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Italian Pages 302 Year 2014
sinistra assente crisi, società dello spettacolo, guerra
DOMENICO LOSURDO
&
Carocci editore f O J Sfere
Le promesse del 1989 di un mondo all'insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una "piccola guerra" (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un'altra. Per di pili, all'orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l'esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la "società dello spettacolo" riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l'alternativa? A queste domande l'autore risponde con un'analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.
Domenico Losurdo è professore emerito di Sloriji della filosofia alTUniversità degli Sludi di Urbino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Controstoria del liberalismo (Laterza, ?oio, 4" rist.), La lotta di classe (Laterza, :?oi3, rist.), Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, ^014, 3" rist.). Per i nostri tipi ha pubblicato Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (3^rist. 30i3).
Progetto grafico: Falcinelli & Co. / Stefano Vittori
f
Domenico Losurdo
La sinistra assente Crisi, società dello spettacolo, guerra
Carocci editore Q ) Sfere
f Ricordando con rimpianto le appassionate discussioni con mio fratello Vito Luigi
A l libro hanno contribuito, con osservazioni critiche, suggerimenti, segnalazione di refusi e sviste, Stefano G . Azzarà, Paolo Ercolani, Giorgio Grimaldi (che ha rivisto i Riferimenti
bibliografici e curato Vindice dei nomi) ed Emanuela Macera.
l'edizione, settembre 2014 © copyright 2014 by Carocci editore s.p.a., Roma Impaginazione: Imagine s.r.L, Trezzo sull'Adda (MI) Finito di stampare nel settembre 1014 da Eurolit, Roma ISBN 978-88-430-7354-1 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22. aprile 1941, n. 633) Siamo su Internet: http://www.carocci.it
Indice
Premessa
ii
1.
Attacco allo Stato sociale, barbarie neocoloniale, guerra. L'Occidente e la sinistra assente
17
i.i.
Declino di una «grande divergenza» e ascesa di un'altra
17
2. Lo Stato sociale: due secoli di lotta di classe 1.3.
«Non esiste la società, esistono solo gli individui»
1.4. La grande rapina dal 1989 ai giorni nostri 3.
Guerra e ritorno della «società»
6. Irak, Libia, Siria: una distruzione dopo l'altra 7.
zo 23 26 z8 30
Un caposaldo dell'Occidente, dell'oppressione femminile e della «nuova schiavitù»
33
8. Il ritorno delle «donne di conforto» e della schiavitù sessuale
35
9. Verso una nuova grande guerra? Lo spettro di Hiroshima
38
10. Il neoliberismo (economico e politico), il neocolonialismo e la sinistra assente
42
2.
Il mondo capitalista-imperialista quale «mondo libero»?
49
2.1. Miseria di massa e incarcerazione di massa
49
2.2. Monopartitismo competitivo e ritorno della discriminazione censitaria
52
2.3. «Kill list» e crisi del governo della legge
35
LA S I N I S I'KA A S S K N l'E
1.4. La liquidazione della rw/e^/^zi'nelle relazioni internazionali
59
1.5. Democrazia o Impero ?
61
2.6. «Il potere assoluto corrompe in modo assoluto»
64
3.
71
Società dello spettacolo, terrorismo dell'indignazione e guerra
3.1. Dalla produzione delle idee alla produzione delle emozioni
71
3.1. Compattamento e omertà dell'Occidente
76
3.3. Commozione per i neonati e scatenamento della guerra
80
3.4. Psytvar, Revolution in Military Affairs, Internet Wars
82,
3.5. Dalla società dello spettacolo allo spettacolo come tecnica di guerra
87
3.6. Selezione e incanalamento dell'indignazione
94
3.7. "Evidenza" dell'immagine e uso sovrano delle categorie
99
3.8. Le due funzioni belliche della società dello spettacolo
104
3.9. Hollywood e la nazione morale per eccellenza
107
4.
Da Truman al 1973 e dal 1989 ai giorni nostri. Due ondate di colpi di Stato
in
4.1. Un terrorismo dell'indignazione coniugato al passato
iii
4.Z. Il «dispotismo illuminato» a Piazza Tienanmen
115
4.3. Guerra fredda e prima ondata di colpi di Stato
118
4.4. A partire dal 1989: la seconda ondata di colpi di Stato
12,1
4.5. Belgrado zooo: dalla guerra al colpo di Stato
né
4.6. Teheran 1953 e 2009: un colpo di Stato riuscito e uno mancato
129
4.7. Dalla dittatura militare al "protettorato democratico"
131
4.8. Plutocrazia, democrazia, democrazia nei rapporti internazionali
135
f
INI)IC:K
9
5.
La costruzione ck-H'iiniversalismo imperiale
139
5.1.
Dal protezionismo commerciale e ideologico all'imperialismo del libero commercio e dei diritti umani
139
5.2. L'Occidente dal politeismo al monoteismo dei valori
142
5.3. Calendario sacro e controllo della memoria storica
144
5.4. La distruzione dell'identità dei possibili nemici
147
3.5. Autocelebrazione e promozione dell'autofobia nel campo nemico
152
5.6. Il sillogismo di guerra dell ' « universalismo » imperiale
15 6
5.7. Universalismo o etnocentrismo esaltato?
160
5.8. Fervore democratico e cinica
167
5.9. «Universalismo» o «eccezionalismo»?
172
6.
Dal colonialismo al neocolonialismo: discontinuità e continuità
175
6.1. Una lotta di lunga durata
175
6.2. La terza tappa dello scontro tra colonialismo e anticolonialismo
179
6.3. Un neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario
181
6.4. Dalla «filantropia + 5%» dell'Impero britannico ai « v a l o r i e i n t e r e s s i » d e g l i U S A
187
6.5. Missionari, ONG e decurtazione della Carta dei diritti
190
6.6. Le ONG e la delegittimazione della rivoluzione anticoloniale
195
6.7. Il Premio Nobel per la pace e l'Impero
199
6.8. L'extraterritorialità dai cristiani ai «dissidenti»
202
6.9. Uno sguardo laico sui "martiri" della religione civile dei diritti umani
204
6.10. Dalla "dissidenza" al "collaborazionismo"
209
7.
Controrivoluzione neocoloniale e «pivot» anticinese
7.1. Gli USA e la Cina
213 213
^2.
LA S I N I S T R A A S S E N T E
7.2. Un paese troppo grande per non desiderarne lo smembramento
218
7.3. I mutevoli bersagli della Crociata democratica
223
7.4. Un attacco alla Cina da destra e da sinistra: una strategia consolidata
226
7.5. Amputazione della Carta dei diritti e rilancio della Crociata
229
ì.
Tra sinistra imperiale e sinistra populista e anarcoide. La situazione in Occidente
233
!.i. Cinici e anime belle: una divisione del lavoro conflittuale
233
>.2. Terrorismo dell'indignazione e capitolazione della sinistra
237
!.3. Dal «cristianesimo imperiale» alla sinistra imperiale
239
S.4. L'egemonia esercitata dalla sinistra imperiale
242
(.5. «Miseria socializzata» o Stato sociale? Harvey e la Cina di Deng
245
Ì.6. La sinistra radicale, Zizek e la delegittimazione dello Stato sociale
234
I7. Latouche e la delegittimazione della lotta contro neoliberismo e imperialismo
261
1.8. Sulle orme di Hayek: Foucault e la sinistra
267
>.9. Movimento reale e teoria: un divorzio rovinoso
271
Conclusione Il nuovo quadro mondiale, i crescenti pericoli di guerra e la dispersa sinistra occidentale
275
Riferimenti bibliografici
281
Indice dei nomi
297
Premessa Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà? Otto von Bismarck Nessuno mente tanto quanto l'indignato. Friedrich Nietzsche
Lo storico futuro non potrà fare a meno di esprimere la sua sorpresa per un fenomeno che caratterizza la nostra società e il nostro tempo. Per un verso non è difficile leggere in libri, riviste e giornali analisi realistiche e crude della condizione attuale dell'Occidente, dei problemi e dei drammi del nostro presente. Alla crisi economica s'intreccia quella politica: si assiste - osservano studiosi autorevoli - allo svuotamento della democrazia, che cede il posto al potere della grande ricchezza e alla «plutocrazia». Ma c'è in Occidente una sinistra capace di riproporre questa analisi e questa denun^rceresuhiectis et debellare superbos (Strauss, 1999, p. 373).
Erano gli anni in cui, dopo aver conquistato l'Etiopia a conclusione di una barbara guerra di aggressione, Mussolini si atteggiava a nuovo Cesare e proclamava che l'Impero aveva fatto il suo trionfale ritorno sui «colli fatali di Roma». Agli occhi di Hitler era invece il Terzo Reich a collocarsi sulla scia del Sacro Romano Impero della nazione tedesca e dell'Impero romano propriamente detto. Invece di farsi beffe di tali pretese, Leo Strauss, citando Virgilio, dichiarava che il vero erede dell'Impero romano era l'Impero britannico. Divenuto tre anni piti tardi cittadino statunitense, il filosofo non aveva difficoltà a teorizzare una nuova translatio Imperii, da Londra a Washington, dopo quella da Roma a Londra. Dà da pensare il fatto che, proprio mentre cominciava a sollevarsi l'ondata della rivoluzione anticoloniale (in Cina, in India e altrove), il futuro profeta della (contro)rivoluzione conservatrice, a paradossale somiglianza di Hitler, si richiamasse al modello dell'Impero romano che, nelle parole di Virgilio, era disposto a «concedere il perdono» i^arcere) solo ai popoli inclini ad accomodarsi con la condizione di «assoggettati» {subiecti), mentre non c'era scampo per i popoli «superbi» e ostinati nel rifiuto del giogo imperiale. Facciamo un salto in avanti di alcuni decenni. Negli anni Settanta ecco un illustre politologo statunitense pubblicare un libro tutto attraversato dal paragone tra Impero romano e Impero americano e dalla celebrazione di entrambi: «Noi, a somiglianza dei romani {We, like the Romans)...» (Luttwak, 1993, p. xii). Ad argomentare e a sentire in tal modo non sono soltanto intellettuali. Abbiamo visto Hillary Clinton atteggiarsi a novello Cesare e celebrare il suo trionfo imperiale a non molta distanza dal cadavere martoriato e ancora fumante di Gheddafì, del ribelle che aveva rifiutato di entrare a far parte degli «assoggettati» e al quale dunque non era possibile «concedere il perdono».
IL M O N D O CAI'I'I AI I M A I M I ' K K I A L I S T A
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Sulla pretesa della repubblica nordamericana di collocarsi sulle orme dell'Impero romano, conviene dare la parola a uno dei più autorevoli strateghi statunitensi: Nella supremazia globale dell'America è possibile scorgere in qualche modo le tracce degli antichi imperi [e in particolare di «quello romano»], benché la loro estensionefosse senz 'altropiù ridotta. Quegli imperi fondavano il loro potere su un ordine gerarchico costituito da vassalli, protettorati e colonie, e coloro che non vi appartenevano erano considerati barbari. Per quanto anacronistica possa sembrare, queste terminologia ben si addice ad alcuni Stati che attualmente gravitano nell'orbita americana (Brzezinski, 1998, pp. 19-20).
In conformità all'«ordine gerarchico» qui precisato, per quanto riguarda il presente, in questo mio libro si parla di Impero (e imperialismo) solo in relazione agli USA. Gli alleati europei o asiatici possono ben essere protagonisti di guerre coloniali infami, ma sono in grado di far ciò solo a condizione di non sfidare il Grande Fratello ; essi esibiscono si la loro presunta superiorità rispetto ai «barbari», ma restano pur sempre, se non dei «vassalli», degli alleati subalterni degli Stati Uniti: ospitano le loro basi militari, correndo così il rischio di essere coinvolti in guerre decise sovranamente da Washington, e sono esposti alla sorveglianza e al controllo del Grande Fratello. Devono persino subire la sua giurisdizione: le banche europee possono essere costrette a pagare penalità pesantissime per non aver rispettato a sufficienza le leggi statunitensi che impongono l'embargo contro questo o quel paese ! Del brano di Brzezinski ho evidenziato con il corsivo le parole che richiamano l'attenzione sull'estensione senza precedenti del nuovo Impero. Ci ritorna in mente la profezia di Jefferson, che invocava per il paese da poco fondato la conqiiista dell'Impero più grande e più possente «dalla Creazione ad oggi». Ecco, la profezia si è realizzata, un ciclo si è chiuso. Ai giorni nostri gode di straordinario successo negli USA uno storico britannico (o di origine britannica) che è impegnato esplicitamente nella celebrazione dell' «Impero americano» e che chiama gli inquilini della Casa Bianca a superare le residue esitazioni politiche e interdizioni linguistiche: «Non ci sono imperialisti più sicuri di sé dei Padri Fondatori» (Ferguson, 1005, pp. 33-4). Ora lo storico appena citato può ben celebrare, guardando a Washington, r «Impero liberale» (ivi, p. x), ma è chiaro che Impero e libertà e soprattutto Impero e democrazia non sono termini tra loro conciliabili. Per quanto riguarda i Padri Fondatori, il loro imperialismo si è manifestato principalmen-
64
I.A S I N I S T R A A S S K N T E
te nell'espropriazione, deportazione e decimazione dei nativi, nonché nella schiavizzazione dei neri e nel tentativo di costringere alla resa o di condannare alla morte per inedia gli schiavi neri di Santo Domingo-Haiti che avevano avuto il torto diribellarsie di rovesciare l'autocrazia bianca. Per venire ai giorni nostri, il tentativo di assoggettare all'Impero Afghanistan e Irak ha condotto ad Abu Ghraib e ad altri terribili luoghi di detenzione, che in molti analisti hanno evocato il ricordo dell'universo concentrazionario del Novecento. Semmai, dalla vicenda qui descritta risulta confermata la tesi di Marx ed Engels, secondo cui non è libero un popolo che ne opprime un altro. Chiaro è il percorso che dalle guerre imperiali in Medio Oriente e in Asia centrale conduce alla «kill list», che viene settimanalmente varata a Washington e che, se anche prende di mira soprattutto i «barbari», talvolta non risparmia neppure i cittadini statunitensi, essi stessi privati della mie of law e persino condannati a morte senza processo. E il panottico ideato dal Pentagono e dalla Casa Bianca, al fine di controllare le comunicazioni telefoniche e digitali in ogni angolo del mondo, promuovendo all'occorrenza operazioni di «regime change» nei paesi considerati indocili all'Impero, finisce col privare gli stessi cittadini statunitensi del diritto alla privacy. Infine, è da un pezzo che risuona negli USA la denuncia per cui la politica imperiale di fatto seguita ha condotto all'avvento di una «Presidenza imperiale» (Schlesinger jr., i973b), che in modo sovrano mette la nazione dinanzi al fatto compiuto della guerra o dell'avventura bellica. Alla luce di tale denuncia, è anche in questo senso che, in occasione di crisi internazionali, il presidente statunitense tende a configurarsi, dal punto di vista di Kant, come un «monarca assoluto».
2.6. «Il potere assoluto corrompe in modo assoluto» L'aspirante Impero planetario di cui ci stiamo occupando mira a conseguire (e a mantenere) una superiorità militare cosi schiacciante da non avere termini di confronto nella storia alle nostre spalle. Diamo la parola allo storico statunitense Paul Kennedy: L'esercito britannico era molto più piccolo degli eserciti europei, e perfino la Marina reale non superava per dimensioni le due Marine combinate delle potenze che occupavano il secondo e il terzo posto - in questo momento, tutte le altre Marine del mondo messe insieme non potrebbero minimamente intaccare la supremazia militare americana (in Hirsh, l o o i , p. 71).
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Non si tratta solo della Marina: Gli Stati Uniti dispongono di una superiorità senza precedenti nella dimensione militare, riassunta nel vantaggio incolmabile di cui godono nei comparti di punta del bombardamento strategico, degli aerei stealth, delle telecomunicazioni, dei sensori e delle munizioni con guida di precisione, oltre che nelle dimensioni del bilancio della difesa (che è quasi pari a quello di tutte le altre potenze messe insieme) e delle spese nella ricerca e sviluppo nel settore militare (che sono quattro volte superiori alla somma di quelle di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia). Grazie a questa superiorità, gli Stati Uniti dominano in modo incontrastato tutti e tre gli spazi comuni (mare, aria, spazio) dai quali dipende la capacità di proiezione della potenza e, quindi, il possibile esercizio di un'egemonia mondiale (Colombo, 2,010, p. 15).
Occorre andare ancora oltre: hiFullspectrum dominarne cui esplicitamente aspirano gli Stati Uniti implica il pieno controllo delle cinque dimensioni dello spettro di battaglia (terra, mare, aria, spazio extra-atmosferico e cyberspazio). Questa smisurata superiorità militare è talvolta orgogliosamente proclamata e minacciosamente esibita da strateghi e politici statunitensi: «L'ampiezza e la penetrazione della potenza mondiale americana costituiscono oggi un fenomeno unico» nella storia; abbiamo a che fare con «un esercito tecnologicamente ineguagliabile, l'unico in grado di controllare l'intero pianeta» (Brzezinski, 1998, pp. 33 e 35). Se, oltre al fattore strettamente militare, prendiamo in considerazione quello politico-diplomatico, ancora più schiacciante si rivela la superiorità degli Stati Uniti: il Giappone è «essenzialmente un loro protettorato». Soprattutto: « L a brutale realtà è che l'Europa occidentale, come pure quella centrale in misura sempre maggiore, continua sostanzialmente a essere un protettorato americano, con alleati che ricordano vagamente vassalli e tributari di un tempo» (ivi, pp. 40 e 84). È un giudizio ribadito anche di recente: l'Europa «continua a essere un partner geopolitico subalterno agli USA nell'ambito dell'Occidente semi-unificato» (Brzezinski, l o i i , p. i i ) . Peraltro, non si tratta solo di armi e alleanze militari. Grazie alla loro superiorità tecnologica, gli USA sono in grado di trasformare 1'«intero pianeta» in uno sconfinato panottico che sottopone gli stessi alleati all'occhio vigile di Washington. E non è tutto. Vediamo quello che avviene a livello finanziario: Anche la rete internazionale di agenzie tecniche, soprattutto finanziarie, può essere ormai considerata parte integrante del sistema americano. Il Fondo Monetario
52.
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Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, pur rappresentando interessi "globali", sono in realtà pesantemente influenzati dagli Stati Uniti (Brzezinski, 1998, pp. 40-1).
Ciò consente di condizionare fortemente i lavori dell'ONU e del suo Consiglio di sicurezza, i lavori degli organismi che possono decidere della pace e della guerra. Per effetto combinato di questi molteplici fattori, il 3 luglio 2013, nella speranza poi rivelatasi infondata di catturare Edward Snow^den (colpevole di aver reso di pubblico dominio alcuni aspetti del panottico statunitense), gli USA e i loro alleati non esitavano a dirottare e sequestrare l'aereo del presidente boliviano Evo Morales: almeno in Occidente, la clamorosa violazione della legalità internazionale non suscitava né proteste né indignazione. Infine, occorre non perdere di vista la larghissima influenza esercitata sull'apparato multimediale internazionale, un apparato che, come subito vedremo, consente di controllare la produzione non solo delle idee ma anche delle emozioni. E vero, la crisi economica sta provocando difficoltà anche al Pentagono, costretto a ridurre il suo bilancio, che continua a essere mastodontico e senza termini di confronto. Sennonché, piuttosto che attenuare, questa circostanza può accrescere le preoccupazioni sulle sorti della pace. Si direbbe che Washington voglia ribadire e consolidare la sua egemonia mondiale prima che sia troppo tardi: ecco allora il «pivot » , lo spostamento dell'apparato militare in Asia con la mira puntata in direzione della Cina, i febbrili preparativi per lo sviluppo e l'installazione di un sistema antimissilistico, chiamato a garantire agli USA il quasi-monopolio dell'arma nucleare e dunque la possibilità di un «primo colpo» risolutivo. Dinanzi a questa situazione e a questa ambizione, si sarebbe potuto ritenere che gli intellettuali più pensosi dell'Occidente liberale avrebbero espresso la loro preoccupazione. Dopo tutto, a suo tempo è stato Lord Acton, un classico del liberalismo, a formulare la massima secondo cui « i l potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto». Il grande merito storico del liberalismo è stato quello di spostare l'accento dalla ricerca di governanti eccellenti all'introduzione di norme e di meccanismi atti a limitare il potere e quindi a renderlo accettabile e in qualche modo innocuo. Ebbene, alla luce di questo insegnamento, indipendentemente dalla personalità dei presidenti che si succedono alla Casa Bianca, il potere assoluto di vita e di morte che essi esercitano o aspirano a esercitare a livello planetario dovrebbe essere considerato un rischio
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1 M L'I K I A l
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grave e inaccettabile, anzi una calamità. E, invece, l'Occidente liberale nel suo complesso e i suoi pensatori più prestigiosi hanno semmai espresso la preoccupazione contraria: si mostrano inquieti e allarmati per il fatto che il potere assoluto rivendicato da Washington è messo in crisi dalla resistenza inaspettata che l'Impero ha incontrato e incontra in diversi angoli del mondo, dalle difficoltà economiche che ostacolano il mantenimento e lo sviluppo di un apparato militare così mastodontico e dall'ascesa dei paesi emergenti e in particolare della Cina. X Dobbiamo allora concludere che l'odierno Occidente liberale non è in grado di assimilare o che addirittura tradisca la lezione di Lord Acton? Sarebbe una conclusione fuorviante. Soffermiamoci un attimo sulla massima ora al centro della nostra attenzione. A dare prova di tale saggezza era un autore che, al momento della guerra di secessione, si schierava a favore del Sud schiavista. E cioè, il principio della limitazione del potere veniva fatto valere nell'ambito della comunità bianca, ma non per quanto riguardava il rapporto che quest'ultima intratteneva con la popolazione di colore e di origine coloniale; era considerato valido nell'ambito dello spazio sacro, ma non in relazione al rapporto tra spazio sacro e spazio profano: il potere assoluto che il padrone bianco esercitava sui suoi schiavi neri e sui nativi (espropriati, deportati e decimati) non costituiva un problema. Non si trattava affatto di un caso isolato. Pressoché contemporaneo di Lord Acton, il liberale di sinistra John Stuart Mill prendeva netta posizione contro il Sud e a favore dell'abolizione della schiavitù. Al tempo stesso però, in un'opera dedicata già nel titolo alla celebrazione della libertà {On Liberty), egli non aveva alcuna difficoltà a teorizzare il «dispotismo» dell'Occidente sulle «razze» ancora «minorenni», tenute a osservare un'«obbedienza assoluta», in modo da poter essere avviate sulla via del progresso. L'omaggio reso alla «libertà» da un lato e al «dispotismo» e all' «obbedienza assoluta» dall'altro era così poco fonte di imbarazzo che John Stuart Mill, in un'altra sua opera dedicata alla celebrazione del «governo rappresentativo» e quindi in ultima analisi della libertà, giungeva a questa squillante conclusione: il «dispotismo diretto dei popoli progrediti» su quelli arretrati è già «la condizione ordinaria», ma essa deve diventare «generale». Oppure si prenda Tocqueville. Con sovrano disprezzo egli si esprimeva a proposito della «sanguinosa catastrofe» di Santo Domingo-Haiti, e cioè a proposito della grande rivoluzione che aveva abolito la schiavitù e aveva visto l'emergere del primo paese sul continente americano a essere libero da tale flagello. Per un altro verso, Jefferson (il presi-
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LA S I N I S T R A A S S I ' N T E
dente-proprietario di schiavi, l'inflessibile antagonista del paese nato dalla rivoluzione degli schiavi neri, lo statista incline a incoraggiare il tentativo di Napoleone di reintrodurre col terrore a Santo Domingo-Haiti dominio coloniale e schiavitù) appariva al liberale francese come il «più grande democratico che sia mai uscito dal seno della democrazia americana»^. Pur assumendo posizioni politiche tra loro diverse, Acton, Mill, Tocqueville concordavano su un punto essenziale: definivano e celebravano la libertà o la democrazia limitando lo sguardo alla comunità bianca e facendo completa astrazione dalla schiavitù ovvero dalla dittatura terroristica da essa imposta sui neri e sulle altre razze considerate inferiori. È un capitolo di storia che non si è ancora concluso ed è ben lungi dall'essersi concluso. Karl R. Popper ha conquistato fama internazionale e anzi è assurto nel pantheon dell'Occidente liberale quale teorico della «società aperta» e fautore di un «nuovo approccio» nell'ambito del discorso politico. Piuttosto che continuare a chiedersi «chi deve governare» occorrerebbe porsi un diverso problema: «Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?» (Popper, 1974, voi. i, pp. 174-5). E ora vediamo in che modo il teorico della «società aperta» si muove nell'ambito delle relazioni internazionali. Un anno dopo la prima guerra del Golfo, con riferimento alle ex colonie, egli proclama: «Abbiamo liberato questi Stati troppo in fretta e troppo semplicisticamente»; è come «abbandonare a se stesso un asilo infantile». Dunque, la domanda relativa al «chi deve governare» è tutt'altro che obsoleta: a governare deve essere l'Occidente. Ed esso è chiamato a esercitare il potere non solo su paesi come l'Irak; occorre non perdere di vista «la Cina comunista, per noi impenetrabile». I paesi autoproclamatisi interpreti esclusivi della civiltà non devono esitare a imporre la loro volontà all'intero pianeta, all'occorrenza facendo ricorso alle armi: « N o n dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace » , per la realizzazione della «pax civilitatis» a livello mondiale (Popper, i992.b e 199ZC). Il sedicente «nuovo approccio» si rivela come la riproposizione del tradizionale approccio in base al quale, se nell'ambito dell'Occidente ci si deve concentrare sul problema della limitazione del potere (in che modo contenere il «danno» di eventuali «governanti 1. Cfr. Losurdo (1005), cap. 5, par. 9 (per Lord Acton); cap. i, par. i e cap. 8, par. 3 (per J. S. Mill); e cap. 5, par. (per Tocqueville).
II. M O N D O c : A i ' r r A i i s RA I M I ' K R I A I . I S I A
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cattivi o incompetenti»), a livello planetario il problema decisivo è: «chi deve governare?». Per Popper non ci sono dubbi: a dover esercitare il potere è l'Occidente e in modo sostanzialmente dittatoriale, facendo leva sulla sua superiorità militare e senza attendere l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, cui il teorico della «società aperta» non fa riferimento alcuno. In Lord Acton, che con lo sguardo rivolto alla comunità bianca esigeva la limitazione del potere, mentre al tempo stesso considerava legittimo il potere assoluto esercitato dai bianchi sugli schiavi neri, non è difficile scorgere le tracce di quella «democrazia per il popolo dei signori» che attraversa in profondità la storia dell'Occidente liberale. Sarebbe sciocco ignorare o sottovalutare i profondi mutamenti nel frattempo intervenuti in seguito alla rivoluzione anticoloniale mondiale. E, tuttavia, qualcosa della tradizionale «democrazia per il popolo dei signori» continua a sussistere nel modo di atteggiarsi del «mondo libero». Non è certo una rottura totale con il passato reinterpretare come western supremacy la whitesupremacy ^ìnn^o e rovinosamente fatta valere dall'Occidente, continuando a ignorare il principio dell'eguaglianza tra le nazioni e il problema della realizzazione della democrazia e del governo della legge a livello internazionale. Disgraziatamente, in modo analogo argomenta la sinistra occidentale, che su questo punto eredita acriticamente tutti i limiti della tradizione liberale. Per Norberto Bobbio, almeno per quanto riguarda l'ultima fase della sua evoluzione, non ci sono dubbi. A rappresentare la causa della libertà e della democrazia sono gli USA e i loro alleati: i colpi di Stato promossi ad esempio in America Latina, le guerre scatenate senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, la «libertà dalla paura» cancellata su base planetaria, in una parola, la democrazia nei rapporti internazionali non gioca alcun ruolo! Si potrebbe pensare che per la sinistra radicale le cose stiano diversamente, ma non è così. Allorché Slavoj Zizek parla della Cina come di un «capitalismo autoritario» (cfr. infra, PAR. 7.5), procede a un'implicita contrapposizione con il capitalismo in qualche modo «democratico» dell'Occidente: egli argomenta quindi allo stesso modo di Bobbio (e di Popper). E la cosa è tanto più stupefacente per il fatto che, al contrario del filosofo italiano, il filosofo sloveno richiama l'attenzione su un aspetto essenziale della politica statunitense. Egli riporta la direttiva da Henry Kissinger impartita alla CIA al fine della destabilizzazione del Cile di Salvador Allende («Fate sì che l'economia urli dal dolore») e sottolinea come tale politica abbia continuato a essere messa in atto contro
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il Venezuela di Chàvez (Zizek, 2011, p. 130; zoii, p. 85). Sennonché, pur riconosciuta e messa in evidenza, la pretesa di esercitare una dittatura planetaria, facendo ricorso a ogni mezzo, non svolge alcun ruolo allorché si tratta di distinguere tra paesi « autoritari» e paesi che tali non sono. La domanda regolarmente elusa dalla sinistra occidentale è al centro di questo libro: il «mondo libero» incarna realmente la causa della libertà? I mutamenti intervenuti in seguito al trionfo da esso conseguito nella guerra fredda hanno evidenziato il carattere più che mai problematico se non menzognero di questa autorappresentazione. Per un altro verso, tale trionfo ha reso decisamente più insicura o consegnato a uno stato confusionale l'opposizione all'ordinamento esistente. È così che si può spiegare l'egemonia di cui godono il neoliberismo (economico e politico) e soprattutto il neocolonialismo?
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Società dello spettacolo, terrorismo dell'indignazione e guerra
3.1. Dalla produzione delle idee alla produzione delle emozioni In realtà, la svolta del 1989-91 non basta a spiegare la debolezza di cui in Occidente continua a dar prova la sinistra, nonostante la crisi economica nonché politica e il susseguirsi di guerre scatenate in violazione del diritto internazionale, di natura chiaramente neocoloniale e foriere di catastrofi su scala ben più larga. Occorre approfondire l'analisi, indagando i mutamenti avvenuti all'interno della metropoli capitalista. Per comprenderli, cominciamo a interrogarci su un'osservazione fatta da Marx negli anni Quaranta dell'Ottocento: Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi delia produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale (Marx, Engels, 1955-89, voi. 3, p. 46).
Certo, questa analisi può essere considerata valida solo in riferimento a una situazione di relativa stabilità, e anche in tal caso occorre non perdere di vista la resistenza anche ideologica sviluppata sotterraneamente dalle classi subalterne. Per apprezzare in modo adeguato il testo àeìYIdeologia tedesca appena citata, conviene metterlo a confronto con un testo coevo della Democrazia in America, che così descriveva la situazione vigente in quel paese per quanto riguarda la stampa: La creazione di un giornale è un'impresa semplice e facile; pochi abbonati bastano a un giornalista per coprire le spese: così il numero degli scritti periodici o
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semi-periodici, negli Stati Uniti, sorpassa ogni immaginazione. Gli americani più illustri attribuiscono lo scarso potere della stampa a questa incredibile dispersione delle sue forze (Tocqueville, 1951, voi. Li, pp. 189-90 = Tocqueville, 1968, pp. 211-2.).
È appena il caso di osservare che questo quadro, forse non privo di toni edificanti già al momento in cui veniva tracciato, non corrisponde più in alcun modo alla realtà odierna, caratterizzata da un gigantesco processo di concentrazione, che di fatto ha assicurato il monopolio della grande borghesia sulla stampa. Ma c'è un'ulteriore novità rispetto ai tempi di Marx (e di Tocqueville). L'ideologia tedesca faceva riferimento alla stampa, alla produzione delle «idee» e all'assoggettamento subito dalle «idee» delle classi subalterne. Sennonché - osservava Gustave Le Bon alla fine dell'Ottocento occorreva prendere atto della realtà: «le folle sono [...] femminili», irrazionali. E, dunque, per influenzarle o controllarle si doveva far leva sui «sentimenti», su ciò che «suggestiona», e promuovere entusiasmo per «eroismi evidentemente un po' incoscienti» ovvero per «chimere, figlie dell'inconscio» (Le Bon, 1980'-, pp. 63, 148 e 56-7). A partire da questo momento, al centro della lotta per il potere era il controllo sì delle idee, ma soprattutto delle emozioni, e tale controllo era possibile conquistarlo o mantenerlo facendo leva in primo luogo suir«inconscio». Proprio per questo conveniva ricorrere alle tecniche della «pubblicità» commerciale: un candidato alle elezioni o una guerra scatenata da un governo dovevano essere propagandati esattamente come un «cioccolato», mediante la sistematica ripetizione di un'« affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova» (ivi, pp. 159-60). L'intreccio tra suggestione più o meno inconscia e ripetizione ossessiva era chiamato a scardinare le già di per sé deboli resistenze razionali delle «folle». La svolta qui genialmente intuita diventava pratica quotidiana e scientifica oltre mezzo secolo più tardi, a seguito dell'incontro tra produzione di massa, consumo di massa e pubblicità commerciale, volta a stimolare per l'appunto il consumo di massa. Negli anni della ricostruzione postbellica e del miracolo economico, un libro di grande successo apparso negli USA nel 1957 richiamava l'attenzione su un fenomeno inedito e inquietante: «L'attacco all'inconscio» messo in atto dalla pubblicità commerciale aveva assunto una dimensione qualitativamente nuova. Occorreva prendere atto della realtà: «la nostra esistenza quotidiana è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto»; la parola era ormai ai «persuasori occulti», ai «maghi del profondo», impegnati ad
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analizzare e provocare «speciali "effetti subliminali"». Ormai « i fabbricanti di immagini si erano convinti che proprio il fattore emotivo poteva essere determinante nel commercio di massa»; sicché « i persuasori più accorti si servono sempre di parole-chiave e di immagini-chiave per suscitare le reazioni desiderate» (Packard, 1964, pp. 13, 19, 50, 56, 31). La svolta non investiva soltanto il mondo dei consumi di massa. La pubblicità commerciale e le public relations svolgevano un ruolo essenziale e anzi decisivo anche nelle competizioni elettorali e nella vita politica in genere. Si imponeva una conclusione sconsolata: «Il metodo in profondità serve, su scala nazionale, l'uomo politico, il quale agisce sull'elettore - trattato ogni giorno di più come il cane condizionato di Pavlov - con l'uso massiccio di simboh, convenientemente manipolati e reiterati» (ivi, pp. 191 e 14). La politica di cui si parla è ancora prevalentemente quella interna a un singolo paese; la pubblicità commerciale e \tpublic relations non hanno ancora investito in pieno la politica internazionale. Per comprendere questa ulteriore svolta, occorre fare un passo indietro. Qualche anno prima che Le Bon pubblicasse la sua Psicologia dellefolle. Otto von Bismarck, tentato dall'espansionismo coloniale, promosso dal Secondo Reich così come dalle altre grandi potenze dell'Occidente, in nome della diffusione della civiltà e della difesa dei principi umanitari, si era così rivolto ai suoi collaboratori: «Non sarebbe possibile reperire dettagU raccapriccianti su episodi di crudeltà?». Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato poi più agevole bandire la crociata contro la barbarie africana e islamica e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Il cancelliere di ferro può essere considerato il primo teorico delle «guerre umanitarie», che alla fine dell'Ottocento pretendevano di essere ispirate, come quelle odierne, dall'amore per la libertà e la giustizia, ovvero dallo sdegno per la persistenza della schiavitù in Medio Oriente e in Africa. È in questo contesto che va collocato il memorabile aforisma di Nietzsche: «Nessuno mente tanto quanto l'indignato»'. Se Le Bon spostava l'accento dalla produzione delle idee a quella delle emozioni, Bismarck indicava nell'indignazione l'emozione di decisiva importanza: la produzione artificiale dell'indignazione e il suo governo erano ormai divenuti uno strumento di politica internazionale. Bismarck pensava di utilizzarlo prendendo di mira i «barbari» che l'Europa e l'Occidente erano chiamati ad assoggettare e civilizzare nel I. Aldi là del bene e del male, 2,6; su tutto ciò cfr. Losurdo (looi), cap. 32., par. 2.
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corso di campagne appoggiate da una folla in preda all'indignazione. Ma negli USA, dalle origini abituati a condurre le campagne contro i nativi quali guerre di civiltà e di religione, il ricorso alla produzione e alla manipolazione dell'indignazione tendeva a diventare una componente essenziale delle operazioni belliche in quanto tali, qualunque fosse il nemico di volta in volta preso di mira. La guerra ispano-statunitense, che chiudeva il XIX e inaugurava il XX secolo, veniva preparata ideologicamente, da parte di Washington, mediante la diffusione di "notizie", inventate di sana pianta, che bollavano gli spagnoli in quanto responsabili di aver ucciso prigionieri inermi e di aver massacrato 300 donne cubane (Millis, 1989, p. 60). Montava così l'indignazione contro un nemico, il quale - tuonava la risoluzione del Congresso del xo aprile 1898 - non esitava a far ricorso a misure che ripugnavano al «senso morale del popolo degli Stati Uniti» e che rappresentavano una «disgrazia per la civiltà cristiana» (in Commager, 1963^, voi. 2., p. 5).
A un'ulteriore scalata si assisteva nel corso del primo conflitto mondiale, allorché l'intuizione geniale di Bismarck veniva applicata in primo luogo contro il paese del cancelliere di ferro. Sì, particolarmente martellante era la denuncia delle atrocità attribuite ai tedeschi: essi - così suonava l'accusa infamante avallata anche da intellettuali inglesi di primissimo piano (si pensi in particolare ad Arnold Toynbee) - avevano violentato donne e perfino bambini, impalato e crocifìsso uomini, mozzate lingue e seni, cavato occhi e bruciato interi villaggi. Tali infamie erano documentate non solo da testimonianze oculari ma anche da fotogrammi inequivocabili: questi però erano il risultato di una sapiente manipolazione, cui aveva fornito il suo bravo contributo la nascente industria cinematografica statunitense, la quale girava nel New Jersey le scene sulle atrocità di cui si sarebbero macchiate le truppe tedesche in Belgio! Danno soprattutto da pensare due particolari. Quello delle donne stuprate e dei seni mozzati ci riconduce alle rappresentazioni con cui in America l'ideologia ufficiale cercava di stimolare le « ansie sessuali e razziali» nei confronti degli indiani. Ci sono poi gli uomini «crocifìssi» : era come se la pratica di omicidio rituale, tradizionalmente addebitata agli ebrei, fosse attribuita ai tedeschi (Losurdo, 1996, cap. 5, par. i). Nella misura in cui l'inasprimento dei conflitti tra popoli «civih» comportava l'espulsione dalla comunità civile del nemico, ecco che contro di lui si faceva ricorso a un'arma tradizionalmente riservata alla lotta contro i «barbari». Attraverso messaggi coscienti e subliminali, non veniva tralasciato nulla che potesse accentuare la carica
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dell'indignazione. La «mobilitazione totale» - la parola d'ordine che in tutti i paesi accompagnava la prima guerra mondiale - andava di pari passo con la manipolazione totale, che aveva al suo centro la produzione e il governo dell'indignazione. Sicché, il metodo suggerito da Le Bon s'intrecciava strettamente con quello teorizzato da Bismarck: il compito essenziale della propaganda di guerra era la ripetizione incessante di "rivelazioni" e l'evocazione instancabile di immagini chiamate a provocare, grazie anche al ricorso a tecniche subliminali, un'ondata travolgente e irresistibile di indignazione contro un nemico capace di ogni infamia. Un ulteriore salto di qualità si verifica a partire dalla fine della guerra fredda, e non solo per il ruolo attivo ed essenziale che, come vedremo, le agenzie di public relations sono chiamate a svolgere nello scatenamento e nella conduzione della guerra. No, c'è molto di più: la produzione dell'indignazione non serve più soltanto a caricare il proprio esercito e a demoralizzare quello nemico. Grazie alla televisione, ai telefonini, ai computer e ai social media, l'indignazione spontanea o artificialmente prodotta può contare su una diffusione di una capillarità e pervasività senza precedenti, e di essa il paese più potente anche sul piano della tecnologia della comunicazione può servirsi per destabilizzare il paese nemico già dall'interno. Nel corso della guerra contro il Vietnam, gli Stati Uniti hanno fatto esperienza dell'impatto drammatico sull'opinione pubblica dispiegato dalle immagini televisive dei campi di battaglia e delle città e dei villaggi bombardati senza pietà. Una domanda si è affacciata alla mente degli strateghi in primo luogo statunitensi: quali risultati si possono conseguire prendendo di mira un paese sostanzialmente indifeso anche sul piano multimediale, e bombardandolo, con una potenza di fuoco senza precedenti, di immagini (anche artificialmente prodotte) atte a suscitare l'indignazione dell'opinione pubblica al suo interno e quella internazionale? E una domanda a cui si cercherà di rispondere nel corso della successiva esposizione. Ma intanto si possono trarre due conclusioni. In primo luogo: ai giorni nostri, sul piano della politica interna, il controllo monopolistico che la grande ricchezza esercita sui mezzi di produzione delle idee e soprattutto delle emozioni svolge un ruolo di gran lunga più importante che ai tempi di Marx. In secondo luogo, occorre prendere atto dei rapporti di forza oggi vigenti sul piano internazionale: mostruoso e di una potenza senza precedenti nella storia è l'apparato militare approntato dagli Stati Uniti. La cosa è ben nota, e a essa prestano la dovuta attenzione sia i paesi costretti
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a vivere sotto la minaccia permanente di bombardamenti, di guerra e di invasione, sia i movimenti impegnati nella lotta per la pace. Meno nota è un'altra realtà, che pure è strettamente connessa alla prima: è la terribile potenza di fuoco multimediale, è il terrorismo dell'indignazione cui può far ricorso la Casa Bianca allorché promuove o conduce i suoi interventi militari. Prima che i bombardieri si levino in volo col loro carico di morte, è già all'opera un'intensa campagna di disinformazione, tesa a isolare il più possibile il nemico e a suscitare contro di lui un'ondata planetaria di indignazione morale. Considerazioni analoghe valgono per le operazioni miranti a destabilizzare il paese nemico o potenzialmente nemico e a promuovere al suo interno il regime change voluto da Washington.
3.2. Compattamento e omertà dell'Occidente Ma tutto ciò non è ancora sufficiente per spiegare il sostanziale monopolio conseguito dall'Occidente (o dalle sue classe dominanti) nella produzione delle idee e delle emozioni. Nel quadro sinora tracciato occorre far intervenire anche il mutamento nei rapporti di forza verificatosi sul piano interno e internazionale a partire dalla crisi del movimento socialista e comunista. Per tutto un periodo storico, nell'ambito di ogni singolo paese, alle trombe delle classi dominanti si sono in qualche modo contrapposte le campane delle classi subalterne, i partiti e i sindacati di ispirazione marxista e di orientamento socialista o comunista. E queste campane hanno continuato a lungo a svolgere un ruolo importante, nonostante il processo di progressiva concentrazione dei mezzi di informazione nelle mani della grande borghesia. Certo, le due parti non combattevano ad armi pari la battaglia mediale o multimediale. Sul piano materiale, i rapporti di forza erano nettamente favorevoli alle classi ricche e dominanti, ma a riequilibrare o a contenere in una certa misura tale sproporzione provvedevano la passione ideale e l'impegno generoso di un numero più o meno elevato di militanti. L'ideologia dominante bollava quale sinonimo di indottrinamento le cellule, le sezioni, le scuole di partito, le riviste, i giornali, i giornaletti e i volantini che erano diffusi al di fuori dei circuiti normali e che passavano di mano in mano e circolavano capillarmente. Ma tutto ciò funzionava al tempo stesso come un rifugio rispetto all'incessante bombardamento multimediale messo in atto dai detentori della ricchezza, del
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potere e dei grandi mezzi di informazione. Qualcosa di analogo avveniva sul piano internazionale: nonostante la schiacciante superiorità materiale e multimediale dell'Occidente, era tutt'altro che irrilevante il contrappeso costituito dal «campo socialista» e dal movimento comunista, ed esso era particolarmente rilevante nel Terzo Mondo, dov'era in corso la rivoluzione anticoloniale. Ora, a farsi sentire e a poter indottrinare, controllando la produzione e diffusione delle idee e soprattutto delle emozioni, sono soltanto le trombe delle classi dominanti, e per di più esse non solo sono diventate più possenti e più pervasive, ma suonano all'unisono e anzi si configurano come una sorta di coro. Sì, occorre tener conto di un altro importante mutamento verificatosi nel panorama internazionale. Per tutto un periodo storico, i conflitti tra le grandi potenze capitalistiche, come tutte le lotte interne alla borghesia e alle classi dominanti, hanno fornito alle classi e ai popoli in condizione subalterna importanti «elementi di educazione» {Bildungselemente) ovvero importanti «elementi di illuminismo e di progresso» {Aufklàrungs-und Fortschrittselemente)-. così si esprimeva il Manifesto del partito comunista (Marx, Engels, 1955-89, voi. 4, p. 471). Era un'osservazione che coglieva nel segno. Messa in stato d'accusa da una larga opinione pubblica internazionale per la brutalità con cui aveva condotto la guerra contro i boeri (rinchiusi in massa in campi di concentramento che preannunciavano l'orrore del Novecento), la Gran Bretagna reagiva con un discorso che il ministro delle Colonie, Joseph Chamberlain, il 15 ottobre 1901 pronunciava a Edimburgo e che in modo allusivo prendeva di mira Russia, Austria, Francia e Germania: «Il governo inglese non si avvicinerà mai a ciò che altre nazioni hanno commesso in Polonia, nel Caucaso, in Bosnia, nel Tonchino e nella guerra del 1870» (in De Rosa, 1986, p. 303). Nel corso della prima guerra mondiale. Max Weber (1988, p. 354) richiamava l'attenzione sulle vergogne del regime di white supremacy in vigore negli Stati Uniti, che pure pretendevano di dare lezioni di democrazia alla Germania. Circa vent'anni dopo, nonostante l'esperienza della fraternità d'armi della prima guerra mondiale, agli USA che criticavano la dura repressione del movimento indipendentista nell'India britannica Kipling (1964, p. 113) replicava affermando che il suo paese non poteva accettare lezioni di moralità dal popolo che aveva «estirpato gli aborigeni del suo continente con una compiutezza sconosciuta a ogni altra razza moderna». Nel corso della loro contesa per l'egemonia, le grandi potenze si smascheravano reciprocamente.
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Ora questo elemento di chiarificazione e di «illuminismo» ha subito un drastico ridimensionamento. Certo, subito dopo la lacerazione verificatasi in occasione della seconda guerra del Golfo del 2003, allorché la Francia si era contrapposta alla politica di Washington e di Londra, un celebre storico, cantore della missione imperiale ieri britannica e oggi americana, così prendeva di mira il paese ribelle: Coloro che oggi vedono nel presidente francese Jacques Chirac l'incarnazione della coscienza della comunità internazionale dovrebbero riflettere sul ruolo della Francia in questo episodio da incubo [dello sterminio in Ruanda dei Tutsi a opera degli Hutu]. Fu la Francia a fornire sin dai primi anni '90 appoggio militare al governo dijuvénal Habyarimana dominato dagli Hutu [...]. Fu la Francia a inviare truppe al fine di stabilire nel Sud-Ovest del paese "aree sicure" per gli Hutu, fra i quali c'erano i perpetratori dei massacri (Ferguson, 2005, p. 149).
In breve: la Francia che nel 2003 denunciava come un immorale spargimento di sangue la guerra scatenata da Bush jr. e Tony Blair senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU e col ricorso a menzogne (le armi di distruzione di massa nelle mani di un Saddam impaziente di usarle), era stata qualche anno prima corresponsabile di un orribile genocidio: lo scambio di accuse faceva rimbalzare l'indignazione da un paese all'altro. Sennonché, ai giorni nostri questa polemica rappresenta l'eccezione: la regola è costituita dalle guerre scatenate di comune accordo e nel corso delle quali le due rive dell'Atlantico si forniscono reciprocamente sostegno non solo sul piano militare ma anche su quello multimediale. Grazie alla schiacciante superiorità militare e tecnologica da essi conseguita, gli USA sono riusciti largamente a compattare il mondo capitalista sotto la loro direzione; i leader europei che si recano in viaggio o in pellegrinaggio a Washington, se anche non si inchinano dinanzi al primato morale e politico della repubblica nordamericana, sono comunque impegnati a celebrare l'Occidente nel suo complesso. Le voci discordanti hanno grandi difficoltà a farsi ascoltare. Mentre crollava il «campo socialista», uno studioso dell'«occidentalizzazione del mondo» tracciava questo quadro: Il mercato dell'informazione è il quasi monopolio di quattro agenzie: Associated Press e United Press (Stati Uniti), Reuter (Gran Bretagna) e France Press. Tutte le radio, tutte le catene di televisione, tutti i giornali del mondo sono abbonati a
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queste agenzie. Il 65 per cento delle "informazioni" mondiali partono dagli Stati Uniti (Latouche, 1991, p. 2.9).
Circa dieci anni dopo, la situazione risultava forse ancora più squilibrata a Favore dell'Occidente e soprattutto del suo paese-guida: I programmi televisivi e i film americani coprono i tre quarti del mercato mondiale [...]. La lingua di Internet è l'inglese, e gran parte delle chiacchiere che scorrono lungo la Grande Ragnatela Mondiale hanno la loro fonte in America [...]. Laureati di università americane si possono trovare nei governi di quasi tutti i paesi (Brzezinski, 1998, p. 38).
A chiarire l'effetto devastante dell'odierno rapporto di forze sul piano multimediale può bastare un esempio: Prima del xooz, per sette decenni, "Los Angeles Times", "New York Times", "USA Today", "Wall Street Journal" hanno descritto il waterboarding [la simulazione dell'annegamento del prigioniero] come una tortura con una frequenza tra 1*81% e il 96% dei casi. Dopo il 2002, quando gli stessi Stati Uniti hanno cominciato a praticare il waterboarding, quei quotidiani l'hanno definito tortura con una frequenza inferiore ai 5% dei casi (Thakur, 2014).
Il potere multimediale operava il miracolo del dileguare della tortura cui faceva ricorso il paese-guida dell'Occidente. Nonostante l'ascesa della Cina e di altri paesi emergenti, il quadro non è cambiato in modo significativo per quanto riguarda la produzione delle idee e delle emozioni. Tanto più che il controllo sulle informazioni e sulle immagini e sulla produzione delle idee e delle emozioni è stato ulteriormente rafforzato mediante il ricorso a misure politiche supplementari. L'esercito di leva, a suo tempo inviato a combattere in Vietnam, era ovviamente riluttante all'arruolamento e, in conseguenza anche di questa sua riluttanza, era spesso fonte di informazioni e di testimonianze imbarazzanti sulla guerra e i suoi orrori. Ben si comprende allora che l'esercito di leva sia stato sostituito da un esercito professionista, costituito di volontari e di contmctors privati. Possono così essere contenute le fughe di notizie. Spezzoni di verità finiscono col trapelare in conseguenza di impreviste smagliature del sistema di controllo; e, anche in assenza di tali smagliature, possiamo immaginare qualcosa della realtà che si cerca in ogni modo di nascondere, interrogan-
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doci sulle ragioni che spingono al suicidio un numero crescente di soldati e reduci statunitensi. Resta il fatto che il regime di controllo della produzione e diflfusione delle idee e delle emozioni ha acquisito una rigidità ed efficienza del tutto nuove.
3.3. Commozione per i neonati e scatenamento della guerra Certo, ci sono i giornalisti. Ma anche in questo ambito non si possono ignorare gli importanti mutamenti nel frattempo intervenuti. Ai giornalisti tradizionali sono subentrati quelli «embedded», inquadrati, nell'esercito invasore e da esso in ultima analisi dipendenti. È un sistema messo a punto e sperimentato con successo nel corso della prima guerra del Golfo, quella che, dopo le passeggiate militari ovvero dopo le rapide invasioni di Grenada e di Panama rispettivamente nel 1983 e 1989, liberava il popolo americano dalla «sindrome del Vietnam» e, almeno per qualche tempo, gli faceva riacquistare il gusto della guerra. Un coraggioso giornalista ha chiarito in che modo si è verificata «la vittoria del Pentagono sui media» ovvero la «colossale disfatta dei media a opera del governo degli Stati Uniti» (MacArthur, 1992,, pp. 208 e 12). Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e per la Casa Bianca). Si trattava di convincere della necessità della guerra un popolo su cui pesava ancora il ricordo del Vietnam. E allora? Accorgimenti vari riducevano drasticamente la possibilità per i giornalisti di intrattenersi con i soldati o di riferire direttamente dal fronte. Nella misura del possibile tutto doveva essere filtrato: il puzzo della morte, il sangue, le sofferenze e le lacrime della popolazione civile non dovevano fare irruzione nelle case dei cittadini statunitensi (e degli abitanti del mondo intero) come ai tempi della guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più difficile soluzione era un altro: occorreva demonizzare l'Irak di Saddam Hussein, che ancora qualche anno prima si era reso benemerito, agli occhi degli USA, aggredendo l'Iran scaturito dalla rivoluzione islamica e antiamericana del 1979 e incline a far proseliti nel Medio Oriente. La demonizzazione sarebbe risultata tanto più efficace se al tempo stesso si fosse resa angelica la vittima. Operazione tutt'altro che agevole, e non solo per il fatto che dura o impietosa era in Kuwait la repressione di ogni forma di opposizione. C 'era qualcosa di peggio. A svolgere i lavori più umili erano gli emigrati, sottoposti a una « schiavitù di fatto», che assumeva spesso forme sadiche (cfr. supra, PAR. 1.7).
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E tuttavia... Cìciicrosamente o favolosamente ricompensata, un'agenzia pubblicitaria statunitense trovava un rimedio a tutto. Essa richiamava l'attenzione su un particolare raccapricciante: i soldati irakeni tagliavano le «orecchie» ai kuwaitiani che resistevano. Ma il colpo di teatro di questa campagna era un altro: gli invasori avevano fatto irruzione in un ospedale «rimuovendo 3iz neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell'ospedale di Kuwait C i t y » (MacArthur, 1991, p. 54). Sbandierata ripetutamente dal presidente Bush sr., ribadita dal Congresso, avallata dalla stampa più autorevole e persino da Amnesty International, questa notizia, così orripilante ma anche così circonstanziata da indicare con assoluta precisione il numero delle vittime, non poteva non provocare una travolgente ondata di indignazione: Saddam era un mostro e, per l'esattezza, era il nuovo Hitler; la guerra contro di lui era non solo necessaria ma anche urgente e coloro che a essa si opponevano o recalcitravano erano da considerare quali complici più o meno consapevoli del mostro ovvero del nuovo Hitler! La notizia era ovviamente un'invenzione sapientemente prodotta e diffusa, ma proprio per questo l'agenzia pubblicitaria aveva ben meritato il suo denaro. La ricostruzione di tale vicenda è contenuta in un capitolo del libro qui citato dal titolo calzante: «Keclamizzare i neonati» {SellingBabies). Per la verità, a essere «reclamizzati» non furono soltanto i neonati. Proprio agli inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in tutto il mondo l'immagine di un cormorano che affogava nel petrolio sgorgante dai pozzi fatti saltare dall'Irak. Verità o manipolazione? A provocare la catastrofe ecologica era stato Saddam o erano stati i suoi nemici? E c'erano realmente cormorani in quella regione del globo e in quella stagione dell'anno? Non importa: indignatasi e mobilitatasi anche per una vittima non umana, la compassione generale, rovesciandosi nel suo contrario, poteva guardare alle bombe che si abbattevano su Baghdad come a uno spettacolo di fuochi di artifìcio. Certo, l'Irak cercava anch'esso di far leva sull'indignazione, sforzandosi di far filtrare in Occidente le immagini terribili delle vittime civili provocate dalle bombe «intelligenti». Pronta risuonava da Washington la risposta, ancora una volta bombardata da un'irresistibile potenza di fuoco multimediale: di quel massacro era responsabile il regime irakeno che aveva ammassato donne e bambini all'interno di un obiettivo militare. Era veritiera tale accusa? L'unica cosa certa è che di nuovo cambiava direzione la corrente della compassione generale, ulteriormente e paurosamente ingrossata dal nuovo crimine addebitato al nemico da liquidare. E così
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l'opera di sistematica distruzione mediante le bombe (e successivamente mediante un embargo non meno micidiale) poteva proseguire all'infinito senza turbare la buona coscienza dei responsabili e degli spettatori.
3.4. Psywar, Revolution in Military Affairs, Internet Wars Selling Bahies: è opportuno ritornare su questa espressione. Contemporanee alla prima guerra del Golfo erano la gestazione e la pubblicazione negli USA di un libro che, prendendo le mosse in particolare dalla guerra di Corea, sottolineava la centralità della Psywar, ovvero della guerra psicologica, e chiariva ulteriormente la sua tesi di fondo, impartendo una serie di consigli: La P S Y W A R strategica implica propaganda, menzogne deliberate e torsione della verità in modo da influenzare le menti e l'opinione pubblica internazionale in senso contrario al nemico [...]. Potete dimostrare le vostre asserzioni con foto di scuole distrutte dalle bombe e di bambini feriti [...]. Il vostro nemico è dipinto come un individuo corpulento che picchia un povero ragazzo esile, una potenza mondiale che usa la sua illimitata potenza in modo illegale e violando gli standard riconosciuti del comportamento internazionale. Potete affermare che i suoi soldati sono professionisti che assassinano senza scrupoli di coscienza. Essi massacrano civili e fanno ricorso a bacilli e a gas velenosi. Essi si propongono di annientarvi totalmente mediante bombe nucleari. In breve, non importa quale sia la "verità": voi siete un bravo ragazzo oppresso e il nemico è Satana, l'immagine della morte (Pease, 1991, pp. 6-7).
Come risultava dalla quarta di copertina, l'autore del libro qui citato era «capo dell'Advanced Systems Division del Quartier Generale dell'Air Force Space Command e ufficiale dell'intelligence con 2,0 anni di carriera». Si trattava dunque di un personaggio autorevole, che si muoveva a suo agio all'interno dell'apparato della Psywar, della guerra psicologica da lui realisticamente descritta e calorosamente raccomandata. Ed egli componeva il suo testo mentre si preparava o era in corso la prima guerra del Golfo, e i suggerimenti contenuti nel suo manuale scolastico di guerra psicologica corrispondevano perfettamente al comportamento e alle trovate del Pentagono e della Casa Bianca. Il manuale di Psywar esigeva di dipingere il nemico come un «Satana» pronto a infierire anche su bambini innocenti; ebbene, nel 1991 le truppe di Saddam erano additate al ludibrio universale per aver rimosso dalle incubatrici ben 31Z neonati
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per farli morire nello squallore e nel freddo del pavimento dell'ospedale infantile. Il «Satana» costruito e preso di mira dal manuale di Psywar mirava ad annientare con le sue bombe nucleari una massa sterminata di persone innocenti: era per l'appunto questa l'accusa in occasione della seconda guerra del Golfo rivolta a Saddam Hussein, nel corso di una campagna propagandistica che insisteva anche sull'imminenza del pericolo. Il «Satana» del manuale di Psywar non si accontentava di infierire sulle sue vittime con le armi nucleari, era pronto a scatenare anche i «bacilli» e i «gas velenosi» a sua diposizione: nel suo discorso del febbraio 2003 al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Colin Powell, segretario di Stato statunitense, si impegnava a dimostrare che Saddam Hussein aveva approntato, o stava febbrilmente approntando, un arsenale di armi chimiche e batteriologiche. Ovviamente, anche altri paesi fanno ricorso alla guerra psicologica. Resta però un fatto: la superpotenza solitaria è in netto vantaggio anche in questo campo e non è seconda a nessun paese in quanto a spregiudicatezza morale. Al di là del manuale scolastico fin qui analizzato, a dimostrarlo sono articoli apparsi su organi di stampa insospettabili di antiamericanismo e dal contenuto inquietante. Si viene a sapere che, alcuni anni fa, un'antropologa dell'Università dello Stato di Washington, Rebecca Lemov, ha pubblicato un libro che «illustra i disumani tentativi della CIA e di alcuni tra i più grandi psichiatri di "distruggere e ricostruire" la mente dei pazienti negli anni ' 50 » (Caretto, 2,006). Possiamo allora comprendere una vicenda svoltasi in quello stesso periodo di tempo. Il 16 agosto 1951 fenomeni strani e allarmanti vennero a turbare Pont-Saint-Esprit, «un tranquillo e pittoresco villaggio» collocato «nel sudest della Francia». Sì, «il paese fu scosso da una misteriosa ondata di follia collettiva. Almeno cinque persone morirono, decine finirono in manicomio, centinaia diedero segni di delirio e di allucinazioni [...]. Molti finirono in ospedale con la camicia di forza». Il mistero, che a lungo ha circondato questo improvviso scoppio di «follia collettiva», è ora a quanto pare dissipato: si trattò - ha rivelato il "Corriere della Sera" - di «un esperimento condotto dalla CIA, insieme alla Special Operation Division (SOD), l'unità top secret dell'Esercito USA di Fort Derrick in Maryland»; gli agenti della CIA «contaminarono le baguette vendute nei forni del paese con LSD», con i risultati che abbiamo visto (Farkas, zoio). Siamo nei primi anni della guerra fredda: certo, gli Stati Uniti erano alleati della Francia, ma proprio per questo essa si prestava bene per gli esperimenti di guerra psicologica, che
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avevano sì di mira il «campo socialista» (e la rivoluzione anticoloniale) ma che difficilmente potevano essere effettuati nei paesi collocati al di là della cortina di ferro. Nel frattempo è intervenuta ed è in pieno svolgimento la Revolution in Military Affairs ( R M A ) , ed essa non riguarda solo l'aviazione, la missilistica, i sistemi militari in senso stretto. A essere investita è anche la Psywar, che ora può disporre di Internet, dei telefoni cellulari, di Facebook, di Twitter, dei social media. Si apre un nuovo capitolo di storia della tecnologia militare e paramilitare, delle relazioni internazionali, della guerra, ed è un capitolo che mi accingo ad analizzare rinviando ad autori e a organi di stampa statunitensi e occidentali, collocati tutt'altro che all'opposizione rispetto al sistema dominante. Già alla fine degli anni Novanta suir"International Herald Tribune" si poteva leggere: «Le nuove tecnologie hanno cambiato la politica internazionale»; chi è in grado di controllarle vede aumentare a dismisura il suo potere e la sua capacità di destabilizzazione dei paesi più deboli e tecnologicamente meno avanzati (Schmitt, 1997). È emersa una nuova arma, suscettibile di volgere i rapporti di forza sul piano internazionale ancora più nettamente a favore dell'Occidente e del suo paese-guida. Ciò non è più un segreto per nessuno. Ai giorni nostri, negli USA, un re della satira televisiva quale Jon Stewart esclama: « M a perché mandiamo in giro eserciti se abbattere le dittature via Internet è facile come comprare un paio di scarpe?» (in Gaggi, 1010). A sua volta, su una rivista vicina al Dipartimento di Stato uno studioso richiama l'attenzione sulle chance e sulle difficoltà di «militarizzare» {to weaponize) i nuovi media. È un'operazione che risulta poco agevole se ci si concentra su obiettivi a breve termine e connessi a un paese determinato; meglio perseguire obiettivi di più ampio respiro (Shirky, zoii, p. 31). In ogni caso, una nuova arma è entrata a far parte dell'arsenale militare. E si tratta di un'arma formidabile. In primo luogo ai fini della destabilizzazione del paese nemico. Come emerge da un documento del 1003 firmato dall'allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il Pentagono «ha a lungo valutato come utilizzare al meglio sul piano militare le opportunità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione». Lo sguardo non è rivolto solo ai tradizionali campi di battaglia: mediante «la disinformazione diffusa all'estero con le operazioni psicologiche (in sigla "PsyOps")» è possibile condizionare o determinare lo sviluppo interno di questo o quel paese. In ogni caso:
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e dei suoi fianchcggiatori interni. Ecco allora gli USA ergersi a difensori dei diritti democratici conculcati dal «totalitarismo» e scatenare la sua potenza di fuoco multimediale per screditare e demonizzare il nemico. Se strangolamento economico e crociata ideologica avevano eroso la base sociale di consenso del governo sandinista, le pressioni militari e il terrorismo (alimentato da Washington) dei contras avevano fiaccato la volontà e la capacità di resistenza. L'atto finale era stato rappresentato da elezioni vinte dalla candidata filo-statunitense. È vero, nel 2,006 Ortega tornava a essere presidente del Nicaragua, ma sulla base di un programma più «moderato», per ora tollerato da Washington (che si riserva tuttora l'ultima parola). Non per questo dilegua l'interrogativo che s'impone a proposito delle elezioni del 1990: possono essere considerate «libere», elezioni caratterizzate da una gigantesca sproporzione sul piano finanziario e multimediale e dall'intervento aperto e intimidatorio di un vicino strapotente, elezioni nel corso delle quali un popolo viene minacciato, in caso di scelta «errata», di divenire il bersaglio di un rinnovato blocco economico e di una rinnovata aggressione militare? Non a caso R D. Roosevelt indicava nella «libertà dalla paura» un prerequisito della democrazia. Non è chiaro come si potrà evitare o rimettere in discussione il trionfo della plutocrazia nei paesi capitalistici sviluppati. Una cosa però è certa: come dimostra il caso emblematico del Nicaragua, la rnancanza di democrazia nei rapporti internazionali blocca l'avvento o lo sviluppo della democrazia all'interno della stragrande maggioranza dei paesi. E, tuttavia, ad atteggiarsi a campioni della causa universale della democrazia sono proprio coloro che respingono sdegnosamente gli appelli alla democratizzazione dei rapporti internazionali! Disgraziatamente, i sedicenti campioni della democrazia continuano a godere largo credito nella sinistra occidentale, che spesso ha salutato come rivoluzioni democratiche colpi di Stato messi in atto o tentati in base alla legge del più forte sul piano interno e internazionale.
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La costruzione deiruniversalismo imperiale
5.1. Dal protezionismo commerciale e ideologico all'imperialismo del libero commercio e dei diritti umani Ripetuti, insistenti, pressanti e persino ultimativi sono i proclami universalistici che provengono da "Washington: pertanto, molti sono portati a pensare che tale politica rappresenti una costante nella storia degli USA. Ebbene, non ci potrebbe essere conclusione più precipitosa e più fallace! In realtà, abbiamo a che fare con un paese a lungo campione del protezionismo economico e politico-ideologico. Per quanto riguarda il primo punto, basti riflettere su una circostanza: a metà dell'Ottocento, pur di sviluppare la sua industria nazionale, l'Unione non esitava a mettere in conto anche la (sanguinosissima) guerra di secessione e lo scontro con gli Stati del Sud, danneggiati dalle alte tariffe doganali che consentivano il decollo dell'industria del Nord ma rendevano assai difficile l'esportazione dei prodotti agricoli del Sud. Per quanto riguarda il «protezionismo» politico-ideologico, esso emergeva con chiarezza dalla dottrina Monroe. I dirigenti di Washington proclamavano al mondo: decisi a restare estranei ai conflitti europei, qualunque siano gli interessi, le ideologie e i valori in gioco, in nessun caso intendiamo discostarci dalla «nostra politica» né tanto meno tolleriamo interferenze a danno dei «nostri diritti», della «nostra pace» e della «nostra sicurezza», della «nostra felicità» in «questo emisfero», nel «nostro continente», dove «le condizioni sono profondamente diverse»; respingeremo ogni tentativo di contaminare U Nuovo Mondo col «sistema politico» europeo, che «è essenzialmente diverso da quello dell'America» (in Commager, 1963^, voi. i, pp. 2,36-7). In questo solenne documento, tutto incentrato sul culto dell'irriducibile peculiarità americana, non c'era spazio per valori universali^ non a caso nel Sud la schiavitù nera co-
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minciava a essere definita come la «pcculiar institution», che a occhi estranei poteva apparire singolare e che tuttavia non poteva essere messa in discussione senza privare della sua irrinunciabile identità il popolo che l'aveva espressa. Gli USA erano così poco interessati all'universalismo che a metà dell'Ottocento, mentre richiamandosi esplicitamente alla dottrina Monroe mettevano in guardia le potenze europee contro ogni interferenza nelle vicende interne del continente americano (G. Smith, 1994, p. 24), reintroducevano la schiavitù nel Texas strappato con la guerra al Messico. Il culto della peculiarità non è una vicenda conclusasi nell'Ottocento. Nel 1928, nel celebrare il «sistema americano» ovvero «il nostro sistema politico ed economico Americano», il presidente Herbert Hoover ci teneva a sottolineare che esso «differisce essenzialmente da tutti gli altri nel mondo». Non si doveva confondere il «rude individualismo» {rugged individualism) e lo «spirito del popolo americano» con «una filosofia europea di dottrine diametralmente opposte, di dottrine all'insegna dei paternalismo e del socialismo di Stato» (propri sia della Russia sovietica che della repubblica di "Weimar) (in Schlesinger jr., i973a, pp. 2229-31). Si potrebbe obiettare che questa era la visione solo del Partito repubblicano di cui Hoover faceva parte, ma non è così. Prendiamo uno dei pivi illustri presidenti democratici nella storia degli USA, che sembrerebbe dover essere l'espressione più compiuta dell'universalismo. Ebbene, "Wbodrow Wilson, pur promuovendo l'intervento del suo paese nella prima guerra mondiale in nome della diffusione della democrazia su scala planetaria (e della conseguente realizzazione della pace perpetua), non era secondo a nessuno nella celebrazione dello «spirito americano» (da considerare il vero vincitore della guerra), dei «principi americani», del «vero, autentico americanismo» (Wilson, 1927, voi. 2, pp. 12, i e 509). Al momento della fondazione della Società delle Nazioni, Wilson otteneva l'inserimento dell'art. 21 che consacrava l'inviolabilità della dottrina Monroe e in ultima analisi il protettorato degli USA sull'America Latina, col risultato che «l'autorità della Società riguardava solo una metà del mondo, quella "orientale"», non l'emisfero occidentale (G. Smith, 1994, pp. 30-1). E, tuttavia, anche questa soluzione finiva con l'essere bocciata dal Senato, più che mai deciso a respingere la confusione della nazione eletta da Dio con la massa delle nazioni profane. Nel corso della campagna elettorale del 1936, se la piattaforma repubblicana accusava F. D. Roosevelt di tradire il «sistema americano», la piattaforma democratica dichiarava a sua volta di voler proseguire nel
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«ristabilimento del modo americano di vivere» {American way ofliving), e dell'«autentico americanismo» (Commager, 1963^, voi. z, pp. 354, 358 e 361). E D. Roosevelt in persona, nel celebrare il «nostro sistema americano» e nel criticare Jefferson per essersi lasciato troppo influenzare dalle «teorie dei rivoluzionari francesi», chiamava i suoi concittadini a opporsi non solo al comunismo ma anche a «qualunque altro "ismo" forestiero» (Roosevelt, 1941, pp. 28 e 30; Schlesinger jr., 1959-65, voi. 3, p. 638). Dati questi presupposti, ben si comprende che nell'ambito della tradizione politica della repubblica nordamericana, per delegittimare o scomunicare una corrente politica si faccia ricorso all'a^ettivo un-american, mentre i termini American e Americanism servono a consacrare gli ideali di cui un cittadino statunitense autentico e responsabile deve nutrirsi, i programmi politici che egli è chiamato a realizzare. Per buona parte della storia degli USA, a essere bollato come un-american era anche ciò che proveniva dall'Europa, così esclusivo e geloso era il culto della peculiarità «americana». Nel periodo che va dalla rivoluzione francese sino al maccartismo, tutte le correnti democratiche radicali e rivoluzionarie sono state bollate quali un-american, e i loro seguaci perseguitati in quanto suscettibili di contaminare e infettare un paese felicemente caratterizzato ÀzVCexceptionalism, da un destino sacro ed esclusivo; in occasione della guerra fredda, il maccartismo spiava, licenziava, incarcerava, perseguitava non solo i comunisti ma anche tutti coloro che erano sospettati di coltivare idee un-american e comunque difformi dall'americanismo autentico. Per tutto un periodo storico, non solo Washington non agitava la bandiera dell'universalismo ma, in America Latina, in nome della difesa della dottrina Monroe e Americanism, teorizzava, programmava e metteva in atto il rovesciamento di governi eletti democraticamente e nel rispetto di quello che oggi viene considerato il principio universale di legittimazione del potere. È solo a partire dalla fase finale della guerra fredda che il quadro cambia in modo radicale: i paesi socialisti e il movimento comunista si indeboliscono gravemente anche sul piano ideologico, politico e propagandistico, e ciò apre uno spazio nuovo e amplissimo per l'universalismo imperiale. A partire da questo momento, che siano democratici o repubblicani, i presidenti statunitensi non si stancano di celebrare le virtù del libero mercato e della democrazia, che essi si riservano il diritto di imporre su scala mondiale e «universale», facendo ricorso a pressioni diplomatiche, allo strangolamento economico ovvero a interventi militari veri e propri. E così che l'iniziale protezionismo
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5.2. L'Occidente dal politeismo al monoteismo dei valori
Diversa è la storia dell'Europa, che però è anch'essa tutt'altro che unilineare. Subito dopo la fine della prima guerra mondiale, che aveva visto scontrarsi in una lotta mortale i principali paesi dell'Europa e dell'Occidente, Max "Weber tracciava questo bilancio: Come si possa fare per decidere "scientificamente" tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro. Anche qui c e un antagonismo tra divinità diverse, in ogni tempo [...]. Su questi Dei e sulle loro lotte domina il destino, non certo la "scienza". È dato solamente intendere che cosa sia il divino nell'uno o nell'altro caso, ovvero in un ordinamento o nell'altro (Weber, 1966, pp. 31-2,).
Il gigantesco conflitto appena conclusosi andava ben al di là del contenzioso materiale e geopolitico. Le grandi potenze europee e occidentali si erano scontrate a partire da « valori » e persino da « divinità diverse » e tra loro inconciliabili. Sì, di Glaubenskrieg, ovvero di guerra di fedi contrapposte ave parlato il tedesco "Werner Sombart. Di questo avviso erano anche i nemici della Germania, a giudicare almeno dall'intervento dell'inglese Léonard T. Hobhouse, che aveva proclamato: «L'Europa subisce il suo martirio, milioni di persone muoiono al servizio di falsi dèi, altri milioni nel resistere ad essi». E quali erano questi valori o divinità contrapposte? Per il lettore odierno può essere stupefacente vedere che tra il 1914 e il 1918 era principalmente la Germania a ergersi a custode del valore della dignità e libertà dell' individuo. Per dirla con Georg Simmel, 1 ' « individualismo » era una caratteristica « del tutto inseparabile dall'essenza tedesca». Ben diversa era la Francia che era caratterizzata - dichiarava questa volta Max Scheler - da una «congenita abitudine e fede superstiziosa nello Stato assoluto e onnipotente fin dentro l'intimità dell'uomo»; d'altro canto, anche nell'Inghilterra erano all'opera «l'umiliazione e persino il soffocamento dell'individuo spirituale», anche se in questo caso a produrre tale risultato era l'onnipotenza non del potere statale bensì della «tradizione», della «convenzione», del «costume»'. I. Su tutto ciò cfr. Losurdo (1992), cap. 11, par. i; (1997), cap. 14, parr. ii-z.
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Sul versante opposto, la Germania era raffigurata come l'incarnazione di un Antico regime, inguaribilmente ostile ai valori della democrazia e della pace, gelosamente custoditi invece dai paesi della coalizione antitedesca (della quale però faceva parte anche la Russia rimasta zarista sino al 1917). Come si vede, ben lungi dal presentarsi come il custode unitario di valori universali, quello che oggi chiamiamo Occidente appariva lacerato. E solo con l'avvento della guerra fredda che il quadro cambia. E non immediatamente. Ancora nel 1953, sperando di salvare qualcosa dell'Impero britannico o comunque di garantire al suo paese un ruolo privilegiato, nel mettere in guardia contro il pericolo rappresentato dal comunismo sovietico e orientale, piuttosto che fare appello all'Occidente in quanto tale, in una lettera al presidente statunitense Eisenhower del 5 aprile Churchill invocava 1'«unità del mondo di lingua inglese» {unity of the EnglishSpeaking world) e sottolineava il ruolo essenziale al suo interno della Gran Bretagna «con i suoi ottanta milioni di abitanti di lingua inglese» (in Boyle, 1990, p. 34). Con l'affermarsi dell'egemonia incontrastata degli USA, il discorso alla Churchill diventava obsoleto, tanto più che esso non poteva non apparire controproducente negli anni in cui si sviluppavano la rivoluzione anticoloniale e la rivolta dei «popoli di colore».
A partire da questo momento dileguano del tutto il politeismo dei valori e lo scontro tra divinità diverse e contrapposte; tutto ciò cede il posto all'Occidente quale soggetto sostanzialmente unitario e custode unitario di valori universali. Certo, tale pretesa appare problematica alla luce delle pagine terribili scritte dal colonialismo occidentale. Ma finisce con il fare scuola quello che potremmo definire lo stratagemma di Hannah Arendt. Le origini del totalitarismo descrivono senza indulgenze i misfatti de colonialismo, colpevole ad esempio di aver «ridotto la popolazione indigena (del Congo) dai 10-40 milioni del 1890 agli 8 milioni del 1911». Responsabile di tale politica di sterminio è Leopoldo 11, re del Belgio, il quale, però, agendo in tal modo, si sarebbe mosso in contrasto con «tutti i princìpi pohtici e morali dell'Occidente» (Arendt, 1989, pp. 157 e 159 nota). Sul piano storiografico si tratta di un'affermazione assai singolare: la tragedia del Congo non è certo una vicenda isolata nell'ambito dell'espansione coloniale dell'Occidente; i congolesi non hanno subito una sorte peggiore degli aborigeni del Nord America, dell'Australia, della Nuova Zelanda ecc. E, tuttavia, grazie a tale stratagemma o rito di purificazione ovvero grazie a questa aprioristica autodefinizione, l'Occidente può ergersi a interprete privilegiato o esclusivo di valori universali.
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