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Italian Pages 116 Year 1965
PUBBLICAZIONI DELLA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI «S. PAOLO» DI ASSISI
GIOVANNI ROMANO BACCHIN
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
ISTITUTO EDITORIALE UNIVERSITARIO - ASSISI 1965
Union* Arti Grafiche • CBtà di CasMlo 1966
INTRODUZIONE
Non credo di esagerare se dico che le uniche opere di filosofia del linguaggio che possano dirsi veramente tali — a parte spunti e note ed osservazioni sparsi un pò ovunque — e non solo di questi ultimi anni, sono opere che non intendono trattare ex -professo del linguaggio e sono, anzi, opere metafisiche. E ciò non stupisce se alla filosofia del linguaggio si chiede innanzitutto di essere filosofia ed alla filosofia di essere « metafisica » nel senso più rigoroso della parola. Il migliore esito della contemporanea attenzione prestata al linguaggio da parte di studiosi di provenienze culturali le più disparate è, penso, l'acuirsi della sensibilità critica nel suo uso, nella scelta appropriata dei termini in vista di un rigore effettivo delle varie ricerche. E si ha un linguaggio delle scienze (in cui pare che le scienze si risolvano) e si ha un linguaggio della filosofia (che si risolve — come tale —• in filosofia teoretica, nell'atto del filosofare che esso non può esaurire né « definire ») e si hanno altri linguaggi, circoscritti e circoscriventi l'umana esperienza. In ciascuno va cercato il « rigore » che è metodologicamente la necessità di non estendere un linguaggio ad ambiti per i quali non sia stato « costruito » o nei quali più non si riconosca ciò che l'ha fatto nascere. Ora, il rigore stesso della ricerca filosofica importa che ad essa non si pervenga trascinandosi dietro i pesi di un linguaggio che, nato in altro terreno, induca estrapolazioni, falsi miraggi, rappresentazioni inadeguate, crisi apparenti. Di fatto, l'opera del filosofo nei confronti delle attuali ricerche intorno al linguaggio si risolve proprio nel liberare (meglio : purificare) la filosofia con la sua autentica problematica da problemi fittizi, rivelando criticamente i punti in cui si generano più facilmente gli equivoci e le discussioni meramente verbali.
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INTRODUZIONE
Tale opera è, tuttavia, condizionata all'attuarsi effettivo della filosofia, per così dire all'interno di se stessa e non solo in confronto con altre attività umane. Ma è proprio questo collocarsi e radicarsi profondo del filosofo nella filosofia, che, escludendo rigorosamente ogni interesse che non sia autenticamente filosofico, accredita anche una filosofia del linguaggio che non sia solo una « riflessione critica » sul linguaggio, o un'analisi di linguaggi effettivamente disponibili, o linguistica generale od anche curiosità erudita. Una volta chiarito — ed è chiarimento molto importante — che la filosofia non è da risolversi nel pensiero così detto « scientifico », non ha più senso per la filosofia condizionarsi alle tecniche operative di cui si avvalgono le scienze e i loro linguaggi particolari. Del resto, la stessa espressione « filosofia del linguaggio"» come l'espressione « filosofia della scienza », rivela che scienza e linguaggio sono passibili di una ricerca che non coincide semplicemente con la posizione — anche critica — dei loro termini. In ogni caso, se l'intima intenzione delle « filosofie del linguaggio », dai frammenti di Parmenide, al Cratilo platonico, alla Sprachenphilosophie di VON HUMBOLDT, alla « Languistique generale » del De Saussure al Tractatus di Wittgenstein, alla « Sintassi logica del linguaggio » di R. Carnap, alle ultime rielaborazioni a carattere più informativo che costruttivo (e che caratterizzano la produzione italiana in materia), secondo vari intenti, è di raggiungere una sufficiente consapevolezza del linguaggio fino alla sua giustificazione fondante, è non solo possibile, ma necessario enucleare tale « intenzione » nella sua purezza e vederne l'intima consistenza ed è questo, appunto, il compito della filosofia o il modo di considerare il linguaggio in filosofia. Con che il filosofo è ancora a casa sua dove del linguaggio non si chieda come psicologicamente o socialmente si origini, né come si possa adeguare alle cose che con esso si vuole « dire » o « comunicare », ma si chieda a quali condizioni il linguaggio, o segno o semantizzazione o forma di pensiero, sia pensabile. Portata al limite, là dove solo il filosofo può pervenire con il suo totale ricercare, la ricerca sul linguaggio radica in se stessa la differenza di cui ci si serve, di fatto, tra « linguaggio » e « lingua » e non solo per una proposta, ma per una intrinseca necessità : « linguaggio » volendo essere il pensiero in quanto dicibile o significabile e tale a prescindere dai « segni » di cui una lingua di fatto dispone.
INTRODUZIONE
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E questo importa che del linguaggio si determini la « struttura » nella sua originarietà ; che è l'originarietà stessa del concetto di « struttura » e del « concetto », appunto, o « pensiero » di cui è « struttura ». La presente ricerca dei « fondamenti » della filosofia del linguaggio si collega, pertanto, direttamente a due gruppi di lavori, per un verso affini anche se nati indipendentemente e in altro clima : ovviamente i miei lavori teoretici precedenti, a cominciare dal lavoro Su le implicazioni teoretiche della struttura formale (i), ed i lavori teoretici di Emanuele Severino, specialmente la Struttura originaria (2) e Studi di filosofia della prassi (3) nei quali risultano rigorosamente tolte le pregiudiziali da cui ci si muove per considerare « filosofia » ciò che è, al più, « cultura », interesse alle « cose », più che al loro intimo senso, che è poi il senso dell'essere. Non tutto del pensiero metafisico del Severino io accolgo, ma molto del suo pensiero io incontro sulla mia strada procedendo indipendentemente da lui, ed a partire dalla originaria impostazione problematica del pensiero classico che ritengo sia stata fatta valere nella sua purezza da Marino Gentile (4), del quale mi onoro di essere discepolo. Se nella pura problematicità, che è il totale problematizzare o discussione totale, i singoli contenuti di asserzione sono revocabili in dubbio, dissolvibili nella loro pretesa consistenza, indissolubile, irrevocabile appare, invece, la « struttura » ed il « concetto » che la dà ed in cui la struttura è, piuttosto, l'originario strutturarsi del « trascendentale », che è essere e pensare, pensare perchè essere. Di un più chiaro recupero del livello trascendentale si avvale questo mio ultimo lavoro nei confronti del lavoro Sulle implicazioni teoretiche detta struttura formale, perchè il trascendentale si chiarisce qui non solo come struttura, ma come l'impossibilità che in esso « struttura » e « funzione » si distinguano, e non, piuttosto, che « funzione » del trascendentale sia dissolversi o vanificarsi come « oggetto » non appena lo si pensi, essendo esso ciò in virtù di cui si pensa e si dice. (1) (2) (3) (4)
Roma, 1963. E . SEVERINO, La struttura originaria, Brescia, 1958. E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, Milano, 1962. Si veda soprattutto di M, GENTILE, Filosofia e Umanesimo, Brescia, 1948,
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INTRODUZIONE
Questo vanificarsi del trascendentale è dialettico ed è l'attestazione dialettica che il linguaggio, nato per « significare », non può valere dove non valgano l'i oggettivazione », l'« entificazione », la « cosalizzazione » dell'esperienza e che l'uso filosofico del linguaggio è la critica dissoluzione della sua pretesa di significare la totalità. Ed ogni cosa è, nella sua concretezza o pienezza d'essere, la totalità di se stessa. Del linguaggio ci si serve dunque, in filosofia, per dire che con il linguaggio non si dice di filosofico se non la necessità di considerarlo tutto condizionato, necessità di dire nonostante il linguaggio, dialetticamente.
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SOMMARIO : i . Il carattere filosofico della presente ricerca. — 2. 77 carattere dialettico, 0 negatorio della filosofia. — 3. La dialettica dell'identico livello. — 4. La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. — 5. / limiti di validità dell'analisi nella filosofia del linguaggio. — 6. Limili di validità e valore. — 7. Come è possibile una filosofia del linguaggio. — 8. Concetto di « teoria » e sua riduzione. — 9. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell'intellettualismo. — io. La nozione ateoretica dello « in generale » come base della teoria. — 11. Riduzione del procedimento analitico all'inde' terminato, cioè al contraddittorio. — 12. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato. — 13. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. — 14. La domanda totale e la totalità domandata. — 15. L'intero della domanda totale e della totalità domandata. — 16. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare. — 17. La domanda come riferirsi in atto alla risposta. — 18. La problematicità della « definizione » concettuale. — 19. L'intersoggettività come dimensione dialettica. — 20. La struttura dialettica dell' implicazione.
§ 1. — II carattere filosofico della presente ricerca. La presente ricerca sul linguaggio si colloca sul piano filosofico puro (1) e, da un punto di vista esclusivamente filosofico, si svolge in ordine alla domanda di come il linguaggio possa venire giustificato e perciò di come possa giustificarsi una ricerca filosofica intorno ad esso, che le due cose coincidono. Coincidono perchè la giustificazione è, essenzialmente, la fondata attribuzióne di un valore in base al quale si giustifica il processo stesso onde si perviene a questa attribuzione ; e così la giustificazione del linguaggio è il linguaggio nel suo valore e la filosofia del linguaggio procede consapendo o sapendo insieme, se stessa e il valore del linguaggio nel suo essere tale. Con che si (1) La parola « puro », d e t t a per indicare la filosofia nella sua teoreticità, determina il carattere intrinseco della filosofia, ossia la filosofia è pura o non è filosofia.
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CAPITOLO PRIMO
chiarisce che la filosofia del linguaggio è il linguaggio stesso nel suo venire considerato dalla filosofia od anche il linguaggio nella filosofia. È così che si rivendica la piena autonomia del filosofare, anche nel caso della filosofia del linguaggio, in quel caso, cioè, in cui, di fatto e per le molteplici implicanze dei vari linguaggi disponibili, più difficile appare l'autonomia del filosofare. La facile — invero banale — osservazione che definire la filos ofia come « giustificazione » è presupporre qualcosa alla ricerca e che la stessa parola « giustificazione » appartiene al linguaggio che si intende giustificare, onde non sarebbe legittimo porsi originariamente ad un livello filosofico puro nei confronti del reale, e del linguaggio in particolare (i), va tolta con quest'altra osservazione, che ogni ricerca, a qualsiasi livello, in tanto legittimamente si pone in quanto « motivata » in ordine al valore che le si attribuisce e questa motivazione ha però senso solo dove il valore venga consaputo nel suo autentico senso, ossia come « giustificazione », la quale è, si voglia o no, filosofia. E la filosofia, come totale e perciò pura problematicità (2), non può risultare (3) « condizionata » senza cessare di essere ; il che significa che è indispensabile porre in questione ogni forma di « condizionamento » che di essa si pretende e da parte delle scienze e da parte dei linguaggi dei quali esse si strutturano e da parte del « linguaggio comune » di cui pure si abbisogna per farsi intendere, e da parte di quella particolare scienza che è la scienza delle strutture logiche o « sintassi logica del linguaggio ». Così, se questi « condizionamenti » vanno messi in questione, e se filosofia si intende questo radicale epperò totale questionare, non sarà mai possibile rinunciare alla autonomia del filosofare e non sarà il linguaggio, nella sua struttura e nella sua funzione, a compromettere questa autonomia ; che, se ciò si pensasse, si dovrebbe pur sempre pensare o che il linguaggio è tutta la filosofia e, di conseguenza, non è linguaggio perchè altro non avrebbe (1) È l'osservazione che mi muoveva L. GEYMONAT a proposito in « Sapere scientifico e sapere filosofico », Simposio a Padova, i960. (2) Rimando il lettore agli altri miei lavori teoretici, rispetto ai quali il presente è un ulteriore approfondimento della problematicità come è intesa nel pensiero di M. Gentile. (3) Una filosofia che « risultasse » sarebbe già t u t t a condizionata e riproporrebbe il problema del valore di ciò da cui la si fa risultare, problema teoreticamente spostato, mai risolto.
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da comunicare se non se stesso e non potrebbe, perciò, « comunicarsi », o che esso è un particolare « caso » (particolare anche se insopprimibile e sempre presupposto) di una totalità in cui si inscrive ed è tale da non potersi mai convertire in essa. Questa totalità, appunto, che pur con il linguaggio si comunica, è dal linguaggio indipendente se questo si inscrive in essa e tale indipendenza è già l'autonomia del dire la totalità, che è la totalità nel suo affermarsi o filosofia che afferma se stessa : il pieno epperò concreto affermarsi della filosofia. § 2. — II carattere dialettico, o negatorio (i), della filosofia. La forma più comune — e perciò stesso più banale — in cui, implicitamente od esplicitamente, appare il dubbio intorno al significato ed al valore della filosofia è quella vagamente « storicistica » che pretende alla misura del vero come « attuale » e della « attualità » come « contemporaneità », nel senso delle rappresentazioni collettive (2) delle quali si materia ciò che è, di volta in volta, e per tutti i tempi, « il nostro tempo », « la moda del tempo ». Tale forma è in effetti la domanda : « la filosofia ha ancora qualcosa da dire nel nostro tempo ? », la quale domanda, presa nel suo significato preteso, suppone in ogni caso risolto o mai discusso che cosa significhi « dire qualcosa » ed « avere ancora da dire » e « nostro tempo » ; essa suppone tutto questo perchè è dal senso comune che essa muove ed è in esso che si mantiene, cosicché il suo valore dipenderebbe solo e tutto dalla rilevanza di quel « senso comune » in filosofia, ma, dove si pervenga a tale consapevolezza, è già dissolta la pretesa di porre una simile domanda intorno alla filosofia, perchè la consapevolezza critica del limite del senso comune (nonché delle questioni che esso suscita ed alimenta) è già « filosofia » (3). Quella domanda, presa nel suo effettivo significato, si semplifica nella seguente : « la filosofia ha qualcosa da dire ? ». Perchè, (1) « Negatorio » diciamo e non « negativo », perchè la negazione vi compie la funzione positiva della riaffermazione del limite o dialetticità essenziale al filosofare, p e r l a quale il negativo è condizione al rilevamento del vero, dove tutto sia messo in discussione (ipotetizzato come non vero). Cfr. G. R. BACCHIN, Originarietà e mediazione nel discorso metafisico, Roma, 1963. (2) Per « rappresentazioni collettive » intendo l'uso comune di parole non sufficientemente consaputo nelle sue ragioni : di t u t t i e di nessuno. (3) Si veda, a proposito, il Cap. I I , § 3.
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se essa, come filosofia, ha avuto qualcosa da dire, essa, restando filosofia, ha ancora ed avrà sempre qualcosa da dire e se ora risultasse che come filosofia essa non ha nulla da dire, ciò significherebbe che essa non ha mai avuto qualcosa da dire, nonostante l'apparenza contraria. Qui l'appello alla storicità, per dire che la filosofia svolgendosi ha perso di attualità, dovrebbe significare che la filosofia ha cessato di essere filosofia, donde la necessità di tornare ad essere ciò che era per essere ancora filosofia, oppure che essa non è mai stata filosofia e perciò non è mai stata attuale e che lo svolgimento storico all'interno di essa, quello che porterebbe alla dissoluzione della filosofia, vale solo a mostrarne l'illusorietà ; illusorietà però che solo la filosofia ora potrebbe rilevare, perchè dovremmo chiamare filosofia almeno questa consapevolezza raggiunta, nonché il processo per raggiungerla. E la filosofia avrebbe per unico compito di eliminare se stessa ; il quale compito è ovviamente contraddittorio e perciò si elimina, restituendo così il compito incontraddittorio della filosofia, quel compito che è, a rigore, tutto nella sua stessa incontraddittorietà, nella incontraddittorietà dell'essere che per esso si rivela (nel tentativo frustrato di negarlo), precisamente il compito «metafisico » (i). È fuori dubbio, comunque, che alla domanda se la filosofia abbia qualcosa da dire, nel senso che si giustifichi come filosofia, si suppone che solo la filosofia possa rispondere, che ad essa ci si rivolge e non avrebbe senso attendere una risposta da chi non tende o pretende alla filosofia ; dove è almeno implicito che, se tale domanda ha un senso, questo senso è ancora filosofia, per cui, a rigore, non ha alcun senso porsi questa domanda se non come consapevolezza che la filosofia attua di se stessa (2) ; dovrebbe pensarsi cioè fuori dubbio ciò che darebbe « senso », o valore, alla domanda relativa intorno ad esso e il dubbio così non avrebbe senso. La massima concessione che si può dunque fare a chi pone domande filosoficamente banali (3) è che queste domande possono venire poste solo banalizzando il loro stesso senso, cioè sup(1) Cfr. G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p . 4 0 ; L'originario come implesso esperienza - discorso, Roma, 1963, p. 79. (2) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico nel filosofare, Roma, 1963, p . 12. (3) È filosoficamente banale il discutere sulla base di « presupposti ».
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ponendo che la filosofia sia l'unico senso che esse potrebbero avere : che se ciò di cui si dubita è il senso stesso del dubitare, dubitare non ha più senso. § 3. — La dialettica dell'identico livello. Il rifiuto della filosofia a prendere in considerazione queste pretese è per lo meno giustificato quanto il rifiuto della filosofia da parte di chi non ne vede la ragione ; per lo meno, diciamo, non perchè effettivamente sia così, ma perchè così si pretende e solo tanto si è disposti a concedere alla filosofia se ci si pone a discuterla a partire dal senso comune (e mantenendosi in esso). Questa parità di diritti compare con l'atteggiamento di generica tolleranza con cui il senso comune può contraffare l'autentica ricerca che è problematicità ; generica tolleranza, proprio perchè si può « tollerare » solo genericamente, ossia come atteggiamento o disposizione, non come critica consapevolezza dell'« oggetto », cosicché la « tolleranza » si rivela piuttosto una rinuncia alla critica che una disposizione ad attuare pienamente la critica. Ma anche a porsi in questo atteggiamento di tolleranza, che è rinuncia, la filosofia e chi la nega negandole ciò che le spetta si dispongono inevitabilmente al medesimo livello, quello stabilito dalla supposta parità di diritti, il quale, proprio perchè identico per entrambi gli atteggiamenti, deve essere filosofia, la quale, così, nega la negazione che si pretende di essa e, non subendo negazione, caccia dal suo piano chi pretende negarla. Non si può negare, cioè, che la parità di diritti venga inizialmente supposta, perchè la questione sorge solo a condizione che si suppongano inizialmente compossibili i suoi termini, che sono qui la filosofia e la sua negazione, compossibilità che è l'assunzione ad un medesimo livello dei due opposti (non v'è opposizione se non all'interno di una supposta omogeneità) (i), per cui, tolta l'identità di livello tra i termini in questione, è tolta la questione, la quale si toglie sdoppiandosi in una negazione mai pertinente e in un negato sempre fuori negazione : la negazione della filosofia, non orientata a questa, non sarebbe e la filosofia, mai veramente negata, continuerebbe ad essere. È così che, a partire dall'identico livello, nella figura da chiun(1) Cfr. ARISTOTELE, Metaph.,
ITI, 2 ; IV, 6 ; Cai.,
X.
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CAPITOLO PRIMO
que facilmente concessa della iniziale parità di diritti tra la filosofia e chi la nega, mettendo in evidenza con un atto di natura filosofica che almeno questa identità di livello sarebbe filosofia (se i livelli fossero diversi, la negazione non sarebbe mai pertinente), si conclude escludendo (i) proprio quella parità di diritti, riducendola a semplice pretesa che è discussione teoreticamente nulla. L'identico livello, supposto nella figura della parità di diritti, sarebbe dunque in qualche modo « filosofia », perchè, se non lo fosse, di essa non si potrebbe dire che è, né si potrebbe pretendere che essa non sia. Ora, basta che essa sia in qualche modo filosofia perchè sia veramente filosofia, perchè l'insufficienza del modo è qui, piuttosto, l'insufficienza di chi lo intende (o pretende) vero, mentre che la filosofia sia già annunciata in questo « qualche modo » deriva dal fatto che essa è sempre presente anche se oscuramente consaputa (2). § 4. — La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. Se la filosofia è il porsi e l'attuarsi del processo di giustificazione, la filosofia del linguaggio è il linguaggio come tale, ossia la presenza del linguaggio nel suo concetto (3) ; con ciò resta escluso (1) « Concludere escludendo » è, propriamente, procedere negando valore alla premessa da cui si p a r t e (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc. cit., App. § 14, la riflessione esplicativa dell'unità). (2) Questa perenne presenza della filosofia non viene constatata come un fenomeno che l'esperienza offre constantemente (ciò potrebbe valere, al più, per stabilire che vi sono, ossia esistono, taluni che si dicono « filosofi »), m a viene recuperata col tentativo di negarla, ossia dialetticamente ; la dialetticità del metodo filosofico importa la dialetticità della sua affermazione : è dialettica anche l'affermazione della dialetticità del filosofare, essa è una cosa sola, cioè, con la filosofia stessa. (3) Quali e quanti sono i problemi del linguaggio ? Il problema dell'origine, dello sviluppo del linguaggio, della struttura dei sistemi linguistici, del significato delle espressioni linguistiche, della funzione del linguaggio. Di fatto, questi problemi vengono distinti t r a loro ed è, invero, utile circoscrivere ciascun problema onde approfondire la conoscenza dei suoi termini, m a una a t t e n t a riflessione su tale problematica rivelerebbe che ciascun problema richiama l'altro e della soluzione eventuale dell'altro si avvale. Cosi, ad esempio, il problema della funzione del linguaggio si collega con quello dell'origine e costituisce insieme a questo il problema più fondamentale della « natura » del linguaggio. Usando delle classificazioni di Morris e di Carnap si potrebbe denominare «sintattico» il problema della s t r u t t u r a e «semantico» quello del «significato».
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che si possa pensare una critica al concetto come tale mediante l'analisi del linguaggio ; che è quanto dire che il linguaggio, nel suo concetto, non può venire considerato analizzando un particolare linguaggio, procedendo questa analisi solo a supporre la unità -unicità del concetto di linguaggio. Questa considerazione ci consente di osservare come il valore della cosidetta « filosofia analitica » sia da demandare a quel senso lato per cui « analisi filosofica » sarebbe « ogni filosofia fondata su generiche operazioni di analisi, di riflessione, di interpretazione, e simili (cioè ogni filosofia non meramente mistica o intuizionistica) » (i) ; e bisognerà subito stabilire come si possa parlare di filosofia analitica o d'analisi filosofica, se la filosofia è essenzialmente dialettica e se il linguaggio deve essere anche il linguaggio della filosofia. Si vedrà più avanti l'intreccio tra filosofia del linguaggio e linguaggio filosofico ; per ora è sufficiente determinare che cosa venga presupposto al concetto di una filosofia « fondata (2) su operazioni Sintassi e semantica rappresentano cosi le due dimensioni fondamentali dell'analisi linguistica : come « sintassi » il linguaggio è pura forma logica, come « semantica » il linguaggio è pura esperienza, donde la necessità di riesaminare il rapporto esperienza-struttura (cfr., a proposito, il mio lavoro che ritengo fondamentale all'intelligenza della presente indagine : .SM le implicazioni teoretiche della struttura formale, Roma, Iandi-Sapi, 1963 ; specialmente capp. IV, VII, V i l i ) . (1) A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, Bologna 1962, p . 19. (2) Si sa che la parola fondamento è metaforica e richiama l'immagine della « costruzione » : è fondamento ciò su cui si costruisce. Ricercare il fondamento significa, cioè, determinare ciò su cui posare l'intera costruzione filosofica, la quale costruzione non può venire posata su di una qualche base, se non si possiede, previamente, la conoscenza del rapporto t r a la base e la costruzione stessa, rapporto che determini la proporzione t r a costruzione e (suo) fondamento : non ogni costruzione abbisogna del medesimo fondamento. Nel caso della costruzione filosofica poiché la filosofia si pone intenzionalmente in ordine alla totalità, la determinazione del fondamento sarà ordinata a « sopportare » la totalità. Ora, essendo il fondamento della totalità inevitabilmente interno alla totalità, fondare la totalità non è possibile senza intendere che è la totalità a fondare se stessa (nel senso che il fondamento della totalità è determinabile all'interno della stessa totalità e che lo si può determinare solo a condizione di possedere questa totalità). Paradossalmente, per trovare il fondamento della costruzione filosofica bisogna disporre dell'intera costruzione filosofica, per trovare ciò su cui poggia la filosofia bisogna disporre della filosofia. Pertanto, la determinazione del fondamento non precede la costruzione filosofica, né la segue, m a l'accompagna in qualsiasi momento del suo processo : non la precede, perchè senza la costruzione il fondamento sarebbe fondamento di nulla, non la segue perchè senza il fondamento la costruzione, « infondata », è nulla, m a l'accompagna nell'intero processo perchè l'intero prò-
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d'analisi ecc. ». Dove si prenda per « filosofia » un discorso fondato direttamente su operazioni anziché su valori, bisognerà anche riconoscere che una filosofia che si fondasse su operazioni dovrebbe essere tutta nelle operazioni che la fondano e queste dovrebbero esaurire in se stesse il valore in funzione del quale però si costituiscono come operazioni. Il valore della « filosofia analitica » dovrebbe consistere, cioè, non in ciò cui l'analisi, come operazione tende, ma nell'analisi stessa, che, se è solo un metodo (se non fosse solo un metodo sarebbe anche dottrina), è un metodo considerato fuori relazione, «metodo» e non « metodologia », ossia òSó? che non ha termine, un « andare » senza meta. Che, se si vuole dare « consistenza » all'operazione, bisogna presupporle una filosofia che, condizionando l'analisi, non può subirne i procedimenti né strutturarsi degli stessi termini nei quali l'analisi si pone e si attua ; d'altro canto, l'analisi è possibile solo dove si assuma l'oggetto da analizzare come « analizzabile », come già analiticamente disposto : l'analisi del linguaggio suppone una filosofia che consenta di considerare il linguaggio come un complesso di termini, costatandone i modi e i nessi, precisamente la concezione empirica del linguaggio, quella che solo l'empirismo può consentire. L'empirismo sarebbe qui scelto come filosofia per la duplice ragione che di una filosofia si ha bisogno per condizionare (e situare culturalmente) l'analisi del linguaggio e che solo l'empiricesso è « presente » in ogni sua « p a r t e », costituendo appunto il « senso » o il « verso » dello svolgimento, presenza che è la totalità per cui ed in cui solo può dirsi che « qualcosa » è o diviene. Il metodo teoretico della determinazione del fondamento è dunque la constatazione che il fondamento della totalità, o fondamento filosofico, non può essere estraneo alla totalità, che anzi solo nella totalità esso è reperibile, per cui, in effetti, la totalità non si costruisce come fondata, bensì come condizione alla sua possibilità di fondare, essendo ciò entro cui ha senso porre il fondamento, od anche è essa il porsi stesso di quel fondamento Con ciò dovrebbe concludersi che la totalità, coincidendo con il fondamento, non ha fondamento, ossia che è la totalità a fondare se stessa, ad essere eie il proprio fondamento. Ma, in questi termini, facendo coincidere il fondamento filosofico con la costruzione filosofica, si è dissolto il problema del fondamento di tale costruzione e si è resa vana la ricerca del fondamento. Dire che la totalità fonda se stessa e dire che il fondamento è fuori ricerca, è dire la stessa cosa : che il fondamento non può non esserci e che questa necessità non è essa il fondamento.
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smo consente di guardare il linguaggio come un « meccanismo scomponibile pezzo (i) ». Dal disposto combinato delle due ragioni si evince facilmente che il motivo della preferenza data all'empirismo da parte degli analisti è tutto condizionato alla loro intenzione di operare sul linguaggio empiricamente e non è, perciò un motivo, venendo a coincidere con l'azione che esso dovrebbe motivare. Del resto lo stesso empirismo non ha una sua ragione, perchè esso rinuncia esplicitamente a giustificarsi, dal momento che assume come giustificazione proprio ciò che abbisogna di venire giustificato : quell'empirico cui esso riduce l'esperienza, costituendosi come funzione logica di questa, non riesce ad assorbire l'esperienza, né a giustificarla ; cosicché si può dire che il « nominalismo » è ancora empirismo, nonostante l'apparenza : il nomen è fatto sussistere come « cosa » tutta mentale (flatus vocis), ma ancora come « cosa » che in qualche modo sussista. Il grande movente, che di moventi si può qui parlare più che di motivi, dell'analisi del linguaggio è la difficile situazione in cui ci si viene a trovare quando si affronta un discorso filosofico mantenendosi al livello empirico, che è per l'impossibilità non consaputa di ridurre all'empirico l'intero arco del filosofare : non potendo intendere il linguaggio filosofico e tanto meno comprenderne le ragioni, si decide di commisurarlo con il linguaggio usuale previa mente assunto come ordinario » (2), rifiutando ciò che di quello appare irriducibile a questo ; dove la ragione del rifiuto è solo il fatto che non si vede perchè si debba accettare, e si rifiuta, così senza una vera ragione. Si può dire con Filiasi-Carcano che le difficoltà presentate dal neopositivismo potrebbero valere, piuttosto, come una « incapacità di intendere » (3). § 5. — / limiti di validità dell'analisi in filosofia del linguaggio. Per poter parlare di « analisi filosofica » o di « filosofia analitica » (4) è necessario precisare il senso in cui si attua in filosofia (1) Cfr. U. SCARPELLI, / Fondamenti e il metodo della analisi del linguaggio, in a II pensiero americano contemporaneo », Milano, 1958, p . 186. (2) Cfr. U. SCARPELLI,
op. cit., p . 186.
(3) Cfr. P . FILIASI-CARCANO, Dall'analisi alla filosofia del linguaggio, in « Archivio di Filosofia », 1955, p . 19. (4) Non si può veramente utilizzare l'analisi come strumento di chiarifica-
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l'analisi e, precisamente, se l'analisi sia compossibile con la filosofia e, in caso, se essa sia un momento del processo filosofico o ne esaurisca l'intero processo. Ma, per stabilire se l'analisi sia compossibile con la filosofia, va stabilito il senso in cui l'analisi può dirsi un processo in sé concluso anziché un procedimento finalizzato a momenti ulteriori ; per « processo » intendo qui lo svolgimento di un'iniziale assunzione da cui non è dato uscire e il cui risultato è già « preconcetto » all'inizio ; per « procedimento » intendo il passaggio da un « momento >> ad un altro, nessuno dei quali « proconcetto » in altro, epperò passaggio che presuppone il disporsi dei termini l'uno all'altro ulteriore. In questo senso, anche il procedimento, ove venga totalmente consaputo, si inserisce in un processo, e non si converte perciò in esso e mantiene, pur sempre.u la distinzione da qesto, così come si mantiene in atto la distinzione tra atto e operazione. Ora, se l'analisi è un procedimento, è anche un'operazione, epperò un agire su termini presupposti, il cui valore è tutto in quei termini e quindi tutto presupposto e la funzione dell'analisi sarebbe allora quella di disporre quei termini nel modo più chiaro, ma non per questo più vero, che la « chiarezza » è sempre relativa alla necessità di uscire da una precedente oscurità o confusione (i), la quale può venire riconosciuta solo dove già si sia in qualche modo usciti da essa, usciti in virtù di quell'atto stesso che stabilisce la necessità di uscire. Non potrei, infatti, sapere che debbo chiarificare un discorso se non sapessi che esso è oscuro, se non sapessi, cioè, che esso è insufficientemente chiaro, chiaro solo relativamente ad una situazione che ho già superato, situazione variabile, quindi, e che, variando, determina di volta in volta, come per una funzione matematica, i diversi gradi di chiarezza. Se l'analisi, come procedimento e quindi operazione, ha dunque la funzione ( = il compito) di chiarificare il discorso, essa non può non dipendere da un canto dalla effettiva distinzione dei termini zione e « consapevolizzazione » del linguaggio, se non si perviene alla piena consapevolezza della utilizzabilità dell'analisi come tale : è quanto manca per lo più alle impostazioni essenzialmente « storiche », meglio « informative », delle quali si comincia ad abbondare anche in Italia ; si veda, ad esempio, l'opera citata del Pasquinelli. (i) È da esaminare a parte il nesso t r a « chiaro » e « distinto », non due criteri, ma uno : è chiaro ciò che è distinto.
I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
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sui quali si esercita, dall'altro dalla variabile situazione conoscitiva di chi la esercita : il suo valore è, così, da una parte tutto presupposto, dall'altra tutto costruito ; in entrambi i casi sempre predeterminato all'analisi da qualcos'altro che resta sempre esterno alla analisi e perciò ad essa essenzialmente irrilevante. Perchè l'analisi abbia, come analisi, un qualche valore bisogna che essa si consapevolizzi, a sua volta, come processo nel quale i termini, tra loro distinguendosi e rapportandosi, mantengano un inscindibile nesso con la totalità in cui si collocano, nesso che è, dialetticamente, la presenza della totalità in essi, quella presenza che l'analisi deve solo presupporre e su cui essa non può venire esercitata : il nesso con la totalità che l'analisi suppone non ha carattere analitico. Dove la totalità venisse meno, meno verrebbe la possibilità dell'analisi, la quale non può modificare la totalità proprio perchè, al limite, non la può mai escludere ; e se « filosofia » diciamo, con termine operativo, questa totalità, l'analisi in filosofia non ha alcun valore. § 6. — Limiti di validità e valore. Così, la ricerca dei limiti di validità dell'analisi in filosofia approda alla esclusione di valore all'analisi in filosofia, ma non esclude la necessità dell'analisi come procedimento inerente alla precisa determinazione nel linguaggio dei semantemi che vi compaiono, che la funzione dell'analisi è insostituibile nella misura in cui questi semantemi si distinguono effettivamente tra loro. Di qui la necessità di procedere con rigore e di valutare l'analisi in relazione a questo rigore, non, viceversa, il rigore in base all'analisi dei singoli termini dei quali si fa imprescindibile uso. Se, infatti, il rigore fosse da progettare come risultato della analisi, l'analisi dovrebbe progettarsi non in funzione della chiarezza, ma in funzione della verità del discorso e questa sarebbe da pensarsi alla fine dell'analisi, la quale, invece, analiticamente, non ha « fine » (essa procede, infatti, estendendosi entro i limiti che ad essa impone, di volta in volta, l'analizzato) e non è in grado di stabilire la verità, di « farla nascere ». Rigore e verità sono, dunque, rispetto all'analisi, la stessa cosa, perchè sono, anzi, la « cosa stessa » come valore di ciò che si dice di essa ; cosicché l'analisi ha valore solo se è « rigorosa », cioè tale da rispettare l'intero valore della cosa su cui si esercita, l'intero entro cui la cosa si colloca ; ma allora il valore dell'analisi
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CAPITOLO PRIMO
dipende dalla filosofia, perchè essa è rigorosa se rigorosamente -pensata è la « cosa » su cui essa si esercita. La « cosa » è poi rigorosamente pensata sp non si esclude il suo esser(si) la totalità di se stessa, se non si esclude, cioè, l'« essere » che è totalità « intima » di qualsiasi cosa, l'essere che è «metafisica » (i). Qui l'analisi del linguaggio sarebbe, al più, il linguaggio in quanto « analizzabile », ciò che del linguaggio non è « totalità », « essere », « valore », ma « insieme », « termini », « operazioni » (2), dei quali la filosofia pur abbisogna per dire se stessa, ma che essa deve negare come valori se intende veramente dirsi ; questo negare ciò di cui si abbisogna non ha senso, analiticamente parlando, ma ha tuttavia un suo senso, precisamente il senso dialettico della filosofia (§ 2). § 7. — Come è possibile una filosofia del linguaggio. Per determinare il modo in cui è legittimo parlare di « filosofia del linguaggio » è indispensabile che si precisi fin dall'inizio il valore di quel « di » con cui si pongono sintatticamente in rapporto il linguaggio e la filosofia, supponendo che il linguaggio si inserisca nella filosofia, come entro la totalità, e che la filosofia si strutturi e si comunichi con il linguaggio che la significa. Poiché vanno mantenute e la presenza del linguaggio nella (1) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico, cit., pp. 37-38. (2) Che cosa si intende per « linguaggio » ? Un utile punto di riferimento è rappresentato dalla formula «linguaggio è ogni sistema di segni che serve per comunicare » (cfr. A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza, filosofìa, cit., p. 45). Notiamo, però, che, come « sistema », il linguaggio è un insieme ordinato e di esso si può dire quanto si dice appunto di tali « insiemi », come caso particolare di questi ; come sistema « di segni » esso rimanda direttamente ai « significati » ed involve la questione di che cosa sia effettivamente possibile significare, come « comunicazione » esso involve la duplice questione della « intersoggetività » (esclusivamente filosofica) e della « oggettività » delle cose comunicabili (anche questa filosofica e snodabile solo al livello del rapporto teoretico t r a « presenza » ed « oggettivazione ». Se il fondamento della « comunicazione », essenziale al linguaggio come sua « funzione », è la « comunione », essenziale al linguaggio è il modo di essere dì coloro che lo usano, che è, perciò, Vessere stesso degli enti comunicanti t r a loro (cfr. G. R. BACCHIN, Tempo e comunione come senso della storia, in « Rivista internazionale di filosofia politica e sociale» (1964) pp. 206-211). Non si dà una qualche « informazione » che non sia anche « espressione » di chi informa e del suo modo d'essere.
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totalità entro cui esso ha un senso e la funzione del linguaggio rispetto alla filosofia che esso significa, la filosofia del linguaggio abbisogna di chiarire inizialmente il valore del semantema « di », rilevandone l'ambiguità. Tale semantema può venire considerato, come i semantemi affini «per», «da», «con», «a», ecc., consignificante o sincategorematico, per usare una espressione scolastica (i), in quanto esso dice qualcosa solo insieme (sin-cum) ad altro semantema e, tuttavia, ne determina il senso e, quindi, la possibilità di uso nei vari contesti. Il « di » presenta, dunque, una bivalenza strutturale, in quanto esso ha, insieme, funzione sintattica e valore semantico e i due aspetti non sono tra loro scindibili se il nesso tra semantemi è sintattico e se i semantemi vengono determinati in virtù di tale nesso che li modifica, ossia li condetermina. Ma, oltre all'ambivalenza (sintassi-semantica), per la quale esso è, insieme, «connettivo logico » (2) e «semantema » (3), il « di » cela una ambiguità, proprio perchè esso può indicare le due
(1) Cfr. PIETRO ISPANO, Summ. Log. VII, 5, 11 ; m a anche Stuart Mill la usa [Logic, I, cap. I I , par. 2) ; più recentemente HUSSERL (Logische Untersuchungen, II, par. 4) nel senso di p a r t i del nome. Cfr. anche E. CASARI, Lineamenti di logica matematica, Milano, 1961, p. 19. (2) Nella logica contemporanea la parola « connettivo » viene usata nel senso del « simbolo improprio » che, combinato con una o più costanti, dà luogo ad una nuova costante. (3) Uso di questo termine nel senso indicato dal