità ed è evidente che una fetta dei destinatari a cui il prodotto si rivolge sia composta da spettatori che hanno visto il film e che attraverso la serie possono in un certo modo rinnovare, di settimana in settimana, il piacere che hanno provato nei confronti del film. Nel caso di M.A.S.H., ad esempio, la serie nacque, molto pragmaticamente, per riutilizzare i set che erano serviti per il film, rispetto al quale conserva la coralità dei protagonisti, re-impiegando anche alcuni degli attori presenti nel film all’interno della serie. Rimane, eredità del film, anche il tono indisciplinato e goliardico dei protagonisti, che pur essendo ottimi medici, tentano di sdrammatizzare le terribili angosce del conflitto tra USA e Corea. Quindi, non sorprende troppo che appena due anni dopo essere stato il terzo maggiore incasso del 1970 M.A.S.H. sia stato trasformato in una serie televisiva [Weis 1998]. Quello che forse sorprende maggiormente in relazione al successo di questa serie è il fatto che si tratti di una delle più longeve della televisione americana, nonché una delle più popolari. Una popolarità, questa, costruita distaccandosi quindi da una fonte, quella del film di riferimento, che sembrava offrire pochi elementi effettivamente compatibili con gli standard televisivi. Durata undici stagioni, la serie è andata incontro a una revisione costante della narrativa e dei per-
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sonaggi. Quanto, allora del film di Altman può considerarsi ripreso dalla serie televisiva? Resta, senz’altro, la premessa di base che muove i personaggi, cioè la necessità di compiere pazzie per preservare la propria sanità mentale nell’assurdo clima della guerra. La serie televisiva si è poi evoluta in maniera autonoma rispetto all’ipotesto di riferimento, esplorandone le possibilità, rivitalizzandosi all’occorrenza e adattandosi alle modifiche nell’audience. In breve, questa serie è stata capace non solo di adattare il film originale alle esigenze e alle tempistiche televisive, ma anche di adeguare la formula del programma al passare degli anni, ad esempio attraverso l’enfasi posta sullo sviluppo dei personaggi. Anche per Fame, le questioni che si pongono sono più o meno le medesime. Originata dall’omonimo film di Alan Parker, successo del 1980, la serie riscosse grande consenso di pubblico soprattutto in Europa. Del cast del film, sopravvivono nella serie ben quattro attori (l’insegnante di danza Debbie Allen, il professore di musica Albert Hague, l’aspirante musicista Lee Curreri e il giovane ballerino Gene Anthony Ray) e anche in questo caso la pellicola di Parker funge da fonte di ispirazione, ma non si pone come un riferimento imprescindibile per gli spettatori televisivi, che possono quindi facilmente approcciarsi alla serie televisiva anche digiuni delle dinamiche del film. Va notata, dunque, la forte tendenza delle serie contemporanee – in particolare proprio quelle rivolte ai giovani – all’uso del cinema in maniera autoriflessiva, in forma di citazione o di allusione. Le serie televisive, sempre più, si propongono allora come forme di meta-fiction, di meta-televisione o meglio ancora possono vantare una struttura autoriflessiva sul proprio statuto di oggetti appartenenti al mondo della comunicazione. Questi prodotti sono sempre più caratterizzati da una struttura che riflette sul genere [Olson 1987], puntando sulla capacità dell’audience di cogliere tali riflessioni e riferimenti, capacità essenziale al funzionamento del meccanismo. Anche Eco [1985b] sottolinea come alcune forme di dialogismo vadano al di là degli interessi e delle necessità collegate alla trattazione specifica del problema del seriale nelle forme audiovisive. Parlare di dialogismo e di intertestualità significa, infine, rifarsi anche ai concetti esposti da Bachtin, Kristeva, Genette [Bachtin 1979; Kristeva 1978; Genette 1997]: attraverso le loro riflessioni è possibile allora cercare di individuare i confini dell’analisi, con riferimento ai rapporti e collegamenti tra i testi [Comand 2001; Guagnelini e Re 2007]. La cornice intertestuale all’interno della quale si posizionano i prodotti televisivi seriali si rivela infatti essenziale per comprendere la complessità e la stratificazione di tali prodotti. Inoltre, è necessario affrontare la questione anche nei termini di rapporti intermediali, intendendo l’intermedialità come l’interazione e l’integrazione dei media, che conduce ad una più capillare diffusione e circolazione dei prodotti culturali. Gli scambi tra il cinema e la televisione, di cui abbiamo qui trattato, vanno proprio a posizionarsi all’interno di un quadro che vede i media non «come semplicemente indipen-
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denti o contrapposti, bensì come strettamente interrelati, operanti su presupposizioni reciproche, linkati. Più che a situazioni di conflittualità, essi danno luogo a occasioni di scambio e si integrano reciprocamente» [Ferraro 2002, 352]. Lo scenario contemporaneo offre situazioni interessanti, in continua evoluzione, e una costante ricerca di una forma efficace di convergenza tra mezzi di comunicazione di massa, che non si realizza soltanto dal punto di vista tecnologico. Non si tratta, infatti, solamente del frutto del processo tecnico, ma si tratta altresì di un fatto culturale, associato evidentemente alle pratiche di consumo contemporanee, che prevedono l’utilizzo di una pluralità di media, che a loro volta mettono a disposizione dell’utente una vastissima gamma di prodotti e dove, all’interno di questa costellazione di supporti e prodotti, si delinea l’orizzonte di una comunità partecipatoria di spettatori/utenti.
2. Una nuova Golden Age Negli Stati Uniti, dove il modello della televisione commerciale è nato e si è affermato, si è soliti indicare con l’espressione Golden Age (età d’oro), quel periodo che va dagli esordi della televisione, subito dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, fino all’inizio degli anni Sessanta. In quel lasso di tempo, dunque, la televisione si afferma come medium di massa e costruisce tipologie di programmi e format che ancora oggi restano in auge. I critici e gli studiosi attribuiscono a quel periodo la produzione di un alto numero di prodotti innovativi, di grande impatto e di alta qualità, che segnano un’era difficilmente replicabile. In particolare, sono quelli gli anni degli anthology drama, sorta di film per la tv proposti live e scritti da ottimi sceneggiatori, e di alcune serie che hanno lasciato il segno, a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza (Ai confini della realtà, I Love Lucy etc.). Questo non significa che negli anni successivi non vi siano prodotti di buon livello, ma solo che la sintesi perfetta tra intrattenimento e qualità realizzata durante la Golden Age appare difficile da ritrovare.Almeno fino agli anni Ottanta. Molti studiosi [Thompson R.J. 1996; Caldwell 1995] sono infatti concordi nell’individuare una seconda età dell’oro della televisione americana che, a partire dagli anni Ottanta, coincide con l’affermazione di alcune serie televisive di grande successo, con l’originalità dei loro modelli narrativi e con le peculiarità della loro promozione e distribuzione su più piattaforme mediatiche. Si apre quindi una nuova stagione, che arriva fino a oggi e che determina il grande interesse che si è venuto a costituire intorno a certi prodotti televisivi seriali, a partire dal 1981 con le innovazioni di Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues 1981-1987) con la sua costruzione drammaturgica multistrand (cioè multilineare, che permette quindi i processi di serializzazione della serie), passando per la serialità d’autore (David Lynch e Twin Peaks), fino ad arrivare alle serie tv high concept di
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cui parleremo successivamente. Come nota Candalino [2007, 74-75]: «Il potenziale che ha questa struttura narrativa “multilineare” non smette di dar frutti. [...] Dopo questo mix di serie “chiusa” e serie “aperta”, il telefilm diventerà la palestra industriale di nuove forme di produzione televisiva aperte a nuove forme di “consumo produttivo”». Negli ultimi anni, quindi, la fioritura di serie televisive di buona o ottima qualità ha imposto la loro capillare diffusione sui diversi mercati televisivi nazionali, colonizzando i palinsesti di tutto il mondo. In primo luogo possiamo perciò considerare la questione della qualità di questi prodotti, appartenenti a quel trend che gli studiosi di televisione chiamano quality television [Jancovich e Lyons 2003; McCabe e Akass 2007], cioè televisione di qualità, per riferirsi a una serie di programmi televisivi caratterizzati da uno stile peculiare che essi riconducono a contenuti, a sceneggiature e a costruzione visiva di particolare valore. Kristin Thompson sostiene ad esempio che i programmi della quality television siano caratterizzati da cast importanti, ibridazione di generi, autoriflessività e da una spiccata tendenza verso il realismo [Thompson K. 2003]. Negli Stati Uniti, dagli anni Ottanta fino al 2000, è esistita una organizzazione chiamata Viewers for Quality Television, finalizzata a sostenere e incoraggiare la produzione e la trasmissione di show che l’associazione riteneva soddisfare i criteri di qualità. La fondatrice del gruppo, Dorothy Swanson, sosteneva che uno show televisivo di qualità dovesse sfidare e coinvolgere lo spettatore, provocando reazioni e restando a lungo nella memoria del fruitore. Le valutazioni offerte dal gruppo sui programmi trasmessi venivano tenute in grande considerazione dall’industria televisiva, poiché si dimostravano essere il riflesso delle preferenze di un target di livello culturale elevato, naturalmente nel mirino degli inserzionisti pubblicitari. Come nota Aldo Grasso [2007, 5] in un recente studio dedicato alle serie televisive di qualità: «non c’è mai stata una tv tanto vitale, intelligente e ricca di risonanze metaforiche come l’attuale. Sembra quasi un paradosso ma spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm». I modelli di riferimento di questa televisione di qualità sono quelli di serie molto popolari a partire dalla metà degli anni Ottanta in poi: tra le altre, E.R.-Medici in prima linea (E.R. dal 1994), X-Files, I Soprano (The Sopranos 1999-2007) e West Wing (1999-2006) che, come abbiamo già sottolineato, enfatizzano la complessità narrativa, costruendo sceneggiature intrecciate e stratificate, che invitano lo spettatore a una visione ripetuta [Mittell 2006]. Con l’aumento della popolarità di questi prodotti, l’industria dei media ha dovuto fare i conti con la necessità di garantire la possibilità di rivedere questi materiali. Dal momento che la tecnologia offre diverse modalità per rispondere a questa esigenza, si sono moltiplicate le vendite di cofanetti DVD di serie tv, i network hanno reso disponibili i loro prodotti in streaming via Web e aumentato il più possibile la loro circolazione, di fatto allungandone straordinariamente la vita, ancora di più di
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quanto il sistema delle repliche televisive aveva potuto garantire negli anni precedenti. In Italia, la scelta di inserire in palinsesto questa tipologia di programmi è stata dettata dapprima dalla necessità di coprire le ore di programmazione giornaliere, andate progressivamente aumentando dall’inizio degli anni Ottanta ai giorni nostri. I prodotti seriali si prestano infatti molto bene a questo compito, poiché si tratta di prodotti di magazzino, cioè materiali ad utilità potenzialmente ripetuta, conservabili nelle cosiddette library (cioè negli archivi di programmi che le reti televisive compongono acquistando o producendo) [Grignaffini 2004]. In seconda battuta, si è presto reso evidente che questi prodotti erano in grado di catalizzare l’attenzione del grande pubblico, in virtù della loro capacità di riprodurre la realtà senza deformarla, fornendo uno strumento valido all’intrattenimento, ma anche alla rielaborazione, alla discussione e al commento di temi e problemi della vita sociale quotidiana [Meyrowitz 1995]. In tale contesto, va menzionato il ruolo di rilievo ricoperto dal marketing per l’azienda televisiva, che ha permesso di cogliere i segnali dell’audience permettendo di combinare intuizioni creative e valorizzazione del palinsesto. Il marketing per la televisione, infatti, ricopre una funzione essenziale, contribuendo su vari livelli alla costruzione del palinsesto, poiché ad esso «è demandato il compito di combinare per ogni singola rete i generi in modo da rispettare il budget e soddisfare le esigenze della platea» [Agnese, Pratesi e Teodoli 2007, 77] Dal punto di vista del dibattito che è scaturito intorno alla serialità televisiva possiamo rimarcare, in accordo con Booker [2002], che le serie televisive si presentano come oggetti piuttosto difficili da discutere, non perché esse rappresentino un oggetto troppo semplice nel panorama dei fenomeni culturali della contemporaneità, quanto piuttosto perché si tratta di oggetti estremamente complessi. Parte di questa complessità scaturisce dal fatto che le connessioni intertestuali e intermediali tra il singolo programma e il panorama complessivo dei media e della televisione sono intricate e stratificate. Il processo di mercificazione della cultura a cui è andata incontro la società occidentale nel ventesimo secolo non può non riguardare anche la televisione, la natura della quale esprime pertanto il culmine di un processo che ha riguardato tutti i campi della comunicazione. Una seconda questione, che implica un’intrinseca difficoltà ad affrontare la serialità televisiva come oggetto di studio, è da individuarsi inoltre nello sforzo di porre una distanza tra lo studioso e l’oggetto della sua analisi. Troppo spesso, infatti, le serie televisive sono oggetto di un culto profondo e radicato che impedisce una disamina accurata e che stempera molte analisi nella semplice esaltazione di una serie e nel tentativo di coinvolgere altri spettatori. Come notano Casetti e Di Chio [1990, 10], «qualunque studioso sa che deve stare abbastanza vicino all’oggetto investigato da coglierne tutti i tratti essenziali, ma anche abbastanza lontano da non restarne invischiato e coinvolto. [...] Una “buona distanza” è quella che
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permette un’investigazione critica, e insieme quella che non esclude una investigazione appassionata». Consapevole di tale difficoltà, lo studioso americano Henry Jenkins, che per lungo tempo si è occupato di oggetti comunicativi della società di massa, ha coniato il termine “Aca/Fan” per indicare quella comunità di studiosi caratterizzati da una identità ibrida: teorici e accademici da un lato, ma con una tendenza spiccata a rapportarsi ai prodotti della cultura contemporanea con una passione e un entusiasmo tipici dei fan [Jenkins 2006]. Sempre facendo riferimento agli studi di Henry Jenkins, l’idea che i mezzi di comunicazione, nella fattispecie la televisione, tracimino dai loro confini, sbordando dentro altre forme comunicative ci pare in questo contesto assolutamente rilevante. È negli interstizi tra un medium e l’altro che i prodotti dell’industria culturale trovano spazio confortevole, è in tali spazi che si posizionano, che si radicano, colmandoli e permettendo una integrazione tra media che va al di là delle possibilità tecnologiche, ma si basa piuttosto sulla idea di una forma di convergenza culturale [Jenkins 2007], o meglio ancora, di una estensione di un marchio ad altri prodotti, ad altri spazi. In questo panorama di convergenza culturale, sembra che l’esperienza di assistere a uno show televisivo sia in realtà veicolo di molti e più complessi significati, espandendo il senso dello show oltre i suoi confini (l’episodio settimanale), e facendolo diventare un vero e proprio stile di vita o comunque facendo sì che il programma televisivo non sia solo questo, bensì la risultante di una costellazione complessa di prodotti, costituita
Convergenza/Convergenza culturale
Processo creativo
L’idea di convergenza è utilizzata dagli studiosi per indicare un ambiente multimediale, reso possibile dalla tecnologia digitale. Convergenza implica dunque una molteplicità di servizi fruibili attraverso un mezzo di comunicazione e si basa sull’idea di compresenza e di interazione di più mezzi di comunicazione in uno stesso supporto informativo. Si parla di contenuti multimediali, ci si avvale di molti media diversi: immagini in movimento (video), immagini statiche (fotografie), musica e testo. La convergenza tra mezzi di comunicazione di massa non si realizza, né è ipotizzabile, soltanto dal punto di vista tecnologico, ma si tratta altresì di un fatto culturale, associato evidentemente alle pratiche di consumo che prevedono l’utilizzo di una pluralità di media, che a loro volta mettono a disposizione dell’utente una vastissima gamma di prodotti. La convergenza culturale mette in piedi un creativo processo di “poaching” (bracconaggio) [Jenkins 1992a] che richiama in causa tutte le competenze e le conoscenze pregresse dello spettatore e si organizza intorno alla abbondanza di materiali che i media stessi mettono a disposizione.
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pertanto anche dai suoi spin-off, dai fumetti ad essa ispirati, dai romanzi che ne derivano, dai siti Internet più o meno amatoriali, dai videogiochi che ripropongono ambientazioni e personaggi permettendo al fan di agire in prima persona. In questo modo, lo spazio di fruizione del prodotto si allarga a dismisura, coinvolgendo molti altri momenti della giornata dello spettatore, che può così continuare a far parte della dimensione messa in piedi dallo show, ad essere a sua volta parte di quell’universo narrativo anche al di fuori dei limiti spazio-temporali imposti dalla fruizione televisiva. 2.1 All’interno del testo seriale: temi e forme linguistiche Nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato come i modelli di riferimento della quality television coincidano in gran parte con serie televisive molto popolari a partire dalla metà degli anni Ottanta in poi. Accomunati da strutture narrativamente complesse in grado di richiamare la realtà che ci circonda, questi prodotti sono particolarmente efficaci nell’istituire un racconto che può risultare più o meno parallelo a quello delle nostre esistenze.Abbiamo inoltre notato come il filone delle narrative multilineari [Douglas 2006], inaugurato da Hill Street giorno e notte, rappresenti un’innovazione sostanziale nella gestione delle narrazioni seriali, permettendo la realizzazione di prodotti di grande successo, ritenuti a più livelli particolarmente significativi per descrivere il panorama televisivo della contemporaneità. A questo punto, è però necessario addentrarsi in maniera più precisa all’interno di questi oggetti, analizzandoli più da vicino per meglio comprenderne i contenuti, le forme linguistiche e le forme di concatenazione seriale che li caratterizzano. Se è vero, infatti, che Hill Street giorno e notte ha rappresentato una pietra miliare della serialità televisiva, proponendo un nuovo standard per questa tipologia di prodotti, è vero altresì che ci troviamo ancora in un’epoca televisiva contraddistinta da serie “classiche”, decisamente convenzionali per quanto riguarda la composizione dell’immagine e il linguaggio visivo utilizzato. Sono gli anni di Love Boat (1977-1986) o di Magnum P.I. (1980-1988), le cui storie sono rivolte principalmente ad uno spettatore “couch potato”, cioè uno spettatore pigro, passivo e poco incline a manifestare reazioni nei confronti dei prodotti audiovisivi. Prevale ancora la narrazione ad episodi autoconclusivi, che autorizza a una visione meno fidelizzata e assidua e che non costruisce una suspense trasversale alla serie, ma la limita invece all’interno del singolo episodio. Ancora, dal punto di vista del linguaggio, queste serie non presentano grandi innovazioni, privilegiando le riprese in interni, i dialoghi girati in campo/controcampo e le inquadrature in campo medio o in primo piano. Una grossa novità per gli spettatori televisivi è rappresentata invece da E.R.-Medici in prima linea, che debutta negli USA nel 1994. La serie racconta, con una narrazione multistrand, le vicende di un gruppo di medici e infermieri che lavora presso il pronto soccorso del policlinico uni-
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versitario di Chicago, il County General Hospital. L’avvio della serie è stato ispirato dai racconti Casi di emergenza del noto scrittore Michael Crichton, ed è stata coprodotta da Steven Spielberg. Intrecciando le storie private e quelle professionali dei medici e dei pazienti dell’ospedale, E.R. ha toccato spesso temi di attualità e di forte impatto come l’omosessualità, il cancro e l’eutanasia, confermandosi prodotto di punta del canale NBC per quattordici stagioni. E.R. ha tratteggiato un nuovo modo di costruire il racconto televisivo, sia dal punto di vista narrativo che dal punto di vista della struttura dell’immagine, negli anni in cui si andava affermando la reality tv. La metà degli anni Novanta è infatti il momento in cui la televisione della realtà – che è ben rappresentata dall’introduzione di format che preludono al successivo avvento dei reality show, in particolare The Real World, programma di MTV partito nel 1992, che si focalizza intorno alla vita di sette estranei ripresi da una troupe con attrezzature leggere durante tutte le attività quotidiane per un periodo di diversi mesi – si afferma e diffonde a livello globale. Sul piano tecnico, E.R. sembra dunque ereditare questo nuovo interesse da parte del pubblico nei confronti di un maggiore realismo. La serie si distingue infatti per l’uso della steadycam, per il montaggio sincopato, per l’andamento in cui «non esiste un inizio, un climax e una fine» [Damerini e Margaria 2004]. Lo stile visivo di E.R. è più pulito di quello della coetanea, e altrettanto cruda e realistica NYPD Blue (19932005), ma è altrettanto caotico: la camera insegue i medici durante le corse disperate lungo i corridoi dell’ospedale, pedina i pazienti in barella, ci fa vivere i sobbalzi dell’elisoccorso e ci trasporta, appunto, “in prima linea”, non risparmiandoci dettagli crudi e momenti tragici. Nascendo, dunque, in un periodo della storia della televisione in cui è la realtà a dominare i palinsesti, questo show si dimostra perfettamente adeguato e rispondente all’urgenza e al realismo dei tempi [Thompson R.J. 1996]. Sul Reality tv
I 4 format
La reality tv non è una invenzione degli ultimi anni e non nasce con il Grande Fratello: chiamiamo infatti reality tv tutti quei programmi «esplicitamente basati sulla tematizzazione di eventi, situazioni, tempi e persone che vengono presentati come “veri”, “contemporanei” e “autentici”, vale a dire al cui centro vi è la “realtà” di personaggi e spazi, e la contemporaneità di tempi e di eventi solitamente estranei allo spettacolo televisivo» [Demaria, Grosso e Spaziante 2002]. Distinguiamo fondamentalmente quattro modelli di reality tv: real tv, tv verità, reality show, docu-soap. Il modello di maggior successo degli ultimi anni è quello del reality show, «programma basato su situazioni reali che coinvolgono persone comuni, presentate in un contesto narrativo (e quindi strutturate in storie), che si avvale solitamente di contributi filmati in diretta» [Alessandri 1999].
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piano delle soluzioni narrative adottate per i singoli episodi, poi, è da notare che E.R. ha anche azzardato numerosi esperimenti, spesso legati alla struttura temporale dell’episodio, come nel caso di Frammenti di verità (Hindsight, stagione 9, episodio 189) che ripropone in larga misura la struttura temporale del film di Christopher Nolan Memento (2000). Come nel film di Nolan, anche la vicenda di cui sono protagonisti i medici del Policlinico di Chicago è narrata «a partire dalla sua conclusione per risalire a ritroso il corso del tempo, con ciclici ritorni indietro. Ogni singola sequenza ha in sé uno sviluppo lineare, ma le sequenze, nel loro complesso, sono organizzate in modo che l’inizio di una venga a coincidere con la fine di quella successiva» [Autelitano 2004, 53]. Il potere di fascinazione, di coinvolgimento, di creazione, di adesione proprio di ogni finzione emerge dunque dall’articolazione e da una particolare declinazione della categoria del verosimile. L’efficacia di questo tipo di prodotto deriva dalla modulazione di una dimensione simulatoria (del reale), e una dimensione narrativa (del “come se”). La fiction legge il reale, ne amplifica alcuni dettagli, ne narcotizza altri, ne dilata altri ancora: così facendo, ci invita a leggerlo e consumarlo nello stesso modo. La fiction può perciò proporsi come un serbatoio di proposte esegetiche, che possono divenire offerte a cui si aderisce completamente, traducibili in pratiche e stili di vita, in modelli non solo accettati, ma continuamente ricreati e perfezionati. E.R. segna dunque l’avvio di una nuova fase, che culminerà ai giorni nostri, con i successi mondiali di 24 (dal 2001), Lost (dal 2004) e Dr. House-Medical Division (House M.D. dal 2004) che prendiamo qui in esame in qualità di programmi estremamente significativi di una nuova modalità di fare serialità. 24, ideata da Robert Cochran e Joel Surnow, è una serie prodotta dalla Fox e in onda dal 2001. Ogni stagione racconta una serie di eventi che si svolgono nelle 24 ore di una giornata. La struttura narrativa si articola in ventiquattro puntate da 45 minuti ciascuna – che diventano 60 con gli spazi pubblicitari – e che danno allo spettatore l’illusione di seguire gli eventi in tempo reale. Ogni puntata copre infatti un’ora della giornata del protagonista, l’agente del CTU (Counter-Terrorism Unit) di Los Angeles Jack Bauer, alle prese con attacchi terroristici di varia origine e natura. Benché non innovativa (è stata usata ad esempio da M.A.S.H.), la formula del tempo reale è particolarmente ben gestita in questo prodotto, che ne fa il principio centrale della narrazione di una intera serie [Corel 2005]. Gli eventi narrati, scanditi dalla presenza del timecode, avvengono sotto i nostri occhi e ribadiscono la loro contemporaneità rispetto al concetto di tempo. Il tempo dei protagonisti è il nostro tempo, perché lo spazio temporale che intercorre all’interno di un episodio corrisponde al tempo trascorso nella nostra condizione di realtà. Con un sapiente uso del cliffhanger che conclude di fatto ogni puntata (e ogni ora della giornata di Jack Bauer), 24 rappresenta un tentativo di ripensare la narrazione seriale, riva-
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lutando la centralità delle forme di concatenazione tra singoli frammenti seriali e rifocalizzando l’attenzione dello spettatore (e l’immersività che la storia favorisce e attiva) sulla dimensione temporale. Come nota Enrico Terrone [2004, 5]: «Il tempo sovrabbondante delle serie non è più il supporto di una progressione illimitata né la forma di una ripetizione interminabile, ma la materia con cui costruire un blocco spazio-temporale denso e compatto. La vicenda dell’agente federale Jack Bauer [...] è raccontata facendo coincidere la durata della storia con quella del discorso, e quindi il tempo dei personaggi con il tempo dello spettatore. Le 24 ore insonni dell’agente Jack Bauer e del candidato Palmer corrispondono a 24 episodi da circa un’ora, cosi che il tempo della serie diviene inestricabile dal suo campo narrativo». Altro elemento distintivo della serie, che costituisce anche una novità dal punto di vista del linguaggio, è rappresentato dall’utilizzo di split screen, che rimarcano lo svolgersi in contemporaneità di eventi diversi, e che mantengono viva l’attenzione dello spettatore sulle diverse linee narrative che la serie intesse. Di conseguenza, «In 24 è il tempo, nella sua continuità a unificare la molteplicità dello spazio, resistendo alle forze centrifughe che tendono a disgregarlo. La cifra di questa struttura è l’immagine che raccorda le sequenze: un articolato split screen dove ai riquadri delle differenti scene si aggiungono il quadrante di un orologio digitale e il pulsare implacabile del suono. I personaggi si trovano in luoghi diversi e in molteplici situazioni, ma le loro azioni avvengono tutte nello stesso tempo, ed è questo [...] a legare i loro destini» [Terrone 2004, 5]. Nell’articolare le vicende di 24, quindi, quello che conta è il tempo, non lo spazio, che in 24 è pressoché inesistente, e in cui la dimensione temporale prende il sopravvento su quella spaziale. 24 è dunque una serie a cui dedicare particolare attenzione nel tracciare i caratteri della nuova serialità contemporanea e che, giunta alla sua settima stagione, appassiona ancora milioni di spettatori, grazie al suo carattere sperimentale, alla originalità della sua formula, alla spettacolarità degli eventi che vi sono narrati (una interessante analisi delle strutture temporali del cinema contemporaneo e delle loro eventuali ricadute sull’ambito della narrazione televisiva è rintracciabile nel volume Cronosismi di Autelitano). Lost, scritta da J.J. Abrams, racconta invece le vicende dei sopravvissuti a un disastro aereo, che si ritrovano su una misteriosa isola deserta in attesa di soccorsi che tardano ad arrivare, cercando di risolvere numerosi problemi, soprattutto di sopravvivenza, e di indagare i tanti misteri del luogo.A catturare l’interesse del pubblico, in questo caso, concorrono una serie di fattori: in primo luogo, la sceneggiatura, che affronta temi “classici” in un modo assai innovativo per l’ambito televisivo. Il tema del naufragio, a cui segue la rinascita e la conseguente possibilità di iniziare una nuova vita, è un tema caro alla letteratura (Robinson Crusoe di Daniel Defoe), così come al cinema (recentemente, Cast Away 2000, di Robert Zemeckis), e che trova in questa serie nuova linfa grazie al lavoro sui personaggi. Il gruppo che costituisce il cast ricorrente della prima stagione è
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infatti presentato allo spettatore in maniera progressiva e grazie all’uso sapiente del flashback, espediente non tanto televisivo quanto cinematografico, che viene qui assunto a tema portante dell’intera serie. È grazie alle continue analessi, infatti, che la serie esce dai confini delimitati dell’isola deserta e allarga a un fuori campo che costituisce il cuore della narrazione, cioè il passato dei suoi protagonisti, raccontato per tappe e gradualmente ricostruito al fine di rendere una complessità caratteriale che simboleggia, nel microcosmo ricreato sull’isola, la complessità umana. Come osserva Canova [2000, 84] a proposito del cinema contemporaneo: «da semplice risorsa tecnica di articolazione del racconto nel periodo del muto e in parte anche del cinema classico» il flashback è divenuto oggi vero e proprio «oggetto di tematizzazione diegetica». Così il flashback in Lost è figura linguistica e al tempo stesso tema e oggetto intorno a cui articolare la narrazione: «mentre nel cinema classico il flashback aveva per lo più una funzione chiarificatrice (consentiva il ritorno del rimosso, scioglieva gli enigmi o i nodi del racconto, ritrovava nel passato le cause e le radici del presente), nel cinema contemporaneo tende progressivamente a perdere questa funzione per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione» [Canova 2000, 84]. Questo espediente dunque, rinviando lo spettatore ad altri indizi e disseminando la narrazione di tracce da seguire e di sottotrame necessarie allo sviluppo narrativo e alla serializzazione della serie, si configura come elemento linguistico e narrativo portante, rimarcando la natura rivelatoria sui caratteri dei personaggi e ponendo l’accento sulla struttura modulare del testo televisivo. Lo spettatore, infatti, sollecitato da continui inserti e rimandi, è portato a indirizzarsi verso il recupero di ulteriori informazioni che lo aiutino a districarsi all’interno della trama, implementando quel procedimento crossmediale che vedremo meglio nel paragrafo successivo. La forma della concatenazione dei frammenti che compongono la trama di Lost passa allora attraverso gli elementi paratestuali predisposti per completarne l’universo narrativo, quali ad esempio la Lost Experience (gioco creato dagli stessi autori di Lost, che si basa sulla scoperta di indizi e tracce nascoste nei siti che fanno parte del gioco) o Lostpedia, sito curato dai fan e che nella forma di un’enciclopedia on-line è dedicato ad approfondire, arricchire e sviscerare tutti gli aspetti della serie. A segnare questa nuova tendenza della serialità contemporanea troviamo anche Dr. House-Medical Division, serie ambientata nel reparto di diagnostica medica dell’(inesistente) ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital. La serie è incentrata sulle vicende di un team di medici (un neurologo, una immunologa, un oncologo) guidato dal Dr. Gregory House, scontroso, acido e poco gentile medico, dotato però di grandi capacità diagnostiche e di pungente ironia. La più evidente ispirazione della serie proviene dai libri di Conan Doyle e dalla sua più famosa creatura, Sherlock Holmes. In ogni episodio, tendenzialmente autoconclusivo e costruito col medesimo schema (una falsa pista nel prologo, in cui venia-
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mo a conoscenza della vittima, le prime ipotesi vagliate dal team di medici, un progressivo aggravamento del paziente, che in genere omette o mente su dettagli fondamentali alla sua guarigione e l’illuminazione finale che colpisce House e gli permette di risolvere il caso) c’è un mistero che si presenta sotto forma di una malattia o di una emergenza medica, da risolvere in base a vari indizi, più o meno evidenti.A differenza di quanto accade nell’altro medical drama di grande successo E.R., in cui le vicende e le storie personali dei medici prendono presto il sopravvento sui casi clinici e sulle cure ai pazienti, Dr. House si focalizza sulla malattia e sui suoi sintomi, trattandola appunto come un giallo da risolvere. Per far questo, la serie si avvale di una struttura con uno schema piuttosto costante e fisso, che ricorda da vicino quello delle detection più classiche (Colombo, La signora in giallo) e che predilige lo sviluppo dell’anthology plot sul running plot. Questo naturalmente non esclude il ricorso a sottotrame che coinvolgono i protagonisti per più episodi, ma limita questo utilizzo, privilegiando una struttura autoconclusiva (i casi sono sempre risolti all’interno del singolo episodio) e puntando sull’innovazione sul piano linguistico. La serie presenta infatti un notevole grado di sperimentazione, ad esempio con la messa in scena del flashback, come nell’episodio Sotto Accusa (The Mistake, stagione 2, episodio 8), in cui un caso avvenuto mesi prima e finito tragicamente è ripresentato in vista di una udienza in tribunale in cui House e un membro del suo team sono chiamati a giudizio. In questo episodio, i ricordi dei protagonisti convivono nello stesso tempo e spazio degli eventi del presente, in una messa in scena altamente coinvolgente, in cui i diversi punti di vista compongono un quadro articolato degli eventi. Ancora, sulla scia di quanto inaugurato con CSI, anche Dr. House utilizza copiosamente dettagli iperrealistici che guidano lo spettatore in incredibili discese all’interno del corpo umano, dove ci vengono mostrati, grazie a movimenti di macchina invasivi e iperbolici, dettagli altrimenti invisibili.A questo utilizzo del dettaglio figurativo, fa da contraltare l’uso di un linguaggio altamente specializzato, inaffrontabile se non esperti del settore, ma che viene reso accessibile grazie all’ipertrofia del dettaglio visivo intorno a cui la serie si costruisce. Come ha scritto Aldo Grasso [2007, 146], Dr. House si distingue per due strategie narrative di notevole interesse: «La prima è che assume su di sé tutte le storie individuali dell’équipe medica e lo fa in modo così misantropico da ritagliarsi uno spazio inedito. [...] La seconda è che proprio la parte diagnostica,la parte più squisitamente medica,è molto più esaltata rispetto ad altre serie». Ne derivano dunque uno slittamento dal filone del medical drama a quello poliziesco e una serie che gioca in maniera molto sottile con il meccanismo del ritorno del già noto, garantendo continuità e al tempo stesso novità al proprio pubblico. 2.2 High Concept TV Series I prodotti seriali contemporanei si allargano ben oltre i confini imposti dal format a cui appartengono per estendere il proprio potenziale ad altri
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campi dell’industria culturale. Le strategie di marketing e di integrazione tra media e prodotti commerciali fanno sì che la produzione proliferi, con la commercializzazione di qualunque tipo di prodotto: action-figures con le sembianze dei protagonisti della serie, ma anche ovviamente poster, carte da gioco e videogiochi, romanzi e novellizzazioni e tanto altro, che estendono le avventure dei protagonisti in altri ambiti e su piattaforme mediatiche differenti. Nel mercato globale è impossibile essere competitivi se non si lavora su più livelli, in un sistema di cross-promotion (promozione incrociata) che assicura il necessario riscontro in termini di successo commerciale e di affezione del consumatore al brand, esattamente come accade per i beni di consumo materiali, come un detersivo o un prodotto alimentare [Olson 1999]. Se i fan, allora, cercano uno spazio in cui discutere il proprio prodotto seriale preferito, chi meglio del suo produttore può fornire uno spazio adeguato? Con questa logica in mente, molti show televisivi (o meglio i network che li producono/trasmettono) hanno dotato i loro fan di newsletter, forum e gruppi di discussione intorno ai prodotti più seguiti all’interno dei loro siti ufficiali. Ma non troppo sorprendentemente, dal momento che Internet provvede una tecnologia agile e semplice con un elevato grado di facilità d’accesso, le stesse tecnologie usate dai produttori sono utilizzate anche dai fan per creare community intorno al medesimo e condiviso interesse per una serie. Da notare, allora, la distinzione necessaria, nella definizione del fenomeno di convergenza culturale in atto, tra la convergenza prodotta dal proprietario del brand, cioè in questo caso prodotta dai creatori/produttori dello show e legata pertanto allo sfruttamento in senso commerciale dello stesso marchio su media diversi, e quella che invece si determina come un Brand Il termine inglese brand viene in genere tradotto con “marca”, ad indicare un nome, un simbolo, un disegno, o una combinazione di tali elementi, con cui si identificano prodotti o servizi di uno o più venditori al fine di differenziarli da altri offerti dalla concorrenza. Di norma il termine viene usato in riferimento a beni di consumo materiali, ma negli ultimi anni ha assunto anche un significato allargato, riferito a prodotti culturali e inteso come strumento di identificazione di più prodotti, anche molto diversi tra loro, legati però da una promessa comune e da valori di riferimento condivisi. Ad esempio, nel caso di Buffy, si parla di Buffyverse come di quel mondo finzionale di cui Buffy è il centro e intorno al quale gravitano numerosi altri prodotti mediatici direttamente derivati da Buffy (i suoi spin-off ufficiali), nonché tutti quei prodotti che per affinità, per diretta citazione, oppure perché inseriti all’interno dell’universo di riferimento della serie, entrano a farne parte, in una concezione allargata dell’idea di brand.
L’universo della marca
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prodotto dell’intervento dei fan e che non è quindi motivata da una logica di sfruttamento commerciale. Una distinzione importante, questa, e che, come nota Brooker [2001] è interessante indagare, soprattutto cercando di comprendere se le modalità siano esclusive o inclusive, se cioè possano o meno convivere nel panorama che si va delineando. Ad esempio, i siti ufficiali dei network/show, possono essere visti come strumenti che contribuiscono a incoraggiare la creatività e il senso di comunità che unisce i fan, attraverso una serie di strumenti che favoriscono l’incontro e la discussione, quali le chat i blog e i feed RSS, ma allo stesso tempo i fan si aggregano in altri ambiti attraverso l’utilizzo dei medesimi strumenti, senza necessariamente passare per gli spazi ufficialmente creati per loro. È chiaro quindi che nel contesto contemporaneo, gli spettatori, più che a vedere una serie tv sono invitati ad aderire a uno stile di vita, ad essere parte di un’esperienza che non si limita, appunto, all’ora di visione settimanale, ma che si allarga a 360 gradi. Questo è accaduto ad esempio con Heroes (2006- ) e con l’omonimo ARG (Alternate Reality Game), Heroes 360 Experience nato sulla scia di quella che è stata, per il pubblico americano, la cosiddetta Lost Experience – cioè quell’ARG giocato dai fan durante la seconda stagione di Lost in UK e nell’intervallo tra la fine della seconda stagione e l’inizio della terza in USA – e che rappresenta una estensione su piattaforme digitali (e non) della serie. Naturalmente, l’esistenza del Web e di Internet rende il tutto non solo possibile, ma anche interessante per dimensioni e caratteristiche del fenomeno, consentendo una diffusione rapida e capillare dei contenuti, che benché certamente indirizzati a un pubblico già coinvolto nel meccanismo, sono comunque di facile reperibilità e accessibilità. Se per anni, infatti, i fan di un determinato prodotto, come ad esempio Star Trek, si sono riuniti in convention e eventi dedicati ai loro beniamini per condividere idee ed eventualmente le loro personali produzioni intorno allo show, ora, con le possibilità offerte dalla rete, un nuovo modo di condivisione delle informazioni e delle proprie produzioni si è affermato, con evidenti cambiamenti. Internet, di conseguenza, ha accelerato un processo che, per una delle comunità di fan più vecchie e studiate (quella di Star Trek, appunto) ha impiegato anni a compiersi, favorendo e sveltendo la ricerca di persone che condividano lo stesso tipo di interesse per una serie televisiva. Il supporto a questo tipo di esperienza, coinvolgente ed immersiva, è naturalmente il frutto di un intenso lavoro di sfruttamento delle potenzialità offerte da Internet, così come dell’integrazione tra le diverse piattaforme che rendono possibile allo spettatore l’accesso ai contenuti, alle password e all’intera costellazione di prodotti mediali di cui si compone ad esempio il mondo di Heroes [Porter, Lavery e Robson, 2007]. Che poggia pertanto su numerosi hoax movie sites, sugli easter eggs contenuti nelle tavole del fumetto, su blog e indizi disseminati fuori e dentro la rete. In un certo senso, studiare il comportamento e il ruolo dei fan di un prodotto televisivo ha voluto dire, per lungo tempo, considerare il pubblico
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semplicemente come un gruppo di frequentatori di un determinato ambiente mediatico, che avidamente consumavano e accettavano in maniera passiva qualsiasi prodotto venisse loro offerto. In molti hanno dimostrato invece come, in realtà, i fan adottino un approccio attivo nei confronti dei testi mass mediatici [Jenkins 1992a] dimostrando di essere spettatori che consumano, certo, ma che discutono e riflettono su quanto consumano. Molti di loro, poi, sono anche produttori di fan fiction, cioè poesie, canzoni, racconti, sceneggiature di nuovi episodi costruiti intorno ai loro personaggi preferiti. Non solo, allora, molti fan sono vivaci nella comprensione dei prodotti/testi mediatici, ma si costruiscono un ruolo proattivo anche nella creazione di nuovi materiali correlati. La convergenza digitale ha consentito una proliferazione di contenuti mediali distribuiti su differenti piattaforme, la logica che muove questo meccanismo è pertanto quella del transmedia storytelling, cioè della narrazione transmediale, nella cui prospettiva ogni medium fa quello che gli riesce meglio e, in tal modo, una storia può essere introdotta sotto forma di serie televisiva, ampliata attraverso il cinema, romanzi e fumetti, i videogiochi e il Web. L’esperienza di fruizione che ne deriva, diversificata e distribuita, genera una partecipazione profonda, che sollecita ulteriore consumo. Secondo Jenkins, il Web ha portato alla luce, e ha contribuito a diffondere, il lavoro delle comunità dei fan che, come abbiamo detto, è stato per lungo tempo relegato nelle nicchie di appassionati. Questa attività creativa ha conseguentemente concorso a stimolare il passaparola (Word-of-Mouth) tra gli spettatori, incrementando gli ascolti, diffondendo l’interesse per un prodotto e fornendo nuovi spunti agli autori, abili nell’incorporare all’interno delle sceneggiature suggerimenti forniti dagli spettatori più assidui. La narrazione allora non possiede più un unico centro d’irradiazione, ma tende a svilupparsi su strade diverse. Hoax Movie Sites Il termine inglese “hoax” è traducibile in italiano con “bufala”, dunque, un Hoax Movie Site è un sito Internet «apparentemente dedicato a elementi reali ma il cui contenuto è in realtà fittizio e fortemente collegato ad una produzione cinematografica o televisiva» [Roder 2006, 55]. Molti film, da The Blair Witch Project (Myrick e Sanchez 1999) in poi hanno sfruttato questa forma particolare e per certi versi innovativa di circolazione delle notizie, spacciando per veritieri elementi appartenenti alla trama e al mondo finzionale costruito dal film: «Sono, metaforicamente, dei “prolungamenti” cibernetici della fabula cinematografica ed è qui che risiede il loro aspetto più originale e interessante dal punto di vista semiologico» [Roder 2006, 55]. L’uso di questo espediente contribuisce a sollecitare la curiosità e l’interesse da parte dei potenziali spettatori rispetto a film e programmi televisivi.
Strategie di marketing
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Mutuando il termine dalla definizione ormai consolidata fornita da Justin Wyatt [1994] sul blockbuster cinematografico, potremmo definire queste narrazioni come high concept. Secondo Justin Wyatt, la caratteristica fondamentale di un high concept è lo stile, poiché ogni film deve avere un look riconoscibile, ben definito e di impatto. L’high concept è un prodotto caratterizzato dalla grande vendibilità, adatto ad essere esperito su diversi supporti e venduto sui mercati interni e stranieri. Pertanto, dal punto di vista industriale, ciò significa passare da un prodotto medio e da un rischio calcolato, ad operazioni a rischio estremamente alto, che accentrano la gran parte delle risorse disponibili. Di essenziale importanza è la struttura modulare dell’high concept, che fa sì che questo possa essere parcellizzato e riproposto in differenti contesti ludici o di intrattenimento, permettendo la frammentazione, lo spostamento e la diversificazione della fruizione. Come si può notare, tale definizione si rapporta perfettamente al fenomeno della serialità televisiva contemporanea, favorendone lo studio in termini di una costellazione complessa di prodotti raggruppati intorno ad un medesimo brand. In questo contesto, come accade per il blockbuster cinematografico, anche le serie televisive che possiamo definire high concept, e dunque tutte quelle che adottano narrative multilineari che fungono da spunto per ulteriori narrazioni su altri media, hanno dato vita a veri e propri fenomeni di franchise, ossia prodotti che possono essere replicati in altri formati mediatici [Staiger 2000]. Infatti, il sistema delle major conglomerate ha permesso di dare una risposta globale ed esauriente ad una domanda di intrattenimento divenuta matura ed estremamente differenziata. È interessante a questo proposito quanto nota Matteo Bittanti [2006, 133]: «Laddove la formula produttiva dominante nell’era analogica era l’adattamento – per cui i medesimi contenuti venivano trasferiti da un medium all’altro per mezzo di un processo di rimodellamento – oggi si producono matrici di narrazioni che si sviluppano in modo (relativamente) autonomo su più piattaforme. Detto altrimenti, nell’era digitale, la produzione di nuove direzioni narrative all’interno della stessa cosmologia ha sostituito la prassi di ridistribuire i medesimi contenuti. Questo cambio di paradigma prevede a sua volta un nuovo tipo di fruitore dotato di competenze trans-mediali». Per la serie 24, ad esempio, il sistema delle grandi conglomerate [Tungate 2006] ha fornito aggregazioni mirate allo sviluppo del prodotto attraverso il dialogo tra diversi ambiti mediatici: ne è prova l’accordo con la Sony e la sua costola che opera nel settore video-ludico attraverso la Sony Computer Entertainments impegnata nella produzione e nella distribuzione della console PlayStation per lo sviluppo del videogioco ispirato alla serie, ovvero 24 The Game. In 24, inoltre, la contaminazione transmediale è molto evidente, poiché il videogioco si propone di colmare una lacuna narrativa a cavallo tra la seconda e la terza stagione. Nell’applicazione dell’idea di high concept alla serialità televisiva va però espressa un’ulteriore
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considerazione: benché modulabile e riadattabile ad altri contesti ludici e di intrattenimento, l’high concept cinematografico è un prodotto caratterizzato da una chiusura narrativa, che può dare vita a prequel e sequel, ma che di norma ha un numero finito di personaggi e di occorrenze cinematografiche che lo regolano. Le serie televisive contemporanee che possiamo leggere sulla base delle caratteristiche dell’high concept si caratterizzano invece per la possibilità di ridefinizione della trama e della dimensione diegetica, che i meccanismi stessi del racconto seriale, uniti alla intermedialità tipica dell’high concept, rendono estremamente intensa e stratificata. Molte serie televisive sono allora considerate come franchise per la loro durata prolungata nel tempo, che permette di sfruttare un’onda molto più lunga [Anderson 2007] se comparata al prodotto cinematografico. Un prodotto come 24, ad esempio, permette di mantenere vivo nel tempo l’interesse per l’intera serie. Questi oggetti sono infatti dei veri e propri long seller, lungamente sostenibili nel tempo e rinfrescabili ad ogni lancio di stagione. Definire le serie franchise significa infine far riferimento ad un insieme di artefatti culturali, ad un intreccio di narrazioni che viaggiano su canali differenti. Sempre prendendo ad esempio 24, è evidente come qui domini la logica del transmedia storytelling così come quella dello spinoff (i mobisodes e i webisodes, che non confluiscono nella serie principale e che analizzeremmo in dettaglio più avanti). La fruizione diversificata è dunque in grado di generare nel consumatore (non più un semplice spettatore, ma un fruitore di più media e di più prodotti collegati) un’esperienza profonda che sollecita ulteriore consumo. Si può parlare pertanto di matrici della narrazione, che ricevono dalla serie da cui sono originate influssi e indicazioni di atmosfera e ambientazione. Siamo di fronte ad una nuova forma di cultura popolare che è progettata per essere aperta e multi-strato, provocatoria ed evocativa, più esplorativa di quanto un semplice spettatore possa concepire. I concetti di high concept e di franchise che abbiamo fin qui delineato, ci permettono di affrontare il discorso delle serie televisive contemporanee nei termini di prodotti ad alto potenziale, sfruttabili in vari contesti e che possiedono tutte le caratteristiche necessarie a considerarli come eventi mediatici [Dayan e Katz 1999], cioè come occasioni che attraggono una potente copertura da parte dei mezzi di comunicazione e che si configurano come eventi imperdibili nel panorama dei media: pensiamo ad esempio all’episodio conclusivo della stagione di una serie televisiva di successo seguito da milioni di persone o all’episodio di apertura di una nuova stagione (23 milioni di americani hanno seguito il primo episodio della seconda stagione di Lost). La molteplicità e la stratificazione di questi prodotti li rende però anche adatti ad essere scomposti in pacchetti modulari che riportano ad elementi di base la loro complessità narrativa, di fatto garantendo la possibilità di semplificare il prodotto in termini di format, vendibile, esportabile,
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Mobisodes
Forme narrative transmediali
Con questo termine ci si riferisce a episodi di programmi televisivi fatti oggetto di un lavoro di adattamento che li rende disponibili per la visione attraverso lo schermo del telefono cellulare. In genere si tratta di episodi di breve durata (da uno a tre minuti). Tra i primi e più noti esempi di questo adattamento di prodotti seriali alla fruizione via cellulare troviamo 24: Conspiracy, spin off della serie 24, reso disponibile dalla FOX a partire dal gennaio 2005, dopo la messa in onda dei primi episodi della quarta stagione della serie. Distribuiti al ritmo di un episodio ogni tre giorni, i mobisodes di 24 articolano appunto ventiquattro minuti di narrazione non lineare che racconta una storia che possiede espliciti riferimenti alla stagione 4 della serie ideata da Joel Surnow e Robert Cochran. Utili alla promozione e alla pubblicità di una serie, i mobisodes appartengono a quel ricco e articolato panorama che ha visto l’affermazione di prodotti multipiattaforma e high concept.
globalizzabile e, al tempo stesso, passibile di un riadattamento a livello locale, attivando modalità di glocalizzazione [Bauman 2005] che sposano perfettamente una tipologia di marketing che tiene conto delle dinamiche mondiali di interrelazione tra i popoli, le loro culture ed i loro mercati, delle peculiarità e delle particolarità storiche dell’ambito in cui si vuole operare. Così, un caso emblematico di format che sfrutta in questi termini la sua componente franchise è quello di Ugly Betty (dal 2006), serie televisiva americana del network ABC, trasmessa dal 2007 anche in Italia. La serie è ispirata alla telenovela colombiana Betty la cozza (Yo soy Betty la fea 1999-2001), a sua volta trasmessa in Italia tra il 2004 e il 2005. Dal concept di questa serie (una ragazza bruttina ma di buoni sentimenti che vuole lavorare nel dorato mondo delle riviste di moda) sono derivati numerosi adattamenti locali, di cui il prodotto americano è solo una delle versioni. Messico, India, Israele, Germania, Russia, Olanda e Spagna hanno prodotto le loro versioni dello show, adattandolo al meglio ai diversi contesti socio-culturali nazionali. Oltre al prodotto originale, curiosamente, in Italia sono stati trasmessi numerosi di questi adattamenti, tra cui quello olandese (Lotte 2006-2007) e quello americano. Quello che accomuna le serie televisive contemporanee è infine una particolare sensazione di permanenza. Jenkins nota infatti come questi prodotti, grazie alla integrazione tra media offerta dal sistema delle conglomerate, alle pratiche di franchising e alla costruzione high concept, siano in grado di garantire una eccezionale durata e persistenza nella mente degli spettatori, addirittura ipotizzando che questi programmi siano così durevoli da garantirsi una sopravvivenza anche quando la base dei fan attuali sarà andata dissolvendosi.
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2.3 Serialità e nuovi media Tra i numerosi significati del verbo “seguire” ce ne sono due particolarmente pertinenti rispetto alle questioni che questo libro affronta. Il primo è quello di leggere, ascoltare, vedere qualcosa con assiduità: seguire una rubrica giornalistica, un programma radiofonico, una trasmissione televisiva. Dunque essere, nel nostro caso, assidui spettatori di un programma televisivo. Il secondo significato è invece quello di tallonare, pedinare, avanzare verso una determinata direzione, a partire da un punto di riferimento. Un programma televisivo non è un oggetto chiuso, limitato e confinato al mezzo per il quale è nato, al contrario, i modi attraverso i quali la comunicazione audiovisiva ha avuto tradizionalmente luogo, sono entrati in una fase di complessa e incessante modificazione, dovuta principalmente all’apporto del digitale. I mezzi di comunicazione fanno perciò parte di un sistema articolato di scambi linguistici, culturali, sociali ed economici di cui lo show televisivo è oggi solo un tassello all’interno di un più vasto e complesso puzzle mediatico e, soprattutto per i fan affezionati di una serie, vedere lo show diviene solo una tra le molteplici pratiche legate al consumo di un determinato brand (quali possono essere considerati Buffy, Lost o Heroes), poiché la fruizione, il consumo del prodotto e di una serie di valori e significati da questo veicolati, continua con molte altre forme e attraverso altri mezzi di comunicazione. È allora urgente riconsiderare cosa significhi realmente “seguire” un programma televisivo: starsene seduti sul divano con in mano il telecomando non è infatti più sufficiente. “Seguire” un programma significa compiere un’esperienza dinamica, un processo di attivazione che porta lo spettatore/consumatore a mettersi in azione per pedinare e andare a scovare il prodotto che lo interessa anche su altre piattaforme, altri supporti e in altri formati, diversi da quelli tradizionali [Brooker 2001]. Rispetto ai prodotti seriali la situazione è piuttosto intrigante. La maggior parte della serialità televisiva contemporanea, di qualità e high concept, di provenienza statunitense, mette in atto numerose strategie per suscitare quei processi di attivazione dello spettatore a cui abbiamo accennato poco fa. Sostanzialmente, oltre ad avere ridefinito le pratiche sociali di fruizione, in termini di nuove modalità di consumo, più libere e intense, e ad avere prodotto una modificazione sul piano del linguaggio (ad esempio i dettagli iperrealisti di CSI, gli split screen e il timecode di 24), lo sfruttamento delle risorse offerte dalle tecnologie digitali e dal Web come piattaforma di diffusione ha generato un fenomeno di affrancamento dei contenuti dai supporti a cui un tempo erano saldamente legati (apparato cinematografico, videoregistratore ecc.), secondo un processo che porta gli stessi contenuti audiovisivi a circolare ed essere fruiti su una grande molteplicità di canali. Da qui, la necessità di offrire spazi alternativi a contenuti veicolati inizialmente da media tradizionali, nonché l’elaborazione di contenuti originali appositamente formulati per essere sfruttati attraverso Internet. Come nota Anna Sfardini [2007, 84], «oggi, infatti, far parte di un
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pubblico significa vivere un’esperienza costitutiva della vita quotidiana, apparteniamo a un’audience diffusa, immersi in una società pervasa dai media che non solo definiscono e regolano la nostra quotidianità, ma ci offrono continuamente occasioni per “essere parte di un pubblico”». Si è reso dunque necessario un ripensamento dei formati narrativi tradizionali rispetto alle caratteristiche e alle modalità di fruizione che il Web possiede. In questo caso, alcune esperienze diventano particolarmente rilevanti, esplorando le possibilità di sfruttamento di archivi e libraries, suggerendo nuovi modelli narrativi, e lasciando spazio alle produzioni dal basso degli stessi consumatori e fan di prodotti televisivi: minisodes, webisodes e fan series, diventano dunque fenomeni la cui rilevanza aumenta proporzionalmente al crescere del numero di episodi disponibili e di fan catturati da questi prodotti e per i quali Internet è lo spazio di circolazione ideale e necessario. Alla prima categoria, quella dei minisodes, appartengono forme seriali organizzate all’interno del cosiddetto Minisode Network, uno spazio sul social network MySpace che la Sony, produttrice di alcune serie di grande successo degli anni Settanta e Ottanta tra cui Charlie’s Angels (1976-1981) e Arnold (Different Strokes 1978-1986), ha dedicato ai suoi prodotti storici. Il nome nasce dalla contrazione di mini-episode e fa riferimento a un nuovo formato di fruizione dei contenuti audiovisivi, in cui vengono presentati episodi delle serie citate, condensati in una durata di cinque minuti circa. Un episodio standard di una sit-com dura in genere 20 minuti senza pubblicità, mentre per le serie da prime time si raggiungono i 40 minuti senza spot. Ridurre la durata è un’operazione alquanto complessa: per mantenere un filo conduttore devono essere eliminate le scene accessorie e tagliate numerose sequenze, riducendo a pochi eventi il plot dell’episodio. La scommessa (apparentemente vinta) di Sony è dunque quella di riadattare le serie televisive di successo, quelle che fanno parte della nostra biografia di spettatori televisivi, effettuando una vera e propria traduzione dal linguaggio televisivo a quello di MySpace, a riprova di quella tendenza, tipica del Web 2.0, che è stata definita Snack Culture, ovvero divorare televisione, film e musica con la voracità e la rapidità con cui si divora uno snack. Dunque, un caso importante di rimediazione [Bolter e Grusin 2002], di migrazione e di riciclo di contenuti pre-esistenti in un formato inedito e perfettamente conforme con le regole di visione imposte dalla rete. Altro fenomeno interessante è quello dei webisodes, cioè episodi di una serie di stampo e fattura televisiva, ma che viene trasmessa esclusivamente su Internet, senza che sia necessariamente prevista una programmazione in televisione di questi contenuti. Qui, le caratteristiche dei prodotti sono le più disparate: dalla curatissima Prom Queen, all’esilarante Undercover Cheerleaders, sorta di ibrido tra serie tv, reality show e una sempreverde candid camera, alla più casalinga e autoreferenziale Break a Leg. Prom Queen è forse il prodotto più high concept tra quelli qui menzio-
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nati, si tratta di una serie la cui prima stagione è composta di 80 episodi di circa 90 secondi l’uno e che rappresenta un ingresso in grande stile nell’ambito dei programmi originali per la visione on line. Il plot è incentrato intorno a un gruppo di liceali che si sta preparando per il ballo di fine anno e che ben presto sarà turbato da un inquietante SMS, ricevuto da uno di loro, in cui si annuncia l’imminente omicidio della reginetta del ballo. La serie ha generato per i produttori consistenti introiti legati alle sponsorizzazioni (ogni episodio si apre e chiude con il trailer di Hairspray – Grasso è bello, di Adam Shankman e con il logo dell’operatore telefonico Verizon, che offre la possibilità di vedere gli episodi della serie anche sul proprio telefono cellulare), alla vendita dell’intero pacchetto di episodi scaricabili tramite Amazon per 9.99 $ e al product placement, per cui gli abiti e gli accessori sfoggiati dai teen-ager protagonisti della serie sono acquistabili via Internet. Undercover Cheerleader è invece una satira acuta e feroce degli stereotipi sull’ignoranza degli americani e sulla loro continua necessità di farsi paladini della lotta contro le ingiustizie, in un formato narrativo agile e divertente, che dura all’incirca cinque minuti e che prevede un coinvolgimento diretto da parte degli spettatori, che possono segnalare al team di bionde cheerleader-giustiziere una situazione per la quale è richiesto il loro intervento riparatore. Break a Leg, infine, è la storia di un giovane autore di serie televisive che ha appena ottenuto il suo primo incarico importante per un network, il plot sbeffeggia allegramente le logiche dell’entertainment tradizionale, articolandosi in episodi di durata paragonabile a quelli di una sit-com televisiva (circa 25 minuti suddivisi di norma in 3 blocchi da 5-8 minuti l’uno). Inoltre, sul sito della serie è possibile trovare una grande quantità di materiale canonico: interviste al cast e alla troupe, bloopers e dietro le quinte. Questa serie, dunque, sfrutta tutte le possibilità offerte dalla convergenza mediale (feed RSS, podcast, iTunes, social network come MySpace, etc.), mantenendo però un forte legame con i metodi più tradizionali di distribuzione di contenuti audiovisivi che si evidenziano fortemente nella durata dei singoli episodi, che benché distribuiti a blocchi di breve durata, vanno a comporre un risultato finale che non si discosta da quelli che sono i formati tipici della sit-com televisiva. A chiudere il cerchio troviamo infine le fan series, appartenenti a tutti gli effetti alla categoria degli User Generated Content (UGC), cioè quei materiali resi disponibili sul Web e prodotti dagli utenti anziché da società specializzate. Censire questo tipo di realtà diventa per ovvi motivi piuttosto difficile, a causa della estrema penetrazione raggiunta da hardware e software semplici e a basso costo, che permettono a tutti di cimentarsi con la produzione e la distribuzione di contenuti audiovisivi. È però possibile rintracciare, tra la mole di contenuti prodotti da amatori, fan, dilettanti, collezionisti e apprendisti (insomma, i cosiddetti spett-autori), alcune esperienze che prendono le mosse proprio dai più noti prodotti seriali televisivi, trovando nel Web il terreno ideale per quella circolazione cultuale che
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da sempre caratterizza le produzioni di fan fiction. Per fan fiction si intende la produzione di storie e narrazioni che abbiano per protagonisti i personaggi dell’universo finzionale costruito dal prodotto culturale: si tratta dunque di poesie, canzoni, racconti, sceneggiature di nuovi episodi, quadri e poster, costruiti intorno ai personaggi prediletti dai fan. Internet consente una diffusione rapida e capillare dei contenuti, e amplia l’ambito produttivo ai contenuti audiovisivi, che benché certamente indirizzati a un pubblico già coinvolto nel meccanismo, sono comunque di facile reperibilità e accessibilità. Si apre allora uno scenario ricchissimo, al limite tra pirateria e brillante rielaborazione, tra violazione del copyright e diritto alla creatività [Lessig 2005]. Molti di questi prodotti prendono la forma della parodia: ad esempio, ispirandosi a Angel, serie creata da Joss Whedon come spin-off di Buffy, è possibile trovare in rete Cherub. Si tratta di una serie composta da due stagioni di 12 e 13 episodi dalla durata di 4-7 minuti l’uno, dedicati alle avventure di Cherub, poco credibile vampiro con pantofole di peluche. Si tratta di un omaggio all’universo creato da Whedon (e che i fan identificano con il termine Whedonverse) in forma di burlesca ripresa delle atmosfere e di alcuni caratteri peculiari della serie. Se a prima vista si potrebbe pensare a un divertissement per pochi iniziati, ci si rende però ben presto conto che così non è. I primi episodi della prima stagione di Cherub hanno infatti superato i 100 mila download, rivelando una potenzialità notevole e una popolarità diffusa, nonché una cura nella produzione che, benché amatoriale, si può considerare senz’altro professionale. Ma la fan series che più di tutte ha entusiasmato una comunità longeva e sparsa in giro per il mondo è sicuramente Star Trek: New Voyages, creata da Jack Marshall e James Cawley nel 2003 e ambientata nell’universo di Star Trek. Distribuita esclusivamente attraverso il download via Internet, la serie è pensata per essere la continuazione dello Star Trek originale, quello con protagonisti il Capitano Kirk e il leggendario Dottor Spock.Ambientata nel quarto anno di viaggio dell’Enterprise, la serie si propone quindi di completare il progetto iniziale di Gene Roddenberry, che ne aveva previste cinque stagioni, mentre ne furono realizzate solo tre. Il primo episodio della serie, prodotta grazie agli sforzi economici della nutrita schiera di appassionati e volontari che ci lavora, è stato reso scaricabile nel gennaio 2004, mentre attualmente sono disponibili tre episodi e il quarto è annunciato come imminente. Nonostante i diritti di sfruttamento della franchise Star Trek appartengano alla CBS, non sono stati compiuti atti volti a bloccare questa produzione e la sua circolazione, facendo sì che Star Trek: New Voyages goda di un certo grado di tolleranza, tradizionalmente riservata alle opere dei fan relative a Star Trek dai detentori dei diritti. In realtà, questa produzione gode anche dell’appoggio del figlio di Gene Roddenberry come consulente e della partecipazione di alcuni attori del cast originale (George Takei e Walter Koenig, rispettivamente Sulu e Chekov). A conti fatti, le forme narrative seriali sul Web sono un fenomeno di tutto
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rilievo e in evidente espansione. In uno scenario in costante movimento, prodotti agili, facilmente visionabili in ogni momento della giornata, svincolati dalla ritualità di orario tipica del palinsesto televisivo, si vanno progressivamente affermando. Che si tratti di riutilizzo del proprio materiale d’archivio (i minisodes Sony), di web series inedite e calibrate su un target specifico (l’adolescenziale Prom Queen) o di rielaborazioni, riproposte, e parodie prodotte dai fan, di fatto ci rendiamo conto di essere di fronte a un evento da non sottovalutare. E che dimostra, in ultima analisi, di tenere in grande considerazione il proprio pubblico, identificandolo come un pubblico motivato, attivo e abile nel selezionare, all’interno della grande offerta di contenuti audiovisivi, percorsi personalizzati e meglio rispondenti alle proprie esigenze, facendo di questi prodotti e di tutti gli apparati che li supportano (social network, blog, forum etc.) un luogo importante di socializzazione e di definizione del rapporto con le nuove forme di intrattenimento mediale. Un pubblico ben disposto, insomma, a (in)seguire la propria serie preferita nei meandri della rete. 2.4 Spettatori, fan, adepti La televisione, secondo Ellis [1988], è un medium che si basa, evidentemente, sulla frequenza, poiché introduce prodotti che sono unici, ma nel contesto però della ripetizione di una struttura che è costantemente aperta. I prodotti televisivi, in gran parte, replicano se stessi ogni settimana, secondo uno schema di ripetizione che tende a fissare nella memoria dello spettatore storie, personaggi, modelli narrativi. Benché si mantenga viva la necessità di conquistare e creare ogni volta un proprio pubblico, è vero altresì che si può contare anche su spettatori fedeli, pronti a rinnovare ogni settimana il loro gradimento nei confronti di un programma, grazie anche alla dilatazione e alla diluizione della narrazione che la serialità televisiva permette. Questa dilatazione e diluizione, anzi, diventa un punto di forza sulla via per la “cultualizzazione”di certi prodotti. Essa infatti caratterizza il rapporto del pubblico con un prodotto seriale, determinandone una fidelizzazione che si gioca anche sulla lunga durata, come dimostra la diversa gestione della serialità nel nostro paese, spesso sospesa quando il riscontro immediato dei dati di ascolto non appare positivo. Siamo davanti a prodotti di lunga durata, nonché a utilità ripetuta, che spesso sono quindi in grado di trovare una seconda giovinezza attraverso il sistema delle repliche (che in terra americana vanno avanti per decenni attraverso la catena delle reti televisive in syndication, affiliate ai network principali) e che sono certamente in grado, per il loro legame con un prodotto riuscito e per le loro caratteristiche narrative, di generare successo e fenomeni di culto. Tra i format televisivi più coinvolgenti per i fan, ingaggiati in un’attività partecipatoria intensa e ricca, ci sono proprio le serie televisive, che determinano uno scenario particolarmente elaborato, all’interno del quale fan e appassionati dedicano svariati prodotti della loro attività ai loro
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beniamini. Una combinazione di fattori pare essere la ragione per cui tali formati sono particolarmente ben funzionanti nel generare assiduità e attaccamento negli spettatori. In primo luogo, le forme seriali sono state parte del panorama culturale da quando è nata la televisione (e prima ancora erano patrimonio del pubblico radiofonico, di quello dei serial cinematografici, nonché dei lettori di feuilleton). La longevità di questi format/generi è in grado di creare e al tempo stesso di alimentare e mantenere la lealtà che i fan vi dedicano. Inoltre, questo tipo di prodotto presenta una struttura seriale di lunga/lunghissima durata che evidentemente contribuisce allo stabilirsi della fedeltà dei fan e al suo mantenimento. Ancora, i fan rispondono in maniera così estesa alle sollecitazioni espresse da soap e serie anche a causa dei loro contenuti e dei loro temi specifici, che attirano particolari categorie di spettatori e sono determinanti nel mantenere la fedeltà e l’interesse degli appassionati lungo un periodo di tempo dilatato. In particolare, le soap e le serie di ambientazione domestica, con il loro strutturarsi attorno alle tematiche delle relazioni, della famiglia e agli intrighi romantici fanno sì che il pubblico vi si appassioni anche in virtù di una funzione di identificazione. La fantascienza, invece, rende possibile includere, oltre al fascino per l’avventura e la scoperta, anche una serie di valori di riferimento, quali il rigetto della discriminazione razziale, di genere, di religione, che consentono al prodotto di fare presa sui fan, come ben dimostra il grande seguito di Star Trek. Dunque, il successo e l’efficacia di penetrazione di questi programmi non si misura unicamente nei termini degli indici di ascolto, ma ha a che fare anche e soprattutto con la loro capacità di suscitare reazioni negli spettatori, e di accendere e stimolare la loro rielaborazione critica, come dimostra il fallimento negli USA della serie Firefly (una sola stagione nel 2002) ideata da Joss Whedon, la cui chiusura anticipata ha però indotto i fan più assidui ad acquistare una pagina su Variety e a sollecitare una campagna di protesta contro la rete UPN, nel tentativo di salvare la loro serie prefeSyndication
Distribuzione di contenuti
Nell’ambito della diffusione di programmi televisivi (e radiofonici) si parla di syndication per indicare la vendita dei diritti di messa in onda di show a più stazioni. È un fenomeno molto comune in paesi, come gli USA, in cui la televisione è organizzata intorno a network, cioè a reti centrali di distribuzione di contenuti a cui si aggregano affiliati locali. Le syndication sono quindi circuiti che trasmettono prodotti “di seconda mano”, benché comunque “dignitosi” come ad esempio repliche di episodi di serie tv già trasmesse dai network principali. Questo sistema può essere molto remunerativo poiché garantisce un numero molto alto di passaggi televisivi, con un conseguente aumento nella vendita di spazi pubblicitari.
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rita. Generando la loro personale versione dell’universo narrativo della serie di cui sono appassionati, i fan usano lo strumento della scrittura per esprimere la risposta emotiva che lo show genera in loro, per commentare ciò che accade nel programma, per discuterne i personaggi e gli eventi e per analizzare la serie stessa.Alcuni dei racconti scritti dai fan hanno ad esempio la funzione di riempire i vuoti lasciati dalle sceneggiature ufficiali, spesso arricchendo i personaggi di sfumature e risvolti emotivi inediti, altri ancora invece tendono a stabilire relazioni amorose tra determinati personaggi che sono solo accennate nello show. Comunemente, il lavoro dei fan viene etichettato come fan fiction, cioè quella pratica molto diffusa di scrivere storie che abbiano per protagonisti i personaggi di un determinato prodotto mediatico (una serie tv, un fumetto, etc.), aiutando i fan a sentirsi intimamente connessi e legati ai personaggi e al marchio di riferimento, in maniera simile a quanto accade attraverso la frequentazione di siti Internet, blog e forum di discussione. La produzione di fiction da parte dei fan permette ai partecipanti di giocare con i personaggi e le situazioni, diventando parte attiva dell’universo di riferimento. Esiste anche un fenomeno complementare che è detto slash fiction, storie cioè in cui i nomi dei personaggi principali coinvolti sono indicati con il simbolo “/” che li unisce denotando intrecci sessuali raccontati nella storia (particolarmente numerosi i contributi dei fan in cui si mettono in relazione il capitano Kirk e il Dottor Spock per Star Trek serie classica, fenomeno che hai poi dato vita a diversi studi sulla slash fiction di Star Trek). La fan fiction possiede svariati formati e alle produzioni scritte (racconti, sceneggiature, poesie) si affiancano anche prodotti più complessi quali appunto le fan art (elaborazioni grafiche, poster, fotomontaggi al cui centro stanno i personaggi di una serie), le fan series, di cui abbiamo parlato nel paragrafo dedicato alle forme seriali sui nuovi media, le songfic (i fan compongono canzoni sulla base di canzoni esistenti, in cui modificano le parole inserendovi riferimenti al mondo del prodotto di cui sono ammiratori), i fenomeni di cosplaying. Diventa quindi importante soffermarsi sulle relazioni che si instaurano tra la serie e le storie, così come sulle storie al di là della serie. In particolare, esistono una serie di sottogeneri all’interno delle storie scritte dai fan, tra i quali le slash fiction e tutto quanto ha che fare con la sfera sessuale, ma anche le fan fiction chiamate hurt-comfort, in cui in genere si racconta la storia di un personaggio immaginandolo malato, ferito o torturato e curato e ristabilito attraverso le cure di un altro dei personaggi, facendo sì che le cure ricevute/prestate inducano un grado inedito di intimità che spesso rivela, anche in questo caso, intrecci romantici. Come nota Kristina Busse [2002], i fan possono, a partire da queste poche coordinate, costruire complesse storie, che spesso ipotizzano complicate e morbose relazioni familiari, incesti e relazioni disfunzionali all’interno di uno show che manifesta comunque una rappresentazione della famiglia piuttosto complessa (genitori assenti o disattenti, o intolleranti) e in cui le relazioni tra
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personaggi apparentemente distanti spesso si fanno metafora delle relazioni familiari. Ulteriore particolarità del rapporto che si viene a costruire tra la serie e i fan è relativa al modo in cui il prodotto si dimostra in grado di riconoscere l’attività dei suoi ammiratori all’interno dello show stesso. Diversi episodi di Buffy, ad esempio, mettono in gioco proprio la complessa relazione tra i testi prodotti dai fan e i testi prodotti dagli sceneggiatori della serie. Quello che accade in molti episodi di Buffy, in virtù della flessibilità narrativa di cui abbiamo parlato in precedenza, è infatti la concretizzazione di quelle che sono alcune delle modalità di interazione ricorrenti tra i fan e la serie, ovverosia la realizzazione di episodi che trattano proprio quei temi e quei possibili universi tanto cari ai fan. Ogni episodio di Buffy riconosce dunque l’esistenza e l’attività dei suoi fan, invitandoli a una lettura attenta e specializzata, sviluppando un linguaggio e uno stile visivo che i fan imparano presto a riconoscere e che a loro volta adottano nelle proprie produzioni [Larbalastier 2002]. Accade ad esempio nell’episodio Qualcosa di blu (Something Blue, stagione 4, episodio 9) dove la messa in scena di una storia d’amore tra due personaggi antagonisti (Spike e Buffy) attiva i meccanismi tipici della slash fiction tradizionale, che prevede che due personaggi apparentemente non passibili di divenire una coppia (la Slayer e il vampiro, appunto) vengano posti uno accanto all’altro. Le forme televisive seriali si aprono dunque ad una lettura di piacere, che vive secondo una modalità di godimento giocata sulla ripetizione, sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico, che è continuamente chiamato in causa, con allusioni e ammiccamenti. I personaggi e gli attori, pur appartenendo a due ordini di realtà in apparenza incompatibili, vengono allora interpretati come “vicini”. Il culto del programma è cura e interesse per loro, conoscenza dei dettagli della loro vicenda, interpretazione dei loro pensieri, citazione dei loro detti, imitazione, emozione per le loro peripezie. Gli spettatori di culto sanno benissimo che la traCosplaying
Fandom
Si tratta di una subcultura nata in Giappone e centrata sull’abbigliarsi come personaggi di manga, anime, serie e videogames. Il termine è il frutto di una contrazione tra “costume”, abito e “play”, giocare, ma anche recitare. In Giappone è un hobby diffuso con nutrite comunità di cosplayer che si ritrovano per ammirare i costumi altrui e mostrare i propri, fatti a mano da loro stessi, partecipando a gare per il miglior costume. Si pratica in situazioni pubbliche, come fiere dedicate a fumetti e videogiochi, ma anche feste a tema cosplay in locali notturni e parchi tematici. La tendenza più recente è in Giappone è l’aumento di popolarità del cosplaying legato a film e prodotti non giapponesi, per esempio le saghe cinematografiche Matrix, Star Wars, Il signore degli anelli, Harry Potter.
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smissione che li interessa così tanto è finzionale, ma ciò non diminuisce l’interesse che essi provano nei confronti dell’universo narrativo di riferimento e dei personaggi che lo abitano, come dimostra il proliferare di blog “gestiti” dai personaggi di una serie (come il blog di Hiro Nakamura, personaggio della serie Heroes, ora chiuso, ma per tutta la durata della prima stagione reperibile all’indirizzo http://blog.nbc.com/hiro_blog/) o i profili dei personaggi di una serie inseriti su social network quali MySpace o Facebook. I programmi di culto [Gwenllian-Jones e Pearson 2004, Monteleone 2005; Scaglioni 2006; Volli 2002] creano un delicato equilibrio fra realtà e surrealtà, che precede in certa misura uno sforzo analogo che sarà compiuto dai loro cultori. Le trasmissioni di culto non importano la realtà nella sfera della fiction televisiva, ma al contrario esportano questa nel comportamento, nelle abitudini, nella sfera del vissuto più intenso del suo pubblico. Si tratta infatti di creare non solo un luogo mentale riconoscibile, in cui sia possibile abitare a lungo, ma anche di regolare le interferenze e gli attriti che vi sono fra il mondo possibile del culto e quello reale, in maniera tale da permettere agli spettatori di usare il culto come un codice di interpretazione che permetta di conoscere e di filtrare la vita sociale.
3. La serialità nel sistema dei media Dopo aver ripercorso nel capitolo 1 le tappe dell’affermazione dei prodotti televisivi seriali, e dopo essersi soffermati nel capitolo 2 sulle peculiarità linguistiche, promozionali e di fruizione delle serie televisive, è ora utile approfondire l’analisi del ruolo di questi oggetti all’interno del sistema dei media, cercando di indagarne da vicino la rilevanza nella cultura contemporanea e l’influenza rispetto ad altre forme di racconto mediale. La storia dei media di massa è intrinsecamente legata al concetto di serialità poiché, come è stato sottolineato nel primo capitolo, processi di serializzazione sono stati adottati dall’industria dell’intrattenimento nei contesti più diversi: da quello cinematografico (i serial degli anni Dieci e Venti), a quello radiofonico (le soap opera), a quello, infine, eminentemente televisivo, (le soap opera migrate dalla radio alla televisione, ma anche le sitcom, le fiction, e i più recenti modelli di intrattenimento seriale, come reality show e lifestyle program). Le origini di questo legame vanno rintracciate all’interno della società occidentale e capitalistica del XIX e XX secolo, fortemente segnata dai processi di industrializzazione, urbanizzazione, tecnologizzazione e modernizzazione. È in quel contesto, infatti, che si manifesta il fenomeno noto come industria culturale. Sostanzialmente, anche la cultura e l’arte sono costrette a fare i conti con la tecnologia che permette la riproducibilità tecnica [Benjamin 1966], e dunque con una maggiore accessibilità, diffusione e circolazione di queste forme di sapere. Quan-
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do si parla di industria culturale si intende pertanto considerare la produzione culturale nei termini di una produzione industriale, massificata e standardizzata. Nel 1944, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer pubblicano Dialettica dell’illuminismo, in cui il termine industria culturale è usato per riferirsi a forme culturali definite non tanto da logiche creative, quanto piuttosto dalla logica dell’accumulazione del capitale, determinando una manipolazione del desiderio, funzionale a produrre consumatori. Sarà Edgar Morin in Lo spirito del tempo [1962], a porsi l’obiettivo di ridimensionare il ruolo della cultura alta, dando il via ad una operazione di rivalutazione della cultura di massa. In Italia questa tendenza sarà ben rappresentata da Umberto Eco che in Apocalittici e integrati [1964] interviene sulla questione, impostando un discorso sui mass media e a difesa della cultura di massa. Nonostante le accezioni negative che di volta in volta vengono attribuite all’idea di mass media e di cultura di massa, dunque, è possibile focalizzare meglio l’oggetto del discorso partendo da una definizione condivisa: per media di massa si intendono tutti quei mezzi di comunicazione che sono strutturati in modo tale da raggiungere un’audience molto vasta e, di norma, piuttosto indistinta. Tra i media audiovisivi cinema e televisione appartengono entrambi a questa categoria, ma è piuttosto evidente come il medium televisivo possa essere considerato, certamente più del cinema, un medium seriale per eccellenza, soprattutto considerando la conformazione narrativa e le modalità di programmazione che sono caratteristiche delle serie televisive studiate e analizzate nel primo e nel secondo capitolo. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, però, il processo di serializzazione non riguarda più soltanto le serie televisive, che pure costituiscono il principale oggetto del nostro interesse, ma sembra invece divenire caratteristico di tutta l’industria dell’intrattenimento. In particolare, in ambito televisivo si assiste all’affermarsi di alcune modalità di programmazione che determinano un importante cambiamento. L’ambito italiano rende bene l’idea di questo cambiamento: in quegli anni in Italia si va affermando la cosiddetta neotelevisione, termine coniato da Umberto Eco per indicare i programmi della tv pubblica negli anni Ottanta.Alla radice di questo cambiamento sta l’entrata in campo della concorrenza delle televisioni commerciali, che spingono la RAI a rinnovare profondamente le caratteristiche comunicative, i contenuti e il linguaggio dei suoi programmi. Questo cambiamento di indirizzo assume perciò un rilievo tale che, in contrasto con le caratteristiche assunte dalla neotelevisione, i programmi dei decenni precedenti verranno etichettati con il termine paleotelevisione. La neotelevisione abbandona dunque il modello pedagogico che aveva caratterizzato le sue trasmissioni negli anni Cinquanta e Sessanta e, per fronteggiare l’agguerrita concorrenza dei nuovi attori privati, punta particolarmente alla spettacolarizzazione e all’intrattenimento, con programmi che vengono a tutt’oggi ricordati per aver
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aperto la strada a un nuovo modo di fare televisione, tra i quali possiamo ricordare Pronto, Raffaella?, Quelli della notte, Telefono giallo. I palinsesti si allargano a dismisura arrivando, in breve tempo, a colonizzare tutte le ore della giornata, con programmi appositamente studiati per le diverse fasce orarie e per i pubblici corrispondenti.Ancora, con l’avvento della neotelevisione si riduce la distanza tra telespettatore e conduttore [Casetti 1988], il coinvolgimento dello spettatore all’interno dei programmi televisivi è sempre più intenso (con espedienti di vario tipo, dalle telefonate in diretta, ai programmi in cui gli spettatori e le loro storie diventano protagonisti) [Pozzato 1995], e la televisione si fa sempre più metatelevisione, diventando quindi sempre più autoreferenziale e aprendo la strada all’affermazione di programmi come Blob e Schegge, in cui è la televisione stessa a diventare protagonista [Bruno 1994]. In quegli stessi anni, la pervasività del seriale viene a coinvolgere anche altri ambiti televisivi. La serialità non è più una caratteristica dei formati che storicamente l’hanno adottata, sia dal punto di vista produttivo che dal punto di vista narrativo, ma si estende a tutti i generi televisivi, influenzando l’intrattenimento, così come i programmi di informazione e quelli con un carattere più spiccatamente culturale ed educativo. Quello a cui si va incontro, dunque, è un fenomeno di serializzazione dell’intrattenimento televisivo, che come abbiamo visto diventa la forma predominante della neotelevisione. All’interno del palinsesto è possibile rintracciare diverse tipologie di programmi, che possono però essere ridotte a due grandi macrocategorie: i programmi non prodotti appositamente per la tv e quelli di specifica produzione televisiva [Grignaffini 2004, 41].Alla prima categoria appartiene, ad esempio, il cinema, ma anche la trasmissione televisiva di un evento extratelevisivo (un concerto, un evento sportivo) caratterizzato da unicità e necessità di uno sfruttamento immediato.Alla seconda categoria appartengono invece tutti i programmi presenti nel palinsesto, appositamente costruiti secondo i criteri comunicativi e di fruizione del medium televisivo e che, di fatto, sottostanno a una logica di tipo seriale. Infatti, i programmi prodotti appositamente per la televisione sono caratterizzati da un forte grado di replicabilità, che riguarda sia la loro utilità ripetuta, sia la logica tipica della programmazione televisiva che presuppone la costruzione di appuntamenti ben scanditi all’interno della giornata o della settimana. I programmi televisivi non rappresentano un evento unico e irripetibile, ma sono invece caratterizzati dalla concatenazione in puntate settimanali o in più appuntamenti all’interno della giornata televisiva. Nel primo caso ci troviamo davanti ai talk show a cadenza settimanale (Ballarò, Le invasioni barbariche), ai programmi di intrattenimento (Per un pugno di libri, Che tempo che fa), ai programmi culturali (Ulisse). In questo ambito possiamo inoltre inserire anche tutti quei programmi che costituiscono, attraverso la concatenazione seriale, l’appuntamento quotidiano: pensiamo ad esempio ai programmi che occupano la fascia meridiana
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(La prova del cuoco), ai quiz serali (L’eredità, Affari tuoi), all’intrattenimento offerto da un programma come Striscia la notizia. In sostanza, i programmi che caratterizzano il medium televisivo sono costruiti secondo forme di concatenazione che presuppongono due tipologie di movimento: da un lato, la struttura dell’offerta televisiva prevede una concatenazione verticale, cioè relativa alla connessione tra i programmi inseriti nel palinsesto giornaliero, mentre dall’altro ogni emittente televisiva posiziona i programmi secondo una concatenazione orizzontale, cioè relativa al palinsesto settimanale, spesso ripetendo in striscia i programmi di giorno in giorno. Dunque, il processo di serializzazione – che abbiamo visto essere connaturato alla storia dei media di massa e che riguarda non solo le serie televisive ma in generale la programmazione mediatica – può essere sintetizzato intorno a tre punti fondamentali. In primo luogo, il processo di serializzazione riguarda i formati più tradizionali e cioè i prodotti cinematografici e le serie televisive di stampo più classico. A partire dagli anni Ottanta si assiste infatti ad un ritorno delle forme seriali al cinema, con serie di grande successo come Indiana Jones (I predatori dell’arca perduta, 1981; Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984 e Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989) e Ritorno al futuro (Ritorno al futuro, 1985; Ritorno al futuro parte II, 1989 e Ritorno al futuro parte III, 1990). Per ciò che riguarda le serie televisive, il modello di serialità più tradizionale viene rimesso in discussione attraverso un rimaneggiamento dei formati e del materiale narrativo che è noto come serializzazione della serie (vedi Profilo critico, 1.3). In secondo luogo, a partire dal periodo che abbiamo descritto, si avvia un meccanismo che instaura un “effetto alone”, che si sostanzia nell’espansione dei formati e dei contenuti seriali al di fuori dall’ambito circoscritto delle serie televisive, imponendo invece un’invasione e una colonizzazione del palinsesto da parte di programmi che appartengono alla più vasta categoria dell’intrattenimento. Si tratta dunque di un effetto che riguarda, ad esempio, i reality show che, nella televisione generalista, proliferano a partire dal momento stesso in cui vengono proposti. Inserito all’interno di un contenitore di tipo spettacolare e di intrattenimento, questo tipo di programma si espande e si allarga in molti altri contesti, eludendo lo spazio chiuso e circoscritto all’interno del quale dovrebbe rimanere confinato (l’isola, la casa, la fattoria etc.) e andando invece a occupare i più svariati spazi del palinsesto (dai telegiornali ai talk show, dai contenitori domenicali ai programmi di satira). Nel momento in cui questa colonizzazione ha luogo, nel momento in cui questo prodotto entra a più livelli nello spazio esperienziale del telespettatore, esso attiva a tutti gli effetti meccanismi di concatenazione seriale che rafforzano la convinzione che il processo di serializzazione in atto sia di buon grado allargato all’intero ambito mediale, piuttosto che circoscritto alla sola sfera delle serie televisive.
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L’effetto alone, infine, assume una forma ancora più complessa ai giorni nostri, attraverso l’instaurarsi di un processo di espansione transmediale che fa sì che i prodotti seriali televisivi esondino dai confini del medium per il quale sono inizialmente pensati e tendano invece a migrare verso altri media (Internet, i videogiochi, i telefoni cellulari). Siamo, in questo caso, nell’ambito della costruzione di prodotti multipiattaforma, basati su forme narrative transmediali, modulari e high concept (vedi Profilo critico, 2.2 e 2.3), per le quali il medium televisivo rappresenta semplicemente una sorta di punto di ingresso all’interno di universi finzionali molto più complessi e articolati. 3.1 L’innovazione tecnologica e l’esperienza mediale Un altro aspetto rilevante nelle nuove logiche della serialità in relazione allo scenario allargato dei media riguarda il rapporto tra innovazione tecnologica, modificazione delle forme seriali ed esperienza mediale.A partire dagli anni Ottanta, lo sviluppo del mondo dei media, dell’entertainment e, più in generale, dell’industria culturale, ha reso questo settore capace di attirare ingenti investimenti economici. Ciò ha provocato, come conseguenza principale, una serie di ristrutturazioni, sia nel senso di forti processi di aggregazione industriale, sia nella direzione della proliferazione di start-up caratterizzate da tecnologie e contenuti innovativi. Si registra dunque un forte aumento delle risorse destinate alla pubblicità e alle operazioni di marketing, con il fine di ottenere un incremento progressivo della visibilità delle merci culturali e garantire processi di fidelizzazione nei loro confronti. I testi dell’industria culturale sono sempre stati contornati da un ampio materiale paratestuale in grado di incrementare al massimo le possibilità di commercializzazione, diretta o parassitaria, di merci connesse ai prodotti audiovisivi stessi (videogiochi, novellizzazioni, romanzi, poster ecc.) e di orientare le strategie di consumo, segnalando le categorie di gusto in cui i testi andavano collocati e fruiti (critiche, commenti, trailer, promo televisivi ecc.). Oggi, però, a causa del proliferare delle strategie di integrazione tra i vari media, non è sempre scontato riuscire a distinguere tra testualità primaria (il testo, l’episodio di una serie ecc.) e testualità secondaria (il suo commento, la sua promozione). Sembra allora di trovarsi di fronte a un’inversione dei rapporti abituali, da un lato in termini quantitativi, poiché i siti che parlano delle serie tv, le strategie promozionali che ne segnalano l’esistenza, sono capaci di attraversare i media e di diffondersi con maggiore efficacia degli episodi stessi della serie e, dall’altro, in termini qualitativi. Infatti, oggi, certe forme di marketing virale delle serie tv, o segmenti di culture partecipative in rete a esse connessi, sono sempre più considerati occasioni di creatività, di originalità estetica, e a volte guadagnano un riconoscimento sociale autonomo: si pensi al caso di The Blair Witch Project, con la sua campagna promozionale in rete o ancora al rapporto tra Lost e Lost Experience. L’innovazione tecnologica ha poi esercitato una forte pressione su tutto il
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comparto mediale. Ma ciò non è sempre avvenuto secondo le direttrici indicate dalle previsioni. In passato si era prevista una sempre maggiore frattura tra vecchi media passivi e nuovi media interattivi, con una netta distinzione e successione tra i due universi. Ma ciò di cui ci si è resi conto è che i vecchi media non muoiono mai del tutto e, assieme ai nuovi media, essi cercano di ridisegnare se stessi. Lo stesso fenomeno della cultura convergente o della convergenza mediale, analizzato da uno studioso come Henry Jenkins [2007], è un insieme di almeno tre elementi: la circolazione di contenuti attraverso vari media, cioè la loro scalabilità; la cooperazione tra industrie dei media; il comportamento dell’audience che si sposta di tecnologia in tecnologia, di supporto in supporto per vedere e fruire ciò che sta cercando. Tutto ciò è reso possibile dallo sviluppo tecnologico, in breve, dalla rivoluzione digitale e dalla diffusione della rete, ma non è un caso che si parli appunto di “cultura convergente” e non di “tecnologia convergente”. Siamo davanti a un altro caso eloquente di previsione sbagliata. In passato gli studiosi erano stati propensi a ipotizzare l’imminente comparsa di strumenti in grado di convogliare in un unico sistema centrale una moltitudine di contenuti. Si è rivelato un errore, che Jenkins chiama «errore della scatola nera» (black box fallacy).Al contrario, infatti, i sistemi di diffusione hardware divergono e si assiste piuttosto alla proliferazione delle scatole nere, mentre sono i contenuti a convergere. In sostanza, le forme di convergenza non hanno riguardato tanto l’hardware come si era ipotizzato negli anni Novanta (la creazione di un unico dispositivo capace di trattare tutti i flussi mediali), ma hanno piuttosto riguardato il software (un unico contenuto in grado di adattarsi a più dispositivi). Le mutazioni più significative portate dalla convergenza mediale investono infatti il lato della produzione, quello della testualità e quello della fruizione. La digitalizzazione dei media ha generato un fenomeno di affrancamento dei contenuti dai supporti, secondo una dinamica che porta gli stessi contenuti audiovisivi a circolare (ed essere fruiti) su una grande molteplicità di canali e di supporti. Il fenomeno di diffusione di contenuti “scalabili” ha ricadute immediate sia in termini di una modificazione degli assetti complessivi dei formati narrativo-testuali, sia in termini di riadattamento dei contenuti dei media tradizionali. La messa in circolo di nuove forme seriali, a volte molto brevi e pensate per la diffusione via Web o su dispositivi mobili, ha portato a una notevole variabilità della scala delle grandezze dei supporti, sia verso la miniaturizzazione, in linea con i più diffusi processi di quotidianizzazione mobile (per cui i miniscreen, e le serie tv e gli eventi sportivi fruiti sugli schermi di palmari e cellulari sono l’equivalente, nella sfera mediale, di quel più ampio processo tecnologico che fa sì che anche agende, PC, sistemi di scrittura ecc. abbiano preso una dimensione portatile, si siano adattati all’ambiente quotidiano miniaturizzato grazie al quale l’uomo flessibile moderno rende mobile la propria domesticità), sia verso il recupero di una dimensione spettacolare aggiornata tec-
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nologicamente e volta al gigantismo (parchi a tema, I-MAX, megascreen ecc.). Quindi, se da un lato si riscontra l’emergere della riusabilità e della granularità dei contenuti, su un altro versante si impongono forme di spettacolarità inglobanti che si propongono o come contenitori modulari della testualità mediatica dispersa nei processi di quotidianizzazione mobile, oppure rispondono a logiche di partecipazione ad eventi mediatici in cui il processo di fruizione di un testo diventa parte integrante di un’esperienza totalizzante. Su un altro versante si assiste a processi di serializzazione dei media tradizionali e dei testi audiovisivi ad essi originariamente dedicati. Le forme tradizionali di serialità sono rimediate nel nuovo contesto tecnologico, come avviene sul Web, quando serie inizialmente pensate per il piccolo schermo vengono riformattate per la fruizione su schermi ancora più portatili in mini episodi di pochi minuti ciascuno (come abbiamo visto a proposito di fenomeni come webisodes e minisodes). Inoltre, ci sono degli effetti di ritorno che i processi di rimediazione hanno sulle dinamiche seriali dei media tradizionali, sia che si tratti di cinema, dove la logica della serie (che lo aveva pure ampiamente riguardato) assume contorni nuovi, per esempio quelli della estrema frammentazione per forme brevi (si pensi a un film come Sin City), oppure quella del “to be continued” (con cui, per esempio si stabilisce il passaggio da episodio a episodio in film come Matrix, Kill Bill, Pirati dei Caraibi); sia che si tratti di televisione, dove, accanto al fenomeno della nuova serialità centrale in questo libro (24, Dr. House, Heroes, Lost ecc.), si assiste al diffondersi della logica dei programmi interstiziali (come Camera Cafè), dove in genere i singoli episodi sono legati a una dinamica seriale per brevi blocchi, minimali per durata e per costruzione formale, in genere realizzati attraverso una o poche inquadrature fisse. Infine, sono osservabili notevoli cambiamenti sul versante della fruizione. Anche qui il problema è complesso. Da un lato infatti appare del tutto legittimo, anche a proposito dei new media, parlare di processi disciplinari, così come si è fatto, assai proficuamente, a proposito del cinema. Francesco Casetti ha ricordato di recente come il cinema funzioni nei termini di una pratica disciplinare: «se è vero che il cinema regola l’occhio, non regola nello stesso modo i corpi» [Casetti 2005, 283]. Nel medium cinematografico esiste una disciplina dell’occhio, lo sguardo è tenuto a seguire determinati percorsi. Eppure i rituali sociali imposti dalla frequentazione degli spazi di una sala cinematografica non sono rigidi o costrittivi, anzi essi spesso «rompono vecchie divisioni sociali, fanno lievitare le promiscuità...» [Casetti 2005, 283]. Al contrario, certe forme dello spettacolo audiovisivo contemporaneo costringono i corpi verso quel tipo di disciplina che il cinema non aveva voluto/saputo imporre loro. Si pensi agli apparati di contenzione nelle attrazioni dei parchi tematici, alla necessità di un posizionamento spaziale assai vincolante dello spettatore in alcune
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forme immersive (I-MAX, 3D, ecc.), all’insieme di sensori e dispositivi e interfacce che monitorano, tracciano, regolano il complesso dei movimenti dei giocatori in certi videogiochi. Per questa via non sarebbe difficile riconoscere allo scenario dei nuovi media un carattere di aggiornamento disciplinare nel quale, rispetto al cinema, la posta in gioco sarebbe proprio quella di passare da una disciplina dell’occhio a una disciplina del corpo, da una disciplina dei corpi sociali a una disciplina dei corpi individuali. È però del tutto evidente che oggi l’esperienza mediale configura anche possibilità di movimento, creatività e partecipazione inimmaginabili nello scenario degli old media. Le nuove tecnologie hanno favorito un processo di delocalizzazione e de-istituzionalizzazione dell’esperienza di fruizione: dai palmari, ai multiplex, passando per gli schermi dei computer, gli spettatori sono sempre più chiamati a definire le regole di interazione, i tempi, i modi, le situazioni d’uso dei prodotti audiovisivi. Inoltre, esse hanno reso più visibili e diffuse forme di partecipazione attiva, di discussione on-line tra appassionati, di contatto e influenza dei fruitori nei confronti di settori della produzione dei testi, al punto da indebolire la distinzione stessa produzione/fruizione. In realtà, oggi siamo di fronte a una crescita delle cornici di fruizione [Fanchi 2007]. E tali cornici sono definite da caratteristiche proprie delle piattaforme (la loro complessità tecnologica, la loro allocazione in una sfera più o meno privata, la loro “mobilità”, ecc.) ma anche dall’immagine sociale, che i fruitori costruiscono intorno alle piattaforme stesse, cioè dal modo in cui le usano (spesso le caratteristiche oggettive degli ambienti mediali sono ignorate o distorte dai fruitori). Si danno quindi diverse forme di esperienza mediale, ognuna caratterizzata da differenti cornici di relazione con i prodotti audiovisivi e le tecnologie di delivery.Accanto alla sopravvivenza di forme classiche, caratterizzate da relazioni intense tra spettatore e prodotto audiovisivo, fortemente regolate dalla tipologia del testo fruito, e marcate da dinamiche di fruizione comunitaria, ancora regolate da luoghi istituzionali come la sala cinematografica, i multiplex ecc, i palinsesti tradizionali, ve ne sono altre più aperte. Queste ultime sono caratterizzate da percorsi di visione individuali ed esplorativi, effettuati in un regime di attenzione variabile e non indirizzato in modo esclusivo a una sola risorsa. In quest’ultimo caso, le componenti di rottura sono più evidenti, poiché gli utenti riutilizzano i testi in funzione ludica e manipolativa, piegando gli oggetti mediali ai propri gusti e necessità. È l’universo degli User Generated Contents, della loro conquista di un sempre maggiore spazio mediale ed economico, ma anche dei blogger e delle comunità di fan, descritto anche in precedenza (vedi Profilo critico, 2.4), le cui potenzialità in termini di cultura partecipativa sono già state chiarite. 3.2 Spazio, tempo, durata La struttura modulare della serialità contemporanea contribuisce a ridefinire in gran parte concetti familiari alle teorie del racconto: espressioni
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come “compattezza diegetica” e “mondo arredato” perdono di significato o lo mutano. Una caratteristica dei testi conclusi è di presentare mondi diegetici perfettamente arredati e non modificabili. Lo spazio di un audiovisivo tradizionale (per esempio un film di genere) è aperto a varie possibilità combinatorie, ma finito e definito in modo stabile. La nuova serialità, invece, tende sia a spingersi oltre i confini tradizionali del format di provenienza, a sviluppare matrici di narrazioni che si propagano su diverse piattaforme, sia a predisporre, all’interno delle singole serie, mondi diegetici espandibili di continuo, cioè perfettamente definiti, arredati, ma non stabili. Abbiamo visto (Profilo critico, 2.2) come ci sia una differenza sostanziale tra un high concept cinematografico, che rimane in sostanza legato a un numero finito di situazioni o personaggi (universo implementabile, ma singolare), e le nuove serie caratterizzate da incessanti possibilità di ridefinizione del mondo diegetico. Nella neo-serialità si trovano appunto universi iper-diegetici: universi vasti, dettagliati, di cui solo alcune porzioni vengono di volta in volta perlustrate, ma di cui altre porzioni sono sempre suscettibili di ampliamento e ricostruzione. Possono comparire personaggi nuovi, altri possono sparire, possono imporsi nuovi mondi che non hanno a che fare con ciò che è stata la linea narrativa dominante, oppure l’intero universo diegetico e i rapporti che lo regolano possono essere riconfigurati nell’arco di due o tre episodi (è ciò che succede in Alias). Per questo tipo di fenomeni si è parlato anche di fiction deterritorializzata [Scaglioni 2006]. Ma gli universi diegetici delle recenti serie tv non sono solo mutevoli: sono anche duraturi. Cambiano e occupano tempo per farlo. Abbiamo a che fare con universi permanenti, cioè che durano nel tempo, che hanno una durata materiale con un forte potere di condizionamento delle risorse temporali dei fruitori. Gli spettatori cinematografici sono abituati a ricordare il tempo passato al cinema come una parte determinante dello scorrere delle proprie vite. Ed è pure vero che i cinefili, attraverso le ripetute visioni, come dice Enzo Ungari, inseguono «una specie di film infinito» [Ungari 1978, 14], cioè sanno mettere insieme un’esperienza di durata prolungata, di esposizione dilatata all’audiovisivo, creando una sorta di sovrapposizione tra tempo della proiezione e tempo della vita. Ma si tratta di una durata costruita. Con la nuova serialità questo tipo di durata è già data, connaturata all’organizzazione degli episodi. Le serie accompagnano, scandiscono le esperienze di visione per periodi ampi, per durate in grado di riguardare interi cicli dell’esistenza degli individui e di caratterizzare tali esistenze in termini transmediali (come abbiamo detto nel paragrafo 2.2, nell’epoca della convergenza gli spettatori sono invitati più che a vedere semplicemente una serie tv, a compiere un’esperienza che trascende i confini della fruizione situata). Da qui anche la necessità di sottoporre lo stesso tempo di visione a processi negoziali.A seconda quindi che ci si collochi all’interno di cornici di fruizioni tradizionali o più sperimentali, gli spettatori potranno accettare
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la temporalità di fruizione imposta dal palinsesto, ridefinirla e modificarla in modo lieve (magari posticipando l’orario di visione grazie a sistemi di videoregistrazione) o in modo assai marcato (ciò che avviene quando si segue un andamento fruitivo contratto, o al contrario estremamente diluito: 12 episodi in una sola notte o singoli episodi a scadenza mensile ecc.). D’altra parte, questo effetto di immanenza nel tempo, di durata che condiziona così fortemente le esperienze di fruizione e riguarda quindi il fronte esterno dell’uso sociale dei testi, ha un suo lato ben visibile nelle stesse strategie di costruzione testuale della temporalità interna all’audiovisivo. Nella nuova serialità il tempo rappresentato presenta una grande elasticità. Lo sfruttamento delle anacronie sfalda la compattezza del tempo discorsivo permettendo l’inserimento/sviluppo di filoni narrativi dotati di una propria temporalità alternativa.Anche in questo caso la dilatazione è virtualmente infinita (quanto il virtuosismo narratologico degli sceneggiatori). Se già in E.R.-Medici in prima linea ogni stagione presentava episodi ricalcati sui tour de force narrativi prelevati dalle stagioni cinematografiche coeve (episodi a frequenza ripetitiva; altri realizzati in coincidenza di tempo del discorso e della storia, con effetto di durata “reale”; oppure, come si è detto, con struttura a ritroso in stile Memento ecc.), è soprattutto Lost che, applicando ogni possibilità di intervento sull’asse del tempo, espande la temporalità in modo parossistico. Gli sceneggiatori di Lost, sfruttando il meccanismo narratologico dell’ampiezza e della portata variabile delle anacronie, trattano il passato dei personaggi come serie di universi senza fondo, nei quali è legittimo immergersi totalmente, recuperando sempre diversi segmenti di esperienza. Inoltre vengono attivati nuovi filoni narrativi costruiti sul vissuto di personaggi fino a quel momento semplici comparse. In questi casi, interi archi narrativi sono percorsi più di una volta rispettando, caso per caso, il punto di vista di un personaggio differente (sfruttando quindi al massimo le potenzialità offerte dalla frequenza ripetitiva). L’effetto è quello di trovarsi di fronte a mondi che non solo moltiplicano gli spazi, che si aprono su altri mondi arredati i quali, a loro volta, si concatenano con altri universi possibili, ma che lo fanno dilatando in modo virtualmente inesauribile la linea temporale. Nelle serie non si ha più a che fare con oggetti conclusi temporalmente, la dilatazione è illimitata, l’orizzonte ultimo è una sorta di potenziale eternità. Le conseguenze possono essere di un certo rilievo. Consideriamone una esemplare: la rappresentazione della morte. Al cinema, bene o male, la morte esiste. Nel senso che è un accadimento puntuale, che, come diceva André Bazin [1973], può ripetersi ogni pomeriggio, a ogni nuova proiezione, ma che in se stesso ha la consistenza di un evento unico, concluso. Nella serialità televisiva, e in particolar modo nelle sue forme più recenti, la morte si inscrive in un’economia simbolica differente. Non sono tanto interessanti i casi di personaggi “resuscitati” a seguito degli andamenti incerti degli ascolti (fenomeni già accaduti nell’universo delle soap),
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quanto piuttosto le strategie con cui si “fa morire” un protagonista all’interno di una serie serializzata. ER è un caso emblematico. Come è noto a tutti gli spettatori della serie, il Dott. Greene, uno dei personaggi principali, muore nell’episodio 21 dell’ottava stagione. Ma questo evento non ha alcuna traccia di unicità. È vero che il Dott. Greene non tornerà più tra le corsie del Policlinico di Chicago. Ma la sua presenza nella serie sarà richiamata attraverso l’uso dei flashback negli episodi successivi, creando anche in questo caso una sorta di effetto alone sugli archi narrativi a seguire. Inoltre si tratta di una morte non solo protratta, ricordata ex post, ma anche annunciata, pubblicizzata con largo anticipo, con un posto centrale all’interno delle strategie promozionali della serie (si pensi, per fare un altro esempio, al richiamo mediatico suscitato anche dalla morte annunciata di Maude Flanders nell’episodio 14 della undicesima stagione dei Simpson). D’altra parte gli spettatori con buona memoria ricordano che, prima della scomparsa di Greene, altri protagonisti erano improvvisamente caduti vittime di incidenti mortali (nella sesta stagione un folle uccide in ospedale Lucy e riduce Carter in fin di vita). In questi casi di morte “a sorpresa”sembrerebbe che la scomparsa del personaggio rispetti la logica dell’accadimento puntuale, ma in realtà anche qui abbiamo una sovraesposizione dell’evento che gli toglie unicità. Non solo infatti anche questi personaggi possono “scavalcare” la morte tornando negli episodi successivi (attraverso il sistema dei flashback), ma la loro stessa scomparsa, con lo shock cui sottopongono gli spettatori poco abituati a processi quasi proibiti in termini di convenzioni di genere, permette alla serie di “vivere di rendita” molto a lungo, per esempio rinegoziando tutti i parametri di attese e prevedibilità del racconto (è ciò che succede anche in 24, con la morte di David Palmer e Michelle Dessler nel primo episodio della quarta stagione e con Prison Break all’inizio della terza stagione). Anche in questi casi quindi la morte entra a far parte di un sistema di risorse, e di sfruttamento di potenzialità narrative che la serializzano, la dilatano. Del resto questa forma di serializzazione della morte diventa evidente nei videogiochi, in cui le vite stesse possono essere enumerate e la fine prelude sempre a un nuovo inizio. Insomma: non si muore mai realmente nelle serie tv, o, quanto meno, è possibile non farlo. 3.3 L’eredità del fumetto Nel ricostruire le origini delle forme narrative seriali e nel posizionarle all’interno dell’evoluzione del panorama mediale (vedi Profilo critico, 1) abbiamo accennato a una questione che è opportuno riprendere in questa sede, poiché è strettamente connessa al peso delle forme seriali nel sistema dei media. In quel paragrafo si faceva infatti cenno al rapporto che intercorre tra il fumetto e le narrazioni seriali, individuando proprio nel fumetto un importante antesignano di questo modello narrativo. Innanzi tutto, dobbiamo ricordare che tra l’inizio degli anni Quaranta e gli anni Sessanta l’affermazione del fumetto negli USA è particolarmente
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intensa. Sono gli anni in cui Superman e Batman divengono l’emblema del racconto per immagini, a cui si affiancheranno, all’inizio degli anni Sessanta, Spider Man, I Fantastici Quattro e gli X-Men. La popolarità di questi personaggi raggiunge livelli particolarmente elevati, stabilendo questa forma di racconto come una delle forme dominanti del ventesimo secolo. La passione dei lettori nei confronti di questi personaggi fa sì che gli albi che raccontano le loro vicende divengano presto materiali per collezionisti, stimolando l’industria dei media a inaugurare prodotti e materiali direttamente rivolti a questa tipologia di pubblico, proprio come accade oggi attraverso le forme di fandom legate alla serialità televisiva (vedi Profilo critico, 2.4 e 3.5). È allora evidente come al giorno d’oggi almeno due delle principali caratteristiche del fumetto americano vengano ereditate dalle forme narrative seriali televisive. Le serie televisive, infatti, dal punto di vista sociologico vengono a sostituire nell’esperienza e nell’uso, il ruolo che in passato era appartenuto al fumetto. C’è una contiguità culturale forte tra questi due oggetti che, benché appartengano a due universi per certi versi ben distinti, hanno comunque una funzione, un ruolo culturale, analogo. La prossimità che esiste tra questi due prodotti dell’industria dell’intrattenimento è ben dimostrata da due esempi, che suggeriscono come il reticolo che lega la funzione, i modi del racconto e i pubblici del fumetto e delle serie tv sia particolarmente intricato. Il primo esempio riguarda Buffy, serie televisiva che abbiamo nominato più volte in precedenza per svariate ragioni. Buffy è stata infatti, tra il 1998 e il 2003, anche una serie a fumetti prodotta in parallelo agli episodi televisivi. Oltre alla serie regolare, sono state prodotte anche numerose miniserie e albi singoli con storie autoconclusive, mentre gli eventi narrati nella serie a fumetti, benché possiedano una precisa collocazione all’interno della cronologia della serie, non hanno influito sulla costruzione dei plot del prodotto televisivo. Ma non è tutto, poiché dopo la conclusione della serie televisiva, avvenuta nel 2003 alla sua settima stagione, il suo ideatore Joss Whedon ha sceneggiato una serie a fumetti, intitolata Buffy the Vampire Slayer - Season 8, che dal punto di vista narrativo prende le mosse dalla conclusione della settima stagione della serie televisiva. Di fatto, questa serie a fumetti si pone come l’ottava stagione della serie e ha una durata prevista di 25 episodi, analoga alla durata standard di una stagione televisiva. La migrazione di personaggi e contenuti tra un medium e l’altro è qui particolarmente evidente e riflette anche un certo grado di flessibilità del pubblico dell’industria culturale, che si rivolge pertanto a oggetti diversi che vengono ad assolvere analoga funzione di intrattenimento all’interno dell’offerta mediale contemporanea. Un altro esempio del rapporto intenso che caratterizza fumetto e serie, nonché dell’importanza assunta dalla serie televisive come forma che in qualche maniera prosegue il lavoro iniziato dal fumetto a partire dagli anni Quaranta, è rappresentato dalla scelta di presentare le serie televisive in
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anteprima al Comic Con International di San Diego. Il Comic Con è una manifestazione annuale, una convention di fan che dagli anni Settanta si rivolge agli appassionati di fumetti e di fantascienza. Nel corso degli anni la manifestazione si è allargata ad altri ambiti dell’industria culturale, includendo tra i suoi eventi un’ampia gamma di prodotti della pop culture, tra i quali sono state incluse anche le serie televisive. Negli ultimi anni, dunque, i maggiori network americani produttori di serie tv hanno costruito all’interno del Comic Con appositi spazi nei quali promuovere, far conoscere e far circolare i loro prodotti. NBC, ad esempio, ha presentato in anteprima nel 2006 il pilot di 72 minuti di Heroes, mentre nel 2007 ha utilizzato la medesima vetrina per proporre nuove anticipazioni su questa serie e sulle sue diramazioni intermediali, tra cui uno spin-off, per ora solo annunciato, chiamato Heroes: Origins, e i webcomics che accompagnano settimanalmente la messa in onda dell’episodio televisivo, approfondendo archi narrativi lasciati oscuri e la versione a stampa del fumetto tratto dalla serie. La presentazione delle serie televisive in appositi panel dedicati all’interno di questa frequentatissima convention sembra essere dunque la prova di un rapporto tra fumetto e serie tv che va a coinvolgere direttamente i fruitori delle due tipologie di prodotti. Si tratta infatti di un gruppo vasto di potenziali spettatori composto da persone che condividono un comune interesse nei confronti dei fumetti. Offrire in queste occasioni delle anteprime del proprio prodotto significa infine, per il network televisivo, attivare forme di passaparola e di marketing virale che sono in grado di scatenare l’attenzione e l’interesse nei confronti del proprio prodotto. Ancora, il fumetto ha un ruolo importante di antesignano rispetto a modalità narrative che sono diventate tipiche delle serie televisive. Al livello della narrazione e della dimensione diegetica delle serie televisive a cui abbiamo fatto riferimento (vedi Profilo critico, 1.3) è infatti ben evidente il debito di molte serie televisive contemporanee (un esempio su tutti, Heroes) nei confronti della narrativa multistrand e delle caratteristiche dei personaggi tipiche del fumetto americano. In particolare, l’autoconclusività tipica delle serie televisive più tradizionali viene ridimensionata dall’acquisizione di una maggiore libertà sulla gestione degli archi narrativi e sull’inserimento di narrazioni multilineari che tengono aperte le più varie possibilità di costruzione delle storie e dei personaggi. La struttura narrativa di Heroes, ad esempio, si pone in linea con lo stile di numerosi comics americani, con episodi caratterizzati da una molteplicità di archi narrativi, i cui fili si intrecciano sapientemente fino allo scontro finale tra il bad guy Sylar e gli eroi Peter Petrelli e Hiro Nakamura nell’episodio conclusivo della prima stagione, che proprio come accade nei fumetti lascia aperte svariate porte, imposta il meccanismo di serializzazione su un arco narrativo ancora più lungo della singola stagione e apre la strada a ritorni, rinascite e resurrezioni, anticipando l’avvento di un cattivo ancora più temibile e pericoloso di Sylar. Inoltre, i protagonisti di
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Heroes sono persone normali, con personalità poco appariscenti e storie come tante: sono infermieri, poliziotti, spogliarelliste, timidi orologiai e giovanissime cheerleader. Ma come i comics ci hanno insegnato,“grandi poteri comportano grandi responsabilità”. E infatti, dietro alla apparente normalità dell’occhialuto Clark Kent o alla goffaggine di Peter Parker si celano un superuomo e un uomo con i sensi di ragno. Una lezione ben tenuta a mente da Kring e dagli sceneggiatori di Heroes, che delineano perciò le vicende di una stirpe di eletti, di eroi straordinari, catapultati da imprevisti poteri e da incredibili abilità in un’avventura più grande di loro. Alcuni hanno evidenziato la diretta dipendenza della costruzione dei personaggi di questa serie dai fumetti Marvel, dal momento che molti dei personaggi di Heroes scoprono i loro poteri superiori in modo molto simile a quanto accade per i personaggi dei fumetti Marvel negli anni Sessanta, come Spider Man e gli X-Men. Questa scoperta è, prima di tutto, un processo esistenziale attraverso cui persone giovani e prive di esperienza imparano a conoscere se stessi grazie alla scoperta delle loro abilità speciali [Porter, Lavery e Robson 2007].Abilità che, appunto, consistono nella capacità di rigenerare i propri tessuti, di leggere il pensiero, di volare o prevedere il futuro, di teletrasportarsi avanti e indietro nel tempo, come spesso accade ai protagonisti dei fumetti Marvel. Del resto la derivazione fumettistica è ampiamente tematizzata nella narrazione stessa della serie che vede tra i protagonisti proprio un disegnatore di fumetti, le cui tavole hanno un ruolo di tutto rilievo nel dipanarsi dell'intreccio e vengono spesso mimate o raddoppiate nella composizione figurativa del testo. A proposito di Heroes, inoltre, è anche il caso di ricordare che, oltre alle analogie tematiche della serie con molte serie a fumetti, vanno sottolineate anche alcune analogie strutturali. Episodi e stagioni della serie televisiva vengono chiamati con una terminologia diversa: ogni episodio è in realtà un capitolo.Tutti i capitoli vengono poi riuniti in volumi. Il primo volume, Heroes: Genesis, raccoglie tutti i 23 episodi della prima stagione, fino a pochi minuti prima della fine dell’ultimo episodio, How to Stop an Exploding Man.A questo punto compare la scritta End of Volume One e inizia il volume 2, Heroes: Generations. Infine, nel ricordare i punti di contatto e, soprattutto, la funzione analoga a quella del fumetto che molte serie televisive hanno assunto nel panorama contemporaneo, è opportuno richiamare come la relazione tra fumetto e serie passi anche attraverso la tendenza, condivisa da entrambi, a creare universi finzionali con uno statuto peculiare, fantasmagorico e proiettivo. Il continuo fiorire di storie alternative, parallele, con personaggi ulteriori che in qualche modo sono legati al personaggio centrale, i ritorni di antagonisti creduti morti che sviluppano storie altre, il costante riformulare la struttura stessa della storia, il continuo proliferare di elementi che sono elementi disturbanti rispetto alla linearità, portano alla costruzione di un universo tutto sommato inconsistente dal punto di vista temporale (vedi Profilo critico, 1.1).Tutto questo crea, nel fumetto prima e nelle serie
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televisive poi, un clima fortemente onirico perché la logica non è più quella della concatenazione per consequenzialità temporale, ma è una concatenazione costruita piuttosto per contatto, per somiglianza. Tutte queste inconsistenze si tengono assieme, quindi, in una logica che non è più una logica di causa ed effetto prestabilita, ma è invece una logica onirica. Tra le serie che funzionano secondo questo meccanismo possiamo annoverare Heroes, Buffy, Lost; ma molte altre, anche di stampo più realistico e più fortemente ancorate alla verosimiglianza delle storie narrate, hanno sperimentato in questo senso: pensiamo ad esempio a Dr. House nell’episodio Mr. Jekyll e Dr. House (No Reason, stagione 2, episodio 24), interamente costruito sulle allucinazioni vissute dal diagnosta dopo essere stato colpito da un proiettile, o all’episodio Top Secret (stagione 3, episodio 13) nel quale è un sogno di House a fungere da elemento chiarificatore per risolvere la patologia del paziente. La presenza di immagini di tipo proiettivo, che fungono da immagini vicarianti di un’azione, è significativa nel fumetto, e viene ereditata anche dalla serialità televisiva, dove sogni, immagini mentali, apparizioni, vere e proprie fantasmagorie, irrompono nello sviluppo narrativo canonico del prodotto seriale minandone la logica interna, a vantaggio della fascinazione esercitata sullo spettatore costretto, piacevolmente, a sospendere l’incredulità e a lasciarsi catturare dalla complessità degli universi finzionali. Potremmo dunque dire che le serie ereditano dal fumetto sia un ampio bagaglio tematico e narrativo, sia un’abitudine di fruizione fortemente radicata nella durata, scandita dalla periodicità degli albi e degli episodi, dilatata nel tempo e commisurata non più alla singolarità dell’esperienza, ma alla continuità della fruizione. 3.4 Reale, reality, fiction I processi che portano a effetti di fiction deterritorializzata e a frame spazio-temporali persistenti, duraturi, producono, tra le altre cose, una conseguenza sull’opposizione classica realtà/finzione: «[...] la metafora dello zoo [...] è quella che viene spontanea appena si entra:“vietato dare da mangiare agli animali”è la battuta standard con cui ti accolgono gli operatori. Dello zoo e dell’acquario: perché è tutto vetri (che per gli abitanti della casa sono specchi), e se non hai le cuffie non senti da dentro il minimo rumore. Si ha persino l’impressione che si muovano al ralenti, appunto come se fossero sott’acqua [...]: in effetti, la coscienza mai subliminalmente eliminabile di trovarsi sotto le telecamere, e il tempo desolatamente vuoto, rallentano tutti i movimenti – ci mettono tre minuti per accendersi la sigaretta, e dieci per cambiarsi i calzoni» [Siti 2006, 168]. Con queste parole Walter Siti, un saggista-romanziere, in un libro quasi per intero ambientato nel mondo della televisione contemporanea (un libro che è già in sé in bilico tra diario e fiction), descrive la sensazione derealizzante che assale chi assiste dal vivo alla messa in scena di un reality televisivo (qui si tratta di un dietro le quinte della prima edizione italiana del Gran-
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de Fratello).Anche fuori da una situazione così specifica, pare proprio che la distinzione realtà/fiction si indebolisca, venga meno sulla scena mediale contemporanea: è un processo osservabile su entrambi i versanti del binomio. Da un lato si va verso una sorta di soapizzazione di programmi che nascono in ambito reality. In generale gli stessi reality show incorporano tecniche di riarticolazione narrativa proprie della fiction (riassunti, selezioni, sequenze ed episodi a carattere tematico) e di altri generi televisivi. Gli stessi individui che li abitano, pur essendo presi dalla vita “reale”, nell’immensa disponibilità di tempo davanti alle telecamere si conformano a stereotipi, reagiscono a stimoli “tipicizzanti” proposti dagli autori e dalla produzione, decidono di attivare programmi narrativi in grado di far ottenere la vittoria in eventuali competizioni (le storie d’amore tra concorrenti in genere salvano i medesimi dal meccanismo del televoto ecc.). Inoltre i reality si espandono su tutto il palinsesto, vanno ad alimentare con i propri contenuti altri programmi, si ibridano con altri format. Dall’altro lato la serialità finzionale, grazie appunto ai suoi fenomeni di durata e persistenza, comincia a funzionare come una cosa reale. Non si tratta di un “creder vero”. Quanto piuttosto di una funzione d’uso. Quasi tutti gli spettatori sanno benissimo che gli eventi e gli esistenti che si manifestano e accadono sullo schermo non hanno la stessa consistenza ontologica degli eventi e degli esistenti che abitano le loro vite. Ma usano quegli eventi e quegli esistenti come pezzi d’esistenza reale, li fanno entrare nelle loro giornate (nelle conversazioni, nelle interazioni quotidiane) in funzioni del tutto simili a quelle riservate alle cose del mondo reale. In altri termini, li usano come risorse relazionali ed esperienziali, come merce di scambio tra individui e come modelli di interpretazione di situazioni della realtà.Tutto ciò non segna necessariamente il passaggio a un’epoca in cui l’immagine, il virtuale uccide la realtà, la copre di segni, la rende irriconoscibile, come alcune riflessioni di stampo apocalittico hanno ritenuto di dover profetizzare. Il mondo dei media pare piuttosto essere un mondo sempre più additivo rispetto al mondo reale, non sostitutivo. Con la nuova serialità nell’ambito della convergenza mediale si portano a compimento processi che avevano avuto la loro prima spinta con la diffusione di media elettronici come la televisione: con il venir meno delle barriere tra testualità ed esperienza di vita si diffondono sempre più pratiche di interazione para-sociale. Gli spettatori in qualche modo interagiscono con queste figure persistenti e prossime che abitano il mondo finzionale, come se fossero “amici mediali” [Meyrowitz 1995]. L’obiezione che si può fare a un simile quadro è che già da tempo i cultural studies hanno documentato le varie forme di consumo produttivo e di uso dei testi audiovisivi da parte dell’audience, in alcuni casi [Fiske 1989] anche i processi attraverso i quali pubblici specifici sanno trarre piaceri e vantaggi da programmi pensati per rispecchiare i valori dominanti. D’altra parte gli studi sui consumi e la memoria culturale [Forgacs e
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Gundle 2007; Kuhn 2002] ci mostrano come già dalle prime fasi di diffusione dell’industria culturale il pubblico abbia saputo “vivere” divi, attori, personaggi mediali in termini di prossimità, di vicinanza, di intimità (l’attore percepito come un fratello, l’attrice esperita come compagna di vita ecc.). La cosa poi non avrebbe fatto altro che propagarsi con l’epoca dei media elettronici (non a caso l’espressione “amici mediali” risale agli anni Ottanta). Ciò non di meno ci sono almeno tre fattori che differenziano in modo piuttosto marcato i nuovi modi di fare esperienza reale dei mondi e dei personaggi della serialità dalle dinamiche appena ricordate. In primo luogo c’è un fenomeno quantitativo. Le dinamiche di fandom o anche di attaccamento appassionato ai racconti seriali non sono più fenomeni di nicchia. Come ci ricorda Massimo Scaglioni (quarta sezione dell’antologia), i venti milioni di spettatori di Lost fanno qualche differenza.Vecchi serial e soap entravano nei palinsesti con collocazioni precise, target piuttosto definiti (in termini di età e gender) ma in un contesto culturale marcato da un certo grado di disapprovazione sociale: gli studi sul consumo ci dicono che, per esempio, spesso la lettura di romanzi rosa e la visione di soap opera sono state percepite dalle casalinghe come attività da nascondere [Colombo e Eugeni 2001]. Oggi non solo certe sezioni del pubblico da tv generalista hanno sempre meno importanza, ma, con la diffusione del Web e della cultura partecipativa, come abbiamo visto, il pubblico appassionato (che ragiona in termini di “amici mediali” nei confronti dei personaggi della nuova serialità) ottiene la sua rivincita. In generale la dimensione cultuale dell’esperienza audiovisiva passa dall’essere un effetto collaterale delle dinamiche di consumo a essere un modello di tendenza. In secondo luogo, i nuovi fan, oltre a essere più numerosi, costituiscono comunità visibili, visitabili, socialmente testualizzate (siti Web, blog, riviste on line, liste di discussione) dove si attribuiscono interpretazione e valore ai personaggi mediali in modo esplicito. Inoltre essi (e questo è un elemento di reale novità) non si limitano a fruire brani di cultura popolare riconducendoli alle proprie esperienze in termini di analogia e prossimità, piuttosto intervengono su queste vite finzionali cercando di modificarne il corso, scrivendone varianti possibili, sviluppando percorsi autonomi, giocando con la logica del what if. Il grado di partecipazione innescato dalla cultura convergente non può essere trascurato. Misery non deve morire di Stephen King racconta la storia di uno scrittore che viene imprigionato e torturato da una sua fan affinché resusciti l’eroina di un ciclo romanzesco del quale l’autore aveva decretato la prematura fine. I nuovi fan e blogger riescono a fare giorno per giorno ciò che in Misery non deve morire il protagonista vive come un incubo. Riescono cioè a porsi come interlocutori privilegiati anche nei confronti di settori specifici dell’industria dei media (gli autori, gli sceneggiatori delle serie ecc.). Del resto, la carceriera del protagonista di Misery è una folle sociopatica. Mentre oggi i fan, come mostra Scaglioni, sono un fenomeno sempre più
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mainstream, diventando raffinati interpreti, lasciandosi dietro gli ultimi residui di un’immagine di sé ormai anacronistica che li rappresentava sempre come un insieme di disadattati patologici e ossessivi. In terzo luogo il modo in cui si determinava in passato il rapporto tra consumatore e star cinematografica è diverso da quello che regola il rapporto tra spettatori convergenti e nuovi eroi della serialità. Chi ha studiato i meccanismi di costruzione della star classica in termini di relazione tra immagine e discorsi/tipologie sociali ha messo in evidenza come, in definitiva, l’emergere del divo e il consumo della sua immagine si basino su un meccanismo di ostentazione ripetuta della star. In questo senso la star risponde ancora a una logica fordista della replica. Il divismo contiene un meccanismo seriale classico: il divo attore deve rispettare nella propria evoluzione e nella scelta delle parti future delle caratteristiche di ripetizione e riconoscibilità molto marcate (che definiscono e canonizzano la sua star-image). Per dirla nei termini usati da Casetti (vedi Documenti, Alle origini del percorso teorico: gli studi sulla serialità in Italia tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta), l’elemento di ripetizione predomina su quello della successione lineare. Nella nuova serialità invece il personaggio non è l’occorrenza ripetuta di un type ideale stabile, bensì un elemento puntuale collocabile in un continuum, un segmento inserito in modo forte in una concatenazione di tipo sintagmatico. Insomma, il contesto postmoderno impone un superamento della replicabilità propria della produzione industriale a vantaggio della successione e della connessione di frammenti: la concatenazione seriale conta più della ripetizione. Ciò evidentemente è il frutto, tra gli altri elementi, delle nuove strutture ad archi narrativi e il tutto ridisegna in termini più aperti e ricchi le tipologie di rapporto tra evoluzione dei personaggi mediali e fruitori delle serie. 3.5 Verso i media-community A fronte di quanto proposto in precedenza, in particolare nei paragrafi 2.3 e 3.1, è piuttosto evidente come alcune caratteristiche tecnologiche dei media contemporanei suggeriscano un mutamento di paradigma, all’interno del quale il modello offerto dalla televisione seriale si trova particolarmente a suo agio. Innanzitutto la delocalizzazione, che come abbiamo visto nel paragrafo 3.1 è un fenomeno che riguarda il cambiamento nelle strutture della fruizione dei prodotti dell’industria dell’intrattenimento. Tra le ragioni che sottostanno al verificarsi di questo cambiamento è senz’altro possibile annoverare il sempre più stretto legame con le nuove tecnologie, che puntano verso una miniaturizzazione dell’hardware. In tal modo, si assicura all’utente la possibilità di portare con sé, in qualsiasi situazione, le apparecchiature necessarie al consumo di prodotti di intrattenimento, consentendo una praticità di visione che si alimenta anche grazie alla struttura narrativa scalare e modulabile che contraddistingue i prodotti seriali.
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Tra le conseguenze di questo significativo cambiamento è importante ricordare il venire meno di una fruizione istituzionale, legata ad una struttura rigida e inflessibile come il tradizionale palinsesto. Il processo di delocalizzazione (e di digitalizzazione) offre al consumatore la possibilità di immagazzinare contenuti che potranno essere fruiti nelle più diverse circostanze e attraverso i mezzi di comunicazione e le piattaforme tecnologiche più disparate. Prendiamo ad esempio proprio una serie televisiva: essa può essere registrata su supporto digitale tramite DVD Recorder, scaricata sul proprio computer attraverso programmi di file sharing, resa disponibile su supporto DVD, visionabile attraverso sistemi di televisione peer-to-peer come Joost. In seguito, essa può essere visionata in qualunque momento sul proprio televisore domestico, ma anche in treno su un computer portatile o tramite il proprio lettore portatile di file multimediali. La ritualità connaturata alla modalità di fruizione palinsestuale, la logica dell’appuntamento fisso che determinava in passato la composizione della giornata televisiva, viene completamente sovvertita dalle nuove tecnologie e dalle nuove modalità di relazione che si vengono a creare tra utente e medium. Dunque è chiaro che a cambiare non sono solamente le piattaforme mediali e i contenuti che ad esse si adattano, ma cambiano anche gli spettatori [Casetti e Fanchi 2006], sempre più spesso ingaggiati all’interno di una relazione dinamica con i prodotti dell’entertainment (vedi Profilo critico, 2.3 e 2.4). Si potrebbe ipotizzare che esistano al giorno d’oggi tre forme di relazione con il medium, che, a ben guardare, sembrano convivere. Non si tratta, ovviamente, di rigide caselle all’interno delle quali trovano posto tutte le offerte del panorama mediale, ma piuttosto si tratta di tre tendenze che restituiscono un panorama composito e in continua evoluzione, ma nel quale sopravvivono, appunto, anche modalità di relazione e di fruizione più tradizionali. In primo luogo c’è, storicamente, una televisione generalista in cui domina la logica del palinsesto. Questa televisione si fonda su un’idea di televisione esperienziale, cioè sull’idea che la programmazione televisiva in qualche modo debba entrare a far parte dell’esperienza del singolo, del suo ritmo quotidiano, della scansione dei suoi tempi di vita [Zerubavel 1985]. Questa modalità coincide dunque con l’idea di un medium-palinsesto, di una televisione focolare intorno alla quale ritrovarsi. Benché in varie occasioni superato, questo modello resiste ancora, ad esempio, nella programmazione delle tv satellitari. Se pensiamo a Fox, Fox Life e Fox Crime all’interno del pacchetto Sky, ci rendiamo conto di come ancora oggi questi canali televisivi siano costruiti sulla logica del palinsesto e dell’appuntamento fisso, occupato in particolare proprio dalle serie televisive sulle quali questi tre canali incentrano la loro programmazione. A riprova di tale approccio vale la pena ricordare il fatto che il pacchetto Sky offre la versione “+1” di tutti e tre i canali, nei quali è possibile ritrovare l’intera offerta del palinsesto, solo ritardata di un’ora nella programmazio-
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ne. Il loro palinsesto è scandito da blocchi testuali chiusi, moduli giustapposti dove i programmi non fungono da cerniera tra un blocco testuale e l’altro, come invece accade per la televisione generalista in cui persistono, come vedremo a breve, pratiche di hammocking (collocazione di un nuovo programma tra due programmi di successo, in modo da garantire continuità in termini di flusso di ascolto) e traino, cioè strategie di organizzazione di una serialità allargata e diffusa all’interno del flusso mediale. Il secondo modello, che coincide fortemente con quel passaggio che in Italia è noto come neotelevisione (vedi Profilo critico, 3), riguarda la trasformazione del medium-palinsesto, caratterizzato dall’essere una sorta di contenitore di oggetti testuali ben definiti e identificati, a una forma che potremmo chiamare di medium-flusso. La televisione di flusso, in buona sostanza, è una forma di televisione in cui il legame e la concatenazione seriale tra gli oggetti che la compongono si fa sempre più spiccato. I diversi programmi che la occupano sono infatti sempre più concatenati tra loro (con rimandi incrociati e strategie linguistiche che puntano a mantenere fedele il pubblico). Le cesure tra un programma e l’altro si fanno sempre più vaghe e indefinite, lo spettatore si trova davanti a un macro-contenitore all’interno del quale l’offerta diviene sempre più indistinta e nella quale la televisione si fa, come abbiamo già sottolineato, sempre più autoreferenziale. È questo il caso dei canali televisivi generalisti, dove ogni programma viene introdotto da quello che lo precede, pensiamo ad esempio alle anticipazioni fornite nell’ultima parte del Tg serale rispetto al prime time televisivo (traino). Come nota Gerbner [1994, 389] per la maggior parte del pubblico televisivo l’esperienza di visione è relativamente non selettiva: le dinamiche di scelta sono scandite dalla propria disponibilità in termini di tempo e dalla relativa corrispondenza con l’offerta mediatica, piuttosto che da una accurata selezione del programma da vedere. Ma c’è un terzo modello di programmazione, che riguarda più da vicino la contemporaneità e che include al suo interno i prodotti seriali a cui ci siamo dedicati nel corso di questa analisi. Si tratta, fondamentalmente, di una forma che potremmo chiamare di medium-community, strutturata intorno a una programmazione che punta a creare una relazione e una forma di tipo comunitario, proprio come accade, per esempio, con le comunità virtuali nell’ambito dei nuovi media. In questo modello, la relazione tra medium e spettatore è costruita sulla prossimità e sulla continuità che scaturisce dal testo, quello seriale in particolare, ma l’organizzazione delle regole e dei tempi di fruizione è autonoma rispetto a quanto imposto dal medium-palinsesto e dal medium-flusso. Lo spettatore è chiamato direttamente in causa, è uno spettatore attivo che si muove in un ambito che esce dal sistema organizzativo del singolo medium per entrare invece all’interno di un sistema mediale integrato e convergente. Il medium mantiene la funzione di costruire il legame, il contatto tra lo spettatore/utente e l’oggetto testuale, ma una volta esaurito tale compito questo contatto è garantito dalla concatenazione seriale che caratterizza que-
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sti prodotti. Dunque, un legame che prescinde dal medium e può essere compiuto, in virtù della delocalizzazione, della digitalizzazione e del venir meno di una fruizione istituzionalizzata, nei modi più diversi e con il più alto grado di coinvolgimento dello spettatore. Il medium-community, legato a un interesse condiviso da un gruppo di utenti, impone pertanto un ripensamento del modello televisivo, che non è più legato all’idea di palinsesto e all’idea di flusso, ma è piuttosto legato a un’idea di relazione diretta, coinvolgente e proattiva con lo spettatore che è in gran parte fondata sul passaggio da un’idea di testo chiuso a un’idea di testualità diffusa. Non abbiamo più davanti un oggetto dai contorni definiti (l’appuntamento settimanale con l’episodio a carattere autoconclusivo di Colombo), né un testo inserito nel flusso (l’appuntamento con le sit-com all’interno dei contenitori televisivi domenicali, ad esempio), ma qualcosa che si amplia e si allarga, con contorni sfumati e non facilmente mappabili. I confini del testo sono difficilmente rintracciabili, la sua espansione e la sua frammentazione fanno sì che esso si spalmi su più ambiti mediali facendo diventare le forme seriali la vera ossatura dell’audiovisivo contemporaneo. Le pratiche di espansione e frammentazione della testualità tradizionale investono quindi un piano intertestuale, così come un piano propriamente intermediale, e sono caratteristiche delle nuove forme della serialità contemporanea [Pescatore 2006a]. Le modalità di diffusione e di accesso ai prodotti culturali nell’ambito dei nuovi media sono complesse, ma particolarmente interessanti poiché si tratta, come abbiamo sottolineato, di prodotti che possiedono una struttura modulare, che rende possibile la pervasività dei testi, la loro serializzazione, la loro fruibilità in ambiti e contesti diversi, la costruzione di community di spettatori che condividono l’interesse nei confronti della medesima serie di oggetti mediatici. Il perno dell’intero meccanismo è costituito proprio dall’idea di comunità, che a sua volta veicola una logica che è quella della cooperazione: la logica che governa tali modalità di circolazione delle idee e degli oggetti mediali presuppone quindi un approccio collaborativo e caratterizzato da una moltiplicazione delle possibilità di relazione tra testo e spettatore. Come sottolinea Pierre Lévy [1996, 34], «le distinzioni stabilite tra autori e lettori, produttori e spettatori, creatori e interpreti si confondono a favore di un continuum di lettura-scrittura che va dagli ideatori di macchine e reti fino ai recettori finali, ciascuno dei quali contribuisce ad alimentare di riflesso l’azione degli altri». Le forme di narrazione dominanti divengono quelle senza un centro, caratteristica peculiare dei prodotti seriali, che vanno costantemente aumentando, anche e soprattutto grazie al progresso tecnologico. Il prodotto seriale si caratterizza per una sempre crescente interattività rispetto alla narrazione, mentre viene lasciato sempre più spazio e sempre più autorità a una nuova tipologia di fruitore. Il pubblico, considerato per lungo tempo semplicemente come un gruppo di frequentatori di un determinato ambiente della comunicazione di massa che consumava avidamente e
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accettava in maniera passiva qualsiasi prodotto venisse loro offerto, viene oggi rivalutato. I consumatori di prodotti seriali adottano infatti frequentemente un approccio attivo, dimostrando di essere spettatori dinamici, che consumano, ma che discutono e riflettono su quanto consumano e che sono attivi nella comprensione dei prodotti/testi mediatici, anche costruendosi un ruolo dinamico nella creazione di nuovi materiali correlati, come evidenziato nel paragrafo 2.4. Si assiste dunque alla sviluppo di due fenomeni paralleli: da un lato il declino, almeno parziale, dei media di massa e della fruizione di massa a vantaggio di forme di fruizione parcellizzate e di audience ritagliate sul singolo prodotto. Il modello degli hit, dei blockbuster destinati a un pubblico indifferenziato o comunque socialmente determinato, sempre più cede il passo alla sommatoria di consumi autodeterminati dalle attitudini e gli interessi dei singoli, che si raggruppano secondo processi di aggregazione orizzontale, in larga parte indipendenti dalle forme di organizzazione interna dei media [Anderson 2007]. Dall’altro le forme della fruizione sono sempre più legate a quella testualità diffusa di cui si è detto, alle relazioni tra i testi, alla loro concatenazione seriale: più che l’esperienza mediale è dunque questa nuova esperienza testuale a garantire la coesione delle audience e la continuità del consumo. È in base alle caratteristiche del consumatore/spettatore e al medium utilizzato per la visione, infatti, che la serie e i suoi prodotti collaterali vengono personalizzati e ritagliati su misura. La tendenza cross-mediale prevede perciò una narrazione in gran parte condotta dal fruitore. Nella strenua lotta per la conquista dell’audience (e di consumatori), la creazione di nuove forme narrative e la personalizzazione del prodotto, dal punto di vista narrativo così come da quello delle modalità di fruizione, diventano insomma una necessità primaria.
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Alcune tappe dell’evoluzione del prodotto seriale 1836 > viene pubblicato in venti fascicoli mensili Il Circolo Pickwick di Charles Dickens 1842-1843 > pubblicazione di Les Mystères de Paris, romanzo a puntate di Eugène Sue 1887 > Arthur Conan Doyle inventa il personaggio di Sherlock Holmes, al centro di sessanta racconti nei decenni successivi 1895 > nasce negli USA il fumetto 28 dicembre 1895 > i Fratelli Lumière organizzano la prima proiezione cinematografica pubblica, è la nascita del cinema Anni ’10 > si affermano i serial cinematografici, molti dei quali con protagoniste donne (ad esempio What Happened to Mary, 1912 in dodici episodi; The Perils of Pauline, 1914 in venti episodi) Anni ’20 > ha inizio l’affermazione dello studio system Hollywoodiano, forma di produzione e distribuzione industriale del cinema 1928 > ha inizio negli USA la sit-com radiofonica Amos ‘n’ Andy, che sarà più tardi trasferita in televisione come The Amos ‘n’Andy Show dal 1951 al 1953 in 78 episodi. 1928 > Walt Disney e Ub Iwerks inventano Mickey Mouse (Topolino) 1929 > appare Buck Rogers 1932 > Joe Shuster e Jerry Siegel inventano Superman che apparirà per la prima volta nel 1938 e che in seguito sarà protagonista di serial radiofonici, televisivi, film e videogiochi. 1937 > Irna Phillips crea The Guiding Light (in italiano Sentieri, titolo della versione televisiva) soap opera radiofonica che migra in televisione negli anni Cinquanta e che è a tutt’oggi in produzione 1939 > a Bob Kane si deve l’invenzione del personaggio di Batman
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1947-1960 > periodo identificato come la Golden Age (età d’oro) della televisione americana 1951-1957 > la CBS trasmette i 181 episodi di The Lucy Show, sit-com ritenuta tra le migliori della storia della tv, veniva filmata in studio alla presenza di un vero pubblico 1959-1964 > Ai confini della realtà (The Twilight Zone) ideata da Rod Serling, rappresenta uno degli esempi più riusciti di serie antologica Anni ’60 > Andy Warhol produce in serie le sue opere pittoriche, che riproducono le icone del Novecento (Marilyn Monroe, Jackie Kennedy, le bottiglie di Coca Cola e le lattine di zuppa Campbell) 1966-1969 > la serie Star Trek di Gene Roddenberry fa il suo esordio su NBC, diventerà un culto nei venti anni successivi anche grazie alle continue repliche e ai film per il grande schermo ad essa ispirati Anni ’70 > l’avvento delle televisioni private in Italia favorisce l’incremento delle importazioni di prodotti televisivi seriali, in particolare dagli USA 1981-1987 > la serie Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues, 146 episodi) inaugura la tendenza delle serie a incastro, o serializzate 1994 > E.R. Medici in prima linea (E.R.) ideata da Michael Chricton rilancia il medical drama e offre agli spettatori un prodotto altamente curato e innovativo dal punto di vista dell’immagine Ottobre 1996 > debutta la prima soap opera italiana, Un posto al sole, attualmente giunta al suo undicesimo anno di programmazione 2004 > scoppia la Lost-mania, la serie tv prodotta da ABC è un successo internazionale, ottenuto grazie ad accurate strategie di promozione e marketing
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Le tipologie del prodotto seriale televisivo Tipologie Serial Racconto articolato in un numero variabile di puntate, interdipendenti e intervallate nel tempo. La puntata è un frammento di una trama interrotta. Occupa un posto preciso nella narrazione, è direttamente concatenata ai segmenti che la precedono/seguono
Serie I segmenti che compongono la serie sono detti episodi. Questi sono autosufficienti e dotati di una chiusura narrativa, non concatenati come le puntate del serial. Dove il serial sospende sistematicamente il racconto, la serie lo chiude, così che ogni nuovo episodio non sia la continuazione o la ripresa di quello precedente, ma l’inizio di una nuova storia
Serie serializzata Si tratta delle cosiddette serie a incastro, dove i singoli segmenti mantengono un alto grado di autonomia. Si fondono i modelli del serial con quelli della serie classica, la formula è praticata spesso dopo qualche stagione di programmazione, quando si iniziano ad inserire elementi che portano verso una maggiore serializzazione e che permettono un approfondimento dei personaggi e dei temi trattati
Formule narrative > Continuous serial, di lunga o lunghissima durata con una narrazione aperta e flessibile (soap opera e telenovela)
> Serie antologica, i cui singoli episodi autoconclusivi sono unificati sotto un comune titolo, ma indipendenti tra loro.Si tratta di epi> Miniserial, forma seriale sodi di durata variabile, sencorta composta da poche za personaggi e ambienti puntate, distribuite entro ricorrenti. Il fattore unifiun breve arco di tempo. Il cante è il genere, oppure la racconto interrotto lo presenza di un narratorende appartenente alla re/presentatore delle storie famiglia del serial, chiede > Sit-com, ha episodi brevi allo spettatore una fedeltà (circa 30’) e toni leggeri da a breve termine ed è dota- commedia. Ogni episodio è to di una chiusura narrati- articolato in tre momenti: va inequivocabile stato di equilibrio iniziale, scompigliato dall’entrata in scena di un elemento turbativo; parabola ascendente della tensione fino al suo apice; risoluzione del problema e ritorno allo stato di equilibrio iniziale
> C’è sempre una storia centrale che si conclude nell’episodio (detta anthology plot), ma c’è anche una cornice che si prolunga per più episodi (running plot).Viene così aggiunto un elemento di progressione temporale e di parziale apertura narrativa, assente dalla formula tradizionale
Esempi > Soap opera: Beautiful > Serie classica a episodi > Serie serializzata: Buffy (più di 5000 puntate nel autoconclusivi: La signora (1997-2003, 144 episodi) 2007) in giallo (1984-1996, 264 > Telenovela: Anche i ric- episodi) chi piangono (168 puntate, 1979) > Miniserial: Radici (8 puntate, 1977)
> Serie antologica: Ai confini della realtà (1959-1964, 156 episodi) > Sit-com: Friends (19942004, 236 episodi)
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Alle origini del percorso teorico: gli studi sulla serialità in Italia tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta Nella prima sezione di questa antologia, volta a ripercorrere quei contributi che negli anni Ottanta hanno aperto la strada agli studi più recenti sulla serialità, si è considerato in primo luogo un testo che è un riferimento imprescindibile per questo ambito, L’immagine al plurale curato da Francesco Casetti e pubblicato nel 1984. Uno dei punti rilevanti che percorre il testo e che si ritrova in forma più o meno esplicita in molti dei saggi raccolti nel volume – dal quale abbiamo estrapolato l’introduzione a cura di Casetti e un brano dal saggio di Calabrese intitolato I replicanti – è una distinzione di fondo tra serialità e ripetizione. I termini della questione sono piuttosto complessi, dunque per provare a sintetizzarli e semplificarli potremmo dire che, mentre nel caso della ripetizione abbiamo a che fare con il ritorno o il riutilizzo di elementi dati o conosciuti, e in particolare con una «nuova occorrenza che mescola richiamo e originalità» [Casetti1984a, 9], nel caso della serialità abbiamo invece una successione di oggetti testuali, organizzati in modo da formare una “lista”, secondo una successione lineare. Nota quindi Casetti [1984a, 9] che, «nella serialità, c’è ancora della ripetizione, magari in una veste “debole”, [...], ma c’è soprattutto il crearsi di un gruppo omogeneo, di una collezione di casi. Il problema è allora di capire quale è il principio d’ordine sotteso ad una simile lista». A questi elementi, ripetizione e serialità, Casetti ne aggiunge poi un terzo, la dilatazione, che assume un ruolo di tutto rilievo nella costruzione di una metodologia di approccio ai testi seriali. Diviene infatti necessario considerare anche il modo in cui gli elementi che compongono le forme seriali siano continuamente dilatati, e la fine continuamente procrastinata, rivelando una sorta di atrofia degli elementi ricorrenti o serializzati e la loro necessità di occupare il massimo spazio possibile [Pescatore 2003, 53]. Dunque, ripetizione, serialità e dilatazione, costituiscono, per i prodotti seriali televisivi, i tre assi della pluralità sui quali, già nel 1984, alcuni stu-
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diosi italiani si andavano interrogando nel tentativo di fare ordine nella vastità delle produzioni in serie che proprio in quegli anni si affermavano nei palinsesti italiani. Va ricordato, a questo proposito, che a partire dalla sentenza emessa nel 1976 dalla Corte Costituzionale in favore della liberalizzazione delle frequenze radiofoniche e televisive si assiste ad un cospicuo ingresso, soprattutto nei palinsesti delle televisioni private dell’epoca, di prodotti seriali provenienti dagli Stati Uniti, appartenenti a tutti i modelli che abbiamo precedentemente individuato (serie, sit-com e serial), e che di fatto importano nel nostro paese un nuovo modello di intrattenimento seriale e industriale che perdura con esiti interessanti ancora oggi (ricostruzioni della storia di quegli anni si possono trovare in Grasso 1992 e in Monteleone 1992).A fronte di questa cruciale e radicale modifica all’interno dei palinsesti italiani, gli interrogativi che gli studiosi si andavano ponendo già a partire dall’inizio degli anni Ottanta – tra gli altri ricordiamo Abruzzese [1984] e D’Alessandro [1984] – acquistano un peso notevole: pionieristici da un lato e fondativi dall’altro, questi contributi rimangono una preziosa fonte di suggerimenti di metodo nei confronti di testi sfuggenti e suggestivi come si rivelano essere quelli televisivi seriali. Per completare questo excursus, abbiamo dunque inserito un secondo contributo proveniente dal lavoro di Francesco Casetti, che nel saggio Il sapere del telefilm nota l’importanza dei titoli, dei personaggi e delle modalità di dominio del quadro di genere rispetto alle forme seriali, in una prospettiva che tende a privilegiare l’ascolto, ossia il lavoro dello spettatore e la sua attività di ricezione. Se da un lato Casetti si sofferma sull’importanza della sigla, che ha il compito di fornire informazioni salienti sul prodotto, permettendo allo spettatore di identificarne i caratteri di genere, dall’altro ci mostra come i personaggi seriali siano sottoposti a processi di tipizzazione che trovano riscontro nei nomi dei protagonisti, fortemente stereotipati e simili ad “etichette” testuali . Nei prodotti televisivi, infatti, si instaura una dinamica che vede prevalere il nome del protagonista su altri elementi. Il nome diventa un’etichetta, un marchio utile a favorire il riconoscimento del prodotto, come accade agli show televisivi che spesso recano nel titolo il nome dell’attore che li interpreta (The Lucille Ball Show, The Lucy Show, Here’s Lucy, con Lucille Ball; The Cosby Show, con Bill Cosby; Mary Tyler Moore Show, con Mary Tyler Moore). Più precisamente, il nome del protagonista prende il sopravvento, in un meccanismo che abbiamo visto essere già caratteristico del serial cinematografico degli anni Dieci/Venti, ma anche dei prodotti seriali successivi: Charlie Chan negli anni Trenta, piuttosto che le serie supereroistiche nel cinema contemporaneo. Ancora, pensiamo alla creazione di prodotti spinoff, che molto spesso vengono intitolati semplicemente con il nome del personaggio della serie di riferimento che diventa protagonista dello spinoff. Questo è un caso assolutamente frequente, di cui ricordiamo più
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esempi: Frasier (1993) spin-off di Cheers, che rende protagonista lo psicanalista Frasier Crane; Flo (1980) dedicato alla sfrontata cameriera coprotagonista di Alice (1976, a sua volta ispirato al film di Martin Scorsese, Alice Doesn’t Live Here Anymore, Alice non abita più qui, 1975); Angel (1999) che ha per protagonista il vampiro con l’anima di Buffy the Vampire Slayer; e infine un caso molto interessante e curioso, quello della serie britannica Man About the House (Un uomo in casa 1973), che genera due spin-off entrambi marcati dal nome dei protagonisti nel titolo, e cioè George and Mildred (George e Mildred 1976) e Robin’s Nest (Il nido di Robin 1977). Casetti [1984b, 17] prosegue nella sua analisi concentrandosi sui nodi testuali, che definisce, come «luoghi che funzionano da segnali delle operazioni compiute per produrre un enunciato e da indicazioni delle operazioni da compiere per decifrarlo; diciamo meglio, da tracce di ciò che ha permesso al testo di farsi e da istruzioni per ciò che consente al testo di darsi». Il tipo di processo, allora, che certi episodi delle serie televisive mettono in atto, pare essere connesso proprio alla forza dei nodi testuali a cui si viene indirizzati. Secondo Casetti [1984d, 29], infatti, tale forza comporta un duplice movimento, da un lato «un dominio del quadro sugli spunti legati alle altre competenze e alle altre conoscenze (in pratica ciò significa che il telefilm non ci offre nulla che non dipenda dal genere che esso abbraccia: quel che capita in Dallas lo si deve a ciò che Dallas ci ha preventivamente suggerito d’essere); dall’altro una protezione del quadro rispetto a ciò che le altre competenze e le altre conoscenze potrebbero mettere in moto (in pratica, il telefilm non minaccia né smentisce mai il genere cui dice di appartenere: Dallas può ben acquisire come proprio sobborgo l’Europa, ma non annetterà mai Fantasy Island o la contea di Bonanza)». Casetti precisa però che questo meccanismo necessita di alcune puntualizzazioni, proprio perché di particolare rilievo e perché non così rigido o assodato come questa schematizzazione potrebbe dare a intendere. Ad esempio, in un caso piuttosto recente come è quello di Buffy, possiamo notare come questo allargarsi, arrivando a includere vicende che sia a livello di storia principale che di accadimenti secondari sembrano in contrasto con il normale sistema di attese, sia pratica comune e frequente. Le motivazioni che spingono a mettere in atto un meccanismo di questo tipo sono varie, e in particolare è evidente che «le storie ‘azzardate’ consentono alla cornice di estendersi su possibilità non ancora esplorate, ma in qualche modo accessibili [...]. In secondo luogo le storie ‘azzardate’ indicano alla cornice ciò da cui deve guardarsi ed eventualmente quali rimozioni operare» [Casetti 1984d, 29]. Come accennato in apertura, dal volume curato da Francesco Casetti L’immagine al plurale, presentiamo qui un altro brano, tratto dal saggio di Omar Calabrese intitolato I replicanti. Il contributo di Calabrese, semiologo e teorico della comunicazione, si concentra in particolare sull’obiettivo di dimostrare l’esistenza di un’estetica della ripetizione. Lo studioso
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nota infatti come si sia spesso portati a pensare la ripetitività e la serialità come il polo opposto dell’artisticità e della originalità. Partendo dal presupposto che l’unicità dell’opera d’arte costituisce un ideale ampiamente superato dalle pratiche creative e produttive della cultura contemporanea, Calabrese punta dunque a dimostrare, attraverso il ricorso agli strumenti della linguistica e della semiotica, l’esistenza di un’estetica fondata sulla «differenziazione organizzata, l’amore per il policentrismo, il ritmo come comportamento estetico» [Calabrese 1984, 79]. Della lettura qui proposta, pertanto, vorremmo sottolineare l’importanza del concetto di ritmo, approfondito in ambito semiotico per esempio da Jacques Geninasca che nota come «da un punto di vista teorico, il ritmo si presenta come un sintagma organizzato di stati tensivi: attesa, distensione per l’attesa soddisfatta, sorpresa e disorientamento per un’attesa delusa, scoperta infine ed inversione euforica delle tensioni accumulate nella fase inventiva dello smarrimento» [Geninasca 2000, 14]. Dunque, un gioco di attese, anticipazioni e sorprese, che corrisponde perfettamente ai modelli narrativi della serialità televisiva e alle strutture produttive, distributive e promozionali di questa categoria di prodotti (vedi Profilo critico, 2.2). La sezione racchiude poi un saggio di Umberto Eco che presenta un’interessante tassonomia dei complessi rapporti tra originale, copia, replica e ripetizione nell’ambito dei prodotti culturali. Il quadro delle occorrenze seriali nelle produzioni cinematografiche e televisive (ma anche letterarie) tracciato da Eco rappresenta un tentativo di costruire una tassonomia, una casistica utile a riflettere sulla ripetitività e la serialità, problema saliente per una civiltà che, come la nostra, è figlia dell’idea che i prodotti dell’ingegno siano tanto più interessanti quanto più sono originali. In buona parte, il saggio di Eco presenta pertanto l’abbozzo di una tipologia dei rapporti e dei legami possibili tra testi seriali, rispondendo all’esigenza di mettere ordine all’interno di un panorama vasto e stratificato, quale è quello della serialità, esigenza che sembra essere ancora presente ai giorni nostri. Pertanto, rivedere lo schema di Eco, anche alla luce dei cambiamenti che si sono verificati nel corso degli ultimi vent’anni nel panorama produttivo dell’audiovisivo, è importante per porre alcuni punti di riferimento necessari al nostro discorso. Gli elementi seriali e di continuità si fondono con le esigenze legate alla ripetizione così come al ritorno del già noto. Eco distingue cinque categorie all’interno della tipologia, che chiama rispettivamente ripresa, ricalco, serie, saga e dialogismo intertestuale e che abbiamo analizzato più da vicino nel paragrafo 1.1 del profilo critico, dedicato proprio alla disamina dei modelli narrativi della serialità televisiva. La tipologia di Eco si conclude con l’ultima categoria da lui individuata e indagata, quella del dialogismo intertestuale, questione alla quale abbiamo dedicato il paragrafo 1.5 del profilo critico. Benché spesso denigrata dai critici, tra i generi seriali più longevi e maggiormente studiati, infine, troviamo la soap opera. Già all’inizio degli anni Quaranta alcuni studiosi si domandavano perché molte donne diventasse-
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ro fan delle soap opera radiofoniche. Come sappiamo, la migrazione di questa tipologia di testi dalla radio alla televisione è pressoché immediata e corrisponde all’affermarsi del mezzo televisivo come medium di massa. Partendo dunque dai testi, gli studiosi hanno cercato di individuare i diversi usi e le diverse motivazioni che spingono l’audience a rivolgersi a prodotti seriali di questo genere, caratterizzati in particolare dalla lunghissima serializzazione, dal continuo ricorso al cliffhanger e dalla inverosimiglianza delle linee narrative, spesso iperboliche ed eccessive. Frequentemente considerate di basso livello, sia dal punto di vista estetico che da quello tecnico, le soap si rivelano invece come testi nei confronti dei quali l’audience compie cospicui investimenti dal punto di vista emotivo e del coinvolgimento [Hobson 1982; Grandi 1992]. Una volta chiarita la capacità di tali testi di soddisfare varie classi di bisogni dell’audience, gli studi sulla soap opera si sono moltiplicati [Cantor 1987;Ang 1985]. In questa sezione dell’antologia, la soap viene studiata da Thomas Elsaesser nella prospettiva particolare delle sue relazioni con il melodramma cinematografico degli anni Cinquanta. Analizzando gli elementi di continuità e di discontinuità tra il melodramma e le soap televisive, intrattenimento pomeridiano di una grande quantità di spettatori (soprattutto spettatrici), sia dal punto di vista della composizione del pubblico-target di riferimento, sia dal punto di vista dei temi, Elsaesser mette in luce alcune delle caratteristiche più significative di entrambi i generi. In particolare, vorremmo sottolineare l’idea secondo la quale l’inesorabilità del tempo e l’esistenza, strutturate nei melodrammi familiari degli anni Cinquanta in un rapporto reciproco, vengano rivisitate nella soap, che grazie alla frammentazione e alla struttura temporale aperta, propone l’idea che ci sia sempre un domani (e un’altra puntata). La mancanza di conclusione degli eventi, che tanto evidentemente costituirebbe un motivo di frustrazione per lo spettatore cinematografico, diviene qui l’elemento portante del piacere del testo televisivo a lunga serialità, che nell’eterna apertura e nel continuo rinnovarsi delle complicazioni della vita quotidiana rappresenta il valore aggiunto di questa forma di racconto.Valore che, come nota Milly Buonanno, «è sostenuto e celebrato dalla vitalistica refrattarietà della narrativa a una chiusura definitiva, e dalla sua tensione a preservare e a rigenerare una comunità stabile di personaggi esposti e resistenti nel tempo a una condizione esistenziale di massima instabilità» [Buonanno 2002, 119].
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Francesco Casetti L’immagine al plurale – Introduzione Tendenze Ci sono alcuni fatti, oggi, nel cinema e nella televisione, che sembrano segnare degli autentici punti di svolta rispetto agli assetti tradizionali. Si pensi ad esempio all’abitudine ormai corrente di dare un seguito ai film
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di successo: all’imitazione, che sfruttava un precedente per impostare una nuova esperienza, si sostituisce la prosecuzione diretta, il secondo atto, la terza parte. Si guardi ancora alla scelta ormai diffusa di ricorrere al ricalco delle formule vincenti: i generi, che sapevano accortamente mescolare l’edito e l’inedito, lasciano il posto ai filoni, che ripropongono fino all’esaurimento una medesima situazione. O ancora si pensi alla passione ormai trionfante per la citazione: il desiderio dell’originalità, che portava all’invenzione di nuove immagini e di nuovi suoni, cede il passo al gusto del richiamo, da far valere ora come omaggio, ora come forma di tutela. Soprattutto basta pensare alla presenza ormai consolidata delle storie televisive a puntate o a episodi, e cioè ai serial, alle telenovelas, alle miniserie: al principio dell’appuntamento fisso, che garantiva il ritorno ciclico nella stessa collocazione del palinsesto di uno stesso tipo di programma, subentra un legame ancor più stretto, la riproposizione di una medesima vicenda, esplorata in tutte le sue possibilità, dalla durata tendenzialmente infinita, e in cui ad una continua apparizione di varianti si accompagna un’altrettanto continua ricomposizione del gioco. La linea di tendenza che qui si affaccia è chiara: questi fatti, ed altri che avremmo potuto ricordare, segnalano il declino dell’unicità e dell’individualità, e il trionfo invece della ripetizione e della serialità. È come se le immagini e i suoni rinunciassero ad una loro sia pur parziale singolarità, e scegliessero di apparire per così dire al plurale. Ora una simile svolta non è il frutto di una conversione improvvisa: se si afferma adesso, ha però una lunga serie di premesse alle spalle. Rimaniamo nel campo del cinema e della televisione. Ritroviamo forme di ripetizione e di serialità già all’inizio della storia dei due mezzi: sia le “vedute” lumieriane che i “viaggi fantastici” di Méliès, sia i primi sceneggiati che i primi telegiornali, praticavano con profitto la ricorsività dei temi e delle formule; seguire quei film o quei programmi significava riallacciarli a qualcosa di già visto e contemporaneamente ragionare nei termini della collezione. Ma ritroviamo la ripetizione e la serialità anche nel dispositivo filmico e televisivo di base, nella “macchina” che rende possibile la rappresentazione: le 24 o 25 immagini che scorrono al secondo operano su una permanenza di dati (senza la quale non si potrebbero percepire dei contorni precisi) e su una progressione ordinata (senza la quale non si potrebbe cogliere alcun movimento); se qualcosa si mostra sullo schermo, è perché c’è una replica e c’è una successione. Allo stesso modo ritroviamo la ripetizione e la serialità nell’apparato complessivo cui i due mezzi fanno riferimento, nella “struttura” in cui si iscrivono: l’industria dello spettacolo e dell’informazione richiede sia sul versante della produzione che sul versante del consumo l’identificazione di formule stabili e insieme la disponibilità di un’intera gamma di oggetti; a fondamento anche di questa fabbrica e di questo mercato c’è la riproposizione di moduli fissi e la continuità di un funzionamento. Dunque la linea di tendenza che abbiamo visto affacciarsi rappresenta – più che l’irrompere di qualcosa di radicalmente nuovo –
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il compimento di un percorso previsto da sempre; se si vuole, il realizzarsi di un vecchio destino. Tuttavia anche un punto d’arrivo suscita curiosità ed interesse: anzi, rivelando d’un tratto la forza di una trama, il valore strategico di alcune scelte all’apparenza casuali, la cogenza di certi fattori – soprattutto ricordandoci che in nessun itinerario il traguardo appena tagliato è l’ultimo, e che dunque a fianco di un passato c’è sempre un futuro – esso rafforza e moltiplica le questioni. Le domande allora si affollano e si dispongono come in prospettiva. [...] Definizioni e problemi Quali sono allora le “regioni” che un tale viaggio ci porta ad esplorare? Quali temi vengono qui messi a fuoco? Gli itinerari sono parecchi: è però possibile suggerire alcuni punti di passaggio ricorrenti. [...] In particolare, la ripetizione appare come un ritorno di qualcosa che è insieme simile e diverso da quanto l’ha preceduto; dunque non come una riproposizione dell’identico (qual è il caso del calco o della copia) ma come una nuova occorrenza che mescola richiamo e originalità. Sorge allora il problema di scoprire che cosa nella ripetizione si palesa come eguale e che cosa invece si mostra come differente; o meglio, dato che qui le due componenti non hanno lo stesso peso, sorge il problema di capire perché l’eguale sovrasta e oblitera il diverso, in base a quali meccanismi (linguistici? cognitivi? sociali?) e in vista di quali funzioni. La serialità invece sembra resa possibile dalla presenza di una successione, da un processo di enumerazione, dal formarsi di una qualche lista: sullo sfondo di un gioco di richiami, le occorrenze si mettono letteralmente in fila. Dunque c’è ancora della ripetizione, magari in una veste “debole”, ma essa funziona come semplice prerequisito di una dislocazione lineare; c’è un ritorno del medesimo, o almeno di qualcosa che ha la stessa aria di famiglia, ma c’è soprattutto il crearsi di un gruppo omogeneo, di una collezione di casi. Il problema è allora di capire quale è il principio d’ordine sotteso ad una simile lista. In particolare, c’è da chiedersi se essa preveda il divenire e non ricorra piuttosto alla somma; se si apra ad uno sviluppo e ad un progresso, o non esibisca invece uno slittamento di posti, un affiancarsi delle varianti; se insomma possegga una temporalità, o non conosca che la spazializzazione. Una simile domanda ci introduce ad una terza componente che, sia pur in subordine, marca profondamente il fenomeno: la dilatazione. Un dato caratteristico è che qui gli elementi vengono tenuti il più a lungo possibile, procrastinandone continuamente la fine, esorcizzandone l’esaurimento. Non si tratta solo del numero delle occorrenze necessarie per costruire una fila, né della frequenza con cui esse ritornano; la particolarità è piuttosto un’altra, e cioè l’ipertrofia cui ogni elemento è costretto. Abbiamo insomma un’occupazione ad oltranza del tempo e dello spazio; un ecces-
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so di presenza di ciascun singolo spunto. Il problema è allora quello di vedere qual è il senso di questo debordamento: vien da chiedersi se – così come la durata è insieme l’altra faccia e il supporto della progressione – una tale “tenuta” neghi ulteriormente ogni divenire o ne sia la possibile premessa; e se – così come l’ampiezza insieme svilisce ed esalta quanto si distende – un tale acquisto di volume rappresenti un puro effetto di ridondanza o non sottenda invece un processo di valorizzazione. Ora – è bene sottolinearlo – queste tre definizioni con i problemi loro connessi possiedono una particolarità: non cercano di enumerare degli oggetti, ma puntano a descrivere dei funzionamenti. Esse cioè non mettono in luce quello che “per sua natura” si presta alla replica, al raggruppamento o all’ipertrofia, ma descrivono il modo in cui la somiglianza, la parentela e l’enfasi letteralmente si costruiscono. Non si fanno insomma carico della “qualità” delle cose, ma delle “procedure” in base a cui queste cose si mostrano per quello che sono. In una tale ottica la ripetizione, la serialità e la dilatazione appaiono come il portato di determinate mosse all’interno di una situazione comunicativa o sociale; come la risultante di certe operazioni tanto sul piano pratico che su quello simbolico; come la conclusione di alcune precise strategie. In particolare – vi abbiamo già accennato – i due assi portanti sono probabilmente da un lato la dialettica tra identità e differenza (nella ripetizione, ad esempio, qualcosa ritorna se è insieme eguale e diverso, e se è uguale nonostante sia diverso; meccanismi analoghi lavorano anche nella serialità e nella dilatazione); dall’altro lato la dialettica tra temporalizzazione e spazializzazione (nella serialità, ad esempio, una dislocazione crea un “effetto” di tempo e viceversa; strutture simili operano anche nella ripetizione e nella dilatazione). In ogni caso, quali che siano gli esatti dispositivi, ciò che fin da subito importa è percepire questo senso del “funzionamento”; e raccogliere attorno ad esso i tre “fasci di operazioni” che attraversano i fatti cui abbiamo accennato in apertura, i tre grandi “regimi” in cui si iscrive quanto sta emergendo. Da dove e verso dove L’ultimo spunto di riflessione [...] (ultimo perché chiude la nostra lista, non perché esaurisce i problemi che affiorano dai diversi interventi) riguarda i tragitti del fenomeno. Da dove prendono vita il ritorno dell’identico e la successione ordinata? E verso dove ci portano? Le radici di queste misure sono numerose: vi si è già fatto cenno, parlando di certi procedimenti linguistici e delle forme della narrativa, dei momenti del rito e delle strutture della vita quotidiana. Ma forse possiamo riassumere questa genealogia complessa riferendoci all’immediata preistoria del cinema e della televisione, e pensando in particolare alla congiunzione di due linee, quella propria della cultura popolare (nella quale ha tanta parte il racconto) e quella della produzione industriale (in cui la finalità diventa il consumo). Due linee, va ricordato, divergenti tra di loro per i valori che portano, con
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delle vicende profondamente diverse alle spalle, e pronte a scendere sul terreno dello scontro; due linee tuttavia spinte ad incontrarsi nel quadro della rivoluzione industriale, e da allora costrette a funzionare assieme – almeno in superficie – e magari a farsi complici – pur spingendo ciascuna verso i propri interessi –. Piuttosto, in questo contesto merita un cenno anche l’esperienza inversa a quella appena registrata, e cioè l’estetica romantica, che privilegia l’unico e irripetibile e che rivalorizza ideali quali la folgorazione e il sublime. In questa sua azione essa ha avuto l’effetto sia di fissare un punto di svolta nella valutazione della ripetizione e della serialità (delle pratiche correnti diventano momenti negativi), sia di disegnare un fronte diametralmente opposto (quello in cui si collocano le “opere”); in tal senso ha contribuito parecchio a caratterizzare il territorio di cui ci stiamo occupando. Dunque il ritorno dell’identico e la successione ordinata vengono sì di lontano, ma è là, nell’applicazione di criteri industriali all’oggetto culturale e nell’affacciarsi di un ambito radicalmente altro (coincidenza non troppo curiosa: i due fatti emergono in anni non distanti tra di loro), è là, in questo nodo che intreccia fili di diverso colore, è là che essi si impongono così come noi oggi li conosciamo. Sono l’industria culturale e l’estetica romantica che firmano l’atto di nascita di questa ripetizione e di questa serialità. Da Francesco Casetti, Introduzione, in F. Casetti (cur.), L’immagine al plurale,Venezia: Marsilio, 1984, 11-17
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Francesco Casetti Le scelte del telefilm: la prevalenza del quadro Pensiamo per un attimo alla visita ad una città: richiamo indubbiamente lecito, visto che da sempre la «lettura» di un testo è stata accostata al compimento di un percorso, sia quello periglioso dell’avventura, sia quello un po’ burocratico del giro di ronda. Ebbene, che cosa comporta una giornata da turista? Che si sappiano mettere in evidenza gli aspetti caratteristici di un luogo, individuando cosi il tipo di agglomerato urbano attraversato; che si sappiano raccogliere i diversi scorci in una immagine unitaria, arrivando così all’anima della città visitata; e che si sappiano giustapporre i lati più significativi via via notati, arrivando cosi ad apprezzare i molti volti che ogni centro abitato possiede. Ora – continuiamo la metafora – la maggior parte delle visite utilizza tutte e tre queste capacità e porta a tutti e tre questi ordini di informazione: una buona guida turistica o un buon cicerone (veri e propri indicatori di rotta; insomma autentici nodi testuali) giocheranno sulla predisposizione sia a cogliere dei tratti distintivi, sia a sintetizzare dei tratti comuni, sia ad articolare dei tratti successivi, e in questo modo condurranno alla rilevazione sia di un profilo tipico, sia di un’identità particolare, sia di una stratificazione di dati. L’entrare nello spirito di una
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città – come si dice – comporta appunto una buona orchestrazione di tutte le diverse possibilità d’approccio e una buona conciliazione di tutti i rilievi che la visione permette.Tuttavia spesso capita che la visita – influenzata dallo stile della guida, dalla personalità del cicerone, o della natura stessa della città – diventi una ricognizione del tutto unilaterale, basata solo su una delle capacità e aperta solo ad uno degli ordini d’informazione. Il risultato sarà allora quello della semplice rubricazione («Milano città industriale»), o quella della pura tautologia («Milano è Milano»), o quello della mera lista («Milano antica e moderna, italiana ed europea, ecc.»). Un tale giro può ben sembrare folle: ma molti inclusive tours sono programmati per dare alle comitive proprio queste forme d’esperienza. Ritorniamo adesso al testo. La sua comprensione, s’è detto, presuppone un saper inquadrare i dati offerti, in modo da arrivare a cogliere il genere di discorso che viene praticato; un saper unificare questi dati attorno ad un nucleo centrale, in modo da arrivare a definire l’argomento su cui il discorso si impegna; e un saper distribuire questi dati secondo un ordine preciso, in modo da aver chiara la trama che il discorso segue. Alla stessa stregua della visita ad una città, la «lettura» corretta – o perlomeno la «lettura» richiesta e attivata nella maggioranza dei casi – gioca su tutte e tre queste competenze e sul tutte e tre le relative conoscenze. Ciò capita sia che il percorso da compiere risulti perfettamente lineare (in questa evenienza l’inquadramento agisce come una sorta di esplorazione preventiva, l’unificazione come la messa a fuoco di un obiettivo specifico, la distribuzione come il ricalco del territorio esplorato: in una suite di mosse in cui ciascuna prepara la successiva ed insieme le chiede una conferma), sia che il percorso avvenga sotto il segno della discontinuità (in questa evenienza la scoperta di come è disposto il territorio può portare a cambiare la meta, e il raggiungimento dell’obiettivo a trasformare l’idea del paesaggio incontrato: in una suite di mosse che accentua il meccanismo «prova/errore», e che ritroviamo ad esempio in quei libri e in quei film il cui argomento fa letteralmente esplodere il genere apparentemente scelto o la cui trama ha la funzione di creare nuove piste)1: tanto in un’occasione quanto nell’altra, resta comunque il fatto che l’identità di un testo si afferma in un continuo va e vieni tra le differenti capacità e le differenti acquisizioni.Tuttavia può succedere che il gioco si concentri su di un sol punto: l’inquadrare, o l’unificare, o il distribuire, risultano l’unico saper fare attivato – non semplicemente la mossa vincente, ma proprio la sola consentita –; il genere, o l’argomento, o la trama, risultano l’unico dato fatto sapere – non semplicemente l’informazione più preziosa, ma proprio la sola ad essere offerta. Ebbene, quest’esclusività è esattamente ciò che caratterizza il telefilm, o perlomeno il telefilm americano oggi messo in onda in Italia: un testo che appunto blocca l’interagire delle competenze e delle conoscenze, optando per l’unidimensionalità; o meglio, che sterilizza i ritorni e gli scarti costitutivi di ogni «lettura», a profitto di una comprensione «d’acchito».
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Ma procediamo con ordine. Se probabilmente basta qualche rapida occhiata alla serie di successo per suggerirci una simile idea, solo un’analisi sistematica dei programmi trasmessi può farci vedere il radicarsi, le conseguenze e persino la complessità di una tale opzione comunicativa (perché, conviene chiarirlo subito, nessuna strategia è più «semplice» o più «facile» d’altre: ciascuna ha i suoi limiti e i suoi punti di forza). Noi abbiamo appunto seguito la strada della rilevazione strutturata: da un lato abbiamo elaborato una sorta di questionario volto a mettere in luce le operazioni che sono implicate nella comprensione di un qualunque testo e i ricavi che ne derivano – una traccia per l’osservazione, più che una lista chiusa di domande, direttamente connessa alle ipotesi avanzate nei paragrafi precedenti, e decisa a registrare in un protocollo di lettura il più possibile esaustivo l’eventuale messa in opera delle competenze e l’eventuale acquisizione di conoscenze; dall’altro lato abbiamo costruito un campione di testi con i caratteri della significatività – dieci serie americane messe in onda dalla Rai e dalle private nel corso del 1983, senza riguardo alla loro data di produzione, visto che quello che interessa è il versante dell’ascolto2, ma con un certo equilibrio tra le formule in voga: serials, mini-series, sitcom, police, ecc.; infine abbiamo applicato il questionario al campione riservandoci alcune altre serie come momento di controllo3. Come s’è anticipato, ne è emersa una indicazione netta e costante: esiste una competenza che accentra su di sé il gioco, il saper inquadrare; ed esiste una conoscenza che padroneggia il campo, l’informazione del genere. Ora – e cominciamo già a specificare meglio le cose – un tale accentramento e una tale padronanza hanno diversi modi di manifestarsi. Il primo – certo il più immediato – è rappresentato dalla numerosità dei nodi testuali chiamati ad attivare la capacità di inquadrare ed incaricati di condurre all’individuazione del genere. Pensiamo ad esempio a certe componenti metanarrative come le risate off sulle battute del protagonista (tra gli altri in Arcibaldo), o a certi procedimenti formali come il montaggio ultrarapido (nella police) o il campo/controcampo esasperato (nella sit-com), o a certi elementi di contenuto come le scene d’ambiente (ad esempio in Capitol) o le autodefinizioni della situazione (in Trapper): tutti fattori che, sia pur a diverso titolo, hanno il compito precipuo di farci concentrare sui tratti caratteristici della rappresentazione e del rappresentato e dunque di farci arrivare a definire prima di ogni altra cosa il tipo di testo che abbiamo di fronte. I telefilm dispensano tali marche a piene mani, non solo in certe occasioni particolari come l’avvio di una nuova avventura o l’ingresso in campo di un nuovo personaggio, ma lungo tutto l’arco della storia, a punteggiare continuamente lo svolgimento. Grazie ad esse non capita mai di perdersi; anzi, data la loro insistenza, a ritrovarsi si è quasi costretti. Il secondo modo di manifestarsi della concentrazione di cui s’è detto – certo il più curioso – è dato dalla perversione alla quale sono sottoposti alcuni dei nodi testuali. Un esempio ci può essere offerto dal titolo, la cui funzione tradizionale consiste nel «pre-riassumere» quanto verrà poi pre-
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sentato e il cui compito corrente è perciò quello di invitarci ad unificare i diversi dati attorno ad un probabile argomento: qui, immerso ed annegato in una sigla, esso diventa invece qualcosa che esalta le proprietà generali e il quadro di appartenenza di un testo, e che dunque contribuisce a farne riconoscere soprattutto il genere. Un esempio parallelo può essere quello dei nomi dei personaggi, da sempre segni di un’identità che rimane fissa pur nella cangianza del vissuto, e con ciò indici consueti del distribuirsi dei fatti attorno ad un nucleo che li guida: qui, trasformati in semplici etichette (come designare un italoamericano se non chiamandolo Colombo?), o assunti a potenziali emblemi (il ricco e cattivo non è forse per antonomasia un J.R.?), insomma, trasformati più propriamente in soprannomi, essi diventano invece dei dispositivi che fissano i tratti tipici di un individuo, o che ne prefigurano la sfera d’azione canonica, o che comunque ne completano la maschera4. Si potrebbero invocare altri esempi: ma come già si vede, nel telefilm il saper inquadrare e la definizione di genere trionfano anche perché approfittano di terreni che in linea di principio non sono loro.Terzo modo di affermarsi di questa dominanza – forse il più rilevante – è connesso infine alla forza dei nodi testuali a cui si viene indirizzati. Una forza a più facce: da un lato essa comporta un dominio del quadro sugli spunti legati alle altre competenze e alle altre conoscenze (in pratica, ciò significa che il telefilm non ci offre nulla che non dipenda dal genere che esso abbraccia: quel che capita in Dallas lo si deve a ciò che Dallas ci ha preventivamente suggerito d’essere); dall’altro lato questa forza comporta una protezione del quadro rispetto a ciò che le altre competenze e le altre conoscenze potrebbero mettere in moto (in pratica, il telefilm non minaccia ne smentisce mai il genere cui dice di appartenere: Dallas può ben acquisire come proprio sobborgo l’Europa, ma non annetterà mai Fantasy Island o la contea di Bonanza). Tuttavia questo meccanismo, proprio per la sua rilevanza, merita qualche precisazione. La centralità, e al fondo l’esclusività, del saper inquadrare e della definizione di genere sembrano infatti patire delle eccezioni.In particolare ci sono delle vicende, sia a livello di storia principale che a livello di accadimenti di contorno, che paiono in contrasto con il normale sistema di attese: ad esempio in un episodio di Happy Days Fonzie diventa cieco, e il racconto prende un’imprevista piega drammatica; o in un episodio di Starsky e Hutch uno dei due detective è minacciato dalla botulina e dunque il nemico da battere assume un volto ben diverso da quello tipico delle police-stories. In realtà simili devianze non spostano alcun equilibrio effettivo: anzi, proprio nel momento in cui danno l’idea di provocare una riformulazione del quadro, ne costituiscono invece una profonda conferma. E ciò per almeno due motivi. In primo luogo infatti le storie «azzardate» consentono alla cornice di estendersi su possibilità non ancora esplorate, ma in qualche modo accessibili (la sit-com, nel cui ambito rientra Happy Days, può ben avere contenuti disforici, anche se sono quelli euforici a risultare i più frequentati5; i poliziotti, compresi Starsky e Hutch, hanno pur sempre un «inter-
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no» con cui fare i conti, anche se la loro azione ha di solito obiettivi esteriori). In secondo luogo le storie «azzardate» indicano alla cornice ciò da cui deve guardarsi, ed eventualmente quali rimozioni operare (l’improvvisa guarigione di Fonzie rappresenta un autentico esorcismo di fronte al rischio che la serie assuma i modi della commedia drammatica; la sconfitta della botulina con procedure poliziesche blocca la prospettiva che si passi nel regno dei doctors). Dunque ciò che sembra un’eccezione possiede una sua precisa funzionalità: disegna dei percorsi imprevisti in un paesaggio che va dettagliato; e segnala le strade da sbarrare quando s’affaccia la tentazione di un ricambio. Il saper inquadrare e la definizione di genere possono allora dormire dei sonni tranquilli: continuando a guidare loro – e solo loro – la comprensione di un testo, semplicemente «mascherando» un poco la loro presenza e la loro azione. Questa tecnica del mascheramento, del resto, interviene anche in altre occasioni. La ritroviamo ad esempio là dove i personaggi soprattutto del telefilm ad episodi si interrogano affannosamente sulla personalità, sulle intenzioni e sui modi di fare dei loro antagonisti, il cui carattere è peraltro del tutto chiaro anche se sono appena entrati in scena:di fronte ad un ruolo ben definito, intensificare le domande significa allentare la cogenza dello stereotipo. O ancora, ritroviamo la tecnica del mascheramento là dove il continuo differimento nella conclusione soprattutto dei telefilm a puntate allarga lo spazio dell’imprevedibile: di fronte ad una sicura ricomposizione delle parti, il controllo delle possibili combinazioni serve ad allontanare l’idea di schematicità. La conclusione è che per quanto il telefilm pretenda di cambiare il gioco, fingendo di chiedere attenzione al plot e ai suoi fili, il perno su cui ruota la partita rimane sempre lo stesso.Insomma,non ci sono evasioni dal dominio esercitato dalla competenza di genere. E tuttavia la pratica del mascheramento può anche avere delle conseguenze di un certo peso, degli strascichi di cui conviene tener conto: se è ben vero che non scalfisce mai la priorità del quadro, è pur vero che talvolta le impone delle condizioni particolari. In breve, è lecito dire che ci sono due modi diversi di condurre la partita, due «stili» idealmente contrapposti.Ad un estremo troviamo il dominio netto e completo: la formula vincola palesemente ogni presenza; le eventuali deviazioni non arrivano ad assumere i contorni dell’alternativa; il riconoscimento iniziale non viene in alcuna maniera messo in crisi. È il caso ad esempio di Capitol, una serie in cui tutto è conforme al modello fin da subito dato, quello di una soap-opera a metà strada tra Dallas e le telenovelas: in essa non c’è spazio né per l’affermarsi dei diversi argomenti trattati – cosa certo curiosa, se si pensa come l’ambiente della politica permetterebbe delle storie assai «robuste»; qui invece il racconto non conosce che riproposizioni e conferme della triade lotta, potere, passioni – né c’è spazio per l’affermarsi di uno sviluppo narrativo – cosa ben evidenziata da un fenomeno ormai diffuso, la dissoluzione delle sequenze alle quali tradizionalmente era affida-
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to l’armonico avanzare della vicenda, e la loro sostituzione con delle scene brevissime e frammentarie, quasi degli spot, capaci solo di ricordarci che il programma, e quel programma, è ancora in onda. Se insomma si vuol parlare di «forza» dei nodi testuali connessi al saper inquadrare e alle indicazioni di genere, questo primo versante ci porta a pensare ad una vera e propria «forza bruta». All’estremo opposto vige invece una violenza molto più sottile; anzi, un dominio ammantato di liberalità. Fuor di metafora, lungo questo secondo versante il tema e la trama acquistano peso, introducendo degli spunti diversi da quelli previsti dalla pura formula, e assorbendo su di sé parte dell’attenzione dedicata al riconoscimento del genere; tanto che la vittoria del quadro – che puntualmente si realizza con la restituzione ad ogni elemento della sua tipicità – può apparire il frutto di una tensione e di uno scontro. Almeno in parte è il caso di Dynasty, un’altra soap vicina al modello di Dallas: in questa serie sono massicciamente presenti le forme di mascheramento cui abbiamo fatto cenno, le prospezioni, le deviazioni, le dilazioni; e sono presenti in maniera tale da aprire delle linee di fuga rispetto alla definizione della situazione. Ecco infatti l’incertezza di alcuni personaggi – magari momentanea, ma con forti connotazioni caratteriali – che li porta ad assumere una posizione mobile all’interno degli schieramenti; ecco certi spostamenti spaziali – motivati, e non di meno curiosi – che inaugurano letteralmente delle nuove piste; ecco il diramarsi dei problemi – non estranei alla vicenda, ma continui – che richiedono comunque una attesa prima di essere risolti o rimossi. Ora ciò non significa che l’incorniciamento cessi di essere vincolante e che l’imprevedibile prenda finalmente quota; ogni momento del programma continua a sottostare ad una accurata framizzazione. Ciò significa però che i meccanismi di controllo, invece di seguire un’azione lineare, si sviluppano lungo direzioni e attraverso tempi plurimi; che la formula si impone dopo aver «assorbito» le apparenti devianze; e dunque che si ampliano gli spazi dell’attribuzione e della canonicità. Cosa ne ricaviamo, allora? Una doppia affermazione: è vero che al fondo nulla altera e contraddice gli assetti del quadro; ma è anche vero che il quadro tende spesso a farsi più articolato e complesso. Ebbene, è proprio l’allineamento di queste due proposizioni – allineamento evidente in molte serie, e in linea di massima valido per tutte – a consentirci adesso di integrare quanto fin dall’inizio abbiamo detto del telefilm: se il gioco si concentra su di un polo a scapito degli altri, non per questo la manovra si fa più povera; anzi, quanto più il baricentro si sposta verso un punto, tanto più lieviteranno lì le informazioni e le istruzioni relative al testo.
Note originali del testo L’alternativa fra un percorso lineare e un percorso discontinuo mette in realtà in gioco una diversa concezione della «lettura» di un testo, come ha
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ben suggerito E. Braningan, The Spectator and Film Space: Two Theories, in «Screen», (22); 1, 1981. 2 Ciò significa che si sono presi i testi nelle condizioni esatte con cui si presentano alla fruizione: doppiati, senza interruzioni pubblicitarie (nel caso della Rai) o con gli spot in posizioni non necessariamente conformi all’originale (nelle private), nel formato e nell’ordine con cui sono stati effettivamente trasmessi in Italia. 3 Ricordiamo che il nostro impianto metodologico ci avrebbe consentito all’interno dello stesso quadro teorico altre due opzioni: da un lato la formulazione di un questionario da far valere sul versante della produzione anziché dell’ascolto (e ciò se si fosse voluto mettere in luce ad esempio la «storia» del telefilm come programma televisivo); dall’altro la formulazione di un questionario da far valere nei confronti dell’ascolto programmato e previsto dal testo stesso (e ciò se si fosse voluta fare un’indagine ad esempio sui gusti, sulle basi culturali, ecc. del pubblico italiano oggi). 4 Altri esempi particolarmente espliciti sono Gonzo e Trapper in Trapper, Occhio di falco, Labbra bollenti, ecc. in Mash, ecc. 5 Si potrebbe anzi dire che la sit-com ha bisogno di entrambe le dimensioni, euforica e disforica, e che si struttura come «gerarchia» della prima sulla seconda. Da Francesco Casetti, Il sapere del telefilm, in F. Casetti (cur.), Un’altra volta ancora. Strategie di comunicazione e forme del sapere nel telefilm americano in Italia,Torino: Eri, 1984, 26-31
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Umberto Eco L’innovazione nel seriale Serie e serialità, ripetizione e ripresa, sono concetti largamente inflazionati. La filosofia o la storia delle arti ci hanno abituati ad alcuni sensi tecnici di questi termini, che sarà bene eliminare: non parlerò di ripetizione nel senso di “ripresa” alla Kierkegaard, o di “répétition differente”, nel senso di Deleuze. Nella storia della musica contemporanea, serie e serialità sono stati intesi in senso più o meno opposto a quello che stiamo discutendo in questa sede. La serie dodecafonica è il contrario della ripetitività seriale tipica dell’universo dei media, e a maggior ragione ne è diversa la serie postdodecafonica (entrambe sia pure in modo diverso, sono schemi da usare una volta, e una volta sola, all’interno di una sola composizione). Se apro un dizionario corrente, trovo che per “ripetere” si intende “dire o fare qualcosa di nuovo”, ma nel senso di “dire cose già dette” o “fare monotonamente le stesse cose”. Si tratta di stabilire che cosa si intende per “di nuovo” o per “stesse cose”. Dovremo quindi definire un primo senso di “ripetere” per cui il termine significa riprodurre una replica dello stesso tipo astratto. Due fogli di carta da macchina sono entrambi una replica dello stesso tipo merceologico.
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In tale senso “la stessa cosa” di un’altra è quella che esibisce le stesse proprietà, almeno da un certo punto di vista: due fogli di carta sono gli stessi ai fini delle nostre esigenze funzionali, ma non sono gli stessi per un fisico interessato alla composizione molecolare degli oggetti. Dal punto di vista della produzione industriale di massa, si definiscono come repliche due tokens o occorrenze dello stesso type due oggetti tali che, per una persona normale dalle esigenze normali, in assenza di imperfezioni evidenti, sia la stessa cosa scegliere una replica piuttosto di un’altra. Sono repliche dello stesso tipo due copie di un film o di un libro. La ripetitività e la serialità che ci interessano riguardano invece qualcosa che a prima vista non appare uguale a qualcosa d’altro. Vediamo ora quali sono i casi in cui qualcosa ci si presenta (e viene venduto) come originale e diverso, eppure avvertiamo che esso in qualche modo ripete ciò che già conoscevamo e probabilmente lo comperiamo proprio per queste ragioni. La ripresa Un primo tipo di ripetizione è la ripresa di un tema di successo ovvero la continuazione. L’esempio più famoso è il Vent’anni dopo di Dumas e nel campo cinematografico sono le varie riprese di archetipi come Star Wars o Superman. La ripresa nasce da una decisione commerciale, ed è puramente occasionale che il secondo episodio sia migliore o peggiore del primo. Il ricalco Il ricalco consiste nel riformulare, di solito senza renderne edotto il consumatore, una storia di successo. Quasi tutti i western commerciali di prima maniera erano ciascuno un ricalco di opere precedenti, o forse tutti insieme una serie di ricalchi da un archetipo di successo. Una sorta di ricalco esplicito e denunciato come tale è il remake: vedi le varie edizioni dei film sul dottor Jekyll, sull’Isola del tesoro o sull’ammutinamento del Bounty. Sotto la categoria di ricalco possiamo classificare sia casi di vero e proprio plagio che casi di “riscrittura” con esplicite finalità interpretative. La serie Con la serie vera e propria abbiamo un fenomeno ben diverso. Anzitutto mentre il ricalco può non essere ricalco di situazioni narrative ma di procedimenti stilistici, la serie, direi, riguarda da vicino ed esclusivamente la struttura narrativa.Abbiamo una situazione fissa e un certo numero di personaggi principali altrettanto fissi, intorno ai quali ruotano dei personaggi secondari che mutano, proprio per dare l’impressione che la storia seguente sia diversa dalla storia precedente. La serie tipica può essere esemplificata, nell’universo della letteratura popolare, dai romanzi polizieschi di Rex Stout (personaggi fissi Nero Wolfe, Archie Goodwin, la servitù di
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casa Wolfe, l’ispettore Cramer, il sergente Stebbins e pochi altri), e nell’universo televisivo da All in the family, Starsky and Hutch, Colombo, eccetera. Metto insieme generi televisivi diversi, che vanno dalla soap opera alla situation comedy, sino al serial poliziesco. La serie è stata abbondantemente studiata, e quando si è parlato di “strutture iterative nella comunicazione di massa” si intendeva appunto la struttura a serie.1 Nella serie l’utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi... La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, superficialmente mascherato. La serie consola l’utente perché premia le sue capacità previsionali: l’utente è felice perché si scopre capace di indovinare ciò che accadrà, e perché gusta il ritorno dell’atteso. Siamo soddisfatti perché ritroviamo quanto ci attendevamo, ma non attribuiamo questo “ritrovamento” alla struttura del racconto bensì alla nostra astuzia divinatoria. Non pensiamo “l’autore del romanzo poliziesco ha fatto in modo che io indovinassi”, bensì “io ho indovinato quello che l’autore del romanzo poliziesco cercava di nascondermi”. Troviamo una variazione della serie nella struttura a flash-back: si veda ad esempio la situazione di alcune storie a fumetti (come quella di Superman), dove il personaggio non è seguito lungo il corso lineare della propria esistenza, ma continuamente ritrovato in momenti diversi della sua vita, ossessivamente rivisitate per scoprirvi nuove occasioni narrative. Sembra quasi che esse fossero sfuggite prima al narratore, per distrazione, ma che la loro riscoperta non alteri la fisionomia del personaggio, già fissata una volta per tutte. In termini matematici questo sottotipo di serie può essere definito come un loop. Le serie a loop vengono di solito escogitate per ragioni commerciali: si tratta, onde continuare la serie, di ovviare al naturale problema dell’invecchiamento del personaggio. Invece di fargli sopportare nuove avventure (che implicherebbero la sua marcia inesorabile verso la morte) lo si fa rivivere continuamente all’indietro. La soluzione a loop produce paradossi che sono già stati oggetto dl innumerevoli parodie: il personaggio ha poco futuro ma ha un passato enorme, e tuttavia nulla del suo passato dovrà mai alterare il presente mitologico in cui egli è stato presentato al lettore sin dall’inizio. Non bastano dieci vite per fare accadere alla Little Orphan Annie quanto di fatto le è accaduto nei primi (e unici) dieci anni della sua vita. Altra variazione della serie è la spirale. Nelle storie di Charlie Brown apparentemente accade sempre la stessa cosa, anzi, non accade nulla, eppure
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ad ogni nuova strip il carattere di Charlie Brown ne risulta arricchito e approfondito. Ciò che non accade né a Nero Wolfe né a Starsky o a Hutch: noi siamo sempre interessati a conoscere le loro nuove avventure, ma sappiamo già tutto quello che occorre sapere della loro psicologia e delle loro abitudini o capacità. Aggiungerei infine quelle forme di serialità motivate, prima che dalla struttura narrativa, dalla natura stessa dell’attore: la sola presenza di John Wayne (o di Jerry Lewis), in assenza di regia molto personalizzata, non può che produrre lo stesso film, perché gli eventi nascono dalla mimica, dagli schemi comportamentali, talora dalla elementarità stessa del personaggio-attore, il quale non può che fare sempre e comunque le stesse cose. In questi casi, per quanto l’autore si ingegni a inventare storie diverse, di fatto il pubblico riconosce (con soddisfazione) sempre e comunque la stessa storia. La saga La saga è una successione di eventi, apparentemente sempre nuovi, che interessano, a differenza della serie, il decorso “storico” di un personaggio e meglio ancora di una genealogia di personaggi. Nella saga i personaggi invecchiano, la saga è una storia di senescenza (di individui, famiglie, popoli, gruppi). La saga può essere a linea continua (il personaggio seguito dalla nascita alla morte, poi suo figlio, poi suo nipote e cosi via, potenzialmente all’infinito) o ad albero (il personaggio capostipite, e le varie diramazioni narrative che riguardano non solo i discendenti, ma i collaterali e gli affini, anche qui ramificando all’infinito e magari spostando il fuoco su nuovi nodi capostipiti: l’esempio più immediato è certamente Dallas). Nata con intenti celebrativi ed approdata ai suoi avatars più o meno degenerati nei mass media, la saga è sempre in effetti una serie mascherata. In essa, a differenza della serie, i personaggi cambiano (cambiano in quanto si sostituiscono gli uni agli altri e in quanto invecchiano): ma in realtà essa ripete, in forma storicizzata, celebrando in apparenza il consumo del tempo, la stessa storia, e rivela all’analisi una fondamentale astoricità e atemporalità. Ai personaggi di Dallas accadono più o meno gli stessi eventi: lotta per la ricchezza e per il potere, vita, morte, sconfitta, vittoria, adulterio, amore, odio, invidia, illusione e delusione. Ma accadeva diversamente ai cavalieri della Tavola Rotonda, vaganti per le foreste bretoni? [...] Le nostre riflessioni a venire non dovranno dunque mettere solo in questione il fenomeno della ripetizione all’interno di un’opera singola o di una serie di opere, ma il fenomeno complessivo che rende le varie strategie di ripetizione producibili, comprensibili e commerciabili. In altre parole, ripetizione e serialità nei media pongono nuovi problemi di sociologia della cultura. [...]
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Una soluzione estetica moderata o “moderna” Proviamo ora a rivedere i fenomeni sopra elencati dal punto di vista di una concezione “moderna” del valore estetico, secondo la quale si privilegino due caratteristiche di ogni messaggio esteticamente ben formato: – deve realizzarsi una dialettica tra ordine e novità, ovvero tra schematismo e innovazione; – questa dialettica deve essere percepita dal destinatario. Esso non deve soltanto cogliere i contenuti del messaggio ma deve anche cogliere il modo in cui il messaggio trasmette quei contenuti. In tal caso, nulla vieta che nei tipi di ripetizione sopra elencati si realizzino le condizioni per una realizzazione del valore estetico, e la storia delle arti è pronta a fornirci esempi soddisfacenti per ogni voce della nostra classificazione. Ripresa – L’Orlando furioso è in fondo una ripresa dell’Innamorato, e proprio a causa del successo del primo, che era a propria volta una ripresa dei temi del ciclo bretone. Boiardo e Ariosto aggiungono una buona quota di ironia al materiale assai “serio” e “preso sul serio” da cui partivano, ma anche il terzo Superman è ironico rispetto al primo (mistico e seriosissimo), così che abbiamo la ripresa di un archetipo ispirato al Vangelo, condotta strizzando l’occhio ai film di Frank Tashlin. La ripresa può essere fatta sia con candore che con ironia: l’ironia differenzia la ripresa furtiva da quella fatta con pretese estetiche. Non mancano criteri critici (e nozioni dell’opera d’arte) che ci consentano di decidere in che senso la ripresa ariostesca sia più ricca e complessa di quella del film di Lester. Serie – Ogni testo presuppone e costruisce sempre un duplice Lettore Modello.2 Il primo usa l’opera come dispositivo semantico ed è vittima delle strategie dell’autore che lo conduce passo per passo lungo una serie di previsioni ed attese; l’altro valuta l’opera come prodotto estetico e valuta le strategie messe in opera dal testo per costruirlo appunto come Lettore Modello di primo livello. Questo lettore di secondo livello è colui che gode della serialità della serie e gode non tanto per il ritorno dell’identico (che il lettore ingenuo credeva diverso) ma per la strategia delle variazioni, ovvero per il modo in cui l’identico di base viene continuamente lavorato in modo da farlo apparire diverso. Questo godimento della variazione è ovviamente incoraggiato dalle serie più sofisticate. Potremmo anzi classificare i prodotti narrativi seriali lungo un continuum che tiene conto di diverse gradazioni del contratto di lettera tra testo e lettore di secondo livello o lettore critico (in quanto opposto al lettore ingenuo). È evidente che anche il prodotto narrativo più banale consente al lettore di costituirsi, per decisione autonoma, come lettore critico e cioè come lettore che decide di valutare le strategie innovative, sia pur minime, o di registrare la mancanza di innovatività.
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Ma ci sono opere seriali che instaurano un patto esplicito col lettore critico e per casi dire lo sfidano a rilevare le capacità innovative del testo. Appartengono a questa categoria i telefilm del tenente Colombo: a tal punto che gli autori si premurano di farci sapere sin dall’inizio chi sia l’assassino. Lo spettatore non è tanto invitato al gioco ingenuo delle previsioni (whodunit?) quanto, da un lato, a godersi l’esecuzione delle tecniche investigative di Colombo (apprezzate come il bis di un pezzo di bravura molto noto e molto amato), e dall’altro a scoprire in che modo l’autore riesca a vincere la sua scommessa: che consiste nel far fare a Colombo ciò che fa sempre, e tuttavia in modo non banalmente ripetitivo. Al limite estremo possiamo avere dei prodotti seriali che puntano pochissimo sul lettore ingenuo, usato come pretesto, e scommettono tutto sul patto col lettore critico. Pensiamo all’esempio classico delle variazioni musicali: esse possono essere intese (e di fatto talora sono usate) come musica di fondo che gratifica l’utente con il ritorno dell’identico, appena appena mascherato. Tuttavia il compositore è interessato fondamentalmente al patto con l’utente critico, di cui vuole il plauso proprio per la fantasia dispiegata nell’innovare sopra la trama del già noto. In tal senso la serie non si oppone necessariamente alla innovazione. Nulla di più “seriale” dello schema-cravatta, eppure nulla di più personalizzante di una cravatta. L’esempio sarà elementare, ma non è per nulla banale, né riduttivo.Tra l’esteticità elementare della cravatta e il riconosciuto “alto” valore artistico delle variazioni Goldberg, sta un continuum graduato di strategie serializzanti, diversamente intese a creare un rapporto con l’utente critico. Che poi la maggior parte delle strategie serializzanti nell’ambito dei mass media sia interessata solo agli utenti di primo livello – liberi rimanendo i sociologi e i semiologi di esercitare un interesse (puramente tribunalizio) per la loro strategia di abbondante ripetitività e scarsa innovazione – questo è un altro problema. Sono seriali tanto le nature morte olandesi, quanto 1’imagérie d’Epinal. Si tratta, se si vuole, di dedicare alle prime dei meditati saggi critici e alla seconda affettuosi e nostalgici cataloghi antiquari: il problema però consiste nel riconoscere che in entrambi i casi può esistere un problema di serialità. Il problema è che non c’è da un lato una estetica dell’arte “alta” (originale e non seriale) e dall’altro una pura sociologia del seriale.V’è piuttosto una estetica delle forme seriali, che non deve andare disgiunta da una sensibilità storica e antropologica per le forme diverse che in tempi e in Paesi diversi assume la dialettica tra ripetitività e innovazione. Dobbiamo chiederci se, per caso, là dove non troviamo innovazione nel seriale, questo non dipenda, più che dalle strutture del testo, dal nostro orizzonte d’attesa e dalla struttura della nostra sensibilità. Sappiamo benissimo che in certi esempi di arte extraeuropea, là dove noi vediamo sempre la stessa cosa, i nativi riconoscono variazioni infinitesimali e godono a modo proprio del brivido della innovazione. Mentre là dove noi vediamo innovazione, maga-
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ri in forme seriali del passato occidentale, gli utenti originari non erano affatto interessati a questo aspetto e di converso godevano la ricorsività dello schema. Saga – A confermare che la nostra tipologia non risolve problemi di eccellenza estetica, diremo che l’intera Commedia Umana di Balzac rappresenta un bell’esempio di saga ad albero, almeno quanto Dallas. Balzac è esteticamente più interessante degli autori di Dallas perché ogni romanzo di Balzac ci dice qualcosa di nuovo sulla società del suo tempo mentre ogni puntata di Dallas ci dice sempre la stessa cosa sulla società americana... Ma entrambi usano lo stesso schema narrativo. [...] Una soluzione estetica radicale o “postmoderna” Mi rendo conto tuttavia che tutto ciò che ho detto sinora costituisce il tentativo di riconsiderare le varie forme di ripetizione proposte dai mass media nei termini della dialettica “moderna” tra ordine e innovazione. Il fatto è che quando le indagini su questo tema parlano di estetica della serialità, esse alludono a qualcosa di più radicale e cioè a una nozione di esteticità che non può più ridursi alle categorie moderno-tradizionali – se è permesso l’ossimoro. È stato osservato3 che con il fenomeno dei serials televisivi troviamo un nuovo concetto di “infinità del testo”: il testo assume i ritmi e i tempi di quella stessa quotidianità entro la quale (e finalizzato alla quale) si muove. Il problema non è di riconoscere che il testo seriale varia indefinitamente sullo schema di base (e in questo senso può essere giudicato dal punto di vista dell’estetica “moderna”). Il vero problema è che ciò che interessa non è tanto la variabilità quanto il fatto che sullo schema si possa variare all’infinito. E una variabilità infinita ha tutte le caratteristiche della ripetizione, e pochissime dell’innovazione. Quello che qui viene celebrato è una sorta di vittoria della vita sull’arte, con il risultato paradossale che l’era dell’elettronica, invece di accentuare il fenomeno dello choc, dell’interruzione, della novità e della frustrazione delle attese,“produrrebbe un ritorno del continuum, di ciò che è ciclico, periodico, regolare”. Omar Calabrese ha approfondito il problema:4 dal punto di vista della dialettica “moderna” tra ripetizione e innovazione, si può certo riconoscere come, per esempio, nei serials di Colombo, su di uno schema base abbiano lavorato di variazione alcuni dei più bei nomi del cinema americano. Sarebbe dunque difficile parlare, a questo proposito, di pura ripetizione: se rimangono immutati lo schema dell’indagine e la psicologia del personaggio, cambia ogni volta lo stile del racconto. Il che non è poco, specie dal punto di vista dell’estetica “moderna”. Ma è proprio su una diversa nozione di stile che si incentra il discorso di Calabrese. Il fatto è che in queste forme di ripetizione “non ci interessa molto il che cosa viene ripetuto, quanto piuttosto il modo di segmentare le componenti di un testo e
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di codificarle per poter stabilire un sistema di invarianti, tutto ciò che non rientri nel quale essendo definito ‘variabile indipendente’”. E nei casi più tipici e apparentemente “degradati” di serialità, le variabili indipendenti non sono affatto le più visibili, ma le più microscopiche, come in una soluzione omeopatica dove la pozione è tanto più potente quanto, per successive successioni, le particelle del prodotto medicamentoso siano quasi scomparse. Il che permette a Calabrese di parlare della serie Colombo come di un “exercice de style” alla Queneau.A questo punto ci troveremmo di fronte a una “estetica neobarocca”: che funziona a pieno regime non solo nei prodotti colti, ma anche e soprattutto in quelli più degradati. Anche a proposito di Dallas si può dire che “le opposizioni semantiche e l’articolazione delle strutture elementari della narrazione possono trasmigrare con una combinatoria di altissima improbabilità attorno ai vari personaggi”. Differenziazione organizzata, policentrismo, irregolarità regolata: tali sarebbero gli aspetti fondamentali di questa estetica neobarocca: di cui l’esempio principe è la variazione musicale alla Bach. Siccome nell’epoca delle comunicazioni di massa “la condizione di ascolto... è quella per cui tutto è già stato detto e tutto è già stato scritto... come nel teatro Kabuki, sarà allora la più minuscola variante quella che produrrà piacere del testo, o la forma della ripetizione esplicita di ciò che già si conosce”. È chiaro che cosa avvenga con queste riflessioni. Si sposta il fuoco teorico dell’indagine. Se prima si trattava, per il massmediologo ancora moderno, di salvare la dignità del seriale riconoscendovi la possibilità di una dialettica tradizionale tra schema e innovazione (ma a questo punto era ancora l’innovazione che costituiva il valore, o la via di salvezza per sottrarre il prodotto alla degradazione e promuoverlo al valore), ora l’accento viene messo sul nodo inscindibile schema-variazione, dove la variazione non fa aggio sullo schema – e se mai accade il contrario. Il termine neobarocco non deve ingannare: qui viene affermata la nascita di una nuova sensibilità estetica, assai più arcaica, e veramente post-postmoderna. A questo punto, osserva Giovanna Grignaffini,“il serial televisivo, diversamente da altri prodotti realizzati dalla o per la televisione, utilizza questo principio (e il suo inevitabile corollario), in un certo senso allo stato puro, arrivando a trasformarlo da principio produttivo in principio formale. Ed è all’interno di questo slittamento progressivo che viene distrutta sino alla radice ogni nozione di unicità”.5 Trionfo di una struttura a incastri indipendenti, che va incontro alle esigenze – prima paventate, poi realisticamente riconosciute come dato di fatto, ora infine proclamate come nuova condizione di esteticità – del “consumo nella distrazione” (che è poi quello che avveniva per la musica barocca). Sia chiaro, non è che gli autori dei saggi citati non vedano quanto di commercialmente consolatorio e di “gastronomico” vi sia nel proporre storie
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che dicono sempre la stessa cosa e si rinchiudono sempre circolarmente su se stesse (non è, dico, che essi non vedano la pedagogia e l’ideologia espressa da queste storie per quanto riguarda i loro contenuti). È che essi non solo applicano a tali prodotti un criterio rigidamente formalistico, ma lasciano intendere che dobbiamo iniziare a concepire una udienza capace di fruire di tali prodotti in questo modo. Perché solo a questo patto si può parlare di nuova estetica del seriale. Solo a questo patto il seriale non è più un parente povero dell’arte, ma la forma d’arte che soddisfa la nuova sensibilità estetica, ovvero la forma post-postmoderna della tragedia attica.
Note originali del testo Su questa ripetitività dei mass media la letteratura è molto ampia. Rinvio per esempio ai miei studi su Superman, James Bond o sul feuilleton ottocentesco (pubblicati in Apocalittici e integrati e Il Superuomo di massa). 2 Cfr. per la nozione di “lettore modello” il mio Lector in fabula. 3 Cfr. l’articolo di Costa e Quaresima su Cinema & Cinema 35-36. 4 “I replicanti”, Cinema & Cinema 35-36, pp. 25-39. 5 “J.R.: vi presento il racconto”, Cinema & Cinema 35-36, pp. 46-51. 1
Da Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano: Bompiani, 1985, 127-142
Opere citate nel testo originale Calabrese O. 1983, I replicanti, «Cinema & Cinema», 35-36, aprilesettembre. Costa A., Quaresima L. 1983, Il racconto elettronico: veicolo, programma, durata, «Cinema & Cinema», 35-36, aprile-settembre. Eco U. 1964, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano: Bompiani. – 1976, Il Superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, s.l.: Cooperativa scrittori. – 1979, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano: Bompiani. Grignaffini G. 1983, J.R.: vi presento il racconto, «Cinema & Cinema», 35-36, aprile-settembre.
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Thomas Elsaesser Melodramma e temporalità [Ma] si afferma spesso che nessun genere, come il melodramma, è riuscito a sopravvivere così bene all’avvento della televisione. Si potrebbe persino affermare che il melodramma degli anni Cinquanta ha sempre avuto
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implicitamente come telos il mondo circoscritto dello spazio domestico: la casa suburbana e il piccolo schermo che riduce e miniaturizza tutto il mondo. Teoricamente l’ipotesi di una continuità, più o meno ininterrotta, tra il melodramma e i serial televisivi trasmessi durante il giorno, le soap opera e le saghe familiari, appare quindi del tutto giustificata. L’ipotesi poggia sulla continuità del pubblico (tutti i dati disponibili indicano che le donne – mogli e madri – formano la maggioranza dell’audience delle soap opera sempre più popolari). In secondo luogo, essa poggia sulla continuità dei temi.Tre film di Douglas Sirk potrebbero rivendicare la paternità di gran parte delle più popolari serie americane per le famiglie trasmesse durante il giorno: per esempio, All That Heaven Allows è il predecessore di Days of our Lives; The Magnificent Obsession ha ispirato General Hospital e Written on the Wind ha anticipato molti scenari e conflitti di Dallas e di Dynasty. Infine, per il teorico del cinema, esiste una continuità di interessi. Sia il melodramma che la soap opera hanno suscitato interesse per le conoscenze dirette che esse mediano in relazione alla rappresentazione delle donne nel cinema e nella televisione che oggi prevalgono.Altre questioni concernono le specifiche modalità con le quali un dato genere si rivolge al suo pubblico.Altrettanto importante è la possibilità di fornire le cosiddette chiavi di lettura sovversive o de-costruenti delle forme culturali dominanti da parte degli spettatori che si sentono solidali con gli spettatori cui il film principalmente si rivolge, anche se non si identificano con essi. Invece vorrei affermare – o almeno segnalare brevemente – la possibilità teorica che, in realtà, le continuità apparenti tra melodramma e soap opera celino una discontinuità di fondo, a livello sia testuale sia di esperienza specifica di un soggetto. Di conseguenza, alcune prospettive teoriche formulate per il melodramma degli anni Cinquanta potrebbero risultare fuorvianti se si analizzano le soap opera televisive. Consideriamo, per esempio, l’aspetto teatrale. Là dove il melodramma presuppone un mondo chiuso, sia per l’ambientazione che per la struttura drammatica, la soap opera, concepita e trasmessa come serial, è necessariamente una struttura aperta. Ma perché non pensare al melodramma come forma narrativa potenzialmente divisibile ed espandibile all’infinito, limitata unicamente dall’abilità dell’autore nel sognare situazioni nuove e dalla durata più o meno lunga del contratto che lo studio ha stipulato con i protagonisti? Non sarebbe sufficiente rinviare il lieto fine all’infinito? Basta esaminare le definizioni di melodramma riportate sopra per vedere i problemi che derivano da questo tipo di ragionamento: eccesso, contraddizione, repressione, spostamento, isteria di conversione.Tutto implica il riferimento ad un modello di energia. Il rapporto tra narrazione e mise-en-scène, tra trama ed elaborazione è basato, in ogni caso, su una nozione di economia narrativa e su una legge della termodinamica, cioè sul principio della conservazione dell’energia. Riformulata per il melo-
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dramma, la legge dice: ciò che viene represso ad un livello deve essere espresso ad un livello diverso. La narrazione e la mise-en-scène sono interpretate come vasi comunicanti che costituiscono un sistema essenzialmente chiuso, con tendenza ad un certo tipo di omeostasi, ad un “equilibrio delle forze”, o alla simmetria. Se la risoluzione del conflitto e della tensione è obbligatoria in qualsiasi schema narrativo classico (in particolare, il modello strutturalista e psicoanalitico postula una mancanza e la sua riparazione mediante una sostituzione) allora qualsiasi assenza di conclusione ha un effetto fatale per una concezione del melodramma la cui funzione ideologica è quella di spostare la contraddizione, con il vantaggio critico di dimostrare l'insorgenza del sintomo del testo classico, la sua natura essenzialmente traumatofila. Invece, come si è spesso affermato, la soap opera non può essere affatto analizzata come testo; infatti, neanche quando si conclude e scompare dagli schermi televisivi arriva ad una conclusione come quella che conosciamo dal racconto cinematografico. Pertanto, come fonte di piacere, deve distinguersi dal melodramma e non poggiare sulla soddisfazione dell’impulso ermeneutico, sulla posizione unificata della conoscenza e sull’unità immaginaria del soggetto che caratterizza lo spettatore del racconto classico, ma su qualche altro tipo di temporalità e di posizione del soggetto. A mio avviso, la forza particolare del melodramma come forma narrativa deriva dal fatto che le sue contraddizioni – una sensazione di obiettivi inconciliabili, di opportunità mancate, di coincidenze imprevedibili e di concatenazione ironica degli eventi – presuppone un universo di temporalità rigorosamente finita. Come nel caso della tragedia, il tempo è irreversibile e il significato delle azioni umane è nelle loro conseguenze. Nel melodramma il tempo e l’esistenza sono in un rapporto reciproco che veniva definito “fato” o “destino”. In questo senso è possibile parlare del melodramma americano degli anni Cinquanta come di una tragedia secolarizzata che implica un’utopia negativa. Mi si consenta di citare un saggio sul melodramma scritto nel 1972: Nel melodramma hollywoodiano, i personaggi da operetta recitano le tragedie dell’umanità, e in questo modo vivono i fallimenti della civiltà americana. Quello che colpisce e appare come pathos reale è soltanto la mediocrità degli esseri umani che chiedono molto a se stessi e cercano di vivere secondo una visione esaltata; invece di vivere le impossibili contraddizioni che hanno trasformato il sogno americano in un proverbiale incubo. I migliori melodrammi degli anni Cinquanta non sono soltanto documenti sociali critici, ma tragedie (nonostante il lieto fine, o forse proprio per il lieto fine) e registrano alcune angosce che hanno accompagnato il declino della cultura affermativa.
Nelle soap opera, invece, la struttura aperta rientra di per sé in un’ideologia che dice: «La vita continua; hai un’altra possibilità; niente è definitivo;
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c’è sempre un domani; c’è sempre un altro episodio». Quindi quella che per lo spettatore cinematografico sarebbe una frustrazione intollerabile, perché nessuna azione o sequenza di eventi arriverebbe mai ad una conclusione, per lo spettatore dei serial è motivo di consolazione, perché i serial televisivi non affermano tanto il rinnovamento della vita in senso organico – il che sarebbe un ottimismo ingenuo – ma il rinnovarsi delle complicazioni della vita che costituiscono la materia di finzione, racconto, dramma e vicenda romantica, cioè il modo di funzionare stesso della televisione. Tuttavia è possibile anche adottare una prospettiva del tutto diversa e sostenere, dati i vantaggi di un mezzo come quello televisivo, che conosce solo due modi di temporalità – il nunc istantaneo della trasmissione dal vivo e il tempo sospeso della ripetizione, del replay dell’azione, della replica e del serial – ciò che è aberrante e perverso è l’investimento nella linearità e nella durata che il cinema sembra aver mutuato dal dramma, dal romanzo e dalla tragedia. Alla televisione, il tempo viene soppresso nell’«aggiornamento continuo, nel perpetuo ritorno al presente» (John Ellis) o è reversibile, come nel replay. Con esso scompare tutta una dimensione della metafisica occidentale, insieme alla nozione borghese del soggetto coincidente con la coerenza della coscienza individuale. Nella soap opera la contraddizione – il pilastro sia della tragedia, sia della sua rivoluzione contrapposta – svanisce perché diviene oggetto dello svolgimento, in sequenza, delle possibilità, più o meno come un computer che, posto di fronte a un compito specifico, passa attraverso combinazioni diverse che si snodano in operazioni temporalmente distinte, finché si arriva alla permutazione ottimale. Per usare il linguaggio della teoria dei sistemi, le contraddizioni del melodramma, i circoli viziosi nei quali i personaggi restano invischiati quando A desidera B che ama C, a sua volta ossessionato da D che ama solo se stesso ed è inoltre incline all’autodistruzione perché è sposato con A, questi doppi legami per un serial televisivo non sono altro che opportunità desiderabili per trasformare errori di tipizzazione logica in iterazioni della permutazione, usando la divisibilità come base di ricombinazione, in una strutturazione sequenziale dove il tempo non è mai esperito come mezzo di realizzazione, ma viene “spazializzato” e segmentato. Nella soap opera la narrazione è semplicemente un modo per costruire una differenza rispetto alla divisibilità, o meglio, la narrativa televisiva si avvicina ai sistemi basati non sul modello di energia della narrativa classica, ma sul modello di informazione che ha come obiettivo il mantenimento del “flusso”, che è, secondo Raymond Williams, «l’esperienza centrale della televisione». Deriva da qui l’impressione non di illusione di realtà della televisione, ma di spostamento dei confini tra dramma e documentario, tra notizia e finzione, dove diviene difficile distinguere un evento dalla sua rappresentazione. Tuttavia, a differenza del flusso indifferenziato di stimoli dal nostro ambiente naturale che decodifichiamo median-
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te i sensi, la televisione ha codici di differenziazione già programmati nel suo stesso flusso. Si potrebbe affermare che le soap opera, nella loro impossibile mimesi arcana della “vita reale” sono sintomatiche della televisione come simulacro, come apparato più di simulazione che di rappresentazione. Ma così, per il teorico, o quanto meno per le prognosi apocalittiche di Jean Baudrillard sui mass-media, è la vera follia. Non voglio, pertanto, concludere senza riportare almeno a grandi linee le argomentazioni presentate in America a difesa della soap opera.Tale difesa sembra poggiare sull’affermazione che le soap opera sono socialmente utili perché riconoscono una verità dell’esperienza quotidiana e, al tempo stesso, hanno precise funzioni pedagogiche.Tra i molti studi pubblicati di recente sulla soap opera vorrei citare l’analisi approfondita di Tanja Modleski. Secondo l’autrice, i serial trasmessi durante il giorno «pongono un piacere squisito nella condizione più importante della vita di una donna: l’attesa» perché rendono «fine a se stessa l’anticipazione della fine». La verità (considerata come l’obiettivo del codice ermeneutico nel senso di Roland Barthes) non si trova «al compimento dell’aspettativa, ma nella aspettativa stessa». In altri termini, nella soap opera, il progresso narrativo è ancorato ad una temporalità derivata dal ciclo di produzione e riproduzione, cioè dalla divisione del lavoro tra i sessi.A sua volta, ciò struttura le abitudini delle telespettatrici delle quali i programmatori devono tener conto. Al comportamento soggettivo di attesa da parte della spettatrice corrisponde il modo operativo stesso della televisione: l’aggiornamento continuo; ma vale anche il contrario: l’aggiornamento motiva l’attesa. La televisione pertanto organizza il tempo nell’ambiente domestico lungo un duplice asse: lo articola diacronicamente alternando durante il giorno soap opera (tempo dilatato), quiz (tempo compresso) e interruzioni pubblicitarie (una mise-en-abyme ripetuta della soap opera ovvero il quiz come mini-narrativa condensata) e articola il tempo sincronicamente, con la regolarità degli orari di trasmissione nell’arco della settimana, del mese e dell’anno (queste coordinate costituiscono quelle che potrebbero risultare le condizioni minime per considerare una soap opera come “testo”). Ma quali informazioni otteniamo sul telespettatore costruito testualmente, che la teoria psicoanalitica del cinema ci ha insegnato ad identificare? Se le condizioni di visione dei film (spazio chiuso e immerso nell’oscurità) consente alla teoria cinematografica di concentrarsi sul soggetto prodotto testualmente e di ignorare ampiamente che lo spettatore è, ovviamente, un soggetto sociale, le condizioni di visione del mezzo televisivo impongono di parlare di un rapporto interattivo tra spettatore e schermo, dettato più dalla vicinanza che dalla proiezione psichica, più dalla presenza ambientale che dall’identificazione. Il largo uso di primi piani, di espressioni facciali, la verbosità e la ridondanza sintagmatica della soap opera (le informazioni sulla trama sono sempre ripetute più di una volta in uno stesso episodio) hanno funzioni fatiche, nell’utile terminologia di Jakobson, così come avviene nella comunicazione interpersonale diretta. Pertanto
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deve essere distinta dalle strutture voyeuristiche-esibizionistiche-feticistiche del processo di identificazione tipico del cinema. Invece, come sostiene Rick Altman, le pratiche televisive sono un sistema sofisticato di richiamo uditivo e musicale per l’attenzione dello spettatore. In secondo luogo, lo spettatore televisivo è uno spettatore chiaramente molto distratto, come direbbe la Modleski; allo stesso modo,Walter Benjamin parlava del flâneur urbano come di uno spettatore distratto, a meno che, in questo caso, non si tratti della posizione della madre nella famiglia qui descritta: La soap opera appare come arte visiva che attiva lo sguardo della madre, ma per provocare ansietà (un’ansietà mai placata dalla conclusione narrativa) per il benessere degli altri. I primi piani addestrano lo spettatore a “leggere” negli altri, ad essere sensibile ai loro sentimenti inespressi, in qualsiasi momento. Questa apertura alle esigenze e ai desideri degli altri è, ovviamente, una delle funzioni primarie delle donne nell’ambiente familiare. La moglie e madre, esclusa dalla partecipazione al mondo più vasto, nel quale si muovono il marito e i figli, deve pur sempre entrare in sintonia con gli effetti di questo mondo sulla sua famiglia. Anche se la famiglia non può occuparsi di tutti gli aspetti del mondo femminile, è bene che lei sappia prevedere i desideri rimasti inespressi, forse addirittura impensati.
Il valore pedagogico della soap opera è tutto qui: esercitando le abilità inferenziali delle spettatrici (“leggere negli altri ed essere sensibili alle loro esigenze”), la soap opera facilita la comunicazione interpersonale e adegua il soggetto ai codici verbali e gestuali dei rapporti sociali. La ridondanza del dialogo, i primi piani e lo scambio di sguardi contribuiscono ad un certo tipo di minimalismo gestuale dove l’impressione che niente si muova e niente cambi è semplicemente dovuta all’incapacità dell’osservatore casuale di decodificare l’understatement e la ridondanza. Ciò sembra molto lontano dalle teorie dell’eccesso, così importanti per la definizione di melodramma; ma è anche la strada che ci riporta indietro. In fondo (una volta scartata la dimensione estetico-espressiva della miseen-scène) cos’altro è il melodramma se non un testo del mutismo, un silenzio imposto, che chiede di essere interpretato. A questo silenzio lo spettatore reagisce con sentimenti di pathos e di ironia tragica, risposte che indicano un divario di comunicazione, un’assenza ma anche il luogo, la posizione dalla quale il testo parla allo spettatore. Ricordiamo il desiderio del melodramma di dare voce a chi non può parlare in prima persona. Ma non è un desiderio del teorico, esattamente quanto è un desiderio del testo? Forse l’erede diretto del melodramma non è in primo luogo la soap opera, ma il film di coscienza sociale, o i tentativi radicali di cinematografia politica degli anni Sessanta, quando l’ethos dominante voleva dare una voce, un microfono, la pagina di un giornale a coloro che – donne, neri, ex combattenti e studenti – pensavano che altri si fossero appropriati della loro
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capacità di parlare. Questo ethos riflette un’altra ipotesi estetica e politica ampiamente condivisa dalla sinistra radicale: che sia possibile equiparare la rappresentazione visiva (visibilità pubblica, dimostrazioni sulle strade e nei parchi), all’espressione di sé e di considerare l’espressione di se come forma di rappresentazione politica vitale. Proprio nei primi anni Settanta, quando questa ipotesi si rivelò ideologicamente errata e politicamente utopistica, assistiamo all’emergere di teorie del melodramma che valorizzano simultaneamente il mutismo e lo spostamento dell’espressione in direzione del registro della forma e della stilizzazione entro il contesto del voyeurismo e dell’angoscia di castrazione. Non posso fare a meno di chiedermi quale sia il significato dell’attenzione dedicata negli anni Ottanta alla soap opera dai teorici, con la scoperta dell’esistenza di un’estetica minimalista basata sull’inferenza, sulla suggestione sonora e sullo sguardo distratto. Dalla prospettiva degli anni Ottanta, il melodramma degli anni Cinquanta è realmente un genere fantasma. Ma quel fantasma sono gli stessi anni Sessanta che si aggiravano negli anni Settanta con le loro aspirazioni utopistiche di riunificare il soggetto, con i suoi auto-alienanti discorsi, attraverso l’espressione e la rappresentazione. Da Thomas Elsaesser, Melodramma e temporalità, in V. Zagarrio (cur.), Studi americani. Modi di produzione a Hollywood dalle origini all’era televisiva,Venezia: Marsilio, 1994, 349-357
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Omar Calabrese L’estetica della ripetizione nella fiction televisiva Alcuni concetti generali Prima di affrontare più concretamente alcuni principi dell’estetica della ripetizione, sarà bene soffermarsi proprio sul concetto di “ripetizione”, per sottolineare come il termine sia troppo generale per risultare appropriato ai fenomeni che dovrebbe descrivere. Sotto quel termine, infatti, possiamo riconoscere una serie di accezioni fra loro molto diverse. Chiameremo standardizzazione quel meccanismo, relativo alla produzione di oggetti (e anche alla produzione di divertimento come i libri, i film, i programmi televisivi), che consente di produrre in serie, a partire da un prototipo. La standardizzazione risale agli anni Trenta dell’Ottocento e alla prima industrializzazione americana, e si conclude con il taylorismo e il fordismo1. La standardizzazione richiede inoltre non solo una produzione e diffusione di repliche di un prototipo, ma anche l’individuazione delle componenti di un tutto che vengono prodotte separatamente e infine assemblate secondo un programma di lavoro. La standardizzazione delle merci intellettuali: sempre negli anni Trenta dell’Ottocento sono standard i giornali e sono standard i feuilleton; verso la fine del secolo XIX Pulitzer e Hearst anticiperanno Ford; infine i mezzi elettronici istituiranno la nozione di palinsesto, che altro non è se non il programma di assem-
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blaggio delle parti di un prodotto di divertimento. È evidente che la produzione in serie ha ragioni di ottimizzazione economica. Basti pensare alla sempre maggiore frantumazione in porzioni piccolissime dei telefilm americani di oggi per offrire la massima cadenza di pubblicità. Ma è certo altrettanto evidente che la serialità serve anche benissimo al controllo sociale: la riduzione a componenti elementari e atomiche garantisce infatti il riconoscimento dei prodotti di finzione, e la regolazione “pedagogica” dei sistemi di valori corrispettivi. Il giudizio ideologico di mancanza di qualità dei prodotti in serie deriva chiaramente da qui: dall’abbassamento di inventività per ragioni economiche e dalla creazione di consenso sociale che ne consegue. Esiste però un diverso concetto di ripetizione, ed è quello che concerne la struttura del prodotto. Qui credo che occorra una maggiore sottigliezza definitoria, perché sotto l’etichetta comoda di “ripetizione” possono finire fenomeni assai differenti. Sono ripetizioni, infatti, i proseguimenti delle avventure di un personaggio, ma sono ripetizioni anche i ricorsi di storie analoghe e strutturalmente identiche come le sceneggiature-tipo. Sono ripetizioni i calchi come i B-western o i B-warrios, ma sono ripetizioni anche i fenomeni di citazione, o le riapparizioni di frammenti standard come il vecchio villaggio texano, il saloon, l’astronave a volo d’uccello, e così via. Diciamo allora che innanzitutto il concetto di ripetizione va meglio articolato a seconda dei parametri messi in gioco. Non si potrebbe neppure parlare di ripetizione, del resto, se non dichiarando la rete di modelli con cui analizziamo i fenomeni, che attraverso quella rete diventano non già individui localizzati spazio-temporalmente, ma stati di cose astratti utilizzati come campioni. Mi pare di poter distinguere allora come primo parametro definitorio il rapporto che si instaura in un testo e fra più testi tra ciò che può essere percepito come identico e ciò che può essere percepito come differente.Avremo allora due opposte formule ripetitive: la variazione di un identico e l’identità di più diversi2. Nel primo caso, e limitandoci al telefilm che come ho detto sarà l’oggetto di questa analisi, saranno considerate quelle opere nelle quali il punto di partenza è un prototipo (mettiamo: Rin Tin Tin, Lassie, il tenente Colombo) che viene moltiplicato in situazioni diverse. Nel secondo caso, invece, andranno collocati quei prodotti che nascono come differenti da un originale ma risultano invece identici (saranno allora Perry Mason e Ironside e Stawinsky; Baretta e Kojak, Colombo e nuovamente Baretta; Star Trek e Galactica; Dallas e Dynasty, eccetera).All’interno di ciascuno dei due gruppi, però, va inserito un ulteriore parametro. Questo consiste nel modo di coniugare la discontinuità del tempo del racconto con la continuità del tempo raccontato e del tempo della serie. Avremo allora altre due formule ripetitive: l’accumulazione e la prosecuzione. Alla prima appartengono quelle serie che si ripetono senza mai mettere in gioco un tempo dell’intera serie, come Lassie e Rin Tin Tin. Alla seconda appartengono invece quelle serie in cui sullo sfondo e esplicitamente
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appare un bersaglio terminale, come Alla conquista del West o L’incredibile Hulk o Star Trek, nelle quali il tempo della serie è scandito dal pur lentissimo avvicinamento alla California, alla scoperta del mistero della mutazione di Hulk, al ritrovamento di un pianeta abitabile per i superstiti dell’umanità. Il terzo parametro, infine, è costituito dal livello nel quale si istituiscono le ripetizioni e le differenziazioni, che può essere un livello figurativo (l’eroe ha gli occhi azzurri, l’astronave viene ripresa a volo d’uccello, il poliziotto parla in dialetto meridionale), a livello statico (si scontrano sempre bene e male e il bene vince; oppure il contrario come in Dallas), a livello dinamico (vi sono delle sceneggiature-tipo che si ripetono, come l’inseguimento, l’assalto della diligenza, il bacio e la seduzione, il tradimento, eccetera).Avremo allora il calco quando vi sia ripetizione ai tre livelli, e la riproduzione quando invece qualche livello sia tralasciato. Nel primo gruppo potremo collocare Star Trek e Galactica, nel secondo Dallas e Dynasty. Riprenderemo in seguito queste definizioni (peraltro provvisorie e suscettibili di cambiamento e affinamento). Ma interessa molto di più per il momento sottolineare come le diverse classi fin qui delineate siano omogenee rispetto a due nodi problematici. Il primo concerne la questione del tempo, il secondo pertiene alla dialettica fra identità e differenza. Il tempo viene messo in gioco allorché riflettiamo sul fatto che non è poi così rilevante descrivere il che cosa viene ripetuto. È invece molto rilevante definire quale sia l’ordine della ripetizione3. Dai lirici greci fino al Circolo linguistico di Praga, infatti, è ben noto che la ripetizione è il principio organizzatore di una poetica, ma solo a patto che si sappia riconoscere quale sia il suo ordine. Nel pensiero greco antico, come ha brillantemente osservato Emile Benveniste4, esisteva un termine per definire tanto l’ordine statico quanto l’ordine dinamico della ripetizione: il ritmo corrispondeva all’ordine dinamico e lo schema all’ordine statico. Ritmo e schema erano insomma sinonimi, e venivano definiti di volta in volta come “forma” (ad esempio da Leucippo e Democrito), come “disposizione” (nei lirici greci), come “forma proporzionata” (ad esempio da Platone). Solo che mentre lo schema corrisponde allo strumento modulare di articolazione dell’oggetto da analizzare, il ritmo è invece il suo strumento formulare. Lo schema corrisponde alla misura spaziale, il ritmo corrisponde alla misura temporale. Il ritmo, insomma, è, per dirla in termini musicali con i quali è anche oggi considerato, la frequenza di un fenomeno periodico di carattere ondulatorio con massimi e minimi ripetuti a intervalli regolari, ovvero ancora è la forma temporale in cui i membri ripetuti vengono variati in uno o più dei loro attributi5. Ma se noi insistiamo sul concetto di ripetizione dal punto di vista del ritmo, ecco che, alla maniera di Jakobson nei confronti della poesia, ci proiettiamo verso una utilizzazione della ripetizione per l’appunto in chiave estetica. Potremo infatti definire le differenze di ordine ripetitivo come differenze di ritmi, e, così come in storia dell’arte hanno fatto Focillon, Wölfflin e più recentemente Hubler, giun-
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gere a considerare le variazioni di ritmo nella storia del telefilm come variazioni di forma estetica6. Per quanto riguarda la dialettica fra identità e differenza, ancora una volta possiamo affermare che non ci interessa molto il che cosa viene ripetuto, quanto piuttosto il modo di segmentare le componenti di un testo e di codificarle per poter stabilire un sistema di invarianti, tutto ciò che non rientri nel quale essendo definito variabile indipendente. Di solito le discipline strutturaliste si occupano dei sistemi invarianti, e tralasciano le variabili. Ma, come ha notato recentemente Jean Petitot7, l’opposizione fra invarianti e variabili è assolutamente fondamentale per la descrizione del funzionamento dinamico di qualunque sistema. Lo stesso Eco ha tenuto conto di questa dialettica, tanto è vero che nel descrivere il meccanismo dell’invenzione di codice parla di una riformulazione della forma dell’espressione o della forma del contenuto o di entrambe contemporaneamente8. La costituzione di un nuovo stile e di una nuova estetica, in altre parole, va considerata come l’evoluzione di un sistema, che passa da uno stato ad un altro riformulando l’insieme delle proprie invarianti e i principi per cui considerare variabili gli elementi non pertinenti al sistema medesimo. Come si vede, dunque, anche dal punto di vista della dialettica fra identità e differenza il nostro bersaglio rimane quello di una possibile definizione estetica di un sistema (nel caso: quello del telefilm) in progressiva evoluzione attraverso stati discontinui. Il terzo gruppo di accezioni del concetto di ripetitività investe invece la sfera del consumo. Solitamente si intende come ripetitivo un comportamento abitudinario sollecitato dalla creazione di situazioni di attesa/offerte di soddisfazione sempre uguali. E il comportamento che qualcuno ha definito giustamente consolatorio9, in quanto rassicura il soggetto facendogli ritrovare quel che già sa e a cui è abituato. Ma esistono anche altre forme di comportamento ripetitivo di consumo: ho già accennato, ad esempio, a quei fenomeni ormai sempre più diffusi che consistono nel rivedere quasi ossessivamente, come forma di culto, il medesimo spettacolo (l’esempio più calzante è il Rocky Horror Picture Show, in programmazione a Milano da quattro anni nello stesso cinema, e che ha dato origine a una sorta di spettacolo con l’intervento organizzato del pubblico sullo scorrere della pellicola: un secondo esempio potrebbe essere la ripetizione delle partite di calcio del Mundial di Spagna). Una terza forma, infine, potrebbe essere un comportamento cosiddetto della “sindrome da pulsante”, che consiste nell’ossessiva variazione di canale con la stessa cadenza della pubblicità delle reti private in modo da cogliere contemporaneamente una serie di programmi diversi facendone delle ricostruzioni simultanee ad ogni cambio di scena. L’abitudine, il culto e la cadenza sono dunque tre comportamenti ripetitivi, ma ciascuno di essi ha implicazioni diverse: nel primo caso siamo di fronte ad un comportamento per così dire proppiano, il comportamento del fanciullo che vuol sentire la stessa favola; nel secondo il comportamento non è di puro consumo, ma di con-
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sumo produttivo, dato che il fruitore aggiunge qualcosa di suo nella modalità stessa del consumatore; nel terzo caso, infine, il comportamento ripetitivo si adegua alle condizioni di percezione ambientale, diventa frammentato, rapido e ricomposto come è frammentato, rapido e ricomposto il panorama della visione che il fruitore ha imparato a seguire (non per nulla il comportamento “ossessivo” è caratteristico dei ragazzi, che si “educano” con la televisione al pomeriggio).
Note originali del testo 1 Per un quadro di riferimento sulla standardizzazione basterà rifarsi al libro di H. Ford, La mia vita, Bologna 1925, che è una raccolta di saggi non unitari in lingua originale, ma riuniti in italiano. Un commento assai penetrante può essere trovato in M. Tronti, Operai e Capitale, Torino, Einaudi, 1973. Per quanto concerne invece la standardizzazione delle merci intellettuali rinvio a due “classici” come E. Morin, L’industria culturale, Bologna, Il Mulino, 1962 e J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Milano, Bompiani, 1969. Di più recente: A. Abruzzese, Sociologia del lavoro intellettuale, Venezia, Marsilio, 1980, e per una storia del rapporto cultura industriale-cultura di massa, O. Calabrese, Le comunicazioni di massa fra informazione e organizzazione del consenso, in N.Tranfaglia (a cura di), La storia, Torino, Utet. 2 Per un molto sommario esame delle definizioni di identità e differenza in senso scientifico rinvio alla voce omonima di F. Gil, in Enciclopedia, vol. 6,Torino, Einaudi, 1979; un buon quadro del pensiero “della crisi” su questo tema può essere trovato anche in M. Ferraris, Differenze, Milano, Multhipla, 1982. 3 Ancora per un quadro generale sulla ripetizione, in senso matematico e epistemologico, vedi S. Amsterdamski, Ripetizione, in Enciclopedia, vol. 12,Torino, Einaudi, 1980, e F. Gil, Classificazione, ibidem. 4 Lo splendido saggio di etimologia strutturale di Benveniste sta in Problèmes de linguistique générale, Paris, Gallimard, 1966. 5 Prendo le definizioni di ritmo in senso musicale da J.J. Nattiez, Ritmo/Metro, in Enciclopedia, vol. 12,Torino, Einaudi, 1980. 6 In storia dell’arte il concetto di ritmo è servito per definire generi artistici o addirittura stili epocali nel pensiero formalista e purovisibilista. Cfr. H. Focillon, La vie des formes, Paris, 1934; H.Wölfflin, Kunstgeschichte als Formgeschichte, Wien, 1912, e più di recente G. Kubler, The Shape of Time, Cambridge, Princeton University Press, 1975. Quanto a Jakobson, basterà ricordare i saggi sul linguaggio poetico raccolti nell’edizione italiana Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1963. 7 J. Petitot, Saint Georges, in A.J. Greimas et alii, Sémiotique de l’espace, Paris, Denoel-Gonthier, 1979. 8 Mi riferisco alla terza parte del Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, laddove, parlando di invenzione moderata e invenzione
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radicale, Eco formula l’invenzione in termini hjemsleviani come ri-pertinentizzazione della materia (dell’espressione o del contenuto) in una nuova forma per una nuova sostanza. 9 Ancora U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, ma l’appellativo «consolatoria» viene ancor meglio definito in La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968, quando Eco parla delle accezioni possibili della retorica, che è appunto consolatoria se non porta ad alcun rinnovamento di codice, ma che è funzionale se viene intesa come meccanismo di messa in discorso di un messaggio. Da Omar Calabrese, I replicanti, in F. Casetti (cur.), L’immagine al plurale,Venezia: Marsilio, 1984, pp. 64-69
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La complessità narrativa dei mondi seriali
La complessità narrativa dei mondi seriali Ad aprire questa seconda sezione dell’antologia, dedicata in particolare alla complessità narrativa degli universi seriali, è un brano di Aldo Grasso, storico della televisione e critico televisivo. Il brano è tratto dal suo recente lavoro Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, volume che, fin dal titolo, è chiaramente dedicato al ribaltamento dell’idea proposta da Karl Popper, che in un libro del 1994 intitolato Cattiva maestra televisione offriva una riflessione sul ruolo negativo della televisione, in particolare sui più giovani, e sulle disastrose conseguenze che questa potrebbe avere sulla mente dei bambini e dei soggetti in crescita. Grasso, di parere contrario, sostiene invece che una buona fetta della televisione contemporanea, e in particolare i prodotti seriali che abbiamo analizzato in questo libro, siano esempi di una televisione di alta qualità. Nota infatti Grasso come la serialità televisiva sia «la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito di molti significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili» [2007, 25]. Dunque, il saggio di Grasso sottolinea come, di recente, l’interesse degli studiosi e dei critici nei confronti dei prodotti seriali sia accresciuto proprio in funzione dell’aumentare della raffinatezza della messa in scena, della sofisticata struttura promozionale e, naturalmente, della crescente complessità narrativa di questi programmi. Serie come Dr. House, 24 o CSI sono infatti in grado di raccontare [Grasso 2007, 6-7]: storie affascinanti per parlare anche d’altro: le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano, ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo. [...] Il dato più significativo è questo: i telefilm sono ricolmi non solo di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro ma trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti “rubati” a modelli alti.
I brani di questa sezione dell’antologia si definiscono pertanto a partire da queste basilari considerazioni, che fungono da punto di partenza per un’indagine sulle strutture narrative della televisione seriale contemporanea. Il saggio di Jason Mittell [2006] è apparso per la prima volta sul numero 58 della rivista «The Velvet Light Trap», interamente dedicato al tema della narrazione e del racconto e perciò intitolato Narrative & Storytelling. Questo saggio è indirizzato allo studio della complessità delle strutture narrative nella serialità televisiva americana contemporanea, ed è qui proposto, in una traduzione parziale, per la prima volta in italiano. Mittell si è a lungo occupato del rapporto tra società americana e generi
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televisivi, e i suoi studi sono culminati in un volume del 2004, intitolato Genre and Television: From Cop Shows to Cartoons in American Culture. Qui, lo studioso americano proponeva un approccio piuttosto efficace allo studio dei generi televisivi, considerandoli come prodotti culturali costituiti dalle pratiche dei media, soggetti a continui e costanti cambiamenti e a ridefinizioni. Per far ciò, Mittell forniva un insieme di strumenti storico-critici finalizzati all’analisi di quelli che egli identifica come cinque aspetti chiave del discorso sul genere televisivo e cioè: storia, industria, audience, testo e ibridazione di generi [Mittel 2004, 1-28]. Alla luce di queste premesse, la complessità narrativa della serialità americana contemporanea è pertanto intesa da Mittell come una vera e propria modalità di narrazione, e non come il frutto della creatività del singolo sceneggiatore o autore, «bensì [come] il risultato dell’intreccio di un certo numero di forze storiche che intervengono a trasformare le norme stabilite in ogni pratica creativa» [Mittell 2006, 1]. All’emergere della complessità narrativa, sostiene Mittell, corrispondono alcuni cambiamenti cruciali nell’industria dei media, nelle tecnologie a disposizione e nel comportamento dell’audience: «evidentemente, tali trasformazioni non determinano in maniera diretta tale evoluzione formale, ma contribuiscono ad alimentare le strategie creative» [Mittell 2006, 1]. Questo saggio sottolinea dunque l’emergere di alcune caratteristiche del prodotto seriale da prime time che hanno contribuito a una riconcettualizzazione delle forme televisive seriali. Quello che è importante comprendere, dunque, è in che cosa consista esattamente, per Mittell, la complessità narrativa che lo studioso attribuisce alla serialità televisiva contemporanea. Innanzi tutto, dalla sua analisi, emerge un cambiamento importante nella struttura formale della concatenazione di elementi che compone le serie tv. Secondo Mittell, infatti, ciò che affiora dall’analisi di alcuni prodotti contemporanei è un «equilibrio variabile» tra le strutture della serie classica ad episodi autoconclusivi e le forme del racconto spezzato tipiche della lunga serialità (della soap opera in particolare). In tal senso, dunque, Mittell afferma e ribadisce la tendenza sempre crescente delle serie contemporanee ad avere una struttura “serializzata”, facendo dunque convivere almeno due archi narrativi, uno riservato alla singola puntata e uno di più ampio respiro e che riguarda un numero più ampio di puntate (vedi Profilo critico, 1.3). A questa considerazione, di livello più generale, e che si inserisce all’interno di una linea interpretativa piuttosto diffusa nei riguardi delle serie contemporanee, si affianca l’idea di una molteplicità di generi presenti all’interno del singolo prodotto, poiché è anche attraverso questa compresenza di generi che è possibile ottenere una efficace continuità del racconto televisivo seriale. In particolare, l’accresciuta complessità della narrazione è spesso attivata «attraverso il rifiuto di conformarsi alle norme di chiusura, scioglimento, e singolarità delle story lines» [Mittell 2006, 34]. Questa tendenza è riscontrabile in una buona parte delle produzioni con-
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temporanee, in cui molti episodi lasciano i personaggi in situazioni insostenibili (ad esempio in Alias, in Lost, in 24). Questi momenti irrisolti possono contribuire ad alimentare la suspense in attesa dell’episodio successivo, ma in molti casi sono volti a chiudere l’episodio su una nota finale comica che non avrà ulteriori sviluppi narrativi, come capita in Seinfeld, Ti presento i miei o Californication (serie creata da Tom Kapinos per Showtime e andata in onda in 12 episodi a partire dall’agosto 2007). Quello che emerge dalle tesi di Jason Mittell è ben sintetizzato da Lucio Spaziante [2007, 5], che nota come, nella lettura di Mittell, le serie televisive degli ultimi vent’anni abbiano sostanzialmente abituato lo spettatore ad una visione: che è mirata a risolvere una sorta di enigma centrale della serie. Un’incentivazione per l’enunciatario ad attivarsi per notare le variazioni formali contenute nel fare narrazione in televisione. Un’estetica del gioco sulla norma che ritroviamo parallelamente in film come Il Sesto Senso, Pulp Fiction, Memento, I soliti sospetti, Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) e Lola corre, dove coesistono il desiderio di essere coinvolti nella storia e assieme essere sorpresi tramite manipolazioni narrative. Ammaliati ma assieme condotti a vedere come funziona la macchina dietro le quinte.
In conclusione, gli elementi su cui si sofferma l’analisi di Mittell implicano uno scarto importante rispetto alla serialità televisiva prodotta tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta, considerata spesso con la funzione di tappabuchi per palinsesti sguarniti e comunque non necessariamente in grado di imporre una fruizione attiva e fidelizzata. Al contrario, come dimostra anche quanto abbiamo sottolineato nei paragrafi 2.3 e 2.4 del profilo critico, la serialità televisiva contemporanea, secondo Mittell, gioca sul fatto che la complessità narrativa di cui gode diviene il fulcro su cui fa leva l’aumento del grado di consapevolezza dei meccanismi narrativi e il successivo aumento del coinvolgimento dello spettatore all’interno del meccanismo narrativo seriale, «sia nell’ambito del piacere diegetico, sia in quello della consapevolezza formale» [Mittell 2006, 39]. Il saggio di Attilio Coco, Le serie tv e l’esperienza del transito, qui riprodotto integralmente, è stato pubblicato dal bimestrale «Segnocinema» all’interno di uno speciale uscito sul numero 142 del Novembre-Dicembre 2006, curato da Luca Bandirali ed Enrico Terrone, e intitolato Mondi a puntate. Le serie televisive americane 1990-2006. In questo speciale, che testimonia il rinnovato interesse per la serialità televisiva americana anche da parte di alcune importanti riviste cinematografiche italiane, si affronta lo studio della serialità televisiva a partire da quel punto di svolta nella struttura narrativa e formale delle serie rappresentato, all’inizio degli anni Novanta, da prodotti come X-Files, E.R. - Medici in prima linea o Friends. In quegli anni, questi prodotti «si impongono all’attenzione per la pregnanza dei propri mondi narrativi e l’originalità del proprio impianto stilistico» [Bandirali e Terrone 2006, 12]. Preso atto della importanza e del
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peso crescente conquistato da questa tipologia di prodotti nel panorama audiovisivo contemporaneo, anche grazie alla diffusione e all’affermazione di nuovi spazi e modalità di fruizione per le serie (canali satellitari, DVD,Web etc.), i curatori di questo speciale sottolineano con insistenza la necessità di sollecitare un discorso critico intorno al prodotto seriale televisivo, adottando le più diverse prospettive (sociologica, semio-pragmatica, narratologica).A caratterizzare l’approccio adottato da Attilio Coco nel suo intervento è dunque un taglio prospettico di tipo ermeneutico, che si focalizza sugli universi narrativi. Dal suo intervento, così come da quello di Mittell, emerge la questione della complessità narrativa dei prodotti seriali contemporanei, ma il fuoco è leggermente diverso, poiché Coco si concentra in particolar modo sulla descrizione e la disamina di mondi narrativi costantemente in movimento, in cui il cambiamento costante del proprio statuto permette rivelazioni continue. In un movimento frenetico e inesauribile, le serie televisive delineano un «universo prismatico che non rinuncia mai a mostrare tutte le sue facce» [Coco 2006, 26-27] e che sostanzialmente permette l’accumulo, la ripetizione, la duplicità, la convivenza di elementi a volte incongrui, la frammentazione, che paradossalmente contribuiscono alla costruzione della coerenza interna del mondo narrato, permettendo la piena realizzazione del «patto finzionale tra un particolare mondo narrativo e lo spettatore che quel mondo ha di fronte» [Coco 2006, 25]. La questione dei generi televisivi, a cui abbiamo accennato in apertura facendo riferimento al libro di Mittell e alla sua lettura delle dinamiche della serialità contemporanea, è qui affrontata da Giorgio Grignaffini, in un estratto del suo libro dedicato proprio allo studio del panorama televisivo alla luce dei suoi generi dominanti. In particolare, le considerazioni qui riprodotte, sono dedicate all’approfondimento del genere della fiction televisiva in relazione ai generi narrativi più diffusi in televisione e alle dinamiche che li legano ai vari formati. È utile allora ricordare che, secondo Rick Altman, nel suo ben noto studio sui generi cinematografici, essi «svolgono una funzione precisa nell’economica complessiva del cinema. Quest’ultima comprende un’industria, il bisogno sociale di produrre messaggi, un grande numero di individui, una tecnologia e una serie di consuetudini denotative» [Altman 2004, 25]. Queste forze entrano tutte in gioco, determinando la traiettoria su cui si basa lo sviluppo di un genere, che comprende, secondo Altman, quattro articolazioni. In primo luogo, il genere è un progetto, una formula che determina gli schemi di produzione dell’industria dell’audiovisivo; il genere è poi una struttura formale su cui si basano i singoli prodotti; il genere funziona come una etichetta che influenza le scelte e le strategie dei distributori e delle sale; infine, il genere attiva processi di contratto e negoziazione con il pubblico richiedendo atteggiamenti di visione diversi al pubblico di ciascun genere. Questo fa sì che i generi, anche quando vengono considerati in ambito televisivo e non più cinematografico, siano da un lato deter-
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minati e sanciti dalla risposta del pubblico e che, dall’altro, siano definiti e battezzati dall’industria. Diventa evidente, quindi, come la funzione del genere risulti necessaria sia in relazione alle strategie pragmatiche e produttive, sia alla fruizione da parte dello spettatore che utilizza i tratti del genere per orientarsi nell’offerta. I generi sono definiti dall’industria e riconosciuti dal pubblico: i vantaggi dell’utilizzare questo tipo di classificazione sono chiari per entrambi. Da un lato, i produttori basandosi sul principio di classificazione dei film in tipologie sono già consapevoli del fatto che il film sarà già venduto in anticipo al loro pubblico, mentre lo spettatore possiede già una immagine e una esperienza di genere ancora prima di confrontarsi direttamente con il prodotto in questione. Nel rapporto con il pubblico si affermano alcune caratteristiche fondamentali dei diversi generi. Da un lato, la loro natura ripetitiva, che in funzione anche dei numerosi riferimenti intertestuali che li caratterizzano, fa sì che i prodotti appartenenti a un certo genere utilizzino ripetutamente lo stesso materiale.Variare, peraltro, è necessario, in virtù di un patto con il pubblico, che non vuole vedere il medesimo episodio all’infinito, bensì vuole rivedere la stessa forma, facendo sì che la variazione diventi necessaria per evitare che la tipologia finisca per essere sterile. I generi, inoltre, come abbiamo avuto modo di vedere, si combinano tra loro. Ed è proprio questa combinazione tra generi, la duttilità dei loro caratteri, a costituire una delle principali caratteristiche del prodotto televisivo seriale contemporaneo. Alla luce delle formule narrative del racconto televisivo seriale, che abbiamo individuato in particolare nei paragrafi 1.1 e 1.3 del profilo critico, la lettura del brano tratto dal libro di Grignaffini ci consente di approfondire il rapporto tra il genere narrativo e i diversi formati seriali, da cui emerge una sostanziale coincidenza di alcuni generi narrativi più “tradizionali” (e più noti al grande pubblico, anche per essere parte del sistema dei generi cinematografici a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza) con le serie televisive da prime time e dunque con un formato episodico o di serie serializzata. La fantascienza di Dark Angel, il giallo-poliziesco di Cold Case e Senza traccia, il poliziesco scientifico di CSI o l’ospedaliero di E.R. Medici in prima linea, Dr. House e Grey’s Anatomy, sono tutti esempi in cui i generi narrativi più noti e consolidati, anche grazie all’esperienza cinematografica, si declinano sui formati più tradizionali delle serie a episodi autoconclusivi o serializzate. In tempi recenti, il fenomeno dell’ibridazione dei generi ha portato però ad una diversa sperimentazione nel rapporto tra genere e formato narrativo seriale, con risultati spesso interessanti: è il caso di Scrubs, ad esempio, che fonde abilmente l’ambientazione medicoospedaliera con momenti surreali, ritmo serrato e dialoghi brillanti tipici della sit-com. È utile inoltre tenere presente il fatto che nella fiction televisiva seriale, ad essere particolarmente ricco di novità e di soluzioni nuove, è anche: «il costante intreccio tra commedia e dramma, tra attitudine al sorriso e svi-
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luppi tragici che si mescolano continuamente nelle fiction dagli anni novanta in poi, sia negli USA sia in Europa e in Italia in particolare. La dilatazione del “dramedy” è quel fenomeno per cui sotto questa tonalità si possono far rientrare non solo prodotti con marche di genere più riconoscibili (abbiamo accennato prima a prodotti come Ally McBeal, apparentemente legal drama, in realtà dramedy sentimentale) [...] [Grignaffini 2004, 79]. Proprio questo intreccio di tonalità diverse risulta essere una delle carte vincenti di molti show prodotti dalla televisione americana negli ultimi anni. La fusione tra elementi di commedia e di dramma, infatti, può convogliare nei confronti di un determinato programma l’interesse di pubblici diversi e stratificati, assicurando al prodotto successo e, spesso, longevità. Nel 1987, ad esempio, la Directors Guild of America nominò la serie Moonlighting (1985-1989, 66 episodi) sia nella categoria Best Drama che nella categoria Best Comedy (assegnando il premio nella prima delle due categorie). Un simile evento non si era mai verificato in precedenza, ed era originato dal fatto che Moonlighting combinava efficacemente elementi e convenzioni del dramma televisivo (tematiche serie, personaggi complessi e sfaccettati, riprese sia in interni che in esterni) con le marche più caratteristiche della commedia televisiva (struttura in quattro atti, ripetitività, autoriflessività, dialoghi brillanti) [Vande Berg 1989, 13-28]. Dunque, i cosiddetti dramedy, esempio piuttosto lampante di questa tendenza verso forme di ibridazione e di intreccio tra generi diversi, divengono un genere particolarmente significativo per sottolineare la sofisticata innovazione apportata da alcune serie che lavorano in questa direzione. L’autoreferenzialità, i riferimenti intertestuali, la scrittura ricercata, sono tutti elementi che contribuiscono a determinare il successo presso i telespettatori, ma che soprattutto implicano un più elevato grado di coinvolgimento dell’audience e un mutato assetto della relazione tra lo spettatore e il prodotto televisivo e che concorrono a determinare quei fenomeni di culto di cui abbiamo parlato (vedi Profilo critico, 2.4) e su cui si focalizza l’ultima sezione di questa antologia.
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Aldo Grasso Il telefilm fa bene Sono in molti ormai a riconoscere ai telefilm tutta la dignità che meritano, come ha fatto lo scrittore Gabriele Romagnoli: Eravamo (più o meno tutti) così impegnati a parlar male della televisione che non ci siamo accorti di quanto fosse (almeno in parte) diventata bella. La «meglio tv» è rappresentata dalle lunghe serialità americane. Più del cinema, a volte perfino più della letteratura contemporanea, sanno raccontare la realtà, ne colgono le novità, divertono e, al tempo stesso, affrontano temi alti che nessun talk show affollato di esperti discuterebbe per paura dell’audience. Invece, catturano pure quella, perfino in Italia.1
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In fondo, anche il telefilm seriale si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario. Probabilmente, poi, è proprio la molteplicità dei generi – in un format tipicamente postmoderno com’è il telefilm, caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione – a saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni.2 È il caso appunto di alcuni telefilm citati da Romagnoli come I Soprano o come Six Feet Under (sei piedi è la misura dell’interramento della cassa da morto), acclamato prodotto dell’altrettanto acclamata e innovativa rete televisiva Hbo. Di tutti gli scopi offerti all’esistenza, nessuno sfugge alla farsa (anche del potere) o all’obitorio. E tutti ci rivelano quanto siamo futili o sinistri. I motivi per cui i telefilm meritano maggiore attenzione critica sono almeno tre. Il primo è che il telefilm cerca di mettere un po’ d’ordine nel disordine del flusso televisivo. Che strumenti ha la fiction per operare un simile assetto? Ha il potere della forma, quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia. E infatti, la fiction è una delle ultime riserve televisive dove è possibile incontrare il regista, una specie in via di estinzione. Il secondo è che il telefilm mette comunque in scena un sistema di valori cui fare riferimento. Qualcuno può storcere il naso sulla levatura artistica di alcune di queste opere. Poco importa, la fiction è sempre un punto di riferimento rispetto, per esempio, ai talk show o ai reality dove non c’è mai gerarchia di valori,dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire tutto e il contrario di tutto. Il telefilm suscita nostalgia per un mondo nel quale, generalmente, i cattivi finiscono in prigione, l’amore trionfa, un malato guarisce anche in ospedale. In questo senso, la fiction supplisce a un bisogno di affetti. Il terzo motivo, infine, riguarda quelle strategie discorsive e comunicative che accendono le passioni non solo dei protagonisti ma anche degli spettatori di fiction. Il telefilm traccia infatti dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento e lo spettatore viene inconsciamente preso per mano e trasferito d’incanto nella dimensione emotiva che lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana. Ma perché è così difficile riconoscere al telefilm uno statuto di «artisticità»? Proviamo per ipotesi a supporre, anche solo per un momento, che le più deprecate forme dell’intrattenimento di massa – videogiochi, tv spazzatura, cinema di consumo – non rappresentino la deriva morale della nostra società ma si rivelino invece utili per una crescita intellettuale; ebbene in quell’esatto momento noi ci troviamo all’interno della Curva del Dormiglione, un espediente interpretativo per cercare di capire, di analizzare il mare della comunicazione dentro il quale più o meno felicemente nuotiamo. La Curva del Dormiglione è stata messa a punto da Steven Johnson in un suo libro che tanto scalpore ha fatto in America.3 Johnson è un ricercato-
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re molto serio e molto stimato: da anni analizza il funzionamento del cervello, l’interazione uomo-macchina, le modalità di appropriazione e le influenze sociali dello spazio digitale. Studiando il funzionamento dei videogiochi, dei programmi televisivi, di Internet, dello sviluppo delle metropoli, intreccia diverse discipline per tracciare le linee guida di una nuova scienza della complessità e dei sistemi emergenti. Johnson, dunque, sostiene che la cattiva maestra tv, cavallo di battaglia di tutti i moralizzatori del mondo, la tv Moloch, la tv Golem, la tv Odradek, «un antro di tentazioni del non tentante», che turba così tanto i nostri sogni, è in realtà un’ottima maestra e contribuisce ad accrescere le nostre capacità intellettive. Bisogna però subito spiegare cos’è la Curva del Dormiglione. Nel film Il dormiglione di Woody Allen, del 1973, c’è una sequenza che prende di mira la scienza e la fantascienza. Risvegliatosi dopo duecento anni di ibernazione nel 2173, il protagonista si accorge che gli scienziati irridono la nostra società per non aver capito i benefici nutrizionali di torte alla crema e merendine. Nell’ottica di una sana e corretta alimentazione, noi crediamo che le merendine siano dannose quanto la tv: fanno male. Però basta un lungo sonno, una distanza temporale ed ermeneutica, per capovolgere le convinzioni. Per decenni abbiamo agito con l’idea che la cultura di massa seguisse un percorso in costante declino verso uno standard che rappresenta un minimo comun denominatore e invece dobbiamo oggi constatare che da un punto di vista intellettuale la cultura di massa ha stimolato la nostra mente in modo nuovo e convincente, ha accresciuto le nostre capacità intellettive. La Curva del Dormiglione è un paradosso che ci aiuta a spogliarci di molti luoghi comuni, a non addossare solo ai media le colpe di questa società. È vero, la sensazione è quella di aver consumato in questi anni una tv assolutamente priva di sfumature, capace solo di attanagliare lo spettatore con stupefazioni baracconesche, con l’esibizione di mostri, con strabilianti genericità. Ma la tv, e con essa i videogiochi (da Tetris a The Sims) e le mille offerte del Web, offrono a un numero impressionante di persone una grande quantità di stimoli che hanno accresciuto la media del quoziente d’intelligenza. Una volta i percorsi del sapere erano una prerogativa per pochi, adesso gli stessi complessi cammini logici sono racchiusi nel più diffuso gioco elettronico. Johnson prende in esame gli schemi narrativi dei racconti televisivi classici, tipo Starsky & Hutch, e li confronta con un capolavoro come Hill Street giorno e notte di Steven Bochco del 1981, la serie che ha introdotto la convenzione narrativa delle trame multiple, prendendole a prestito dalle soap più popolari: Hill Street giorno e notte avrà anche dato il via a una nuova epoca d’oro delle rappresentazioni televisive nei suoi sette anni di trasmissione, ma lo fece utilizzando alcuni trucchi fondamentali che Sentieri e General Hospi-
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tal conoscevano da tempo. L’intuizione geniale di Bochco fu di combinare una struttura narrativa articolata con un soggetto complesso. Dallas aveva già mostrato che i fili estesi e strettamente intrecciati del genere soap opera potevano sopravvivere alla cadenza settimanale tipica di un programma di prima serata.4
Ecco, Sentieri e General Hospital sono sempre stati considerati come i grassi saturi della tv, come micidiali merendine. Noi spettatori felici di I segreti di Twin Peaks, O.C., X-Files, Dawson’s Creek, Sex and the City, C.S.I., N.Y.P.D., Six Feet Under, I Soprano, Buffy, Ally McBeal, Lost, Desperate Housewives, I Simpson siamo nella fase discendente della Curva del Dormiglione, non abbiamo più bisogno di una preparazione alla trama multipla (uno sforzo cognitivo che le generazioni prima di noi non hanno mai affrontato) perché venti, trent’anni di tv sempre più complessa hanno affinato le nostre capacità cognitive. Come in quei videogame che obbligano a imparare le regole durante il gioco, parte del piacere offerto da queste narrazioni televisive moderne deriva dallo sforzo cognitivo richiesto per completare i dettagli.5
Note originali del testo 1 Gabriele Romagnoli, Pistole, bare e plastiche facciali. La vita vista dai nuovi telefilm, in «la Repubblica», 9 luglio 2004. 2 Cfr. Diego Del Pozzo, op. cit. e M.Winckler, op. cit. 3 Steven Johnson, Tutto quello che ti fa male ti fa bene, Mondadori, Milano, 2006. 4 Stephen Johnson, op. cit. 5 Stephen Johnson, op. cit. Da Aldo Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Milano: Mondadori, 2007, 17-21
Opere citate nel testo originale Del Pozzo D. 2002, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, Torino: Lindau Winckler M. 2002, Les miroirs de la vie. Histoire des séries américaines, Paris: Le Passage
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Jason Mittell La complessità narrativa nella televisione americana contemporanea Accanto alla quantità di serie televisive poliziesche, sitcom nazionali e reality show che imperversano nei palinsesti della televisione americana, negli ultimi vent’anni è emersa una nuova forma di intrattenimento che ha riscos-
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so un successo di critica e di pubblico. Questo modello di narrazione televisiva si distingue per la sua complessità narrativa, contrapposta alle forme episodiche e seriali che hanno caratterizzato sin dagli inizi gran parte della televisione americana.Troviamo esempi di questa forma narrativa innovativa in diverse serie di successo degli ultimi anni, da Seinfeld a Lost, da West Wing a X-Files, così come in altre serie, apprezzatissime dalla critica ma non particolarmente seguite dal pubblico, come Ti presento i miei, Veronica Mars, Boomtown e Firefly. Il canale via cavo HBO ha costruito la propria reputazione nonché il suo bacino di abbonati sulla programmazione di serie complesse dal punto di vista narrativo come I Soprano, Six Feet Under, Curb Your Enthusiasm e The Wire. Queste serie costiuiscono un’evidente alternativa alla convenzionale narrazione televisiva. Lo scopo di questo studio è delineare gli attributi formali di questa modalità narrativa, esaminarne la particolare fruizione e gli schemi di funzionamento e addurre una serie di giustificazioni della sua manifestazione negli anni Novanta. [...] Nell’esaminare la complessità narrativa in quanto modalità di narrazione mi rifaccio a un paradigma di poetica storica che colloca gli sviluppi formali nell’ambito degli specifici contesti storici in cui avvengono la produzione, la circolazione e la fruizione.1 Secondo un approccio di poetica storica, le innovazioni nelle forme mediatiche non sono da considerarsi come il semplice frutto della creatività di artisti visionari, bensì il risultato dell’intreccio di un certo numero di forze storiche che intervengono a trasformare le norme stabilite in ogni pratica creativa. Un’analisi di questo tipo esamina gli elementi formali di ogni medium nell’ambito del contesto storico che ha contribuito a determinarne le innovazioni e a perpetuare determinate norme. Quali sono, quindi, i contesti rilevanti che rendono possibile il manifestarsi di una complessità narrativa? Un certo numero di trasformazioni cruciali nelle industrie mediatiche, nelle tecnologie e nei comportamenti dei pubblici corrisponde all’emergere della complessità narrativa. Evidentemente, tali trasformazioni non determinano in maniera diretta tale evoluzione formale, ma contribuiscono ad alimentare le strategie creative. Benché i vari sviluppi contestuali richiedano un esame molto più articolato, una rapida panoramica dei principali cambiamenti intervenuti nelle pratiche televisive degli anni Novanta illustra sia come queste trasformazioni incidano sulle pratiche creative, sia come i caratteri formali si estendano sempre oltre i confini testuali. Un’influenza fondamentale che ha contribuito all’emergere della complessità narrativa nella televisione contemporanea è il cambiamento di percezione da parte degli autori riguardo alla legittimità e all’attrattiva del medium. Molti dei programmi televisivi innovativi degli ultimi vent’anni sono stati ideati da autori che provenivano dal cinema, un mezzo tradizionalmente di maggior prestigio culturale: David Lynch (Twin Peaks) e Barry Levinson (Homicide e Oz) come registi, Aaron Sorkin (Sports Night e West Wing), Joss Whedon (Buffy, Angel e Firefly), Alan Ball (Six Feet Under) e J.J. Abrams (Alias e Lost) come sceneggiatori. Parte dell’attratti-
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va si deve alla reputazione della televisione di essere un mezzo “autoriale”, che permette ad autori e creatori di mantenere un controllo maggiore sul proprio lavoro rispetto a quanto non accada nella lavorazione di un film, dove è il regista ad avere l’ultima parola. Inoltre, da quando la reality tv è diventata un’alternativa popolare e redditizia ai programmi basati su un copione, gli autori sembrano rivendicare un qualità del proprio lavoro esclusiva della finzione televisiva; la complessità narrativa evidenzia l’attento dosaggio di elementi comici e drammatici degli intrecci che per i produttori di reality è più difficile creare.2 Molti autori preferiscono cimentarsi nelle sfide più stimolanti e nelle maggiori possibilità creative offerte dal formato più esteso delle serie, come l’approfondimento psicologico del personaggio, lo sviluppo progressivo dell’intreccio e variazioni episodiche, tutte opzioni semplicemente impossibili in un film della durata di due ore – si noti come il film di Whedon, Serenity, tratto dalla serie Firefly, comprimesse la trama di un’intera stagione in due ore, riducendo al minimo le variazioni narrative, l’introspezione dei personaggi e la suspense. Se una narrazione cinematografica innovativa è emersa in forma “elitaria” negli ultimi anni, in film “rompicapo” come Memento e Il ladro di orchidee, i canoni hollywoodiani continuano a prediligere l’evento spettacolare e formule adatte a sfondare al botteghino; in confronto, molti programmi narrativamente complessi risultano essere quelli di maggiore successo televisivo, il che fa supporre che il mercato televisivo è forse più adatto alla complessità rispetto a quello cinematografico. [...] Le innovazioni tecnologiche hanno contribuito ad accelerare a loro volta questo scarto. Nei primi trent’anni di esistenza del mezzo televisivo, la programmazione era controllata essenzialmente dai network, con un’offerta limitata di programmi in un palinsesto rigidamente scandito e nessun’altra opzione di accesso. Se le repliche proliferavano su altre emittenti indipendenti, la programmazione era di solito irregolare, costringendo i singoli episodi ad inserirsi nella trasmissione pressoché casuale di una serie. Con la diffusione della televisione via cavo e del videoregistratore nei primi anni Ottanta, lo spettatore ha cominciato ad avere un controllo maggiore: la proliferazione di emittenti ha contribuito a diffondere le repliche, abituando gli spettatori a guardare un programma in seconda visione o riguardare film in prima visione trasmessi via cavo più volte durante la settimana. E dispositivi come il videoregistratore e i lettori DVD hanno consentito agli spettatori non solo di scegliere il momento in cui guardare un programma, ma, ciò che è più importante per quanto riguarda la costruzione narrativa, di riguardare episodi o analizzare singoli segmenti di sequenze particolarmente complesse. Se alcune serie sono state distribuite in videocassetta per anni, la qualità visiva e la compattezza del DVD hanno favorito una rapida diffusione di una nuova modalità di visione televisiva, con abbuffate della stagione di una serie alla volta da parte dei fan (compresi vari tentativi effettuati di guardare i 24 episodi di una stagione di fila, equivalenti all’intero arco temporale della narrazione) e
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visioni ripetute di una forma di intrattenimento un tempo considerata per lo più effimera. Anche le innovazioni tecnologiche esterne al piccolo schermo hanno inciso sulla narrazione televisiva. L’ubiquità di Internet ha permesso ai fan di attingere a un’“intelligenza collettiva” per scambiare informazioni, interpretazioni e discussioni di narrazioni complesse che invitano alla partecipazione attiva – e in casi come quello di Babylon 5 o Veronica Mars gli autori stessi hanno preso parte alle discussioni e usato questi forum come strumenti di feedback per testare i livelli di comprensione e fruizione del prodotto.3 Altre tecnologie digitali come i videogame, i blog, i siti on-line dei giochi di ruolo e i siti dei fan hanno creato delle dimensioni in cui i fruitori possono estendere la propria partecipazione agli universi narrativi in modalità che vanno al di là della direzione a senso unico della visione tradizionale e estendendo i meta-mondi di creazioni narrative complesse come la Sunnydale di Buffy e la Springfield dei Simpson in mondi completamente interattivi e partecipativi. Le pratiche consumistiche e creative della fan culture, che gli studiosi di cultural studies hanno inserito nei fenomeni della subcultura degli anni Novanta, si sono ampiamente diffuse grazie a Internet, trasformando il comportamento attivo da parte del pubblico in una prassi più che consolidata. Se nessuna di queste nuove tecnologie è stata una causa diretta del manifestarsi della complessità narrativa, gli incentivi e le possibilità che offrono sia all’industria mediatica sia ai fruitori, ha favorito il successo di molti di questi programmi. Sostenere che l’orientamento delle programmazioni è un riflesso diretto dei gusti degli spettatori e delle pratiche di visione è una grossolana semplificazione; ciò non toglie che molte innovazioni, compresa la complessità narrativa, sono emerse grazie a una partecipazione attiva da parte degli spettatori. Tramite le nuove tecnologie di registrazione domestica, grazie ai DVD e alla partecipazione on-line, i fruitori hanno assunto un ruolo attivo nel consumo di una televisione narrativamente complessa, favorendone lo sviluppo nell’ambito dell’industria mediatica. Come è stato detto, questa forma di programmazione richiede un processo attivo e attento di comprensione per decodificare la complessità delle storie così come le modalità narrative offerte dalla televisione contemporanea. Il pubblico tende ad accogliere i programmi complessi con una devozione e un impegno molto maggiori di quanto non avvenga per la televisione convenzionale, costruendo intorno a questi programmi una vera e propria fan culture, fino a fare pressione sull’industria televisiva (specialmente quando un programma rischia di essere eliminato dal palinsesto). L’emergere della complessità narrativa ha visto inoltre moltiplicarsi la critica televisiva amatoriale – come dimostra l’esistenza di siti come www.televisionwithoutpity.com, sui quali vengono fornite critiche e recensioni circostanziate e argute degli episodi settimanali.4 Secondo Steven Johnson, questa forma di complessità costituisce per gli spettatori un “esercizio mentale” che incrementa le capacità di osservazione e di risoluzione dei problemi. Che
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sia vero o meno, è innegabile che questo genere di narrazione televisiva induce il pubblico a partecipare più attivamente, offrendo una gamma di ricompense e soddisfazioni molto più ampia della maggior parte dei programmi convenzionali. Se è difficile sostenere che uno qualsiasi di questi sviluppi mediatici, creativi, tecnologici e partecipativi ha causato l’emergere della complessità narrativa come modalità di narrazione, tutti insieme hanno gettato le basi per il suo sviluppo e la sua crescente popolarità. Ma in che cosa consiste esattamente la complessità narrativa? Allo stadio più elementare, la complessità narrativa è una ridefinizione delle forme a episodi sotto l’influenza della narrazione seriale – non necessariamente una fusione completa tra struttura a episodi e struttura seriale, ma un equilibrio variabile. Sottraendosi all’esigenza di una conclusione dell’intreccio nell’ambito di ogni singolo episodio che caratterizza la convenzionale struttura a episodi, la complessità narrativa privilegia una continuità del racconto abbracciando un’ampia varietà di generi. Inoltre, la complessità narrativa affranca la struttura seriale dalla generica associazione alle soap opera – molti (benché certamente non tutti) programmi complessi raccontano storie inserite in una struttura seriale, rifiutando o sdrammatizzando lo stile melodrammatico e l’attenzione alle relazioni tra i personaggi rispetto all’intreccio tipico delle soap opera, il che differenzia altresì i programmi contemporanei dalle connotazioni culturali del denigrato genere soap. Se la narrazione di una soap opera può essere senz’altro complessa e richiedere un’elevata attenzione da parte del pubblico per districarsi nella rete di legami e antecedenti evocati a ogni snodo narrativo, in genere, programmi narrativamente complessi privilegiano in misura maggiore gli sviluppi della trama, lasciando che sia questa a fare emergere le relazioni tra i personaggi e la loro personalità, piuttosto che l’inverso. [...] Tuttavia, la complessità narrativa non si limita alla serialità degli episodi in onda in prima serata; molti programmi sono interessati dall’ampia modalità della complessità, i quali si ribellano alle norme seriali, adottando nello stesso tempo strategie narrative in contrasto con le convenzioni della struttura a episodi. Seinfeld, per esempio, mescola le due strategie, presentando una storia continua in alcune stagioni – come l’episodio pilota della sit-com sulla NBC, il matrimonio imminente di George, o il nuovo lavoro di Elaine. Queste story arc hanno essenzialmente la funzione di fornire uno sfondo che si presta a battute e riferimenti autoreferenziali – George suggerisce una possibile storia per un episodio della sit-com “sul nulla” sua e di Jerry, incentrato sulla sera in cui aspettavano di essere serviti in un ristorante cinese, che è effettivamente la trama di un episodio precedente. Comunque sia, questi intrecci complessi e lo sviluppo della trama in diversi episodi richiedono una conoscenza pregressa minima da un episodio all’altro, senza dubbio per via della rarità di azioni ed eventi significativi, in una sit-com incentrata sulla cronaca di un’ordinaria quotidianità. Se indubbiamente il godimento della fiction è accresciuto dalla capacità di cogliere i vari riferimenti, la comprensione dell’intreccio non
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richiede certo l’impegno necessario alle storie di ampio respiro temporale di X-Files o Buffy. Nondimeno, Seinfeld offre una abbondanza di complessità narrativa, spesso attraverso il rifiuto di conformarsi alle norme di chiusura, scioglimento, e singolarità delle story lines. Molti episodi lasciano i personaggi in situazioni insostenibili – ad esempio, Kramer arrestato con l’accusa di essere un pappone, Jerry che corre nel bosco dopo essersi trasformato in un “licantropo”, George rinchiuso nella toilette di un aereo con un serial killer. Questi momenti irrisolti non servono ad alimentare la suspense in attesa dell’episodio successivo, ma piuttosto a chiudere l’episodio su una nota finale comica che non avrà ulteriori sviluppi narrativi. [...] Man mano che i programmi impongono le loro convenzioni di complessità, è sorprendente constatare fino a che punto gli autori si spingano a sfruttarne le possibilità, proponendo variazioni barocche su temi e norme stabilite; questi effetti speciali della narrazione possono costituire l’atto finale in serie come Seinfeld o Ti presento i miei quando le storie distinte entrano in collisione, oppure, come avviene in Lost o 24, una svolta narrativa ci costringe a riconsiderare sotto un’altra luce quello che era avvenuto fino a quel momento. In altre serie, possono essere variazioni sul tema – ciascun episodio di Six Feet Under si apre sulla “morte della settimana”, ma dalla seconda stagione gli autori variano la presentazione di queste morti per imbrogliare le piste e le interpretazioni, in modo da tenere avvinti gli spettatori una volta comprese le norme intrinseche della fiction. Un momento particolarmente indicativo della finzione narrativa appare nell’episodio Orientamento di Lost: dopo la scoperta di ciò che si nasconde sotto la misteriosa botola, i due personaggi guardano un filmato informativo che spiega le finalità di quell’infrastruttura nell’ambito di un progetto di ricerca. Alla fine della visione di quel filmato enigmatico che contiene molti dettagli oscuri che gettano una nuova luce su eventi riferiti alla prima stagione della serie, Locke esclama:“Dovremmo riguardarlo un’altra volta!”, rispecchiando così le reazioni di milioni di telespettatori preparati ad analizzare gli episodi in cerca di indizi utili a risolvere i misteri diegetici e formali della storia. Si tratta di qualcosa di molto diverso dalla consapevolezza riflessiva dei cartoni animati di Tex Avery che esibiscono la propria costruzione o dalla tecnica di certi film modernisti che chiedono allo spettatore di seguire la loro realizzazione da una distanza emotiva; questa riflessività operativa ci invita ad appassionarci alla realtà fittizia, apprezzandone nel contempo la costruzione. [...] I programmi narrativamente complessi impiegano, inoltre, una serie di meccanismi narrativi che, se non appartengono unicamente a questa modalità, sono usati con tale frequenza e regolarità da diventare la norma più che l’eccezione. Le analessi o i salti temporali non sono inusuali nella televisione convenzionale, in cui i flashback vengono impiegati per riepilogare un antecedente narrativo cruciale (come un detective che ricostruisce i fatti che portano alla soluzione del delitto), oppure per collocare l’intera scena
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di un episodio nel passato (come avviene nella drammatizzazione dell’incontro tra Rob e Laura in The Dick Van Dyke Show). Allo stesso modo, i programmi convenzionali hanno spesso fatto ricorso a sequenze oniriche o di fantasia per prospettare possibilità alternative (come Pappa e ciccia – ripresa sottoforma di sit-com anni Cinquanta) o per scandagliare la vita interiore di un personaggio (come nell’episodio sperimentale Sweet Dreams di A cuore aperto). Un altro dispositivo, che si trova impiegato in episodi di programmi convenzionali come Arcibaldo e Il mio amico Arnold, consiste nel raccontare la stessa storia da molteplici prospettive, il cosiddetto “effetto Rashomon”, dal capolavoro di Kurosawa. La narrazione affidata a una voce off è per lo più atipica in televisione, ma programmi convenzionali come Dragnet e Blue jeans vi fanno ricorso per introdurre una nota emotiva e fornire elementi esplicativi. Tuttavia, tutti questi meccanismi, che si discostano dalla modalità “piattamente” banale della narrazione televisiva convenzionale, in genere ribadiscono la propria ovvietà segnalandosi esplicitamente in quanto deviazioni dalla norma, tramite una narrazione esplicativa (“Me lo ricordo bene”) o situazioni “costruite” (come l’ipnosi, i testimoni di un processo o i ricordi scaturiti da un album di foto) per sottolineare il fatto che si stanno impiegando convenzioni inusuali. Nelle serie contemporanee queste variazioni nelle strategie narrative sono più comuni e indicate con maggiore sottigliezza o ritardo; questi programmi sono costruiti senza timore di indurre una confusione temporale nel telespettatore. Le sequenze di fantasia abbondano senza bisogno di particolari segnali di demarcazione: Un medico tra gli orsi, Six Feet Under, I Soprano e Buffy contengono visioni di eventi che oscillano tra soggettività del personaggio e realtà diegetica, giocando sul filo dell’ambiguità a vantaggio dell’introspezione del personaggio, della suspense e dell’effetto comico. La narrazione complessa arriva spesso a sfondare la quarta parete, sia tramite una rappresentazione visiva diretta (Malcolm in the Middle, The Bernie Mac Show), sia tramite una più ambigua voce off che sfuma il confine tra realtà diegetica e non diegetica (Scrubs, Ti presento i miei), attirando l’attenzione sulla rottura delle convenzioni. Programmi come Lost, Jack and Bobby e Boomtown presentano analessi in ogni episodio con pochi segnali indicatori, mentre in Alias e West Wing gli episodi cominciano di frequente con un teaser al culmine della storia, per poi tornare indietro e spiegare la situazione confusa su cui si è aperto l’episodio. In tutti questi programmi, la mancanza di indicazioni esplicite e imbeccate narrative creano dei momenti di disorientamento, esigendo dai telespettatori un impegno maggiore per comprendere la storia e ricompensando gli spettatori fedeli che hanno imparato a padroneggiare le convenzioni proprie della narrazione complessa di ogni singolo programma. Se tali strategie possono essere assimilate alle dimensioni formali dell’arte cinematografica, il contesto in cui si manifestano è espressamente popolare e diretto a un pubblico di massa.Alcuni momenti di Lost o Alias possono temporaneamente confonderci, ma questi programmi ci chiedono di
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perseverare fino al momento in cui la nostra pazienza sarà ripagata con la comprensione complessa ma coerente della storia, al contrario di quanto accade in molti film d’autore, in cui lo spettatore viene lasciato nel dubbio e nell’ambiguità.5 L’episodio di West Wing intitolato Buon Natale, Josh esemplifica l’impiego complesso di queste strategie discorsive: l’episodio è costruito sullo sfondo della seduta terapeutica di Josh Lyman per rielaborare il suo stress postraumatico in seguito all’attentato al presidente in cui è rimasto ferito, il che giustifica il convenzionale inframmezzarsi di ripetuti flashback al racconto di Josh.Tuttavia, i flashback sono predominanti e non sempre seguono un ordine preciso; inoltre, i raccordi sonori tra il presente della seduta terapeutica e gli eventi passati contribuiscono a creare un senso di disorientamento volto ad incrementare la tensione e la suspense. Per di più, vediamo frequenti drammatizzazioni dell’incidente di Josh che si taglia una mano con un pezzo di vetro, incidente che lui sostiene essere avvenuto realmente mentre il suo analista sospetta, a ragione, che sia una bugia sotto cui si cela un atto più violento; fino alla fine dell’episodio, questi flashback menzogneri non si distinguono chiaramente da quelli che riguardano eventi reali effettivamente accaduti, lasciando al pubblico il compito di individuare le contraddizioni e ricostruire la cronologia corretta. L’episodio culmina con una sequenza di cinque minuti in cui si intrecciano suoni e immagini disgiunte di cinque distinti archi temporali (compreso uno che in realtà non si è mai verificato), montati ritmicamente in modo da comunicare un forte impatto emotivo. Queste modalità di confezionamento sono più comuni nel cinema d’autore europeo che nella televisione americana, ma in definitiva funzionali a una continuità narrativa coerente. Il godimento che si trae dall’episodio è di tipo seriale, dato che più conosciamo Josh e più partecipiamo del suo stato emotivo, poiché l’episodio si ritaglia come il ritratto drammaticamente avvincente di un personaggio (che è valso un Emmy all’attore Bradley Whitford), ma soltanto se ne accettiamo le specifiche convenzioni narrative, una competenza che il pubblico abituale impara ad acquisire con il tempo. I programmi narrativamente complessi inducono a un temporaneo disorientamento e confusione, spingendo gli spettatori a formare le proprie capacità di comprensione attraverso la visione prolungata del programma e la partecipazione attiva.6 Questa necessità di acquisire specifiche competenze nella decodifica delle storie e dell’universo diegetico è particolarmente rilevante per un certo numero di media contemporanei.7 Certamente, i videogame si basano su questa capacità di imparare a comprendere e a interagire con una serie di interfacce e universi fittizi; praticamente ogni gioco contiene il proprio “modulo di addestramento diegetico” per permettere ai giocatori di imparare a padroneggiare i regolamenti e le aspettative di quel particolare mondo virtuale. E anche nel cinema si è assistito all’emergere di un popolare ciclo di “film rompicapo” che richiedono l’apprendimento da parte del pubblico delle regole particolari del film per poterne compren-
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dere la narrazione; film come Il sesto senso, Pulp Fiction, Memento, I soliti sospetti, Il ladro di orchidee, Se mi lasci ti cancello e Lola corre hanno fatto propria un’estetica ludica, invitando il pubblico a giocare con gli autori nel decifrare i codici interpretativi che permettono di venire a capo delle complesse strategie narrative.8 Tuttavia, lo scopo di questi film rompicapo non è quello di risolvere gli enigmi anzitempo; al contrario, lo spettatore vuole acquisire le competenze necessarie a seguire le strategie narrative e nel contempo continuare a godere del piacere di essere manovrati con successo. Dubito che chiunque riesca a prevedere le pieghe di un film di questo tipo possa divertirsi più dello spettatore che si abbandona (attivamente) al gioco fino in fondo. I film rompicapo ci invitano a osservare gli ingranaggi dei meccanismi narrativi, arrivando persino a ostentare il proprio funzionamento. Basti pensare al climax de Il sesto senso, in cui la svolta narrativa è rivelata dai flashback che mostrano il modo magistrale con cui il film si è preso gioco degli spettatori. Benché sono pochi i programmi televisivi che hanno seguito pienamente questo esempio (singoli episodi di Seinfeld, I Simpson, Scrubs e Lost hanno emulato questi film, a loro volta influenzati dalla serie antologica Ai confini della realtà), l’intento fondamentale di videogame, film rompicapo e serie televisive narrativamente complesse sembra essere il desiderio di coinvolgere attivamente nella storia e contemporaneamente sorprendere con le manipolazioni della narrazione. Questa è l’estetica all’opera: vogliamo godere dei risultati del meccanismo e insieme meravigliarci del suo funzionamento. Cosicché, la televisione narrativamente complessa stimola, e in certi casi rende necessaria, una nuova modalità partecipativa da parte dello spettatore. Se i fenomeni cult hanno da tempo dimostrato un fervente coinvolgimento negli universi fittizi, vigilando sulla coerenza degli antefatti, la congruenza dei personaggi e la logica intrinseca di serie come Star Trek e Doctor Who, i programmi contemporanei concentrano questa dettagliata dissezione sulla complessità dell’intreccio e della fabula oltre che dei personaggi e della realtà descritta. Se guardiamo Lost, Alias, Veronica Mars, X-Files, Desperate Housewives e Twin Peaks è, almeno in parte, per cercare di decifrare gli enigmi centrali di ognuno di questi programmi. Basta dare un’occhiata a un qualsiasi forum di appassionati su Internet per rendersi conto dell’opera investigativa in corso. Ma, come in qualsiasi fiction basata sul mistero, gli spettatori vogliono essere sorpresi e spiazzati, oltre che soddisfatti, dalla logica intrinseca della storia. Gli spettatori di questi programmi si ritrovano coinvolti in una diegesi avvincente (come avviene per qualsiasi storia efficace) e concentrati sul processo discorsivo della narrazione necessario a venire a capo della complessità e del mistero soggiacenti. In tal modo, questi programmi trasformano molti spettatori in esperti amatoriali di narratologia, attenti a notare l’utilizzo e la violazione delle norme, a ricostruire le cronologie e a individuare incoerenze e continuità tra i vari episodi e persino serie intere. Se è indubbio che il pubblico ha sempre ricoperto un ruolo attivo, la maggior parte degli studi
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di questi processi si è concentrata sulle negoziazioni richieste dal contenuto televisivo, per conciliare le politiche dei video di Madonna o dei Robinson. La complessità narrativa delle serie contemporanee invita il pubblico a una partecipazione attiva anche a livello della forma, evidenziando la convenzionalità della televisione tradizionale ed esplorando le possibilità della narrazione innovativa ad ampio respiro e la creatività delle strategie discorsive tra i singoli episodi. [...] Da questo studio della complessità narrativa si constata l’emergere di un nuovo paradigma della narrazione televisiva nel corso degli ultimi vent’anni, che ha portato a una riconcettualizzazione dei confini tra le forme seriali e le forme a episodi, a un grado maggiore di consapevolezza dei meccanismi narrativi e a un coinvolgimento accresciuto da parte dello spettatore, sia nell’ambito del piacere diegetico sia in quello della consapevolezza formale. L’esplorazione della struttura formale di questa modalità narrativa ci permette di coglierne i rapporti intrattenuti con i più ampi sviluppi delle industrie mediatiche e tecnologiche, delle tecniche creative e delle pratiche della vita quotidiana, tutti profondamente interessati dalle trasformazioni culturali della contemporaneità legate alla comparsa dei media digitali e delle forme più interattive della comunicazione e dell’intrattenimento. Una comune tendenza che si manifesta sia nelle narrazioni televisive che in molte forme digitali come i videogame e le pagine Web è la richiesta di un’alfabetizzazione procedurale, il riconoscimento da parte dei consumatori che qualsiasi modalità espressiva segue determinati protocolli e che per godere pienamente di una forma espressiva è necessario padroneggiarne le procedure intrinseche. Questa necessità si manifesta esplicitamente nei videogame, dove la maestria nel controllo delle procedure è un requisito per il successo, così come nell’utilizzo del web, dato che in breve tempo ne abbiamo assimilato le nuove procedure al punto da trasformarle in comportamenti abituali. Per quanto riguarda la televisione, le attuali narrazioni complesse stanno portando in primo piano le competenze nella comprensione narrativa e l’alfabetizzazione mediatica che molti spettatori hanno sviluppato ma che raramente hanno avuto occasione di mettere in pratica se non in modalità molto rudimentali. Per comprendere tale fenomeno dobbiamo servirci della narratologia formale per rilevarne struttura e confini, avvalendoci altresì di altri metodi per analizzare l’intrecciarsi di queste modalità narrative con le dimensioni delle industrie creative, delle innovazioni tecnologiche, pratiche partecipative e comprensione dei fruitori. Questo tipo di analisi, derivato dal paradigma delle poetiche storiche, merita di essere annoverato tra le molteplici metodologie degli studi mediatici; esplorando i legami tra gli sviluppi formali e i contesti culturali, mette in luce il fatto che tutti gli aspetti dei media, dalla produzione alla ricezione, sono in gioco nelle modalità complesse con cui la televisione racconta storie complesse. [traduzione di Simona Mambrini]
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Note originali del testo 1 Cfr. Bordwell,“Historical Poetics of Cinema”; Jenkins,“Historical Poetics and the Popular Cinema”; Mittell, Genre and Television, (in cui applico la poetica storica alla televisione passando per Dragnet e il genere poliziesco). 2 Non si intende con questo affermare che la reality tv sia priva di complessità, ma nella maggior parte dei reality show si constata di solito che la struttura narrativa si deve più ai personaggi (come nelle tradizionali soap operas) che agli eventi e all’intreccio. 3 Per un primo esempio di questa pratica tecnologica si veda Henry Jenkins,“‘Do You Enjoy’”; Jenkins cita significativamente la frase di un fan online:“Vi immaginate se Twin Peaks fosse uscito prima dell’era dei videoregistratori o di Internet? Sarebbe stato un vero inferno!” (p. 54). 4 Questo sito Web recensisce sia i reality show sia le fiction (escluse le sitcom), ma la maggior parte dei programmi di fiction si può definire narrativamente complessa, mentre la serie di programmi esclusi è più convenzionale. 5 Per un autorevole resoconto della narrazione cinematografica d’autore a questo proposito, si veda Bordwell, Narration. 6 È interessante notare che quando ho mostrato questo episodio durante una lezione, uno studente, che non aveva mai visto questo programma, pensava si trattasse di un episodio “riassuntivo”, interpretando i vari flashback come riferiti a eventi accaduti nelle puntate precedenti. Mentre l’unica sequenza già mostrata riguarda i pochi attimi in cui Josh viene ferito nell’attentato. 7 Per un approfondimento di questa tendenza dilagante nei vari media, si veda Johnson. 8 Molte delle tecniche di questi film sono ricavate da precedenti esperimenti cinematografici, ma, a parte alcuni film “paranoici” degli anni Settanta come La conversazione, tali tecniche e forme erano state raramente usate. Da Jason Mittell, Narrative Complexities in Contemporary American Television, «The Velvet Light Trap», 58, Fall 2006, 29-40
Opere citate nel testo originale Bordwell D. 1985, Narration in the Fiction Film, Madison: University of Wisconsin – 1989, Historical Poetics of Cinema, in Barton Palmer R. (cur.), The Cinematic Text: Methods and Approaches, New York: AMSP Jenkins H. 1995a, Historical Poetics and the Popular Cinema, in Hollow J. e Jankovich M. (cur.), Approaches to the Popular Cinema, Manchester: Manchester University Press – 1995b, ‘Do You Enjoy Making the Rest of Us Feel Stupid?’
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Bibliografia di riferimento
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Alt.Tv.Twinpeaks, the Trickster Author and Viewer Mastery, in Lavery D. (cur.), Full of Secrets: Critical Approaches to “Twin Peaks”, Detroit: Wayne State University Press Johnson S. 2005, Everything Bad is Good for You: How Today’s Popular Culture is Actually Making Us Smarter, New York: Riverhead Books Mittell J. 2004, Genre and Television: From Cop Shows to Cartoons in American Culture, New York: Routledge
Giorgio Grignaffini I generi narrativi Dopo aver individuato le più diffuse formule seriali della fiction, passiamo a vedere quali sono i generi narrativi più diffusi e come si sono legati ai vari formati. Come abbiamo già accennato a proposito della soap opera, in realtà formato e genere narrativo sono interdipendenti. Inoltre, ricordiamo come il genere narrativo sia in diretto rapporto anche con il sistema dei generi extratelevisivi, in particolare quello cinematografico. Riprendendo la tripartizione che avevamo proposto [...] (mondo rappresentato, tipo di coinvolgimento, tonalità), è possibile vedere come in realtà le fiction realizzate agiscano a tutti e tre i livelli dando origine a modelli ibridi: per fare un esempio, se possiamo definire di genere ospedaliero tutte quelle fiction ambientate in ospedale, avremo innumerevoli varianti a seconda che si ricerchi una partecipazione emotiva legata quasi esclusivamente alle vicende mediche (come in una serie tedesca trasmessa in Italia alcuni anni fa, Stefanie, Canale5, 1998) o invece si cerchi di creare un’affezione anche alle vicende personali dei medici (ER Medici in prima linea) o ancora l’ambiente medico sia un pretesto per situazioni comiche (Scrubs, MTV, 2003) o addirittura, come nella miniserie dell’autore danese Lars Von Trier, The kingdom (1994), l’ospedale sia in realtà un ambiente dove avvengono eventi riconducibili a dinamiche da film horror. I mondi rappresentati Proveremo comunque a elencare i generi narrativi più praticati dalla fiction televisiva, pur consapevoli dell’inesauribile varietà di forme che essi hanno assunto (e assumeranno) nella loro storia, iniziando a distinguere i programmi in base all’ambientazione del racconto. A Western: molto diffuso negli USA negli anni cinquanta e sessanta, per lo più in formati da 30 minuti, ha spesso innestato altri spunti sugli elementi caratterizzanti desunti dal cinema (cowboy, cavalli, indiani e praterie). Pensiamo al celebre Rin tin tin (Canale Nazionale, 1957) che vede nell’accoppiata bambino-cane un richiamo a una dimensione di commedia familiare, nonostante lo sfondo avventuroso. Più “familiare” e meno western classico anche un prodotto cult come La casa nella prateria
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(Raiuno, 1977), dove ritroviamo i paesaggi e le avventure tipiche del genere, ma all’interno di una cornice decisamente più rassicurante, con ampio spazio alle vicende degli adolescenti. Dalla fine degli anni novanta, negli USA si sono tentate alcune riproposizioni del genere: dal classico I magnifici sette (Raidue, 2002) al western femminile di Regina di spade (ltalia1, 2003), oltre ad alcuni western ambientati al giorno d’oggi, come l’australiano Le sorelle McLeod (Raiuno, 2003), dove all’epopea della frontiera si sostituisce una visione della vita nella prateria non priva di coloriture ecologiste, in contrapposizione alla vita delle grandi metropoli. – Fantascienza: anche in questo caso lo sviluppo del genere in televisione va di pari passo con quello cinematografico.Tra i primissimi tentativi degli anni sessanta ricordiamo il tedesco Orion (Canale Nazionale, 1967), ma soprattutto due grandi modelli in cui si mette a punto il linguaggio del genere: da una parte Star Trek, strepitoso successo di pubblico le cui avventure “alla scoperta di nuovi mondi” (come recita il celebre incipit) portano con se forti elementi di somiglianza con il cinema western e più in generale di avventura; dall’altra, il modello inglese di Gerry Anderson che con UFO: Base Luna (Canale nazionale, 1971) e poi con Spazio 1999 (Raiuno, 1976) inserisce all’interno del genere un’aura di mistero e un interrogativo, per nulla banale, sul rapporto tra l’essere umano e l’alieno, con evidenti risonanze con le atmosfere più rarefatte del capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio (1968). Negli anni ottanta e novanta la fantascienza in televisione ha seguito alterne vicende; oltre a Star Trek, le cui avventure proseguono nei vari “spin off”– serie che sviluppano temi o personaggi secondari di altre – e che rappresenta il modello più tradizionale di serie fantascientifica, si sono verificati numerosi innesti di elementi del genere in vari prodotti. Pensiamo a Dark Angel (Italia1, 2003), dove un futuro cupo e misterioso (con evidenti richiami anche in questo caso a un capolavoro cinematografico come Blade Runner, 1982, di Ridley Scott) fa da sfondo alla lotta per la sopravvivenza di una giovane fuggiasca; oppure ai più datati L’uomo da sei milioni di dollari (Canale5, 1983), La donna bionica (Italia1, 1983) o Supercar (Italia1, 1984), dove il richiamo fantascientifico si limita agli espedienti tecnologici che consentono ai protagonisti di dotarsi di un potere superiore a quello degli altri uomini, ma l’impianto complessivo rimane legato generalmente al poliziesco e all’action. Un capitolo a parte della fiction fantascientifica va riservato alle trasposizioni in serie televisive di eroi dei fumetti: da Hulk (Italial, 1983) a Wonder Woman (Canale5, 1982) fino al recente Smallville (Italia1, 2003, incentrato sull’adolescenza di Superman), queste serie riadattano i personaggi a cui si ispirano alla sensibilità del periodo in cui sono realizzate, contaminandole perciò con altri generi. Pensiamo ad esempio a Smallville, che innesta le classiche vicende di Superman (lotte titaniche con supercriminali) all’interno di una prospettiva da drama scolastico adolescenziale (sul modello di Beverly Hills 90210, Italia1, 1992, per intenderci), in
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cui predominano sentimenti, problemi di identità, rapporti con i genitori. Meno frequenti ma importanti per il successo ottenuto le realizzazioni di genere fantascientifico in formati diversi dalle series: dalle sitcom Mork e Mindy (Raidue, 1979) o Alf (in cui l’alieno è semplicemente portatore di un punto di vista alternativo rispetto al senso comune) al serial (Visitors, Canale5, 1984, incentrato sulla paura dell’extraterrestre), alla miniserie Taken. B Giallo-poliziesco: questo genere è senz’altro uno dei più diffusi e proprio per questo motivo si presenta in una miriade di formule differenti. Inoltre, essendo non solo un genere codificato ma anche uno schema-base della narrazione (un mistero, qualcuno che vuole scoprire la verità tra ostacoli e pericoli, il trionfo della verità), è possibile vedere all’opera in modo più o meno evidente in tantissime fiction elementi più o meno riconoscibili del giallo-poliziesco (es. I misteri di Cascina Vianello, Canale5, 1997, in cui allo schema della sitcom, con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, viene aggiunto un caso giallo da risolvere, naturalmente affrontato con grande leggerezza).Tra giallo e poliziesco, pur nelle evidenti analogie, possiamo sottolineare alcune differenze. Il giallo presenta abitualmente un omicidio (o un altro crimine molto grave), uno o più investigatori, non necessariamente professionisti (pensiamo alla scrittrice della Signora in giallo, Raiuno, 1988; ai miliardari di Cuore e Batticuore, Raidue, 1986; all’avvocato dal cuore tenero di Avvocato Porta, Canale5, 1997) e una struttura narrativa basata essenzialmente sulla ricerca di indizi e prove contro il colpevole. Naturalmente le varianti anche in questo caso possono essere tante: pensiamo ad esempio al Tenente Colombo, in cui lo spettatore assiste nei primi dieci-quindici minuti dell’episodio all’omicidio e per il resto del tempo osserva con quali astuzie e con quanto acume il protagonista riuscirà a far confessare il colpevole; oppure le riproposizioni dei classici del giallo letterario dove lo schema è invece tradizionalmente incentrato sulla sfida a trovare gli indizi sufficienti a incastrarlo che l’assassino lancia sia al detective sullo schermo sia allo spettatore a casa (moltissimi gli esempi: da Ellery Queen, Raiuno, 1978, a Poirot, Rete4, 2002; da Nero Wolfe a Maigret – entrambi apparsi in diverse versioni, Rai e Mediaset). Una sottocategoria del giallo è rappresentata dal legal drama (Perry Mason, Canale Nazionale, 1962, è l’esempio forse più celebre), in cui la ricerca degli indizi di un delitto è compiuta da un avvocato incaricato da un cliente e la risoluzione del caso è affidata al momento del processo: la performance del protagonista è quindi non solo investigativa, ma soprattutto oratoria; segnaliamo tra l’altro come il processo penale nell’ordinamento giuridico americano sia strutturato in modo da lasciare molto spazio alle qualità oratorie e finanche teatrali dell’avvocato, qualità questa sfruttata ampiamente dalla tv e dal cinema. Proprio queste caratteristiche dell’ambientazione processuale, con la sua ritualità ricca di tensione e la possibilità di mettere in scena i protagonisti nell’affascinante cornice del
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dibattito processuale, dove essi possono mettere in luce saggezza, abilità, carisma, sensibilità, hanno fatto sì che il legal drama si allargasse anche a tematiche meno legate al giallo classico. Da qui serie come Ally McBeal che parte da casi legali spesso bizzarri per portare elementi di originalità a uno schema da commedia sentimentale, oppure l’allargamento a tematiche legali/sociali come nel caso di In tribunale con Lynn (Canale5, 2003) o Giudice Amy (Canale5, 2001). Il poliziesco vero e proprio, pur essendo sempre centrato su un crimine e su uno o più investigatori incaricati di catturare il colpevole, presenta come protagonisti i tutori dell’ordine (il corpo di polizia con le sue regole, a volte da infrangere, e i suoi spazi – commissariati, distretti ecc. – diventa un elemento centrale) e si concentra non solo sulla ricerca di indizi ma anche sulle azioni che portano all’individuazione dei sospetti, oltre che su tutte le altre attività di pertinenza dei poliziotti (es. infiltrazioni nelle bande criminali – Miami Vice, Raidue, 1986 –, inseguimenti dei malviventi con ogni mezzo – es. le memorabili corse per le vie di San Francisco di Michael Douglas in Sulle strade di San Francisco, Raidue, 1979 –, perquisizioni e interrogatori, arresti e sparatorie). Dagli anni sessanta agli anni ottanta il poliziesco americano ha sviluppato molti filoni, alla ricerca di elementi distintivi che facessero emergere una serie all’interno di un panorama ricchissimo di prodotti. Abbiamo così visto all’opera coppie di poliziotti maschi (Starsky e Hutch), femmine (New York, New York, Italia1, 1983), motociclisti (Chips, Italia1, 1983) e addirittura un poliziotto a cavallo (Uno sceriffo a New York, Canale5, 1985); fino alla metà degli anni ottanta, tuttavia, pur variando la tipologia dei personaggi lo schema di base era fisso, con uno o due protagonisti che tendenzialmente non cambiavano da puntata a puntata, alle prese con casi sempre diversi. Con Hill Street Blues del 1981 (Raidue, 1989) invece il meccanismo del poliziesco trova nuove forme: protagonista diventa il distretto di polizia, con un certo numero di poliziotti impegnati nelle varie indagini, ognuno dei quali seguito non solo nella vita professionale ma anche in quella privata, con legami sempre più evidenti tra una puntata e l’altra.Tra i più celebri esempi di questo nuovo modo di realizzare il poliziesco ricordiamo New York Police Department, vero e proprio punto di riferimento per numerose serie anche europee come The Bill (inedito in Italia) in Gran Bretagna o l’italiana Distretto di polizia (Canale5, 2000). Tra le varie connotazioni che ha assunto questo genere ricordiamo anche: – l’action che indica quelle serie (o tv movies) in cui lo schema poliziesco è al servizio di scene ad alto impatto spettacolare – segnaliamo la specializzazione raggiunta dalla Germania in questo campo con serie come Helicops (Italia1, 1999), Il Clown (Raidue, 2000), Cops squadra speciale (Raidue, 2002), ognuna delle quali legata a un particolare mezzo di trasporto (elicotteri, moto ecc.) che diviene così il vero protagonista della serie; – il poliziesco scientifico: al centro della serie l’attività di indagine effettuata da reparti investigativi scientifici in cui viene sottolineata l’impor-
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tanza dei nuovi strumenti offerti dalla tecnologia (di grande successo in quest’ambito l’americana CSI, Italia1, 2002). All’incrocio tra molti di questi sottogeneri, possiamo situare il cosiddetto “poliziesco all’italiana” che innesta sugli schemi classici del poliziesco e del giallo una coloritura improntata alla commedia, con personaggi ricchi di umanità e di difetti, e ambienti e situazioni estremamente comuni e riconoscibili. C Ospedaliero: in questo caso si tratta di un genere non presente nel cinema, ma di origini più strettamente televisive. Le soap opera fin dagli anni cinquanta hanno trovato nell’ospedale e nei medici e pazienti che li frequentano un serbatoio pressoché inesauribile di storie, situazioni e passioni. L’universalità del rapporto malattia-salute, la possibilità di raccontare storie in cui si alternano speranza, dolore, gioia, disperazione, l’incarnazione dell’eroe salvifico nella figura del medico, le vicende personali e sentimentali dei professionisti che lavorano negli ospedali hanno finito per consolidarsi in un vero e proprio schema di genere che ha animato diversi formati.Tra le soap opera ricordiamo Sentieri e General Hospital (Canale5, 1984), mentre tra i serial da prime time un grande successo in Italia è Incantesimo; moltissimi esempi anche tra le serie e miniserie in tutti i paesi, dalle americane ER Medici in prima linea e Chicago Hope (Rete4, 1995) alle italiane Amico mio, La dottoressa Giò. D Storico-biografico: in questo caso il contenuto è desunto da fatti storici o da biografie di uomini famosi; la presenza di un evento storico rende naturalmente impossibile la serializzazione; si tratta quindi di fiction con formati che prevedono una conclusione della narrazione (tv movies o miniserie). E Letterario (e religioso): come nel caso precedente la presenza di un testo di origine obbliga a formati non “aperti”. Si tratta di un genere molto frequentato dalla televisione italiana soprattutto alle origini, ma che, in forme nuove e aggiornate, è ancora ben presente nei palinsesti delle tv generaliste. Da Giorgio Grignaffini, I generi televisivi, Roma: Carocci, 2004, pp. 69-75
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Attilio Coco Le serie tv e l’esperienza del transito 1. I want to believe: questa decisa intenzione di fede campeggia, in bella vista, su un manifesto nell’ufficio dell’agente speciale Fox Mulder (David Duchovny). Gli appassionati della serie The X-Files, creata da Chris Carter e andata in onda per nove stagioni dal 1993 al 2002, sanno che ciò in cui il prestante agente del FBI vuole credere è un mondo i cui confini, della realtà e della percezione che se ne ha, sono quanto meno moltiplicati. Le
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leggi che regolano l’universo in cui egli vive e lavora spesso sembrano non coincidere con la razionalità scientifica che da sempre governa la vita e il mondo e che rappresenta l’ottica di riferimento di Dana Scully (Gillian Anderson), collega e amica di Mulder. Di fronte a un evento insondabile – il presunto rapimento di un terrestre da parte di un alieno, un mistero che irrompe nell’esistenza di qualcuno – Mulder si pone in atteggiamento estremamente possibilista: tra il normale e il paranormale i confini sono incerti, labili, a volte inesistenti. Su questo modo di percepire il concetto di realtà e di rapportarsi a una serie di eventi troppo spesso perturbanti e inspiegabili con le normali leggi della chimica e della fisica, e sul suo carattere nettamente oppositivo rispetto alla razionalità scientifica rivendicata come unico approccio possibile al mondo fenomenico, Chris Carter ha pensato un complesso mondo narrativo il cui carattere fondamentale è la permeabilità; la coesistenza, in un unico universo d’esperienza, di situazioni altrimenti inconciliabili. Persiste qualcosa di sostanzialmente mitologico nella concezione di un mondo retto da forze umane (la ragione) e da altre forze (l’occulto, il destino) che ne oltrepassano la capacità di trovare spiegazioni a ciò che pure accade. Un universo in cui umano e sovrumano operano a stretto contatto. I protagonisti vivono su un confine che è un limite affascinante eppure pericoloso: di qua il rapporto con la normale quotidianità fatta di lavoro, affetti, valori, scelte consapevoli; di là la perturbante esperienza di ciò che lo sovrasta. La realtà si deforma e si moltiplica; il personaggio è costretto a operare in una situazione di continuo transito dall’una all’altra dimensione. Frank Black (Lance Henriksen), il protagonista di Millennium (tre stagioni, dal 1996 al 1998), altra serie ideata da Chris Carter, è un esperto conoscitore della psiche dei serial killer. La sua bravura non è solo frutto di esperienza ma anche di un dono particolare: giunto sulla scena di un delitto riesce letteralmente a vedere con gli occhi dell’assassino. Questa capacità rappresenta un vulnus con la sua ambizione più profonda che è quella di condurre una serena vita familiare con moglie e figlia in cui non vi sia posto per niente di perturbante. Il passaggio che quasi quotidianamente sperimenta, in un coinvolgimento fisico e psichico totale, di fatto rompe ogni volta equilibri affettivi faticosamente costruiti. Ma il dovere lo chiama sempre con l’irrevocabilità del destino. Il carattere che forse più di ogni altro determina le serie televisive di quei ultimi dieci anni è che questo transito inesausto non si compie da una dimensione all’altra, ma all’interno di una stessa dimensione che rivela sempre un aspetto diverso di sé, un mutamento costante del proprio statuto. Il mondo narrativo pensato da J.J.Abrams per Alias (cinque stagioni, dal 2001 al 2006) riveste in tal senso i caratteri della tipicità. Una giovane donna, Sydney Bristow (Jennifer Garner), viene contattata dal SD-6, un’organizzazione che si presenta come contigua alla CIA e dunque impegnata strenuamente per la difesa dell’America. A sue spese, progressivamente e dolorosamente, Sidney scopre che sta lavorando proprio per coloro che
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crede di combattere. Si arruola nella vera CIA e comincia la sua vita di agente doppiogiochista. In parallelo con la sua vita professionale balza in primo piano la sua vita privata che sembra essere solo l’ulteriore ingranaggio di una realtà senza alcun punto di certezza. Un padre anche lui doppiogiochista tra SD6 e CIA; una madre ex agente del KGB esperta nella menzogna e nella dissimulazione; una quotidianità sempre sul filo di tradimenti e di agnizioni che destabilizzano in continuazione quanto si credeva acquisito una volta per tutte. Il mondo in cui si muovono tutti i personaggi di Alias è un mondo del sospetto, della tragica disillusione, dell’incertezza che rischia di frantumare ogni bisogno di sicurezza che l’individuo coltiva. Se si vuol connotare questa lacerante incertezza si deve pensare a un altro transito, che trova la sua origine in una situazione storica: la potenza americana sente i suoi valori, le certezze che credeva intangibili e inalienabili, messe in pericolo non più da un nemico esterno (l’alieno e poi, sempre meno simbolicamente, l’impero sovietico fino ad arrivare alle nuove personificazioni del terrore dei nostri giorni) ma interno. Difendersi è più difficile perché non si ha piena consapevolezza di chi sia il nemico vero. 24, di Joel Surnow e Robert Cochran segna nelle sue prime tre stagioni questo passaggio netto tra la lotta a un nemico esterno e quella a un nemico interno. La questione di per sé non sarebbe neanche troppo rilevante se non contenesse, fin dall’origine, un elemento più destabilizzante di qualunque nemico esterno: l’impossibilità di credere pienamente in coloro che dovrebbero condividere i nostri stessi valori. Il mondo narrativo a questo punto si complica e deve fare i conti con un ulteriore mito, figlio di una civiltà che ha in sé i germi della propria malattia: il tradimento e il sospetto. Un mondo che, pienamente consapevole dei suoi alti valori, scopre dentro di se gli attentatori a quei valori è destinato a vedere infranta ogni certezza riguardo a quegli ideali che sostanziano le libertà, la sicurezza, il progresso individuale e collettivo ma anche quelle sicurezze che toccano la privatissima sfera dei rapporti familiari e affettivi.Tutte le coordinate di un mondo che si credeva di conoscere e padroneggiare perdono i caratteri noti. Persino lo spazio e il tempo vengono risucchiati nel vortice di un inesausto movimento che dovrebbe impedire la catastrofe sempre imminente. Come Sydney Bristow si muove senza pausa, sempre velocemente, percorrendo tutte le latitudini per portare a termine le sue missioni ogni volta duplici (quella per il gruppo SD-6 e l’altra, la “contromissione”, per la CIA), anche Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente del CTU (l’unità antiterrorismo di Los Angeles) in 24, deve ogni volta imparare chi sia il vero nemico da combattere poiché persino la collega (ed ex amante) con cui lavora fianco a fianco si rivela al soldo dei terroristi di turno. Con una variante di non poco conto: l’eroe, sempre più tragicamente solo, ha pochissimo tempo – 24 ore, appunto – per impedire un attentato al Presidente o per fronteggiare un attacco biologico o per bloccare la diffusione di un virus
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con cui i terroristi minacciano una contaminazione su vasta scala. Mai come ora il tempo è prezioso e il movimento, l’azione, la capacità di decidere istantaneamente sono le vere armi a disposizione del protagonista letteralmente proiettato in luoghi che, pur se familiari (il CTU, la casa, la città, il Paese) diventano il contenitore di una minaccia che sovrasta continuamente lui, la sua famiglia, l’intera nazione. 2. Una delle questioni da risolvere in ogni narrazione è la plausibilità degli eventi che si raccontano unita alla coerenza interna del mondo in cui quegli avvenimenti trovano attuazione. Perché si realizzi in pieno il patto finzionale tra un particolare mondo narrativo e lo spettatore che quel mondo ha di fronte grazie alla narrazione, c’è bisogno almeno di un saldo punto di partenza, sia che esso appartenga a un’esperienza reale, sia che faccia parte del bagaglio di un condiviso immaginario collettivo. Confermando le idiosincrasie e i timori di una società che percepisce i pericoli a cui sono esposti quei suoi valori condivisi di libertà individuale e collettiva, di progresso e di sicurezza che pensava intangibili, molte serie televisive di quest’ultimo decennio hanno reso ancora più percepibili quelle paure proiettando nel mondo della quotidianità nota i caratteri destabilizzanti del dubbio, dell’angoscia, del senso di accerchiamento e di assedio. Se The X-Files ha fatto in qualche modo da apripista suggerendo l’idea che le forze destabilizzanti si annidano lì dove dovrebbero essere combattute, Millennium, Alias, 24 ne hanno dunque raccolto in pieno l’eredità. Al centro dei mondi narrativi delle serie che stiamo prendendo in esame vi è sempre un’istituzione preposta alla difesa della Nazione: FBI (The XFiles, Millennium), CIA (Alias), CTU (24), oppure una sezione speciale – come il gruppo Millennium nella omonima serie di Chris Carter o il SD-6 in Alias – apparentemente creata per sopportare gli organismi di difesa nazionale. Il complotto, il tradimento, la realtà destabilizzante che infrange ogni certezza mette sempre in discussione il reale statuto di questa o di quell’organizzazione. Gli eroi di queste serie, dagli agenti Mulder e Scully, da Frank Black alla giovane Sydney Bristow di Alias e a Jack Bauer di 24 sono costantemente alle prese con una realtà che si svela continuamente contraddittoria rispetto a quanto si credeva. Gli elementi di certezza su cui un individuo e un Paese fondano la propria esistenza, e che vanno dai valori più intimi dei rapporti affettivi a quelli più generali della fiducia, sono continuamente messi in discussione. Niente è così come appare e l’esperienza a cui tutti sembrano essere destinati è il naufragio. 3. Una risposta capace di ricostituire almeno una parvenza di quell’unitarietà perduta dal mondo in cui i protagonisti di queste serie vivono è nel passaggio da una mitologia classica, in cui il destino regola l’intera esistenza
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dell’uomo e del suo universo, a una più moderna in cui egli confida pienamente nelle sue capacità di farsi padrone della Storia e di tutti gli eventi che la costituiscono. Questa moderna concezione umanistica è esemplarmente rivestita dei caratteri del mito rinascimentale nel mondo narrativo di Alias. In un coacervo di intrighi, attentati, tradimenti, personalissimi drammi affettivi e familiari si dipana la vicenda, condotta sempre sull’ambiguo confine tra filosofia e arte, scienza e alchimia, della ricerca di un manufatto di Milo Rambaldi, leonardesca sintesi dell’uomo rinascimentale: scienziato, artista, filosofo, alchimista, ingegnere ha lasciato studi, ricerche, macchine che potrebbero condurre l’uomo a realizzare il sogno della propria immortalità. In Alias la stringente contemporaneità, che svolge se stessa nell’inesausta, apparentemente inconcludente e sempre contraddittoria lotta del bene contro il male, guarda alle proprie origini lontane e piene di fascino.A quando l’uomo ha pensato, conscio della propria grandezza e della capacità di padroneggiare persino gli aspetti più oscuri del suo universo, di affrancarsi dalla ineluttabilità del destino. Questi mondi narrativi – tanto frantumati da portare in primo piano insicurezze e drammi, angosce irrisolte e irrisolvibili, imminente crollo di un Paese e dei valori liberali in cui crede – sembrano cercare una coerenza interna non tanto nella possibilità illusoria di un lieto fine, quanto piuttosto nella ricomposizione di un principio unitario che ne riscatti la poliedrica – e di fatto ingestibile – realtà. Del resto, tanto complessi nella loro struttura, i mondi narrativi delle serie televisive rincorrono sempre quell’antica duplicità che permette di guardare al mondo con occhio certo, capace di distinguere tra ciò che è male e ciò che è bene. Il riscatto è dunque nella ricomposizione. I protagonisti dopotutto inseguono la sicurezza degli affetti, la certezza del diritto, la semplicità dei valori. In una visione così semplificata l’uomo riacquista il suo posto in un universo nel quale ogni cosa si ricolloca nell’ambito che tradizionalmente le spetta. La ragione, la fede, il rapporto tra naturale e soprannaturale, la ferrea oggettività della scienza rivendicano la propria naturale legittimità. 4. Le serie tv aggrediscono lo spettatore attraverso l’incalzare della narrazione e la continua alternanza di mondi strutturalmente inconciliabili se visti secondo un’ottica esclusivamente razionalista (The X-Files, Millennium) o assolutamente riprovevoli se guardati lasciandosi condizionare da giudizi morali (l’ambiguità di molti personaggi in Alias, in Millennium, in 24). Eppure mondi e personaggi conservano, pur nella loro esibita ambiguità, un innegabile dato fascinoso. Per la capacità diabolica che hanno di controllare e dirigere il corso degli avvenimenti e per una sottotraccia sentimentale e profondamente umana che ne fa balzare spesso in primo piano riconoscibili e familiari debolezze. Arvin Sloane (Ron Rifkin), indiscusso capo del SD-6 in Alias, rivela a più riprese la sua essenza luciferina.Astuto calcolatore, efferato assassino, punto di riferimento di ogni più losca atti-
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vità ama teneramente la moglie, mostra accentuati e sinceri istinti paterni, insegue pervicacemente il sogno dell’immortalità nella sua caccia – che ha un sapore quasi religioso – alle opere di Milo Rambaldi. ‘L’uomo che fuma’ (William B. Davis) in The X-Files è responsabile di un’importante sezione governativa; eppure è presente, con romanzesca costanza, nei più importanti fatti della recente storia americana. E in posizione non sempre inappuntabile. Non c’è crisi internazionale o scandalo interno che non sia letteralmente, passata attraverso le sue mani. È stato lui che il 22 novembre 1963, a Dallas, ha impresso un corso diverso al futuro del suo Paese sparando a J.F. Kennedy, per fare un solo esempio. Un personaggio che assume la funzione di catalizzatore simbolico di quell’assunto secondo il quale gli USA spiegano i propri drammi e le proprie incongruenze ricorrendo alla tesi del complotto. Eppure su questi personaggi incombe la presenza del destino ineluttabile. Nella loro sete di potenza e capacità di governare gli eventi, non possono esimersi dal fare ciò che sono costretti a fare fino in fondo. L’antica presenza del destino come ineludibile forza che guida l’uomo non perde terreno e reclama ancora ciò che gli è dovuto. L’incipit di Lost (J.J. Abrams), e poi l’intera prima stagione, offre sacrifici al dio destino. John Locke (Terry O’Quinn) è un uomo che vive immobilizzato su una carrozzella. Desidera con tutte le sue forze compiere un viaggio lungo e avventuroso con il quale mettersi alla prova. Sente di doverlo fare. L’aereo sul quale rocambolescamente riesce a salire precipita su un’isola all’apparenza deserta.Vi sono molti superstiti.Tra questi John che scopre di aver riacquistato l’uso delle gambe e che progressivamente assume il ruolo di saggio intrepido e attratto dalle sfide che il luogo e la situazione gli pongono. Ora ha la certezza di dover seguire la chiamata di un destino irrevocabile, misterioso come l’isola su cui è precipitato e che lancia, a tutti e a ognuno dei superstiti, oscuri segnali da decifrare. Tutti trovano sull’isola, che da ambiente diventa progressivamente personaggio, occasione per riflettere sull’inevitabilità di ciò che accade loro. Non il caso, ma il destino governa le cose della vita. E per uno scopo preciso. Da una visione continua e serrata se ne esce dunque anche gratificati grazie al processo di sicura ricomposizione che dalla parentesi della frantumazione porta a rimettere insieme i pezzi di una realtà che rivendica la sua ansia di un ordine logico e umanamente coerente da recuperare. Come, per esempio, il rapporto col tempo e con la certezza delle risposte univoche. Jack Bauer, abbiamo visto, non ha poi tanto tempo per salvare il suo Paese. Deve agire e in fretta. Il tempo passa veloce anche per Jack Malone (Anthony LaPaglia), FBI, che coordina una squadra speciale per il ritrovamento di persone scomparse in Senza traccia di Hank Steinberg. Solo 48 ore e niente a disposizione se non i dettagli di un’esistenza da rimettere insieme per trovare un segno, un motivo, un’occasione. Ma qui si pensa molto, prima di agire. Si strutturano mappe concettuali e geografiche, percorsi esistenziali. La lavagna su cui gli agenti appuntano gli elementi che progressivamente acquisiscono
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sulle abitudini di una vittima, diventa un blocco notes con gli appunti di un’esistenza. Materiale per un racconto; pezzi di un enorme puzzle nel quale alla fine è possibile riconoscere nella sua interezza il mondo in cui si vive. Un approccio complementare a quello freddamente scientifico di CSI (Anthony E. Zuiker) nel quale non il motivo ma la traccia è tutto. Il mondo, la vita e la morte nelle mani e nei meccanismi mentali di Gil Grissom (William Petersen), il disincantato entomologo a capo della squadra scientifica di Las Vegas. 5. Strutturato seguendo un’opzione del racconto che tende all’accumulo di situazioni che si rincorrono e si intrecciano; di accadimenti in cui ogni esperienza individuale si definisce nel contatto con un universo prismatico che non rinuncia mai a mostrare tutte le sue facce, il mondo narrativo delle serie televisive è l’emblema di un caos che insegue la chimera di un ordine stabilizzatore. In questa sua continua e affannata fuga in avanti, piena di arresti bruschi, di tentennamenti, di ritorni nell’indistinto tale particolare costruzione di un mondo narrativo sradica, in maniera decisa e profetica, alcune acquisizioni ormai tradizionali dell’esperienza cinematografica. In primo luogo vi apporta un dato di consapevolezza maggiore in relazione al rapporto spazio-tempo che diventa pressoché ineliminabile. Come fin qui visto nella rapida analisi delle serie considerate, la narrazione procede tenendo conto che ogni movimento ha sempre una connotazione pressoché duplice: centrifuga e centripeta. Un luogo, costruito con i caratteri di una specie di torre di controllo centrale è sempre, allo stesso tempo, punto di partenza e di arrivo. Centrale operativa da cui partire per combattere il caos e a cui ritornare dopo aver riportato ordine. E poi ancora di nuovo, freneticamente, perché l’equilibrio a fatica recuperato è di nuovo in pericolo. Il CTU, l’FBI, la CIA, la casa dei protagonisti, spesso vissuta come ulteriore appendice (la villa in cui abita Frank Black, per esempio) sono diventati la “stanza dei bottoni” preposta alla salvaguardia di un paese in continua lotta contro forze reali e spettrali. Il movimento, frenetico e inesauribile che procede dal dentro verso il fuori e poi in senso contrario (le missioni di Sydney Bristow e di Jack Bauer, le perlustrazioni in avanscoperta di John Locke e degli altri personaggi di Lost, l’andirivieni nelle ordinate strade e da una villa all’altra nella Wisteria Lane di Desperate Housewives) usufruisce di una reiterazione impensabile nel rapporto spazio-temporale del cinema tradizionale. Non solo per il diverso rapporto tra tempo della storia e tempo della visione, ovviamente dilatato nel caso delle serie, ma proprio per la diversa concezione di uno spazio-tempo che abbraccia una molteplicità potenzialmente illimitata di storie. Si tratta dunque di un mondo narrativo guardato dall’alto da una mente creatrice che non si limita a ordire fatti ma pensa un universo dotandolo di alcuni caratteri di fondo. In questa prospettiva le serie televisive pongono in secondo piano la figura di un autore capace di
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reggere i fili di un’intera vicenda. L’estrema pluralità e complessità che costituisce i mondi narrativi delle serie, favorisce il succedersi di differenti registi che di episodio in episodio sappiano intervenire su un’idea-guida generale (il cosiddetto created by) preservandone l’unitarietà di fondo. La questione più fascinosa che ne deriva riguarda un aspetto della narrazione fin qui non contemplato dal cinema: tra autore e regista la distanza si fa irrecuperabile. Il primo pensa un mondo. Il secondo ne mette insieme i frammenti. Da «Segnocinema», 142, novembre-dicembre 2006, 24-27
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Le serie televisive nella cultura contemporanea I contributi raccolti in questa sezione dell’antologia sono dedicati all’approfondimento di singoli casi. Si tratta dunque di interventi dedicati a serie televisive che per ragioni narrative, tematiche, stilistiche e/o formali, rappresentano dei prodotti chiave nel panorama della serialità televisiva contemporanea. Non solo, ognuno di questi prodotti, a suo modo, può essere collegato alla società che lo ha generato (quella americana odierna) e al suo immaginario di riferimento, consentendo di adottare, così come fanno gli autori dei contributi scelti, un taglio e una prospettiva di tipo culturale. Questo genere di orientamento prende le mosse da un particolare indirizzo di studi sociali che si è originato in Gran Bretagna tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta a partire dall’ampliamento dell’interesse della critica letteraria verso i prodotti della cultura popolare e di massa (quali, appunto, le serie televisive). Sul piano metodologico, i Cultural Studies adottano pertanto un approccio agli oggetti indagati che pone al centro dell’attenzione i contesti che li hanno prodotti. Le serie televisive, dunque, fungono da interessante oggetto di analisi, poiché grazie alla loro complessa articolazione, che abbiamo visto sotto analisi nella sezione precedente di questa antologia, esse sono in grado di dirci molte cose sulla cultura che le ha originate. Diego Del Pozzo [2002a, 13] nota ad esempio come: il telefilm si propone come lo specchio migliore nel quale gli americani riflettono la loro stessa immagine, innanzi tutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario nazionale. Serie televisive “commerciali” come, per esempio, Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959), Star Trek (id., 1966), X-Files (The X-Files, 1993) o Buffy (Buffy The Vampire Slayer, 1997) dicono molto di più – e lo dicono in modo più chiaro – sui tanti volti del “modo di vita americano” e sul suo inevitabile lato oscuro, rispetto a presuntuose ricognizioni “d’autore” e a seriosi trattati.
Pioniere dell’applicazione di questa metodologia di indagine al cinema e all’audiovisivo è stato, in Italia, Franco La Polla, di cui riproponiamo qui un saggio dedicato a X-Files e già contenuto nel suo L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana. In questo saggio La Polla discute il rapporto tra una serie (divenuta presto di culto) come X-Files e la cultura americana che l’ha prodotta soffermandosi su alcuni elementi significativi. Innanzi tutto, La Polla pone la questione dell’ibridazione tra generi diversi. X-Files si presenta come un incrocio fra due generi sostanziali per la produzione hollywoodiana, la fantascienza e l’horror.A ben guardare questo tipo di incrocio era già stato prefigurato dalla fantascienza di invasione degli anni Cinquanta, che «si ibridava abitualmente con suggestioni
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orrorifiche» [Menarini 2001, 37] e anche dalla saga di Alien, che in particolare con il film del 1979 pone la questione dell’ibridazione tra fantascienza e horror, offrendo un testo che «delega ora a un genere ora all’altro l’autorità comunicativa nei confronti dello spettatore, finendo col produrre una staffetta comunicativa che ricopre un po’ tutti gli aspetti del rapporto tra genere e spettatore» [Menarini 2001, 38]: su Alien e la sua forma ibrida e seriale si veda anche Canova [2000]. Da questo punto di vista, non è un caso che alcune delle serie a cui sono dedicati i saggi racchiusi in questa sezione appartengano al genere della fantascienza o perlomeno flirtino apertamente con esso (X-Files, Buffy, ma anche la fantapolitica di 24). Si tratta infatti di un genere malleabile che permette al tempo stesso verosimiglianza della narrazione e variazioni narrative che rinnovano continuamente la linfa di cui il prodotto si nutre. A vicende incredibili e anomale corrispondono infatti un contesto verosimile e un immaginario con cui lo spettatore ha confidenza, spesso quello cinematografico o televisivo precedente [Grasso 2007, 117-125]. A maggior ragione, dunque, il prodotto seriale televisivo appartenente a questo genere è in grado di «metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, che attraversano la società americana nella seconda metà del XX secolo» [Del Pozzo 2002a, 13-14] e dunque si presta ad una lettura di tipo culturale come quella proposta da La Polla. Le metafore che stanno alla base di molti episodi della serie forniscono allo spettatore chiavi di lettura preziose, a partire dal ruolo in essa giocato dall’“autorità” (politici, militari etc.) che, come nota La Polla, qui rientra pienamente in scena, «furba, astuta, a un punto tale da non poter facilmente essere inquadrata secondo l’usuale modello etico-politico del passato» [La Polla 2001, 244]. Ma X-Files, nel mostrare l’autorità, sceglie di non darle un volto ben identificabile e dunque emergono molteplici figure indistinte, gole profonde e uomini che fumano, a confondere le acque e a creare fraintendimenti e incertezze circa il loro coinvolgimento. La mancanza di certezze diviene così metafora profonda della società contemporanea da cui il mondo di X-Files scaturisce e rende la serie «uno dei “termometri” più sensibili per catturare la temperatura emozionale della società statunitense contemporanea, ancora di più dopo l’atroce atto terroristico dell’11 settembre 2001, che ha cancellato le torri gemelle del World Trade Center, fatto migliaia di vittime ed eliminato per sempre la sola sicurezza che restava agli americani: quella dell’inviolabilità delle proprie metropoli da parte di un nemico esterno» [Del Pozzo 2002a, 116]. Così,“l’uomo che fuma”, eminenza grigia e personaggio emblematico di XFiles, diviene colui che protegge spietatamente i segreti delle cospirazioni e dei complotti, divenendo il più grande nemico del protagonista Mulder e soprattutto assumendo «la funzione di catalizzatore simbolico di quell’assunto secondo il quale gli USA spiegano i propri drammi e le proprie incongruenze ricorrendo alla tesi del complotto» [Coco 2006, 26]. A ribadire l’importanza di X-Files come oggetto culturale e la necessità di
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indagarlo a partire dal sostrato che lo ha generato, inoltre, sta anche il fatto che questa serie ha avuto il merito di concretizzare un tipo di fiction televisiva che, secondo Menarini, è fortemente legata all’immaginario cinematografico e alla sintassi del grande schermo, una serie, dunque, che «ha saccheggiato tutta la memoria del cinema di fantascienza e lo ha mescolato senza timori con la tradizione dell’orrore giungendo a un ibrido non meno sorprendente di quello umano-alieno continuamente affrontato nelle puntate più importanti» [2001, 31]. A questo proposito, dunque, La Polla fa riferimento alla continua autoreferenzialità e alla intertestualità della creazione di Chris Carter, arrivando ad individuare anche molti dei suoi riferimenti e sottolineandone l’eterogeneità dei rimandi – sul ruolo e l’importanza della citazione, in particolare letteraria, in questa serie e in Millenium, 1996-1999, ideata dallo stesso Carter, si veda Zaccuri [2000]. Riflessività, citazione e autocitazione pongono inoltre una vera e propria sfida al sapere dello spettatore, incentivando l’aspetto iniziatico del culto, che emerge con chiarezza dai luoghi di auto-organizzazione rituale, come i siti Internet, e che vedremo meglio nell’ultima sezione dell’antologia. A proseguire con l’approccio di carattere culturale e con l’attenzione focalizzata sulla ibridazione tra generi troviamo anche Diego Del Pozzo, che abbiamo citato in precedenza, e di cui abbiamo scelto di inserire un estratto dal suo libro Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, dedicato alla fiction seriale e con un particolare interesse nei confronti di quelle serie in cui il genere fantastico, fantascientifico e horror possiedono un ruolo di primo piano. Negli anni Novanta il filone più florido della produzione seriale televisiva americana pare incarnarsi in due generi sostanzialmente predominanti: il fanta-horror, di cui parla appunto La Polla analizzando X-Files, e il filone giovanilistico, su cui si concentra invece Del Pozzo.A prima vista non sembra esserci molto di nuovo, dal momento che entrambi gli universi erano stati ampiamente esplorati in passato e trattati sotto vari aspetti, assumendo quindi diverse declinazioni. Un breve salto all’indietro rispetto agli anni Novanta può esserci d’aiuto. Alla fine degli anni Cinquanta, a prevalere sono le atmosfere inquietanti della “zona del crepuscolo”. La serie antologica Ai confini della realtà, ideata da Rod Serling e composta da episodi di durata variabile senza personaggi e ambienti ricorrenti raggiunge ben presto un grande successo, coprendo «tutti gli ambiti del fantastico, con maturità e inventiva invidiabili. Gli episodi, più che racconti di fantascienza propriamente detti, sono vere e proprie short stories del mistero, dell’ignoto, del grotesque, dell’orrore» [Del Pozzo 2002a, 55]. Ai confini della realtà avvicina lo spettatore alle tematiche di base del fantastico, creando una sorta di canone che verrà poi ripreso negli anni successivi da tutte le serie che si confronteranno con il genere, da Thriller (1960) a X-Files. Le atmosfere fanta-horror sembrano dunque essere piuttosto frequenti nell’ultimo ventennio, proprio a partire dai remake degli anni Ottanta di Ai confini della realtà, pas-
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sando per Freddy’s Nightmares (1988) creato da Wes Craven sulla scia del successo della saga dedicata al suo Freddy Krueger, fino ai più recenti Millennium e Profiler – Intuizioni mortali (Profiler 1996-2000). L’altro filone cui abbiamo accennato sopra, quello giovanilistico, diventa particolarmente popolare proprio in questo periodo, diciamo a partire dall’inizio degli anni Novanta, con due serie di grande successo quali Beverly Hills, 90210 e Melrose Place e, successivamente, con Dawson’s Creek. In precedenza c’erano state diverse serie che avevano avuto per protagonisti giovani e adolescenti, anche se la tendenza più diffusa era quella di declinare il tutto sotto la forma della sit-com, sfruttando la giovinezza dei protagonisti o per parlare del rapporto genitori-figli e della sfera famigliare, o per rivolgersi ai più giovani sempre e comunque con un intento educativo-moralizzante. Nel primo gruppo possiamo allora far rientrare serie come Casa Keaton (Family Ties 1982-1989) e Genitori in blue jeans (Growing Pains 1985-1998) e I Robinson (The Cosby Show 1984-1992); nel secondo possiamo trovare prodotti quali Harlem contro Manhattan (Diff’rent Strokes 1978-1985) o Il mio amico Ricky (Silver Spoons 19821986). Ma è proprio dalla commistione tra gli stilemi del fanta-horror e quelli del genere giovanilistico che si ottengono alcuni dei risultati più interessanti del decennio, ed è proprio di questa fusione che si nutre la serie ideata da Joss Whedon. Oltre a Buffy, vanno infatti in questa direzione anche altre due serie, Roswell e Streghe (Charmed 1998-2006). Tra le diverse serie contemporanee, che comunque spesso tendono a lavorare sulla miscela di generi, a mescolare meglio i diversi ingredienti, commedia e dramma, realtà e orrore spicca sicuramente Buffy, che come abbiamo avuto già modo di ribadire, fa un buon uso dell’ibridazione delle sue strutture narrative, mescolando il “serial drama” di ambientazione scolastica, quello in cui la narrazione e le relazioni tra i personaggi si dispiegano e si complicano settimana dopo settimana, con il cosiddetto Monster of the Week, espediente già impiegato da X-Files. In entrambe le serie, allora, lo sviluppo narrativo dei personaggi principali e le relazioni tra loro tendono a dominare l’attenzione dello spettatore, specialmente durante gli episodi di apertura e chiusura di stagione [Turnbull 2003]. Come già succedeva con X-Files, inoltre, Buffy attribuisce alle creature mostruose la funzione di metafore che permettono allo show di lavorare su un duplice livello: da un lato l’iperbolicità delle storie, dall’altra una forma di realismo che radica sempre le storie in un terreno di vicinanza con lo spettatore. Pensiamo, ad esempio all’episodio della prima stagione intitolato Il branco (The Pack), in cui la demoniaca possessione di Xander e di un gruppo di poco di buono della scuola da parte dello spirito animalesco di un branco di iene non è che un espediente per parlare del bullismo nelle scuole. Ancora, l’episodio Lontano dagli occhi, lontano dal cuore (Invisible Girl, stagione 1) ritorna sull’argomento della pressione del gruppo e della difficoltà ad inserirsi all’interno delle dinamiche di gruppo che si instaurano tra gli adolescenti. Cordelia, appena eletta reginetta della scuo-
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la, viene assalita da un’entità invisibile, che altro non è che una ragazzina “invisibile” del liceo, qualcuno di cui nessuno si ricorda. Così, il vero tema dell’episodio risulta essere quello della mancanza di popolarità e dell’esclusione e la protagonista invisibile non è che l’emblema di tutti quei teenagers che non trovano un loro posto nella società. Le metafore si fanno allora fortemente reali in Buffy, come nota Tracy Little in questo universo seriale ci sono veramente mostri sotto il letto e la scuola è veramente un inferno [Little 2003]. A Buffy, Del Pozzo affianca Dawson’s Creek, che nel 1998 porta nuovamente l’attenzione sull’adolescenza e i suoi orrori, sostituendo l’immaginario fantastico di Buffy con quello cinematografico. Qui [Del Pozzo 2002a, 147], infatti, la dicotomia non è più tanto quella tra il mondo “normale” e gli universi paralleli, bensì quella tra: vita reale e cinema, incarnata soprattutto nel personaggio di Dawson: lui più degli altri infatti, vive nel mito della «Fabbrica dei sogni»; cerca, addirittura, d’impostare la sua esistenza secondo le regole dei generi cinematografici, in cerca della rassicurazione che soltanto una buona sceneggiatura sa offrire. Proprio Dawson è l’emblema di un’America adolescenziale che ha quasi paura d’affacciarsi su una realtà che non riconosce più come umana e fruibile senza perdere parte della propria identità: cosa ci sarà dopo il liceo? E al termine del college? Forse, allora è meglio rifugiarsi tra le prevedibili regole che scandiscono le storie dei film amati, provando in tal modo a rendere reale quello che, da sempre, è un desiderio primario dell’essere umano: bloccare il tempo in un’eterna età della giovinezza.
Di stampo diverso è invece CSI, serie che alla luce del grande successo riscosso dalla prima stagione, risalente al 2000, ha dato vita ad altre due prodotti che, modificando la location (non più Las Vegas, ma Miami e New York) ripropongono casi imperniati sulle indagini di un team di poliziotti della squadra scientifica. Sue Tait analizza la serie nel suo saggio intitolato Autoptic Vision and the Necrophilic Imaginary in CSI, originariamente pubblicato sul numero 1 del 2006 della rivista «International Journal of Cultural Studies», e qui parzialmente tradotto per la prima volta in italiano, considerandola come appartenente non tanto al genere fantascienza, quanto a quello che lei stessa definisce della “scienza finzionale” e che, diversamente dalla fantascienza che immagina il futuro, porta alla luce il passato e i suoi crimini. Costruito come un formula show, cioè come una serie a bassa serializzazione, in cui gli episodi sono strutturati sempre seguendo il medesimo schema (il ritrovamento di un cadavere e la successiva ricostruzione della scena del delitto a partire da prove e ricostruzioni, la soluzione all’enigma trovata dalla squadra sotto la guida della mente illuminata del protagonista Gil Grissom), CSI ha presto segnato un rinnovato interesse nei confronti di serie incentrate sulle scienze forensi per la costruzione dell’impianto visivo che la caratterizza. Come sottolinea Tait, infatti, questa serie
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è diversa dalle precedenti soprattutto per la presenza di una grande varietà di attrezzature e strumenti ottici che permettono una visione estremamente dettagliata delle procedure messe in atto dalla squadra di poliziotti. A fronte di un complicato linguaggio scientifico, che spesso sembra implicare conoscenze approfondite di biologia, chimica o entomologia forense, si pone un iperrealismo del dettaglio visivo che porta lo spettatore a districarsi all’interno delle più complesse e paradossali scene del crimine. Benché in grado di affrontare questioni complesse, dunque, la serie risulta caratterizzata da un forte intento didascalico, dove le spiegazioni più tecniche (come accade anche in 24) assumono toni divulgativi. All’ampiezza e alla stranezza della storia, si affianca il gusto dell’eccesso della specificità: niente è tralasciato, è il dettaglio a dominare il quadro, tutto ciò che sfugge all’occhio dell’uomo e viene portato alla luce grazie all’impiego dei più sofisticati strumenti ottici. Come nota Roy Menarini [Menarini et al 2007, 4] Non sarà che la contemporaneità frantumata, le verità storiche ormai tramontate, offrono la sensazione di una pluralità di segni che noi facciamo fatica a rendere comprensibili? E che emerga una rassicurazione, da parte di queste serie, del fatto che comunque esistono dei protagonisti in grado di interpretare le tracce, anche le più bislacche, anche le più aberranti, nel senso letterale del termine, come il Dottor House, come Gil Grissom, che attraverso il sapere o attraverso la tecnologia riescono ad arrivare alla verità, ed alla verità con la “V maiuscola”, non ad una delle verità possibili? È un ritorno romantico della verità attraverso una situazione post-moderna.
La rassicurante capacità interpretativa dei protagonisti di alcune delle serie contemporanee, la certezza che essi saranno in grado di considerare ogni minimo dettaglio, contribuendo a fornire allo spettatore una visione d’insieme al tempo stesso sintetica e dettagliata, si riflette in uno stile visivo che, per quanto riguarda CSI (ma anche per Dr. House e per 24) è fortemente marcato. In CSI esso si caratterizza per un frequente uso del flashback, che permette di risalire gradualmente alla situazione che ha originato il crimine e con «un uso particolare della fotografia, che muta in continuazione, dalla luce del laboratorio, fredda e quasi inespressiva, fino a tutte le sfumature artificiali della città di Las Vegas, dove persino il sole sembra falso. L’autopsia diventa così un surreale viaggio dentro il corpo morto, dentro le viscere dell’umano» [Grasso 2007, 186]. Dunque, l’aspetto più interessante della serie che emerge dalla lettura di Sue Tait, è proprio quello della cosiddetta visione autoptica, relativa alle numerose sequenze ambientate nella sala autopsie, dove la macchina da presa assume su di sé la medesima funzione pedagogica a cui abbiamo accennato in precedenza, proponendosi come una vetrina dello stato dell’arte della scienza forense. A caratterizzare queste immagini è specialmente il ricorso al digitale, con primi e primissimi piani ravvicinati, con incredibili carrellate all’interno del corpo umano, che divengono il mar-
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chio di riconoscibilità più immediato della serie, e aprono la strada alle cosiddette “riprese alla CSI”, cioè momenti in cui si amplia la “visione autoptica” per restituire allo spettatore gli effetti della violenza sul corpo, garantendo una modalità di visione che produce un forte effetto iperreale.“Iperrealismo” è un termine preso in prestito dall’arte contemporanea che indica una corrente artistica nata sulla scia della pop art a metà degli anni Sessanta e che, secondo alcuni studiosi, ha influenze significative sul cinema americano degli stessi anni [La Polla 1978, 203]. Questo termine bene aderisce alle produzioni cinematografiche e televisive anche contemporanee, quando è utilizzato per sottintenderne la tendenza a mostrare la realtà, ma al tempo stesso a cercare di metterne in evidenza l’artificiosità e le contraddizioni. Ad analizzare nel dettaglio una serie tuttora in produzione e programmazione e che ha suscitato notevole dibattito (se ne è occupato, tra gli altri, anche Slavoj Zˇ izˇek in un articolo apparso in italiano sulla rivista Duellanti nel settembre 2006), è Roy Menarini, che in un saggio originariamente pubblicato sulla rivista «La Valle dell’Eden» nel 2007 e qui riprodotto integralmente, affronta 24 sia da un punto di vista critico ed estetico, sia mantenendo una prospettiva di analisi culturale. Menarini sottolinea immediatamente la capacità di 24 di intercettare le tendenze del post-11 settembre: la paranoia, ma anche la situazione della democrazia americana, l’emergenza del terrorismo, e le dimensioni del tempo e dello spazio in televisione. In 24, la suspense connessa ai plot fantapolitici sui quali si declina la serie, risulta essere amplificata da una successione di soluzioni tecniche che contribuiscono anche ad aumentare il grado di dettaglio e di precisione che è cifra stilistica delle situazioni narrate nella serie. L’utilizzo dello split screen, ad esempio, è molto frequente all’interno della serie, mediamente ve ne sono dodici per episodio. Inoltre all’inizio dell’episodio, mentre scorrono i titoli di testa, la scena è costituita da split screen che spesso riprendono dalla scena conclusiva dell’episodio precedente. Invece, pochi secondi prima della conclusione di un episodio si aprono tre quattro finestre su diverse scene, quasi per riepilogare, proprio alla fine dell’ora, l’evoluzione delle linee narrative. La necessità di rendere interessante e incessante il legame tra i diversi personaggi e le diverse linee narrative che la serie imbastisce ha reso indispensabile questa scelta, costringendo lo spettatore a vagare da un’inquadratura all’altra, ad essere attento a ogni cambiamento, ad osservare i cambiamenti di inquadratura presenti all’interno delle singole finestre. Queste soluzioni tecnico-stilistiche, assieme alla avvincente struttura del plot e al ritmo serrato con cui si modulano le puntate del serial, risultano dunque tra gli elementi di maggiore interesse di 24, che avvince milioni di spettatori e che mette in scena, sebbene in maniera iperbolica e concitata, le angosce e le paure della società americana (e non solo) contemporanea.
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Franco La Polla X-Files e l’orrore del pensiero tra fantascienza e parodia Come ogni serie di successo, anche X-Files non manca di fare i conti con una specifica realtà nazionale (e in questo caso, come si dirà, addirittura transnazionale) che in ultima analisi l’ha prodotta. Se da un lato formalmente essa si presenta come un incrocio fra due generi imperanti in questo periodo, la SF e l’horror, secondo una pratica che il cinema di Hollywood ha inaugurato da circa un ventennio, dall’altro più che serie dedicata al paranormale, essa batte il versante della paranoia, e mi sembra farlo in modo alquanto diverso da quello esibito da quel cinema anche in un recente passato (ma in auge a dir poco da una ventina d’anni: il primo Halloween, di John Carpenter, è del 1978 e il primo Nightmare, di Wes Craven, è del 1984). In Nightmare, infatti, secondo una linea di carattere squisitamente postmoderno, il rapporto fra realtà e irrealtà sfaldava irrevocabilmente il suo confine consegnando la prima a un mondo d’incubo che, dopo averla invasa, ne minava i presupposti concreti e logici, ne trasformava il tessuto aggiungendovi un’ulteriore dimensione, che era sostanzialmente quella della mente, dell’inconscio. Con X-Files le cose cambiano, o per meglio dire esse tornano in un certo modo indietro. Come nei vecchi film di SF targati anni ’50, rientra in scena l’autorità (politici, militari ecc.), e tuttavia in termini praticamente opposti a quelli della tradizione SF di 40 anni fa. In questa, di norma, il modello generale si configurava come irruzione dell’irrazionale nel nostro mondo ordinato e quotidiano (un modello peraltro comune per molti versi anche all’horror film d’un tempo). Tale irruzione innescava solitamente una reazione da parte dell’autorità che ben presto si dimostrava stolida, miope, ottusa, fondata sul semplice (e inefficace) uso della forza piuttosto che sull’intelligenza, usualmente caratteristica di cui era depositario un qualche scienziato (o giornalista), che in questo modo pagava lo scotto di aver commesso un errore sul proprio stesso campo (quello stesso che in genere aveva dato il via al problema illustrato dal film). E sorge qui la differenza. X-Files mostra, sì, anch’essa l’autorità in azione, ma intanto senza darle un volto ufficiale: uomini che fumano, gole profonde e così via hanno sostituito i generali, i sindaci, i capi della polizia d’un tempo; ma soprattutto l’autorità presentata dalla serie, lungi dall’essere stupida e semplicisticamente brutale, è invece sin troppo furba, astuta, a un punto tale da non poter facilmente essere inquadrata secondo l’usuale modello etico-politico del passato. L’autorità, insomma, è coinvolta; e l’incertezza sui termini del suo coinvolgimento sostituisce – per così dire – la qualità fantastica (in senso todoroviano) del racconto irrealistico d’un tempo. In altre parole, l’incertezza fra lo strano e il meraviglioso che, teorizzava Todorov più di un quarto di secolo fa nel suo ormai celebre Introduction à la littérature fantastique, si identifica nel fantastico trova in X-Files il suo corrispettivo nel modo di presentazione realtivo ai personaggi fissi di contor-
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no, laddove evidentemente all’inizio la posizione della Scully interpreta le ragioni dello strano e quella di Mulder le ragioni del meraviglioso. Il modello, la formula generale della serie si potrebbe ridurre così: «Tutto non è quel che sembra, ma non si sa comunque mai per certo che cosa sia». Di questa formula è la parte avversativa a essere todoroviana, ma con un piccolo, importante distinguo: qualcuno, infatti, è a conoscenza di questa incertezza, la distilla, la governa, la controlla. Non si potrebbe dunque essere più distanti dagli anni ’50: in questi vigeva, sì, un’identica cultura del sospetto, ma verso un invasore esterno (o anche le sue quinte colonne interne) facilmente identificabile ideologicamente sul terreno della politica contemporanea, secondo i dettami del più classico maccartismo; oggi invece quello stesso sospetto si ritorce verso l’autorità che un tempo l’alimentava e di conseguenza verso noi stessi («Trust no one»). È evidente che tutto questo nasce da esperienze decennali che gli Stati Uniti hanno vissuto e stanno vivendo almeno a partire dal primo omicidio Kennedy, passando poi per il secondo, per Watergate, per Irangate, e così via sino alla ripetizione della tragedia sotto forma di farsa nel più recente caso Lewinski. X-Files, insomma, è un perfetto prodotto del clima di tensione, sospetto, sfiducia che avvelena vieppiù l’America contemporanea, ma che – a ben vedere – non è poi tanto estraneo neanche a certa parte dell’Europa (si pensi alle emulsioni e alla riottosità della vita politico-giuridica nell’Italia degli ultimi anni, per non dire della Francia, del Belgio ecc.). Il modello, peraltro, si applica a tutto nella serie: per esempio al rapporto fra i due protagonisti che oscilla incessantemente fra i poli dell’incomprensione e dell’attrito da un lato e della solidarietà e della fiducia dall’altro senza che mai si distinguano posizioni chiare nella prima o nella seconda direzione. Persino il continuo rimando metanarrativo e citazionale entra a far parte di questo quadro d’incertezza, di indistinzione: X-Files riassume il magazzino dell’horror e della SF cinetelevisivi americani del passato senza una linea riconoscibile, un’influenza precisa e identificabile. Nel catalogo Noir in Festival 1996 Fabrizio Liberti identifica ed esemplifica un lungo elenco di queste influenze (più di 30) in relazione a singoli episodi.A mia volta ne aggiungerei qualche altro, non certo per dimostrare alcunché (quanto indicato da Liberti è più che sufficiente per comprendere l’eterogeneità dei rimandi e dunque anche della serie di Chris Carter) ma soltanto per arricchire ulteriormente il quadro: Lo squalo di Steven Spielberg per l’episodio Il diavolo del Jersey, Una cascata di diamanti di Guy Hamilton per Sabotaggio alieno, Hallucination di Joseph Losey per Esperimenti genetici, Vestito per uccidere di Brian De Palma per Passione omicida, mezza dozzina di romanzi di Stephen King e di susseguenti film che ne sono stati tratti per La pelle del diavolo, Il circo del Dr. Lao – ma più il romanzo di Charles Finney che il film trattone da Gorge Pal – per Strane ferite, Grano rosso sangue di Fritz Kiersch per DNA sconosciuto, l’episodio della prima serie di Star Trek, Gli anni della morte, per Calma reale. E forse altri ancora se ne potrebbero aggiungere.
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In voluta, programmatica opposizione a questa “filosofia dell’incertezza” la serie, per così dire, mostra i mostri, in accordo con la voga della “meraviglia orrorifica” tipica del cinema americano contemporaneo. Anzi, essa supera decisamente i limiti imposti dalla tradizione televisiva in quest’ambito entrando in competizione con le audacie che gli effetti speciali hanno da tempo dimostrato essere possibili sul grande schermo almeno da Alien di Ridley Scott in poi. Già nel 1960 la televisione statunitense aveva incominciato a giocare con l’orrore delle immagini, in particolare nella serie Thriller (1960-62), cui, è bene ricordarlo, avevano collaborato registi di nome come, fra i molti, Mitchell Leisen, John Brahm, Laszlo Benedek, Ida Lupino, Robert Florey. Il biennio seguente aveva visto poi Outer Limits, i cui trucchi ed effetti speciali di carattere orrifico erano sicuramente più ridicoli, ma che ugualmente tentavano di aumentare il quoziente horror distribuito dal piccolo schermo. Outer Limits è stata la serie forse più vicina a X-Files, purtroppo non suffragata da altrettanta perizia tecnica. Si trattava tuttavia di una serie a carattere non continuativo, con personaggi sempre diversi e senza alcun legame con gli altri, laddove la creazione di Carter mostra un’invidiabile compattezza, non solo per quel che riguarda la costante del cast, ma anche per la precisa, caratteristica atmosfera notturna, umida, semi-irreale e, non ultimo, per quella sorta di basso di fondo fornito proprio dal rapporto fra protagonisti e autorità nei termini di incertezza di cui si diceva più sopra. X-Files, insomma, propone le vecchie domande dell’ufologia, della superstizione, della parapsicologia ecc., ma variando il rapporto fra queste aree e coloro che quelle domande pongono (e a volte sono costretti a porsi) in una direzione che verrebbe da definire interattiva. Laddove in passato i testimoni di fenomeni simili a quelli descritti nella serie vi si ponevano davanti in termini sostanzialmente passivi, meri oggetti di operazioni che esulavano dalla sfera della realtà, gli eroi di X-Files ingaggiano con essi una lotta che li vede divenire soggetti. Non una lotta di sopraffazione, ma, appunto, di testimonianza. Il primo problema di Mulder non è tanto ritrovare la sorella scomparsa, quanto di fornire prove dell’esistenza degli alieni, della loro invasione ed eventualmente di un loro complotto (e anche di un ulteriore complotto da parte delle autorità per impedirne la raccolta). L’interattività, dunque, si identifica in questo caso come un gioco d’indagine i cui partecipanti sono tre, ma uno solo è singolarmente in alterno contatto con gli altri due che non lo sono, dei quali, a loro volta, uno – per così dire – fornisce il materiale e l’altro lo distrugge mettendo il terzo sempre in condizione di doverne ottenere dell’altro. Sono finiti i tempi dello sguardo attonito del terrestre davanti al Visitatore strano o orripilante o maestoso che arrivava dallo spazio. Persino quando la Hollywood dei nostri anni imposta il proprio racconto in questi termini, come nel caso di Independence Day di Roland Emmerich, la pellicola non può non uscirne come un’ironica esercitazione di citazioni, di allusioni a quel cinema ormai obsoleto. La questione non è più
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da dove viene l’alieno e cosa vuole, ma come dimostrare che c’è: dalla fantascienza si passa alla detection e in certa misura persino alla filosofia, ovvero dalla certezza tranquillizzante del genere (anche di quello più impressionante) si passa, diciamolo ancora una volta, a una contaminazione di generi e l’Altro diventa un mostro che non soltanto – come taluni suoi antenati del passato – è orribile a vedersi, ma che è anche, e proprio per questo, orribile a pensarsi. In fondo, è di questo che si occupa una serie come X-Files, del bel risultato cui ci hanno portato la politica e la società di massa in questo scorcio di fine millennio: l’orrore del pensiero. Il fenomeno X-Files ha comunque introdotto sul piccolo schermo una rappresentazione orrifica alquanto inedita, affidando a tecnologia ed effetti speciali sofisticati la realizzazione di ciò che visivamente caratterizza i generi cui si ispira in un modo sostanzialmente non inferiore ai livelli raggiunti in questo senso dallo spettacolo cinematografico. E sempre in modo non diverso dal cinema la serie televisiva ha operato, come si diceva, la contaminazione fra due generi in maniera inequivocabile e con una connessione così stretta da creare in un certo senso una sorta di genere autonomo come sua risultante. D’altra parte, questo genere non è storicamente del tutto originale, dal momento che se ne possono trovare inequivocabili tracce nel cinema hollywoodiano degli ultimi vent’anni. Ciò che rende la serie irriducibile ad altri prodotti pur comparabili è, dicevamo, l’atmosfera paranoica che la pervade.Anche in questo senso, va detto, la componente in questione non è originale: i tardi anni ’60 in particolare contano più d’una serie televisiva fondata su tale atmosfera, da The Invaders (1967-68) a quella specie di Truman Show ante litteram che è The Prisoner (1968). La differenza è peraltro ovvia: in questi – soprattutto il primo, che in certa misura mutua la componente in questione dalla tipica paranoia della fantascienza cinematografica americana degli anni ’50 – la struttura di riferimento del reale è messa in pericolo solo dal fatto che forze esterne la minacciano in modo segreto e pervasivo, laddove in X-Files la minaccia proviene dall’interno, da qualcosa, cioè, che si suppone fondato a garanzia di singolo e società. Ma anche le connessioni con il secondo esempio televisivo citato (che Gerani e Schulman definiscono «perplexing» e «Kafkaesque») sono più deboli di quanto appaia: in The Prisoner l’eroe titolare si trova suo malgrado a vivere in un luogo fasullo e tecnologicamente controllato, segregato tuttavia dal mondo reale, quotidiano. La parentela è piuttosto con una bella pellicola dello stesso periodo, Operazione diabolica di John Frankenheimer, che, come un’altra serie anni ’60, The Fugitive, rappresenta il distillato della paranoia americana post-Dallas. Con X-Files dunque le cose cambiano, ma cambiano secondo una traccia che è da sempre parte della tradizione psicopolitica statunitense. Nel suo celebre saggio The Paranoid Style in American Politics Richard Hofstadter definisce l’argomento titolare in questi termini: «L’immagine centrale è quella di una vasta e sinistra cospirazione, una macchinazione, gigantesca
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eppure sottile, messa in moto per minare e distruggere un modo di vita». Hofstadter continua chiarendo che nello stile paranoie la cospirazione è «la forza motrice degli eventi storici» e che essa è concepita «in termini apocalittici». In America tale costruzione si è esercitata nei secoli contro i movimenti massonici, contro il cattolicesimo, contro gli abolizionisti, contro i mormoni, contro i comunisti ecc. Ora, X-Files non fa altro che proiettare su un piano immaginario un modello che del resto all’immaginario già appartiene, applicandolo a un nemico che non trova immediato riscontro sulla scena storico-politica, ma che si configura attraverso allusioni programmaticamente vaghe, nebulose, non chiarite.È importante sottolineare che nello stile paranoia il nemico si identifica spesso in un ampio nucleo di individui interno alle forze stesse di governo e che i suoi esponenti tramano in stretto contatto con – quando non in dipendenza da – una rete organizzativa di carattere planetario nell’intento di rovesciare la democrazia americana abbattendone i sacri pilastri della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione, i cui testi acquistano un valore di verità comparabile a quello della tradizione biblica. È in questa chiave, anzi, che vanno letti i fermenti separatisti che hanno sconvolto gli Stati Uniti negli ultimi anni, dall’incidente di Ruby Ridge alla tragedia di Waco,Texas, eventi che del resto X-Files – Il film di Rob Bowman cita apertamente in connessione con la cospirazione che l’agente Mulder tenta di smascherare e che, se si prescinde dalla componente fantascientifica della pellicola e della serie, mostrano inquietanti risvolti nella realtà non dissimili da quelle che sembrano essere le fantasie di Chris Carter. Un esempio fra i molti possibili: i due elicotteri che inseguono i protagonisti nella notte, e che compaiono dal e svaniscono nel nulla, fanno parte di una vera e propria tradizione connessa alle odierne milizie separatiste americane, tanto che questa è divenuta una sorta di genere a sé (le «black helicopter stories» di cui parla Richard Abanes nel suo documentario American Militias). Nel folklore separatista gli «elicotteri neri» presentano le stesse elusive caratteristiche degli Ufo e in sostanza incarnano la sensazione di minaccia che è ovviamente parte essenziale dello stile paranoide. Il film in questione è un concentrato di mitologie vecchie e nuove della cultura americana, le stesse che, dopo aver ricevuto il loro battesimo in ambito letterario, hanno trovato nuova forma (ma identica sostanza) nella produzione cinematografica nazionale. Mulder, ad esempio, è presentato, sì, come cavaliere dell’ideale, ma anche come un Tom Sawyer incapace di stare alle regole più elementari: all’udienza della commissione d’inchiesta arriva in ritardo e quando è il momento di entrare rischia di offenderne gli alti membri dimenticando la giacca su una sedia. Il suo precedente cinematografico più diretto, non c’è dubbio, è il Joe Turner di I tre giorni del Condor di Sydney Pollack, ed è altrettanto indubitabile che l’agente Scully, piazzatagli alle costole per controllarne le mosse nella sua ricerca di prove dell’esistenza degli Ufo e di una cospirazione nelle alte sfere tesa a celarle, sia una versione della positiva, razionale, pragmatica figura della donna
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twainiana, Zia Polly, Miss Watson o Vedova Douglas che sia, nei termini ammirevolmente indicati da Leslie Fiedler. Anche più interessante è lo scenario della storia. Se da un lato la pellicola rimanda ai grandi film d’avventura con la sua straordinaria e continua dislocazione nei più disparati luoghi d’America e del mondo (da Londra all’Antartide), talché il pensiero corre subito alla vorticosa geografia della sessantesca serie 007 (ma anche a opere posteriori come, per fare qualche titolo, a Incontri ravvicinati del terzo tipo, Close Encounters of the Third Kind, 1977, e alla serie di Indiana Jones, tutti firmati da Steven Spielberg), d’altra parte una consistente sezione della pellicola si snoda in una cornice che non si limita ad essere soltanto allusiva di una tradizione cinematografica. Se, insomma, è vero che la sequenza dell’inseguimento nel campo di granoturco si ispira direttamente all’Hitchcock di Intrigo internazionale, è altrettanto vero che l’invenzione di un adynaton come quello che vede un luogo desertico trasformato in giardino rimanda al grande dibattito nato in America con l’arrivo e lo sviluppo della civiltà bianca e che trovò i suoi primi teorizzatori, pro e contro la manipolazione e il possibile sfruttamento della wilderness, almeno a partire da Zebulon Pike passando per una larga serie di viaggiatori (Josiah Gregg, Horace Greeley, John Wesley Powell, Clarence Dutton ecc.), i quali smussarono via via la durezza del loro giudizio sulle plaghe desertiche sino a che, come ricorda Henry Nash Smith, Ferdinand V. Hayden distrusse il mito del deserto e aperse la via a quello del giardino sulla base della previsione di un mutamento meteorologico radicale e stanziale. La differenza fra questo mito del deserto come giardino e quello del film di Bowman sta nel fatto che il secondo è la parodia del primo. In X-Files – Il film, infatti, la coltivazione del granturco nel Texas settentrionale rappresenta un falso Eden, ché è proprio attraverso di essa che si sviluppa il DNA alieno destinato a essere trasmesso nei corpi umani attraverso le api che pungono anche l’agente Scully (e in che momento...). È a questo punto che il secolare dibattito americano sul mito del deserto diventa esemplare di un’altra controversia: quella sulla possibilità e sugli eventuali pericoli del paradiso terrestre (un tema che, in ambito fantascientifico, è stato scavato più che abbondantemente dallo Star Trek televisivo). Come che sia, per comprendere appieno la funzione parodistica di cui si diceva bisogna ricordare che la trasformazione del mito del deserto in quello del giardino, e soprattutto la teorizzazione fattane alla fine dell’800 da William E. Smythe, viene vissuta, nelle parole di David W.Teague, come «la prossima sfida per la riforma della razza nell’esperienza Anglosassone» e che «il deserto fornì all’America un’opportunità di ricominciare daccapo». Ora, che cosa di più parodistico per la nazione di un nuovo inizio attraverso una razza che svuota letteralmente i corpi umani divenuti semplici carcasse ospiti di un’invasione aliena? La cosa è tanto più paradossale se si pensa che fra i teorizzatori contemporanei della wilderness americana il romanziere Edward Abbey ebbe a scrivere trent’anni fa nel suo Desert Solitaire che egli la vedeva come «un
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rifugio dal governo autoritario, dall’oppressione politica [...] come una base di resistenza alla dominazione centralizzata». Insomma, qualcosa di non molto diverso da quello contro cui lottano i due agenti di Chris Carter. In breve, il film di Bowman impiega alcuni mitologemi cari alla cultura americana di sempre rovesciandone però proprio il valore mitologico e fornendo così una versione della tradizione aggiornata a un’epoca che del mito ha mantenuto la forma, la struttura, l’inventario, ma non il senso profondo. X-Files – Il film impiega il modello ma non il suo spirito originario e opera un po’ come i suoi alieni, riducendo a vuoto e inservibile involucro ciò che ha un tempo era carne e sangue, vale a dire adottando del mito solo le sue sembianze per sostituirlo con l’ibrida creazione di una biologia che può anche incuriosirci, ma nella quale non possiamo identificarci.
Note bibliografiche del testo originale Il riferimento al fantastico come incertezza fra lo strano e il meraviglioso viene dall’ormai celebre studio di Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Ed. du Seuil, Paris 1970, in seguito tradotto in italiano da Garzanti, Milano; il nutrito elenco di pellicole che sembrano in qualche modo avere influenzato vari episodi della serie di Chris Carter, messo a punto da Fabrizio Liberti, si trova nel catalogo di Noir in Festival 1996, curato da Marina Fabbri, Ed. Farenheit 451, Roma 1996; il commento su «The Prisoner» è in Gary Gerani (con Paul H. Schulman), Fantastic Television, Harmony Books, New York 1977; il famoso esemplare del saggio di Richard Hofstadter è in The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, Vintage Books, New York 1967; il riferimento ai movimenti separatisti americani e alle «black helicopter stories» è in Richard Abanes, American Militias. Rebellion, Racism & Religion, InterVarsity Press, Downers Grove 1996; sulla funzione femminile di controllo e mantenimento dell’ordine nei due più celebri romanzi di Mark Twain ha scritto pagine memorabili Leslie Fiedler nel notissimo Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1980; sul mito del deserto osservato e commentato dai viaggiatori americani ottocenteschi e sulla sua trasformazione in giardino rimane fondamentale lo studio di Henry Nash Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard UP, CambridgeLondon 1970; il rapporto fra quel mito e la trasformazione della razza anglosassone secondo William E. Smythe è commentato da David W. Teague nel suo interessante The Southwest in American Literature and Art, Arizona UP, Tucson 1997; le parole di Edward Abbey sul deserto sono riportate da Roderick Nash in un altro classico studio, Wilderness and the American Mind,Yale UP, New Haven-London 1982. Da Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Torino: Lindau, 1999, 243-251
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Sue Tait Visione autoptica e immaginario necrofilo in CSI Sebbene le fiction dedicate alle scienze forensi non siano una novità, CSI ne dà una rappresentazione originale, concentrandosi sulla squadra di esperti della polizia scientifica all’opera. Ciò che rende questa serie diversa dalle precedenti riguarda inoltre la gamma di competenze scientifiche e tecniche impiegate nell’analisi delle prove e l’ausilio della tecnologia nell’affinamento delle capacità della polizia scientifica, in particolare per quanto riguarda l’osservazione. Una varietà di attrezzature e strumenti ottici – microscopi, macchine fotografiche, computer, fonti luminose alternative, gas cromatografici e strumentazioni spettrografiche – viene impiegata non per ottenere un tipo di conoscenza ma la Verità.All’interno di questo universo fittizio, la prova è raramente aperta all’interpretazione; anzi, stando a Gil Grissom, il supervisore della squadra, le prove non mentono mai:“Non c’è posto per la soggettività in questo dipartimento” (stagione I, episodio 1). Ciò che distingue CSI dalle altre serie investigative è l’attenzione posta sulle procedure scientifiche. Una molteplicità di trattamenti tramite dispositivi, reagenti chimici e complicate strumentazioni va ad integrare i consueti metodi investigativi basati su indizi che possono essere ricavati dal contesto sociologico o dalla psiche del colpevole. La raccolta e l’analisi della prova fisica permette di visualizzare gli indizi. Nell’episodio La scientifica sotto accusa (stagione III, episodio 2), Grissom utilizza delle immagini digitali in un’udienza preliminare per convincere il giudice ad approvare il rinvio a giudizio del sospettato. In tale sequenza, Grissom presenta l’elemento di prova servendosi di un computer portatile collegato a uno schermo, sul quale appare l’immagine ingrandita, isolata da una fotografia, di una cicatrice sul ginocchio della persona accusata.Tale immagine è affiancata da un potente ingrandimento del caratteristico disegno a diamante del gradino che si suppone abbia provocato la ferita. L’immagine della cicatrice viene quindi ridimensionata e marcata da identificatori digitali prima di essere sovrapposta all’immagine del gradino, alla quale, a sua volta, viene sovrapposta l’immagine di una macchia di sangue lasciata su un lenzuolo presente sulla scena del crimine. Gli identificatori digitali compaiono sullo schermo a indicare le corrispondenze tra le immagini sovrapposte. In realtà, tale sequenza descrive un semplice montaggio di indizi ma, nelle mani della polizia scientifica, la prova è elaborata e mostrata tramite significanti altamente tecnologici. Le problematiche della verità fotografica sono ignorate e il potenziamento dovuto alla tecnologia e all’expertise tramite le quali essa viene dispiegata permette uno sguardo panottico che consente alla scienza di avere successo laddove le indagini della polizia e le tattiche degli avvocati falliscono. Per una fondamentale finzione della serie, i ruoli degli altri rami dell’autorità giudiziaria sono periferici e gli uomini della polizia scientifica sono
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ritratti, erroneamente, nell’atto di condurre e risolvere casi, analizzando le prove raccolte, interrogando i sospetti ed eseguendo arresti. Mentre in realtà il ruolo della polizia scientifica è quello di raccogliere le prove, nel mondo di CSI abbiamo a che fare con superinvestigatori con le armi in pugno e dotati di poteri scientifici. Secondo il patologo forense Gary Telgenhoff, consulente per la serie CSI: Nella realtà, è l’investigatore della omicidi ad essere incaricato di condurre il caso. Gli uomini della scientifica si occupano di raccogliere prove e indizi e rendono conto agli investigatori della omicidi e a me, in qualità di medico legale. Non sono loro a “ricostruire il caso”, né a eseguire l’autopsia. Il loro compito è di raccogliere proiettili e altre tracce o effetti materiali da sottopormi, imbustarli e catalogarli.Tutto qui. Non osservano al microscopio, non confrontano campioni di capelli, di vernice o di proiettili. Non esaminano le larve presenti sul corpo e non ricostruiscono un volto umano. Nel mondo reale, ci sono moltissime persone che fanno tutte queste cose, ciascuna sulla base della propria competenza. (Dickenson 2002: 2)
In questo senso, CSI costituisce una rappresentazione di quella che ho definito scienza finzionale. Diversamente dalla fantascienza, che immagina il futuro, la scienza finzionale di CSI porta alla luce crimini del passato. La scienza è rappresentata esteticamente e il dispiegamento delle sue metodologie è accompagnato da brani di musica contemporanea, mentre in altri momenti la narrazione adotta un tono pedagogico, trasformando gli spettatori in iniziati alle pratiche della scienza forense.Tuttavia, dato che tali momenti fanno spesso assegnamento su di una terminologia specialistica, la comprensione viene preclusa alla maggioranza degli spettatori. L’effetto, allora, è quello di re-inscrivere la scienza con una densa aura di autorità che ignori la parzialità della posizione dello scienziato. La presunzione che l’ammaestramento sulle materie scientifiche rafforzi la posizione del soggetto che lo spettacolo presenta ai suoi spettatori, rende apparentemente possibile il subentrare di uno sguardo pruriginoso. Ciò che si cela in tale presupposto è che il piacere offerto dalla rappresentazione della scienza finzionale in CSI può, in realtà, non riguardare affatto la ricerca della verità; esso è anche un mezzo per portare alla luce e visualizzare la violenza con modalità originali, offrendo nuove rappresentazioni dell’orrore corporeo derivanti dalla visione autoptica. La visione autoptica Convenzionali a ogni episodio di CSI sono le scene che si svolgono nella sala autopsie. Una scena tipica dell’episodio L’arte della fame (stagione II, episodio 23), ha inizio con un primo piano molto ravvicinato del volto di una donna adagiata sul tavolo da dissezione. Quindi l’inquadratura si sposta sopra la testa per mostrare un recipiente che contiene viscere sanguinolente, per poi riprendere dall’alto il corpo coperto da un lenzuolo sul quale si staglia una macchia di sangue a forma di Y.Tali sequenze elabora-
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no un immaginario modernista: il corpo dissezionato quale veicolo di disquisizioni di scienza e piacere estende gli ambiti di rappresentazione e osservazione inaugurati nel teatro anatomico rinascimentale. L’orchestrazione dello sguardo sul cadavere ha una storia lunga e diffusa: il modo in cui la morte, o la simulazione della morte, viene rappresentata riflette le preoccupazioni estetiche, epistemologiche e politiche di un determinato momento culturale (Azoulay, 2001; Bronfen, 1992; Klaver, 2004; Llewellyn, 1991). In effetti, l’orchestrazione dello sguardo ha assunto un significato letterale in alcuni teatri anatomici rinascimentali, dove le dissezioni pubbliche si svolgevano con l’accompagnamento di musica classica. Come spiega Jonathan Sawday, nel XVII secolo “il teatro anatomico costituiva un registro di importanza civica, un indice del progresso intellettuale della comunità e una pubblicità della vita culturale e artistica di una città” (1995: 42). Parimenti, i cadaveri dissezionati in CSI rappresentano una vetrina dello stato dell’arte della scienza forense e, come intendo dimostrare, della produzione televisiva. [...] L’esame e la dissezione sono svolti con una pretesa pedagogica che rende possibile la riproposizione dell’erotismo morboso di cui era impregnata la cultura rinascimentale antecedente all’“ideale di un campo di indagine imparziale” (Sawday, 1995: 5). La scienza offre un ricovero alla pornografia della morte. Definisco necrofilo lo sguardo che si offre allo spettatore poiché gli spettatori si trovano nella posizione di godere della vista delle immagini di morte, immagini che spesso penetrano in profondità nella carne. Isabel Cristina Pinedo stabilisce un parallelo tra immagini dell’orrore e immagini pornografiche, laddove “il film dell’orrore, come quello pornografico, non si limita a violare i tabù ma ad esporre i segreti della carne, a riversare all’esterno il contenuto del corpo” (1997: 61). Nel presentare il corpo aperto, lo slasher movie è stato descritto in termini di “carnografia”: pornografia e horror che “esibiscono ciò che è normalmente celato o racchiuso per rivelare i recessi nascosti del corpo, il porno attraverso la congiunzione carnale e l’horror attraverso la carneficina” (Pinedo, 1997: 61). Lo sguardo autoptico delle scene in obitorio in CSI, spesso potenziate da immagini digitali che simulano gli interni corporei e gli effetti della violenza subita, è un esempio di questa rivelazione “carnografica”. Nell’episodio Il branco (stagione III, episodio 9), il corpo di una vittima che è stata pugnalata e colpita da un proiettile, giace sul tavolo da dissezione con uno squarcio della grandezza di un pallone da pallacanestro dalla spalla alla vita. Grissom e il dottor Robbins scostano a turno la carne riprodotta artificialmente per sbirciare all’interno della cavità. Un primo piano estremamente ravvicinato consente allo spettatore di condividere la visione degli organi interni rivelata dall’intervento del medico legale: il cuore, nel quale è conficcato un proiettile, circondato dagli organi interni umidi e lucidi, resi con una sanguinolenta colorazione rossa e stillanti umori. L’inquadratura allarga il campo della visione alla stanza, mentre i due scienziati si spo-
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stano sullo sfondo per esaminare una radiografia sul visore. Più che seguire il loro movimento, la ripresa resta stazionaria in modo da mantenere il cadavere in primo piano. In tal modo si stabiliscono due diverse relazioni visive: la prima dal punto di vista dei CSI (lo sguardo autoptico), e la seconda che riguarda lo spettacolo della matericità carnale del corpo devastato. Secondo Isabel Pinedo è proprio tale carnalità a relegare l’hard-core e lo splatter allo status di generi spregevoli. Come osserva Richard Dyer a proposito dei film porno, entrambi i generi sono spregevoli poiché sollecitano il corpo dello spettatore (1985: 27), suscitano una reazione fisica come la paura, la repulsione e l’eccitamento sessuale in combinazioni indeterminate, privilegiando in tal modo la metà abietta della scissione mente-corpo. (Pinedo, 1997: 61)[...]
Reale e iperreale: lo sguardo di CSI CSI impiega tre diversi registri visivi, ciascuno dei quali inteso a produrre effetti di realtà. Il primo è il “presente” dell’universo della serie. I vari episodi sono girati in un formato 35 millimetri che assicura una qualità cinematografica attraverso immagini ad alta risoluzione e colori ad alta intensità. Le sequenze in flashback utilizzano un linguaggio visivo che si richiama alle registrazioni amatoriali e documentaristiche, come ad esempio la scarsa saturazione del colore, la sgranatura e la ripresa a scatti. Il terzo effetto è utilizzato nelle sequenze digitali, o “riprese alla CSI”. Così le descrive il produttore esecutivo Danny Cannon: Le riprese alla CSI vengono dalla sceneggiatura del pilota di Anthony Zuiker. A un certo punto dice ‘la telecamera segue il proiettile’. [...] Se ti trovi in una sala autopsie, il modo migliore per farlo è starsene lì a indicare o utilizzare dei fotogrammi? Oppure usare effettivamente la cinepresa come hanno fatto in Viaggio allucinante e viaggiare all’interno del corpo lasciando che siano le immagini a raccontarci la storia? (CBS Broadcasting Inc., 2003).
Il ruolo di queste riprese nel caratteristico stile CSI è spiegato dal creatore Anthony Zuiker: “La serie è nata esattamente quando Danny Cannon si è spinto oltre nell’episodio pilota e ha ottenuto di utilizzare una telecamera periscopica che si infilava letteralmente all’interno del corpo per poi ritrarsene” (CBS Broadcasting Inc., 2003). Le sequenze digitali in CSI vengono utilizzate principalmente per ampliare la visione autoptica e rendere gli effetti della violenza all’interno del corpo. Ciò che accade all’interno del corpo nel momento in cui la violenza viene perpetrata è un elemento che mancava alle precedenti rappresentazioni visive e tale proliferazione di ciò che è visibile e può essere visualizzato è un esempio di quella che viene variamente definita la “frenesia del visibile”, l’“imperativo icastico” o “l’effetto di reale” ed evoca la “smodata ingordigia” di quell’onniscienza che secondo Donna Haraway “permette di vedere ogni cosa da nessun luogo” (1991: 189). La descrizio-
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ne di Donna Haraway è particolarmente saliente in relazione alle immagini all’interno del corpo di CSI. Il desiderio di mappare nuovi territori corporei in nome dell’originalità e della qualità artistica (uniti, inutile dirlo, a imperativi economici) è espresso dal commento di Josh Hatton, responsabile degli effetti speciali, secondo il quale “siamo arrivati ovunque una telecamera poteva arrivare e immagino che la sfida per la prossima stagione sarà di trovare dei luoghi ai quali ancora nessuna telecamera ha avuto accesso” (CBS Broadcasting Inc., 2003). Tale affermazione rimanda alla tesi di Joel Black, secondo la quale “al pari degli scienziati che erano originariamente, i cineoperatori hanno molto in comune con i pornografi nel documentare scene in passato invisibili e persino inimmaginabili collocando l’osservatore – e, letteralmente, la telecamera – in luoghi dove non sono mai stati” (2002: 29). Inoltre, l’occhio della telecamera che produce la nostra visione è un’immagine generata al computer, una telecamera virtuale iperrealista che tuttavia non è vincolata al reale. Questo sguardo virtuale e mobilitato (Friedberg, 1993: 2) diventa un veicolo di razionalità e visualizza per il pubblico ciò che esiste nell’immaginazione degli esperti CSI. Qui lo spettatore vede ciò che nella realtà e impossibile vedere: il cadavere che ritorna in vita, il mondo visto dagli occhi di un cane o lo spaccato di una lama di coltello che attraversa la carne di un essere vivente. Naturalmente, questa trovata di consentire l’accesso al reale può esistere soltanto come simulazione, come effetto digitale. In questo modo, l’imperativo icastico, che estende l’ambito di ciò che possiamo vedere e delle modalità di visione, produce un effetto iperreale. Andrew Darley analizza l’uso degli effetti digitali al fine di “produrre l’effetto di una rappresentazione caratterizzata da un iperrealismo fotografico in una scena dal carattere concettualmente fantastico, la quale non potrebbe avere alcun termine di correlazione diretto nella vita reale” (2000: 108). In genere, tali effetti entrano in gioco in relazione ai film di fantascienza, e in un simile contesto la produzione digitale dell’iperrealismo fotografico si accompagna al lessico visuale della pubblicità e dei videoclip, producendo una cultura dello spettacolo che “privilegia la forma rispetto al contenuto, l’effimero e il superficiale rispetto a ciò che è duraturo e profondo e l’immagine in sé piuttosto che l’immagine come referente” (Darley, 2000: 81). Come osservano Lister et al., la nostalgia per ciò che è perduto nel momento in cui gli effetti spettacolari subentrano alla “profondità” dei classici testi realisti idealizza le caratteristiche che una volta erano oggetto della critica cinematografica: il modo in cui il reale era evocato attraverso la caratterizzazione, la narrazione e la fotografia chimica (2003: 146). Insieme all’intrattenimento e alla cultura giovanile,“i film a effetti speciali sono comunemente considerati ingannevoli, puerili e superficiali, diametralmente opposti ad aspetti più rispettabili della cultura popolare come la psicologia del personaggio e le sottigliezze della trama e della messinscena e spesso associati alla tecnolo-
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gia piuttosto che all’‘arte’ cinematografica” (Lister et al., 2003: 146). Al pari delle immagini carnografiche di derivazione horror, CSI pretende di riabilitare gli effetti generati a computer. Se Brad Tanenbaum, il produttore associato, definisce le riprese alla CSI “indecenti e disgustose”, tali immagini sono finalizzate a un intento pedagogico: “cerchiamo di fare del nostro meglio per darvi gli strumenti necessari per stare al passo con i nostri investigatori” (CBS Broadcasting Inc., 2003). Cosicché, se tali riprese amplificano la visione autoptica e mostrano immagini raccapriccianti un tempo inimmaginabili, la nostra lubricità trova una giustificazione nel tono pedagogico della serie: le sequenze e le riprese che ci permettono di vedere dal punto di visto scientifico e medico degli esperti si estendono al loro occhio della mente al fine di provvedere alla nostra istruzione più che assecondare la nostra perversione. Le immagini iperrealiste di CSI e il piacere visivo di cui consistono in queste sequenze evidentemente finzionali assolvono due funzioni principali: spettacolarizzano la scienza, che viene così resa sotto un aspetto esaltante, e ci mettono in condizione di osservare la violenza (una simulazione di violenza), sotto un aspetto nuovo e specifico. La televisione ci abitua alla brutalità e alla carnografia facendole entrare nelle nostre case e sottomettendole alle esigenze della narrazione, dell’estetica e del genere. Che il celebre talk-show americano Oprah abbia dedicato una puntata a CSI e alle scienze forensi illustra come tale processo di addomesticamento avvenga attraverso uno spazio televisivo rivolto a un pubblico femminile. Nella puntata intitolata Real Life CSI’ Stories, andata in onda il 13 ottobre 2003, la conduttrice aveva reclamizzato la proiezione di un’autopsia reale. La sua presentazione della serie – “[CSI] la serie che ha reso la scienza attraente [...] nota per l’utilizzo di dispositivi altamente tecnologici e per le immagini estremamente realistiche benché cruente” – è un esempio di come il talk-show abbia contribuito ad avvalorare la relazione di CSI con la realtà, e di come siano quindi l’elemento icastico e quello scientifico a classificare il reale. Il talk-show contemplava anche un’intervista a Marg Hellgenberger, l’attrice che interpreta il ruolo di Catherine Willows. L’attrice ha raccontato di aver osservato il lavoro di criminologi e patologi all’opera, di come il contatto con la morte e la scienza rendeva credibile il suo personaggio in CSI. Elisabeth Divine, criminologa e consulente per la serie CSI, ha descritto un caso autentico che riguardava l’omicidio di Linda Sobek, sul quale aveva lavorato e sul quale è basato l’episodio di CSI Dopo lo spettacolo (stagione IV, episodio 8).Agli spettatori vennero mostrate delle foto autentiche del luogo del crimine, dove la morte mostra un aspetto grottesco. Il volto della vittima è sfigurato, il corpo traumatizzato e di un colore innaturale. Dopo tutto, è stata sodomizzata con la canna di un fucile e soffocata. Nell’episodio di CSI ispirato a questo caso il cadavere ha un aspetto magnifico. In questo momento, malgrado l’elaborata produzione di un realismo visivo della serie, Real Life CSI’ Stories rivela implicitamente ciò che
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viene ignorato nella finzione. CSI offre uno spettacolo carnografico stilizzato che, in maniera piuttosto significativa, non somiglia alla realtà: Oprah:“Lei ha descritto alcune scene del crimine su cui ha lavorato come autentici film dell’orrore”. Julie Wilson, investigatore dell’ufficio del coroner di Los Angeles:“In effetti lo sono.Al giorno d’oggi la maggior parte di noi è inondata di immagini provenienti dai film dell’orrore che vengono mostrati settimanalmente in televisione. Ma molta gente non si rende conto che per alcuni si tratta della realtà. Per alcune persone, gli attimi prima di morire sono carichi di terrore e orrore. E questa è realtà. È qualcosa che succede veramente”.
Nel filmato che riprende la Wilson al lavoro, sette degli otto cadaveri mostrati sono di neri e uno solo è di un bianco. Mentre le statistiche del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti rivelano che “nel 2000, la probabilità che un nero fosse vittima di omicidio era sei volte maggiore rispetto a un bianco” (Dipartimento di Giustizia, 2004), nella prime quattro stagioni di CSI Las Vegas, pressoché la totalità di oltre 100 cadaveri era di un bianco. Scelta che si presta perfettamente a rendere in maniera visibile gli effetti della violenza: i segni dei lividi e il sangue risaltano molto meglio sul pallore grigiastro della pelle bianca. Inoltre, può essere utile a creare una maggiore identificazione in quella popolazione demografica di elettori e consumatori che può immaginarsi come vittima potenziale. Il candore del cadavere e l’attenzione dei media per lo stupro e l’omicidio della modella e cheerleader Linda Sobek la dice lunga su quanto le morti (e le vite) siano eccitanti. L’immaginario necrofilo non è una prerogativa esclusiva di CSI. Elisabeth Bronfen osserva infatti che il binomio di femminilità e morte “pare essere una costante tematica diffusa, benché variamente impiegata, nella letteratura e nella pittura dall’epoca preromantica fino al periodo moderno” (1992: 60). Per Edgar Allan Poe “la morte di una bella donna è indubbiamente il topos più poetico del mondo” (citato in Bronfen, 1992: 59). Se l’immaginario necrofilo di CSI è senza dubbio il riflesso di considerazioni estetiche, non ritengo che si possano far rientrare nella storia della meditazione poetica sul processo artistico, del significato della morte o della “articolazione in quanto cancellazione del corpo sfuggente di materialità-maternità-mortalità” (Bronfen, 1992: 434). Se il tropo della vittima femminile può accogliere molteplici significati, esso ha in comune con la storia del corpo nudo femminile, e con molta della rappresentazione contemporanea dei media, il corpo femminile come portatore di significati erotici. L’immaginario necrofilo ammicca al giovane spettatore maschio e attesta il corpo precedentemente in vita quale luogo di violenza e desiderio. L’immaginario necrofilo fa passare il corpo femminile per un luogo di pericolo (per coloro che se ne lasciano ammaliare dalle seducenti rappresentazioni cinematografiche), e queste morti lascive, nelle mani del guardone, del serial killer o dell’amante psicotico presuppongo-
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no una particolare categoria di insoddisfazione. La morte erotica sta per il corpo femminile che non è più in grado di compiere l’atto erotico. È un mezzo per evocare i limiti della sensualità in un contesto che ammonisce e nello stesso tempo punisce, simula oggettività, fantastica il potere e, parlando di erotismo attraverso la scienza, affronta la sessualità dalla posizione di Jonathan Sawday e cioè quella di un “rifugio dagli sdegnati guardiani della moralità sessuale” (1995: 46). [traduzione di Simona Mambrini] Da Sue Tait, Autoptic Vision and the Necrophilic Imaginary in CSI, «International Journal of Cultural Studies», 9, 1, 2006, 45-62
Opere citate nel testo originale Azoulay A. 2001, Death’s Showcase: The Power of Image in Contemporary Democracy, Cambridge, MA: MIT Press Black J. 2002, The Reality Effect: Film Culture and the Graphic Imperative, New York and London: Routledge Bronfen E. 1992, Over Her Dead Body: Death, Femininity and the Aesthetic, New York: Routledge Darley A. 2000, Visual Digital Culture: Surface Play and Spectacle in New Media Genres, London and New York: Routledge [trad. it. 2006, Videoculture digitali: spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media, Milano: Franco Angeli] Dickenson E. 2002, Q&A with Dr. Gary Telgenhoff”, Elyse’s CSI Site. URL: http://members.aol.com/EED74VW/csi-DrT-part2.htm Friedberg A. 1993, Window Shopping: Cinema and the Postmodern, Berkeley: University of California Press Haraway D. 1991, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, London: Free Association Books [trad. it. 1995, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano: Feltrinelli] Klaver E. 2004, Images of the Corpse: from the Renaissance to Cyberspace, Madison: University of Wisconsin Press Lister M. et al. 2003, New Media: A Critical Introduction, London and New York: Routledge Llewellyn N. 1991, The Art of Death: Visual Culture in the English Death Ritual c.1500-c.1800, London: Reaktion Books Pinedo I.C. 1997, Recreational Terror: Women and the Pleasures of Horror Film Viewing, Albany, NY: State University of New York Press Sawday J. 1995, The Body Emblazoned: Dissection and the Human Body in Renaissance Culture, London and New York: Routledge
Bibliografia di riferimento
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Diego Del Pozzo Buffy, Dawson e l’orrore della crescita Un filone particolarmente fiorente nel panorama della fiction seriale programmata dai network nel corso degli anni ’90 è quello basato sulle commistioni tra gli stilemi del fanta-horror e quelli del genere giovanilistico. Il decennio, d’altra parte, è inaugurato da due telefilm che aspettano soltanto di essere uniti insieme, per produrre qualcosa di nuovo e mai visto prima: da un lato, l’oscuro I segreti di Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost [...]; dall’altro, il «glamorous» Beverly Hills 90210 (id., 1990) di Darren Star. Il primo serial è responsabile del «ritorno di fiamma», da parte dei network, nei confronti del fantastico, e anticipa atmosfere e inquietudini di X-Files e di tutto ciò che verrà dopo; il secondo genera uno spin-off altrettanto popolare come Melrose Place (id., 1992), fa scoppiare fenomeni d’isteria collettiva tra gli adolescenti dell’intero pianeta – che, particolare decisivo, «consumano» come mai prima il vastissimo merchandising legato alla serie – e, in un certo senso, crea i presupposti per la nascita di uno show ben più maturo ma tematicamente affine come Dawson’s Creek (id., 1998). Un decisivo punto di svolta arriva nel 1996, quando Wes Craven – partendo da un’ottima sceneggiatura del giovane Kevin Williamson – dirige Scream (id.), film che si propone come riflessione metanarrativa (ipercitazionista) sul genere horror e che, al tempo stesso, cerca di rinnovare il filone attraverso commistioni col college movie e la commedia per teenagers (secondo molti detrattori, però, segna anche la definitiva morte dell’orrore cinematografico). Il clamoroso successo della pellicola – confermato da altre due di poco successive, ancora scritte da Williamson: il sequel-remake Scream 2 (id., 1997) e So cosa hai fatto (I Know What You Did Last Summer, 1997) – si rivela decisivo per convincere i vertici dei network a sfruttare fino in fondo un filone che potrebbe rivelarsi estremamente redditizio1. In particolare, mostrano ottimo tempismo i dirigenti del network della Warner Bros.,The WB, poiché mettono subito in produzione diverse serie televisive basate su spunti di questo tipo e sulla presenza di giovani interpreti sexy e accattivanti2. Si inaugura, così una vera e propria tendenza, con diverse serie di nuova concezione che si riallacciano a una tradizione pluridecennale, rileggendola all’insegna di una postmodernità caratterizzata dal definitivo smascheramento della loro funzione di prodotti seriali d’intrattenimento e, conseguentemente, da una buona dose d’ironia. In quest’ambito lo stesso Kevin Williamson si vede approvare un suo progetto – di genere realistico, però – che poi diventerà Dawson’s Creek. Il primo telefilm basato sul mix tra tematiche adolescenziali e atmosfere horror, citazionismo metalinguistica e (auto)ironia postmoderna, in ogni caso, è realizzato da un giovane sceneggiatore-produttore di nome Joss Whedon.
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Buffy Qualche anno prima infatti Whedon sceneggia un trascurabilissimo film intitolato Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, 1992), diretto da Fran Rubel Kuzui e interpretato da Kristy Swanson, Donald Sutherland e Rutger Hauer. Nonostante il fallimento totale del progetto, però, lo sceneggiatore intuisce le potenzialità di storia e personaggi e ne rileva i diritti di sfruttamento. Inizia, così, a lavorare sull’idea di una serie televisiva basata su presupposti simili a quelli del film ma che, al tempo stesso, sia in grado di utilizzare gli elementi che hanno appena decretato il successo delle saghe di Scream e So cosa hai fatto. La Warner approva il progetto di Whedon e, nel 1997, trova uno spazio nel suo palinsesto per gli episodi della stagione inaugurale del nuovo telefilm: Buffy. Rispetto al film di cinque anni prima, le novità immediatamente percepibili riguardano il cast principale: per il ruolo della sedicenne protagonista Buffy Summers, infatti, è scelta la biondina Sarah Michelle Gellar; al suo fianco, sono inseriti altri giovani attori tra i più interessanti della loro generazione, da Nicholas Brendon (Xander Harris) ad Alyson Hannigan (Willow Rosenberg), da Charisma Carpenter (Cordelia Chase) a David Boreanaz (il vampiro buono Angel), capeggiati da due più maturi come Kristine Sutherland (Joyce, la mamma di Buffy) e l’inglese Anthony Stewart Head nel ruolo del bibliotecario Rupert Giles. Le azzeccatissime scelte di casting sono uno tra i principali punti di forza dello show, grazie alla «chimica» perfetta che si crea tra i vari interpreti e, conseguentemente, tra i diversi personaggi. Con questo ruolo, Sarah Michelle Gellar diventa un’autentica star e una delle giovani attrici più richieste a Hollywood. L’antefatto della nuova serie riprende le vicende viste nel film, con l’irrequieta Buffy Summers costretta a lasciare Los Angeles, assieme alla mamma divorziata, dopo essere stata cacciata dalla scuola che frequentava, per aver dato fuoco alla palestra. In realtà, la ragazza è riuscita faticosamente a sventare una strage da parte di un gruppo di vampiri, dopo aver scoperto di essere la «Slayer», la Cacciatrice: cioè colei che è predestinata – e ne esiste soltanto una per ogni generazione – a combattere i vampiri e le forze delle tenebre e a difendere il genere umano. Buffy, dunque, lascia Los Angeles anche per voltare le spalle a un destino che, probabilmente, percepisce come troppo gravoso per la sua giovane età. È ovvio, però, che i suoi problemi siano soltanto all’inizio, dato che già nel pilot del telefilm – «Benvenuti al college» («Welcome to the Hellmouth») – scopre che la tranquilla cittadina di provincia dove si è appena stabilita con la mamma, la ridente Sunnydale, è soprannominata «Hellmouth», «Bocca dell’Inferno», perché edificata in un punto di convergenze mistiche che la rendono particolarmente appetibile per vampiri e demoni assortiti, i quali proprio da lì potrebbero partire alla conquista della Terra. Più che mai, dunque, Buffy deve rinunciare alla spensieratezza tipica della sua età e prendere sulle proprie spalle un fardello che non ha mai chiesto di portare. A guidarla nella sua crociata c’è il bibliotecario Rupert Giles che, in realtà, appartie-
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ne a una millenaria società occulta, gli Osservatori il cui compito è di fare da maestri alle cacciatrici. Gli amici del cuore di Buffy, la rossa timida e «secchiona» Willow e l’ingenuo e generoso Xander, scoprono ben presto l’identità della ragazza e l’affiancano spesso nelle sue battaglie notturne. Dopo pochi episodi, al gruppo s’unisce la ricca e viziata Cordelia e, soprattutto, il misterioso e affascinante Angel, un vampiro (ha quasi trecento anni) che – in seguito alla maledizione scatenatagli contro da una zingara – ha riacquistato la propria anima e, quindi, è dilaniato interiormente dalla sofferenza per gli orrori che ha provocato nei secoli passati.Tra Angel e Buffy, tra il vampiro e l’ammazzavampiri, nasce ben presto una problematica storia d’amore. Con Buffy, Joss Whedon – che, per il cinema, ha sceneggiato Toy Story - Il mondo dei giocattoli (Toy Story, 1995) e Alien - La clonazione (Alien Resurrection, 1997) – mostra tutta la sua abilità di scrittore seriale e realizza un telefilm linguisticamente molto sofisticato, ben oltre l’aspetto esteriore da prodotto medio televisivo (che, anzi, serve per far avvicinare allo show il più elevato numero possibile di spettatori). Peculiare del suo lavoro di scrittura e supervisione per la serie è la capacità di caratterizzare con poche pennellate personaggi che appaiono sempre credibili anche nelle situazioni più assurde (e la serie ne è piena), di scrivere dialoghi scoppiettanti e ironici, capaci di alleggerire la tensione senza provocare mai alcuna caduta di ritmo, soprattutto di far sviluppare archi narrativi lunghissimi e perfettamente coerenti tra loro anche a distanza di anni. [...] I modi dell’ingresso in scena del personaggio di Dawn sono indicativi dell’intelligenza con cui Whedon gioca con tutti gli stereotipi tipici del racconto seriale televisivo, rovesciandoli a suo favore nella sequenza finale del primo episodio del quinto anno, «Il morso del vampiro» («Buffy Vs. Dracula»), infatti, la protagonista è inquadrata assieme alla sorella e si comporta come se l’avesse avuta sempre accanto, nonostante fino a quel momento gli spettatori l’avessero conosciuta come figlia unica. Sciatteria degli autori? Come mai, in quattro anni, non è mai fatto nemmeno un accenno a questa sorellina e adesso tutti si comportano come se fosse sempre esistita? Si potrebbe pensare che, d’altra parte, simili situazioni accadono con molta frequenza, all’interno delle fiction seriali, dove i personaggi appaiono e scompaiono come se entrassero e uscissero da porte girevoli sempre in movimento. La realtà, però, è ben diversa, come emerge dagli episodi successivi: Dawn, infatti, non è altro che «energia pura» incarnata e capace di rimodellare la percezione stessa del reale e quella di coloro che la circondano; una misteriosa «chiave» che può mettere in contatto la Terra con altri piani dimensionali.Viene incanalata in un involucro umano e inviata alla Cacciatrice dagli ultimi adepti di una setta antichissima, affinché possa essere adeguatamente protetta dalle mire della folle dea Glory. Dunque, ancora una volta, la spiegazione c’è, assolutamente incredibile ma perfettamente coerente con quelle che sono le premesse della serie e col patto di «sospensione dell’incredulità» che l’autore stringe con
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il suo pubblico. E ancora una volta, in Buffy, il fantastico riesce ad agire in profondità sulle strutture stesse del reale e del quotidiano, proponendosi come chiave interpretativa per una sua rilettura. La complessa e sfaccettata cosmogonia messa insieme da Joss Whedon, infatti, è calata in un contesto ambientale di assoluta normalità: i personaggi, all’inizio della serie, sono comuni liceali sedicenni che devono confrontarsi con le difficoltà della crescita, i primi amori, i litigi con gli amici, la difficoltà di essere accettati dagli altri, il tormentato rapporto col mondo degli adulti, come in un qualsiasi telefilm adolescenziale. I personaggi adulti, tra l’altro, sono quasi del tutto assenti, o dipinti in modi mai completamente positivi, con la sola eccezione del bibliotecario-osservatore Giles (il depositario del sapere3), che nei confronti della sua protetta si pone come il padre che lei non ha più. La mamma della protagonista, infatti, è divorziata, superapprensiva nonostante, in realtà, sembri più presa dalla carriera che dalla figlia (si accorge soltanto dopo diversi anni delle occupazioni «alternative» di Buffy); il preside del liceo locale è un sadico «bacchettone»; i professori si trasformano spesso in mostri; il sindaco aspira a diventare un demone potentissimo attraverso una strage di studenti da attuare nel giorno della consegna dei diplomi; all’università – perché, con la quarta stagione, i protagonisti ormai diplomati s’iscrivono al College di Sunnydale – la dura ma stimata professoressa Walsh si rivela la mente senza scrupoli del progetto governativo occulto mirato alla creazione di un cyborg ibrido umano-demoniaco. L’esempio perfetto di un tale atteggiamento arriva da un episodio della terza serie, «Le streghe di Sunnydale» («Gingerbread»), nel corso del quale tutti i genitori della cittadina, posseduti da un’entità maligna, si scatenano in una vera e propria «caccia alle streghe», contro i loro stessi figli: viene coinvolta anche Willow, che si sta avvicinando sempre più alla magia e che, nel corso delle stagioni, diventa una potente strega buona. Il ribaltamento dei ruoli tradizionali tra genitori e figli insomma, è totale, con questi ultimi che si battono affinché il male non contamini il mondo di adulti che non riescono più – tranne che nell’unico caso di Giles – a educarli e proteggerli. Sunnydale, dunque, sembra la classica cittadina californiana di provincia, il tipico sfondo di tante serie americane impostate sul dominio dei buoni sentimenti: i problemi delle metropoli sono lontani; le famiglie – tutte rigorosamente bianche – vivono nelle loro villette unifamiliari con steccato e cagnolino, al liceo si prepara l’annuale ballo di fine corso, il Bronze è l’unico locale decente dove ci s’incontra la sera con amici, per bere qualcosa e ascoltare buona musica. Questa realtà, però ne nasconde un’altra più oscura – proprio come in I segreti di Twin Peaks – che rappresenta il suo doppio quasi inevitabile; quando cala la notte, infatti, a Sunnydale arriva il momento dell’orrore: i vampiri emergono dalle proprie tombe – il cimitero cittadino è il vero ambiente ricorrente della serie, assieme al liceo e al Bronze – per attaccare i vivi e attentare alle esistenze della Cacciatrice e dei suoi amici. Nella seconda parte dell’episodio italiano «Il sentiero degli
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amanti», (cioè quello che, in originale, si intitola «The Wish»)4, il duplice volto di Sunnydale è reso esplicito attraverso una storia che si svolge in una cupa realtà alternativa, nella quale Buffy non è mai giunta in città e il Maestro e i suoi adepti hanno il controllo assoluto: con un tocco gustosissimo, persino Willow e Xander, i due personaggi più positivi dello show, diventano feroci vampiri punkeggianti. Quella della Willow vampira – personaggio che ritorna anche in un altro episodio, mostrando la bravura di Alyson Hannigan – è soltanto una tra le tante variazioni proposte da Whedon nel corso della serie. Non mancano, infatti, le puntate nelle quali lo sceneggiatore-produttore si diverte a sperimentare sulla struttura tradizionale del suo telefilm: fin ottimo esempio è quello di «L’urlo che uccide» («Hush»), in cui alcune creature magiche, simili al Nosferatu del film di Murnau, rubano la voce all’intera cittadina, creando lo spunto per l’unico episodio interamente muto nella storia della (parlatissima) televisione americana; oppure, «Superstar» (id.), che vede l’inetto liceale Jonathan trasformarsi, per incanto, nell’ammirato supereroe di Sunnydale; o ancora, «La casa stregata» («Where the Wild Things Are»), discusso segmento col quale Whedon – lasciando Buffy e Riley a letto a fare l’amore, per l’intero episodio – risponde ironicamente alle pressioni del network, piovutegli addosso dopo la strage nel liceo di Columbine (la serie, infatti, propone spesso situazioni di violenza estrema, inserite in contesti scolastici). Il culmine della sperimentazione, però, arriva con la sesta stagione, nel corso della quale l’autore apre a una puntata tutta realizzata come un musical classico: piena di numeri di danza e con i dialoghi interamente cantati. Ottime variazioni – narrativamente fondamentali nell’economia della serie, però – sono anche quelle degli episodi retrospettivi nei quali vengono rivelate le origini dei personaggi di Angel e Spike, prima delle loro vampirizzazioni: il più bello è il doppio «L’inizio della storia» («Becoming»), a cavallo tra seconda e terza stagione, che inizia nell’Irlanda del 1753 e si conclude nella Los Angeles degli anni ’90, al tempo delle vicende narrate dal film nel 1992. [...] Dawson: il cinema, la vita, gli amori Adolescenti alle prese con i problemi tipici della loro età: il difficile rapporto con i genitori la scuola, la «prima volta»; ma anche temi sociali come la dipendenza dalla droga, l’alcolismo, il razzismo, l’AIDS. I telefilm con simili contenuti «esplodono» nel 1990, con l’ormai storico Beverly Hilis 90210 e con il suo spin-off più «adulto» Melrose Place: le due serie lanciano giovani divi come, volendone nominare soltanto alcuni, la già citata Shannen Doherty, Jason Priestley, Luke Perry,Tiffany Amber-Thiessen; creano, inoltre, un vero e proprio filone narrativo che nel corso del decennio, si arricchisce – oltre che di show contaminati da «germi» fantastici – di diversi altri esempi di tipo realistico. Il punto d’arrivo e di nuova ripartenza per il genere è, nel 1998 Dawson’s Creek, scritto e prodotto dallo sceneggiatore Kevin Williamson a partire
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dalle sue esperienze adolescenziali. Il telefilm è ambientato nella piccola e tranquilla Capeside, nel Massachusetts. Qui, quattro quindicenni si confrontano con quello che, per loro, rappresenta il vero orrore della vita: l’età della crescita. Iniziano ad affacciarsi alla vita adulta sospesi a metà tra voglia di mostrarsi grandi prima del tempo – è curioso, tra l’altro, come nei serial americani di questo tipo personaggi quindici-sedicenni siano interpretati sempre da attori ventenni o poco più – e desiderio di rifugiarsi addirittura nell’età mitica dell’infanzia per sfuggire a un processo che, comunque, percepiscono come strappo violento e doloroso. Protagonisti della storia sono il biondo Dawson Leery (James Van Der Beek), il classico «all American boy», ingenuo e generoso, col grande sogno di diventare regista cinematografico e ripercorrere le orme del suo idolo Steven Spielberg (non a caso, il cineasta che meglio di tutti sa interrogarsi sul controverso rapporto tra infanzia, eterna adolescenza ed età adulta); la brunetta Joey Potter (Katie Holmes), proveniente da una famiglia difficile e più povera di quelle tipiche da serial adolescenziali di provincia, che vive sulla propria pelle cosa voglia dire sentirsi messi ai margini; Pacey Witter (Joshua Jackson), l’eccentrico miglior amico di Dawson, ovviamente impiegato in una videoteca; Jennifer Lindley (Michelle Williams), bionda e travolgente, appena arrivata da New York in cerca di un po’ di sana tranquillità provinciale; a loro si aggiunge Jack (Kerr Smith), personaggio che, ben presto, dichiara la propria omosessualità, vissuta come un trauma dalla sua famiglia. Le loro esistenze s’intrecciano indissolubilmente, tra sentimenti forti, «cameratismi», i triangoli amorosi (Dawson-Joey-Pacey) e crisi di crescita, sullo sfondo di una cittadina che appare, a sua volta, sempre uguale a se stessa. Oltre che sull’ambiguo rapporto tra adolescenza e maturità, però, Dawson’s Creek è imperniato anche su un’altra dicotomia, quella tra vita reale e cinema, incarnata soprattutto nel personaggio di Dawson: lui più degli altri infatti, vive nel mito della «Fabbrica dei sogni»; cerca, addirittura, d’impostare la sua esistenza secondo le regole dei generi cinematografici, in cerca della rassicurazione che soltanto una buona sceneggiatura sa offrire. Proprio Dawson è l’emblema di un’America adolescenziale che ha quasi paura d’affacciarsi su una realtà che non riconosce più come umana e fruibile senza perdere parte della propria identità: cosa ci sarà dopo il liceo? E al termine del college? Forse, allora è meglio rifugiarsi tra le prevedibili regole che scandiscono le storie dei film amati, provando in tal modo a rendere reale quello che, da sempre, è un desiderio primario dell’essere umano: bloccare il tempo in un’eterna età della giovinezza. Non a caso lo strappo più traumatico dell’intera serie si verifica al termine della quarta stagione di messa in onda, quando tutti i protagonisti – nel frattempo cresciuti attraverso esperienze più o meno «forti» – si diplomano, in un clima dolce-amaro che prelude al disfacimento del gruppo di amici inteso come corpo unico, ormai inevitabilmente corrotto dal virus del cambiamento. La High School è terminata ed è tempo per Dawson di
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seguire i propri sogni iscrivendosi alla «mitica» scuola universitaria di cinema della USC di Los Angeles; dovrà dividersi da Joey, però, destinata al Worthington College di Boston, dall’altra parte degli Stati Uniti; Pacey, invece, cerca il proprio futuro entrando, sempre a Boston, nel mondo del lavoro: trova impiego in un ristorante, in attesa di capire quale potrà essere il suo futuro. Jen e Jack vanno a studiare al Boston Bay College. La mancanza degli amici di sempre si trasforma in un ennesimo trauma, che rende ancor più difficile l’ingresso nel «mondo reale». Dal punto di vista linguistico, Dawson’s Creek è il perfetto serial postmoderno, per come fa propria l’estetica del frammento e della citazione, per come riflette sul suo stesso farsi narrazione seriale (e sul senso ultimo della serialità), per come mette in relazione le immagini ottimamente confezionate con una colonna sonora infarcita di autentiche hit (tra le altre, quelle di Chumbawamba, Savage Garden, Sophie B. Hawkins, Semisonic, Garbage,Tori Amos), per il modo in cui utilizza le tante citazioni come fondamentali elementi di sviluppo drammaturgico, per com’è intriso d’ironia anche quando affronta tematiche scomode come il sesso, la pornografia, la dipendenza dall’alcool e dalle droghe, l’omosessualità. A proposito di citazionismo, poi, non si può fare a meno di soffermarsi sui bellissimo episodio ambientato in un venerdì 13 che Dawson decide di animare con un horror party a sorpresa per i suoi amici: peccato che, negli stessi giorni, un pericoloso serial killer s’aggiri nei dintorni di Capeside. Finzione e realtà, dunque, iniziano a intrecciarsi tra loro – anche a causa del non previsto intervento di un gelosissimo ragazzo, la cui stramba fidanzata è stata invitata al party da Pacey – e a sfuggire completamente alla regia del giovane «cineasta»: nell’ipercitazionismo dell’episodio, Kevin Williamson non resiste, tra l’altro, a una gustosa autocitazione, riproponendo in maniera testuale la tesissima sequenza iniziale di Scream (forse la più citata degli ultimi anni), con Michelle Williams al posto di Drew Barrymore. In buona parte della fiction seriale degli anni ’90 – che, da parte sua, guarda eternamente a un passato percepito sempre come mitico e irripetibile – crescere e cambiare diventa il vero orrore, anche se – come Joey spiega al disorientato amico Dawson – «persino Spielberg ha superato la sindrome di Peter Pan».
Note originali del testo 1 Col senno di poi, appare seminale anche un film stroncatissimo all’epoca della sua uscita: Classe 1999 (Class of 1999), diretto nel 1990 da Mark L. Lester e incentrato sulla lotta degli studenti del Liceo «Ronald Reagan» contro tre ferocissimi professori-cyborg. Non a caso, quindi, proprio Kevin Williamson ne scrive una sorta di remake (ben superiore all’originale, però) con The Faculty (id., 1998), diretto da Robert Rodriguez e nel quale i docenti sono sostituiti silenziosamente da «ultracorpi» alieni che progettano di far partire l’invasione della Terra dal più classico college americano.
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Il genere produce immediatamente la nascita di un nuovo tipo di Stardom, con giovani interpreti che si specializzano in film e telefilm di questo tipo: Sarah Michelle Gellar, Neve Campbell, Jennifer Love Hewitt, Courteney Cox, Rose McGowan, Ryan Phillippe, Freddie Prinze Jr.,Alyson Hannigan, David Arquette, per citare soltanto i più noti. 3 Tra l’altro Buffy è uno tra i telefilm americani dove i libri sono più presenti e hanno un ruolo drammaturgicamente importante. 4 Per un discreto periodo, la programmazione italiana della serie, su Italia 1, viene fatta accorpando due episodi alla volta, sotto l’unico titolo del primo segmento. Per questo motivo, le puntate che vanno in onda come seconde non hanno un loro titolo italiano. Da Diego Del Pozzo, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani,Torino: Lindau 2002, 133-149
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Roy Menarini “You Americans!”, “You Americans What?” 24 e il crollo di tutte le certezze Anche senza soffermarsi sulla New Wave delle serie televisive statunitensi, che in anni recenti hanno costituito motivo di entusiasmo e interesse presso appassionati e addetti ai lavori, si può perentoriamente sostenere che ve ne siano alcune più importanti di altre.A fronte di un innalzamento degli standard qualitativi che coinvolge anche prodotti medi come Without a Trace, Cold Case, Medium o Criminal Minds, esiste un nucleo forte di serie in grado di rivoluzionare l’assetto tradizionale dell’intrattenimento da piccolo schermo. Questo gruppo di élite fa capo a C.S.I., Alias, Lost, Nip/Tuck, House e 24. È su quest’ultima che intende soffermarsi il presente lavoro. Il titolo del saggio allude a un dialogo della terza serie, in cui un personaggio pontifica sulla tracotanza culturale degli Stati Uniti, e viene rimbeccato da un agente governativo a stelle e strisce: “Voi americani...”, “Voi americani cosa?”. Lo scambio di battute sembra esemplare per tutta la serie, travestita da opera reazionaria e invece luogo di felici, fertili e curiose contraddizioni, tra cui quella di mostrare persone – e non portatori di ideologia – come protagonisti, persone che hanno l’unico scopo di proteggerne altre. Diciamo subito che 24 appare come un prodotto in grado di intercettare ogni tipo di tendenza culturale e politica del post-11 settembre: la paranoia, lo stato di diritto, la situazione della democrazia americana, l’emergenza del terrorismo, la riconfigurazione dell’immaginario catastrofico, la funzione dell’eroe, le dimensioni del tempo e dello spazio in tv. Emergono dunque almeno due percorsi sui quali vale la pena insistere: la rappresentazione politico-ideologica e l’analisi linguistica. Sarebbe pleonastico affer-
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mare che i due aspetti sono evidentemente intrecciati tra di loro e che entrambi concorrono probabilmente a definire un nuovo aspetto della temporalità diegetica e di fruizione dell’età contemporanea. Prima di esibire conclusioni altisonanti, perciò, conviene definire meglio l’oggetto di studio. Senza ovviamente ricostruire pedissequamente tutte le caratteristiche di 24, probabilmente già note – anche se in Italia, sulla tv generalista, la serie è stata “suicidata” dalla scarsa lungimiranza dei programmatori – può essere utile ricordare alcuni degli elementi essenziali che costituiscono il marchio di fabbrica del “culto” creato da Joel Surnow e Robert Cochran: il protagonista assoluto, su cui torneremo, è Jack Bauer (Kiefer Sutherland, anche co-produttore), agente dell’antiterrorismo (CTU; ovvero Counter Terrorism Unit), pronto a tutto per salvare il suo paese dai micidiali attacchi che vasti complotti ordiscono contro gli innocenti; ogni stagione narra le 24 ore di una singola giornata, dove accade di tutto e si giocano le sorti della nazione; ogni puntata narra 1 ora di quella giornata, ovvero circa quaranta minuti più la pubblicità, in ogni caso si può parlare di “tempo reale” (i minuti persi con la pubblicità passano comunque per i personaggi); in dispregio a ogni verosimiglianza, che pure rappresenta per altri versi una delle attrazioni del programma, le giornate tremende di Bauer e del CTU si susseguono di continuo: in America, al momento di scrivere, è in corso la sesta stagione, e il successo della serie non accenna a calare; stilisticamente, 24 fa uso dello split screen e della camera a mano come stilemi unici e privilegiati. Per di più, al contrario di quanto si possa credere, o almeno a considerare le storie che narra, 24 non è una serie troppo costosa, poiché lavora soprattutto sulla claustrofobia, sugli interni, sugli spostamenti abbastanza ridotti dei personaggi: non a caso, una delle caratteristiche narrative più soffocanti e meno credibili è che ogni evento apocalittico avvenga nell’area di Los Angeles, dove il racconto è ambientato. L’accanirsi dei terroristi contro la California sta diventando effettivamente un po’ grottesco. Abbiamo dunque alcune caratteristiche estremamente suggestive: riuscire a raccontare una storia che dura un solo giorno nell’arco di 24 settimane di fruizione. Lo spettatore percepisce il tempo della propria vita in maniera del tutto disassata rispetto a quello degli avvenimenti, eppure ciò – invece che rendere astratta l’esperienza – offre un fascino irresistibile. Lo sforzo richiesto a chi guarda la serie è certamente alto, poiché deve colmare “al contrario” tutti i legami che di ora in ora – ovvero di settimana in settimana – vengono tesi: ritornare nella condizione psicologica del tempo compresso di un solo giorno, evidenziare gli avvenimenti che per i personaggi sono accaduti poche ore prima e per sé magari mesi prima, e così via. Sia chiaro che quanto stiamo dicendo vale per gli spettatori che seguono la serie negli Stati Uniti. La televisione satellitare italiana raggruppa invece gli episodi in due a settimana, mentre quella generalista li mostra, come spesso accade con le serie in Italia, semplicemente a caso (una volta
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un’ora, una volta due, altre persino tre). Diciamo questo, perché bisogna ricordare che le serie televisive oggetto di culto contemporaneo vengono fruite ormai nelle maniere più disparate. Se anche facciamo finta che non esista il fenomeno dello scaricamento peer-to-peer (fatto sta che chi scrive è sempre l’ultimo a vedere gli episodi inediti nella propria cerchia di colleghi e amici), comunque esistono i cofanetti DVD.Visto il ritardo con cui le nuove stagioni di qualsiasi serie vengono programmate in Italia dopo la messa in onda americana, sono sempre di più coloro che abbreviano i tempi legalmente (con il DVD dall’estero) o illegalmente (via web). In questi ultimi casi, che sempre più raramente possono definirsi una minoranza, il tempo di visione è assolutamente soggettivo. E il periodo di fruizione di 24 viene spesso accorciato fino ad avvicinarsi al tempo diegetico: esistono fans che hanno visto la quinta serie in poco più delle 24 ore del racconto rappresentato. Ecco che, dunque, i ragionamenti teorici di cui sopra devono fare i conti con la frammentazione delle modalità di consumo. Torniamo alle caratteristiche della serie. Si diceva che compressione temporale, senso di claustrofobia e miniaturizzazione spaziale, utilizzo di tecniche di ripresa per solito sconsigliate al genere avventuroso o d’azione, hanno costituito scelte vincenti. Eppure, sarebbe davvero improprio affermare che sono state le regole sintattiche a definire il successo della serie, che ha invece nel parossismo narrativo le cause della dedizione da parte degli spettatori. 24 fa la felicità degli studiosi di fiction popolare. Pienamente consapevoli, gli autori mettono in gioco praticamente tutti gli elementi di fobia e terrore che un cittadino americano può aspettarsi, pongono a fronteggiarli uno strano eroe che al contempo assume le caratteristiche dell’uomo d’azione di destra e del martire cristiano di sinistra, e soffiano sul fuoco per far accadere le cose più terribili e imprevedibili lungo tutto l’arco della giornata. 24 del resto è una serie sadica. I personaggi sono continuamente posti di fronte a scelte radicali: sacrifici personali versus bene collettivo, comportamenti al di fuori di qualsiasi morale o morte degli innocenti. Il plus di queste dialettiche tutto sommato note è dato dal fatto che – come per tutte le serie poc’anzi nominate – anche in questa i dati vanno interpretati. Ovvero: Dr. House guarda al corpo umano come a una lastra di segni,1 gli specialisti dei tre C.S.I. deducono ogni infinitesimo dettaglio dallo studio tecnologico e scientifico della scena del crimine e delle prove indiziarie, i naufraghi di Lost si affidano alla “lettura” di un mondo che letteralmente non conoscono per costruirvi la sopravvivenza e una nuova micro-civiltà. In 24 la scelta non è mai diretta: o tu o il bene degli innocenti. Capita spesso che i personaggi, più spesso il protagonista Jack Bauer, debbano intuire gli avvenimenti successivi. Facciamo qualche esempio: all’inizio della seconda serie, quando l’America sembra essere minacciata da una bomba atomica su cui i terroristi (presumibilmente di Al Quaeda, che peraltro non viene mai direttamente
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nominata) hanno messo le mani, l’unico labile contatto con i cospiratori pare essere un detenuto del CTU. Egli, infatti, è nemico di un gangster di area vagamente neonazista che a sua volta potrebbe aver aiutato i terroristi arabi. Bauer, che fa del superamento di ogni limite la propria condotta estrema delle crisi, decide di uccidere l’ostaggio, decapitarlo, portare la testa in dono al nemico e infiltrarsi nella banda dei bianchi allo scopo di arrivare agli islamici. Si tratta dunque di un comportamento aberrante ed eccessivo, che tuttavia rappresenta una delle caratteristiche principali del personaggio: arrivare a una lettura degli avvenimenti più rapidamente degli altri e soprattutto comprendere che – per risolvere la crisi nelle 24 ore che contano – è necessario utilizzare ogni mezzo a disposizione per seguire le contorte e strette strade che portano all’obiettivo. Egli guarda più avanti di tutti, e quello che pare a ogni persona ragionevole un atto assurdo e violento, diventa nella visionarietà di Bauer l’unico possibile per salvare l’America. Ancora: durante la terza serie, un altro terrorista sta spargendo la morte negli Stati Uniti grazie a un’arma chimica. Egli, nemico giurato di Bauer, comincia a giocare come un gatto col topo con l’agente e lo costringe a eseguire i propri ordini con la minaccia di uccidere altrimenti un numero incalcolabile di innocenti. Una di queste richieste sembra intollerabile: Jack deve assassinare il proprio superiore del CTU. Con la tempra degli eroi, egli comunica al capo che, al momento, non vi è altra soluzione se non obbedire, e chiede altrettanto coraggio alla futura vittima. Questi sa benissimo che Bauer, nei suoi panni, avrebbe accettato la morte a viso aperto e, pur terrorizzato, va verso il sacrificio. Dietro una discarica, Bauer offre dapprima a Chapel – questo il nome del responsabile dell’unità antiterrorismo – la possibilità di suicidarsi, poi, quando vede che all’uomo manca il coraggio, lo uccide con un colpo alla nuca. Una esecuzione in piena regola. Sarà anche per questo che, alla fine della serie e dopo aver sventato gli attacchi peggiori, Bauer sfoga con un lungo pianto in primo piano i lutti cumulati e le azioni ripugnanti cui è stato costretto: una sequenza, questa, che è entrata di diritto nella storia della televisione recente. Bauer è, del resto, un uomo immerso nella violenza che è costretto a esercitare. Ogni tentativo di allontanarsene è frustrato, rivelandosi fallimentare. In questo senso, somiglia molto agli eroi del western anni Cinquanta, incapaci di ridurre al silenzio il passato e ossessionati dall’avventura, costretti dal destino e dalla propria pulsione distruttiva a tornare in azione. Scrive Denys Corel che 24 è un “cauchemar moderne”, un incubo moderno, in cui “Bauer è duro, spesso violento, a volte spietato, e se possiede barriere morali, sono lontane dall’essere infrangibili”; eppure “è un mélange di fragilità e forza pugnace”.2 Durante le serie fin qui girate, i pericoli per l’America sono sempre iperbolici. La prima stagione oggi appare un gioco da ragazzi, e va detto a onor di cronaca che essa fu predisposta prima degli attacchi dell’11 settembre,
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a riprova – caso mai ce ne fosse bisogno – che il clima di paranoia latente per un atto di terrorismo annunciato era ai massimi livelli. In quel primo caso, infatti, era la dimensione “testuale” della serie a risultare convincente, ovvero l’idea del tempo reale, mentre la minaccia di rapimento di un candidato presidente appare oggi – alla luce delle stagioni successive – un pericolo tutto sommato ridotto. Nella seconda stagione, invece, si fa strada il complotto arabo, condito dalla presenza di adepti americani, per far esplodere l’atomica in California; nel terzo caso, l’arma chimica; nella quarta stagione assistiamo al cumularsi di tutti i precedenti attentati. Esaminiamo proprio questa stagione per approfondire i punti elencati in principio. Si tratta della serie di avvenimenti più apocalittica di sempre. La vastità della cospirazione è infatti inimmaginabile. I terroristi, guidati dal feroce Marwan – una specie di Al Zarqawi con l’astuzia di Al Zawahiri e il portamento nobile di un nemico di 007 –, fanno esplodere un treno passeggeri (primo attentato), poi rapiscono il sottosegretario di Stato per cercare di giustiziarlo in diretta tv (secondo attentato), quindi fanno sciogliere le calotte nucleari delle centrali sparse sul suolo americano (terzo attentato), di seguito rubano un caccia e abbattono l’Air Force One (quarto attentato), infine lanciano uno Stealth armato di un’arma nucleare allo scopo di distruggere la parte Ovest degli Stati Uniti (quinto attentato). Ovvio che l’iperbole sia la cifra della serie; altrettanto ovvio che gestire in 24 ore una crisi di queste proporzioni e impedire un piano preparato da anni in così poco tempo non sia impresa da poco. Eppure, laddove il cinema avrebbe dovuto fare i conti con l’immaginario catastrofico e spettacolare degli eventi, la serie – quasi per un patto comunicativo con gli spettatori – gestisce ogni disastro attraverso scene di interni e azioni concentrate in spazi ridotti. Il vero fulcro dell’attività di Bauer e degli altri agenti, infatti, è investigativo. Come in una “detection” compressa allo spasimo, ogni indizio per risalire ai responsabili e ai complottardi è prezioso, a ogni interpretazione degli avvenimenti deve seguire un’azione rapida, qualsiasi elemento deve essere valorizzato per qualità e quantità allo scopo di intervenire al più presto. Naturalmente, l’azione non manca, e Bauer uccide decine di persone nel corso delle 24 puntate.Tuttavia, il movimento è il prodotto della tensione narrativa e stilistica. Lo split screen e il montaggio esasperato realizzano la suspense assai meglio di eventuali sequenze ad alto budget, e la continua dialettica tra la base del CTU (che offre supporto informatico, logistico, investigativo) e il luogo dell’azione in cui Bauer mette a rischio la propria vita, produce gli effetti ritmici cui la serie aspira con successo.3 Per un’analisi dell’obsolescenza dell’immaginario avventuroso americano, si dovrebbe dunque studiare questa serie. La durata e la claustrofobia annientano ogni effetto di superiorità dello spettacolo cinematografico: la possibilità di articolare per ore e ore un vasto repertorio narrativo e portarlo fino alle estreme conseguenze senza più trovarsi in inferiorità spettacolare nei confronti del grande schermo, è la ragione per cui le nuove
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serie stanno soppiantando un certo cinema blockbuster, che non a caso fa poi ricorso ai creatori di prodotti tv per rigenerarsi (esperimento peraltro fallimentare, come dimostra l’insuccesso di MI:3). Nella quarta stagione, come in quelle precedenti, vi è inoltre il coinvolgimento di altri eventi privati destinati a intrecciarsi con quelli pubblici. Bauer ha già perso la moglie durante la prima stagione; ha visto deragliare gli altri rapporti privati – e non è una sorpresa dal momento che è disposto a diventare eroinomane per meglio infiltrarsi in un cartello colombiano della droga (accade all’inizio della terza stagione). Nella quarta, sembra aver finalmente trovato un equilibrio sentimentale insieme alla figlia del sottosegretario per cui ha deciso di lavorare. Ma gli eventi lo riportano al centro dell’azione, fino a che: a) è costretto a torturare l’ex marito cui la donna è ancora legata, in quanto sospetto; b) quando questi viene ferito e una sola sala d’emergenza è attiva, preferisce salvare un prigioniero (probabile contatto coi terroristi) piuttosto che l’uomo, e tutto di fronte agli occhi della compagna; c) alla fine della serie, si deve fingere morto per ragion di stato, scomparendo quindi anche agli occhi della donna. Tutti questi esempi servono ad affermare che – se esposti così come stiamo facendo, in maniera squisitamente riassuntiva – gli eventi sembrano testimoniare di un serial dai contorni psicotici e inverosimili, e poco altro. Il successo, e la capacità di attrazione di 24 anche verso la critica televisiva più raffinata, è invece la prova che il prodotto riesce a dimostrare una forza immaginifica fuori del comune, e che – grazie alla più volte citata struttura formale – individua uno spazio inedito di manovra simbolica, gestendo l’allusione sociopolitica con grande sapienza. Proprio questo aspetto è l’ultimo su cui vale la pena riflettere ed è quello verso il quale la maggior parte dei commentatori hanno insistito. Secondo svariati analisti della serie, Jack Bauer è un personaggio chiaramente di destra. Votato all’azione violenta, è un eroe “all american”, crede nella nazione ed è disposto al sacrificio per essa, non ha alcuna pietà nei confronti dei nemici ed è capace di gesti clamorosi come quelli citati. Attraversa patimenti “rambeschi” (nella seconda serie viene torturato fino alla morte apparente e poi viene rianimato appena in tempo, il tutto senza confessare; nella quarta si accoltella all’addome per fingersi ostaggio di una doppiogiochista) e ricorre sovente alla tortura. Dall’altro lato, però, è anche un eroe democratico: cerca di proteggere il maggior numero di innocenti, invita il Presidente degli Stati Uniti a non dichiarare frettolose guerre agli stati canaglia che potrebbero aver ordinato l’attacco, combatte contro un potere occulto che usa i servizi segreti per i propri scopi neocon, è guidato laicamente dal proprio sentimento di giustizia e da nessun’altra ideologia, non possiede il “phisyque du role” dell’uomo d’armi essendo basso di statura e assai più portato al ragionamento che non alla lotta, ha un totale disinteresse per il colore politico dell’amministrazione da cui prende ordini. Il suo ruolo è quello di salvare la nazione, e per farlo sa di dover spesso trascendere il codice.
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Questo è il lato più scabroso della serie. Il filosofo Slavoj Zˇizˇek, per esempio, si accontenta sorprendentemente di una lettura superficiale della serie quando scrive che 24, enunciando la tollerabilità dell’utilizzo della tortura, di fatto la approva.4 Al contrario, è proprio il crollo di ogni certezza che lascia esterrefatti durante ognuna delle stagioni.Anzitutto non esiste alcuna rappresentazione di un’America forte e compatta contro il terrorismo fondamentalista o estero.Anzi, è proprio il fatto che la nazione sia un ventre molle, pieno di traditori, di male intenzionati, di mercenari pronti a distruggere il proprio paese per il denaro o per il profitto, che permette l’infiltrazione dei terroristi. Il governo americano è rappresentato non indenne da pesanti sospetti. L’unico presidente senza macchia delle stagioni qui analizzate è Palmer, afroamericano (quindi difficilmente repubblicano), che combatte contro i falchi dell’amministrazione per mantenere la pace mediorientale (stagione due). Inoltre mogli, famigliari, collaboratori hanno spesso scheletri nell’armadio, o cercano l’affermazione personale ricorrendo sempre e comunque alla corruzione o al sotterfugio (come fa la moglie di Palmer, durante le stagioni uno, due e tre). I delitti di cui si macchiano alcune figure che, durante la serie, frequentano la Casa Bianca dunque alludono a comportamenti ben al dà dell’immaginabile. Il che significa, mutatis mutandis, che – senza affermarlo apertamente (l’11/9 non viene mai citato per pudore) – nel sistema di pensiero di 24 anche la verità ufficiale sull’11 settembre, quella bushiana, sarebbe certamente messa in discussione. Si può obiettare che non è solo la sinistra indipendente e radicale americana a rileggere in forma di complotto interno l’11/9, ma anche l’ultra-destra religiosa, che – trovando persino troppo morbidi i dettami dei neo-con – guardano come al solito con sospetto a ogni attentato su suolo statunitense e ne accusano direttamente il Governo, gli ebrei e i plutocrati di Wall Street. Basti pensare che questa versione è saltata fuori persino in un’intervista rilasciata da Mel Gibson, poi smentita. Tuttavia, penso che nessuno potrebbe accusare 24 di militare all’interno di un’area di pensiero così estrema e intollerante. Inoltre, le torture vengono eseguite in un contesto ben preciso, appositamente creato per disturbare le buone coscienze. Il caso più frequente è che Bauer e gli agenti che lo coadiuvano si trovino tra le mani un prigioniero-chiave, l’unico in grado di metterli in contatto con gli esecutori delle stragi e quindi di fermare un attacco imminente. Se le informazioni non giungono nel giro di mezz’ora o un’ora, il paese verrà devastato dagli attentati. Che fare? Applicare la legge e procedere secondo ciò che la democrazia impone, lasciando morire uno o due milioni di innocenti? O estorcere ogni informazione utile macchiandosi di un reato assai più pesante per ciò che significa che non per quel che nello specifico momento impone? Non è una riposta facile, ed è evidente che la provocazione – data dal contesto narrativo – serva appunto a scuotere le convinzioni di ciascuno. Chi
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scrive, per esempio, ricorrerebbe alla tortura, se davvero ciò permettesse di salvare un milione di vite di lì a mezzora.Tuttavia, ogni posizione è lecita. Quel che è certo è che 24 esprime il contrario esatto di ciò che il cinema americano sta facendo in questi anni. Mentre l’horror e il fantasy propongono apparenti letture politiche e registi come Spielberg si sono messi a fare film dal chiaro orientamento ideologico, e finisce che film come Le crociate di Ridley Scott scatenino interpretazioni totalmente fuorvianti rispetto all’equidistanza narrativa calcolata col bilancino, è proprio 24 a spiazzare, sviare, mettere il dito nella piaga. Dopo l’11 settembre, di qualunque matrice sia l’attentato, le cose sono cambiate. La situazione di evidente insicurezza porta a scelte delicate, che passano dalla rinuncia precipitosa ad alcune garanzie democratiche da tempo immemore intatte (superate dal Patriot Act o da Guantanamo) o dal rispetto costituzionale delle regole, spesso però totalmente inadatte a fronteggiare il pericolo.Attraverso 24, e grazie ai paradossali casi proposti, i realizzatori ci mettono di fronte a un continuo gioco del “what if?” (che cosa succederebbe se...?), mettendoci spalle al muro. Nessuna soluzione e nessun comportamento codificato possono garantire la salvaguardia degli innocenti e il rispetto delle regole. E voi che cosa fareste? Che cosa chiedereste a chi vi protegge? La sensazione è che queste domande vengano poste contemporaneamente a uno spettatore democratico, che si vede così messo in crisi nelle proprie convinzioni, e a uno repubblicano, altrettanto spiazzato dalla friabilità del pensiero forte tradizionalista. Sono solo due, a fine saggio, le cose che ci sentiamo di definire sicure: il fatto che Jack Bauer rappresenti l’esempio di eroe più stratificato e affascinante di questi anni (l’eroe dei nostri tempi, non c’è dubbio), e che 24 costituisca il luogo di elaborazione simbolica e metaforica del dopo-11 settembre cui guardare in futuro, almeno nel novero degli studi sulla cultura popolare.5
Note originali del testo 1 Si veda a tal proposito la tavola rotonda sulle nuove serie televisive pubblicata da “Cinergie”, n. 14, 2007. 2 Denys Corel, “24 heures chrono”, in Martin Winckler, a cura di, Les miroirs obscures,Au diable vauvert, 2005, p. 350. 3 Vedi anche Steven Peacock, a cura di, Reading “24”, I.B. Tauris, London/New York, 2006. 4 Slavoj Z ˇ izˇek, L’etica dell’urgenza, “Duellanti”, n. 28, settembre 2006, pp. 62-64. 5 Si vedano in tal senso A.A.V.V., De la série, “Cahiers du Cinéma”, luglio/agosto, 2003; A.A.V.V., Mondi a puntate. Le serie televisive americane 1990-2006, “Segnocinema” n. 142, novembre/dicembre 2006; Milly Buonanno, Le formule del racconto televisivo, Sansoni, Milano, 2002; Glenn Creeber, Serial Television, BFI, London, 2004; Giorgio Grignaffini, I
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generi televisivi, Carocci, Roma, 2004; Monteleone Franco (a cura di), Cult Series, Volume 1 e 2, Dino Audino, Roma, 2005; Enrico Terrone, Il tempo delle serie, in “Segnocinema” n. 130, Novembre/Dicembre 2004; Vito Zagarrio, L’anello mancante. Storia e teoria del rapporto cinema-televisione, Lindau,Torino, 2004. Da «La Valle dell’Eden», 18, 2007, 102-110
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Culti seriali Apriamo la sezione dell’antologia dedicata alla trasformazione dei prodotti televisivi seriali in fenomeni di culto e al rapporto tra questi testi e i loro fan con un saggio di Henry Jenkins, studioso americano noto per essersi occupato della questione in più occasioni. Jenkins ha coniato l’espressione “Aca/Fan” per indicare quella categoria (nella quale annovera se stesso) di studiosi e accademici che associano all’approccio scientifico e metodologico, anche un interesse da appassionati nei confronti di molti prodotti della cultura audiovisiva contemporanea. Nel suo libro Fans, Bloggers, and Gamers. Exploring Participatory Culture [2007], Jenkins inserisce alcune conversazioni avute con un altro ricercatore “Aca/Fan”, Matt Hills, nelle quali i due studiosi si interrogano sulla relazione tra accademia e fandom. Nel paragrafo 2.4 del profilo critico abbiamo trattato l’argomento, che vorremmo ora riprendere aggiungendovi alcune considerazioni. Innanzi tutto è utile provare a fornire una definizione di fandom, termine inglese che risulta dalla fusione di fan (da fanatic, appassionato) con il suffisso –dom, come in kingdom, dukedom etc. (regno, ducato). Letteralmente, lo si potrebbe tradurre in italiano come “il mondo, il regno degli appassionati”, indicando una comunità di persone che condividono un interesse nei confronti di un fenomeno culturale: un genere cinematografico, un fumetto, una serie televisiva. L’Oxford English Dictionary riporta l’utilizzo di questo termine già nel 1903, in alcuni documenti che si riferiscono a pratiche di fandom legate allo sport. I programmi televisivi si trovano spesso ad essere caratterizzati secondo la polarità fiction/non fiction, che ne segna fortemente il funzionamento comunicativo e gli effetti di culto. I programmi non fiction, infatti, finiscono con l’essere spesso caratterizzati da appelli mirati al pubblico, che lo inducono a comportamenti diretti (aspetto performativo del medium televisivo) e sono per lo più presi in carico da un personaggio, presentato come reale, che di solito è il conduttore. I programmi di fiction, invece, suggeriscono allo spettatore un’ambientazione proposta come immaginaria. Non vi è invito all’azione, ma piuttosto alla sospensione dell’incredulità. Va detto però che nella produzione più recente questa opposizione tende ad affievolirsi; se infatti è sempre più comune che nella conformazione dei reality show si inseriscano sviluppi narrativi più o meno accentuati ed elementi para-finzionali, è anche vero che le fiction seriali tendono a indurre nello spettatore comportamenti partecipativi e attivi. È questo il caso degli Alternate Reality Games legati ad alcune delle serie più recenti, come Lost Experience o Heroes Evolutions, che richiedono al fan di diventare protagonista attivo in un universo che miscela fiction, realtà e virtualità digitale. Il culto è comunque fortemente autoreferenziale, fa continuamente riferi-
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mento a se stesso, un effetto, questo, che è connaturato all’aspetto di ripetizione e di serialità che caratterizza la fiction televisiva. Conseguenza di questa attitudine, è che spesso insorgono fenomeni di intertestualità sintagmatica che possono essere compresi soltanto dai fedeli. Se la fidelizzazione è un effetto del culto, essa ne è anche la premessa indispensabile. Il culto è un’attività che mobilita il fedele, soprattutto nella sua dimensione affettiva, nella sua identità e nelle sue passioni, ma che ha inoltre una dimensione sociale, un livello pubblico. Uno spettatore attivo, mobilitato, che ricerca la trasmissione e non la subisce semplicemente come momento del palinsesto; uno spettatore che fa dell’ascolto un momento significativo della sua giornata, o settimana: questo è il primo elemento del culto televisivo. Nelle trasmissioni di culto quello che conta in definitiva è la forma della fruizione, dove la televisione è in grado di esprimere tutto il suo potenziale impatto sul mondo sociale, tutta la forza di socializzazione e di trasformazione che essa potenzialmente contiene [vedi Profilo critico, 2.4, ma anche Jenkins 1992; Lewis 1992; Hills 2002; Volli 2002; Scaglioni 2006]. In questo scenario, la serialità dimostra di essere una componente fondamentale nell’istituzionalizzarsi del culto, sia che si tratti di film sia che si tratti, forse più evidentemente, di serie televisive. Infatti, il cospicuo numero di episodi caratteristico delle serie porta a un complessificarsi e a un estendersi della dimensione seriale, che non è possibile con il film. La serialità della struttura episodica, assieme alla densità testuale diventano quindi elementi essenziali della elasticità narrativa delle serie televisive. Nel saggio La costruzione sociale della comunità di fan di fantascienza, Henry Jenkins analizza l’aspetto partecipativo che caratterizza le attività delle comunità di fan, concentrandosi in particolare sulle community femminili di fan di Star Trek. La risposta delle spettatrici al testo televisivo, la produzione di contenuti a partire dal prodotto seriale, divengono dunque il banco di prova del modello di fandom proposto da Jenkins, che definisce “bracconaggio” testuale quella pratica di appropriazione di materiali prodotti dall’industria culturale dominante e la loro rielaborazione al servizio degli interessi di comunità o subculture. In questo scenario, il fenomeno del filking, cioè della produzione di canzoni che abbiano come tema l’universo fantascientifico di Star Trek, si rivela particolarmente emblematico del grado di differenziazione e di strutturazione che le attività di fandom raggiungono, rappresentando un luogo di riunificazione per gli interessi dei membri della comunità. Una seconda questione, di grande rilievo, che Jenkins analizzerà in alcuni lavori successivi a quello qui antologizzato, è la questione della convergenza tra media [Jenkins 2007], che favorisce la costituzione di un’interattività strutturata tra i soggetti coinvolti e il medium. Il discorso viene ampliato da Jenkins fino ad includere il concetto di convergenza culturale, che delinea l’orizzonte di una comunità partecipatoria, realizzando un processo creativo che chiama in causa tutte le competenze e le cono-
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scenze pregresse dello spettatore, tutta la sua enciclopedia di riferimento che si organizza intorno all’abbondanza di materiali messi a disposizione dai media. L’organizzazione tipica dei media contemporanei affonda perciò le sue radici in quella disposizione che caratterizza oggi la televisione come il cinema: il tentativo di incrociare i rispettivi mercati, ad esempio usando le star come forma di collegamento tra prodotti differenti. Massimo Scaglioni nel saggio qui riproposto, originariamente pubblicato su uno speciale numero monografico di «Link. Idee per la televisione» dedicato ai telefilm, propone un percorso di analisi finalizzato a tracciare l’evoluzione dei rapporti tra industria culturale e fandom, sottolineando come nell’epoca contemporanea la pluralizzazione dei percorsi del fandom si ponga come il risultato della pluralizzazione dei mezzi di comunicazione. In particolare, Scaglioni sottolinea come il fandom, da pratica subculturale sia approdato, grazie alla attività di produzione di contenuti, di ridefinizione e di interazione tra fan, ad uno scenario mainstream. In questo senso, benché il fandom resti una cultura partecipativa inserita in un ambiente mediale convergente, è l’industria stessa a proporre percorsi di fruizione alternativi a quelli suggeriti dal medium televisivo, strutturando la narrazione su differenti livelli e differenti piattaforme mediali (vedi Profilo critico, 2.2 e 2.3). Il saggio di Ina Rae Hark è presentato qui per la prima volta in italiano ed è stato pubblicato originariamente in un volume curato da Deborah Cartmell e Imelda Whelehan, Adaptations. From Text to Screen, Screen to Text [1999] dedicato al problema dell’adattamento di testi popolari su diversi media. Sulla questione dell’adattamento dal testo letterario al testo cinematografico si vedano Costa [1993] e Manzoli [2003]. Hark si occupa delle problematiche sollevate dalle versioni cinematografiche della serie di culto Star Trek. In particolare, Hark analizza, prima in termini generali e poi entrando nello specifico del caso, la curiosa situazione che si viene a creare nel processo di casting degli attori delle versioni cinematografiche di serie televisive che spesso, per ragioni anche contingenti, non corrispondono agli attori che per primi hanno prestato il loro volto ai personaggi beniamini del pubblico. Caso anomalo, in questo panorama, è quello di Star Trek, dove la continuità tra interpreti della serie e interpreti degli adattamenti cinematografici costituisce un importante elemento di caratterizzazione del prodotto. Le ripercussioni di queste scelte sulla risposta sollecitata nei fan e negli spettatori sono chiare. Proviamo quindi a vedere più nel dettaglio la questione. Tra le linee di tendenza che caratterizzano il cinema americano contemporaneo è possibile riscontrare una forte inclinazione all’utilizzo di materiali che provengono dalla televisione: si pensi, ad esempio, al fenomeno sempre più diffuso che prevede la trasformazione di serie televisive in prodotti destinati alla distribuzione cinematografica (una strada in verità sempre percorsa dall’industria dell’intrattenimento: dalla versione cinematografica di McHale’s Navy, Marinai, topless e guai, del 1964 al-
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l’imminente film che riproporrà le quattro amiche di Sex & the City). In questo particolare momento storico, tale manifestazione si inserisce di buon grado all’interno di un panorama più ampio, in cui il recupero del passato mediatizzato diventa una tendenza forte, che determina l’andamento di una larga fetta del mercato cinematografico. Ponendo il concetto di intertestualità – e allargandolo all’idea di forme di intermedialità – come una caratteristica fondamentale dei prodotti culturali (vedi Profilo critico, 1.5], diventa evidente come essi non posseggano più «quel carattere di unicità assoluta cui poteva aspirare una grande opera del passato. Al contrario, ogni prodotto dipende da una rete fitta e insistente di rinvii ad altri prodotti» [Colombo e Eugeni 2001, 35]. Non solo ci troviamo allora davanti al fenomeno del passaggio delle serie televisive al cinema, ma certi prodotti cinematografici si caratterizzano proprio per la loro tendenza a “mimare” e riproporre, attraverso le strutture della serialità – ad esempio sequel e prequel – le forme e i modi propri della serialità televisiva.Appare rilevante, inoltre, il fatto che numerosi film ispirati alle serie televisive appaiano nelle sale parecchi anni dopo la messa in onda delle serie a cui fanno riferimento e di cui riprendono personaggi e ambienti, contribuendo a consolidare forme di culto e di memoria legate a questo tipo di produzione. Ecco allora che le versioni per il grande schermo di serie di successo acquisiscono ancora più senso, per lo sfruttamento di un marchio, di un’etichetta identificativa che presuppone già una buona dose di aspettative nei confronti delle situazioni e dei personaggi che si andranno a vedere nel film; per il recupero di una memoria televisiva condivisa; per una riscoperta del modernariato e una tendenza vintage che colonizzano vari campi della cultura contemporanea, dalla moda alla produzione di prodotti tv. Eco, nella sua tipologia della ripetizione, individua una forma seriale il cui tratto distintivo principale è motivato, prima ancora che dalla struttura narrativa, dalla presenza di un attore che in certi casi (Bud Spencer,Totò) non può che produrre sempre lo stesso film [Eco 1985b, 136]. Sarebbe allora la presenza di un carattere fisso a motivare la struttura seriale.Tranne rare eccezioni, quali ad esempio le serie antologiche, in cui non ci sono caratteri fissi, ma solo situazioni simili per atmosfera, normalmente qualsiasi tipo di serialità televisiva – serie, serial o sit-com – si definisce tale proprio in virtù di questa forma di ripetizione, che non consiste solo nel riproporre situazioni analoghe, ma nel farlo anche attraverso l’uso di un cast di personaggi fissi. Nel caso di film tratti dalle serie televisive questo meccanismo viene messo in discussione, dal momento che nel passaggio intermediale tra la serie televisiva e il film non sempre viene mantenuta una continuità nell’attribuzione dei ruoli.Anzi, diciamo che il fatto che ci sia una continuità, che l’attore che interpreta un certo personaggio nella serie sia chiamato a interpretare il medesimo ruolo al cinema, sembra essere una rarità piuttosto che una prassi. In particolare, negli adattamenti più recenti che coin-
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volgono televisione e cinema, le tipologie di prodotti sembrano ridursi sostanzialmente a due: film tratti da serie piuttosto vecchie e film tratti da serie molto recenti, se non addirittura ancora in produzione. Nel primo caso, l’effettiva distanza temporale impone anche un cast che è impossibile far coincidere con quello originale della serie: le Charlie’s Angels cinematografiche devono essere belle, agili e scattanti e questo fa sì che non possano essere evidentemente interpretate dalle attrici che prestavano loro i volti nella versione televisiva di venti anni prima. E infatti, nei due film ispirati alla serie, i ruoli delle protagoniste sono affidate ad attrici note anche per la loro bellezza, nonché per la loro bravura nelle scene d’azione. Lo stesso tipo di attitudine nei confronti dei protagonisti della serie esiste anche in Starsky & Hutch (T. Phillips 2004), che ai protagonisti della serie regala una comparsata finale dal sapore nostalgico, proprio perché contravviene a quella legge della serialità enunciata da Eco [1964] nel caso di Superman, secondo la quale questo tipo di personaggi, non deve in teoria subire nessun tipo di progressione, non deve quindi evolvere, ma può solo mantenersi fedele a se stesso, immobilizzato in un eterno presente e con un passato allargabile a piacimento, ma privo di futuro. Nel caso in cui il prodotto sia invece legato al suo testo di riferimento anche in virtù di una stretta connessione temporale, allora è lecito aspettarsi che a interpretare i protagonisti siano i medesimi attori che li interpretano nella serie televisiva. È il caso, in primo luogo, di Star Trek analizzato da Hark, ma anche di X-Files – Il film (R. Bowman 1998), che vede gli interpreti della serie riproporre per il grande schermo i loro personaggi abituali. Se, però, al primo adattamento della serie in film fa seguito un secondo film, come accade con Charlie’s Angels e Charlie’s Angels: Full Throttle o con Mission: Impossible e Mission: Impossible 2, è allora lecito aspettarsi che a interpretare i personaggi principali siano i medesimi attori che li hanno interpretati nel primo degli episodi cinematografici poiché tra lo spettatore e gli interpreti viene a crearsi il medesimo meccanismo che sottende alla serialità televisiva. Ci si affeziona, insomma, al volto del personaggio, si tende a identificarlo inevitabilmente con l’attore che lo interpreta e qualsiasi cambiamento in questo senso, benché possibile come dimostrano abilmente gli intrecci narrativi messi in piedi dalle forme seriali stesse (interventi al volto, sogni, incidenti e quant’altro), risulta variamente spiazzante per lo spettatore. Così, in Charlie’s Angels: Full Throttle come in Mission: Impossible 2, gli attori protagonisti non variano, rispondendo a un’esigenza di “stabilità” del pubblico. Ad una ricerca di tipo field, cioè sul campo, e svolta secondo un orientamento metodologico etnografico, che individua la fruizione televisiva come un processo che coinvolge attivamente gli spettatori, appartiene il saggio di Liebes e Katz, volto a studiare le ragioni dell’insuccesso della programmazione in Giappone del noto serial americano Dallas (19781991). Il brano che presentiamo, per la prima volta in traduzione italiana,
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è parte di un più ampio studio curato da Liebes e Katz The Export of Meaning. Cross Cultural Reading of Dallas [1990], dedicato alla popolarità trans-culturale e alle diverse letture di un programma che ha fatto il giro del mondo. Per rendere conto di una ricerca svolta con metodi empirici, un singolo episodio di Dallas è stato discusso in 65 focus group, composti da membri appartenenti a diverse comunità etniche in Israele, a Los Angeles e in Giappone dove, appunto, Dallas ha rappresentato un caso di insuccesso. Si tratta dunque di una questione di tutto rilievo, poiché, come nota Roberto Grandi [1992, 49] «la fruizione di un programma televisivo si presenta, in questa ipotesi, come un processo di negoziazione, tra il racconto che si sviluppa sullo schermo e la cultura del telespettatore, che ha luogo nell’interazione tra gli stessi telespettatori». E infatti, come conferma l’indagine di Liebes e Katz, un telespettatore di fronte a un programma televisivo tende ad attuare un processo di decodifica che richiede l’assistenza e la conferma anche di altri spettatori, mettendo in atto forme di coinvolgimento che caratterizzano e differenziano i diversi gruppi culturali. Nel caso della ricerca su Dallas, in particolare, i diversi gruppi sembrano proporre due principali tipologie di coinvolgimento, da un lato un coinvolgimento rispetto ai temi del serial per riflettere sulla realtà della loro vita, dall’altro un coinvolgimento critico, in cui i soggetti sono consapevoli dell’appartenenza di Dallas alla cultura di massa e dunque il piacere della visione consiste proprio nella capacità di recuperare il senso del messaggio e della struttura della serie [Grandi 1992, 50]. Il caso della ricezione di Dallas in Giappone, poi, è particolarmente emblematico per rendere conto delle difficoltà che un testo audiovisivo subisce nel processo di adattamento e accoglienza in una cultura diversa da quella che lo ha prodotto. Gli spettatori giapponesi, infatti, hanno espresso le loro perplessità nei confronti del serial su più livelli, in particolare sottolineandone le contraddizioni in termini di plot e di spunti narrativi. Non solo, un ulteriore rilievo è stato mosso nei confronti del genere di appartenenza del prodotto, che ha faticato ad inserirsi all’interno del sistema dei generi del paese e, dunque, ha disatteso le aspettative del genere soap nel quale i soggetti coinvolti nella ricerca lo hanno collocato. Nella interpretazione dei gruppi d’ascolto giapponesi emerge allora l’incongruenza di fondo di Dallas, il disagio verso la commistione di generi (soap, western, drama) che veicola un’assenza di aspettative chiare, coerenti e strutturate, e l’inverosimiglianza di una situazione che, in questo specifico contesto culturale, si rivela uno svantaggio e non, invece, uno spazio di gratificazione e di evasione dal quotidiano.
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Henry Jenkins La costruzione sociale della comunità di fan di fantascienza I fan mediatici sono consumatori che producono, lettori che scrivono e spettatori che partecipano. Da una parte, simili affermazioni sembrano contraddittorie. Tendiamo infatti a pensare ai fan esclusivamente in termini di consumo, piuttosto che di produzione. Per molti critici della cultura di massa, la figura del fan ha rappresentato l’emblema delle forme più ossessive e servili del consumo culturale, consumo che è stato inteso soprattutto in termini di metafora di mania, fanatismo religioso, aberrazione sociale o squilibrio mentale. Nel rendere conto dei fenomeni di cultura di massa, la stampa tende a privilegiare lo scambio dei prodotti massificati, spesso a prezzi eccessivi, e l’atteggiamento adorante dei fan verso i produttori mediatici. Dall’altra, parlare di fan “produttivi” può sembrare banale e scontato. Dato che i cultural studies, il reader-response criticism, la cognitive film theory e altri approcci teorici contemporanei hanno caratterizzato gli spettatori dei media come “pubblici attivi”, la nozione di produzione testuale, inizialmente riferita a specifici tipi di attività culturali risultanti nella produzione di oggetti materiali, si è estesa fino a comprendere qualsiasi forma di attività interpretativa. In questo solco, il fan diventa l’esempio emblematico dell’attività del lettore nella costruzione del significato e nella fruizione dei testi commerciali; l’attività del fan non si distingue dai vari tipi di strategie interpretative adottate da qualsiasi consumatore della cultura di massa, se non per la sua intensità (si vedano, per esempio, Fiske 1987 e 1989). Le comunità di fan si caratterizzano in quanto “pubblico” e sono considerate esclusivamente dal punto di vista del loro rapporto con un particolare testo primario, sebbene tale formulazione tenda ancora, come osserva Janice Radway (1988), a porre il testo mediatico al centro dell’analisi, piuttosto che l’uso che ne viene fatto da parte del lettore. Il pubblico dei fan definito dall’interesse comune per programmi o generi particolari (gli emuli di Madonna, le comunità di romance readers, i trekker) viene ancora considerato un’entità costituita intorno a un testo, piuttosto che un soggetto che si appropria e rielabora materiali testuali per fabbricare la propria variegata cultura. Inoltre, le creazioni culturali dei fan non sono interpretate come prodotti di una comunità culturale più ampia, ma come le tracce materiali di interpretazioni personali o, almeno, delle interpretazioni determinate essenzialmente in termini di una singola identità sociale ben definita (casalinghe, bambini, punk e così via). Questa visione della produzione riconducibile ai fan si afferma a scapito di una comprensione più precisa della specificità sociale e culturale della comunità di fan e porta alla costruzione di una teoria delle pratiche di ricezione dominanti che non coglie il carattere particolare della fondamentale rottura di queste pratiche da parte dei fan. Per affrontare un’analisi concreta di questa peculiare produzione cultura-
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le, dobbiamo innanzitutto dare una definizione più precisa dell’universo degli appassionati, o fandom, definizione che riconosce fin dall’inizio che ciò che caratterizza i fan in quanto categoria particolare di consumatori testuali è, in parte, la natura sociale della loro attività interpretativa e culturale (Jenkins 1990). Propongo un modello di fandom che opera ad almeno quattro livelli: 1) I fan assumono una specifica modalità di ricezione: la ricerca etnografica ha cominciato a prestare un’attenzione crescente alle modalità di ricezione caratteristiche di specifiche comunità sociali e culturali, come l’attenzione selettiva del pubblico infantile (Jenkins 1989; Palmer 1986) o di quello delle casalinghe (Brunsdon 1981; Morley 1986) – che, per ragioni molto diverse ripartiscono il loro interesse tra la programmazione televisiva ed altre attività domestiche – o quella dei mariti (Morley 1986) – che magari guardano la televisione in maniera indiscriminata ma spesso trasformano il programma trasmesso in un centro di attenzione comune – o ancora l’interazione sociale che circonda la visione collettiva di determinati programmi.Tutte queste svariate modalità di ricezione riflettono i diversi interessi che gli spettatori mettono in gioco nel loro rapporto con i media e si modellano sulle varie condizioni sociali di cui gli spettatori hanno esperienza nella vita di tutti i giorni. In questo senso, la visione dei fan può essere considerata come un’ulteriore modalità di ricezione. In primo luogo, tale modalità è caratterizzata dalla scelta consapevole di un determinato programma che viene seguito fedelmente settimana dopo settimana, e spesso ripetutamente rivisto, sia tramite le repliche, sia tramite le registrazioni domestiche. In secondo luogo, i fan sono motivati non semplicemente ad assimilare il testo, ma a tradurlo in altri tipi di attività sociale e culturale. La ricezione del fandom va al di là della mera comprensione fine a se stessa di un episodio, per estendersi a una forma di produzione di significato più concreta e permanente. Come minimo, i fan sentono l’esigenza di discutere di quel programma con altri appassionati. Spesso, aderiscono a un fan club o partecipano a convention dove poter ampliare ulteriormente il discorso. I fan intrattengono una corrispondenza, chattano on line, si scambiano materiale video per consentire a tutti gli interessati di vedere ogni episodio disponibile. E, come vedremo, i fan si avvalgono della propria esperienza di fruitori televisivi per dare origine ad altri tipi di creazione artistica: scrivere nuove storie, comporre canzoni, realizzare video o dipinti. È questa dimensione sociale e culturale a distinguere la modalità di ricezione dei fan dalle altre modalità di visione che derivano da un consumo selettivo e regolare dei media. Questo tipo di ricezione non può realizzarsi in un soggetto isolato, ma è sempre alimentato dal contributo di altri fan. 2) Il fandom costituisce una particolare comunità interpretativa. Data la dimensione altamente sociale delle pratiche di ricezione dei fan, le
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interpretazioni che ne scaturiscono vanno intese in termini istituzionali più che personali.1 Gli incontri organizzati dai fan club, le newsletter e le letterzine (N.d.T.: Una letterzine è una raccolta di lettere di commento o di altre informazioni, non fiction, scritte dai fan e relative in particolare a serie tv) forniscono uno spazio di negoziazione delle interpretazioni testuali: nuove letture o critiche di testi condivisi vengono avanzate e corroborate tramite il ricorso a certi fatti comunemente accettati o un determinato tipo di ragionamento deduttivo (“Roj Blake sta progressivamente impazzendo nella seconda stagione di Blake’s 7”. N.d.T.: Blake’s 7, 19781981, è una serie televisiva britannica di fantascienza, mai trasmessa in Italia), altri intervengono in merito a queste interpretazioni, sollevando obiezioni, proponendo letture alternative o contestandole sulla base della loro conformità agli standard del gruppo rispetto a ciò che viene considerato un uso appropriato dei materiali testuali (“No, Roj Blake prende decisioni impopolari ma necessarie alla campagna paramilitare contro la Federazione”). Ciascuno fa appello al testo primario degli episodi, alle interviste con i produttori del programma o alla generale conoscenza sociale o culturale per analizzare le divergenze in modo da spiegare gli eventi narrativi. Per di più, i fan discutono dei protocolli di lettura, della formazione dei canoni e della dimensione etica del loro rapporto nei confronti degli autori dei testi primari, almeno quanto discutono dei meriti e del significato dei singoli episodi. Senza dubbio, i significati generati tramite questo processo riflettono, in una certa misura, gli interessi e le esperienze personali di ogni singolo appassionato; ed è addirittura possibile situare i significati che scaturiscono dalla posizione specifica dei fan nell’ambito di una formazione sociale più ampia, significati che riflettono, per esempio, le prospettive tipicamente “femminili”sulla cultura dominante. Nondimeno, queste letture devono anche essere intese in quanto riflesso e derivazione del particolare carattere del fandom quale specifica istituzione interpretativa, con i suoi intrinseci protocolli di lettura e proprie strutture di significato. 3) Il fandom costituisce un particolare mondo artistico: con il termine “mondo dell’arte” Howard Becker (1982) intende “una rete consolidata di catene di cooperazione” tra le varie istituzioni della produzione, della distribuzione, del consumo, dell’ interpretazione e della valutazione artistica:“i mondi dell’arte, oltre a produrre le opere, attribuiscono ad esse un valore estetico”. In senso lato, il termine “mondo dell’arte” si riferisce a sistemi di norme estetiche e convenzioni generiche, a sistemi di pratica professionale e di creazione della reputazione, sistemi per la circolazione, l’esibizione e/o la vendita di oggetti artistici, sistemi di valutazione critica. In un certo senso, il fandom costituisce semplicemente una componente del mondo artistico delle comunicazioni di massa. Le convention dei fan svolgono un ruolo centrale nella distribuzione della conoscenza riguardo alle produzioni dei media e nella promozione di fumetti, romanzi di fantascienza e novità cinematografiche. Queste manifestazioni forniscono
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uno spazio dove autori e produttori possono parlare direttamente con i lettori e sviluppare un maggiore consapevolezza circa le aspettative del pubblico. I riconoscimenti attribuiti dai fan, come il premio Hugo, che viene assegnato ogni anno nell’ambito della Convention mondiale di fantascienza, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della reputazione degli scrittori di fantascienza emergenti e nel riconoscimento di figure affermate. Storicamente, le pubblicazioni originate dal fandom hanno costituto un’importante palestra per scrittori professionisti, uno spazio in cui misurarsi per sviluppare abilità, stili, tematiche e forse, ciò che più conta, la fiducia in se stessi prima di affrontare il mercato commerciale (Zimmer Bradley 1985). E tuttavia, il fandom costituisce altresì un proprio distinto mondo dell’arte, fondato non tanto sul consumo di testi preesistenti, quanto sulla produzione di testi che usano i materiali grezzi offerti dai media come base per nuove forme di creazione culturale. I fan scrivono racconti, poesie e romanzi che usano i personaggi e le situazioni del testo primario come punto di partenza per l’elaborazione della propria fiction. I fan prendono il materiale filmato dai testi televisivi e lo montano per realizzare i propri video, che commentano, a volte con ironia, altre con reverenza, i programmi da cui traggono origine. I fan artisti dipingono quadri, costruiscono sculture o creano costumi elaborati; i fan musicisti registrano e commercializzano le loro composizioni. Le convention di fantascienza non costituiscono soltanto un mercato per i prodotti commerciali associati ai testi mediatici e una vetrina per scrittori, illustratori e musicisti professionali, ma altresì un luogo pubblico dove mostrare le creazioni artistiche prodotte dai fan e una vetrina per i loro creatori. Si battono all’asta i quadri dipinti dai fan, si vendono fanzine, si tengono concerti, si proiettano video e si premiano le migliori realizzazioni. Cominciano a sorgere imprese semi-professionali che si occupano della produzione e della distribuzione dei prodotti dei fan – registrazioni musicali, riviste e via discorrendo – e appaiono pubblicazioni allo scopo di fornire informazioni tecniche e recensioni in merito alla fan art (Apa-Filk in ambito musicale, Art Forum in ambito artistico, Treklink e On the Double per quanto riguarda la fan fiction) o di pubblicizzare e commercializzare la fan fiction (Datazine). Questi artisti sviluppano il loro talento in un ambiente stimolante e si guadagnano una reputazione, a volte di portata internazionale, pur rimanendo sconosciuti al mondo esterno a quello del fandom. 4) Il fandom costituisce una comunità sociale alternativa. L’appropriazione da parte dei fan dei testi mediatici mette a disposizione un corpus di riferimenti comuni che facilita la comunicazione con altri soggetti distribuiti su un’ampia area geografica, persone che probabilmente non si incontreranno mai – o piuttosto di rado – di persona, ma che condividono un’identità e interessi comuni. Il tracollo delle forme tradizionali di aggregazione culturale e comunitaria in una società sempre più atomizza-
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ta non ha distrutto il bisogno profondo di sentirsi parte di una comunità culturale e di assumere un’identità più ampia di quella dell’individuo isolato imposta dall’alienazione del posto di lavoro (Lipsitz 1988). Il fandom propone una comunità non definita nei termini tradizionali di razza, religione, genere, categoria, politica o professione, ma piuttosto una comunità di consumatori accomunati dalla relazione con dei testi condivisi. I fan considerano tale comunità in netta contrapposizione al mondo “ordinario” dei non appassionati e cercano di costituirsi in strutture sociali più aperte alle differenze individuali, più concilianti verso gli interessi particolari e più democratiche e collegiali nel loro operato. L’ingresso nel fandom presuppone un abbandono dello status sociale preesistente per farsi accettare e apprezzare non tanto per quello che si è ma per il contributo che si porta alla nuova comunità. L’universo del fandom attrae in particolare i gruppi marginali o subordinati nella cultura dominante – donne, neri, gay, travet, disabili – proprio perché la sua organizzazione sociale promette un’accettazione incondizionata e fonti alternative di riconoscimento assenti nella società in generale. Per molti fan, questa dimensione sociale – la loro devozione al fandom – spesso è più importante della devozione a un particolare testo mediatico, cosicché è possibile passare da Star Trek a Guerre stellari o da Blake’s 7 a I Professionals, rimanendo attivi all’interno delle strutture sociali allargate della comunità dei fan. Certe forme di fan culture esistono, quindi, non tanto per permettere la circolazione delle interpretazioni e dei commenti su un testo primario, ma in quanto mezzi per creare e mantenere la solidarietà nell’ambito della comunità dei fan. Perciò, i fan sono consumatori che producono, lettori che scrivono e spettatori che partecipano. Che cosa producono i fan? Significati e interpretazioni; creazioni artistiche; comunità; identità alternative. In ognuno di questi casi, i fan attingono al materiale prodotto dai media dominanti e lo utilizzano in modo da piegarlo ai loro interessi e gusti. In ognuno di questi casi, la natura della produzione è definita attraverso le norme sociali, le convenzioni estetiche, i protocolli interpretativi, le risorse tecnologiche e la competenza tecnica della comunità di fan. I testi prodotti dai fan, quindi, non forniscono un accesso puro e semplice, “autentico” o immediato alle personali attività interpretative di singoli fan; né costituiscono una base adeguata sulla quale costruire una teoria delle pratiche di lettura dominanti, dal momento che questo tipo di produzione riflette le particolari esigenze e aspettative di una subcultura che si distingue per genere e per grado dai tipi di produzione semiotica che avvengono nella cultura dominante. Nondimeno, possono insegnarci molto per quel che riguarda le tattiche di appropriazione culturale ed i processi attraverso i quali le opere prodotte in un contesto possono essere rielaborate per adeguarsi a interessi alternativi. La fan fiction relativa a Star Trek costituisce un esempio particolarmente efficace di alcuni aspetti fondamentali della produzione della fan culture (Jenkins 1988). Nel corso dei venticinque anni trascorsi dalla prima messa
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in onda di Star Trek, la fan fiction ha acquisito uno status semi-istituzionale. Le fanzine, semplici fotocopie graffettate di pagine dattiloscritte o, più professionalmente, stampate in offset e rilegate, circolano per corrispondenza e vengono vendute alle convention. Le fanzine pubblicano sia testi critici di approfondimento su particolari aspetti tecnici o sociologici dell’universo del programma, sia fiction che approfondiscono i personaggi e le situazioni proposte nel testo primario, spesso andando in direzioni totalmente diverse da quelle immaginate dai creatori del testo originale. La fan fiction intorno a Star Trek è prevalentemente una risposta femminile ai testi mediatici, data la preminenza di fanzine curate e pubblicate da donne per un pubblico largamente femminile. Queste scrittrici rielaborano il testo primario in svariati modi significativi: spostando l’attenzione dagli aspetti legati all’azione e all’avventura a quelli dei rapporti tra i personaggi, applicando le convenzioni tipiche dei generi tradizionalmente femminili, come la storia romantica, all’interpretazione e alla persistenza dei materiali derivati dai generi tradizionalmente maschili; i personaggi femminili marginali e subalterni nelle serie originali (Uhura, Chapel) diventano protagonisti di testi in cui si cerca di analizzare il genere di problemi che le donne possono incontrare in qualità di componenti attivi della Flotta stellare e, così facendo, il profilo di questi personaggi dev’essere consolidato e ridisegnato in modo da rispondere a interessi più femministi; vengono approfonditi gli aspetti erotici dei testi che non possono essere rappresentati esplicitamente in televisione e, talvolta, ci si allontana dalle rappresentazioni socialmente accettate del sodalizio e dell’amicizia maschile per sviluppare una storia d’amore omosessuale tra Kirk e Spock. Questo genere di scrittura può essere definito un tipo di “bracconaggio” testuale, (de Certeau 1984), una strategia di appropriazione di materiali prodotti dall’industria culturale dominante e la loro rielaborazione al servizio degli interessi di culture subordinate o di subculture. In tal modo, la fan fiction si serve dei personaggi di Star Trek come veicoli per affrontare esperienze sociali e questioni di particolare interesse per la comunità femminile dei fan, alle quali era stata prestata scarsa o nessuna attenzione dalla serie originale. Le storie pubblicate nelle fanzine nascono da strategie di lettura specificamente gender e trattano questioni femministe ma senza limitarsi semplicemente a riprodurre quelle attività di interpretazione individuale che avevano generato inizialmente l’interesse dei fan nella serie; queste storie sono create per circolare all’interno del mondo artistico del fandom e si conformano a particolari tradizioni comuni che hanno origine all’interno della comunità di fan; esse mettono in primo piano significati che hanno un interesse per altri fan; accettano determinate regole condivise sul tipo di uso dei materiali testuali più attraenti o appropriati e si basano su caratterizzazioni e mondi precedentemente elaborati da altri fan. In sostanza, le storie delle fanzine sono tanto il prodotto di una particolare comunità culturale, quanto l’espressione di significati e interessi personali.
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La musica prodotta da fan (o filking, come la chiamano i fan stessi) ci offre un altro punto di accesso alla logica culturale del fandom, un altro modo per comprendere la natura e la struttura della comunità di fan e il suo particolare rapporto con i contenuti dei media dominanti.2 Il filking, come la fan fiction, può essere un mezzo per estendere o commentare i testi mediatici preesistenti; un modo per appropriarsi dei materiali testuali e far emergere personaggi o questioni marginali (Jenkins 1991). Spesso, i fan scrivono canzoni dal punto di vista dei personaggi della fiction che cantano in prima persona, esprimendo in tal modo aspetti della loro personalità o del loro punto di vista su determinati risvolti narrativi. Così come un autore di fan fiction può scrivere una storia intorno al personaggio di Uhura, un filker può comporre una canzone incentrata su Chapel o Yar, personaggi femminili alle cui voci è concesso uno spazio limitato negli episodi televisivi. Cantare, interpretando tali personaggi, permette ai filker di scandagliare aspetti che rimangono irrisolti nel testo primario e di contestare i significati preferenziali, oltre ad attraversare trasversalmente le categorie sociali esistenti e vedere il mondo da una varietà di prospettive diverse. Inoltre, il filking può contribuire ad aggiungere ancora un’ulteriore dimensione alla pratica dell’appropriazione testuale, dato che i motivi e i temi offerti dai testi mediatici sono spesso associati a melodie derivate dalla musica folk o popolare, con una spiccata consapevolezza rispetto ai tipi di significato che possono prodursi da un accorto accostamento dei due generi. Tuttavia, il filking si distingue dalla fan fiction per diversi aspetti significativi. In primo luogo, mentre un autore di fan fiction tende a focalizzare la propria produzione intorno al testo di un singolo programma, i filker traggono i loro riferimenti da un contesto più ampio di prodotti mediatici, esemplificando gli aspetti più “nomadi” del “bracconaggio” testuale. Inoltre, se la fan fiction rappresenta una risposta prevalentemente femminile ai media, nel filking uomini e donne giocano ruoli paritetici, a volte scrivendo una canzone in collaborazione, altre esplorando temi e soggetti di interesse più specificatamente di genere. Se la scrittura favorisce la creatività individuale, il filking promuove più spesso un’ideazione collettiva della produzione culturale, benché questo tipo di ideologia popolare sia contrastata dalla promozione e dalla commercializzazione di singoli musicisti filk. Da ultimo, se la fan fiction può essere compresa essenzialmente in termini di interpretazione e appropriazione testuale, il filking tende più spesso a parlare direttamente del fandom come di una comunità sociale speciale, a esaltarne i valori e le attività caratteristiche e ad articolare le prospettive della comunità su temi politici, come il programma spaziale, l’ambientalismo e la corsa agli armamenti. Il filking assume diverse forme: i testi delle canzoni sono pubblicati in raccolte o sulle fanzine; i filk club ospitano incontri mensili; si svolgono convention filk più volte all’anno; le registrazioni filk vengono fatte circolare in maniera informale (tramite la permuta) o più commerciale (tramite una
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distribuzione semi-professionale).Tuttavia, è importante collocare le canzoni filk inizialmente nell’ambito del loro contesto originale e primario, in quanto testi concepiti per essere cantati collettivamente e informalmente dai fan riuniti nelle convention di fantascienza. Per oltre sessant’anni, le convention di fantascienza hanno costituito per i fan un’occasione per poter interagire con i loro autori preferiti (o, nel fandom mediatico, le star e i creativi che danno vita ai loro testi mediatici preferiti), per conoscere altri fan con cui condividevano interessi comuni, per scambiare idee e mostrare le proprie creazioni. La convention è il centro non solo del mondo artistico dei fan ma anche della comunità alternativa del fandom. Per alcuni, la convention può costituire l’occasione per iniziarsi alla fan culture e il punto d’accesso al suo ordine sociale; per altri, è un’occasione per rinnovare il contatto con vecchi amici conosciuti soltanto tramite il fandom. Molti fan partecipano solo a un paio di convention l’anno. Alcuni possono permettersi di intervenire solo a quelle che si tengono nella loro città o regione. Un numero più ristretto di fan dedica molti fine settimana a recarsi alle varie convention da una città all’altra, formando quell’“isola volante” di cui parla Barry Childs-Helton in una delle sue canzoni: “They land and play/now they’re flying away/to meet you at another village, another day” (1987a). Spesso, questi fan itineranti avvertono una strana continuità ritrovando le stesse facce (di altri fan, di ospiti, di venditori), le stesse attività e gli stessi atteggiamenti da una convention all’altra e probabilmente è per questi fan che vale più che mai il senso del fandom come comunità sociale alternativa. Se un certo numero di convention è incentrato intorno a interessi specifici – un singolo programma (Star Trek) o una categoria di programmi (serie di spionaggio, trasmissioni della BBC, fan fiction omosessuale) – le convention di fantascienza attirano in genere fan con diversi tipi di interessi. Di conseguenza, molti degli spazi e della programmazione di queste manifestazioni sono dedicati a scopi particolari: sale conferenze, gallerie d’arte, sale per i giochi di ruolo e i videogame, sale per riunioni in costume, sale di proiezione per i film, gli episodi televisivi e i film di animazione giapponesi cult e i film e i video prodotti dai fan; uno spazio dove comprare gadget commerciali e oggetti prodotti da fan. Spesso, le varie attività differenziate oltrepassano i confini degli spazi assegnati, mischiandosi nei corridoi e negli spazi comuni che servono da intersezioni dove convergono svariati interessi. Il filking può quindi considerarsi una delle tante attività differenziate, uno spazio di incontro per i fan a cui piace cantare, ma, più produttivamente, può considerarsi uno dei luoghi che riuniscono i fan dagli interessi svariati, un luogo in cui si articola la loro identità comune in quanto parte di una più ampia comunità di fan. Se solo una piccola percentuale di coloro che non si perdono una convention di fantascienza partecipa al filking, tra le sue fila si annovera una vasta rappresentanza trasversale, composta da uomini e donne, giovani e meno giovani e una discreta percentuale di
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minoranze. Indubbiamente, certi fan partecipano alle convention solo per la parte dedicata al filking ma molti altri non disdegnano una capatina dopo aver esaurito le altre attrazioni principali. La struttura del filking deve comprendere un certo numero di interessi nel suo repertorio di canzoni, in modo da incoraggiare la partecipazione e aprirsi quindi a una varietà di differenti gusti, stili e competenze musicali. [traduzione di Simona Mambrini]
Note originali del testo 1 La mia descrizione del fandom come istituzione interpretativa prende spunto da quanto sostenuto da David Bordwell in Making Meanings, Boston, Harvard University Press, 1989, e dalle lunghe conversazioni avute con lui. 2 Jackson (cfr. Jackson S., Starship Troupers: A Filkzine, Denver, Virtuous Particle Press, 1986) fa risalire il termine filk a un refuso che ha trasformato “folk music” in “filk music” nel programma di un convegno. Un certo piacere perverso ha fatto sì che il termine venisse adottato da quel momento, e in effetti funziona a meraviglia per indicare la continuità e insieme la discontinuità tra la fan music e la tradizionale musica folk. Il filk adotta molte delle pratiche della musica folk e spesso le melodie delle canzoni si rifanno al repertorio folk, mentre i contenuti sono derivati dai mass media e dalla cultura popolare. Di conseguenza, la forma, come gran parte della fan culture, è una via di mezzo tra la cultura folk e la cultura di massa, prospettando una forma intermedia in cui la cultura di massa può trasformarsi a sua volta in qualcosa di simile alla cultura folk. Da Henry Jenkins, ‘Strangers No More We Sing: Filking and the Social Construction of the Science Fiction Fan Community’, in L.A. Lewis (cur.) The Adoring Audience. Fan Culture and Popular Media, London-NY: Routledge 1992, 208-218
Opere citate nel testo originale Amsley C. 1989, How to Watch Star Trek, «Cultural Studies», Fall Becker H. 1982, Art Worlds, Berkeley: University of California Press [trad. it. 2004, I mondi dell’arte, Bologna: Il Mulino] Brunsdon C. 1981, Crossroads. Notes on Soap Opera, «Screen», 22, 4 Childs-Helton B., “Flying Island Farewell”, Escape From Mundania!, Indianapolis: Space Opera House de Certeau M. 1984, The Practice of Everyday Life, Berkeley: Berkeley University Press [trad. it. 2001, L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro] Fiske J. 1987, Television Culture, London: Nethuen – 1989a, Understanding Popular Culture, Boston: Unwin Hyman Jenkins H. 1988, Star Trek Rerun, Reread, Rewritten: Fan Writing as
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Massimo Scaglioni
Textual Poaching, «Critical Studies in Mass Communication», 5, 2 – 1989b, Going Bonkers!: Children, Play and Pee Wee, «Camera Obscura», 18 – 1990, “If I Could Speak With Your Sound”: Textual Proximity, Liminal Identification and the Music of the Science Fiction Fan Community, «Camera Obscura», 23 – 1991, Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture, London: Routledge Lipsitz G. 1988, Mardi Gras Indians: Carnival and Counter Narrative in Black New Orleans, «Cultural Critique», Fall Morley D. 1986, Family Television, London: Comedia Palmer P. 1986, The Lively Audience. A study of Children Around the TV Set, Sydney: Unwin Hyman Radway J. 1988, Reception Study: Ethnography and the Problem of Dispersed Audiences and Nomadic Subjects, «Cultural Studies», 2, 3 Zimmer Bradley M. 1985, Fandom: Its Value to the Professional, in Jarvis S. (cur.), Inside Outer Space: Science Fiction Professionals Look at Their Craft, New York: Frederick Ungar
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Massimo Scaglioni Fan & the City. Il fandom nell’età della convergenza Con l’inizio del nuovo millennio i rapporti fra industria mediale e fandom sono definitivamente mutati. Con 20 milioni di fan, è difficile rispolverare la vecchia ipotesi della “subcultura”,“resistente” o “integrata” che sia.1 La verità è che il fandom costituisce, oggi, una componente di primo piano del sistema mediale convergente. E che l’industria conta sempre più su di esso come cardine indispensabile del suo meccanismo. Negli ultimi 10-15 anni la serialità televisiva americana ha spinto molto in avanti i confini dei rapporti fra industria e fandom. Ed è attorno alla fiction seriale che si sono prodotte le conseguenze più interessanti. I suddetti 20 milioni di spettatori sono quelli che, in media, hanno seguito la seconda stagione di Lost, in onda sul network americano ABC il mercoledì sera, fra il 2005 e il 2006. Come è stato ampiamente riconosciuto da produttori e autori, il ruolo dei fan è stato fondamentale, specie nella fase di lancio della serie. Una comunità di adepti ha iniziato a prendere corpo prima ancora della messa in onda del pilot quando, con una sapiente alchimia di creatività e marketing, sono circolate in rete le prime notizie – o, meglio, i primi spoiler –2 relativi alla presenza di un orso polare sull’isola dei naufraghi.3 Con questa immagine è iniziato il grande “gioco delle teorie e delle speculazioni”, che è stato l’ingrediente di fondo dell’esperienza spettatoriale di Lost. Si trattava, ovviamente, di una scommessa. Perché il concept di una serie nata dall’incontro fra Survivor e Il signore delle mosche non prometteva di dimostrarsi tanto popolare. Eppure, una volta cominciato, il gioco non si è fermato: e oggi, giunto alla terza stagione, inizia a vivere l’inevitabile
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contraddizione di ascolti non più così brillanti, da un lato, e di una comunità di losties che lo amano e lo sostengono con decisione, dall’altro lato, come accaduto per tante serie di culto.4 Lost rappresenta senza dubbio un punto di svolta. Potremmo sostenere di essere entrati in una terza fase nei rapporti fra industria e fandom. Fino all’inizio degli anni ’90, il fandom è stato, soprattutto, una forma subculturale che si genera in maniera autonoma (e in gran parte inattesa) rispetto all’industria: i suoi modelli sono le comunità cresciute attorno a Star Trek e Star Wars, una serie televisiva e una saga cinematografica. Con gli anni ’90 alcuni tentativi di costruzione di serie di culto hanno successo e durano negli anni – è il caso di X-Files – oppure si arenano dopo una stagione di notevole visibilità e successo, come nel caso di Twin Peaks. Per entrambe le serie è evidente l’obiettivo di far incontrare un pubblico ampio e “mainstream” con le fedeli truppe degli appassionati. Lost radicalizza questo tentativo. Perché di Lost non si può che essere fan. Come è possibile generare un’audience sufficientemente ampia ma, soprattutto, altrettanto fedele e appassionata per coinvolgerla in un raffinato gioco interpretativo fatto di indizi nascosti, puzzle da rimontare e verità progressivamente procrastinate? Il segreto consiste nella pluralizzazione dei percorsi di fandom: se è vero che, per seguire una serie radicalmente “serializzata”5 come Lost bisogna essere un po’ fan, le attività e le pratiche dello spettatore/fan possono essere molto variegate. Accanto allo spettatore che si lascia trasportare e stupire dalle rivelazioni e dai twist narrativi della serie, c’è quello che segue le tracce delle innumerevoli “uova di Pasqua”6 di cui il testo è disseminato, rendendo concrete le possibilità di un’esperienza arricchita, multimediale e convergente, che si gioca, soprattutto, fra lo schermo del televisore e quello del computer connesso a Internet. Lost è, fino ad oggi, la serie televisiva che ha saputo meglio interpretare il mutamento dei rapporti fra fandom e industria. Ovvero il fatto che il fandom è diventato sempre più diffuso e sempre più mainstream. Mainstream fandom Dalle periferie delle pratiche subculturali, il fandom è dunque approdato alla città. La prima letteratura sul fandom, nata in seno ai Cultural Studies e sviluppatasi soprattutto grazie alla figura di Henry Jenkins, ne ha sottolineato la natura di subcultura. Dall’inizio del 2000, una “seconda ondata” di studi ha puntato la sua attenzione su due temi che riguardano più da vicino l’organizzazione e le forme d’attività proprie del fandom. Più che come dei textual poachers (“bracconieri testuali”, come li ha definiti originariamente Jenkins) i fan devono essere intesi come dei textual performers:7 attraverso una serie di prodotti o testi “secondari” (che definiremmo “paratesti”), che circondano sempre più e caratterizzano la fruizione “primaria” (giochi di ruolo, o di carte collezionabili legate a serie televisive, CD-ROM interattivi, siti Web e diverse forme di fan-fiction), i fan si immergono in un universo immaginario condiviso e, nell’interazione
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con altri fan, ridefiniscono e riattivano, attraverso le modalità performative del gioco, la testualità originaria, diventandone, in un certo modo, protagonisti. Queste forme di performatività, indagate in profondità da Lancaster, rendono evidente la centralità dei nuovi media, e di Internet in particolare, nel riarticolare il fandom contemporaneo (ed è questo il secondo tema oggetto di grande attenzione). Come afferma Kirsten Pullen “il Web ha radicalmente trasformato il fandom, rendendolo meno di nicchia e più mainstream, perché ha permesso a molte più persone di partecipare ad attività riservate a comunità tradizionalmente più appartate. Sembrerebbe che il Web abbia fatto saltare i confini del fandom, generando una maggiore partecipazione alle culture di fandom [...]”. Il fandom ha perso molti dei suoi confini ritualistici (convention, fan club) e ha iniziato a permeare con forza la vita quotidiana:8 la crescente disponibilità e quotidianità del fandom online sembrerebbe dunque configurare una sorta di “fandom diffuso”. Di fandom mainstream. Fandom, convergenza e intelligenza collettiva Il ruolo chiave giocato dal fandom nel nuovo contesto dei media convergenti è spiegato da ragioni primariamente economiche. Quando la televisione cessa di essere il medium di massa che abbiamo conosciuto per 50 anni ed entra nell’era della frammentazione, in un’epoca “post-network”,9 che vede la proliferazione di canali e forme di offerta multipiattaforma, si rafforza l’esigenza di costruire comunità spettatoriali, meno ampie, ma fedeli a contenuti/brand. Nell’ottica dell’industria, quest’ultima sembra una perfetta descrizione delle comunità di gusto rappresentate dal fandom. Come osserva Henry Jenkins nel suo più recente lavoro,10 questo è però solo un lato della medaglia: è vero che il fandom diventa oggetto di mobilitazione da parte dell’industria multimediale convergente, ma non bisogna dimenticare che esso è, in primo luogo, un fenomeno culturale. Per Jenkins il fandom non perde la sua caratteristica di cultura partecipativa. E anzi rafforza proprio questo tratto in un ambiente mediale convergente. La sua pratica ricorrente, oltre all’immersione e all’immaginazione (che generano forme di produttività ormai consacrate, come la produzione di fan-fiction, fan-art eccetera), riguarda la speculazione. Ovvero la possibilità di costruire, prevalentemente online, delle ampie comunità di gusto che lavorano come forme di intelligenza collettiva.A fronte di un sistema produttivo – quello televisivo – che da sempre adotta forme collaborative di creatività, che coinvolgono molte persone nella produzione di contenuti, anche la spettatorialità supera il suo confinamento domestico (individuale o, al massimo, familiare) e diventa terreno di dialogo, di partecipazione, di speculazione appunto. La “cultura partecipativa” tipica del fandom trova nell’età della convergenza il suo massimo sviluppo, e ne rappresenta il modello. Ereditando alcuni tratti dalle culture del fandom sviluppatesi negli anni ’90 attorno a serie di culto come X-Files e Twin Peaks, i losties, i fan di Lost, impegnati nell’elaborazione di complesse teo-
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rie sull’universo creato nella serie, rompono l’ultimo tabù nella rappresentazione culturale del fandom: da fanatici, ossessionati e soggetti patologici11 i fan diventano ora spettatori critici, appassionati e competenti. Gli spettatori ideali per forme narrative sempre più raffinate e complesse.12
Note originali del testo 1 Nella letteratura teorica che per prima ha analizzato il fenomeno del “fandom mediale” l’ipotesi di fondo consiste nell’affermare la natura subculturale del fandom. Cfr. infra. 2 Uno spoiler è un commento o un riassunto di un racconto (letterario, cinematografico, televisivo...) che anticipa snodi narrativi non ancora noti a chi ascolta/legge. Nel caso televisivo, si considera spoiler ciò che anticipa quello che non è ancora andato in onda. 3 Cfr. L. Porter, D. Lavery,“(Cult)ivating a Lost Audience:The Participatory Fan Culture of Lost”, in Unlocking the Meaning of Lost, Sourcebooks, Naperville 2006. 4 Uno dei tipici meccanismi formativi del fandom consiste proprio nella creazione di “comunità di pressione” tese a sostenere, con appelli o altre iniziative, la produzione di una serie in difficoltà d’ascolti. 5 Sul concetto di serie serializzata si cfr. A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la tv, Garzanti, Milano 2003. 6 Le “uova di Pasqua” sono indizi contenuti nel testo che possono offrire, a chi le recupera, informazioni ulteriori non esplicitate. Il termine deriva dalla pratica sviluppata dall’industria dei videogame di nascondere nell’architettura dei giochi, oggetti nascosti che il giocatore esperto è chiamato a trovare e svelare. 7 K. Lancaster, Interacting with Babylon 5 Fan Performance in a Media Universe, University of Texas Press,Austin 2001. 8 M. Hills, Fan Cultures, Routledge, London 2003. 9 J. Holt,“Vertical Vision. Deregulation, Industrial Economy and prime-time Design”, in M. Jankovich, J. Lyons (a cura di), Quality Popular Television, bfi, Londra 2003. 10 H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York e Londra 2006. 11 Sulla “patologizzazione del fandom” nella letteratura scientifica (soprattutto psicologica) si cfr. M. Scaglioni, Tv di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom,Vita e Pensiero, Milano 2006. 12 Sulla progressiva complessificazione delle forme narrative nella serialità americana si cfr. le tesi di Steven Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene, Mondadori, Milano 2006. Da Massimo Scaglioni, Fan & the City. Il fandom nell’età della convergenza, «Link. Idee per la televisione» Focus Telefilm, 2007
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Ina Rae Hark La trasposizione dei personaggi televisivi in altri media Quando si adatta un’opera letteraria per lo schermo, i compiti principali dei realizzatori consistono nello scegliere gli attori ai quali far interpretare i personaggi che non siano fisicamente troppo distanti dalle proiezioni mentali del lettore medio e nel rielaborare la diegesi dell’opera letteraria per adattarla alle esigenze e alle restrizioni del medium filmico. Quando si realizza una versione su grande schermo di una serie televisiva, i requisiti sono sostanzialmente diversi. Ciò che costituisce l’attrattiva di una serie televisiva non è tanto la storia in sé, quanto la ricorrenza dei personaggi in un data situazione. E il fascino esercitato dai personaggi si deve in misura più o meno maggiore all’attore che li impersona. Di conseguenza, l’adattamento cinematografico ideale di una serie televisiva dovrebbe mantenere gli stessi attori nel ruolo dei personaggi per inserirli in una diegesi arricchita dalle varie prerogative che il mezzo cinematografico ha rispetto alla televisione: un campo visivo più ampio e nitido, un budget più elevato per scenografie, costumi, effetti speciali, guest star e un tempo maggiore per lo sviluppo della storia (benché, ovviamente, molto minore rispetto all’intera serie televisiva) rispetto ai soliti trenta o sessanta minuti di durata di un episodio. È possibile attenersi a tale ideale quando la produzione del film avviene contemporaneamente alla trasmissione della serie televisiva. Quando, invece, la volontà di adattare una serie televisiva per il grande schermo si manifesta a distanza di anni dalla fine della serie, l’esigenza di mantenere gli attori originali che impersonavano i personaggi risulta difficile (o impossibile) da soddisfare. In questo articolo analizzeremo alcune delle strategie che sono state adottate dall’industria cinematografica per affrontare tale problema. Una breve storia degli adattamenti delle serie televisive per il cinema Hollywood si rese conto ben presto dei vantaggi derivanti dalla trasposizione cinematografica delle serie televisive nel momento in cui la programmazione era ancora in corso. Gli esempi comprendono: Molly, una versione in lungometraggio del 1950 della popolare serie di Gertrude Berg The Goldbergs (1949-1954), e il film Dragnet realizzato nel 1954, a metà della programmazione della serie omonima trasmessa dal 1951 al 1959. Negli anni Sessanta e Settanta queste trasposizioni diventarono sempre più comuni, con lungometraggi a basso costo come Marinai, topless e guai (1964), McHale’s Navy Joins the Air Force (1965) [N.d.T.: entrambi ispirati dalla serie Un equipaggio tutto matto, McHale’s Navy], La casa dei vampiri (1970), La casa delle ombre maledette (1971) [N.d.T.: ispirati dalla serie Dark Shadows, 1966-1971], mentre un certo numero di episodi “ampliati”di Organizzazione U.N.C.L.E. fu proiettato a più riprese nei cinema nel corso della programmazione dell’intera serie, dal 1964 al 1968. Il piccolo numero di lungometraggi realizzati durante questo periodo di
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“scarsa produzione” sta a significare che i gestori delle sale cinematografiche erano ben felici di proiettare questi “ibridi”.Tuttavia, con l’avvento dell’era dei blockbuster, negli anni Ottanta, queste produzioni sarebbero apparse troppo “televisive” per competere con i film patinati che imperversavano sugli schermi. Cosicché i “film” che riproponevano il cast originale si basavano più frequentemente su serie recentemente cancellate e rimanevano confinati al piccolo schermo (per esempio, gli episodi della serie Colombo della durata di due ore o i film per la televisione Alien Nation), mentre un revival delle serie dei decenni precedenti portò alla produzione di un certo numero di film “nostalgici” per la televisione. (La principale eccezione è rappresentata dai film di Star Trek, dei quali ci occuperemo nella seconda parte di questo studio). Lo stesso atteggiamento nostalgico, alimentato dalle costanti repliche delle vecchie serie sulla televisione via cavo – in particolare di Nick at Nite, la cui programmazione era inserita in una amorevole riproposta della televisione del passato – portò, negli anni Novanta, a una loro riedizione a budget elevato. Se i film precedenti basati su serie televisive avevano comportato il passaggio da un medium all’altro, gli adattamenti degli anni Novanta, spronati dal successo, del 1991, del film di Barry Sonnenfeld, La famiglia Addams, implicarono un remake delle serie televisive in versione cinematografica.1 Sonnenfeld scritturò noti caratteristi come Anjelica Huston, Raul Julia e Christopher Lloyd nei ruoli dei personaggi interpretati in televisione da Carolyn Jones, John Astin e Jackie Coogan. I cast dei remake successivi annoverarono star hollywoodiane del calibro di Mel Gibson, Harrison Ford e Tom Cruise, nei ruoli dei personaggi che gli interpreti originali non erano più in grado di impersonare perché morti o troppo vecchi. A volte vennero mantenuti dei legami con l’originale facendo comparire alcuni interpreti della serie televisiva in particine minori. In La famiglia Brady (1995) appaiono in alcuni camei Florence Henderson, Ann B. Davies, Barry Williams e Christopher Knight. James Garner, il Bret Maverick televisivo, ebbe una considerevole parte nel ruolo secondario dello sceriffo nel film Maverick, per rivelare alla fine, con un bel colpo di scena, di essere quel “Pappy” ripetutamente evocato tanto nella serie televisiva quanto nel film.Tuttavia, la prassi di utilizzare gli attori originali era stata inaugurata in alcuni remake cinematografici, come l’apparizione di Kevin McCarthy nella versione del 1978 di Invasion of Body Snatcher (Terrore dallo spazio profondo), o i camei di Gregory Peck e Robert Mitchum nel remake del 1991 di Cape Fear. I successi di botteghino di alcuni di questi adattamenti di vecchie serie televisive in versioni cinematografiche con un nuovo cast (La famiglia Addams; Il fuggitivo, 1993; Maverick, 1994; La famiglia Brady; Mission: impossible, 1996) prova che l’affezione per i personaggi e le situazioni è di per sé sufficiente, quando l’affezione per gli interpreti della serie non può essere soddisfatta. La prima personificazione televisiva si è guadagnata l’interesse da parte di un pubblico iniziale, così come il nome di Tom
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Clancy o di John Grisham, fornendo un prodotto “garantito” alla produzione. Nella riedizione di queste serie, i realizzatori non si sono sentiti eccessivamente vincolati all’originale – non più di quanto non accada nell’adattamento di un romanzo – nell’effettuare cambiamenti non indifferenti. Il fuggitivo ha completamente stravolto le circostanze dell’omicidio di Helen Kimble e della cattura dell’uomo senza un braccio, inserendo un nuovo omicida per il quale l’uomo senza un braccio ha agito in veste di sicario, spostando l’azione da Stafford (Indiana) a Chicago, trasformando il dottor Richard Kimble da pediatra in chirurgo e il tenente di polizia Philip Gerard nell’agente federale Sam Gerard e così via. In Mission: Impossibile, il super-patriota televisivo Jim Phelps, capo della squadra, diventa un traditore disilluso. Queste alterazioni non hanno in alcun modo impedito a nessuno dei due film di riscuotere un ragguardevole successo di pubblico. Come osserva Nick Gillespie, l’accurata riconcettualizzazione e la ridistribuzione delle parti dei personaggi fissi può rivelarsi un fattore chiave della qualità di questi adattamenti: Dato che [nel Fuggitivo] gli eventi sono compressi, il Kimble di Harrison Ford è via via sconvolto, disorientato e quindi furibondo. Dal momento che l’esperienza di fuggiasco è nuova per il Kimble cinematografico, il senso di urgenza e terrore è maggiore. Viceversa, nel finale della serie televisiva in due parti, il Kimble di David Janssen, comprensibilmente sfiancato da quattro anni di false piste, false speranze e falsi epiloghi, è pressoché privo di emozioni [Gillespie 1994: 55].
Le reazioni a La famiglia Addams che si possono leggere in due recensioni amatoriali su Internet (rec.arts.movies.reviews) rivelano che un nuovo cast può avere successo anche per quel pubblico che ha apprezzato le interpretazioni del cast originale e che molti altri non rimpiangono affatto il cast originale. Frank Maloney, un evidente aficionado della serie televisiva, trattiene a stento il suo entusiasmo: Gli interpreti costituscono un cast da sogno, il tipo di scelta obbligata che risulta da un bel po’ di ricerche.Anjelica Huston è l’unica donna negli Stati Uniti a poter impersonare Morticia altrettanto bene di come aveva fatto Carolyn Jones quasi trent’anni prima, o almeno questa è di sicuro l’impressione che ci dà [...]. Quanto a essere all’altezza della caratterizzazione schizzata di John Astin nel ruolo di Gomez Addams, Raul Julia se la cava egregiamente. [...] Anzi, Julia assomiglia e parla come un Gomez molto più di Astin.2
D’altro canto, un altro recensore, Brian L. Johnson ha creduto opportuno annunciare:“La Famiglia Addams è basato su un’omonima vecchia serie televisiva in bianco e nero. Gli interpreti sono cambiati. Non ho mai visto la serie tv perciò non so se il film sia fedele” [Johnson 1992]. Come indi-
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cano queste vedute contrastanti sui cambiamenti di cast, quando la serie televisiva degli anni Sessanta viene ripresa in versione cinematografica negli anni Novanta, la commistione della generazione precedente che ricorda la serie originale e degli spettatori più giovani che invece non la hanno come riferimento può assicurare un ampio target di pubblico, a patto che l’operazione di adattamento sia stata abilmente confezionata: “sembra che la vena nostalgica sia estremamente elastica e dipenda più dalla rappresentazione attuale che dai trascorsi del prodotto” [Gillespie 1994: 54]. Di conseguenza, le serie televisive si prestano benissimo ad essere adattate con successo per il grande schermo e non semplicemente trasposte. Se gli adattamenti di opere letterarie per lo schermo e i remake di film precedenti sono stati una pratica comune sin dagli esordi del cinema, è sorprendente constatare che si sia dovuto aspettare quasi cinquant’anni dalla nascita della televisione prima che lo stesso tipo di operazione cominciasse a interessare anche questo medium. Dato che i singoli episodi di fiction dell’“età d’oro” della televisione come Marty o Requiem for a Heavyweight avevano conosciuto una versione cinematografica e che, viceversa, centinaia di film si erano trasformati in serie televisive mandate in onda in prima serata – alcuni, come M.A.S.H. e La strana coppia con una lunga programmazione – era evidente che i due media non erano tra loro incompatibili più di quanto non lo fossero letteratura e cinema. In questo senso, a una prima occhiata non si comprende la lunga esitazione nella riproposta delle serie televisive in versione cinematografica. Nei paragrafi successivi, tenterò di fornire alcune possibili spiegazioni. Per prima cosa, malgrado certi esempi antitetici di “riduzione”di film in forma di romanzo, gli adattamenti hanno in genere seguito un percorso a senso unico che andava dai vecchi media elitari ai media più nuovi e massificati. [...] Invece, il percorso inverso apparve a molti del tutto innaturale. Secondo Richard Corliss,“il ricorso passivo all’idiozia televisiva è segno di un’industria cinematografica prossima all’esaurimento creativo” [Gillespie 1994: 53]. Su un tono simile, Joe Brown, recensendo La famiglia Addams, osserva che “Hollywood dev’essere a corto di personaggi dei fumetti da portare sul grande schermo visto che al momento spedisce i propri sceneggiatori a riesumare dagli archivi le serie televisive degli anni Cinquanta” [Brown 1991]. Come nota Gillespie, simili reazioni sono assolutamente prevedibili: L’utilizzo recente delle serie televisive da parte dell’industria cinematografica costituisce dunque un sovvertimento della gerarchia tra piccolo e grande schermo, rovesciamento che naturalmente preoccupa gli appassionati di cinema. Il fatto che il cinema rubi le idee alla televisione è un tradimento estetico, pari alla scoperta che le angolazioni della macchina da presa in Quarto potere erano tolte di peso dai fumetti [Gillespie 1994: 54].
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Gli “appassionati” tolleravano tali sovvertimenti solo nel caso di episodi antologici di serie televisive di alta qualità, che erano praticamente una forma di teatro in versione televisiva. Per le serie di lunga durata, tuttavia, sembrarono emergere diverse complicazioni a fare da ostacolo alla trasposizione cinematografica, al di là della relativa novità e del basso livello culturale del nuovo medium. Una di queste era la differenza della forma narrativa tra una serie e un film autonomo. Come osserva John Ellis,“la sceneggiatura cinematografica tende ad affrontare una nuova problematica, a presentare un nuovo soggetto per ogni film, mentre una serie televisiva ripete la medesima problematica” [Ellis 1992: 106]. Di conseguenza, se un film può inaugurare una situazione “prototipo” che la serie televisiva può in seguito riprendere proficuamente, stando a Ellis è improbabile che la problematica reiterata di una serie non esaurisca del tutto l’interesse narrativo necessario al testo cinematografico autonomo. Associata alla ripetibilità del testo della serie, è la natura diversa del rapporto che gli attori televisivi intrattengono con i personaggi della serie rispetto a quello che gli attori cinematografici intrattengono con il personaggio interpretato in un determinato film.Tanto per cominciare, l’attore televisivo ha impersonato il personaggio per un periodo di tempo ben più lungo delle due ore della durata media di un film.3 Inoltre, molti teorici scorgono una fondamentale differenza nella dinamica attore/personaggio nei due media. Ellis, per esempio, sostiene che l’attore televisivo fa delle apparizioni regolari in una serie di per sé costruita sulla base della riproposizione di un dato personaggio o di una data situazione. L’attore appare inoltre in altre forme sussidiarie di comunicazione (giornali, riviste) per lo più durante il periodo di diffusione della serie. Il risultato è una drastica riduzione della distanza tra l’immagine diffusa e il ruolo interpretato. Attore e personaggio si confondono al punto che l’immagine del primo corrisponde al personaggio della fiction (piuttosto che l’inverso) [Ellis 1992: 106].
Marshall McLuhan, citando fonti aneddotiche, affermava nella sua opera autorevole del 1964, Gli strumenti del comunicare: I turisti di una volta in visita a Hollywood, i fan del cinema, volevano vedere i loro beniamini come erano nella vita reale e non com’erano sullo schermo. I fan del freddo medium tv vogliono vedere il divo preferito nel suo ruolo, mentre quelli del cinema vogliono la realtà [McLuhan 1964: 318].
A cominciare dal passaggio di alcuni artisti dalla radio (e in seguito dal cabaret) alla televisione (Jack Benny, Burns e Allen, Garry Shandling, Jerry Seinfield, Roseanne), in programmi in cui comparivano in versioni romanzate di se stessi, per proseguire con un gran numero di serie (in prevalenza sit-com) talmente incentrati sulle star da identificarsi con il nome degli
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attori e i personaggi da questi interpretati (I Love Lucy, The Andy Griffith Show, Mary Tyler Moore, Newhart, Ellen, Tutti amano Raymond e moltissimi altri), l’apparente fusione tra attore e personaggio conosce un’ampia diffusione in televisione.Al contrario, anche i divi del cinema più noti si sono dovuti accontentare di veder comparire il loro nome nei titoli di testa. Non c’è mai stato un The Marilyn Monroe Movie (anche se è esistito il Muppet Movie, in cui gli attori erano pupazzi provenienti, non a caso, dalla televisione). Tutti questi fattori hanno indubbiamente contribuito a rendere i produttori hollywoodiani poco inclini a rimaneggiare le serie televisive nella loro riedizione su grande schermo. Il fatto che nelle soap opera avvenga un ricambio costante dei personaggi, che nelle serie televisive di successo mandate in onda in prima serata si operino frequenti sostituzioni dei personaggi principali e che il Darrin di Vita da strega sia stato interpretato da Dick York per alcune stagioni e da Dick Sargent per quelle successive, senza creare una significativa disaffezione da parte del pubblico, non è bastato a scalzare il buon senso prevalente. Ci sono voluti gli incassi favolosi al botteghino della Famiglia Addams e di molti altri epigoni degli anni Novanta per cambiare rotta. L’eccezione che conferma la regola? Una delle serie televisive degli anni Sessanta ad essere trasformata in una serie cinematografica ad alti costi di produzione fa eccezione rispetto al contesto storico descritto sopra. Mi riferisco, naturalmente, al particolare caso di Star Trek. Con i sei film prodotti dal 1979 al 1993, divenne l’unica serie televisiva che mantenne il cast originale nei ruoli principali nell’adattamento per il grande schermo a distanza di oltre dieci anni dalla fine della programmazione.4 Questi attori diventarono praticamente un tutt’uno con i personaggi interpretati dopo che la serie si trasformò in un fenomeno di culto con tanto di convention annuali, alle quali gli attori intervenivano regolarmente. Date le circostante, l’ipotesi di un rinnovamento del cast era improponibile. La decisione di mantenere il cast originale creò, a sua volta, altri problemi, in particolare legati al genere azione/avventura dei film e l’invecchiamento degli attori. Questi film illustrano efficacemente le strategie necessarie a realizzare con successo un simile progetto, sollevando allo stesso tempo dei dubbi sulla sua necessità. Il successo dei film di Star Trek è stato considerato come uno dei fattori che hanno finalmente convinto Hollywood dell’opportunità di recuperare il materiale televisivo degli anni Sessanta ma è servito altresì da lezione in merito alla necessità di riadattare tali programmi per il cinema e non limitarsi a una semplice trasposizione.5 Nonostante la scelta di mantenere gli interpreti originali, il proposito dei produttori dei film non era certo quello di limitarsi a una semplice espansione su grande schermo della versione televisiva. I colori acidi anni Sessanta, i modellini grossolani e le scenografie di compensato della serie non erano più convincenti nemmeno in televisione e così Star Trek: il film, del
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1979 – frettolosamente riconvertito in forma di film vero e proprio dopo il lavoro di post-produzione effettuato sull’episodio pilota in vista di una seconda serie televisiva [Reeves-Stevens e Reeves-Stevens 1997] – presentava una Enterprise completamente rimodernata, una nuova foggia di costumi e un’ampia gamma di effetti speciali. Il film dichiarava le proprie intenzioni di differenziarsi dalla serie televisiva nella sequenza di apertura, in cui appariva il cast televisivo, presentando i Klingon con un aspetto radicalmente trasformato grazie alle possibilità offerte da un trucco tecnologicamente più avanzato.A compensare le novità del set, furono mantenute alcune continuità narrative con il passato, compresa una trama centrale molto simile a quella dell’episodio televisivo La sfida e l’implicazione che il nuovo personaggio di Will Decker sia il figlio di Matt Decker, il commodoro della flotta stellare annientato dalla sua ossessione per la “macchina del giudizio universale” aliena nell’episodio omonimo (La macchina del giudizio universale). Star Trek: il film introduceva inoltre alcuni elementi nella trama che sarebbero diventati ricorrenti in tutti i film successivi, elementi che segnalano i disagi incontrati nella nuova esperienza cinematografica nel mantenere il cast originale. [...] Nessuno dei film di Star Trek con il cast della serie originale si è spinto così lontano da sostituire un ruolo interpretato da un attore fisso o da una guest star di rilievo. La soluzione al problema del progressivo invecchiamento degli attori che avevano preso parte alla prima serie (1966-1969) si presentò nell’ambito del mezzo televisivo, quando il successo della serie Star Trek: The Next Generation (1987-1994) dimostrò che era la filosofia stessa di Star Trek, insieme ai personaggi del suo universo e degli attori che li interpretavano, a esercitare un fascino imperituro. La nuova generazione finì per ereditare l’esclusiva cinematografica e nel primo film di Star Trek in cui non compariva più nessun attore della serie originale (Primo contatto, 1996), i produttori osarono finalmente sostituire uno dei ruoli principali della serie originale oltre a operare una trasformazione radicale del personaggio. Parliamo del personaggio di Zefram Cochrane, l’inventore del motore a curvatura che consente all’Enterprise di effettuare viaggi interplanetari, il quale compare per la prima volta nell’episodio del 1967, Guarigione da forza cosmica. Interpretato dalla trentottenne star televisiva Glenn Corbert, Cochrane era il classico ragazzone americano, dall’entusiasmo irrefrenabile e incredibili occhi azzurri. L’episodio televisivo descriveva Cochrane come un umano proveniente da Alpha Centauri, scomparso nello spazio centocinquant’anni prima, all’età di diciotto anni, e ritenuto morto ma salvato e ringiovanito nel corpo dal “Compagno”, specie gassosa di natura femminile che (all’insaputa degli scienziati) era innamorato di lui. In Primo contatto, l’incontro con un Borg manda l’equipaggio della Next Generation in un viaggio a ritroso nel tempo, nel 2061, e precisamente al giorno precedente il primo lancio di Cochrane sull’astronave con propulsione a curvatura di sua invenzione, che permise di salvare la Terra da un’e-
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poca di agitazione post-atomica e la nascita della Federazione Unita dei pianeti da cui trae origine la saga di Star Trek. I Borg sono determinati a impedire questo evento, in modo da “assimilare”la Terra ed impedire la formazione della Federazione.Tuttavia, il Cochrane di Primo contatto è tutt’altra cosa rispetto all’uomo ritratto in Guarigione da forza cosmica o nel romanzo Federazione6, del 1994, di poco precedente alla produzione di Primo contatto. Mentre la cronologia ufficiale di Star Trek attribuisce a Cochrane l’età di trentun anni all’epoca del suo primo, storico volo, lo scienziato nel film è interpretato dal cinquantacinquenne James Cromwell, eccentrica figura alta e allampanata dai lineamenti allungati. Inoltre, il romantico eroe puritano Cochrane si è trasformato in un alcolizzato opportunista che passa il tempo a rimorchiare nei bar e ad ascoltare a tutto volume musica rock degli anni Sessanta, che avrebbe inventato il motore a propulsione curva per un puro tornaconto economico. Infatti, scopre con imbarazzo di essere stato letteralmente messo su un piedestallo dalla storia. [...] L’avvenire dei cast originali Probabilmente non è un caso che la sostituzione di un personaggio della serie originale sia avvenuta solo nel 1996, dopo il consolidarsi di tale prassi nei numerosi adattamenti degli anni Novanta. Il successo di Primo contatto ha rivelato che persino la saga di Star Trek può permettersi di reinventare e sostituire gli interpreti di alcuni dei suoi personaggi originali. La gestione di Zefram Cochrane può aver causato qualche malcontento ma questo non ha impedito di registrare incassi al botteghino sui 92 milioni di dollari nei primi quattro mesi di programmazione nelle sale americane, né che il film fosse annoverato al quindicesimo posto nella classifica dei Top 250 film di tutti i tempi dell’Internet Movie Database. Per adesso, i film di Star Trek non si sono spinti oltre nel ridistribuire le parti dei personaggi ricorrenti e la creazione di tre nuove serie televisive potrebbe procrastinare tale strategia per diversi anni a venire. Nondimeno, solo nel momento in cui le derivazioni dallo Star Trek originale saranno rimaste assenti dalla televisione o dal grande schermo per dieci o vent’anni, probabilmente un futuro Barry Sonnenfeld potrà reinterpretare senza problemi il ruolo di Kirk, Spock, McCoy, Scotty e compagnia bella. Quanto accaduto negli anni Novanta ha dimostrato che, malgrado la loro apparente fusione, è sempre possibile separare i personaggi televisivi dai loro interpreti originali, a patto che l’operazione sia fatta con una certa destrezza. Indubbiamente il rapporto tra i personaggi televisivi e gli attori che li incarnano è molto più stretto di quello che gli attori di un film intrattengono rispetto al ruolo che interpretano. Quando la trasposizione dalla televisione al cinema avviene più o meno contestualmente al periodo di programmazione della serie, la strategia di mantenere lo stesso cast è efficace. Per una serie televisiva di culto come Star Trek, tale strategia si è resa probabilmente necessaria, nonostante l’ampio lasso di tempo tra-
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scorso tra la programmazione della serie televisiva e la trasposizione cinematografica. È senz’altro questa logica che ha motivato la decisione di produrre un film a partire dalla fortunata serie degli anni Novanta X-Files con lo stesso cast televisivo e di farlo uscire nel 1998, al termine della quinta stagione televisiva. Nondimeno, gli anni Novanta hanno dimostrato che la pratica di trasposizione sul grande schermo di serie televisive fa in gran parte leva su una vena nostalgica. Proprio il lasso di tempo necessario a creare tale nostalgia rende però altamente problematico l’impiego degli attori del cast originale nei rispettivi ruoli. I primi sei film di Star Trek, tutti prodotti prima che tale tendenza prendesse piede, forniscono sotto più di un aspetto un materiale di riflessione su questo paradosso. Con la pratica in voga negli anni Novanta, l’intera questione dell’accettazione del cambiamento di cast da parte del pubblico (anche di quello di fenomeni cult) si è semplicemente dissolta. [traduzione di Simona Mambrini]
Note originali del testo 1 Gli intoccabili (1987), diretto da Brian De Palma, fu un successo sia di critica sia di botteghino; e lo stesso vale per la versione cinematografica di Dragnet (La retata) dello stesso anno, con Dan Aykroyd nel ruolo di Jack Webb. Ciò nonostante, nessuno dei due ispirò nell’immediato una corsa su larga scala all’adattamento di serie televisive per il grande schermo. 2 Con quest’ultima affermazione, Maloney intende probabilmente sostenere che Raul Julia è un Gomez più credibile in quanto ispanico. Nondimeno, è interessante il fatto che immagini un Gomez ideale separato dalla sua incarnazione in John Astin o in qualsiasi altro ipotetico interprete. 3 Fanno eccezioni a questa regola i personaggi delle serie cinematografiche, come Nick e Nora Charles in The Thin Man (L’uomo ombra), Indiana Jones o James Bond. 4 Teste di cono (1993), che trae origine da uno sketch della fine degli anni Settanta dello show Saturday Night Live, con gli attori originali (Dan Aykroyd, Jane Curtin e Lariane Newman) nel ruolo dei personaggi, è una parziale eccezione.Va detto che il travestimento da alieno aiutava a dissimulare l’invecchiamento degli attori. 5 Faccio qui riferimento alla distinzione operata da Brian McFarlane tra trasposizione e adattamento (cfr. Novel to Film. An Introduction to the Theory of Adaptation, Oxford, Clarendon Press, 1996), con alcune correzioni. Nel portare un romanzo sullo schermo con un intento di fedeltà, i realizzatori adottano un processo di “trasposizione della narrazione adattando quegli aspetti dell’enunciazione che si è scelto di mantenere ma che resistono alla trasposizione, in modo da ottenere, attraverso un mezzo completamente diverso di significazione e ricezione, una reazione emoti-
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va che evochi nello spettatore la memoria del testo originale senza fargli violenza” (p. 21). Chiaramente, un prodotto televisivo si presta molto più di un romanzo a essere trasferito sullo schermo, ma la gran parte delle versioni cinematografiche tralasciano una quantità considerevole di ambientazioni e interpretazioni presenti nella serie televisiva originale. 6 In questo romanzo (di Judith e Garfield Reeves-Stevens), Cochrane è tratteggiato come un classico eroe romantico, nato sulla Terra ma trasferitosi su Alpha Centauri dopo l’invenzione del motore a curvatura. È lui a stabilire il primo contatto con il popolo dei vulcaniani, come viene descritto anche in Primo Contatto, ma, in Federazione, è Cochrane ad andare su Vulcano, al contrario di quanto avviene nel film, in cui sono i vulcaniani ad incontrarlo sulla Terra. L’unico segno del mutamento del personaggio che doveva avvenire nel film affiora quando Cochrane, invecchiato, si chiede “quando avesse smesso di essere una persona. Nei decenni precedenti in effetti era diventato un’icona, un simbolo per quell’epoca dell’umanità nuova e audace”. Da Ina Rae Hark, The Wrath of Original Cast, in D. Cartmell, I.Whelehan (cur.), Adaptations. From Text to Screen, Screen to Text, London: Routledge 1999, 172-184
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Tamar Liebes e Elihu Katz Né carne né pesce: perché Dallas non ha avuto successo in Giappone Precedentemente, abbiamo sostenuto che i giudizi critici non sono meno coinvolgenti delle affermazioni referenziali. L’inquadramento cognitivo del serial può costituire una fonte di considerevole soddisfazione, nonché un biglietto d’ingresso non meno valido dell’inquadramento referenziale alle reti di discussione di questi programmi. L’esame del focus group giapponese ci ricorda che l’atteggiamento critico non è necessariamente coinvolgente. Definiamo coinvolgente l’inquadramento critico quando le affermazioni analizzate provengono da spettatori regolari, nonché entusiasti, di Dallas. I loro giudizi critici su genere, funzione drammatica, mimesi etc. – così come le loro reazioni giocose nei confronti dei personaggi – hanno consentito loro di godere del programma mentre lo analizzavano.Anche i giudizi basati su un’opposizione ideologica al programma provenivano da coloro che, pur criticandolo, ne erano attratti. [...] Il lato critico non deve necessariamente essere associato soltanto al godimento sofisticato della visione analitica, ma può altresì portare al rifiuto e al disimpegno.Anche se gratificante, lo studio analitico può allontanare dal programma piuttosto che favorire l’immersione in esso. Il focus group giapponese è stato quello più prodigo di giudizi critici rispetto agli altri gruppi; al contrario, le affermazioni referenziali sono state molto limitate. Questo può essere dovuto alla mancanza di cono-
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scenza del programma e dei suoi personaggi (Dallas è stato cancellato dalla televisione giapponese dopo soli sei mesi di programmazione); oppure a fattori estrinseci, come il titolo fuorviante del programma o, anche, come hanno suggerito alcuni, alla fascia oraria – seconda serata – in cui il programma veniva trasmesso. Ma il motivo di questo atteggiamento negativo può altresì risiedere nel fatto che il programma è stato esplicitamente vagliato e scartato, per ragioni che cercheremo di determinare. Come mai i giapponesi hanno bocciato gli Ewing mentre molti altri paesi, sebbene non tutti, li hanno accolti con tanto entusiasmo? Per rispondere a questa domanda, esamineremo sia le ragioni esplicitamente addotte dai membri del focus group, sia le spiegazioni implicite nelle loro discussioni. L’ampia percentuale di giudizi critici espressa dai giapponesi va considerata il risultato della combinazione tra il loro atteggiamento originario nei confronti del programma proposto dall’emittente televisiva tv Asahi e il ruolo di cui si sono presumibilmente sentiti investiti, nel momento in cui li abbiamo messi a guardare e a commentare un programma che sapevano essere stato un insuccesso. Il gruppo giapponese si distingue dalle altre comunità etniche non solo per l’approccio a freddo al programma, ma altresì nella percezione delle finalità della ricerca. Se i russi credevano che non notassimo che guardavano il programma malgrado un certa dose di pregiudizio, i giapponesi si aspettavano di aiutarci a capire perché continuavano a mantenersi coerenti nel loro pregiudizio di non guardare il programma. Se i marocchini si sentivano sotto esame, e i russi pensavano di essere loro a metterci alla prova, i giapponesi si consideravano una sorta di consulenti nella definizione dei limiti della diffusione della cultura popolare americana oltre i confini nazionali. Si potrebbe aggiungere che i giapponesi possono considerarsi, più degli israeliani e degli americani, un pubblico “forzato”, che in altre circostanze avrebbe abbandonato la visione del programma, come hanno affermato alcuni dei partecipanti. Non bisogna dimenticare che i giapponesi hanno un’offerta televisiva molto ampia, costituita dalla prestigiosa televisione pubblica NHK e da una varietà di reti commerciali. I generi della televisione giapponese sono un misto di forme tradizionali e occidentali; particolarmente rilevante ai fini della nostra indagine è la versione giapponese della soap opera, il cosiddetto drama. Diversamente da Israele, dove l’unica alternativa della domenica sera erano gli Ewing, in Giappone il palinsesto televisivo offriva una vasta scelta di programmi nazionali, verso i quali pubblico avvertiva evidentemente una maggiore affinità. Fa riflettere il fatto che, se Israele avesse una propria soap nazionale che venisse mandata in onda contemporaneamente a Dallas, il programma locale avrebbe quasi sicuramente la meglio. È una situazione che constatiamo in altre nazioni le cui produzioni autoctone di soap sono più popolari, o per lo meno non meno popolari, di quelle, molto più elaborate, di importazione.
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Dopo la visione del primo episodio del serial americano, i membri del gruppo giapponese rifiutarono l’invito al coinvolgimento multidimensionale da parte del programma, ostentando caparbiamente una distanza critica e sottraendosi sia alle tentazioni referenziali sia alle tentazioni ludiche. Insomma, rifiutarono di appassionarsi, per poi ammettere che in un altro momento – quando l’America era il loro modello – il programma avrebbe potuto interessargli. E anche adesso, dice qualcuno, una volta superato l’impulso iniziale di giudicare incompatibile il programma, avrebbero potuto cominciare ad apprezzarlo. In altre parole, ci troviamo di fronte a un complicato esercizio nella ricerca di un posizionamento coerente. Tralasciando queste complessità, cercheremo di approfondire la questione della compatibilità culturale per rispondere alla domanda:“Perché Dallas è stato un insuccesso in Giappone?”. La lettura pura e semplice delle trascrizioni delle discussioni degli undici focus group giapponesi porta inesorabilmente ad affermare che gli spettatori giapponesi hanno considerato Dallas incompatibile con i loro valori e i loro gusti.Tuttavia, il tema dell’incoerenza che emerge da queste discussioni aiuta, secondo noi, a spiegare le ragioni dell’insuccesso di Dallas in Giappone. Ma, soprattutto, crediamo che in questo concetto siano racchiuse le fondamentali aspettative della cultura giapponese. Se abbiamo visto giusto, il nostro metodo di ricerca può rivelarsi utile non solo per capire le differenti letture e reazioni nei confronti di un prodotto culturale straniero, ma anche per un’antropologia spicciola delle differenze culturali. Il che significa che riteniamo utile immergersi non nel testo autentico di un’altra cultura, ma nelle decodifiche effettuate da parte dei membri di quella cultura di un testo estraneo alla loro cultura. Durante la seconda guerra mondiale, Ruth Benedict (1947) e Margaret Mead (1953) hanno cercato di studiare culture inaccessibili, in particolare quella giapponese, attraverso un’attenta lettura dei loro film. Queste studiose cercarono di inferire i valori della cultura dalle sue rappresentazioni visive (e verbali). Noi abbiamo scelto di studiare una cultura “a distanza”, attraverso l’osservazione dei membri di differenti gruppi etnici che interagiscono con un prodotto esemplare della cultura popolare americana. Dalle nostre osservazioni emergono confronti rivelatori dai quali possiamo inferire alcuni dei valori delle culture riceventi e la natura dei concetti critici, così come le aspettative estetiche, morali, sociali e psicologiche che ciascuna cultura ha nei confronti dell’intrattenimento televisivo. [...] Incoerente e incompatibile: perché Dallas non ha avuto successo in Giappone I gruppi di discussione giapponesi hanno messo ripetutamente in evidenza le incoerenze e le incompatibilità del programma. Una serie di incoerenze riguarda la semantica, ossia le contraddizioni riscontrate nella storia e nelle azioni dei personaggi.Anche a livello sintattico, per i giapponesi, il
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programma fa fatica a inserirsi in qualsiasi genere riconosciuto, e in particolare disattende le aspettative del genere soap nel quale essi lo collocano.A livello pragmatico, i giapponesi sono infastiditi dalle incompatibilità tra le modalità di narrazione americana e la percezione della propria cultura e della propria condizione socioculturale. Secondo la loro percezione, la storia è compatibile con un’epoca precedente della cultura giapponese, dalla quale si sono ormai allontanati, e verosimilmente rispecchia la cultura, percepita come tipicamente americana, di un’America che è stata da poco abbandonata come modello di comportamento – come afferma uno spettatore. Alcuni mettono in dubbio la realtà americana che il programma pretende di descrivere. Queste sono le diverse forme di valutazione estetica in base alle quali i gruppi giapponesi analizzano il programma e nello stesso tempo giustificano la loro riluttanza o incapacità a farsene coinvolgere. Incoerenza nella semantica della storia Gli spettatori giapponesi sono molto attenti alle incoerenze nella costruzione della storia. Secondo loro, la storia “non è né carne né pesce”. Se Bobby e Pamela fuggono insieme, presumibilmente contro il volere delle rispettive famiglie, come fanno a tornare nel ranch di famiglia subito dopo la luna di miele, per essere accolti a braccia aperte? Se sono tanto ricchi, come mai si preparano la tavola da soli e non hanno un precettore privato per i loro figli? Incongruenze di questo tipo sembrano sconcertare gli spettatori giapponesi e minano la credibilità del programma:“Se si parla di una famiglia, come mai non c’è né amore né armonia? Mancano gli elementi ‘patetici’” (gruppo 6).A volte, tuttavia, tali incongruenze sono giudicate positivamente; alcuni spettatori giapponesi hanno apprezzato il fatto che gli Ewing fossero così ricchi da avere un elicottero privato ma che le mogli si occupassero da sole della propria valigia (gruppo 1). I giapponesi erano inoltre turbati da un problema di realismo, in particolare dal fatto che i personaggi non sono credibili e del divario esistente tra la storia e l’immagine dell’America, in particolare dell’America abbiente. “È la storia di un mondo a parte” ha detto qualcuno.“Sì” ha convenuto un altro membro del gruppo “è proprio un mondo a parte. È una storia irrealistica” (gruppo 6). I personaggi sono troppo stereotipati per gli spettatori giapponesi, mancano di spessore: “Mi piacerebbero dei personaggi più complessi, con qualche sfumatura”, ha detto un membro del gruppo 1. Non c’è un vero sviluppo dei personaggi. “Anche i cattivi dovrebbero avere una qualche debolezza” (gruppo 9), “in modo da poter suscitare compassione nello spettatore” (gruppo 5).“Sotto questo aspetto, Dallas assomiglia più a un western”, ha osservato uno spettatore del gruppo 5, dove i buoni sono sempre buoni e i cattivi inesorabilmente cattivi. In altre parole, i personaggi sono caratterizzati come buoni o cattivi, forti o deboli in maniera eccessivamente stereotipata, mancando delle contraddizioni che caratte-
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rizzano un essere umano agli occhi di un giapponese. Colombo, ad esempio, è amato in Giappone per la sua affabilità e perché non nasconde la sua debolezza. I cattivi, in Dallas, sono sempre tutti d’un pezzo. Le donne sono sempre troppo forti, prive delle insicurezze che rendono attraenti le donne. I gruppi di discussione giapponesi erano concordi nel non voler vedere le donne perennemente in lacrime, giudicandolo un atteggiamento troppo antiquato; ma trovavano eccessiva la loro sicurezza. Alcuni hanno ammesso di preferire vedere la donne bistrattate, come nel popolare drama seriale Oshin. I personaggi di Dallas sono spudorati e non nascondono in alcun modo la loro passione per il potere, i soldi e il sesso. Le scene di avances tra colleghi o di avventure compromettenti sono piuttosto esplicite in Dallas e i giapponesi fanno fatica ad accettarle. Nel complesso, il programma offende la sensibilità dei giapponesi per quanto riguarda le regole di comportamento pubblico e privato adeguate a raggiungere e mantenere relazioni armoniose. Per i giapponesi, i personaggi sono piatti e, per di più, ai loro occhi si assomigliano tutti.Almeno nella prima fase della visione della serie, ai giapponesi riusciva difficile distinguere un personaggio dall’altro! “La storia è troppo semplice e banale” (gruppo 5);“La trama è complessa ma i personaggi sono troppo semplici”. Tutti, però sono d’accordo nel ritenere J.R. un’eccezione a questo eccesso di semplificazione, dal momento che è insieme buono e cattivo, anche se non abbastanza complesso.“In Dallas, i cattivi si mostrano apertamente malvagi, mentre nel drama giapponese sono più astuti e subdoli” (gruppo 5). I giapponesi avvertono un’incongruenza tra l’immagine dei ricchi che viene data in Dallas e la loro idea dell’autentica ricchezza in America. Diversamente dai gruppi di altre culture, alcuni gruppi giapponesi considerano Dallas complessivamente sciatta – negli abiti, nelle case, nei personaggi, etc. – e non sono persuasi che si tratti del ritratto di una ricca famiglia americana. Altri spettatori giapponesi, che accettano la famiglia Ewing come una dinastia, obiettano che il matrimonio basato sull’amore romantico appartiene alla media borghesia e non all’alta società. [...] Forse, allora, la storia rispecchia la società di un’America pre-moderna o, perché no, post-moderna, piuttosto che quella dell’America che ha conquistato il Giappone.Alcuni spettatori ipotizzano che l’America di Dallas sia quella dell’epoca rozza dei pionieri, oppure il ritratto del futuro declino americano. Le immagini del Texas rinviano a un ambiente dal carattere sublime, intrepido, spietato, dove regna una società dinastica e basata sullo sfruttamento. Per altri spettatori, Dallas potrebbe essere un dramma sociale – lo stesso genere in cui annoverano il teatro di Checov –, in cui il tradimento e il complotto nell’ambito della famiglia e della classe sono metafore del crollo dell’egemonia americana. Nondimeno, qualche sporadica voce considera credibile il programma:“A parte il ranch e i soldi” ha affermato una spettatrice “il programma ha
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suscitato in me una certa compartecipazione e me ne sono sentita attratta” (gruppo 1). Incoerenza sintattica A un livello più astratto, si pone ugualmente la questione dell’incoerenza per quanto riguarda la costruzione della storia. Se si tratta di un melodramma, si chiedono, come mai comincia solo dopo il matrimonio tra Bobby e Pamela e non durante il corteggiamento? E se è una storia d’amore, come mai Pamela è pronta a giurare fedeltà alla ricca famiglia rivale, responsabile della rovina della sua? Nelle parole di Kyooru (gruppo 5), “Se fosse un melodramma, lei avrebbe detto ‘Andiamocene da questa casa’”. Se è un racconto di pura evasione – e vedremo che ai giapponesi piace questo genere – allora perché non si dà libero sfogo ai sentimenti e alla felicità? Le vicende narrate sono più adatte a un documentario, sostengono, solo che ovviamente non si tratta di un documentario. Un documentario illustrerebbe l’autentica natura dell’alta società, e cioè che i matrimoni sono strumentali e non romantici.Allora perché non si decidono? “Non è né questo né quello”: non è una storia di fantascienza e non è una storia tradizionale, afferma un altro spettatore (gruppo 3). A parte il plot, i giapponesi hanno da ridire anche sulla sceneggiatura e la regia. Secondo loro, il programma è piatto e privo di accento. Non che manchino le crisi, ma si tratta piuttosto di una serie ricorrente di crisi che non costituiscono un crescendo, privando in tal modo lo spettatore dell’opportunità di una catarsi.Anche il ritmo del programma viene criticato: per alcuni è troppo veloce, per altri troppo caotico. Al contrario della soap americana che si prolunga all’infinito – cosa di cui i giapponesi ovviamente si lamentano – il drama tende a raccontare ogni volta una storia autonoma (con lo stesso personaggio che appare ogni volta con un nuovo problema, come in una serie piuttosto che in un serial), oppure la storia è serializzata ma articolata, attraverso una concatenazione di puntate, verso una risoluzione o uno scioglimento nell’ultimo episodio. La soap americana di successo non prevede un episodio finale: quelle più popolari vanno avanti da oltre trent’anni. Un’ulteriore incoerenza rilevata dagli spettatori giapponesi riguarda il titolo e la pubblicità intorno al programma. I membri dei gruppi di discussione che hanno visto un episodio fino alla fine si sono resi conto di essere stati indotti a farsi un’idea sbagliata di Dallas.Alcuni avevano associato il titolo all’assassinio di Kennedy; altri si erano immaginati “il deserto arido e soffocante” privo di “qualsiasi traccia di amore e umanità”.Altri ancora non comprendevano che cosa c’entrasse una città industriale con la storia di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. I membri del gruppo di discussione hanno sottolineato il fatto che tali associazioni erano poco allettanti o fuorvianti. Alcuni hanno addirittura sostenuto che se non fossero stati messi fuori strada dalle immagini fuorvianti, probabilmente avrebbero deciso di guar-
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dare il programma.Alcuni, poi, sono arrivati ad ammettere di potersi interessare al programma se fosse mandato di nuovo in onda. La questione dei titoli non è ovviamente da sottovalutare, ed è tanto più rilevante nell’ottica della diffusione dei prodotti culturali oltre i confini nazionali. In effetti, si può sostenere che Dynasty è stato rinominato Il clan di Denver in Germania proprio per trarre vantaggio dall’affinità con il suo predecessore, Dallas. [...] Incoerenza rispetto alle aspettative di un drama giapponese Oltre alla delusione per l’incoerenza e l’inverosimiglianza nella costruzione della storia, gli spettatori giapponesi sono contrariati dall’incompatibilità tra Dallas e il tipo di serialità televisiva a cui sono abituati. Non è solo la struttura della narrazione a essere criticata, ma la sua stessa pragmatica. In altre parole, gli spettatori giapponesi si rammaricano di non riuscire a farsi coinvolgere emotivamente. Il fatto è che guardano Dallas avendo come riferimento il drama giapponese.A loro giudizio, in Dallas ci sono troppe storie e troppi personaggi, il che lo rende un programma troppo impegnativo, nel senso che costringe lo spettatore a rimanere in sospeso nel bel mezzo di un conflitto in corso nell’una o nell’altra storia. C’è scontento per il fatto che l’episodio non sia autonomo e non si chiuda su una nota lieta. Ai giapponesi non piacciono i finali problematici.“Se ogni episodio si fosse concluso con un lieto fine, forse sarebbe stato diverso” ha affermato Misato (gruppo 8). Un membro di un altro gruppo ha aggiunto che i giapponesi vogliono andare a dormire felici. Ma, come è evidente da alcuni degli esempi precedenti, i giapponesi vogliono anche qualcosa su cui sognare. “Dallas non ci fa sognare”, si lamenta un membro del gruppo 9.Vogliamo qualcosa di romantico, dicono molti altri, manifestando il desiderio di essere coinvolti emotivamente dal programma. O ci date qualcosa che conosciamo, qualcosa in cui possa riconoscersi la gente normale, con un lavoro e una vita ordinaria, oppure ci date una storia romantica, ha detto un membro del gruppo 8. Non ci fanno ridere ma non riusciamo nemmeno a identificarci con loro, ha detto un membro del gruppo 5, ribadendo l’aspetto del “né carne né pesce” che la critica giapponese attribuisce a Dallas, considerandolo un programma difficilmente classificabile in termini di genere.“Gli mancano gli elementi tipici del telefilm giapponese: gli elementi di umanità” (gruppo 6). Alcuni spettatori hanno trovato il programma troppo violento (gruppo 5) e privo di “quel calore e di quell’amabilità” che si aspettavano; ad esempio, manca quella convivialità del pranzo familiare, che è uno dei topoi del drama giapponese. Molti spettatori hanno espresso la loro delusione giudicando il programma faticoso e stressante (gruppo 7). Dallas “è molto cupo”, affermano i gruppi 1 e 6.“Non vogliamo rimanere infelici fino alla prossima settimana”, è l’opinione generale. Un programma americano molto apprezzato in Giappone è stato La casa
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nella prateria. Quello, secondo loro, è un buon telefilm, fatto di personaggi buoni, problemi risolti, apertura agli estranei, temi romantici ed episodi autonomi. In conclusione, per i giapponesi, Dallas è un drama mancato. Pericolo! Conclusioni Abbiamo cercato di dimostrare che un tema fondamentale, se non forse quello principale, nelle reazioni dei giapponesi a Dallas è quello dell’incongruenza. Dallas è incongruente nella storia, nel titolo, nei confronti del genere a cui dovrebbe appartenere e delle aspettative di romanticismo che i giapponesi hanno verso questo genere, così come nei confronti dei criteri estetici della narrazione televisiva, dell’immagine che loro hanno della società americana del dopoguerra e della propria, e, infine, nei confronti della loro idea di umanità. Si tratta in parte di un’incoerenza intrinseca e di contraddizioni apparenti, e in parte di un’incompatibilità tra prodotto culturale e pubblico.Anche nelle reazioni al programma da parte dei gruppi russi e arabi abbiamo riscontrato un alto grado di incompatibilità culturale – morale nel caso degli arabi e degli ebrei marocchini, ed estetica nel caso degli ebrei russi –, ma ciò non ha impedito a nessuno di questi gruppi di guardare e di appassionarsi al programma. I russi, addirittura, si sono scusati con un certo imbarazzo per essersi mostrati tanto entusiasti! Ne consegue che incoerenza e incompatibilità costituiscono un deterrente molto maggiore per i giapponesi rispetto agli altri gruppi. È interessante ricordare a questo proposito l’osservazione di Michael Arlen (1980) secondo cui una delle attrazioni di Dallas è proprio la sua spregiudicatezza morale, come se l’incoerenza fosse una regola per una società moderna che sta esperimentando – almeno nell’esperienza ludica della visione televisiva – l’assenza di aspettative chiare, coerenti e strutturate. Per Arlen, il punto di forza di Dallas è proprio la sua incoerenza e le sue improvvisazioni normative, alle quali anche gli spettatori sono invitati a partecipare. Da un punto di vista strutturalista, si potrebbe aggiungere che la forma estetica del programma, e non solo il suo contenuto, nasce dalle combinazioni di generi inverosimili e contraddittori come la soap opera, il western, più la storia sentimentale (Newcomb 1982), una variante mafiosa di Via col vento, una detective story violenta inserita in una saga familiare. I giapponesi, meglio degli altri gruppi, vedono tutto questo, ma lo rifiutano. Quello televisivo non è lo spazio adatto per le sperimentazioni: un telefilm dev’essere un telefilm e niente di più. [...] Una possibile base di conciliazione potrebbe essere il riconoscimento del fatto che i giapponesi hanno una particolare sensibilità verso le forme artistiche o estetiche: per loro l’arte – sia quella popolare sia quella tradizionale – deve rientrare nei canoni della forma prescelta. Un’altra possibilità è sottolineare il fatto che gli spettatori giapponesi non si sono ribellati a un’incongruenza di tipo morale, bensì di tipo cognitivo. Quello che sem-
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bra turbarli è l’inverosimiglianza della situazione; non sostengono che una tale situazione sia sbagliata, ma semplicemente che non ha senso che Bobby e Pamela scappino per sposarsi e poi tornino a casa senza bisogno di spiegare, negoziare o riconoscere la contraddittorietà di queste due azioni. Forse è la rapidità della transizione a disturbarli, l’azione senza spiegazione verbale. La mancanza di sottigliezza è profondamente avvertita: nel montaggio, nelle relazioni umane e nei personaggi. La rudezza è incompatibile con le loro aspettative nei confronti della vita e dell’arte. È perciò possibile che i giapponesi pratichino una moralità opportunistica, ma non ammettano l’incoerenza sul piano della logica narrativa. [traduzione di Simona Mambrini] Da Tamar Liebes e Elihu Katz, The Export of Meaning. Cross Cultural Readings of Dallas, New York: Oxford University Press, 1990, 130-139
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A Abanes Richard 155, 157 Abbey Edward 156, 157 Abrams Jeffrey Jacob 21, 36, 122, 137, 141 Abruzzese Alberto 80, 111 Adorno Theodor W. 54 Agnese Chicco 31 Akass Kim 30 Allen Debbie 28 Allen Gracie 205 Allen Woody 120 Altman Rick 15, 106, 116 Altman Robert 27, 28 Amber-Thiessen Tiffany 170 Amos Tori 172 Anderson Chris 43, 74 Anderson Gillian 137 Anderson Jerry 133 Ang Ien 83 Arlen Michael 217 Ariosto Ludovico 97 Arquette David 173 Astin John 202, 203, 209 Autelitano Alice 35, 36 Aykroyd Dan 209 Azoulay Ariella 160, 165 B Bachtin Michail M. 28 Ball Alan 122 Ball Lucille 23, 80 Balzac Honoré de 4, 99 Bandirali Luca 115, 116
Barrymore Drew 172 Barthes Roland 105 Baudrillard Jean 105, 111 Bauman Zygmunt 44 Bazin André 62 Becker Howard 190, 196 Benedek Laszlo 153 Benedict Ruth 212 Benjamin Walter 53, 106 Benny Jack 205 Benveniste Emile 109, 111 Berg Gertrude 201 Bittanti Matteo 42 Black Joel 162, 165 Bochco Steven 120, 121 Boiardo Matteo Maria 97 Bolter Jay David 46 Booker M. Keith 31 Bordwell David 4, 131, 196 Boreanaz David 167 Bowman Rob 26, 155, 156, 157, 186 Brahm John 153 Brancato Sergio 4 Braningau Edward 93 Brendon Nicholas 167 Bristow Sidney 21,137,138,139,151 Bronfen Elisabeth 160, 164, 165 Brooker Will 40, 45 Brown Joe 204 Bruno Marcello Walter 55 Brunsdon Charlotte 189, 196 Buonanno Milly 9, 10, 11, 83, 180 Burns George 205 Busse Kristina 51
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C Calabrese Omar 79, 81, 82, 99, 100, 101, 107, 111, 112 Caldwell John Thornton 29 Calvino Italo 2 Campbell Neve 173 Candalino Ninì 30 Cannon Danny 161 Canova Gianni 37, 145 Cantor Muriel G. 83 Cardini Daniela 1, 2, 3, 19 Carpenter Charisma 167 Carpenter John 151 Carter Chris 136, 137, 139, 146, 152, 153, 155, 157 Cartmell Deborah 184, 210 Casetti Francesco 1, 21, 31, 55, 59, 70, 71, 79, 80, 81, 83, 87, 93, 112 Cawley James 48 Checov Anton 214 Childs-Helton Barry 195, 196 Clancy Tom 203 Cochran Robert 35, 44, 138, 174 Coco Attilio 115, 116, 136, 145 Colombo Fausto 2, 7, 69, 185 Comand Mariapia 298 Coogan Jackie 202 Conan Doyle Arthur 7, 37, 75 Corbert Glenn 207 Corel Denys 35, 176, 180 Corliss Richard 204 Cosby Bill 23, 80, 147 Costa Antonio 101, 184 Cox Courteney 173 Craven Wes 147, 151, 166 Creeber Glenn 14, 15, 17, 180 Crichton Michael 34 Cromwell James 208 Cruise Tom 202 Curreri Lee 28 Curtin Jane 209 D D’Alessandro Angelo 80 Dall’Asta Monica IX, 5, 6
Da Ros Giada 19 Damerini Leopoldo 13, 34 Darley Andrew 162, 165 Davies Ann B. 202 Davis William B. 141 Dayan Daniel 43 de Certeau Michel 193, 196 De Luca Alessandra 25 De Palma Brian 25, 152, 209 Defoe Daniel 36 Del Pozzo Diego 121, 144, 145, 146, 148, 166, 1753 Deleuze Gilles 93 Democrito 109 Di Chio Federico 15, 31 Dickenson Elyse 159, 165 Divine Elisabeth 163 Doherty Shannen 170 Douglas Michael 135 Douglas Pamela 33 Duchovny David 136 Dumas Alexandre 4, 94 Dutton Clarence 156 Dyer Richard 161 E Eco Umberto 3, 9, 11, 12, 14, 25, 28, 54, 55, 82, 93, 101, 110, 112, 185, 186 Ellis John 18, 49, 104, 205 Elsaesser Thomas 3, 83, 101, 107 Emmerich Roland 153 Ephron Nora 23 Eugeni Ruggero 2, 7, 69, 185 F Fabbri Marina 157 Fanchi Mariagrazia 6, 60, 71 Ferraris Maurizio 111 Ferraro Guido 29 Feuillade Louis 5 Fiedler Leslie 156, 157 Finney Charles 152 Fiske John 68, 188, 196 Florey Robert 153
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Focillon Henri 109, 111 Ford Harrison 202, 203 Ford Henry 2, 107, 111 Forgacs David 68 Frankenheimer John 154 Friedberg Anne 162, 165 G Garner James 202 Garner Jennifer 137 Gasnier Louis J. 5 Gellar Sarah Michelle 167, 173 Genette Gérard 28 Geninasca Jacques 82 Gerani Gary 154, 157 Gerbner George 72 Gertner Jon 19 Gervasini Mauro 27 Gibberman Susan R. 12 Gibson Mel 179, 202 Gil Fernando 111 Gillespie Nick 203, 204 Gomarasca Manlio 22 Grandi Roberto 83, 187 Grasso Aldo 8, 16, 30, 38, 80, 113, 118, 121, 145, 149, 200 Greeley Horace 156 Gregg Josiah 156 Greimas Algirdas Julien 111 Griffith David W. 6, 7 Grignaffini Giorgio 14, 31, 55, 116, 117, 118, 132, 136, 180 Grignaffini Giovanna 100, 101 Grusin Richard 46 Guagnelini Giovanni 28 Gundle Stephen 69 Gwenllian-Jones Sara 53 H Hague Albert 28 Hamilton Guy 152 Hannigan Allyson 167, 170, 173 Haraway Donna 161, 162, 165 Hark Ina Rae 26, 184, 186, 201, 210 Hartley John 16
Hatton Josh 162 Hauer Rutger 167 Hawkins Sophie B. 172 Hayden Ferdinand V. 156 Head Anthony Stuart 167 Hearst William Randolph 107 Hellgenberger Marg 163 Henderson Florence 202 Henriksen Lance 137 Hertenstein Mike 12 Hills Matt 182, 183, 200 Hitchcock Alfred 10, 156 Hobson Dorothy 83 Hofstadter Richard 154, 155, 157 Holmes Katie 171 Holt Jennifer 200 Horkheimer Max 54 Huston Angelica 202, 203 I Innocenti Veronica 8, 13, 23 J Jackson Joshua 171 Jackson Sourdough 196 Jakobson Roman 105, 109, 111 Jancovich (o Jankovich) Mark 30, 131, 200 Janssen David 203 Jenkins Henry 32, 41, 44, 58, 131, 182, 183, 188, 189, 192, 194, 196, 198, 199, 200 Johnson Brian L. 203 Johnson Steven 119-121, 124, 131, 132, 200 Jones Carolyn 202, 203 Jones Gerard 11 Julia Raul 202, 203, 209 K Kapinos Tom 115 Katz Elihu 42, 186, 187, 210, 218 Kennedy Jackie 76 Kennedy John Fitzgerald 141, 152, 215
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Kierkegaard Søren 93 Kiersch Fritz 152 King Stephen 69, 152 Klaver Elizabeth 160, 165 Knight Christopher 202 Koenig Walter 48 Kring Tim 66 Kristeva Julia 28 Kubler George 111 Kubrik Stanley 133 Kudrow Lisa 23 Kuhn Annette 69 Kurosawa Hakira 127 Kuzui Rubel Fran 27, 167 L La Polla Franco IX, 12, 17, 144, 145, 146, 150, 151, 157 LaPaglia Anthony 141 Lancaster Kurt 199, 200 Larbalastier Justine 52 Lavery David 40, 66,132, 200 Leisen Mitchell 153 Lessig Lawrence 48 Lester Mark L. 97, 172 Leucippo 109 Levinson Barry 122 Lévy Pierre 73 Lewinski Monica 152 Lewis Jerry 96 Lewis Lisa A. 183, 196 Liberti Fabrizio 152, 157 Liebes Tamar 186, 187, 210, 218 Lipsitz George 192, 197 Little Tracy 148 Llewellyn Nigel 160, 165 Lloyd Christopher 202 Losey Joseph 152 Love Hewitt Jennifer 173 Lupino Ida 153 Lynch David 26, 29, 122, 166 Lyons James 30, 200 M MacKenzie Donald 5
Madonna (Louise Veronica Ciccone) 130, 188 Maio Barbara 21 Maloney Frank 203, 209 Manzoli Giacomo IX, 184 Margaria Fabrizio 13, 34 Marshall Jack 48 McCabe Janet 30 McCarthy Kevin 202 McFarlane Brian 209 McGowan Rose 173 McLuhan Marshall 205 Mead Margareth 212 Méliès George 84 Menarini Roy IX, 25, 145, 146, 149, 150, 173 Menoni Orio 1 Meyrowitz Joshua 31, 68 Mitchum Robert 202 Mittell Jason 30, 113, 114, 115, 116, 121, 131, 132 Modlesky Tanja 105, 106 Monroe Marilyn 76, 206 Monteleone Franco 53, 80, 181 Morin Edgar 54, 111 Morley David 189, 197 Moseley Rachel 18 Murnau Friedrich Wilhelm 170 Myrick Daniel 41 N Nash Roderick 157 Nattiez Jean Jacques 111 Newcomb Horace 16, 217 Newman Lariane 209 Nolan Christopher 35 O O’Quinn Terry 141 Olson Scott Robert 28, 39 Outcault Richard F. 4 P Pal Gorge 152 Palmer Patricia 197
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Parenti Gian Paolo 15 Parker Alan 27, 28 Peacock Steven 180 Pearson Roberta E. 53 Peck Gregory 202 Perry Luke 170 Pescatore Guglielmo 73, 79 Petersen William 142 Petitot Jean 110, 111 Phillippe Ryan 173 Phillips Irna 75 Phillips Todd 25, 186 Pike Zebulon 156 Pinedo Isabel Cristina 160, 161, 165 Platone 109 Poe Edgar Allan 163 Pollack Sydney 155 Popper Karl 113 Porter Lynnette 40, 66, 200 Powell John Wesley 156 Pozzato Maria Pia 55 Pratesi Carlo Alberto 31 Priestley Jason 170 Prinze Freddie Jr. 173 Pulitzer Joseph 107 Pullen Kirsten 199 Q Quaresima Leonardo 101 Queneau Raymond 100 R Radway Janice 188, 197 Ray Gene Anthony 28 Re Valentina 28 Reeves-Stevens Garfield 207, 210 Reeves-Stevens Judith 207, 210 Rifkin Ron 140 Risham John 203 Robson Hillary40, 66 Roddenberry Gene 48, 76 Rodriguez Robert 172 Romagnoli Gabriele 118, 119, 121 Roseanne (Barr) 205 Rose Brian 11
S Sánchez Eduardo 41 Sargent Dick 206 Sawday Jonathan 160, 165 Scaglioni Massimo 16, 53, 61, 69, 183,184, 197, 200 Schulman Paul H. 154, 157 Scorsese Martin 81 Scott Ridley 133, 153, 180 Searle Dawley James 5 Seinfield Jerry 205 Serling Rod 76, 146 Sfardini Anna 45 Shandling Garry 205 Shankman Adam 47 Sirk Douglas 102 Siti Walter 67 Smith Kerr 171 Smith Greg 23 Smith Henry Nash 156, 157 Smythe William E. 156, 157 Sobek Linda 163, 164 Sonnenfeld Barry 202, 208 Sorkin Aaron 122 Spaziante Lucio 34, 115 Spencer Bud (pseudonimo di Carlo Pedersoli) 185 Spielberg Steven 34, 152, 156, 171, 172, 180 Staiger Janet 42 Steinberg Hank 141 Stout Rex 94 Sue Eugène 4, 7, 75 Surnow Joel 35, 44, 138, 174 Sutherland Donald 167 Sutherland Kiefer 138, 174 Sutherland Kristine 167 Swanson Dorothy 30 Swanson Kristy 167 T Tait Sue 148, 149, 158, 165 Takei George 48 Tanenbaum Brad 163 Tashlin Frank 97
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Teague David W. 156, 157 Telgenhoff Gary 159, 165 Teodoli Angelo 31 Terrone Enrico 36, 115, 116, 181 Thompson Kristin 4, 30 Thompson Robert J. 29, 34 Todorov Tzvetan 151, 157 Totò (Antonio De Curtis) 185 Tranfaglia Nicola 111 Trier Lars Von 132 Tronti Mario 111 Tungate Mark 42 Turnbull Sue 147 Twain Mark 157 Tyler Moore Mary 22, 80, 206 U Ungari Enzo 61 V Van Der Beek James 171 Vande Berg Leah R. 118 Volli Ugo 53, 183 W Waller Gregory A. 17
Wayne John 96 Weis Elisabeth 27 Whedon Joss 122 Whelehan Imelda 184, 210 Whitford Bradley 128 Williams Barry 202 Williams Michelle 171, 172 Williams Raymond 16, 104 Williamson Kevin 166, 170, 172 Wilson Julie 164 Winckler Martin 121, 180 Wölfflin Heinrich 109, 111 Wyatt Justin 42 Y York Dick 206 Z Zaccuri Alessandro 146 Zagarrio Vito 107, 181 Zemeckis Robert 36 Zerubavel Eviatar 71 Zimmer Bradley Marion 191, 197 Zˇ izˇek Slavoj 150, 179, 180 Zuiker Anthony E. 142, 161 Zynda Thomas H. 17
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2008 presso Press Service, Firenze