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Italian Pages 496 Year 2010
MARKUS HEITZ LA GUERRA DEI NANI (Der Krieg Der Zwerge, 2004) Dedicato a tutti coloro che portano nel loro cuore il piccolo eppure grande popolo dei nani NOTA DELL'AUTORE La storia di Tungdil e dei suoi amici nani prosegue! Dopo il gradito successo del piccolo popolo, in cui molti non avevano creduto, da parte dei lettori si è fatta presto sentire la richiesta di un seguito. Un qualunque seguito punta a non ripetere ciò che già si sa, e allo stesso tempo a essere valido almeno quanto ciò che lo ha già preceduto. Inoltre, desideravo che le lettrici e i lettori potessero cominciare leggendo La guerra dei nani senza avere per forza letto Le cinque stirpi. Quindi mi sono concentrato sul conflitto tra i nani, già accennato nel primo romanzo, senza però tralasciare la profezia su una minaccia dall'ovest. A questo punto è il caso di dirlo: la storia diventerà ancora più nanesca! E assolutamente imprevedibile... I miei ringraziamenti vanno ad Angela Kuepper e alle prime lettrici e ai primi lettori: Nicole Schuhmacher, Sonja Rüther, Meike Sewering, Tanja Karmann e il dottor Patrick Muller. Non da ultimo vorrei menzionare la Piper Verlag, che ha dimostrato di avere a cuore i nani. Markus Heitz, luglio 2004 «Nella battaglia di Giogonero ho visto troll singhiozzare, mezz'orchi piangere e i più duri dei nostri guerrieri cedere alla disperazione. Ma non ho mai visto un nano arrendersi.» Paldurìl, membro della Guardia personale del sovrano dell'Âlandur, il principe degli elfi, Liútasil «Intorno ai nani. Vivono in oscure caverne; nonostante la loro modesta statura, con le loro asce affilate abbattono un grosso mezz'orco con un singolo colpo; for-
giano le migliori lame della Terra Nascosta; svuotano barili di birra senza diventare particolarmente ubriachi. E questo lo fanno le loro donne.» Dalle Annotazioni sui popoli della Terra Nascosta, sulle loro particolarità e peculiarità, Grande archivio di Viransiénsis, regno di Tabaîn, redatte dal magister folkloricum M.A. Het nel 4299° ciclo solare «Una volta la morte andò da un nano e voleva prenderlo con sé, ma il nano piantò bene gli stivali sulla pietra su cui stava, abbassò la fronte con fare testardo e disse di no. La morte passò oltre.» Detto popolare tramandato oralmente nel sud del Sagreîn DRAMATIS PERSONAE LE STIRPI DEI NANI I Primi Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta della stirpe del Primo, Borengar, detta anche «dei Primi», regina dei Primi Gufgar Forteincudine del clan dei Chiodidiferro, plenipotenziario della regina Balyndis Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, fabbro Bulingar Ditadiferro, padre di Balyndis Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, guerriero Fynra Testanobile del clan dei Cercaferro, messaggera Beldobin Forteincudine del clan dei Chiodidiferro, messaggero I Secondi Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita della stirpe del Secondo, Beroïn, detta anche «dei Secondi», re dei Secondi Boïndil Duelame, detto anche il Rabbioso, e Boëndal Manouncinata del clan dei Branditori d'ascia, guerrieri e gemelli
I Terzi Tungdil Manodoro, guerriero ed erudito Lorimbas Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia della stirpe del Terzo, Lorimbur, detta anche «dei Terzi», re dei Terzi Romo Cuordacciaio, nipote di re Lorimbas e guerriero Salfalur Frangiscudo del clan degli Occhiodisangue, Mastro di guerra Theogil Manodura del clan dei Colpoduro, sentinella I Quarti Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento della stirpe del Quarto, Goïmdil, detta anche «dei Quarti», re dei Quarti e imperatore dei nani I Liberi Gemmil Pugnocalloso, re dei Liberi Sanda Ardentecoraggio, regina dei Liberi Myrmianda Pelledalabastro, chirurga Bramdal Lamadimaestro, boia GLI ESSERI UMANI Andôkai la Burrascosa, maga Djerun, guardia del corpo di Andôkai L'Incredibile Rodario, attore Furgas, magister technicus Narmora, mezz'alba, compagna di Furgas e attrice Dorsa, sua figlia Rosild, balia Principe Mallen von Ido, signore del regno di Idoslân Re Belletain, signore del regno di Urgon Re Bruron, signore del regno di Gauragar Regina Umilante, signora del regno di Sangreïn Regina Wey IV, signora del regno di Weyurn Regina Isika, signora del regno di Rân Ribastur
Re Nate, signore del regno di Tabaîn Truk Elius, funzionario di Bergensstadt Hosjep, carpentiere Aspila, abitante di Gastinga Ertil, abitante di Porista Nufa, apprendista di Nudin/Nôd'onn Vallasin, comandante dell'esercito di Belletain GLI ALTRI Liútasil, principe degli elfi dell'Âlandur Nagsor Inàste e Nagsar Inàste, sovrani dello Dsôn Balsur, il regno degli albi Ondori, alba Shanamil, alba Estugon, albo Ushnotz, principe di mezz'orchi del Toboribor Runshak, luogotenente di Ushnotz
LIBRO PRIMO
PROLOGO Terra Nascosta, Monti Rossi, est del regno dei Primi, 6234° ciclo solare, tardo inverno I fiocchi di neve turbinavano senza sosta. Cadevano dal cielo vorticando sui Monti Rossi come danzatori ubriachi, che poi il vento distribuiva a suo piacere tra i pendii, dove coprivano le rupi come un bianco fazzoletto. Le nuvole riversavano il loro carico ormai da molte rotazioni, tanto che la neve raccolta sui declivi sarebbe bastata a coprire dieci nani in piedi l'uno sull'altro. Con la cotta di maglia coperta da uno spesso strato di pelliccia, Boëndal Manouncinata del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe del Secondo, Beroïn, stava su una delle nove torri, la seconda per altezza, e guardava verso est. Davanti a lui si estendeva la Guardiadiferro orientale, la fortezza della schiatta di Borengar, il primo fabbro dei nani. Le duplici mura poggiavano di fronte alle pareti rocciose delle montagne, a formare una potente barriera. In quei bastioni erano inserite otto delle nove imponenti torri, collegate tra loro a un'altezza vertiginosa da ponti sospesi. La più alta torre della Guardiadiferro stava alle spalle del secondo muro; da essa partiva un largo ponte che costituiva l'unico ingresso alle montagne e al regno dei Primi. Sull'altro versante dei Monti Rossi si levava una fortezza gemella, la Guardiadiferro occidentale, costruita allo stesso modo: un ostacolo insormontabile per i mostri che assalivano la Terra Nascosta. Maledetta attesa! Il nano, che era stato ospitato nel regno dei Primi, soffocò uno sbadiglio. Il paesaggio innevato - per quanto fosse bello da guardare nelle notti chiare, in cui veniva rischiarato dalla luce della luna - continuava a non portargli nessuna novità e, inoltre, poteva nascondere pericoli inaspettati. Torri, spalti e ponti della fortezza dei Primi dovevano infatti essere sgombrati dalla neve con assiduità, poiché quella, accumulandosi, faceva gravare sulle strutture parecchie tonnellate, minacciando di farle crollare. I costruttori della roccaforte avevano tenuto conto dei possenti attacchi dei troll e del rabbioso impatto dei proiettili delle catapulte e dei giganteschi arieti, ma nessuno aveva previsto che potesse cadere così tanta neve. «Viene da occidente», disse uno dei nani di guardia, lanciando al cielo uno sguardo cupo. Il freddo trasformava il suo respiro in nuvolette; sotto il
naso, uno strato di brina copriva la folta barba castano scuro. La sentinella sbuffò, prese un boccale e lo immerse nel paiolo colmo di birra speziata. Sotto vi bruciavano braci di carbone, che mantenevano calda la bevanda senza far evaporare l'alcol. Il nano vuotò il boccale d'un fiato e ruttò forte; poi lo riempì di nuovo e lo porse in direzione di Boëndal. «Non era mai venuta da ovest. Sempre e solo da nord.» Boëndal accettò volentieri; in notti come quella, la forte bevanda d'orzo strappava il freddo dalle viscere. Gli anelli della cotta di maglia che portava sopra il farsetto di cuoio tintinnarono gli uni contro gli altri. Anche se si stavano rimarginando bene, le ferite che aveva sulla schiena gli dolevano ancora a ogni movimento. Fece una smorfia. «Come va?» chiese l'altro, preoccupato. «Ho sentito dire che le frecce degli albi feriscono in modo particolarmente doloroso.» «Va abbastanza bene», rispose Boëndal. «Il dolore mi ricorda il grande aiuto che mi ha concesso il nostro dio, Vraccas, facendomi sopravvivere alle due frecce che mi hanno colpito.» E se lo ricordava davvero. Dopo aver viaggiato in lungo e in largo per la Terra Nascosta, lui e i suoi amici si erano diretti verso la Guardiadiferro, dove si erano inaspettatamente trovati sotto il tiro degli albi. Lui era stato quello colpito più duramente: le frecce piumate gli avevano perforato l'armatura e cavato fiumi di sangue dal corpo. «Ma certo devo la mia vita anche a voi, che mi avete accolto e accudito», aggiunse. «Hai mai combattuto contro un albo?» «No. Finora abbiamo dovuto difendere il passo da orchi e mezz'orchi», rispose la sentinella. «Gli albi assomigliano agli Orecchi appuntiti, vero?» Boëndal annuì. «In tutto e per tutto. Alti, slanciati, rapidi; solo un po' più perfidi.» «Peccato non averli uccisi. Con loro in circolazione, per i tuoi amici sarà più difficile compiere la missione.» La sentinella guardò verso nord-ovest, là dov'erano riposte le speranze della Terra Nascosta: Vapordrago, una fucina dal calore straordinario, in cui gli amici di Boëndal dovevano forgiare un'arma capace di sconfiggere il male che affliggeva la Terra Nascosta. «Tungdil ce la farà», replicò Boëndal con convinzione. «Il mio gemello Boïndil e gli altri nani forgeranno con lui un'arma che annienterà il male.» «Ho sentito parlare dell'ascia leggendaria che devono forgiare: la Lama di Fuoco», riprese il nano. «Sarà davvero in grado di uccidere Nôd'onn, con tutti i poteri di cui il mago dispone?» Nella voce della sentinella traspariva chiaramente una vena di scetticismo.
«Non ti preoccupare. Un'antica pergamena dice che il filo della Lama di Fuoco può attraversare carne e ossa fino a colpire e distruggere il demone che possiede un corpo. E che poi tutto ciò che ha fatto si tramuterà di nuovo in bene.» Boëndal guardò l'altro negli occhi. «Deve funzionare, e funzionerà. Siamo nani, i custodi della Terra Nascosta. Noi facciamo ciò che dev'essere fatto.» Boëndal bevve la sua birra speziata, godendosi il tepore che gli si diffondeva dentro il corpo. «Novità sulla vostra regina Xamtys?» chiese quando l'attesa divenne insopportabile. Accompagnata dai migliori guerrieri, la sovrana dei Primi si era messa in viaggio attraverso i tunnel che collegavano i regni dei nani. Ingegneri pieni d'inventiva vi avevano costruito binari di metallo su cui potevano scorrere dei vagoncini; un raffinato sistema di saliscendi rendeva possibile procedere speditamente sotto la Terra Nascosta. «Per Vraccas, quanto darei per qualche notizia sulla sua sorte», brontolò la sentinella, giocherellando con una ciocca della barba. «Stava andando a una riunione pacifica, e si è trovata a dover aiutare le altri stirpi nella guerra contro le schiere di Nôd'onn. A parte questo, non sappiamo nulla sul suo destino e su quello dei guerrieri che erano con lei.» Teneva la mano sinistra mollemente appoggiata sul parapetto della torre. «Niente è peggio dell'attesa.» Lanciò uno sguardo verso Boëndal. «Ma che te lo dico a fare? Quando faccio il mio turno di guardia ti trovo sempre qui sopra. Notte e giorno. Non dormi mai?» Boëndal mandò giù quello che restava della birra. «Come posso dormire, mentre i miei compagni corrono pericoli del genere?» Restituì il boccale. «Grazie. Mi ha ridato forza e calore.» Mentre si risistemava la pelliccia, il guerriero puntò di nuovo lo sguardo sul monotono paesaggio bianco sotto di lui. Guardò la gola che dava accesso alla potente fortezza di Guardiadiferro, e pregò il dio Vraccas di fargli scorgere suo fratello e gli altri, partiti con lui per sconfiggere il male. È la più grande avventura che un nano possa vivere, e io non sono con loro, rimuginò pieno di malinconia. Le ferite infertegli dalle frecce e la perdita di sangue l'avevano costretto a letto per molto tempo; era troppo tardi per partire, non li avrebbe più raggiunti. In battaglia i suoi amici avrebbero sentito la sua mancanza e quella della sua micidiale azza. Vraccas, se mi hai fatto rimanere qui tra i Primi devi avere in serbo qualcosa per me. Le grosse mani si strinsero a pugno. Ma certo avrei preferito essere a fianco di mio fratello. Boëndal chiese gli occhi e richiamò alla mente i volti dei suoi amici.
C'erano Bavragor Pugnomartello, della stirpe dei Secondi, lo scalpellino privo di un occhio, sempre intento a bere e a cantare, che si era introdotto nel gruppo solo grazie a uno sfacciato stratagemma, e Goïmgar Barbalustra, nano piuttosto delicato della stirpe dei Quarti, un pavido levigatore di pietre preziose, la cui barba e il cui viso rilucevano a causa della polvere di diamanti che vi si era depositata nell'arco di una vita passata al banco per la levigatura. Rivide Tungdil, intrepido nano dalla corta barba bruna, che doveva ancora dimostrare di essere un valido capo; uniti a lui da una particolare amicizia, Boëndal e suo fratello si consideravano padrini di Tungdil, che sapeva ancora molto poco del mondo dei nani. Aveva conosciuto a malapena Balyndis Ditadiferro, fabbro della stirpe dei Primi; di lei non sapeva praticamente nulla. Infine, c'era il suo bellicoso e collerico fratello gemello, Boïndil Duelame, detto il Rabbioso; era robusto e massiccio, coi capelli neri rasati ai lati del cranio e raccolti dietro da una spessa treccia che gli arrivava alle ginocchia. Agli altri nani sembrava sempre un po' folle: l'intenso fuoco della sua fucina vitale e il sangue caldo erano la sua maledizione, ma anche la sua risorsa. Boëndal riaprì gli occhi. Mio fratello li proteggerà da qualunque nemico possano incontrare. Vraccas, che la tua benedizione scenda su di loro. Attraverso l'acuto stormire del vento, che s'insinuava tra gli aggetti delle mura e tra gli spuntoni rocciosi cantando la sua canzone, il nano percepì il tintinnio di una cotta di maglia: qualcuno si avvicinava di gran fretta alla torre su cui si trovava. Boëndal si voltò e vide un messaggero correre lungo lo spalto. Respirava affannosamente; presumibilmente aveva salito le scale di corsa per portare il più in fretta possibile le novità. «Ce l'abbiamo fatta!» gridò per farsi sentire sopra la bufera di neve; ogni sua parola era colma di gioia e di orgoglio. «È appena giunta la notizia: i nani hanno sconfitto Nôd'onn combattendo a fianco degli elfi e degli uomini!» In preda all'eccitazione e all'entusiasmo suscitati dalle buone notizie, le sentinelle circondarono il messaggero, trascurando le loro posizioni. «La Terra Nascosta è libera dalla magia di quel demone che ha portato tra noi la Terra Estinta!» annunciò il messaggero. Si guardò intorno fino a scorgere tra la folla il volto di Boëndal. «Devo riferirti che Tungdil e tuo fratello stanno venendo a prenderti. Vogliono ritornare nel regno dei Quinti per ripopolarlo.» Boëndal non riuscì a trattenersi, e lacrime di sollievo gli riempirono gli occhi. Si appoggiò al muro e inviò una silenziosa preghiera a Vraccas,
ringraziandolo con tutto il cuore per il buon esito dell'impresa. Poi raggiunse il paiolo fumante di birra, prese un boccale dallo scaffale posto accanto al fuoco e lo riempì. «Un brindisi al nostro popolo!» gridò felice. Gli altri nani gli fecero eco in coro, attingendo anche loro dal paiolo pieno di birra. Con un gesto esuberante, la sentinella rimasta per ultima afferrò l'intero paiolo, nonostante il peso, e bevve tutta la birra che era avanzata. «Noi siamo i figli del Fabbro! Annienteremo tutto ciò che Tion, nella sua malvagità, getterà all'assalto della Terra Nascosta!» I nani presero a battere ritmicamente le loro armi contro la pietra, brindarono tra loro e vuotarono i boccali. Il messaggero sogghignò. «Già cominciate coi festeggiamenti? La regina ha fatto capire che, non appena sarà tornata, per tre rotazioni non faremo altro che aprire botti e goderci un banchetto dietro l'altro.» «Questo sì che è parlare!» proruppe la sentinella con cui si era intrattenuto Boëndal. Poi si accinse a tornare alla sua postazione. «E tu puoi finalmente dormire», gli disse ammiccando. «Tuo fratello sta bene, come hai sentito tu stesso.» Con quella consapevolezza arrivò una profonda stanchezza, che piombò addosso a Boëndal come un quintale di piombo. «Sì. Ora posso coricarmi.» Sorrise e gettò un ultimo sguardo verso est, dove immaginava si trovasse il suo gemello. «Tutte le fatiche, i dolori e le pene che Tungdil e gli altri hanno sofferto alla fine sono stati ricompensati.» Inspirò profondamente l'aria fredda, che d'un tratto gli parve più pulita e dall'odore ancora migliore. «Non ho mai dubitato che ce l'avrebbero fatta, eppure stento a crederci.» La sentinella annuì. «È come combattere un drago per cicli interi, nel tentativo di scacciarlo dalla montagna, e alla fine trionfare. La gioia è così tanta da non sapere che fare.» Si appoggiò al muro e sogghignò. «A parte fare una festa come si deve, ovviamente.» Boëndal tacque per qualche istante. «Quale sarà il futuro della Terra Nascosta?» chiese poi. «Vivremo una nuova età di amicizia tra tutti i popoli? Se perfino gli elfi combattono fianco a fianco con noi, si potrebbe tentare una riconciliazione. Piano piano, la faida tra noi e loro verrebbe messa da parte.» Il volto barbuto della sentinella fece una smorfia, il suo naso si arricciò. «Solo dopo che gli asini impareranno a volare», replicò scettico. «Un'alleanza ci renderebbe ancora più forti», insistette Boëndal, ostina-
to. «Non penso che Tion si rassegnerà. Il male che minaccia la nostra patria ha altri volti, a parte quello di Nôd'onn.» Fissò l'altro nano. «Tu non permetteresti mai agli Orecchi appuntiti di vivere a casa tua; neanche io lo permetterei. Ma si tratta solo di discutere e d'incontrarsi regolarmente. Niente di più.» La sentinella ruttò e sputò giù dal muro. Ancora in volo, lo sputo si trasformò in un piccolo ammasso di ghiaccio e scomparve nello strato di neve che copriva il tetto di una torre più bassa. «Sì», mormorò con poca convinzione. «L'imperatore dovrebbe fare qualcosa del genere. Ma trovo che gli elfi siano troppo...» «Presuntuosi? Belli?» chiese Boëndal, cercando di aiutarlo. «Effeminati.» La sentinella aveva dovuto riflettere un po' per trovare quella parola, e ne sembrava soddisfatto. «Sì, sono effeminati. E la loro cultura, tanto osannata dagli uomini, non li ha salvati dagli albi, né lo ha fatto la loro sensibilità.» Diede una pacca sulla spalla di Boëndal. «Noi siamo scolpiti nella pietra, e non siamo per niente effeminati. Probabilmente nella battaglia di Giogonero li abbiamo salvati dalla rovina.» Boëndal avrebbe voluto ribattere, ma vide qualcosa oltre la cortina di neve: una stella cadente, che pareva grande come una moneta, tracciava la sua scia luminosa da est a ovest puntando dritto verso di loro. «Guarda!» gridò all'altro, facendogliela notare. A mano a mano che si avvicinava, la coda sfumava dal bianco al rosso. Improvvisamente brillò di un rosso abbagliante, poi si polverizzò. In quel punto rimasero dei puntini rosso scuro, che si spensero lentamente. A Boëndal vennero in mente delle gocce di sangue. «È un presagio buono o cattivo?» gli chiese la sentinella, disorientata. «Non ci ha colpiti», constatò Boëndal, asciutto. «Per cui direi che è un segno di buon auspicio. Una scintilla della forgia di Vraccas, forse, che vuole...» D'un tratto comparve un'altra stella cadente. Sibilando, sfrecciava anch'essa diretta a ovest, abbassandosi verso la terra senza accennare ad affievolirsi. «Per Vraccas», balbettò il vicino di Boëndal, serrando involontariamente lo scudo con più forza, come se il sottile pezzo di legno laminato di metallo potesse offrire una qualche protezione dalle potenze celesti. «Sei sicuro che sia una scintilla della Fucina Eterna, e non la collera di Tion?» «Vraccas, aiutaci!» gridò un altro nano, sgomento. «Una stella è stata strappata dal firmamento!»
«Forse è il sole che dorme! È caduto dal suo rifugio notturno e non si è ancora svegliato!» suppose un altro, preoccupato. «Svegliamolo, così tornerà su in cielo!» Batté con forza sullo scudo, facendolo vibrare. Dapprima della grandezza di una moneta, la stella cadente si gonfiò rapidamente raggiungendo le dimensioni di un sacco di cuoio colmo, e continuò a crescere, fino a che neppure delle pale di mulino infuocate sarebbero bastate più a descriverne le dimensioni. Stridendo e ruggendo, l'astro sfondò la coltre di nubi trascinando dietro di sé una coda rosso scuro che immerse le torri e i volti dei nani in una strana luce crepuscolare. Il calore che irradiava trasformava i fiocchi di neve, ancora turbinanti, in gocce d'acqua che, atterrando, si trasformavano di nuovo in ghiaccio. In pochi attimi gli spalti, i ponti e le scale furono ricoperti da una spessa corazza trasparente. «Mettetevi al riparo!» gridò Boëndal, gettandosi sul pavimento in pietra. Nel farlo sentì degli scricchiolii, perché il ghiaccio che gli si era formato sull'elmo e che gli si era allargato sulla schiena si spezzava a ogni movimento. Scivolò pancia in giù sul pavimento congelato, fino a sbattere contro lo scaffale posto accanto al focolare. A ogni movimento, le ferite sulla schiena si ribellavano con fitte dolorose; Boëndal strinse i denti, ringhiando contrariato. Alcuni dei nani che si trovavano sulle merlature seguirono il suo consiglio, altri rimasero quasi stregati dallo spaventoso spettacolo, tanto da non poter fare altro che attendere gli eventi a bocca aperta, come pietrificati dall'orrore. Altri ancora tambureggiavano ossessivamente sugli scudi, continuando a sperare che la stella cadente fosse in realtà il sole addormentato. Spargendo scintille e tuonando, l'astro sfrecciò sopra le teste dei nani. Boëndal aveva temuto che si potesse schiantare contro la fortezza, ma ciò non accadde. Scomparve invece dietro le cime dei Monti Rossi. Non erano però scampati al pericolo. La coda splendente fece piovere una quantità tale di frammenti incandescenti da poter facilmente sotterrare la casa di un uomo. Prima risuonò un fischio prolungato, poi seguì l'impatto, e a quello schianto la terra tremò come una bestia straziata. La coltre bianca schizzò nel cielo notturno formando colonne alte come torri. Evaporando per il calore, la neve creò fitti banchi di nebbia che avvolgevano i nani, limitandone la vista. «Indietro!» ordinò Boëndal, avendo intuito che le torri e le mura erano sul punto di cedere. «Correte nella montagna, là saremo al sicuro!» La nube di vapore gli aveva fatto perdere l'orientamento, ma la sentinella
che era al suo fianco sapeva in che direzione dovevano muoversi. Scivolarono più di una volta sul pavimento congelato, ritrovandosi carponi e dovendo usare le armi a mo' di piccozza per ritrovare l'equilibrio e continuare ad avanzare. I penetranti sibili sopra le loro teste potevano significare una sola cosa: i frammenti dell'astro si sarebbero abbattuti da un momento all'altro sulle torri e sulle mura. La nebbia brillava già di un arancione sporco; la luminescenza divenne rossastra, accompagnata da un assordante stridio. Vraccas, aiutaci! Boëndal non ebbe il tempo d'impartire un nuovo ordine. Un ammasso di ghiaccio infuocato piombò giù dal cielo frantumando il massiccio ponte di collegamento della torre. A causa del vapore, non si poteva capire con chiarezza quali danni avesse causato, ma risuonarono nell'aria le urla dei malcapitati che aveva trascinato nella morte. «Giù dalla torre!» gridò Boëndal lanciando uno sguardo al punto di rottura del ponte e rimpiangendo la sua vecchia agilità. Quelle maledette ferite ne limitavano le capacità. «All'uscita nord!» La pietra sotto i suoi piedi traballò, la struttura sospesa vacillò come un cespuglio in una bufera; il granito gemette e scricchiolò, e a ogni istante se ne staccavano pezzi, perché la muratura non riusciva più a reggere la tensione. Il bombardamento di frammenti continuava, mentre, attraverso l'uscita nord, i nani raggiungevano l'altana del più alto dei nove posti di vedetta. Scivolarono lungo il camminamento fino a raggiungere l'ampio ponte ad arco, l'unico passaggio che portava alla sicurezza della montagna. A destra e a sinistra del ponte si apriva un abisso di duecento passi. Il vento sferzante dissipò la nube di fumo e permise loro di gettare uno sguardo sul portale della loro salvezza, dietro il quale li attendeva il grande atrio. «Là, guardate!» Inorridito, un nano indicò ciò che la cortina di vapore, arretrando, aveva rivelato. La fiera fortezza di Guardiadiferro giaceva in macerie. Delle nove magnifiche torri ne erano rimaste in piedi solo quattro, mentre le altre erano frantumate e crollate, parzialmente o integralmente distrutte dagli impatti, e si ergevano simili a miserabili monconi di denti. Le spesse mura, gli argini che la sapiente mano dei nani aveva intagliato nella roccia, mostravano brecce attraverso le quali sarebbero tranquillamente passate orde di troll.
«Non fermatevi!» li spronò Boëndal. «Ricostruiremo tutto, ma prima dobbiamo metterci in salvo, o non rimarrà nessuno a onorare il ricordo dei vostri avi. Forza!» Aveva appena appoggiato lo stivale sul ponte quando percepì un rombo profondo, come un tuono che venisse da molto lontano. Di nuovo la terra tremò sotto i piedi dei nani, ma non erano più gli scossoni che ormai conoscevano, quelli che seguivano gli impatti. Erano movimenti più profondi, che abbracciavano ogni cosa, le mura, i nani, le torri e perfino i pendii, le forre e le cime dei Monti Rossi. Non vi era nulla che potesse sottrarsi a quella forza titanica. La maggior parte dei nani perse l'equilibrio e stramazzò a terra. Le cotte di maglia sferragliarono, le asce tremarono nei loro sostegni, gli elmi rotolarono via tintinnando. Altre due torri collassarono su se stesse con grande fragore. Dalle macerie si alzarono nubi di polvere. Era la stella cadente! Ha colpito la terra, suppose Boëndal pensando alla forza con cui le onde scuotevano la montagna, altrimenti così salda. Cercò di non pensare agli effetti che il terremoto poteva avere sulle dimore dei Primi, a quanti morti e feriti potessero esserci tra loro. Il rombo andò scemando, il tremito si affievolì per poi cessare del tutto. Ma i nani trattennero il fiato, aspettando con timore ciò che ancora sarebbe successo. Un fetore pungente irritò le loro gole, mischiandosi con la polvere degli edifici distrutti e col fumo dei fuochi che allignavano tra le rovine. Con la caduta dell'astro, il calore era di nuovo scomparso. Tornò a nevicare, come se non fosse successo nulla. Il ritorno del silenzio dette loro un'impressione di pace, ma era la quiete dopo la tempesta. La morte aveva raccolto la sua abbondante messe, lasciando dietro di sé una scia di devastazione. «Per Vraccas», gemette la sentinella. A Boëndal parve dolente e inerme come un nano appena nato. Condivideva il medesimo stato d'animo. Il loro popolo si gettava senza esitazione contro nemici infinitamente superiori per numero e difendeva gli ingressi della Terra Nascosta con la propria vita; con asce e martelli accettavano di battersi contro i più orribili mostri che il male inviava loro, ma contro un nemico di quel genere non si poteva che perdere. «Nessuno può fermare una stella, quando cade. Neppure gli dei, come hai visto», disse cercando di confortarlo. Uno sguardo oltre il bordo del ponte gli mostrò che il basamento della nona torre aveva subito gravi danni; era attraversato da crepe larghe quanto un braccio disteso, e si allargavano con deboli scricchiolii.
«Di là, forza, prima che la torre alle nostre spalle crolli e ci trascini nel baratro!» Si accinse ad attraversare il ponte di gran fretta, mentre una manciata di nani della stirpe dei Primi lo seguiva. Nel mezzo del ponte una grossa palla di neve lo colpì al collo. Trasalì, meravigliandosi che qualcuno potesse comportarsi in modo così infantile in un momento del genere. Al secondo colpo, che gli coprì la spalla sinistra con una spolverata di bianco, si voltò indignato. Avrebbe detto al burlone quello che pensava! «Chi di voi...» Mentre parlava, il cielo notturno scaricò su di lui, sul ponte e sugli altri nani grossi grumi bianchi. Ci volle un istante, prima che Boëndal associasse la pioggia di palle di neve e il rumore sempre più forte. Nessuno dei suoi compagni era responsabile dell'indecorosa aggressione. Erano i Monti Rossi ad attaccarlo! Quando si volse verso la parete delle montagne, gli si fermò il cuore. L'impatto della stella cadente, avvenuto sicuramente a molte miglia di distanza, aveva provocato qualcosa, qualcosa che c'era solo sulla superficie della terra, e che lui, nelle veglie nella sua patria, sui Monti Blu, aveva visto centinaia di volte: la Morte Bianca stava galoppando giù per il pendio. In alto, appena sotto la cima, la pioggia ghiacciata e gli scossoni provocati dall'astro avevano fatto montare la collera della montagna. Trascinando con sé tutto ciò che incontrava, la valanga correva brontolando verso di loro, coprendo tutta la lunghezza della parete. La turbinosa massa di neve si precipitava in basso simile a una cascata. Qualunque cosa cercasse di resisterle ne veniva inglobata, stritolata, trascinata via e schiacciata verso il basso. «Correte!» I piedi di Boëndal si mossero da soli. Sdrucciolò nuovamente sul ghiaccio, qualcuno lo afferrò per la treccia e lo tirò su. Due nani gli ripararono la testa sotto le loro asce e presero a trascinarlo in avanti. Tutti barcollavano e scivolavano più di quanto non corressero. La paura afferrò i loro cuori coraggiosi. A pochi passi dal portale, che si aprì proprio in quel momento, la Morte Bianca si abbatté su di loro. In trionfo, si gettò attraverso gli aggetti di pietra e piombò sui nani come una fiera affamata. Tuonando e mugghiando, li trascinò nel suo corpo di ghiaccio, sbalzandoli fuori del ponte. Le parole che Boëndal aveva sulle labbra si persero nel boato. Mentre la bocca gli si riempiva di neve, il nano annaspò disperatamente con le brac-
cia e riuscì ad afferrare uno scudo, cui si aggrappò come un naufrago si aggrappa a un pezzo di legno. A giudicare da come gli si contrasse lo stomaco, Boëndal stava precipitando a grande velocità. Il biancore tutt'intorno a lui gli impediva di orientarsi, e l'ampia superficie dello scudo ebbe l'effetto di una pala e lo trascinò verso il basso. La Morte Bianca ne aveva abbastanza di lui. Accumulò intorno al nano una maggiore quantità di neve, e la pressione sul corpo gli fece mancare il respiro. Alla fine, Boëndal perse i sensi. La sua mente naufragò, trovandosi alla deriva in un mare di tenebre, e la sua anima si preparò a raggiungere la Fucina Eterna di Vraccas, dove almeno avrebbe fatto caldo. I Terra Nascosta, regno di Gauragar, trecento miglia a nord di Giogonero, 6234° ciclo solare, tardo inverno Una goccia di sudore corse lungo i capelli unti e raggiunse la fronte, aprendosi un varco tra lo sporco e la fuliggine mista a sebo, che in alcuni punti coprivano con lo spessore della lama di un coltello il volto dalla pelle verde. La goccia strisciò a lato del grande naso, filtrò sul labbro superiore e lì fu prontamente leccata da un'avida lingua nera. Il fiato usciva a strattoni dalla brutta bocca; le zanne dipinte che ne sporgevano indicavano che il loro proprietario era un capo di alto rango. Le grandi mascelle si aprirono. «Runshak!» ruggì Ushnotz al suo subalterno. Il luogotenente superò la colonna di mezz'orchi in marcia, affrettandosi in direzione del suo principe. Si trovavano in un punto d'osservazione, su un'altura non lontana dal loro tragitto. Dopo la battaglia di Giogonero, in cui erano stati sconfitti dagli eserciti di uomini, elfi e nani, i mezz'orchi di Ushnotz erano alle prese con una difficile ritirata: dovevano raggiungere i Monti Grigi e proseguire fino alla Porta di Pietra, in tutto ottocentocinquanta maledette miglia, prima di mettere piede nel loro nuovo regno. Ma, nel frattempo, tanto valeva eliminare i nemici che capitavano sul loro cammino. Runshak corse su per il pendio. «Li abbiamo raggiunti?» domandò a Ushnotz, che un tempo dominava su una grossa parte del lontano regno di
Toboribor. «Guarda», gli ordinò questi indicando la piana che si estendeva tra le dolci colline del Gauragar. La distesa misurava almeno un miglio e mezzo di diametro, e la rugiada, defluendo dalle colline, aveva scavato stretti fossi che, visti dall'alto, parevano linee scure; portavano l'acqua verso il margine orientale, dove si disperdevano. Coperta solo da erba verdeggiante e da una manciata di cespugli e alberi spogli, la piana non offriva nessun riparo dal vento. O dai nemici. Brulicanti puntini neri popolavano la piana un tempo deserta. Runshak valutò il loro numero in più di duemila. Sentendosi assolutamente sicuri, avevano posto il campo accendendo anche molti fuochi con la legna carica di germogli, il cui fumo si alzava nel cielo limpido ed era visibile anche da molto lontano. Ushnotz accostò una mano alla larga fronte per riparare gli occhi dall'intensa luce del sole, e guardò i puntini. Quelli più grandi erano mezz'orchi, quelli più piccoli i loro più minuti parenti, i bogglin. Di gran lunga meno forti e imponenti dei mezz'orchi, i bogglin erano però più veloci e sguscianti; ma erano anche codardi, caratteristica che gli si doveva far passare con qualche sferzata bene assestata. «Mezz'orchi del nord e bogglin. Quegli stupidi si sono trovati e hanno stretto un patto tra idioti», grugnì con disprezzo l'ormai esiliato principe del Toboribor. Nôd'onn li aveva trascinati nella sua guerra per allestire una potente armata da lanciare all'assalto degli uomini. Ma, a Giogonero, Ushnotz aveva scoperto in fretta che i loro cugini del nord erano troppo selvaggi per essere validi guerrieri. Si comportavano come lupi famelici, mentre i suoi mezz'orchi erano cani ammaestrati, obbedienti ma non meno forti e determinati. E i bogglin valevano meno di niente... «Di' ai miei soldati di prepararsi. Li attaccheremo non appena si batteranno le pance e si sdraieranno intorno ai fuochi.» Runshak annuì e discese il pendio urlando ordini gutturali, che vennero riportati dai diversi capibanda in maniera altrettanto rumorosa. Poco dopo, armature e piastre di corazze cozzavano le une contro le altre, sferragliando, mentre il potente seguito di cinquemila mezz'orchi si frazionava in unità più piccole. Gli arcieri si raggrupparono verso il fondo, mentre i guerrieri armati di lance e giavellotti si raccoglievano nelle prime file.
Il principe dei mezz'orchi osservava i preparativi pieno di gioia. Le tumide labbra nere si contrassero in un ghigno, esibendo così le zanne dipinte in tutta la loro magnificenza. Quello spettacolo gli piaceva. Un profondo e basso borbottio gli saliva dalla gola; trattenne il respiro, poi esplose in un impressionante ruggito. Lo scalpiccio di piedi terminò bruscamente e subito regnò il silenzio. «Nôd'onn non ha mantenuto le sue promesse e ci ha piantati in asso. I Sanguerosso pensano che siamo diretti a sud; noi invece stiamo puntando a nord, per crearci un nuovo regno», annunciò loro. Pensando a una nuova patria, si sarebbero gettati in battaglia con forze rinnovate, dimenticando la fatica delle marce forzate. Estrasse la spada seghettata e la puntò sulla piana in cui i nemici attendevano. «Loro sono sul nostro cammino. Sono i cagnolini da salotto del mago che ha causato l'inizio della nostra rovina. Una volta che li avremo annientati, nulla ci ostacolerà. I Sanguerosso sono troppo lenti, non riusciranno più a raggiungerci.» Rise con cattiveria. «La manciata di cavalieri che ci hanno mandato dietro ci faranno da cena coi loro cavalli!» I mezz'orchi strillarono in segno d'assenso, battendo le lance per terra e tambureggiando su scudi e armature con le spade. Ushnotz sollevò l'arma, richiamandoli al silenzio. Ma la quiete appena sopraggiunta fu spezzata da una domanda insolente: «Perché non passiamo oltre, invece di combatterli?» Le buone orecchie del principe individuarono subito nella folla il mezz'orco che obiettava alla sua decisione. Era Kashbugg, uno spirito sempre ribelle, come lo era stato suo padre, Raggshor. Doveva essere una cosa ereditaria. Il padre era morto in circostanze simili a quelle. Era accaduto prima della battaglia di Giogonero: Raggshor aveva espresso ad alta voce i suoi dubbi riguardo al dirigere una campagna militare contro un monte. Il principe, che si riteneva il più intelligente di tutti, non accettava obiezioni e critiche, neppure da un valido guerriero come Raggshor, perciò il mezz'orco era morto per mano del suo principe. In quel momento, Ushnotz stava valutando un'analoga soluzione per il suo discendente. «Kashbugg, tappati la bocca!» tuonò, facendo seguire un ruggito intimidatorio. Ma Kashbugg non sembrò farsi impressionare. Si fece avanti, con la spada sguainata e lo scudo sollevato in posizione di difesa. «No. Io dico di girargli intorno e di raggiungere la Porta di Pietra prima di loro. Occupia-
mo il portale e li lasciamo a sbatterci la testa.» Piantò saldamente i piedi per terra e cercò di assumere un buon assetto, dal momento che si aspettava un attacco. «Non siamo numerosi come prima della grande battaglia, e ora abbiamo altri problemi. A Giogonero siamo morti in tanti. Se avessi ascoltato mio padre, avremmo evitato la sconfitta.» Tra la folla si udì qualche grugnito di assenso. A Ushnotz non piacque per niente. Era bastato un attimo, e il dolce profumo di una facile vittoria si era trasformato in puzza di ribellione. Il principe si drizzò in tutta la sua statura, digrignò le zanne e gonfiò i muscoli; poi prese la rincorsa e saltò giù dal pendio, atterrando proprio davanti ai piedi di Kashbugg. «Ho una brutta notizia per te», disse con voce cavernosa, col capo abbassato e una scintilla maligna negli occhi gialli. Simulò di colpirlo facendo una finta e, quando il mezz'orco alzò lo scudo per parare il colpo, lui penetrò sotto la sua guardia conficcando la spada sotto l'ascella, fino a raggiungere il cuore. Kashbugg crollò a terra sputando sangue verde scuro. «Tu sei il primo di noi a morire. Come tuo padre a Giogonero.» Ushnotz alzò la grande testa con aria di sfida. «Qualcun altro?» Non si stupì nel constatare che nessuno si faceva avanti. A stupirlo fu invece il vedere che il mezz'orco, colpito mortalmente, si rialzava. Kashbugg teneva un artiglio premuto sulla ferita, che si era rimarginata all'istante. Ushnotz si riprese dalla sorpresa prima del ribelle e gli cacciò la lama direttamente dentro il torace. Il mezz'orco cadde a terra, fissando il suo sangue. Ma anche allora non sembrò sul punto di morire. «Si può sapere che hai, maledetto sobillatore?» urlò il principe, inferocito. Lo afferrò per il bavero e lo rimise in piedi. «Non vuoi crepare? Ma come osi?» Gli infilò per la terza volta la spada seghettata nel corpo, ma l'unico risultato che ne sortì fu una gorgogliante risata da una bocca da cui sgorgavano sangue e saliva. Kashbugg allontanò il suo comandante con uno spintone. «Tion è dalla mia parte, non dalla tua! Mi ha reso immortale. La morte di mio padre esige vendetta.» Sollevò scudo e arma. «Io sarò il nuovo padrone e dominerò sul nostro regno del nord!» «No. Tion non è un idiota come te», borbottò Ushnotz, attendendo l'attacco. Nessuno dei presenti osava immischiarsi nella lotta; non era uno dei soliti litigi, c'era in gioco qualcosa di più grande. «Che cosa ti è successo?» «Ha bevuto l'Acqua Nera che abbiamo trovato per strada», gridò uno dei
mezz'orchi. «Era acqua benedetta, l'ho capito appena l'ho vista», ghignò Kashbugg, dando delle pacche alla fiasca di pelle che portava alla cinta. «Ne ho dell'altra.» Aggredì il principe, che ne parò il colpo e gli conficcò gli artigli nella faccia, facendolo grugnire e barcollare all'indietro. «Acqua Nera?» Anche Ushnotz l'aveva vista, in alcune pozzanghere ai lati del loro cammino, ma non aveva avuto il coraggio di portare alla bocca quel liquido marcescente. «È il sangue della Terra Estinta», affermò il suo avversario. «Mi ha prescelto, ha deciso che fossi io a scoprirla.» Si lanciò in avanti, brandendo la spada. Ushnotz si abbassò e sferrò all'aggressore un calcio tanto forte da rompergli il ginocchio. Kashbugg guaì per il dolore. Il lamento s'interruppe quando il principe sferrò un attacco micidiale, decapitando il ribelle con un colpo solo. Testa e corpo caddero in direzioni diverse: a quel punto, Kashbugg era davvero morto. Il principe prese la borraccia, fece un cenno a uno dei mezz'orchi e gliela passò. «Bevi», ordinò. Il soldato obbedì. Con un'espressione disgustata, bevve l'acqua, che si riversò ai lati della bocca; poi se ne staccò tossendo. «Dall'odore, sembra piscio di troll e...» Ushnotz lo colpì, trafiggendogli il cuore, poi guardò con distacco il mezz'orco cadere a terra morto. La spada era ancora infilata nella ferita. Dopo un istante le palpebre tremolarono, e il mezz'orco aprì gli occhi, mentre il flusso di sangue che sgorgava dall'ampia ferita si esauriva. «Allora?» chiese Ushnotz, scettico. «Sono ancora vivo...» mormorò il soldato, inorridito e dolorante, prima di comprendere quale dono avesse ricevuto. Quindi ruggì di gioia, mostrando le zanne e agitando la borraccia. «Sono ancora vivo! L'Acqua Nera...» Ushnotz afferrò l'elsa della spada e la estrasse dal soldato urlante, poi gli troncò la testa. Svelto, afferrò la borraccia, se la portò alle labbra, la svuotò e la scaraventò a terra. Non si sentiva diverso da prima, ma confidava nell'effetto. Se qualcuno aveva meritato di essere immortale, quello era lui. Ma sarebbe ancora meglio avere un intero esercito di guerrieri immortali, pensò. Senza spendere una parola di più, si arrampicò sull'altura per osservare i nemici e cogliere il momento più opportuno. Si stavano rimpinzando. Sentiva l'odore della carne umana che arrostiva
sul fuoco. Il profumino delizioso gli fece venire fame, anche perché lungo il tragitto lui e i suoi guerrieri si erano cibati di tutto ciò che avevano trovato - topi, lumache, scarafaggi -, ma non avevano incontrato spesso i Sanguerosso, dal momento che i mezz'orchi del Nord, precedendoli, avevano macellato tutto senza lasciarsi niente alle spalle. Tre villaggi, una cittadina e un insediamento agricolo erano caduti vittime della loro violenza. Ushnotz si stupì del fatto che non si fossero accorti di nulla. Sicuramente erano concentrati sulle carni dei Bocconcini. Non che si preoccupasse di qualche miserabile guerriero umano, ma preferiva raggiungere il nord in modo celere e discreto, prima che il grosso delle truppe della Terra Nascosta si mettesse a inseguirli. Circondati dalle solide mura di una fortezza dei nani e con le montagne alle spalle, la battaglia sarebbe stata per loro molto più facile. Sperava che nel frattempo l'esercito fosse sufficientemente impegnato a inseguire gli altri principi dei mezz'orchi, con cui un tempo divideva il dominio del Toboribor. Il sole si abbassava sempre più e, dopo la sua impegnativa rotazione, si apprestava ad abbandonarsi al sonno e a cedere il passo agli astri notturni. Il momento della battaglia si avvicinava, per cui il principe richiamò a sé Runshak per comunicargli i suoi ordini. Improvvisamente il vento cambiò, portando a loro, che stavano sul cucuzzolo, un nuovo odore. I grossi nasi iniziarono a fiutare, dubbiosi, le narici si gonfiarono freneticamente fino a che i due mezz'orchi non ebbero più nessun dubbio: cavalli. Cavalli, metallo e sudore. Sudore di Sanguerosso. «Vengono da sud», grugnì Runshak, ruotando il collo per osservare meglio la catena di colline che stava alla loro destra. «Maledetti Bocconcini!» È il grosso del loro esercito! Ushnotz provò un urgente desiderio di battere velocemente in ritirata di fronte a quelle forze preponderanti, poi quell'impulso si calmò. Aveva capito che cosa intendevano fare i nuovi avversari, che fino a quel momento erano stati traditi solo dalle loro esalazioni. «Aspetta.» «Ci hanno visti?» chiese Runshak, stupito. «Hanno trovato quelli che stavano seguendo». Il principe sogghignò e ringraziò Tion, che gli aveva instillato l'idea di deviare di alcune miglia rispetto al tragitto dei mezz'orchi del nord e di marciare attraverso un fiume. Le forti correnti avevano cancellato le loro tracce. Probabilmente i battitori dei Bocconcini avevano concluso che vi fosse soltanto un'armata
nemica. Altrimenti lui e i suoi soldati sarebbero stati attaccati già da tempo. Runshak borbottò, a disagio, porgendo di nuovo il grande naso al vento. «Il loro odore diventa più forte. Si avvicinano, non ci lasceranno il tempo di attaccare il campo.» Guardò Ushnotz, in attesa. «Attacchiamo mentre sono impegnati coi mezz'orchi del Nord?» «Lasciamo che i Sanguerosso facciano il nostro lavoro. Stiamo a guardare e aspettiamo di vedere come va la battaglia.» Il principe decise che, se l'esercito avesse battuto la feccia accampata nella valle, lui e i suoi avrebbero proseguito la marcia anche di notte. Gli omuncoli dovevano pensare che quella parte della Terra Nascosta fosse stata ripulita dai mezz'orchi. Anche se non lo avrebbe mai ammesso davanti al suo luogotenente, le parole di Kashbugg erano in parte vere: non erano più in molti. Poteva anche evitare il combattimento, non aveva bisogno di nessuno tra le sue file che glielo facesse notare. «Rimaniamocene tranquilli», disse. «Le forze degli uomini torneranno a sud, pensando di essersi liberati di noi. E invece noi potremo proseguire in tutta calma e cercare altra Acqua Nera. Dovrà essercene per tutti. Con essa diventeremo praticamente imbattibili, e ci prenderemo le vite che oggi abbiamo risparmiato.» Guardò oltre le armature coperte di grasso che marciavano dietro di sé; il suo sguardo scivolò sul punto in cui si trovava il cadavere del ribelle. Grugnì, giulivo. Sembrava che l'impetuoso Kashbugg e l'involontario assaggiatore sarebbero stati gli unici suoi guerrieri a morire, quella rotazione. *
*
*
Il principe Mallen von Ido guardò l'altura dietro cui la sua cavalleria aveva preso posizione. In cima alla collina, due battitori osservavano il campo nemico, in modo da poter dare una stima precisa del numero dei mostri, e non più solo vaghe valutazioni basate sulle orme che avevano trovato. Il principe aveva deciso d'inseguire i mezz'orchi e i bogglin che erano scampati alla morte in battaglia, per porre fine una volta per tutte al pericolo che incombeva sui villaggi. Ciò che lui e i suoi uomini avevano visto durante il tragitto gli aveva dato ragione. Non poteva permettere che quelle creature vivessero una rotazione di più. Uno dei suoi esploratori strisciò prudentemente indietro e lo raggiunse.
«Sono circa duemila, principe Mallen», lo informò. «Sono sdraiati intorno ai fuochi, sazi e sonnolenti.» «Quindi ci siamo ingannati, pensando che fossero più di cinquemila?» Mallen si rizzò sulla sella; il cavallo sbuffò, grato, dal momento che così facendo il suo padrone gli sgravava un po' la schiena; cavalcare senza quasi fare soste non era un peso solo per i soldati. Il caldo vento, che improvvisamente prese a spirare sulle loro schiene invece che suoi loro volti, portava con sé il profumo dell'imminente primavera. «Considerate che spesso abbiamo dovuto seguirne le orme sul fango e sulla neve disciolta», ribatté l'esploratore. «Su quel terreno si sprofonda di più. E poi, i Pelleverde sono ben più pesanti di noi, e le loro armature più spesse.» Guardò i ranghi della cavalleria. «Sono duemila, altezza. Né più né meno.» Lo stendardo della dinastia degli Ido - su cui campeggiava, fiero, un cavaliere - sventolava alla brezza, mostrando anche all'ultimo dei soldati che il vento era cambiato. Peggio per noi. Mallen sapeva del fine odorato dei mostri; al pari delle fiere, fiutavano la presenza di prede e nemici a grande distanza, potendo così prepararsi in tempo a ogni minaccia. La pesante armatura del principe, finemente lavorata e adornata con lo stemma del suo casato, scintillò ai raggi del sole morente. Mallen allungò la mano verso il suo splendido e antico elmo, che portava fissato alla cintura, lo sciolse e lo infilò sulla testa bionda. Lo fece con un gesto solenne, che tradiva tutto il rispetto che provava per quelle insegne, tramandate da generazioni all'interno della sua famiglia. I soldati interpretarono il gesto come un segnale. Il basso stridio metallico alle sue spalle fece capire al principe che gli uomini si stavano preparando all'attacco. «Gli arcieri si spostino sotto la cima della collina», ordinò con voce ferma. «I fanti si schierino in loro copertura.» Voltò lo sguardo verso destra. «Primo squadrone, preparatevi all'assalto. Provocateli, fateli infuriare e tornate subito indietro, come se voleste darvi alla fuga. Essendo stupidi, vi seguiranno e correranno tra le nostre braccia. Distruggeremo la loro genìa una volta per tutte.» A un suo cenno, i primi centocinquanta cavalieri risalirono la collina per piombare sull'altro versante, simili a una tempesta d'acciaio, e devastare le file più esterne dell'accampamento avversario. Tenendo gli occhi ben chiusi, Mallen si concentrò sui rumori. Sentì il
rombo degli zoccoli al galoppo, gli strilli spaventati dei mezz'orchi e le stridule urla dei bogglin. Poi udì anche colpi e tintinnii. Le urla divennero più forti, le gole che urlavano da cento divennero mille. I mostri erano in tumulto e convergevano incautamente per massacrare la schiera di uomini temerari. I cavalli stavano tornando indietro, accompagnati dalle urla dei nemici che li inseguivano. Mallen sollevò il braccio con cui brandiva la spada, in modo che si vedesse da lontano. Già si udivano scricchiolare le corde degli archi, tesi dallo sforzo degli arcieri. Il primo squadrone non stava ancora salendo la collina, quando il principe abbassò bruscamente il braccio. Più di trecento frecce scattarono in alto, tagliando l'aria con un'ampia parabola, per poi colpire perpendicolarmente le orde di mezz'orchi e bogglin. A uno scroscio di proiettili seguì il successivo. Mallen udiva le urla di morte delle creature e sorrideva felice, mentre i suoi cavalieri rientravano dalla loro incursione e si rinserravano nei ranghi dell'ampio schieramento. «Cavalcate, uomini! Cavalcate e uccidete le bestie!» gridò. Riaprì lentamente gli occhi. Inspirò ed espirò. «Per Ido! Per la Terra Nascosta!» Poi percosse il fianco del cavallo col piatto della spada, e questi si lanciò in avanti nitrendo. Col principe si misero in movimento cinquecento cavalieri. Si abbatterono sulla collina come un'onda d'argento. Il passo di duemila zoccoli si fuse in un tuono continuo e incessante, gettando nel panico le bestie in avvicinamento. Di fronte all'ondata di lance, animali e spade micidiali non vi era via di scampo. I mostri più lenti vennero travolti per primi, i più veloci morirono qualche passo dopo. Sangue verde scorreva ovunque, e nessuno degli uomini provò pietà di fronte alle ferite che aprivano e alle urla di dolore dei morenti. «Avrebbe dovuto aspettarci», brontolò Boïndil Duelame del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe del Secondo, Beroïn, mentre si arrampicava lungo la scala dello stretto pozzo a velocità impressionante. «Ho sentito bene che la sua cavalleria ha già iniziato l'attacco.» Le mani potenti si chiudevano su un piolo di ferro dopo l'altro. La poca luce che filtrava dall'alto, attraverso una fenditura, gli bastava per trovare appoggio; come tutti i nani, vedeva molto bene anche al buio. «Per Vraccas, arriveremo che
sarà tutto finito, e i Lunghi non ci avranno lasciato neanche un Maialino!» Sembrava veramente sgomento. Tungdil Manodoro, che lo seguiva, dovette soffocare una risata. Conosceva bene i gusti del nano, soprannominato il Rabbioso, e non senza motivo: collerico, sempre ossessionato dal combattimento e del tutto privo di pietà per i propri nemici. «Niente paura, Boïndil. Il Principe Mallen mi ha promesso di lasciare qualche bestia in vita abbastanza a lungo da concederti il tempo di arrivare.» Il Rabbioso sbuffò, con la treccia nera che oscillava a destra e a sinistra. «Capisco quando mi si prende per il naso», urlò verso il basso, senza rallentare la sua risalita. «Sento l'odore del grasso rancido delle loro armature», commentò sogghignando. «Dobbiamo essere molto vicini ai Maialini!» Il peso della cotta di maglia, delle asce e dello scudo non aveva effetto su di lui; aveva già le mani sul lucernario, tirò indietro l'inferriata, sbloccandola, e la gettò in alto. Con cautela sporse fuori la testa, protetta dall'elmo. «Che cosa vedi?» chiese Tungdil, ansimante. Braccia e gambe gli tremavano visibilmente per lo sforzo. «Quanto siamo distanti?» «Be', se proprio lo vuoi sapere, solo nella Fucina Eterna di Vraccas troverai di meglio!» esultò felice il Rabbioso. «I primi dieci sono miei! Oink, oink, piccoli Maialini! Sentite il verso del porco morente!» ruggì, poi si catapultò fuori del pozzo come un proiettile. Tungdil lo vide estrarre in volo le asce dalla cintura, poi la sagoma dell'amico scomparve. «Svelti, dobbiamo stargli dietro», gridò verso il basso, per spronare gli altri nani, e si slanciò subito anche lui in superficie. Anche se sospettava che ad attenderli vi fosse una brutta sorpresa, la scena che gli si parò innanzi gli fece tremare le membra. Boïndil poteva anche considerare un dono di Vraccas l'essere spuntati nel bel mezzo dell'accampamento dei furiosi mezz'orchi e degli strepitanti bogglin, ma lui la vedeva diversamente. Non appena si trovò coi piedi saldamente al suolo, estrasse da dietro la schiena la Lama di Fuoco; i diamanti incastonati nel taglio s'infiammarono di viola alla luce del sole al tramonto. I mostri che si trovavano nei pressi si stavano già lanciando all'assalto, ma si fermarono subito, indietreggiando tra i grugniti, non appena riconobbero l'ascia che si era parata innanzi a loro. Dopo la battaglia di Giogonero, il suo nome era passato di bocca in bocca, poiché col suo aiuto Tungdil aveva distrutto il loro capo, il potente stregone Nôd'onn, e la creatura demoniaca che lo possedeva.
La paura che i mezz'orchi e i bogglin provavano di fronte a quell'arma eccezionale era più che giustificata. Forgiata dalle abili mani dei nani coi metalli più nobili e l'acciaio più puro, provvista di una piccola quantità di tionio e temprata nella più calda fucina della Terra Nascosta, era un'arma dal taglio e dalla forza inimmaginabili. Solo un mezz'orco ritrovò il suo coraggio. Sbuffando, si avvicinò al nano e vibrò un colpo con la clava. «Vuoi diventare un eroe?» lo schernì Tungdil mentre scansava il colpo. Sollevando la Lama di Fuoco, ruotò sul proprio asse e squarciò armatura e pancia dell'avversario. Le viscere caddero nella polvere, seguite dal fetido sangue verde e dal mezz'orco gemente. Tungdil levò l'ascia. «Allora? Chi è il prossimo?» Le altre bestie indietreggiarono ancora di più, chiamando a gran voce gli arcieri. L'esitazione dei nemici permise a trenta nani di uscire indisturbati dal tunnel e di disporsi in un cerchio irto di armi, pronti ad affrontare l'assalto successivo. Il Rabbioso invece continuava a imperversare, saltando tra le file dei mostri e abbassando le asce su mezz'orchi e bogglin. Tungdil lo aveva perso di vista, ma sentiva le sue risate di giubilo e l'oltraggioso verso del porco morente, che gli serviva ad attirare su di sé l'attenzione dei nemici. Tungdil scorse sul lato settentrionale del campo la cavalleria del principe Mallen, che si accingeva a riversarsi giù dall'altura coprendo un fronte di cinquecento passi abbondanti, con l'intento di falciare tutto ciò che avrebbe trovato sul suo percorso. «Boïndil, torna indietro!» gridò preoccupato. Alle sue spalle, uscirono dal pozzo gli ultimi nani; con loro, la schiera di guerrieri al comando di Tungdil era completa. «Si comincia?» L'allegra domanda di Boïndil giunse da un punto imprecisato della caotica battaglia, accompagnata dal tintinnio di armature in frantumi e da grugniti di dolore. Tungdil strinse il manico della Lama di Fuoco con entrambe le mani e abbassò la testa. Corrugò la fronte. «Per Vraccas, eccome se si comincia» mormorò, per poi aggiungere a voce alta: «Spingeteli in avanti!» I suoi soldati si aprirono a ventaglio, chiamandosi forte gli uni con gli altri, e si lanciarono sui mostri disorientati brandendo asce, scuri e martelli da guerra. Davanti a tutti combatteva Tungdil con la sua Lama di Fuoco. Nulla fermava l'arma, che trapassava sibilando scudi, piastre e maglie di catena, tranciava arti e recideva anche più vite con un solo, terribile colpo. Tungdil e i suoi nani scavarono nella massa dei nemici. Non dava loro
fastidio il fetore del sangue né la puzza rancida delle armature coperte di sego. Liquido verde zampillava su di loro dalle ferite aperte, arti mozzati cadevano a terra e venivano calpestati dai piedi dei nani, che presto si trovarono a camminare sui cadaveri. Marciarono in avanti, pronti a tutto e animati dal desiderio di spazzare via una volta per tutte il male dalla terra. La resistenza iniziale s'infiacchì. I mezz'orchi e i bogglin più coraggiosi caddero per primi e, vedendo i feroci volti barbuti dei nani, i codardi voltarono i tacchi. «Non inseguiteli!» gridò Tungdil. Il suo piano stava funzionando. Le bestie, ormai prive di controllo, scappavano da lui e i suoi guerrieri per cozzare contro una seconda ondata di fuggiaschi, quelli che, provenendo da nord, attraversavano il campo cercando di scampare alla cavalleria del principe Mallen. Non avevano più via d'uscita. Tungdil stava levando il braccio per togliere la vita a due mezz'orchi con un solo colpo, quando i mostri caddero entrambi per terra, come colpiti da una mano invisibile. Dietro di loro emerse il Rabbioso, coperto da svariati strati di sangue verde, e con una scintilla di follia negli occhi. «Ah, siete arrivati, finalmente! Iniziavo a preoccuparmi», disse salutando allegro i suoi amici. «Perché ci avete messo tanto? Colpa dei miserabili Maialini?» «Non ti avevo detto di tornare indietro?» lo rimbrottò Tungdil, scuotendo la testa. «Pensavo che ce l'avessi con uno di quelli», replicò Boïndil indicando uno dei nemici morti. «Uno che ti era sfuggito...» Si guardò intorno, contemplando la mischia con aria beata. «Non è un modo grandioso di finire una giornata, Sapientone? Abbiamo ancora un sacco di lavoro da fare.» Con tali parole, sollevò le asce imbrattate di sangue, e un'ombra calò sul suo volto. «Ma mi diverto meno del solito: mi manca mio fratello. Insieme ne avremmo ammazzati il triplo. I prossimi venti sono per Boëndal.» Con un grido di battaglia sulle labbra, si rigettò nella mischia. «Prima o poi il sangue caldo sarà la sua rovina», predisse a voce bassa un nano che stava accanto a Tungdil, prima di ributtarsi anche lui nella mischia. Prego che non succeda. Tungdil portò il corno alle labbra e dette il segnale stabilito per comunicare al principe Mallen che i nani erano arrivati e che combattevano dalla parte opposta del campo. Così facendo, avrebbe impedito agli arcieri di Mallen d'indirizzare per errore le proprie frecce mortali contro di loro. A quella distanza e frammisti ad avversari molto più
grandi, i nani erano difficili da individuare. Poco dopo sentì il segnale di risposta, e tornò dalla sua gente con rinnovato zelo. Infuriarono fino a sera, quando, con grande disappunto del Rabbioso, intervennero i fanti di Mallen. Uno squadrone di cavalieri diede la caccia ai mezz'orchi e ai bogglin che ancora cercavano di sfuggire, ma per quanto le bestie si dessero pena di mettere terreno tra loro e il campo di battaglia furono raggiunti dai soldati a cavallo e infilzati dalle lance. Fu così che, prima che scendesse del tutto la notte, la piccola pianura non disponeva quasi più di posto per i cadaveri delle bestie, e il sangue verde impregnava così tanto il suolo da unirsi alla neve che si scioglieva e formare con essa piccoli ruscelli. Nani e uomini s'incontrarono sulla collina settentrionale, dietro la quale si trovava l'accampamento dei soldati dell'Idoslân. Mallen guidò il cavallo verso Tungdil, smontò di sella e gli porse la mano. La sua armatura mostrava qualche ammaccatura e scalfittura, ma a parte un taglio sull'avambraccio destro, all'uomo erano state risparmiate ferite gravi. «Tungdil Manodoro, mi rallegra vedere che state bene.» Il nano sorrise, perché un sovrano gli si era rivolto come si fa nei confronti di un nobile signore. Prese la mano e la strinse. «Ancora una volta il mio popolo e gli uomini hanno combattuto bene insieme.» Guardarono quello che restava dell'esercito nemico, annientato fino all'ultimo mezz'orco. «Con questo potremmo aver risparmiato agli abitanti del Gauragar parecchi lutti.» Il volto del principe si rabbuiò. «Tuttavia ha avuto il suo prezzo. Lungo il tragitto abbiamo incontrato villaggi e insediamenti che sono stati saccheggiati e incendiati dalle loro orde.» Il suo sguardo cercò lo sfavillio delle stelle, che stavano gradualmente apparendo nel cielo blu scuro. «Ma avete ragione. Se non li avessimo fermati, ci sarebbero stati altri morti.» «Avete cominciato senza di noi», si lamentò Boïndil a mezza voce, ma abbastanza forte da essere sentito dal sovrano. «Li avete spaventati tanto che non hanno quasi opposto resistenza.» Con un gesto lento e accentuato, il nano incrociò i muscolosi avambracci davanti al petto robusto, e l'espressione dei suoi occhi scuri faceva capire che era arrabbiato con gli uomini. Mallen conosceva lo strano carattere di Boïndil e sapeva in che modo doveva prendere la sua osservazione, che a dire la verità non era neanche indirizzata alle sue orecchie. Quindi non evitò di mettersi a discutere con lui. «La prossima volta vi aspetteremo», promise invece. «Voi però siate
più puntuali.» «Più puntuali?» ribatté il Rabbioso, sporgendo la testa e fremendo tanto da far tremare la barba nera. «Potete già essere contenti che siamo arrivati in tempo per aiutarvi. Le rotaie all'interno dei tunnel sono state piegate dal maledetto terremoto, e sul nostro tragitto c'erano macerie grosse come il culo di un troll. Siete stati fortunati...» «Controllati, per favore», intervenne Tungdil, accomodante, prima che il gemello di Boëndal perdesse del tutto il controllo. «Il Principe Mallen ha ragione, siamo arrivati più tardi di quanto avessimo concordato.» Si rivolse al sovrano alzando gli occhi al cielo, per pregargli di lasciare che la questione si sgonfiasse da sé. «Ma è finita con una grande vittoria per la Terra Nascosta, non è vero?» «Assolutamente», concordò Mallen, sforzandosi di rimanere serio. «Di certo, questo combattimento non sarebbe stato deciso tanto facilmente senza i nani.» Chiunque altro si fosse permesso di parlargli in quel modo non avrebbe ottenuto da lui molta comprensione, ma col Rabbioso usò clemenza, anche perché nessun altro era testimone di quel colloquio. Le benevole parole di encomio servirono a distendere il cipiglio di Boïndil. Il nano si tolse l'elmo, sotto il quale comparve la lunga treccia nera, e si fregò i lati del cranio rasato. Era madido di sudore. «Be', per me è tutto a posto», disse cambiando tono. «Ci siamo divertiti tutti, e a Vraccas dev'essere piaciuto come abbiamo accerchiato i Maialini.» Si schiarì la voce. «Scusa lo sfogo», mormorò, senza badare molto a quanto prescritto dall'etichetta riguardo a come ci si doveva rivolgere a un sovrano. «Scuse accettate.» Mallen indicò l'altro lato della collina, dove si trovavano le tende del suo esercito. «Vi prego di essere miei ospiti e di festeggiare con noi la fine di quelle creature indegne», li invitò. «Abbiamo anche birra forte, i carri delle salmerie sono appena arrivati.» «Stai certo che te ne sarò grato», accettò il Rabbioso, riconoscente, scendendo a passi pesanti il declivio. La sete lo guidava a colpo sicuro nel punto in cui lo attendevano i capienti barili. A un cenno di Tungdil, gli altri nani presero a seguirlo. Anche i soldati stavano rientrando dal campo di battaglia, pregustando la prima notte tranquilla e senza marce che li attendeva. Mallen e Tungdil rimasero sulla cima della collina e osservarono i guerrieri vittoriosi che si raccoglievano intorno ai fuochi e cominciavano a mangiare insieme. «Non è passato molto tempo da quand'ero esiliato dalla mia terra», disse
Mallen, pensieroso. «Oggi sono un sovrano, come avevano sempre desiderato i miei predecessori. E non basta: sono stato anche testimone di un'alleanza che non avrei mai creduto possibile.» Il nano ripensò ai tempi emozionanti e confusi che, nell'arco di poche rotazioni, gli erano stati riservati. Da semplice tuttofare di un mago era diventato pretendente al trono di imperatore di tutti i nani, e poi il guerriero al quale, nella battaglia di Giogonero, era toccato annientare, con l'aiuto della Lama di Fuoco, il potente mago Nôd'onn e il demone che lo possedeva. «Il nemico comune ci ha uniti», concordò. «Nessuno del mio popolo avrebbe mai pensato di combattere fianco a fianco con gli elfi.» Mallen sorrise senza gioia. «Allora tutto il male che la Terra Estinta ci ha arrecato ha portato anche qualcosa di buono. Abbiamo ricordato che cosa significa essere uniti.» Tungdil annuì, poggiando la Lama di Fuoco per terra e tenendo le mani sul manico. «Così è stato. Ora dipende da noi attizzare questa scintilla e farla diventare un grande fuoco, in cui forgiare la nostra alleanza e non permettere che si raffreddi.» Guardò i soldati in festa. «Avete subito grosse perdite?» «Circa cinquanta uomini e altrettanti cavalli, ma il numero dei feriti è molto più alto», rispose Mallen. «Non c'è proprio da lamentarsi, se si considera la superiorità numerica dei nemici.» «Per fortuna, noi non abbiamo perso nessuno. Qualche ferita da taglio e un po' di ossa rotte, niente di più. Vraccas ha parato il suo scudo di fronte a noi, o forse non voleva vedere altri suoi figli nella Fucina Eterna. A Giogonero l'hanno raggiunta in troppi.» Il principe gli posò una mano sulla spalla. «Vieni, Tungdil Manodoro, e gustiamoci questa sera tranquilla, prima d'intraprendere il lungo viaggio verso casa.» Il nano non replicò. Lui e i suoi compagni sarebbero tornati indietro attraverso i tunnel, avrebbero raccolto le loro poche cose e poi si sarebbero messi in cammino insieme coi volontari delle stirpi dei Quarti e dei Secondi per incontrarsi sui Monti Rossi coi Primi. Quindi intendeva muovere verso nord, alla volta dei Monti Grigi, e riempire di nuova vita la vecchia fortezza dei nani - la Porta di Pietra -, come aveva promesso. Avrebbe raccolto discendenti delle tre Stirpi per onorare il ricordo della stirpe ormai distrutta di Giselbart Occhiodiferro, capostipite dei Quinti e del clan degli Occhiodiferro. Tungdil non si faceva illusioni. Finché la porta fosse stata aperta, altri
mostri avrebbero potuto marciare dal versante settentrionale e attraversare il passo, annidandosi nelle caverne e nei tunnel del baluardo abbandonato. Vraccas, spero che non incontreremo nemici troppo numerosi, pregò il suo creatore, mentre scendeva il colle a fianco di Mallen. Abbiamo combattuto così tanto. Prima o poi dovrà finire. Udì il Rabbioso intonare un canto che amava cantare un loro compagno di viaggio ormai morto, Bavragor Pugnomartello. Tranne per lui, forse. Mallen passò a Tungdil un boccale di birra, e brindarono insieme tra le acclamazioni dei loro guerrieri. Il nano era contento: gli pareva che il patto di concordia su cui avevano giurato dopo la battaglia di Giogonero fosse diventato realtà, almeno tra uomini e nani. Osservò come sedevano tutti insieme intorno ai fuochi. Vi era profumo di arrosto e di robusta zuppa, cibi che i soldati apprezzarono molto. Mangiando, si raccontavano della battaglia cui erano sopravvissuti; usando molti gesti e menando colpi di cucchiaio, alcuni uomini riproducevano il loro scontro con un mezz'orco o un bogglin; i nani ridevano, sorbivano rumorosamente dalle loro scodelle e, di quando in quando, li punzecchiavano con commenti amichevoli. Avevamo bisogno di un nemico, per aprirci l'un l'altro? Tungdil gironzolava tra le truppe. Qua e là sentiva nani che con voce profonda descrivevano con trasporto la bellezza delle loro montagne; pochi passi più in là, due guerrieri di Mallen erano impegnati a insegnare i loro canti di guerra ad alcuni nani. Tungdil osservava felice nani e uomini, e desiderò che Balyndis fosse al suo fianco. La donna - fabbro della Stirpe dei Primi, i discendenti di Borengar - aveva tramutato il cuore di lui in un altoforno; per lei Tungdil ardeva di amore e passione. Presto l'avrebbe rivista... «E ti dico che ce n'è più di una», sentì raccontare piano da un soldato, attraverso la cortina di chiacchiere e ricordi. «Ne abbiamo già scoperte tre. È il flagello della terra, se vuoi saperlo.» Tungdil guardò l'uomo. «Di che cosa stai parlando?» volle sapere. «Che cos'hai scoperto?» In base ai segni di riconoscimento che il soldato portava sulla leggera armatura di cuoio, capì che si trattava di un esploratore. L'uomo esitò. «Una Foresta Disanimata», rispose. «Almeno, io la chiamo così.» Con un gesto della mano indicò ciò che li circondava e accarezzò l'erba verde. «Guarda, il potere della Terra Estinta svanisce con la morte di Nôd'onn. La dea Palandiell ridà alla terra profanata la sua vecchia forza, ma in alcuni punti il male resiste.» Scambiò un rapido sguardo coi nani e
gli uomini raccolti intorno a lui, che pendevano dalle sue labbra, avvinti, mentre consumavano il loro pasto. «Io so che non avete mai visto i luoghi in cui la malvagità ha messo profonde e nere radici.» La curiosità di Tungdil si era risvegliata. «La Terra Estinta si è creata un ultimo rifugio?» L'esploratore annuì con convinzione. «Ho chiesto alla gente che viveva nei paraggi. Dei pochi sventurati che all'inizio si sono addentrati, ignari, in quella terra maledetta, tre sono tornati indietro. Erano fuori di sé e infuriavano con la forza di molti uomini; attaccavano ogni cosa che incontravano, fino a che non si mozzava loro la testa, uccidendoli così definitivamente. Da allora c'è un decreto del re di Bruron. Quei territori vengono resi inaccessibili con palizzate, fossati e mura. Nessuno può entrare o uscire. Chi lo riesca a fare, viene ucciso sul posto.» Si concesse una pausa. «Vi dico che non rimarrà qualche macchia isolata», garantì, tetro. «È la peste della terra.» Tungdil avrebbe voluto rispondere, ma venne subito interrotto. «Ah, eccolo qui, il nostro Sapientone, tutto triste», lo aggredì il Rabbioso, scacciando i pensieri su Balyndis e l'orrore della Foresta Disanimata. Gli bastò guardarlo un istante negli occhi. «Uh, stiamo sempre a pensare alle nane?» lo provocò. «Hai ottenuto un grande successo proprio perché non hai la più pallida idea di loro...» Colpì il bicchiere dell'amico col suo. «Alla tua amata! Che ti possa rendere felice. Sono contento per voi.» Tungdil percepì la sfumatura di dolore nelle parole del guerriero, che sicuramente stava pensando al suo sfortunato amore. «Anche tu troverai la felicità», lo consolò, brindando a sua volta. «A Balyndis e a tuo fratello, che mi manca quasi quanto manca a te. Ormai sarà sicuramente guarito del tutto.» Boïndil vuotò il suo boccale d'un fiato, poi scosse lentamente la testa posando la mano sinistra sulla testa di un'ascia. «Lo spero proprio. La mia felicità l'ho uccisa di mio pugno, e ormai la ritrovo solo quando combatto», bisbigliò assente, gli occhi fissi sul fuoco. La luce gli illuminò il volto segnato, svelando tutto il dolore della sua anima. «Tutto il resto mi è negato, e sarà sempre così.» Dopo un lungo silenzio intonò la canzone di Bavragor, e a lui si unirono l'uno dopo l'altro tutti i nani. A un assalto segue l'altro, a un mezz'orco ne seguon dieci,
da sempre è così, avidi valicano i confini, e noi nani li attendiamo con gioia, da sempre è così. La scure affonda nel verde ventre, l'ascia nella testa e nelle gambe, da sempre è così, fino a che i mezz'orchi son tutti morti, da sempre è così. Onorare Vraccas e difendere i popoli, senza riposo, senza sosta, questo è il nostro dovere, da sempre è così, e quando in battaglia muore un nano, versiamo lacrime e serriamo i ranghi, da sempre è così, l'anima vola alla Fucina Eterna, da sempre è così, e si scalda alla brace della forgia, da sempre è così. Non vogliamo lodi, non abbiamo bisogno di grazie, da sempre è così, facciamo il nostro dovere, lo facciamo di buon animo, da sempre è così. Le asce sono affilate, le armature splendenti, da sempre è così, non una bestia oltrepasserà le mura, da sempre è così. Gli uomini interruppero i loro racconti e si misero ad ascoltare le profonde e sonore voci che cantavano di onore, cameratismo e dovere nei confronti della Terra Nascosta. Anche se non ne capivano i versi, permetteva loro di gettare uno sguardo fugace nell'anima dei nani, in ciò che significava essere un figlio del Fabbro. Lontano risuonò il coro, attraversando la terra del Gauragar, superando pianure e colline, e salendo fino alle stelle. Il canto non mancò di fare il suo effetto. Tungdil raggiunse turbato il suo giaciglio. Non riusciva a non pensare alla Foresta Disanimata. Che cosa significa? Forse non tutte le nostre preoccupazioni sono finite, Vraccas? Prima che gli si chiudessero gli occhi, si risolse a scoprire il segreto del posto maledetto di cui aveva parlato il soldato. Finché era in tempo.
Il giorno successivo, nani e uomini si separarono. Gli uni ridiscesero nel tunnel, per raggiungere celermente i Secondi, mentre gli altri si misero in viaggio per l'Idoslân, chi a piedi, chi su un carro e chi a cavallo. I nani si lasciarono alle spalle il campo di battaglia, sopra il quale volteggiavano i corvi e su cui si era formata una nuvola di disgustoso fetore, e iniziarono la discesa nel loro regno sotterraneo. A ogni piolo che afferrava, Boïndil superava un po' dell'abbattimento della sera precedente; si rallegrava per il viaggio e soprattutto per il tanto sospirato ricongiungimento col fratello gemello Boëndal, che era rimasto nel regno dei Primi per riprendersi dalle gravi ferite. «Non siamo mai stati separati così a lungo», rivelò a Tungdil, mentre raggiungevano il pavimento del tunnel e si dirigevano verso i vagoncini su cui, correndo sulle rotaie, avrebbero continuato il viaggio. «E come sta andando?» Il Rabbioso si fregò la barba intrecciata per togliere una foglia che vi si era furtivamente introdotta. «È terribile», confessò sospirando. «A parte lui, tu sei l'unico che mi può riportare più o meno alla ragione quando vengo colto dall'ira. Ma lui ci riesce anche meglio.» Rifletté. «È come se mi mancassero un braccio e una gamba. Posso vivere senza di lui, ma è orribile. Mi sento incompleto, non c'è nessuno che condivida i miei pensieri senza bisogno di tante parole. E poi, senza di lui, anche combattere è molto meno divertente.» Rabbrividì. Tungdil lo notò. «C'è dell'altro? Ieri sera sembrava che ti opprimesse qualcos'altro.» «Io... non riesco a descriverlo.» Il nano cercò le parole. «È un'inquietudine. Sento freddo, già da un po' di tempo. Eppure sta diventando primavera. Ho paura che possa essergli successo qualcosa.» Girarono l'angolo del passaggio e si fermarono. Tungdil avrebbe voluto interessarsi al discorso di Boïndil, ma lo scenario confuso che si trovò davanti gli fece perdere le parole. Un massiccio cumulo di roccia crollata impediva loro di proseguire; i massi e i detriti arrivavano fino al soffitto, e i vagoncini erano stati lasciati proprio nel punto in cui il soffitto era collassato. Brontolando di malumore, il Rabbioso s'inginocchiò e tirò verso di sé un pezzo di ferro impolverato che sporgeva da sotto la pietra. I muscoli gli si gonfiarono; uno strattone, e si ritrovò in mano il pezzo ricurvo di un vagoncino. «Per Vraccas, dev'essere stato il calpestio dei cavalli», mugugnò
sfogando la propria rabbia. «Hanno provocato la frana con le vibrazioni dei loro zoccoli.» Gettò il pezzo di ferro tra i detriti. Tungdil pensava che invece dipendesse in qualche modo dal grande terremoto. Lo avevano sentito una sera di parecchie rotazioni prima, poco dopo la vittoria nella battaglia di Giogonero. In base ai resoconti di tutti i messi che avevano sentito, le scosse erano state percepite ovunque. Le vecchie gallerie avevano senz'altro patito gli scossoni. Speriamo che i regni dei nani abbiano retto bene, pensò. «Inutile stare qui», disse ai suoi guerrieri, invitandoli con un cenno della mano a tornare in superficie. «Cercheremo un altro ingresso ai tunnel.» In cuor suo era molto preoccupato. I tunnel che correvano sotto la Terra Nascosta dovevano essere esaminati dagli ingegneri, prima di poter essere utilizzati come un tempo. Molte sezioni delle gallerie potevano essere superate solo quando i vagoncini sferragliavano sui binari senza che i freni ne limitassero lo slancio. Un ostacolo massiccio come quello sarebbe costato a eventuali passeggeri un duro impatto e morte certa. Forse sarebbe meglio andare direttamente a piedi, o comprare dei carri non appena se ne presenti l'occasione, pensò mentre risaliva la scala a pioli. Trecento miglia fino a Giogonero, e da là altre seicento per raggiungere i Monti Blu della stirpe dei Secondi. Usando i tunnel si trattava di poche rotazioni di viaggio, a piedi sarebbe stata una piccola eternità. C'è forse una forza occulta che desidera farci arrivare dai Primi più tardi del previsto? Che cosa sta succedendo nella Terra Nascosta? Il turbamento e la preoccupazione risvegliarono in lui un'inspiegabile angoscia, che neppure la vittoria sui mezz'orchi del giorno precedente riusciva a dissipare. «Dobbiamo muoverci. Sostenete i feriti nel modo migliore possibile», ordinò. «Voglio scoprire che cos'è successo.» Orientandosi grazie alla posizione del sole, marciarono in direzione est. Quando raggiunsero la catena di rilievi e guardarono dall'altra parte, si stupirono non poco. «Ehi! Anche un cieco vedrebbe che qui c'era un accampamento», disse il Rabbioso, annusando l'aria in cerca di ulteriori tracce. Il terreno smosso rivelava le impronte di migliaia di stivali. «Sono altri Pelleverde», sibilò precipitandosi giù dall'altura mentre Tungdil e gli altri si affrettavano a seguirlo. Palpò le tracce, annusò la terra e sputò pieno di odio. «Le mie asce devono farli a pezzi!» Puntò lo sguardo infuriato sulla larga pista che la colonna aveva lasciato sulla terra acquitrinosa. «Vanno verso nord.»
Tungdil notò che non vi era traccia di un singolo fuoco. Due dei suoi nani, che si erano arrampicati sulla collinetta, gli gridarono che anche là si vedevano delle impronte. A pochi passi di distanza trovarono poi dei corvi intenti a banchettare coi cadaveri di due mezz'orchi; si contendevano gracchiando il grasso delle loro pance. A giudicare dalle loro condizioni, i mostri dovevano essere morti già da un po'. In alcuni punti, i becchi degli uccelli avevano staccato la carne scura fino alle ossa. «Ci hanno osservati», disse Tungdil. «Sono stati là sopra a osservarci mentre annientavamo i loro simili e, quando hanno capito che avevamo vinto, hanno proseguito.» «Genia di codardi», sbottò Boïndil, in collera, dando un calcio alla salma di un mezz'orco. Uno dei corvi si fece da parte, saltellando goffamente e sbattendo le ali. «Capiterebbero proprio di proposito, stavo iniziando a scaldarmi.» Si mise a fianco dell'amico. «Corrono verso nord. Direi che sono quattromila Musi di porco. Almeno.» «Ma dove sono diretti?» si chiese Tungdil sollevando una fiasca di pelle vuota. La annusò e la lasciò cadere disgustato: il fetore era ributtante. «Perché non ci hanno attaccato? Ci superavano molto di numero.» Prese una decisione. «Seguiamoli. Voglio vedere che cos'hanno in mente.» Sapeva bene che il suo popolo non era dei più veloci e che i mezz'orchi erano invece eccellenti corridori, ma non rimaneva loro altra scelta. «Accidenti, questa è quella che chiamo una grossa sfida», commentò il Rabbioso. «Noi cento contro diverse migliaia, il che fa a testa...» All'improvviso si rese conto che ciò avrebbe tardato di molto la sua riunione col fratello gemello, e il suo entusiasmo svanì. «No, non li attaccheremo. Li seguiremo per scoprire a che cosa mirano», lo interruppe Tungdil. Mandò due dei suoi guerrieri a sud, per informare il principe Mallen della loro scoperta, e ne spedì altri venti in varie direzioni. «Dovete avvertire gli abitanti del Gauragar», ordinò loro. «Devono fuggire sui monti o in una grossa città.» «Hai notato?» chiese il Rabbioso con aria meditabonda. «Qualcuno li ha trafitti e decapitati. In entrambi i casi le ferite da punta sarebbero bastate da sole a ucciderli, Sapientone.» «Un monito», suppose Tungdil. «Presumibilmente il capo voleva mettere in mostra tutta la sua forza e intimidire altri ribelli.» Il Rabbioso non sembrava d'accordo. «Questo lo ha trafitto tre volte e poi decapitato. Io trovo più impressionante decapitare un avversario con un colpo solo.» Imitò il sibilo di un colpo d'ascia. «Denota forza e preci-
sione.» «Ma che altro senso avrebbero le altre ferite?» insistette Tungdil, in risposta alle perplessità dell'altro. Dal momento che Boïndil non gli diede altre spiegazioni, la questione rimase in sospeso. Iniziarono così le loro peregrinazioni attraverso il Gauragar, che diventava a vista d'occhio più collinoso e roccioso. I prati lasciavano il passo a pietraie maculate di grigio-bruno, tra le quali si alzavano di tanto in tanto rari cespugli. Ciò nonostante, gli stivali e i rifiuti del mezz'orchi lasciavano tracce inconfondibili che conducevano sempre più a nord. «Anche tu hai sentito della Foresta Disanimata?» chiese Tungdil al Rabbioso, strada facendo. «Ieri sera, accanto al fuoco, ne ha parlato uno dei battitori di Mallen.» Il guerriero strabuzzò gli occhi. «Una Foresta Disanimata? È brutta quanto sembrerebbe dal nome?» «Pare che in alcuni luoghi la Terra Estinta si sia procurata un territorio in cui ritirarsi», rispose Tungdil riassumendo all'amico ciò che aveva sentito. «Questi luoghi si riconoscono per via degli alberi neri. Il re Bruron ha proibito di entrarci, perché pare che all'interno gli uomini perdano il senno.» «Niente di buono», brontolò Boïndil. «Pensavo che ci fossimo liberati della Terra Estinta, invece ci ha lasciato l'uovo.» Tungdil osservò le tracce dei mezz'orchi. «Dovrebbe occuparsene Andôkai. Se la Terra Estinta ha lasciato un seme nella nostra terra, chi può dirci che non si espanderà?» Il Rabbioso annuì, concorde, e si fece carico di diffondere la notizia tra gli altri nani, in modo che tutti tenessero gli occhi aperti. Ogni macchia nera doveva essere scovata e segnalata a re Bruron. Alla seconda rotazione d'inseguimento, le orme svoltarono improvvisamente verso est, direttamente verso la collina più alta. Evidentemente da quelle parti doveva esserci qualcosa d'interessante. La sera della terza rotazione accadde l'incredibile: raggiunsero l'esercito, che, due miglia davanti a loro, si riversò sulla collina e scomparve alle sue spalle. «Oink, oink», fece il Rabbioso, pregustando la battaglia. Tungdil gli rivolse uno sguardo duro per indurlo al silenzio. «Non combatteremo», gli ingiunse ancora una volta, appoggiandogli una mano sull'avambraccio per calmarlo. «Non ce la faremmo.» Con ogni cautela si misero dietro i mostri, si arrampicarono sul pendio
scosceso e poco verdeggiante e si fermarono sotto la sottile cresta. Tungdil si sfilò l'elmo; i lunghi capelli castani si agitarono alla leggera brezza. Con circospezione si sollevò in modo da sporgere, al di sopra dei culmi calpestati, non più che la fronte e gli occhi. Boïndil lo imitò. L'orrore successivo non si fece attendere a lungo. I mezz'orchi si muovevano verso un luogo scuro. I due nani osservarono i neri alberi morti tra i quali sparivano. In mezzo alla foresta vi era un laghetto nero come la pece, le cui onde sciabordavano sulla riva come fossero d'inchiostro, lasciando dietro di sé scure striature. Tungdil capì che cosa si estendeva davanti a loro. «È una Foresta Disanimata! Qui devono sentirsi a casa», mormorò. Il Rabbioso guardava in basso, sbalordito. «Terra maledetta! Che ci fanno lì? Fondano il loro nuovo regno? Ma se è misero perfino per loro!» Tungdil percepiva la silenziosa preghiera dell'amico: desiderava combattere. «Non faremo nulla», replicò. «Il principe Mallen informerà re Bruron del fatto che abbiamo scoperto un altro di questi posti senz'anima. Il re si preoccuperà sicuramente di fare in modo che i mezz'orchi rimangano lì dove sono. O che vengano annientati, se cercano di uscire.» Si sporse un po' per guardare le corone degli alberi, prive di foglie, e poter valutare l'ampiezza della macchia. Il nero si estendeva per un buon miglio in larghezza e profondità, creando un oscuro tappeto di paura e malvagità. Arricciò il naso quando il vento gli portò lo stesso fetore di marcio che aveva sentito accostando al naso la fiasca di pelle. Era chiaro che proveniva dal lago nel cuore della foresta. «Tu berresti una cosa che ha un odore del genere?» Il Rabbioso fece un rumore strozzato. «Neanche se stessi per morire di sete.» Con una vampata di caldo, a Tungdil tornarono alla mente le parole del battitore. Bisogna decapitare i folli che ci sono finiti dentro, altrimenti non muoiono. Guardò il lago color inchiostro. E se i due mezz'orchi che abbiamo trovato morti avessero bevuto questa acqua? Anche loro erano impazziti, e per questo sono stati decapitati? Non sapeva dare una risposta a quella domanda. Scivolò giù dalla cresta per andare a raccontare agli altri nani quello che avevano scoperto. Marciarono fino a che non incontrarono una delegazione di re Bruron. Tungdil raccontò loro nei minimi dettagli ciò che era capitato. «Torniamo a casa», decise poi, notizia che perfino il Rabbioso accettò con sollievo. La prospettiva di rivedere finalmente suo fratello, dopo tanto
tempo, di mettersi in pancia un pasto da nani e di bagnare la sua gola secca con la migliore birra della Terra Nascosta smorzarono il suo desiderio di combattere. E così i nani si misero sulla lunga via del ritorno. Terra Nascosta, Monti Neri, Regno dei Terzi, 6234° ciclo solare, tardo inverno «Bislipur si credeva intelligente», sentenziò una voce profonda. Le alte pareti ne rimandarono indietro un'eco roca, poi regnò il silenzio, turbato solo dallo scoppiettio e dal crepitare delle torce. Il guanto corazzato, dotato di spine di ferro in corrispondenza delle nocche, si strinse a pugno, le lamine di metallo stridettero l'una contro l'altra. «Cicli e cicli di sofisticati intrighi per poi ottenere niente di niente. Ho capito fin dall'inizio che avrebbe fallito.» «Ma ha ottenuto che le altre stirpi s'indebolissero, mio signore. La battaglia di Giogonero è costata la vita a centinaia di loro. Nei prossimi cicli questo tornerà a nostro vantaggio.» Il fuoco illuminò il cranio adorno di cicatrici di chi stava parlando. Il disegno delle linee non era dovuto al caso: era inciso nella carne per ornare chi le portava. I migliori tatuatori avevano tracciato rune naniche sul volto crudele, disponendole abilmente. Predicevano mali al nemico che le leggesse. «Hanno lanciato i loro migliori guerrieri contro le orde di Nôd'onn», disse lentamente. «In questo modo i clan sono rimasti senza denti, come un vecchio.» Il suo interlocutore si alzò. Portava i capelli, neri ma parecchio striati di bianco, raccolti in tre trecce ben strette alla testa. «Parli quindi di guerra aperta? È troppo presto per questo.» Il Mastro di guerra e generale del re sollevò le spalle. La sua armatura accompagnò il movimento cigolando; era fatta di anelli di maglia di ferro e piccole scaglie di metallo intrecciate tra loro in modo magistrale. «Ci sarà mai un'opportunità più favorevole, Lorimbas Cuordacciaio? Sicuramente non c'è stata negli ultimi duecento cicli.» «Ho altri piani, Salfalur», replicò il sovrano dei Terzi, pensieroso. La sua barba splendeva di tonalità brune, rosse e verdi, ma a causa delle tinte era diventata tanto pesante che pendeva dal mento rigida come una tavola. Lo sguardo del re si fissò sulla mappa della Terra Nascosta. «Gli intrighi di Bislipur non erano insensati, ma si era concesso troppo tempo. Io conto invece di arrivare al successo entro una decade.» Lorimbas si alzò dal suo
scranno di pietra e attraversò l'alta stanza di pietra nera in cui lui e il suo Mastro di guerra usavano tenere consiglio. Alle scure pareti, alcuni bracieri tremolavano formando minuscole scintille di luce e dando l'impressione che i due nani stessero in piedi in un nulla circondato da stelle dorate. Il re superò i grandi pilastri di sostegno triangolari, scolpiti nella montagna, salì i gradini che portavano a un enorme reliquario, fatto interamente di oro zecchino, e ne aprì le ante. Dentro, in posizione verticale, era celato il sarcofago in pietra del capostipite dei Terzi, Lorimbur. La sua figura era stata scolpita sulla lastra di chiusura, e il basalto era stato istoriato di rune naniche usando pietre preziose, gemme e diamanti, per celebrare le imprese di Lorimbur e dettare ai suoi discendenti la loro feroce eredità. Lorimbas piegò il capo con profondo rispetto. «Da troppo tempo subiamo lo scherno e la derisione degli altri», sussurrò, immerso nei suoi pensieri, toccando il coperchio con la mano destra. «E sulle cronache si leggono troppi tentativi falliti di vendicarci dello smacco che hai subito. Presto tutto ciò avrà fine, mio capostipite. I discendenti di Goïmdil, Giselbart, Borengar e Beroïn scompariranno dalla Terra Nascosta. Io, Lorimbas Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, signore della stirpe dei Terzi e tuo successore, compirò le tue ultime volontà.» S'inginocchiò profondamente, estrasse la sua mazza a tre spigoli dal cinturone e la distese verso il sarcofago. «Questo ti giuro ancora una volta, e sulla mia vita.» Salfalur gli si avvicinò, s'inginocchiò alla stesso modo sui gradini e sollevò il suo martello da guerra a due teste, offrendone rispettosamente la cima. Evitò di parlare, dal momento che il suo re aveva già detto ciò che bruciava anche nel suo cuore di guerriero, per cui si limitò a giurare in silenzio di fronte al defunto capostipite. Pregarono senza parlare. Le ore volarono, le loro ginocchia cominciarono a fare male e i muscoli delle braccia a bruciare, ma nulla sarebbe riuscito a disturbare il loro raccoglimento. Alla fine Lorimbas si levò, baciò gli stivali di pietra e richiuse il reliquario. Anche Salfalur si rialzò, osservando commosso le luccicanti ante d'oro. Nei loro cuori l'antenato contava più di Vraccas, che certo lo aveva creato, ma che poi lo aveva giocato nel modo peggiore, solo perché Lorimbur aveva osato difendere la sua autonomia di fronte al dio. Con la perseveranza tipica dei nani, che gli ignoranti chiamavano testardaggine, Lorimbur aveva desiderato a lungo di poter portare un nome che
si fosse scelto lui stesso, finché alla fine Vraccas glielo aveva concesso. Ma come castigo per il suo caparbio coraggio, il creatore di tutti i nani lo aveva maledetto: non avrebbe mai padroneggiato nessuna delle arti tipiche dei nani al livello di perfezione raggiunto dalle altre stirpi. Il dio aveva perpetrato quella maledizione anche sui discendenti di Lorimbur. Salfalur osservò le incisioni che i loro artigiani avevano scavato nell'oro. Per lui erano belle a vedersi, ma i fabbri dei Primi avrebbero riso di quel lavoro e lo avrebbero ritenuto imperfetto tanto quanto quello di esseri umani. Pagherete per la vostra presunzione, giurò amaramente, sistemandosi i massicci bracciali coperti di lame, che in combattimento gli offrivano una protezione supplementare. «Quale piano hai escogitato, mio signore?» domandò, scendendo le scale senza voltarsi. Teneva il capo abbassato di fronte al reliquario. Il re lo segui. Insieme tornarono al tavolo di granito su cui era distesa la mappa della Terra Nascosta. «Pianteremo il nostro primo picchetto in mezzo a tutti loro», disse il re, cominciando a svelare i suoi propositi al consigliere. Si sedette, prese la brocca piena di birra scura e ne versò per entrambi in due boccali d'argento. Poi puntò Giogonero con l'indice destro. «È la fortezza del nostro popolo, e io la rivoglio. Ne abbiamo diritto.» Sollevò il boccale. «È stato incredibilmente amorevole da parte delle altre stirpi risistemarla per noi.» Bevve la birra a grandi sorsi, quindi posò pesantemente il boccale. «Che c'è?» chiese, meravigliato dal silenzio del suo Mastro di guerra. «Il mio piano non ti piace?» Salfalur non fece mistero dei suoi dubbi: non comprendeva a che cosa mirassero i propositi del suo re. «Che ce ne faremo del vecchio tavoliere, mio signore? Se si tratta dei tunnel, ne abbiamo anche nei Monti Neri.» Lorimbas sorrise. «Si tratta proprio dei tunnel, hai ragione. Dopo che ho saputo della riscoperta di Giogonero, ho mandato i nostri saggi negli archivi della nostra stirpe. Nelle cronache hanno trovato dei documenti secondo i quali quelle mura nascondono in sé più segreti di quanti le tre stirpi abbiano finora scoperto.» «Come fai a dirlo?» chiese il generale, interessato. «Credimi, mio vecchio guerriero, se lo avessero scoperto gli altri, tutta la Terra Nascosta ne parlerebbe, e noi lo avremmo saputo da tempo. Nessuna creatura parlante può tenere a lungo per sé una cosa tanto incredibile. Le nostre spie hanno orecchie ovunque. E non tutti si espongono come Bislipur.» Allungò una mano sul tavolo e gli porse una pergamena e una pila di tavolette di pietra, su cui erano incise ulteriori annotazioni.
Al comandante supremo bastò uno sguardo. «È l'antica lingua del nostro popolo. Io non la conosco», spiegò seccato. Lorimbas annuì soddisfatto e guardò Salfalur, il cui occhio sinistro era sempre intriso di sangue, cosa che capitava a tutti gli esponenti del clan Occhiodisangue. «Infatti! Proprio questo ci aiuterà a tenere nascosti i segreti di Giogonero fino a che una nostra delegazione non vi sia entrata. Sono in pochi a saper decifrare questa scrittura.» «Ottimo, ottimo.» Salfalur inspirò profondamente, riflettendo. «Ma come costringiamo le stirpi a sgombrare la fortezza? Ingaggiare una battaglia per questo mi sembra...» «No. Non sprecheremo le nostre preziose vite per il primo picchetto. Non saremo noi a cacciarli.» Il sovrano ghignò con cattiveria, sprofondando sullo scranno. «Lo faremo fare da qualcun altro.» «E chi mai...?» «Re Bruron.» Le scure sopracciglia del generale si accostarono. «Mi ricordi sempre di più quell'altro che poco fa hai dileggiato per il modo in cui agiva. Questo non mi piace», lo avvertì. «Mio signore, se vuoi sentire il mio consiglio, spiegati meglio.» Strinse le mani intorno al manico del poderoso martello, che era grande quasi quanto lui. «Ti porgo le mie scuse, e ti spiegherò», lo quietò Lorimbas. «È valsa la pena frugare nelle vecchie spelonche, e per molti motivi. I saggi hanno trovato un contratto antichissimo: dev'essere stato stipulato qualcosa come mille e trecento cicli fa. I nostri antenati strinsero un accordo di validità eterna coi re del Gauragar e si assicurarono, in cambio del loro aiuto, il possesso del Monte delle Nuvole.» Salfalur conosceva la leggenda che avvolgeva Giogonero. Un tempo esso si chiamava «Monte delle Nuvole» perché la sua cima svettava alta nel cielo. Quel monte era ancora più fiero e potente di tutti i monti che cingevano la Terra Nascosta, o almeno così diceva la leggenda. Sulla sua cima la neve non si scioglieva mai, e i pendii più alti erano d'oro puro. Poiché non riuscivano a raggiungere l'oro, gli esseri umani chiesero aiuto ai nani. «Vorresti dire che la nostra stirpe li ha davvero aiutati a estrarre l'oro?» «Esatto. Dalla leggenda emerge d'un tratto la verità: furono i nani di Lorimbur a inviare per primi una delegazione nel Gauragar, per vedere coi propri occhi il Monte delle Nuvole.» Lorimbas guardò la mappa. «Scavando un passaggio, riuscirono a irrompere all'interno del monte, e da lì presero a muoversi verso l'alto. Scavarono la montagna e ne consumarono l'oro.
Successivamente, oltre alla loro quota chiesero di poter conservare il monte. E l'allora sovrano del Gauragar sottoscrisse l'accordo.» Salfalur ricordava come proseguiva la storia. Le sue zie gliel'avevano tramandata cantando. Quando gli uomini e i nani presero a contendersi l'oro, il Monte delle Nuvole, diventato vivo, tremò di rabbia per scuotersi di dosso i saccheggiatori, ma i tunnel scavati al suo interno ne causarono il crollo. Da allora, l'antico monte perseguitava col suo odio uomini e nani, e la sua pietra mutilata divenne col passare del tempo nera di malvagità. «E se, quando ci troveremo al suo interno, Giogonero ci riconoscerà e ci stritolerà tra le rocce?» chiese prudente il generale. «Penso che questa parte della leggenda si sia dimostrata priva di senso, ma comunque dovremo stare attenti.» Il re non aveva distolto lo sguardo dalle cartina. «I miei messaggeri raggiungeranno re Bruron entro poche rotazioni.» «È un uomo senza onore. Non si atterrà a ciò che uno dei suoi predecessori ha concordato con la nostra stirpe», profetizzò Salfalur, corrucciato. «Questo nuovo imperatore dei nani, Gandogar, farà pressione su Bruron; e può farlo, perché sono stati i nani a impedire che il suo regno venisse completamente soggiogato dalla Terra Estinta. L'umano non riconoscerà mai gli accordi scritti su quella pergamena.» «Sarà anche un re, ma il suo cuore batte per l'oro. Ammettiamolo pure, per i re degli uomini valgono altri principi. Una moneta d'oro non basta per convincere i loro cuori. Per questo gliene ho già mandate due casse. Ne ha bisogno: deve ricostruire il suo regno, che è stato in gran parte distrutto dalla guerra, e deve provvedere al sostentamento dei suoi sudditi. E non può farlo, se non con provviste che compra dai suoi vicini.» Lorimbas intrecciò le dita sulla pancia. «Vedi, anch'io so ordire intrighi. E anche meglio dello sfortunato Bislipur.» I tatuaggi di Salfalur si misero in movimento, mentre le sue larghe mascelle rimuginavano. «Non si può negarlo, mio signore. Ma alla fine che cos'ha ottenuto Bislipur?» «Tu sei impaziente, vecchio amico. Questo è soltanto il primo picchetto, né più né meno.» «E allora rivelami dove intendi piantare il secondo.» Lorimbas alzò la mano, poi abbassò l'indice, posandolo sul regno che gli uomini chiamavano Idoslân. «Farò fare una visita al principe Mallen, non appena sarà ben impegnato a distruggere i rapaci mezz'orchi che stanno nel suo paese o a cacciarli nelle alture del Toboribor.»
«Mallen è un amico di quel Tungdil Manodoro. Il tuo oro non basterà, per quanto tu gliene offra.» Il generale corrugò la fronte. «Forse ti farà infuriare, ma ho la sensazione che il tuo piano fallirà come quello di Bislipur.» «So bene che tu preferiresti una guerra aperta», ribatté duramente il re, e i suoi occhi marroni si fissarono sul suo migliore comandante. «E può anche essere che le stelle ci siano ora più favorevoli che mai, perché le altre stirpi hanno pochi guerrieri tra le loro file. Ma hanno l'amicizia degli altri popoli, e questo pesa mille volte di più di qualunque superiorità numerica. Solo quando avremo fatto nuovamente divampare l'antica inimicizia tra nani ed elfi - e il fuoco dell'odio arderà luminoso -, potremo forgiare altri picchetti, e affondarli nel cuore di uomini ed elfi!» Lo sfogo del sovrano fece rabbrividire Salfalur. Eppure ci voleva ben più di una voce alta e di una scintilla negli occhi per impressionarlo. «Nessuno sarà più felice di me, se i tuoi propositi riusciranno. Hai ordini da dare alla nostra gente?» «Sì. Manda messaggeri ai nostri presidi e fa' dire ai soldati che depongano subito le armi non appena giunga loro un messaggio con le parole: Vendetta di Lorimbur. Qualunque somma venga loro offerta, non dovranno compiere il loro servizio. Combatteranno solamente se dovranno difendere la loro vita.» Il re poggiò il mento su una mano e sprofondò nei suoi pensieri. Pensieri foschi, che instillarono nel suo animo paura, esitazione e debolezza. «Tua figlia?» Udendo la secca domanda, Lorimbas trasalì. In effetti stava pensando a lei, che non dava notizie di sé ormai da mezzo ciclo. «Niente», mormorò scuotendo la testa. Nessuna notizia, nessun messaggio, neanche il più piccolo indizio sul fatto che fosse viva o su che cosa avesse fatto nell'ultimo periodo. «Credimi, la mia preoccupazione per lei è grande quanto lo sono i Monti Neri.» «È una buona figlia, e una sposa ancora migliore. Non deluderà la nostra fiducia.» Per la prima volta dacché i due si erano riuniti per discutere, i tratti di Salfalur persero la loro durezza. «Non le accadrà nulla. Io l'ho addestrata alla guerra, e tu l'hai istruita magistralmente nell'arte dell'inganno.» Guardò le fiamme che danzavano e guizzavano. «Ma spero che ci dia un qualche segno.» Serrò la mano sinistra a pugno; la manopola di metallo gemette e stridette. Basterebbe una sillaba per porre fine alle nostre incertezze. «Conosco i
tuoi sentimenti. A te manca la moglie, a me la figlia. Ma è andata così. Solo lei poteva farlo senza creare sospetti», si difese il re ad alta voce di fronte alla sua stessa coscienza, che gli rammentava senza sosta ciò che aveva fatto: aveva mandato la sua figlia più giovane in una missione che sarebbe terminata con la morte, se nei suoi confronti fosse sorta anche la più piccola ombra di un sospetto. Lorimbas abbassò la testa e chiuse gli occhi. «È andata così», ripeté in un sussurro. II Terra Nascosta, Monti Blu, regno dei Secondi, 6234º ciclo solare, tardo inverno «È più piccolo, ma rimane pur sempre un cavallo.» Boïndil scivolò infelice dalla sella del pony, sfregandosi ostentatamente il sedere. Poi si scrollò la polvere dai vestiti e dalla barba. «Nani e cavalli non vanno d'accordo. Se non fosse così, Vraccas ci avrebbe fatti in modo che dopo una lunga cavalcata non ci si scortichino le chiappe.» «Avrei voluto vedere i tuoi piedi, se avessimo percorso tutte queste miglia camminando invece che cavalcando», gli rispose Tungdil ghignando, mentre smontava e accarezzava il pony tra le orecchie. Anche lui era ricoperto da un leggero strato di finissima sabbia del deserto, che filtrava senza pietà attraverso gli spessi tessuti e il cuoio e arrivava a fregargli sulla pelle. «Non fare caso a quello che borbotta quel nano di cattivo umore», disse all'animale. «Mi hai portato attraverso la Terra Nascosta in modo eccellente.» Erano sul primo terrazzamento dell'impressionante fortezza di Orcomorto, uno dei più famosi bastioni mai costruiti dai nani. I costruttori avevano progettato la rocca, che si adattava alle propaggini dei Monti Blu, in parte lasciando intatta la roccia viva della montagna, in parte erigendovi degli sbarramenti; il risultato erano quattro grandi spalti difensivi disposti l'uno sopra l'altro. Per lungo tempo i nani dei clan della Seconda Stirpe avevano pensato che Orcomorto fosse imprendibile. Ma con molta perfidia le orde di Nôd'onn avevano dimostrato loro il contrario, e vi avevano infuriato terribilmente. Ovunque guardasse, Tungdil vedeva gru che sollevavano, ruote che giravano e verricelli che scorrevano; seghe da pietra affondavano nella roc-
cia, l'aria risuonava di centinaia di colpi di martelli e scalpelli. Gli scalpellini ricostruivano con solerzia ciò che i mostri avevano distrutto. Gli argini danneggiati venivano abbattuti e ricostruiti a partire dalle fondamenta. Ancora più spessi, ancora più forti. Sembra che tutto stia ritornando come prima, pensò Tungdil con sollievo. Perché continuo a sentirmi inquieto? «Finché non ci avranno completamente sterminati, non avranno vinto», dichiarò il Rabbioso. «Le ossa dei Musi di porco sbiancano al sole, e sopra le torri sventolano sempre gli stendardi dei nostri clan.» Si affrettò ad attraversare a lunghi passi lo spiazzo del terrazzamento superiore, dove si trovava l'altissimo portone che conduceva al sotterraneo regno dei Secondi. Tungdil si volse verso le bandiere, di cui già da lontano, mentre ancora cavalcavano attraverso le propaggini del deserto del Sangreïn, aveva scorto i sottili e piccoli tratti. A Orcomorto stava succedendo qualcosa di speciale. Non erano soltanto i colori dei clan che abitavano la fortezza a essere stati issati; tutto faceva pensare che nella rocca si trovassero anche i clan dei Quarti e dei Primi. L'assemblea! si ricordò di colpo. Era stato sul punto di commettere una grave dimenticanza. «Boïndil, è possibile che per un pelo di barba ci siamo persi l'elezione di Gandogar a imperatore?» Il Rabbioso era già al secondo muro interno e stava giusto per varcare il portone. Si fermò improvvisamente per aspettarlo. «Per Vraccas, seguendo mezz'orchi e bogglin ci siamo quasi persi una grande festa», gli sfuggì. Per un istante annusò l'aria in direzione dell'ingresso, poi si rilassò nuovamente. «No, non ci sono gli odori di un banchetto. Quindi non siamo in ritardo, Sapientone. Non per quello che conta, almeno.» Con gli altri nani entrarono nel regno sotterraneo, che era stato scavato nella montagna. Camminarono attraverso sale ricche di ornamenti e superarono le gigantesche colonne e l'immensa statua del capostipite dei Secondi, Beroïn, seduto sul suo trono di marmo bianco. Marciando tra i piedi dell'immobile gigante, raggiunsero il corridoio che portava davanti al portone della sala del consiglio. «Te lo ricordi ancora?» chiese Boïndil a bassa voce. «Come potrei mai dimenticarlo?» Tungdil ricordava ancora perfettamente quel cammino. Un tempo l'aveva percorso coi due gemelli guerrieri, per poi piombare nel bel mezzo di un'accesissima disputa. Per lui era stato l'inizio di un'avventura che lo aveva reso un vero nano.
«Maledetta luce! Dovevamo rimanere sottoterra, com'è giusto che sia!» Il Rabbioso si spolverò la treccia, che sotto il cocente sole del deserto del Sangreïn si era sbiancata. «Pensi che il nostro arrivo li farà di nuovo litigare su qualcosa?» Tungdil fece segno di no. «Non c'è nessun motivo di essere in disaccordo. Gandogar è il legittimo aspirante al trono. Ha liberato il suo animo dagli influssi negativi di Bislipur, e il suo comportamento onorevole ha convinto di questo anche i più dubbiosi.» Boïndil ammiccò. «Ma col tuo comportamento hai convinto ancora di più.» «Io ho un altro compito. Tu lo sai, e all'occorrenza lo spiegherò a tutti gli altri ancora una volta.» Col pugno, Tungdil colpì il portale tre volte, poi posò le mani sui battenti, trattenne il fiato e li spinse. Lo accolse una luce calda, ma già al primo sguardo il nano si accorse che le bestie avevano imperversato orribilmente nell'importante sala; le numerose colonne circolari, che salivano fino a un'altezza vertiginosa, mancavano per più della metà, e si doveva solo ai magistrali architetti dei Secondi il fatto che il tetto non crollasse. Osservare le pareti gli procurò un profondo dolore. Sulle pareti dove prima stavano dipinte le storie del popolo dei nani, che ricordavano le gloriose imprese e le eminenti vittorie dei cicli passati, spiccavano ormai rozzi buchi. Le clave dei mezz'orchi avevano distrutto irrimediabilmente le primordiali testimonianze. Tungdil sentì Boïndil gemere. Quello spettacolo tormentava il Rabbioso quanto tormentava lui; alla vista di quella devastazione, il guerriero avrebbe cacciato e ucciso i mezz'orchi con bramosia anche maggiore, ammesso che il suo odio potesse ancora crescere. Bracieri di carbone e lampade gettavano la loro luce sui seggi dei re delle Cinque Stirpi, che erano disposti a semicerchio intorno a un tavolo. Tungdil riconobbe Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento, della Stirpe del Quarto, Goïmdil; accanto a lui sedevano Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta, della Stirpe del Primo, Borengar, e, con un solo braccio, Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita. Da saggio consigliere del defunto imperatore Gundrabur Testacanuta, questi era diventato re della stirpe dei Secondi. Sulle tribune di pietra alle loro spalle sedevano i capiclan delle stirpi, che mormoravano e parlavano tra loro. Accingendosi ad attuare quanto si proponeva, Tungdil cercò il volto della sua compagna, Balyndis, e le mandò un caldo sorriso. Aveva riflettuto per molte rotazioni, e aveva deciso quello che doveva fare senza chiedere
consiglio a Boïndil o altri. L'attenzione di Tungdil s'indirizzò ai due scranni vuoti e alle tribune deserte poste alle loro spalle. I Terzi, i nemici dei nani, non li aspettava certo nessuno, ma il loro posto veniva comunque tenuto libero; per contro, i Quinti non esistevano più. Tuttavia, col suo arrivo, le cose sarebbero cambiate. «Saluto il Consiglio delle Stirpi», disse a voce alta. Anche se il cuore gli batteva in gola per l'emozione, non lo diede a vedere. «Oh, ecco che arriva la lingua del Sapientone», sussurrò il Rabbioso, alzando gli occhi al cielo. Per lui era sempre un piccolo miracolo: il suo amico possedeva l'eloquenza di re e sovrani senza essere uno di loro. I più di sessanta cicli trascorsi come trovatello presso il mago umano Lot-Ionan avevano affinato la mente di Tungdil e gli avevano fornito un sapere che nessuno del loro popolo possedeva, almeno in quei tempi. «Ancora una volta i migliori di tutte le stirpi si sono adunati per eleggere un imperatore.» Tungdil si avvicinò al tavolo cui sedevano i re. Teneva la mano destra sulla testa della Lama di Fuoco, perché aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa. «Questa volta non ci sarà nessun altro pretendente al trono. Non contenderò più il titolo a Gandogar.» Vide il sorriso sull'anziano e venerando volto di Balendilín, la sorpresa sui tratti adorni di peluria di Xamtys e sentì l'amichevole risata di Gandogar, cui subito si unirono le altre nane e gli altri nani. La tensione si allentò. Tungdil sollevò il braccio destro e indicò lo scranno vuoto dei Quinti. «Io sono un Terzo, come la maggior parte di voi sa. Non ne sono orgoglioso, ma non è cosa che io possa cambiare. Il mio cuore però non brama in nessun modo il vostro sangue, e prego Vraccas di non essere l'unico Terzo a non essere stato temprato nell'odio.» Voltò il capo per guardare Balyndis. «Il mio cuore brama sì una nana, ma non per portarle la morte.» Lei lo guardò tanto raggiante da rendergli difficile distogliere lo sguardo. Tungdil si avvicinò al posto libero accanto a Gandogar. «Anche se alcuni potrebbero dire che il mio posto sarebbe tra i Terzi, io mi vedo da un'altra parte.» Mentre si avvicinava allo scranno dei Quinti, posò le mani sulla sua cintura tempestata di diamanti, e i suoi pensieri tornarono al momento in cui si era accomiatato dal capostipite dei Quinti, Giselbart Occhiodiferro. La cintura era appartenuta a Giselbart, che gliene aveva fatto dono prima che si separassero. Tungdil superò lo scranno vuoto e si mise nel primo banco della tribuna
dei Quinti, in modo che gli altri lo vedessero bene. «Ho fatto una promessa a Giselbart Occhiodiferro. Egli mi disse: 'Quando avrete scacciato il male dalla Terra Nascosta, ripopolate le nostre sale. Non permettete che il regno dei Quinti continui a essere dominato dalle bestie'.» Tungdil tacque, per lasciare che le sue parole ottenessero l'effetto voluto. «Mi diede la sua cintura come ricordo dei Quinti, che hanno difeso il loro regno fino all'ultimo nano. Neppure la Terra Estinta è riuscita a spezzare la loro ferrea volontà e a impedire loro di compiere il proprio dovere», proseguì. «Hanno difeso la fucina di Vapordrago, permettendoci così di creare l'arma che ha distrutto Nôd'onn.» Estrasse l'ascia e la sollevò perpendicolarmente al suolo; poi guardò i sovrani. «Volevate mandarmi i vostri guerrieri migliori, perché mi aiutassero, e di questo vi sono grato. Ma non vorrei avere mai con me qualcuno che si muova solo per ordine della propria regina o del proprio re. Nessuno è costretto a trasferirsi con me a nord. Ma chiunque decida liberamente di difendere dal male la Porta di Pietra ha il mio caloroso benvenuto.» Si sedette sulla panca e appoggiò la Lama di Fuoco sul pavimento; il suono attraversò la sala del consiglio. Tungdil non si stupì nel vedere Boïndil sedersi subito alla sua sinistra; qualche istante dopo, Balyndis sedeva alla sua destra. Col cuore che batteva forte, seguì i nani che in numero sempre crescente abbandonavano i loro vecchi posti e affluivano nella tribuna, fino a riempirla per metà. Tra loro sedevano sette capiclan, che, come gli assicurarono, erano in rappresentanza di tutto il loro lignaggio. La massiccia figura di Balendilín si alzò, facendo ticchettare i fermagli di pietra che ornavano le ciocche della sua barba grigio scuro. «Tungdil Manodoro, il tuo discorso dimostra che avresti meritato di sederti non tra i banchi, ma qui davanti, sullo scranno di un re», lo lodò. «Io so che non lo avresti mai fatto, ma sono sicuro che le nane e i nani che verranno con te riconosceranno presto quale di loro è il più adatto a guidarli. Al nostro prossimo incontro, non ho nessun dubbio, sederai qui tra noi.» Si rivolse all'assemblea, coi lunghi capelli ingrigiti che parevano fili d'argento. «C'è ancora un'altra cosa da fare. L'imperatore Gundrabur Testacanuta è volato nella Fucina Eterna di Vraccas, lasciando dietro di sé un vuoto che noi ora dobbiamo colmare. Le stirpi hanno bisogno di un sovrano forte che le guidi nella buona e nella cattiva sorte.» Con la mano che gli era rimasta, srotolò rapidamente una pergamena. «Sei pronto ad avanzare la tua pretesa sul trono imperiale, re Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento, della stirpe del Quarto, Goïmdil?» domandò, pronunciando le parole
cerimoniali che gli aveva rivolto già una volta. Gandogar si alzò. «Combatterò contro i nemici del nostro popolo, duro come la roccia con cui Vraccas ci ha fatti, e spietato come la mia ascia», dichiarò lui, solenne. «Libero dal velo che Bislipur ha gettato sulla mia intelligenza, io giuro fedeltà eterna e infinita rettitudine per il benessere di tutte le stirpi. Vraccas e voi mi siete testimoni.» Balendilín gli fece un cenno di assenso. «La tua pretesa è valida.» Alzò la voce. «C'è qualcuno che intende sfidarla?» Tungdil sorrise quando il Rabbioso gli diede uno spintone e bisbigliò malizioso: «Dai! È la tua seconda occasione! Quelli ti eleggono subito, devi solo avere fiducia nella tua parlantina da sapientone». «Dal momento che nessuno ha osato, sarai tu imperatore.» Balendilín Solbraccio lasciò cadere il rotolo e prese il suo corno, con cui emise un segnale prolungato. I portoni della sala si aprirono, e ne entrò una processione di guerrieri di tutte e tre le stirpi. Portavano uno scudo cerimoniale su cui erano adagiati la corona e il martello imperiale. Le luccicanti rune incise nella testa, le pietre preziose e gli intarsi in oro, argento e perfino vraccasio facevano del simbolo della dignità imperiale un pezzo d'arte unico al mondo. I portatori si fermarono al centro della sala e si lasciarono cadere sul ginocchio destro. Balendilín si avvicinò allo scudo e fece cenno a Gandogar di raggiungerlo. «L'assemblea, unanime, ti ha eletto sovrano di tutti i nani.» Prese la corona e la pose sui capelli bruni dell'altro. «Re Gandogar Barbabargento, del clan dei Barbadargento, della stirpe del Quarto, Goïmdil, io ti nomino imperatore.» Indicò il martello, e col cuore pieno di timore reverenziale Gandogar ne afferrò il manico. Stupito dal suo peso immenso, si aiutò con l'altra mano e lo sollevò dallo scudo. Le nane e i nani si alzarono per inginocchiarsi; poi levarono le armi verso di lui, come un tempo avevano fatto per rendere omaggio a Gundrabur Testacanuta. Nello sferragliare di corazze e cotte di maglia, Tungdil ebbe un tremito di commozione, i suoi occhi vagarono sulla folla, sul suo popolo, sui figli del Fabbro, nelle cui fila non vi era mai stata tanta unità come quel giorno. Gandogar brandì il martello e lo fece cozzare contro il marmo, a indicare che si potevano alzare. «Voi avete ascoltato il mio giuramento. Chiunque abbia l'impressione che io, in qualunque momento del mio regno, lo abbia
dimenticato deve subito venire a me e ricordarmelo con parole forti e veementi.» Passò davanti ai resti fracassati delle cinque steli su cui, prima che Bislipur le distruggesse, erano incise le sacre leggi dei nani. «Ciò che il tradimento ha distrutto lo ricostruiranno l'armonia e la pace.» Poi raggiunse il suo trono e vi prese posto. «Interrompete i lavori per il resto della rotazione, dobbiamo festeggiare!» annunciò felice. A quel punto esplose il giubilo, i nani batterono asce, martelli e scuri sopra scudi e armature, e tintinnii e rimbombi non sembravano smettere più. Quando i cuochi portarono le pietanze, il gioioso fracasso svanì lasciando spazio alle risate e ai canti, mentre sempre più persone affluivano nella sala per brindare debitamente all'evento. Corni ricurvi suonarono allegre melodie; poi s'inserirono i tamburi, e il ritmo rapì perfino le gambe del Rabbioso. Con gli occhi lucidi e un boccale di birra in mano, prese parte alla vivace animazione. Gli faceva bene non pensare alla guerra o al fratello lontano, anche se lo svago sarebbe durato poco. «Ballano per allontanare dalla loro anima le esperienze terribili che hanno vissuto», disse una voce accanto a Tungdil, che avrebbe voluto intrattenersi con Balyndis. Riconobbe Balendilín. «Se lo sono meritato, non trovi?» Il volto del nuovo eppure già vecchio re dei Secondi era solcato da molte rughe, e gli occhi scuri lo guardavano pieni di preoccupazione. «Farebbe bene anche a te», gli consigliò Tungdil. Balendilín rise piano, toccandosi la barba. «Sì, hai ragione. E visto che i mezz'orchi mi hanno preso solo un braccio, e non una gamba, più tardi mi cercherò una nana e salterò su e giù per la sala come un giovane alla festa della sua maggiore età.» «Che cosa ti turba?» volle sapere Tungdil. «Ci sono notizie che ci guastano la festa?» «Non ci sono notizie», sospirò l'altro guardando Boïndil. Faceva attenzione che il Rabbioso non sentisse nulla della loro conversazione. «È questo a inquietarmi. Da diverse rotazioni non riceviamo più ambasciate dai Monti Rossi. Questo potrebbe dipendere dal crollo dei tunnel.» Nel suo tono vibrò un «ma» inespresso, l'implicita possibilità che potesse trattarsi d'altro. Balyndis sentì perfettamente quelle parole e, dal momento che apparteneva ai Primi, ne rimase scossa. «Capisco che cosa intendi dire. Nôd'onn ci aveva messi in guardia da un pericolo che sarebbe venuto da ovest, è a questo che stai pensando, vero?» La nana guardò alternativamente il volto
dei due. «Ma la Guardiadiferro occidentale è sicura. Nulla può oltrepassare le sue porte, se i nostri clan non lo vogliono», disse, anche per acquietare le sue paure riguardo alla propria famiglia. I brutti presentimenti di Tungdil dilagarono. Le strinse la mano. «Hai ragione. I Primi sono capaci di fronteggiare qualunque minaccia.» Lei sapeva che stava mentendo, ma gli fu comunque grata. Tutti e tre tacquero, pensando a quanto il mago rinnegato aveva temuto il presunto pericolo proveniente dall'ovest, benché avesse a disposizione un potere pari a quello di nessun altro nei regni degli elfi, degli uomini e dei nani, fosse riuscito a sterminare tutti i maghi tranne Andôkai e si fosse dovuto piegare solo alla Lama di Fuoco. «La regina Xamtys tornerà a casa domani», riferì Balendilín. «La sua preoccupazione è grande come la mia.» «Allora questo significa che anche noi prenderemo congedo domani», decise Tungdil stringendo la mano della nana per tranquillizzarla. «L'accompagneremo. Prima arriviamo là, e i capiclan che vogliono trasferirsi a nord con noi raccolgono la loro gente, meglio è.» Quella spiegazione era un semplice pretesto. La Lama di Fuoco aveva prestato un grandioso servizio contro Nôd'onn, e il nano era assolutamente certo che il suo taglio tempestato di diamanti funzionasse anche contro altre creature del male. Se il regno di Xamtys si trovava davvero in difficoltà, lui e la sua ascia sarebbero stati al posto giusto. Balyndis gli diede un bacio furtivo; i suoi occhi castani dicevano tutto. «So di che cosa state parlando.» Il Rabbioso si unì a loro. «A ovest sta succedendo qualcosa. E nessuno mi racconti che non state pensando a questo.» «Ma come fai a...?» «È stata quella cosa, che è caduta dal cielo.» Il Rabbioso bevve un sorso di birra; una goccia scura corse dalle labbra alla polverosa barba, unendosi allo sporco del viaggio. «Da quella sera, a Giogonero, ho la strana sensazione che a mio fratello sia successo qualcosa.» Parlava così piano che, con tutto il rumore e la musica, stentavano a sentirlo. «Siamo gemelli. Sentiamo quello che accade all'altro.» Balyndis non voleva chiederlo, ma le sue labbra si mossero da sole. La nana si sentì parlare, e maledisse la sua curiosità. «E che cosa senti da quella sera?» Il Rabbioso si sciacquò la gola con un grosso sorso. «Per molto tempo è andato bene tutto, sui Monti Rossi dev'essere ritornato in forze.» Posò il
boccale vuoto e si passò il dorso della mano sulla bocca, pulendola dalla schiuma. «Ma dopo che la stella è caduta, non ho sentito più niente.» Deglutì. «Niente, a parte freddo.» «Per Vraccas!» esclamò la nana, spaventata. Tungdil posò una mano sulla spalla del guerriero, le dita si appoggiarono sulla fredda cotta di maglia. «Ma perché non me ne hai mai parlato prima?» Si rimproverò di non aver dato maggiore importanza alle allusioni che l'amico gli aveva fatto dopo la battaglia. «A che sarebbe servito? Prima dovevamo sterminare i Musi di porco, anche se ogni fibra del mio corpo gridava il nome di Boëndal. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare, e solo ora ti posso dire quello che mi ha riservato notti senza sonno e cupe rotazioni.» Gli angoli della bocca gli si piegarono verso il basso. «Scopriremo molto presto che cosa significano queste sensazioni.» Prese il boccale, fece loro un cenno di capo e scomparve tra la folla. Voleva un'altra birra in cui affogare le sue preoccupazioni. Balendilín lo guardò allontanarsi. «Non sempre la certezza è la cosa migliore. Speriamo che le sue emozioni lo stiano ingannando», disse piano appoggiando una mano sul braccio di Tungdil. «Se avete bisogno di qualcos'altro, fatemelo sapere. I mezz'orchi non sono riusciti a saccheggiare tutte le nostre scorte, e troverete ancora abbastanza funghi essiccati, muschio kamla imbottito e formaggio per riempirvi le pance durante il viaggio.» Coi suoi occhi bruni rivolse a Balyndis uno sguardo incoraggiante. Tungdil non indugiò oltre e raccontò della Foresta Disanimata. «I mezz'orchi sono scomparsi al suo interno», disse concludendo il suo racconto. «Probabilmente la Terra Estinta esercita la sua forza di attrazione su di loro, e raccoglie così i suoi ultimi seguaci.» «A che scopo?» si chiese il re dei Secondi. «Avrebbero potuto cercarsi un nascondiglio migliore, per esempio sulle alture del Toboribor. Hai detto che quella foresta è piccola. Dove troveranno da mangiare? E se escono dalla protezione degli alberi, gli uomini di re Bruron saranno pronti ad accoglierli.» «È vero», concesse Tungdil. «Neanch'io so che cosa ci facciano, a parte cadere in preda alla follia. Avrei voluto indagare, ma i Monti Grigi mi attendevano.» Balendilín annuì. «Lascia che siano gli uomini a distruggere i mezz'orchi. Ormai sono in grado di portare a termine da soli un compito del genere, e la tua missione non ti permette altri ritardi.» Ciò detto, il re dei Se-
condi li lasciò. Balyndis sospirò. «Sai, credevo che con la morte del mago il male fosse stato sconfitto, e invece sembra che Vraccas ci voglia mettere alla prova un'altra volta.» Tungdil sorrise, accarezzandole dolcemente la guancia con la mano sinistra. Sentì la fine peluria che tutte le nane portavano sul volto, e che diventava più scura e visibile con l'età. «Sono davvero felice di vederti. Ti ho sognata, mentre eravamo in viaggio. Ogni notte. Ogni rotazione.» Notò che portava al collo una collana nuova. Era fatta di piastrine di ferro magistralmente forgiate e ornate con piccolissime sfere d'oro. Non aveva dubbi: quel gioiello era opera delle sue mani. «Ah, allora non eri esausto come lo ero io.» Balyndis guardava i nani che si esibivano in una dignitosa e lenta danza che doveva rappresentare il duro lavoro nelle miniere. «Non avevo tempo per sognarti. Mi addormentavo di sasso non appena mi fermavo un attimo per riposare. Abbiamo riacceso le forge e le abbiamo usate dalla mattina alla sera. Le braccia mi devono essere diventate due volte più grosse. I mezz'orchi hanno fatto tanti danni che potrei passare i prossimi cento cicli agli altiforni e alle incudini dei Secondi.» Lui indicò la collana. «Ma ti è rimasto abbastanza tempo per farti quel gioiello?» la punzecchiò. Lei sorrise. «Lo hai notato?» I corni ricurvi tacquero, gli applausi esplosero, e Balyndis si unì subito entusiasta. Tungdil le cinse le spalle col braccio. «Lascia perdere queste fatiche. Ho bisogno di te sui Monti Grigi.» La guardò intensamente negli occhi. «Non solo perché sei il migliore fabbro della nostra gente, ma anche perché ti voglio come mia compagna. Il tempo che ho trascorso senza di te mi ha fatto capire quanto ho bisogno della tua vicinanza.» Balyndis lo fissò, stupita dall'ammissione. «Tungdil Manodoro, stai parlando di una faccenda oltremodo seria.» «Lo so», replicò lui annuendo sotto l'insistente sguardo indagatore della nana. «Abbiamo superato molte difficoltà insieme, ne supereremo altre ancora, e un domani vorrei parlarne con te, vorrei che le ricordassimo insieme, anche se fossero passati più di quattrocento cicli. I nostri bambini ameranno queste storie e, quando gliele racconteremo, non crederanno a una sola parola.» Baciò l'accenno di peluria che lei portava sulla fronte. «Balyndis Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, della stirpe del Primo, Borengar, un Terzo di origini incerte e dall'educazione per nulla nanesca ti
chiede: vuoi sposarmi, nella fucina di Vapordrago?» La nana ricacciò dentro di sé la commozione. «Nulla potrà mai più dividerci. Già da tempo sento il legame di ferro che unisce i nostri cuori ardenti.» Fece un passo in avanti e lo prese tra le braccia. Tungdil si strinse forte a lei, gustò il suo profumo. Chiuse con forza le palpebre, rapito da tanta felicità, poi la sentì dire: «Lo voglio, Tungdil Manodoro». E se l'istante successivo la sala fosse crollata, se tutti i mostri della Terra Nascosta e di quella dell'Aldilà si fossero scagliati su di lui, o se fosse morto tra le sue braccia trafitto da cento frecce spuntate, nessun momento della sua vita sarebbe stato comunque più felice di quello. Terra Nascosta, regno di Gauragar, ventitré miglia a sud-ovest dello Dsôn Balsur, 6234° ciclo solare, tardo inverno Il principe degli elfi, Liútasil, stava sulla più alta delle torri di vedetta in legno e abbracciava con lo sguardo file di tende variopinte, che sembravano infinite e che erano disposte in base a un ordine rigoroso. Approfittava del tempo che aveva a disposizione per pettinarsi i capelli rosso scuro con un pettine d'argento filigranato; i dentini - ricoperti da intarsi in madreperla per impedire che il metallo maltrattasse troppo le fini ciocche - scivolavano con dolcezza, sciogliendo piccoli nodi o rimuovendo capelli morti. Le truppe al comando di Liútasil avevano montato le tende degli alloggiamenti e fortificato l'accampamento con palizzate. Tutt'intorno correva un fossato profondo sette piedi e largo altrettanto. Né gli uomini né gli elfi volevano avvicinarsi tanto al tenebroso regno senza la sicurezza che potevano offrire loro le migliori fortificazioni. Mentre il principe Mallen von Ido e la sua veloce cavalleria davano la caccia ai mezz'orchi e ai mostri volti in fuga all'indomani della battaglia di Giogonero, l'esercito racimolato dai regni della Terra Nascosta si era rivolto verso nord, per distruggere il regno degli albi e annientare i malvagi e crudeli parenti degli elfi, o quantomeno ricacciarli oltre le montagne, nella Terra dell'Aldilà. La ripartizione delle forze era stata approvata da tutti i comandanti. Il sovrano dell'Âlandur sentiva l'odore dei fuochi su cui ribolliva il cibo e quello degli escrementi di animali ed esseri umani, e il vento gli portava i discorsi fatti a bassa voce. Alcuni guerrieri erano immersi nei preparativi
per la battaglia; affilavano spade e lance, oppure immergevano le punte delle frecce negli escrementi, in modo che una ferita profonda bastasse a portare il nemico a morte certa. Altri si gettavano sbronzi sui loro giacigli; si riempivano di vino nel tentativo di dimenticare la paura per gli albi. «Umani», mormorò il principe, compatendoli. S'infiacchiscono con le loro stesse mani. Gli elfi invece s'impegnavano in attività ben diverse, prima della battaglia, che li aiutassero ad acquisire la tranquillità necessaria alla lotta. Ma per marciare contro lo Dsôn Balsur, considerò Liútasil, aveva bisogno degli umani. Da tempo i suoi pochi guerrieri elfi non bastavano più neppure a difendersi dalle preponderanti forze degli albi. Non si faceva illusioni. Senza la vittoria a Giogonero il suo regno sarebbe caduto nell'arco di dieci cicli, per cui doveva ringraziare gli umani e perfino i nani. Le ultime scaramucce ai margini dell'Âlandur servivano solo a coprire la ritirata degli albi, che stavano raccogliendo tutte le forze nella difesa dello Dsôn Balsur. Non mi riesce facile, grande dea Sitalia, pensò puntando lo sguardo su un gruppo di beoni che si accapigliavano per l'ultima fiasca di vino, finché il loro superiore non li riportò all'ordine chiamando le sentinelle e facendoli separare. Vi fu una pioggia di bastonate, e gli ubriachi sparirono gemendo nei loro alloggi. Sono così diversi... Non capisco quello che pensano in questo momento. Eppure avrai in mente qualcosa, Sitalia, se ci fai muovere contro gli albi fianco a fianco con uomini e nani. Il principe si voltò e prese a scendere la scala. I suoi passi lo condussero oltre gli stendardi, fino alla grande tenda consiliare, di colore purpureo, in cui si doveva discutere di ciò che le sue spie avevano scoperto. I comandanti dei soldati del Tabaîn, del Weyurn, del Sangreîn, dell'Urgon e del Gauragar lo stavano già attendendo; sedevano al grande tavolo coperto della cartina, bevendo in silenzio l'acqua che era stata portata loro. Così almeno sarebbero rimasti ragionevoli e padroni di sé. In un angolo stavano tre elfi in leggere armature di cuoio, appena tornati dal loro giro di esplorazione. Lo sporco dello Dsôn Balsur era ancora attaccato ai loro vestiti e alle loro scarpe; sulle armature s'intravedevano tagli e macchie di sangue. Le informazioni sul conto degli albi venivano pagate a un prezzo doloroso. Liútasil salutò con un cenno del capo gli uomini disposti in cerchio e fece segno alle spie di rivelare ciò che avevano scoperto. Dal momento che non conoscevano la lingua degli uomini, il principe tradusse ai comandanti
quello che stavano raccontando. «Il nostro nemico si è ritirato nel profondo del suo regno. Ha lasciato dietro di sé molte trappole, il che ci renderà più difficile un'avanzata compatta. Le foreste rese nere dalla forza della Terra Estinta non riescono a liberarsi della sua malvagità. La prima sfida, per noi, sarà attraversare indenni il muro di alberi.» «E se aspettassimo?» propose il comandante del contingente del Sangreïn. «Abbiamo già visto altrove che la maledizione della Terra Estinta sta venendo meno e che la terra si sta riprendendo. Probabilmente succederà anche qui, no? Non posso pretendere dai miei uomini una marcia tra rami che sferzano e tronchi che si muovono. Influirebbe negativamente sul loro spirito combattivo.» Gli altri umani concordarono. «Comprendo le vostre riserve.» Liútasil si sedette e posò le braccia sul tavolo. «Come sapete, un tempo queste foreste appartenevano agli elfi, e sono antiche. Troppo antiche. Le loro radici hanno assorbito il male troppo a lungo e ne sono completamente impregnate. Le mie spie hanno visto che gli alberi muoiono definitivamente, trasformandosi in pietra, ma ci vuole molto tempo prima che i rami smettano di muoversi. Io non voglio dare tregua agli albi. A Giogonero abbiamo inflitto loro una sconfitta da cui non devono avere il tempo di riprendersi, comprendete?» A quelle parole, il silenzio calò sulla tenda. Il principe degli elfi diede ai presenti la possibilità di mettere ordine nei propri pensieri e di meditare su ciò che aveva spiegato. Dopo un ulteriore breve colloquio, congedò gli esploratori, permettendo così che si facessero curare le ferite. Quindi raggiunse l'ingresso della tenda e si mise a guardare le stelle. Unendo alcune delle sfavillanti stelle con delle linee immaginarie, si ottenevano nel nero del cielo i volti stilizzati di elfi leggendari. Dopo la loro morte erano stati portati in cielo dalla loro creatrice, Sitalia, a causa delle loro doti in fatto di lungimiranza, valore o saggezza. Da lassù vegliavano sui discendenti, mandando loro visioni e messaggi. Liútasil cercò il volto di Fantur, il secondo principe degli elfi dell'Âlandur e fratello di Veïnsa, che un tempo era stata principessa degli elfi della Pianura d'Oro. Ti prego di aiutarmi, implorò silenziosamente i punti che brillavano in alto. Mandami un'ispirazione, mostrami un modo per convincerli. Ritornò al suo posto. «Qual è la vostra opinione?» «Sono pur sempre alberi, giusto?» gli si rivolse il comandante di Rân Ribastur, e l'elfo annuì. «Sappiamo tutti che gli alberi prendono fuoco. La mia proposta è di usare il fuoco per aprirci un sentiero attraverso la male-
detta foresta, e di arrivare così fino al cuore del regno.» «Così facendo sapranno perfettamente dove siamo», replicò Liútasil. «Saremmo un facile bersaglio per i loro arcieri e perderemmo centinaia di...» L'uomo scrollò le spalle. «E che importa? Disponiamo di forze molto più numerose. Che sappiano pure che stiamo arrivando, principe Liútasil. Se non si faranno avanti, incendieremo l'intera foresta. L'idea non mi turba, se servirà a liberarci dai lasciti della Terra Estinta.» Gli umani batterono le mani sul tavolo, mostrando di approvare la proposta. Liútasil capì che avrebbe dovuto accettarla anche lui. «Dovremmo aspettare fino all'arrivo del contingente dei nani», li invitò a riflettere. «Forse uno di loro saprà consigliarci una soluzione migliore. Ho mandato loro incontro un gruppo di esploratori al comando della mia fidata Shanamil. Li accompagnerà al nostro accampamento. Dovrebbero essere qui tra due rotazioni.» «I nani sono bravi quando si tratta di lavorare sottoterra», ribatté il comandante. «Ma delle cose che capitano qua sopra, con tutto il dovuto rispetto per le loro asce affilate e il loro coraggio, non ne capiscono molto. Chi è per incendiare la foresta?» Alzò il braccio, e la maggioranza lo seguì. «Vedremo che cosa ne pensano i nani», insistette l'elfo in tono amichevole ma irremovibile. «Andate a letto. Vedremo che cosa ci porterà il sole.» L'uno dopo l'altro, gli umani abbandonarono la tenda. Rimasto solo, Liútasil sciolse i cordini che legavano i suoi lunghi capelli, che lasciò cadere sulle spalle. La sua preoccupazione cresceva; la forza degli albi stava negli agguati, nell'attaccare a tradimento senza offrire nessun bersaglio. Gli uomini lo avrebbero appreso a proprie spese durante la loro lunga marcia. Prese con sé la cartina e calcolò approssimativamente la distanza che avrebbero dovuto percorrere per arrivare dai confini della foresta fino alla capitale dei nemici, e stimò che fossero più di cinquanta miglia. Se avessero perso cinquanta soldati a ogni miglio, si sarebbero dovuti considerare fortunati. Io li ho avvertiti. Terra Nascosta, regno di Gauragar, trentadue miglia a sud-ovest dello Dsôn Balsur,
6324° ciclo solare, tardo inverno «Non trovo per niente giusto che i Lunghi e gli Orecchi appuntiti siano già avanzati. Avrebbero dovuto aspettarci.» Gisgurd guardò i volti di Bundror e Gimdur. «Non è colpa nostra se i tunnel sono crollati e siamo stati costretti a venire a piedi. Non fosse stato per quello saremmo arrivati all'accampamento già da un bel po'.» «Che cosa sentono le mie orecchie? Orecchi appuntiti? Non dovevamo smettere di chiamarli così?» lo rimproverò Bundror, ma il suo sorriso dimostrava che non stava parlando proprio seriamente. «Ormai siamo una specie di famiglia, e ci vogliamo tutti bene, no?» Gimdur staccò due grossi pezzi di fungo essiccato e v'inserì il formaggio che aveva arrostito alla fiamma su un bastoncino. «Già, e allora? Io non sopporto mia sorella, anche se siamo una famiglia», brontolò prima di ficcare i denti nel suo pasto. «Dovreste essere contenti che sono partiti in anticipo, così non ci dovremo sporcare le mani scavando fossati», borbottò. «Come se un elfo sapesse scavare un fossato. Si spalano il fango l'uno sui piedi dell'altro», ribatté Bundror in tono di scherno. «Suonano il liuto, e fin qui... Per quello che mi riguarda, usano bene l'arco. Ma non me la danno a bere, quando si tratta di zappa e badile. E non hanno la minima idea neanche di buon cibo e di birra decente.» Gisgurd gli mise una mano su una spalla. «So che cosa intendi. Per me gli elfi» - sottolineò la parola con disprezzo, in modo da non dover aggiungere parole ingiuriose - «non sono meno sgradevoli solo perché ora combattiamo con loro. Elfi e nani non ci possono soffrire e hanno combattuto tra loro per migliaia di cicli. Non si può dimenticare il passato.» «E infatti non dovete farlo, messer nano. Però dovreste guardare fiduciosi i cicli futuri, in cui vivremo in amicizia e armonia», sembrò cantare una voce di donna che proveniva dall'oscurità, lontano dal fuoco. La creatura si avvicinò subito, e i tre nani si trovarono di fronte una gracile elfa, i cui lunghi capelli castano scuro ondeggiavano sospinti dalla brezza serale. «Mi fa piacere avervi trovato così facilmente, anche se non è molto intelligente accamparsi nelle vicinanze dello Dsôn Balsur senza sentinelle e allo scoperto. Il bagliore del vostro fuoco si scorge a miglia di distanza.» Gisgurd, Bundror e Gimdur erano balzati in piedi; le loro forti mani stringevano i manici delle asce, tenendole pronte a colpire. Un richiamo volò attraverso il campo, svegliando e mettendo in guardia gli altri trecento
guerrieri che componevano il loro contingente. «Non abbiamo paura degli albi, ne abbiamo uccisi troppi a Giogonero», ribatté Gisgurd furibondo. La guardava pieno di sospetto, che crebbe ulteriormente quando vide uscire dalle ombre i nove elfi che l'accompagnavano. «Chi sei, e cosa vuoi?» «Io sono Shanamil, e sono stata inviata dal principe degli elfi, Liútasil, per trovarvi e accompagnarvi all'accampamento al sorgere del sole.» «Certo. E io sono Balyndis Ditadiferro, colei che ha forgiato la Lama di Fuoco», ringhiò il nano. «Mostrami qualcosa che provi le tue parole, o...» Si morse la lingua per non diventare troppo scortese. Gimdur intervenne prontamente. «Di notte, tutti gli Orecchi appuntiti sono uguali. Come possiamo capire se sei elfa o alba?» La donna prese la collana che le pendeva dal collo ed esibì il sigillo del principe degli elfi. «Questo oggetto dimostra che sono uno dei suoi consiglieri più fidati.» Lo lanciò a Gisgurd e si sedette accanto al fuoco. «Se non mi credete, uccidetemi, e domani scoprirete dalla bocca del sovrano dell'Âlandur a chi avete tolto la vita con le vostre asce.» Bundror si mise accanto a Gisgurd e osservò il sigillo. «Lo conosco. L'ho visto durante la battaglia. Un elfo era caduto, e un bogglin stava cercando di rubare quell'amuleto d'oro. Poi la lama della mia ascia gli è finita in mezzo alle spalle.» Shanamil fece un inchino nella sua direzione. «Vi ringrazio per la vostra impresa, signore. Un tempo avreste ballato sul cadavere di un elfo, piuttosto che vendicarne la morte.» I suoi occhi grigi lo fissarono in un modo così profondamente onesto che il nano non poté fare altro che abbassare l'arma. «Sono elfi dell'Âlandur», disse piano a Gisgurd. «Non m'inganno.» Osservarono le armature di cuoio, le armi, i volti allungati e belli, su cui non vi era traccia di menzogna, e si rilassarono. «E va bene, vi ha mandati Liútasil», acconsentì alla fine anche Gisgurd. «Ma non potete impedirci di rimanere sul chi vive fino a che i primi raggi del sole illuminino la piana. Allora potremo riconoscere dai vostri occhi se siete davvero elfi e non i loro orribili parenti.» L'elfa rimase tranquilla. «Non me la prendo per il modo in cui mi trattate. Anch'io mi aspetterei dagli albi un simile stratagemma. S'insinuerebbero nella vostra fiducia, vi farebbero crogiolare nella sicurezza e poi, furtivamente, vi taglierebbero la gola l'uno dopo l'altro.» Fece un cenno ai membri della sua scorta, che si lasciarono cadere intorno a lei. «No, non
me la prendo affatto. Verrà un giorno in cui distruggeremo del tutto gli albi, e in futuro, quando s'incontreranno degli elfi nottetempo, non sarà più necessaria la minima ombra di sospetto.» Cercò a tastoni la borraccia. «Sapete dove state andando?» Gisgurd si sedette, e Bundror e Gimdur lo imitarono. «Sappiamo che troveremo l'esercito se andiamo nella direzione in cui sta il sole quand'è più alto. Abbiamo camminato nella giusta direzione? In una galleria è più facile orientarsi.» «Rinchiudetemi sottoterra, e non troverò mai l'uscita», replicò lei sorridendo e mostrando i suoi bianchi denti regolari. Gisgurd la trovava così bella da provocare in lui una certa avversione; guardarla gli faceva male agli occhi, e la trovava quasi ripugnante. Presumibilmente dipendeva dal fatto che la sua dea, per crearla, aveva mescolato luce alla rugiada e alla pura terra. La luce e i nani non andavano d'accordo. No, non sarebbe mai diventato amico degli elfi. Ma almeno non le dava l'impressione di essere troppo presuntuosa, come altri della sua razza, cose che le fece subito presente senza tanti complimenti. «Be', cerco di adattarmi alle nuove circostanze», disse Shanamil. Prese un pezzo di pane dal tascapane che portava alla cintura e iniziò a mangiarlo. «Mi ero aspettata di trovare un'orda di Cavernicoli puzzolenti e ubriachi, e invece mi sono imbattuta in un reparto di guerrieri disciplinati ed estremamente vigili.» Ammiccò. «Anche se non avete messo delle sentinelle.» Consumò la sua razione. «Ma chi è Balyndis Ditadiferro?» chiese all'improvviso. «Di certo non siete voi, signore.» Bundror scoppiò a ridere. «No, non sono lei.» Raccontò come il gruppo di Tungdil Manodoro e dei gemelli guerrieri era partito per forgiare la Lama di Fuoco, riuscendovi tra grandi difficoltà e in mezzo alla furia dei nemici. «Hanno dovuto anche combattere contro degli albi?» domandò l'elfa. «Fin dall'inizio.» Il nano annuì e descrisse in parole ornate come Tungdil e i suoi amici avessero sconfitto la loro prima alba a Grünhain, prima ancora di cominciare la spedizione verso nord, e di come più tardi avessero ucciso anche i loro mortali nemici, Sinthoras e Caphalor. «Dovevano essere i più pericolosi albi dello Dsôn Balsur», disse concludendo il suo racconto. L'elfa applaudì e i nani intorno a lei, che lo avevano ascoltato rapiti, si unirono. «Siete un narratore eccezionale», lo lodò. «Non ci vorrà ancora molto. Presto le battaglie contro gli albi apparterranno al passato.»
«Peccato», mormorò Gisgurd guadagnandosi un sorriso dell'elfa. Gimdur si grattò la folta barba nera. «Visto che siamo alle favole della buonanotte, sai dirci come sono nati gli albi?» Shanamil annuì, incrociò le gambe e osservò i nani che, nonostante l'età matura, sporgevano verso di lei le barbe e i volti segnati, come fossero bimbi piccoli. Poi si alzò per raccontare. Elria la caritatevole, la dea dell'acqua, aveva una figlia, Inàste. Inàste vide quale splendore aveva creato Sitalia usando la luce, la pura terra e la rugiada del mattino, e volle fare qualcosa di altrettanto bello. Per questo anche lei prese la rugiada del mattino, la luce e la terra pura per creare un nuovo elfo. Ma Palandiell, la madre di Sitalia, prese a sé questo nuovo elfo, e lo distrusse, affinché nulla superasse la creazione di sua figlia. Inàste aveva pregato sua madre Elria d'impedirlo, ma quella non aveva fatto nulla. Si venne così a una contesa. Inàste giurò di non obbedire mai più né a Palandiell né a Elria e si sposò con Samusin. I due ebbero un figlio bellissimo, che assomigliava in tutto e per tutto a un elfo, ma che portava in sé la stessa collera e lo stesso odio che Inàste continuava a provare nei confronti di Palandiell ed Elria. Lo chiamarono Albo, gli diedero delle armi e lo mandarono tra gli elfi. Egli imperversò tanto tra la nostra gente, che Palandiell lo prese e lo gettò oltre le montagne del nord, dove Albo si alleò con le creature di Tion e si moltiplicò. Là attese paziente la mattina del giorno in cui sarebbe tornato e avrebbe combattuto di nuovo contro gli elfi. E così lui e i suoi discendenti divennero i più fedeli servitori della Terra Estinta, divorati dal desiderio di annientare gli elfi. Nessuno applaudì. Non perché la storia non fosse piaciuta, anzi. Le parole dell'elfa, insieme con la voce dolce e melodiosa, avevano catturato i nani, i quali tacevano e attendevano che Shanamil riprendesse a parlare, cosa che però non fece. Chinò invece la testa, in silenzio. «Quindi Inàste e Samusin sono colpevoli della nascita di questo male», disse finalmente Gisgurd, schiarendosi la voce. «O sono colpevoli tutti quelli che hanno partecipato alla contesa.» Bundror scosse la barba, facendola oscillare a destra e a sinistra. «Vraccas non
si sarebbe mai comportato così. Avrebbe capito che da una lite non può che venire male.» «È solo una leggenda», ricordò Gimdur. «Anche se è bella da ascoltare, probabilmente gli albi danno una spiegazione completamente diversa, che attribuisce tutta la colpa all'odio degli elfi.» Guardò la loro ospite. «O no?» Shanamil rimase immobile. «È la leggenda, così come la narra il mio popolo, e io ci credo, esattamente come voi credete che Vraccas vi abbia scolpiti dal granito più duro», ribatté. «Ed è giusto che vi abbia creati così. Potremo fare buon uso della vostra gagliardia e della vostra perseveranza», proseguì, per non lasciare spazio ad altre dispute verbali. «Tra le vostre file ci sono forse gli eroi di cui mi avete raccontato?» «Tungdil?» Bundror scoppiò a ridere. «No, ha cose più importanti da fare che dare la caccia a foschi Orecchi appuntiti...» Si azzittì, perché aveva usato la parola ingiuriosa, strinse gli occhi e osservò il volto dell'elfa. «Hai qualcosa in contrario se chiamo gli albi 'Orecchi appuntiti'?» s'informò. Interpretò il sorriso di lei come un incoraggiamento. «Eh no, questa nuova era non andrà tanto lontano, se non posso più insultare i miei nemici solo perché sono imparentati coi nostri alleati», brontolò Gimdur a bassa voce, e cercò la sua pipa per riempirla. «Bene», riprese Bundror. «Mentre noi venivamo mandati per aiutare voi e gli umani contro i maledetti Orecchi appuntiti di Inàste, Tungdil viaggiava verso nord. Verso i Monti Grigi.» Si compiacque visibilmente di avere utilizzato il soprannome ingiurioso e anche di aver sfoggiato le conoscenze che aveva appena acquisito. «Che peccato», mormorò Shanamil. «Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Eppure, se il mio popolo avesse un guerriero con un'arma così straordinaria lo avrebbe mandato dove il bisogno fosse stato più urgente.» «Infatti.» Gimdur accese il tabacco con una scheggia di legno ardente; nell'aria si alzarono dense nuvole di fumo blu scuro. «Chiuderà la Porta di Pietra e riempirà di nuova vita il regno dei Quinti.» «Da solo? Allora dev'essere un ben grande figlio del Fabbro», replicò l'elfa stupita, facendo ridere i nani. «Ma no. Lo accompagnano i migliori tra i Secondi, i Primi e i Quarti», spiegò Gimdur facendo schioccare le labbra mentre fumava. «Accompagnano lui e i suoi amici.» Puntò la pipa verso Shanamil. «Credi a me, non un solo mostro passerà più attraverso i Monti Grigi. Il nostro popolo veglia sui passi.» Gisgurd si alzò. «Non vorrei essere scortese, elfa, ma ora la mia gente
deve riposare.» Ordinò a una dozzina di nani di ripartirsi ai lati del campo improvvisato, perché proteggessero con le loro armi i dormienti da eventuali attacchi nemici. Gli era bastato essere sorpreso una volta dagli elfi. «Certo, anche perché domani vi aspettano ancora diverse miglia di viaggio», concordò subito l'elfa. «Se per voi va bene, riposeremo anche noi qui. Per quanto mi riguarda, potete farci sorvegliare, se la vostra diffidenza nei nostri confronti non è ancora svanita.» Si coricò su un fianco, col viso rivolto verso il fuoco. Un rapido movimento, e il suo mantello le si posò sul corpo, facendole da coperta. «Siamo esploratori, e siamo abituati a dormire sulla nuda terra.» La sua scorta si preparò a dormire allo stesso modo. «Non sono affatto pretenziosi», bisbigliò Bundror al loro capo. «Se uno della mia gente mi avesse detto che gli elfi dormono all'addiaccio, non gli avrei creduto.» «E che cosa ti aspettavi?» ghignò Gisgurd. «Copertine di broccato ben ricamate e cuscini di velluto profumati?» «Quelli sono rimasti all'accampamento», disse a voce alta Shanamil, che aveva sentito perfettamente il silenzioso scambio di battute. «Sui letti a baldacchino.» Chiuse gli occhi, rimanendo però col sorriso sulle labbra. «Maledizione», imprecò Bundror. «Avevo dimenticato che le loro orecchie non sono solo appuntite, ma anche acute.» *
*
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Passarono le ore. La luna si librava nel suo punto più alto, illuminava i nani dormienti di un dolce chiarore, facendoli sembrare statue d'argento. Bundror si riscosse dal torpore; un brutto sogno l'aveva strappato al benefico sonno e lo fece svegliare gemente. Le immagini notturne lo avevano ingannato, mostrandogli di essere finito in un combattimento con gli albi. Le forze preponderanti degli avversari gli uccidevano un amico dopo l'altro; il nano si era appena parato di fronte a uno dei nemici, e vederne la spada che sfrecciava verso il suo collo scoperto lo aveva svegliato. La mente gli aveva risparmiato quella sensazione orribile, per quanto immaginaria. Il cuore gli batteva all'impazzata; si passò la mano sulla fronte e sul viso, e notò che il sudore gli si era raccolto sulla pelle e da lì filtrava nella sua folta barba. Dev'essere la vicinanza allo Dsôn Balsur, cercò di spiegarsi, poiché a
casa, nel regno dei Quarti, il cervello non lo tormentava ordendo simili sogni. Sollevò la coperta e si mise seduto. Qua e là tremolavano le ultime fiammelle del fuoco, i nani giacevano tranquilli dormendo della grossa. Sembra che io sia l'unico a fare brutti sogni sugli albi. Bundror si alzò, prese la sua ascia e si fece strada tra i corpi. Allontanatosi qualche passo dal campo, cercò un cespuglio dietro il quale alleggerirsi, e poco dopo l'orina del nano gorgogliava nel sottobosco. Improvvisamente fu pervaso da una strana sensazione. Molte delle cose che si dicevano intorno ai nani non erano vere, ma altre sì. Per esempio, era vero che nel sonno profondo respiravano molto forte. Quella cosa, che gli umani chiamavano russare e che agli elfi presumibilmente non capitava mai, era tipica della stragrande maggioranza del suo popolo, esattamente come il masticare è tipico del mangiare. Corrugò la fronte e si mise attentamente in ascolto: a parte i rumori della sua pioggia artificiale, che scrosciava sulle foglie, lo scricchiolio del cuoio dei suoi stivali e il tintinnio metallico della sua cotta di maglia, non sentiva nulla. Non un colpo di tosse, non uno schiocco di labbra, e nemmeno il noto e familiare russare. Non appena ebbe completato l'impellenza, si guardò attentamente intorno, in cerca di qualcosa che spiegasse quell'improbabile silenzio. Strinse con più forza il manico dell'ascia e si diresse verso sinistra, dove scorgeva una delle sentinelle. Il nano, un po' piegato in avanti, osservava immobile la piana rischiarata dalla luna; i suoi capelli ondeggiavano liberi al vento. «Hai notato qualcosa di strano?» gli chiese Bundror. «Gli altri sono così silenziosi che il più piccolo rumore mi sembra cento volte più forte.» La sentinella non si voltò verso di lui. «È bello da parte tua prendere il tuo dovere così seriamente, ma è anche molto scortese voltarmi le spalle in questo modo.» Gli girò intorno e, quando gli fu davanti, indietreggiò di un passo lanciando una rozza imprecazione e sollevando l'ascia. La sentinella non stava in piedi sulle sue gambe. Qualcuno gli aveva conficcato nel busto uno spesso ramo, facendolo passare sotto la cotta di maglia. Pareva un pollo allo spiedo. Il legno imbevuto di sangue dava al cadavere il sostegno necessario perché non cadesse a terra e attirasse così l'attenzione. Gli occhi spenti fissavano il suolo, il volto era una smorfia di terrore; prima di morire, il nano doveva aver visto e subito qualcosa di terribile.
Non vi era puzza di mezz'orchi nell'aria, quindi rimaneva solo una possibilità. Albi! Bundror afferrò lo scudo e vi batté sopra con tutte le forze, per svegliare i nani che dormivano e chiamarli alle armi. Ma quelli rimasero fermi. Sembrava non importasse loro niente del rumore rimbombante. Neanche gli elfi si muovevano. «Svegliatevi, razza di...» L'orrore gli serrò la gola, una terribile sensazione lo aveva aggredito. Corse dal nano più vicino, che giaceva su un fianco, e ne scosse le spalle. Lo girò sulla schiena e urlò. Il corpo si mosse, ma il cranio dello sventurato rimase fermo per terra, mozzato con precisione; perfino la barba era stata tagliata in corrispondenza del collo. Bundror vide la gigantesca pozza di sangue, che alla luce della luna pareva nera come la pece. «Lascia perdere, Cavernicolo», bisbigliò una voce. «Non farai alzare nessuno dei tuoi amici. Se ci riuscissi, saresti capace di riportare in vita i morti.» Il nano ruotò su di sé e, sfruttando la forza della rotazione, inferse un colpo; la lama dell'ascia tintinnò incontrando resistenza. Vide che il suo colpo era stato parato da un'asta da combattimento in metallo nero. L'estremità inferiore dell'arma guizzò in alto a velocità incredibile e colpì la nasiera del suo elmo. Il ferro gli premette con forza sulla carne, la pressione si trasmise all'osso e lo ruppe con un leggero scricchiolio. Bundror barcollò all'indietro; le lacrime gli riempirono gli occhi, e un liquido caldo gli corse sulla bocca. Intontito, incespicò sul cadavere del compagno e cadde, senza mollare la presa sull'ascia. «Provaci ancora, albo!» gridò infuriato. Si sollevò di nuovo sulle gambe, cercò una posizione più salda e si sforzò d'individuare il nemico armato di asta. «Ti taglio in due!» Non accadde nulla. L'albo si era fuso con l'oscurità; la luce della luna non voleva tradirlo, o lui stesso era in grado di svanire nelle tenebre. Il nano capì in fretta che l'odiato albo era più forte di lui grazie alle arti magiche. Ostinato e pieno di odio verso l'assassino dei suoi amici e compagni, Bundror fronteggiò la paura che iniziava a pervaderlo. Il colpo successivo annunciò il proprio arrivo con un basso ronzio, e ciò permise al guerriero di abbassare in tempo la testa. L'arma sibilò fendendo l'aria, ma prima che il nano si potesse voltare, con un secondo movimento l'asta gli spazzò le gambe. Qualcosa lo morse all'avambraccio destro; lo attraversò un dolore vivo che lo costrinse ad aprire la mano. La pesante
ascia, la sua unica possibilità di difendersi dalla creatura nemica, gli scivolò via. Immediatamente vide davanti ai suoi occhi una stretta suola di stivale, che si abbassò, sulla sua gola mozzandogli il respiro. «Pensavi davvero di potermi battere, Cavernicolo?» Il nano guardò oltre lo stivale e riconobbe un'alta figura in armatura scura. La parte superiore del volto era coperta da una maschera da battaglia in tionio, mentre del tessuto nero lasciava appena intravedere naso, bocca e mento. Il resto della testa stava sotto un cappuccio che faceva parte di una cappa grigio scuro. «Perché no?» riuscì a dire. «Se tu non fossi un vigliacco e non ti nascondessi nell'oscurità, staresti per terra aperto in due.» «Un legittimo desiderio.» La voce, divertita, gli giunse da dietro il panno simile a seta, che il fiato faceva ondeggiare. «Forse il tuo ultimo desiderio?» «Sì», gracchiò lui. Lo stivale si sollevò. «E allora così sia.» Bundror si alzò un'altra volta, afferrò l'ascia e osservò brevemente il profondo taglio sul suo avambraccio, da cui il sangue usciva a fiotti. Strinse i denti per non dare a vedere quanto soffrisse, e inclinò la testa in avanti con fare deciso. A giudicare dalla voce, poteva trattarsi di un'alba; maschera, mantello e armatura rendevano impossibile accertarlo con più precisione. «Vraccas mi darà la forza di batterti.» Si guardò rapidamente intorno, ma non scorse nessun altro nemico. Solo lei? Com'è riuscita ad annientarci tutti da sola? Che poteri magici possiede? «Vedrai i miei guerrieri solo quando lo vorranno», disse lei, come se potesse leggere i suoi pensieri, mentre faceva roteare l'asta da combattimento. «Sto aspettando, Cavernicolo.» Il nano corse verso di lei scagliandole l'ascia addosso, lei la deviò con un movimento rapidissimo. Bundror l'aveva distratta per un tempo sufficiente. Strappò dalla cintura di un morto una scure più maneggevole e afferrò uno scudo che lo proteggesse dagli attacchi dell'alba. Con quelle armi più maneggevoli pensava di avere più probabilità di successo contro un'avversaria così veloce. Tra i cadaveri dei suoi amici, Bundror si cimentò in un combattimento impari. Le due estremità del bastone da combattimento sembravano essere o-
vunque, guizzavano da una parte per poi colpire dall'altra, cozzavano contro il legno laminato di metallo dello scudo e un istante dopo si abbattevano contro la cotta di maglia del nano, strappandogli l'aria dai polmoni e rompendogli le costole. Nelle poche occasioni che gli si dischiudevano, sferrava un colpo per poi ringhiare deluso, perché l'agile alba riusciva a parare la scure o a schivarne la traiettoria. Bundror capì che in quella maniera non sarebbe riuscito a batterla, e che la sua morte era certa. Doveva ricorrere a un'altra tattica di combattimento, anch'essa molto nanesca. Vraccas, aiutami! Lanciò la scure contro l'avversaria e, mentre quella la evitava, lui afferrò lo scudo con entrambe le mani e si gettò urlando contro di lei. Il suo insolito attacco la sorprese. Il nano avvertì la resistenza del suo corpo e la sentì rimbalzare rumorosamente contro lo scudo per poi finire a terra gemendo. «Maledetta!» tuonò Bundror in preda a un vortice di gioia e di odio. «Non ho bisogno di un'ascia per staccarti la testa dal collo!» Si lanciò su di lei, saltandole sopra col bordo inferiore dello scudo puntato verso il collo. D'un tratto accaddero due cose. L'alba conficcò l'estremità inferiore del bastone a terra e lo sollevò contro il nano, come fosse una lancia. Bundror forse sarebbe riuscito a evitarlo, ma una grande ombra nera gli piombò accanto, alla sua destra, investendolo. Sentì un roco muggito e vide un paio di scintillanti occhi rossi. L'alito bestiale che spirava dalle fauci irte di zanne della creatura turbinò intorno a lui, mostrandogli quanto fosse vicina. Ricevette un colpo al ventre, che gli fece quasi perdere i sensi; qualcosa perforò brutalmente la protezione della cotta e rispuntò dalla sua schiena. La piana notturna danzò intorno a lui, balzando su e giù col nano, che si sentiva come inchiodato a una palizzata che ondeggiasse selvaggiamente. L'elmo cadde volteggiando, perse lo scudo, il cinturone e perfino uno stivale; poi la creatura lo scagliò in aria. Stordito, Bundror volò descrivendo un'alta parabola, poi atterrò su uno dei suoi amici morti. Attraverso la cortina rossa che gli velava gli occhi riconobbe che si trattava di Gisgurd. Presto ci rivedremo, amico mio. Attizza la forgia per me, non resisterò ancora a lungo. Si girò. Un liquido dal sapore metallico gli salì in gola e gli si riversò sulla barba. Usciva dagli angoli della bocca scorrendogli sulla spalla in lunghe strisce viscose. Ma prima devo avvertire gli altri.
Con le dita palpò lo zaino di Gisgurd, da cui estrasse con fatica il corno. Lo portò sulle labbra dischiuse. Trattenere l'aria era diventata una tortura; i polmoni gli si riempivano di sangue e gorgogliavano, ma ancora obbedivano alla sua ferrea volontà. Un'unica potente nota uscì dal corno e risuonò per le pianure del Gauragar, prima che lo strumento si riempisse della rossa linfa vitale del nano e ammutolisse. Le buone orecchie degli elfi che si trovavano nell'accampamento, ormai non molto lontano, avrebbero sentito il richiamo e avrebbero dato l'allarme. Così almeno sperava Bundror. I suoi sensi si offuscavano sempre più. Dovette lasciar cadere il pesante corno; poi all'improvviso vide ricomparire davanti a sé la maschera dell'avversaria. «Qualunque cosa aveste in mente, non coglierete nessuno alla sprovvista», ansimò il nano con un sorriso feroce. «Solo se hanno sentito il tuo corno fino ai Monti Grigi.» L'alba si chinò su di lui e sollevò la maschera, in modo che ne vedesse i tratti. Era la presunta elfa con cui poche ore prima era stato seduto accanto al fuoco, chiacchierando in amicizia. «La tua morte si chiama Ondori. Io prendo la tua vita, come il tuo popolo la prese ai miei genitori. Possa la tua anima essere perduta per sempre e vagare nell'aldilà.» La lama di un'arma a forma di falce scintillò argentea alla luce degli astri notturni. L'alba pronunciò solenni, oscure parole. Il nano ne comprese il significato e si affidò a Vraccas. Prima ancora che Bundror avesse finito di pregare affinché la sua anima venisse accolta benevolmente nella Fucina Eterna, la lama gli tagliò la gola e, con essa, quel poco che restava del sottile filo della sua vita. III Terra Nascosta, Monti Rossi, est del regno dei Primi, 6234° ciclo solare, primavera Tungdil osservò con attenzione la sovrana dei Primi. Avvolta in una spessa pelliccia, Xamtys sedeva malvolentieri sul dorso di un pony e non distoglieva mai gli occhi dai pendii innevati dei Monti Rossi. Cercava un segno, una qualche indicazione che le permettesse d'intuire la sventura che era successa in sua assenza e che aveva causato il silenzio dei nani della stirpe di Borengar.
Le montagne svettavano nel cielo, coperte di neve, e alcune cime scomparivano tra le nuvole; dove la dolce luce del sole primaverile filtrava attraverso la coltre di bruma e si scorgeva una macchia non coperta di bianco, i versanti brillavano di un rosso fuoco. «Sono dove li avete lasciati, regina Xamtys», disse forte Tungdil. «Non è successo loro nulla.» La regina si girò. «Ringrazierò Vraccas quando avrò visto il mio regno coi miei occhi. A giudicare dalle condizioni dei tunnel, il terremoto non può essere passato da noi senza causare danni.» Per via del crollo delle gallerie, la colonna di nani si era spostata in superficie ed erano occorse circa sessanta rotazioni per compiere il tragitto. Da un lato la loro avanzata era rallentata dalla neve residua, dall'altro era ostacolata dallo scioglimento della neve sulle strade e nell'intera regione. Gli zoccoli dei pony e gli stivali dei nani sprofondavano nella viscosa poltiglia e le gambe si affaticavano subito. Tungdil, Balyndis e Boïndil erano abituati a camminare su un cattivo fondo, ma la maggior parte dei nani non lo era. «C'è qualcosa che non va», mormorò il Rabbioso, che si era ostinatamente rifiutato di salire su un pony e camminava accanto a Tungdil. «Le montagne paiono troppo tranquille, sembrano farci credere che sia tutto a posto.» Il piede destro gli finì in una pozzanghera con un forte ciangottio; imprecando, il nano lo tirò fuori e lo pulì sopra l'erba verde. «Voglio di nuovo solida pietra sopra e sotto di me», si lamentò di cattivo umore. «Ce l'abbiamo praticamente fatta, Boïndil.» Balyndis indicò l'ingresso di una stretta valle che si avvolgeva come un serpente intorno al fianco di una montagna. «Là c'è la prima porta.» Mentre si avvicinavano, sopraggiunse una grigia bruma, li avvolse e li privò progressivamente della vista, come se volesse distoglierli dalla loro meta. Tungdil ricordava le cinque serie di mura che, come grigie travi di ferro, tagliavano di traverso la gola e facevano da baluardi contro possibili aggressori. Il magnifico bastione della stirpe di Borengar, con le sue nove potenti torri, si ergeva alle spalle di quelle prime cinte. «Non si vede niente», disse deluso. «Avrei ammirato volentieri la Guardiadiferro in tutto il suo...» Ammutolì, notando che tutt'intorno spuntavano dalla nebbia numerose pietre squadrate. Alcune presentavano bruciature, altre erano spaccate o in frantumi. Xamtys frenò il suo pony, che si fermò sbuffando. «Vraccas, abbi pietà
di noi!» gridò forte fissando ciò che rimaneva del primo muro. Un tempo era alto quaranta passi. Un portale di ferro ornato di rune permetteva il passaggio a chi sapesse leggere e pronunciare ad alta voce le rune dei nani. Non c'erano più né l'uno né l'altro. Tre passi più avanti si spalancava l'abisso di un nero cratere. Qualunque cosa vi si fosse abbattuta, aveva frantumato gran parte del muro e trasformato il portale in un pezzo di ferro deformato dal calore. «Quale potenza può causare una cosa del genere?» mormorò Balyndis. Neppure le più potenti macchine da lancio che i loro ingegneri avevano concepito per fronteggiare le più pericolose bestie di Tion causavano una devastazione simile. «Magia? Forse Nôd'onn prima di morire...» Si ricordò di quello che avevano visto sul pianoro di Giogonero. «La stella cadente! È opera sua?» «Boëndal!» urlò il Rabbioso con voce straziante. Corse dentro le nuvole di vapore, che portavano un chiaro odore di bruciato, per raggiungere l'ingresso al regno dei nani. La preoccupazione per il suo gemello fece dimenticare ogni precauzione al nano dal sangue caldo. «No, aspetta!» gli gridò dietro la regina. Tungdil sapeva che non le avrebbe dato ascolto. Quindi si affrettò alle calcagna dell'amico, in modo da poterlo aiutare contro gli eventuali pericoli in agguato nella nebbia impenetrabile. Balyndis lo accompagnò senza esitazione. Seguirono i rumori provocati da Boïndil. Nella quiete che li circondava, lo sferragliare di una cotta di maglia e lo sbattere di un elmo producevano un baccano infernale, sicché riuscirono a sentirlo molto distintamente più di una volta. Ciò che vedevano mentre avanzavano accrebbe la loro preoccupazione. Un cratere si succedeva all'altro. A volte avevano un diametro piccolo come una ruota di carro, a volte così grande che otto pony vi avrebbero trovato posto. Il suolo non aveva offerto sufficiente resistenza a ciò che lo aveva impattato, qualunque cosa fosse, ed era stato compresso fino a sette passi di profondità. Per i nani, ciò implicava una serie di scalate. Non c'era più neve, qualcosa l'aveva disciolta completamente facendola defluire dalla valle. Perfino l'acqua sembrava essere evaporata, e cristalli di un bianco brillante pendevano dalle rocce. Nell'aria aleggiava un odore disgustoso. Continuarono a correre, avendo sempre il chiaro tintinnio della maglia di anelli davanti a loro, fino a che non si avvicinarono al punto in cui doveva ergersi la fortezza vera e propria.
Improvvisamente la neve scricchiolò di nuovo sotto le loro suole. La nebbia risputò fuori la sagoma del Rabbioso; era immobile davanti a una montagna di neve le cui pareti salivano scoscese davanti a lui, formando una massa insormontabile. Il velo di nebbia si dissolse ulteriormente, permettendo loro di vedere il caos. Dalla massa di neve spuntava, caparbia, soltanto una delle nove splendide torri. Una valanga le aveva strappato le sovrastrutture in legno e spianato i merli, ma non era crollata. Delle altre otto torri non restava più nulla. Lo spesso muro, i raffinati montacarichi, le rovine e forse i morti giacevano tutti sepolti da una distesa di bianco sporco. Balyndis cercò di scorgere il grande ponte che collegava la torre più alta con l'ingresso del regno dei discendenti di Borengar. «È scomparso», mormorò inorridita. «La Morte Bianca se l'è portato via.» Tungdil non riusciva a parlare: il terrore lo paralizzava. Risuonò un rumore di zoccoli; la colonna di nani si era rinserrata intorno a loro. Alla vista della completa distruzione, le maledizioni si mescolarono a grida sgomente e parole afflitte. Xamtys smontò dal pony e avanzò profondamente tra le lingue della valanga. Distese le braccia, infilò le mani nella neve e ne trasse un elmo deformato, che non era riuscito a proteggere il suo portatore dalla potenza della Morte Bianca. «Vraccas, i tuoi figli hanno pagato caro per la salvezza della Terra Nascosta», disse solenne, senza che nella sua voce vibrasse neppure un'ombra d'accusa. «O è solo l'inizio di quello che ci aspetta ancora?» I suoi occhi castani si alzarono verso l'ultima torre, lacrime le corsero sulle guance attraversando la peluria scura e cadendo sull'armatura dorata. «Piango tutti i nani cui fu tolta la vita, e giuro che nulla m'impedirà di ricostruire ciò che è stato distrutto. Ancora più bello, ancora più magnifico. Io non permetterò al male nessun trionfo, non oggi, non domani, anche se dovessi posare le pietre l'una sull'altra da sola.» Accarezzò con dolcezza l'elmo. «La stirpe dei Primi non si dimenticherà mai di loro.» Sollevò l'oggetto che aveva ritrovato. «Siamo i figli del Fabbro!» «Siamo i figli del Fabbro!» echeggiò da centinaia di gole. Non appena si smorzò il loro grido, sentirono risuonare un corno in lontananza. «Alla porta secondaria», tradusse Balyndis a Tungdil. «Il segnale significa che ci aspettano là.»
«Dov'è?» ringhiò il Rabbioso, impaziente, e Tungdil riconobbe la scintilla di pazzia nei suoi occhi. «Devo andare lì. Subito.» Afferrò Balyndis bruscamente per un braccio. «Forza, fa' strada.» In altre circostanze, la nana gli avrebbe dato una risposta molto scortese; ma, visto che conosceva il suo temperamento e ne vedeva lo sguardo preoccupato, si mise senza fiatare in testa alla colonna e gli mostrò la strada. Aggirarono le lingue della valanga e corsero verso una parete laterale della gola. Da fuori non appariva lavorata. «È stata costruita in caso di assedio, per poter attaccare di sorpresa i nemici su un fianco», spiegò Balyndis. «Non l'abbiamo mai usata prima.» «Adesso torna utile.» Tungdil osservò la pietra, che improvvisamente esibì delle fessure che andarono a formare un ingresso rettangolare, innalzandosi di fronte a loro per quattro passi di larghezza e quattro di altezza. Dietro, fecero capolino una dozzina di nani, in attesa dei nuovi arrivati. Tungdil squadrò il Rabbioso. Vraccas, spero che tu abbia tenuto il tuo scudo sopra Boëndal, o nel suo dolore Boïndil farà a pezzi ciò che la Morte Bianca ha risparmiato. «Dov'è Boëndal?» domandò il Rabbioso, e poiché i nani, la cui attenzione era comprensibilmente rivolta verso la loro regina, non risposero abbastanza in fretta, ne afferrò uno per il collo del farsetto di cuoio e iniziò a scuoterlo. «Dov'è mio fratello?» gridò stringendolo tanto forte da fargli diventare paonazza la faccia. Tungdil lo prese per un braccio. «Boïndil, calmati!» «È... a letto», riuscì a dire il nano strapazzato. «Lo abbiamo tirato fuori dalla neve e lo...» «Ma?» lo interruppe il Rabbioso, lasciando la presa. «Sento perfettamente che c'è un 'ma' in quello che stai balbettando!» «Non si è più svegliato. Il suo corpo è freddo come ghiaccio, e il cuore gli batte così lentamente che temiamo si possa fermare da un momento all'altro.» Svelto fece un passo indietro, badando bene di trovarsi fuori della portata del nano infuriato. Il Rabbioso aggrottò le sopracciglia sino a formare un'unica linea. «Dov'è?» chiese a voce bassa. Xamtys incaricò il nano della sua stirpe di accompagnare Boïndil dal fratello, per evitare che la sua preoccupazione desse origine a un accesso più violento. Tungdil e Balyndis accompagnarono il guerriero, mentre la regina discuteva coi suoi sudditi, che le davano un primo quadro delle perdite.
I quattro attraversarono corridoi disadorni, il cui unico scopo era collegare la fortezza con la porta laterale usata per le sortite. Dal momento che i Primi erano rinomati come abili fabbri e non come valenti scalpellini, non avevano dedicato molta cura alle decorazioni di una porta secondaria. «Il terremoto ha causato molti danni», raccontò il nano che faceva da guida. «Pensiamo che si sia trattato della stella cadente. Dalla sua coda sono piovuti frammenti incandescenti che hanno danneggiato la Guardiadiferro quasi sino alle fondamenta. Quello che non hanno distrutto loro è stato fatto a pezzi dalla Morte Bianca.» «Quanti di noi sono morti?» s'informò Balyndis. «E come sta il clan dei Ditadiferro?» «Con alcune regioni più occidentali, e quindi più vicine al punto d'impatto della stella, non ci sono ancora collegamenti. Ma il tuo clan sta bene, a quanto ne sappiamo.» La guida li accompagnò fino a un montacarichi di legno, che avrebbe risparmiato loro la fatica di arrampicarsi per parecchie centinaia di gradini; al suo interno balzarono in alto e raggiunsero rapidamente la parte orientale della fortezza. «Meno male che Xamtys è di nuovo tra noi. Ci ridarà la fiducia che molti di noi hanno perso. Nella sciagura hanno trovato la morte in più di quattrocento.» In quella parte della fortezza videro subito che cosa il nano avesse inteso parlando di danni. Sulle pareti si erano aperte crepe, a volte sottili come peli di barba, a volte spesse come il dito di un nano, e anche i robusti ponti d'acciaio lanciati sopra le forre erano deformati. «Una grotta è completamente collassata, e abbiamo dovuto puntellare la sala del trono, altrimenti il soffitto avrebbe seppellito il tesoro», spiegò la guida. «Tutto ciò è molto grave.» Si arrampicarono lungo la scala successiva e raggiunsero l'ala in cui, tempo prima, la compagnia di Tungdil era stata costretta a lasciare indietro Boëndal a causa delle sue gravi ferite. Lo ritrovarono nella stessa stanza, coricato su un letto di pietra e confortato da spesse coperte e un morbido materasso. Boïndil si gettò su di lui, lo abbracciò e gli appoggiò la testa sul petto per ascoltare il battito del cuore. «È freddo come un pesce», mormorò, «e se non sapessi che lui...» Stette in ascolto, un sorriso corse sul suo volto disperato. «Ecco! Era un battito, un battito più forte, più netto...» La gioia svanì. «Uno solo...» «Pare che abbia il sangue congelato e che il cuore sia costretto a pompare ghiaccio nelle vene», sussurrò la guida.
Una guaritrice entrò nella stanza reggendo un vassoio con una brocca contenente un decotto fumante. «La maggior parte delle persone che abbiamo tirato fuori dalla neve non ha avuto la stessa fortuna.» «Fortuna?» Tungdil scosse il capo. «Se le sue condizioni non cambiano, non la chiamerei proprio fortuna.» «Abbiamo estratto cadaveri tanto maciullati che sembrava fossero finiti tra il potente maglio di un fabbro e un'incudine. Ma la maggioranza è semplicemente soffocata sotto la massa bianca. Lui è sopravvissuto. Se la si vede così, il dio lo ha aiutato molto.» Si avvicinò al letto, riempì una fiasca di cuoio con la bevanda calda e fece per infilarne la sottile estremità anteriore nella bocca mezza aperta di Boëndal. Ma il Rabbioso intervenne, afferrando il contenitore con una morsa di ferro. «Che cosa stai facendo?» «Gli somministro un decotto di erbe per sciogliere il freddo delle sue viscere.» «Un decotto? Dagli una birra calda, piuttosto. Lo farebbe riprendere prima che non quella roba.» «No», ribatté la guaritrice. «Queste erbe sviluppano il loro effetto in acqua calda, non nella birra.» «Un bagno non sarebbe più sensato?» s'intromise Tungdil. Ricordò che, quando viveva dal suo mentore e padre adottivo Lot-Ionan, aveva letto che i bagni caldi contrastavano il congelamento interno degli uomini rimasti assiderati dopo una caduta invernale in un lago. Doveva funzionare anche coi nani. «Buona proposta, ma abbiamo già tentato. Non è servito.» La guaritrice strappò la fiasca di mano a Boïndil. «Lasciami fare il mio lavoro, guerriero. Conosco il mio mestiere. Io non mi permetterei mai di cercare di spiegarti come si maneggia un'ascia.» Il Rabbioso acconsentì controvoglia alla sua richiesta, ma non si allontanò dal fianco del fratello. «Tutto ciò che ho trovato nei prontuari era la menzione di queste erbe», continuò la nana. «Devono funzionare, se... se non si può fare altro.» Tungdil ebbe l'impressione che volesse aggiungere qualcos'altro, ma che ci avesse ripensato. «E che altro avresti trovato?» chiese. «Gli devo la vita, farò qualunque cosa per lui. Parla, per favore.» La guaritrice evitò di guardarlo negli occhi. «È una leggenda.» «Parla!» ordinò brusco il Rabbioso, come se interrogasse una spia nemica. «Parla! Subito! Per Vraccas, non lascerò nulla d'intentato per far di-
vampare la forgia vitale di mio fratello, calda e luminosa com'era prima!» Dagli occhi scuri del nano traspariva che era deciso a conoscere la leggenda, a qualunque costo. «Nei documenti più antichi, che i nostri antenati incidevano ancora nella pietra e che sopravvivevano per migliaia di cicli, si legge che si possono riportare in vita le persone assiderate, a patto che abbiano ancora una scintilla di vita in sé. Bisogna usare una scintilla tanto incandescente da essere bianca», raccontò la guaritrice. «E cosa può voler dire?» chiese Balyndis meravigliata. «Come può un fuoco di questo mondo riaccendere la forgia vitale? Certo non può voler dire che gli si deve aprire il corpo e scaldare il cuore con una scintilla, no?» «La ferita lo ucciderebbe», rifletté Tungdil. Aveva in mente una vaga idea, ma non riusciva a metterla bene a fuoco. «Da dove proviene tanta saggezza? Un fabbro si è sentito competente in guarigione e si è messo a dare consigli?» disse il Rabbioso, stizzito. «Mio fratello dovrebbe mangiare del fuoco o infilarsi nelle vene rocce bollenti?» La guaritrice lo fissò con gli occhi scintillanti di collera. «La lastra di pietra ci venne portata dal regno dei Quinti. Non so niente di più di quello che vi ho letto. E ti ho detto subito che si trattava di una leggenda.» Balyndis non volle rinunciare alla speranza, per quanto astruso sembrasse il consiglio. «Nelle leggende del nostro popolo si nasconde sempre un fondo di verità. Tu hai provato coi bagni e gli somministri bevande calde, eppure la sua temperatura non aumenta. Che altro puoi fare?» disse rivolta alla guaritrice. «A parte le preghiere a Vraccas e a ciò che continuo a fare, niente.» «Niente?» Il Rabbioso era a un passo dal cedere al furore. «In tutte queste gallerie non c'è nessuna maledetta erba miracolosa che può...» «Vapordrago...» Dopo una lunga riflessione, Tungdil comprese il collegamento esistente tra una scintilla bianca e il regno dei Quinti. «Ma certo! La leggenda si riferisce alla fucina più calda della Terra Nascosta!» Guardò i volti dei suoi amici, che lo guardavano in modo interrogativo. «È possibile che possieda proprietà particolari. Vi ricordate? Venne appiccata col fiato del grande drago Branbausíl.» Tungdil e Balyndis ricordavano perfettamente l'enorme calore della fucina; nessuno di loro aveva mai provato qualcosa di comparabile prima di allora, benché nella loro vita avessero passato entrambi molte ore all'incudine. La bianca brace scioglieva tutto: il nero tionio, che era stato creato
dal dio Tion, il bianco palandio della dea Palandiell e il vraccasio del dio dei nani. Nessun metallo, nessuna lega poteva resisterle. «Ciò che dici ha un senso, e lo capisco, ma che cosa si dovrà fare?» La guaritrice posò la fiasca e toccò la fronte del nano assiderato. «Se sono le istruzioni per curare un malato, io non le capisco.» «La lastra di pietra proviene dalle sale dei Quinti, e il nostro cammino ci porta proprio là.» Tungdil guardò Boëndal, che giaceva come morto. «Lo portiamo con noi. Soltanto là potremo cercare di guarirlo, qui è stato fatto già tutto il possibile.» Si mise al fianco del Rabbioso e gli appoggiò una mano sulla spalla per consolarlo. «Metti da parte la tua preoccupazione. Vraccas non ha permesso che lo uccidesse la freccia di un albo, né che cadesse vittima della Morte Bianca. Non permetteremo che giaccia in un letto fino a che non si esaurisca la brace della sua vita. Setaccerò i corridoi dei Monti Grigi finché non troverò un indizio su come usare la fucina per farlo ridiventare la persona che amiamo e che ci manca.» Boïndil gli afferrò la mano e la strinse con forza. «È bello poter contare su un amico sapientone come te.» Lasciò di nuovo la mano e accarezzò dolcemente la guancia del fratello; poi spinse uno sgabello vicino al giaciglio, vi si rannicchiò e rimase immobile. «Dovresti riposare», gli raccomandò Tungdil. «Anche tu», gli disse Balyndis. Pregò la guaritrice di portare qualcosa da mangiare al Rabbioso. «Vieni, mangiamo e mettiamoci a letto.» «Ma la regina...» si oppose Tungdil. La nana scosse energicamente la testa facendo volare le trecce brune. «La regina ci farà chiamare, se ha bisogno di noi. Prima si farà raccontare in che condizioni è il nostro regno, poi anche lei andrà a letto e rimanderà tutto il resto a domani.» Lo condusse lungo il corridoio che portava al suo alloggio, in cui lo ospitava per la prima volta dacché si conoscevano. Era pulito e ordinato; durante la sua assenza, qualcuno aveva spazzato via la polvere. Prese qualche coperta dall'armadio e le gettò sopra il materasso. Insieme pregarono per la guarigione di Boëndal davanti al piccolo sacrario di Vraccas che Balyndis aveva allestito in un angolo del locale. Poi si sfilarono le pesanti cotte di maglia e, con la sola biancheria indosso, si sprofondarono nel letto. Balyndis non toglieva gli occhi dal volto di Tungdil, lo guardava piena di affetto e gioia. Lui rispose con lo sguardo a quell'amore profondo e silenzioso e la baciò dolcemente sulle labbra.
«Sai che la gente parla di noi?» disse lei sorridendo debolmente. «E perché non dovrebbe? Siamo eroi.» Lei scoppiò a ridere. «No, non per quello. Per l'amore che dimostriamo.» Dall'espressione del volto di Tungdil, la nana capì che non riusciva a seguirla. «È possibile che i gemelli ti abbiano nascosto alcune cose sul conto del nostro popolo? Noi ci comportiamo in modo strano, Tungdil. Non sta bene che mostriamo apertamente il nostro affetto e che ci scambiamo tenerezze, non finché non abbiamo stretto il patto. Ogni contatto che va oltre l'amicizia - anche quello che stiamo facendo adesso - viola il codice morale.» Lui fece un grande sorriso. «Noi siamo eroi, Balyndis. Per noi queste cose non valgono. E poi saremo presto una coppia sposata.» Balyndis non sembrava affatto distesa quanto lui. «Anche gli eroi devono attenersi al codice. Questa è la legge dei nani, ed è per questo che alcuni parlano di noi. Anche le coppie sposate si danno un contegno quando non sono sole.» «No, questo i gemelli non me lo avevano detto.» Tungdil scivolò più vicino a lei. «Parlino pure. Presto non avranno più motivo di farlo.» Si addormentarono stringendosi forte. *
*
*
Andò esattamente come Balyndis aveva predetto. La regina Xamtys II li lasciò al loro benefico sonno e li fece convocare dopo un'intera rotazione. Impiegarono il tempo che ebbero a disposizione per lavarsi con cura, naturalmente ben separati l'uno dall'altra da un divisore di legno, perché non avevano ancora stretto quello che i nani chiamavano «patto di ferro». Anche se Tungdil non attribuiva importanza alle chiacchiere degli altri, volle compiacere la nana e si sforzò di controllarsi di più. Mentre mangiavano insieme, lui apprese con stupore che Balyndis non si era ancora impegnata con nessuno. Il nano che il suo clan aveva scelto per lei era caduto in battaglia prima che avessero stretto il patto. Dal patto di ferro non si tornava indietro, a meno che non venisse volontariamente sciolto da entrambi. Ma Balyndis non ricordava che una cosa del genere fosse mai successa. «Poi sei comparso tu, Tungdil, e hai conquistato il mio cuore», gli confessò mettendosi a cucinare. Dopo tanti pasti da viaggio, Balyndis si com-
piaceva visibilmente del fatto di poter finalmente mangiare vero cibo nanesco. Cucinò tuberi al vapore in ragù di funghi; in più c'erano fette di fungo fudi su cui era spalmato uno spesso strato di composta di bacche e muschio. Tungdil mangiò con appetito moderato, cosa che lei notò subito. «Ti sembra poco condito?» gli chiese. «Sono ancora abituato alla cucina degli umani, così come ho molte delle loro abitudini», si scusò lui. «È ottimo.» Si guardò intorno. «Hai un po' del formaggio che i gemelli...» La nana lo guardò incredula. «Quella roba puzzolente? Ha un sapore peggiore dell'odore.» «A me piace», si difese Tungdil, e si sentì un po' offeso dal fatto che lei non potesse sopportare proprio quel poco di cucina nanesca che nel frattempo lui aveva accettato. Per evitare che ne sorgesse un battibecco, guidò la conversazione in un'altra direzione. «Allora il tuo clan non sa ancora che noi...» «No. Come potrebbe? Ma rimedieremo.» Tungdil si grattò la barba. «Non gli spiacerà?» Improvvisamente doveva confrontarsi con le leggi del suo popolo, cosa che fino ad allora aveva potuto evitare. «Questa è un'altra questione», replicò lei mangiando con passione un pezzo di tubero. «Non è usanza che una giovane nana come me si scelga da sola il compagno. Le vedove possono farlo, e io al massimo sono una specie di mezza vedova.» Per mostrarle che gradiva la sua cucina, Tungdil si ammucchiò una quantità di ragù di funghi nella ciotola. Solo in quel momento nella sua mente si definì un'idea terribile. «Che facciamo se la tua famiglia non è d'accordo?» Balyndis affondò il cucchiaio nel ragù e gli accarezzò la mano. «Ti seguirò nei Monti Grigi, non importa affatto cosa mi dirà il clan.» Il suo sguardo divenne serio. «Se mi proibirà di sposarti, però, non potrò farlo. Non posso gettare su di loro una simile vergogna.» «Che cosa significa?» «Non potrei più essere la tua buona compagna.» Per poco un fungo non gli si fermò in gola; parlare, respirare e mangiare non andavano d'accordo. È più complicato di quanto pensassi. Col massimo terrore immaginò di averla accanto a sé rotazione dopo rotazione, ma di non poterla più toccare, per tutto il resto della sua vita. Mai più come
faceva allora. Non gli sarebbe stato mai più permesso qualcosa che non fosse una semplice stretta di mano o un abbraccio amichevole, avrebbe perso per sempre le sue morbide labbra. Già solo il pensiero che uno sconosciuto prendesse il suo posto - e sicuramente, al contrario di lui, con tutti i diritti compresi dal patto tra una nana e un nano - lo fece tremare. Che tortura. Tale idea scalzò persino le preoccupazioni che nutriva per Boëndal, per la situazione dei Monti Grigi e per tutti i mostri che Tion poteva contrapporre loro. Continuò a mangiare il ragù di funghi in silenzio. «Che c'è? Quello che ho detto ti ha rovinato il buon umore?» chiese lei stringendogli la mano. «Non volevo.» Tungdil sollevò la testa e gioì del suo sguardo; i pensieri che lo angustiavano si dissiparono come freddo al fuoco. «È passato», la tranquillizzò. «Saremo una bella coppia, avremo molti bambini e mostreremo loro come si forgiano le cose più meravigliose.» Le baciò il dorso della mano, e lei gli accarezzò la barba. Le orribili visioni erano scomparse. Finalmente il messo della regina bussò alla loro porta per condurli alla sala del trono. Attraverso un grande portale giunsero in un'ampia sala ottagonale, che li salutò col caldo bagliore della foglia d'oro di cui erano coperte tutte le pareti. Il terremoto aveva lasciato tracce anche in quella sala venerabile; le crepe che si aprivano sui muri dimostravano ai nani che vi erano forze cui doveva piegarsi anche la roccia più dura. Tungdil riconobbe subito le colonne che erano state erette da poco, non per abbellire la sala, ma per sostenerla. Benché i costruttori si fossero sforzati di armonizzarle col resto della sala, decorandole in modo prezioso e provvedendole di intarsi in oro, argento, vraccasio e altri metalli di valore, rimanevano pur sempre corpi estranei. Anche i mosaici che ornavano l'alto soffitto erano rimasti danneggiati dal terremoto, e alcuni tasselli erano saltati. Xamtys li attendeva sul suo trono d'acciaio. «Abbiamo molte cose da sistemare», disse commentando gli sguardi del suo ospite. Tungdil e Balyndis s'inchinarono rispettosamente di fronte alla sovrana. Con un cenno, lei li trattenne prima che toccassero il pavimento col ginocchio. «Lasciamo da parte le formalità. Dobbiamo parlare.» I servitori portarono degli sgabelli perché i due non restassero in piedi per tutta la durata del colloquio. «Tungdil, credo sia meglio che tu parta presto per i
Monti Grigi. Prima verrà chiusa la Porta di Pietra - e più numerosi saranno i guerrieri pronti a difenderla -, meglio sarà per la Terra Nascosta. Se là il terremoto è stato anche solo lontanamente devastante come da noi, tu e i tuoi volontari troverete molto lavoro ad attendervi. Ciò che i mezz'orchi hanno solo danneggiato potrebbe essere stato interamente distrutto dall'impatto dell'astro.» «Pensieri simili preoccupano anche me», ammise lui. «Ma ora sarebbe arrogante pretendere che tu mi ceda i volontari della stirpe di Borengar, visto che hai bisogno di ogni mano che ti possa aiutare. Mandameli quando la situazione te lo permetterà.» La regina lo guardò. La luce dei bracieri di carbone le risplendeva sulla cotta di maglia dorata, e il riflesso le finiva sul viso tondo ma serio. «È nobile da parte tua pensare prima agli altri, ma lascerò partire tutti quelli che ti vorranno accompagnare. È meglio così.» Il suo sguardo si rivolse a Balyndis. «Alcuni membri del tuo clan sono arrivati da noi, hanno portato notizie sulle zone occidentali del mio regno. L'astro è volato ancora più a ovest e si è abbattuto oltre le ultime propaggini delle montagne. Da allora le guardie che sorvegliano la Porta Rossa vedono ogni notte all'orizzonte il riverbero di fuochi, come se la Terra dell'Aldilà fosse in fiamme.» Rimase qualche istante in silenzio. «Ho mandato ambasciate agli umani e agli elfi, e nelle prossime rotazioni anche Andôkai verrà informata delle nostre scoperte. Ciò che sappiamo non è però molto.» Tungdil rifletté su come quelle notizie concordassero con quanto aveva asserito Nôd'onn riguardo a una minaccia futura. Quando il pericolo giungerà da ovest avremo bisogno di tutte le forze, aveva detto il demone ad Andôkai, e aveva sempre sottolineato che desiderava proteggere la Terra Nascosta. «Considerando quali effetti hanno avuto i frantumi della stella, non riesco a immaginare come possa essere ridotto il posto in cui si è schiantata la stella stessa», disse Tungdil, pensando ai tremendi crateri e ai punti d'impatto attraverso i quali erano passati. «Qualunque cosa vivesse là è stata completamente annientata dalla violenza dell'impatto e dal fuoco che portava con sé.» «Ti stai chiedendo come possa uscire una minaccia da quell'inferno?» completò il suo ragionamento Balyndis. Tungdil annuì. «Già. Come potrebbe? Comunque è inutile rompersi la testa su questo, anche se io lo farò lo stesso. Il viaggio verso i Monti Grigi purtroppo è molto lungo.» Rifletté, poi sottopose a Xamtys la sua idea. «Regina, potreste proporre di convocare un consiglio che raccolga i sa-
pienti di tutti i popoli. Quelle grandi menti troveranno la risposta più in fretta di noi.» Sorrise. «E farebbe una figura eccellente la nana cui venisse l'idea di sottoporre a una prima verifica l'alleanza che elfi, uomini e nani hanno proclamato.» Xamtys ricambiò il suo sorriso. «Tu fai davvero onore al soprannome di 'Sapientone' che ti danno i tuoi amici, Tungdil Manodoro. Grazie a te il regno di Occhiodiferro tornerà velocemente a un nuovo splendore, su questo non ho dubbi. Ma ora andate, il clan dei Ditadiferro desidera vedervi.» I due s'inchinarono e uscirono. Fuori li stava già attendendo la delegazione della famiglia di Balyndis. Tungdil vide un gruppo di nani, tra cui quattro nane, che indossavano i tipici abiti di cuoio marrone e di lana. Una parte della delegazione portava massicce cotte di maglia e aveva con sé le armi; erano chiaramente nel novero dei guerrieri del clan, e mostravano pieni di orgoglio quale compito al servizio della comunità era stato assegnato loro da Vraccas. Anche se pareva difficile che potessero non notarlo, non degnarono Tungdil di uno sguardo. Balyndis volò addosso al più grande e imponente dei soldati e lo cinse tra le braccia. Questi le posò le mani sul viso ridendo sonoramente. «Ah, la mia audace figliola! Abbiamo saputo che hai combattuto a Giogonero contro le orde di Nôd'onn. Ringrazio Vraccas di rivederti sana e allegra.» In tutta la profonda cordialità che c'era nella gioia di rivedersi, il nano e sua figlia rimasero controllati, dignitosi; l'allegria scatenata e la festosità rumorosa che Tungdil aveva visto spesso tra gli esseri umani non si addicevano ai nani. E non ne avevano neppure bisogno: gli sguardi e lo scintillio degli occhi dicevano tutto. «Stanno tutti bene?» volle sapere Balyndis, mentre la gioia dell'incontro veniva offuscata dalla paura della risposta. «Il terremoto...» «... non ci ha fatto niente», disse il padre. «Grazie a Vraccas, ha fatto cadere rocce tutt'intorno a noi, ma non ci è successo nulla. Alcune stanze hanno patito gli scossoni, niente di più. Ma prima di ascoltare i tuoi racconti su Giogonero abbiamo altre belle notizie da darti subito.» «Altre buone notizie? Allora la mia preoccupazione più grossa è passata.» Balyndis proseguì coi saluti ai membri del suo clan. Poi si rivolse a Tungdil e gli fece cenno di avvicinarsi. «Padre, questo è Tungdil Manodoro, con cui sono partita per creare la Lama di Fuoco e combattere il male.» Gli strinse la mano. «In lui ho trovato un amico e un compagno.»
Tungdil allungò la mano, e non evitò gli sguardi indagatori. «Io sono Tungdil Manodoro, un figlio del Fabbro...» «... e membro dei Terzi», lo interruppe il padre, che non si era interessato alla mano tesa. «Io sono Bulingar Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, della stirpe dei Primi, e non ho intenzione di affidare mia figlia a uno che discende da coloro che perseguitano il nostro popolo con tanto odio. So che a Giogonero hai compiuto gesta onorevoli e che sei un eroe. Ma ciò che hai fatto non può ingannarmi riguardo alla tua discendenza.» Un colpo di clava, una pugnalata al cuore o un impatto sul granito dopo un lungo volo non avrebbero tramortito Tungdil con altrettanta forza. Le viscere gli si contrassero in un unico grumo. Era come se i colori con cui lui e Balyndis avevano dipinto ciò che fantasticavano sul loro futuro insieme si fossero squagliati e fossero caduti a terra trasformandosi in una poltiglia marrone. «Ti assicuro che in me non vive nessuno dei sentimenti per i quali la mia stirpe è temuta», disse sforzandosi di ritrovare sicurezza. «In tutta la mia vita non ho mai avvertito l'impulso a...» «Vita? Non sei molto vecchio, a quanto mi dicono; hai vissuto poco più di sessanta cicli, e per di più tra gli uomini. Come poteva emergere la tua avversione verso di noi? Chi mi dice che non si risveglierà a mano a mano che vivi tra i nani?» lo interruppe di nuovo Bulingar. «La tua vera natura potrebbe farsi largo verso l'esterno come uno scalpello attraverso la pietra. Sotto il tuo strato d'oro potrebbe esserci un nocciolo di ignobile piombo.» Balyndis fissò il padre irritata. «A parlare per lui sono le sue azioni, non la sua origine. Avrebbe faticato tanto e avrebbe sopportato tutte queste privazioni se il suo cuore desiderasse la distruzione delle nostre stirpi?» chiese, controllandosi a stento. «Io...» «Basta così!» tuonò Bulingar. «È inutile parlare di lui. Siamo qui per salutarti e per presentarti il tuo futuro consorte.» La nana indietreggiò di un passo; il suo volto perse il poco rossore che ancora le rimaneva. «Il mio... consorte?» ripeté balbettando, e guardò Tungdil. Il volto di Balyndis rivelava tutto il suo smarrimento. «Calmati, figlia», disse una vecchia nana, che Balyndis prima aveva salutato come zia. «Hai perso il tuo fidanzato; pensavi che saremmo rimasti oziosi? Ci siamo dati un gran da fare per trovarti un degno sposo.» Batté le mani, e dall'entrata laterale spuntò un nano che sembrava uscito direttamente da un inno di guerra. Grande e grosso, era ornato da una folta barba nera e da un'armatura che doveva avergli forgiato il secondo miglior
fabbro dei Primi, tanto impressionò Tungdil. Vattene, desiderò pieno di ardore, e strinse le mani a pugno. L'altro non gli fece quella cortesia, e si presentò invece a Balyndis con volto solenne. «Sono Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, della stirpe del Primo, Borengar. Tutto il ferro e l'acciaio che porto l'ho forgiato io stesso, e questo è il mio dono per te.» Aprì il pugno, in cui sfavillò un magnifico anello d'oro con intarsi in vraccasio. «Sono molto onorato del fatto che il tuo clan mi consideri degno di stringere il patto di ferro con te.» I suoi occhi castani si posarono su di lei, in fiduciosa attesa. Dentro di Tungdil tutto stava urlando. Il suo coraggio voleva sfidare seduta stante il rivale, ma la sua intelligenza lo trattenne dal farlo, per non rendere la situazione ancora più difficile per Balyndis e anche per non compromettersi definitivamente davanti a Bulingar, dimostrando di essere davvero un nemico dei nani. Il suo cuore intonò un lamento, la sua anima cantò la canzone della pena eterna. Deve accettare, non le resta altra scelta. Le leggi del clan erano sacre quanto le leggi del popolo dei nani, perché il clan stava subito dopo i diretti consanguinei. Desiderò comunque che dalle sue labbra uscisse un percettibile no. A lui sarebbe riuscito facile, non conosceva vincoli del genere. Per lei le cose stavano diversamente. Era cresciuta in una famiglia, in un clan, in una gigantesca comunità che l'aveva protetta, nutrita, istruita nel combattimento e nella metallurgia per trentacinque cicli. Per la cura che le aveva mostrato, il clan poteva pretendere la stessa lealtà. Se non avesse mostrato tale gratitudine, sarebbe diventata una reietta, una nana senza famiglia. Un masso caduto lontano dalla montagna: solitaria e irrimediabilmente perduta. Balyndis si girò verso Tungdil, gli occhi luccicanti di lacrime che scendevano dalle guance e si raccoglievano nel mento, formando una grossa goccia che brillava come un diamante. «Tua per sempre», formarono le sue labbra silenziosamente; poi si voltò verso Glaïmbar e prese con mano tremante il dono. Con ciò era deciso: Balyndis si sarebbe sposata con lui. «Sei nell'età migliore, sei forte e hai un corpo sano, che darà rampolli al nostro clan e lo perpetuerà», disse il padre, di cui si percepiva chiaramente il sollievo. «E tu, Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, sii benvenuto nella nostra famiglia e nel nostro clan. Gli anziani ti accetteranno subito, quando sapranno della felice decisione di mia figlia.» Si mise tra i due, posò loro le mani sulle spalle e li spinse avanti, lontano da Tungdil. «Venite, mangiamo insieme e discutiamo su come organizzare la festa in
onore del vostro patto. Dovrà ben essere all'altezza di un'eroina.» Balyndis camminò attraverso il passaggio formato dalla sua famiglia e dal suo clan. Si guardò un'ultima volta indietro, poi il grande elmo di un parente si parò davanti a lei; il sentiero si chiuse e impedì a Tungdil di vedere la sua compagna. Poco dopo scomparvero tutti dietro l'angolo del corridoio, e l'eco dei loro stivali e lo sferragliare delle loro cotte di maglia si spensero. Tungdil rimase immobile come uno scarto della forgia. Cercò di placare l'agitazione che aveva nel petto, o quantomeno di darvi un ordine. Inutilmente. Si mise a camminare, in stato confusionale. Vagò senza meta tra i corridoi e i passaggi dei Primi, senza vedere le rune magistralmente intagliate e le rappresentazioni incise sulle piastre di metallo. Il volto di Balyndis davanti a sé, camminò su ponti sospesi e attraversò atri e gallerie. Più che camminare, barcollava; andava avanti come in preda alla febbre, senza sapere dove si trovasse o chi incontrasse strada facendo. Perse ogni cognizione del tempo. A un certo punto, in una caverna vuota e poco illuminata, si lasciò cadere a terra e appoggiò la testa fradicia di sudore contro la pietra. Sentiva lo sgocciolio dell'acqua che dall'alto cadeva su di lui; a ogni ticchettio gli gridava il nome di Balyndis. In lontananza, picconi cozzavano contro la pietra, e anch'essi si unirono al coro delle gocce. Qualunque cosa emettesse un rumore ricordava alle orecchie di Tungdil il nome di lei. Smettetela! Abbassò le palpebre e si raggomitolò. Smettetela! Non smisero, ma fu sopraffatto dallo sfinimento, che gli concesse un sonno liberatorio. Nessun sogno lo tormentò; solo una volta, poco prima di addormentarsi profondamente, vide i volti di Bulingar e di Glaïmbar comparire nelle tenebre. I suoi pugni si strinsero per la collera. E per l'odio. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera Con le sue campagne militari e i suoi sortilegi Nôd'onn sarà davvero riuscito ad annientare tutti gli apprendisti di magia della Terra Nascosta? Mentre passeggiava tra i luminosi portici del palazzo, Andôkai continuava a porsi tale domanda.
Aveva dismesso la sua armatura in favore di una veste rosso scuro molto aderente; la piccola scollatura e i lunghi spacchi sottolineavano la femminilità della donna, in contrasto col volto spigoloso. Era instancabilmente alla ricerca di persone che potessero essere introdotte all'arte della magia. Ce ne devono essere. Non può averli sterminati tutti. I leggeri stivali di pelle scamosciata camminavano sui mosaici di magnifica fattura. Pur se il sole stava lentamente tramontando, attraverso i tetti di vetro a forma semisferica dei portici filtrava ancora abbastanza luce; le colonne di marmo bianco la riflettevano fino agli angoli più remoti del porticato. La maga scese i gradini di quella che per altezza era la seconda torre del palazzo e giunse fino alle sale ricavate tra le fondamenta, dove percepiva più chiaramente il flusso di magia che attraversava la regione. Il regno incantato che un tempo portava il nome di Lios Nudin stava al centro dei campi di magia. Le invisibili energie ne sgorgavano senza sosta, fluendo verso le altre regioni della Terra Nascosta e alimentandole come una sorgente inesauribile. Andôkai si sedette sul pavimento di un ambiente coperto di tappeti. Si concentrò e cercò mentalmente quelle forze impalpabili. Vi percepì l'alterazione che Nôd'onn aveva causato al loro interno. La Terra Estinta aveva insegnato allo stregone come trasformare le energie neutre, di cui prima tutti i maghi e gli apprendisti potevano servirsi, e creare una forza impregnata di sola malvagità. Tale cambiamento non la riguardava molto. La maga era devota a Samusin, il dio che sovrintendeva all'equilibrio tra luce e tenebra; pertanto in lei viveva, accanto al bene, anche quello che la mente semplice di un contadino avrebbe chiamato «male». Perciò le era ancora possibile utilizzare la forza inquinata. Ne rimaneva escluso però chiunque fosse legato esclusivamente alla luce. Pur con tutta la fatica che investiva nell'esplorazione dei flussi di magia, Andôkai non riconosceva nulla che facesse pensare a una nuova alterazione. La Terra Estinta era stata sconfitta, ma la fonte della magia e con essa i campi magici rimanevano inquinati fino alle propaggini più remote. La maga si alzò. Ti riprenderai da ciò che ti ha fatto, o avrai bisogno di centinaia di cicli per recuperare la tua purezza originaria? Ritornò al piano superiore, lasciò il palazzo passando per l'edificio principale e si fermò davanti alla scala che conduceva al giardino sottostante.
Uno splendido tramonto tracciava un dipinto ricco di colori, fatto di nuvole, ombre e luci all'orizzonte. La luce calda giungeva fino a Porista, avvolgeva di oro le maestose costruzioni e conferiva alle torri color sabbia un bagliore ambrato. Una leggera brezza trasportava l'odore della terra arata da poco, mentre uccelli sfrecciavano nell'aria a caccia d'insetti. Si aveva quasi l'impressione che tutto fosse perfettamente in ordine. Andôkai ricordava di essere stata spesso lì, con gli altri maghi e maghe della Terra Nascosta, ad ammirare la morte del sole con la consapevolezza che all'alba successiva si sarebbe di nuovo levato fiammeggiante dal suo letto. Anche quella volta era certa che l'astro sarebbe riapparso il giorno seguente, ma non era altrettanto sicura che avrebbe osservato di nuovo quel tramonto, sempre affascinante, in compagnia di suoi pari. Per non meno di duemila cicli il consiglio dei maghi si era tenuto nel luogo che Nôd'onn aveva trasformato in una tomba. Una tomba per quattro dei maghi più potenti, e poco era mancato che lo divenisse anche per lei; una tomba per i migliori allievi dei maghi; e una tomba per la forza di cui un tempo disponeva il consiglio per proteggere la Terra Nascosta. Andôkai era tornata per forza di cose a Porista, aveva cavalcato attraverso le rovine bruciate della città e si era trasferita in quel palazzo crudele che aveva resistito alle fiamme. Nonostante tutto ciò che era accaduto, quello rimaneva il posto migliore in cui formare nuovi maghi e maghe. Dal muro di cinta del palazzo vedeva le macerie e gli isolati resti delle case; non era rimasto altro dei più di ottomila edifici che un tempo occupavano la Pianura Verde. I soldati di Mallen vi avevano appiccato il fuoco per bruciare i morti viventi di Nôd'onn. Gli innocenti abitanti si erano rifugiati nella campagna e avevano atteso là; dopo essersi accertati che la notizia della morte di Nôd'onn era vera, i primi avevano osato ritornare. Gli stendardi della maga, che sventolavano sulle torri, promettevano loro la protezione della nuova signora di tutti i sei regni incantati. Andôkai abbassò lo sguardo, distogliendolo dal cielo che iniziava a farsi scuro, e lo lasciò vagare tra gli stendardi mossi dal vento. Samusin, dio del vento e dell'equilibrio, mandami degli uomini, che siano vecchi o giovani, cui io possa insegnare. Se c'era qualcosa di vero nelle farneticazioni di Nudin, ho bisogno di aiuto. Qualcuno bussò forte contro la porta a doppi battenti, che si trovava dall'altra parte dello spiazzo. In punti diversi del palazzo erano incisi simboli
che s'illuminavano, informando gli inservienti che vi erano dei visitatori desiderosi di entrare. Almeno così era un tempo. Visto che ormai non vi era nessun servitore che potesse adempiere ai propri doveri, la maga aprì il portale con un incantesimo. I battenti vibrarono permettendo l'ingresso a palazzo. Una donna alta e slanciata e un uomo molto giovane superarono la soglia e attraversarono il cortile. La donna portava un'armatura di cuoio nera, al cui cinturone pendevano strane armi con cui solo lei sapeva combattere. In una città devastata come Porista si aggiravano anche saccheggiatori, e la donna non voleva essere indifesa, qualora ne avesse incontrati. Camminava spedita e senza mostrare traccia di soggezione, mentre l'uomo teneva un fagotto stretto al corpo e si guardava incessantemente intorno in cerca di possibili minacce. Una grande ombra si proiettò su Andôkai. «Va tutto bene, Djerun», disse lei alla sua guardia del corpo, senza voltarsi. «Sono innocui ospiti, niente di più.» Rise senza gioia. «Come se ci fosse altro. In questo periodo sarei perfino contenta se comparisse uno degli apprendisti di Nôd'onn e mi sfidasse in un combattimento per le strade di Porista.» Si voltò verso di lui e alzò lo sguardo fino alla sua lucente visiera argentea, che ritraeva la faccia di un demone e ne nascondeva il vero volto. «Almeno saprei che esistono ancora persone portate per la magia», aggiunse piano. Djerun rimase immobile dietro di lei, scostato di lato. Presumibilmente osservava i nuovi arrivati. Non si sapeva mai con certezza in che direzione stesse guardando, perché dietro le fessure della maschera regnava l'oscurità. Solo in rare situazioni vi risplendeva una luce violetta capace di gettare chiunque nel puro terrore. Anche la sua rigidità era ingannevole. Pur essendo completamente coperto da un'armatura che non rivelava in nessun punto che cosa vi si nascondesse all'interno, quando combatteva o la sua signora era in pericolo Djerun saltava, correva e lottava come se la sua corazza non fosse fatta d'acciaio, ma di una leggera seta tinta d'argento. Pochi conoscevano il suo segreto, e così doveva essere. I visitatori salirono i gradini. Andôkai capì di essersi sbagliata. «Narmora, chi porti con te? Da lontano ho pensato che fosse Furgas», disse sorpresa, anziché salutare. La mezz'alba, che celava le sue orecchie a punta sotto un fazzoletto ros-
so scuro, sorrise. Anche lei nascondeva agli sconosciuti la sua natura, dal momento che gli albi erano considerati nemici acerrimi di tutti i popoli della Terra Nascosta. A una folla inferocita le sarebbe riuscito difficile spiegare che non era uno dei servitori di Tion, ma una creatura ibrida che si era votata al bene; il fazzoletto serviva quindi a risparmiarle delle noie. «Maga, ho trovato un uomo che vagava per la città e non osava disturbarvi.» Lo sguardo dell'uomo cadde su Djerun e sui suoi tre passi di statura. Scivolò pieno di paura sulla corazza con l'alta gorgiera, che conferiva al suo portatore l'aspetto di un blocco di ferro muscoloso, poi salì fino all'elmo con la spaventosa visiera e l'anello che lo sormontava, simile a una corona di punte di ferro lunghe come dita. «Per Palandiell!» Senza volerlo indietreggiò di un passo, e mancò il gradino. Sarebbe caduto, se Narmora, agile come un felino, non lo avesse afferrato per il gomito e non lo avesse tenuto. «Stai tranquillo», gli disse. Lo sconosciuto si contenne, o almeno ci provò. «Il mio nome è Wenslas. Appartenevo agli aspiranti di Turgur il Bello», si presentò dominandosi a stento. Proprio un apprendista di quel bellimbusto... «Stai tranquillo, Wenslas», disse Andôkai dandogli il benvenuto. «Che grado avevi raggiunto, prima che il mago morisse?» «Nessuno, venerabile maga», ammise l'uomo. «Come ho detto, ero un aspirante. Il mio nome era sulla lista di coloro che dovevano essere sottoposti alla prova di ammissione. Mi è giunta voce che stavate cercando uomini per iniziarli all'arte della magia, e sono venuto fin qui.» «Dove, tra le mura annerite dalla fuliggine, il coraggio gli è venuto meno, e alla fine è corso tra le mie braccia», terminò la storia Narmora. «Penso che sia più al sicuro qui da voi.» «Propongo di sottoporti subito alla prova, in modo da scoprire quanto sei forte.» Andôkai si girò e si diresse di nuovo verso l'edificio principale. È un incapace. Mi ci vorranno cicli per renderlo un apprendista decente. Dubitava che quell'uomo pauroso possedesse la forza mentale per maneggiare le complicate formule ed eseguire gli estenuanti rituali. Era sulla lista di attesa di Turgur, il che diceva tutto. Una soluzione di ripiego, non rappresentava niente di più. «Narmora, accompagnaci. Mi puoi dare una mano, se hai tempo.» «Certo.» La mezz'alba spinse in avanti Wenslas, che fece un largo giro intorno a Djerun e seguì Andôkai. «Furgas ha abbastanza lavoro, e al mo-
mento non gli sarei d'aiuto.» Camminarono attraverso il palazzo vuoto. Soltanto i passi di Wenslas riecheggiavano sulle pareti, cosa che non lo fece sentire meglio. La statua ambulante e il comportamento delle due donne lo inquietavano ancor più delle storie che aveva sentito sulla maga. Stava proprio per aprire la bocca e comunicare che aveva cambiato idea, quando attraversarono un immenso portone ed entrarono nella devastata sala del consiglio. Un tempo ornato da un'imponente cupola, il posto era ormai in macerie. Quando si era palesato che Nudin aveva tradito gli altri maghi e la Terra Nascosta, era avvenuto uno scontro che era costato alla sala tutta la sua bellezza. Parte del tetto e delle colonne giaceva in frantumi sul pavimento; il vento aveva trasportato la cenere della città, e la pioggia l'aveva lavata dalle pareti, formando dense pozze nere sul pavimento. In mezzo a quel caos si trovava la statua di un uomo, la prova della crudeltà con cui Nudin aveva infierito contro i suoi colleghi. Lot-Ionan il Paziente era diventato un monumento commemorativo di quel triste evento: la potenza della magia lo aveva completamente tramutato in pietra. Andôkai condusse Wenslas attraverso un punto in cui il pavimento era coperto da innumerevoli schegge di malachite, finché l'uomo non si trovò perfettamente al centro della sala. «Manderò verso di te un debole flusso di magia, non ti può succedere nulla», gli spiegò. «Se hai un qualche talento nascosto in relazione a questa forza, lo capiremo subito.» Fece cenno a Narmora di mettersi alle spalle dell'uomo, per sorreggerlo in caso di bisogno. «Pronti?» Stavano ancora annuendo quando Andôkai scagliò una sfera blu contro Wenslas, che involontariamente sollevò le braccia per proteggersi, coi palmi delle mani rivolti verso l'esterno. La sfera sfrigolante si abbatté su di lui, sbilanciandolo; sibilava forte, e l'uomo urlò di terrore e dolore. La mezz'alba afferrò Wenslas sotto le ascelle per evitare che cadesse sulle schegge di malachite. La sfera sibilante però non si dissolse. Volò attraverso la sala, si avvitò sempre più in alto e prese palesemente slancio per un nuovo attacco. Ronzando come una vespa infuriata, fece un ultimo giro e poi si precipitò sui due. «Maga?» Incalzata dalla necessità, Narmora decise di lasciar scivolare Wenslas sul pavimento e di tentare qualcosa contro la sfera di energia. Alzò un'ampia tavola davanti a sé, a mo' di primitivo scudo, e coi suoi oc-
chi scuri seguì i movimenti della sfera, che piombò verso di lei tracciando un frenetico zigzag. A mezzo braccio di distanza dalla donna, la sfera si dissolse improvvisamente con una forte esplosione. Le sopracciglia di Andôkai si alzarono. «Il mio rispetto, Wenslas», lo lodò allibita. «Ho pensato che avresti mostrato il tuo vero talento solo se ti avessi sfidato sul serio.» Andò verso di lui e osservò la pelle bruciata dei palmi delle sue mani. «È doloroso, ma guariranno in poco tempo.» Gemendo, l'uomo si rimise in piedi. «Venerabile maga, non dovete comportarvi come se fossi stato io a distruggere la sfera», replicò avvilito. «Non ho superato la prova, e che voi mi vogliate incoraggiare è molto gentile, ma non è necessario. Non fosse stato per voi, la sfera mi avrebbe annientato.» Prese il suo fagotto. «Il mago Turgur me l'aveva detto che non ero adatto, e voi me l'avete confermato. Avevo sperato... Gli dei siano con voi.» S'inchinò e lasciò la sala. Sentirono i suoi passi nel porticato. Djerun lo seguì per assicurarsi che lasciasse davvero il palazzo. La maga osservò Narmora attentamente. «Sei stata tu», mormorò esterrefatta. «Tu l'hai distrutta.» I suoi occhi si strinsero a fessura. «Ma come? Avevi detto di padroneggiare solo i doni che sono connaturati al popolo di tua madre. Ma, che io sappia, un albo non può agire sulla magia come hai fatto tu.» Narmora sembrava piuttosto confusa. «Io... non ho recitato nessuna formula. Quella cosa doveva sparire, non ho pensato nient'altro, tutti i miei pensieri si sono indirizzati a questo... e...» Tacque e si mise le mani davanti agli occhi. «Poi è successo. Tutto qui», sussurrò quasi spaventata. Andôkai si riscosse dallo stupore, il cui posto fu preso da eccitazione e speranza. «Narmora, sai che cosa significa?» Afferrò la mezz'alba per le spalle. «Ho trovato qualcuno cui posso insegnare!» la investì entusiasta. «Non ci vorrà molto, e farò di te una...» «No.» La risposta era salita alle labbra di Narmora con una tale durezza e rabbia che Andôkai lasciò la presa e indietreggiò di due passi. «No?» ripeté senza capire, cercando lo sguardo dell'altra. «Questo non lo puoi fare.» «Invece posso.» La mezz'alba si drizzò in tutta la sua statura. Non temeva la collera della maga, pur sapendo di poterla incontrare. «Ci sono sicuramente aspiranti migliori di me, dobbiamo solo trovarli. Non diventerò una vostra apprendista.» Lesse la domanda stampata sul volto della maga. «L'ho giurato a Furgas: niente più avventure. Siamo quasi morti a Giogonero. E dopo che lo avete pregato di venire con voi a Porista per accelerare
la costruzione della città col suo sapere, le sue macchine e la sua tecnica, l'ho seguito perché non intendo lasciarlo mai più. Continuate a non capire? Allora ve lo spiego.» Si sedette su una delle colonne che giacevano tutt'intorno e abbassò la voce. «Voglio invecchiare con Furgas, avere figli e nipoti e vederli crescere. Questo non potrò farlo, se diventerò una maga e mi dovrò di nuovo gettare nella mischia. Ho trovato pace e amore.» Le sue dita sollevarono l'armatura allentata e accarezzarono amorevolmente il ventre arrotondato. «E aspetto un bambino. Dovrebbe nascere tra novanta rotazioni.» Andôkai sbuffò irritata, ma tacque. Narmora vide che la sua gioia non era condivisa. Inspirò profondamente. «Perdonate, è tardi. Vorrei vedere a che punto è Furgas», si scusò, si alzò e si diresse verso l'uscita. «Non posso davvero convincerti?» La domanda dell'ostinata maga la colpì alle spalle. «Che cosa deve succedere per farti cambiare idea?» La mezz'alba si guardò indietro, al di sopra della spalla, e vide la sagoma dell'altra alla luce della luna sorgente. «Non c'è nulla che mi possa far rompere il mio giuramento», dichiarò con voce ferma prima di proseguire il suo cammino verso l'esterno. La maga sospirò, e i suoi passi la condussero alla statua che un tempo era stata un uomo in carne e ossa. «Povero amico mio. Come avrei bisogno del tuo sostegno», sussurrò immersa nei suoi pensieri, mentre le dita scivolavano sopra la fredda pietra tastando ogni piega del vestito. Morto. Morto come Turgur il Bello, Sabora la Taciturna e Maira la Guardiana. Andôkai si voltò, triste. Con lo sguardo vagò per la stanza del consiglio. Narmora è una pazza a permettere che i suoi sentimenti e l'amore per un uomo le impediscano di pensare a cose più importanti. Terra Nascosta, sud-est del Gauragar, capitale Richemark, 6234° ciclo solare, primavera Re Bruron stava davanti alle porte dell'immenso granaio, attraverso le quali dalle prime ore del mattino sfilavano carri stracarichi. Intorno a lui c'erano sette soldati della sua guardia personale e due addetti al magazzino, che registravano scrupolosamente la quantità e il tipo di cerali che lasciavano la capitale. La loro strada portava verso nord, là dove la Terra Estinta aveva lasciato dietro di sé tracce pesanti. I pascoli e i campi si riprendevano dall'influsso
della forza oscura, e forse in estate la terra avrebbe dato un raccolto sano, ma prima di allora gli uomini che vivevano in quella regione avevano bisogno di qualcosa da mangiare e da far mangiare agli animali. Una mano con uno stilo indicò un carro che passava davanti a loro. «Mio re, le nostre scorte diminuiscono notevolmente.» «So che i nostri granai saranno presto vuoti.» Bruron, avvolto nei panni marroni scuro e poco appariscenti di un amministratore, osservava le botti che ballonzolavano sulle superfici di carico, portando fuori della città i suoi ultimi cereali. «Non importa. Re Nate ha ricevuto ieri un'ordinazione di cinquemila botti che sono destinate al nord del mio regno. E riceveremo rifornimenti dall'Idoslân.» Sorridendo diede al suo funzionario una pacca sulla spalla. «Li includo nel conto. I miei sudditi non dovranno vivere di stenti. Ci sono altre cinquemila botti in viaggio verso di noi.» Una delle sue guardie gli fece notare che una trentina di persone si dirigeva verso l'ufficio commerciale della città. Si trattava di un gruppo misto di uomini e di nani, e le loro facce non facevano presagire nulla di buono. Bruron strinse le labbra. Aveva messo in conto quella visita e non se ne rallegrava affatto. Purtroppo per lui non c'era scampo, avrebbe dovuto affrontare le spiacevoli domande dei suoi sgraditi ospiti. Il principe Mallen frenò il cavallo e smontò di sella. Subito i servitori si affrettarono a occuparsi della sua cavalcatura. I suoi soldati rimasero in sella, mentre i nani si misero a fianco dell'Ido. «Vi saluto, re Bruron», disse accennando un inchino. «E io saluto voi, principe Mallen», rispose il re amichevolmente. «Ho sentito del trionfo che voi e i vostri cavalieri avete conseguito contro i mezz'orchi.» Fece un cenno di capo ai nani. «Naturalmente con l'efficace aiuto del vostro popolo. I miei sudditi sanno bene il ruolo che avete avuto nel liberarli da quel flagello.» La sua mano adorna di anelli si posò sul petto all'altezza del cuore. «E lo so anch'io. La mia gratitudine è sconfinata.» Uno dei nani batté con rabbia l'ascia per terra. «Gran bel ringraziamento! Lasciare la fortezza di Giogonero al nostro peggior nemico, mentre noi a nord combattevamo per te! Questa è perfidia, e ci aspettavamo tutt'altro dagli uomini.» Bruron fece un'espressione dispiaciuta. «Voi mi ferite profondamente, messer nano. E mi attribuite malefatte che non sono vere. Non è stata in nessun modo una perfidia, bensì un contratto gravido di conseguenze, a impormi lo sgombero del pianoro poco dopo che i miei soldati ne avevano
assunto la sorveglianza perché voi poteste andare nello Dsôn Balsur...» Il volto dell'ambasciatore divenne ancora più torvo. «È stata una perfidia», insistette. Il principe Mallen osservava il carro che gli stava passando accanto. «Di quale contratto state parlando?» «Molto tempo fa i miei antenati strinsero coi Terzi un patto che li rendeva proprietari di Giogonero. Per sempre e senza limitazioni.» «Non può trattarsi di un imbroglio?» chiese Mallen. Bruron scosse il capo incanutito. «Ho sguinzagliato i miei archivisti nei sotterranei più profondi e nelle torri più alte, e purtroppo sono tornati con la conferma dell'accordo. Era la ricompensa dovuta ai Terzi, che aiutarono i miei antenati nello spianare il Monte delle Nuvole.» Si rivolse ai nani. «Non c'è niente da fare. Appartiene ai Terzi.» «Avreste potuto rifiutarvi», ribatté il nano. «Sono vincolato alla parola dei miei avi, e proprio voi, che difendete tradizioni incrollabili, dovreste saper comprendere la mia posizione.» Il tono di Bruron a quel punto cambiò sensibilmente, sembrava più tagliente e indignato. Era stato detto tutto. «Quello che è fatto è fatto, messer nano. Non piace neanche a me, ma la parola di un re è la parola di un re.» Mallen lo guardò con attenzione. «Non ho il diritto di giudicare la vostra decisione, ma sarebbe stato più saggio parlare con noi di questo lascito, in modo che potessimo valutare insieme una soluzione.» «Non mi era concesso...» «Avreste dovuto farlo. Avevate bisogno di più tempo per verificare e fare indagini. Ora i peggiori nemici dei nostri amici stanno in mezzo a tutti i regni dei nani, e solo gli dei sanno a che cosa mirano impossessandosi di Giogonero.» Si avvicinò a Bruron e sorrise con freddezza quando questi, dopo una breve resistenza, abbassò gli occhi. I Terzi avevano aiutato il re a prendere una decisione, su questo non aveva dubbi. «Capisco», disse così piano che il sovrano lo percepì a stento. «Non capite proprio per niente», sibilò Bruron in risposta, altrettanto piano. «Il mio popolo soffre la fame, e io devo comprare provvigioni a caro prezzo per fornire alla gente il necessario. Se mi aveste regalato voi il grano, allora...» «È scortese sussurrare in presenza di altri», si fece sentire il nano alle loro spalle, strepitando. «Ma non ti disturberemo ulteriormente, torneremo al fronte nello Dsôn Balsur e riferiremo le tue parole, re Bruron. Anche l'imperatore saprà della perdita di Giogonero e deciderà come rispondere a
questa perfidia.» Con un saluto appena abbozzato, che poteva anche essere un gesto offensivo, i nani girarono sui tacchi e si allontanarono. «Quindi l'avete fatto in cambio di oro», constatò Mallen con rabbia, non appena i nani furono abbastanza lontani. «Avete venduto Giogonero.» «No», giunse tagliente la risposta del re. «Esiste questo accordo, mi ci sono soltanto attenuto.» «E avete osato attirare su di voi, e quindi su noi tutti uomini, la rabbia e il dispetto dei nani?» Mallen scosse la testa pieno di rimprovero. «Mi sono sbagliato quando ho detto che non potevo giudicare la vostra decisione: è stata stolta.» «Come potete parlare...» cercò di opporsi Bruron. «Parlo come meritate, e come anch'io meriterei se avessi commesso una simile stoltezza.» Mallen non diede a Bruron nessuna possibilità di difendersi. «Non avete idea del fatto orribile che è accaduto nello Dsôn Balsur. I nani hanno perso trecento dei loro, nottetempo, in una trappola tesa dagli albi, che si sono spacciati per persone fidate di Liútasil e li hanno sorpresi nel sonno. Ed ecco che arrivate voi e consegnate un importante punto di raccolta e relative scorte al loro peggiore nemico. Comprendete quali conseguenze può assumere il vostro operato?» Bruron divenne pallido. «Questo non lo sapevo», mormorò. «Incaricherò i miei saggi di trovare un modo per annullare l'accordo.» «Vi prego di farlo, re Bruron. Abbiamo bisogno dei nani. I legami che uniscono i nostri popoli sono sottili e recenti. Uno strappo al posto sbagliato e l'alleanza si dissolverà.» La rabbia di Mallen si placò. «In verità sono venuto a dirvi che abbiamo iniziato a incendiare l'anello di foresta intorno allo Dsôn Balsur. Gli alberi bruciano con difficoltà, abbiamo bisogno di più pece. Ma bruciano. Presto comincerà l'assalto al cuore nero degli albi.» «Anch'io ho qualcosa da riferirvi, principe Mallen», disse re Bruron. «I Terzi vogliono parlare con voi, il loro ambasciatore è in città e attende che vi annunciate per incontrarsi con voi.» Gli nominò il posto in cui risiedeva il nano. «Ho già visto alcuni membri del piccolo popolo, ma questo tipo...» Si controllò, affinché il suo disagio non diventasse troppo palese. «Voi avrete più informazioni di me.» «Non c'è nulla da discutere con loro.» Mallen saltò in sella al cavallo. «Vado nell'Idoslân per farla finita con gli ultimi Pelleverde che si sono rintanati nel Toboribor a leccarsi le ferite.» La sua mano si alzò in saluto. «Palandiell sia con voi e coi vostri soldati», gli augurò Bruron.
«Potrei averne bisogno.» Mallen, circondato dalla sua gente, ritornò sui suoi passi. Il sovrano del Gauragar puntò i suoi occhi grigi sulla lista mostratagli dai suoi amministratori. Aveva preso una decisione. Per il bene del suo popolo. Le tre altre casse piene d'oro inviategli dai Terzi sarebbero arrivate entro nove rotazioni, e gli avrebbero permesso di acquistare nuove forniture di cereali dai suoi vicini. Avrebbe scacciato i Terzi da Giogonero solo quando avesse posseduto abbastanza denaro per consolidare il suo regno. Le critiche di Mallen e dei nani lo toccavano poco, loro non conoscevano le sue preoccupazioni. I miei sudditi sono quelli che hanno patito le cose più orribili sotto il dominio della Terra Estinta. Devono vedere che è cominciata un'epoca nuova. Niente più farina ammuffita per il pane, solo gli impasti migliori. Comunicò i suoi nuovi ordini. «Fate in modo che i granai vengano completamente svuotati, ogni singolo chicco dev'essere portato a nord per permettere ai miei sudditi la semina. È ordinate novemila botti di orzo in più dal Tabaîn. Non voglio sentire neanche una pancia brontolare.» *
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«Pare che in locanda non ci siamo incrociati.» Il principe Mallen udì una voce sonora che proveniva dal basso. Distolse lo sguardo dai giochi di nuvole proiettati sul cielo serale e cercò la persona che, in mezzo alle strade di Richemark, gli rivolgeva la parola in modo tanto impertinente. Era un nano in pesante armatura. Doveva essersi intrufolato tra le zampe dei cavalli delle sue guardie del corpo. «Non è che non ci siamo incrociati. È che non volevo avere nulla a che fare con voi», replicò Mallen scortesemente; con un rapido gesto della mano fermò una delle guardie, la quale stava per compiere un gesto sconsiderato che sarebbe sicuramente sfociato in un combattimento. Il principe vedeva per la prima volta un'armatura come quella indossata dal nano. Gli spallacci erano rinforzati e muniti di spine di ferro lunghe un dito, lame scintillavano sui bracciali e perfino le manopole erano coperte di punte di ferro. Ogni colpo che il nano avesse inferto avrebbe provocato gravi ferite anche senza ricorrere alle armi vere e proprie. «Avete un nome, o devo darvene io uno che potrebbe non piacervi?»
«Se non mi piacesse, finiresti disarcionato. Quello che farei potrebbe non piacere al tuo bel cavallo.» Il nano fece un largo ghigno; gli scuri tatuaggi sul suo volto si contrassero e sembrarono tracciare un disegno differente. «Se vuoi che questa bella bestia non subisca danno, chiamami Romo. Romo Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, della stirpe di Lorimbur, nipote di re Lorimbas Cuordacciaio e suo ambasciatore.» Gli occhi di Mallen scivolarono sull'armatura, notando la protezione per il basso ventre, simile a una gonna di piastrine di ferro, e il mazzafrusto a tre teste che pendeva dal cinturone. «Un ambasciatore? Sembra piuttosto che vogliate andare in guerra, Romo Cuordacciaio. Be', con la vostra lingua vi procurerete sicuramente nemici a sufficienza.» «Io sono sempre in guerra, come sai. I miei nemici sono numerosi, e sono tuoi alleati.» Estrasse dal gambale dello stivale una bolla sigillata in un tubo di cuoio. «Mio zio mi ha comandato di darti questo e di riportargli la tua risposta.» Gli porse il messaggio, invitandolo a prenderlo. L'intuito suggerì al principe che era meglio leggere il documento; quantomeno sarebbe servito a metterlo in guardia da ciò che attendeva lui e gli altri nani. Rimosse il sigillo, aprì il coperchio e ne estrasse la pergamena. Si aspettava un ricatto, e fu quello che trovò. Le righe parlavano di un antico accordo tra la dinastia degli Ido e i Terzi, che li avevano serviti nelle guerre contro i mezz'orchi nel Toboribor. A quel riguardo, negli ultimi cicli non era cambiato nulla. I governi dell'Idoslân avevano bisogno della furia e della collera che i nani provavano verso i mostri; e i nani facevano parte delle guarnigioni che presidiavano la striscia di terra che i rapaci mezz'orchi colpivano con particolare frequenza e forza. A differenza di Romo, i Terzi che prestavano servizio a pagamento in quelle piazzeforti non si distinguevano minimamente dai nani delle altre Stirpi. E gli antenati di Mallen avevano tenuto nascosto al principe il giuramento di fedeltà che, in cambio del loro aiuto, i Terzi pretendevano da chi di volta in volta governava l'Idoslân. «Il vostro re pensa seriamente che io lo debba sostenere contro i Quarti?» Il principe abbassò il documento. «Che razza di perfido gioco sta portando avanti vostro zio? Prima si prende Giogonero, poi vuole scavare un abisso tra l'Idoslân e il resto della Terra Nascosta.» Le sue dita lasciarono la presa sulla pergamena, che librò verso terra atterrando su un mucchio di letame di cavallo. «I Quarti non sono solo nostri alleati, sono nostri amici.»
«Amici, principe? Questo suona davvero toccante e commovente.» Romo guardò verso di lui, non sembrava molto stupito dalla durezza del rifiuto di Mallen. «Potremmo addolcirti la decisione di cercarti nuovi amici. Desideriamo solo che ti attenga a ciò che i tuoi avi hanno concordato di loro spontanea volontà.» «Se lo hanno fatto davvero, non si trovavano nella mia situazione. E comunque non do nessun valore ad accordi stipulati con voi. Nessuno mi può garantire che quello che dite corrisponde a verità. Nessuno della mia famiglia mi ha mai menzionato questo patto.» Restando in sella, si piegò in avanti. «E riferite al vostro re che io non mi lascio adescare dall'oro come ha fatto Bruron.» «Non lo abbiamo adescato. Lo abbiamo pagato. Non è forse l'Idoslân una terra benedetta, principe? Tranne che per la gravosa maledizione dei mezz'orchi.» Il nano guardò il messaggio, che lentamente assorbiva l'umidità dal letame e si accartocciava. «Tu possiedi una cavalleria in grado di sbaragliare le bestie con facilità. E i presidi garantiscono una sicurezza continua, come sappiamo entrambi.» «Dove volete andare a parare?» «Io? Da nessuna parte», fece Romo, ipocrita. «Ma mio zio vi manda a dire...» Senza una parola di più, Mallen gettò l'involucro di cuoio a terra e spronò i fianchi del cavallo. Considerava terminata la discussione. Per esprimergli la sua riprovazione, si allontanò ignorandolo completamente. Le guardie superarono il nano cavalcandogli intorno, e la gente di Richemark riempì rapidamente il buco lasciato dalla partenza dei cavalieri. Il letame e la pergamena vennero calpestati senza nessun riguardo. Il nano emise un grido di disprezzo nei confronti di Mallen. Visto che non vuole ascoltare, presto verrà a sapere delle conseguenze del suo operato. Romo notò con piacere che la gente si teneva a distanza da lui; in primo luogo perché era un nano, ma anche perché non sembrava interessato a una conversazione. Il silenzioso diniego del sovrano implicava che l'ambasciatore si mettesse di nuovo in viaggio. Doveva raggiungere il nord-est della Terra Nascosta. Là avrebbero accolto le sue proposte molto meglio di quanto non avesse fatto il principe Mallen. Una frotta di bambini vinse il timore che la gente provava di fronte a lui; si fermarono e presero a osservarlo da ogni angolazione, pieni di curiosità. «Ehi, tu. Anche tu sei un nano, vero?» s'informò il più grande di loro.
«Sembri strano.» «E tu sei brutto, piccolo sacco di pulci.» Romo divenne improvvisamente attento. Il ragazzino aveva chiaramente detto «anche». «Certo che sono un nano. Uno speciale. Un vero guerriero», rispose con un sorriso falso. «Ce ne sono altri in città?» Tutti i bambini annuirono contemporaneamente, facendo ondeggiare i capelli. «Che bello! Sapete dove posso trovarli?» Prese una monetina dal sacchetto di cuoio e la gettò verso il ragazzino, mentre la sua destra si posava sul manico avvolto in filo d'argento del mazzafrusto. La sua giornata di lavoro avrebbe trovato una piacevole conclusione. IV Terra Nascosta, davanti ai Monti Grigi, regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera «Non è cambiato niente dall'ultima volta che siamo stati qui.» Boïndil osservava le torri spezzate e le mura demolite, che ricordavano quella che un tempo era stata la fortezza dei Quinti. Una schiera scelta di trenta nani accompagnava lui, Tungdil e Balyndis nella ricognizione. Davanti a loro, a poca distanza, si trovava l'altissimo portale, i cui battenti giacevano in pezzi a terra. Il Rabbioso guardò alle sue spalle, in direzione del sentiero scosceso su cui, a un miglio di distanza, nani e nane arrancavano con armi e bagagli verso la cima, avvicinandosi all'ingresso. «Non devono marciare così in fretta», disse a un nano, incaricandolo di riportare il messaggio. «Li si sente già. E di' loro di fare molta attenzione alla barella di Boëndal!» Tungdil si sforzò di essere il più silenzioso possibile e sgusciò in avanti, riparato dalle rovine consumate dal tempo. Per precauzione impugnava la Lama di Fuoco, in modo da poter opporre una pronta resistenza contro eventuali aggressori. Giunto vicino all'ingresso, si accovacciò dietro un mucchio di macerie. «Ma guardalo! Non erano questi i patti», borbottò il Rabbioso, seguendolo. «Se pensa di poter sgozzare Maialini da solo, il suo cervello da sapientone si sbaglia di grosso.» Corse tra i frammenti di roccia e lungo i tratti di muro su cui si stavano sciogliendo gli ultimi avanzi di neve. Balyndis e i restanti guerrieri lo seguirono facendo chiasso e sferraglian-
do come il carretto di un rigattiere su un percorso accidentato. Tungdil roteò gli occhi. «In futuro ricordatemi che chiunque venga in ricognizione con me si deve togliere la cotta di maglia. Tanto valeva appendersi campanacci al collo o cantare una marcia.» Osservò la scura apertura sul fianco della montagna. Tutto sembrava tranquillo. Intorno a loro si udivano sgocciolii e gorgoglii. I ghiacci si scioglievano; la cascata solidificata, posta accanto all'ingresso, aveva infranto la sua trasparente armatura d'acqua ghiacciata e ormai rumoreggiava libera. Nubi di schiuma si alzavano dando all'aria riflessi cangianti. «Cosa? Senza cotta di maglia sono nudo», brontolò Boïndil, risentito. «Fa parte di me quanto la mia barba.» Sollevò il naso, le narici si gonfiarono. «Non c'è odore, niente puzzo di mezz'orchi o del loro sego. L'ultima volta ci aspettavano tutti nell'atrio della fucina, vi ricordate? Ah, che divertimento! Bastava alzare il braccio e squarciavi la pancia a una bestiaccia, tanto stavano stretti. Tutti là in coda ad aspettare la morte! Forse ci hanno...» «Silenzio», l'apostrofò Tungdil, avendo cura di non guardare in direzione di Balyndis. La nana aveva mantenuto la sua promessa e lo aveva seguito nei Monti Grigi; come aveva preannunciato l'aveva fatto da amica, non da compagna. Con lei viaggiava Glaïmbar Lamatagliente, il nano cui si era promessa. Tungdil non sapeva come comportarsi nei suoi confronti. Nel giro di una rotazione aveva smesso di essere la sua amata compagna ed era diventata una buona amica, ma il cuore tormentato di lui continuava a parlare una lingua completamente diversa. «Vado avanti io», disse. Saltò su e corse verso il passaggio, stando piegato. Si appiattì contro la parete laterale e rimase in ascolto, per sentire se qualcosa nell'atrio si muoveva; dopo qualche istante vi entrò. I suoi amici lo videro scomparire nell'oscurità della galleria. Boïndil giocherellava inquieto con le sue asce. «Non ce la faccio più», sbottò. La voglia di combattere e la preoccupazione per il destino di Boëndal gli ribollivano nelle vene, incendiando il suo temperamento di nuovo ardore. «Dobbiamo occupare subito la fucina. È il rimedio che curerà mio fratello, e nessuno m'impedirà di conquistarla. Se è necessario, combatterò contro forze cento volte superiori.» Senza riguardo alla sua incolumità, si alzò e corse verso la montagna. Imprecando, Balyndis lo seguì insieme con gli altri. Notò che i loro passi sulla roccia suonavano diversamente dal solito. Che strano! Le venne da
pensare che vi fosse uno spazio vuoto sotto i loro piedi. Andarono quasi a sbattere contro Tungdil, che stava immobile all'imboccatura del passaggio guardandosi intorno. «Lasciamo perdere il sotterfugio», annunciò di cattivo umore, impugnando il manico della Lama di Fuoco con entrambe le mani. «Col rumore che avete fatto, non ha più nessun senso. Andiamo a vedere se le bestie di Tion si trovano ancora nella nostra nuova patria o se la sono svignata.» «Così mi piaci. Il sotterfugio è per quelli che temono il nemico o la verità», osservò il Rabbioso, digrignando i denti. «Forza, Maialini, brucio dalla voglia di un piccolo combattimento.» «Tu bruci sempre dalla voglia di un piccolo combattimento», replicò Balyndis con aria di rimprovero. Insieme esplorarono i passaggi di cui il Rabbioso, Balyndis e Tungdil si ricordavano perfettamente. Si passava davanti alle lastre di palandio, incastonate alle pareti, su cui erano sbalzate le immagini dei più nobili tra i Quinti, che salutavano amichevolmente i nuovi arrivati con le asce levate. Strada facendo, il gruppo trovò segni inconfutabili del passaggio delle bestie; probabilmente avevano preso quella strada per adunarsi e marciare verso Giogonero. Il pavimento era imbrattato di sporcizia e impronte di stivali e piedi nudi. Una volta raggiunta la sala pentagonale, sostenuta da colonne, i nani presero il corridoio che doveva portarli alla fucina di Vapordrago. Ogni passo che facevano riportava alla mente di Tungdil gli eventi che aveva vissuto in quel luogo. Sentì di nuovo la forte voce di Gandogar schernire i bogglin che lo stavano attaccando, vide davanti a sé gli amici morti, immaginò perfino di sentire lo squittire e lo strillare dei mezz'orchi. Ma erano solo scherzi della sua immaginazione. «Maledetti! Qui è vuoto come il cranio di un orco», commentò Boïndil, infelice, quando raggiunsero l'atrio in cui si trovavano gli altiforni per la produzione di ferro. All'atrio seguiva la fucina di Vapordrago; i fuochi sotto le fornaci erano spenti, le caldaie fredde, e il lerciume dei mostri spandeva un fetore disgustoso. «Sono andati via.» Boïndil si affrettò a salire gli scalini. «Venite, andiamo a controllare la fucina. Prego che il fuoco non sia spento.» Lo sconsiderato comportamento dell'amico fece arrabbiare Tungdil, che però in fondo lo comprendeva. La paura che provava per le condizioni del gemello e l'incresciosa voglia di combattere prosciugavano al Rabbioso l'intelligenza; se presto dei mezz'orchi non gli fossero finiti davanti alle
asce, il suo umore sarebbe diventato insopportabile e la sua irritazione sarebbe cresciuta fino a diventare un pericolo anche per gli altri. L'odio per le bestie lo rendeva un guerriero impareggiabile, ma rappresentava al tempo stesso una minaccia. La furia si ammassava dentro di lui, gonfiava e cresceva fino a che il nano non riusciva più a frenarla. Allora si gettava ciecamente su qualunque cosa trovasse sul suo cammino. Vraccas lo aveva reso un combattente eccezionale, ma lo aveva anche punito. Entrarono nella fucina, in cui faceva sensibilmente più caldo che non nei corridoi. Venti forge e ottanta incudini stavano disposte con cura intorno a un'immensa vasca colma di braci. Nel vasto ambiente regnava un fetore bestiale: tutti si sentirono soffocare dalla nausea. I cadaveri di mezz'orchi, bogglin, alcuni albi e perfino tre troll giacevano riversi e putrefatti. I nani contemplarono l'opera degli ultimi Quinti e di Bavragor Pugnomartello, che avevano coperto le spalle alla fuga del manipolo di eroi di fronte alla preponderanza delle bestie. «Per Vraccas, dev'essere stata una battaglia grandiosa», mormorò il Rabbioso con profondo rispetto. «Non avrei mai creduto che l'ubriacone canterino fosse capace di darne tante.» Si misero alla ricerca dei resti mortali dei difensori, in modo da poter dare loro una degna sepoltura, ma trovarono soltanto brandelli delle loro armature e dei loro vestiti. Pareva che alla fine fossero stati travolti e dilaniati dalle orde di Nôd'onn. «Guardate!» Balyndis indicò con l'ascia il grande braciere centrale. «Arde ancora!» Tungdil emise un sospiro di sollievo. Ormai era certo che avrebbero potuto lavorare tutto il ferro e l'acciaio di cui l'appena nato regno dei nani aveva bisogno. «Ravviviamo il fuoco e mostriamo che i figli del Fabbro sono tornati nelle sale e nelle miniere di Giselbart Occhiodiferro.» Gettarono con cautela carbone sui deboli lumi, tirarono le catene che azionavano le carrucole degli enormi mantici e infusero nuova vita a Vapordrago. Tungdil mandò dieci nani a informare gli altri e a condurli lì. Nel frattempo, Balyndis provò ad azionare l'argano che faceva scivolare di lato la piastra d'acciaio che chiudeva la grande ciminiera della fucina. Uno degli ultimi difensori aveva reso il meccanismo inutilizzabile, in modo che i mezz'orchi non potessero inseguire i nani mentre fuggivano attraverso la canna fumaria. La nana guardò in alto, verso il tetto alto ottanta passi e la scala che si
avvitava nella ciminiera fino al punto in cui la massiccia lastra rendeva impossibile proseguire. «Ci vorrà un po' di tempo, ma ci riuscirò.» Parlò di proposito tanto forte che Tungdil, il quale stava a una certa distanza, si sentì per forza chiamato in causa. «Hanno distrutto una ruota dentata e due ganci, per questo la catena si è svolta. Entro domani ne forgerò degli altri e sarà tutto come nuovo.» Il nano annuì senza guardarla. «Bruceremo i cadaveri nella forgia; con le loro armature fuse potremo sicuramente produrre qualcosa.» Sotto i cadaveri putrefatti scoprì tenaglie, martelli, lime, scalpelli e altri attrezzi da fabbro. «Presto le incudini intoneranno il vecchio canto che i Monti Grigi hanno dovuto attendere tanto a lungo.» Balyndis si assicurò che nessuno li stesse osservando, gli si mise a fianco e gli afferrò un braccio. «Tungdil Manodoro, che cosa ti ho fatto?» domandò, costringendolo a una spiegazione. I suoi occhi marroni sprizzavano fuoco non meno della fucina. «Non so di che cosa parli.» Tungdil guardava oltre di lei e fingeva di doversi occupare del riordino della fucina, ma le forti dita da fabbro della nana non mollavano la presa. «Ti comporti come se io fossi un essere inferiore da punire col disprezzo. Mi fa male essere trattata in questo modo da un amico.» «Un amico?» replicò Tungdil, scoppiando a ridere. «Io ero il tuo compagno, Balyndis, eravamo vicini a stringere il patto! E poi spunta un nano che ti è del tutto sconosciuto, di cui non t'importa niente, del clan dei... dei chissà cosa, e tutto è finito.» La fissò pieno di speranza. «È tutto finito?» Lei chiuse un istante gli occhi. «È la legge. Devo obbedire al clan, te l'avevo spiegato...» «E per questo rinunci alla tua felicità?» Alla mia felicità... «Sì», rispose lei prontamente. «Perché non c'è nulla di più sacro e nulla che valga la pena di difendere più delle tradizioni. Hanno regolato la nostra convivenza per migliaia di cicli solari, mantengono la pace tra tutti, assicurano la sopravvivenza della nostra stirpe, anche se ciò significa che non a tutti i singoli può essere concessa la felicità. Lo capirai quando vivrai in una comunità. Almeno spero.» Sollevò la mano e fece per accarezzargli la guancia, ma lui ritrasse la testa. «No, ti prego», la respinse con amarezza. «Me lo rendi più difficile di quanto non sia già.» I sentimenti serrarono la gola di Tungdil, che si voltò e uscì fuori di cor-
sa, dove incontrò Boïndil. Il guerriero conduceva i primi membri della colonna di nani, che portavano il corpo gelido del fratello. Lieto di trovare un compito che lo potesse distrarre dai suoi cupi pensieri, Tungdil ripartì i nani in gruppi e li mandò a pattugliare i numerosi corridoi per accertare che non vi fossero mezz'orchi nelle immediate vicinanze. Durante la lunga marcia, Boëndal era stato trasportato su una lettiga trainata da un pony oppure, dove il terreno era accidentato, sorretta da quattro nani. Portarono la lettiga proprio accanto alle fiamme della fucina, che stavano diventando chiare e molto calde. «E ora?» Il Rabbioso fissava il pallido volto del gemello. «Si sveglierà subito?» Tungdil mise una mano sulla fronte di Boëndal. Era fredda, asciutta. «Non è cambiato nulla. La fucina è ancora lontana dall'avere raggiunto la sua temperatura massima. Lo vedremo solo quando il fuoco sarà diventato bianco.» «Sì, ma che facciamo poi?» lo incalzò Boïndil, prendendo la mano del malato e tenendola stretta premurosamente. «Birra calda! Si deve sicuramente scaldare la birra con un tizzone ardente della fucina e somministrargliela», disse cercando una disperata soluzione all'enigma. «Non so dirtelo, ma ti giuro che cercheremo il più presto possibile gli archivi dei Quinti. Lì andremo alla ricerca di un qualche riferimento.» Si alzò e fece un cenno alla guaritrice, affinché prestasse attenzione a Boëndal. Poi diede al Rabbioso una pacca d'incoraggiamento. «Vieni, abbiamo molto da fare.» Insieme lasciarono la fucina. Balyndis li guardò andarsene preoccupata. Nelle rotazioni successive cominciò la pacifica riconquista del regno dei nani. Gli scalpellini della stirpe dei Secondi si dedicarono alla riparazione delle stanze. I fabbri dei Primi attivarono gli altiforni e forgiarono col ferro incandescente bandelle e piastre per fortificare i corridoi e creare congegni difensivi. Il continuo tintinnare dei martelli attraversava i monti, ricordando alle pietre quanto fossero state vive le sale scavate al loro interno più di seimila cicli prima. I Quarti, che levigavano e tagliavano gemme e pietre preziose di ogni tipo, praticavano un'arte che non era ancora necessaria, quindi si resero utili ovunque fosse richiesta una mano, ed esplorarono corridoi, sale e caverne.
Ma per quanto Tungdil e gli altri cercassero, non si trovava nessuna lastra di pietra o pergamena su cui stesse scritto un rimedio per Boëndal, o anche solo la leggenda sugli effetti di Vapordrago. Così il nano, freddo come ghiaccio, passò i suoi giorni e le sue notti sulla lettiga, nella fucina, senza che le sue condizioni cambiassero. Così il tempo trascorreva come in volo, ogni giorno scoprivano cose dimenticate e strabiliavano di fronte alla grande abilità dei Quinti, che riguardava anch'essa la lavorazione di pietre e metalli preziosi. I Primi, che fino ad allora si erano ritenuti i migliori in quel campo, ammettevano senza invidia la superiorità dei nani di cui ora calpestavano i corridoi. Tungdil giunse alla conclusione che in quelle gallerie non avrebbe trovato nulla che li potesse aiutare a far rinvenire il geniello. Quindi assunse il comando della pattuglia che si doveva spingere a nord, per visitare la Porta di Pietra e altri lontani punti della fortezza. A dire la verità, era anche un sistema per fuggire da Balyndis, dalla sua risata irresistibile, dal suo carattere solare e dal suo aspetto attraente. Solo l'idea che Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro avrebbe trascorso tutta la vita a fianco di Balyndis scaraventava all'istante l'umore di Tungdil in abissi senza fondo di disperazione, e attizzava in lui un sentimento che non gli era familiare: desiderava la morte di quel nano. Non appena ci pensava, un malvagio demone invisibile iniziava a sussurrargli nella mente: Se morisse, sarebbe perfetto. Balyndis rimarrebbe vedova e libera di decidere chi sarà il suo prossimo sposo. Tungdil ascoltava con attenzione. Che, in una situazione del genere, la scelta di Balyndis sarebbe caduta su di lui, era fuori discussione. Questa è la soluzione migliore, non è vero? bisbigliava il demone, per poi sparire momentaneamente dalla sua testa. Tungdil si spaventava di se stesso. E il suo volto cupo non sfuggiva all'attenzione del Rabbioso, che aveva insistito per accompagnarlo. «Ora imparerai un altro aspetto della vita di un nano», gli disse il guerriero preparando la pipa, mentre riposavano. Sedevano un po' scostati dal gruppo di cinquanta nani che stavano guidando e, poiché si trovavano sulla sponda rocciosa di uno scrosciante ruscello sotterraneo, nessuno li sentiva. Potevano discutere apertamente. «A differenza di te, Sapientone, non sono bravo a parlare.» Aspirò rapidamente, e il truciolo che usava come esca accese il tabacco. «Ma sono bravo ad ascoltare. Quando si ascolta non c'è bisogno di pensare tanto.» Con le braccia conserte sul petto, si appoggiò
alla roccia e attese. «Su. Parla dal profondo dell'anima.» «Di cosa mai dovrei parlare?» «Di ciò che ti opprime.» Picchiettò la pipa contro la cotta di maglia di Tungdil. «Su, parla, o devo urlare il nome di quella nana finché non apri la bocca?» Tungdil sospirò e si tagliò un po' di fungo essiccato e di formaggio. «Non è giusto», fu la sua prima frase, cui seguì un autentico fiume di parole, con cui rivelò al suo amico tutto il suo tormento interiore. «Pensavo di poter sopportare di averla solo come amica», disse concludendo il lungo discorso. «Ma non funziona.» Posò il cibo, la fame gli era completamente passata. Invece trasse un profondo sorso dalla borraccia del vino. «Diventerai un ubriacone, lo sai?» Boïndil tirò dalla pipa facendo schioccare le labbra. «Non saresti il primo ad affogarsi nell'acquavite per amore», aggiunse evocando un'immagine che gli fosse di monito. «Mi chiedo se mio fratello e io non siamo responsabili di ciò che stai soffrendo.» «Voi?» Tungdil si terse dalla barba le scure gocce di vino che vi erano cadute. Il Rabbioso annuì serio. «Mentre ti guidavamo verso il regno dei Secondi avevamo molto tempo per prepararti al nostro popolo e alle nostre leggi. Sembra che ci siamo dimenticati le cose più importanti, o che non te le abbiamo spiegate a sufficienza. Al primo posto sta la sopravvivenza della stirpe, poi viene il clan, poi la famiglia. Mantenere le leggi, l'ordinamento che ci dà sicurezza... e certezze...» «Se vengono infrante, crolla tutto», lo aiutò Tungdil, quando notò che Boïndil stava perdendo le parole. «Esatto. Balyndis non poteva fare diversamente, lo capisci questo?» «Io sono cresciuto tra gli umani...» «Anche tra loro ci sono sicuramente matrimoni combinati dalle famiglie», replicò il Rabbioso. «Può essere, ma tra gli uomini che conoscevo io l'elemento decisivo era soltanto l'amore. Per questo pensavo che le cose stessero così anche presso il nostro popolo.» Tungdil tacque per qualche istante. «Boïndil, pensi sia meglio che un altro guidi i nuovi Quinti?» «Perché? Loro hanno scelto te come guida perché tu sei l'eroe di Giogonero. Porti la cintura di Giselbart Occhiodiferro, e solo la tua mano dà alla Lama di Fuoco la forza necessaria a combattere contro il male.» «Forse hanno più bisogno di uno che conosca le loro tradizioni. Uno che
conosca le regole e che vi si sia attenuto per tutta la vita», lo interruppe Tungdil. «Ci siamo stabiliti in un territorio in cui la coesione è più importante che mai. La nostra comunità è piccola. Io posso combattere, se c'è bisogno di me; per farlo non devo necessariamente essere il loro capo.» Boïndil aspirò facendo uscire dalle labbra anelli di fumo; il fumo blu si disperse in fretta e scomparve. «Capisco che cosa intendi dire, Sapientone, e le tue parole dimostrano una volta di più la tua lungimiranza.» Annuì in segno di approvazione. Tungdil immerse le mani a coppa nel ruscello che scorreva gorgogliando accanto a lui, e ne bevve. Il sapore dell'acqua era leggermente metallico, eppure eccellente. Nessuna sorgente di superficie la poteva eguagliare, e placava la sete all'istante. «È sbagliato che desideri la sua morte?» chiese con voce più bassa, passandosi le mani umide tra i capelli. «La morte di chi? Di Glaïmbar Lamatagliente?» Il Rabbioso rise forte. «Perfino io la desidero. Ha fatto sì che il mio migliore amico sia a pezzi, e gli ha preso l'amore della sua vita.» Dovette di nuovo ridere, quando notò l'espressione inorridita del volto di Tungdil. «Be'? Sono pazzo. L'ebbrezza per il combattimento e la preoccupazione per mio fratello mi rendono pazzo, lo hai già dimenticato?» Tornò serio in modo repentino. «No, Tungdil, ti capisco perfettamente. Io avrei subito sfidato Lamatagliente in duello, se fosse servito a qualcosa. Ma non serve a niente. Il caos danneggia il nostro popolo; da un delitto ne nasce un altro, e il sangue non smetterebbe più di scorrere.» Gli batté sulla coscia. «Testa alta, Sapientone. Ne troverai un'altra, che col suo caldo corpo e la sua dedizione scaccerà da te il ricordo di Balyndis.» «Mai.» «Tu devi», ribatté Boïndil con voce dura. «O questo male ti consumerà. So di che cosa parlo.» Offrì la pipa fumante a Tungdil, che la accettò ringraziandolo. Rimasero seduti l'uno di fronte all'altro, tacendo a lungo. La morte di Glaïmbar, sussurrò il malizioso demone interiore. Non c'è niente di meglio per te e Balyndis. Lei è infelice quanto te. Prendi sulle tue spalle il peso che portate entrambi e uccidi Glaïmbar non appena ti si presenta una buona occasione. «Hai già un piano?» «Che cosa?» Tungdil trasalì, sorpreso. «Ti ho chiesto se hai un piano. Abbiamo parlato del fatto che vorresti lasciare la guida dei Quinti a un altro. Come scopriremo chi vogliono?»
«Ah... Spiegherò loro la situazione come l'ho spiegata a te. Devono scegliere uno di loro», mormorò senza riflettere a lungo. «E...» Tacque, vedendo il Rabbioso saltare in piedi. I manici delle asce gli volarono tra le dita come muovendosi da soli. «I Monti Grigi sono il posto giusto per noi. Ci danno buona acqua. E Musi di porco», disse con gli occhi scintillanti, ammiccando a Tungdil. «Sento il loro odore!» Indicò alla sua destra. «Non sono lontani da noi. Il loro fetore viene dal corridoio.» Le rune scolpite dai Quinti sulle pareti delle gallerie annunciavano dove terminava quel corridoio: alla Porta di Pietra. La loro sosta terminò subito. In tutta fretta raccolsero i loro equipaggiamenti; i guerrieri si misero alla testa del gruppo, gli scalpellini si ritirarono sul fondo, a costituire la retroguardia coi loro pesanti martelli e gli attrezzi che, in caso di necessità, invece che la pietra avrebbero perforato carne e ossa. Corsero lungo il corridoio. Ormai sentivano tutti quell'odore rivoltante, capace di aumentare il loro odio per il nemico: il pungente sudore dei mezz'orchi mescolato al rancido grasso spalmato sulle loro logore armature. «Lo sapevo che sarebbero spuntati.» Boïndil trottava accanto a Tungdil. «La morte di Nôd'onn non li ha trattenuti a lungo dall'attraversare il passo. La Terra Nascosta è semplicemente troppo allettante. C'è da mangiare a palate.» Tungdil scorse a una certa distanza un bagliore chiaro: si annunciava la fine del corridoio. Presto sarebbero arrivati alle gigantesche porte di superficie e avrebbero visto, oltre quella meraviglia dell'architettura dei nani, un numero di nemici ancora imprecisato. «Ci gettiamo fuori e ci lanciamo su di loro», propose il Rabbioso pieno di desiderio, gettandosi la treccia nera dietro la spalla. «Non si aspettano che dei nani abitino i monti. La sorpresa li paralizzerà e abbatteremo i primi cento senza che si difendano.» «Controllati, Boïndil. Prima voglio vedere con chi abbiamo a che fare.» Tungdil si avvicinò all'uscita e sbirciò oltre l'angolo. Circa due dozzine di mezz'orchi stavano proprio accanto al portale spalancato e si consultavano tra loro. Sparsi per terra giacevano i resti rovinati dei cinque massicci chiavistelli che un tempo impedivano l'ingresso alla Terra Nascosta. Uno dei mezz'orchi indicava la scala che portava alle torri di sorveglianza. Sembravano non avere fretta; davano piuttosto l'impressione di esami-
nare la struttura del portale. Come se avesse sentito i pensieri di Tungdil, una delle bestie raggiunse grugnendo le immense cerniere e le tastò. Gli altri mezz'orchi cominciarono a salire la scala. «Allora?» borbottò il Rabbioso fregando le teste delle asce l'una contro l'altra. «Sono cento? Duecento? Quanti ne possiamo falciare?» Tungdil riferì il numero. «Cosa?» Boïndil guardò i nani che si trovavano immediatamente dietro di lui, facendo sentire la propria voce. «Che non vi venga in mente di alzare le asce contro di loro. Sono tutti miei! Voi cercatevene degli altri.» «Si comportano in modo strano», disse Tungdil mettendolo a parte delle sue supposizioni. «Devono essere esploratori. La loro orda li avrà mandati avanti per trovare un modo in cui distruggere la porta una volta per tutte.» Il Rabbioso non riuscì più a contenersi. «Questo sappiamo bene come impedirlo!» Scattò in avanti puntando direttamente sul gruppo che si accingeva a salire i gradini, e ne ammazzò tre con colpi potenti prima che gli altri capissero che cosa si era inaspettatamente abbattuto su di loro. Tungdil lo seguì imprecando, raggiunse la scala e si fermò. Boïndil non aveva bisogno del suo aiuto: i mostri rotolavano morti l'uno dopo l'altro giù dagli scalini, a breve distanza, e si ammucchiavano ai piedi della scala. Gli altri nani capirono che il Rabbioso stava ammazzando le bestie senza bisogno del minimo aiuto da parte loro. Per i mezz'orchi, che avevano una corporatura massiccia, non c'era nessuna possibilità di resistere alla furia del guerriero nella stretta tromba delle scale. Mettendo un piede davanti all'altro, Boïndil saliva facendosi strada tra i corpi dei nemici, le cui lunghe spade e clave non erano adatte a difenderli in uno spazio così ristretto. «Noi lo seguiamo. Quattro di voi catturino il mezz'orco che sta vicino al portale. Lo voglio vivo», ordinò Tungdil agli altri. Non si aspettava che nessuno dei mezz'orchi scampasse alle asce del Rabbioso e voleva che almeno un esemplare venisse consegnato a lui, in modo che lo potesse interrogare. Salirono lungo la tromba delle scale e arrancarono tra i cadaveri, facendo attenzione a non scivolare sul loro sangue verde e a non venire trascinati dai cadaveri che rotolavano in rapida successione. Improvvisamente un artiglio si strinse intorno alla caviglia destra di Tungdil. Uno dei presunti morti allungò la mano verso di lui, ringhiando. Con presenza di spirito, il nano gli piantò l'ascia nella spalla. La bestia grugnì e gli strattonò la gamba; Tungdil cadde all'indietro, tra
le braccia del nano che lo seguiva, e visto che il mezz'orco ferito non mollava la presa intorno al manico della sua ascia, lo trascinò con sé. Il nano fissò stupefatto le ferite del nemico. Dovrebbe essere morto da un pezzo. Con fatica estrasse la lama dall'articolazione del mezz'orco, che si stava alzando, gli diede un calcio sul ginocchio, per fargli perdere l'equilibrio, e gli colpì con la Lama di Fuoco il lato del collo, con tutta la forza che era possibile imprimere in quello spazio angusto. Il cranio mozzato saltellò giù per la scala, il corpo si rovesciò sullo scalino e rimase immobile. «Tenace, il bastardo», commentò il nano che aveva sorretto Tungdil, fissando il cadavere. Un brutto presentimento assalì Tungdil. «Silenzio!» A giudicare dai rumori che risalivano dall'imboccatura della scala d'accesso alla torre, si stavano rialzando anche gli altri nemici battuti. «Indietro!» ordinò. «Non sono morti.» La Terra Estinta ha ancora potere nei Monti Grigi? si chiese quando si fu ripreso dallo spavento iniziale. Ricordava ancora molto bene che cosa si dovesse fare contro i morti viventi, se si voleva distruggerli per sempre. La decapitazione sembra funzionare sempre, a quanto pare. «Decapitateli!» gridò, mentre i mostri si rialzavano e attaccavano a mani nude o con pugnali estratti in fretta i nani in coda alla colonna. «Sono ancora posseduti dalla Terra Estinta!» Il combattimento ricominciò da capo, più faticoso e pericoloso che mai. Tungdil si affrettò a scendere dalla torre brandendo la Lama di Fuoco, che subito dispiegò tutta la sua potenza contro i morti viventi. Ma la lama luccicante e la scia luminosa tracciata dalla testa decorata dell'ascia non intimidivano i mezz'orchi, che attaccavano con impeto. I mostri non si lasciavano decapitare facilmente, già la grossa differenza di statura tra loro e i nani bastava a renderlo difficile. Inoltre combattevano come guerrieri apprezzabili, che intuivano subito l'errore dell'avversario e sapevano sfruttarlo. «Decapitateli!» gridava senza sosta Tungdil mentre si abbassava, con un colpo tagliava una gamba al mezz'orco successivo e con un secondo movimento gli fracassava il cranio. Si guardò intorno ansimante. Gli sembrava tutt'altro che una vittoria. Parecchi nani giacevano a terra feriti o morti, dopo che erano stati attaccati un'altra volta da un nemico che credevano ormai sconfitto. Quelli che non possedevano l'esperienza di combattimento dei veterani si difendevano colpendo i mezz'orchi in modo risoluto ma del tutto inutile.
Le bestie non morte non si curavano delle ferite e, se non perdevano proprio una mano o un braccio, continuavano ad attaccare con violenza come se nulla fosse successo. Dai volti dei nani più giovani scemò la risolutezza; il numero dei morti aumentava. «Dovete tagliargli la testa!» Tungdil si gettò sul nemico successivo, che stava strangolando un nano con un artiglio e cui non importava minimamente che il suo avambraccio venisse martoriato con un pugnale. Tre colpi della sibilante Lama di Fuoco, e la bestia cadde. Era molto faticoso costringere prima i mezz'orchi sulle ginocchia e poi trapassare loro il collo, ma Tungdil pareva essere simultaneamente in ogni angolo dell'orribile campo di battaglia. Infondeva nuova fiducia a chi stava vacillando e li preservava da una sconfitta contro quei mostri sostenuti da oscure forze. Sebbene fossero numericamente superiori, la vittoria costò ai nani venti feriti e quindici caduti. «Sulla torre!» ordinò Tungdil ai combattenti rimasti. A metà percorso serrarono le file con Boïndil, che stava abbattendo il suo ultimo nemico con due colpi simultanei e inarrestabili al basso ventre. Gemendo, il mezz'orco si accasciò; la sua spada rimbalzò tintinnando sulla scala e scivolò tra gli stivali dei nani. «Decapitarli, eh?»• Un altro colpo, e la testa ributtante volò via dal collo. Il Rabbioso si terse dal volto il sudore, il sangue e altri liquidi dall'odore disgustoso. «Mi è piaciuto», sospirò felice, pulendo le lame sui vestiti del mostro. «Per Vraccas, d'ora in avanti vorrei incontrarli solo in passaggi stretti come questo, così potrei essere sicuro che non me ne sfugga nessuno. Ma com'è possibile che la Terra Estinta li protegga? In ogni caso, li abbiamo battuti.» In silenzio calcolò il numero dei morti. «Ehi, me ne manca almeno uno», stabilì furibondo, con un bagliore folle negli occhi. «O ti sei sbagliato a contarli, Sapientone?» «Va' avanti, Boïndil», lo pregò Tungdil con urgenza. I mezz'orchi mutati lo inquietavano profondamente. «Chiacchiereremo quando saremo arrivati in cima alla torre.» Boïndil obbedì, e presto tutti i nani si raccolsero nell'altana fortificata, da cui vedevano perfettamente sia il sentiero che raggiungeva da nord la porta sia lo spiazzo che si allargava immediatamente dietro il portale. «Non c'è traccia di altri nemici da nessuna parte», annunciò Tungdil, sollevato. Finché i battenti di granito non fossero stati chiusi e i cinque chiavistelli non fossero stati rimessi al loro posto, non desiderava affatto
una battaglia contro le creature di Tion; ancora meno se erano dotate di un potere così nefasto. Aveva bisogno di sicurezza. La Terra Nascosta aveva bisogno di sicurezza. «Perché non muoiono?» domandò il Rabbioso. «La Terra Estinta si sarà ripresa così in fretta?» Forti grugniti animaleschi annunciarono loro che i quattro nani avevano catturato l'ultimo mezz'orco e lo stavano portando di sopra. «Chiediamolo a lui.» Tungdil non dovette aggiungere altro; Boïndil capì che non poteva farlo a pezzi seduta stante. «Portatelo qui», ordinò ai nani, e questi spinsero il prigioniero fino ai merli. Non avevano proceduto con delicatezza, la bestia sanguinava da più ferite, concentrate soprattutto sulle cosce e sul basso ventre. Un colpo di martello gli aveva fracassato il mento, delle zanne erano rimasti solo frammenti. Un normale mezz'orco sarebbe morto da tempo a causa di simili ferite. Gli occhi gialli, profondamente incassati nel cranio, guizzavano pieni di paura sul volto barbuto; il naso schiacciato fiutava da ogni parte, il petto si sollevava e si abbassava rapido, cosa che s'intuiva chiaramente dai movimenti della corazza coperta di grasso. «Che ci fate voi qui?» l'apostrofò Tungdil sollevando la Lama di Fuoco alla luce del sole, in modo che i diamanti sul taglio brillassero e il loro riverbero si proiettasse sul prigioniero. Il mezz'orco strillò. Avrebbe voluto indietreggiare, ma il parapetto glielo impediva. «Conosci questa arma?» gli disse nel dialetto dei mezz'orchi. Non era stato inutile vivere presso il saggio Lot-Ionan, sui cui libri vi era sempre molto da imparare. La paura del mezz'orco si tramutò in sorpresa. «Tu... tu mi capisci?» «Quanti di voi hanno attraversato il passo? E com'è possibile che non moriate? Come ha fatto la Terra Estinta a riprendersi la sua forza senza l'aiuto del demone?» Tungdil vibrò l'ascia e fermò il colpo solo a un soffio dal naso. «Parla!» «È l'Acqua Nera... il sangue della Terra Estinta. Ci ha...» Tacque. «Non posso dirlo.» Tungdil non aveva pensato che il mezz'orco si sarebbe spaventato di fronte alla Lama di Fuoco, e la cosa gli parve ben strana. Come fa a conoscerla? La notizia si è già diffusa nella loro patria? Circolano già descrizioni così precise? «Sai chi sono e quale potere tengo tra le mani? Allora devi essere stato a Giogonero. E che intendi dire con Acqua Nera?»
«No, non posso dirlo», grugnì il mezz'orco senza distogliere gli occhi dalla Lama. «Se vuoi vivere, dicci qual era il tuo incarico!» «No, Ushnotz mi...» Tacque. Il suo frenetico battere di palpebre lo tradì, e a Tungdil rimase abbastanza tempo per schivare il nemico e sottrarsi al suo attacco. Ma non aveva fatto i conti con l'ardente desiderio di sangue del Rabbioso, che si gettò con un urlo selvaggio sul mezz'orco e lo colpì al collo e al petto con le lame. Rantolando, la bestia crollò a terra e morì; una lama gli aveva trapassato la nuca. «Ben fatto, Boïndil», lo lodò Tungdil con voce piena di sarcasmo e riprovazione. «Non si alzerà più.» «Ti voleva attaccare», si difese il Rabbioso, ma sapeva bene di aver fatto un errore. «Ti ha rivelato qualcosa?» «Quando la tua ascia lo ha ucciso era sul punto di farlo.» Meditabondo, Tungdil osservò il corpo che si raffreddava. Il nome di Ushnotz risvegliava in lui dei ricordi, ma non riusciva ad associarlo a nessun avvenimento che calzasse. «Perquisiteli. Se portano addosso qualunque cosa da cui possiate stabilire che erano a Giogonero, riferitemelo immediatamente.» Si chinò e cominciò a rovistare i vestiti e il sacco del mezz'orco appena morto. Il Rabbioso, angustiato per l'atto precipitoso, rimase accanto a Tungdil e fece finta d'ispezionare i pendii delle montagne. «Se hai ragione tu, dovrebbero essere riusciti a passarci davanti in qualche modo», disse, sforzandosi di sembrare indifferente. «Non necessariamente. Potrebbero essere entrati molto prima di noi ed essersi persi nelle gallerie. Il fatto che io comprenda la loro lingua non significa affatto che loro sappiano interpretare le nostre rune.» Tungdil scosse il tascapane. «Poche provviste. O hanno posto il campo in una caverna e da lì hanno fatto la loro esplorazione, o ci hanno messo veramente tanto per raggiungere la Porta.» Gli occhi di Boïndil avevano finalmente perso il loro scintillio fanatico. Quell'equilibrio sarebbe durato per un po', prima che lo possedesse di nuovo l'impulso a gettarsi contro le creature del male in qualunque circostanza. Mentre esaminava i catenacci, il vento fresco gli passava sul volto asciugandogli il sangue sulla barba. «Li hanno troncati», disse esprimendo ad alta voce i suoi pensieri, e scoprì i graffi lasciati da colpi di scalpello sulla parte superiore dei battenti della porta. «Guarda un po'! Volevano demolire il portale, ma, quando
hanno notato che era troppo duro per i loro pietosi attrezzi, hanno staccato i perni dei catenacci.» «I nostri fabbri e scalpellini ripareranno il danno», lo tranquillizzò Tungdil, che non aveva ancora trovato nessun indizio utile sulla provenienza dei mezz'orchi. Le sue dite setacciavano strato per strato; tolse al mezz'orco perfino l'armatura per guardare cosa vi fosse sotto, sino a che scoprì nel risvolto del guanto uno strano pezzo di legno accuratamente limato. Vi era stato inciso in modo incompleto il simbolo di un principe; era nero, pesante e assomigliava più a carbone che a legno. Il Rabbioso si avvicinò con curiosità. «Legno morto. Sembrerebbe che venga dalla Foresta Disanimata del Gauragar.» A quel punto, a Tungdil cadde la benda dagli occhi. Ushnotz era uno dei tre principi dei mezz'orchi che lui aveva spiato da un albero, prima dell'attacco a Gutenauen. In realtà il principe e la sua masnada appartenevano al Toboribor, l'autoproclamato regno dei mezz'orchi nel mezzo dell'Idoslân, che si trovava a sud-est. Sono millecinquecento miglia. Perché mai dovrebbe mandare esploratori tanto a nord? E l'Acqua Nera proviene dal lago che abbiamo visto nella foresta? Condivise le sue riflessioni con Boïndil. «Se io fossi un codardo Muso di porco, se avessi perso la battaglia decisiva e sapessi che i miei nemici mi aspettano a casa oppure mi fanno la posta lungo la strada, non vorrei più tornare a casa. Quindi perché non attraversare il passo e tornare nella Terra dell'Aldilà?» disse Boïndil. Tungdil colse un nocciolo di verità nella spiegazione del guerriero. «Hai ragione. Tranne che su una cosa.» Si sollevò e si accostò alle sovrastrutture di legno su cui pioggia, vento, neve e sole avevano impresso le loro tracce. Le sue dita corsero sulla roccia piena di crepe, mentre i suoi occhi vagavano sulle leggendarie cime dei monti. «Non vogliono abbandonare il paese. Vogliono costruire un nuovo regno sui Monti Grigi.» «Cosa?» Il Rabbioso fremette. «Sulle nostre montagne?» Sputò sul mezz'orco morto. «Che Vraccas possa battere col suo martello incandescente la tua anima, se ne hai una, e tormentarla con le tenaglie, mostro!» Per Tungdil tutto aveva senso. Se Ushnotz avesse raggiunto prima di loro l'ingresso del regno dei Quinti e lo avesse riparato, sarebbe divenuto impossibile scacciarlo dalle gallerie. L'unico dubbio era che cosa intendesse farsene del portale della Porta di Pietra. Distruggerlo o serrarlo? Tungdil riteneva il principe dei mezz'orchi capace di esigere una specie
di pedaggio ai mostri che si avvicinavano dalla Terra dell'Aldilà. In tale modo avrebbe ottenuto senza muovere un dito tutto ciò di cui lui e la sua gente avevano bisogno per vivere. In base a quello che sapevano su Ushnotz e sulla Foresta Disanimata, bastava un piccolo salto logico per supporre che presto ai nani sui Monti Grigi sarebbe stata fatta una spiacevole visita. Devono essere fuggiti dalla foresta nel Gauragar. Quanti ne abbiamo contati? Non erano quattromila? Lo sguardo di Tungdil vagò sulle montagne, le forre e le valli e si attardò sulla Lingua di Drago. «Vi abbiamo riconquistate, e certo non vi consegneremo un'altra volta a coloro che portano la rovina sulla Terra Nascosta», giurò a bassa voce alle vette scoscese. «Il passo settentrionale è e rimane nelle nostre mani, anche se dovremo staccare dal collo quattromila teste.» Boïndil annuì. «Dici il vero, Sapientone. Maledetti Musi di porco! Se sono i mezz'orchi che abbiamo seguito nel Gauragar, ci sono nettamente superiori per numero. Una superiorità non impossibile da battere, ma sempre una superiorità.» «Per ucciderli dobbiamo decapitarli, non dimenticarlo. Questo ce lo rende quattro volte più faticoso. Hai visto quanti di noi sono morti o sono stati feriti.» Tacque per qualche istante. «Abbiamo assoluto bisogno di alleati. Non possiamo tornare dai Primi, ci vorrebbe troppo tempo.» «Gli elfi?» «No, sono impegnati a riconquistare il loro regno agli albi e a distruggere lo Dsôn Balsur. Di certo non possiamo contare su di loro.» Lo sguardo del Rabbioso si fissò sul sublime massiccio della Grande Lama. «Chi altri ci resta, allora?» Poi un'intuizione gli fece spalancare gli occhi. «Là! Là c'era qualcosa!» gridò uno dei nani, il cui sguardo stava sorvegliando il nord e la Porta di Pietra, verso cui si stava abbassando la bruma dei pendii circostanti, avvolgendola di una nebbia lattiginosa. «Ho visto un'ombra.» Tungdil strinse le labbra. Sarebbe stato un momento decisamente sfavorevole per contrastare un attacco da parte di un esercito di bestie. Coi pochi soldati illesi che aveva, non avrebbe tenuto a lungo il passaggio. Un grido riecheggiò su una parete delle montagne. «State in silenzio e ascoltate», ordinò Tungdil. I nani vagliarono con attenzione l'ordito di nebbia che s'ispessiva; i loro
volti erano tesi. Il Rabbioso teneva una ciocca della sua barba intrecciata all'angolo della bocca e se la masticava, gli occhi fissi sulla nube. La foschia, che sembrava viva, si avvicinò strisciando lentamente, lambì i battenti della porta, si accertò che non si chiudessero e li superò. Tungdil tirò il fiato. «Niente.» Boïndil abbassò le braccia deluso. «Sarebbe stato troppo bello...» Sentirono in lontananza un'armatura tintinnare piano, protetta dalla nebbia. Il loro disagio ritornò all'istante. «Questo è il suono del cattivo ferro dei Musi di porco», commentò il Rabbioso, e si rivolse ai nani che avevano portato il prigioniero ai merli. «Ve ne è forse sfuggito un altro?» Quelli si guardarono perplessi. «Non penso.» Il nano che aveva parlato sembrava incerto. «Ma non ne sei sicuro.» Tungdil aveva visto i pezzi di detriti che occupavano i lati del sentiero che conduceva alla porta. Erano abbastanza grandi da nascondere un mezz'orco adulto. «Che succederà se ce n'è sfuggito uno?» Non era affatto una bella prospettiva. «Andiamo a controllare.» «Lo intercettiamo prima che incontri le bestie della Terra dell'Aldilà e gli racconti la situazione della Porta di Pietra», disse Boïndil. Sollevò le asce. «E se sono spie dei mezz'orchi del nord, devono morire più che mai.» La loro piccola comunità non poteva in nessun caso sostenere una guerra su due fronti; i mezz'orchi che arrivavano dal loro paese erano più che sufficienti. Tungdil fece un cenno di capo al suo amico e indicò altri tre nani che poco prima si erano battuti bene. «Voi venite con me. Gli altri facciano la guardia», ordinò prima di correre alle scale. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera «Oh, ignobile Nôd'onn! Io ti affronto!» Un uomo in pesante armatura saltò goffamente fuori della semioscurità della stanza e assunse una posa eroica di fronte alla figura paludata. L'elmo faceva risuonare la sua voce in modo sordo, come se parlasse in un secchio. «I popoli della Terra Nascosta non dovranno più soffrire sotto te e i tuoi mostri!» Sollevò un'ascia luccicante. «Ho il potere di distruggere te e il tuo demone! Muori!» Roteò l'arma intorno alla testa, e improvvisamente l'ascia descrisse dietro di sé una
brillante traccia di luce rossa. Si alzò un fumo denso. Con un urlo, Nôd'onn indietreggiò di fronte all'aggressore, che lo incalzava avvicinandosi a gambe rigide; l'armatura sferragliò forte, distruggendo il nimbo che avvolgeva l'eroe. Il mago puntò contro di lui il bastone, abbaglianti scintille gialle zampillarono contro il ferro della corazza. «Ah, ignobile Nôd'onn! La tua magia non ti servirà a nulla!» Barcollando, l'eroe proseguì il suo attacco e inferse un potente colpo contro il nemico. Nel punto in cui la lama penetrò il corpo vi fu uno scoppio potente; il lampo dell'esplosione accecò chiunque si trovasse nel raggio di dieci passi. Quando gli occhi poterono di nuovo vedere qualcosa, Nôd'onn era scomparso. La sua veste bruciacchiante giaceva per terra, l'eroe vi assestava delle pedate cercando di spegnere il fuoco. Solo quando ebbe soffocato le titubanti fiammelle, sollevò la testa. «Oh, bene. Voi siete stati testimoni, onorati spettatori, di come io...» - la manopola lottò senza successo con la chiusura della visiera - «l'Incredibile Rodario...» - il piccolo gancio di metallo stridette e si strappò - «tra tutte le maledette e dis...» L'eroe lasciò cadere l'ascia, che s'infilzò nel palco appena più in là del suo piede sinistro, e smanettò con entrambe le mani l'elmo finché non rinunciò e distese le braccia lungo i fianchi. Le articolazioni di ferro della corazza commentarono il movimento con un gemito da far drizzare i capelli. «Ah, a che serve? Dicevo: voi siete diventati testimoni di come io, l'Incredibile Rodario, ho salvato la Terra Nascosta insieme con Andôkai la Burrascosa e con un piccolo aiuto da parte dei nani. Accettate il mio ringraziamento per la vostra attenzione, adorati spettatori, ed elargitemi per questo abbondanti monete.» Si chinò profondamente, mise un piede su una tavola traballante, perse l'equilibrio e cadde a capofitto giù dal palco provvisorio del Curiosum. Tintinnando atterrò nella piccola fossa in cui, durante le rappresentazioni, musici e manovali davano il proprio contributo alla riuscita del pezzo sedendovi nascosti. Ridendo, Narmora e Furgas corsero in avanti per aiutare Rodario ad alzarsi. «Una prova riuscita», commentò la mezz'alba tirandolo su. «Liberatemi dall'elmo», gemette l'attore. «Soffoco.» Furgas, il magister technicus del Curiosum, osservò i giunti dell'elmo. «Non sarà facile. Li hai danneggiati.» Con difficoltà riuscì ad aprire la visiera, dietro la quale comparve il volto aristocratico di Rodario. Il suo
pizzetto aveva sofferto dell'indegna uscita: la collisione col metallo l'aveva arruffato in tutte le direzioni. «Ti ringrazio», ansimò l'attore. «Allora?» Si girò pieno di aspettativa verso Narmora e il suo compagno. «Come sono stato?» «Ti devi esercitare a muoverti in armatura, altrimenti gli uomini di Porista non crederanno a una sola parola dell'eminente eroe», osservò Narmora. «Ondeggi come una canna al vento.» Rodario storse le labbra. «Ma questo è il mio modo di confondere i nemici.» «Narmora ha ragione.» Furgas, che era avvolto dalla testa ai piedi in aderenti abiti neri, si passò una mano sui capelli e scosse via un po' della polvere esplosiva. «Lo scoppio è troppo forte; devo rielaborare un po' la miscela, se non vogliamo che i nostri spettatori tornino a casa ciechi.» Diede a Rodario una pacca sull'armatura. «Per il resto, promette molto bene. Ma... l'interprete di Andôkai deve proprio comparire così poco vestita?» «Sì. Quella donna corre su e giù per la scena quasi fosse una cortigiana. Non se ne dovrebbe fare una caricatura. E non pensi che la disturberà il fatto che voi due abbiate una relazione amorosa?» aggiunse Narmora. «Sai che ha promesso di far seguire la rappresentazione a Djerun.» Il suo sorriso divenne maligno. «Di sicuro ti ricordi di Djerun, la sua guardia del corpo alta tre passi, armata fino ai denti e forte come dieci uomini. E non dimentichiamoci della sua velocità inimmaginabile.» «Furgas, non so se hai notato, ma hai al tuo fianco un'odiosa Furia che ama divertirsi delle sofferenze altrui», disse l'attore facendo l'offeso. «A dire la verità, solo delle tue», replicò lei. «Tu sei l'unico responsabile del tuo dolore. Di persone che ti hanno messo in guardia ce ne sono state abbastanza.» Rodario strinse gli occhi marroni e le mandò uno sguardo sprezzante. «È una licenza artistica, mia cara. Di fronte a essa deve piegarsi perfino Andôkai la Burrascosa, grande maga, eccetera eccetera.» Quindi si voltò verso Furgas. «Salva la reputazione della vostra piccola, incipiente famiglia e liberami da questa galera di ferro.» Provò ad agitare le braccia corazzate e riuscì a sollevare le mani all'altezza della vita. «Trovo inconcepibile che ci siano esseri umani capaci di combattere in simili strutture.» «Solo nei casi più rari si gettano da palchi alti due passi e mezzo», ribatté Furgas. «Aspetta qui, devo prendere degli attrezzi. Sei riuscito a piegare fibbie e fermi.»
Narmora lo accompagnò nella piccola officina in cui lui concepiva e costruiva i complicati congegni che usavano durante le rappresentazioni e mescolava polveri colorate per ottenere fuochi multicolore, una vampata o un finto incantesimo. La sua ricompensa era l'incredulo stupore degli spettatori. A colpo sicuro, Furgas raccolse martello, piccole tenaglie e scalpello, mentre Narmora osservava i progetti delle sue più recenti invenzioni. «Una gru mobile?» chiese la mezz'alba, sbalordita. Lui annuì raggiante. «Ero stufo di doverla montare e rimontare. In questo modo risparmiamo tempo e possiamo usarla ovunque ce ne sia bisogno. Se qui in teatro funziona, Porista risorgerà presto più bella che mai.» Narmora lo baciò con passione. «Nostro figlio crescerà in una città costruita da suo padre. Mi rendi così felice!» «È stata una decisione saggia quella di accettare la richiesta di Andôkai e aiutare gli uomini a ricostruire la città da capo.» Furgas la strinse con attenzione tra le braccia, per non premerle troppo sulla pancia. «Devi sapere che la maga deve a te il fatto che io sono qui e non a Mifurdania, come avrebbe voluto il miglior attore della Terra Nascosta.» «Ah, sì? C'è un nuovo acquisto nella squadra?» Narmora gli accarezzò i corti capelli neri. «Io sapevo che il tuo talento era sprecato in un teatro. Qui hai l'occasione di sfruttare al meglio la tua ingegnosità.» «Ho sentito», gridò Rodario in sottofondo. «Ho sentito tutto, strega dalla lingua tagliente. Lascia stare quell'uomo, in modo che mi possa liberare da questa veste di ferro.» Furgas rise e le accarezzò il viso. «Entrambe le cose mi divertono. Ma Andôkai paga meglio del mio compare.» Sfiorò le labbra di lei con le sue. «Su, vai a casa. Ti seguirò non appena avrò liberato il salvatore della Terra Nascosta.» Narmora si staccò da lui, raggiunse la porta sul retro e indugiò un attimo mentre tirava indietro il chiavistello. L'osservò mentre prendeva gli attrezzi e si prendeva cura dell'amico. Non era mai stata così sicura di voler stare con un uomo: non l'avrebbe lasciato neanche per tutto il potere e tutto l'oro che Andôkai le avesse potuto offrire. Può darsi che io abbia in me i talenti di una maga. Ma dovranno stare dove sono; io non ho bisogno di loro. I suoi occhi caddero per caso sull'angolo di un foglio che apparentemente l'uomo aveva nascosto. Curiosa, lo tirò fuori e represse un moto di stupore. Erano disegni di una culla di straordinaria bellezza. È ciò che più
amo al mondo. Commossa, sgusciò fuori. Furgas raggiunse l'attore imprigionato, posizionò lo scalpello e fece leva sulle piastre di ferro incastrate. «Sono sicuro che cadendo da cavallo nessun guerriero sarebbe riuscito a deformare la sua armatura quanto hai fatto tu», lo lodò con sarcasmo. «Tutto ciò che io faccio è di particolare eccellenza», replicò Rodario, disinvolto. Stridendo, i pezzi di metallo si separarono. Furgas impiegò le tenaglie per raddrizzare le fibbie piegate. «Sono felice che tu ti sia lasciato convincere.» «Be', mi rimaneva forse altra scelta? Che sarei senza di te, mio brillante magister technicus, autore degli incantevoli spettacoli pirotecnici che fanno spalancare le bocche e rendono lieti i volti degli spettatori, ai quali soltanto così il denaro vola fuori delle tasche?» Rodario si accorse di stare involontariamente perorando un aumento di stipendio per l'amico e proseguì rapido. «Ma, ahimè, la povera gente di Porista non possiede grosse ricchezze, e noi, che non riceviamo da una maga un compenso aggiuntivo, dobbiamo esercitare la professione in modestia e povertà.» Furgas continuò a lavorare, sorridendo. «Ma in futuro, quando Porista rifiorirà a nuovo splendore in quanto capitale dell'unico regno incantato rimasto, tu sarai il proprietario del più eccezionale teatro della Terra Nascosta. Hai ricevuto la casa in omaggio da Andôkai, non dimenticarlo.» Le ganasce della tenaglia lottarono contro il ferro e lo sospinsero di nuovo nella sua posizione originale; le abili dita di Furgas lasciarono la presa e la corazza cadde a terra. «Fatto!» «Mio carissimo amico, ancora una volta hai fatto uno splendido lavoro!» L'attore si strappò l'elmo dalla testa, si scosse di dosso i bracciali dell'armatura e si aggiustò la barbetta scompigliata. «Lì dentro faceva sempre più caldo. Io non potrei mai essere un guerriero, e ringrazio gli dei che mi hanno assegnato un dono che mi porta ricchezza e donne.» «Con Andôkai la tua divina benedizione ha fallito.» Furgas raccolse gli strumenti e li riportò nell'officina, mentre Rodario raccoglieva i pezzi dell'armatura e lo seguiva. «Tremenda pena e grande dolore. Le parole tue... feriscono il mio sensibile cuore.» L'attore indicò il pavimento; la sua voce si riempì di angoscia. «Guarda, lì giace, ancora una volta nei vecchi cocci che, dopo il mio sventurato amore, raccolsi e con premura rimisi insieme.» Puntò un braccio accusatorio contro Furgas. «Oh, crudele compare...»
«Rodario, le prove sono finite!» gli ricordò il magister technicus mentre rimetteva a posto scalpello, martello e tenaglie. «Posa i pezzi sul banco di lavoro. Domattina li controllerò ancora una volta.» Il profondamente angosciato Rodario ridivenne all'istante un uomo allegro; traballando raggiunse il tavolo e ci sbatté sopra l'armatura. «Mio prezioso amico, l'arte dello spettacolo dev'essere provata sempre e ovunque, affinché rimanga agile e le parole sgorghino come l'acqua zampilla da una sorgente.» «Falla gorgogliare in locanda, affinché le donne sole e le loro figlie ti adorino.» Furgas spense le lampade, tranne una; chiuse l'uscita posteriore e spinse l'amico nello spazio di rappresentazione. «Tieni un po' a freno il piccolo Rodario, in modo che non si debba avere a che fare con troppi mariti, fidanzati, fratelli e padri furiosi. A Grossbrückstein e Königstein dovresti aver imparato...» Con un gesto signorile, Rodario sollevò la mano per fermarlo. «Oh, per favore. Non rubo ogni fiore che incontro sul mio cammino.» Girò sui tacchi, afferrò il suo mantello e se lo gettò con gesto teatrale sulle spalle. «Ma se vengono spontaneamente a me dischiudendo i loro petali, chi me lo può impedire?» Lasciarono insieme il Curiosum, che stava a quattrocento passi dal palazzo e nei pressi del mercato maggiore della città. Furgas assicurò l'ingresso con un lucchetto, poi porse la mano all'attore. «Buonanotte, vecchio rubacuori. Un giorno il tuo piccolo Rodario penzolerà in cima a un forcone o all'asta di una bandiera.» «E anche da morto umilierà gli uomini con la sua grandezza.» L'attore gli strizzò l'occhio con fare da mascalzone. «Mio fidato amico, abbi cura di te.» Indicò la lanterna di una locanda. «Vieni a farti un bicchiere di vino con me? Mi potresti invitare, costruttore della nuova Porista.» Ricevette un rifiuto. «Va bene, allora andrò in cerca dei fiori della città e mi rallegrerò un po' della loro vista.» Sollevò una mano, tenendo l'altra sul cuore. «Lo giuro: solo della vista.» Furgas annuì, sornione, e s'incamminò lungo il vicolo che imboccava sempre per raggiungere casa sua. Lui e Narmora si erano sistemati in un edificio abbandonato, sulla piazza del mercato maggiore, da dove, poteva raggiungere rapidamente i numerosi cantieri della città. La costruzione spettava a quelli che erano del mestiere; a lui toccava il compito di renderla il più veloce possibile. Andôkai portava il soprannome di «Burrascosa», e non di «Paziente», e si aspettava una veloce ricostruzione.
Furgas intuiva un tornaconto dietro gli sforzi della maga. Una città intatta significava più persone, e ciò a sua volta aumentava le probabilità d'imbattersi in aspiranti studenti di magia proprio davanti alla porta di casa, invece di essere costretti ad avviare una dispendiosa ricerca per tutta la Terra Nascosta. Improvvisamente un pugnale scintillò. Una figura nera balzò fuori delle macerie. «Fuori i soldi!» intimò, aspro. Terra Nascosta, Monti Grigi, ai confini del regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera Insieme coi suoi quattro amici, Tungdil corse sulle scale per mettersi all'inseguimento del mezz'orco. Aveva fatto circa metà degli scalini, quando la nebbia gli sciabordò addosso come fosse acqua; appesantiva le sue gambe, umida e fredda, e, senza sapere il perché, il nano esitò a immergervisi del tutto. È solo vapore, si disse. Per dare il buon esempio, si costrinse ad avanzare, anche se tutto dentro di lui si opponeva. Forse era il ricordo del male puro che a Giogonero aveva visto, combattuto e vinto in forma di una nebbia d'argento. È solo vapore. Raggiunsero i piedi della torre, girarono a sinistra e si affrettarono in direzione del sentiero settentrionale, mentre la visibilità peggiorava a ogni passo. Tungdil non era l'unico a sentirsi male, come vide sui volti di chi lo accompagnava. Sulle barbe e sulle trecce, come pure sul metallo delle cotte, si formavano innumerevoli gocce d'acqua, e l'umidità rendeva difficile respirare. Il disagio aumentava e li circondava come un alito malvagio. «Una lavanderia non è nulla in confronto», brontolò il Rabbioso. «Sembra che la nebbia aiuti il Muso di porco.» Davanti a loro risuonò il noto tintinnio. «Ah!» Boïndil sollevò le asce. «È nostro.» Ma s'ingannava. Aumentarono la velocità per raggiungere il nemico che stavano inseguendo, ma questi, a parte i rumori emessi dalla sua armatura, rimaneva nascosto. La nebbia non attutiva solo i rumori, confondeva anche il senso del tempo. Tungdil non avrebbe più saputo dire da quanto stavano correndo lungo il sentiero; anche l'innata capacità dei nani di orientarsi nelle montagne,
nelle caverne e sottoterra lo aveva piantato in asso. I suoi occhi coglievano solo che era diventato più scuro. E che lo diventava sempre di più. «Fermi», ordinò. Gli stivali intorno a lui si fermarono scalpicciando, ma non riusciva a vedere nessuno dei suoi compagni. «Lo sentite ancora?» Nessuno gli rispose. I capelli di Tungdil gli si rizzarono sulla nuca. Il nano strinse l'ascia tra le mani, pronto a lottare. «Boïndil?» Tlin, tlin, tlin. All'improvviso un'ombra emerse dalla grigia nebbia. Era il mezz'orco che avevano inseguito! Lo stava assalendo con una spada a due mani. «Almeno c'è qualcuno che mi sente» disse il nano con macabra ironia, evitò l'attacco e sferrò un colpo contro il nemico che lo superava barcollando. La lama incontrò qualcosa; il mezz'orco grugnì e scomparve di nuovo nella nebbia. «Non sarà un bel combattimento», mormorò Tungdil. Rinunciò a chiamare i suoi amici, per non mostrare alla bestia la sua posizione. Prima voleva sentire di nuovo la sicura roccia dietro le spalle. Si mosse in avanti; le punte dei suoi stivali saggiarono senza incontrare una parete. Ovunque si trovasse, non era sulla via che, percorsa a ritroso, l'avrebbe riportato alla Terra Nascosta. Tlin, tlin, tlin. Il mezz'orco arrivò da sinistra. Tungdil percepì tempestivamente l'ombra e il rumore, si girò una volta sul proprio asse e si abbassò su un ginocchio, colpendo così in pieno slancio. La lama dell'ascia separò di netto la parte superiore e quella inferiore della gamba, all'altezza del ginocchio; la bestia cadde in avanti urlando e lasciò cadere lo spadone. «L'immortalità non serve a niente, se si perde una gamba», ringhiò il nano con cattiveria, e attaccò di nuovo. Il mezz'orco si schiacciò a terra e rotolò di lato. Tungdil colpì la pietra al posto del collo. Il mostro strillò, allungando le mani verso lo spadone che aveva perduto. Il nano non si permise nessun tentennamento. Doveva ridurre in fretta il suo nemico al silenzio, prima che richiamasse l'attenzione di altre bestie che stessero vagando nei dintorni. La mano dalla pelle verde aveva già raggiunto l'elsa della spada, quando Tungdil abbatté la sua arma contro la testa del mezz'orco con tanta furia che tra scricchiolii e schianti scavò elmo e cranio fino al collo.
Il mostro smise di muoversi. Il nano mise il suo stivale destro sull'armatura del mezz'orco ed estrasse con uno strattone l'ascia dal collo; poi si mise a fianco del corpo, che si contorceva, e lo decapitò. Non era sicuro che anche un cranio spaccato in verticale comportasse la fine di un morto vivente. Ansimando, Tungdil si appoggiò al manico dell'ascia grondante di sangue e si mise in ascolto. Ancora niente? Non credeva più che il Rabbioso e gli altri tre semplicemente non lo vedessero. I lamenti del mezz'orco avrebbero attirato Boïndil come un diamante falso attirava un coboldo. Un posto maledetto. Andò dritto finché non urtò contro una parete. Il granito era freddo e ruvido; i suoi angoli, sporgenti e taglienti, potevano squarciare la pelle di una persona che girovagasse senza fare attenzione. Ciò significava che le pareti non erano state lavorate e che sicuramente non si trovava più sulla via principale sgrossata dai nani. La nebbia lo aveva fatto perdere. Si trovava chissà dove; a giudicare dall'oscurità, in una caverna, e certo in una caverna immensa. I suoi nervi erano tesi come cavi da rimorchio, il silenzio lo rendeva nervoso. Le cortine di bruma turbinavano e lo ingannavano formando fantasmi di mezz'orchi indistinti e mostri senza nome. Che cosa so in realtà della Terra dell'Aldilà? rifletté febbricitante. Il suo padre adottivo, Lot-Ionan, non si era occupato molto delle strisce di terra che circondavano la Terra Nascosta. Anche ai nani importava poco dell'altro versante delle loro montagne. Tutto ciò che si sapeva derivava dai resoconti di spedizioni di scarso successo che risalivano a più di cento cicli addietro, e dai racconti di pochi commercianti. Tungdil non poteva non pensare che gli uomini associavano la parola «aldilà» alla morte. Circondato da una nebbia spessa e maligna, quella riflessione lo riempì di paura; la Fucina Eterna del dio Vraccas era un posto decisamente migliore in cui desiderare che finisse la propria anima. Decise di camminare di soppiatto lungo il margine della caverna, poiché in quel modo ne avrebbe inevitabilmente raggiunto un'uscita. Pose una mano con cautela sulla parete, per non perdere il contatto, tenendo l'altra stretta intorno all'ascia. Era molto preoccupato per il Rabbioso e gli altri tre nani. D'un tratto le sue dita toccarono un insolito incavo. Lo esaminò più da vicino.
Una runa! Il segno ricco di svolazzi gli era del tutto sconosciuto, ma la sua accuratezza suggeriva che fosse stato tracciato da un maestro in materia. Pur essendo stato scolpito in modo arzigogolato, non sembrava elfico. Si tratta forse di un segno dei Sotterranei di cui parlavano i documenti? Se fossero nani, proprio come noi? Improvvisamente sentì di nuovo il rumore. Tlin, tlin, tlin. Tungdil girò vorticosamente. È impossibile, l'ho decapitato. Provava una paura gelida che ne soffocava la curiosità. «Boïndil?» Tlin, tlin. Il rumore si stava palesemente avvicinando. Il nano indietreggiò, schiacciò la schiena contro la parete, guardò a destra e a sinistra. Inspirò l'aria fredda e umida in cerca di un odore, ma non avvertì nulla a parte la fredda roccia. Tlin. Risuonò un'ultima volta a uno o due braccia di distanza. Un sassolino scricchiolò, macinato sotto la suola di uno stivale. Tungdil immaginò di essere circondato da mezz'orchi che stavano intorno a lui con le armi levate, sentiva il fetore del sego. Deglutì, girò e rigirò la testa senza sosta per poter intuire i contorni dell'attacco imminente e reagire. Un'ombra penetrante si avventò su di lui. «Non mi avrete!» Tungdil si tuffò verso destra e colpì. L'ascia si scontrò con del metallo e rimase bloccata! «Attento, Sapientone!» gridò Boïndil apparendo nella nebbia. «Mi hai quasi colpito.» Tungdil, ottenebrato dalla paura, comprese che aveva diretto il suo attacco contro l'amico. Il Rabbioso era riuscito a intercettare e bloccare la lama con le due asce incrociate, in modo che l'amico non lo colpisse un'altra volta. «Perdonami», gemette Tungdil, sollevato di riavere almeno uno dei suoi accompagnatori. «Pensavo che fossi un mezz'orco. O qualcosa di peggio. Dove sono gli altri?» «Non ne ho la più pallida idea. Pensavo fossero con te!» «Non hai sentito urlare il mezz'orco?» «Un Muso di porco? E come avrei fatto a non sentirlo?» «L'ho decapitato, e...» Tlin. Tungdil spinse indietro l'amico, che venne istantaneamente inghiottito dalla nebbia. Un mezz'orco apparve, e la sua spada si abbassò direttamente tra i nani senza colpire nessuno dei due.
Subito dopo, un Boïndil urlante cacciò un'ascia nel ventre della bestia, e la sua seconda ascia separò la testa dal tronco. I resti del mezz'orco caddero a terra rumorosamente e rimasero immobili. «Quindi erano due.» Soddisfatto di avere ucciso anche lui un nemico, il Rabbioso ripulì le scuri sugli abiti del cadavere. Verde e viscoso, il sangue si attaccò al tessuto misero e consumato. «Cerchiamo i nostri?» propose Tungdil. Ispezionarono la caverna tenendo una mano a contatto con la parete; possedeva tre uscite, una delle quali portava con sé aria fresca. Quantomeno avevano scoperto la via per la Porta di Pietra. Ci volle molto prima che trovassero i loro amici. Due di loro erano morti, trucidati dai mezz'orchi. Con l'aiuto di Vraccas, il terzo era sopravvissuto a un colpo mortale, ma la fucina della sua vita si stava raffreddando. «Tre», mormorò il moribondo nell'orecchio di Tungdil. «Erano tre...» Boïndil divenne immediatamente vigile, ascoltando attentamente nella nebbia, che rifiutava ostinatamente di disperdersi. «Hai visto dov'è andato l'ultimo?» domandò Tungdil, benché sapesse che era decisamente troppo tardi per mettersi al suo inseguimento. Il mezz'orco si trovava di certo a una grande distanza, in marcia verso le bestie della Terra dell'Aldilà. Il nano ferito si contorse. «Io...» I suoi occhi persero il fuoco vitale, l'anima uscì dal corpo e volò nella Fucina Eterna. «Andiamo. Qui non possiamo fare più niente.» Tungdil s'issò il morto sulle spalle e lo assicurò con una cinghia di cuoio affinché non scivolasse. «E che facciamo con l'ultimo della banda?» Il Rabbioso non sembrava intenzionato ad arrendersi, ma un lungo sguardo dell'amico lo fece optare per la soluzione migliore; senza parlare, si legò alle spalle il secondo nano caduto. Il terzo lo trascinarono in due fuori della caverna. Piano piano, intorno a loro divenne più chiaro. Avevano lasciato la grotta, anche se Tungdil non avrebbe saputo dire in che momento ne fossero usciti. La nebbia si ritirò, mentre le stelle brillavano sopra di loro mostrando la strada. Alla fine videro il potente portale di pietra che custodiva l'ingresso alla Terra Nascosta e vi si diressero. Boïndil si voltò ancora una volta e scrollò le spalle, come per sbarazzarsi dall'angoscia della Terra dell'Aldilà. «Non mi meraviglia che solo poche spedizioni siano tornate indietro», commentò. «Non ci tornerei spontane-
amente per nulla al mondo.» Tungdil non poteva che essere d'accordo. *
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A parte le sentinelle, che svolgevano il loro servizio nei punti strategicamente importanti, tutti le nane e i nani che erano partiti con Tungdil erano affluiti nella grande sala che un tempo era servita da luogo d'assemblea ai Quinti, come rivelavano le iscrizioni sulle piastre d'argento alle pareti. Non tutte le iscrizioni avevano superato integre l'epoca dei mostri, soprattutto le più preziose avevano sofferto gravi danni a causa dell'avidità di bottino; parecchi pezzi erano stati staccati o rotti senza rispetto. La sala stessa testimoniava la grande ingegnosità dei Quinti. Cominciava con una base circolare che misurava venti passi di diametro. Le pareti s'innalzavano di un passo perpendicolarmente al pavimento e correvano poi ad angolo retto per circa quattro passi verso l'esterno, formando un ampio cornicione prima che le pareti si alzassero di nuovo ad angolo retto; in tal modo gli scalpellini di Giselbart Occhiodiferro avevano scolpito la montagna in cerchi che circondavano altri cerchi. La disposizione ricordava a Tungdil il teatro di Mifurdania, in cui aveva visto per la prima volta Narmora, Furgas e l'Incredibile Rodario. Ogni parola, per quanto venisse sussurrata piano, poteva essere percepita bene in ogni punto della sala. I pezzi di carbone fiammeggianti di rosso scuro, che bruciavano nei sostegni di ferro, procuravano una luce sufficiente. Tungdil era in piedi al centro, nel cerchio più basso; gli altri nani riempivano le gradinate. Sfruttò l'occasione per contarli, e arrivò a circa ottocento membri del suo popolo che lo avevano seguito spontaneamente; circa trecento erano nane. «Mi fa piacere vedervi tutti qui», li salutò, dopo che fu sopraggiunto il silenzio. «Abbiamo alcune cose da discutere.» Prima riferì loro le novità scoperte al passo settentrionale, che furono accolte con calma. I nani mettevano sempre in conto di dover combattere contro i mezz'orchi, fossero anche così tanti. «Vraccas mi è testimone, non ho mai fatto pressioni per essere il vostro capo», disse toccando il secondo punto di discussione. «Non sono mai stato eletto da voi e non mi posso più arrogare il diritto di rivestire questo incarico. Dal momento che arrivano tempi burrascosi, questa questione dev'essere chiarita, in modo che il nemico non possa trarre vantaggio da
eventuali controversie tra le nostre file.» Cercò di mandare giù il nodo che aveva in gola. «Sono un Terzo, come voi tutti sapete. Di recente mi è stato rinfacciato molto chiaramente. Come sempre, ci sono perplessità su quanto concerne la mia fedeltà al popolo dei nani. E finché queste riserve non si disperderanno, non sarò nient'altro che un guerriero come gli altri.» Tungdil levò l'ascia e girò sul posto. «Uno di voi dev'essere dichiarato re del regno dei Quinti. Io non posso esserlo.» Abbassò il braccio e si fece vistosamente da parte, a simboleggiare la sua rinuncia. Le nane e i nani si consultarono. L'eco delle loro profonde voci generò nella sala un rombo continuo, un segno di vita nei prima deserti Monti Grigi. Tungdil riteneva la sua argomentazione sufficiente. Quando aveva menzionato la sua origine, aveva creduto di scorgere su alcuni volti un sollievo mal dissimulato e un aperto accordo con la sua decisione. Ringraziò Vraccas di averglielo fatto capire per tempo. Una nana bruna si alzò e colpì il pavimento col suo martello. Il rumore enorme fece ammutolire le conversazioni. «Io sono Kyriss Finemano, del clan dei Buonaforgia, della stirpe dei Primi. Anche se avrei continuato a seguirti, Tungdil Manodoro, comprendo la tua decisione. Ciò nondimeno avremo ancora bisogno di te e della tua saggezza.» Abbassò il martello davanti a lui, dimostrando così la sua stima. «Quindi è venuto il momento di nominare uno che sia apprezzato e capace affinché guidi noi tutti», proseguì. «Io propongo Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, della stirpe dei Primi.» Mentre la nana intonava un inno di lode sulle imprese dell'affermato guerriero, il mondo intorno a Tungdil sfumò; una nebbia lattiginosa gli offuscò la vista, il suo corpo divenne di ghiaccio, mentre dentro di lui l'odio per quel nano si riaccendeva. Vraccas, ti supplico, fa' che ne trovino un altro. Tuttavia i volti che scorgeva indistinti attraverso i suoi occhi velati sembravano tutti soddisfatti della proposta. A quanto pareva, nel poco tempo trascorso nel regno dei Quinti il futuro consorte della sua amata Balyndis si era già fatto una reputazione presso le altre stirpi e gli altri clan. Una buona reputazione, senza macchia. Pazzo, gli sussurrò il demone nell'orecchio. Se fossi rimasto il loro capo, lo avresti potuto spedire con un pretesto nei posti più lontani dei Monti Grigi o perfino da solo contro i mezz'orchi. Ora ti sei tolto la sola possibilità di riavere Balyndis al tuo fianco. Ti resta una sola alternativa. Lo devi
uccidere tu. Gettalo in qualche burrone, fa rotolare un masso su di lui, portalo nella Terra dell'Aldilà, cacciagli in testa un'ascia da mezz'orchi e da' la colpa a loro... Tungdil si concentrò con fermezza sul volto del suo amico Rabbioso. La voce perfida divenne sempre più bassa, alla fine non la sentì più, ma l'odio rimase nel suo cuore. Uno sguardo al prestante Glaïmbar Lamatagliente bastò a fargli divampare il viso. Tutto d'un tratto comprese la sofferenza di Boïndil e il suo impulso quasi incontrollabile a fare a pezzi qualcuno. Si richiamò all'ordine, rendendosi conto che gli occhi degli altri si erano puntati su di lui. «Avete sentito che cosa parla a favore di Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, della stirpe di Borengar», gridò con un tremito nella voce. «Ci sono altri candidati?» Nessuno levò la sua arma. «Nessuno?» ripeté ancora la domanda, quasi scagliandola come un'accusa su di loro. Poi inghiottì tutta la sua amarezza. «Allora ti chiedo, Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, della stirpe dei Primi, ti rimetterai al voto dell'assemblea e guiderai i Quinti?» Che Glaïmbar si alzasse e pronunciasse un solenne «sì», che scendesse i gradini e si mettesse al suo fianco, che la maggioranza delle nane e dei nani esultassero e che alla fine fossero contenti della scelta... tutto ciò, Tungdil non lo percepì quasi più. Vedeva solo la sua irraggiungibile Balyndis. Distolse lo sguardo da lei prima che tutti s'inchinassero davanti a Glaïmbar e che alzassero asce, mazze, scuri e martelli verso di lui. «La nuova stirpe dei Quinti ti ha scelto, Glaïmbar», disse, senza rivolgere la testa verso di lui. «Che Vraccas ti guidi nelle tue scelte.» Con tali parole uscì in fretta dalla sala, negandogli un omaggio che testimoniasse il suo riconoscimento e il suo rispetto verso di lui. Glaïmbar non lo avrebbe mai ricevuto, non in quella vita. Per ritornare lucido camminò per i corridoi, superando le sale puntellate e i numerosi cantieri ai quali erano soliti lavorare gli scalpellini dei Secondi. I suoi piedi lo portarono all'uscita sud, tra le rovine dei bastioni smantellati dai mezz'orchi. Profondamente turbato, rimase in piedi tra le macerie, col volto puntato verso le stelle. Lacrime di rabbia e di disperazione gli scorrevano sulle guance e gocciolavano attraverso la barba sull'armatura. «Smettila, o si arrugginirà. L'acqua salata non va bene per il ferro, Sapientone. Tu dovresti saperlo.» Tungdil dovette sorridere. «Ti hanno mandato per convincermi a partecipare al banchetto?»
«Nemmeno Vraccas ci riuscirebbe, perché mai dovrei farcela io?» Il Rabbioso guardò brevemente le stelle. «Brillano in modo grazioso, glielo devo concedere. Ma non sono niente in confronto ai diamanti che si estraggono dalla nera roccia. Torna dentro con me. Dobbiamo discutere il nostro piano, il re lo trova buono.» «Ah, non puoi tenere la bocca chiusa?» Guardò il guerriero. «So perché lo hai fatto. Tu vuoi partire subito e speri che strada facendo incontriamo Ushnotz e i suoi mezz'orchi.» Boïndil si toccò i lati del cranio perfettamente rasati, poi la barba. «È così facile leggermi dentro?» chiese sorridendo. «Vieni, festeggiamo insieme con mio fratello nella fucina, se ti sta bene. Neanche io ho voglia di cantare in coro. Gli puoi raccontare che cosa abbiamo in mente. Forse il suo sangue gelato si scioglierà e lo rimetterà di nuovo sulle gambe.» Insieme imboccarono il passaggio che conduceva al fuoco bianco della fucina di Vapordrago, davanti alla quale avevano sistemato un letto per Boëndal. Tungdil si sedette accanto a lui e parlò al nano malato come se fosse cosciente. Ma la speranza che le palpebre di Boëndal si spalancassero, meravigliate da quelle novità, quella sera non si realizzò. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera Il volto del rapinatore che minacciava Furgas era nascosto sotto una maschera, ma la voce lo tradiva. Furgas si fermò e puntò le mani sui fianchi. «Rodario, lascia perdere questa idiozia! Se le guardie di Andôkai...» «La borsa!» ordinò lo sconosciuto sventagliando l'arma. «Adesso!» «Ma che succede, nessun 'Oh' e nessuna rima? Quale ruolo stai provando?» Gli si avvicinò. «Metti via quel pugnale, prima che qualcuno ci veda e si metta in testa di aiutarmi.» Il rapinatore non si mosse, agitò invece minaccioso la sua arma. Furgas divenne incerto. Dal momento che voleva conoscere il figlio non ancora nato, decise di non lasciarsi coinvolgere in una colluttazione; prese la borsa del denaro dalla cintura e la gettò verso l'uomo. «Perché non lo hai fatto subito?» brontolò l'altro e si chinò come per raccogliere il suo bottino. Invece sollevò di colpo il braccio e rise forte,
strappandosi la maschera dal volto. «Ah! Ci sei cascato, mio ottimo amico!» esultò il presunto rapinatore, che si rivelò essere Rodario. «Io un cattivo attore? Neanche per sogno!» «L'ho capito subito che eri tu», replicò Furgas. Raccolse la borsa. «E che cosa significa tutto ciò?» Rodario si mise in posa, esibendo la sua superiorità e la sua più piena soddisfazione. «Una piccola vendetta. Per le maldicenze che vi siete sussurrati voi due piccioncini nell'officina, mentre io pativo nella mia prigione di metallo, costretto a sentire ogni vostra parola. In realtà avrei voluto aggredire Narmora, perché la sua lingua tagliente...» «Grazie agli dei non lo hai fatto. Altrimenti mi sarei dovuto cercare un nuovo capocomico.» Furgas gli picchiettò sulla fronte e gli prese il pugnale. «Hai intelligenza da vendere, perché ogni tanto la nascondi?» «Le vostre borse» risuonò un ordine dalle rovine. «Subito!» «La rappresentazione continua?» chiese Furgas al suo compare. Rodario alzò le mani, il volto bianco come un lenzuolo. «No, non è roba mia. Dev'essere uno vero.» Si voltarono e si trovarono di fronte a un uomo mascherato, che puntava contro di loro un coltello. La mano che impugnava l'arma guizzò in avanti. Con presenza di spirito, Furgas evitò la lama sottile e colpì l'aggressore alla spalla col pugnale di Rodario. Ma la lama scivolò all'interno dell'impugnatura e ne scattò fuori di nuovo con un debole clic quando il rapinatore tirò indietro il braccio. Il borseggiatore e Furgas si guardarono stupefatti. «È un pugnale di scena!» gridò Rodario. «Non ti avrei mai aggredito con uno vero.» Ridendo, l'avversario balzò su Furgas. Questi non poté fare altro che evitare il coltello con agili schivate; poi si accorse che la lama era imbevuta in un liquido giallo sgargiante. Veleno, senza dubbio. «Arrivo, amico mio!» L'attore raccolse da terra un pezzo di legno e fece per precipitarsi in aiuto dell'amico, quando un secondo uomo uscì dalle rovine e lo stese con un randello. Rodario cadde a terra con un gemito, lottando contro lo stordimento. «Questo è stato... veramente subdolo...» «Sei tu Furgas?» gli chiese l'aggressore. La voce risuonò forte nella testa ferita dell'attore. A fatica, Rodano aprì le palpebre e vide davanti a sé una spada corta dal colorito giallognolo. «No, lascialo perdere», gridò il primo rapinatore. «È questo qui.» «Non gli credere. Sono io...» Rodario distese le dita; cercò nonostante lo
stordimento di afferrare l'aggressore, ma la mancanza di forze glielo impedì. Al contrario, ricevette un calcio sulla fronte e perse completamente i sensi. Furgas era con le spalle al muro e osservava il più basso dei suoi aggressori. «Che volete da me?» «I tuoi soldi, sbrigati!» gli soffiò contro quello mascherato, mentre il compare si metteva al suo fianco. Furgas armeggiò alla cintura per la seconda volta in quella tarda serata e ne trasse il borsello, che gettò davanti ai piedi dei rapinatori. «Contenti? Non ho altro.» L'aggressore armato di coltello raccolse la borsa e la soppesò. «Niente male. Sì, penso che siamo contenti.» Voleva ancora dire qualcosa, quando un'ombra imponente cadde su entrambi. Sollevarono la testa e videro, stagliati contro la luce lunare, gli scuri contorni dell'armatura di Djerun. La guardia del corpo della maga stava accovacciato e pronto al balzo su quello che rimaneva di un alto muro, con la mano sinistra che brandiva una spada lunga due passi. Dietro la lucida faccia da demone ardeva debolmente qualcosa di rosso porpora; il bagliore crebbe accompagnato da un basso rombo. «Per... Palandiell!» balbettò il rapinatore più basso barcollando all'indietro, incapace di distogliere gli occhi spalancati dalla sinistra minaccia. «Via! Ci farà...» Djerun prese slancio e si stagliò sul cielo nero. In quel momento il secondo rapinatore scagliò la sua spada corta contro lo sbalordito Furgas. Mentre la lama colpiva il magister technicus proprio nel ventre e perforava la carne vulnerabile e le delicate interiora, il rapinatore fu tagliato in due metà che caddero grondando sangue sulle strade di Porista. Djerun era saltato oltre di lui e con la sua spada lo aveva tagliato in due per lunghezza. La stessa arma fu scagliata immediatamente contro l'altro rapinatore, e lo colpì alle spalle. Poco sopra il bacino, la lama attraversò tutto quello che in un corpo umano non corazzato poteva fare resistenza e uscì dal davanti. La violenza del colpo non era bastata a separare del tutto la parte superiore e quella inferiore del corpo, una sottile striscia di carne sul fianco sinistro le teneva ancora insieme. Urlando l'uomo finì a terra e si riversò in una pozzanghera rossa, in cui si sparpagliarono i suoi intestini. Poco dopo tacque.
Djerun gli passò accanto senza prestargli attenzione, riprese la spada, che si era infilata profondamente in un muro di mattoni, e attese immobile accanto a Furgas fino a che le guardie della maga non accorsero. Ma quando sentì lo sferragliare delle loro armature e il bagliore delle torce, scomparve nell'oscurità. V Terra Nascosta, nord del regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, primavera Tungdil, Boïndil e altri dieci nani avevano lasciato alle loro spalle i Monti Grigi da cinque rotazioni e marciavano verso sud, attraversando le regioni spopolate del Gauragar, dove, sulla base delle indicazioni della cartina, avrebbero trovato l'ingresso al sistema di tunnel sotterranei. Per la prima volta dopo molti cicli, la primavera mostrava il suo pieno vigore anche là dove un tempo aveva regnato la Terra Estinta. Ai nani sembrava che la natura fiorisse più colorata e splendida che mai; che il nettare non grondasse dai fiori gonfi appariva già qualcosa d'incredibile. Le api ronzavano indaffarate attraverso l'aria limpida per raccogliere miele di particolare bontà per i loro alveari. Tuttavia un tale spettacolo non impressionava particolarmente i nani, a eccezione di Tungdil; per loro valevano infinitamente di più le bellezze sotterranee della loro patria. Anzi, la luce del sole rendeva più difficile la vista a quelli non abituati a stare all'aria aperta. Mancava loro la confidenza con quell'insolito chiarore, e perciò viaggiavano soprattutto nel primo mattino, riposavano intorno a mezzogiorno fino al pomeriggio avanzato e camminavano fino a tarda notte. Quando Tungdil era fuggito dai mezz'orchi con la Lama del Fuoco appena forgiata, lui e i suoi amici si erano nascosti nel regno elfico dell'Âlandur, perché i loro inseguitori non si sarebbero mai aspettati che dei nani cercassero riparo presso gli elfi. Stavolta invece non dovevano ingannare nessuno. Potevano scegliere senza digressioni il più vicino ingresso al sistema di tunnel per iniziare da lì la loro ricerca degli spettri dei nani. Il fatto che fossero partiti in modo tanto frettoloso non era stato un caso. In primo luogo, Tungdil non aveva voglia di assistere ai preparativi per l'imminente patto di ferro tra Balyndis e il nuovo re dei Quinti. In secondo luogo, il tempo stringeva; dal momento che i mezz'orchi avevano già man-
dato avanti i loro esploratori, Ushnotz poteva non essere troppo lontano. I nani dovevano trovare i loro alleati e convincerli a raggiungerli il più presto possibile; nessuno voleva pensare all'eventualità di un attacco da parte di un secondo esercito di mezz'orchi, proveniente da nord. Come i suoi accompagnatori, Tungdil tacque per la maggior parte del tempo; lo sforzo richiesto dal marciare velocemente con bagagli e provviste impediva che nascessero tra loro lunghe conversazioni. Il Rabbioso si era lasciato convincere a fatica ad abbandonare suo fratello, ma alla fine aveva capito di servire più a Tungdil che a Boëndal; ciò non gli impediva di essere costantemente in pensiero per lui e di parlare pochissimo. La mattina della sesta rotazione di viaggio comparvero le mura di una città fortificata. Tungdil imboccò senza esitazione la strada che portava al suo interno. «Boïndil e io c'informeremo se ci sono notizie dei mezz'orchi», disse. «Voi riposatevi, in modo che questa sera si possa proseguire. Per l'alba dovremmo arrivare all'ingresso del tunnel.» Entrarono in città passando per la porta principale, intorno alla quale, come notarono con stupore, non vi erano sentinelle. Quando s'immersero nei vicoli tortuosi e ombreggiati, si resero subito conto che la città sembrava quasi disabitata. «È scoppiata la peste?» si meravigliò il Rabbioso. «Per quale motivo trovare un Lungo per strada è difficile quanto trovare un pezzo d'oro?» Non incontrarono nessuno cui potessero chiedere informazioni, quindi entrarono nella prima locanda in cui s'imbatterono. L'oste, un uomo peloso sulle quaranta primavere coi denti più gialli che Tungdil avesse mai visto, si fece in quattro per dimostrarsi cortese. «Benvenuti a Bergensstadt. È un onore per me poter alloggiare ospiti di tale dignità. Vi darò la mia camera migliore», disse inchinandosi e pulendosi le mani coperte di strutto sul grembiule. «Andrete subito alla fiera, vero?» I nani corrugarono la fronte, non capendo che cosa intendesse l'uomo. «Ah», fece Tungdil. «Adesso capisco dove si nasconde la gente.» Seguirono l'oste lungo la scala scricchiolante. Mentre si lavavano la polvere dalla faccia con l'acqua che gli era stata sollecitamente portata, Tungdil descrisse loro che cosa fosse per gli uomini una fiera. «È una grande festa con banchi e divertimenti di ogni tipo, rigattieri e bottegai, musica e balli. Io e Boïndil andremo a darci un'occhiata; se ne vale la pena, più tardi ci torneremo tutti in modo che abbiate qualcosa
da raccontare quando saremo a casa.» Il Rabbioso gli fece cenno di scendere pure. «Non stare ad aspettarmi. Ci separiamo, così raccoglieremo più in fretta le novità.» «Non te la prendere, ma dubito che tu riesca ad azzeccare il tono giusto da usare.» Tungdil ricordava ancora perfettamente com'era terminato un incontro tra Boïndil e parecchi uomini ubriachi in una taverna. Dovevano solo ringraziare una notevole buona sorte e la pietà di Vraccas se nessuno di loro era rimasto ucciso. «Non ti preoccupare, Sapientone. So bene come si parla coi Lunghi.» Il Rabbioso lo cacciò via con un gesto della mano. «Ci vediamo al calar del crepuscolo.» «O quando sento le grida di aiuto degli uomini», replicò Tungdil sorridendo, mentre si tirava la porta dietro di sé. L'ampio salone continuava a essere vuoto. Un ospite, la cui tenuta non s'intonava alla bettola, sedeva al banco vicino al focolare spento. Portava ampie vesti di taglio costoso e corti calzoni di stoffa pregiata; le gambe secche erano infilate in calzamaglia. Le fibbie lucidissime delle sue scarpe vanitose brillavano d'argento, e sui capelli neri, lunghi fino al mento, portava un civettuolo cappellino. Non aveva la barba e profumava come una donnetta. Tungdil fece un largo ghigno. Non aveva mai visto qualcosa di tanto ridicolo. Con grande sorpresa del nano, l'uomo saltò in piedi e gli si avvicinò in fretta. «Finalmente! Pensavo già che non ti saresti più fatto vedere», lo accolse sollevato. «Sono Truk Elius e sono qui per accompagnarti.» Senza aspettare, si voltò e raggiunse la porta. Tungdil si grattò la barba. «Non capisco. Che cosa volete, precisamente?» «Accompagnarti, Cavernicolo. I tuoi servizi sono richiesti», disse l'uomo indignato. «Sei arrivato in ritardo. Saranno già impazienti.» Prese a battere la punta del piede. «Ah, sì», fece lui. Il suo popolo era conosciuto presso gli uomini in primo luogo per la metallurgia, e un nano viaggiatore come lui veniva immancabilmente ritenuto un artigiano. «Solo che sono un po' fuori esercizio», confessò poi. «Forse sarebbe meglio...» «Sciocchezze! Tutti i Cavernicoli che conosco padroneggiano il mestiere.» Gli occhi azzurri si strinsero. «Ah, vuoi mercanteggiare il tuo compenso? Così non va, Cavernicolo. Riceverai lo stesso compenso che rice-
vono gli altri, o tornerò indietro da solo e dirò che non vuoi adempiere i tuoi obblighi. Non riceverai più nessun incarico, sappilo bene!» Tungdil decise di lasciarsi coinvolgere nella faccenda. L'incarico poteva aiutarlo a raccogliere informazioni, e non voleva essere responsabile del fatto che i cittadini di Bergensstadt associassero il suo popolo all'inaffidabilità. Una simile reputazione spettava solo a gnomi e coboldi. «Ma sì, va bene», consentì. «Ma non dovete pretendere troppo da me. E quelli del mio popolo si chiamano nani, non Cavernicoli.» Elius rise. «Dovrai solo dare qualche colpo, e tutto andrà a posto.» «Non ho con me gli attrezzi adatti.» «Nessun problema, nano.» L'uomo indicava la porta, inquieto. «Adesso muoviti!» Si affrettarono insieme attraverso i vicoli, muovendosi verso il centro dell'insediamento. Tungdil trottava dietro Elius ed ebbe il suo bel da fare per seguire l'uomo dalle gambe lunghe e magre. I cittadini salutavano Truk Elius con deferenza. Così il nano, trafelato, comprese il suo errore: «Truk» non era il nome dell'uomo, doveva essere piuttosto un'indicazione di rango; probabilmente il suo interlocutore apparteneva all'amministrazione di re Bruron. Il vicolo in cui camminavano si allargò e crebbe fino a diventare una strada. Tungdil sentiva le chiacchiere attutite di centinaia di voci, che per la grande distanza riecheggiavano verso di loro; in sottofondo si mescolavano risate e musica. Sembrava una festa allegra. Truk Elius lo guidò oltre l'angolo, e si trovarono di fronte a una folla. Il nano vedeva solo fianchi e busti, che si alzavano davanti a lui come un muro vivente. Non vi era nessun passaggio. Non si aspettava che Elius volesse raggiungere l'altro lato della piazza senza aggirare la calca, ma l'uomo prese a gridare: «Fatevi da parte, popolo di Bergensstadt! Fate largo!» La folla si aprì obbediente, facendo ala alla strana coppia. Tungdil avanzò sino a che il suo sguardo non si alzò e scoprì che si stavano dirigendo verso i gradini che conducevano su una larga piattaforma di legno. Sul rialzo rettangolare stavano quattro guardie e otto altri umani che non portavano addosso nient'altro che rozze e leggere tunichette. Le loro mani erano infilate in fasce di metallo, gli occhi erano stati bendati con un panno. Un'esecuzione, pensò il nano, sbigottito. Le voci felici e disinvolte non
lo avevano ingannato: i cittadini di Bergensstadt festeggiavano davvero, ma festeggiavano l'esecuzione di otto criminali. Erano tre donne e cinque uomini, in attesa della loro morte. Truk Elius salì la scaletta di legno. Quando notò che il suo accompagnatore si era fermato, gli fece un cenno d'invito. «Su, sbrigati!» Il funzionario regio non stava prendendo una macabra scorciatoia. E il nano non aveva bisogno di nessun martello da fabbro. Mi hanno preso per il boia! Tungdil indietreggiò di un passo. «C'è un errore», disse in modo chiaramente percepibile. «Io non sono un boia.» Un mormorio percorse la folla. Il Truk gli si avvicinò a lunghi passi. «Che cos'hai detto?» sibilò. «Ricominci di nuovo a mercanteggiare, nano? Sappilo bene, la masnada vuole vedere sangue. Che sia quello dei condannati o il tuo.» Cercò un po' di monete nel borsello e gliele cacciò in mano. «Ecco. Questo è il tuo compenso. E ora va' su e fa' quello che ti viene chiesto!» «Voi non capite.» Tungdil fece un altro tentativo di chiarire l'equivoco. «Io non sono un boia. Il mio nome è Tungdil Manodoro, sono...» «Tungdil? Perché mai Tungdil?» A quel punto il funzionario era sorpreso allo stesso modo. «Aspettavamo Bramdal, il carnefice viaggiatore, che...» Le grida della folla divennero più forti, incalzanti, rabbiose. Non avevano voglia di attendere ancora lo spettacolo. Elius alzò le spalle. «Sia quello che sia. Chiamati come ti pare e sii quello che vuoi. La tua ascia è richiesta.» Gli mise una mano sulla spalla e fece per trascinarlo sul podio, ma Tungdil si oppose. «Ti farò imprigionare, se non gli stacchi la testa dal collo», minacciò. «Non voglio!» insistette il nano. Se non riusciva a convincere il funzionario del fatto che non avrebbe prestato nessun servizio da boia, non sarebbe riuscito neanche col popolo, del quale Elius aveva palesemente timore. Le sue gambe lo portarono in avanti, sugli scalini, e poi lungo la pedana. Vedendolo salire, le centinaia e centinaia di cittadini adunati nella piazza esultarono. Il piacere dell'attesa non aveva limiti; i loro volti erano contorti in smorfie da cui trasudava la brama di sangue. In Tungdil strisciò il sospetto che Elius avesse detto la verità. Sembrava proprio che avrebbe potuto lasciare il palco vivo solo se avesse decapitato i condannati. Da lassù non vi era scampo, né per gli otto condannati né per lui. Il ceppo era al centro. Scura e secca linfa vitale copriva il pezzo di le-
gno, che portava i segni di numerosi colpi a vuoto. L'ascia dalla larga lama che veniva usata per le esecuzioni era infilata tra le assi, a due passi di distanza. Una delle donne venne spinta in avanti. L'araldo, accompagnato da un basso rullo di tamburi, annunciò i crimini che la condannata aveva commesso. Tungdil venne a sapere che la prima persona che avrebbe dovuto giustiziare era una sposa infedele. La donna non aveva rispettato il periodo di lutto prescritto per la morte del marito e si era fatta vedere troppo presto con un nuovo amore. Quello era il crimine. Nessun omicidio, nessuna aggressione. Solo amore. Amore. Tungdil non poté fare a meno di pensare a Balyndis. Una guardia spinse la donna fino al ceppo e la costrinse a inginocchiarsi. Le premette la testa contro il legno, afferrò i lunghi capelli e li avvolse intorno a una barra di ferro; così il collo rimaneva completamente scoperto e la condannata non poteva muovere la testa. I preparativi erano conclusi, il rullo dei tamburi si fece più forte. Qualcuno diede a Tungdil uno spintone, facendolo incespicare in avanti e barcollare verso la condannata. Il nano la vide tremare dalla testa ai piedi. Piangeva piano, ma in modo straziante. La pelle delle sue spalle era giovane e perfetta; la donna non aveva visto molti cicli e, per come la pensava Tungdil, la sua vita finiva a causa di una legge discutibile. Se gli uomini vogliono che muoia, dovranno pensarci loro. «Che cosa stai aspettando?» ringhiò la guardia. «Colpisci! Ne hai altri sette che ti aspettano, boia.» «Io non sono un maledetto boia! Il mio nome è Tungdil Manodoro.» Il nano sollevò la Lama di Fuoco. «Questa ascia ha ucciso Nôd'onn e vi ha liberato dalla maledizione della Terra Estinta. Che io sia qui è un grosso sbaglio.» Estrasse l'ascia da esecuzione dal tavolato e la porse al soldato. «Se volete vederla morire, ammazzatevela da soli» dichiarò a voce alta. «Io non lo farò.» Un grido turbinò nella piazza. I cittadini premettero in avanti; la massa stava finendo in un tumulto. Pretendevano sangue. «Guarda che hai combinato, maledetto Cavernicolo!» Truk Elius osservò intimidito la piazza. I soldati non avrebbero tenuto a bada la folla ancora per molto. Senza parlare, Tungdil gli porse il manico dell'ascia. «Io? Per niente al mondo. Sono Truk, non carnefice», disse l'uomo, che
profumava come una donnicciola. «Le segrete ti piaceranno, nano. Sempre se esci vivo di qui.» Il grido di centinaia di voci avvampò di nuovo. Il funzionario e Tungdil si voltarono. Un secondo nano, molto muscoloso, zoppicava verso di loro. Portava vesti nere, un'armatura di cuoio marrone scuro e pesanti stivali. Sul volto teneva una maschera di cuoio; la sua barba biondo chiaro pendeva fino al petto raccolta in lunghe trecce. «Sono stato trattenuto», disse. Senza esitare, prese la pesante ascia dalla mano di Tungdil e raggiunse il ceppo. I suoi passi riecheggiarono forte sulle assi. Non prese le misure, colpì con un unico, sicuro movimento. La lama attraversò l'aria sibilando; il colpo, vibrato con entrambe le mani, calò sulla donna troncandole la vita. La testa cadde rumorosamente sulle assi. Il sangue proruppe tracciando un alto arco dal troncone; gli schizzi arrivarono fino alle prime urlanti file dei cittadini di Bergensstadt. Il torso della donna si contrasse qualche volta per poi scivolare a lato del ceppo. Il boia liberò la testa dalla sbarra di supporto e la mostrò alla folla. L'arma aveva reciso di netto le vertebre insieme con pelle, tendini e muscoli. Il nano era un indiscutibile maestro del suo mestiere. «Vedi di sparire», disse con voce bassa e velenosa il Truk a Tungdil. Questi non se lo fece ripetere due volte e scese dalla pedana per aspettare l'altro nano ai margini della piazza. Non restituì le monete al funzionario. I cittadini esultarono ancora sette volte, l'una dietro l'altra a intervalli irregolari; poi attaccò una musica allegra. Gli uomini ridevano, festeggiavano e danzavano euforici mentre le teste mozzate venivano issate sui pali portabandiera posti accanto al palco delle esecuzioni. Il boia raggiunse Tungdil, il quale lo ispezionò con lo sguardo. In alcuni punti dell'armatura e degli stivali vi erano macchie di sangue, ma era riuscito a risparmiarsi macchie più grandi. La maschera pendeva alla cintura. «Buffa storia. Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato scambiato con un altro nano», disse il boia. «Io sono Bramdal Lamadimaestro.» Tungdil squadrò il volto del nano che si dedicava a un mestiere tanto crudele. Nonostante il suo lavoro e il fatto che dovesse aver partecipato a innumerevoli uccisioni, il boia aveva occhi bruno chiaro che non sembravano in nessun modo preoccupati o tristi. «Perché ti guadagni da vivere in questo modo?» chiese Tungdil indican-
do col braccio destro le aste da cui pendevano al vento le teste. «Che c'è da ridire? È un mestiere, come forgiare o fare il pane. Vieni», gli disse amichevolmente Bramdal, che aveva raccolto i capelli biondi in un fazzoletto nero. «Andiamo a parlare dove c'è meno chiasso.» Camminarono per i vicoli. «A che stirpe appartieni, Tungdil Manodoro?» chiese il boia mentre passeggiavano. Parlava con voce morbida e dolce. «Che novità porti dal tuo regno? S'incontrano di rado membri del nostro popolo, e non sembri proprio un commerciante. O sei un reietto che girovaga?» «Non sei forse tu un reietto?» replicò Tungdil. Si considerava fortunato a essersi imbattuto nel boia. Se lasciava da parte le spiacevoli circostanze del loro incontro, gli si aprivano nuove possibilità di trovare velocemente gli spiriti dei nani. L'altro rise. «Sì e no. Ho una nuova casa, lontana dalle stirpi. Lontana da coloro che mi hanno scacciato perché non mi sono voluto piegare alle regole. Mi sono addossato intenzionalmente una colpa e ho scelto il bando.» Giocò con le trecce della barba. «Non tornerò più indietro. E tu?» Tungdil avrebbe voluto spiegare tutto all'altro e dirgli quale missione lo aveva condotto per un caso fortuito a Bergensstadt; ma poi decise che era meglio far credere a Bramdal di avere subito la stessa sorte. «Amo una nana che ha dovuto stringere il patto con un altro, benché il suo cuore battesse per me. L'ho ucciso durante un litigio.» Gli riuscì facile fare finta che fosse vero. Troppo facile. Distolse in fretta lo sguardo. Il boia annuì. «Si dimostra ancora una volta che non tutte le leggi del nostro popolo sono sensate. Di tanto in tanto le cose dovrebbero cambiare.» Scrutò Tungdil a fondo. «Che cosa diresti se ti raccontassi di un posto in cui le norme dei clan e i giuramenti delle famiglie non contano niente?» Si fermò davanti alla porta di una locanda e la tenne aperta per Tungdil. Presero posto vicino al camino e ordinarono due birre. «Esiste davvero questo posto?» domandò Tungdil dopo un robusto sorso di birra. Bramdal annuì. «Sì. Là i nani vivono in una comunità di pari. Non ci sono tutele, nessuna regola tradizionale.» «Ma come può funzionare la convivenza senza ordine?» «Ci sono delle regole. Il re e la regina vegliano su di esse», concesse il boia. «Ma sono di natura generale, si riferiscono ai delitti contro la comunità o i singoli, e a come si devono punire. Il vincolo a leggi di clan è stato eliminato per sempre. Siamo tutti figli del Fabbro, liberi nel fare e nell'agi-
re.» «Ma allora perché te ne vai in giro a decapitare gli umani?» chiese Tungdil. «Per guadagnare un po' di soldi, che altro motivo potrei avere?» rispose Bramdal. «Fino a poco tempo fa, quando c'era la Terra Estinta, i miei servigi erano molto richiesti. Sai bene che i morti tornavano in vita, se non gli si rompeva il collo o tagliava la testa. E io lo prendevo come una parte del mio dovere di proteggere gli uomini.» «Questo me lo devi proprio spiegare», replicò Tungdil. «Alle mie orecchie sembra un po' strano proteggere gli uomini in nome di Vraccas ammazzandoli come fanno i mezz'orchi e altri mostri.» «Ti sbagli. Io li proteggo da loro stessi. Smaltisco la feccia, questa è la mia interpretazione del compito affidatomi dal dio», disse il boia. «Io non uccido indiscriminatamente come fanno i mezz'orchi, ma solo quelli che sono diventati pericolosi per gli altri uomini, o che possono diventarlo. Sono criminali condannati, cui io riservo con un colpo veloce un viaggio dall'altra parte. Chi infrange le leggi è per gli uomini minaccioso quanto lo sono i mezz'orchi.» «Una vedova che non ha rispettato il lutto può essere una minaccia?» «Il fatto che abbia infranto la legge, questa è la minaccia. Dell'assennatezza delle leggi umane io non mi do pensiero.» Bramdal vuotò il boccale. «Non c'è bisogno di molte leggi, ma bisogna rispettarle. In questo nani, uomini ed elfi sono uguali.» Inclinò il capo. «Non hai risposto a una mia domanda.» «Quale?» «A quale stirpe appartieni.» «Ai...» Tungdil s'interruppe, perché non sapeva che cosa rispondere. La birra, i dolorosi pensieri riguardo a Balyndis... La sua anima era sempre più oppressa. «Chi ci mette tanto a dichiarare la sua origine dev'essere per forza un Terzo.» Il boia lo disse senza sfumatura d'accusa nella voce. «Non c'è bisogno che rispondi, tieniti la tua stirpe per te. Nel posto di cui parlavo non ha nessun peso.» Tungdil si sporse in avanti. «Vuol dire che avete accolto tra voi nani della stirpe di Lorimbur?» Bramdal scoppiò a ridere; l'incredulo stupore dell'altro lo divertiva. «Nella nostra comunità accogliamo nani che sono stati banditi, e se uno di quelli di cui hai parlato si trova in questa condizione, allora sì, lo acco-
gliamo. Se rispetta le nostre regole, è il benvenuto.» Posò le mani sull'impugnatura dell'ascia. A ogni frase che il boia pronunciava, la confusione di Tungdil cresceva. Avrebbe creduto a quelle parole solo dopo aver visto coi suoi occhi. «Voglio conoscere questo posto», lo pregò. «Come posso raggiungerlo? Che cosa devo fare per entrarvi?» Bramdal gli descrisse il percorso che conduceva a uno stagno che, stando alle valutazioni di Tungdil, doveva trovarsi nei pressi dell'ingresso al sistema di tunnel. «Legati delle zavorre e saltaci dentro. Devi sprofondare sino al fondo, solo allora capiterà il miracolo che ti porterà ai Liberi figli del Fabbro...» «I Liberi? Così vi chiamate?» «Non esiste nome più adatto.» Il boia notò un uomo che sedeva un paio di tavoli più in là. «Torno subito», si scusò. Prese il suo zaino e si alzò. Zoppicando raggiunse lo sconosciuto e si mise a parlare con lui. Tungdil non sapeva che cosa pensare riguardo alla descrizione del percorso che conduceva nel recondito regno sotterraneo dei nani Liberi. Nani e acqua non andavano d'accordo, se l'acqua superava la profondità di una spanna. Ricordava bene quanto i gemelli mal sopportassero il fatto di dover guadare i fiumi. Dipendeva dal fatto che loro, come quasi tutti i membri del loro popolo, credevano che la dea Elria li avesse maledetti in modo che al di fuori delle montagne trovassero inevitabilmente la morte in laghi, pozze, stagni o fiumi. Come riuscirò a convincere il Rabbioso a gettarsi spontaneamente in un laghetto, con tanto di pesi, quando gira intorno a ogni pozzanghera che vede? Tungdil sprofondò contro lo schienale, lambiccandosi il cervello. Dovevano essere loro i fantomatici spiriti dei nani: spacciandosi per tali avevano tenuto il loro ingresso al sicuro dagli altri nani. Questa sarà davvero una sfida. Osservò che l'uomo spingeva verso Bramdal alcune monete, ottenendone in cambio un oggetto avvolto in un panno. Dopo, il boia tornò al tavolo. «Di che si trattava?» chiese Tungdil, curioso. «Meglio che tu non lo sappia. Solo gli umani superstiziosi possono farsene qualcosa», gli rispose l'altro nano in tono amichevole. Tungdil si risparmiò ulteriori tentativi; il boia avrebbe di sicuro tenuto la bocca chiusa. «Visto che vivi da tanto tempo tra i Liberi, sai dirmi se tra voi ci sono dei Sotterranei?» domandò. Forse una qualche combinazione
aveva spinto uno dei leggendari nani della Terra dell'Aldilà nella Terra Nascosta, tra i Liberi. Passò il dito sul bordo del boccale, poi con l'umidità dipinse sul tavolo la runa che aveva visto sulla parete della caverna. «La conosci?» Bramdal sollevò un sopracciglio. «Sotterranei? Che cosa sarebbero?» Avrei dovuto immaginarlo. «Lascia stare, niente d'importante. Dove ti condurranno ora i tuoi passi? Sono tempi incerti, i mezz'orchi si spostano verso nord per scappare attraverso il passo settentrionale», lo avvisò. «Abbiamo incontrato le loro spie.» Il boia fece dondolare la barba; le ciocche oscillarono avanti e indietro. «Grazie, ma il mio cammino mi porta a sud; la prossima città mi reclama. Hanno le segrete piene di condannati che aspettano la loro giusta punizione.» Gli porse la mano. «Mi ha fatto molto piacere averti incontrato e averti aiutato», disse solennemente. «Possa Vraccas aiutarti ovunque andrai. Forse un giorno le nostre strade s'incroceranno di nuovo.» Bramdal prese il suo zaino e zoppicò verso la porta. Sollevò il cappuccio e sparì oltre l'ingresso. Bergensstadt lo salutava con un acquazzone. «Per caso sapete che cos'ha venduto il boia a quell'uomo?» chiese Tungdil all'oste quando questi venne a prendere i boccali vuoti. L'uomo si piegò verso di lui e gli sussurrò la risposta in un orecchio. Gli occhi del nano si spalancarono. Bramdal mercanteggiava parti dei cadaveri dei condannati. «Possono avere gli effetti più diversi. Le candele fatte col grasso degli assassini proteggono dalle malattie, e il mignolo di un ladro è infallibile contro fulmini e incendi», spiegò l'oste. «Lo giuro, funziona.» Indicò coi boccali vuoti il soffitto. Tungdil vide un oggetto nero, secco e raggrinzito, che con molta immaginazione si poteva identificare come un polpastrello. Era stato inchiodato accanto a una trave. «La mia osteria non è stata mai colpita da un fulmine, ma nei dintorni hanno colpito già due volte.» Il nano ebbe un fremito di disgusto, pagò il conto e lasciò l'osteria per andare a raccontare le novità ai suoi compagni. Era convinto che sarebbe stato molto più facile rintracciare gli spiriti dei nani; a patto di convincere gli altri a buttarsi in un laghetto e raggiungerne il fondo. Mentre camminava per i vicoli, considerò che il boia non gli aveva detto perché fosse diventato un esule. La parola «assassinio» si aggirava tra i pensieri di Tungdil. *
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Le risate si affievolirono gradualmente. I nani giacevano sui letti riprendendo fiato. Boïndil si asciugò le lacrime dagli occhi. «Racconti delle storielle eccezionali, Sapientone. Ora, senza scherzi: dove sarebbe l'ingresso segreto?» Tungdil sospirò. «Quello che vi ho appena detto è esattamente quello che mi ha raccontato Bramdal.» L'allegria dell'amico scomparve all'istante. «E io dovrei gettarmi in una maledetta pozza? Con in più dei pesi, per raggiungere il fondo?» Si piegò in avanti e annusò l'alito di Tungdil. «Ah, la birra. Adesso capisco. Hai bevuto un boccale più del dovuto e...» Notò che l'amico scuoteva la testa. «Per Vraccas, non mi ci butterò dentro! La maledizione di Elria è già da sola mortale, ma renderle la cosa ancor più facile annegandoci volontariamente con dei pesi... be', io questo non lo faccio di certo.» Incrociò le braccia sul petto e sporse il mento; la barba nera fremette. «Mai.» «Poteva anche essere un Terzo che fingeva di conoscere la via», suggerì uno dei loro compagni di viaggio. «Spera che gli diamo credito e che l'acqua c'inghiotta.» Boïndil si girò di scatto. «Esatto!» sbottò dandogli man forte. «Un inganno! Uno stratagemma! Probabilmente si è acquattato dietro un cespuglio e aspetta che anneghiamo per tirare su con un lungo gancio il nostro equipaggiamento.» «O forse lì dentro c'è un grosso pesce in agguato», disse un altro. Tungdil fece una smorfia. «Conoscete un nano che sia affogato in un fiume?» «Oh, ho sentito una quantità di storie su sventure del genere», sostenne il Rabbioso assentendo col capo. «Sì, questo lo credo bene. Ma tu conosci un nano o la famiglia di un nano che abbia perso la vita in un fiume, in un ruscello o in un qualcosa in cui si raccolga l'acqua?» lo incalzò Tungdil. «Nei dintorni di Giogonero, la dea aveva molte possibilità di prendersi parecchi di noi, ma io non ho sentito nulla del genere.» Guardò i volti grinzosi dalle lunghe barbe. «Qualcuno di voi sì?» I nani tacquero; chi osservava le rune intarsiate sulle armi, chi guardava il soffitto o riassettava l'angolo di un lenzuolo. «Sia come sia, io non ci entro», insistette Boïndil, caparbio. «Possiamo esaminare la pozza. Ma se mi arriverà più su del ginocchio, io propongo che da là raggiungiamo l'ingresso ai tunnel e che ci atteniamo a ciò che
abbiamo pianificato in principio.» «Come vuoi.» Tungdil rinunciò a convincere i suoi compagni di viaggio. Nel frattempo aveva cominciato a nutrire anche lui seri dubbi sul consiglio del boia. «Ora lasciatemi riposare un po', poi potremo metterci in cammino.» Si sfilò gli stivali, si coricò sul letto imbottito con pagliericcio e prese a sonnecchiare. Poco dopo, il Rabbioso raggiunse la testata del letto di Tungdil. «Dovevo dirti che un mercante mi ha raccontato di avere visto dei Musi di porco.» Tungdil aprì gli occhi. «Dove? Quando?» «Ha detto di averli visti venire da est, come se stessero uscendo dall'Urgon. Pare che stessero marciando velocemente verso nord, verso i Monti Grigi.» Tungdil saltò fuori del letto, prese la mappa dallo zaino e la srotolò sul pavimento di legno, in modo che tutti la potessero vedere. Con le dita tracciò il presunto percorso dei mezz'orchi. «Allora quando si sono trovati a sud dello Dsôn Balsur hanno deviato verso est e sono passati lungo il confine orientale dell'Urgon», congetturò. «Così facendo non sono finiti sul fronte tra albi ed elfi, che combattono nell'Âlandur. E non li ha visti nessuno che potesse diventare pericoloso per loro.» Per essere un mezz'orco, Ushnotz dimostrava una notevole astuzia. «Dove li ha visti?» Boïndil picchiettò un punto della carta. Tungdil valutò la distanza dall'ingresso ai Monti Grigi in meno di quattrocento miglia. I mezz'orchi erano buoni camminatori, e il territorio del Gauragar era sì collinoso, ma alla fin fine non presentava nessuna montagna importante o altri ostacoli che li potessero rallentare. Quello che era un bene per lui e il suo gruppo giovava anche alle gambe dei suoi nemici, che erano ben più lunghe. In un modo o nell'altro diventava difficile ritornare nella loro nuova patria con dei soccorsi tempestivi. Arrotolò la mappa e la ripose nello zaino. S'infilò negli stivali ancora caldi e si gettò addosso il mantello. «Dobbiamo proseguire», decise. «Da adesso riposeremo soltanto quand'è assolutamente necessario.» *
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Nel corso della rotazione seguente si diffuse tra i nani un inspiegabile malessere. Non era niente di fisico, come un'indigestione o la stanchezza,
piuttosto una brutta sensazione che ne abbatteva il morale. Anche se il paesaggio intorno a loro verdeggiava e mostrava che l'erba aveva ripreso i suoi vecchi colori e scalzato il grigio della Terra Estinta, i nani avrebbero fatto volentieri marcia indietro e avrebbero smesso di avanzare in direzione sud. Passo dopo passo l'irritazione aumentava e, quando il sentiero li condusse in una foresta in fiore, passò loro perfino la voglia d'intonare qualche saltuario canto. Arrancarono di malumore lungo il sentiero ricoperto di vegetazione. Tungdil intuiva che cosa stava succedendo loro, ma si guardò bene dallo svelare il mistero. Il tragitto che avevano intrapreso li conduceva attraverso il decaduto Lesinteïl, il regno degli elfi del nord. Era caduto molto tempo prima a opera degli albi, che si erano limitati a massacrare tutti gli elfi che vi abitavano, per occuparsi subito dopo delle più fitte foreste dell'Âlandur e degli elfi della Pianura d'Oro. La Pianura d'Oro era diventata lo Dsôn Balsur, ma gli albi non erano mai riusciti a sottomettere completamente gli elfi di Liútasil. Tungdil suppose che si trovassero nel frattempo sul suolo di ciò che un tempo era chiamato Lesinteïl e che la regione elfica facesse sentire la sua antica avversione per i nani. O forse l'indicibile orrore per quella crudele strage si era impresso profondamente nella terra e ne sgorgava fuori. Il fare misterioso di Tungdil s'interruppe quando Boïndil, sempre attento, scoprì tra i rampicanti e i floridi arbusti i resti di una statua. «Per Vraccas, questa è un'immagine di Sitalia!» disse il Rabbioso informando gli altri della sua scoperta. «Chi mai si è dimenticato la dea degli elfi qui in mezzo alla sterpaglia? Abbiamo camminato così tanto che siamo arrivati nell'Âlandur?» Gli sguardi della compagnia s'indirizzarono su Tungdil, capo e cartografo della spedizione. «Può essere che ci troviamo nel Lesinteïl», accennò questi con prudenza. «Bene, questo sì che mi piace», sbuffò il Rabbioso dando un calcio alla dea scolpita nel finissimo marmo. «Non solo mi si chiede di buttarmi in un lago, ora visitiamo pure il regno degli Orec... degli elfi!» Si scosse, lisciandosi la barba. «Adesso non mi meraviglio più di avere tutti i peli arruffati. Dentro di me tutto si sta arruffando!» «Hai finito? Ti sei lamentato e ora possiamo proseguire.» Tungdil riprese la marcia. «Gli elfi non sono più nostri nemici, non dimenticatelo.» «Dillo alla terra», brontolò Boïndil e si rivolse all'albero più vicino. «Se
anche un solo viticcio mi striscia intorno a uno stivale, trito tutta la foresta, capito?» Caso o no, proprio in quel momento un alito di vento passò attraverso i rami, e le foglie frusciarono quasi minacciose. Il nano ribatté estraendo le asce dal cinturone e battendole l'una contro l'altra sul lato senza filo; il tintinnio risuonò, udibile da molto lontano, attraverso il groviglio di tronchi e boscaglia. «Non mi fai nessuna paura», gridò il Rabbioso. Per quanto i piedi facessero loro male, non si fermarono. Mangiavano e bevevano camminando, mentre il sole si alzava lento e formava uno spesso velo di nebbia tra gli alberi. Alla fine lasciarono la foresta e in prima mattinata si ritrovarono su una piana; l'erba arrivava loro fino al petto. Due miglia più avanti si estendeva il laghetto circondato da rovine, esattamente come Bramdal lo aveva descritto. Stranamente, nel farlo aveva dimenticato di menzionare che le sue acque erano nere come la notte e assorbivano i raggi del sole, senza che le onde scintillassero. A Tungdil venne in mente il lago nella Foresta Disanimata. Il Rabbioso sembrava non voler più smettere di scuotere il capo. «Se fosse stato chiaro e trasparente e se il fondale fosse stato visibile, non avrei fiatato. Ma questo sembra proprio opera della Terra Estinta. Non è vero, Sapientone?» «Una fossa di catrame non potrebbe essere più nera», gli diede ragione un altro. «Non c'immergerò neanche il mignolo di un piede.» «Andiamo a esaminarlo.» Tungdil si mise in movimento, superando le rovine coperte di edera della città elfica. Diversamente dai loro parenti dell'Âlandur, gli elfi del nord preferivano costruzioni imponenti, ma i danni causati dagli albi e dagli agenti atmosferici nell'arco di molti cicli impedivano d'immaginare l'aspetto che la città potesse aver avuto un tempo. «Andate, vi raggiungo.» Bigor Batticolonne, un nano della stirpe dei Secondi, non riuscì più a opporsi alla sua natura e uscì dalla fila del gruppo per osservare più da vicino gli intagli nella roccia. Con dita callose esplorò quello che restava di rilievi e fregi; i colori splendidi delle pitture erano cadute vittima del sole. «Molto carino per mani abituate a cogliere fiori», mormorò. Nonostante il motivo intricato, nulla si era staccato, e il nano non trovò
tracce di martelli o scalpelli che fossero scivolati di mano agli artigiani. Anche se non lo avrebbe mai ammesso in modo esplicito, pensò che sarebbe stato bello vedere la città, o qualunque cosa fosse, prima che cadesse in rovina. Tungdil aveva raggiunto la riva con gli altri; si voltò cercando il Secondo, ma non lo vide da nessuna parte. «Bigor?» «Avrà trovato una colonna e se la starà guardando», disse Boïndil. «O forse si sarà accovacciato», suggerì un altro ridendo. «Nella nebbia non lo vedremmo più.» Tungdil si mise sulla riva del laghetto, in cui sporgevano i resti di un ponticello. Alla sua sinistra si trovavano le rovine di un santuario di Sitalia, come il nano riconobbe dai simboli; scale di pietra arrivavano fino al bordo dell'acqua. Vediamo un po' che succede. Si chinò, si tolse un guanto e, dopo un po' di esitazione, mise un dito nel liquido nero. Lo sfiorò un freddo gelido, ma non accadde niente di più. «Dà l'impressione di essere innocua», disse. «Camminando sul ponte possiamo arrivare quasi al centro. Con un po' di rincorsa...» «Ehi, Sapientone», lo interruppe Boïndil. «Fino a oggi ho sempre avuto fiducia in te, perché hai dimostrato più di una volta di macinare buone idee in quella tua testa, ma...» «Che cosa sentono le mie orecchie, Rabbioso? Hai paura?» A Tungdil rimaneva una sola possibilità di convincere Boïndil a seguirlo nelle acque, anche se non era proprio onestissima. Immerse la mano nell'acqua e lo spruzzò con forza. «Allora, che mi dici adesso? Sta attentando alla tua vita e cerca di strangolarti? Pensi di doverla temere?» Il piano riuscì. Il Rabbioso drizzò la schiena; il suo onore scalfito vinse le sue riserve. «Mi getterò a capofitto nella pozza, in modo che tutti voi vediate che non temo né i Musi di porco né la maledizione di una dea.» Già si accingeva a salire sul ponte, quando Tungdil lo trattenne. «Aspetta. Prima dobbiamo trovare Bigor.» Gridò forte il nome dello scalpellino scomparso, ma non ottenne risposta. «Apriamoci e cerchiamolo», ordinò. Boïndil estrasse le asce. «Lo sapevo. La foresta se l'è preso. Gli alberi degli elfi odiano i nani.» «Li hai minacciati, che ti aspettavi che facessero?» «L'ho fatto perché si comportassero bene.» Il Rabbioso camminava a fatica tra l'erba alta e colpì le piante per sfogare il suo malumore.
Avanzavano in un largo ventaglio, chiamando Bigor e cercando il disperso. Lo trovarono vicino a una colonna intorno alla quale l'erba arrivava all'altezza di un uomo adulto. Più precisamente, trovarono i suoi resti mortali. Formarono subito un cerchio per difendersi meglio, mentre Tungdil lo esaminava più da vicino. La cotta di maglia gli era stata sollevata per metà sopra la testa, zanne acuminate avevano stracciato il farsetto di cuoio che portava sotto di essa e avevano scavato nella carne; insieme con le costole, mancavano altre grosse parti del nano. «È sicuramente caduto vittima di un animale feroce.» Intorno al morto, l'erba era calpestata e sporca di sangue. Boïndil guardò con rabbia l'ondeggiante foresta d'erba, che proteggeva la bestia dal loro sguardo. «Una maledetta trappola», ringhiò. «Quel Bramdal era un Terzo e ci ha mandati qui di proposito, per farci fare da buoni bocconi alla bestia.» Piantò bene i piedi per terra. «Ma non funzionerà con me. Quelle zanne fameliche non addenteranno più nessuno di noi.» Tungdil scoprì un ampio buco nell'erba. Lo inquietava che quell'animale, nonostante le dimensioni, fosse in grado di muoversi così silenziosamente da non farsi scoprire mentre si avventava su Bigor. In base alle condizioni del cadavere, sembrava che la bestia fosse stata disturbata durante il pasto. Sicuramente era in agguato da qualche parte. Sta aspettando che ce ne andiamo? Oppure che si presenti l'occasione di catturare un'altra preda? si chiese Tungdil. Il vento rinfrescò. Il fruscio dell'erba copri il debole ronzio che di norma annunciava una freccia. Il dardo colpì il nano alla destra del Rabbioso così velocemente e inaspettatamente che il malcapitato dapprima non si accorse di nulla. Per la forza dell'impatto fece un mezzo passo indietro, afferrò incredulo l'asta nera che spuntava dal suo corpo, e che aveva cacciato la punta nel suo cuore, e cadde a terra. «Albi!» tuonò Boïndil e si chinò per offrire un bersaglio più ridotto. La freccia che era riservata a lui gli volò sopra la testa e colpì in mezzo alla schiena il nano che stava alle sue spalle; gemendo, questi cadde a terra. Un terzo nano fu trafitto da altre due frecce. La velocità con cui venivano colpiti faceva pensare che si trattasse di più di un avversario. In qualche punto, nascosti nell'erba che li circondava, vi erano almeno tre nemici, e ciò significava, secondo Tungdil, che era im-
possibile uscire vincitori da quella lotta impari. «State giù!» ordinò tuffandosi nell'erba alta. «Strisciamo fino al laghetto. Ricordatevi le parole di Bramdal.» Impartì le sue istruzioni sottovoce, in modo che gli albi non li sentissero. «Scopriremo se quel nano ci ha mentito o se ha detto la verità.» «Sei cieco?» lo apostrofò il Rabbioso, che strisciava al suo fianco. «Siamo in un posto in cui la Terra Estinta...» Tungdil strappò un ciuffo d'erba. «È verde, non grigia! Qui non c'è nessuna Terra Estinta.» Una freccia sibilò sopra di loro. «Zitti adesso. Al lago.» Si mosse cautamente stando al suolo, facendo attenzione a non muovere troppo le piante e a non rivelare così la sua posizione ai tiratori. Che ci fanno qui? si chiese in preda a un'ansia febbrile. Che cosa c'è qui nel Lesinteïl che possa servire agli albi? Non poteva trattarsi di un gruppo di ricognitori dispersi, perché i combattimenti avvenivano nell'Âlandur e nello Dsôn Balsur, non così fuori mano, a nord. Probabilmente nel distrutto regno degli elfi era nascosto un segreto da cui gli albi speravano di trarre un qualche vantaggio nella lotta contro i loro cugini della luce. L'erba frusciava sempre più forte, come se intorno ai nani vi fosse un intero manipolo di albi. Durante il lungo percorso che conduceva al laghetto, Tungdil sentì ancora cinque prolungati e profondi gemiti di morte. La collera ribollì in lui, e il nano dovette lottare col desiderio di balzare su e gettarsi contro gli albi brandendo la Lama di Fuoco. La sua intelligenza lo trattenne dal farlo, salvandogli la vita. Per quegli abili tiratori sarebbe stato semplicissimo riempire di frecce un nano all'assalto. I loro archi imprimevano ai dardi una forza sufficiente a trapassare cotte di maglia. Contro di loro serviva essere al coperto, nient'altro. Tungdil pregò Vraccas di aiutare i sopravvissuti del gruppo ispirandoli affinché restassero nascosti e non facessero da bersaglio. All'improvviso sembrò che il dio Samusin si fosse ricordato del suo compito: preservare l'equilibrio. Fece voltare il vento, in modo che dal laghetto soffiasse contro gli albi. Ciò fece venire a Tungdil l'idea di estrarre la pietra focaia e d'incendiare l'erba. «Appiccate il fuoco!» gridò e si rallegrò subito delle fiamme guizzanti che, nutrendosi dell'erba alta e asciutta, si diffusero rapidamente. Anche da altri punti si alzarono dense nuvole di fumo; la brezza trasportava il fuoco e lo aizzava contro gli oscuri albi. Al riparo di fiamme, fumo ed erba, Tungdil riprese a strisciare finché
non raggiunse il laghetto. Un rapido sguardo a sinistra e a destra gli fece scoprire due nani; degli altri e del Rabbioso non vi era nessuna traccia. Avrebbe voluto gridare loro di correre al ponticello, quando un'ombra nera uscì dal mare erboso. Era un toro sellato, cui il proprietario aveva messo una specie di elmo in tionio; perfino le corna erano avvolte nel metallo. Il pelo scuro fumava, e nell'aria si spandeva odore di corno bruciato. L'animale fece intuire senza possibilità di equivoco quali fossero le sue intenzioni. Si voltò verso i nani, abbassò il grosso collo, raspò sulla terra morbida con lo zoccolo e sbuffò, aggressivo, mentre la coda frustava a destra e a sinistra. «Forza, al ponte. Il lago è la nostra unica salvezza.» Tungdil prese dalla schiena la Lama di Fuoco, pur sapendo che sarebbe stato difficile trattenere il toro. Stimò che pesasse oltre cinque quintali; sembrava non avere addosso un'oncia di grasso ed essere fatto di puri muscoli. I nani si misero a correre. Il toro li guardò un istante con gli occhi ardenti di rosso e spalancò le fauci in un potente muggito; poi si mise a trottare dietro di loro. A metà percorso accelerò, gli zoccoli sollevavano il fango e tuonavano minacciosi. Li avrebbe raggiunti ancora prima che arrivassero al ponte. «Ohi, vieni qua, vacca nera!» Boïndil sbucò fuori della protezione dell'erba, agguantò la coda del toro e tirò, i piedi ben piantati nel suolo smosso. Il bovino lo trascinò con sé, facendo scavare profondi solchi agli stivali del Rabbioso. Poi si fermò e, muggendo, fece per girarsi e attaccare lo sfrontato e impavido nano. «T'insegno io a massacrare la nostra gente!» gridò il Rabbioso sfilando un'ascia dal cinturone. La lama scavò una ferita profonda su una zampa posteriore. «Sbrigati, Sapientone! Vi copro le spalle!» Tungdil cercò di scorgere i tiratori degli albi attraverso la cortina di fiamme divampanti che si era formata. Non vedendo nessuno, osò avventurarsi con gli altri due nani sul ponticello, che non offriva nessuna copertura dalla letale precisione delle frecce. Con la coda dell'occhio seguiva la pericolosa danza di Boïndil. Il toro recalcitrava e girava su se stesso, inutilmente; il nano continuava a pendere dalla sua coda come una piattola e ne seguiva i movimenti. «Ho già ammazzato ben altre bestiacce», gridò il Rabbioso. «Qualunque cosa tu sia, non la sarai più a lungo.» L'ascia si piantò a più riprese nelle zampe, lasciando ferite da cui sgorgava sangue rosso scuro. Alla fine l'a-
nimale si piegò sulle zampe posteriori; il roco muggito era rivolto al suo vincitore. «Adesso mi taglio un bel pezzo dalle tue costole», annunciò Boïndil. «Attento! Stanno...» Una freccia impedì al nano che stava accanto a Tungdil di completare il suo avvertimento. Una seconda freccia lo trafisse alla schiena, poco lontano dalla prima. Rantolando il nano crollò a terra, cadavere. «Fa' attenzione!» gridò Tungdil per avvisare l'altro compagno. Ripose l'ascia sulla schiena e prese il morto per le spalle, per sollevarlo e tenerlo davanti a sé come uno scudo. Privato della vista, Tungdil sentì solo che anche l'altro nano cadeva vittima delle frecce. Udì cinque sibili, seguiti dal chiaro tintinnio della cotta di maglia e dal rumore aspro con cui le punte e le aste delle frecce entravano nel corpo. Si sentì un forte tonfo quando il nano cadde nell'acqua. Tungdil non osava alzare la testa e sbirciare sopra il cadavere, quindi indietreggiò velocemente per raggiungere la fine del ponte. «Boïndil, devi guadare l'acqua dalla riva», gridò più forte che poté. «Non venire sul ponte!» Il Rabbioso era accanto al toro e sollevò l'ascia con entrambe le mani, la lama puntata sul massiccio collo dell'animale. «Io non ci vengo proprio in quella pozza», replicò. «Prima faccio questa mucca a...» I potenti fasci muscolari si contrassero, la testa del toro girò improvvisamente e il lungo corno colpì il nano al ventre. Boïndil finì gambe all'aria, venne scaraventato per quattro passi e cadde sulla nera superficie del laghetto. Con un leggero gorgoglio, la sua arma lo seguì. Il nano non riemerse, salivano dal basso solo bolle. Tungdil interpretò l'involontario volo del suo amico come un compassionevole atto di Vraccas e si preparò a saltare anche lui in acqua, quando sentì passi veloci che attraversavano il ponte. Abbassò un poco il cadavere per guardare quanto fossero vicini. In quello stesso istante una freccia lo colpì alla spalla destra. Tutte le forze gli scemarono dal braccio; il cadavere che gli faceva da scudo si abbassò ancora un po', esponendolo ulteriormente. L'albo fece partire un'altra freccia, che trovò il suo bersaglio nel petto di Tungdil. Il nano cadde pesantemente, spingendo via il cadavere e gemendo. Che fosse al centro del lago o no, l'acqua era l'unica speranza di salvarsi dai suoi spietati inseguitori. Gli albi si avvicinavano sempre di più.
Scorse un'alba che si muoveva rapidamente verso di lui. Era mascherata: un pezzo di seta nera rendeva il suo volto irriconoscibile; correndo, teneva levata un'arma a forma di falce, che gli ricordò Narmora. «Metto la mia vita nelle tue mani, Vraccas», mormorò Tungdil. Stordito, spezzò le aste delle frecce e si riversò di lato oltre il bordo del ponte. «Fa' che Bramdal non abbia mentito.» Sentì che cadeva. La scura superficie del lago divenne sempre più vicina, finché, inaspettatamente, la caduta non fu frenata poco prima dell'immersione. Qualcuno aveva afferrato il nano per il cinturone. Terra Nascosta, sud-ovest dell'Urgon, capitale Dreigipfelburg, 6234° ciclo solare, primavera «Sono qui per portarvi il sincero cordoglio di mio zio, re Lorimbas Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, della stirpe di Lorimbur, per la perdita di vostro nipote. Il regno ha perso un giovane, capace sovrano.» Romo Cuordacciaio accennò un inchino di fronte all'uomo seduto sul trono. Si trovavano in un palazzo senza pretese, che il nano avrebbe al più chiamato una fortificazione, sulla più alta delle tre colline su cui era stata costruita la capitale dell'Urgon, Dreigipfelburg. In quella regione montuosa il legno era prezioso, per cui gli uomini edificavano il più possibile in pietra: la città sembrava formata da piccoli dadi variopinti. Non vi era nessun tetto di tegole; la parte superiore delle case era costituita da lastre di pietra su cui si poneva ad asciugare il bucato e a seccare carne e frutta. La varietà dei colori dipendeva dai diversi tipi di pietra che venivano impiegati nella costruzione degli edifici; talvolta formavano intenzionalmente motivi geometrici. Il nano apprezzava il fatto di trattenersi tra solide mura e di essere circondato da montagne che ricordavano sotto ogni aspetto quelle dei Monti Neri. «Non ho mai voluto essere re.» L'uomo, tarchiato e grassoccio, poteva avere circa quarantacinque cicli. Indicò il dipinto di un giovane uomo con lunghi capelli biondi. «Questo è il re dell'Urgon. Lotario...» Gli venne meno la voce e tacque, nascondendo il volto tra le mani; lacrime scorsero attraverso le dita. Romo si dovette dominare per non mostrare apertamente il suo disprez-
zo per un simile sfogo emotivo. Osservò gli arredi finché Belletain non si ricompose. Il re si terse le lacrime dalla corta ma folta barba biondo scuro. «Perdonami. Il dolore è troppo grande. Il mio stimato fratello è morto sette cicli fa, durante una spedizione contro i troll.» Si toccò l'elmo. «Un colpo fracassò a me il cranio. Da allora ho il volto deformato e devo portare l'elmo, altrimenti la mia testa cadrebbe a pezzi come un pezzo di frutta marcia. Come se non fosse abbastanza, gli dei hanno fatto cadere anche mio nipote. Lo amavo come un figlio.» Era la battuta che Romo stava aspettando. Aveva capito già da tempo che là non avrebbe incontrato la stessa resistenza che aveva incontrato presso il principe Mallen. Se avesse scelto la giusta melodia, Belletain avrebbe di certo ballato al suono del suo flauto. «Permettimi, non gli dei. Sono stati i nani a portarlo alla rovina.» Il sovrano sollevò stancamente il capo e osservò con più attenzione il suo ospite. «Uno come te?» La mano si posò sull'elsa della spada. «Allora vieni avanti, in modo che ti possa uccidere.» «No, io parlo innanzitutto dei Quarti, che stanno nel nord-est del tuo regno e si godono i tesori dei Monti Marroni, che in fondo spetterebbero a te.» Romo si avvicinò all'uomo distrutto, assiso sul trono. I suoi occhi lo fissavano vuoti e cupi. Sarebbe stato facile trarlo dalla loro parte. «I nani hanno aspettato decisamente troppo, prima d'immischiarsi nella lotta. Se ci fossero stati anche loro a Porista, come più tardi hanno fatto a Giogonero, Lotario vivrebbe ancora.» «E tu e la tua stirpe? Non odiate gli altri nani...» «Per questo motivo posso spezzare con facilità le catene dell'ipocrisia e dire la verità», disse per riprendere il filo del discorso prima che il re, coi suoi pensieri, andasse alla deriva in una direzione che ai Terzi non serviva a nulla. «Non ammetteranno mai che possedevano questa ascia meravigliosa sin dall'inizio e che volevano solo mettersi in mostra come salvatori della Terra Nascosta.» Si avvicinò ancora di più. «Gli uomini dovevano trovarsi in difficoltà. Tuo nipote è stato vittima di un gioco prestabilito.» Belletain lo fissava con gli occhi sbarrati. «Non mi faccio imbrogliare dalle tue parole.» Scoppiò a ridere all'improvviso. «Perché mai avrebbero dovuto...» «Riconoscimenti e potere», obiettò subito Romo. «Bramavano riconoscimenti, perché a loro avviso non ricevevano dagli uomini il dovuto ringraziamento per il loro servizio agli ingressi della Terra Nascosta. Adesso
ce l'hanno fatta; tutto d'un tratto sono gli eroi e i salvatori di tutti i popoli, cui ora vogliono impartire consigli. Non ci vorrà ancora molto, prima che gli assassini di migliaia di esseri umani siedano in ogni corte per diventare i segreti signori della Terra Nascosta. Persino gli elfi ci sono cascati.» Guardò il ritratto di Lotario. «Noi, i nani di Lorimbur, non abbiamo dimenticato il nostro destino. Nella città, noi siamo le umili vedette di guardia sulle torri, non i signori.» Il suo discorso stava trovando terreno fertile; lo vide sul volto del re. «Devo riflettere», mormorò Belletain, tormentato. «Le tue parole hanno implicazioni così terribili da farmi male alla testa.» Si teneva il capo, e Romo vide come il leggero tocco bastava a muovere le ossa sotto la pelle. «Va', nano. Ti farò sapere quando avrò...» L'uomo gridò forte e le sue mani si aggrapparono ai braccioli; quindi si afflosciò sul trono. Le porte si spalancarono, tre guaritori corsero dentro e presero a occuparsi del re. Uno ne sorreggeva la testa, l'altro staccò una piastra dell'elmo, dietro la quale spuntò un pezzo di fasciatura. Il terzo sciolse la fasciatura, e Romo osservò sbalordito come incideva con un ago sottile la pelle, creando un buco da cui istantaneamente schizzò un piccolo getto rosa di acqua e sangue, che zampillò gorgogliando in una scodella di bronzo. «Andate nei vostri alloggi», lo pregò il guaritore che sosteneva la testa di Belletain. «Ci vorrà un po' prima che possa di nuovo parlare con voi.» Il nano assentì borbottando, si girò e sparì dalla sala. Era certo che presto avrebbe trovato nell'Urgon un alleato contro i suoi odiati parenti. Aveva piantato il secondo picchetto del piano di suo zio. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera Narmora correva per il palazzo avendo poco riguardo per la creatura che portava in grembo, perché un'altra, per lei ancora più importante, si trovava in grave pericolo. Affannata, teneva una mano sul fianco e annaspava, poiché il bambino dentro di lei influiva negativamente sulla sua resistenza. Sentiva i minuscoli piedini scalciare contro la sua pancia: la ribellione del piccolo all'insolita corsa. Djerun montava la guardia davanti alla stanza in cui Andôkai si occupava di entrambi i feriti.
«Lasciami passare», ordinò la mezz'alba cercando di superarlo e di afferrare la maniglia della porta. Ma la montagna di acciaio non si faceva da parte; con la sua mole bloccava l'ingresso senza bisogno di muoversi. «Andôkai», gridò Narmora, furibonda. «Dite alla vostra guardia di lasciarmi passare, o vi giuro che troverò un modo per superarlo.» Attraverso la porta giunse un richiamo attutito. Djerun si riscosse immediatamente dalla sua rigidità e fece spazio alla mezz'alba; nel farlo, la sua armatura emise uno strano cigolio lamentoso, come se il ferro fosse sottoposto a un'enorme pressione. Narmora aprì uno dei battenti e si precipitò dentro la stanza. La maga era china sul letto in cui Furgas giaceva con gli occhi chiusi e la fronte coperta da un sottile strato di sudore. Le lenzuola sembravano umide. «Amore mio», sussurrò Narmora, piena di paura, avvicinandosi al giaciglio. «Ha le labbra pallide come la morte.» Poi vide la fasciatura sul ventre, attraverso la quale premeva il sangue. «È...» «No», disse Andôkai. «Parla piano, altrimenti ne risente. Gli aggressori hanno utilizzato una lama impregnata di un veleno a me sconosciuto. Se le guardie non lo avessero portato subito da me, non sarebbe più tra i vivi. Samusin gli ha preservato la vita.» Per il sollievo, la mezz'alba cadde singhiozzando sulle ginocchia. «Io vi ringrazio, venerabile Andôkai. Vi sono profondamente debitrice.» La maga le fece cenno di alzarsi. «Sarai di opinione diversa, quando avrò finito di parlare», replicò. «La mia magia è bastata per mantenerlo in vita.» I suoi occhi azzurrissimi cercarono quelli di Narmora. «Ma da sola non posso fare niente di più per lui. Il veleno dev'essere di origine magica. Gli aggressori non erano solo a caccia di oro, erano sicuramente seguaci di Nôd'onn. La spada infilata nella sua pancia portava intarsi raffiguranti il suo simbolo.» Narmora si sollevò e prese le umide e fredde mani di Furgas per scaldarle. «Perché mai avrebbero dovuto farlo?» Accarezzò amorevolmente il volto smunto. «Perché avrebbero dovuto fare del male al mio uomo? Non si è mai interessato di magia.» «No, ma è al mio servizio. Ai loro occhi sono l'illegittima occupante del regno incantato di cui volevano impadronirsi alla morte del mago.» Andôkai posò una mano sulla spalla di Narmora. «Finché esisteranno i servitori del male e non porremo loro un freno, Porista è in pericolo, e con essa la Terra Nascosta. Non sono in grado di valutare il loro numero. Ho bisogno di avere al mio fianco qualcuno di cui mi possa fidare. Una persona che
non m'ingannerà mai. Se accadesse il peggio e riuscissero a battermi, ci dev'essere qualcuno che continui la mia opera. Altrimenti i futuri maghi verranno educati nello spirito di Nôd'onn, e questo non deve accadere. Non sei d'accordo?» Narmora chiuse gli occhi. «Insieme potremo guarirlo?» chiese con voce roca. «Te lo prometto. Se uniremo le nostre forze, ce la faremo.» La maga tirò il fiato, avendo interpretato la domanda dell'altra come un assenso. «Ma ce la faremo solo se eseguiremo il rituale necessario per spezzare l'incantesimo trasmesso dal veleno entro mezzo ciclo. Dovrai studiare col sole e con la luna.» Andôkai posò la mano sul ventre arrotondato che nascondeva il bambino. «Pensi di riuscirci?» «Sì», rispose Narmora, risoluta. «Voglio che nostro figlio conosca suo padre, e non che ne senta solo parlare nei racconti che gliene farà la madre con le guance rigate di lacrime.» Lasciò la mano di Furgas e strinse i pugni. Il bianco dei suoi occhi si oscurò fino a diventare nero, sul volto fine si formarono sottili linee simili a tagli. «Gli canterò di come i responsabili hanno trovato la morte. E non sarà una morte misericordiosa.» Rodario era sdraiato sul letto dall'altra parte della stanza e seguiva in silenzio quello che accadeva. La testa fasciata continuava a ronzargli; il colpo di randello apparteneva alle esperienze che avrebbe volentieri evitato. Non se la prese con Narmora per il fatto che fino a quel momento non aveva chiesto una sola volta delle sue condizioni di salute. Probabilmente gli sarebbe successa la stessa cosa, se la sua amata fosse caduta in uno stato di morte apparente. Nonostante lo stato di stordimento in cui versava, aveva capito che la maga non si era presa neppure la briga di curarlo con la magia. Gli era parso come di sognare, mentre le guardie lo trasportavano al palazzo attraverso le strade in rovina di Porista. Ricordava con precisione che qualcuno gli aveva lavato e bendato la ferita, ne vedeva le mani nella mente, ma non ricordava il volto della sua infermiera. Andôkai si rivolse a lui. «Stai meglio, Rodario?» Subito l'attore si fece apparire un sorriso sulle labbra, perché lei non lo rimproverasse di essere un rammollito. «Bene. Allora puoi tornare nel tuo alloggio.» Gli angoli della bocca di Rodario si abbassarono. «Ho compreso che non mi volete nelle vostre vicinanze.» Si tirò su con cautela, aspettando invano un capogiro, che proprio non voleva venire. Sempre con cautela scivolò
nelle sue scarpe a punta, si alzò e si avvicinò alle donne. Narmora si era di nuovo tranquillizzata. Col rivelatorio sfogo emotivo, che aveva fatto affiorare il retaggio materno della donna, se ne erano andati anche gli occhi neri e le linee. Il suo aspetto era di nuovo quello di una futura madre molto bella. Gli toccò un braccio. «Scusami se non ti ho salutato prima. Naturalmente ero preoccupata anche per te...» L'attore alzò una mano. «Non fa niente. Ti capisco.» Andôkai incrociò le braccia dietro la schiena. «Puoi continuare il lavoro di Furgas?» «Io?» Rodario si portò una mano al petto, stupito. «Voi volete che un attore ricostruisca la vostra città?» Pur avendo sulla punta della lingua un rifiuto, cambiò idea. «Io... ci proverò volentieri.» «Non devi provare, devi continuare», ribatté la maga. «Se non pensi di essere in grado, dillo subito, e mi troverò un altro costruttore.» Le monete che lo aspettavano come compenso resero Rodario più coraggioso di quanto gli permettesse il volto dubbioso di Andôkai. Fece una riverenza. «Venerabile maga, sono profondamente onorato di prendere il posto del mio amico; in ogni caso solo finché egli non si ritroverà di nuovo in perfetta salute. Volentieri rimando la ristrutturazione del mio teatro e la prima rappresentazione del pezzo che io stesso ho scritto...» «Bene. Allora va' a casa e riposati. Domani, presentati puntuale ai cantieri; non ci dev'essere nessun ritardo.» La maga rivolse la sua attenzione a Narmora. «Faccio portare le tue cose a palazzo. Puoi scegliere la stanza che preferisci, ce n'è in abbondanza.» «Rimango con Furgas. C'è abbastanza spazio, qui...» «No. Ha bisogno di quiete assoluta, e lo abbiamo già disturbato troppo con le nostre voci. Potrebbe sentirci e agitarsi; così il suo cuore batterebbe più in fretta e pomperebbe il veleno anche nel più remoto angolo del suo corpo. Per lui sarebbe la morte.» La spinse in direzione della porta. «Lo potrai vedere per un'ora ogni rotazione, Narmora, ma non dovrai parlargli. Stai con lui, tienigli la mano. In silenzio.» Andôkai aprì la porta, e la schiena d'acciaio di Djerun si spostò di lato per lasciarli uscire. «Provvedo a lui e sono subito da te», disse congedandosi. Narmora accompagnò l'attore fino al portone. «Pensi di poter scoprire se ci sono ancora altri seguaci di Nôd'onn all'interno delle mura di Porista?» gli chiese strada facendo. «Tu sei un maestro in fatto di travestimenti e inganni.» Rodario sogghignò. «Certo che lo sono. Di notte mi aggirerò quatto
quatto per i vicoli e mi metterò sulle loro tracce.» Si pentì di quelle parole un istante dopo averle pronunciate. Ma tenendo davanti agli occhi l'immagine di Furgas pallido come un cadavere, nel suo animo si fece strada un po' dell'eroico coraggio che l'attore mostrava sul palco. «Mi travestirò in modo particolarmente astuto, così nessuno oserà mettermi le mani addosso», decise. «Riferirò presto alla maga dove si nasconde il covo di quella genia, così potrà snidarli.» «Dillo a me, non a lei», lo pregò Narmora. «Vuoi vendicarti del tuo compagno? Pensi che una mezz'alba incinta sia adatta allo scopo?» «Mi sento forte abbastanza da affrontare Djerun.» Narmora aprì il piccolo uscio inserito nel portone, gli prese la mano e la strinse. «Me lo prometti, Rodario?» L'uomo annuì e la consolò con un abbraccio. Quindi guardò a destra e a sinistra, esitante; non si vedeva nessuno. «Te lo prometto.» Le fece un cenno di saluto e se ne andò. Solo allora, quando fu solo, osò aprire il suo pugno sinistro. Lì conservava un po' dello strano liquido, che doveva essere veleno, con cui l'aggressore aveva ferito il suo migliore amico. Lo aveva toccato quando l'uomo con la spada corta gli aveva chiesto se fosse Furgas. Rodario esaminò il liquido tenendolo davanti agli occhi. Emanava un bagliore giallognolo e per qualche strana ragione non gli pareva del tutto sconosciuto. E più ci pensava, meno ricordava gli intarsi sulla spada corta di cui aveva parlato la maga. L'unica cosa che concordava con la sua ricostruzione era che entrambi gli uomini erano in cerca di Furgas. Quale segreto si nasconde dietro questa storia? Improvvisamente pensò che era davvero opportuno andare a fondo in quell'attacco misterioso, anche se sperava di non scoprire nulla che avrebbe potuto complicare ancora di più la sua vita a Porista. VI Terra Nascosta, Gauragar, antico regno elfico del Lesinteïl, 6234° ciclo solare, primavera Il cinturone per armi che Tungdil portava a tracolla scricchiolò per via del carico. L'inatteso strattone che aveva fermato la sua caduta nell'acqua gli strappò l'aria dai polmoni, ma il dolore bruciante per le ferite causate
dalle frecce fece sì che non perdesse i sensi. Sopra di sé sentì qualcuno che ansimava. L'alba lottava contro il peso del nano; la sua forza muscolare non bastava a riportarlo sul ponte. Lei gridò forte, e Tungdil suppose che non ci sarebbe voluto molto prima che i suoi le prestassero aiuto. Il peggio era che lui non poteva fare niente. Il sangue trapelava dalle ferite e gocciolava sulla nera acqua del laghetto, mentre Tungdil penzolava al laccio come un maiale pronto al macello. Dimenò braccia e gambe per rendersi più pesante e costringere l'alba a lasciare la presa; quando con gli stivali colpì un pilastro di sostegno del ponte, impresse più forza e oscillò avanti e indietro. L'alba gemette per lo sforzo e imprecò. I movimenti convulsi del nano stavano sortendo effetto, e gli riuscì di scivolare un po' più in basso. «Non mi prendi!» esultò. «Molla, o il lago c'inghiottirà tutti e due!» Improvvisamente sentì delle voci. Poi seguì un rumore raschiante, da cui concluse che l'alba aveva ricevuto l'aiuto che attendeva, e prima ancora di aver formulato interamente il pensiero, venne issato spanna per spanna. Ma Tungdil non si arrese. I suoi stivali incontrarono di nuovo resistenza, piegò le ginocchia, poi distese le gambe con tutte le forze che gli erano rimaste. Oscillò in avanti, mentre le mani dei nemici non mollavano il cinturone. Ad arrendersi fu invece il cuoio. La fibbia non era fatta per reggere il peso di un nano penzolante e per di più in armatura. Ma prima ancora che la fibbia si deformasse, si strappò il primo buco della cintura, quello in cui era infilato il dente metallico; quindi si squarciò il cinturone per lungo. La Lama di Fuoco! Con le deboli dita cercò di afferrare il cinturone prima che si strappasse del tutto. Non deve finire nelle mani degli... Improvvisamente precipitò nell'acqua gelida, che sotto la superficie era nera esattamente quanto sopra. La sua cotta di maglia lo trascinava inesorabilmente in basso, verso il fondo. Trattenne il respiro, come faceva nei suoi occasionali bagni in tinozza. Sotto di lui, il laghetto sembrava non voler finire. Il nano continuava a sprofondare. A un certo punto non riuscì più a distinguere l'oscurità dell'acqua dai prodromi dello svenimento che da lì a poco lo avrebbe colto, e le due tenebre di origine differente si dilatarono l'una dentro l'altra. Divenne più debole. L'istinto e la paura di morire lo spingevano ad apri-
re la bocca e riempire i polmoni, per non soffocare, ma la sua intelligenza, benché stesse svanendo, glielo proibì, preservandolo dall'annegare. Poi vide la luce. Sgorgava tutt'intorno a lui, gli dava calore e un senso di ritrovata sicurezza. Le sue mani si distesero in avanti, bramose. Sentì tuoni e il mugghiare di mantici. La Fucina Eterna! Sto andando nella Fucina Eterna di Vraccas! Una simile pretesa gli valse un sonoro schiaffo. Si spaventò, e subito dopo ricevette sulla guancia un altro ceffone, somministrato con tanta forza da fargli girare la testa contro la sua volontà. Il chiarore rosso aumentò, s'impose sull'oscurità e la scacciò completamente. Attraverso gli occhi velati riconobbe il viso del suo dio, che sembrava davvero un nano. «Torna in te, Sapientone», lo salutò Vraccas, imbronciato, alzando il braccio per colpirlo un'altra volta. «Lo giuro, ti prenderò a ceffoni finché non m'insulterai.» Tungdil vide la mano in arrivo e ordinò alla sua sinistra di afferrarla. «Maledetto pazzo», sussurrò e cercò di sollevare la parte superiore del corpo; due mani lo aiutarono. Vomitò un fiotto d'acqua, sbuffò e tirò su col naso contemporaneamente, inghiottì e annaspò, fino a che i suoi polmoni non ebbero espulso gli ultimi residui del laghetto. La testa gli era divenuta rosso vivo per l'accesso di tosse, e gli occhi erano molto gonfi. Alla fine, Tungdil riuscì a guardarsi intorno. Davanti a lui stava accovacciato un Boïndil fradicio, ma che gli sorrideva in modo incoraggiante. Si trovavano in riva a un lago sotterraneo. Ciò che aveva interpretato come il rombo di mantici si rivelò il frastuono prodotto da una cascata, che faceva un salto di dieci passi partendo dal centro del soffitto della caverna. La luce rossastra non nasceva dalle braci della forgia, ma da lanterne provviste di vetri rossi, che pendevano alle pareti tutt'intorno a loro. La grotta nel suo insieme si estendeva su una superficie di un miglio quadrato, ma solo sul lato in cui si trovavano i nani era provvista di una riva; sugli altri lati, le pareti spuntavano perpendicolari all'acqua. «Bello scivolo, vero?» Il Rabbioso indicò la massa d'acqua in caduta. «Siamo usciti di lì, la corrente ci ha portati a riva.» Il suo volto s'incupì. «A parte me, sei l'unico che è sopravvissuto?» Tungdil annuì debolmente. «Maledetti albi!» Boïndil sfogò la sua collera colpendo una roccia.
«Vraccas me li deve mettere ancora una volta davanti, in modo che possa punire quei vigliacchi assassini.» Sollevò la testa. «Dietro di te stanno quelli che cercavamo. Hanno già mandato qualcuno a chiedere aiuto.» Osservò le ferite di Tungdil. «Ci sei andato vicino. Speriamo che non abbiano usato veleno.» «Già, speriamo», replicò Tungdil sforzandosi di sembrare fiducioso. La caverna gli girava intorno, e lui sperò che ciò fosse dovuto alla perdita di sangue e agli strapazzi che il suo corpo aveva patito. Niente veleno, per pietà, niente veleno. Sollevò una mano e si tastò il petto, abbassando la testa per guardare il cinturone a tracolla. «Dev'essersi strappato mentre arrivavi qui. Il passaggio è molto stretto, per un pelo non ci sono rimasto infilato.» Boïndil si alzò e si avvicinò alla riva. «Dovremo immergerci per cercare la Lama di Fuoco, se vogliamo riprendercela.» «Non c'è più», mormorò Tungdil. Ricascò sulla schiena, costretto da una vertigine improvvisa. «Non c'è più?» Il Rabbioso aveva un presentimento, ma non voleva crederci. «Non mi dirai che gli Orecchi appuntiti dello Dsôn Balsur hanno la nostra Lama di Fuoco?» Si avvicinò all'amico e s'inginocchiò accanto a lui. Aveva il terrore dipinto sul volto. «Dimmi che l'hai persa nel lago. Sarebbe meglio di sapere che è nelle mani dei nostri nemici.» Tungdil gli spiegò l'accaduto. «Questo non va per niente bene», commentò Boïndil, preoccupato. «Ma potrebbe essere scivolata dal sostegno ed essere caduta in acqua.» «Come potremmo...» «Sono arrivati con la barella», disse una voce profonda, fuori del campo visivo di Tungdil. «Lo portiamo alla nostra dimora più vicina, poi Gemmil deciderà del vostro futuro.» Numerosi nani pallidi si avvicinarono a Tungdil, lo sollevarono con cautela e lo posarono su una lettiga. Lui esaminò i volti con più attenzione e non scoprì nessuna differenza coi nani che fino a quel momento aveva conosciuto. Si distinguevano solo per la pelle molto chiara e per gli occhi, in cui mancava il consueto marrone intenso. In uno di loro mancava perfino un qualunque colore; era bianco come un lenzuolo e con gli occhi rossi e sorrideva in modo amichevole. Il Rabbioso mise istintivamente la destra sul manico dell'ascia; non si fidava di loro, e in particolare del nano dall'aspetto così inconsueto. «Caverò loro il cervello dal cranio, se stanno tramando qualcosa contro di noi»,
sussurrò al suo amico. Poi indicò il portatore più appariscente. «Se vuoi sapere la mia, sembra un fantasma. Ma tu sei un sapientone. Come ti spieghi che nel nostro popolo possa nascere qualcosa del genere?» Tungdil non dovette riflettere a lungo. Si ricordava dei libri di botanica e zoologia della Terra Nascosta che aveva sfogliato. «Ho letto di pesci e rospi che vivevano nelle caverne di montagna, senza luce», gli raccontò. «Pare che non abbiano occhi e che siano bianchi dalla testa ai piedi.» Boïndil si strizzò via l'ultima acqua dalla barba nera, poi si occupò della treccia; il rivoletto lasciò dietro di sé una traccia scura sul pavimento della caverna. «Ma i clan della mia stirpe vivono anche loro nelle montagne...» «Di tanto in tanto però escono fuori, per custodire il bestiame, commerciare o fare altre cose che si fanno alla luce del sole», cercò di spiegare Tungdil, innanzitutto a se stesso. Non era un sapiente in senso stretto, per cui non poteva esserne sicuro, ma supponeva che quella caratteristica avesse a che fare con la prolungata permanenza lontano dalla luce. Avevano lasciato alle loro spalle la grotta e la cascata e marciavano attraverso corridoi che parevano scavati dall'acqua nell'arco di molti cicli. Finalmente superarono un piccolo portale d'acciaio e raggiunsero un acquartieramento. La barella di Tungdil venne issata su un tavolo. «Sembra meglio di quanto pensassi», disse una voce, più chiara e bella del suono di un martello sull'incudine. «Tagliate l'armatura, devo esaminare le ferite.» Due nani piazzarono delle forti tenaglie sull'orlo della sua cotta di maglia, mentre un terzo la teneva ferma. Stridendo, l'attrezzo tagliò un anello dopo l'altro, come se fossero di legno invece che di ferro; le due metà della cotta si staccarono. Con un coltello affilato, i nani tagliarono di traverso il giustacuore di cuoio e intorno ai monconi delle frecce, poi lo aprirono. «Vediamo un po' che cosa ti hanno fatto gli albi», risuonò di nuovo la voce. Poi la nana cui apparteneva, che era bianca come la neve, entrò nel campo visivo di Tungdil. La sua incantevole vista annientò il pensiero di Balyndis come un colpo di maglio, facendolo scoppiare in mille pezzi minuscoli. Tungdil era sicuro di non avere mai visto in tutta la sua vita una nana così bella. «Io sono Myrmianda», si presentò lei, mentre i suoi occhi rossi esaminavano le ferite sul petto scoperto del nano. Sugli abiti marrone scuro portava un grembiule di cuoio; un cerchietto d'oro le tratteneva i capelli bianchi. «Sono chirurga, e con me sei in buone mani, direbbero altri. Dovrai fidarti.» Si chinò su di lui, e le sue mani tastarono delicatamente i punti
intorno alle ferite. Tungdil sorbì il profumo della nana. Fresco, pulito... Non l'avvolgeva il minimo accenno di sudore o di fumo, soltanto odore di erbe. «Non c'è niente che stia indurendo o cambiando colore. La benedizione di Vraccas è con te.» Myrmianda si raddrizzò e fece un cenno con una mano. Il suo aiutante sollevò il torso di Tungdil, gli sfilò la cotta di maglia e tagliò la parte posteriore del farsetto. «Gli albi usano frecce con punte inastate. Questo significa che non posso semplicemente estrarre la freccia, altrimenti le punte rimarrebbero dentro al tuo corpo. Le devo fare uscire dall'altra parte.» Prima ancora che avesse finito di pronunciare l'ultima parola, la nana sollevò il braccio, posò indice e medio su ciò che restava della prima freccia e spinse. Tungdil strinse i denti fino a sentirli stridere forte nelle sue orecchie. Gli sembrò che fili d'acciaio incandescenti stessero attraversandogli il petto e la spalla. Con l'altra mano, la nana prendeva in consegna le punte in uscita e le estraeva dalla carne con uno strattone. «Molto valoroso», lo lodò. Gettò le punte in un piccolo recipiente pieno d'acqua, in cui poi si lavò le mani sporche di sangue. Quindi prese da una scodella degli spessi e umidi pezzi di muschio, li posò sulle ferite aperte e, con l'aiuto di un assistente, li fasciò insieme. «Il muschio blu ferma la perdita di sangue. Tra qualche ora lo cambieremo con dell'altro fresco, e domani non sentirai più male.» Disciolse della polvere in un bicchiere d'acqua e lo passò a Tungdil. «Bevi. Ti rinvigorirà e farà uscire lo sporco dalla ferita.» «Per Vraccas! Non ho mai visto un guaritore medicare così in fretta!» esclamò Boïndil, riconoscente. Avrebbe quasi voluto essere anche lui ferito, per potersi avvalere dell'abilità della chirurga. Myrmianda gli fece un cenno col capo. «Grazie. Pratico l'arte della guarigione da tempo considerevole.» Tungdil non era in grado di distogliere gli occhi da lei. Era l'opposto di Balyndis, parlava la lingua dei nani in modo limpido, con inflessioni della lingua comune, e presumibilmente aveva ricevuto un'istruzione straordinaria; poteva attribuirgliela se non altro per via della costituzione non troppo robusta. Balyndis era almeno due volte più forte; il lavoro alla forgia richiedeva più muscoli di quanti non ne richiedesse quello di chirurga. «Io sono Tungdil Manodoro», disse non appena si fu scrollato di dosso il fascino paralizzante di lei. Vuotò il bicchiere rapidamente. «Questo è Bo-
ïndil Duelame del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe di Beroïn.» Myrmianda si asciugò le mani su un panno e lo ripose sul tavolino di supporto. «Sono lieta di conoscere l'eroe di Giogonero», replicò con un leggero inchino. «È improbabile che tu sia stato scacciato dalla tua stirpe per aver annientato Nôd'onn, vero? Devo dedurne che il tuo arrivo nel nostro regno è dovuto a un caso? Siete caduti nel lago durante il combattimento con gli albi?» «Non fraintendermi, ma sarebbe meglio se ne discutessimo col re», disse Tungdil, benché gli spiacesse rifiutare una spiegazione sui retroscena della loro visita proprio a quella nana, che gli aveva estratto due frecce dal corpo e che in più gli piaceva in modo eccezionale. Per un istante Myrmianda sembrò delusa, ma poi tornò a sorridere, cosa che gli fece battere il cuore. «Da questa risposta deduco che non è stato un caso.» La nana raccolse i suoi strumenti chirurgici. Tungdil scorse sottili coltelli, uncini, seghe e altri oggetti che sembravano poter fare molto male a un corpo sano. Myrmianda li avvolse in un panno e legò il rotolo così ottenuto con delle stringhe di cuoio, poi lasciò la stanza. «Buona guarigione», gli augurò prima di scomparire dall'atrio. Nella stanza entrò un nano dai capelli bianchi, con la pelle pallida come il lino e gli occhi scuri come terra appena arata. Portava una cotta di maglia e alla sua cintura pendeva un'ascia a una mano. «Che Vraccas faccia ardere a lungo la fucina della vostra vita!» li salutò benevolmente, mentre si avvicinava. «Sono Gemmil Pugnocalloso, scelto dai Liberi per essere al momento il loro regnante.» Tungdil e Boïndil dichiararono i propri nomi, e sembrò che Gemmil, partendo da essi, iniziasse già a capire qualcosa. «Siate benvenuti. Posso presumere che siete giunti da noi per un motivo preciso?» «È stato Bramdal Lamadimaestro a indicarci come arrivare qui», spiegò Tungdil prendendola alla lontana. Gli raccontò della rinascita del regno dei nani sui Monti Grigi, dell'incontro col boia, di ciò che questi gli aveva raccontato riguardo ai reietti e di ciò che era accaduto al lago. «Accetta il mio ringraziamento da parte delle tre stirpi, che hai aiutato combattendo i mezz'orchi nei tunnel.» Sì chinò quanto più le ferite gli permisero. «E il mio personale ringraziamento, per aver combattuto contro le orde di Nôd'onn davanti alla fucina del regno dei Quinti.» «Ho letto il messaggio che ci hai lasciato nelle gallerie.» Gemmil sorrise. «Saremo anche i reietti dei regni dei nani, e certo andiamo per la nostra
strada, ma rimaniamo figli del Fabbro. Non potevamo permettere che la Terra Nascosta finisse nelle mani di quel folle stregone.» «Mi fa piacere sentire che tu e i tuoi sudditi...» «Non sono sudditi», lo corresse subito il re. «Siamo tutti liberi, ma abbiamo compreso che è importante designare una persona che in tempi difficili prenda decisioni e le metta in atto. Al momento, questo onoratissimo compito tocca a me, ma fra tre cicli potrebbe giungere il momento di un altro.» Il Rabbioso sbuffò forte. «Voi scegliete i re come vi pare? Queste sì che sono belle usanze.» «Già. Sono davvero belle usanze», confermò Gemmil, per nulla turbato da come Boïndil gli si stava rivolgendo. «Voi siete già scesi in campo per proteggere la Terra Nascosta. Potrei sperare che lo facciate un'altra volta?» disse in fretta Tungdil, in modo che il Rabbioso, che stava di nuovo per aprire la bocca, non avesse il tempo di ribattere. Poi descrisse al sovrano ciò che sapeva riguardo all'esercito di mezz'orchi mutati in modo misterioso e della sua marcia, e gli raccontò ciò che era successo alla Porta di Pietra. «Ushnotz e i mezz'orchi del Sud tenteranno d'impadronirsi del valico. Il nostro nuovo regno dei nani è troppo debole per resistere all'assalto di migliaia di bestie così difficili da uccidere. E se il mezz'orco che è fuggito nella Terra dell'Aldilà conducesse alla Porta di Pietra una seconda orda di mostri, proveniente da nord, il regno cadrà prima ancora di essere rinato. Gemmil, abbiamo bisogno di te e delle forti braccia dei tuoi nani. Nessuno ci può raggiungere più velocemente di voi.» Il volto del reggente si era incupito; le sue sopracciglia erano così vicine da sembrare un'unica striscia di sale. «Ciò che dici è grave. E la perdita della Lama di Fuoco non faciliterà la battaglia. Se giace sul fondo del laghetto, sarà dispersa per sempre.» «Ma sì, pazienza... Ne forgeremo una nuova. Sappiamo come si fa», disse Boïndil cercando di consolare l'amico e di minimizzare la disavventura. «E che se ne faranno mai gli albi? Per loro è soltanto un'ascia che non sanno neppure maneggiare. Non vorranno mica ammazzarcisi da soli.» «Il nostro popolo ne sentirà la mancanza», dichiarò Tungdil, pensieroso. «È un simbolo della nostra superiorità sui mostri, un capolavoro di metallurgia. Temo che Gemmil abbia ragione. La sua perdita sarà un duro colpo per la nostra gente, esattamente come un combattimento contro nemici tanto superiori di numero.» Tornò a rivolgersi al re. «Ti prego, in nome del
nostro re Glaïmbar Lamatagliente e di tutti i popoli della Terra Nascosta: non lasciarci combattere da soli in questo momento difficile. I tuoi guerrieri c'infonderebbero nuovo coraggio e scaccerebbero i timori che possono trasformare il più forte dei combattenti in un sacco tremolante.» Gemmil non impiegò molto tempo a prendere una decisione. «Manderò dei messaggeri per diffondere le notizie che ho appreso da te. Non appena avrò raccolto forze sufficienti, te le invierò ai Monti Grigi.» Si accarezzò la barba. «Se i mezz'orchi dovessero attaccare prima che la mia gente vi abbia raggiunti, dovrete resistere da soli. Ma arriveremo. Tornate indietro e riferite al vostro re le mie parole.» «E quanti guerrieri pensi che potranno venire in nostro aiuto?» «Quanti riuscirò a trovarne», rispose Gemmil, evasivo. «Myr, alcuni altri guaritori e una scorta vi accompagneranno in modo che torniate a casa sani e salvi.» Rivolse lo sguardo alle fasciature di Tungdil. «Non sopravvivresti a un altro scontro con gli albi, e io ne sarei responsabile.» Appoggiò una mano al chiavistello in ferro della porta. «Gemmil, posso chiederti ancora una cosa?» Il re annuì, incoraggiando Tungdil a porre la sua domanda. «Ti ho raccontato che stiamo rifondando il regno dei Quinti. Ci potrebbero essere tra le vostre fila dei volontari che rimanessero tra noi ed entrassero a far parte della nostra comunità?» «E tornare così alle rigide norme dei regni dei nani?» Gemmil rifletté. «Ti fa onore pensare agli espulsi. Per prima cosa, però, consideriamo la battaglia contro i mezz'orchi. Ma t'invito già da ora a vivere tra noi quanto vorrai per conoscere le differenze tra noi e le stirpi. Dopo capirai perché solo pochissimi si dichiareranno pronti a tornare là dove li minaccia la schiavitù.» «Idiozie!» ribatté Boïndil. «Ma che razza di idiozie racconta questo re?» Attraversò la stanza a passi pesanti, con la testa incassata tra le spalle, puntando direttamente verso Gemmil. «Da noi non c'è un solo nano che viva in schiavitù!» «Davvero? Allora ti è consentito fare quello che desideri?» «Certo», rispose il Rabbioso. «Quindi ti puoi opporre ai pareri di un capoclan, quando ha palesemente torto?» «Abbiamo solo capiclan che... sono assennati», cercò di ribattere Boïndil, mentre rivolgeva a Tungdil uno sguardo supplichevole. Il suo temperamento eccitabile lo aveva ineluttabilmente condotto in un vicolo cieco.
«E ti sembra ragionevole che tra i clan persistano rivalità anche quando il motivo del dissidio è stato già dimenticato da tempo?» «Ci sarà ben stato un motivo, se sono cominciate», brontolò il Rabbioso. «Ma almeno ti è consentito stringere il patto di ferro con la nana che ami?» Boïndil incrociò le braccia davanti al petto, imbronciato. Si arrese e tacque. «Le mie domande non servivano a imbarazzarti davanti al tuo amico, ma a mostrarti tre dei molti ambiti in cui le cose, tra voi, non vanno come dovrebbero.» Il volto di Gemmil non recava traccia di cattiveria, cosa che indusse Tungdil e anche il Rabbioso a prestargli fede. «Tra di noi ci sono reietti che si sono opposti a queste cose. Divenne loro dolorosamente evidente che avrebbero pagato caro per le idee che avevano. I nani che si preoccupano solo del potere che il loro clan o la loro famiglia avevano raggiunto nei cicli precedenti non si sono più dati pace, finché non hanno trovato un pretesto per infliggere l'esilio a quegli sventurati.» Dopo una lunga e spossante riflessione, Boïndil trovò una falla di cui approfittò volentieri. «Non dobbiamo dimenticare che tu accetti tutti quelli che sono stati esiliati. Anche gli assassini e quelli che sì sono macchiati di colpe più gravi che dire la parola sbagliata al momento sbagliato. Questo sta bene alla tua comunità dei Liberi?» A quel punto, il re mostrò di non gradire più la disputa. «Noi non chiediamo mai i motivi dell'esilio. Certo, chi lo vuole può spiegarli. Ma per noi conta solo che un nano s'inserisca nella nostra comunità e che contribuisca alla sua sopravvivenza, in qualunque modo.» Aprì la porta. «Non dimenticate che presto metteranno la loro vita in gioco con voi e per voi. Se un criminale muore in una battaglia per la Terra Nascosta, dal mio punto di vista ha rimesso il suo debito di fronte a Vraccas e può entrare nella sua Fucina a testa alta, anziché trasportare il carbone per altri.» Uscì sbattendo la porta. «Ehi, questo lo ha punto sul vivo», rise il Rabbioso, contento. «Quello che ho detto non è proprio piaciuto al nostro saggio Signor Re.» «È stato imprudente provocarlo. Dipendiamo dal suo aiuto.» In cuor suo, Tungdil concordava in diversi punti con le argomentazioni di Gemmil; non era sempre un bene preservare le tradizioni. Scivolò dalla barella e si mise accanto all'amico, che gli mise sulle spalle una coperta. «Ma sembra che la nostra missione sia stata coronata dal successo. Così almeno la morte dei nostri accompagnatori non è stata vana.»
S'inginocchiarono davanti al fuoco che, ardendo nel piccolo camino, procurava loro un piacevole tepore, e pregarono Vraccas di accogliere pietosamente i caduti nella Fucina Eterna. I pensieri di Tungdil presero a vagare e finirono presto sui reietti. Gli sarebbe piaciuto molto dare un'occhiata alla loro città. Avevano sviluppato una propria architettura o rimanevano fedeli a quella tradizionale? Aveva tante curiosità che sarebbero rimaste senza risposta, almeno fino a che non si fosse combattuta la battaglia contro l'ultima grande orda di mezz'orchi della Terra Nascosta. Aveva deciso: prima o poi avrebbe attraversato la stessa porta che aveva attraversato Gemmil, e avrebbe visitato il regno segreto, fosse anche per poche rotazioni. La sua sete di conoscenza riusciva a imporsi laddove un nano come il Rabbioso, al contrario, desiderava solo tornare nelle sue native montagne. Tungdil trovava emozionante la prospettiva di scoprire cose nuove e trarne una lezione. Per esempio, non aveva mai visto prima tenaglie come quelle che gli aiutanti della chirurga avevano usato per rompere la sua cotta di maglia. Boïndil terminò la preghiera, si alzò e raggiunse lentamente la nicchia in cui i Liberi avevano approntato qualcosa da mangiare per loro. Affamato, ficcò i denti dentro al pane facendo un cenno all'amico. «Dai, vieni, devi mangiare qualcosa», farfugliò parlando con la bocca piena e riuscendo a cospargersi la barba di briciole. «La marcia di ritorno non sarà facile, con le ferite che hai. Ma Myrmianda provvederà bene a te.» Tungdil pensò alla chirurga. Persino la peluria che lei aveva sulle guance era bianchissima, con solo una leggera sfumatura d'argento... La coscienza sporca lo assalì, mettendogli davanti, come ad accusarlo, il volto di Balyndis e ricordandogli il giuramento di fedeltà che le aveva prestato poco tempo prima. Non vale più, trascorrerà la vita con un altro, si disse. «Hai ragione. Myrmianda si preoccuperà che io rimanga sulle mie gambe», disse, unendosi a Boïndil per assaggiare le pietanze. «Di cucina ne capiscono», concesse il Rabbioso. Le sue guance minacciavano di esplodere, tanto le aveva riempite. «Ma comunque non sono proprio contento all'idea di combattere fianco a fianco con un nano che forse è stato scacciato dalla sua stirpe perché ha assassinato qualcuno.» Diede un grande morso a un pezzo di formaggio che emanava un odore tale da stordire un mezz'orco puzzolente. «Era giusto esiliarli.» Smise di ruminare e guardò l'amico. «Era giusto, vero, Sapientone?»
Tungdil annuì debolmente; poi finse di avere la bocca piena e si ristorò col boccale di forte birra scura. In realtà le argomentazioni di Gemmil lo inducevano a riflettere; alcune delle sue dichiarazioni avevano senso, almeno per lui che era abituato a vivere tra gli umani, i quali litigavano volentieri su ogni cosa e i cui studiosi erano soliti mettere in dubbio anche le certezze più incrollabili. Per Lot-Ionan nessuna idea era fissa e immutabile. Invece i nani, tradizionalisti per natura, assomigliavano piuttosto alle montagne in cui vivevano: solide, immobili, ostinate. Le mascelle di Boïndil presero a macinare più lentamente di prima. Teneva lo sguardo fisso e assente sulla parete; sembrava assorto nei suoi pensieri. «Mi chiedo se non sia la volontà di Vraccas a farci portare il fuoco del cambiamento dalla fucina degli esiliati fino ai Monti Grigi, per far mutare idea anche a noi», disse improvvisamente. «O forse è una prova per le nostre credenze.» Tungdil faticò a trattenere lo stupore. Non avrebbe mai pensato che qualcosa potesse scuotere la fiducia del Rabbioso nei vecchi ordinamenti. «Non so rispondere alla tua domanda.» Bevve un sorso e fece un movimento improvvido; il dolore bruciante gli ricordò i buchi nel suo corpo. Imprecando posò il boccale. «Per il momento siamo stati fortunati, visto che riceveremo aiuto. Tutto il resto si vedrà.» Boïndil si pulì la bocca e ruttò forte. «Che ne pensi tu, Sapientone: quanto è grande il loro regno? Dieci miglia? Cinquanta miglia? E quanti guerrieri ci può mandare Gemmil?» Si versò dell'altra birra e riempì anche il boccale di Tungdil. «Io dico che non saranno più di trecento.» «Potrebbero bastare. Potremmo limitarci a buttare giù i mezz'orchi e le loro scale d'assalto e a frantumare loro i crani con delle pietre.» Brindò col Rabbioso. «In un modo o nell'altro, dopo la battaglia contro di noi non rimarrà più nessuno di loro...» «Eccetto i Musi di porco del Toboribor», precisò Boïndil. «Purtroppo sono troppo lontani da qui per fare una breve gita dalle loro parti. Il piacere di annientarli sarà tutto del principe Mallen.» «Muori dalla voglia di essere là, vero? Chissà quando si esaurirà la tua voglia di combattere», replicò Tungdil scuotendo il capo, anche se non parlava in modo del tutto serio. «Sono sicuro che continuerai a gettarti in battaglia perfino quando avrai settecento cicli e sarai un vecchio nano, canuto e sdentato.» «Non vivrò mai settecento cicli, Sapientone. Troverò prima la morte, ci penserà una freccia, o un'ascia, o una lancia.» Lo disse in un modo tanto
rassegnato che l'amico rabbrividì. «Non fraintendermi, non desidero morire; non più. Dopo la perdita della mia Smeralda, allora sì che sarei morto volentieri sul colpo, ma ora ringrazio Vraccas per ogni rotazione che vivo. Ma la mia vita deve finire in un modo eroico e glorioso, com'è stato concesso a Bavragor.» Brindò con Tungdil e vuotò il boccale fino al fondo. «A Bavragor Pugnomartello e a tutti quelli che sono morti per la Lama di Fuoco e la Terra Nascosta!» gridò forte. «Che non li seguiamo nei combattimenti a venire», aggiunse Tungdil prima di vuotare il boccale. Non rinuncio alla Lama di Fuoco. Aveva già architettato un piano. Dopo la battaglia, sarebbe tornato con lunghe reti da pesca e avrebbe setacciato il laghetto. Se l'ascia giaceva da qualche parte sul fondo del lago, l'avrebbe trovata. In caso contrario, doveva essere in mano agli albi, e il loro regno stava per cadere. Non aveva dubbi, avrebbe riottenuto la Lama di Fuoco; ma nell'immediato futuro non poteva rimediare al danno. Ne avremmo così bisogno. La birra divenne improvvisamente amara. Terra Nascosta, sud-ovest dell'Urgon, capitale Dreigipfelburg, 6234° ciclo solare, primavera «Tu mi hai aperto gli occhi sulla perfidia delle stirpi dei nani, e di questo ringrazio Palandiell.» Re Belletain sedeva sul suo letto, con una pila di cuscini a sorreggerne il corpo. Al posto della leggera armatura di cuoio indossava un'ampia veste di lino porpora. I tre guaritori non si staccavano dal suo capezzale; tamponavano in continuazione intorno al punto aperto del cranio, usando spugnette che s'imbevevano di un liquido rosa opaco. Il re indicò i tre uomini e rise con disprezzo. «Ecco le cornacchie. Volteggiano intorno a me come fossi una carogna e sperano che presto io diventi la loro preda.» Spinse via energicamente uno di loro, che gli stava troppo vicino. Il guaritore inciampò, ciotola e spugnette caddero per terra. «Maledette cornacchie!» li rimproverò, e il suo volto si colorò di rosso. «Cra, cra, cra», fece agitando le braccia. «Ma sappiate che io non sono ancora carne marcia. Io sono la fiera aquila dell'Urgon, voi non mi batterete!» Ha perso la ragione. Il nano non fece trapelare nessuna emozione. Tanto meglio. Il suo cervello malato mi renderà più facile suggerirgli le decisio-
ni che voglio. Belletain abbassò le braccia. «Ho riflettuto a lungo su ciò che ti dirò, Romo Cuordacciaio, e sono sicuro che ti piacerà.» Fece una faccia misteriosa, facendogli cenno di avvicinarsi. «Vieni qua e parla piano, in modo che le cornacchie non sentano», sussurrò. L'alito gli puzzava di denti marci. «Mi fanno fare ciò che vogliono e sorvegliano ogni mio passo.» Mise un braccio intorno alle spalle di Romo e con l'indice picchiettò sul suo duro petto. «Resterà un nostro segreto. Il segreto dell'aquila dell'Urgon e del suo piccolo amico, il falco barbuto.» Ridacchiò come un bambino. «Il tuo re e io diventeremo grandi amici. Scacceremo i Quarti dalle montagne, perché...» Alzò il dito e roteò gli occhi. «Perché sono le mie maledette montagne! Mie! Non mi hanno mai versato nessuna provvigione, hai detto bene, Romo. Li caccerò come si sbatte fuori un debitore inadempiente. I miei soldati sono...» «Signore, vi state agitando troppo», osservò cautamente uno dei guaritori. «Bevete il vostro decotto, così il sangue si calmerà. Altrimenti il cervello vi uscirà dalla testa.» Fissava pieno di preoccupazione il foro, da cui il liquido filtrava con più forza. «Cra, cra, cra», rise a singhiozzi Belletain, tenendo una mano davanti alla bocca. Delicatamente, ma con fermezza, un secondo guaritore cercò di portare il re in posizione seduta, in modo che la ciotola e il buco rimanessero bene allineati. Il re gli diede un pugno nello stomaco. «Indietro, uccellaccio necrofago!» tuonò. «Signore, vi prego» disse l'uomo, nel tentativo di placare la collera del re. «Calmatevi, così potrete riflettere con più lucidità. I Quarti...» «Hai origliato!» mugolò Belletain. La sua mano guizzò in avanti e strappò il mazzafrusto dal cinturone di Romo e, ancora prima che il nano, colto alla sprovvista, potesse impedirlo, le tre sfere di ferro si abbatterono sulla testa del guaritore, fracassandola. «Ah! Hai finito di gracchiare!» Il re gettò l'arma a Romo. «Va', piccolo falco, e aiuta il tuo nuovo amico ad annientare gli altri due uccelli.» Con un ghigno cattivo, volse la testa verso i due guaritori. Il nano strinse il mazzafrusto, indeciso. «Non fatelo, per Palandiell! Il re soffre di confusione da quand'è stato colpito dalla clava di un orco», lo pregò uno dei due. «Noi siamo responsabili della sua salute, senza...»
Belletain premette le mani sulle orecchie. «Ti prego, mio falco, toglimi di torno queste bestiacce gracchianti!» gridò. «Ne voglio di nuove. Queste qui non sanno cantare.» Il nano si avvicinò ai due, che indietreggiarono nervosi. «Non temete, non vorrei mai farvi del male...» Vibrò il mazzafrusto dal basso in mezzo alle gambe dell'uomo a sinistra, e colpì col guanto chiodato lo stomaco di quello a destra. I due crollarono sulle mattonelle di pietra, contorcendosi. «Ma questo è ciò che vuole il re», completò la frase, mentre alzava il braccio armato e lo abbassava bruscamente. Due colpi più tardi, i gemiti terminarono. I tre guaritori erano riversi intorno al letto di Belletain coi crani spaccati. «Mio falco!» lo elogiò il re estasiato. «Finalmente le cornacchie tacciono.» «Ti manderò dei guaritori dalle nostre montagne. Ti toglieranno il dolore dal cranio», gli promise Romo pulendo le sfere del mazzafrusto imbrattate di sangue sui vestiti dei morti. «E non t'infastidiranno mai con le loro voci.» «Bene.» Sorridendo, Belletain sprofondò felice tra i cuscini. «Ah, è magnifico. Che pace...» Si voltò verso la finestra e osservò il sole che illuminava i ripidi pascoli montani; il verde intenso splendeva, promettendo un buon fieno. «Mi vendicherò in nome di Lotario», cantò sulla melodia di un'aria popolare dell'Urgon. «I Quarti pagheranno la sua morte, con infinito oro e sangue.» Guardò di nuovo Romo. «Con infinito oro e sangue», ripeté. «Riferisci a tuo zio che siamo d'accordo. Mi deve dire come pensa di occupare i Monti Marroni. I miei soldati sono combattenti esperti e tra le montagne si muovono con passo sicuro. Il loro piede leggero li condurrà su stretti sentieri, oltre le creste e accanto ai burroni. Se l'aquila glielo ordina, la seguiranno. E se scopriranno la verità sulla morte del mio amato nipote, niente potrà più fermarli.» Romo s'inchinò. «Sono lieto che almeno tu ci creda. L'immeritata fama di quei nani indegni abbaglia altri sovrani. Tu sei il più saggio re della Terra Nascosta.» Raggiunse la porta senza voltargli le spalle. «Mandami qualche lacchè che butti fuori i cadaveri delle cornacchie. Se ne ciberanno i loro simili», lo pregò il re in tono festoso, spalancando le braccia. «Ho di nuovo il vento sotto le mie ali! L'aquila si leva di nuovo in alto, e grazie al falco!» Gli fece un cenno di saluto. «Torna presto, così prepareremo i nostri piani.» «Non ci metterò molto.» Il nano lasciò la stanza da letto, chiuse la porta
dietro di sé e si concesse di esprimere il suo entusiasmo con una forte risata; doveva farlo, altrimenti sarebbe soffocato. Presto i guaritori della stirpe di Lorimbur si sarebbero raccolti intorno a Belletain; nessuno più si sarebbe frapposto tra i due nuovi alleati. Mio zio può essere contento di me. Fischiettando, Romo percorse i corridoi del castello e s'incamminò rapidamente verso casa. Si affrettò, ansioso di sapere quanto fossero cresciute, nel frattempo, le difficoltà del principe Mallen. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera Andôkai lesse le righe che Xamtys le aveva inviato e ne ricavò un'ulteriore conferma dell'importanza dei suoi sforzi. Narmora doveva diventare una maga il più in fretta possibile. Una stella cadente, un fuoco che non si estingue nella Terra dell'Aldilà. Oh, Samusin, dio dell'equilibrio, che cosa si prepara a piombare su di noi da ovest? Tuttavia la lettera conteneva anche buone notizie. Sotto la guida della sua regina, il regno dei Primi era impegnato nella ricostruzione di ciò che l'astro e la valanga avevano distrutto. In vista della possibile minaccia, Xamtys prometteva che sarebbe ricorsa a tutte le forze disponibili e che avrebbe ricostruito la fortezza più in fretta dei sovrani che l'avevano preceduta. Tra le righe traspariva un certo ottimismo. Basterà? Il valore dei nani sarà sufficiente a stornare la sventura? La maga posò la lettera sul tavolo e andò a cercare Narmora, che aveva mandato in biblioteca perché prendesse dimestichezza con la scrittura dei sapienti. Non sarebbe stato facile plasmare il talento innato della mezz'alba in modo tale che potesse usare le stesse formule adoperate dalla sua insegnante. Il dono degli albi si basava in parte su brevi parole, in parte su un impiego intuitivo della magia, che aveva poco in comune col sapere padroneggiato da Andôkai. Narmora conosceva alcune formule che aveva imparato dalla madre, ma non aveva appreso i segni che le rappresentavano. Per tale motivo passava la mattina nella biblioteca del palazzo, mentre il pomeriggio e le ore serali erano riservate all'esercizio pratico. Poco prima di coricarsi andava a visi-
tare Furgas, gli stringeva le mani e piangeva lacrime di rabbia. Avrebbe colpito in modo devastante chi aveva fatto del male al suo uomo. Andôkai entrò nella grande stanza, che era strapiena di scaffali e armadi che arrivavano fino al soffitto e su cui erano stipati libri, rotoli di pergamena, atlanti e opere di consultazione. Le assi si piegavano in modo preoccupante sotto il peso di quella sapienza scritta. Se si dispone di abbastanza carta, si può uccidere anche un troll, constatò la maga mentre passava in rassegna le file di scaffali cercando la sua apprendista. La trovò seduta accanto a una piccola finestra; la luce cadeva proprio sulle pagine di un grosso libro aperto, e particelle di polvere scintillavano nell'aria. Col progredire della gravidanza, Narmora aveva abbandonato l'armatura in favore di un abito ampio e comodo. «È ora che andiamo un po' al sole», disse la maga percependo l'odore di quella biblioteca, unica nella Terra Nascosta: carta, cuoio, colla e polvere si mescolavano dando origine a un qualcosa con cui lei aveva avuto poca dimestichezza negli ultimi cicli. Preferiva esercitarsi nel combattimento, perché le sale ammuffite la mettevano a disagio già dopo mezza rotazione. «Stai facendo progressi?» «Un po'», rispose la mezz'alba, con gli occhi ancora puntati sulla pagina. «Ma certi segni... si attaccano alla mia mente e non mi permettono d'impararne di nuovi, come se fossero gelosi.» Si alzò. «Mezzo ciclo è troppo poco, venerabile maga», mormorò, sfiduciata. «Si tratta d'imparare i concetti di base e saperli utilizzare», la tranquillizzò Andôkai. «Non dimenticare che, a differenza dei normali apprendisti, possiedi capacità che gli altri raggiungono dopo dieci cicli.» Notò che il piatto col cibo era rimasto sul tavolo, intatto. «Così non va», la rimproverò. «Devi stare attenta a mangiare abbastanza. Il tuo bambino ha bisogno di nutrimento, altrimenti potrebbero esserci conseguenze negative.» Narmora guardò con stupore pane, verdura e carne. «Giusto, come ho fatto a dimenticarlo?» Prese il piatto e, mentre camminavano per uscire dalla stanza, cominciò a mangiare. «Sembrate più preoccupata del solito, come se aveste ricevuto brutte notizie.» Andôkai si fermò accanto a uno degli scaffali, salì sulla scala che vi stava davanti e, passando in rassegna gli screpolati dorsi dei libri, cercò un'opera specifica. «Si tratta della Terra dell'Aldilà», spiegò dall'alto. «I Primi mi hanno fatto sapere che sembra bruciare.» Dopo averlo sfogliato a lungo, ripose stizzita un libro e ne trasse un altro. «Come scopro proprio ades-
so, noi e i nostri predecessori abbiamo ammassato in questo palazzo solo le conoscenze che in qualche modo riguardano la Terra Nascosta e la magia.» Rassegnata, lasciò il libro sul piolo più alto della scala e scese. «Ma non trovo nulla riguardo a ciò che ci circonda. Proprio niente. Solo vaghi riferimenti al fatto che alcuni regni hanno inviato delle spedizioni oltre le montagne, e che poche sono tornate indietro.» «Non c'è nessun mercante che ce ne possa parlare?» Narmora osservò la moltitudine di libri. «Neppure delle copie dei resoconti delle spedizioni?» Proseguirono il loro cammino verso l'esterno. «A quanto pare, dovrò prendermi io stessa la briga di consultare gli archivi e le raccolte più importanti.» La maga ne sembrava tutt'altro che felice. «Questo significa che mi accompagnerai nel mio viaggio. Mi dispiace sottoporti a simili disagi, ma sono sicura che nelle università della regina Wey c'imbatteremo in qualcosa che ci sarà d'aiuto. Il regno di Weyurn nel passato ha avuto cura di documentare tutto ciò che accadeva nel paese, anche eventi insignificanti come un albero colpito da un fulmine.» Raggiunsero il cortile soleggiato. Dopo che ebbero trovato un posto all'ombra, sotto il porticato, Andôkai si preparò a iniziare la lezione. Narmora piluccò l'ultimo pezzo di verdura dal piatto. «Furgas ci dovrà accompagnare.» Dal modo in cui l'aveva detto, non faceva mistero di porlo come condizione. «Ha bisogno di stare tranquillo, non di viaggiare per le cattive strade della Terra Nascosta, su cui un carro danza come una nave tra le onde», replicò la maga. «Chi si occuperà di lui, allora? Djerun?» «Pensavo al suo migliore amico, Rodario. Sarà ben contento di dormire nel mio letto, cosa che farà senza dubbio, anche se glielo proibirò.» Narmora la guardò come se stesse farneticando. «Venerabile maga, conosco l'Incredibile già da molti cicli. La sua recitazione e la sua eloquenza saranno grandi quanto afferma lui, e di certo sono messe in ombra solo dal suo impulso all'accoppiamento. Ma interpretare il ruolo di un guaritore così bene da diventarlo per davvero, be', questo non può farlo. Probabilmente Djerun è davvero più adatto.» «Djerun non potrà occuparsi di questo. Lo manderò in esplorazione nella Terra dell'Aldilà per scoprire che cosa sta succedendo. Sapere che la terra brucia non ci è di grande aiuto.» Aveva messo in conto la resistenza della sua apprendista ed era pronta a fronteggiarla. «Non preoccuparti per Furgas. Rafforzerò il mio incantesimo, e Rodario gli dovrà solo cambiare le
lenzuola ogni tre rotazioni, in modo che non anneghi nel suo sudore.» Indicò l'altro lato del portico. «Mettiti lì, proviamo qualcosa di nuovo.» La mezz'alba obbedì, ma non sembrava convinta della decisione. «Siete sicura dell'effetto dell'incantesimo? Che cosa succederebbe se si esaurisse inaspettatamente?» Andôkai sollevò le braccia, le sue dita tracciarono dei segni dipingendo simboli d'argento nell'aria. «Furgas morirebbe», rispose con franchezza, e iniziò a recitare un incantesimo. Istintivamente Narmora distese le mani contro le energie che le si stavano avvicinando e pronunciò una breve formula. Il raggio splendente uscito dalle mani di Andôkai si tinse in volo di verde, rallentò, tracciò un arco e volò sotto il soffitto del portico, fino a infrangersi su un blocco di marmo aprendovi un grosso buco. La maga non riusciva a capire. «Lo hai trasformato», disse, cercando di trovare una spiegazione al fenomeno. «Ne hai cambiato l'essenza... Ma come ci sei riuscita?» Narmora sorrise. «Ho interpretato male i segni sui libri e ho creato qualcosa di nuovo?» Il soffitto sopra Andôkai andò in pezzi; un fulmine verde si abbatté sibilando su di lei ricoprendola di frammenti di pietra e blocchi di marmo. L'incantesimo le si era rivolto contro e cercava con irremovibile ostinazione di riversare il suo effetto su chi l'aveva generato. La maga scomparve in una nube di polvere bianca. Narmora venne colpita a una spalla da un pezzo di marmo; nello stesso istante sentì un dolore bruciante nel basso ventre, tanto forte da sottrarle ogni forza. Le ginocchia le cedettero; la donna si accasciò tra i gemiti, tenendosi la pancia. L'interno dei suoi pantaloni divenne improvvisamente più scuro, s'impregnò di un liquido caldo che usciva dal corpo della donna. No! Narmora toccò il tessuto umido. Quando le sue dita si tinsero di rosso, fu assalita da brividi freddi e caldi al tempo stesso. «No! Dei, lasciatemi almeno mio figlio!» gridò, inerme. Gli occhi le divennero neri, e il retaggio materno tracciò sottili linee scure sul suo volto. Cercò di sollevarsi. Una colonna le offrì supporto, ma le dita insanguinate scivolarono sulla superficie liscia. Cadde distesa sul duro pavimento, e il suo ventre urtò contro un pezzo di marmo riverso per terra. Narmora sentì chiaramente che qualcosa in lei scoppiava. Si accovacciò e gridò forte la sua disperazione, mentre il liquido amniotico sgorgava sen-
za lasciarsi trattenere dalle sue mani tremanti. *
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Nessuno prestava veramente attenzione al lebbroso, il cui volto deturpato era nascosto sotto panni macchiati di giallo. Di tanto in tanto volava nella sua direzione una monetina, e l'uomo la raccoglieva tra mille inchini. «Ecco, mangia e vattene.» L'oste mise davanti al lebbroso il piatto più consunto e il boccale più vecchio che aveva, facendo attenzione a non toccargli le mani, che erano coperte solo in parte da guanti stracciati. Dopo avrebbe buttato le stoviglie. Avrebbe dovuto usare acqua e aceto per pulire panca e tavolo, e gli sarebbe costato. Ma non accogliere un malato significava attirare su di sé l'ira di Palandiell, e quello gli sarebbe costato più caro dell'aceto. Il lebbroso chinò il capo piagnucolando; la lingua doveva essere già stata divorata dalla malattia, e l'uomo non poteva più parlare. Nelle vicinanze sedevano due donne e un uomo in abiti modesti, che parlavano tanto piano da non permettere a nessuno nell'osteria di ascoltare i loro discorsi. Del malato non si preoccupavano. «Non ho idea di chi li abbia incaricati», disse la bionda, concitata. «Lo immaginavo», annuì l'uomo. «Frud e Granselm non avevano intenzione di riferire alla gilda di quell'incarico, e volevano tenersi tutto il bottino.» Si stava gustando una caraffa di vino, e ne vuotò un bicchiere. Una certa soddisfazione gli si dipinse sul volto. «Ci avete fatto un gran bel guadagno, avidi bastardi.» «Il colosso di ferro ha uno strano fiuto per noi», deprecò la bruna. «Dove non ci sono le guardie della maga, spunta lui. Credete a me, dentro quell'armatura si nasconde un maledetto mostro.» «Magia. Quale umano può essere alto tre passi?» La donna dai capelli chiari guardò il lebbroso, che teneva la testa appoggiata al muro e si era addormentato. I suoi occhi si posarono bramosi sul borsello in cui teneva le sue monete. «Non qui», sibilò l'uomo. «Sei impazzita? Se qualcuno ti...» «Va bene», mormorò lei per evitare la ramanzina. «Passo. Con un po' di fortuna lo incontreremo più tardi in un vicolo. Ha troppo oro per uno che tanto presto morirà.» Rise, e gli altri si unirono a lei. «Avete sentito anche voi che cercano apprendisti di Nudin?» s'informò. «Non di Nudin, di Nôd'onn. La nuova signora di Porista ha messo delle
belle taglie, questo è vero», disse la donna dai capelli scuri, annuendo. «Io so che facciamo adesso. Ci cerchiamo uno, inventiamo delle prove e lo calunniamo. Poi andiamo dalla maga a incassare.» «Bella pensata», la lodò l'uomo, entusiasta. «Lei non starà a perdere tanto tempo in processi e lo giustizierà. Dev'essere uno non molto in vista in città.» «Allora tu saresti perfetto», lo stuzzicò la bionda; l'altra donna rise. «E come fanno a sapere che in città ci sono dei vecchi apprendisti di Nôd'onn?» «Corre voce che Frud e Granselm abbiano usato armi su cui era inciso il simbolo del mago», spiegò l'uomo. «A me sembra un'idiozia bell'e buona, erano tutt'altro che amici di Nôd'onn e non si erano mai interessati di magia.» «Questo vorrebbe dire che è stato il mandante a ordinargli di usare quelle spade?» La bionda prese il bicchiere di vino dell'uomo e ne bevve un sorso. «Strano che uno voglia destare i sospetti della maga. Non ha per niente senso, no?» Trasalirono quando il lebbroso accanto a loro si svegliò dal suo torpore tossendo affannosamente. Gli si allontanarono ancora di più per non venire sfiorati dalla sua saliva. Il malato si alzò rantolando e barcollò verso la porta. Gli avventori dell'osteria si ritraevano al suo passaggio e tirarono visibilmente il fiato quando l'uomo si chiuse la porta alle spalle. L'oste si affrettò a pulire panca e tavolo con un secchio di acqua e aceto. «Forza!» disse la donna dai capelli chiari, alzandosi. «Penso che il lebbroso smetterà di avere bisogno delle sue monete prima di quanto pensassi.» Uscirono in strada e si misero in ascolto. I sonori campanelli, che il lebbroso portava ai piedi per richiamare l'attenzione e avvertire gli uomini della sua vicinanza, rivelarono loro dove si trovava. Sorridendo, la bionda estrasse il suo pugnale e lo nascose dietro il braccio; poi si affrettò a seguire lo scampanellio. I suoi compagni facevano da palo. Il lebbroso comparve davanti a loro. Gettò uno sguardo alle sue spalle e svoltò velocemente nel vicolo più vicino, imprecando. Lo scampanellio si spense in modo repentino. «Ci ha visti! Acciuffiamolo!» Corsero dietro l'angolo. La bionda si slanciò in avanti e inciampò su un
mucchio di vestiti miserabili. Cadde sul selciato, il pugnale sbatté sulla pietra. Il suo compare impigliò il piede destro nelle stringhe di cuoio cui erano legati i campanelli, che tintinnarono forte. La donna si rialzò, sputando; teneva in mano il saio del lebbroso. «Guardate!» gridò, stupefatta. «Non era un malato. Odora di pomata... o di talco.» Con le dita tastò le macchie; poi le annusò. «Tintura!» «È un informatore della maga», ringhiò l'uomo, guardandosi intorno. «Ci ha ascoltati. Dobbiamo trovarlo prima che sia troppo tardi.» Assegnò alle donne due direzioni diverse, e si separarono per trovare la spia e ridurla al silenzio. Rodario stava perfettamente immobile all'ombra di un portone e osservava la bionda che in osteria aveva gettato lo sguardo sul suo borsello. Lo stava superando attraversando il vicolo, di soppiatto; di tanto in tanto si fermava ad ascoltare Porista, che era tremendamente silenziosa, in cerca di un rumore che la conducesse da lui. L'attore era soddisfatto. Dopo aver trascorso innumerevoli notti nelle bettole della città, aveva finalmente scoperto qualcosa. Non aveva però messo in conto l'avidità dei rapinatori; non avrebbero mollato finché non avessero posto fine alla sua vita, poiché conosceva i loro volti e aveva sentito parlare della gilda di furfanti. Mi manca il mandante dei due assassini, pensò, tirando il fiato perché la sua inseguitrice l'aveva superato senza notarlo. Se ciò che avevano detto in osteria era vero, non sarebbe mai riuscito a scoprirlo. La verità era morta coi due aggressori. A dargli maggiormente da pensare era che qualcuno diffondesse la voce che in città si trovassero degli allievi di Nôd'onn, intenti a dare la caccia ai sostenitori di Andôkai. Non ha molto senso. E poi, se fosse vero, sarebbero anche loro nemici degli apprendisti e vorrebbero che la maga facesse il lavoro sporco al loro posto. Quella supposizione lo portò alla domanda successiva, cioè chi traesse profitto dalla lotta tra le due fazioni. Sembra un po' troppo contorto. Un sorriso estasiato comparve sui suoi tratti aristocratici. Ma è uno splendido soggetto per un nuovo pezzo teatrale di atmosfera locale! Stava giusto per sgusciare via, quando la porta alle sue spalle si aprì bruscamente. Dall'ingresso sortì un leggero bagliore di luce; qualcuno lo afferrò da dietro e lo trascinò in casa. Cigolando, la porta si chiuse. Rodario era in trappola. «Le mie scuse, si tratta di un malinteso, stimati
signori e cittadini di Porista!» disse. Un uomo robusto gli piegava le braccia dietro la schiena, tenendole ferme e costringendolo a girarsi. L'attore vide le teste incappucciate di tre persone; una era una donna, come capì dalle curve che s'intravedevano sotto l'abito color malachite. «Un informatore dell'usurpatrice», sibilò l'uomo che lo teneva fermo. «Stava origliando alla nostra porta.» La donna gli si avvicinò e gli esaminò il volto. «Lo conosco. È quell'attore che dirige i lavori da quando il suo amico è stato ferito.» Non ci volle molto perché Rodario mettesse insieme le poche parole e lo strano modo di vestire e capisse con chi aveva a che fare. Aveva trovato i seguaci di Nôd'onn nel momento meno propizio. «No, non sono io, stimati cittadini», disse per cercare di svicolare dalla spiacevole situazione, e fece il suo famoso sorriso. «In realtà gli assomiglio molto.» «Solo un attore ciancerebbe in modo così affettato», rise lei. «È lui.» Fece un cenno all'uomo che stava dietro Rodario. «Avevi ragione. Ben fatto! Ora potremo scoprire che cos'ha intenzione di fare la maga.» Indicò una sedia. L'attore vi fu trascinato in modo brusco e costretto a sedervisi; poi gli vennero legate le braccia. La donna si chinò verso di lui. «Che cosa sta escogitando la tua padrona, miserabile fiancheggiatore?» «Oh, per favore, state prendendo un grosso abbaglio. Io non sono un fiancheggiatore», disse sorridendole. «Io vorrei costruire il mio teatro in pace, e poiché avete ferito il mio amico Furgas, ho dovuto farmi carico anche dei suoi doveri.» Si espresse intenzionalmente in quel modo, come se ignorasse che dietro l'agguato non vi erano semplici rapinatori. La donna cascò subito nel suo tranello. «Non vi abbiamo aggrediti noi. E ci ferisce che gli sgherri e l'occupatrice di Porista affermino una cosa del genere», esplose lei. «Saremmo così sciocchi da usare armi col simbolo del nostro maestro? Che cosa c'è sotto? L'illegittima signora della città di Nudin vuole aizzare la gente contro di noi? Quale sarà la sua prossima mossa?» «Venerata dama, vi accalorate inutilmente contro di me. Io stavo solo fuggendo da tre mascalzoni invero ributtanti, e ho cercato rifugio sotto questo portone. Il vostro amico mi deve avere visto e ha malinterpretato il mio comportamento.» La fissò con uno sguardo implorante. «Lasciatemi andare. Non racconterò a nessuno della vostra esistenza. A essere sinceri, non sopporto molto la Burrascosa: è una donna ruvida e amareggiata, con una fastidiosa inclinazione a mettersi in mostra.» Parlava e parlava, e men-
tre lo faceva armeggiava cautamente coi lacci. L'uomo che lo teneva d'occhio si era spostato; seduto accanto alla finestra, controllava l'esterno. «Vi potrei passare delle informazioni, che ve ne pare?» disse, offrendo sfacciatamente una collaborazione. Dallo sguardo di lei, Rodario intuiva di averla quasi abbindolata, quando di lato gli arrivò un doloroso pugno sul mento. «Maledetto fanfarone!» lo apostrofò uno dei due uomini. «Non ci annebbiare la mente con le tue stupide chiacchiere. Rispondi alla sua domanda: che cos'ha in mente la maga? Poche rotazioni fa l'abbiamo vista in città, di notte, mentre...» «Ehi, parlate piano», sussurrò la sentinella alla finestra. «Là fuori c'è gente.» «Quanti?» chiese la donna. «Tre. Sono armati, e guardano in qua.» «Sono i...» Rodario stava per dire «rapinatori», ma per aumentare la confusione decise che a quel punto era meglio diventare ufficialmente un infiltrato. Le sue corde erano ormai abbastanza allentate da permettergli di sfilare in qualunque momento le mani dai cappi. «I miei uomini. Sono i miei uomini, snideranno il vostro covo di ratti!» La donna gli appioppò un forte ceffone. «Stavo quasi per crederti, sporco commediante», sibilò. «Uccidetelo! Spariremo dalla porta sul retro.» «Ah! E pensate che lì non ci sarà nessuno in agguato?» replicò Rodario, cercando di sembrare molto sicuro e rilassato sebbene la paura gli attanagliasse le viscere. «Consegnatevi ai miei uomini e sarete risparmiati. Spenderò una buona parola per voi con Andôkai, se confesserete.» «Non abbiamo nulla da confessare. Moriremo, piuttosto che arrenderci all'usurpatrice.» La donna estrasse un pugnale che portava infilato nella cintura, dietro la schiena, e fece per cacciargli la lama nel cuore. Rodario distese la gamba e le sferrò un calcio nel basso ventre con tutte le forze. «Non avrete attributi, ma spero che faccia male lo stesso», disse. Quindi scattò in piedi, afferrò lo schienale della sedia e la usò per colpire in testa l'uomo che lo stava attaccando. Una gamba della sedia si staccò e volò attraverso la finestra, frantumando il vetro. «Arrivano!» gridò la sentinella in preda all'esaltazione, estraendo dal fodero la sua spada corta. «Morte ai sostenitori di Andôkai!» Senza esitazioni balzò fuori della porta e corse incontro ai nuovi arrivati. Scomparve dalla visuale di Rodario, ma il rumore dell'acciaio fece capire all'attore che i rapinatori e l'apprendista di Nôd'onn si stavano scontran-
do. La donna aveva vinto il dolore e lo attaccò; l'attore si difese con quello che restava della sedia. L'altro apprendista corse in strada per portare aiuto all'amico. Il divampare di luci rosse e lo scoppiettio del fuoco non promettevano niente di buono per il destino dei rapinatori. Rodario sentì grida orribili e l'urlo prolungato di un uomo. «Muori, spia!» lo incalzò la sua avversaria, furibonda, portando un colpo. Il grido mise Rodario in guardia per tempo, così poté scansare l'attacco e colpire con lo schienale della sedia il ventre della donna. Poi le frantumò la seduta sul cranio. Il tessuto del cappuccio si strappò, e la donna crollò goffamente sulle assi del pavimento con una ferita aperta alla testa. Il pugnale si piantò nel legno. L'attore la schiacciò per terra saltandole su e le piazzò le ginocchia sui polsi in modo che non potesse più muovere le braccia. La donna respirava in fretta; il petto le si alzava e abbassava in modo concitato. «Pare proprio che gli dei abbiano deciso diversamente!» esclamò Rodario strappandole con un gesto teatrale il cappuccio. Ne apparve un volto grazioso. Il sangue che le scorreva sui lunghi capelli neri, fino a raggiungere gli occhi, la faceva sembrare ancora più aggressiva. Aveva poco più di venti cicli. «Allora, mia bella. Ora parlerete», le ordinò l'attore, combattendo col desiderio di cedere all'esuberanza e baciarla nel divampare della battaglia, come una specie di premio per il fatto di averla vinta. «Quindi avete visto la maga di notte per le strade?» La ragazza cercò invano di scrollarselo di dosso. «Tu sai che cosa voleva, perché dovrei spiegartelo io un'altra volta?» disse, ansimando mentre la sua resistenza s'infiacchiva. «Scendimi di dosso, o ti trasformo in una torcia umana!» Il volto di lui s'illuminò, mentre si grattava la barbetta. «Se ne foste in grado, brucerei già da un po', questo è certo. Siete una principiante nell'arte della magia, non ho ragione?» Prese il pugnale e glielo appoggiò sul petto, direttamente sopra il cuore. «Raccontatemi ciò che le avete visto fare.» «Ha parlato con due uomini», gli sputò contro. «Ma tu lo sai!» Improvvisamente slanciò le gambe verso l'alto. I suoi polpacci si strinsero intorno al collo dell'attore, come un fermaglio; il corpo della donna si tese e tirò l'uomo verso il basso. Le vertebre di Rodario accusarono il trattamento. Se voleva evitare che
gli rompesse la nuca, doveva per forza assecondarne la pressione. Non appena lui le tolse le ginocchia dalle braccia, la ragazza gli scivolò da sotto come una lesta serpe e gli diede un calcio in mezzo alle gambe. «Visto che so che hai gli attributi, so anche che ti fa male», commentò lei, ghignando. L'attore si rannicchiò e, tenendo il pugnale davanti a sé per distoglierla da un nuovo attacco, cercò di riprendere il controllo. Uno dei compagni della ragazza rientrò e si appoggiò a uno stipite della porta, ansimando. Sangue gli scorreva da una ferita sul braccio. Per la strada risuonavano le grida dei cittadini che chiamavano le guardie. «Scappa, Nufa. Saranno qui a momenti.» La donna corse da lui e lo sostenne. Lanciò a Rodario uno sguardo pieno di odio, poi i due si affrettarono verso l'uscita posteriore. L'attore non aveva intenzione di stare a guardare. La maga aveva parlato con due uomini. Di notte. Segretamente. Benché, in quanto signora della città, potesse convocare a palazzo chiunque volesse. Qui c'è qualcosa che non va, e saranno loro a dirmi che cosa. Si costrinse a rialzarsi e li seguì, stando curvo in avanti. Il piccolo Rodario e i suoi due fratelli sbattevano nei pantaloni; il dolore al basso ventre era qualcosa d'incomparabile. Nufa e il suo amico apprendista avevano raggiunto la porta. «Sparisci, spia!» gridò lei, sottrasse in fretta la spada al ferito e gliela puntò minacciosamente contro. «Se ci rincontreremo, ti ucciderò!» «Molto spiacevole. Io invece volevo offrirvi un impiego nel mio teatro», replicò lui con una mano sul cavallo dei pantaloni. «Mi manca una buona attrice, e vedendovi in questo modo, starmi davanti e minacciarmi in modo così drammatico, posso pensare che avreste la stoffa di una primadonna.» Dietro di lei vi fu un rumore sordo. Un'imponente sagoma era atterrata alle spalle della ragazza e si stava dischiudendo, mostrando le sue vere dimensioni. Stridette del ferro. «Attenzione!» gridò Rodario, senza che potesse spiegarsi perché metteva in guardia Nufa. Lo spadone lungo due passi di Djerun tagliò l'aria sibilando, la donna si abbassò. La lama splendente tagliò lunghe ciocche dei capelli di lei, poi attraversò il busto del compagno. I ciuffi neri e le due metà del corpo dell'uomo caddero a terra. Rodario sapeva che la guardia del corpo della maga non avrebbe mostrato nessuna pietà, ma fece comunque un tentativo. Zoppicò in avanti e si
mise davanti a Nufa, per proteggerla. «Fate la vostra parte, se vi è cara la vita», le sussurrò mentre le passava accanto. «Dovete raccontarmi tutto ciò che sapete dell'incontro segreto di Andôkai.» Lei annuì, con gli occhi invasi dal terrore della morte. «No, Djerun!» gridò l'attore alla demoniaca maschera di metallo. «Deve rimanere viva, così la potremo interrogare!» Dietro le fessure dell'elmo si accese la terribile luce purpurea. Djerun sembrava congelato. Teneva la spada allineata al braccio disteso; il sangue della sua vittima scorreva lentamente in basso, si raccoglieva davanti alla guardia e gocciolava sul selciato. «Djerun», disse piano Rodario. «Lasciala vivere, mi senti? Andôkai si arrabbierà molto con te, se la uccidi. Guarda, è indifesa e non può più minacciarmi.» Fece un passo di lato, per dimostrare al colosso l'inoffensività della ragazza. Accadde così in fretta che non comprese bene. Il braccio del gigante d'acciaio eseguì un rapido movimento; la lama ronzò appena sopra la testa di Rodario e davanti alla sua faccia e colpì Nufa in mezzo alle clavicole. La ragazza si accasciò gridando, mentre sangue schizzava dal suo corpo. «No!» Rodario le s'inginocchiò accanto. «Nufa, mi dispiace! Non sapevo che lo avrebbe fatto. Pensavo...» Diede uno sguardo alla grave ferita, e gli venne la nausea. Le dita insanguinate della ragazza cercarono a tentoni il bavero dell'uomo e lo tirarono verso di lei. «La maga... ha dato ai due... una borsa», ansimò. «Spada... incisioni...» Un sospetto completamente assurdo si fece strada dentro di lui. «Hai capito i loro nomi?» Nufa annuì. «Gran...» I suoi occhi si spalancarono vedendo qualcosa alle spalle di Rodario. «No!» gemette. La spada ronzò accanto alla spalla dell'attore e s'infilò nella bocca della ragazza, uccidendola sul colpo. Rodario non poteva credere che Djerun l'avesse fatto. Con cautela, coricò la morta per terra a si alzò. «Mostro di latta!» gli gridò. «L'hai assassinata! Mi stava per dire...» Tutto d'un tratto comprese perché Djerun avesse ucciso quella ragazza inerme, ma capì di non doverlo dare a intendere, se non voleva fare la sua stessa fine. «Mi stava per dire il nome del capo», mentì. «Andôkai si arrabbierà.» La guardia del corpo della maga mise via l'arma. Non si capiva se le pa-
role dell'attore gli giungessero. Dietro la visiera regnava una profonda oscurità. Si voltò a destra, imboccò il vicolo e scomparve. Turbato, Rodario si lasciò cadere su una botte vuota, accanto all'uscita posteriore, e guardò i due morti. Saresti stata brava sul palco, pensò osservando il bel viso di Nufa. Djerun l'aveva colpita in modo tale che non si scorgesse traccia dell'affondo, che era arrivato al collo passandole attraverso la bocca. Era stato quel gesto a soffiare sui roventi sospetti di Rodario l'ultimo alito d'aria, facendoli avvampare. Lo sapevo che questa storia mi avrebbe messo nei guai. VII Terra Nascosta, Dsôn Balsur, capitale Dsôn, 6234° ciclo solare, primavera Una mano, avvolta in un guanto di seta nera, accarezzò i diamanti incastonati sul taglio dell'arma. Poi passò con profondo rispetto sulla testa, ornata di intarsi, e scivolò fino al robusto manico, chiudendovisi intorno. Con cautela, l'arma venne sollevata dal suo letto di scuro broccato. «È pesante», constatò la bella voce di un albo. L'alba che aveva consegnato il dono era inginocchiata davanti a una scala di marmo nero, che portava a due troni, e teneva sollevato il cuscino di seta. Aveva lo sguardo fisso sul primo gradino. Non poteva sollevare gli occhi, a meno che non gliene venisse dato il permesso. «Lo so bene, l'ho portata fino allo Dsôn Balsur, Nagsor Inàste.» «Il tuo comportamento arbitrario, Ondori, richiederebbe una severa punizione», la rimproverò la dolce voce di un'altra alba. «Ma il tuo successo ci fa dimenticare la nostra collera.» «Voi siete troppo benevola, Nagsar Inàste», la ringraziò Ondori, osservando il guanto nero che riponeva l'ascia sul cuscino. «Che ne è stato del portatore?» s'informò l'albo. «È sprofondato in un laghetto nero come la pece, Altissimo, insieme col suo compagno. Abbiamo sorvegliato la riva per due rotazioni, ma non sono riemersi. Le cotte di maglia li devono aver trascinati in fondo, e lì sono annegati.» Ondori non ne sembrava affatto contenta. «L'avevo in pugno, ma il cuoio del suo cinturone si è strappato, e il nano mi è sgusciato dalle mani. Doveva morire in combattimento, e non finire nella melma di un
anonimo stagno del decaduto regno di Lesinteïl! Avrebbe dovuto pagare con tormenti senza fine quello che è stato fatto a me e alle mie sorelle. Morire affogato è decisamente troppo poco», disse per spiegare il motivo di tanta insoddisfazione, nonostante il trionfo che aveva raggiunto. «Tutti abbiamo subito delle perdite a Giogonero, ma nessuno a parte te e i tuoi amici si sente autorizzato ad abbandonare le proprie postazioni per vendicarsi. Tu hai la nostra comprensione, Ondori, ma non la nostra illimitata clemenza», sentenziò l'alba. «È un bene che tu sia tornata da noi e che abbia portato la Lama di Fuoco. Sappiamo già che uso farne.» «Domani partirai per i Monti Grigi coi tuoi fidati amici, e andrai dove già intendevi recarti», le ordinò l'albo, con voce assai severa. «Porterai l'ascia con te e appoggerai nella lotta contro i nani i mezz'orchi che si aggirano in quella regione. Niente avrà un effetto più devastante sul coraggio dei Cavernicoli. Hanno perso due cose importantissime: il loro eroe e la loro ascia. I mezz'orchi piegheranno la loro fortezza, noi la loro volontà.» «Non comprendo, Nagsor Inàste. Quali mezz'orchi?» «Un potente esercito ha costeggiato il nostro confine orientale e ha preso la via per i Monti Grigi. Presumiamo che vogliano impossessarsi del regno dei Cavernicoli.» Era la prima volta che Ondori sentiva parlare dell'esercito, e le venne un pensiero sgradevole. «Perché non ci hanno aiutato? E perché dovremmo schierare al fianco di quelle bestie fetide e vigliacche l'arma più potente della Terra Nascosta, senza che abbiano fatto nulla per meritarlo?» «Per il potere», risposero i due con una sola voce. «Noi vogliamo che tu assicuri al tuo popolo un ruolo nella conquista. I mezz'orchi non arriveranno alla vittoria da soli. Metterai un piede nei Monti Grigi per conto dello Dsôn Balsur e ci procurerai un posto sicuro in cui rifugiarci, qualora si debba abbandonare il nostro regno.» «Abbandonare il regno, Nagsor Inàste?» Per poco Ondori non aveva sollevato la testa e guardato l'essere più eccelso del regno senza permesso, tanto era terrorizzata dall'evento che lui aveva prospettato. «Gli uomini non sono avanzati neanche di mezzo miglio nella loro campagna di conquista e...» «Gli uomini stanno pagando con centinaia di morti la loro decisione di espellerci dalla Terra Nascosta. Sono testardi e non prestano ascolto ai consigli degli elfi, e questo rende per noi facile tartassarli con le nostre frecce, fuori della protezione offerta dalla foresta.» La sovrana si mosse sul trono, Ondori scorse l'orlo increspato della sua lunga gonna. «Ma gli uo-
mini sono numerosi. Continuano ad ammassare volontari, promettendo loro le ricchezze della nostra patria. Inoltre, l'alleanza tra uomini, elfi e nani è forte. Sono tutti concordi nel voler annientare lo Dsôn Balsur. Questa concordia è il nostro più formidabile avversario. Alla lunga, non riusciremo a contenerli.» Vi fu un fruscio di stoffa, e i capelli di Ondori vennero accarezzati con dolcezza. Una lama bulinata le guizzò davanti agli occhi; il taglio dell'arma le si posò sulla fronte, nella parte a sinistra, e con un rapido gesto, l'attraversò tutta giungendo fino a destra. Col sangue che sgorgava dalla ferita, Nagsar Inàste le tracciò un simbolo sulla pelle. «Prendi su di te la benedizione di Inàste, trasmettila ai tuoi amici e raggiungi i mezz'orchi. Non considerare una punizione il fatto di doverti occupare dei mezz'orchi; rivolgi piuttosto la tua attenzione alla responsabilità che ti affidiamo.» La voce dell'alba suonò dolce nelle orecchie di Ondori, sedando il dolore bruciante alla fronte. «Che cosa devo fare, se si rifiutano di partecipare all'attacco, Nagsar Inàste?» «Se lo faranno, prenderai questa ascia e abbatterai il loro principe», le ordinò. «Così vedranno quale forza abbiamo in nostro pugno. Se sarà necessario, li guiderai tu contro la fortezza e la manciata di nani che, a quanto crediamo, sono tornati lì. Ti seguiranno per la paura.» La mano si ritrasse dalla sua testa, indicandole che poteva andare. Ondori scivolò indietro sulle ginocchia, allontanandosi dai gradini, sempre tenendo lo sguardo basso e il cuscino con la Lama di Fuoco davanti a sé. Così facendo, indietreggiò palmo dopo palmo sul marmo nero. Solo quando superò gli stipiti della porta e i servitori ciechi ne chiusero i battenti in tionio, poté alzarsi e guardò i segni che erano incisi sul metallo: LE ETERNE CREATURE DI INÀSTE, NAGSOR E NAGSAR, FRATELLO E SORELLA, I LORO VOLTI TROPPO BELLI PER GLI OCCHI, TROPPO TREMENDI PER L'ANIMA, E MORTALI PER IL CUORE. CHINA IL CAPO CON RISPETTO E TERRORE. C'è mancato poco... Ondori ripensò al momento in cui aveva quasi guar-
dato verso l'alto. Non esistevano indicazioni riguardo cosa capitava a chi non rispettasse quella prescrizione, ma il fatto che alcuni albi non fossero più tornati a casa dopo un'udienza presso i fratelli Eterni faceva intendere a lei e a tutti gli altri che non si sopravviveva a un simile sacrilegio. L'alba si terse il sangue rappreso dalle palpebre, facendo però attenzione a non cancellare il simbolo sulla fronte. «Puoi andare», le ordinò uno dei servitori ciechi, puntando le orbite vuote verso di lei. «Ti accompagno fuori.» Le si avvicinò e le si mise accanto, con passi tanto sicuri che sembrava potesse vedere lei e ciò che lo circondava. «Mettimi il braccio sulla spalla», le ordinò. Ondori lo fece; la sua destra toccò il metallo dell'armatura cerimoniale dell'albo. Insieme camminarono per gli alti corridoi, la cui bellezza era perduta per sempre per l'accompagnatore di Ondori. Le pareti erano fatte in legno nero, e magistrali intarsi di argento lucido e di tionio brunito sottolineavano lo splendore del materiale. I migliori pittori e disegnatori avevano realizzato col sangue dei nemici vinti dipinti che celebravano le imprese del suo popolo: lo sterminio degli elfi della Terra Nascosta, le campagne vittoriose ai danni degli uomini, l'ampliamento continuo del loro territorio e la creazione dello Dsôn Balsur, l'opera più bella e oscura che il suo popolo avesse mai dato alla luce. Ondori si fermò davanti a uno spazio lasciato vuoto sulla parete. Gli artisti avevano cominciato il dipinto, raffigurante la morte del principe degli elfi, Liútasil; già s'intravedevano i sottili contorni. Lo finiranno mai? L'alba ammirò la ricchezza di colori originata dalla miscela di diversi tipi di sangue. Riconobbe lo scialbo rosso del sangue umano, le diverse tonalità di verde dei mezz'orchi e dei loro parenti, il chiaro sangue elfico e il rosso intenso dei Cavernicoli. Sapeva che non era facile dipingere con quel materiale; si coagulava in fretta, e lo si poteva mantenere fluido solo con l'aggiunta di determinate erbe ed essenze. Sua madre era stata una maestra in quell'arte; dalla sua morte in Grünhain, il cavalletto, a casa loro, era rimasto vuoto, poiché Ondori e le sorelle non toccavano pennello. «Va' avanti», la esortò l'accompagnatore e poggiò la mano sulla sua spalla. Poco dopo, Ondori poté lasciare il palazzo della coppia di fratelli regnanti. Gemendo, i portali di xiolite si aprirono; poi si richiusero tuonando alle sue spalle. Il rombo, simile a un temporale, riecheggiò; quindi tornò il silenzio.
L'alba attraversò la grande piazza vuota; sotto le suole dei suoi stivali i pezzetti di osso, grandi come perle, scricchiolavano gli uni contro gli altri. Venivano ricavati dai resti dei loro nemici; le ossa di elfi, nani, uomini e creature di ogni genere servivano a rendere il più gradevole possibile camminare sulla piazza, come pure su ogni strada e vicolo di Dsôn. Sbiancate dal sole della Terra Nascosta, erano un piacevole contrasto visivo rispetto agli scuri edifici. Ondori raggiunse il bordo della piazza. La brezza serale le spirava tra i capelli castano scuro, giocando con la stoffa della maschera che portava sul volto. Dsôn giaceva in mezzo a un cratere largo dieci miglia e profondo due. La leggenda diceva che una lacrima nera della loro creatrice, Inàste, fosse caduta sulla Terra Nascosta e avesse corroso il suolo. Gli elfi della Pianura d'Oro avevano tentato senza successo d'interrare il cratere. Dopo aver sterminato gli elfi, gli albi avevano eretto con tutta quella terra una montagna di più di tre miglia d'altezza, su cui si ergeva il titanico palazzo di ossa della coppia di fratelli regnanti. Lo sguardo di Ondori vagò sugli edifici della sua città natale, che erano stati edificati in legno nero. Quel materiale era così resistente che vi si potevano costruire sette piani l'uno sopra l'altro, senza difficoltà; solo per edifici di altezza superiore era necessaria una parete portante di pietra. La durezza del legno nero permetteva agli architetti di progettare le forme più aggraziate. Lì non vi erano casermoni privi di fantasia come quelli in cui erano soliti abitare gli uomini. Angoli organizzati in modo simmetrico, sottili marcature, aggraziate inserzioni, annessi ornati di svolazzi, torri che si attorcigliavano l'una nell'altra, cupole... Tutto ciò si estendeva a partire dall'altezza del suolo e creava un insieme cupo in cui il bianco delle strade brillava furtivo. Lavori d'intaglio, pietre ornamentali e tionio davano un tono particolare, mentre altre pietre e leghe iniziavano a brillare solo quando cadeva su di esse la luce della luna e delle stelle. Di notte, Dsôn aveva un aspetto ancora più superbo. Sarebbe un peccato abbandonare tutto e scambiare la nostra patria con le squallide pareti di pietra delle montagne, pensò l'alba guardando malinconica lo scosceso orlo del cratere, dietro il quale calava un sole rosso sangue. Ondori si voltò e alzò la testa per guardare la cima del fantasioso palazzo a forma di torre, il cui involucro esterno era composto interamente di ossa. Vide ossa piccole, grandi e gigantesche, che provenivano da uomini, or-
chi, mezz'orchi, giganti e draghi; nella parte bassa si trovavano anche pezzi che non sembravano appartenere a nessuna creatura conosciuta, e alcuni di essi superavano per dimensioni anche quelli dei draghi. Le ossa, insieme, formavano uno zoccolo alto cento passi; s'incastravano magistralmente le une dentro e accanto alle altre. Gli intagliatori ne avevano ricavato statue e scene, e quando divenivano troppo marce e porose, venivano sostituite da ossa nuove. Dal momento che a quel popolo non mancavano nemici, la sopravvivenza del palazzo era assicurata. I successivi ottocento passi che separavano dalla slanciata punta della torre erano coperti di sole ossa di elfi, ricavate dalle spoglie dei popoli elfici della Terra Nascosta, ormai annientati. Al tramonto i colori mutavano; la luce scintillava di giallo miele, poi di arancione e infine di rosso scuro, come il sangue dei nani. Ondori amava quello spettacolo. «Sei ancora viva? Quindi anche noi possiamo sperare nella pietà dei Fratelli?» disse la voce del suo amico Estugon, alle sue spalle. Ondori sorrise e si voltò. Davanti a lei stavano gli albi con cui era partita per uccidere gli assassini dei suoi genitori. «Sì, potete sperarlo. E dovrete accompagnarmi un'altra volta. Domani lasceremo lo Dsôn Balsur per raggiungere a cavallo i Monti Grigi.» La guardarono con aria interrogativa. «Mi aspettavo che ci avrebbero mandati ad attaccare l'esercito nemico», replicò Estugon, stupito. Ondori sollevò la Lama di Fuoco. «No. Toglieremo agli stupidi mezz'orchi una parte del loro nuovo regno.» Si spiegò con poche parole, come gli altri si aspettavano. «Be', mi sembra una dimostrazione di fiducia, più che una punizione», commentò Estugon osservando la torre. Il nero nei suoi occhi scomparve, lasciando spazio a un bianco candido. Sembrava di una bellezza immacolata, come fosse un elfo. «Io vi ringrazio, Nagsor Inàste e Nagsar Inàste», gridò forte inginocchiandosi, mentre gli albi che erano con lui lo imitavano. «Non vi deluderemo mai.» L'alba si mise di fronte a loro ed estrasse un coltello sottile. «Alzatevi, vi devo trasmettere la benedizione che mi è stata impartita», disse, ed espletò lo stesso rito che Nagsar Inàste aveva compiuto su di lei. Nessuno dei suoi amici fece una smorfia quando il coltello incise la carne. Era un onore, qualcosa di unico, essere consacrati dagli Eterni. Portavano i segni sulla fronte con immenso orgoglio.
«Ora dobbiamo riposare», ordinò loro Ondori. «Dovremo cavalcare in fretta per raggiungere quelle bestie senza cervello.» «Che bello, possiamo uccidere altri Cavernicoli», si compiacque Estugon. «È stata la volontà di Inàste a farci incontrare gli assassini dei tuoi genitori nel Lesinteïl e a permetterci di annientarli.» «Uno ancora mi manca. Mio padre mi parlò specificamente di tre Cavernicoli, e in quel gruppo non ho trovato uno dei gemelli di cui mi parlò.» «Sarà fuggito.» «Un Cavernicolo che pianta in asso i suoi amici e suo fratello? Impossibile. Dev'essere sui Monti Grigi. In ogni caso, gli altri venivano da lì. Come vedete, abbiamo buoni motivi per fare loro una visita.» Ondori soppesò la Lama di Fuoco scuotendo il capo, prima di appenderla sulla schiena. Temeva che potessero essere in qualche modo costretti a combattere contro i mezz'orchi. «Non capirò mai perché forgino queste asce. Sono pesanti e poco maneggevoli, e s'incastrano nei corpi più facilmente di quanto uno vorrebbe.» Imboccò la scala che, dopo cinquecento gradini, li avrebbe condotti nella piana dove avevano lasciato le cavalcature. I destrieri della notte e i tori di fuoco stavano gli uni accanto agli altri, non era necessario legarli, dal momento che obbedivano ciecamente ai loro proprietari. «Sono piccoli e molto forti per la loro statura, cosa che sicuramente ha a che fare col continuo scavare nelle montagne», considerò Estugon. «Non riesco a immaginarmi uno di loro con una spada o un arco. Le loro dita sono troppo corte», li schernì, guadagnandosi le risate degli altri. Ondori raggiunse Agrass, il suo nero toro di fuoco, e gli osservò le zampe posteriori. Le asce del nano avevano inflitto ferite profonde e avevano quasi ucciso la sua fedele bestia. I tagli avevano cominciato a cicatrizzarsi, le croste si staccavano liberando carne nuova ancora scoperta. L'alba accarezzò con amore i fianchi dell'animale e saltò in sella. La sua scorta preferiva al contrario i destrieri della notte, che secondo Ondori erano troppo deboli in combattimento. «So che cosa pensate di Agrass», disse mentre voltava il toro accarezzandogli l'ampio collo. «Ma i vostri bei cavallini sarebbero morti da un pezzo, se avessero subito le ferite che ha subito lui.» Gli albi risero. «Rimane comunque un po' lento», replicò Estugon per prenderla in giro, mentre faceva girare il suo sbuffante destriero. Il toro dagli occhi rossi osservò come in agguato il cavallo, che era ner-
voso, e abbassò il capo coperto dall'impressionante maschera da combattimento in tionio. Con un leggero tocco di speroni, Ondori gli fece capire che doveva fare un balzo in avanti. Agrass dispiegò le corna lunghe un passo e mezzo come una forchetta e passò tra cavalcature e cavalieri senza trapassarli. Poi spinse a terra il destriero con facilità, come se quello non pesasse nulla. «Io non lo trovo così lento», disse l'alba, compiaciuta, mentre Estugon atterrava nella polvere. Il destriero tornò sugli zoccoli, sotto i quali la terra ardeva senza fiamma, e digrignò le zanne appuntite, deciso a vendicarsi dell'aggressione. Agrass abbassò il capo, preparandosi. Estugon richiamò la sua cavalcatura. «Ho imparato la lezione», dichiarò ridendo, mentre risaliva in sella. «Ma in una cavalcata vera e propria il toro rimarrebbe indietro.» «In battaglia ho bisogno della sua forza e della sua prontezza. Sono una vincitrice, non devo essere veloce per scappare dal campo di battaglia», ribatté Ondori, sicura di sé. Quindi fece vagare il suo sguardo su Dsôn e ammirò le misteriose scintille, i lucori e gli sfavillii che tanto amava. Non li avrebbe rivisti per molto tempo, e pregò Samusin e Tion di non negarle mai più, in seguito, la loro vista. Terra Nascosta, sette miglia dal regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera Le mani di Myrmianda sciolsero le fasciature. La nana osservò soddisfatta le ferite, che si erano chiuse. «Ce l'hai fatta, Tungdil», disse senza distogliere lo sguardo dalle cicatrici. «No, tu ce l'hai fatta», replicò lui, sollevato. «Sono state le tue medicazioni a impedire l'infezione.» «Ma la tua resistenza la rendeva impossibile.» Myrmianda sostituì il muschio asciutto con un nuovo strato; quello vecchio finì nel fuoco, dove prese a bruciare scoppiettando. «Quando saremo arrivati ai Monti Grigi, non sentirai quasi più niente», gli promise. A quel punto sollevò lo sguardo. E sorrise. Tungdil se ne rallegrò, come lo rallegrava tutto ciò che la nana faceva quando gli stava vicino. In sua compagnia, il viaggio era stato straordinariamente divertente. Myr, come nel frattempo aveva preso a chiamarla per
via della confidenza che era nata tra loro, s'intratteneva volentieri con lui; i due parlavano di tutte le cose possibili e impossibili, cosa che gli ricordava molto le sere passate nella biblioteca di Lot-Ionan. Gli capitava troppo di rado di poter scambiare riflessioni con qualcuno che possedesse la sua stessa mentalità curiosa e la sua stessa erudizione. Il corpo e l'anima di Myr si completavano perfettamente, come martello e incudine. Il nano ricambiò il sorriso. «Ti prenderò in parola.» Col suo aiuto s'infilò nel farsetto di cuoio e nella cotta di maglia che Gemmil gli aveva dato, e si sedette accanto al fuoco. Vraccas sembrava avere buoni propositi nei suoi confronti. Gli aveva mandato quella nana affinché dimenticasse Balyndis. Già temeva il momento in cui Myr avrebbe lasciato i Monti Grigi. D'altro canto, Tungdil non poteva neanche trattenersi in eterno nel paese sotterraneo degli spiriti dei nani, dal momento che aveva giurato di ricostruire il regno dei Quinti. In ogni caso, lui aveva già posto le fondamenta, il resto era compito di Glaïmbar. Che cosa devo fare? rimuginava osservando, aldilà delle fiamme, Myr che riordinava il suo materiale per medicazioni. Si meravigliò dei sentimenti che imperversavano dentro di lui. «Qualche piccola fantasticheria, Sapientone?» lo punzecchiò Boïndil, che stava arrostendo un pezzo di formaggio su un bastoncino. «La tua mente sveglia non riesce a impedirti di passare da una gonna all'altra?» «Sei geloso?» «Bah, geloso non è l'espressione giusta.» Il Rabbioso assaggiò il formaggio, brontolò insoddisfatto e lo rimise sul fuoco. «Non sono una femmina, sono un guerriero. Le femmine sono gelose. Io sono... deluso.» Guardò in direzione della nana. «Hai passato tutto il tempo con lei. Hai lasciato marciare il tuo vecchio amico da solo in mezzo ai reietti.» Si agitò il bastoncino col formaggio sotto il naso. «E quelli sono tutto fuorché divertenti, sappilo.» Offeso, staccò con un morso un pezzo di formaggio e s'infilò del pane in bocca. «E di che cosa avremmo dovuto parlare?» «Di un sacco di cose», gli rispose Boïndil con la bocca piena. «Degli albi che ci hanno attaccati, della strana mucca che avevano con loro, di che cosa succederà senza la Lama di Fuoco, di come sta Boëndal, se i Musi di porco sono già alle porte o che cosa significa la runa dei Sotterranei nella Terra dell'Aldilà», elencò, parlando a voce sempre più alta. «Invece te ne
vai impettito, ronzi intorno a quella creatura dalla pelle bianca e con gli occhi rossi da coniglio e parli così colto che la lingua ti si arrotola intorno ai denti e dimentichi quasi il motivo per cui siamo partiti.» Le conversazioni a bassa voce della loro scorta ammutolirono. Anche Myr, che sedeva tra i guaritori e stava spiegando loro qualcosa, tacque e guardò verso i due nani. A Tungdil non andava quello che stava succedendo. Stava prorompendo il temperamento focoso di Boïndil; il guerriero parlava con collera, ed era troppo tempo che non aveva un nemico davanti alle lame su cui vendicare la morte dei nani che li avevano accompagnati dai Monti Grigi. Inoltre, Tungdil si sentiva davvero un po' in colpa per quanto gli aveva confidato il gemello. Il Rabbioso morse energicamente il formaggio e, facendolo, strappò anche un pezzo di legno, che masticò insieme come nulla fosse, tanto era agitato. «Mi meraviglio, Tungdil, mi meraviglio di quanto puoi dimenticare in fretta.» «Me lo hai consigliato tu stesso», ribatté l'altro debolmente. «Tu dovevi dimenticare che Balyndis stava per diventare la tua sposa, ma nient'altro», l'apostrofò il Rabbioso, senza pensare di parlare a voce più bassa. «È tuo dovere...» «Mio dovere?» esplose Tungdil. «Sono stufo di sentire continuamente parlare di doveri. Tutti mi hanno richiamato al dovere: Lot-Ionan, il vecchio imperatore, i nani, la Terra Nascosta. Adesso basta! Da ora in avanti decido io che cosa voglio fare e ciò che giuro di fare, nessun altro, nessun clan, nessuna stirpe, nessuna famiglia...» «Ah, quindi è così, eh? Forse sei già stato troppo tra gli assassini e i reietti? Tu parli alla leggera», ribatté Boïndil, interrompendolo. «Non hai mai avuto nessun obbligo del genere. Tu non sei...» Morse rapidamente il bastoncino per evitare di dire altre stupidaggini. Si mise a masticarci intorno con forza, facendolo scricchiolare in modo percettibile. Ma era comunque troppo tardi, Tungdil sapeva perfettamente dove voleva arrivare il guerriero. Gli occhi gli scintillavano. «Dillo, Boïndil! Coraggio, dimmi in faccia quello che pensano anche tanti altri!» Dal momento che non arrivava nessuna risposta, proseguì: «L'eroe di Giogonero è un Terzo, un nano cresciuto tra gli uomini, una bizzarria, che per uno strano destino ha giocato un ruolo più importante di quello che gli spettava». Si volse verso il fuoco. «Quando pensate queste cose, dimenticate che sono stati il vecchio imperatore e Balendilín a trascinarmi in questa storia. Se
non fosse stato per loro, le cose sarebbero andate molto diversamente. E ora voi non dovreste più preoccuparvi di me, e io sarei un nano viaggiatore che offre i suoi servigi di fabbro agli uomini in cambio di denaro. O uno dei Liberi!» Le sue parole dispiacquero a Boïndil. «Non intendevo dire questo», disse cercando di rettificare le sue impulsive esternazioni. «Se non fosse stato per te, la Terra Nascosta ora apparterrebbe a Nôd'onn...» Cercò affannosamente le parole. «È meglio che dimentichiamo queste stupidaggini», propose, quasi implorante. «Facciamo finta che io non abbia detto niente, Sapientone.» Tungdil sorrise amaramente e gli mise una mano sulla spalla. «Non erano stupidaggini, Boïndil. Hai detto cose vere. Come ne ho dette io.» Si alzò e si allontanò dal fuoco. Il Rabbioso avrebbe voluto seguirlo, ma Myrmianda gli fece cenno di rimanere dov'era e si mise a seguirlo lei. Lo trovò dietro un albero, mentre giocava con un ciottolo che aveva trovato. «Non sembra facile essere un eroe», esordì sedendosi accanto a lui. «Avevi una compagna che non hai potuto tenere al tuo fianco, ho capito bene?» Tungdil sospirò. Adesso fraintenderà tutto. «Sì, Myr, esattamente. Si chiama Balyndis Ditadiferro, e fino a poche rotazioni fa ho creduto che avrei stretto con lei il patto di ferro e che saremmo vissuti insieme, sui Monti Grigi, sino alla fine dei tempi», le confessò. «Ma lei ha seguito la tradizione e si è piegata alla volontà del clan», intuì lei. «Il tuo cuore supererà il dolore, Tungdil.» Le mani della nana si tesero verso il ciottolo, e le loro dita si sfiorarono come per caso. «Se posso esserti d'aiuto, fammelo sapere», sussurrò prima di separare le sue dita da quelle di Tungdil. «Myr... io...» Il nano sentiva nella pancia lo stesso formicolio che provava quando, nei tunnel, un vagoncino sfrecciava su un tratto in ripida discesa e l'aria gli spirava fin nelle viscere. Myrmianda si accovacciò davanti a lui e gli mise le sottili dita sulle labbra. «Io non sono promessa a nessuno, Tungdil, io sono libera nella mia scelta, e non ho conosciuto nessun nano che fosse sapiente quanto te. Mi hai affascinata col tuo carattere, e non ha nessuna importanza quale sia il tuo passato. Conosco diversi Terzi che non si sono resi colpevoli di nulla, da quando vivono nella nostra comunità.» Alla luce della luna, i suoi occhi rossi parevano pieni di mistero. I raggi facevano risplendere i suoi capelli
bianchi e la peluria del volto. «Il tuo cuore soffre. E deve farlo. Una ferita deve sanguinare, in modo che non vi rimanga nulla che possa causare un'infezione.» La bocca della nana si avvicinò al volto di lui. Lo baciò dolcemente sulla fronte. «Quando il tuo cuore sarà pronto, e sarai sicuro di quello che provi per me, e sarai sicuro che non è un fuoco di paglia o una vendetta verso Balyndis, allora dimmelo. Fascerò il tuo cuore e lo guarirò.» In silenzio osservarono le stelle che brillavano sopra i Monti Grigi. «Grazie», mormorò Tungdil a un certo punto. «Grazie per cosa?» chiese lei. «Ti ho solo detto quello che provo.» «Grazie per la tua comprensione. Per la tua presenza. Per tutto ciò che mi hai donato nelle ultime rotazioni», le rispose lui, commosso. «È stato un piacere anche per me», ribatté lei con una risata incantevole. «Quando mai si trova un nano come te, istruito e in più guerriero e di bell'aspetto?» Abbassò la testa. «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo. Dobbiamo parlare di qualcos'altro? Delle cose che chiede il tuo amico? O della Terra dell'Aldilà? Sembra che ci siate stati. Com'è?» «Nebbiosa.» Tungdil sorrise di sbieco, ma non appena richiamò alla mente quell'immagine e descrisse a Myr la sua avventura negli sconosciuti e irreali dintorni a nord del regno dei Quinti, un brivido lo attraversò. La nana sollevò le spalle, come se anche lei rabbrividisse. «È un luogo sinistro, in cui non vorrei mai trovarmi. Al posto tuo, sarei corsa urlante nella nebbia e presumo che avrei incontrato la morte in un burrone. Peccato che non vi siano tracce di nani laggiù. Com'è che li hai chiamati? I... Sotterranei?» «È difficile scoprire qualcosa sul loro conto.» Tungdil la osservava pensieroso. «Quanti cicli hai, Myr? Come mai sei così istruita?» La nana sorrise. «Sono ancora giovane, ho poco più di centoquattro cicli. I miei genitori sono morti poco dopo la mia nascita, a causa del crollo di una galleria, e io sono stata allevata da nani che erano arrivati da poco nel nostro regno e che avevano portato dei libri con loro. Per puro caso erano rimasti leggibili nonostante il bagno nel laghetto, e io li ho letti. Tutti. E li ho riletti, più e più volte, fino a che non conoscevo a memoria ogni riga, ogni runa.» «È così che sei diventata tanto sapiente?» «No, ma così ho cominciato», rispose lei sorridendo. «Mi sono messa alla ricerca di libri. Credo di aver bussato a ogni porta, di avere chiesto a tutti. Così mi sono istruita. A furia di leggere, ho dimenticato che i nani
devono forgiare e combattere.» Ammiccò. «Ecco, guardate, la gracile Myr! Guardate come trascina i libri...» disse alterando la voce e dandogli di gomito. «Non crederesti quanto sia stato divertente, alcuni cicli più tardi, medicare le ferite dei giovani nani di allora, passando l'ago lentamente attraverso la pelle.» Imitò il gesto. «Mooolto lentamente...» «Che crudele!» fece Tungdil, ridendo. «Anche i tuoi genitori erano...» Tacque, cercando l'espressione adeguata. La nana capì. «Bianchi come la neve e con gli occhi rossi da coniglio, o come ha detto il tuo amico prima? Sì. Vivevano presso i Liberi, come i loro antenati. Penso che questa alterazione si presenti...» «... quando non si sta mai al sole», completò lui emozionato, vedendo confermata la sua teoria. «È quello che succede ai tritoni!» Per non lasciare così com'era la sua fraintendibile affermazione, le spiegò in fretta quello che aveva pensato, prima che la nana reagisse con rabbia al suo affrettato paragone. «Certo, dev'essere così», concordò lei non meno vivacemente. «E come sarebbero mai potuti stare al sole? Il regno è enorme. E le nostre costruzioni devono essere diverse da quelle che conosci tu. A me non mancherà a lungo la possibilità di fare un confronto. Sono impaziente di vedere le dimore dei Quinti.» «Incompleto», disse Tungdil, badando all'essenziale, e sentendo la curiosità ribollire dentro di sé. «Voi vivete diversamente?» «Noi abbiamo costruito case in caverne immense, case di roccia a più piani, sopra le quali sta sospeso un cielo di pietra in cui brillano pietre preziose», gli descrisse. «Se sei attratto dall'acqua, puoi costruire in riva a un lago; quando hai fame, basta tirare un bastoncino fuori della finestra. I pesci abboccano da soli.» Il nano cercò d'immaginarsi le città, ma gli riusciva difficile. Una cosa era certa: Myr aveva parlato al plurale, per cui esistevano più insediamenti di Liberi. «Mi piacerebbe sapere...» La nana rise, si alzò e gli porse la mano. «Ti ho già rivelato fin troppo della nostra patria. Vieni, torniamo indietro. Gli altri si staranno sicuramente preoccupando. La vedrai presto da te.» Tungdil strinse la sua mano e si lasciò aiutare a mettersi in piedi. Sorpreso, notò che la nana era più forte di quanto non sembrasse in apparenza. Chi trascina libri non può essere tanto debole. Quando si riaccostarono al fuoco, Boïndil li salutò con un cenno. Stava montando la guardia.
Tungdil lo raggiunse e lo abbracciò brevemente ma con vigore. Il guerriero gli diede qualche pacca sulle spalle, sollevato, e si rallegrò del fatto che le sue parole erano state perdonate. «Quando mangio il formaggio dico delle stupidaggini», brontolò. «Quando mi vedi masticare quella roba, non fare caso a quello che dico.» Tungdil rise. «Me lo ricorderò. Perdonato e dimenticato.» Si coricò accanto al fuoco e guardò Myrmianda, che lo osservava attraverso le fiamme, lanciandogli un sorriso. Come aveva fatto Balyndis fino a non molto tempo prima. Terra Nascosta, Monti Grigi, davanti al regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera Il mezz'orco saltò su una pietra squadrata, mettendosi al coperto; offrì il largo naso al vento che spirava da nord, passando tra le montagne, e fiutò rumorosamente in direzione del grande ingresso. L'aria non portava con sé l'odore di nulla di cui dovesse avere timore. Sollevò di più la testa e occhieggiò oltre il bordo del blocco di pietra. I battenti del portale erano aperti e invitanti e, ovunque guardasse, non vi era traccia di sentinelle che ostacolassero il cammino o che potessero dare l'allarme vedendolo comparire. Grugnendo, il mezz'orco si alzò e camminò tra rocce e mura in rovina, puntando dritto verso il gigantesco portale che avrebbe garantito un più facile accesso al regno dei Cavernicoli. Dal momento che il principe Ushnotz non voleva raggiungere il passo che conduceva alla Porta di Pietra passando per il sentiero più noto, i mezz'orchi avevano cercato una seconda possibilità. Raggiunse l'ingresso; calpestò con noncuranza le pozze di acqua create dallo scioglimento delle nevi, che si erano formate un po' ovunque sul suolo, e vi annusò dentro, per sentire se vi fosse una qualche traccia fresca dei Cavernicoli. Le sue labbra si contrassero in un ghigno. Prese il suo corno, si voltò, dando le spalle al portale, e soffiò con forza, in modo che il segnale venisse sentito anche molto lontano. Gli venne subito risposto. Ushnotz gli aveva ordinato di aspettare il suo arrivo e di sorvegliare l'ingresso. Il mezz'orco non pensò di dover rinunciare al suo meritato riposo. In fin dei conti, era il fortunato che aveva risparmiato all'esercito una difficile arrampicata e una faticosa marcia attraverso distese di neve e ghiacciai.
Squittendo felice, si sedette su una pietra che stava all'ombra dei Monti Grigi e frugò nello zaino finché non trovò un panno di iuta grezza. Dentro al fagotto erano avvolti i resti del Bocconcino che aveva ucciso, dopo averlo incontrato per caso durante il tragitto. L'uomo era davvero grosso, e il mezz'orco non aveva voluto mangiarselo tutto in una sola volta; così aveva messo da parte le gambe come scorta per il viaggio. Non lo disturbava affatto che la carne puzzasse già. Anzi, ciò la rendeva ancora più saporita. Le sue zanne scavarono nella preda, strappando un grosso pezzo di carne. Grugnendo di piacere, il mezz'orco prese a masticarlo e lo inghiottì con avidità. Ripensò alla battaglia che avevano combattuto contro gli umani nel Gauragar. L'Acqua Nera aveva reso lui e i suoi compagni imbattibili, come i soldati che si erano messi sul loro cammino avevano compreso molto presto. Era stato semplicissimo saltare sulle barricate dei Sanguerosso, rompere le loro file e annientarli. Per un bel po' vi era stato cibo sufficiente per tutto l'esercito. Addentò di nuovo il polpaccio, ma il boccone gli si piantò in gola. Tossì a lungo, senza risultati; il pezzo di carne non voleva proprio scivolare nello stomaco. Strozzandosi e imprecando cercò la sua fiasca dell'acqua, mentre perdeva sempre più il respiro. La borraccia gli scivolò tra le dita e rotolò sul terreno scosceso. Il mezz'orco le saltellò grottescamente dietro, per poi arrendersi e correre verso il bacino in cui si raccoglieva la limpida acqua della cascata. Si stese sulla pancia e allungò il collo per raggiungere l'acqua che fredda gli scorse in gola, trascinando via il pezzo di carne che lo tormentava. Mentre beveva, scoprì di stare sdraiato su una piatta lastra di roccia, sotto la quale si nascondeva un canale largo circa mezzo passo attraverso cui defluiva l'acqua. Quel vecchio dispositivo dei nani non lo interessò affatto; il mezz'orco si tirò sulle ginocchia e fece per raccogliere con le mani altra acqua. Sbalordì non poco: l'acqua gli rimandava l'immagine di un nano dallo sguardo cattivo, con una folta barba bionda e capelli mossi che spuntavano dall'elmo! La cascata doveva essere maledetta dal dio dei nani, pensò, e lo aveva trasformato in uno di loro. Fu colto dal panico e squittì forte. Ushnotz l'avrebbe ucciso sul posto, vedendolo così. La sua immagine riflessa cominciò a sogghignare e sporse sfrontatamente la lingua. Il mezz'orco si avvicinò all'acqua, sempre più stupito, e annusò. Si ri-
trasse inorridito, perché aveva addirittura l'odore di uno dei suoi nemici giurati. Indeciso, guardò l'immagine riflessa nell'acqua che scorreva piano e notò confuso come gli stesse spuntando una seconda testa da nano, che brandiva con entrambe le mani un'ascia sopra l'elmo. *
*
*
«Un'entrata», grugnì Ushnotz, soddisfatto. Aveva raggiunto la cima piatta di una grossa rupe per avere una visuale migliore. «Fastok l'ha scoperta davvero.» Runshak era accanto al suo signore e osservava il terreno leggermente accidentato che, a parte un po' di macerie, non offriva nessun riparo degno di quel nome. Su una pietra, accanto alla cascata, giaceva Fastok, con l'elmo abbassato sulla fronte e le gambe comodamente incrociate. «Non posso crederci. Quella zucca vuota sta dormendo!» ringhiò. Raccolse una pietra grande come un pugno e la scagliò in direzione dell'esploratore, ma il tiro non era abbastanza lungo. La pietra raggiunse il suolo e rotolò solo fino alle punte degli stivali del mezz'orco, anziché colpirlo nelle parti molli. «Ehi!» tuonò. «Dovevi fare la guardia, placenta di una Bocconcina puzzolente!» «Fai avanzare i guerrieri. Che si raccolgano qui», ordinò Ushnotz, il cui umore, vedendo un posto tanto tranquillo, stava diventando sempre migliore. «Ma che stiano attenti.» Il grosso mezz'orco si erse in tutti i suoi due passi d'altezza e gridò gli ordini giù dal pendio del monte. L'esercito stava salendo in larghi tornanti, come un tintinnante e sconfinato serpente. «Sono troppi», stimò. «Li dovremo fare entrare divisi in bande.» «Entrare nel nostro nuovo regno», grugnì il principe guardando le cime dei monti. «Non sarà facile come il Toboribor, ma è meglio che essere inseguiti dalla cavalleria del principe Mallen.» Il suo piano funzionava. Non appena avessero preso confidenza coi labirinti delle montagne, una parte di loro si sarebbe messa a caccia di umani e avrebbe fatto visita agli insediamenti circostanti. Gli uomini gli avrebbero offerto spontaneamente tributi, pensò Ushnotz. Il Gauragar non disponeva di un esercito valido come quello dell'Idoslân, e quegli uomini non avrebbe mai osato attaccarlo, almeno finché i pericolosi albi non avessero continuato ad allignare, imbattuti, nello Dsôn Balsur,
attendendo un errore dei propri nemici. Ciò gli dava il tempo di costituire il suo impero, che non sarebbe mai caduto e che lui, grazie all'Acqua Nera, avrebbe governato in eterno. I rifornimenti non scarseggiavano; la sua gente trascinava, oltre alle proprie borracce, appositi contenitori pieni dello scuro liquido. Nelle sale dei Cavernicoli avrebbero certamente trovato un bacino in cui versare l'Acqua Nera. Se l'effetto fosse scemato, sarebbe bastato un piccolo sorso. E col tempo si sarebbero abituati al sapore. Ushnotz fece una bassa risata. «Il nostro nuovo regno», ripeté guardando i suoi guerrieri correre e riempire un po' alla volta la piccola piana rocciosa che stava di fronte all'ingresso. Esultavano rivolti verso di lui, sollevando le armi e battendole contro gli scudi per rendergli omaggio. Sbuffando di rabbia, Runshak si fece strada verso Fastok, ancora immobile, al quale non sembrava interessare quanto stava succedendo. «Ehi!» squittì dando all'esploratore un calcio sul fianco. Non ottenendo reazione, appoggiò un piede sulla tibia e premette con forza. Un dolore del genere avrebbe svegliato chiunque. Il ghigno sadico scomparve dal brutto volto di Runshak, che si chinò e strappò l'elmo. Fastok non si sarebbe mosso mai più. Un'arma, presumibilmente un'ascia, gli aveva spaccato la testa fino all'altezza del naso e l'aveva poi staccata dal collo. L'uccisore aveva sistemato il cadavere in modo che il sangue verde si disperdesse in una fessura della roccia e non formasse una pozza che palesasse la morte. Il cranio era semplicemente appoggiato al tronco. Il mezz'orco si drizzò di scatto. «Attenti!» urlò. «Siamo...» Sulla soglia del portale comparve un singolo nano. «Non arriverete mai vivi ai Monti Grigi. Noi figli del Fabbro siamo di nuovo di guardia, come Vraccas ci ha comandato.» Portò un corno alle labbra e suonò una bassa e nitida nota prolungata. Ushnotz sentì un forte scricchiolio, la roccia si aprì e si crepò. Inorridito, vide che sull'altopiano roccioso, in cui aveva preso posizione il primo reparto di mezz'orchi, si allargavano velocemente delle linee scure; guizzavano in tutte le direzioni, più veloci di un fulmine, e si ramificavano formando un reticolato che faceva presagire disgrazie per i mezz'orchi che vi stavano sopra. L'intera piana si afflosciò su di sé, come se fosse stata colpita da un immenso maglio. La roccia si ruppe, precipitando in basso; più di mille mezz'orchi la seguirono, piombando nell'oscurità tra grida e grugniti.
La caduta terminò dopo tre passi; mezz'orchi e frammenti di pietra caddero nelle acque di un bacino alimentato dalla cascata. Non vi era via di scampo. Ushnotz dovette stare a guardare la sua gente che, trascinata in basso dalle macerie e dalle proprie armature, annegava o si dimenava inutilmente. Le pareti erano troppo ripide e non offrivano nessun appiglio agli artigli dei mezz'orchi. L'immortalità non serviva loro a nulla. Da dove spuntano questi Cavernicoli? si chiese, stupito e infuriato allo stesso tempo. Intorno al cratere resisteva un passaggio che raggiungeva al massimo quattro passi di larghezza, e Runshak era l'unico del suo esercito a trovarsi nelle vicinanze del portale. Nonostante le sue indubbie qualità di guerriero e l'influsso dell'Acqua Nera, il principe dubitava che potesse prendere il portale da solo o difenderlo fino a che gli altri non fossero giunti in suo aiuto. Sapevano che stavamo arrivando! Il sogno del suo nuovo regno di mezz'orchi rischiava di andare a monte prima ancora che vi avessero messo un piede dentro. Della prima colonna erano rimasti un centinaio di mezz'orchi, che guardavano verso di lui, indecisi; temevano altri crolli e non osavano muoversi. Gli squittii terrorizzati e striduli di quelli che stavano affogando riecheggiavano tra le pareti rocciose mescolandosi agli urli di giubilo e di trionfo dei nani che, a quel punto, erompendo a dozzine dal portale, cominciarono il loro contrattacco. Per i sopravvissuti quello fu troppo. Il fronte di nani all'assalto, pronti a tutto e armati fino ai denti, li portò allo sbando, facendoli volgere in fuga. Dimenticarono la loro invulnerabilità, fecero dietrofront e iniziarono a ridiscendere, cosa che li portò in mezzo ai mezz'orchi che stavano invece salendo. Si scatenò una terribile confusione, in cui si perdevano gli ordini dei capobanda. Ushnotz si riteneva furbo abbastanza da riconoscere quand'è meglio interrompere un combattimento per serrare i ranghi e riorganizzarsi. Stava proprio per aprire la bocca per ordinare la ritirata ai suoi guerrieri, quando accanto a lui comparve una snella figura, tanto rapida da sembrare spuntata dalla roccia. «Non vorrai certo scappare davanti a qualche Cavernicolo?» sentì dire dalla voce beffarda di un'alba, che nascondeva il volto dietro una maschera e un pezzo di seta nera. «Io ne conto a malapena duecento, e tu ne hai - ne
avevi - cinquemila, vero?» Il mezz'orco si girò verso di lei. «Che ci fanno gli albi qui?» ringhiò in tono di sfida. «Avete già perso lo Dsôn Balsur e vi state cercando una nuova casa?» Indicò il pendio sotto di loro. «Sparisci e cercati un buco in cui strisciare. I Monti Grigi appartengono ai mezz'orchi del Toboribor.» L'alba rise malignamente. «Al momento appartengono ai Cavernicoli. Ma ho con me qualcosa che ci aiuterà a sconfiggerli.» Trasse da dietro le spalle un'ascia imponente, sul cui taglio ardeva una fila di diamanti. Ushnotz fece un passo indietro ringhiando, inciampò e fu sul punto di rovinare a terra. «Vedo che la conosci», lo schernì Ondori. Distese il braccio, sollevando il più possibile l'ascia. «Cavernicoli, guardate che cos'hanno gli albi dello Dsôn Balsur!» gridò con voce ferma. Chi non la poteva sentire riconobbe comunque lo sfavillio di quell'arma unica. «E il nano che la brandiva è morto!» La risoluta sortita dei difensori si arrestò prima ancora che le file dei nani e quelle dei mezz'orchi si scontrassero. «Ora proseguirai l'attacco?» chiese Ondori a Ushnotz. «Hanno perso la loro sicurezza, e saranno avversari facili per i tuoi guerrieri. Sfrutta questa occasione!» Il principe esitò. «Un'altra trappola, e ci...» L'alba colpì così rapidamente che Ushnotz non ebbe neppure il tempo di sollevare la spada per difendersi. La Lama di Fuoco sibilò attraverso l'aria, il taglio attraversò il collo del mezz'orco mozzandogli di netto la testa. Mentre il cranio e l'elmo rotolavano sulla roccia e poi giù per il pendio, il torso stava ancora dritto sulle gambe, schizzando sangue, come se non volesse accettare la morte. Poi Ondori, con un calcio, lo mandò a seguire la testa perduta. La lama insanguinata puntò verso Runshak che, riavvicinatosi ai suoi, aveva seguito esterrefatto la morte del suo signore. «Tu! Tu sei il nuovo principe dell'orda», gli gridò l'alba. «Di' loro che devono attaccare, o ti mostrerò una nuova, dolorosissima maniera di morire.» Senza esitare, Runshak urlò i suoi ordini, e i mezz'orchi ripresero ad avanzare con cautela. Ondori avanzò fino alla prima linea dei nani, che indietreggiarono avendo occhi solo per la leggendaria ascia. Bisbigliavano tra loro, e sui volti barbuti e segnati era dipinto il terrore.
«Ho ucciso il vostro Tungdil Manodoro», disse l'alba, disgustata. «Nelle deserte foreste del Lesinteïl ho annientato lui e la sua scorta.» Con l'ascia indicò uno dei nani. «Morirete come lui e i suoi amici, e vi ucciderò con l'ascia che avete forgiato.» Quattro nani risoluti fecero per avvicinarsi a lei, ma non andarono molto lontano. Intorno a Ondori sibilarono diverse frecce, colpendo i nani, che finirono tra le braccia di chi stava alle loro spalle; aste nere spuntavano dai loro corpi morenti. Col loro tiro precisissimo, i compagni dell'alba la coprivano da distanza di sicurezza. Perché il terrore raggiungesse il culmine, Ondori levò l'arma e colpì il nano che aveva più vicino. La lama fece a pezzi lo scudo, sollevato in tutta fretta, e il braccio che lo reggeva. Il nano fissò il moncone, sbalordito; il trauma lo aveva reso incapace di agire. «La Lama di Fuoco taglia la carne dei Cavernicoli in modo eccellente», rise l'alba con cattiveria. «Un vero capolavoro!» Fece sibilare di nuovo l'arma, e in pochi istanti cinque nani giacevano sulla pietra. Runshak grugnì un altro ordine. I mezz'orchi si misero al trotto, sollevarono le armi e si rigettarono nella battaglia con rinnovato coraggio. Ondori si scansò, mettendosi ai margini del percorso per lasciarli passare. Non aveva le minima intenzione di stare tra i mezz'orchi e le lame dei nani. Aveva compiuto il suo dovere: il suo popolo aveva messo un piede nei Monti Grigi. Seguiva con grande soddisfazione l'avverarsi di quanto gli Eterni avevano predetto. I difensori, che erano sembrati sicuri di vincere mentre ancora correvano incontro a nemici tanto superiori in numero, perdettero terreno. L'annuncio della morte del loro eroe, Tungdil Manodoro, li colpiva molto più duramente delle perdite che stavano subendo. Svanita la volontà e la fiducia nella vittoria, non avrebbero mai resistito alla superiorità numerica dei mezz'orchi. Un numero sempre maggiore di bestie saliva sul pianoro e sospingeva i nani verso il portale; vedendo i nemici tentennare, tornava loro il coraggio, e non era più possibile contenerli. L'alba ritornò sulla rupe in cui erano posizionati i suoi compagni, che spedivano le loro frecce tra le file dei nani con precisione mortale. Non di rado riuscivano a ferirne due con una sola freccia, o addirittura a ucciderli. I nani venivano respinti sempre più indietro. Presto formarono un semicerchio a dieci passi dal portale, in modo da proteggerlo. Altri nani uscivano armati di balestre per rispondere ai colpi.
Ondori vide che gli addetti si preparavano a chiudere il portale che conduceva all'interno dei Monti Grigi. «Vedete quelle talpe puzzolenti vicino al portale?» fece notare ai tiratori. «Infilate loro qualcosa tra le costole, non voglio che si seppelliscano dentro.» Gli albi orientarono gli archi, tesero le corde e tirarono sopra le teste dei combattenti. Le frecce penetrarono nei loro bersagli, ferendo i nani a morte. «L'ingresso è ancora aperto. Di' ai tuoi che si devono sbrigare», gridò Ondori a Runshak. Sapeva che non sarebbero mai riusciti ad aprire i battenti, perché mancavano loro i materiali necessari per costruire una pesante macchina d'assedio. Per prendere il regno dei nani dovevano raggiungerne l'interno. Qualcosa la sorprendeva. Non le era sfuggito che, contrariamente al loro uso, i nani non si accontentavano di frantumare gambe e ginocchia dei nemici, in modo da renderli un ostacolo per le bestie successive. Ai mezz'orchi che li incalzavano tagliavano invece la testa. Notò sbalordita che le bestie che non erano state decapitate si rialzavano e continuavano a combattere. Come può succedere una cosa del genere? Che cosa rende immortali i Cervelletti? Guardò il cadavere di Ushnotz. La Terra Estinta sta tornando? Risuonò un altro corno. Una piccola schiera di nani comparve all'improvviso nello stretto passaggio vicino alla cascata, e Ondori riconobbe all'istante quello che li guidava. Un altro miracolo? È scomparso in acqua davanti ai miei occhi! «Eccomi qua, alba. Rivoglio ciò che mi appartiene», gridò il nano sopra il fragore della battaglia. «Ti farò pagare la morte dei miei amici, fosse l'ultima cosa che faccio.» I nani sentirono e videro Tungdil. Nuove forze percorsero le loro braccia e tornarono in loro la fiducia e la decisione, mentre i mezz'orchi cercavano sempre più accanitamente di creare una breccia nelle file nemiche. «L'ultima cosa che farai sarà morire per mano mia!» replicò lei piena di collera. «E per di più con l'arma che un tempo ti apparteneva.» Fece cenno alla sua scorta di coprirla, poi saltò dalla rupe ai cumuli di corpi di mezz'orchi, e avanzò verso Tungdil. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, primavera
Narmora cadde sulle ginocchia. La sua mano destra penetrò nel terreno umido e molle e si serrò con forza. «Ti hanno portato via da me prima che nascessi», sussurrò con gli occhi chiusi. Sotto le palpebre filtravano lacrime. «Cominciaste in due, ne è rimasta solo una. Saprà di te e onorerà per sempre la tua memoria.» Si terse il volto, aprì gli occhi e posò la pesante pietra sulla piccola tomba che aveva scavato con le sue mani. Un po' distante da Porista, in una foresta, adagiò suo figlio nella terra e lo raccomandò a Samusin. Un ciclo solare più tardi sarebbe tornata, avrebbe dissepolto le ossa e avrebbe bruciato ciò che rimaneva di lui, per poi disperderne le ceneri al vento. Avrebbe seguito il rituale che aveva imparato da sua madre. Compì il suo dovere in completa solitudine, non voleva nessuno intorno a sé. Furgas, l'unico che avrebbe potuto consolare il suo dolore, giaceva ancora malato, lottando con la morte. Il suo sarà un risveglio orribile. La prima cosa che saprà è che suo figlio è morto. Narmora dispose una seconda lastra di pietra sulla prima, affinché nessuna bestia violasse il cadavere. Era così piccolo, ma già un bambinetto, con mani, piedi e un volto grazioso. Il destino aveva deciso che non sarebbe mai cresciuto. Quando iniziò a tramontare e gli alberi presero a gettare lunghe ombre sul suolo della foresta, la mezz'alba terminò il rito. Lentamente, s'incamminò alla volta di Porista. Non notò neppure le gru e gli edifici, a lei tanto familiari, che annunciavano la rinascita della città. Non degnò di uno sguardo neppure l'onnipresente palazzo della maga o le sue numerose torri. Superò assente la porta della città e camminò lungo le strade, in cui la gente si dedicava ai propri affari. Non vide che i banchi del mercato erano stati smontati, e che i commercianti raccoglievano le merci e contavano il denaro; alcuni tornavano a casa, altri andavano nelle taverne, che effondevano odore di cibo; altri ancora si raccoglievano nelle piazze, per incontrarsi e parlare degli ultimi avvenimenti. Qualcosa la riscosse dal suo intontimento. Passando, sentì che si parlava con grande sollievo della morte degli apprendisti di Nôd'onn, dell'eroico operato di Rodario e dei progressi nella ricostruzione delle fortificazioni. La mezz'alba fremette. C'è solo una cosa di cui nessuno sa nulla: la morte di mio figlio. Usando un incantesimo, la maga si era salvata dalle tonnellate di conci di marmo che le erano quasi crollati addosso; l'unica conseguenza, per lei,
era stata una caviglia storta. Il prezzo pagato da Narmora per l'errore commesso nel suo apprendistato di maga era molto più alto e tragico. Si avvicinò alla porta del palazzo, davanti alla quale, con suo stupore, l'attendeva Rodario. Senza dire una parola, l'uomo la strinse tra le braccia, e lei sentì di nuovo le lacrime sgorgarle dagli occhi. L'attore sciolse l'abbraccio. «L'ho appreso da Andôkai», mormorò afflitto, evitando di guardare il ventre della donna, che era tornato snello come prima. «Non devi dire niente», replicò Narmora impedendogli di continuare. «La magia mi ha lasciato almeno una figlia, anche se è una ben piccola consolazione. Non conoscerà mai suo fratello gemello, ma saprà di lui.» Cercò lo sguardo di Rodario e notò che sul suo volto era comparsa la tipica espressione che gli sortiva sempre quando doveva confessare qualcosa di spiacevole. «Cerchi un nascondiglio?» provò a indovinare sorridendo debolmente. «Dopo il tuo atto eroico ti sei riposato sul seno di una ragazza, e adesso il padre ti sta cercando?» L'uomo si guardò intorno con diffidenza. «Vieni, parleremo da un'altra parte.» La condusse per i vicoli di Porista. Mentre camminavano, le raccontò com'erano andate veramente le cose quando aveva incontrato i rapinatori e gli apprendisti di Nôd'onn, e non la variante edulcorata che circolava tra i cittadini. «Non so come dirtelo... È anche possibile che mi abbiano mentito, anche se in punto di morte è difficile mentire, credo», disse, cercando le parole per preparare la mezz'alba. Temeva quanto sarebbe rimasta sconvolta dalla scoperta. «Ordunque...» Narmora lo guardava stizzita. «Niente teatro», ordinò. «Che cosa ti hanno detto? Ci sono altri di quei bastardi?» «È proprio questo il punto...» tentennò lui. «Nufa mi ha detto che loro non hanno nulla a che fare con tutto ciò, ma che hanno visto qualcuno organizzare segretamente l'aggressione per scaricare la colpa su di loro.» La mezz'alba lo afferrò per le spalle. «Rodario, non m'importa se sei l'Incredibile, quindi vedi di parlare chiaro», lo ammonì, minacciosa. L'attore tirò un profondo respiro e si fece forza. «Va bene. Nufa ha detto di aver visto Andôkai...» Il suo volto, prima grave, divenne improvvisamente amichevole, e venne rischiarato da un sorriso accattivante. «Andôkai!» ripeté più forte, sollevando una mano per salutare. «La venerabile
maga pattuglia di persona le strade per mantenere l'ordine!» Fece una risata falsa, cosa che però solo Narmora notò. «Che bello. C'è anche il piccolo Djerun con voi?» Si guardò in fretta alle spalle. La maga si accostò ai due. «Ero preoccupata per te, Narmora.» Nulla sul suo volto spigoloso tradiva quel sentimento. «Sei stata via a lungo, più a lungo di quanto avessimo stabilito. Tua figlia strilla senza sosta. Vuole te, e io non sono certo la persona giusta, se si tratta di fare da balia.» «Arrivo.» Narmora guardò Rodario, in attesa. «Allora? Che cosa mi volevi dire?» «Che... che tutti i giovani ammiratori di Nôd'onn sono morti», riferì l'attore con voce un po' strozzata, mentre gli azzurri occhi indagatori della maga si posavano su di lui. «Non ho scoperto nient'altro. Puoi occuparti di tua figlia.» Girò sui tacchi e s'incamminò lungo il vicolo. «Ho bisogno di dormire, domani sarà una lunga rotazione», disse per accomiatarsi, sbadigliando in maniera eccessiva. «Ho troppe cose da fare. Che gli dei vi accompagnino!» Svoltò subito, scomparendo alla loro vista. Narmora scosse la testa. «Proprio non lo capisco...» Andôkai alzò le spalle. «Dobbiamo partire domani, apprendista. Andremo a ovest, per cercare informazioni negli archivi della regina Wey. Potrai portare tua figlia con te, ho trovato una balia esperta che potrà occuparsi di lei mentre ti addestro alla magia.» Camminavano l'una accanto all'altra. «Non hai cambiato idea, vero? Pensa a Furgas.» «Odio la magia», dichiarò Narmora senza giri di parole. «Mi costringe a occuparmi di lei, e si è presa mio figlio. Ma non posso fare altrimenti, se voglio salvare l'uomo che amo.» Guardò Andôkai. «Voi mi costringete», affermò. «Anche se per motivi rispettabili. Non può venirne nulla di buono.» Abbassò la voce. «E già non ne è venuto nulla di buono.» «Ti spronerà a imparare le formule», replicò Andôkai senza compassione. «Forse non ti è di nessuna consolazione, ma nel corso dei miei studi anch'io ho subito perdite che mi hanno colpito come sei stata colpita tu adesso.» Il volto duro della donna mostrò un qualche turbamento. «Sembra che padroneggiare la magia abbia un prezzo.» Avevano raggiunto la porta del palazzo. «Allora non la si dovrebbe più praticare.» Narmora pronunciò le formule, e i battenti si aprirono. La maga e l'apprendista camminarono per il palazzo, in silenzio, fino a raggiungere l'alloggio in cui la figlia di Narmora era stata sistemata. La mezz'alba entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé, senza invitare la
maga a entrare. Il rumore della porta aveva svegliato qualcuno. Le grida acute sembravano tremende. In un attimo, Narmora fu accanto alla culla, prese la minuscola bambina, se la posò su una spalla e per calmarla l'accarezzò sulla testolina, che al tatto pareva fragile come un guscio d'uovo. Dopo un po' gli strilli andarono scemando. Era rimasta molto sorpresa quando, dopo il maschio già morto, le contrazioni avevano fatto uscire dal suo corpo una bimba viva; non credeva di aspettare una coppia di gemelli. Samusin era il dio della compensazione. Le aveva preso un figlio e gliene aveva lasciato un altro. Che cosa vuoi per concedermi che Furgas non muoia? A tentoni, la minuscola bimba cercò il seno della mamma. «Hai fame, piccolina?» chiese Narmora al fagotto piagnucolante. Aprì la porta e bussò a quella successiva. La figura di una giovane donna dall'aria addormentata comparve sulla soglia. Narmora indicò la figlia. «Ha bisogno di latte.» «Subito», mormorò l'altra. Prese la bimba in braccio con cautela e la portò al seno; subito la creatura cominciò a poppare. La balia la portava per la stanza cantando piano. Quello spettacolo fece male a Narmora. Dal momento che lei non aveva latte, quella era l'unica soluzione per garantire la sopravvivenza della bimba. A Porista vi era abbondanza di giovani donne che per qualche moneta venivano a palazzo a fare da nutrice. Non appena terminato l'allattamento, Narmora prese subito in braccio la figlia e tornò nella stanza della bimba. La cullò finché non si fu addormentata. Poi l'avvolse in calde coperte, le baciò il nasino e le accarezzò la testa coperta di peluria. «Sogni d'oro, piccola mia. Torno presto», sussurrò, poi lasciò silenziosamente la stanza per andare dal suo amato Furgas. Per un'ora sedette accanto al suo letto, stringendogli la mano fredda e sudata, poi uscì di soppiatto dal palazzo per cercare Rodario. Era palese che l'attore sapeva qualcos'altro. E che la maga c'entrava qualcosa. Terra Nascosta, Monti Grigi, davanti al regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera
Tungdil vide l'alba mascherata saltare dalla rupe e scomparire nel groviglio di corpi, lance e spade. Sembrò fondersi nella massa, e sarebbe potuta comparire accanto a lui o addirittura alle sue spalle. Era come stare in un prato d'erba ondeggiante dietro la cui protezione strisciasse una fiera. Eppure, per quanto sembrasse assurdo, il nano provava un sollievo infinito. La Lama di Fuoco non è in fondo al laghetto. L'alba mi porterà l'ascia e morirà. Grazie, Vraccas! Il Rabbioso batteva le teste delle asce l'una contro l'altra, la voglia di combattere gli pompava calda nelle vene. «Guardate, che magnifici esemplari! Finalmente le mie asce potranno immergersi di nuovo nel loro verde sangue di porco.» Guardò Tungdil. «Si comincia?» L'altro osservò l'infuriare della battaglia. La superiorità dei mezz'orchi, che per fortuna non avevano idea di quanto pochi fossero i nani che si opponevano loro, era evidente. L'unica salvezza era chiudere la porta. Se il piano di Glaïmbar prevedeva di mantenere la porta aperta, il re ha dimostrato poco buon senso. Si rallegrò un po' per avere scoperto un errore da parte del suo rivale. «Dobbiamo raggiungere la porta in fretta», disse al Rabbioso e alla delegazione di Liberi. «Le bestie sanno di non poterla sfondare. Dobbiamo chiuderla.» Estrasse l'ascia e corse incontro ai mezz'orchi che li stavano per assaltare. Boïndil era deluso. «Non li massacriamo tutti?» si lamentò. Superò Tungdil per raggiungere prima di lui i nemici. Le grida e i grugniti non lo turbavano, anzi non facevano altro che soffiare sulla sua già calda fucina vitale. «I primi dieci sono miei!» annunciò, come di consueto, e l'istante successivo piombò sul primo avversario. L'ascia destra entrò nella coscia del mezz'orco, la sinistra puntò verso la parte alta del corpo, che si stava abbassando, e lo prese in pieno volto. Il ferro dell'elmo non riuscì a frenare il colpo, un getto verde schizzò dalla visiera. Il mostro crollò a terra senza un gemito, e subito dopo la testa gli rotolava lontana dal corpo. «Oink, oink!» gridò Boïndil, prima di gettarsi sull'avversario successivo, a tracciare un sentiero nell'ammasso di creature furiose cosicché Tungdil, Myr e gli altri potessero seguirlo. Grazie al guerriero inarrestabile avanzarono spediti, mentre le asce mordevano tutt'intorno e uccidevano un mezz'orco dopo l'altro, anche se non era più facile come in passato. Decapitare un mezz'orco infuriato non era affatto semplice, e ancora di meno quando incalzavano da tutti i lati un singolo nano. Alla fine i nani presero a lavorare in coppie: uno costringeva
l'avversario sulle ginocchia, l'altro gli tagliava la testa. La porta in cui li attendeva la salvezza si avvicinava. I nani che la stavano difendendo pensarono di aiutare Tungdil e tentarono una sortita, in modo da incontrarsi a metà strada. «No, tornate indietro!» gridò Tungdil, poiché vedeva che gli albi stavano puntando i loro archi lunghi. «Copritevi a vicenda con gli scudi, altrimenti...» Le aste nere sibilarono, e le punte trovarono le più piccole fessure delle armature e tra gli scudi. Cinque nani caddero a terra e scomparvero immediatamente sotto i pesanti stivali degli sbraitanti mezz'orchi, che presero subito ad avanzare, infilandosi tra i nani come un'ascia vivente. Il fallimento della sortita mise in grosse difficoltà la schiera di nani che presidiava la porta, mentre il secondo gruppo difendeva faticosamente la propria pelle e rischiava di essere travolto dalla massa dei nemici. I dardi di balestra non impedivano ai mezz'orchi di continuare a spingersi in avanti. I dardi non tagliavano le teste. «Avremmo dovuto portare con noi dei guerrieri, non degli artigiani», brontolò il Rabbioso aumentando la foga del suo attacco per raggiungerli. Sembrava che lo avessero immerso da testa a piedi in una tinta verde scuro, il che induceva i mostri a non avvicinarglisi troppo. «O degli artigiani che sappiano combattere.» Due colpi, e morì il mezz'orco che stava arretrando, spaventato, di fronte a lui. Tungdil calcolò approssimativamente il numero dei nani che si trovavano davanti e intorno all'ingresso. Ai piedi dei Monti Grigi si trovavano quasi tutti i nani del rinato regno, opponendosi ai nemici che, però, continuavano ad avanzare incessantemente e si trovavano ormai già nelle vicinanze del portale. Tra i difensori riconobbe anche Glaïmbar e Balyndis, che combattevano fianco a fianco. Indicò i resti del gruppo che era sopravvissuto al fallimentare tentativo di sortita. «Boïndil, verso di loro!» ordinò. «Insieme riusciremo almeno a raggiungere la porta.» Con la coda dell'occhio notò che Myr e i Liberi si battevano assai bene contro i mezz'orchi. L'esile nana si difendeva con rabbia e determinazione. Il gruppo di Tungdil e l'unità di difensori rimasta tagliata fuori dal gruppo principale si unirono e serrarono le file, cosa che però non migliorò a lungo la loro situazione. Spinte dai tonanti ordini di Runshak, le bestie avanzavano con ferocia. La paura delle frecce degli albi faceva sì che le loro ondate d'attacco non
s'infiacchissero; benché non potessero ucciderle, facevano comunque molto male. Sembrava proprio che nulla avrebbe più potuto fermarle. La prima linea si trovava ormai vicinissima all'ingresso delle caverne; i difensori opponevano una resistenza accanita senza riuscire ad alleggerire la pressione degli aggressori. Alcuni agili bogglin, ai margini del combattimento, cercarono di filtrare alle spalle dei nani, per attaccarli da dietro e impegnarli su due fronti. Tungdil guardò il comandante dell'esercito. «Uccidiamolo, li disorienterà», disse. Aveva deciso di cambiare piano. Il Rabbioso ormai non si poteva più tenere a freno, aveva gli occhi spalancati e febbricitanti. La maledizione lo teneva avvinto e ne guidava le braccia, che, pressoché instancabili, volteggiavano come le pale di un mulino a vento. Solo dopo che Tungdil glielo ebbe gridato quattro volte, il guerriero capì che cosa dovesse fare. Runshak comprese il pericolo in cui si trovava, e che si avvicinava col gruppo di nani. Si girò per attirare su di loro l'attenzione degli arcieri albi, ma il suo ghigno pieno di aspettative si trasformò in una smorfia di terrore. Tungdil notò il volto verdastro ingrigire e seguì lo sguardo del mezz'orco. Dietro la rupe su cui erano posizionati gli arcieri si erse un'enorme figura. In una mano brandiva una spada, nell'altra un'ascia. I mezz'orchi nelle sue immediate vicinanze presero a squittire e a correre via, e si dispersero cercando di allontanarsi da quel nemico spuntato all'improvviso. Dietro la maschera demoniaca dell'imponente elmo risplendeva una luce violetta, con tanta forza che, perfino da quella distanza, il bagliore fece male agli occhi di Tungdil. Il basso e minaccioso brontolio, che tutti sentivano e che pareva far vibrare perfino la roccia, fece rizzare i capelli sulla nuca del nano. Gli albi erano stati messi in guardia dallo strano comportamento dei mezz'orchi, ma troppo tardi. Le armi di Djerun imperversarono tra loro, le lame della spada e dell'ascia si facevano strada attraverso qualunque ostacolo, tagliavano le corde degli archi e trapassavano armature, pelle, carne e ossa. Dopo pochi colpi, lasciarono dietro di sé nient'altro che resti mutilati e sanguinolenti. Soltanto uno era riuscito a portarsi fuori dell'area di minaccia di Djerun, ma questi non intendeva lasciarlo scappare; saltò dalla rupe, sfruttò lo slancio per un nuovo salto e volò fino ad atterrare proprio in mezzo alle spalle dell'albo in fuga, che finì a terra gridando. Il colosso non si prese
neanche la briga di usare le armi. Sferrò un potente calcio col suo grosso stivale e la testa dell'albo si schiacciò sotto la suola, come un frutto troppo maturo. Sul campo di battaglia scese un silenzio carico di tensione. Nani e mezz'orchi avevano seguito avvinti lo sterminio degli albi. Questo è il momento giusto! Tungdil distolse la sua attenzione da Djerun, sollevò l'ascia e la scagliò con tutte le forze verso il capo delle bestie. Runshak percepì il basso fischio che gli si avvicinava e si voltò in tempo per prendersi la lama tra mascella e mandibola, anziché sulla nuca. L'arma trapassò il bersaglio, e il mezz'orco cadde a terra morto. «Per Vraccas e per la Terra Nascosta!» esultò Tungdil nel silenzio. All'istante, tutti i nani gli risposero: «Noi siamo i figli del Fabbro! Tagliamogli quelle teste schifose!» Nulla avrebbe più potuto trattenere le bestie. Mezz'orchi e bogglin avevano perso in rapida successione i loro alleati non richiesti e il loro capo, e senza di loro non sapevano più che cosa fare. Dimenticarono che in loro scorreva l'Acqua Nera e che l'obiettivo del loro attacco era così vicino, e girarono i tacchi tra i grugniti. Nella loro sventatezza, alcuni caddero nel bacino colmo d'acqua in cui erano sprofondati i loro compagni, altri scesero di corsa sul ripido pendio e rotolarono come proiettili viventi tra le file di quelli che non erano ancora saliti. Il Rabbioso raggiunse Tungdil. «Non vuoi proprio impararlo, eh, Sapientone? Non devi lanciarla!» Gli mise in mano una delle sue asce. «Te lo dissi già al nostro primo incontro: non si lancia la propria arma se non se ne ha un'altra.» Sorrise, ammiccando. «Comunque è stato un gran bel tiro.» Lanciando il suo famoso «grido del porco morente», si mise all'inseguimento dei mezz'orchi, abbattendoli l'uno dietro l'altro. Dal lato opposto dell'altopiano, per lo stupore di tutti, spuntò un altro esercito di nani, che si gettò subito nel combattimento per insaccare le bestie. Tungdil riconobbe tra loro alcuni appariscenti guerrieri dai capelli e dalla pelle bianchi. «I Liberi sono arrivati!» gridò sollevato, dal momento che intravedeva ancora il pericolo che le sorti della battaglia potessero cambiare, qualora i mezz'orchi si fossero ricordati della loro schiacciante superiorità numerica. Questo è il momento decisivo, pensò prima di voltarsi verso sinistra, in direzione del punto in cui prima aveva visto Glaïmbar e Balyndis.
Il re e la sua futura sposa difendevano l'ingresso contro gli ultimi coraggiosi mezz'orchi, i quali, più furiosi che impauriti, volevano uccidere il maggior numero di nani possibile prima di morire a loro volta sotto i colpi di mazze e asce. Dal momento che la stragrande maggioranza dei nani si stava preoccupando di annientare l'esercito principale, nessuno notava le gravi difficoltà in cui si trovava il pugno di guerrieri che combatteva intorno a Glaïmbar. Tungdil rimase fermo a guardare. I suoi pensieri viaggiavano, mentre osservava il suo odiato rivale difendersi dai colpi che lo incalzavano sempre di più. Al momento ci stava riuscendo. Al momento. È meglio che ti dedichi alla battaglia principale, Tungdil, gli disse il suo piccolo demone interiore. Non stare a guardare quale sarà il suo destino. Se cadrà, volerà circonfuso di gloria nella Fucina Eterna, e tu potrai invecchiare accanto a Balyndis. Facendo un balzo all'indietro, l'eletto re dei Quinti andò a sbattere contro la parete di roccia alle sue spalle, e quell'istante di distrazione ebbe gravi conseguenze: la spada di un mezz'orco lo colpì all'avambraccio sinistro. Non preoccuparti per lui, proseguì la voce in un sussurro. Se è veramente un grande guerriero, lo deve dimostrare. Va' ad aiutare il Rabbioso invece di sprecare tempo a salvarlo. Tungdil era a un passo dal seguire quei suggerimenti, quando il suo sguardo cadde su Balyndis. Era troppo lontana dal re per intervenire, e i suoi occhi marroni gli si rivolsero imploranti. «Maledizione», imprecò Tungdil a bassa voce, stringendo con più forza il manico dell'ascia. «Se quella lama lo avesse colpito al cuore, e non al braccio...» Si accinse controvoglia ad aiutare Glaïmbar, quando gli si offrì un'eccellente scusa. Aveva completamente dimenticato l'alba mascherata, finché non lo attaccò di sorpresa a un fianco. In un istante si trovò a fissare il filo della Lama di Fuoco che puntava proprio in direzione della sua testa. VIII Terra Nascosta, regno di Gauragar, Giogonero, 6234° ciclo solare, tarda primavera Gandogar sapeva che il suo elmo ornato di diamanti scintillava alla luce
del sole, attirando anche l'attenzione di una sentinella orba. Ma non gli importava: voleva essere notato. Aveva già visto duecentonovantanove cicli del sole, eppure era la prima volta che si trovava al cospetto dei Terzi. L'imperatore si tolse una ciocca di capelli da davanti gli occhi e osservò la luce e l'ombra duellare sugli scuri pendii di Giogonero. Mentre nei profondi solchi e nelle fosse regnava la più nera oscurità, la roccia delle ripide pareti che si ergeva verso l'alto risplendeva al sole. Per il nano, il pianoro intorno al quale così tanti uomini, elfi e nani avevano perso la vita era permeato da un inspiegabile terrore. Forse dipende da tutte quelle morti, pensò Gandogar, facendo trottare il suo pony. La polvere del deserto del Sangreïn aderiva a cavallo e cavaliere; si era infilata attraverso la cotta dell'armatura e il farsetto di cuoio, sfregando nei punti più scomodi. Ma erano strapazzi che non si potevano evitare. Il Gauragar meridionale li accoglieva, meno caldo e ancor meno amichevole. L'imperatore e i cinque nani in alta armatura che lo stavano accompagnando cavalcavano dritti verso il monte su cui sventolavano gli stendardi dei Terzi. Gli zoccoli dei piccoli cavalli avanzavano facendo scricchiolare le ossa dei mostri cui non era stata concessa nessuna esequie. I resti dei cadaveri che non erano stati bruciati nei grandi roghi erano serviti da pasto per gli animali selvatici. Ne rimanevano le ossa, che prima o poi sarebbero state consumate dal sole, dalla pioggia e dalla neve. Fino a quel momento, avrebbero circondato il monte: un monumento orribile, un monito al viaggiatore che avesse indugiato troppo a lungo in quella regione. «Che strana sensazione. È un luogo di morte, ma allo stesso tempo è il luogo del glorioso trionfo dei tre popoli della Terra Nascosta», commentò Balendilín Solbraccio, meditabondo. In qualità di re dei Secondi, cavalcava accanto all'imperatore. Aveva offerto a Gandogar la sua compagnia e il suo consiglio, che erano stati accettati entrambi volentieri. «Non è grandioso? Abbiamo rimesso al loro posto le schiere delle bestie. Noi nani ci siamo fatti avanti e abbiamo spronato gli altri popoli.» «Sì. Dovrebbe essere sempre così», si augurò Gandogar. «Spero proprio che tenga questa unione giurata solo da poco, e che non venga distrutta dagli intrighi dei Terzi.» Balendilín sospirò, mentre i suoi occhi puntavano verso gli stendardi sventolanti. «Posso immaginare che la montagna si sarà stupita nel vedere rientrare i suoi vecchi padroni.» «I messi di re Bruron mi hanno assicurato che non poteva fare diversa-
mente», disse Gandogar. «È stato costretto dai lasciti dei suoi predecessori.» «Mi sembri troppo indulgente», replicò Balendilín, scontento. «Che cosa ci avrebbe rimesso il re se avesse negato quel diritto ai discendenti di Lorimbur? Non è loro debitore e non necessita dei loro servizi, al pari del principe Mallen. Se ancora ce l'avessi, scommetterei il mio braccio destro che l'hanno pagato perché lasciasse loro Giogonero.» Gandogar condusse il suo pony intorno al cranio di un orco, che sbarrava loro la strada; nel teschio erano ancora infilate frecce e punte di lance spezzate. Alcuni uccelli si erano posati sulla parte più alta e scrutavano lo sterco dei cavalli. «Probabilmente vinceresti la scommessa», stimò l'imperatore dei nani. «A maggior ragione ritengo importante che c'incontriamo col loro re in modo da raggiungere un chiarimento. Più in fretta terminiamo questa faida in modo più o meno ragionevole, più in fretta la pace regnerà sulla Terra Nascosta.» Guardò il re dei Secondi. «Non è tuo compito consigliarmi un comportamento avveduto? Sembra piuttosto che tu voglia assassinare Lorimbas Cuordacciaio.» «Parlando francamente, l'ho preso davvero in considerazione, ma mi sono subito visto cuocere nella Fucina Eterna per questi miei pensieri, e ho pregato finché non ero sicuro di avere espiato la mia colpa», confessò Balendilín sorridendo. «No, non lo voglio assassinare», proseguì più seriamente. «Non sono un Terzo. Solo, mi fa rabbia che coi suoi intrighi e le sue macchinazioni Lorimbas metta in pericolo l'unità che abbiamo giurato sul campo di Giogonero. Ma dimmi: che cosa possiamo fare contro di lui, a parte ucciderlo? Tu sai che non serve a niente ignorarlo o evitarlo.» «Proprio per questo siamo qui, anche se tu sei di un altro avviso», ribatté Gandogar. «Sono sicuro di poter concludere qualcosa con Lorimbas Cuordacciaio.» Fece un cenno verso un punto ai piedi della montagna, in cui tra i numerosi ceppi era divenuta visibile una porta. Un tempo vi si alzavano abeti di cinquanta passi o più, ma erano caduti sotto le asce dei mezz'orchi e di altre bestie, che li avevano usati per costruire torri d'assedio e rampe. Poi erano serviti ai vincitori come legna da ardere per i più grandi roghi che la Terra Nascosta avesse mai visto. Gandogar rivolse al suo consigliere uno sguardo tranquillizzante. «Non sono qui per stringere un'alleanza con lui. Voglio solo che finiscano le ostilità e che ci sia un minimo di rispetto reciproco.» Balendilín fece schioccare la lingua, rinunciando a esprimere di nuovo le
sue riserve. «Che Vraccas ci assista, e all'occorrenza ficchi in testa ai Terzi un po' di buon senso.» Si fermarono davanti all'ingresso di Giogonero, alla cui ombra erano stati disposti venti nani a fare da sentinelle. Erano armati di picche lunghe e acuminate, che puntarono verso i cavalieri. «Fermi!» ordinò un grosso guerriero dal volto tatuato, che teneva la mano destra sul manico di un mazzafrusto. «Sono Romo Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, nipote di re Lorimbas Cuordacciaio. Tu sei Gandogar?» chiese rivolto all'imperatore, senza mostrare il minimo rispetto verso la dignità del suo interlocutore. Balendilín lesse le rune nere tatuate sul volto di quel Terzo. Denunciavano odio verso le altre stirpi, promettevano loro morte e dannazione eterna e preannunciavano al nemico nessuna pietà e crudeltà indicibili. Insieme con gli altri segni, puramente ornamentali, andavano a formare un quadro che incuteva timore e che era ulteriormente rafforzato dall'espressione ostile degli occhi scuri di Romo. Il re dei Secondi non dubitò neppure per un istante di trovarsi di fronte a un fanatico assassino di nani. «Io sono Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento, della stirpe del Quarto, Goïmdil», dichiarò l'imperatore facendo un cenno d'assenso. «Portaci da tuo...» Romo tirò su col naso e sputò un grumo di catarro. «Smonta e seguimi. I tuoi amici ti aspetteranno qui.» Balendilín non si fece intimidire dalla spacconeria del Terzo. «Noi lo accompagneremo. Non lo lasceremo certo entrare da solo, dove sarà circondato da altri della tua risma.» Romo fece spallucce, ostentando indifferenza. La pesante armatura tintinnò. «Allora tornatevene a casa.» Con la mano sinistra indicò Gandogar. «Solo lui, o non ci sarà nessun colloquio. Queste sono le mie istruzioni.» Fece un sorriso cattivo. «Forse l'imperatore ha paura di affrontare mio zio? Hai la sua parola che uscirai dalla fortezza illeso come vi sei entrato. Su, dimostra che non sei proprio debole quanto penso.» Gandogar scivolò giù dalla sella senza prestare attenzione allo sguardo di ammonimento del suo consigliere. «Se serve allo scopo, lo farò», replicò raggiungendo impavido la fila di picche, che per farlo passare si diradò un po' per poi riformare subito dopo una selva di ferro. «Oh, una scintilla di coraggio in una fucina fredda.» Romo fece strada, dritto nell'immenso corpo del pianoro. «Vedo che sei un Quarto», disse mentre camminava. «La tua statura ti tradisce. Chi intaglia gemme non
diventa mai molto forte.» «Non ce n'è bisogno, se si ha una forte intelligenza», ribatté Gandogar in tono amichevole. «La tua forza fisica può anche essere superiore alla mia, ma non ti sarà di nessun aiuto, se sono io il più intelligente dei due.» «Sicuramente sono stati in molti a pensare una cosa del genere, prima di venire colpiti dalla clava di un orco demente», rise il Terzo svoltando in un passaggio laterale. Benché lui e la sua stirpe non dimorassero da molto a Giogonero, Romo ostentava dimestichezza, e non esitava mai quando raggiungevano una biforcazione o un vano da cui si dipartivano più scale. «Allora non sono stati abbastanza intelligenti», replicò l'imperatore, tenace. Dal momento che la sua guida camminava davanti a lui, il nano fece cadere per caso lo sguardo sulla guaina splendidamente lavorata di un pugnale che penzolava sulla schiena dell'altro, attaccato al cinturone. Non gli era nuovo; lo aveva visto al fianco di un nano che era partito per lo Dsôn Balsur per combattere contro gli albi. Chiese a Romo da dove venisse, perché non credeva in una casualità. Era difficile pensare che un fabbro avesse realizzato due volte un pezzo cosi prezioso. «Non so come si chiamasse. Ha incrociato la mia strada a Richemark», fu l'asciutta risposta. «Lui e i tre che lo scortavano. Al vincitore spettano le spoglie del vinto, non è vero?» Gli occhi scuri si posarono, provocatori, sul volto di Gandogar. «Se vuoi averle tu, devi battermi.» L'imperatore strinse i pugni e si costrinse a rimanere calmo, cosa che gli riuscì difficile. Romo gli aveva incidentalmente confessato di avere ucciso diversi nani, come se chiacchierasse dello scavo di un tunnel o della forgia di un semplice attrezzo. «E ti batterei», mormorò, continuando poi a camminare in silenzio dietro il Terzo. «E come vorresti farlo? Mi uccideresti lanciandomi in fronte una pietra preziosa, intagliatore?» Romo rise. «O mi faresti scivolare su sferette d'oro? Tremo al pensiero di affrontarti in duello.» I dubbi, fino allora lievi, sul fatto di poter concludere qualcosa trattando coi discendenti di Lorimbur si fecero più forti. Ma l'imperatore voleva almeno poter dire di aver tentato, in modo da non avere in seguito nulla da rimproverarsi, o che gli altri potessero rimproverargli. Romo lo guidò nella grande aula in cui l'inverno precedente Nôd'onn era stato affrontato. Lorimbas Cuordacciaio stava controllando i lavori di riparazione delle
scale a chiocciola che portavano sui camminamenti sospesi. Dopo un po' si voltò verso i nuovi arrivati. «Il nuovo imperatore», salutò con sufficienza. «Che cosa vuoi?» Il nipote si fece da parte. Gandogar squadrò il sovrano, che portava i lunghi capelli neri, striati di grigio, raccolti in tre strette trecce. Non sapeva che i Terzi usassero tingere le proprie barbe di colori diversi, e non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Dal momento che Lorimbas non portava tatuaggi come il nipote e le guardie alla porta, suppose che quella caratteristica stesse a significare qualcosa di particolare. «Sono qui per offrirti una tregua. Almeno finché gli albi non saranno stati scacciati dalla Terra Nascosta», disse, sottoponendo così al re dei Terzi il motivo del suo viaggio nel sud del Gauragar. Lorimbas rise. «Non ci siamo ancora scontrati e già vorresti una tregua? Le stirpi dei nani si sono così rammollite da implorare pietà prima ancora che si sia combattuto?» «Non umiliarlo così, zio», s'intromise Romo. «In fin dei conti, è arrivato fin qui senza farsela sotto.» «Se si trattasse di un combattimento leale, saprei bene che cosa fare», disse Gandogar ignorando la provocazione, in modo da continuare la trattativa. «Ma tu aizzi gli uomini contro di noi. So bene quale proposta hai fatto al principe Mallen dell'Idoslân, e che un nano si è recato a Urgon e ha avuto udienza presso re Belletain. Dal momento che non era uno dei nostri, dev'essersi trattato di un tuo ambasciatore.» «Mallen è miope e stupido, e presto si pentirà di aver rifiutato il nostro aiuto», replicò il re dei Terzi con aria leggera. «Mio nipote gli ha offerto il nostro aiuto e lui ha scelto di stare dalla parte sbagliata. Quando le sue guarnigioni dovranno combattere senza i miei guerrieri, capirà qual è il prezzo della sua follia.» Sollevò la testa e guardò verso il soffitto dell'atrio. «È meraviglioso. Dopo tanti cicli, siamo tornati nella montagna in cui vivevano i nostri avi, prima che ne fossero scacciati. Da qui comincerà una nuova era per la Terra Nascosta.» Abbassò bruscamente lo sguardo e fissò Gandogar con ostilità. «Un'era senza le stirpi di Borengar, Giselbart, Goïmdil e Beroïn.» Si avvicinò a Gandogar fino a che le punte dei loro nasi quasi non si toccarono. «E tu, imperatore, non potrai fare nulla per impedirci di spazzarvi via dalle mappe. Non riuscirai a opporti a questa tempesta. Giungerà fino nelle vostre sale più nascoste e nei vostri corridoi più stretti, e vi trascinerà via.» Con la manopola corazzata, coperta di chiodi, Lorimbas si batté sul petto. «La stirpe di Lorimbur comanderà su tutti i regni dei nani e si occuperà della sicurezza dei popoli. I nomi delle vostre
stirpi verranno presto dimenticati.» Fece un passo indietro ed estrasse l'ascia. «Lo giuro su questa lama!» «Quindi non ci sarà nessun negoziato», disse Gandogar, e avrebbe ancora aggiunto qualcosa, ma Lorimbas lo precedette. «Negoziati? Io non ho mai detto che avrei negoziato.» Il re dei Terzi sollevò l'ascia. «Tu sei qui unicamente per sapere quale sarà il futuro dei tuoi nani. E non potrai fare nulla per impedirlo.» La pazienza ferrea di Gandogar, che fino a quel momento aveva trattenuto la sua rabbia e il suo sdegno, cedette, e l'imperatore sollevò a sua volta l'ascia. Le lame si sfiorarono con un debole tintinnio. «Vraccas è con noi, e non permetterà mai che i discendenti del nano blasfemo che ha tanto disprezzato il suo creatore abbiano la meglio sui discendenti dei nani che gli mostrano il dovuto timore e rispetto», gridò. Tutto il suo contegno era svanito a causa dei continui insulti e provocazioni. «Se è la lotta che volete, non esitate un istante di più!» «Fuori!» tuonò Lorimbas in risposta, abbassando la testa dell'ascia dell'imperatore. «Tu mi hai minacciato senza motivo nella mia stessa fortezza, Gandogar. Ti ucciderei lì dove sei, ma ti ho promesso che saresti uscito liberamente.» «Devo farlo io per te?» chiese Romo, dolce come il miele. Lorimbas fece un profondo respiro; anche la sua calma era scomparsa, e il desiderio d'impiantare l'ascia nell'elmo del suo nemico cresceva sempre di più. «Fuori!» ringhiò di nuovo. «Non parlerò più con nessun discendente di Borengar, Giselbart, Goïmdil e Beroïn. Non terrò nessun negoziato con nani che presto non saranno altro che una favola.» «Vieni, intagliatore. Ti porto fuori, così potrai di nuovo tagliare le tue pietruzze.» Romo posò la mano sulla spalla di Gandogar, spingendolo verso l'uscita, alla maniera di un oste che porta fuori un ubriacone molesto. L'imperatore scansò il braccio, irritato. «Adesso basta! Non provarti più a toccarmi, assassino di nani!» lo ammonì. Quando Romo sputò per terra e fece per toccarlo di nuovo, Gandogar ne afferrò il guanto, lo tenne ben stretto e col lato smussato dell'ascia gli colpì il braccio dal basso. Con uno scricchiolio, le ossa del braccio si ruppero. Romo fece una breve smorfia, col braccio illeso brandì il mazzafrusto e fece per colpire, ma un nano dal cranio rasato comparve all'improvviso davanti a lui e gli afferrò il braccio. Un breve e potente strattone, e la pesante arma cadde sul pavimento sferragliando. «Salfalur! Che fai?» chiese Romo, sorpreso.
«Silenzio! Dovrei romperti l'altro braccio davanti a tuo zio», l'apostrofò Salfalur. Gli diede uno spintone, facendolo indietreggiare, poi si rivolse a Gandogar. «Questa è la prima e l'ultima volta che salvo la vita a un nano che non appartiene alla mia stirpe. L'ho fatto per impedire a Romo d'infrangere un giuramento, non per te. Deve rispettare il salvacondotto che ti è stato accordato.» Gandogar annuì col capo, e dentro di sé rimase sbalordito da quanti muscoli potesse possedere un nano. La maggior parte dei membri del suo popolo aveva una corporatura tarchiata e robusta, e persino i nani della sua stirpe erano più massicci degli esseri umani; ma probabilmente quello sconosciuto era addirittura più forte del folle Boïndil. Anche sul suo volto e intorno al cranio calvo erano tracciate linee nere e blu scuro. «Accetta il mio ringraziamento...» «No. Non accetto nulla da te, neanche un sorso d'acqua se stessi morendo di sete nel deserto del Sangreïn», replicò l'altro con fermezza. «Seguimi, ti porto fuori.» S'incamminò, e Gandogar si affrettò dietro di lui. Salfalur lo condusse fuori per un'altra via rispetto a quella che gli aveva fatto fare Romo. Vide ambienti colmi di provviste, alloggiamenti pieni fino all'ultima branda e innumerevoli fucine in cui si lavorava senza sosta. Dalle fucine sortivano in parte armi, in parte strani pezzi di ferro, dalla cui forma non riusciva a dedurre nulla. Dal momento che non si attendeva nessuna spiegazione, evitò di chiedere e cercò invece di osservarli meglio che poté, per poi domandare ai Primi che cosa potessero essere. Alla fine, si trovò di nuovo all'ingresso di Giogonero, dove Balendilín e gli altri suoi accompagnatori lo stavano attendendo preoccupati. «Va' e non tornare mai più», gli disse Salfalur, accomiatandosi. «Semmai ci dovessimo incontrare nuovamente, sappi che per me sarà un piacere consegnare la tua testa al mio re.» Gandogar lasciò il tavoliere con grande sollievo. Si rallegrò molto di tornare alla luce del sole primaverile e di montare sul pony. «Non hai avuto successo, vero?» chiese Balendilín. Sospirò, quando l'imperatore scosse la testa e gli raccontò in breve il suo incontro con Lorimbas, Romo e Salfalur. «Non mi stupisce che un Terzo si comporti così come ha fatto Lorimbas.» Pensierosi, girarono i pony sotto lo sguardo attento delle sentinelle e presero a cavalcare verso sud. «Ma dev'essere molto sicuro del suo piano, per anticiparti che vuole scacciarci tutti dai nostri regni.» Solbraccio non riusciva a immaginare come un progetto del genere po-
tesse andare in porto, ma l'irremovibile sicurezza di Lorimbas, di cui gli aveva raccontato Gandogar, faceva presagire il peggio. Tutto faceva pensare che i Terzi stessero tramando un perfido stratagemma che avrebbe oscurato la malvagità degli intrighi di Bislipur. E, diversamente da quanto era successo allora, stavolta l'intera stirpe avrebbe preso parte al piano. Balendilín guardò l'oscuro tavoliere da sopra una spalla. Avremmo bisogno di una spia. Terra Nascosta, Monti Grigi, davanti al regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, tarda primavera Tungdil fece la prima cosa che gli venne in mente: lasciò cadere l'ascia che il Rabbioso gli aveva prestato e afferrò il manico della Lama di Fuoco con entrambe le mani, cercando d'intercettare il colpo. Riuscì a prendere il manico di sigurdazia; i muscoli delle spalle e delle braccia gli si gonfiarono, le articolazioni scricchiolarono, ribellandosi allo sforzo. Il nano cadde sulle ginocchia, ma riuscì davvero a fermare la traiettoria dell'ascia. L'alba lo sovrastava ansimando, con le braccia che tremavano. Stava impiegando tutte le forze e tutto il peso del suo corpo per spingere gli affilati diamanti nel volto dell'odiato nano. Ma l'arma sembrò percepire che a contenderne il possesso era il suo padrone, e non una bestia. Gli intarsi sulla testa dell'ascia presero a brillare, una rossa lingua di fuoco divampò e investì Ondori, costringendola a spostare la parte superiore del corpo di lato per evitare la fiammata. «Non mi sfuggirai un'altra volta», disse tra i denti, sferrando un calcio sul petto di Tungdil. Le dita del nano non mollarono la presa. Il guerriero cadde all'indietro trascinando con sé l'avversaria, altrettanto decisa a non mollare la Lama di Fuoco. L'alba sfruttò l'oscillazione, prese slancio e saltò oltre il nano, sempre con le mani intorno al manico. A Tungdil rimase il tempo di spostare la testa, evitando che i tacchi degli stivali di lei gli finissero sulla gola. «Vraccas non ha ancora disposto la mia morte... E ti ha pure portato qui, a restituirmi l'ascia.» Tungdil tirò un destro perpendicolarmente sopra di sé, colpendole il basso ventre, non protetto; poi con la stessa mano le strattonò il piede sinistro, facendola cadere accanto a sé. Durante la caduta le si spostò il panno di seta nera, e il nano poté scor-
gerne il mento e la guancia sinistra. Non vi erano deformità o cicatrici a giustificare il fatto che si mascherasse. Nessuno dei due lasciò la presa sulla Lama di Fuoco, entrambi tenevano una mano sull'impugnatura. Gemendo, si alzarono sulle gambe. L'alba raggiunse la schiena con la mano libera ed estrasse un'arma a forma di falce, la stessa con cui l'avrebbe ucciso al laghetto. Per contro, Tungdil tirò fuori il suo pugnale e incassò la testa, minaccioso. Girarono in tondo, pronti ad attaccare. Il manico dell'ascia, lungo un braccio, manteneva la distanza tra i due avversari, e la pesante testa si trovava dalla parte di Tungdil. Le incisioni continuavano a brillare, come se l'arma attendesse una nuova occasione per aiutare il suo padrone. «Perché nascondi il tuo volto?» le chiese. «Sei troppo vigliacca per affrontare i tuoi nemici faccia a faccia?» «Solo chi muore per mano mia può vedere il mio volto. Ho giurato che mostrerò di nuovo a tutti il mio volto solo quando chi ha ucciso i miei genitori sarà morto.» Dietro la maschera, il nano scorse due occhi grigi che lo fissavano pieni di odio. «E sarei stato io a ucciderli?» «Tu e i due gemelli. Avete ucciso mia madre a Grünhain», disse Ondori portando un attacco repentino; Tungdil evitò a stento la lama a forma di mezzaluna. «E avete ucciso mio padre a Giogonero», aggiunse attaccandolo nuovamente e riuscendo a ferirlo profondamente al collo. L'alba guardò con soddisfazione un forte fiotto di sangue sgorgare dal taglio. «Voglio le vostre vite in cambio delle loro.» «Io ti faccio un'altra proposta.» Tungdil controllava la parte superiore del corpo dell'avversaria, per prevedere il suo attacco successivo. «Che ne dici di raggiungerli?» Intuì un colpo in anticipo, lo schivò e scagliò verso l'alto la pesante estremità dell'ascia. La testa dell'arma avvampò all'istante, mancò l'alba, ma il manico di durissimo legno di sigurdazia la colpì sulla maschera, che le scivolò impedendole la vista. Il calore bastò a incendiare la stoffa; le fiamme si alzarono e le bruciacchiarono i capelli castani. Stordita e accecata, Ondori barcollava davanti a Tungdil. Più velocemente di quanto evapori una goccia di sudore sulle braci di una forgia, il nano si piantò davanti a lei e le cacciò il pugnale attraverso l'armatura, affondando sino all'elsa. L'alba annaspò e ansimò, poi cadde sulle ginocchia.
Tungdil avrebbe voluto strapparle di mano la Lama di Fuoco, ma il grido di Balyndis lo distrasse. Girò la testa e vide che Glaïmbar era finito a terra. Un mezz'orco malridotto, ma furioso per il dolore, stava sollevando con entrambe le mani la sua spada arrugginita e piena di tacche, pronto a tagliare in due il nano. Quanto sarebbe bello lasciarti morire. Imprecando, Tungdil raccolse da terra la scure del Rabbioso e la scagliò verso la bestia. Dopo un breve volo, l'arma colpì la carne olivastra del mezz'orco, sotto l'ascella, e sangue verde scuro si riversò sul nano ancora a terra. Glaïmbar conficcò la punta dell'ascia nella gola del mezz'orco e la tagliò, poi sollevò la mano in segno di ringraziamento. Tungdil distolse subito lo sguardo, in modo da non doverlo guardare in faccia. Pazzo, gli sussurrò il suo piccolo demone interiore. «Tornando a noi...» disse rivolto all'alba, ma quella era sparita, e con lei la Lama di Fuoco. Le vistose tracce di sangue che aveva lasciato dietro di sé si perdevano nel caos della battaglia. Tungdil non si fece la minima illusione di ritrovarla. La sua acerrima nemica l'aveva scampata, e si era portata con sé per la seconda volta la Lama di Fuoco. Era la figlia di Sinthoras, si disse collegando le cose che aveva sentito. Prese un'arma rimasta senza padrone e si gettò contro gli ultimi mezz'orchi, per sfogare su di loro l'amarezza di aver perso nuovamente l'ascia leggendaria. Imperversò tra le file dei fuggiaschi, spinto dalla vaga speranza di riuscire ancora a scovare l'alba. Ma la sagoma della nemica e, con lei, la Lama di Fuoco non si fecero vedere. Nel tardo pomeriggio la dura battaglia terminò con la completa, ma triste, vittoria dei nani. Gettarono le migliaia di cadaveri decapitati nel bacino, in mezzo ai cadaveri galleggianti dei loro simili, ai quali avevano frantumato i crani con una pioggia di pietre. Presto la fossa fu colma quasi fino all'orlo. Più tardi avrebbero drenato l'acqua e avrebbero lasciato i cadaveri al sole. Quando di loro non sarebbe rimasto null'altro che le ossa, ne avrebbero posto le spoglie sulla Porta di Pietra, come monito per le bestie che avessero tentato di attaccare in futuro. Tungdil era ai bordi dell'altopiano e vagava con lo sguardo sulle pianure
sottostanti. E in effetti credette di scorgere un puntino all'orizzonte che si muoveva rapidamente verso sud-ovest. Se si trattava dell'alba, era ormai decisamente troppo lontana per poterla raggiungere con un pony, figuriamoci a piedi. È colpa di Glaïmbar, si disse dando un calcio furioso a una pietra, che prese a saltellare giù per il pendio. Non fosse stato per lui, l'avrei uccisa e ora stringerei di nuovo la Lama di Fuoco tra le mani. «Volevo ringraziarti, Tungdil Manodoro», sentì dire dalla voce del nano che stava giusto maledicendo appassionatamente. «Tu sei il re. È mio dovere proteggerti dai pericoli», replicò rigidamente, senza nascondere che stava pensando tutt'altro. Si permise la scortesia di continuare a mostrargli le spalle. «È un peccato aver perso la Lama di Fuoco», aggiunse senza rinunciare alla frecciata. «Per causa mia», sentenziò Glaïmbar. «Questa è la verità.» Si mise a fianco di Tungdil. «So che non possiamo forgiare l'ascia un'altra volta, anche se Boïndil crede il contrario.» «L'ascia sì. Ma c'è da chiedersi se funzioni anche senza il manico di sigurdazia. Dal momento che non c'è più nessun albero di quella specie nella Terra Nascosta, la perdita di quell'arma eccezionale pare proprio irrecuperabile. Ci mancherà di sicuro contro la minaccia che viene dall'ovest, qualunque cosa sia.» Tungdil si concesse l'intimo piacere di spargere sempre più sale sulla ferita. «Speriamo di riuscire ad affrontare quella minaccia anche senza di essa.» A quel punto si voltò verso Glaïmbar. «Nella peggiore delle ipotesi, l'alba potrebbe consegnare la Lama di Fuoco al nostro nuovo nemico.» «Ma non saremmo i figli del Fabbro, se non sapessimo superare le difficoltà», intervenne Balyndis, avvicinandosi ai due e mettendosi a fianco di Glaïmbar. Il suo volto mostrava chiaramente che disapprovava il comportamento di Tungdil. «A maggior ragione se nascono nuove alleanze», disse Myr, che aveva appena finito di curare un ferito e si trovava a distanza di voce. Si alzò e si pose ostentatamente a fianco di Tungdil. A Tungdil parve che si fossero formati due fronti; scorse con piacere una scintilla di gelosia negli occhi di Balyndis. «È tempo che ci presentiamo. Io sono Myrmianda Pelledalabastro e appartengo a coloro che a lungo sono rimasti nascosti, prima che Tungdil ci raggiungesse e ci ricordasse che siamo stati scolpiti nella vostra stessa pietra.» Porse la mano a Balyndis e a Glaïmbar. «Il nostro re, Gemmil, mi ha
mandata qui, come ha mandato l'esercito che vi è stato d'aiuto.» Glaïmbar fece un inchino. «Riporta la mia sincera gratitudine al tuo re. Senza i vostri duemila guerrieri e guerriere non avremmo potuto tenere i Monti Grigi. I mezz'orchi si sarebbero ricordati della loro invulnerabilità e sarebbero tornati all'attacco.» Tungdil guardò la moltitudine di nani che avevano combattuto fianco a fianco e che in quel momento condividevano il triste compito della sepoltura. I circa quattrocento caduti della loro stirpe sarebbero stati portati all'interno delle miniere, dove sarebbero stati esposti tra gli onori e, dopo una rotazione, deposti nelle camere sepolcrali. Anche i nani di Gemmil accorsi in aiuto lamentavano gravi perdite: quasi metà del piccolo esercito era stato distrutto. I Liberi morti avrebbero riposato fianco a fianco coi nuovi Quinti. «Quanti di loro rimarranno?» chiese a Myr. La chirurga indicò una nana, che paragonata a lei sembrava un colosso, la chiamò e le fece cenno di avvicinarsi. «Questo dobbiamo chiederlo a lei. Sanda Ardentecoraggio è la moglie di Gemmil e saprà che cosa accadrà adesso.» A mano a mano che la nana si avvicinava, diventavano sempre più visibili le linee e le minacciose rune tracciate sul suo viso. Erano tatuaggi di qualità eccezionale, come né Tungdil, né Balyndis o Glaïmbar avevano mai visto prima. Le promesse di morte per i discendenti di Borengar, Giselbart, Goïmdil e Beroïn, in essi contenute, indussero il re a mettere involontariamente la mano sull'impugnatura della sua arma. Myr lo notò. «Avete visto bene: era una Terza. Poi, circa due cicli fa, è venuta da noi e ha servito la nostra comunità dimostrandosi una grande guerriera. È la nostra regina, la nostra condottiera e tutt'altro che una nemica dei nani. Non lasciatevi ingannare dai tatuaggi», spiegò a bassa voce, prima di salutare Sanda con un abbraccio. «Siete arrivati al momento giusto», si rallegrò con lei. «Come avete fatto a raggiungere i Monti Grigi così in fretta?» «Vraccas era con noi e ci ha mandato attraverso i tunnel. C'erano solo detriti molto piccoli», rispose lei sorridendo. «Gemmil aveva paura che mi potessi perdere un combattimento.» «Il suo timore era fondato», disse Glaïmbar. «Ci hai salvati, non lo si può negare.» Non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto della nana. Sanda ricambiò il silenzio sospetto e il disagio del nano con un sorriso
incantevole, che non si adattava per nulla al contenuto delle rune. «Comprendo la tua diffidenza, re Glaïmbar. Il mio volto ti augura la morte, eppure ti sorrido come se fossi la nana più amichevole della Terra Nascosta.» Gli porse la mano. «Sono una Terza solo esteriormente. Nelle mie vene non scorre odio, ma il sangue di una figlia del Fabbro.» Il re strinse la mano con un po' di esitazione. «Tungdil Manodoro ci ha già dimostrato che si può essere un Terzo e al tempo stesso un amico», disse e, nel farlo, sembrò che cercasse di farsi coraggio da solo. «Non è l'unico della mia stirpe a non provare la minima malevolenza nei confronti del nostro popolo», replicò Sanda, annuendo. «Ora sarebbe troppo lungo raccontarvi la mia storia, ma quando festeggeremo la vittoria sui mezz'orchi e laveremo via le lacrime per i caduti con un boccale di birra forte, troveremo il tempo anche per questo.» «Il mio amico Tungdil voleva sapere per quanto tempo rimarrete qui, e se qualcuno si è dichiarato pronto a trasferirsi nei Monti Grigi.» Myr guardò Balyndis con la coda dell'occhio, per scoprirne i sentimenti. Aveva sottolineato intenzionalmente la parola «amico», e l'altra si tradì subito fulminandola con lo sguardo. «Re Glaïmbar e la sua futura sposa Balyndis avevano pregato Gemmil di cercare volontari.» Sanda posò le sue forti dita sulla fibbia del cinturone. «Rimarremo qui fino a che non saremo sicuri che non compaiano altre bestie, perché ho l'impressione che delle vostre forze iniziali non siano rimasti in molti che possano difendere la Porta di Pietra, non è vero, re?» Glaïmbar annuì. «Quando siamo partiti non c'era nessuno che si fosse dichiarato disposto a cercarsi una nuova dimora nel regno dei Quinti. Ma quello che oggi non è può ancora accadere. Forse ci piacerà così tanto, che in un colpo ti troverai con mille abitanti in più», rise Sanda amichevolmente. «Ancora una cosa: non siamo soggetti ai tuoi ordini, re Glaïmbar. Solo quelli che eventualmente decideranno di rimanere nelle montagne dovranno piegarsi ai tuoi comandi; il resto di noi va considerato come un ospite che sa comportarsi come si deve.» La nana diede a Tungdil l'impressione di non essere disposta a trattare su quel punto. I Liberi difendevano la loro indipendenza. «Più tardi devo assolutamente chiederti alcune cose», disse lui rivolto alla regina. «Forse puoi aiutarmi a scoprire qualcosa sui miei genitori.» «Sarà un piacere», gli promise lei. «Ma ora scusatemi, devo occuparmi della mia gente.» Si allontanò a passi pesanti, mentre gli altri nani la guar-
davano in silenzio. «Sarò franco: devo lottare contro me stesso per fidarmi di lei», ammise Glaïmbar guardando Myr. «Da quanto tempo hai detto che vive tra di voi?» «Due cicli. Posso comprendere i tuoi dubbi, ma non li condivido.» Myr spostò il peso sull'altro piede e si avvicinò a Tungdil tanto che le loro braccia si sfiorarono. Questi non si sottrasse, anzi guardò Balyndis apertamente, come se le volesse mostrare che già poco dopo la loro separazione aveva trovato una nana che gli piaceva. «Tutti coloro che vogliono rimanere presso di noi devono superare difficili prove, e Sanda le ha superate magistralmente. E per tutto il tempo si è comportata in modo ineccepibile.» «Così ineccepibile che si è guadagnata il cuore del re», intervenne Balyndis. «Capisco perfettamente la diffidenza di Glaïmbar. Se io fossi una spia dei Terzi, farei di tutto per guadagnarmi il favore dei nani che prima o poi tradirò.» L'aria amichevole di Myr scomparve. «Non dirò a Sanda nulla di ciò che ho sentito dalla tua bocca, altrimenti dovresti attenderti un duello. Hai messo in dubbio il suo onore. È una guerriera e, in questo, è molto tradizionalista. Anch'io la stimo e ho fiducia in lei.» Fissò l'altra nana coi suoi occhi rossi; la guerra tra le due era ormai dichiarata. Glaïmbar sospirò. «Vraccas perdonerà il fatto che non riesco a vincere i miei dubbi tanto in fretta. In ogni caso è la benvenuta», disse cercando di smorzare la tensione. Poi volse la sua attenzione su un'altra questione. «Tungdil, com'è arrivato qui Djerun?» Tungdil portò una mano al fianco, dove conservava il rotolo di cuoio che conteneva la lettera. La guardia del corpo di Andôkai glielo aveva consegnato subito dopo la morte degli ultimi nemici, e da allora aspettava che qualcuno si occupasse di lui, attendendo paziente presso la cascata ai margini del pianoro. Il bagliore del sole al tramonto si soffermava sulla sua armatura, rendendo l'aspetto della creatura più maestoso che mai. Tungdil srotolò la lettera e lesse a voce alta: Caro Tungdil Manodoro, mando Djerun da te, sui Monti Grigi, perché so che presso di te si trova il miglior fabbro della Terra Nascosta e di tutte le stirpi dei nani. La mia guardia del corpo ha bisogno di una nuova armatura, sia della cotta di maglia, sia della corazza di piastre che porta sopra. Le misure e le leghe di metallo che Balyndis dovrà usare sono annotate più sotto.
Dovrà fargliela provare tenendo gli occhi bendati e affidandosi completamente alle sole dita, perché nessuno può vedere le vere sembianze di Djerun. Ti prego di dirglielo e di pretendere su questo punto la sua parola d'onore. Per il suo bene. Fatemi sapere il compenso, pagherò qualunque cifra mi sarà richiesta. Dopo, Djerun andrà a ovest e attraverserà i Monti Rossi per vedere coi suoi occhi che cosa sta succedendo e che cosa si sta avvicinando alla Terra Nascosta. È importante capire quanto tempo ci rimane, o se in realtà non c'è nessuna minaccia e siamo stati tutti ingannati dai vaneggiamenti e dalle bugie di Nôd'onn. Mi sono messa in cammino con Narmora verso il Weyurn, per cercare negli archivi notizie su coloni che dalla Terra dell'Aldilà, a occidente, siano arrivati da noi e si siano stabiliti qui. Forse sapranno sulla loro vecchia patria qualcosa che ci potrà essere utile. Ti saluto. Che il favore di Vraccas sia sempre con te. Andôkai Tungdil abbassò la lettera e porse a Balyndis le annotazioni relative alle misure e ai rapporti tra i diversi metalli che avrebbe dovuto impiegare. «Dunque è stata una fortunata combinazione a portare Djerun davanti alla porta proprio quand'eravamo in difficoltà. Si dice che la maga sia una seguace di Samusin. La sua guardia del corpo ha provveduto all'equilibrio.» Dopo aver controllato le misure, Balyndis guardò il colossale guerriero. «Ma capirà quello che gli dirò? Durante il nostro viaggio, Andôkai gli parlava in una strana lingua...» «Gli avrà comandato di seguirti.» Quando la nana fece per andare, Tungdil l'afferrò con fermezza per una spalla. «Ti ricordi della richiesta della maga? Dammi la tua parola, come sta scritto sulla lettera.» «Non è necessario. Di certo non starò a guardare questa strana creatura», replicò lei scuotendosi di dosso la mano di Tungdil. Glaïmbar la seguì; parlarono un po' mentre camminavano, poi si separarono pochi passi prima di aver raggiunto Djerun. Il re impartì degli ordini a voce alta e prese ulteriori provvedimenti per lo sgombero dello spazio antistante il portale. Tungdil seguì Balyndis con uno sguardo malinconico. Avrebbe voluto gridarle di scusarlo. Già da un po' era pentito delle sue provocazioni infan-
tili; i suoi sentimenti inquieti lo facevano pensare e parlare prima che riuscisse a tenere a freno la lingua. Se ascoltava il suo cuore, sentiva chiaramente che l'amava ancora, nonostante l'affetto che iniziava a provare per Myr. Che sia soltanto un fuoco di paglia? M'immagino di provare qualcosa per lei solo per vendicarmi della decisione di Balyndis? Una cosa la sapeva per certo: la sua vita sotto la protezione del suo padre adottivo umano, Lot-Ionan, era stata molto più facile. La chirurga sembrava poter leggere nei suoi pensieri. Posò la sua bianca mano su quella di lui. «Andiamo a vedere il tuo amico», propose. «Così vedrò se posso fare qualcosa per lui.» «Il mio amico?» Tungdil, strappato ai suoi pensieri, ci mise un po' prima di capire di chi stesse parlando. «Boëndal!» Senza pensarci due volte afferrò la mano di Myr e corse con lei verso l'entrata. «Ma certo! Tu lo risveglierai dal suo sonno di ghiaccio.» Si affrettarono lungo i corridoi dei Monti Grigi per raggiungere la fucina di Vapordrago. Il Rabbioso sedeva già su uno sgabello accanto al letto del suo fratello gemello e gli raccontava entusiasta la battaglia davanti alle porte del regno dei nani. Di tanto in tanto colpiva un elmo che aveva preso a un nemico vinto, per accompagnare in modo adatto il suo racconto. «Ma senza di te la battaglia non è mai veramente divertente. Mai», concluse un po' più triste, notando l'arrivo di Tungdil e Myr. Davanti a loro non riusciva a mantenere la sua allegria di facciata. Lo tormentava vedere suo fratello giacere come morto. Si alzò e si toccò le nere ciocche della barba; le parole che volle dire gli costarono palesemente uno sforzo, o quantomeno una considerevole dose di coraggio. «Myr, ho visto come hai curato i feriti là fuori, e come hai guarito Tungdil. Non ho mai visto prima un guaritore che possieda la tua preparazione.» Deglutì. «Ti prego di farlo tornare alla sua vecchia vita. Se ci riuscirai, giuro su Vraccas che non permetterò mai che ti succeda qualcosa; difenderò la tua vita come se fosse la mia.» Si fece da parte per lasciarle posto. «Sarebbe per me un grande onore riportare tuo fratello nel nostro mondo. Ma non devi giurarmi proprio nulla», replicò lei, sedendosi accanto a Boëndal. Gli toccò la fronte, gli sollevò le palpebre e ne osservò le pupille. «Aiutatemi a togliergli la camicia. Devo esaminare gli arti uno per volta, per sentire se il freddo della neve li ha fatti morire.» Tungdil e Boïndil aiutarono la chirurga a svestire il nano addormentato.
Poi Myr si mise a visitarlo a fondo. Conosceva il suo mestiere, non le sfuggiva la minima variazione della sua pelle. «Sembra godere del favore di Vraccas», disse dopo un'ora buona. «Non ho trovato nessun punto che sembri particolarmente freddo o che abbia cambiato colore.» «Che vorrebbe dire?» volle subito sapere il Rabbioso. «Nella carne che c'è sotto non si è raccolto sangue. Diventerebbe scura, marcirebbe e alla fine cadrebbe. Spesso l'assideramento viene percepito a stento, come niente più che un leggero malore, perché il freddo stordisce i sensi. Se fosse sorta cancrena da congelamento, non ci sarebbe più nulla da fare.» Myr iniziò ad auscultare la respirazione e il battito del cuore. «In genere le parti più colpite sono le mani e i piedi, ma tuo fratello è freddo in modo omogeneo, senza essere assiderato.» Ascoltò con attenzione. «È sbalorditivo. Il suo cuore batte, anche i suoi polmoni svolgono la loro funzione come devono, ma decisamente troppo piano. Non riprende i sensi. La fucina della sua vita sembra essersi spenta...» La sua espressione grave si rischiarò. «Ci sono! Ho bisogno di una tinozza piena d'acqua calda. E cera d'api.» «Un bagno? Abbiamo già provato, ma non è servito a nulla», obiettò cautamente Boïndil. «Fidatevi di me», replicò lei con fare misterioso. Si procurarono una vasca. Myr prese un pezzo di cuoio e lo arrotolò, a formare un tubo, e lo legò con dello spago. Poi infilò il tubo tra le pallide labbra di Boëndal e sigillò le narici e gli angoli della bocca con della cera calda, in modo che potesse respirare solo attraverso il boccaglio. «Aiutatemi. Dobbiamo metterlo nella vasca e fare in modo che sia completamente coperto dall'acqua», istruì i due. Usando pezzi di piombo come zavorra, fecero in modo che il nano raggiungesse il fondo della vasca. «Adesso lo scongeleremo e scioglieremo il ghiaccio che gli offusca la mente», spiegò Myr, poi prese una pala e gettò carbone ardente nella tinozza. Le braci scendevano tra i sibili, trasmettendo il loro calore all'acqua. La nana badò che il carbone non cadesse mai direttamente sul corpo del malato. Tungdil immerse la mano per saggiarne la temperatura. «È già molto calda.» Il Rabbioso si avvicinò, preoccupato. «Finirai per cuocerlo come una salsiccia, se continui così», disse guardando Myr furibondo mentre carica-
va un'altra palata piena di braci di Vapordrago per gettarla in acqua. «Smettila. Non serve a niente. Lo stai solo scottando e soffocando.» «Un attimo fa non mi hai pregato di aiutarlo? Non gli farò male in nessun modo», ribatté lei cercando di tranquillizzarlo. «Dobbiamo scaldare tutto il suo sangue contemporaneamente, anche quello della testa, altrimenti si formerà un tampone di ghiaccio e morirà. Funzionerà, credimi.» Sollevò la pala oltre il bordo della tinozza, ma Boïndil scattò verso il manico della pala stessa e lo bloccò prima che la nana facesse scivolare il carbone nell'acqua. «Io dico che adesso lo tiriamo fuori», tuonò il Rabbioso, con la testa incassata e chiaramente pronto a imporre il suo punto di vista sfruttando la sua superiorità fisica. «Pensa a qualcos'altro, prima che la carne gli si stacchi dalle ossa e di mio fratello rimanga solo una zuppa.» La chirurga posò i suoi occhi rossi su di lui, senza mostrare nessuna traccia di soggezione. «Io sono una guaritrice, e so perfettamente quello che faccio, Boïndil Duelame.» Cercò di sottrargli la pala dalle mani; lui rimase stupito dalla manovra e serrò la presa più forte del previsto. Il sobbalzo fece staccare dalla massa di braci un grosso pezzo di carbone, che rotolò fino al bordo della pala e cascò nella tinozza, sollevando caldo vapore. Tungdil non ebbe esitazioni e cercò di evitare all'amico il doloroso contatto. La sua mano guizzò in avanti, s'immerse nell'acqua cercò di pescare il pezzo di carbone, ma non riuscì ad afferrarlo. Il tizzone finì su Boëndal, appoggiandosi sul petto nudo e bruciandogli la pelle. Tungdil distinse chiaramente un tremito attraversare il corpo del malato. «Avete visto?» chiese agli altri. «Si è...» Boëndal spalancò gli occhi, si mise a sedere e si strappò dalla bocca il tubetto di cuoio, lottando per respirare. Poi iniziò a tossire. «Tiriamolo fuori», disse Myr tenendo pronti degli asciugamani caldi, in cui lo avvolse non appena fu uscito dalla tinozza. Boïndil asciugò premurosamente le gocce d'acqua sul volto del fratello, il cui accesso di tosse andava placandosi lentamente. «Eccolo di nuovo, mio fratello», gridò felice stringendolo forte. Boëndal cercò di dire qualcosa, ma non riuscì a emettere nulla più che un verso gracchiante. Solo dopo che si fu schiarito la gola molte volte, riuscirono a udire la sua voce profonda. «Cosa... è successo?» Trascinato dall'entusiasmo, Tungdil fece per aprire bocca per raccontar-
gli velocemente tutti gli eventi cui il guerriero non aveva partecipato, ma Myr lo precedette. «Una cosa alla volta», disse la nana. «Ora ti portiamo qualcosa da indossare, poi è importante che tu mangi e beva qualcosa di leggero, in modo che le tue viscere si riabituino al cibo. Niente birra e niente carne grassa.» Parlò con tanta determinazione che neppure il Rabbioso osò ribattere. «Dobbiamo dare alla tua mente il tempo di pensare di nuovo in modo lucido», annuì la chirurga con aria amichevole. «Presto starai bene come prima.» Boëndal la guardò con gli occhi spalancati. «E tu chi sei?» «Myr ha sciolto il ghiaccio che c'era dentro di te con un bagno caldo.» Boïndil non riuscì a trattenere la sua gratitudine e la trasse a sé. «Perdona i miei stupidi dubbi. Ti sono debitore, come ho promesso. Che Vraccas mi faccia cadere un'incudine in testa, se non manterrò la mia parola.» La nana rise. Vedendo la gioia infantile dipinta sul volto barbuto, l'aveva subito perdonato. Tungdil si tenne per sé ciò che aveva visto. Secondo lui era stato il carbone incandescente a risvegliare Boëndal, non il bagno caldo. Ma poiché il Rabbioso si era comportato male un'altra volta, era giusto che si scusasse. In quel modo, poi, Myr si era guadagnata un devoto difensore. «Boëndal, ti senti tutti gli arti?» chiese la nana. «Alcune dita sono insensibili e formicolano», rispose lui lentamente; parlare gli riusciva ancora faticoso. «Ringrazio Vraccas di non avermi abbandonato alla Morte Bianca.» Myrmianda cercò la sua mano sinistra e la massaggiò con cautela. «Inizia ad andare meglio?» Il nano annuì. «Bene», disse lei sollevata. «Il sangue torna a scorrere, quindi le tue dita non sono perdute. Ti terremo bene al caldo e per stasera, al massimo domani, ti sentirai come ti sentivi prima di finire nella valanga.» Gli fece un sorriso incoraggiante. «Sembrerebbe che Vraccas abbia ancora qualcosa in mente per te.» Si asciugò le mani su un lembo di panno. «Spero che nessuno se ne abbia a male, ma vorrei ritirarmi. Mi sono sicuramente guadagnata un po' di riposo.» Boëndal le prese la mano. «Continuo a non sapere chi sei e da dove vieni, ma, dal momento che mi hai guarito, ti sono anch'io debitore. Chiunque sia tuo nemico, da oggi è anche mio», le giurò con voce bassa e profondamente emozionata. «Il mio nome è Myrmianda Pelledalabastro, e ti ringrazio per le tue parole. La mia ricompensa è averti riportato alla vita, di più non desideravo.»
Gli toccò il dorso della mano, commossa. «È di nuovo caldo come dovrebbe.» Spinse di nuovo la mano del nano sotto la coperta, mentre gli venivano portati dei vestiti. Poco dopo fu portato del cibo, su cui il guerriero si avventò, affamato. Boïndil rimase al suo fianco e prese a raccontargli le sue ultime avventure, iniziando dal primo viaggio alla volta dei Monti Grigi e finendo con gli avvenimenti delle ultime rotazioni, passando per la battaglia di Giogonero. «Ti mostro dove puoi riposare», si offrì Tungdil, rivolto a Myr. Si accomiatarono dai gemelli e lasciarono la fucina. «Dopo la battaglia, con tutti questi nuovi arrivi, negli alloggiamenti ci sarà un bel po' di confusione. Dovremo cercare un po'...» «Non ho più la forza di camminare a lungo. Perché non mi porti da te?» propose lei. «Se non sono di disturbo... Una panca andrà benissimo.» «Panca? Non se ne parla nemmeno», replicò lui. «Ti cedo volentieri il mio letto. Mentre ti riposi farò in modo che te ne preparino uno tuo. Vuoi mangiare qualcosa?» La nana rifiutò. Dopo una breve camminata attraverso i corridoi e le sale, arrivarono davanti alla stanza di Tungdil. Questi le aprì la porta e fece per chiuderla dietro di lei. «Mi aiuteresti a sfilare la cotta di maglia?» lo pregò Myr con voce stanca. «Sono così esausta che fatico ad alzare le braccia.» «Sì», rispose lui sorridendo. «Non sei la più forte di tutte, questo lo si capisce subito.» Si avvicinò e la condusse a letto. «Non è particolarmente morbido, va giusto bene per le reni di un nano. Una volta che ci si è abituati.» Esitò. «Dormite proprio come noi? O desideri che faccia portare ancora qualche coperta da metterti sotto?» «No», mormorò lei soffocando uno sbadiglio e stiracchiandosi. «E poi mi addormenterei anche in un letto pieno di aghi. Mi aiuteresti, per favore?» Il nano afferrò il lembo inferiore della cotta di ferro e la sollevò piano. Sotto, la nana portava un farsetto imbottito; la scollatura all'altezza del petto gli permise un profondo sguardo sul suo seno morbido e bianco. Imbarazzato, gettò la cotta di maglia sul sostegno su cui in genere appoggiava la sua. «A più tardi, Myr.» *
*
*
Balyndis batteva il pezzo di ferro con tutte le sue forze; le scintille si spargevano tutt'intorno e atterravano fin negli angoli più riposti della fucina di Vapordrago, i cui bracieri diffondevano una calura torrida. Torrenti di sudore le colavano giù dal corpo, benché portasse sotto il grembiule di cuoio solo una sottile camicia di lino e leggeri pantaloni di pelle. Un fazzoletto le proteggeva i capelli, evitando che le scintille li potessero bruciare. Menava il martello senza sosta per imprimere una forma alla caparbia piastra, fino a che il metallo non si ruppe. Imprecando lo prese con le tenaglie e lo gettò nel vagoncino in cui i nani raccoglievano i pezzi malriusciti per poi fonderli e utilizzarli di nuovo. Il pezzo tintinnò, cadendo sui suoi quattro predecessori. Dovrei lasciar perdere, pensò demotivata. Si sedette sull'incudine e con un grosso mestolo di legno prese un sorso d'acqua dal secchio accanto a lei. Le mie braccia sono imprecise, la rabbia le rende troppo forti. Era in collera con Tungdil, che aveva dimostrato così poca comprensione verso la sua situazione e che, come se non bastasse, cercava d'ingelosirla con quella guaritrice. Per parte sua, Myr recitava bene quel ruolo. Troppo bene. Stupidamente, il loro gioco funzionava. Tungdil non aveva capito che lei lo portava ancora nel suo cuore, che l'avrebbe portato sempre, ma che le tradizioni l'avevano costretta ad accettare un altro fidanzato. Nel periodo che avevano trascorso insieme, fianco a fianco, Glaïmbar si era dimostrato un nano rispettabile, che la idolatrava dal profondo del cuore e che sarebbe stato un buon compagno per lei, pur sapendo che era molto attaccata a Tungdil. Balyndis bevve ancora un sorso. Porterò pazienza e non lo abbandonerò. È solo che non comprende le nostre tradizioni, pensò per l'ennesima volta. Quello era il motivo del suo comportamento, Lot-Ionan gli aveva trasmesso gli atteggiamenti e i modi di pensare degli umani. Anche se in lui c'era senza dubbio un'anima di nano, essa non riusciva a imporsi. Di fronte alla perdita del suo amore, si lasciava influenzare ancora di più dai suoi sentimenti feriti. Spero che prima o poi capirà che non potevo oppormi al mio clan e alla mia famiglia. Si alzò e cercò un'occupazione che la distraesse da quei cupi pensieri. Anche se lo avrei fatto volentieri. Tenendo davanti a sé la lettera di Andôkai, uscì dalla fucina e raggiunse la fonderia.
Tutti gli altiforni erano accesi; sputavano senza sosta ferro, acciaio e bronzo con cui i nani avrebbero forgiato o colato attrezzi, pezzi di ricambio, sostegni e molto altro. Nel regno dei Quinti, le cose andavano avanti. Balyndis si avvicinò a una delle fonderie più piccole, che erano costruite apposta per piccole quantità di metallo, e caricò l'uno dopo l'altro gli elementi con cui avrebbe prodotto la lega indicata da Andôkai. Con quel nuovo metallo avrebbe forgiato le piastre dell'armatura di Djerun secondo i desideri della maga. La cosa sbalorditiva era che, pur essendo una nana fabbro più che esperta, Balyndis non aveva mai sentito parlare di una lega del genere. «Maledizione!» La nana si fermò stupita. Il suo sudore aveva impregnato il foglio contenente le indicazioni, sbiadendo in più punti ciò che vi era scritto, cosa che certo non rendeva più facile decifrare la sinuosa scrittura della maga. Che significa questo scarabocchio? Tionio o palandio? Si dovette sforzare molto per riuscire a capirci qualcosa. Nutriva molti dubbi sulla richiesta della maga. Sembrava semplicemente troppo avventuroso. Se la sua interpretazione era corretta, avrebbe dovuto aggiungere al ferro grezzo una piccolissima quantità di zinco, piombo, rame e mercurio. In più, la formula richiedeva, in parti uguali, vraccasio e... Tionio o palandio? O c'è scritto «tionio e palandio»? Sapeva che le proprietà di quei due metalli nobili differivano poco, ma il nero tionio era sacro al dio Tion, ed era quattro volte più costoso dell'argenteo palandio. Palandiell era onorata dagli uomini come loro protettrice, per cui il metallo a lei legato aveva nella Terra Nascosta una reputazione assai migliore rispetto al tionio. Che faccio adesso? La formula è troppo vaga. Salì per la scala che conduceva all'apertura del forno, nel cui cratere stavano ormai la maggior parte degli ingredienti necessari alla lega: il fuoco al suo interno era fatto col carbone di Vapordrago e divampava chiaro e caldo. Ma non c'è tempo per chiederlo di nuovo alla maga. Balyndis soppesò i due pezzi che teneva in mano, poi rilesse ancora una volta l'appunto, senza però riuscire a capire meglio il significato di quei segni. Dal momento che gli altri elementi erano già fusi, non poteva indugiare ulteriormente e prese una decisione. Usando uno spesso guanto di cuoio per proteggersi la mano dalla crescente calura, gettò con cautela il pezzo di metallo nero dentro la fornace. Andôkai è devota al dio dell'equilibrio. Samusin custodisce l'equilibrio tra bene e male.
Gettò dentro anche il palandio. Poi con l'aiuto di un argano abbassò il coperchio di mattone refrattario sull'altoforno, per fare aumentare la temperatura interna. Ridiscese e azionò il gigantesco mantice; soffiò aria e ravvivò il fuoco. Di tanto in tanto gettava pezzi di carbone di Vapordrago attraverso lo sportello, finché il forno non raggiunse una temperatura tale che era impossibile avvicinarsi a più di quattro passi. La temperatura necessaria era stata raggiunta. La ciminiera conduceva i fetidi vapori velenosi in alto, verso lo sfogo attraverso cui sarebbero fuoriusciti da un crepaccio posto chissà dove tra i Monti Grigi. La nana aspettò ancora un po', per essere sicura che tutti gli elementi si fossero mescolati, poi prese la lunga sbarra e la usò per frantumare i grumi di argilla che si alzavano un po' sul fondo dell'altoforno. Il metallo fuso, giallo incandescente, fluì lungo il canaletto di argilla e si raccolse nell'apposito vagoncino rivestito di materiale refrattario. Balyndis raccolse le scorie che nuotavano verso la superficie del metallo liquido prima che raggiungessero il contenitore. Sentiva e amava quella calura, le perle di sudore evaporavano sulla sua pelle non appena uscivano dai pori. Osservò con impazienza il raffreddamento della lega, che perdeva la sua vivacità. Ora vediamo un po' come si fa forgiare il metallo che Samusin, Vraccas e io abbiamo creato. Afferrò con una tenaglia il gancio del vagoncino e lo trascinò sulle rotaie che attraversavano la sala, portandolo alla fucina. Terra Nascosta, regno di Weyurn, isola di Windspiel, 6234° ciclo solare, tarda primavera Le onde si avvicinavano, gettandosi contro i ripidi scogli per infrangersi fragorosamente su di loro. Si scomponevano in milioni di gocce che salivano alte nel cielo, prima di ricadere nel lago, simile a un mare, e fondersi di nuovo nell'acqua. L'acquerugiola per contro non si lasciava trattenere, si levava fino alla cima della scogliera e lambiva l'edificio che un tempo era un santuario di Palandiell. Narmora sentiva il rombo incessante delle onde perfino attraverso le spesse mura; fece una smorfia e si sistemò la coperta sulle spalle. Il cambiamento di stagione portava nell'isola di Windspiel tempeste e un freddo passeggero. Primavera ed estate lottavano tra loro, anche se alla mezz'alba
pareva che anche l'inverno prendesse parte al confronto. «Non è un buon posto per conservare dei libri», disse Andôkai con tono di rimprovero al custode degli archivi. «È troppo umido.» «Lo so», si rammaricò l'uomo, sui sessanta cicli, con pochi capelli e un rosso naso da bevitore di vino. I suoi abiti, un tempo molto costosi, gli pendevano sul corpo, ormai sciatti e consunti. «Ma dura solo qualche rotazione ogni ciclo; per il resto da noi c'è il miglior clima del Weyurn. Avete scelto il periodo peggiore per la vostra visita, venerabile maga.» Fece un inchino e accompagnò Andôkai a un alto scaffale, che si ergeva per sette passi davanti a loro e che era stracolmo di libri. «Qui ci sono i registri dei sudditi relativi agli ultimi cento cicli, comprese nascite, morti e matrimoni.» Narmora odiava quel posto da quando vi aveva messo piede e non intendeva restarci più del tempo strettamente necessario, soprattutto perché era preoccupata per la salute della sua piccola e delicata bambina, che aveva chiamato Dorsa. «Cerchiamo persone che siano migrate qui nel Weyurn venendo dall'ovest, dalla Terra dell'Aldilà», disse per circoscrivere la scelta. «Gli stranieri vengono segnalati nei vostri elenchi?» L'archivista rifletté. «Con un po' di fortuna e l'aiuto di Palandiell, nell'ala sud dovreste trovare ciò che cercate», concluse togliendosi il moccio sulla manica. «Là conserviamo i documenti relativi ai nuovi arrivati. Tutti. Quindi anche quelli degli altri regni.» S'incamminò per fare strada alle due donne. Andôkai mise sotto il naso dell'uomo l'autorizzazione della regina Wey e pretese che tutti i servi in grado di leggere si presentassero nell'ala per aiutarle nella ricerca. Vista dall'esterno, Narmora dava a credere di essere la docile apprendista della maga. Si sforzava più che mai di seguire le sue lezioni sull'uso della magia, e si guadagnava così le lodi della sua mentore. Ciò che Andôkai non immaginava era che a spronare la sua allieva era ormai qualcosa di diverso. Il fatto di proteggere la Terra Nascosta dalla strana minaccia dell'ovest era passato in secondo piano. Dopo la sua discussione con Rodario, a Porista, la mezz'alba mirava ormai a tutt'altro obiettivo: rispettare il giuramento che aveva fatto al capezzale del suo compagno. Prima di poterlo adempiere, doveva avere pazienza, imparare e nascondere la sua esasperazione e il suo disgusto. Avevano raggiunto l'ala sud dell'edificio. La maga si rivolse alla sua apprendista, indicandole col braccio un altro scaffale, posto sulla destra. Una
scala di legno portava sulla balaustra. «Tu inizi da quella parte, io da qui. Gli altri si occuperanno dei documenti raggiungibili dal pianterreno.» Narmora accennò un inchino e salì sui gradini cigolanti. Alla fine si trovò nello stretto camminamento, assicurato da un parapetto che proteggeva i ricercatori da una caduta di dieci passi. Dalla parte opposta, Andôkai le fece cenno d'iniziare e prese il primo volume. Soffiò sulle pagine, sollevando una densa nuvoletta di polvere. La mezz'alba la imitò, ma i suoi occhi scivolarono sulle scritte scarabocchiate senza coglierne il senso. Perché hai fatto questo a me e Furgas? Per costringermi a studiare la magia? Sfogliò le pagine persa nei suoi pensieri; l'incomprensibile tradimento della maga e i suoi intrighi le tenevano la mente costantemente impegnata. Purtroppo aveva un senso tutto quello che Rodario, pallido come un cencio, le aveva rivelato quella notte. L'uccisione dei rapinatori e della donna, da parte di Djerun, in modo che non potessero più spiattellare tutto, l'intero comportamento della maga e gli eventi successivi si combinavano e portavano a un'unica spiegazione: era stato tutto tramato affinché lei si dedicasse alla magia. Voltò di nuovo pagina senza prestare attenzione al contenuto. Ti pentirai amaramente di avermi iniziato alle arti segrete, pensò guardando verso Andôkai. Non appena Furgas fosse guarito, e si fosse dimostrato che non esisteva nessun pericolo reale nella Terra dell'Aldilà, lei avrebbe tolto la vita alla maga per vendicarsi della morte di suo figlio. E neppure Djerun sarebbe riuscito a impedirglielo. Il suo cuore batteva forte, la collera ribolliva dentro di lei. Si costrinse a calmarsi, per evitare che la sua natura di alba venisse alla luce, tradendola. «Ho trovato qualcosa», gridò all'improvviso la maga. Narmora le si avvicinò, obbediente. «Meno di settanta cicli fa si sono insediati a Gastinga dei coloni che dichiaravano di provenire dalla Terra dell'Aldilà. I loro figli e nipoti dovrebbero essere ancora vivi.» Chiamò il custode degli archivi e si fece spiegare quanto tempo occorreva per raggiungere quel posto. «Il villaggio si trova su quest'isola», disse l'uomo. «Dovreste essere lì dopodomani, vi farò accompagnare da uno dei miei servitori, in modo che vi guidi lì.» «Eccellente!» esclamò la maga, soddisfatta. «Samusin è con noi, e con un rapido successo ci ha ricompensate del lungo e faticoso viaggio.» Il custode si schiarì la voce. «Anche se il santuario non viene più utilizzato per le cerimonie, vi prego di rispettare Palandiell e di non nominarvi il
nome di un altro dio.» Andôkai puntò lentamente il suo volto spigoloso sull'uomo. «Nomino il nome del mio dio quando e dove voglio. Grazie alla sua pietà e al suo aiuto sono sopravvissuta all'attacco di Nôd'onn, e col suo aiuto è stata salvata la Terra Nascosta. Quelli tra noi maghi che si appellavano ad altri dei sono morti. Chi merita dunque i maggiori onori? Samusin o Palandiell?» Spalancò le braccia. «Voi stessi avete abbandonato questo santuario e l'avete stipato di documenti. Voi avete cominciato a non onorarla più, non io.» Andôkai lo piantò lì dov'era e scese i gradini. «Voglio partire tra un'ora. Fa' in modo che la nostra guida sia puntuale.» I tacchi dei suoi stivali fecero scricchiolare forte le assi. Narmora sollevò le sopracciglia, rimanendo in silenzio, per mostrare all'annichilito custode che lei non la vedeva proprio allo stesso modo; poi seguì la maga. «Cerco Dorsa», disse dirigendosi verso le sue stanze. «Forse Rosild non ha ancora cominciato a sistemare le sue cose.» Senza attendere di essere congedata, si affrettò lungo il corridoio dal soffitto a volta nel quale un tempo si aggiravano i sacerdoti di Palandiell, prima che la regina Wey donasse loro un altro tempio e trasformasse quello vecchio nel suo archivio. Trovò sua figlia attaccata al petto di Rosild, la balia che Andôkai aveva ingaggiato per il viaggio, una donna ancora molto giovane, con un grande seno e abbondante latte per la piccola e fragile creatura. Per Narmora rimaneva un enigma il fatto che Rosild avesse accettato di lasciare la sua famiglia e il suo bimbo a Porista. Probabilmente la maga l'ha costretta. «Poppa regolarmente», la informò Rosild, orgogliosa. «E aumenta di peso, lo sento chiaramente.» Mise la bambina tra le braccia di Narmora, e anche lei notò che era più pesante. La balia si avvicinò con l'espressione di chi deve dire qualcosa di spiacevole. «L'avete notato anche voi?» chiese esitante. «Sì, in effetti la bambina...» «No. Non quello.» La balia spostò un po' la coperta e scoprì l'orecchio destro della bimba. «Posso sbagliarmi, ma ho l'impressione che siano un po' appuntite. Dev'essere una deformità, o qualcosa del genere.» Guardò Narmora, aspettandosi una spiegazione o forse addirittura una lode per aver notato quel particolare. «Si potrebbero tagliare le punte adesso, così eviteremo che la prendano in giro quando sarà più grande», proseguì, vedendo che la madre continuava a tacere. «So che ai cuccioli dei cani da caccia tagliano le orecchie, in modo che quando sono nelle tane...»
«No», replicò Narmora duramente. «Nessuno farà niente a mia figlia. Questa... deformità scomparirà con la crescita.» Con un gesto rapido coprì la testolina della bimba. «Non ne parlerai con nessuno, Rosild. Mi hai capita?» La balia annuì, e per un istante il suo sguardo vagò sul fazzoletto rosso scuro sotto il quale la mezz'alba nascondeva le sue orecchie appuntite, poi si abbassò sul pavimento di pietra. «Raccogli tutto, partiamo tra un'ora.» Tenendo Dorsa in braccio, Narmora lasciò le sue stanze per raggiungere il grande atrio, nel cui centro crepitava un grande fuoco alimentato da un braciere aperto. La mezz'alba e la figlia si godettero il calore che proveniva dalle fiamme e scacciava l'umidità dalle ossa. «Presto saremo in un posto soleggiato», sussurrò alla bimba, che si stava addormentando. Gastinga, il villaggio che avrebbero visitato, si trovava nell'entroterra, dove il clima sarebbe stato sicuramente più asciutto. Il loro viaggio attraverso il Weyurn era stato pesante. Il terremoto aveva agitato i grandi laghi che coprivano più della metà del regno, travolgendo i moli, e l'acqua si era raccolta in nuovi bacini. C'erano stati diversi morti, ma la popolazione colpita dalla disgrazia aveva reagito in modo controllato, lasciando le fattorie allagate e insediandosi nelle numerose isole. La maggior parte degli abitanti del Weyurn viveva lì. Le isole non piacevano a Narmora. Preferiva avere sotto i piedi terreno saldo; attraversandone alcune, aveva perfino immaginato che oscillassero a causa della tempesta. Stando a quanto si diceva, le isole più piccole nuotavano sui laghi come crostini di pane su una zuppa; gli abitanti vagavano con loro e ormeggiavano dove si trattenevano i più ricchi banchi di pesci, cosa che rendeva la pesca un'attività sempre sicura. Narmora non poteva né voleva immaginare che cosa significasse vivere su un'isola mobile. Quando il fuoco ebbe ridotto in cenere gli enormi ciocchi di legna, la mezz'alba ne mise di nuovi. Dal momento che non sarebbe mai riuscita a trascinarli fisicamente dall'angolo della stanza in cui stavano fino al braciere, ricorse alla magia. Mossi da una mano invisibile, quattro ciocchi si librarono attraverso la stanza, si adagiarono obbedienti sulle braci e avvamparono. Narmora lo fece senza nessuno sforzo; nel mentre riuscì anche a canticchiare a Dorsa una canzone, nella lingua di sua madre, bella e malinconica al tempo stesso. A Furgas piaceva molto.
Pregò Samusin e Tion che Rodario si prendesse cura di suo marito in maniera adeguata. Nella sua mente sentì di nuovo le insistenti rassicurazioni dell'attore, e lo rivide mentre giurava. Una volta tanto credeva alle sue parole, perché sapeva che era preoccupato per la vita dell'amico quanto lo era lei. «Mi ha mandata Andôkai. Possiamo andare», disse Rosild alle sue spalle. «Che aria era? Non ho mai sentito niente del genere... Non ho capito il testo, però mi ha tranquillizzato.» «Non vuol dire niente», mentì Narmora, alzandosi con in braccio la bambina addormentata. «È una lingua immaginaria, l'ho inventata io. Alla piccola piace.» Uscì evitando di guardare la balia. «Allora mi piacerebbe impararla», replicò Rosild prendendo le ultime borse e seguendola. Terra Nascosta, Monti Grigi, regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, tarda primavera Balyndis tastò lungo la cotta di maglia e sentì che il braccio che doveva coprire con lo spallaccio diventava sempre più massiccio, fino a che non raggiunse l'articolazione. Con gli occhi bendati non era cosa facile adattare una corazza a un guerriero molto più alto di lei. Da parecchie rotazioni non faceva altro che forgiare piastre di metallo, sistemare cerniere e fissare occhielli per i fili di ferro con cui univa i vari elementi dell'armatura al posto delle stringhe di cuoio che usava di consueto. Sembra che Djerun non sgusci mai fuori del suo vestito di ferro. Alla forgiatura grezza seguiva l'adattamento al corpo del gigante, e poiché voleva rimanere viva, si era bendata gli occhi; per di più, chiudeva le palpebre quand'era rivolta verso di lui. Ricordava perfettamente come i mezz'orchi e i bogglin strillassero terrorizzati alla vista di ciò che si nascondeva dietro la visiera di Djerun. Le misure datele dalla maga erano quasi perfette; solo pochi pezzi dell'armatura non calzarono alla prima prova. Balyndis non doveva fare altro che eseguire piccole correzioni dando uno o due colpi di martello; poi incideva le parti decorandole, intarsiandole e ornando le scanalature con fili d'oro e d'argento, come la maga aveva richiesto nelle sue note. Stava mettendo uno degli ultimi pezzi; mancavano solo le protezioni per avambracci e braccia e, per finire, l'elmo, con la sua corona di spine lunghe
come dita. Per tutto il tempo la nana aveva atteso un rumore, un grido, un brontolio che provenisse da Djerun, ma la guardia del corpo di Andôkai era rimasta in assoluto silenzio. Sentiva il suo alito caldo, che era stranamente pulito. Aveva supposto che dovesse emanare un fetore incredibile, ma gli odori della fucina superavano le sue esalazioni, oppure era più sano di quanto supponesse. Uomini che portassero costantemente un simile peso avrebbero puzzato di sudore a cento passi di distanza, e controvento. Balyndis lavorava speditamente, drizzava fili e faceva muovere le braccia a Djerun, ascoltando attentamente se qualche giuntura minacciasse d'incastrarsi durante un combattimento. Il metallo però rimaneva silenzioso, nulla protestava stridendo o sferragliando. Sollevata, la nana lasciò la pedana su cui lavorava, tornò all'incudine, sollevò la benda che portava sugli occhi e prese l'elmo di Djerun dal sostegno. Lo aveva brunito e aveva lucidato la maschera demoniaca che costituiva la visiera, per metterla in risalto; la parte degli occhi era sottolineata in modo particolare da un sottile strato di nero tionio. Con orgoglio vi passò sopra lo straccio ancora una volta e mise una goccia di olio alla cerniera. «Djerun, ce l'abbiamo fatta!» annunciò senza sapere se il colosso comprendeva quello che diceva. «Se vedendoti un nemico non scappa via urlando, non so che cosa potrebbe farglielo fare.» Si rimise la benda sugli occhi, prese l'elmo e il camaglio imbottito di cuoio e seguì a tentoni il filo teso che la conduceva al guerriero. Poi accadde qualcosa. Balyndis incespicò su un pezzetto di carbone che si trovava sul pavimento della fucina. Perse l'equilibrio, barcollò e cadde. Una punta dell'elmo le sfilò accanto al viso, mancandole l'occhio per lo spessore di una lama di coltello sottile, e le fece volare in aria la benda. La nana stava per terra, con elmo e camaglio davanti a sé, il volto puntato in avanti, e guardava dritto verso Djerun, che stava appoggiato su un'incudine. E non aveva gli occhi chiusi. Nella sua vita di fabbro e di valorosa guerriera, Balyndis aveva visto parecchie cose orribili sui campi di battaglia. Aveva affrontato orchi e mezz'orchi, i cui volti non si potevano certo dire belli; neanche la vista di ferite aperte o di viscere sparse le faceva perdere il controllo.
Ma in quel momento spalancò la bocca in uno strozzato grido di orrore. Stava fissando delle ampie fauci irte di zanne acuminate e sporgenti, che avrebbero dilaniato la carne più spessa e rotto qualunque osso. La testa di Djerun, decisamente troppo grossa e solo vagamente umanoide, era fatta di ossa su cui era teso un sottile strato di pelle biancastra e malsana, percorsa da vene giallastre. Non aveva orecchie, e al posto del naso c'erano due fori triangolari. Gli enormi occhi del mostro si posarono su di lei. La creatura si alzò lentamente e le si avvicinò, tendendo in avanti una mano corazzata che sarebbe riuscita a macinare una pietra con facilità. L'ho guardato! Vraccas abbia pietà di me e mi assista, o mi ucciderai L'animo le gridava di mettersi in salvo, ma il corpo non le obbediva. Le dita del mostro l'afferrarono e la sollevarono. Elmo e camaglio le scivolarono dalle mani paralizzate dal terrore, ma Djerun li colse al volo, prima che cadessero sul pavimento di pietra. Poi la portò sul suo piedistallo, la rimise sulle gambe e le mise in mano i pezzi. Quindi si sedette, e col mignolo della sinistra le riabbassò il panno sugli occhi. Balyndis strizzò le palpebre, meravigliata. Non mi uccide! Sentì un cupo brontolio e lo interpretò come un invito a proseguire il lavoro e a non parlare mai di ciò che aveva visto alla luce delle braci. Si costrinse a controllare i movimenti delle dita, che le obbedirono, benché un po' irrigidite per la paura. Pose il camaglio e poi l'elmo sulla testa di Djerun. Felice di avere nascosto quella vista terrificante sotto una coltre di metallo, si tolse la benda e scese la scala per osservare il suo lavoro da un po' di distanza. Djerun si alzò, e la nana non poté fare altro che ammirare quella strana creatura. La nuova armatura sembrava piacergli; non aveva espresso la minima obiezione sebbene lei, a causa della scarsa leggibilità delle indicazioni, avesse dovuto modificarne la preparazione più volte. Sia lode a Vraccas e Samusin, pensò ringraziando gli dei, visto che il suo imbroglio, nato dalla necessità, non aveva avuto un esito spiacevole. La creatura si chinò verso di lei, dimostrandole la sua riconoscenza per quel capolavoro di metallurgia, prese le sue armi, le stipò nei vari sostegni e poi uscì a grandi passi dalla porta. Mentre passava accanto alla fornace incandescente, l'armatura del colosso emise un bagliore sinistro. Contenta e sollevata, Balyndis si terse il sudore dal volto. A quel punto sentì tutta la stanchezza delle braccia e delle spalle, stremate dalle pesanti martellate.
Brinderò in taverna al mio lavoro, poi mi metterò a letto, decise, e andò così com'era all'osteria per concedersi un grosso boccale di birra. Si unì a una compagnia di scalpellini, coperti di polvere, che brindavano al loro successo con una manciata di fabbri. «Siamo riusciti a risistemare i chiavistelli della Porta di Pietra», le raccontò un nano, emozionato. «Complimenti!» Gli strinse la mano, sollevando una nuvoletta di polvere. «Sembra proprio che mi sia persa qualcosa, mentre lavoravo nella fucina», rise congratulandosi con loro. «Così la Terra Nascosta è protetta anche sul versante settentrionale. Nessun mostro si avventerà più tanto facilmente su uomini, elfi e nani.» Balyndis si sentì colmata da un immenso orgoglio; il suo popolo aveva compiuto un'altra delle sue grandi imprese. «Noi siamo i figli del Fabbro!» gridò alzando il boccale. Gli altri nani fecero eco al suo grido. I boccali tintinnarono, e non ci volle molto perché nella taverna risuonasse il primo canto. «È l'inizio di un'epoca migliore. Che cosa ci potrà ancora spaventare?» sospirò la nana dopo un altro lungo sorso. Si asciugò la schiuma bianca sulla chiara peluria del volto. «Abbiamo ritrovato la nostra unità, e nuovi alleati.» Sollevò il calice salutando un nano pallido che sedeva in mezzo agli altri. «Di', ti trovi bene tra di noi?» L'altro annuì. «Sì, a parte una o due cose da poco. Ma sono ansioso di sapere come Tungdil Manodoro troverà il nostro regno. Da noi dovrà adattarsi molto meno di quanto abbiamo dovuto fare noi Liberi qui. Non prenderla a male, eh.» «Ah, sì?» Balyndis lo guardò confusa. Se ne va di nuovo. Sarà a causa mia? «Tungdil farà quello che ha annunciato? Quando partirà?» Devo parlare con lui. «È già partito. Quattro rotazioni fa, non appena ci siamo assicurati che i chiavistelli tenessero», le rispose uno degli scalpellini. «Lui e i gemelli.» È già partito? Senza salutare? È il suo modo per dirmi che mi disprezza per la mia decisione? Il volto della nana perse tutta la sua allegria. «Quella chirurga era con loro?» Quando vide annuire gli scalpellini, Balyndis vuotò il boccale e lasciò la taverna. Certo che è con loro. Gli altri nani la guardarono allontanarsi, stupiti. Terra Nascosta, regno di Weyurn, isola di Windspiel, 6234° ciclo solare, tarda primavera
L'insolito gruppo di viaggiatori arrivò a Gastinga dopo un rapido viaggio. Dovettero fare solo una sosta, per far passare una piccola schiera di soldati che marciava verso ovest, per ordine della regina. Interrogato da Andôkai, il comandante della colonna raccontò con orgoglio che dovevano scoprire che cosa stesse accadendo al di là delle montagne, nella Terra Nascosta. La maga gli augurò buona fortuna e chiuse il finestrino della carrozza. «Non vedremo tornare nessuno di loro», previde Andôkai con indifferenza, quando gli ultimi soldati furono sfilati davanti all'apertura invetriata, gettando, chi più chi meno, uno sguardo curioso dentro la carrozza. La maga tirò la tenda. «Sono addestrati per i combattimenti navali, non per quelli di terra, e non sanno muoversi su un territorio che non conoscono.» Bussò sul tetto, per comunicare al nocchiere che doveva rimettere in movimento i cavalli. Quando il loro veicolo curvò, attraverso la grigia cortina di pioggia videro spuntare Gastinga. Le piccole casette, che avevano i tetti coperti di scandole, erano molto basse, per impedire al continuo soffio del vento di portarle via. I pascoli che circondavano l'insediamento erano grassi e verdi, e alcuni giovani custodivano le bianche mucche. Uomini e bestie non sembravano impressionati dalla pioggia incessante. Non è affatto più asciutto, qui. Narmora fece attenzione che Dorsa riposasse ben coperta nel suo cestino. I sobbalzi della carrozza piacevano alla bambina, che era profondamente addormentata. Seguendo le indicazioni della loro guida, puntarono verso la casa del decano del villaggio. Lì la guida smontò dalla cassetta, raggiunse la casa e strappò il vecchio dal suo pranzo per spingerlo sotto la pioggia battente sino al finestrino della carrozza. Andôkai aprì il finestrino. «Stiamo cercando i discendenti dei coloni che si sono insediati in questo villaggio circa settanta cicli fa», esordì senza preamboli. Nei confronti di uomini di basso lignaggio la maga non perdeva tempo in omaggi. «Dove li posso trovare?» «Chi siete voi, che mi fate trascinare qui sotto la pioggia? E che volete da loro?» chiese l'uomo cercando di mostrare un po' di autorevolezza. Ma con la maga quello non era l'atteggiamento giusto. «Entrambe le cose non ti riguardano. Basta che tu sappia che viaggio con un'autorizzazione speciale della tua regina, e che sto molto al di sopra di te», replicò. «Dal
momento che, a quanto deduco, ci sono ancora, dimmi immediatamente in che casa vivono.» Il suo sguardo inflessibile inchiodò il vecchio. «C'è un motivo per cui non dovremmo vederli?» L'uomo indicò col braccio la strada davanti a loro. «No... È l'ultima casa a sinistra.» Non aveva ancora finito di parlare, e già correva di nuovo in casa a testa bassa. Narmora notò che i figli e la moglie del vecchio se ne stavano col naso schiacciato dietro il vetro lattiginoso. In vita loro di sicuro non avevano mai visto una carrozza. La frusta schioccò e il veicolo riprese la marcia. Giunti a destinazione, Andôkai si precipitò fuori della carrozza, e Narmora la seguì. La maga bussò con forza alla porta della piccola catapecchia, finché non aprì un uomo sui cinquanta cicli, sul cui volto stava un'espressione tra la sorpresa e il malumore. Quando vide di fronte a sé la donna sconosciuta, il suo comportamento divenne ancora più scontroso, e attese in silenzio che si presentasse. «Possiamo entrare?» chiese la maga. Era un ordine più che una preghiera. «Nella vostra nobile carrozza c'è più posto che da noi, dovrei trasferirmici con la mia famiglia», disse l'uomo, burbero, mentre osservava i vestiti delle due donne cercando di scoprire qualcosa di più sulle visitatrici indesiderate. Nelle sue parole percepirono un accento sconosciuto. «Perché volete entrare?» «Magari perché piove?» replicò Narmora sorridendo. «I mantelli non tratterranno l'acqua in eterno, e vorremmo parlare con te.» «Allora parlate in fretta, e non vi bagnerete», ribatté seccamente l'uomo. Andôkai era sul punto di scoppiare. «Si tratta della Terra dell'Aldilà e di ciò che da quel luogo può minacciare la tua patria, bifolco», gli disse, indignata. «Facci passare e parla con noi, se ti è cara questa capanna.» Un'incomprensibile voce di donna parlò alle spalle dell'uomo, che, masticando un'imprecazione, si fece da parte e indicò alle due visitatrici di entrare. Si ritrovarono in un alloggio annerito dalla fuliggine che non meritava neppure il nome di catapecchia. Lo stretto spazio era affollato da sette bambini, il più piccolo dei quali aveva solo pochi mesi. La madre, che indossava una giacca di lana sopra un abito di lino grezzo, si era seduta al tavolo e guardava timorosa le due visitatrici, i cui vestiti valevano più di tutto il loro arredamento.
A causa delle candele di sego si sentiva puzza di grasso bruciato. In un angolo vi erano dei letti disposti l'uno sopra l'altro, mentre una scala conduceva all'alcova in cui dormivano i genitori, che si concedevano un po' d'intimità con una tenda. Quello che Narmora aveva ritenuto una coperta, gettata senza attenzione sul letto più basso, si mosse improvvisamente, tossendo forte. Guardando più da vicino, la mezz'alba riconobbe il volto rugoso di una donna molto vecchia, il cui corpo secco, sotto i lenzuoli, era quasi irriconoscibile. «Grazie di averci fatte entrare», disse Narmora facendo un cenno col capo alla madre, che doveva avere circa quarantacinque cicli. «Siete voi i discendenti dei coloni venuti dalla Terra dell'Aldilà?» La donna guardò il marito, che era rimasto a braccia incrociate accanto alla porta e faceva spallucce. «Che cosa volete, nobili signore? Dobbiamo a qualcosa l'onore o... è qualcosa di brutto a portarvi a Gastinga? Dobbiamo abbandonare il Weyurn perché non riusciamo a coltivare la terra che ci è stata assegnata?» Si alzò, tenendo in braccio il bambino più piccolo. «Perdonateci, nobili signore, ma il lavoro è duro, la terra è profonda e umida, mio marito e io...» Andôkai corrugò la fronte. «Calmati. Non siamo qui per questo. Vogliamo saperne di più della tua patria.» Prese uno sgabello e vi sedette, coprendolo col mantello. «Racconta: qual è la peggiore minaccia temuta nella Terra dell'Aldilà? Ci sono bestie potenti, maghi, creature demoniache o qualcosa del genere?» La donna mise l'infante in braccio al marito e si sedette di nuovo, visibilmente sollevata. «Una minaccia?» Narmora frugò nella sua borsa e mise quattro monete d'oro davanti alle mani rugose della donna. «Questa è la ricompensa per quello che ci dirai», disse in tono amichevole. «Ma non sentirti costretta a inventarti qualcosa che sembri avvincente. Vogliamo sentire solo la verità.» La donna fissò i brillanti dischetti gialli. «È molto denaro...» mormorò a fatica. «Con questo possiamo vivere per un ciclo. È troppo per sentire qualche vecchia storia.» Il marito l'affiancò e intascò le monete. «Che c'importa? Se le signore hanno delle monete di troppo nella borsa, non saremo noi a lamentarci.» «Siete dunque della Terra dell'Aldilà?» domandò Narmora. «No. Solo io e mia madre. Mio marito è del Weyurn», rispose la donna. «Il mio nome è Aspila, e mia madre ha attraversato i Monti Rossi da bambina. Mia nonna voleva scappare dal nostro villaggio, perché la guerra si
avvicinava sempre di più.» «Ritorna a quello che ti ho chiesto», la interruppe bruscamente la maga. «Conosci fatti che sembrano inimmaginabili, o hai mai visto qualcosa cui non volevi credere? Conosci leggende...» Aspila trasalì di fronte alla durezza della maga, e continuò a rivolgersi a Narmora. «Era la guerra tra il nostro re e gli Amsha», disse riprendendo il filo del suo racconto. «Un giorno comparvero ai confini del nostro regno, e vi entrarono. I nostri soldati non riuscivano a fermarli, e così mia nonna decise che lei e sua figlia non sarebbero rimaste ad aspettare che arrivassero al nostro villaggio. Mio nonno e i suoi tre fratelli erano già morti in guerra, non c'era nulla che la trattenesse dal partire.» Rifletté intensamente, poi guardò suo marito. «Non mi viene una parola», mormorò rivolto a lui. «Come si dice Amsha?» L'attenzione di Andôkai si rivolse alla vecchia. «Forse lei conosce delle leggende? Tu mi stai parlando di una guerra, e questo non m'interessa molto.» «Ma gli Amsha sono una leggenda!» protestò la donna. «Nessuno credeva che esistessero. Mia nonna raccontava storie su di loro a mia madre, per spaventarla. Poi lo spauracchio è diventato realtà.» Solo a quel punto la maga si fece attenta. «Perché non l'hai detto subito? Che cosa sono questi Amsha?» Aspila si tormentava le mani, lottava con quella lingua che non padroneggiava perfettamente. «Non saprei, sono...» Guardò il soffitto, come se la soluzione fosse appesa lì, ma non vi era nulla, a parte prosciutti consumati fino all'osso. Narmora le sorrise, cercando di bilanciare la cattiva impressione che faceva la sua mentore. La vera alleata di Samusin, qui, sono io. «Raccontaci solo la storia», propose. «Forse ne verremo a capo insieme.» La donna concordò e cominciò a raccontare. Quando gli dei si crearono da soli, uno più splendido, bello e valoroso dell'altro, nacque tra due di loro una contesa su chi fosse il migliore. Erano gli dei che voi chiamate Tion e Vraccas, ma noi li conosciamo come Kofos ed Essgar. Kofos oltraggiò Essgar e lo insultò così tanto che Essgar, nella sua immensa collera, prese un martello incandescente dalla sua fucina e iniziò a percuotere l'altro. Ogni volta che il metallo caldo colpiva Kofos, un pezzetto del suo corpo
si staccava e cadeva a terra, dove assumeva le sembianze del dio ferito e prendeva vita. Erano nati gli Amsha. La pazzia furiosa di Essgar terminò solo dopo che ebbe colpito il suo avversario dieci volte, e che questi si fu arreso tra alti gemiti. Con grande stupore, Kofos scoprì ai suoi piedi le dieci piccole copie, che, sfrontate, gli chiesero di venire divorate ed essere di nuovo incorporate in lui, dicendo che gli appartenevano e che non volevano vivere fuori del suo corpo. Ma Kofos non lo fece affatto, derise le sue immagini e cercò di schiacciarle. Quelle riuscirono a scamparla e fuggirono, ma giurarono eterno odio a lui e a tutta la sua genia. Così, i dieci piccoli dei rimasero insieme e da quel momento si dedicarono a un solo obiettivo: trovare e distruggere tutto ciò che Kofos creava. Iniziò la guerra degli Amsha. Massacrarono le più temibili creature che imperversavano sui popoli, diedero la caccia e sterminarono gli esseri che voi chiamate mezz'orchi, giganti e troll. Presto si unì a loro un esercito di volontari, che onoravano i dieci come nuovi dei e che donarono la pace ai popoli e a tutte le creature buone. Solo loro venivano risparmiati dal calore degli Amsha. Aspila interruppe il racconto per prendersi un bicchiere d'acqua e inumidirsi la gola, che le si era seccata. Narmora tirò il fiato. «Non parrebbe che la Terra Nascosta debba temere qualcosa da loro», disse. «Il principe Mallen dell'Idoslân li accoglierebbe a braccia aperte.» «La leggenda non è finita, nobile signora», replicò la donna. «Gli Amsha cercano instancabilmente tutto ciò che è malvagio, per eliminarlo. Dal momento che sono stati espulsi dal corpo di un dio grazie ai colpi di un martello incandescente, anche loro sono caldi come il fuoco. Il calore che emanano è tanto grande che basta la loro presenza per incendiare e devastare le regioni che attraversano. Più a lungo vi si fermano, più le riducono in cenere e macerie. Si narra che abbiano addirittura prosciugato mari e laghi. Per questo il nostro sovrano cercava d'impedire che entrassero nella nostra patria. Raccolse i migliori maghi, le creature più pure, in cui non albergasse il male, e gli uomini e le donne più innocenti e onesti del regno. Tutto per cercare di trattenere gli Amsha.» «E allora? Ci è riuscito?» chiese Andôkai.
Aspila scosse la testa. «Non so dirvelo, nobile signora. La mia famiglia è scappata prima che l'esercito arrivasse nel villaggio.» Narmora cercò di capire in che modo una cometa potesse inserirsi nella leggenda, e lo chiese alla donna. «Mia figlia ha raccontato la leggenda solo a metà.» La vecchia si era alzata a sedere sul letto, e guardava le visitatrici con occhi svegli. «Erano undici le martellate che Essgar diede a Kofos, non dieci. La rabbia del colpo scagliò l'ultimo Amsha in cielo e lo fece sparire all'orizzonte. Questi si unì al firmamento e prese a girare intorno alle stelle sotto forma di palla di fuoco. Mia madre mi raccontava che un giorno sarebbe ritornato dai suoi fratelli, e che allora gli Amsha avrebbero imperversato più che mai.» Andôkai unì le mani. A quel punto la caduta di una stella cadente aveva un senso... Lesse sul volto di Narmora che anche lei stava pensando la stessa cosa. «Abbiamo sentito abbastanza», disse. Pareva delusa. «Non è nulla che ci possa aiutare. Tenete le monete che vi ha dato la mia apprendista. Ci avete intrattenute bene.» Si alzò e uscì senza salutare. «Che gli dei vi assistano», salutò Narmora accomiatandosi, e mise una quinta moneta in mano alla donna. «Ma non dormite sugli allori.» Percorse velocemente i pochi passi che la separavano dalla carrozza e chiuse subito l'assito dietro di sé, per non fare entrare altra pioggia nell'abitacolo. Si gettò al suo posto, e la vettura prese a muoversi non appena si fu seduta. La maga guardava fuori del finestrino bagnato. Si vedeva che era preoccupata. Aveva fatto credere ai coloni che non avevano raccontato nulla d'importante, ma in realtà essi avevano fornito la prova delle affermazioni di Nôd'onn. Non l'avrei mai creduto possibile. Abbiamo commesso un errore, uccidendolo? si chiese Narmora, inquieta, mentre accarezzava piano la guancia della sua bambina addormentata. Ma non le veniva in mente nessun'altra soluzione; un'amichevole collaborazione con quel mago rinnegato e assassino non l'avrebbe accettata nessuno, nella Terra Nascosta. Le nostre creature più pure non esistono più, le venne in mente con orrore. Le bande di mezz'orchi avevano ucciso gli ultimi unicorni a Mifurdania. E non vi era nulla che li eguagliasse in fatto di purezza. «Avatar.» Andôkai appoggiò la fronte contro il finestrino, la treccia bionda le scivolò dal cappuccio, appoggiandosi sul petto. «Se quella leggenda contiene un fondo di verità, abbiamo a che fare con gli avatar di Tion. Immagini fattesi carne, provviste di poteri divini e impossibili da
distruggere con armi mortali.» I suoi occhi puntarono su Narmora. «Tu sai che cosa significa, per noi due?» «Non passerà un'ora senza che io studi la magia», rispose la mezz'alba guardando il viso della piccola Dorsa. Ti lascerò una patria, non una terra riarsa battuta da un vento caldo. «Racconteremo alle case reali ciò che abbiamo scoperto?» Andôkai notò che la sua apprendista continuava a non guardarla in faccia, ma non s'interessò ulteriormente alla cosa. «È la cosa migliore da fare. Non appena Djerun sarà tornato dalla sua missione, convocherò a Porista un concilio di tutti i sovrani. La situazione dovrà essere discussa dai rappresentanti dei popoli della Terra Nascosta. È troppo importante per essere scritta su una semplice lettera. Chissà, forse per allora anche i soldati mandati in esplorazione da Wey avranno scoperto qualcosa.» Rivolse a Rosild uno sguardo intimidatorio. «Non racconterai nulla di ciò che hai sentito a nessuno, balia, o Dorsa sarà l'ultima bambina che allatti», minacciò con voce tagliente. «Gli uomini della Terra Nascosta verranno a conoscenza della situazione quando avremo un piano per difenderci dagli avatar. Saranno le loro regine e i loro re a parlargliene, non una nutrice.» Rosild, sbiancata, annuì in fretta e giurò subito su Palandiell che non avrebbe raccontato nulla. «E ora torniamo a Porista. Abbiamo molte cosa da fare e da preparare, Narmora.» «Certo, venerabile maga.» La mezz'alba annuì senza staccare gli occhi da Dorsa. Ciò che la sua mentore non intuiva era che quelle novità avrebbero allungato la sua vita, almeno finché sarebbe durata la guerra contro gli avatar di Tion. Dopo non avrebbe più concesso ad Andôkai nessuna indulgenza. «Diventerò un'apprendista ancora migliore, ve lo prometto.» Alzò la testa e sorrise alla maga. In fin dei conti, sapeva ancora recitare. LIBRO SECONDO I Terra Nascosta, Gauragar, 6234° ciclo solare, tarda primavera «Non rimpiangerai questa scelta, Tungdil?» Myr camminava accanto a
lui, e gli pose la domanda senza guardarlo. Reggeva un piccolo tegame pieno di una pomata azzurrognola, con cui si spalmava la sensibile pelle del viso per proteggerlo dal sole. A Tungdil parve che lei si vergognasse di farsi accompagnare da lui nel mondo della sua gente. Sembrava che per lei fosse qualcosa di spiacevole, come se le pesasse il fatto che il nano stesse lasciando i cinque regni dei nani. Come se fosse una cosa da rimproverarsi. «No, non la rimpiangerò di certo», rispose Tungdil dopo un po', mettendo un piede davanti all'altro e tenendo gli occhi fissi sull'orizzonte, dove il sole tramontava, tingendo la Terra Nascosta di rosso scuro. «Pensi forse che l'abbia lasciata per te?» «Intendi Balyndis o la tua gente?» Tungdil stesso dovette riflettere. «Balyndis... e il suo sposo», rispose con voce ferma. «No, non li ho lasciati per causa tua. Ammetto che ti trovo attraente, perché sei completamente diversa dalle nane che ho potuto conoscere finora. Tu hai riacceso il mio amore per il sapere.» Si voltò verso di lei, e i loro sguardi s'incontrarono; gli occhi rossi di Myrmianda erano pieni di speranza. «Dammi tempo, Myr. Il mio cuore e la mia mente sono ancora troppo confusi, non riesco a capire i miei sentimenti.» Sorrise. «Stare lontano da Balyndis mi farà bene e mi farà capire che cosa voglio. Questo è il motivo per cui me ne sono andato. Insieme con la curiosità per ciò che vedrò da voi.» La nana annuì, distolse lo sguardo e cercò il laghetto verso cui si stavano dirigendo da parecchie rotazioni. «Capisco, e posso continuare ad aspettare.» Forti risate riscossero Tungdil dai suoi cupi pensieri. Il nano guardò alle sue spalle e vide che Boëndal si era fermato. Stava in mezzo al sentiero, piegato in due, tenendo le mani sulle cosce per non cadere in avanti. Sembrava non voler più smettere, e lacrime gli scorrevano dagli angoli degli occhi. «Questa storiella la voglio sentire anch'io», disse Tungdil sogghignando. «Tuo fratello che cosa ti ha raccontato? Del mezz'orco che chiede la strada a un nano?» Il Rabbioso sollevò le spalle. «No, per Vraccas! Uno dice la verità e viene deriso», borbottò tra il confuso e l'offeso. «Gli ho solo raccontato che dovremo saltare nella pozza per...» Il guerriero fu interrotto da un nuovo, tonante accesso di risate, che rese impossibile la loro conversazione. Boëndal cadde sulle ginocchia, tanto era divertito. «Guardate come mi
ha ridotto», disse ansimando. «Sono appena scampato alla morte per congelamento e ora mi fa quasi soffocare con questa storiella.» Ridacchiando, il nano si alzò e si scosse la polvere dai pantaloni. «Saltare in un lago...» mormorò ridendo a singhiozzo. «Figuriamoci se metterei mai di mia volontà un piede nell'acqua profonda. Per Elria sarebbe troppo facile annegarmi.» Solo quando si fu asciugato le lacrime dagli occhi e vide le facce serie degli altri, cominciò a intuire che suo fratello potesse aver detto la verità. «Cosa? Non è uno scherzo? Dobbiamo...» Non riuscì neppure a dirlo, tanto trovava orribile la prospettiva. Boïndil gli diede una pacca sulla spalla. «È una cosa veloce, Tungdil e io l'abbiamo già fatto. Mentre sprofondi puoi anche guardare i pesci.» Boëndal guardò Myr con aria scettica. «Non vorrai farmi credere che quello è l'unico ingresso, vero? Non mi bevo che i soldati che il tuo re ci ha mandato sono tornati indietro saltellando dentro al laghetto come rane.» La nana sorrise, mostrando i denti bianchi mentre rimetteva a posto il tegame e si avvicinava al bosco che ancora li separava dal laghetto. «No, esistono altri ingressi. Tungdil e tuo fratello hanno lasciato il nostro regno attraverso uno di essi, ma con gli occhi bendati. Ma, dal momento che Gemmil non mi ha permesso di mostrarvelo, farete un bagno con me. Non sarà poi così male, no?» «Guarda che ha ragione», brontolò il Rabbioso. «Non è male. È solo orribile e ignobile. Ho ancora quell'acqua marcia nelle orecchie, e sento Elria ridere di me.» «Ma abbiamo dimostrato che i membri del nostro popolo non annegano solo perché l'acqua è profonda», disse Tungdil, cercando di mettere in luce un aspetto positivo della loro inevitabile immersione. Boëndal aveva perso quello che gli restava del suo buon umore. La sua fronte era corrugata in innumerevoli pieghe che non accennavano a scomparire. Nella foresta, che un tempo apparteneva al regno elfico del Lesinteïl, il suo umore non migliorò affatto. Quando poi attraversarono la piana erbosa, attenti e pronti alla battaglia, e scoprirono le spoglie mortali dei nani uccisi dagli albi, il suo stato d'animo finì in caduta libera in un pozzo senza fondo. I nani raccolsero i cadaveri mutilati e li adagiarono sotto un tumulo di pietre, in modo che almeno i loro resti trovassero la pace e che le anime si rifugiassero nella Fucina Eterna di Vraccas e godessero del calore della sua forgia.
Raggiunsero il ponticello all'imbrunire. Ciascuno di loro reggeva un pezzo di granito grosso come una testa, recuperato dalle colonne del santuario; Myrmianda l'aveva consigliato loro per raggiungere il fondo e arrivare nel regno dei reietti più velocemente. «Inizio io», disse la nana. Sorrise a Boëndal, che la guardava diffidente, e saltò nelle acque nere. «Se ne è andata», mormorò lui preoccupato. «E potete stare certi che anche noi...» «Fratello, hai affrontato Nôd'onn e le sue creature e ora hai paura di fare un salto?» gli chiese Boïndil, facendo finta che fosse la cosa più facile del mondo. «Posso permetterti di ricordarti che tu sei saltato in acqua solo perché un toro ti ci ha fatto volare?» intervenne Tungdil. Il Rabbioso scosse il capo. «Non ne ho più bisogno.» Si accostò al bordo del ponte con un'aria leggermente disgustata. «Maledetta acqua. È fredda e scura», si lamentò. Poi saltò, inabissandosi con un tonfo notevole. «Dunque non mi rimane altra scelta», borbottò Boëndal, accettando il suo destino. Inspirò profondamente, chiuse gli occhi, si tappò il naso con la mano libera e si buttò. Tungdil saltò per ultimo. Le onde si chiusero sopra di lui. Era impossibile scorgere qualcosa. La pressione sulle orecchie era l'unica cosa che gli facesse capire che il peso delle armi, dell'armatura e della pietra lo stava trascinando verso il basso. Il nano sentì lo scroscio della cascata che si tuffava nel bacino, cadde attraverso la cascata e s'immerse una seconda volta, prima che la dolce corrente lo respingesse verso l'alto e lo trascinasse verso la bassa riva. Si alzò, tossendo e sbuffando, e vide che i gemelli erano accanto a lui. Stavano emettendo identici rumori, e sputavano acqua in maniera convulsa. Myr si stava stringendo meglio il cinturone ai fianchi, dato che nella caduta le si era allentato. «Questa è la prima e l'ultima volta che faccio questa strada», strepitò Boëndal scuotendo le spalle per scrollarsi l'acqua di dosso. Come agli altri, l'acqua gli scorreva a fiotti dai vestiti e cadeva a terra scrosciando. «Ci vorrà un bel po' prima che si asciughi tutto.» Si toccò la cotta di maglia, stizzito. «Spero che abbiate del buon olio», brontolò. Myr si passò la mano tra i capelli bagnati e rise. «Troveremo dei vestiti che vi vadano bene. E dell'olio», disse per calmare il nano. Si avvicinò alla massiccia porta di quercia rinforzata in ferro e bussò.
Si aprì uno spioncino; un paio di occhi squadrò il gruppo di visitatori, poi lo spioncino si chiuse di nuovo. Poco dopo sentirono che venivano disserrati numerosi chiavistelli. L'ingresso del regno dei Liberi si stava aprendo per loro. Gemmil li attendeva nel locale alle spalle della porta e li salutò uno per volta con una stretta di mano. «Il mio aiuto è arrivato tempestivamente?» s'informò. Myrmianda gli descrisse brevemente la battaglia ai Monti Grigi e gli disse che la Porta di Pietra prestava di nuovo il suo servizio, come migliaia di cicli prima. «La vittoria mi allieta, mentre i morti fanno piangere il mio cuore», commentò Gemmil. «Berremo per entrambi.» Indicò dei panni. «Usateli per coprirvi, altrimenti vi raffredderete.» «Preferirei dei vestiti asciutti», replicò il Rabbioso. «Li avrete presto. Vi aspettano nella vostra nuova casa», disse loro attraversando la stanza per raggiungere un'altra porta. Dietro di essa si trovava un vagoncino pronto a partire. Vi salirono dentro e, tra saltelli e sferragliamenti, il veicolo li condusse ancora più in profondità. Alla fine si fermarono. Una volta scesi, il re li condusse a un portone a doppi battenti posto sull'altro lato dell'imponente sala di arrivo. «Venite. Vedrete il luogo su cui regno.» Sfiorò con l'anello le rune che ornavano il portale. I segni s'illuminarono, le porte si aprirono lentamente e filtrò una luce soffusa. «Andate avanti. Siate i benvenuti tra i Liberi.» Tungdil e i gemelli attraversarono la soglia e raggiunsero il pianoro antistante, da cui si dipartiva una scala che scendeva verso il basso. «Per Vraccas!» esclamò Boëndal sopraffatto, alle spalle di Tungdil, e anche questi rimase a bocca aperta per lo stupore. Ai loro piedi si estendeva una vera e propria città, con numerose grosse case, strade disposte simmetricamente, vicoli e piazze. Tungdil stimò che avesse circa due miglia di diametro; la distanza tra la pianura e la volta della caverna era di un buon miglio e mezzo. Ai bordi della città, due cascate si versavano in un bacino con un salto di quattrocento passi. Da lì l'acqua veniva drenata mediante canali, che in parte portavano ai giardini circostanti, in parte scomparivano nelle fenditure della roccia. Dall'alto gli abitanti sembravano minuscoli, non più grandi di insetti. Tungdil percepiva il basso borbottio delle loro conversazioni, come pure il
battere dei martelli sulle incudini e altri rumori che gli ricordavano le città degli umani. Gli edifici, per lo più quadrati, si adattavano a una parete di roccia che saliva dolcemente sull'altro versante della caverna, dove, in cima, sorgeva anche una fortezza piccola ma costruita senza badare a spese. La città era illuminata da muschi fluorescenti, che crescevano sulle pareti e diffondevano una tenue luce marrone. In alcuni punti si ergevano anche pali alle cui cime erano fissati canestri in cui ardevano grandi falò, la cui luce era diffusa da lastre di metallo lucide. «È grandioso», ammise Tungdil rivolgendosi a Gemmil, che lo aveva affiancato. «Non avevo mai immaginato che foste così tanti.» Il re indicò la città. «Questa è Aureorifugio, una delle cinque città...» «Cinque?» si lasciò sfuggire il Rabbioso. «... in cui viviamo», proseguì Gemmil, mentre il suo viso tradiva tutto l'orgoglio che provava. «Qui vivono cinquemila anime, che rendono grazie a Vraccas per la sua benedizione e vivono libere, senza le costrizioni imposte dai clan e dalle famiglie, seguendo solo la volontà del Fabbro divino.» Boïndil sbuffò e fece per ribattere, ma Tungdil gli fece capire che non era il momento giusto. «Dove saremo alloggiati?» Gemmil indicò una casa al centro di Aureorifugio. «Abiterete là, è la casa di Myrmianda. Starete in mezzo alla gente, in un punto in cui potrete farvi un'idea di come vive la nostra comunità. Io risiedo nella fortezza. Verrò a trovarvi domani, se a voi sta bene, e vi mostrerò la città.» Fece a Myr un cenno del capo e imboccò la strada che conduceva in città. «Su, venite con me», li invitò la nana iniziando a scendere le scale. «A casa mia siete più che benvenuti.» A ogni passo la città diventava più grande, e quello che dall'alto era sembrato tanto ben ordinato si confuse diventando presto un labirinto, cui però non mancava un certo criterio. Tungdil notò il vento fresco che soffiava via il denso fumo delle fucine e delle officine, e faceva sì che agli abitanti rimanesse aria buona da respirare. Dopo poco camminavano per i vicoli e le strade di Aureorifugio, passando davanti ai negozi di commercianti che vendevano cibo, attrezzi, ornamenti e altri beni, e davanti a due taverne, da cui echeggiavano canti. Superarono una statua di Vraccas alta dieci passi, fatta di ferro e decorata da pietre preziose e diamanti; qua e là brillavano intarsi d'oro e vraccasio. Nessuno li importunò; di tanto in tanto qualcuno si limitava a salutare
Myr. «Avete visto?» sussurrò il Rabbioso. «Alcuni di loro portano la barba in modo strano. Mi è anche sembrato di vedere un vecchio nano sbarbato! E ho sentito odore di profumo.» Arricciò il naso. «Per gli antenati, gli manca solo che parlino in elfico e che gli si appuntiscano le orecchie!» «Solo pochi portano armi e cotte di maglia», aggiunse Boëndal piano.«Ma dove siamo finiti?» «E perché dovrebbero portarle?» intervenne la loro guida, fermandosi davanti alla porta di casa sua. «Siamo al sicuro. Da noi non ci sono mezz'orchi o altre creature che ci vogliono attaccare, e conseguentemente non c'è nessun motivo di caricarsi con pesanti asce e maglie di ferro.» «Caricarsi?» protestò Boïndil. «Hai detto proprio caricarsi? Per noi nani non è un carico, è un onore. Cotte di maglia e armi fanno parte di noi, le portiamo come portiamo stivali e farsetti di cuoio!» «Questo vale per i nani dei clan, ma tra i Liberi non è necessariamente così.» Per la prima volta, Myrmianda sembrò offesa; era difficile passare sopra il carattere brusco e incomparabilmente scortese del Rabbioso, che riusciva a ferire quasi come le lame delle sue asce. La nana aprì la porta. «Entrate e salite la scala. Non voglio che bagniate i miei tappeti», li avvisò mostrando il suo disappunto, poi scomparve in una stanza accanto. «Tappeti...» mormorò il Rabbioso, esterrefatto. «Che altro ci aspetta? Acqua di rose per lavarci le mani?» «Sii cortese. Siamo suoi ospiti.» Tungdil si mise in testa al terzetto, salì i gradini di pietra e raggiunse una stanza spaziosa. Com'era stato loro promesso, trovarono abiti asciutti della loro taglia. Si cambiarono l'uno dopo l'altro. Tungdil fu il primo a essere pronto. Si guardò intorno e scoprì un'altra stretta scala che portava a un piano ancora più alto. Salì e arrivò a un lucernario. Poco dopo si ritrovò sul tetto piatto della casa di Myr. Nelle sue orecchie i rumori della città risuonavano chiari, sentiva perfino brandelli di conversazione. A volte si trattava di cose banali, come il prezzo delle verdure, a volte i nani parlavano delle novità e in generale di quello che succedeva nella Terra Nascosta. Era chiaro che alcuni dei Liberi trovavano difficile abituarsi ad essere di nuovo in contatto coi nani delle stirpi da cui erano fuggiti. Anche qui ci sono delle riserve, pensò Tungdil, in qualche misura sollevato, e si avvicinò al bordo del tetto per osservare i passanti. Scoprì nani pallidissimi e altri molto simili a lui, che non appartenevano
da molto alla comunità dei reietti. Quando s'incontravano per strada, si salutavano rispettosamente e proseguivano. Dopo un po' scorse il tempio ottagonale dedicato a Vraccas, che era stato costruito nelle immediate vicinanze della statua. Dalle cinque ciminiere usciva un denso fumo bianco e, prima che il vento lo disperdesse, l'odore di aromi bruciati e di ferro fuso indugiava nell'aria; era chiaro che i sacerdoti stavano officiando una cerimonia in onore del Fabbro divino. Il fumo chiaro ricordò a Tungdil l'insolita nebbia nella quale si era imbattuto nelle propaggini della Terra dell'Aldilà, e la runa che aveva visto sulla parete di roccia. Chissà se anche i Sotterranei adorano Vraccas. «Se ti fermi un po', ascolterai la preghiera della sera», disse Myr proprio alle sue spalle. Tungdil trasalì, spaventato, e sarebbe scivolato oltre il bordo del tetto se la nana non lo avesse acciuffato per la camicia e non lo avesse tirato indietro. Trovandosi sbilanciato con tutto il suo peso, Tungdil urtò violentemente contro di lei e si affrettò a stringerla, perché a quel punto era lei che rischiava di cadere. Rimasero abbracciati l'uno all'altra per il tempo che una goccia di birra impiega a cadere dalla barba di un nano. Tungdil avvertiva attraverso la camicia il calore di Myr, e la morbidezza dei suoi seni. In quel momento pensò fosse una fortuna non portare la cotta di maglia. La sciolse dall'abbraccio, schiarendosi la voce. «La preghiera della sera?» disse cercando di glissare e rivolgendosi verso il tempio, le cui porte venivano aperte proprio in quel momento. Ne uscirono cinque dozzine di nani vestiti da fabbro, che si disposero sui gradini; s'intuiva che ognuno sapeva perfettamente quale fosse il suo posto. L'ultimo nano si mise accanto a un'incudine di puro vraccasio, con in mano un martello da forgia. «È il nostro rito di ringraziamento per ogni rotazione che Vraccas ci concede», spiegò Myrmianda. «L'ho già detto ai gemelli, assisteranno con noi.» Il Rabbioso passò a fatica attraverso il lucernario; anche lui dovette uscire senza i suoi amati abiti di ferro, portava solo le asce appese al cinturone. «Ah, siete qui. I posti migliori sono già occupati?» Strinse gli occhi. «E questo che sarebbe?» chiese guardando i sacerdoti. Myr glielo spiegò brevemente. «Ah», fece lui quando l'altra ebbe finito. «Be', da noi ognuno prega per conto suo. Ci raduniamo solo in circostanze particolari.» «Sembra davvero un bello spettacolo», osservò suo fratello, anche lui sa-
lito sul tetto. «Che succede adesso?» Un potente corno emise una profonda nota melodiosa, che risuonò per le strade e per i vicoli, chiamando i nani a raccolta nella piazza in cui si trovava la statua. Se ne accalcarono sempre più, finché si ebbe l'impressione che l'intera piazza fosse fatta di teste. Vi era del movimento anche sui tetti piatti come quello della casa di Myr. Ovunque ve ne fosse la possibilità, gli abitanti di Aureorifugio si presentavano e volgevano lo sguardo verso il tempio e la statua. Il sacerdote che si trovava presso l'incudine sollevò il pesante martello sopra la testa e lo tenne in alto, senza che il braccio tremasse per lo sforzo. «Vraccas, ascolta le nostre voci e la nostra lode a te», gridò in tono solenne, lasciando precipitare il martello sull'incudine. Risuonò un forte clangore; scintille brillanti schizzarono a diversi passi di distanza tracciando una coda di fuoco e colpendo i bracieri disposti sulla scala, da cui salirono bianche vampate. Il sacerdote al centro del gruppo dischiuse le labbra e iniziò a cantare. Le note uscivano dalla sua bocca forti e serrate. Alla seconda strofa si unì al canto un secondo sacerdote; dopo la seconda, si unì un terzo, e avanti così finché a cantare non furono la metà dei sacerdoti. Seguì un altro colpo di martello, e quelli che ancora tacevano levarono le voci e fecero del canto del nano solista, all'inizio semplice, un coinvolgente coro polifonico. Il canto di preghiera a Vraccas toccò l'anima di tutti i presenti. Tungdil, che non aveva mai ascoltato niente del genere, sentì che gli veniva la pelle d'oca. Anche Boïndil e Boëndal avevano un nodo in gola per la commozione e, quando tutti i nani s'inginocchiarono, li imitarono senza esitare, per rendere omaggio a Vraccas in quella maniera per loro nuova. Avvinto dall'atmosfera e catturato dalle note, Tungdil non poté fare altro che deglutire meravigliato. Desiderava che il coro non smettesse mai di cantare, ma tale desiderio non si realizzò. Ancora un verso e i cantori tacquero; il canto riecheggiò nella caverna, una bassa eco ritornò ancora una volta su di loro e poi si perse. Il sacerdote batté una terza volta sull'incudine; il coro rientrò ordinatamente nel tempio e gli abitanti si alzarono. L'incantesimo era finito. «Questa sì che è una preghiera della sera», mormorò Boïndil osservando il portale del tempio che veniva richiuso. «E come sarà la preghiera del mattino?» Dal tono con cui aveva posto la domanda, traspariva chiaramente che sperava di riprovare presto qualcosa di tanto bello.
Myr gli sorrise. «Abbiamo solo la preghiera della sera. Domattina dovrai pregare Vraccas con le tue parole.» Indicò verso il basso. «Ho preparato qualcosa da mangiare, e dopo penso proprio che mi coricherò a riposare. Vi consiglio di fare la stessa cosa, perché domani Gemmil vi trascinerà fino ai più piccoli angoli di Auerorifugio. È molto orgoglioso della nostra città.» Poco dopo sedevano a un tavolo di pietra chiara e assaporavano il pasto preparato dalla chirurga. Alcune delle pietanze erano sconosciute a Tungdil, e anche i gemelli guardavano con diffidenza qualche piatto. «Muschio, insalata di tuberi e un arrosto di carne bianca in salsa di birra scura. Sono specialità che provengono da diversi regni dei nani», spiegò Myrmianda senza offendersi per la loro mancanza di entusiasmo. «Le abbiamo perfezionate e ne abbiamo tratto qualcosa di nuovo.» Mentre parlava riempì loro i piatti. La fame ebbe presto la meglio sulla diffidenza, e i nani si misero a mangiare. «Questa carne è buona!» esclamò entusiasta il Rabbioso, tendendo di nuovo il piatto mentre ancora masticava. «Non è capra, vero?» «È gugul. Sono difficili da allevare nei recinti, per cui li dobbiamo cacciare nelle gallerie in cui corrono liberi.» Myr notò che il nome non diceva loro niente. «È un tipo di scarafaggio. Sono grossi come nani e sono maledettamente veloci. Ma hanno un sapore delizioso.» Indicò il formaggio che si era preso. «Quello lo facciamo con le loro ghiandole. All'aria aperta si raddensa subito, lo si deve mettere in salamoia e farlo impregnare.» Gli restituì il piatto, di nuovo pieno. Boïndil stringeva le posate e fissava senza parole il cibo che, un istante prima, aveva lodato con tanto entusiasmo. «Ehi, all'improvviso mio fratello ha paura di mangiare?» lo canzonò Boëndal continuando a masticare con gusto. «Se non ha ucciso lei, a te non può fare proprio niente di male.» Prese il boccale di birra e lo vuotò, poi ruttò un po' meno forte del solito. Si comportava bene perché la nana sedeva al tavolo con loro. «Ti piace?» chiese lei, curiosa. «Tantissimo», rispose Boëndal versandosene un altro sorso. «Ha un che di particolare, maltato e aromatico.» «Noi raffiniamo la birra con...» Boïndil, che aveva appena portato il boccale alle labbra, sollevò la mano. «No, non dirlo, Myr. Non voglio sapere se ci avete spremuto un bruco
o una larva o qualcos'altro del genere.» Il dolce era una sostanza bianca e cremosa che aveva un sapore simile al miele. Tungdil scoprì nel suo piatto qualcosa di duro, i resti dell'involucro che proteggeva le molli interiora di un baco, ma non disse nulla e continuò a sorbire la dolce pietanza. Il Rabbioso naturalmente se ne prese una seconda porzione, ma si dimostrò abbastanza intelligente da non chiedere più di che cosa fosse fatto quel piatto che tanto gli piaceva. Stanchi, con le pance piene e resi brilli dall'alcol, alla fine i tre salirono le scale barcollando e si gettarono sui letti. «Non sono pentito di averti accompagnato», gemette Boïndil. Un rutto profondo gli fece spazio nella pancia. «Ma temo che non entrerò più nella mia cotta di maglia. Myr cucina troppo bene.» Gli altri due risero. «Grazie di non avermi fatto venire da solo», disse Tungdil, serio. «Ne abbiamo passate tante insieme! Pensi che avremmo piantato in asso il nostro Sapientone?» replicò il Rabbioso, stupito. «Soprattutto se va nel posto in cui vive la feccia dei nani. Non puoi tenere tutto sott'occhio.» «La feccia...» mormorò Tungdil pensieroso. «Non ho ancora visto nulla che mi faccia rispettare i nani di Aureorifugio meno dei nostri.» Boëndal si distese e incrociò le braccia sotto la testa. «Non devi dimenticare che o sono stati espulsi per un buon motivo o le famiglie da cui provengono hanno fatto torto al nostro popolo.» Guardò Tungdil. «Questo vale anche per Myr.» «Che ti ha salvato la vita», gli fece notare Tungdil, irritato. Boëndal annuì. «Non l'ho dimenticato, e mio fratello ha giurato di proteggerla. Questo però non cancella le sue origini.» «Abbiamo giurato di costruire una nuova comunità nella Terra Nascosta», disse Tungdil per ricordare loro il giuramento prestato a Giogonero, dopo la battaglia. «E a questa comunità appartengono anche i Liberi. Hanno cinque città, e le altre quattro non saranno più piccole di Aureorifugio. Abbiamo bisogno di loro, anche solo per garantire la sicurezza della Terra Nascosta.» Sostenne lo sguardo di Boëndal con nanesca determinazione. «Amici, siamo qui per scoprire di più su di loro e sulla loro cultura, e per vedere se le differenze tra di noi sono troppo grandi.» Mentre proseguiva, il suo sguardo era gelido. «A dire la verità, per il momento l'unica cosa che mi pare di capire è che siamo prevenuti nei loro confronti, e che è questo a dividerci.»
Boëndal spostò lo sguardo verso il soffitto. «Staremo a vedere che altro ci farà capire Vraccas nelle prossime rotazioni», borbottò evasivo, prima di chiudere gli occhi. Sarà un lavoro difficile. Piegare l'acciaio è facile, al confronto. Tungdil sospirò, col volto imbronciato. Da una parte era felice di non trovarsi da solo in mezzo ai Liberi, dall'altra avrebbe voluto che i suoi accompagnatori fossero un po' più aperti di vedute. Persino Boëndal, il più moderato dei gemelli, sembrava poco incline a una stretta collaborazione coi cosiddetti spettri dei nani. Hai già disposto un'altra prova per me, Vraccas? pensò stancamente. «Che faremo con la Lama di Fuoco?» chiese il Rabbioso rompendo il silenzio. «Rimarrà nelle mani degli Orecchi appuntiti dagli occhi neri?» «Se Glaïmbar non fosse un guerriero così scarso, non me ne preoccuperei troppo», replicò Tungdil. «Lo Dsôn Balsur cadrà presto per mano dell'esercito di uomini, elfi e nani, e l'ascia ci verrà restituita. Ora non ne abbiamo nessun bisogno, e non è di nessuna utilità per gli albi.» Abbassò le palpebre. «Ma voglio indietro ciò che è mio.» «Ah, ecco la prossima avventura. Indovina un po' chi verrà con te», mormorò Boïndil, allegro. Terra Nascosta, Dsôn Balsur, 6234° ciclo solare, estate Ondori sentiva l'odore del fuoco che bruciava la sua patria. Le ricordava le fiamme che avevano colpito lei. Le vampe della Lama di Fuoco avevano arso parte del suo volto, rendendolo irriconoscibile. Ormai aveva un secondo motivo per portare la maschera. Si trovava in cima a una delle numerosi torri di osservazione in cui un tempo gli elfi della Pianura d'Oro dislocavano le loro vedette, e guardava in direzione sud, dove spesse nuvole nere si alzavano nel cielo blu. Lì si stava consumando la sconfitta imminente. Uomini, elfi e nani scagliavano incessantemente i loro proiettili incendiari nel folto della foresta, dandole fuoco e trasformando gli alberi morti in gigantesche fiaccole grazie a una miscela di petrolio, olio, pece e zolfo. Un largo sentiero infuocato puntava dritto verso la torre di ossa, che pure si trovava ancora a diverse miglia di distanza dall'esercito nemico. Ma alla cintura di vegetazione seguiva una piana in cui gli aggressori avrebbero trovato pochi ostacoli.
L'alba guardò oltre le sue spalle. A metà strada tra la capitale e la foresta si trovava la fortezza di Arviû; da lì affluivano in continuazione nuovi albi verso il fronte, per cercare di contenere la campagna dei popoli della Terra Nascosta. Ma anche quel flusso di combattenti minacciava di esaurirsi. Le sue mani accarezzarono l'asta da combattimento in metallo. Infliggeremo loro perdite pesanti. Non ci limiteremo più a colpirli con le nostre frecce. Si volse verso la scala, accingendosi ad abbandonare la torre alta cinquanta passi. Ondori si muoveva con cautela. La ferita che Tungdil le aveva inflitto col pugnale non era ancora guarita del tutto; doleva, e le rinfacciava senza sosta lo smacco che aveva subito sui Monti Grigi. Non le era rimasto neppure il tempo d'indagare sul perché i mezz'orchi si fossero trascinati dietro l'Acqua Nera. Fuggendo dal campo di battaglia aveva raccolto una borraccia abbandonata, per non doversi fermare a cercare sorgenti o ruscelli. Solo dopo che ne ebbe bevuto un lungo sorso capì che si trattava di Acqua Nera. Aveva un sapore orribile. Dopo aver ascoltato il suo incredibile resoconto, gli Eterni le avevano ordinato di tornare al fronte e di cadervi combattendo contro i nemici. Aveva consegnato loro la Lama di Fuoco. Lei non avrebbe mai più sfiorato quell'ascia maledetta. Già da un po' non aspettava altro che morire, per porre almeno una fine gloriosa alla sua vita indegna. Non era riuscita neppure a vendicare la morte dei suoi genitori, e quello era ciò che la tormentava maggiormente. Gli Eterni le avevano quantomeno permesso di guidare un reparto costituito da albi incapaci come lei. Uscì ai piedi della torre e saltò in sella al toro di fuoco. Il suo sguardo vagò sulla schiera di cento albi che la stavano aspettando, e il cui valore aveva lasciato a desiderare. «Ascoltatemi bene, vigliacchi», disse a voce alta. «Vi porterò dritti tra le file dei nemici. Ognuno di voi ne ucciderà dieci, prima di morire. Se vedo uno di voi che cerca di sottrarsi anche a un solo combattimento, lo ucciderò con una freccia, o lo farò uccidere dal mio fidato Agrass.» Diede qualche amorevole pacca sul massiccio collo del toro nero. «Nell'Aldilà, Tion giudicherà ciascuno di voi, per cui impegnatevi, se non volete finire nell'eterna dannazione e tra infiniti tormenti. Nonostante tutto, porto ancora la benedizione degli Eterni, e posso rendervene partecipi. Dimostratemi che ne siete degni.»
Fece un cenno al primo albo della colonna, che si mise in movimento. Ondori rimase al fondo del gruppo, facendo molta attenzione che nessuno tentasse di fuggire. Nell'arco di una rotazione si avvicinarono al punto in cui l'esercito nemico scagliava i proiettili incendiari nella foresta. Ancora un miglio, e sfonderanno, stimò sgomenta. Vista dalla torre, la situazione dello Dsôn Balsur le era sembrata sostanzialmente più favorevole, e la verità fu un duro colpo per lei. Un albo in armatura nera uscì dalla macchia e la salutò con disprezzo. A un'alba come lei non bisognava mostrare nessun particolare riguardo. «Gli Eterni vi hanno mandati per attaccare le catapulte ed eliminare le squadre di artiglieri.» Le passò un foglio su cui era schizzata la posizione da cui avrebbe meglio condotto un attacco a sorpresa. «Noi sferreremo un attacco diversivo, e voi nella confusione vi farete strada fino ai depositi di petrolio e olio e darete loro fuoco. Questa al momento è la cosa più importante.» Osservò la maschera dell'alba. «E quella che vuol dire? Ti nascondi il volto perché sei brutta quanto sei vigliacca?» Allungò la mano verso il panno di seta per scostarlo. Il toro lo ammonì con uno sbuffo, volgendo verso di lui la testa; il corno sinistro ondeggiò pericolosamente davanti al petto dell'albo. Questi esitò e lasciò cadere il braccio. «Peccato che tu non sia in grado di dominare la tua codardia», replicò Ondori. «Saresti rimasto sbalordito da quanto...» Ammutolì. Avrebbe voluto dire «da quanto sono bella», ma non era più vero. La Lama di Fuoco l'aveva privata della sua bellezza. «Sono degna di morire.» «Va' e muori», sibilò l'altro. Si voltò e scomparve nel sottobosco. Ondori gridò i suoi ordini e condusse i guerrieri verso ovest, per cercare nella foresta un passaggio che non fosse sorvegliato dagli uomini. Dopo quattro miglia svoltarono fra i tronchi scuri e riposarono fino a mezzanotte, poi si avvicinarono furtivamente al campo dell'esercito nemico. L'alba imprecò a bassa voce. Avevano sicuramente raggiunto la posizione giusta, ma in quel punto le catapulte erano sorvegliate da nani ed elfi. Gli argani funzionavano senza sosta; i bracci di legno venivano abbassati e i cesti di ferro venivano riempiti con sacchi di cuoio gonfi, che prendevano fuoco non appena toccati dalle fiaccole. Quando i perni venivano rimossi, le sfere luminose sfrecciavano attraverso la notte e si sfracellavano tra gli alberi. La miscela si attaccava a ogni cosa, facendola divampare violentemente.
«Vedete che splendido destino ci attende?» disse a voce bassa. «Tion ci offre elfi e Cavernicoli.» Prese la sua asta da combattimento e la imbracciò come una lancia. «Preparatevi. E non dimenticatevi che sono dietro di voi. Nessuno mi sfuggirà.» Non ci volle molto prima che si sentissero grida agitate dall'altra parte del campo. Numerosi corni misero in allarme i soldati, avvisandoli dell'attacco. Nessuno intuì che si trattava di un diversivo. «Avanti», comandò Ondori, e gli albi corsero in avanti, stando piegati. Al riparo degli alberi erano quasi invisibili a occhi inesperti; le loro suole non incontrarono nulla che potesse tradirli facendo rumore. Fu così che si abbatterono di sorpresa sui nani e sugli elfi, che si aspettavano un attacco dall'altra parte. Ondori controllò scrupolosamente che tutti i suoi guerrieri si fossero gettati all'attacco e che nessuno si stesse nascondendo nel sottobosco. Quando ne fu sicura, corse fuori della foresta e si lanciò nella scaramuccia. Gli elfi non potevano impiegare i loro archi e furono costretti a ingaggiare con gli albi un combattimento ravvicinato, mentre i nani, con volti feroci, balzavano in avanti brandendo mazze, asce e scuri per gettarsi contro gli odiati nemici. Tion non era dalla loro parte. I nemici organizzarono la difesa più in fretta di quanto Ondori avesse previsto. I nani formarono coi loro scudi un muro da cui sporgevano solo le lame delle loro asce, mentre gli elfi presero posizione alle loro spalle, tenendo gli albi a distanza con le lance. L'avanzata del reparto di Ondori si fermò a trecento passi dai magazzini dell'olio. «Volete attaccare o no?» gridò fuori di sé, trafiggendo con la punta dell'asta un'alba che stava indietreggiando. All'improvviso un nano emise un grido acuto e cadde, lasciando un buco nella parete di scudi. Una lancia elfica gli spuntava dal petto. «Perfido Orecchie appuntite!» esclamò la voce incollerita di un altro nano. «Ti ho visto mentre lo colpivi!» Si sentì un forte schianto e l'elfo morì, colpito da un mazzafrusto a tre teste. «Vendichiamoci del tradimento!» ordinò il nano, pieno di odio e dolore. «Gli Orecchi appuntiti non rispettano l'alleanza che hanno giurato coi figli del Fabbro!» Ondori sentì un'imprecazione in elfico. Una freccia sibilò attraverso l'aria e trafisse il cranio di un nano, che cadde con gli occhi fissi in uno sguardo incredulo. Un istante dopo, su di lui cadde un elfo, dal cui ventre spuntava un'ascia nanesca.
Due dozzine di nani si girarono con decisione verso i traditori nascosti nelle proprie file e attaccarono gli elfi, che, dal canto loro, si misero sulla difensiva. Inizialmente cercarono solo di difendersi e di schivare i colpi, ma in poco tempo la situazione degenerò in un combattimento sanguinoso e accanito. L'alba non riusciva a credere ai propri occhi. Tion sia lodato! Non basta un giuramento tra re per cancellare l'inimicizia tra i popoli. Sferzò i suoi con rinnovato vigore, e gli albi si gettarono nei varchi che si stavano dischiudendo, attaccando nani ed elfi con perfidia. Ondori affidò i guerrieri alle cure di Tion e guidò il suo toro verso i magazzini scoperti. Cavalcò oltre le macchine da tiro e le squadre di inservienti, e strappò a uno di loro una fiaccola. Poi ordinò ad Agrass di distruggere parecchi barili e scagliò la torcia in mezzo alle pozze di combustibile. Le fetide pozzanghere divennero un pantano infuocato. Tra le fiamme scoppiarono altri barili, alimentando ulteriormente il fuoco. Ma Ondori non stava più guardando quello spettacolo; infuriava tra le squadre addette alle catapulte, che opponevano ben poca resistenza a lei e al suo toro. Non erano guerrieri, quindi l'alba poté spargere la morte in modo rapido e doloroso. Uno però le sfuggì. Si era nascosto dietro la ruota di un onagro e, quando l'alba gli passò davanti, scagliò una lancia contro di lei. La punta la colpì in mezzo alle spalle, perforandone il cuore. Ondori ansimò, lottando per respirare, e si estrasse la lancia dal corpo. Sprofondò nella sella, attendendo la morte mentre l'altro fuggiva. Il dolore al petto si affievolì rapidamente, e presto scomparve del tutto. L'alba si risollevò, toccando la ferita, che si era richiusa. Anch'io? pensò al colmo dello stupore. Tion mi ha concesso lo stesso miracolo che i mezz'orchi... In un attimo le divenne tutto chiaro: a donarle l'immortalità era stata l'Acqua Nera che aveva bevuto. Ondori rise piano. Sono... benedetta! Gli Eterni devono sapere di questa scoperta. Ma prima doveva completare la sua missione. Raggiunse il fuoco che divampava nei depositi e con l'asta tracciò un solco che condusse il liquido infuocato alle macchine di legno. Guardò con orgoglio le prime lingue di fuoco che lambivano travi e funi. Non sono ancora caduta, Tion, pensò compiaciuta, poi con una lieve pressione delle cosce indirizzò Agrass verso il combattimento. E, se le cose
stanno così, ti manderò le anime di qualche elfo affinché tu le possa torturare. Il suo toro si fece strada gettando in aria elfi è nani come burattini. Le sue corna rinforzate dal ferro della maschera da battaglia perforavano qualunque scudo e armatura, strappando dai nemici brandelli di carne, cuoio e acciaio. Ondori non lo avrebbe mai creduto possibile: lei e il suo manipolo di vigliacchi avevano battuto forze assai superiori, che si erano condannate alla rovina coi propri dissidi. Tion e la benedizione degli Eterni sono con me! La sua pietà e la loro benedizione mi hanno portato questo trionfo. Gli uomini giunsero in soccorso solo quando i bagliori delle fiamme che avvolgevano le balliste, gli onagri e le altre macchine d'assedio divennero impossibili da non notare, e il resto dell'esercito divenne consapevole di quello che stava succedendo alle sue spalle. Ma era troppo tardi. I contingenti di nani ed elfi giacevano a terra morti o gravemente feriti, mentre gli albi rimasti sgusciavano nella protezione offerta dai neri tronchi, fondendosi nelle tenebre. Frecce e dardi mancarono i bersagli. Stando alcuni passi all'interno del margine della foresta, l'alba rideva alla vista dell'inferno che aveva lasciato dietro di sé. Agrass sbuffò, volgendo il capo verso sinistra. «C'è qualcuno che si sta nascondendo?» si chiese Ondori. Lo zoccolo ferrato raspò il terreno minacciosamente. «Andiamo a vedere se possiamo spedire un'altra anima a Tion, o se devo punire un codardo.» Silenzioso come una pantera, il toro avanzò di soppiatto. Nella scarsa luce della luna, Ondori riconobbe quattro figure tarchiate che correvano attraverso il sottobosco. Cavernicoli in fuga. Cose del genere si vedono di rado. Non ci volle molto perché li raggiungesse. I fuggiaschi sentirono il rombo degli zoccoli di Agrass e si fermarono, pronti a difendersi. «Sparisci, alba, e ti risparmieremo la vita», gridò il loro capo attraverso l'elmo chiuso, mentre faceva roteare le tre teste del suo mazzafrusto. «Perché dovrei?» Un nano tese un arco corto e scagliò una freccia. L'alba schivò il lungo proiettile, che s'infilò in un tronco poco lontano. «Una freccia elfica?» sbottò meravigliata. «Da quando i Cavernicoli...» Spalancò gli occhi. «Il mazzafrusto, la freccia... Quello che ho visto poco
fa non è stato un caso. Voi avete provocato il combattimento tra elfi e nani!» esclamò, comprendendo finalmente lo strano comportamento dei nani che aveva davanti a sé. «Ma che Cavernicoli siete?» «Va' per la tua strada, Orecchie appuntite», le ordinò il nano. «Oppure attaccaci, e vedrai che siamo più forti di te.» Ondori avrebbe accettato volentieri la sfida, ma le grida, il cozzare di armature e il bagliore delle fiaccole l'avvisarono che una schiera di uomini si stava avvicinando; l'odio e la collera avevano ispirato loro il coraggio necessario per addentrarsi tra gli alberi. «Se siete Terzi, mandate un ambasciatore ai miei sovrani. Potremmo forgiare un'alleanza contro i nostri nemici comuni», suggerì. «Va', Orecchie appuntite, o morirai», ripeté il nano. Imprecando, l'alba decise che non era né il posto né il momento per mettere la sua vita a repentaglio contro quattro Cavernicoli. Aveva lavato una parte del disonore che la copriva. Fece girare il toro e galoppò via per serrare i ranghi coi suoi. Ci sono buone notizie da riferire a Nagsor e Nagsar Inàste, pensò strada facendo. Gli assassini di nani si stavano immischiando in modo del tutto inaspettato. Con ciò che stava ribollendo nella Terra Nascosta, si stava preparando un brodo che di certo non sapeva di pace e armonia. A quel punto, si trattava di tenere sott'occhio il cuoco e gli ingredienti che intendeva ancora aggiungere. Con qualche ritocco piacerà anche a noi. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, autunno «Non possiamo aspettare ancora. Vero, venerabile maga?» Narmora distolse lo sguardo dal libro in cui era immersa fino a un attimo prima. «È passato molto tempo da quando avete mandato Djerun nella Terra dell'Aldilà, oltre i Monti Rossi. Non sarebbe dovuto tornare entro ottanta rotazioni?» Andôkai annuì. Sedeva sulla grande poltrona della biblioteca, davanti alla sua apprendista, con la testa leggermente reclinata. «Manca da centotrentadue rotazioni», mormorò, meditabonda. «Non arriverebbe mai in ritardo di sua iniziativa, per cui qualcosa deve averlo trattenuto dal tornare. Ma che cosa?» Si alzò di scatto, spinta dalla preoccupazione e dall'agitazione. «Djerun non è un soldato qualunque, non si può abbattere facilmen-
te. È un...» Si morse le labbra. «È il re di tutte le creature di Tion», disse Narmora. «Conosco le leggende che lo riguardano: è il figlio di Samusin, così almeno lo chiama il mio popolo. Venne creato per uccidere i mostri che non sono abbastanza forti.» «Di tanto in tanto mi dimentico del tuo sangue materno. Dunque puoi ben immaginare che, qualunque cosa lo possa aver trattenuto, deve disporre di forze immense.» «Dove l'avete conosciuto? Una creatura come quella non s'incontra a ogni angolo di strada.» «L'ho salvato dalla minaccia di alcuni uomini; si definivano eroi, e lo avevano messo alle strette. Non potevo permettere che una creatura tanto magnifica facesse una morte così stupida. Questo è accaduto più di cento cicli fa. Da allora...» Andôkai afferrò un candelabro e lo scagliò dall'altra parte della stanza. «Maledetta Terra dell'Aldilà, e maledetti tutti i suoi segreti!» gridò. «Così non sapremo mai che cosa sta succedendo.» «Ma la spedizione della regina Wey non è riuscita a scoprire nulla?» chiese Narmora, cercando d'informarsi su quanto scritto sull'ultima lettera ricevuta dalla sua mentore. La maga fece una fredda risata. «Ricordi quando ti dissi che non avremmo visto tornare nessuno di quegli sventurati?» Trasse la lettera da una piega del vestito rosso. «La regina Xamtys mi ha fatto sapere che non ha visto nessuna traccia della spedizione, neppure un ferito o un messaggero. I rombi diventano più forti; di notte il bagliore delle fiamme a ovest s'intensifica visibilmente, e si avvicina.» Andôkai indicò i dorsi dei libri. «Guarda quanta saggezza è stata raccolta qui. E non ci serve a nulla.» Fece il giro del tavolo, si mise dietro Narmora e le posò le mani sulle spalle. «Devo farti i miei complimenti. Hai fatto progressi spaventosi, e sono ottimista sulla possibilità di respingere gli avatar.» «Ammesso che siano loro i responsabili di ciò che i discendenti del Primo vedono notte dopo notte.» Senza chiedere il permesso, l'apprendista prese la lettera e la lesse. «Nessuno si è più avvicinato al portale occidentale. Niente commercianti, niente bestie. Qualcosa intercetta qualunque uomo o creatura cerchi di entrare nella Terra Nascosta.» «La considero una prova del fatto che i preparativi degli avatar sono a buon punto.» Andôkai ritornò al suo posto. Sollevata, Narmora sprofondò di nuovo nella sua poltrona, felice di non dover più sentire sulle spalle le mani della donna responsabile dell'aggres-
sione a suo marito e della morte di suo figlio. La maga prese inchiostro, penna e carta per scrivere i suoi inviti. «Non posso indugiare oltre, e sperare solo che Djerun faccia ritorno», spiegò. «L'incontro tra re e regine deve avere luogo prima che inizi l'inverno.» «Verranno. Anche senza la questione degli avatar, hanno molte cose da discutere», replicò Narmora. Pensava soprattutto al conflitto che divampava tra elfi e nani, esploso senza preavviso nello Dsôn Balsur. Era una seria minaccia per l'alleanza tra i popoli. Da allora elfi e nani si rifiutavano di mandare un esercito al fronte, almeno fino a quando non avessero ricevuto delle scuse e prove sul ravvedimento degli altri. Dal momento che le due parti s'incolpavano reciprocamente di aver cominciato il combattimento, sembrava difficile arrivare a una composizione. Tale dissidio e la distruzione delle macchine da lancio avevano portato agli albi un sospirato momento di tregua. «Potreste chiedere una cosa al re dell'Urgon: pare che stia adunando un esercito per muovere verso nord-est. Intende fare guerra ai troll o ai Quarti?» chiese Narmora dando voce ai suoi pensieri. «E questo benché il suo medico sia un nano?» «Belletain è uno storpio privo di senno», asserì la maga, mentre la sua penna scarabocchiava sulla carta. «Ma per un caso sfortunato è l'erede di Lotario, un re che gli uomini venerano. In qualche misura questa loro venerazione si trasmette allo zio, e dove non arriva la venerazione entra in gioco la compassione. Il che è molto pericoloso.» La mezz'alba si alzò e andò alla porta. «Perdonatemi, tornerò puntuale per la prossima lezione. Voglio vedere Dorsa», si scusò, prima di lasciare la stanza e attraversare il palazzo deserto. Sua figlia dormiva nella culla. Tutte le volte che la vedeva coricata, Narmora aveva paura che il peso delle copertine potesse farle uscire l'aria dal gracile petto. La piccola era sdraiata a pancia in su, con le braccia vicino alla testa, e dormiva; il respiro regolare rivelava che era tutto a posto. «Sei diventata proprio grande...» sussurrò accarezzandole i capelli. La vita di quel piccolo fagotto le dava fiducia e le faceva sperare che, in un futuro non troppo lontano, tutto sarebbe andato meglio. Quando sua figlia sorrideva, Narmora dimenticava tutto ciò che aveva intorno, e aveva occhi solo per la sua minuscola bocca e per le fossette sulle guance. Ma subito le tornavano alla mente le immagini orribili del piccolo cadavere imputridito che aveva seppellito sotto un mucchio di pietre, nella foresta davanti a Porista. Si piegò sulla culla e baciò un appuntito
orecchio della figlia. Nel sonno, Dorsa sorrise. «Quando tutto questo sarà finito, Andôkai morirà», le promise per l'ennesima volta. «Dormi bene, figlia mia.» Uscì di soppiatto dalla stanza per andare a visitare Furgas, che stava in quella accanto. Non appena aprì la porta, Rodario saltò subito in piedi dal suo posto accanto al letto, con una mano sull'impugnatura del pugnale. «Scusa», balbettò, confuso. I segni del lenzuolo sulle guance tradivano che si era addormentato. «Calmati, Incredibile», lo rassicurò Narmora con voce amichevole, avvicinandosi al letto. «Dovrai recitare meglio, se vuoi nascondere alla maga che sappiamo del suo coinvolgimento nell'aggressione. Questo tuo sobbalzo avrebbe potuto metterti in grosse difficoltà.» Accarezzò il volto di Furgas e gli diede un bacio sulle labbra fredde. «Presto si terrà qui a Porista un consiglio per decidere che cosa fare contro gli avatar.» Rodario si stiracchiò, poi si toccò l'ormai leggendario pizzo. «Sei sempre sicura di voler uccidere Andôkai?» Quando l'uomo notò lo sguardo d'acciaio dell'altra, si diede la pena di spiegare meglio i motivi della sua domanda. «È l'ultima maga della Terra Nascosta, per questo ho delle riserve», disse con garbo e facendo molta attenzione a non irritare la mezz'alba. «Nessuno lo celebrerà come un gesto eroico... Capisci cosa intendo?» «Nessuno saprà chi l'ha uccisa», replicò Narmora con indifferenza, mentre bagnava le labbra di Furgas con una spugna umida. «So tendere agguati e tenere segrete le mie azioni esattamente quanto lei.» «Certo, ma...» L'attore cercò le parole giuste. «La tua brama di vendetta toglierà ai regni l'ultima maga rimasta, mia oscura bellezza. Se un brutto giorno a delle bestie ancora più terribili dovesse venire in mente...» La mezz'alba lo guardava scuotendo tristemente la testa. «Rodario, lascia perdere. Stai intercedendo per una donna che ha cercato di uccidere te e il tuo migliore amico.» «Non voleva ucciderlo, solo paralizzarlo.» L'attore crollò sulla sedia. «A volte vorrei non averti mai raccontato quello che ho scoperto, donna accecata dalla vendetta», disse con toni enfatici. «Io so che la mia vita è appesa a un filo di seta, ma ti ripeto: Andôkai è l'ultima maga...» «E io cosa sono?» «Tu?» L'uomo stava quasi per ridere. «Narmora, tu sei un'apprendista, una maga principiante. Sei brava, ma non sei la migliore, e non hai per niente la statura di una maga come la Burrascosa.» Scosse la testa. «Non prendertela a male, in pochi cicli andrai lontano. Ma aspetta almeno di
aver raggiunto quel livello. Forse per allora la tua collera sarà sbollita.» «E da quando sei diventato un esperto di magia?» lo schernì lei. «Non lascerò impunita la morte di mio figlio e le sofferenze del mio uomo.» Gli indicò la porta. «Puoi andare. Grazie di esserti occupato di lui. Dormendo.» «Risparmia il sarcasmo, e pensa al destino della Terra Nascosta», la ammonì lui facendo per andarsene. «Qui ci sono altre persone oltre a te che dipendono dall'arte di Andôkai.» Con quelle parole, uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé. Narmora si sedette sul letto, accanto all'uomo addormentato. Con la mano sinistra si tastò sotto l'abito, cercando il gioiello che portava con sé dalla battaglia di Giogonero. E dunque non avrei la statura della Burrascosa, mio caro Rodano? Strinse le dita intorno alla pietra, infilata in una collana, che teneva nascosta. Posò la destra sul punto in cui la spada corta era penetrata nel corpo del suo compagno e chiuse gli occhi. Una luce verde sfiorò le fasciature, filtrò attraverso di esse e fluì fino ai bordi infiammati della ferita. Lì diventò più intensa, combatté contro i punti in suppurazione e lasciò dietro di sé pelle rosea, che si chiuse lentamente e guarì, come se la ferita non ci fosse mai stata. Narmora inspirò profondamente. Non poteva ancora affrontare il veleno che paralizzava Furgas, ma almeno l'uomo non avrebbe più sofferto della ferita da taglio. Lasciò le medicazioni lì dov'erano, in modo che la sua mentore non si avvedesse che l'uomo era in via di guarigione. Presto. Presto sarà tutto finito, tesoro mio, pensò piena di gratitudine. Poi s'incamminò per i corridoi e tornò da Andôkai, per ricevere una nuova lezione di magia. Seguì il vecchio rituale. A ogni passo che faceva sul bianco marmo, diventava sempre più l'obbediente e diligente apprendista. Terra Nascosta, da qualche parte sotto il regno di Gauragar, Aureorifugio, 6234° ciclo solare, autunno Tungdil stava a gambe incrociate sul tetto della casa di Myr, tenendo gli occhi puntati sulla statua di Vraccas e con in mano un boccale di birra. Un altro giorno presso i Liberi volgeva alla fine, ricco di eventi e istrut-
tivo come quelli che lo avevano preceduto. Il nano aveva imparato e visto cose che gli rendevano difficile pensare a un addio. Utilizzava le ore serali per fare il punto di ciò che aveva appreso. Gemmil aveva davvero trascinato lui e i gemelli negli angoli più riposti di Aureorifugio, per mostrare loro come vivevano i diversi nani. Avevano visitato i parchi, il sistema di approvvigionamento dell'acqua, che veniva alimentato dal bacino della cascata, le officine e le fucine. Poi avevano conversato con numerosi abitanti, sia di vecchia data sia di fresco arrivo, e tutti avevano lodato la vita lontana dai clan e dalle stirpi. Di rado Tungdil aveva scorto malinconia o dolore negli occhi delle persone con cui aveva parlato. Anche lui si trovava bene tra i Liberi, al contrario di Boëndal e Boïndil, i quali scalpitavano per tornare ai Monti Grigi, in un ambiente più familiare e in una comunità di nani di cui meglio comprendevano lo stile di vita. Sentì passi pesanti alle sue spalle. Il cigolio di una cotta di maglia gli rivelò che poteva trattarsi solo di uno dei suoi due amici. Perfino lui non portava più da tempo la cotta, limitandosi a indossare il farsetto di cuoio. «A te piacerebbe restare qua», esordì Boëndal, sedendosi accanto a lui con un boccale in mano. Tungdil sospirò. «Si nota così tanto?» Il guerriero sorrise. «Perfino mio fratello inizia a temerlo. Per lui... per noi è difficile da immaginare.» Spalancò le braccia. «Quelli che vivono qua sono nani, certo, ma sono stati espulsi dai loro clan e dalle loro stirpi.» Bevve un lungo sorso. «E poi ci sono anche dei Terzi tra loro», aggiunse a bassa voce, con una punta di ostilità nella voce. «A ben pensarci, questa è una comunità in cui i retti figli del Fabbro non possono fermarsi in eterno.» «Lo so. Vedo che state diventando sempre più inquieti. Il Rabbioso si sta già unendo alle battute di caccia al gugul per cercare di placare il suo sangue caldo. Gli mancano i combattimenti coi mezz'orchi e con gli altri mostri.» Tungdil evitò intenzionalmente di entrare nel merito delle parole usate dal suo amico, e ignorò del tutto l'accenno ai nani «retti». In fondo, essendo un Terzo, lui non era tra quelli. Boëndal sogghignò. «Già, li cattura a mani nude. Chi va a caccia con lui lo considera con timore e rispetto. Quelle bestiacce si difendono bene con le loro mandibole.» Sollevò il boccale in direzione della statua. «Rendo grazie a Vraccas, che mi ha dato la possibilità di vedere questo mondo, ma ora vorrei anche lasciarlo.» Cercò lo sguardo dell'amico. «Vorremmo la-
sciarlo presto. Lo capisci, Sapientone? Siamo preoccupati per quello che sta succedendo nella Terra Nascosta.» «Stai parlando della disputa tra il nostro popolo e gli elfi», suppose Tungdil. «La faccenda non sarebbe mai dovuta arrivare a questo punto. Sarà difficile tornare a un clima di fiducia reciproca, ma vi si tornerà. La fine dello Dsôn Balsur sarà ritardata di un ciclo, niente di più. Dove mai potrebbero rifugiarsi gli albi? Sono circondati, e verranno annientati.» «E non ti prudono le mani? Non vorresti andare al fronte e aiutare gli uomini?» chiese Boëndal, stupito. «Pensa che impresa meravigliosa sarebbe, se l'eroe di Giogonero marciasse alla testa di un esercito di nani contro gli albi, rinsaldasse l'alleanza con gli elfi e riconquistasse la Lama di Fuoco...» «Non è stata colpa mia se l'abbiamo persa un'altra volta», lo interruppe Tungdil parlando animatamente, per poi bere un sorso di birra. «Ho dovuto salvare Glaïmbar, te lo sei dimenticato? Il re dei Quinti non riusciva a difendersi da un mezz'orco ferito», rise amaramente. «Chissà dov'è ora l'ascia, e che cosa ne avrà fatto quell'alba.» Lo irritava che gli si ricordasse in continuazione la perdita dell'arma prodigiosa. Boëndal l'osservò, pensieroso. «Sai che cosa sembri, Sapientone? Sembri un vecchio nano che vuole starsene a casa, seduto accanto al camino, a ricordare le battaglie dei bei vecchi tempi, mentre del presente non gli importa nulla.» Tungdil si prese un attimo per meditare la risposta. «Io penso che le cose non stiano proprio così. Ho fatto la mia parte per la salvezza della Terra Nascosta. Ora mi piacerebbe diventare un nano che si occupa delle questioni quotidiane, che se ne sta nella sua fucina o assiste gli altri con la sua erudizione.» «Come Myr? È per lei che vuoi rimanere qui? Si dice che nulla sia più appiccicoso della gonna di una nana.» Tungdil inspirò profondamente. «Non so», replicò con aria seria e afflitta. «È diversa da Balyndis, è una nana molto colta. Passiamo ore a parlare di cose che Balyndis non ha mai sentito nominare. A volte immagino di avere Myr al mio fianco per tutta la vita, eppure di notte continuo a sognare Balyndis, e allora riemerge il mio odio per Glaïmbar.» Guardò l'amico. «Il vero motivo potrebbe essere che ho paura di ucciderlo, o di ordire un intrigo, come faceva Bislipur, perché si allontanino l'una dall'altro. Questo mi dimostrerebbe che sono un Terzo, e che non posso avere la meglio sulla mia perfida natura.» Svuotò il boccale e lo posò con forza. «Qui penso di
essere ben protetto dalle mie inclinazioni peggiori. E penso che Myr sia la nana giusta per me.» Boëndal assentì, partecipe. «Ti capisco, Sapientone. Sospetto che dovrò stendere mio fratello perché non ti si aggrappi addosso.» Risero, ma non c'era allegria nelle loro voci. «Rientrerai dal tuo esilio, se la Terra Nascosta e il popolo dei nani avranno bisogno di te?» «Certo», rispose Tungdil senza esitazione. «Ma non credo che ciò accadrà. Quando partirete?» «Domani, ancora prima che sorga il sole. Abbiamo sentito di un incontro tra tutti i regnanti della Terra Nascosta. Si terrà a Porista, sotto la guida di Andôkai la Burrascosa.» Estrasse un rotolo di pergamena. «Glaïmbar ci ha fatto sapere che l'imperatore vorrebbe avere noi tre nella sua scorta.» «Sarete solo in due», disse Tungdil ribadendo la sua intenzione di rimanere dov'era. «Ma di che cosa si discuterà?» Boëndal fece spallucce. «Questo non c'è scritto. La Burrascosa ne ha fatto un segreto. Presumibilmente vuole fare la ramanzina a tutti i sovrani e ricordare loro di essere leali. Alcuni hanno dimenticato il loro giuramento un po' troppo in fretta per i miei gusti.» Gli mise una mano sulla spalla. «Allora stammi bene, Tungdil Manodoro. Che Vraccas ti benedica e che dia pace alla tua anima, in modo che tu possa riposarti in tranquillità.» I due amici si alzarono e si strinsero in un lungo abbraccio. «Ho paura di spiegare a mio fratello che tu rimani qui», confessò Boëndal. «Myr dovrà mettergli nel cibo qualcosa che lo faccia calmare.» «No, glielo dirò io», decise Tungdil. Scesero insieme le scale e trovarono il Rabbioso in cucina che seguiva con occhi famelici i preparativi per la cena fatti da Myrmianda. Sul tavolo al centro della stanza vi erano due gugul sventrati. «Li ho presi io», annunciò Boïndil, fiero, salutandoli e sollevando le braccia graffiate. «Gli ho rotto il collo con le mie mani, e intanto immaginavo di torcere il collo a dei Musi di porco. Ma non è affatto la stessa cosa.» Notò i loro volti cupi. «Che c'è? La birra si è inacidita?» «Partirete domani. Senza di me», gli disse Tungdil. «Io rimarrò qua...» Boïndil corrugò la fronte, incassò la testa e sollevò le spalle, come se stesse per lanciarsi all'attacco. «Devo stenderti e trascinarti per terra?» ringhiò. «Mi stai prendendo in giro, vero?» «No, rimango qui ad Aureorifugio. Per ora», replicò ricorrendo a una bugia, visto che il guerriero sembrava molto deciso. «Devo tenere ancora alcuni colloqui con Gemmil, per convincerlo a far partecipare i Liberi alla
spedizione contro lo Dsôn Balsur. Non posso sparire all'improvviso.» Il Rabbioso incrociò le braccia sul petto, dubbioso. «E quanto ci vorrà? Devo parlarci io?» «Assolutamente no», gli proibì Tungdil ridendo. «La tua irresistibile simpatia lo coglierebbe alla sprovvista.» «Soprattutto se portassi con te le tue asce», aggiunse Boëndal, sogghignando, e recitando anche lui la sua parte. «Lascia che sia il Sapientone a condurre le trattative. Noi dobbiamo andare a Porista.» Boïndil si avvicinò rapidamente a Tungdil e lo strinse a sé. «Abbi cura di te. E non farti aspettare troppo a lungo.» «Non lo farò.» Tungdil non sembrò molto convincente. Myrmianda guardò Boëndal, che teneva lo sguardo fisso sul tavolo. Capì subito che non stavano dicendo la verità a Boïndil. Sorrise felice, perché intuiva che avrebbe avuto Tungdil tutto per lei. «Preparerò qualcosa di speciale», promise. «Dovrete avere qualcosa che vi sostenga le gambe, così arriverete in fretta a casa.» Indossò un grembiule. «Forse Gemmil vi permetterà di utilizzare i nostri tunnel; risparmiereste parecchio tempo. Glielo chiederò.» Boïndil prese un gugul per la coda e lo mise nel grosso paiolo in cui ribolliva un brodo chiaro. «Ma prima pensiamo a mangiare.» II Terra Nascosta, da qualche parte sotto il regno di Gauragar, Aureorifugio, 6234° ciclo solare, autunno Quando, il giorno dopo, Tungdil si alzò, i letti dei suoi amici erano vuoti. Erano partiti senza svegliarlo. Myr lo salutò con un'eccellente colazione. C'erano frittelle con sciroppo di bacche di muschio, gugul caldo e vari tipi di carne affumicata. Il tutto ravvivò il fuoco della fucina vitale del nano. «Non sono partiti da molto», gli raccontò lei. «Hanno fatto un'abbondante colazione, hanno raccolto delle provviste per il viaggio e si sono messi in cammino.» La pallida nana gli si sedette accanto e lo guardò mentre mangiava. «Non li raggiungerai, vero?» Non poteva continuare a tenersi in serbo la domanda che le ardeva nel cuore. «Lo avete fatto credere a Boïndil perché ti lasciasse rimanere.» «Sì, Myr. Resto qui.» Guardò nei suoi rossi occhi pieni di mistero. «E,
se posso, abiterei volentieri a casa tua.» «Il tuo cuore ha preso una decisione?» osò chiedergli la nana. «Posso prendermi cura di lui, come ti ho promesso?» Tungdil guardò ammirato il suo volto, la delicata peluria argentata e la bocca a cuore. Negli occhi della nana lesse l'invito a baciarla. «Deciderà presto», rispose elusivo, stupendosi di se stesso. Si alzò. La sua inquietudine interiore lo costringeva a muoversi. «Andrò di nuovo a vedere i giardini. I canali mi ricordano qualcosa.» Decisamente troppo in fretta, la baciò su una guancia, si avvicinò alla porta e uscì. Idiota! si disse mentre camminava. Un nano che appartenesse a un clan non avrebbe avuto quei problemi, avrebbe fatto ciò che gli diceva il capoclan e avrebbe costretto il suo cuore ad amare chi gli fosse stata assegnata come compagna. O forse Balyndis soffre come me? Prese la strada che conduceva alle cascate, che vedeva già da lontano. Si riversavano scrosciando nel bacino, circondate da cortine di spuma che si abbassavano vicino alle pareti di roccia. Nei pressi della chiusa che regolava l'accesso dell'acqua ai canali incontrò Sanda Ardentecoraggio, sposa di Gemmil e condottiera dei Liberi. Parlava con le sentinelle che controllavano il passaggio e operavano sulle viti di regolazione. L'imponente nana aveva impartito i suoi ordini e stava per andarsene, quando notò Tungdil. Alzò la mano in segno di saluto e gli si avvicinò. I terribili tatuaggi che portava sul volto rendevano chiaro, al di là di ogni dubbio, che un tempo Sanda era stata nel novero dei più feroci nemici dei nani; neanche i lunghi capelli biondo scuro, che portava sciolti, riuscivano a nascondere le rune. «Che Vraccas custodisca e protegga la scintilla della tua fucina vitale», lo salutò. Benché avesse dovuto risalire il pendio, non aveva il fiato corto, nonostante il farsetto di cuoio e la cotta di maglia rinforzata con piastre d'acciaio. Sulle gambe portava una specie di gonna corazzata che le arrivava fino alle caviglie. «Che sia anche con te», replicò lui. «Stai andando in guerra? Pensavo che tra i Liberi non fosse necessario portare armature.» La nana sorrise, cosa che non la fece affatto sembrare amichevole. «Sono una guerriera, è una mia abitudine, come lo è per i tuoi amici. E neppure qua è tutto cosi pacifico come forse ti ha fatto credere la piccola Myr. Di tanto in tanto spuntano troll delle rocce e bogglin, che finiscono per sbaglio nei nostri tunnel.» Posò la mano sul manico dell'ascia. «Io e la mia
gente li fermiamo prima che arrivino in città.» Tungdil notò che la peluria bionda che copriva il suo volto si tingeva qua e là d'argento; ragion per cui non poteva essere giovanissima. «Ho sentito che non sei qui da molto, vero?» «Un po' più di due cicli, sì. Non è un segreto.» Prese a sussurrare. «Non sai bene come ti devi comportare con me, non è vero? Apparteniamo entrambi alla stirpe di Lorimbur, ma nonostante ciò abbiamo deciso di non uccidere nessun figlio del Fabbro.» «Io non l'ho fatto fin dal principio.» «E io l'ho fatto fin da principio contro la mia volontà», ammise lei apertamente. «Uccidevo perché era considerato ovvio che lo facessi, e perché non si poteva nemmeno sospettare che ci si potesse comportare diversamente. Ma ogni volta la mia anima e il mio cuore si ribellavano sempre più.» Si sedette sullo spesso tappeto di muschio che copriva il volto della città; Tungdil prese posto accanto a lei. «Allora dovetti decidere se continuare la mia opera o se smettere.» «E hai scelto l'esilio.» «No. Ho scelto la morte», lo corresse lei. «I nani della mia stirpe mi ucciderebbero all'istante, se finissi in mano loro. Un tempo ero tra i guerrieri migliori e più rispettati dei Terzi, come dimostrano i miei tatuaggi. Ora sono tra quelli che perseguitano con maggiore odio.» Guardò in direzione della fortezza. «Quella è la mia casa. Ho trovato un nano che mi ha sposata e al quale non importa niente di quello che ho fatto in passato. Sto ricominciando da capo, ma è un inizio molto difficile.» Si voltò verso di lui. «E tu? Chi erano i tuoi genitori?» Tungdil scosse la testa. «Non lo so. Ero troppo piccolo, non ricordo nulla. Lot-Ionan, il mio padre adottivo, mi raccontò di avermi comprato da dei coboldi. Che io sia un Terzo l'ho appreso con sicurezza solo quando ho distrutto Nôd'onn con la Lama di Fuoco.» La nana lo fissò. Improvvisamente era divenuta molto attenta. «Quanti cicli hai, Tungdil?» «Non so dirlo con precisione, ma dovrebbero essere un po' più di sessanta. Perché?» Sanda lo esaminò meglio. «Mi stavo arrovellando per capire perché avessi un volto tanto familiare. Le assomigli molto.» Tornò a guardare davanti a sé, verso i tetti di Aureorifugio. «Sessanta cicli fa è successo qualcosa che mi ha fatto abbandonare il mio clan e la mia stirpe. Sarebbe una combinazione inimmaginabile, se...» Tacque. «Vraccas lo ha predisposto»,
sussurrò grata, con gli occhi scuri puntati verso la statua del dio. «Quindi la mia decisione ha salvato la Terra Nascosta. Questo mi ricompensa per tutto ciò che ho dovuto sopportare.» Tungdil le prese una spalla. «Di che cosa stai parlando, Sanda? Sai chi sono i miei genitori?» chiese col cuore che batteva forte. Lei pose una mano sulla sua e lo guardò con benevolenza. «Io conoscevo tuo padre, Tungdil, e conoscevo tua madre. Lui si chiamava Lotrobur, il nome di lei era Yrdiss, e ti chiamarono Calúngor. Il loro amore nacque sotto una cattiva stella, perché erano stati promessi ad altri, ma la loro passione non si lasciò piegare, e fosti partorito da Yrdiss. Tuo padre voleva metterti al sicuro, perché temeva la collera del promesso sposo e del tutore della sua amata.» Fece un profondo respiro. «Lo inseguii. Dovevo ucciderlo insieme col bambino.» «Tu lo hai...» «No. Lo trovai, ci battemmo e io ebbi la meglio.» I suoi occhi assunsero un'espressione assente, guardavano nel passato. La nana sembrò rivivere tutto un'altra volta. «Brandii questa ascia», disse dando una pacca contro il piatto dell'arma. «E stavo per spaccargli la testa, quando ti sentii gridare. Era una vocina lamentosa, ma sentii la forza venirmi meno dalle braccia. Guardai il volto di tuo padre e capii che non volevo più uccidere nani, anzi che non avevo mai voluto farlo.» Abbassò la testa, accarezzando l'arma. «Allora lo aiutai ad alzarsi e lo lasciai andare.» Tungdil pendeva dalle sue labbra, ansioso di sapere che cosa fosse accaduto in seguito. «Quando tornai indietro e dissi di non essere riuscita a trovare Lotrobur, mi mostrarono il cadavere di tua madre e la testa di tuo padre. Non ero l'unica sulle sue tracce. Lo zio e tutore di Yrdiss li aveva uccisi entrambi, e avevano gettato te in un burrone, o almeno così dissero. Vraccas non ha potuto aiutare i tuoi genitori, ma ti ha preservato dalla morte affinché potessi compiere grandi imprese. Ha guidato il tuo destino e ha fatto in modo che finissi a casa del mago.» Sanda gli sorrise, commossa. «E ora che sono passati più di sessanta cicli, io siedo qui accanto a te.» Tungdil deglutì a fatica. «Come si chiamava lo zio di mia madre?» «Salfalur Frangiscudo, braccio destro di re Lorimbas», rivelò lei. «Ed è ancora vivo. Tuo padre era il suo guerriero di fiducia e il suo miglior amico, fu così che poté conoscere tua madre. Sono sicura che, alla morte di Salfalur, tuo padre ne avrebbe preso il posto come Mastro di guerra. Lotrobur era considerato il nostro miglior guerriero. Dopo Salfalur.»
«E che ne è stato di te?» «Me ne andai via e combattei nell'Idoslân come mercenaria. Poi un Libero mi raccontò che esisteva una comunità di nani che accoglieva chi era stato rinnegato dalla sua stirpe. Fu così che giunsi ad Aureorifugio. Nessun nano riesce a vivere a lungo senza una famiglia.» Tungdil le afferrò la mano e la strinse. «Sanda, io ti ringrazio. Finalmente so qualcosa dei miei genitori. Vorrei tanto avergli portato qualcosa di diverso dalla morte...» «E io avrei voluto raccontarti che ti aspettano pieni d'amore e che vorrebbero tanto stringere tra le braccia il loro famoso figliolo», ribatté lei con franchezza. «Purtroppo non è così. Non sei stato tu a causare la loro morte, ma un matrimonio combinato che era intollerabile per entrambi. Questo è un altro motivo per cui è meglio vivere tra i Liberi.» Tungdil si alzò. «Vorresti bere con me alla memoria dei miei genitori?» «Certo. Per me sarà un onore», disse la moglie del re dei Liberi. Raggiunsero insieme la prima taverna e vuotarono i boccali in onore di Yrdiss e Lotrobur. Mentre bevevano, Sanda si appassionò e li encomiò ininterrottamente. Pur non avendo ricordi di suo padre e di sua madre, in Tungdil crebbe il desiderio di vendicare la loro morte. L'odio che prima aveva avvertito verso Glaïmbar da allora s'indirizzò verso Salfalur. Incoraggiato dall'effetto dell'alcol, il nano ottenne da Sanda la promessa di perfezionarlo nel combattimento con l'ascia. Diventerò il più grande guerriero dei Terzi e ucciderò Salfalur. Te lo giuro, Vraccas. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, tardo autunno La città della maga si mostrò ai visitatori di alto rango in tutto il suo rinnovato splendore. Sotto la guida di Rodario, gli edifici distrutti erano ricresciuti in altezza, le rovine avevano ceduto il passo a magnifiche case e facevano già presagire come presto sarebbe sembrata la città. Le delegazioni arrivarono l'una dopo l'altra, e Porista sembrò presto un accampamento. Ovunque sventolavano bandiere e stendardi, marcando i territori provvisoriamente occupati dai rappresentanti dei regni. Nessuno si meravigliò che gli stendardi di Liútasil sventolassero sulle case dall'altro
capo della città rispetto a quello in cui si era accampato l'imperatore Gandogar. Gli abitanti di Porista era lieti di quegli ospiti. Da quand'era iniziata la ricostruzione della città, commercianti e osti non avevano mai avuto incassi così abbondanti, e le strade e i vicoli erano affollati da uomini, elfi e nani. Ma la tensione era palpabile. Si temeva che potesse verificarsi un episodio simile a quello accaduto nello Dsôn Balsur, ed elfi e nani erano pronti a saltarsi alla gola al minimo pretesto. Ciò avrebbe fatto finire il consiglio nel caos, e tutti speravano che la presenza di Andôkai riportasse gli animi a miti consigli, se non altro per timore della sua magia. Quando venne il momento dell'incontro vero e proprio, le regine e i re della Terra Nascosta si riunirono nella grande sala consiliare in cui un tempo si consultavano i maghi e le maghe. La stanza era stata restaurata e nulla faceva sospettare che lì dentro quattro grandi maghi avevano perso la vita contro Nuditi. Le macerie erano state sgomberate e, grazie all'opera di innumerevoli artigiani, l'antica magnificenza era tornata nella sala sormontata da una cupola. La statua di Lot-Ionan si trovava nell'angolo est, e dominava con lo sguardo l'intera sala. Vestita in un abito ricamato rosso scuro, che si abbinava perfettamente col colore dei suoi occhi e col fazzoletto che portava sul capo, Narmora stava sotto uno dei portici di marmo bianco e accoglieva i sovrani in nome della sua mentore. Andôkai sarebbe entrata per ultima, a simboleggiare la sua autorità e per ricordare ai suoi ospiti che vi era una donna che si trovava al di sopra di loro. «Guardate come l'hanno ripulita per bene», disse la potente voce di Boïndil, che risuonò dietro la moltitudine di dignitari della regina Wey. «E giusto per noi, fratello mio.» I dignitari di Wey lasciarono spazio ai nani, che si stavano avvicinando. Narmora riconobbe l'imperatore Gandogar, che era affiancato dai due gemelli. Dietro di loro seguivano le delegazioni delle quattro stirpi alleate. La mezz'alba salutò per primo Gandogar, poi strinse cordialmente le forti mani dei gemelli. «Mi sogni ancora?» chiese irriverente, ammiccando a Boëndal. Il nano fece una smorfia. «No, che Vraccas mi protegga dai sogni degli albi», rispose distogliendo gli occhi. «Sembri invecchiata, Narmora. Ho sempre pensato che la magia allungasse la vita di chi la pratica.»
«Sono accadute molte cose», replicò lei restando sul vago, poiché non aveva intenzione di mettere in mostra la sua sofferenza di fronte ai sovrani riuniti della Terra Nascosta. «Potremmo parlare un po' tra noi, dopo la riunione.» Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere un volto tra i molti presenti. Fece un cenno a Balyndis, che si trovava accanto a un nano dall'aspetto imponente, ma che le era sconosciuto. «Dov'è Tungdil?» «È dai...» iniziò a dire il Rabbioso, senza pensarci su. Ma Boëndal lo interruppe schiarendosi la gola. «... dagli altri, sui Monti Grigi. Non poteva venire. Questioni di sorveglianza, capisci?» A suo modo di vedere, non era opportuno parlare del segreto dei Liberi davanti a così tante persone. Non riguardava nessuno, a parte i nani. Narmora annuì. Sapeva che stavano mentendo, e uno sguardo al viso imbarazzato di Gandogar gliene diede la certezza. «E non chiedere di lui a Balyndis», le consigliò Boïndil. «Non stanno più insieme. Il nano vicino a lei è il suo compagno, hanno stretto da poco il patto di ferro. Quindi è meglio se non le dici niente.» Il destino non ha riservato dispiaceri solo a me. «Mi atterrò al tuo consiglio», annuì sorridendo. «Ora entrate, vi prego. I vostri posti sono accanto all'ingresso. Lontani quanto basta da quelli degli elfi», aggiunse indicando lo spazio alle sue spalle. Li seguì e chiuse il portale. Poi attraversò la sala, in cui erano stati disposti a semicerchio tavoli e sedie, e si sedette nel penultimo posto libero. La poltrona a forma di trono spettava alla sua odiata maestra. Narmora osservò Liútasil. Il sovrano degli elfi dell'Âlandur stava parlando a bassa voce con due membri della sua delegazione; nelle brevi pause guardava con ostilità i nani seduti dall'altra parte della sala, per poi riprendere subito la sua conversazione. Che cos'hanno in mente? si chiese la mezz'alba, cercando di scoprire i loro pensieri. Fissò le loro bocche. Improvvisamente sentì le loro voci come se si trovassero accanto a lei, ma non le fu d'aiuto. Anche se poteva ricorrere ai suoi poteri magici per sentire che cosa dicevano, non conosceva la lingua degli elfi, che era completamente diversa da quella di sua madre. Il portale fu spalancato da una potente folata di vento. Le teste si voltarono bruscamente. I nani misero mano alle armi, cosa che spinse gli elfi a fare altrettanto. Sulla soglia c'era Andôkai, avvolta in una veste rossa come quella di Narmora ma dal taglio e con ricami molto più raffinati. Al fianco sinistro
portava la spada inguainata. Il suo sguardo vagò con orgoglio sulle personalità che aveva riunito. «Benvenuti a Porista, reggenti e sovrani della Terra Nascosta», salutò. «Benvenuti nel mio palazzo, elfi, nani e uomini.» Attraversò la sala e prese posto nella sua poltrona rialzata, mentre i battenti delle porte si richiudevano da soli. «Ho delle novità. E non sono novità di cui gli abitanti della Terra Nascosta possano rallegrarsi.» Lasciò che le sue parole avessero effetto, poi riprese a parlare. «Nella Terra dell'Aldilà ci sono dieci esseri che discendono da Tion; fu Vraccas a separarli dal corpo di Tion, colpendolo con un martello incandescente in seguito a una contesa. E ora questi esseri mirano a distruggere tutto ciò che Tion ha creato. Questo potrebbe non sembrarvi nulla di male. Ma essi possiedono poteri da semidei e ardono la terra su cui si trovano, e non avranno pace fino a che non avranno annientato il male, senza avere nessun riguardo verso le altre creature. Li segue un esercito che, esattamente come loro, non va affatto per il sottile.» Le regine e i re ascoltavano la storia degli avatar di Tion con terrore crescente. «Vi ricordate la cometa che ha attraversato il cielo e che in alcune regioni ha causato tanti danni?» Lo sguardo di Andôkai vagò sui volti dei presenti. «Non era una cometa. Era l'undicesimo di loro, che ha ritrovato i suoi fratelli dopo un lungo viaggio. La sua fiammeggiante figura li ha raggiunti, e sembra che insieme stiano preparando l'assalto alla Terra Nascosta», disse concludendo il suo resoconto. «Solo le creature più pure, nobili nel cuore e nell'animo, potrebbero resistere loro e sarebbero nella condizione di batterli. Che cosa proponete di fare?» La regina Wey, una donna di circa cinquanta cicli vestita con un lungo abito blu tempestato di diamanti, prese la parola. «Se questa leggenda è vera, abbiamo bisogno di un grande esercito, di sicuro un esercito più grande di quello che abbiamo inviato nello Dsôn Balsur.» Fece un cenno di capo verso la maga. «E avremo bisogno di voi.» «I miei servigi e quelli della mia allieva saranno a vostra disposizione, ma temo che possano non essere sufficienti. Voi avete giustamente parlato di un esercito...» «Un esercito di innocenti!» sbottò re Nate del Tabaîn, avvolto nelle sue pellicce. I suoi capelli radi erano biondi come le spighe di un campo di grano, i suoi occhi verdi come le foglie di ninfea. «Avete detto che possono essere battuti dalle creature più pure. Raccogliamo le vergini e gli uomini che non si sono ancora dati ai piaceri della carne e addestriamoli come guerrieri.»
«Prendete anche i bambini», farfugliò re Belletain giocando con la sua coppa di vino. Accanto a lui sedeva un nano che non gli toglieva mai gli occhi di dosso, pronto ad assisterlo in caso lo cogliesse una crisi improvvisa. «Metteteli nelle catapulte e lanciateli tra le file degli avatar, così la loro castità li annienterà.» «Ma degli uomini che abbiano imparato il mestiere delle armi si possono ancora considerare innocenti?» ribatté la regina Umilante, che portava numerosi strati di vestiti eppure ancora tremava di freddo. Il suo regno desertico offriva temperature assai più alte di quelle di Porista. «Li si potrebbe anche legare per lungo, appuntirgli il cranio e metterli nelle balliste. Così potremmo perforare gli avatar.» Belletain imitò il rumore di un proiettile in volo, puntò il calice con l'indice e lo colpì. «Fffft... Così.» Il contenitore si rovesciò. «Vedete? Funzionerebbe.» Nessuno prestò attenzione alla proposta del folle successore di re Lotario. Il principe Mallen si rivolse a re Nate. «Per il momento la vostra proposta mi sembra assennata.» Guardò verso Liútasil. «O forse voi potete dirci qualcosa al riguardo? Il vostro popolo si è mai confrontato con avversari come questi?» Prima che il sovrano dai capelli rossi potesse rispondere, l'elfo seduto alla sua destra indicò pieno di odio la delegazione dei nani. «Quelli sono i nostri avversari: Cavernicoli traditori! Hanno assassinato la nostra gente a tradimento e ora sperano che, in questo caos, i loro crimini passino inosservati.» Boïndil saltò in piedi. «Ritira quello che hai detto, Orecchi appuntiti, o ti giuro che...» «Calmati, Boïndil», ingiunse Gandogar, mentre Boëndal e Balyndis cercavano di rimettere seduto il Rabbioso. «Che cosa giuri?» lo schernì l'elfo, alzandosi anche lui. Si appoggiò al tavolo, piegandosi in avanti. «Che mi ucciderai? Oseresti forse un attacco a viso aperto? Il tuo popolo non ha il coraggio per cose del genere. Quanti di noi avete già assassinato nelle ultime rotazioni, dando agli albi la colpa della loro morte?» Andôkai si alzò, con gli occhi scintillanti di rabbia. «Seduti!» gridò. I due obbedirono all'istante; nessuno voleva attirare la sua collera, specie se nella forma di un doloroso incantesimo. «Prima parleremo di questioni più importanti. Poi, per quanto mi riguarda, potremo discutere della faida tra i vostri popoli.»
La sua voce echeggiava ancora nell'immensa sala, quando qualcuno bussò al portale. A un cenno della sua mentore, Narmora si affrettò all'ingresso e aprì un battente. Si trovò di fronte Rodario, in compagnia di un nano palesemente sfinito che emanava un pungente odore di sudore, sul cui farsetto di cuoio si erano formate bianche macchie di sale. «Ciao, mia ombrosa bellezza. Guarda qui, alla porta ho trovato questo nano e i suoi buffi compari», disse l'attore col suo inimitabile modo di parlare. «Sono Beldobin Forteincudine, del clan dei Chiodidiferro, della stirpe del Primo. Mi manda il plenipotenziario della regina Xamtys, Gufgar Forteincudine del clan dei Chiodidiferro», si presentò il nano, facendo un cenno alle sue spalle. «Questo Lungo mi ha fatto entrare, dopo che ha visto chi stiamo portando.» Narmora guardò dietro Beldobin e vide venti nani che reggevano un feretro. Sulla pericolante costruzione fatta di traverse, scudi e piccole ruote giaceva Djerun. Sulla sua visiera e in altri punti dell'armatura vi erano incrostazioni di un liquido giallastro, ormai seccato. Nella sinistra, il guerriero stringeva la sua spada spezzata in due, coperta di sangue di mezz'orco; nella destra, una mazza su cui erano rimasti attaccati brandelli di pelle e capelli. I nani non erano riusciti ad aprirgli le mani e a fargli mollare la presa sulle armi. «Non sappiamo che cosa abbia. Lo abbiamo raccolto davanti alla Guardiadiferro occidentale. Non sapevamo come aiutarlo e quindi abbiamo pensato che la cosa migliore fosse riportarlo dalla sua signora.» «Avete fatto bene. Entrate», decise Narmora aprendo la porta, poi si affrettò verso il centro della sala. «Venerabile maga, guardate chi ci stanno portando i nostri amici.» I nani si fecero avanti col feretro e si fermarono accanto alla mezz'alba. Poi salutarono Gandogar e Xamtys e si ritirarono verso l'ingresso. Avevano adempiuto al loro difficile ed estenuante incarico. «Djerun!» esclamò Andôkai. Appoggiò la spada sul tavolo e lasciò di corsa il suo posto. «No!» gridò Balyndis, allarmata, saltando in piedi e afferrando l'ascia. «Attenta, non è Djerun!» Andôkai si fermò a un passo dal suo fedelissimo e guardò la nana con aria stupita. Il gigante si riscosse dalla sua immobilità, e con un solo movimento con-
ficcò il moncone di spada nel ventre della maga. Saltò fuori dal feretro, estrasse un'altra spada e vibrò un colpo verso Narmora, che con un balzo si salvò finendo in mezzo alla delegazione del Tabaîn. Tutti i presenti sentirono il brontolio terrificante e videro il bagliore violetto che provenivano da dietro la visiera dell'elmo. «Djerun...» gemette la maga sgomenta, mentre fissava la lama infilata nel suo corpo. Fece un passo indietro, estrasse l'arma dal corpo e cercò a tentoni la sua spada. Recitando un incantesimo per guarire la ferita, si preparò a fronteggiare un nuovo attacco. Che non si fece attendere. Djerun era posseduto dal desiderio di uccidere la maga. Colpiva alternativamente con la spada e con la mazza, e Andôkai dovette confrontarsi per la prima volta con l'immensa forza e l'incredibile velocità della sua guardia del corpo. Non si trattava di un'esercitazione, e il colosso era più impetuoso che mai. L'emorragia si era appena fermata, quando la mazza colpì Andôkai sulla spalla destra. Articolazione e clavicola si ruppero con un forte schianto; l'impeto del colpo la schiacciò sulle ginocchia e l'incantesimo che stava preparando si tramutò in un grido di dolore. Emise un debole gemito mentre Djerun le piantava una seconda volta la spada nel ventre e la ruotava di mezzo giro. L'elmo del gigante si abbatté sulla testa della donna, finendola. Le spine di ferro le strapparono brandelli di cuoio capelluto, il sangue le coprì gli occhi, e la donna perse i sensi. L'assemblea si riscosse dal terrore. Davanti a tutti si lanciò all'attacco il Rabbioso. I guerrieri di nani, uomini ed elfi si gettarono contro Djerun. Frecce ne perforavano l'armatura, mentre le asce e i martelli dei nani facevano saltare le spesse piastre di metallo e gli mordevano la carne attraverso la cotta di maglia da cui sgorgava sangue giallo. Alla fine il colosso cadde a terra. Il bagliore dietro la visiera si spense. Con lui trovarono la morte nove uomini, tre nani e quattro elfi. La regina Wey era sfuggita a stento a un colpo mortale, e gli spessi vestiti avevano risparmiato a Umilante una ferita da taglio. Boïndil si accanì su Djerun finché non gli ebbe fatto a pezzi l'elmo e non fu sicuro che il guerriero fosse morto. «Questo sì che era uno duro», mormorò ansimando, mentre si passava le maniche sul volto coperto di liquido color zafferano. «Maledetto furore guerriero! Adesso non saprò mai che faccia aveva.» Narmora s'inginocchiò accanto alla sua mentore, che era gravemente fe-
rita. Alle persone intorno a loro dava l'impressione di fare tutto il possibile per salvare Andôkai, ma in realtà aveva deciso diversamente. Era un'occasione unica, e doveva sfruttarla. «Potrei guarirti, se volessi», le sussurrò. «Ma io so che cos'hai fatto a me, a Furgas e a mio figlio. Conosco i tuoi intrighi, Andôkai. E mi piace vederti soffrire.» La maga tossì; lo sguardo le tremava. «Furgas non si risveglierà mai senza il mio aiuto...» Afferrò Narmora per il bavero. «Lasciami morire, e lui morirà per colpa tua.» Narmora non fece nessun tentativo di scuotersi di dosso le mani tremanti della maga, ma tirò fuori la spigolosa e tagliente scheggia di malachite che portava sul petto. «Te la ricordi?» chiese mentre i suoi occhi diventavano neri come la notte. «Può immagazzinare il potere dei maghi. Nôd'onn la portava al collo. Quando Tungdil ha distrutto il mago e le sue viscere si sono sparse sul pavimento di Giogonero, nessuno ha visto questa pietra. Io l'ho presa e ne ho fatto il mio pendaglio. Chi avrebbe mai detto che potesse diventare qualcosa di più?» Sciolse la pietra dalla catenina. «Samusin, aiutala! Sta morendo!» gridò forte, in modo che tutti la sentissero. Sollevò le mani e le appoggiò lentamente sul petto di Andôkai. Finse di pronunciare un incantesimo di guarigione, mentre di nascosto spingeva la scheggia lunga un dito attraverso i vestiti e la carne della maga, sempre più profondamente, finché non ne raggiunse il cuore. Sulla moribonda si diffuse una luce verde. Narmora pronunciò parole confuse, per far credere agli altri che si trattasse di un suo incantesimo, poi il bagliore si spense. La fine si avvicinava. Si chinò sull'orecchio della sua mentore. «La tua morte si chiama Narmora», le sussurrò nella cupa lingua degli albi. «Io ti sottraggo la vita e la magia.» Sollevò leggermente la testa della maga, per guardarla negli occhi mentre moriva. «Sarebbero ancora tue, se mi avessi permesso di vivere in pace.» Andôkai non riuscì a emettere altro che un gemito di ribellione, poi la vita abbandonò i suoi occhi. Coprendo il gesto col vestito, Narmora estrasse la malachite dalla ferita. Il fatto che avesse le mani coperte di sangue sembrava dipendere dalle gravi ferite della sua maestra e della pozza di sangue in cui era inginocchiata. Fece scomparire la pietra in una tasca e si rivolse alle persone che la circondavano. «Andôkai la Burrascosa non è più», annunciò simulando dolore. Si terse una falsa lacrima dalla guancia. «L'ultima maga della Terra
Nascosta è morta.» Un silenzio terrorizzato scese sulla sala. «Allora dovrai sostituirla tu», disse Gandogar, mettendosi al suo fianco. «Eri la sua unica apprendista. Abbiamo bisogno di averti al nostro fianco nella lotta contro gli avatar, perché soltanto con la tua magia potremo sperare di farcela.» «Voi non potrete affatto sperare di farcela», risuonò una voce profonda accanto all'entrata. «Né con la magia né con un esercito. Non troverete mai un modo per fermare gli avatar.» Nani, uomini ed elfi si volsero verso l'ingresso, con le armi levate e pronti a fronteggiare un'altra sgradita sorpresa. Sulla soglia c'era un singolo nano, armato di tutto punto. Sul suo volto erano tracciati elaborati tatuaggi. «Il mio nome è Romo Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, della stirpe di Lorimbur, e sono venuto per sottoporre a uomini ed elfi un'offerta da parte di mio zio, re Lorimbas Cuordacciaio, signore dei Monti Neri.» Un secondo nano, ancora più grosso e impressionante di Romo, comparve alle sue spalle, come a proteggere il primo; la luce si rifletteva sul suo cranio calvo. «I Terzi prenderanno parte alla guerra contro gli avatar?» chiese stupita la regina Wey. «Di che offerta si tratterà?» sussurrò Balyndis, piena di brutti presentimenti. «Non riuscirete mai a respingerli da soli.» Romo fece un disgustoso sogghigno. «Mio zio sa che cosa si può fare contro la minaccia che viene da occidente.» Col manico del mazzafrusto indicò la delegazione dei nani. «Ma prima, quelli devono andarsene. Nessun membro delle stirpi di Borengar, Giselbart, Goïmdil o Beroïn sentirà quello che ho da dire.» Terra Nascosta, da qualche parte sotto il regno di Gauragar, Aureorifugio, 6234° ciclo solare, tardo autunno Sanda si abbassò, evitando il colpo, poggiò a terra il ginocchio destro e colpì con l'ascia smussata, sfruttando l'oscillazione dello stesso movimento. Tungdil non ebbe possibilità di sfuggire al colpo inferto dalla guerriera, che era potente e preciso al tempo stesso. La lama smussata lo colpì di
traverso, e né la cotta di maglia né il farsetto di cuoio né l'abito imbottito riuscirono a frenarlo. Sentì una fitta alle costole e gli mancò l'aria. «Ferma», gridò Myrmianda, preoccupata, affrettandosi a esaminare la parte colpita. Aveva sentito chiaramente il rumore di ossa rotte. «Lo dovresti addestrare, non ammazzare», disse piena di biasimo alla nana, che si rimise in piedi senza mostrarsi pentita per ciò che aveva fatto. «Gli ho solo incrinato qualche costola. Il dolore è il miglior maestro», replicò Sanda con freddezza. Non faceva mistero di non sopportare la chirurga. «Sopravvivrà di certo, e avrà imparato qualcosa d'importante.» Guardò Tungdil negli occhi, aspettando una conferma. «In effetti, sono stato imprudente», ammise il nano. Strinse i denti mentre Myr tastava la contusione. «Sono rotte, non incrinate», rimbrottò la chirurga. «Quando tendi i muscoli, Sanda, il tuo cervello se ne va. Anche un'arma smussata può uccidere.» I tatuaggi sul volto della regina dei Liberi si misero in movimento, la collera impresse loro un'altra configurazione. La guerriera agitò l'ascia in modo giocoso e minaccioso al tempo stesso. «Ma davvero, Myr? Per fortuna me lo hai detto prima che la usassi per accarezzarti il bianco e sottile collo. E che te lo spezzassi per sbaglio.» Sbuffando di rabbia, Sanda lasciò la stanza della fortezza in cui ogni mattina si dava appuntamento con Tungdil per prepararlo al duello con Salfalur. «Mi sono sempre ritenuto un buon guerriero, e anche il Rabbioso mi ha sempre elogiato», si lamentò il nano lasciandosi cadere sulla panca di pietra. «Ma Sanda è molto più forte di me. A ben pensarci, potrebbe battere anche il Rabbioso.» «Hai tempo per surclassarla», lo incoraggiò Myr mentre gli spostava le mani per esaminare meglio la ferita. Lui l'avrebbe baciata già solo per quelle parole, che gli parvero sagge e intime allo stesso tempo. «Non dimenticare che è tre volte più vecchia di te e che ha un'esperienza con cui tu non puoi ancora competere.» Fece schioccare la lingua: aveva scoperto un travaso di sangue nella cassa toracica. «La lezione è finita», decise. «Ti devi coricare. Porterò del ghiaccio per raffreddare il gonfiore, poi ti metterò una pomata.» Il nano si alzò; il movimento gli procurò dolori che certo non gli erano sconosciuti, ma che rimanevano pur sempre spiacevoli. Lasciarono la fortezza e scesero per il sentiero serpeggiante, che offriva una bella veduta sulla città.
Tungdil ripensò alle parole aspre che le due nane si erano scambiate. «Com'è che non vi potete soffrire?» chiese: «Sanda è davvero una nemica dei nani?» «No. È soltanto una reciproca avversione», rispose Myr sorridendo. «Non è un privilegio dei Terzi provare antipatia per altri nani.» «Ma perché non vi sopportate?» Myr gli indirizzò uno sguardo malizioso, sbattendo le ciglia. «Tu che dici? Perché mai due nane dovrebbero arrivare a detestarsi?» Tungdil sorrise. «Un nano? Vi siete innamorate entrambe dello stesso nano?» Levò lo sguardo verso la fortezza. «Non dirmi che correvate entrambe appresso a Gemmil!» La chirurga parve imbarazzata, e puntò il bel viso verso le cascate. «Io vengo da Tesordigemme, la città a sud di questa, e l'ho conosciuto non appena giunta qui. Proprio mentre i nostri cuori iniziavano a provare qualcosa l'uno per l'altra, Sanda arrivò tra i Liberi e sedusse il re col suo fascino deciso. Allora le dissi ciò che pensavo di lei, e che la ritenevo una larva disgustosa che ci spia per conto dei Terzi. Lei continuò per la sua strada. Da allora sappiamo che cosa pensiamo l'una dell'altra.» «Tu pensi che stia spiando la città?» «Sì. I Terzi vogliono uccidere tutti i nani, perché dovrebbero fermare la propria mano di fronte ai Liberi? Non ci risparmieranno solo perché le nostre famiglie più antiche sono bianche come la neve. Io credo che ci abbiano scoperto e che vogliano saperne di più sul nostro conto.» «E che cosa ne pensa Gemmil? Glielo avrai raccontato di sicuro.» «Certo che l'ho fatto.» «E dunque?» «Si è messo a ridere. Il suo amore lo acceca, ma io e qualche mio amico stiamo attenti a quello che Sanda fa. Quella nana non può fare nulla senza essere osservata.» «E per questo tiene a freno il suo odio.» «No. Non sospetta di nulla. Teme che io non abbia rinunciato a Gemmil e che stia solo simulando il mio affetto per te, per farle abbassare la guardia e portarglielo via.» Si volse verso il nano, e i suoi occhi rossi sembrarono guardare dritto nei suoi pensieri. «Ma io non sto simulando, Tungdil Manodoro. Ho intenzioni molto serie, con te.» Benché la mente di Tungdil non lo volesse, un'altra forza prese il sopravvento e lo costrinse a sporgere la testa in avanti e a sfiorare le labbra della nana con le sue. Erano dolci, morbide e allettanti, sapevano di erbe e
miele. Sentì un formicolio nella pancia ed ebbe quasi le vertigini. Dopo una breve esitazione, Myr rispose al suo tenero gesto, prima che lui si staccasse da lei. Si sorrisero felici e ripresero a camminare lentamente lungo le strade della città. Ho trovato una nuova compagna? Tungdil guardò Myr comprare un paio di cose per preparare la cena. Ho davvero superato la storia con Balyndis? La chirurga si voltò verso di lui, ridente, e gli mostrò un cestino pieno di frutta. Il suo sguardo gli fece tornare il formicolio alla pancia che un tempo aveva provato stando accanto a Balyndis. Sì, ho trovato una nuova compagna, pensò sollevato, cingendola con un braccio mentre tornavano a casa. Si riposarono un poco e fecero un buon pasto. Poi Myr applicò sulla contusione di Tungdil della pomata, che in effetti calmò il dolore. Quindi la nana lo prese per mano e lo condusse di nuovo per le strade di Aureorifugio, fino a che non arrivarono ai margini della caverna, e ancora lungo un tunnel in cui affluiva un numero sempre crescente di nani. Per quanto Tungdil insistesse, Myr si rifiutò di spiegargli che cosa li attendesse. Continuarono a camminare lungo il passaggio scavato magistralmente nella roccia, e si avvicinarono a una luce blu. Tungdil sentì il mormorio delle conversazioni di innumerevoli nani. La galleria terminò in una caverna artificiale. Si trovavano nel punto più alto, davanti a loro il pavimento scendeva formando dei terrazzamenti. I costruttori avevano disposto un gran numero di tribune su cui i nani si stavano sedendo. Sotto le tribune vi era un ampio palco ben visibile da ogni punto dei terrazzamenti. Le pareti scintillavano alla luce di cristalli luminosi blu. «Un'opera teatrale?» chiese Tungdil, stupito. «Se Rodario sapesse che tra i Liberi c'è una cosa del genere, aprirebbe subito una succursale del Curiosum.» Myr, che era seduta accanto a lui, lo guardò senza capire. «Non lo conosci... L'Incredibile Rodario, attore e beniamino delle donne», le spiegò brevemente. «Ci aiutò a forgiare la Lama di Fuoco.» «Questo non è un teatro», puntualizzò lei. «Oggi si confronteranno i cori delle cinque città. È un agone sacro, dedicato a Vraccas.» Indicò il palco, su cui stavano entrando i primi cantori. Gli spettatori riservarono loro un'accoglienza amichevole, battendo gli stivali sulla pietra e creando così una specie di tuono artificiale. «Non lo dimenticherai mai.» Con la mano cercò quella di Tungdil.
Si levò il canto. Parve fin da subito diverso dal pezzo pieno di trasporto mistico cantato dai sacerdoti di Vraccas. Quei nani cantavano, con toni bassi e baritonali, la bellezza dei tesori sotterranei, delle caverne e delle grotte, di oro nascosto, delle centinaia di sfumature di colore che la pietra ha agli occhi esperti di uno scalpellino, della forgia di un'ascia, della costruzione di un ponte su un abisso senza fondo e di altri temi cari ai nani. Ma non ci si dimenticò di eroi ed eroine. Ad alta voce si elogiarono le loro imprese e i combattimenti contro innumerevoli mostri. Un nano avanza, con l'ascia levata, e noi leviam le voci per lodarlo. Va per la sua strada, senza timori, protegge la terra, benedetto da Vraccas. Abbatte nemici quanti nessuno mai, finché una lama mortale non lo colpisce. Instancabile si dissangua nella lotta, ha versato il suo sangue per tutti noi. La schiera di assassini non si arrende, lo calpesta, va avanti lungo il passo, la Porta di Pietra, nella Terra Nascosta, ma scompare sotto l'ascia di molti nani. Ne seguono altri, tutto sembra perduto, ma un nano avanza, con l'ascia levata, e noi leviam la voce per lodarlo. I figli del Fabbro, sarà sempre così, perseverano, combattono per tutti, senza fuggire perdite, morte, dolore. Con grande stupore di Tungdil, uno dei canti trattava perfino della battaglia di Giogonero; un altro cantava in modo estremamente malinconico della perdita della Lama di Fuoco e dei morti sui Monti Grigi. Le strofe gli penetravano fin nelle ossa. Per fortuna, il canto era abbastanza corto e non lo lasciò sprofondare in foschi pensieri. Quando attaccarono i rudi canti di taverna, che a suo tempo aveva cantato coi gemelli, anche lui prese a canticchiarne le arie a bocca chiusa.
Sitalia li fece con rugiada, luce e pura terra, volle che fossero i più belli di tutti. Ma il corpo inganna, l'anima è cattiva, son presuntuosi e non si comportano bene. Le orecchie appuntite, il volto smunto, le costole a vista, son troppo magri, striduli cantano e suonano il flauto, puzzan di fiori, parlan con gli alberi, betulle e ontani, non bevono birra, solo vino annacquato, sia lode a Vraccas, che non sono un elfetto. Ma tutti ammirano l'apparenza che inganna, ogni uomo vorrebbe essere un elfo aggraziato, ma noi sappiamo come sono in realtà, uno strano assortimento di animo e d'aspetto. Le orecchie appuntite, il volto smunto, le costole a vista, son troppo magri, striduli cantano e suonano il flauto, puzzan di fiori, parlan con gli alberi, betulle e ontani, non bevono birra, solo vino annacquato, sia lode a Vraccas, che non sono un elfetto. Perciò colpisci un elfo, colpiscilo bene, colpiscilo duro, e risparmia a un altro il lavoro. E dovessero scegliere le femmine, non sarebbe difficile, noi abbiamo un martello, gli elfi solo lance. Tra un coro e l'altro entravano in scena musicanti con corni ricurvi, svariati tipi di flauti, cornamuse di pelle di capra e numerosi tamburi di tutte le dimensioni. Il tempo parve volare; fintanto che sentì la musica, Tungdil non avvertì nessuna stanchezza. «Avevi ragione», sussurrò a Myr, quando gli venne la pelle d'oca per la commozione. «Ricorderò questa serata per tutta la mia vita.» La baciò. «Come mi ricorderò sempre di te... Se ti regalassi un anello, lo accettere-
sti?» Lei sorrise, al colmo della gioia. «Sì, Tungdil Manodoro.» Sette rotazioni dopo, Tungdil sedeva nella biblioteca di Myr e leggeva uno dei libri che parlava della storia dei Liberi. La nana si era presa la briga di trascrivere accuratamente su carta tutto ciò che stava scritto sulle innumerevoli steli di pietra contenute nel tempio di Vraccas, in modo da disporne in un formato più maneggevole. Vi erano inoltre disegni della città, della fortezza e della piana. Tungdil trovò anche un libro su Tesordigemme, la città da cui proveniva Myr; ne ammirò con stupore la splendida architettura. I disegni erano precisi come quelli che aveva visto sulle opere di consultazione di Lot-Ionan. È una vera erudita, pensò ammirato mentre sfogliava il testo. Sentì bussare forte alla porta. Poiché poteva escludere che si trattasse di clienti di Myr, rimase seduto nella comoda poltrona fino a che i colpi non divennero troppo forti perché potesse fingere di non sentirli. Maledicendo le costole rotte e la forza di Sanda, si alzò e andò a scoprire chi volesse entrare con tanta insistenza. «Voi?» esclamò stupito guardando i due nani, bagnati fradici, che si assomigliavano come due uova. «Odio quella pozza!» strepitò subito il Rabbioso. «La prossima volta che cade un avatar dal cielo dovrebbe finirci dentro e far evaporare una volta per tutte quell'acqua puzzolente.» Si strizzò la barba, facendo piovere sulla soglia di casa. «Devi venire con noi, Sapientone.» Si strappò con rabbia uno stelo d'alga dai capelli, lo gettò a terra e lo calpestò. «Che Elria sia maledetta. Ancora un po' e questa volta mi acciuffava.» Boëndal cercava di asciugarsi la faccia con la manica fradicia, ottenendo di bagnarsela ancora di più. «So di aver detto che sarebbe stata la prima e l'ultima volta che saltavo dentro il laghetto, ma non c'era una strada più asciutta per venire da te», borbottò disgustato. Si fermarono nell'atrio, esitando. Ricordavano fin troppo bene che Myr non voleva che lasciassero macchie sul tappeto. «È bello rivedervi. Ma che cos'è successo? Perché dovrei venire con voi?» chiese Tungdil, inquieto, mentre li indirizzava verso la cucina. Lì non potevano sporcare altro che le lisce piastrelle di pietra. Le gocce cascavano a terra formando delle pozze intorno agli stivali dei gemelli. «Dobbiamo andare a Porista», disse il Rabbioso, avventandosi sui resti del pranzo. «Mmm... Avevo dimenticato quanto Myr cucini bene.»
Tungdil non riusciva a capirci niente. «Da Andôkai? Si tratta della Lama di Fuoco?» «No.» Boëndal prese un canovaccio e se lo fregò sulla faccia, poi lo porse a Boïndil, che si strofinò con zelo la barba. «Dovrei ingrassarla di più», mormorò il Rabbioso guardandosi intorno alla ricerca di burro od olio. «Non va bene che s'inzuppi in continuazione. Perde la sua morbidezza.» «Da quando hai deciso di rimanere tra i Liberi sono successe alcune cose. Andôkai è morta, Sapientone», rivelò Boëndal. Molto brevemente gli riferì del consiglio, delle scoperte della maga e del modo in cui aveva perso la vita. «Narmora prenderà il posto della Burrascosa, che lo voglia o no. E tu dovrai partecipare ai negoziati per conto dei nani, quando Romo sottoporrà l'offerta di suo zio.» «Io?» Mentre ancora si meravigliava del fatto che Gandogar lo volesse come rappresentante, capì. Non vi possono partecipare i discendenti di Borengar, Giselbart, Goïmdil e Beroïn! «La sua è una saggia decisione. Io discendo da Lorimbur, e la limitazione imposta da Romo non mi tocca.» «Devo ancora darti una bella strigliata», disse Boïndil. «Non è stato carino far credere a un vecchio amico come me che ci avresti raggiunti, invece di dirmi che ti saresti fermato qui.» Tungdil sorrise al guerriero, tendendogli la mano. «Perdonami, ma temevo che mi avresti trascinato via per la barba.» «E lo avrei fatto, Sapientone», ribatté Boïndil sogghignando. Prese una polpetta, la immerse nella salsa fredda e l'addentò. «Ah, per questo risparmierei quattro dozzine di Musi di porco», si beò, mangiando rumorosamente. «E li ammazzerei dopo mangiato.» «Sembra che le cose non vadano bene per la Terra Nascosta.» Tungdil versò per sé e per gli altri della birra scura. A Porista lo attendevano un nuovo compito e Balyndis, mentre ad Aureorifugio aveva Myr e conduceva una tranquilla vita da erudito, con di tanto in tanto una scappata in fucina e qualche esercizio di combattimento. Il suo sguardo cadde nella stanza accanto, sul cinturone tempestato di diamanti che Giselbart Occhiodiferro gli aveva donato; stava appeso alla parete, sotto le due asce incrociate che si era forgiato. Boëndal notò il suo sguardo. «Già», commentò, lasciando imprecisato a che cosa si riferisse. «E tu sei diventato un sapientone fatto e finito?» Il Rabbioso lo indicò con la polpetta morsicata. «Niente cotta di maglia, stivali comodi... e, se
non sbaglio, hai messo su un po' di pancetta.» Tungdil rise. «No, Boïndil, ti sbagli. Mi addestro con Sanda Ardentecoraggio e, credimi, sarebbe la nana giusta per te. Ti batterebbe a mani nude.» Il Rabbioso fece una breve risata. «Sì, come no. Solo perché te le dà, non vuol dire che un tipo come me non riesca a tenerle testa. Implorerebbe pietà.» S'infilò in bocca quello che restava della polpetta e la mandò giù con un sorso di birra. Poi fece un potente rutto. «Prendi il cinturone e le due asce e vieni con noi», lo pregò Boëndal. «O ti senti già pienamente un Libero e non vuoi farlo? I nani della Terra Nascosta hanno bisogno di te e del tuo ingegno. Non c'è nessun altro che Gandogar possa mandare alle trattative.» Boïndil, dotato di maggior senso pratico, gli passò accanto, prese dalla parete il cinturone e le asce e mise tutto in mano a Tungdil. «Non farti pregare troppo, Sapientone.» Gli strizzò l'occhio. «Andiamo?» La porta di casa si aprì. Myr era arrivata a casa, con la sua borsa da guaritrice sulle spalle. «Le chiuse della cascata non tengono più?» chiese fingendo di essere arrabbiata, con le mani piantate sui fianchi e gli occhi rossi fissi sulle orme. «Oh, degli ospiti! E hanno trovato la cucina!» Ridendo abbracciò prima Boïndil, poi suo fratello. «Siete tornati presto.» Fiutò l'aria. «Qui qualcuno sa di polpetta. Delle ultime polpette, per essere più precisi.» «È colpa tua», si lamentò il Rabbioso. «Erano incustodite.» «Non siete venuti per fare strage delle mie polpette», concluse lei guardando i volti dei tre nani, tornati seri. «Se parti voglio essere al tuo fianco, Tungdil. Almeno fino a Porista», disse dopo che Boëndal le ebbe spiegato il motivo della loro visita. «Non lascerò il mio consorte da solo.» «Consorte?» esclamò Boëndal, sorpreso. «Congratulazioni! Che Vraccas vi benedica!» Strinse loro la mano. «Se lo avessimo saputo, avremmo portato dei doni.» Boïndil, che si era appena infilato in bocca una grossa manciata di bacche di muschio, rischiò di soffocare per la sorpresa. La chirurga gli impartì dei colpi decisi al punto giusto, in mezzo alle spalle, evitando che perdesse la vita in modo così ignominioso. Il Rabbioso bevve poi un sorso di birra. «Alla vostra», gracchiò, con la faccia rosso fuoco. Tungdil mostrò loro con orgoglio l'anello forgiato di suo pugno che portava al medio. Myr portava il compagno più piccolo. «Abbiamo stretto il
patto di ferro al tempio di Vraccas.» E nessuno è venuto a impedirmelo, aggiunse Tungdil tra sé. «Dunque porteremo due Sapientoni con noi a Porista», rise Boëndal. «Per la Terra Nascosta non può che essere un bene.» Myr era raggiante. «Sono emozionata. Vedrò la capitale del regno incantato. Oh, non potrò mai portare abbastanza fogli per tutti i disegni che vorrò fare.» Si accinse a salire le scale. «Raccolgo giusto un paio di cose, così potremo partire subito.» «Non potremmo asciugarci, prima?» chiese Boïndil poggiandosi sulle punte degli stivali, che fecero uno strano rumore. «Le scarpe bagnate fanno venire le vesciche.» *
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Prima di partire, Tungdil fece un'ultima visita alla fortezza e a Gemmil e Sanda. Venne accolto amichevolmente, come di consueto, e Sanda gli offrì qualcosa da bere. Descrisse la situazione alla coppia di regnanti nella maniera più precisa che poté. «Come vedete, mi tocca proprio andare.» Sanda aveva ascoltato con molta attenzione. «Conosco Romo Cuordacciaio. È il peggiore assassino di nani che abbia mai conosciuto; suo zio Lorimbas ha corrotto il suo animo, e Salfalur l'ha addestrato al combattimento. Mandare lui in una missione diplomatica è più o meno come chiedere a un mezz'orco di badare a un nugolo di bambini umani. Lorimbas l'ha mandato perché nessuno possa mettere in dubbio che sta facendo sul serio.» Scambiò un breve sguardo con Gemmil. «Non tratterà. Il suo compito è trasformare in realtà i voleri di suo zio. Senza eccezioni o sconti.» Rivolse a Tungdil uno sguardo d'avvertimento. «O forse uccidere qualcuno. Non fidarti di lui. Né di chiunque tu gli veda vicino.» «Grazie per il consiglio.» Tungdil fece un inchino. «Myr e io saremo presto di ritorno.» «Myr ti accompagnerà?» chiese la regina, stupefatta. Tungdil pensò che Sanda fosse contenta di liberarsi per un po' della sua osservatrice indesiderata. Forse ha intuito di essere controllata. La chirurga aveva disposto che, durante la sua assenza, i suoi conniventi avrebbero prestato particolare attenzione alla regina. «Porgi i miei saluti all'imperatore», lo pregò Gemmil. «Riferiscigli da parte mia che mi piacerebbe incontrarlo non appena la situazione della Terra Nascosta si sarà un po' calmata. Troverei opportuni dei colloqui.
Anche se pochi dei nostri tornerebbero in seno ai clan, penso che dei commerci tra noi e i clan sarebbero convenienti per entrambe le parti. Sarebbe un'ottima cosa se tu gli raccontassi come si sta da noi, e che siamo ben lontani dall'essere una comunità di assassini e criminali. Che Vraccas guidi i tuoi passi!» «Sarò lieto di riportare le tue parole.» Tungdil fece una riverenza. «Aureorifugio avrà in me un difensore appassionato.» Abbandonò la piccola sala. Stava scendendo i gradini che portavano all'atrio della fortezza, quando alle sue spalle sentì dei passi che si avvicinavano velocemente. Si voltò per vedere chi lo stesse seguendo e si ritrovò di fronte il volto coperto di rune della Terza. «Le mie parole potranno sembrarti incomprensibili», gli disse accorata. «Forse non vorrai crederci, ma è così come ti dico. Fa' attenzione a tutto ciò che ti succederà strada facendo. Non ci sarà nulla di casuale, almeno finché Myrmianda è con te.» Si guardò intorno, circospetta, e si assicurò con sguardi rapidi che fossero soli. Tungdil corrugò la fronte e indietreggiò mezzo passo da Sanda. «Non capisco. Che significa?» le chiese. Dall'espressione del suo volto, si capiva che esigeva spiegazioni. «Che c'entra mia moglie?» «Lo scoprirai da te, Tungdil. Si tratta della sua famiglia», rispose la regina, continuando a restare sul vago. «Non dirle che abbiamo parlato di lei, o sarà la tua rovina.» In cima alla scala comparve una sentinella. Guardava verso di loro. «So benissimo che mi fa controllare e che ordisce la sua tela come nemmeno gnomi senza onore saprebbero fare», sussurrò. «Ti prego, per il tuo bene: non fidarti ciecamente.» Gli porse la mano e disse forte: «Già che c'ero volevo ancora darti questo per Gandogar. Vraccas protegga te e tutti coloro che ti accompagnano». Tungdil pensò che il suo sguardo fosse sincera. Ma è una Terza, e Myr pensa che sia una spia. Cerca di metterci l'uno contro l'altra, si disse mentre scendeva le scale. Il sospetto c'indebolirebbe. Ma perché? Trama di compiere qualche perfidia qui ad Aureorifugio? Ha qualcosa a che fare con gli eventi accaduti a Porista? Un'ora dopo, Tungdil camminava con Myr, Boïndil e Boëndal lungo la galleria che li avrebbe portati in superficie. Uno sguardo alle calde e rosse guance di Myr scacciò dalla sua mente le parole di Sanda. Quando la nana lo baciò amorevolmente, lo strano avvertimento della regina si trasformò in cenere.
Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, tardo autunno L'ho fatto per te. Narmora stava in ginocchio accanto al letto di Furgas, con la fronte appoggiata sulla fredda mano del compagno e il volto affondato tra le lenzuola. L'ho punita e le ho sottratto il potere con cui ti guarirò. Non ci vorrà ancora molto. Ti sveglierò, e finalmente vedrai la nostra bambina. Si alzò, baciò le labbra smorte del suo uomo e uscì dalla stanza. Percepiva il calore del cristallo di malachite che aveva colmato con l'energia magica di Andôkai. Le sofferenze di Furgas sarebbero terminate non appena avesse scoperto come utilizzare la scheggia. Con suo grosso rammarico, la soddisfazione per la morte della maga non era durata a lungo; in lei prevalevano di gran lunga le preoccupazioni riguardo al suo uomo e alla Terra Nascosta, di cui anche lei faceva parte. Posò la mano sul vestito pulito che aveva indossato. Sotto sentiva la pietra. Superando un corridoio laterale, s'imbatte in Rodario, che prese a camminare accanto a lei. «L'accaduto è terribile», iniziò lui. «Facci un pezzo teatrale», fu il consiglio pungente della mezz'alba. «Temo che sarebbe una traccia troppo drammatica. Perfino per me. Gli spettatori abbandonerebbero il Curiosum a frotte. L'unica maga è morta, assassinata dagli avatar con uno stratagemma, almeno a quanto si può dedurre, la Terra Nascosta è minacciata dalla prole di Tion...» Narmora si fermò, fulminandolo con lo sguardo. «Hai origliato?» «No. Le mie orecchie si sono casualmente trovate nei vostri paraggi», si difese Rodario con aria innocente. «E le pareti sono maledettamente sottili, qui.» Picchiettò sul massiccio muro. «Quantomeno in alcuni punti.» La donna riprese a camminare, mentre lui si ostinava ad accompagnarla verso l'assemblea. «Ma sai cosa scuoterebbe maggiormente gli spettatori?» «L'incapacità del primo attore?» «No, mia oscura bellezza dalla lingua tagliente.» Le si parò davanti. «Che la maga è stata uccisa di nascosto e a sangue freddo dalla sua apprendista, e sotto gli occhi di dozzine di persone.» Narmora ristette. «Sei impazzito?» «Questo lo dovrei chiedere io a te. Ho visto quello che hai fatto.» «Che cosa pensi di avere visto?» L'uomo non sembrava minimamente intimorito da lei; verosimilmente
confidava nella lunga amicizia che li univa. «Sono entrato nella sala coi nani ed ero poco lontano da te, per poterti soccorrere in caso di bisogno. E poi ho visto quello che hai fatto con quel cristallo.» «E allora?» Gli occhi scuri di Narmora, quasi neri, erano fissi su di lui. «Che cosa pensi di fare?» L'attore storse le labbra. «Be', non farò nulla, se...» La mezz'alba sollevò il mento con disprezzo. «Soldi, Incredibile Rodario?» credette d'indovinare. «Mi vorresti ricattare?» «Per favore, io ho classe», replicò l'altro, scuotendo la testa, offeso. «E anche prescindendo da questo, sono pur sempre un amico di Furgas», disse facendo un passo in avanti e cercando il suo sguardo. «Se sono un tuo amico, al momento non lo so. La mia vecchia Narmora è molto cambiata.» «Alla tua vecchia Narmora sono capitate troppe cose perché non cambiasse.» La tensione la abbandonò. «Andôkai meritava di morire, e tu lo sai meglio di chiunque altro. E io sono forte abbastanza da accogliere gli avatar. Ho imparato in fretta. '» «In mezzo ciclo nessuno può raggiungere l'esperienza di una maga matura, neppure un'apprendista dotata come te.» Rodario inclinò il capo, puntando gli occhi sull'abito di lei, nel punto esatto che copriva la scheggia di malachite. «Ma che...» Lei lo superò, puntando dritto verso il salone sormontato dalla cupola. «Tu volevi qualcosa da me», gli ricordò. «Dillo in fretta.» «Vorrei partecipare anch'io», le disse seguendola piano. «Voglio essere lì con te, vedere che decisioni prenderai e consigliarti come avrebbe fatto Furgas.» La mezz'alba rise. «E come dovrei spiegare alle regine e ai re che al mio fianco sta un attore? E che verrà a conoscenza dei nostri più grandi segreti per poi trarne delle opere teatrali?» Rodario l'affiancò. «Non temere, mia oscura bellezza. Da questo momento sono il tuo apprendista, se qualcuno te lo chiederà. Non c'è scusa migliore.» Sollevò la mano destra e disse in tono solenne: «Giuro che sarò un ottimo suggeritore, qualora ti dovessero mancare le parole». Quindi, abbandonando per un attimo l'abituale tono enfatico, aggiunse: «E rimango tuo amico. Hai bisogno di me, Narmora. Di chi altri potresti fidarti, e con chi potresti condividere i tuoi pensieri?» Continuarono a camminare lungo i portici, in silenzio. Quando giunsero alla porta del salone, lei si fermò e si voltò verso l'altro. «Hai ragione, Rodario. Ho veramente bisogno di un amico.» Sorrise, e
per qualche istante tornò la Narmora che lui conosceva ai tempi del Curiosum. «Salviamo la Terra Nascosta.» Sospinse i battenti della porta ed entrò nella sala. Le sovrane e i sovrani degli uomini e degli elfi stavano già aspettando. Mancavano i nani: per il bene dei negoziati si erano piegati alla sfacciata pretesa di Romo e si tenevano lontani dai colloqui. Narmora li avrebbe informati in seguito. La mezz'alba prese posto sulla magnifica sedia di Andôkai, Rodario si sedette nel posto accanto e fece di tutto per impressionare gli astanti con la sua apparizione. «Questo è il mio apprendista, Rodario. Andôkai ne aveva da tempo notato il talento, ma per motivi di sicurezza aveva preferito tenerlo nascosto», disse Narmora per presentarlo. L'attore si alzò e fece un profondo inchino; i suoi abiti preziosi e i suoi tratti aristocratici potevano ingannare gli occhi inesperti. «Non sono solo un attore eccellente, no, in tempi non troppo lontani le mie modeste arti assisteranno Narmora la Sinistra contro gli avatar di Tion», annunciò. «Non ti serviranno a nulla», lo interruppe Romo, che guardò Narmora. «Anche tu non concluderai nulla, e perfino la tua maestra, con tutto il suo potere, avrebbe fallito.» Si alzò e raggiunse il centro della stanza, nel punto in cui s'incrociavano i raggi di luce che filtravano dalle alte finestre. Il suo silenzioso accompagnatore, che era alto quasi quanto un uomo, rimase seduto, assistendo impassibile alla scena. Il principe Mallen dell'Idoslân, seduto sulla sua poltrona, scosse la testa. «E tu vorresti farmi credere che tuo zio è in grado di fermare gli avatar?» Romo s'inchinò. «Principe Mallen, mio zio mi ha incaricato di chiederti se il tuo paese è ancora verde e fiorito, o se piuttosto le tue guarnigioni non hanno più abbastanza guerrieri per trattenere i mezz'orchi del Toboribor. Scorgiamo i fuochi che ardono i tuoi villaggi persino da Giogonero.» «Basta con le tue chiacchiere compiaciute», lo richiamò all'ordine Narmora. «Facci la tua proposta, così anche noi avremo qualcosa su cui ridere.» Il nano fece per aprire la bocca, ma qualcuno bussò forte. L'ultima volta che qualcuno aveva bussato a quella porta non era accaduto nulla di buono, così alla mezz'alba costò una certa fatica alzarsi e attendere di scoprire chi stesse disturbando la riunione. «L'eroe di Giogonero ci onora con la sua presenza», annunciò Rodario. Non si era affatto aspettato di trovare Tungdil. Narmora porse la mano al nano e gliela strinse.
«Sono lieto di vederti, anche se le circostanze potrebbero essere assai più felici», la salutò lui con un largo sorriso. Dietro di lui vi erano i gemelli e una nana molto pallida, coi capelli bianchi e gli occhi rossi. «Lei è Myrmianda Pelledalabastro. È mia moglie», le spiegò brevemente. «Sono qui per un motivo preciso: posso partecipare al consiglio in nome di tutti i figli del Fabbro?» le chiese. «No!» urlò Romo avvicinandosi a lui, con un'espressione distorta dalla collera. Sul suo volto segnato, i tatuaggi parvero ancora più foschi del solito. «È un...» «... discendente di Lorimbur», gli ricordò Tungdil sollevando l'ascia che teneva nella destra. «Se la tua richiesta mi è stata riportata correttamente, hai fatto espellere tutte le altre stirpi, ma non la tua.» Appoggiò l'arma a terra e, quando la testa dell'ascia urtò contro il marmo, si sentì rimbombare. «Tu e il tuo accompagnatore abbandonerete la sala con me, oppure mi permetterai di rimanere qui.» Guardò calmo negli occhi penetranti di Romo, che lo fissava adirato. «Va bene, considero il tuo silenzio come un permesso.» Si scelse il posto su cui prima sedeva Gandogar. «Va' avanti, Romo. Voglio sentire di quale potere dispone tuo zio contro gli avatar.» Mallen gli fece un cenno col capo; faticava a nascondere che la presenza di Tungdil lo rallegrava, e anche gli altri sovrani, eccetto Belletain, erano compiaciuti dalla prima sconfitta di Romo, e speravano che ne seguissero altre. Romo Cuordacciaio, nel frattempo, aveva riacquistato il controllo. «Ah, vedo che non porti più con te la Lama di Fuoco. Dunque è vero che gli albi te l'hanno rubata?» disse cercando di mettere Tungdil in imbarazzo. «L'ho prestata a un'alba. Dal momento che mi vuole uccidere a tutti i costi, me la riporterà presto», replicò lui con indifferenza. «Ma non abbiamo bisogno della Lama, lo hai detto tu stesso.» Mallen rise sommessamente. «No, non ne abbiamo bisogno», tuonò Romo. Riprese a parlare, girando lentamente su di sé, in modo da guardare tutti i presenti. «Mio zio ha visto i segni del cielo, e li ha compresi. Lui conosceva la leggenda. È solo per questo che abbiamo voluto riprendere possesso di Giogonero, poiché eravamo a conoscenza delle camere segrete in cui era custodito il sapere dei nostri antenati, e che aspettavano solamente di essere scoperte di nuovo da noi.» Tacque un attimo. «Così abbiamo ritrovato quel tesoro di conoscenze. Là sta scritto quale arma ci permetterà di annientare gli avatar.» «Le vergini», farfugliò Belletain, guardando il nano con aria grave.
«Con le teste appuntite, non dimenticatelo. Così devono essere, secondo me.» «No, caro re Belletain, non dovrai sacrificare le vergini del tuo regno», disse Romo. «Come avete sentito, gli avatar sono schegge del corpo di un dio, staccate dall'incandescente martello di Vraccas. Noi siamo i Terzi, noi detestiamo tutto ciò che Vraccas ha creato, a parte noi stessi, per questo consideriamo anche gli avatar come nostri nemici, e non riserveremo loro nessuna pietà.» La regina Wey si schiarì la voce. «Per Elria, volete dirci...» «No, non ve lo dirò. Noi sappiamo come tenere lontani gli avatar, e tanto vi basti. Se ve lo rivelassi, non avreste più bisogno del nostro aiuto e non accettereste le nostre richieste. Non sentirete nulla più delle indicazioni che vi ho appena dato.» I presenti cominciarono a parlare concitatamente ad alta voce, ma Romo attese in tutta calma fino a che non ritornò il silenzio. «Che cosa chiedete in cambio?» Tungdil si sporse in avanti, con gli occhi leggermente socchiusi. Temeva il peggio. «Nulla d'impossibile.» Romo stava parlando solo a lui, mentre gli sguardi tesi di uomini ed elfi passavano da un nano all'altro. «Le stirpi di Borengar, Giselbart, Goïmdil e Beroïn dovranno sparire senza indugi dalla Terra Nascosta, altrimenti noi taceremo e non faremo nulla. Quando gli altri nani se ne saranno andati, assumeremo noi la difesa di tutti i passi delle montagne esterne. Abbiamo guerrieri a sufficienza.» Sorrise malignamente. «Spetta ai nani decidere che cosa ne sarà della Terra Nascosta.» III Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, tardo autunno «Dunque è questo lo stratagemma dei Terzi.» Gandogar guardò i volti sbigottiti dei re dei nani. «Non vogliono affatto una guerra aperta. Ci vogliono battere cacciandoci dalle nostre terre.» Boïndil serrò i pugni. «Lo squarterei, se potessi.» «Non servirebbe a niente», disse Tungdil. «Hai ragione, ma servirebbe a me», sospirò il Rabbioso. «Sono dell'umore adatto per gettarmi in mezzo a un esercito di Musi di porco e fargli
volare in aria le...» «Sta' buono», lo invitò Boëndal. «A differenza di te, noi stiamo riflettendo.» Gandogar e i membri delle delegazioni dei nani sedevano intorno a un tavolo, in una delle tante stanze del palazzo. Avevano davanti a loro una mappa e si consigliavano su che cosa rispondere alle condizioni di Romo. Discutevano da ormai quattro ore, e a nessuno era venuta in mente una soluzione assennata. La loro decisione era attesa per l'imbrunire, e il crepuscolo si avvicinava a grandi passi. «Perché non voleva che fossimo presenti, quando ha riferito l'ambasciata di suo zio?» chiese Balyndis ai nani raccolti intorno al tavolo. Tungdil la guardò, tenendo stretta la mano di Myr, come se fosse la fune di salvataggio in un nero abisso. Con suo grande sollievo, si disse che non provava più nulla nei confronti di Balyndid, che dal canto suo teneva stretta la mano di Glaïmbar. Sembra che stia bene. Che il cuore gli battesse così in fretta, dipendeva dall'eccitazione e dalla collera che provava verso Romo e verso i Terzi, che stavano sfruttando a proprio vantaggio la difficile situazione della Terra Nascosta. O quantomeno cercò di convincersi che fosse così. «Penso che volesse accattivarsi uomini ed elfi, e rendere loro più allettante la sua offerta. Senza interventi sgraditi da parte nostra, prima che venissimo a sapere tutto grazie a Narmora», suppose Balendilín Solbraccio. «Certo lui e chi lo ha mandato non si aspettavano che comparissi tu.» «Buon per noi», fece il Rabbioso, tastandosi la barba per controllare se contenesse ancora grasso sufficiente. L'arrosto vi aveva depositato una discreta quantità di sugo che le continue frizioni del nano avevano spalmato su tutti i peli; l'odore di carne che lo circondava non lo disturbava affatto. «Buon per noi? Non penso proprio. Abbiamo appreso a nostre spese che abbiamo trascurato in modo imperdonabile Lorimbas. La cattiveria di quel nano supera centinaia di volte quella di Bislipur», commentò fosco l'imperatore, abbassando la testa. La corona sembrava diventare sempre più pesante. «Non mi è facile ammetterlo, ma se a voi non viene in mente un'idea migliore, non potrò fare altro che implorare la pietà e l'indulgenza di Vraccas e impartirvi l'ordine di trasferirvi con le vostre stirpi nella Terra dell'Aldilà.» «Mai!» protestò Boïndil colpendo il tavolo con un pugno. «Vorrebbe dire darla vinta ai Terzi, e...»
«... e salvare la Terra Nascosta dagli avatar di Tion», terminò Gandogar a voce alta, pretendendo rispetto. «Boïndil Duelame, so bene come ti senti. Anche dentro di me tutto si ribella all'idea di abbandonare ai Terzi le nostre magnifiche montagne e dimore. Ma devi ricordarti del compito che ci è stato assegnato dal nostro creatore.» Si rivolse ai presenti. «Ricordatelo tutti! Noi siamo destinati a proteggere i popoli della Terra Nascosta da qualunque minaccia. Se, per evitare la loro rovina, questo compito c'impone di voltare le spalle alle nostre patrie, è nostro dovere farlo.» Alle parole dell'imperatore seguì un lungo silenzio. I nani cercavano disperatamente un'altra soluzione. «Che ne pensate di una rapida spedizione contro i Terzi? Potremmo costringerli a rivelare qual è l'arma», propose la regina Xamtys. Balendilín scartò l'idea della nana. «I Monti Neri sono per noi completamente ignoti. Non conosco nessun passo o strada che porti al loro interno. Già solo i preparativi di una simile impresa durerebbero troppo, e non riusciremmo a travolgerli con un attacco a sorpresa, anche qualora uomini ed elfi fossero dalla nostra parte. E inoltre possiedono ancora Giogonero, da cui potrebbero attaccarci alle spalle.» «Dal loro punto di vista, hanno studiato i tempi alla perfezione.» Tungdil si appoggiò allo schienale della sedia. «Non ci lasciano quasi altra scelta.» «Quasi?» fece Gandogar. «Tungdil Manodoro, stai per diventare un eroe per la seconda volta?» «Non io. I Terzi.» Boëndal e Boïndil si scambiarono un rapido sguardo, intuendo dove volesse andare a parare il loro amico. Balyndis notò che i due fratelli scuotevano la testa, ma il Rabbioso le strizzò l'occhio con fare incoraggiante e le fece un cenno di mano per tranquillizzarla. Tungdil guardò il punto in cui la pelle della sua mano era stata bruciata dall'oro fuso; splendeva alla luce del sole al tramonto. «Sono stato ad Aureorifugio, la città dei Liberi, abbastanza a lungo per imparare qualcosa sui reietti. Tra loro vivono nani che un tempo appartenevano alla stirpe di Lorimbur e che, come me, sono tutt'altro che animati dall'intenzione di uccidere altri nani.» Per quanto si sforzasse di non farlo, finì col guardare brevemente Glaïmbar. «Loro conoscono i Monti Neri.» «E la maggior parte di loro sarebbe sicuramente pronta ad appoggiarci. Potrebbero farci da guide», gli venne in aiuto Myr, pentendosi subito di averlo fatto.
Le teste si voltarono verso di lei, fissandola con rinnovata curiosità. Myrmianda Pelledalabastro era davvero una mosca bianca nella loro tavolata. Una nana che non portava armatura e che non assomigliava per niente a ciò che Vraccas aveva scolpito nella pietra. Il suo aspetto spiegava alla perfezione l'origine del nome che portava. L'alabastro non godeva di una grande reputazione; era morbido, per niente stabile, e tutto sommato non era adatto a nessuno scopo. Era quanto di più lontano dal granito, con cui il Fabbro divino aveva creato i primi Cinque. «L'opinione che abbiamo dei Terzi è perfettamente rappresentata da Romo!» Con la sua uscita, Balyndis ben riassumeva ciò che pensava la maggioranza delle nane e dei nani. «Non ce l'ho con te, Tungdil. Sono l'ultima a dubitare della tua lealtà. Ma io conosco molto bene te, cosa che non posso dire degli altri Terzi.» «E io conosco molti Terzi cui affiderei la mia vita, esattamente come la affiderei al nano con cui ho stretto il patto di ferro», ribatté Myr, incrociando gli sguardi dubbiosi dei presenti. «No, non posso appoggiarmi ad alleati del genere», decise Gandogar, rifiutando la proposta. «Imperatore, stiamo buttando via un elemento a nostro favore», obiettò Balendilín, cercando di fargli cambiare idea. Aveva intuito che si era aperta una possibilità concreta di mandare a monte i piani di Lorimbas. «Usandoli come esploratori, riusciremmo ad attaccarli di sorpresa.» Tungdil fece un riconoscente cenno di capo a Solbraccio. «Gandogar, non immagini neppure quanto sia grande il regno sotterraneo dei reietti. Se azzardassi un numero, non mi crederesti.» Si alzò per dare più autorità al suo discorso. «Erano al nostro fianco quando comparvero i mezz'orchi più terribili che io abbia mai visto. Re Gemmil ci ha inviato duemila guerrieri nel giro di poche rotazioni.» Rivolse a Gandogar uno sguardo implorante. «Abbiamo bisogno di loro, imperatore. E sono molti.» Gandogar abbassò la testa, chiuse gli occhi e si mise le mani davanti al volto. Non si capiva se stesse pregando o se si stesse raccogliendo per prendere una decisione. Nessuno parlò. Myr strinse la mano a Tungdil e gli sorrise con discrezione. Sospirando, l'imperatore di tutte le stirpi si alzò. «Cederemo», annunciò in tono controllato. Boïndil lanciò un grido indignato. «Senza combattere? Regaleremo ai Terzi un trionfo e ci cercheremo una nuova casa nella Terra dell'Aldilà?»
«Imperatore, è una decisione saggia?» Balendilín non si era ancora arreso. «Quando lasceremo le montagne sarà pieno inverno, e avremo con noi donne e bambini. Le perdite saranno pesanti, anche qualora non venissimo attaccati da orde di bestie. Non sappiamo neppure che cosa ci aspetta nella Terra dell'Aldilà. O in mezzo alla nebbia.» «Lo so», replicò Gandogar con voce roca. «Lo so perfettamente, Balendilín. Piangerò la morte di ogni singolo nano, e risponderò di fronte a Vraccas per avervi dato l'ordine di marciare tra le gelide montagne e di valicare creste e vette.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Ma noi abbandoneremo le nostre patrie, sapendo che rimarranno lì e che un giorno vi faremo ritorno. Non sarà un addio.» «Quindi ci sarà comunque una guerra contro i Terzi. Ma più tardi», disse Balendilín. «Sarà terribile. Riesci a immaginare? Ci logoreremo contro i nostri stessi baluardi, mentre i Terzi c'investiranno di frecce, pietre e scorie bollenti fino a che non saremo morti tutti.» Abbassò un dito sulla mappa, indicando i Monti Neri. «Adesso invece siamo qui, adesso possiamo ancora...» Gandogar si levò, furente. «C'è qualcuno che mi stia a sentire? Avete dimenticato quale carica ricopro? È troppo pericoloso. Sembra che gli avatar ci conoscano e ci sorveglino, come dimostra l'agguato che hanno teso col falso Djerun. Prima i Terzi li fermano, meglio è. Ho preso la mia decisione, e vi dico che lasceremo la Terra Nascosta!» Levò il martello rituale e colpì il pavimento con tanta forza da mandarlo a pezzi. «Tungdil, torna all'assemblea e riferisci a Romo Cuordacciaio le mie parole.» Tungdil si alzò, si chinò e lasciò la stanza con Myr. «Non va affatto bene», mormorò mentre usciva. Se i Terzi sanno così tante cose, perché allora gli avatar hanno mandato il falso Djerun da Andôkai e non nei Monti Neri, a distruggere l'arma dei Terzi? «Che cosa non va bene? Che venga accettato il ricatto dei Terzi?» chiese Myr. Tungdil si fermò all'improvviso, afferrò la nana per le spalle e la baciò con trasporto. L'espressione felice che aveva sul volto non si adattava affatto all'umore che aveva avuto fino a quel momento. «Che c'è?» chiese lei senza fiato, colta alla sprovvista da quell'attacco di passione. «Te lo spiego più tardi», disse lui, pregandola di aspettare davanti alla porta. Bussò e Rodario gli aprì, per poi accompagnarlo al suo posto. Romo aveva in mano un boccale e ne sorseggiava rumorosamente la bir-
ra. Il suo compagno squadrò Tungdil, ristette un attimo e abbassò il capo. «Ah, ecco il galoppino di Gandogar», lo derise Romo, tetro, strofinandosi la barba. «L'imperatore ha quindi deciso?» «Ha deciso, Romo Cuordacciaio», replicò Tungdil in tono piatto. «E ha deciso di piegarsi all'ignobile ricatto di tuo zio.» Un forte gemito corse tra le linee degli uomini e degli elfi, in parte carico di sollievo, in parte pieno di sincera compassione per i nani, costretti a migrare a causa di un perfido stratagemma. Tungdil si parò davanti agli scranni dei Terzi. «E giuro che ucciderò di mio pugno te e tuo zio, se lascerete cadere la Terra Nascosta nelle mani degli avatar», aggiunse. Con la destra stringeva l'ascia, puntandola verso Romo. Con quel gesto, Tungdil stava dando al nipote del re un chiaro monito: non poteva permettersi di farsi di nuovo beffe di lui o di sfidarlo. Con grande stupore dei presenti, Romo e il suo accompagnatore osservarono Tungdil con rispetto. «Ho ricevuto la notizia che attendevo, e la trasmetterò a mio zio. Fin quando esisteremo, nulla che possa nuocere alla Terra Nascosta passerà attraverso i cinque portali. Né bestie, né avatar.» Romo allungò la mano verso il suo mazzafrusto, posato sul tavolo. «Né nani», aggiunse. Si alzò, agganciò l'arma al cinturone e si avviò verso l'uscita. Il suo silenzioso accompagnatore lo seguì, gettando un lungo sguardo su Tungdil. «Inizieremo l'occupazione dei regni tra ottanta rotazioni. Qualunque nano vi troveremo verrà ucciso», annunciò Romo lasciando cadere un rotolo di pergamena sul pavimento. «Vi è scritto che cosa potete portare con voi e che cosa appartiene a noi. Inizieremo dal nord-est. Gandogar deve sbrigarsi.» I due lasciarono la sala, e le loro imponenti figure divennero sempre più piccole, finendo per venire ingoiate dall'ombra. Non si sentiva più neppure lo sferragliare delle loro strane armature. Dopo che Rodario ebbe riferito loro che Romo e la sua guardia del corpo non erano più nella grande sala a cupola, i nani, con Gandogar in testa, ritornarono nella sala. «Questo è un giorno terribile», disse Mallen, triste, porgendo loro la mano. «La salvezza della Terra Nascosta viene pagata con l'esilio dei nani. Se si potesse evitare questo esodo e combattere...» «No», rifiutò Gandogar. «Potremmo metterci troppo tempo a sconfiggere i Terzi. Torneremo quando il" pericolo sarà stato scongiurato.» «E noi saremo con voi e vi aiuteremo», promise Mallen. Rivolse all'imperatore un leggero inchino, pieno di rispetto. Non era necessario spendere
altre parole sul coraggio e lo spirito di sacrificio dei nani. «Se i Terzi hanno mentito, avranno da temere peggio che non il tuo giuramento, Tungdil», fece Liútasil. «Li troveremo prima che gli avatar riescano a distruggere le nostre foreste. Se hanno ingannato i regni, moriranno per mano degli elfi.» Poi si rivolse a Gandogar. «D'ora in avanti i canti degli elfi celebreranno il tuo nome e l'altruismo dei figli del Fabbro. Nell'Âlandur nessuno oserà mai più parlare male di te e dei discendenti dei Cinque.» S'inchinò più di quanto un re dovesse fare davanti a un suo pari. Alcuni sovrani degli uomini lo imitarono, poi lasciarono la sala. «Accompagnerò i Terzi e valuterò come intendono fermare gli avatar», promise Narmora. «Se dovessi scoprire un tradimento o un imbroglio, ve lo farò subito sapere. All'ascia di Tungdil e alla collera degli elfi si aggiungerà la furia di una maga, e quello che rimarrà di loro sarà affidato alle vostre armi.» Con tali parole, si ritirò negli alloggi che le erano riservati nella sua ala del palazzo. L'una dopo l'altra si accomiatarono le varie delegazioni dei nani, e sui loro volti si leggeva chiaramente che, quella notte, la maggior parte di loro avrebbe affogato i propri dispiaceri nella birra e nell'idromele. Gli ultimi a rimanere furono Tungdil, i gemelli e Balyndis. A Boïndil tornò in mente una domanda che si era dimenticato di fare. «Balyndis, ma come hai fatto a capire che non era Djerun quello nell'armatura?» «Mi ricordo perfettamente tutti i lavori che ho fatto», spiegò la nana con un sorriso. «E non dimenticherò mai l'armatura che gli ho forgiato. Le bulinature e le acqueforti sul pettorale della sua armatura non le avevo fatte io. Erano una buona imitazione, ma non abbastanza da ingannarmi. Purtroppo l'ho notato troppo tardi», aggiunse contrita. La nana esitò un po', poi si avvicinò a Tungdil e gli prese il braccio. «Auguro a te e alla tua sposa ogni bene. Che la vostra fucina arda sempre, e che abbiate sempre una pentola colma di oro sotto il letto», disse con fatica. «Dubito che ci rivedremo, purtroppo.» Tungdil chiuse gli occhi e sorbì il profumo di lei, che gli era familiare come sempre. In quel momento, sentendolo di nuovo, riconobbe quanto gli fosse mancato. Non l'avrebbe sentito mai più. La amo ancora, comprese mestamente, mentre l'abbracciava e le dava un bacio sulla fronte. «Che Vraccas ti assista», mormorò. Confuso com'era, non riuscì a dire altro. Balyndis fu turbata da ciò che gli leggeva in viso, e non volle aggiungere
altro. Provava per lui gli stessi sentimenti, anche se si era allontanato da lei con rabbia. Quando lui cercò di prenderle la mano lei si ritrasse, scosse la testa e si voltò di scatto. «Glaïmbar sta aspettando», disse con voce soffocata. Tungdil la guardò allontanarsi. Come aveva fatto già spesso. Troppo spesso. «E io devo tornare da Myr», mormorò. «Ehi, Sapientone, guarda che noi siamo ancora qui», sbottò il Rabbioso. Scrutò con attenzione il volto dell'amico. «Allora? Vieni con noi. Prendi Myr e raggiungici.» «Hai in mente qualcosa, vero?» gli chiese invece Boëndal, cui era parso di scorgere negli occhi dell'amico un bagliore familiare, mentre i sovrani degli uomini ringraziavano i nani. «Forse.» Tungdil mise la mano sulla spalla del guerriero. «E tu e il Rabbioso sarete i primi a saperlo, una volta che mi sarò deciso. Mi ci vuole ancora un pizzico di coraggio.» Boïndil scoprì i denti, pieno di speranza. «Lo sapevo! Vraccas ti ha inviato una scintilla e ha fatto avvampare di nuovo in te il fuoco dell'eroismo. Le sere davanti al camino non fanno per te. Puoi contare su di noi. Faremo irruzione nei Monti Neri e ci riprenderemo l'arma.» Detto ciò, si avviò insieme col fratello. Tungdil prese a camminare per il palazzo, col cuore agitato da uno strano miscuglio di dubbio, lucidità e fiducia. Perdette quasi subito l'orientamento, tanto era assorto nei suoi pensieri. L'addio che lui e Balyndis si erano scambiati continuava a occupargli la mente. Le vecchie ferite, che credeva ormai guarite, in realtà non si erano mai chiuse. Sotto il sottile strato di pelle che vi era cresciuto sopra, continuavano a tormentarlo; il balsamo che la guaritrice vi aveva steso non l'aveva davvero guarito, aveva soltanto mitigato il dolore che provava. Ciò nonostante, una grande fetta del suo cuore continuava ad appartenere a Myrmianda. Adesso hai altro cui pensare, si disse, e sentì un tremito attraversargli il corpo. Vraccas, aiutami a decidere. A fatica gli riuscì di orientarsi nell'immenso palazzo, fino a ritrovare la strada per la grande sala consiliare. Mentre camminava, riconobbe in uno scuro corridoio laterale i contorni di tre nani, uno molto magro e gracile, gli altri due massicci. Uno era anche molto alto. Ma... è la voce di Myr! Tungdil si fermò e ritornò sui suoi passi. «Ciao Myr, ti sei persa anche tu?» chiese allegramente.
La figura più piccola si scostò bruscamente dalle altre due. Tungdil sentì un grido femminile soffocato, il cigolio di un'armatura e un pesante oggetto metallico che colpiva con fracasso la parete. Poi sentì un forte urto. Il suo spirito combattivo e la preoccupazione per la moglie lo riscossero. Afferrò l'ascia e si gettò in mezzo ai nani che stavano facendo del male a Myr. «Indietro!» gridò, incollerito. Scorse profondi tagli sulla parte sinistra del volto della nana; ne sgorgava sangue, che le scorreva sulla pelle bianca. A quel punto il suo interesse verso i due nani era diventato strettamente personale. Romo teneva due spessi libri in una mano, mentre con l'altra cercava il mazzafrusto. Le nocche della sua manopola erano sporche del sangue di Myr. «Ho il piacere di poter uccidere l'eroe della Terra Nascosta?» sogghignò. Gettò i volumi al suo accompagnatore. «Tieni, Salfalur. Portali da mio zio. Li aspetta con ansia.» Salfalur! L'assassino dei miei genitori! Tungdil fissò l'accompagnatore di Romo, che prese i libri e fece per fuggire. I tatuaggi rendevano il suo volto crudele ancora più cupo, quasi demoniaco. «No! I miei appunti!» gridò Myr estraendo un pugnale dalla cintura. Si gettò impavida contro il gigantesco nano. «Non li avrete!» Salfalur lasciò che il pugnale sbattesse contro la sua armatura, e la punta si spezzò rumorosamente. Il pugno corazzato del guerriero colpì la nana in mezzo al viso già scorticato, facendola volare indietro come se fosse stata colpita in pieno dal maglio di un fabbro. Myr sbatté contro il muro e cadde a terra, priva di sensi. «Andiamo, prima che spuntino la maga o il suo famiglio», ordinò Salfalur con voce profonda. «No», ribatté Romo, ridendo. Le catene e le sfere del suo mazzafrusto gli ruotavano sopra la testa, sibilando. «Non prima di avere ucciso un nano. Sarebbe la prima volta che lascio un consiglio senza ammazzarne almeno uno.» L'aggressione alla sua sposa aveva paralizzato Tungdil per l'orrore, ma riuscì a dominarsi. Si piegò appena in tempo per evitare le sfere, che fischiarono sopra la sua testa. «Quando avrò finito con te, Romo, non ammazzerai più nessuno di noi», gli promise, incollerito. Gli conficcò la punta del manico dell'ascia nella coscia, la estrasse e utilizzò l'oscillazione per colpirlo con la testa dell'arma. Romo schivò il colpo, imprecando, barcollò all'indietro e osservò la feri-
ta alla gamba. Il suo volto si contrasse in una maschera demoniaca. «Devi morire, traditore del tuo stesso sangue!» tuonò, pieno di odio. Impugnò la sua arma con entrambe le mani e iniziò a serrare l'avversario con una serie di attacchi. Tungdil si limitò a schivare le sfere coperte di punte. La forza con cui Romo le abbassava era tale che il manico dell'ascia, per quanto rinforzato da bande di metallo, non avrebbe potuto fermarle. Si sarebbe rotto, lasciandolo disarmato. Le sfere del mazzafrusto colpirono con fracasso le pareti, staccando pezzi di muro, ma gli attacchi furiosi di Romo non sembravano finire. Incalzava l'avversario ansimando e imprecando. Indietreggiando, Tungdil finì per inciampare su Myr, e quella sua distrazione venne punita con un colpo di terribile potenza. Una delle sfere di ferro lo colpì sul braccio, le altre lo investirono proprio sulle costole rotte. Con un gemito, Tungdil si piegò in avanti, e solo la sua disciplina di ferro gli impedì di lasciar cadere l'ascia. «Cosa? Basta un colpo per abbatterti, eroe?» lo derise Romo, facendo roteare il mazzafrusto sulla testa, pronto a colpirlo di nuovo. «Che rimarrà di te dopo un secondo colpo?» Le sfere sfrecciarono in basso. Tungdil usò la lama dell'ascia per deviarle. Scricchiolando, le sfere s'impiantarono nel legno di una porta, perforandone le assi. Le catene si attorcigliarono e, per quanto Romo strattonasse, l'arma rimase bloccata. «Quanti ne reggi tu?» chiese Tungdil sferrando, con una mano sola, un colpo al torace di Romo. La lama si fece strada nel metallo e raggiunse la carne; sangue rosso schizzò dalla ferita. Anziché ritrarsi, Romo lasciò perdere l'impugnatura del mazzafrusto, ormai inutile, e colpì l'avversario al volto usando entrambi i pugni. Tungdil finì a terra, stordito; subito gli si gonfiarono le palpebre, mentre da un'escoriazione sopra il sopracciglio destro uscì sangue che lo accecò. Romo si strappò l'ascia dal corpo e la impugnò. «Più di te!» urlò levando il braccio, pronto a colpire. All'improvviso fu avvolto da fiamme accecanti. «Assaggia il mio potere!» disse la voce esageratamente forte di un uomo. Una seconda vampata avvolse Romo. Barba e capelli avevano preso fuoco, e pelle annerita si apriva sul suo volto. Un denso e fetido fumo riempì il corridoio.
Romo non cercò neppure di spegnere le fiamme. Fece un passo in avanti e menò un fendente verso Tungdil, ma una figura si scagliò su di lui, da dietro, facendogli sbagliare il colpo. Tra le scintille, l'ascia finì a mezzo palmo da Tungdil. Furente, Romo si scrollò di dosso il nuovo avversario. «Ah, c'è un Terzo da massacrare!» gridò il Rabbioso. Si mise davanti a Tungdil, pronto a far assaggiare a Romo le sue asce. «No!» lo fermò Tungdil. Si alzò ed estrasse il mazzafrusto dalla porta devastata. «È mio.» Romo parò il primo colpo, ma il successivo lo prese su collo, petto e testa. Vacillò, stordito, senza però cadere a terra. Tungdil dovette vibrare ancora tre potenti colpi prima che il nipote di re Lorimbas giacesse a terra, morto. Per te divento volentieri un assassino di nani, pensò buttandogli addosso il mazzafrusto. «Non era nessuno. Ferito e bruciacchiato com'era, non era una vera sfida», si lamentò il Rabbioso, deluso. «Dov'è l'altro? Quello grosso? Quello sì che mi piacerebbe.» Insieme con Tungdil e con Rodario, che aveva recitato la parte dell'apprendista stregone, Boëndal si stava occupando di Myr, che giaceva priva di sensi sul freddo pavimento. Tungdil la portò nei loro alloggi e si occupò di lei finché non comparve Narmora, che la curò con l'aiuto della magia. Sulla candida pelle della nana non rimase neppure una cicatrice; perfino la peluria argentata sembrava non aver patito nulla. Poi la mezz'alba impiegò la sua magia curativa su Tungdil e ne guarì anche le costole rotte. Il nano provò a muoversi con cautela, e non percepì più dolore. «La magia continua a sembrarmi sinistra», ammise, rivolto a Narmora. «Intendi dire che la mia magia è sinistra, per te, come lo era quella di Andôkai?» «Sei una seguace di Samusin, come lo era lei?» «Non c'è altro dio che accetterebbe le mie preghiere. Non preoccuparti per Myr, dormirà fino a domani», gli spiegò. «Va' e aiuta gli altri a cercare quel Terzo.» «Si chiama Salfalur», disse Tungdil. Il nome suonò molto cupo. Afferrò l'ascia e raggiunse di corsa i due gemelli, che attendevano con Rodario davanti alla porta. «Grazie per il tuo aiuto. Conosci la via più breve per uscire dalla città?» chiese all'attore. «L'ho costruita io, mio eccitato amico», rispose Rodario con sicumera.
«Be', diciamo che la faccio costruire. Secondo i piani di Furgas», precisò un po' per volta. Il Rabbioso corrugò la fronte. «Allora tu sei il custode dell'opera, non l'autore.» «In ogni caso, la conosco a menadito.» Rodario si abbassò le maniche del vestito fino alle mani, per nascondere meglio i congegni con cui creava l'illusione di poter far divampare le fiamme con la sua magia. Gli uomini e i nani che avevano assistito allo scontro con Romo ne erano rimasti ingannati e lo ritenevano davvero un apprendista. «Sempre i soliti giochi di prestigio», ghignò Boëndal. «Imbrogli e illusioni.» «Ma funzionano», ribatté Rodario, seccato. «Manderà le donne in visibilio. Stimato impresario teatrale, zelante apprendista di magia e attore eccezionale. Il tutto in una persona dalla sconvolgente bellezza.» Boïndil lo guardò divertito. «Sì, e vedrai il visibilio dei mariti, quando uno di loro ti farà a pezzi.» «Avanti», ordinò Tungdil, senza però riuscire a trattenere un sorriso. «Non è il momento di dire sciocchezze.» «Sciocchezze? Le mie eccellenti...» L'uomo tacque e li condusse per i tortuosi corridoi del palazzo. Porista quella notte non ebbe pace. Nani, uomini ed elfi perlustrarono la città, setacciarono le rovine e controllarono ogni casa disabitata, ma di Salfalur non trovarono nessuna traccia. E con lui scomparvero gli appunti di Myr sulle città dei Liberi. La vita segreta che brulicava sotto il suolo della Terra Nascosta ormai non aveva più segreti per i Terzi. Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234° ciclo solare, tardo autunno Quando Myr si riscosse dal suo sonno rigenerante, Tungdil sedeva accanto al letto. Le ci volle un po' di tempo per ricordare che cosa fosse accaduto. «Siete riusciti a fermarlo?» chiese. «No. Sembra che la terra lo abbia inghiottito.» «Dobbiamo avvertire Gemmil e i Liberi. I Terzi ora sanno com'è fatta la mia patria.» Guardò il soffitto e diede una manata stizzita contro la parete. «Se solo avessi lasciato i miei appunti a casa. La mia curiosità sarà fatale
per chi mi è caro.» «Ma perché li hai portati con te?» «La carta non costa poco e pensavo di utilizzare le pagine bianche. Volevo prendere appunti su tutto ciò che avrei visto e vissuto durante il viaggio. Io sono un'erudita, ed è mio compito fare da occhi e orecchie per la gente di Aureorifugio. Nulla di ciò che è stato detto dev'essere dimenticato.» Myrmianda si toccò con cautela il punto in cui la sua fronte aveva battuto contro il muro. «E come un guerriero non si mette mai in viaggio senza le sue armi, così un erudito non lascia mai i suoi appunti a casa.» Tungdil le accarezzò la guancia liscia. La nana non provò dolore e avvertì che non le erano rimaste cicatrici. Si toccò il volto, incredula. «Stai cercando un taglio? Narmora è una maga», le spiegò sorridendo. «Ha guarito anche le mie costole rotte.» «Magia?» Myr si mise in ascolto, come se potesse sentire dentro di sé un'eco, una voce o una qualche altra traccia del potere della maga. «Conosco simili forze solo dalle descrizioni e dai racconti», gli spiegò, imbarazzata. «Pensavo che le si potesse avvertire, ma non è così.» «Lo so. È inquietante», replicò lui. «Apprezzarle non fa parte della nostra natura.» Gli faceva piacere vedere Myr in così buona salute. Non rimpiangeva affatto di aver stretto il patto di ferro con lei. Anche i sentimenti d'amore che ancora provava verso Balyndis non cambiavano per niente l'affetto sincero e l'attrazione che nutriva per la chirurga. L'affinità dei loro spiriti da eruditi faceva di loro una coppia perfetta e, se fosse riuscito a insegnarle qualcosa di metallurgia, nulla li avrebbe più divisi. A parte un piccolo problema: tu in realtà ami Balyndis, gli ricordò il suo perfido demone interiore. Sta' a guardare, gli rispose il nano. Si chinò verso la consorte e le diede un bacio. Non m'inganni, lo derise il demone. Inganni solo te stesso. Myr gli sorrise, incerta. «Erano troppo forti per me. Mi aspettavano nella mia stanza. Sono rientrata da una passeggiata e li ho sorpresi mentre frugavano nelle mie borse. Quando sono entrata, Romo - si chiama Romo, vero? -, il più piccolo dei due, mi ha stesa e mi ha trascinato con sé. Ha minacciato di uccidermi, se avessi osato chiedere aiuto. Poi ci hai trovati.» «E tu mi hai salvato la vita», aggiunse Tungdil. «Un'altra volta. Non so se senza le tue cure sarei sopravvissuto alle frecce degli albi, la prima volta che ci siamo incontrati. Partiremo non appena ti sentirai più in forze», de-
cise. «Prima voglio chiedere ancora un colloquio coi sovrani dei nani; quindi hai ancora tempo per rimetterti.» «Per quale motivo desideri un'altra riunione?» chiese lei, stupita, mettendosi a sedere. Vacillò immediatamente e cadde su di lui. «Vertigini. Una conseguenza della caduta. O della botta.» Tungdil la tenne stretta. «Mi riterrai stupido come un coboldo, ma penso che sia tutto un raffinato inganno.» «Ma di che inganno parli?» replicò lei, sembrando quasi terrorizzata. «Un inganno dei Terzi. Io penso che non sappiano nulla degli avatar», le disse, rivelando ciò che sospettava. «Stanno sfruttando la nostra paura per festeggiare la loro più grande vittoria e uccidere più nani di quanto una grande guerra potrebbe mai permettergli. Credo che durante la marcia attraverso le montagne, e lontano dai passi, come hanno richiesto, morirà almeno la metà di noi. Ci aspettano freddo, sentieri infidi, frane e slavine.» «E la fame», chiosò Myr con voce mesta. «Le loro richieste sono brutali: puntano solo a fare un'immensa strage di innocenti. E noi intendiamo onorarle perché partiamo dal presupposto che loro siano gli unici a disporre di un rimedio all'attacco degli avatar.» La guardò dritto negli occhi rossi. «Ma Romo ha mentito, e posso dimostrarlo. Ha ingannato i sovrani, su ordine di suo zio. Erano tutti troppo spaventati per notare che Romo, nel suo primo intervento, ha parlato solo di un pericolo che viene dall'ovest e non degli avatar, come mi ha detto Boëndal.» «La tua obiezione non mi convincerebbe, se fossi un sovrano dei nani. Romo può essersi semplicemente dimenticato di...» «Forse. Ma perché gli avatar hanno mandato il falso Djerun contro Andôkai, quando sono i Terzi a possedere un'arma che li può fermare o distruggere?» proseguì Tungdil, sorridente. «Anche da questo punto di vista, le sue asserzioni sono contraddittorie. A volte ha parlato di fermarli, a volte di distruggerli.» «Per un guerriero come lui non è la stessa cosa? Questo è quantomeno quello che mi direi io.» «Ma la mia dimostrazione prosegue. È del tutto privo di senso che dicesse di non poter rivelare di che arma si tratta.» «Forse è facile da produrre e temevano che potessimo farcela da soli, mandando a monte il loro piano. O forse non lo voleva rivelare per motivi irrazionali.» «No. Non ha dato nemmeno l'ombra di un'indicazione. Nessun accenno sul fatto che sia un'arma o un altro oggetto, se necessiti di essere lanciata o
se si tratta di rune che devono essere incise sulla porta occidentale», insistette Tungdil, che non si sentiva compreso da Myr. La loro conversazione sembrava una disputa tra dotti, come se stessero parlando davanti a un concilio. «I tuoi dubbi sono senz'altro comprensibili, amore mio. Ma rifletti: i re dei nani preferiranno ascoltare lui o le tue parole, che non danno nessuna speranza alla Terra Nascosta e ne annunciano la fine ineluttabile?» «Neanche Romo ha dimostrato che per la Terra Nascosta c'è speranza, e loro hanno accettato comunque la sua proposta.» Tungdil rimaneva sulle sue posizioni, ma rifletté su quanto gli diceva Myr. «Sì, capisco cosa intendi. La bugia suona meglio.» «Se io fossi Gandogar e dovessi soppesare quello che avete detto voi due, la bilancia penderebbe dalla parte dei Terzi. Se loro avessero ragione e noi non ci attenessimo agli accordi, la Terra Nascosta verrebbe annientata. Non potrei sopportare una colpa del genere.» «E invece manderesti a morire migliaia di nani senza avere la certezza che non sia una menzogna?» sbottò l'altro. «Non puoi parlare sul serio, Myr. Pensa a che cosa significherà essere chiusi fuori della Terra Nascosta. Potremmo tentare di riaprirci la strada verso casa nostra solo con uno stratagemma, o con la forza, mentre i Terzi si faranno grasse risate alle nostre spalle, alle spalle degli stupidi che sono cascati nel loro inganno.» Si alzò. «Devo almeno far presente a Gandogar, agli altri re e ai capiclan questa seconda possibilità, anche se comprendo le tue obiezioni.» «Le sentirai ripetere sicuramente.» La nana lo guardò. «Tungdil, non sei riuscita a convincermi.» Gli baciò i dorsi delle mani. «Spero che Vraccas sia con te.» «Ti ringraziamo di averci messo in guardia da un imbroglio.» Tungdil sapeva che cosa significavano quelle prime parole. Gandogar poteva anche risparmiarsi le frasi che sarebbero seguite. Non sono riuscito a convincerli. Non stette nemmeno a sentire le spiegazioni che l'imperatore gli stava dando. Erano uguali a quelle di Myr, come la nana gli aveva predetto. Invece di ascoltare, Tungdil guardò i volti dei re, della regina e dei loro accompagnatori, che erano inquieti, preoccupati e profondamente infelici. Stanno pensando a come devono spiegare ai loro clan le decisioni dell'imperatore: nane e nani devono morire, e forse solo per compiacere la malvagità dei Terzi. S'inchinò davanti a Gandogar, benché questi stesse ancora
parlando, e si sedette. L'imperatore non si adirò per la mancanza di rispetto. «So che nelle cronache del nostro popolo sarò ricordato come il peggior imperatore di tutte le stirpi, ma Lorimbas non mi lascia altra scelta. Dobbiamo anteporre il benessere degli altri popoli della Terra Nascosta al nostro, come Vraccas ci ha ordinato.» Si alzò. «Dobbiamo partire. Ricorda a Gemmil che il patto vale anche per il suo popolo. Ora che i Terzi conoscono l'esistenza delle loro città più nascoste, attaccheranno e occuperanno anche quelle.» Lo salutò con un cenno di mano e lasciò la riunione. Un po' alla volta, la sala si svuotò. Tungdil si coprì il volto con le mani. La preoccupazione per il destino del suo popolo minacciava di sopraffarlo. Intorno a lui tornò il silenzio, e pensò di essere rimasto solo; perciò trasalì quando una mano gli si poggiò sulla spalla. «Non disperare, Sapientone. Per lo meno hai convinto me», disse Boëndal. Fece un passo di lato, facendo spazio a una manciata di nani, sulle cui facce si poteva leggere la stessa decisione. «Le tue parole non hanno mancato il bersaglio. Forse non hanno trovato ascolto tra i sovrani, ma hanno convinto alcuni di noi, che hanno sentito con quale fervore hai parlato.» Si presentarono l'uno dopo l'altro. Tutte le quattro stirpi erano rappresentate. «Allora?» fece Boïndil. «Possiamo fare qualcosa, anche se siamo in pochi? Volevi proporre un piano ai re? Noi siamo pronti ad ascoltarti.» «Il mio piano?» Tungdil ringraziò Vraccas di aver trovato almeno qualche alleato. Un largo sorriso gli comparve sul volto. «Penso che me ne sia giusto venuto in mente uno migliore.» «Ti avverto da principio, Tungdil Manodoro», disse uno dei nani. «Non farò nulla che implichi tradimento verso il mio re, la mia famiglia o il mio clan.» «Questo ti fa onore. Non pretenderei mai da voi una cosa del genere.» Lo sguardo di Tungdil scivolò sui presenti. «Preferirei ordinare al mio amico Rabbioso di tagliarmi la testa dal collo.» Fece loro cenno di avvicinarsi. «Ma vi affiderò un compito, questo è sicuro. Col vostro coraggio e l'aiuto del Fabbro divino...» «... che sicuramente abbiamo», s'intromise Boïndil. «... prepareremo ai Terzi una spiacevole sorpresa.» Poi spiegò loro che cosa fare.
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Narmora saltò giù dal letto, corse per il corridoio e piombò nella stanza di Furgas. Poco dopo la raggiunse Rodario. «Ha gridato?» «Sì», rispose lei laconicamente. «Corri a chiamare Myrmianda. Lei saprà che cosa lo tormenta.» L'attore si precipitò fuori. È già ora? L'incantesimo che ti ha lanciato Andôkai si sta indebolendo? si chiese la mezz'alba mentre tergeva il sudore dalla fronte e dalle guance di Furgas. Il panno si tinse di rosa. All'umidità salata del sudore si mescolava sangue, che trasudava in linee sottili da sotto le palpebre. No! Non sono ancora pronta a guarirti dal veleno di Andôkai! Narmora attese impaziente l'arrivo della guaritrice, che entrò nella stanza poco dopo in compagnia di Tungdil. Myr visitò Furgas accuratamente, auscultò il battito del cuore e la respirazione, esaminò l'orina nel vaso da notte e annusò la pelle del malato. «Febbre. Una febbre di carattere maligno, causata da un avvelenamento.» Guardò Narmora. «Il suo cuore batte all'impazzata, venerabile maga. Diventa sempre più veloce, come un mulino azionato da un ruscello impetuoso e che sia senza custode. Andrà a pezzi, se non farete qualcosa.» La mezz'alba trasalì. «Io... io sto cercando l'incantesimo adatto, e ho sperato che tu potessi preparare un farmaco che calmasse le sue sofferenze.» Myr sollevò le sopracciglia. «Un avvelenamento che resiste alla vostra magia? Dev'essere un veleno davvero terribile.» «Puoi aiutarlo o no?» chiese Narmora, più aspra di quanto volesse. «Rallenta il suo cuore!» «Venerabile maga, non mi è possibile se ignoro il tipo di veleno utilizzato», replicò Myr, dispiaciuta. «La sua vita è nelle vostre mani.» Raccolse i suoi ferri e rimase un attimo nella stanza, indecisa, fino a che Narmora non congedò lei e Tungdil con un cenno del capo. Non appena furono usciti, la mezz'alba cercò qualcosa sotto il vestito e ne trasse la scheggia di malachite. Ne toccò i bordi taglienti, su cui era ancora attaccato il sangue ormai secco di Andôkai. E allora sia. Con le dita tremanti la pulì dal sangue, si aprì la veste e si concentrò. Indirizzò tutta la sua attenzione sulla pietra. La scheggia cominciò improvvisamente a splendere e a scaldarsi, fino a scottare.
Samusin, ti prego, proteggi la mia vita e quella di Furgas. Appoggiò la punta sotto lo sterno, sulla pelle chiara. I muscoli del braccio si tesero, pronti a spingere la malachite all'interno del corpo, come Nudin aveva fatto un tempo. Prendi la mia vita e salva la sua, Samusin. Morirò volentieri per questo. Chiuse gli occhi e costrinse la malachite a entrare nella carne. Il dolore era indescrivibile. Un sole verde scoppiò dentro di lei, la riempì di brace, acido e acqua gelida, s'impadronì delle sue vene, vi pompò sino a farle esplodere e, proprio mentre la mezz'alba aveva la sensazione di spaccarsi come un frutto maturo, svanì di colpo. Narmora cadde sulle ginocchia e vomitò un liquido verde sul pavimento. Il secondo, doloroso conato le spinse attraverso la gola il contenuto dello stomaco, un fetido brodo color muschio che finì accanto al letto del suo uomo. «Tu chi sei?» chiese una voce tonante. La mezz'alba sputò fuori gli ultimi rimasugli, si sorresse con le braccia tremanti e voltò la testa. «Chi c'è?» sussurrò con voce soffocata. «Io posso mostrarti cose e darti forze come nessun altro», sussurrò la voce. Narmora scorse improvvisamente Nudin, comparso dal nulla in un angolo della stanza; portava abiti passati di moda da molto tempo. «Tu? Ti abbiamo battuto! A Giogonero!» «Io vorrei aiutarti.» La figura si trasformò davanti ai suoi occhi nel gonfio Nôd'onn. Era avvolto in abiti verde scuro, e le sorrideva. «Farò di te una temibile maga.» Seguì una specie di tremolio accecante, e un istante dopo il contorno nebuloso del demone che Tungdil aveva distrutto nella caverna del pianoro si librava sopra Furgas. «Pover'uomo. Sta morendo», sussurrò. «Ma tu puoi salvarlo. Adesso. Perché io ti ho dato il potere di farlo.» La mezz'alba guardò nell'abbagliante luce verde e dovette chiudere gli occhi. Quando tornò a distinguere qualcosa, la nuvola era scomparsa e nella stanza, a parte i gemiti ininterrotti di Furgas, regnava il silenzio. Me lo sono solo immaginato. Il punto in cui si era infilata la malachite sembrava perfetto, non presentava tracce di cicatrici né tantomeno una ferita aperta attraverso cui filtrasse un bagliore verde. Solo qualche goccia di sangue le confermava ciò che aveva fatto. Furgas emise un forte grido, le sue sofferenze aumentavano. «Sono accanto a te», sussurrò lei. Si sollevò sul bordo del letto e appog-
giò la mano destra sulla fasciatura che avvolgeva il ventre del suo compagno. Ora vedrò quale potere ho davvero ricevuto. Lentamente e scandendole bene, Narmora pronunciò le prime parole delle molte formule che avrebbero dovuto consentirle di espellere il veleno dal corpo del suo amato. Le vennero in mente spontaneamente. Sentì un sibilo. Vapori color zolfo si sollevavano dal corpo dell'uomo, dissolvendosi in volo; minuscole gocce gialle trasudavano dalla pelle, per poi saltellare come acqua su una piastra caldissima, scorrere via e macchiare le lenzuola. Furgas alzava e abbassava il petto sempre più in fretta, e gemeva. Lo sto uccidendo? Terrorizzata, Narmora fece per ritrarre la mano. «Continua», la incoraggiò Nudin, accanto a lei. «Tu possiedi la forza per guarirlo. Presto potrai di nuovo stringerlo tra le braccia!» Le sorrise amichevolmente. «Abbi fiducia in me, e nella forza della pietra. Tutto andrà bene. Tu sei una maga.» Narmora vedeva distintamente il mago accanto a sé, come se non fosse mai morto. «Sei un'allucinazione», disse con voce ferma. «Sparisci!» L'apparizione indicò la fasciatura gialla. «Devi continuare», ripeté Nudin. Narmora indirizzò la sua attenzione di nuovo su Furgas, mentre la mente traeva le parole magiche dal nulla e le labbra si limitavano a ripeterle. Le gocce gialle continuavano a stillare fuori del corpo del malato, finché all'improvviso questi smise di gemere e trasse un profondo respiro, prima di restare completamente immobile. «Furgas! No!» gridò lei terrorizzata, si precipitò accanto alla testata del letto e accarezzò il volto dell'uomo. «Che cosa ho...» L'uomo aprì gli occhi, guardò stupito il soffitto, notò Narmora e sollevò una mano, incerto, per toccare il volto che tanto amava. «Tu...» Narmora deglutì, poi si mise a ridere e piangere allo stesso tempo, abbracciandolo. Furgas si tirò a sedere e la strinse forte. «Sei di nuovo con me», singhiozzò lei. «Ringrazio Samusin in ginocchio.» L'uomo era confuso, ma si gustò comunque la dolcezza della sua compagna. «Mi ricordo... l'aggressione», mormorò a fatica. «Che cos'è successo dopo?» Le baciò i capelli neri e li scostò dolcemente. Facendolo, notò che la donna non aveva più il pancione. «Sono stato a letto così a lungo?» chiese, sconvolto.
«Aspetta. Finalmente la puoi vedere.» Narmora corse a prendere Dorsa. Posò con cautela la bimbetta tra le braccia del padre, che alla vista del fagottino scoppiò a piangere per la felicità. «Aveva anche un fratello, ma è morto durante il parto», gli rivelò con gli occhi lucidi. Gli descrisse il giorno sventurato in cui aveva avuto l'incidente. Furgas accarezzava la bambina. «Almeno ci è rimasta lei», disse con voce roca, baciando la testolina della bimba. Con l'altra mano trasse a sé Narmora. «Ti amo. Vi amo tutte e due. Ne abbiamo passate tante, per essere felici. Per questo ora lo siamo ancora di più.» La mezz'alba gli diede un lungo bacio. «Riposati, amore mio. Domani ti racconterò che cos'è accaduto e che cosa dovremo fare per cercare di continuare a essere felici. Abbiamo un bisogno urgente delle tue doti tecniche.» Si strinse a lui. Per un istante, in un angolo della stanza, le parve di veder balenare la figura di Nôd'onn. Poi l'immagine svanì. Terra Nascosta, Dsôn Balsur, 6234° ciclo solare, tardo autunno Hosjep sedeva sulla traversa più alta del più grande degli onagri; piantò gli ultimi chiodi e saggiò la sede delle corde di sicurezza aggiuntive avvolte intorno alla saetta di legno. Le funi erano necessarie per puntellare tonnellate che gravavano sulle travi quando la macchina da lancio era in funzione. Il carpentiere non era l'unico che si dedicasse alla sua attività a quell'altezza. Tutt'intorno, una moltitudine di uomini martellava, drizzava, tendeva e piallava per trasformare tronchi, assi e assicelle in macchine da lancio. L'attacco notturno che gli albi avevano sferrato notti addietro non si era limitato a portare via la vita di moltissimi uomini e a riaccendere la vecchia inimicizia tra elfi e nani. Aveva anche cancellato dall'animo dei soldati una buona parte della sicurezza con cui, prima di quell'attacco devastante, attendevano la vittoria. Di conseguenza, molti uomini avevano abbandonato il servizio o avevano disertato, e il morale degli altri era a terra. Hosjep si trovava nelle immediate vicinanze del regno degli albi solo perché era stato allettato dal sontuoso compenso offerto per il suo lavoro. Lì riceveva il denaro che altrimenti avrebbe guadagnato in un ciclo. Se non fosse stato per l'oro, neppure dieci cavalli sarebbero riusciti a trascinarlo al
confine con lo Dsôn Balsur. Puntò lo sguardo verso la nera foresta che fiancheggiava gli ampi sentieri tracciati dal fuoco; al massimo un miglio li separava dalla piana. Da lì in avanti nulla avrebbe più ostacolato l'avanzata dell'esercito. In mezzo alla piana, su cui l'erba si stava tingendo nuovamente di verde, si ergeva la nera fortezza degli albi, simile a un tumore maligno. Sarebbe bellissimo veder distruggere gli ultimi albi, pensò il carpentiere, sforzandosi di rimanere ottimista. Dietro la fortezza si estendeva un'altra distesa erbosa, e poco prima dell'orizzonte s'intuiva qualcosa di simile a un buco da cui s'innalzasse un lungo chiodo appuntito, che alla luce del sole scintillava bianco come un osso. Era il cuore del regno degli albi, e già quello bastava per indurre al silenzio. Hosjep prese martello e chiodi per continuare a occuparsi dell'onagro. Meno male che non devo accompagnare l'esercito fin lì, pensò rabbrividendo. Continuò a muoversi su e giù per il telaio della più grande macchina del campo fino a che non tramontò il sole, e solo all'imbrunire si preparò a ridiscendere. Procedeva con molta prudenza, poiché non vi erano corde di sicurezza o reti. Un passo falso e sarebbe caduto da più di dieci passi d'altezza. Grandi fuochi venivano accesi in ogni angolo del campo, che era stato riempito di nuove reclute. I soldati gettarono panni imbevuti di pece e catrame nelle fosse recentemente scavate, facendone avvampare il contenuto. In quel modo creavano un anello di fuoco che nessun albo avrebbe potuto attraversare senza procurarsi gravi ferite. Gli ordini prevedevano che ogni ora si aggiungesse un po' di quella massa puzzolente, che era così viscosa da non venire assorbita dal terreno. Gli uomini accettavano di buon grado il denso fumo irritante e il cattivo odore. Rispetto alla morte, era il male minore. Hosjep era soddisfatto. Le macchine da tiro si ergevano di nuovo e minacciavano coi loro lunghi bracci il resto della foresta; nel giro di dieci rotazioni, i depositi di petrolio e di olio sarebbero stati riforniti completamente. In fondo, sembrava che le cose si stessero mettendo di nuovo bene per il loro esercito. Se non fosse stato per la paura, le storie che si raccontavano e le superstizioni... È ora di fare un buon pasto e bersi un buon boccale di birrai Hosjep si
rallegrò, pensando al letto di paglia su cui avrebbero potuto riposare le sue stanche membra. Saltò sul braccio di tiro, che scendeva di traverso, e si stava mettendo in equilibrio sulla trave, larga un braccio, quando vide che le fiamme del fuoco vicino alla macchina si abbassavano, si piegavano paurosamente e sembravano strisciare verso il legno. Hosjep rimase immobile dov'era e si guardò intorno. Quel fuoco non era il solo a comportarsi in modo strano. Tutto ciò che ardeva, dalle candele sui tavolacci dei soldati alle lampade a olio davanti alle tende dei comandanti, si affievolì, finché l'intero campo non fu immerso nel buio più nero. Il carpentiere non udiva nulla. Gli uomini era paralizzati dal terrore, tendevano le orecchie nell'oscurità e pregavano che nulla si muovesse. Non credevo che la notte potesse essere così scura. Anche la luna e le stelle si nascondono dietro le nuvole. Gli parve che tutto l'accampamento fosse avvolto da tenebre impenetrabili, in cui non si riusciva a vedere a un palmo di naso. I cavalli fiutavano qualcosa. Nitrivano forte per la paura e cercavano di liberarsi. Le loro pastoie erano assicurate a pali che gemevano e alla fine cedettero alla forza selvaggia degli animali. Il carpentiere sentì scricchiolii e tonfi; poi centinaia di zoccoli rombarono attraverso il campo, travolgendo le tende e calpestando i soldati. Le bestie vedevano poco quanto gli uomini e galoppavano alla cieca, puntando nella direzione opposta rispetto a quella da cui avvertivano il pericolo avvicinarsi. Di tanto in tanto Hosjep sentiva il legno scuotersi, quando uno dei cavalli vi sbatteva contro. Verso di lui salì della polvere che sapeva di cenere di fuochi spenti. A poco a poco lo scalpitio assordante scemò: i cavalli erano fuggiti e nitrivano piano in lontananza. «Serrare le file!» ordinò un ufficiale, abbastanza coriaceo da non farsi turbare dalle grida di spavento e dai lamenti dei feriti. «Terza colonna, qui. Prendere posizione. Picchieri in avanti...» Ammutolì, e subito dopo si sentì il tonfo di un corpo in armatura. Tutti quelli che si trovavano abbastanza vicini all'uomo capirono che cosa significasse quel rumore. «Via!» gridò qualcuno al colmo della paura. Si sentì un'arma cadere a terra, seguita da passi veloci. «Sono nel campo! Sono qui!» Hosjep si rannicchiò contro l'onagro, sperando che stando in alto e in mezzo all'intrico di travi orizzontali e verticali fosse nascosto agli occhi di
tutti, anche qualora l'oscurità fosse diminuita. Intorno a lui irruppe la morte. Un singolo, prolungato grido di morte diede inizio alla strage, e il carpentiere non avrebbe mai più dimenticato, in tutta la sua vita, i rumori che un vento crudele gli portava da ogni angolo del campo. Gli albi sembravano sapere perfettamente dove si trovassero i soldati. Da tutte le parti sibilavano frecce. Un dardo errante colpì il carpentiere alla coscia, ma l'uomo strinse i denti per non tradirsi con un grido di dolore. Poi, il tintinnio delle spade e le alte grida degli uomini cessarono. Solo allora la coltre di nubi si aprì; gli astri notturni irruppero attraverso le tenebre e rivelarono a Hosjep il crudele massacro. I corpi dei soldati giacevano l'uno sopra l'altro, formando un grottesco tappeto; nei punti in cui il sangue dei morenti imbrattava i cadaveri circostanti si erano formate grandi macchie scure. Gli albi camminavano su quel tappeto, alla ricerca di sopravvissuti che, sperando di salvarsi la vita, si fingevano morti sotto la montagna di cadaveri. Venivano trovati a colpo sicuro e uccisi in modo particolarmente crudele. Palandiell, abbi pietà di me... Hanno ammazzato tutti! Hosjep non vide il cadavere di un solo albo. Come hai potuto permettere una cosa del genere? pensò, rimproverando la sua divinità protettrice. I suoi occhi erano colmi di lacrime sgomente. Un'alba calpestava i cadaveri in sella a un toro dalle corna immense, racchiuse, come il cranio, da una maschera di metallo. Attraverso i fori, gli occhi della bestia ardevano di un bagliore rosso. L'alba ordinò qualcosa ai guerrieri che la circondavano, e alcuni di loro tagliarono le gole dei morti, raccogliendone il sangue in dei recipienti, mentre altri si avvicinarono alle macchine da tiro, le spalmarono di pece e vi versarono sopra il petrolio disponibile. Posso scegliere se venire arso o macellato, pensò Hosjep, distrutto. Quando si fossero alzate le fiamme, avrebbe estratto la freccia che aveva nella gamba e se la sarebbe spinta nel cuore. Preferisco che il mio corpo bruci, piuttosto che cadere nelle loro mani, decise. In quel momento, il toro alzò la testa e guardò dritto verso di lui; richiamò l'attenzione dell'alba che lo montava con uno sbuffo, e quella ne seguì lo sguardo. Il carpentiere non ne scorse il volto, nascosto dietro una maschera che le copriva gli occhi. L'alba alzò la sua asta da combattimento e mormorò
qualcosa; un albo tese l'arco e scagliò una freccia in direzione del sopravvissuto. La freccia colpì Hosjep alla spalla sinistra. Sbilanciato dal colpo, lui cadde, sbatté su un puntello laterale dell'onagro e atterrò sul morbido strato di cadaveri. «State indietro, demoni!» piagnucolò. Rotolò di lato, cercando di alzarsi. Quando uno degli albi gli si avvicinò e si chinò su di lui, l'uomo prese la spada di un morto e riuscì a infilargliela nel ventre. Ma l'albo non morì. Raddrizzò invece la schiena, strinse l'elsa della spada ed estrasse la lama. Dalla ferita sgorgò sangue nero, ma il flusso si fermò quasi subito. Si è richiusa! Hosjep si rannicchiò. Per questo non hanno avuto perdite. Palandiell, che ti abbiamo fatto per meritarci che i nostri nemici... «Uomo», lo apostrofò l'alba. «I tuoi dei hanno qualcosa in serbo per te, se ti hanno fatto sopravvivere. Torna dal tuo re e raccontagli quello che è successo. Digli, a nome degli Eterni, che noi non cederemo. Abbiamo acquisito un nuovo potere: Tion ce l'ha donato, e tu hai visto quanto è grande.» Fece piegare il toro verso di lui. «O forse dubiti di ciò che hai visto?» «No!» gridò l'uomo, continuando ad arretrare. «Racconterò tutto a Mallen.» «Va', allora.» Hosjep girò i tacchi e, nonostante il dolore alla gamba e alla spalla, corse come mai aveva fatto prima. Ondori voltò il toro e impartì nuovi ordini. Il reparto che aveva bevuto l'Acqua Nera e che lei aveva condotto in battaglia aveva superato la prova. Nessuno di loro era morto per le ferite ricevute. Trema, Âlandur. Presto t'invaderemo e stermineremo le creature di Sitalia. Dai corpi su cui sprofondava il suo toro avrebbero ricavato splendide sculture. E sulla torre degli Eterni vi era spazio a sufficienza per le ossa che a lei non servivano. Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, tardo autunno La fine dell'autunno non portò bene a Tungdil e Myrmianda. Il tratto di strada che dovevano percorrere in superficie li costrinse a marciare sotto la
pioggia battente. Benché la pioggia inzuppasse già i loro vestiti, la nana insistette per raccogliere erbe e preparare una bevanda che avrebbe dovuto renderli insensibili al freddo dell'autunno e al cattivo tempo. Non potevano permettersi una malattia, e Tungdil si bevette un bicchiere dietro l'altro. Ma la cura ricostituente iniziò troppo tardi. Il nano si prese un'infreddatura che gli indebolì le membra. Non rimase loro altra scelta che ritirarsi in una locanda per avere un tetto sulla testa e un letto asciutto, mentre la prima grossa tempesta autunnale imperversava sulla regione. La locandiera si stupì della strana coppia che doveva ospitare. «Vi preparerò un robusto brodo di carne, signor Manodoro», propose al nano dopo che lo ebbero messo a letto. Le coperte odoravano della paglia che sorreggeva il morbido materasso di lana. «In cucina ho molte erbe che possono servire contro la febbre e la tosse.» «Ah, bene», si rallegrò Myr. «Ti accompagno. Vediamo che cosa posso fare per il nostro malato.» Spense tutte le candele tranne una, che infilò in un sostegno e piazzò accanto al letto, su un piccolo tavolino. «Dormi un po', fino a che non ti porto il decotto.» Baciò Tungdil e si voltò. Si fermò sulla soglia, guardandolo per un istante in modo strano. Il malato era semiassopito nel letto e osservava le ombre che la fiammella proiettava contro le pareti intonacate di bianco. Più le guardava, più diventavano sinistre, assumendo la forma di bestie che lo stavano per assalire mentre giaceva sotto le coperte, disarmato e senza armatura. Si sentiva abbandonato, quasi come nella nebbia della Terra dell'Aldilà. «Maledetta luce», mormorò, arrabbiato. Fece per spegnere la candela, ma la sua mano indebolita dalla febbre ci arrivò solo vicino. La candela era poco stabile, e la piccola vibrazione bastò a buttarla giù. Cadde sulle tavole di legno, senza spegnersi, e rotolò sotto il letto, appiccando fuoco ai fili che sporgevano dal pagliericcio. «Maledettissima luce!» ripeté Tungdil, cercando di tirarsi su. Ma era troppo debole. Cadde dal letto e si ritrovò a guardare le fiamme espandersi. «Myr!» gridò forte. «Myr, fuoco!» Non accadde nulla. «Al fuoco!» gridò tossendo. Per la stanza si levavano scintille che danzavano tutt'intorno, accendendo altri focolai. L'aria si fece calda e soffocante. «Al fuoco...» cercò di ripetere. La febbre lo paralizzava, lasciandolo steso sulle assi grezze e sporche come un bambino indifeso.
Sentì scricchiolare con più forza, intorno a lui tutto crepitava e scoppiettava sempre di più. La stanza si stava trasformando in un forno, e gli aiuti tardavano ad arrivare. Vraccas, è così che morirò? Finalmente qualcuno aprì la porta. Le fiamme si alzarono, alimentate dalla corrente d'aria. «Signor Manodoro?» gridò la voce di un uomo sconosciuto. «Siete ancora qui?» «Qui», gracchiò il nano. «Dietro il letto.» Qualcuno svuotò nella stanza una secchiata d'acqua, che arrivò fino a Tungdil, bagnandogli la barba. Poco dopo comparve la sagoma di un uomo con la testa e il torace coperto da una coperta bagnata. Lo sconosciuto afferrò il nano per il braccio sinistro e lo trascinò con sé lontano dalle fiamme, fino al corridoio. «Tungdil!» Improvvisamente Myr era al suo fianco, curva su di lui. Sembrava terrorizzata, assai più sconvolta degli esseri umani che stavano intorno a loro. E aveva un'espressione carica di rimorso. «Com'è potuto accadere?» «Sono stato sbadato», rispose il nano con voce strozzata. «La candela... è caduta...» «Signor Manodoro, andate di sotto», li pregò uno degli uomini impegnati a spegnere l'incendio, col volto coperto di fuliggine. «Abbiamo bisogno di spazio per spegnere il fuoco.» Unendo le forze, Myr e la locandiera trascinarono Tungdil giù per le scale, nella sala comune, che non era minacciata dalle fiamme. «Ecco.» La chirurga mise in mano alla donna una moneta d'oro. «Per te e per tuo marito. Senza di voi sarebbe sicuramente morto.» Fece un cenno verso le spesse nubi di fumo. «E non preoccupatevi per i danni, vi risarciremo tutto.» La donna la ringraziò e si affrettò ad aiutare gli uomini che stavano spegnendo l'incendio. «E ora pensiamo a te, Tungdil Manodoro. Non ti si può lasciare solo neanche un istante che dai fuoco al letto», lo sgridò Myr stringendolo tra le braccia. «Che spavento che ci siamo presi tutti e due!» Uno spavento che mi ha fatto capire molte cose. «Dov'eri?» chiese il nano, distendendo le mani fuligginose verso di lei. «Stavo preparando il decotto. La serva faceva così tanto baccano con le pentole che abbiamo notato il fuoco solo quando l'oste ci ha chiamate.» Myr singhiozzò, stringendogli la testa sul petto. «Calmati e riprenditi», gli
disse tra le lacrime. «Non ti lascerò mai più solo. Mai più.» Sei la cosa più cara che ho. Non sarei mai riuscita a perdonarmi, se tu fossi morto. Per fortuna il mio cuore mi ha aperto gli occhi. Lo cullò dolcemente. IV Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6234° ciclo solare, tardo autunno La locanda fu risparmiata dal calore devastante del fuoco. Solo la stanza e una parte del tetto rimasero vittima dell'incendio. Dopo un riposo di due rotazioni, le erbe e il gustoso brodo di carne fecero sentire Tungdil abbastanza in forze per riprendere il cammino verso Aureorifugio. Myr lo condusse a un ingresso segreto ai tunnel e così, dopo un rapido viaggio, raggiunsero di nuovo la città dei Liberi. Andarono senza indugi alla fortezza e fecero visita a Gemmil, per informarlo di quanto era accaduto a Porista. Il re non era solo; al suo fianco sedeva Sanda Ardentecoraggio, che, vedendo Tungdil, apparve molto sollevata. Ma a mano a mano che i due ascoltavano il resoconto, il volto della regina divenne sempre più grave; gettava continue occhiate verso la chirurga, ma Myr non ne percepì l'ostilità, o forse faceva finta di non notarla. «A quanto pare, Aureorifugio è in grave pericolo», disse Gemmil. «Se non ce ne andremo di nostra iniziativa, ci attaccheranno in forze.» «Ti devo fare una proposta da parte di Glaïmbar. I Liberi potrebbero migrare coi Quinti attraverso la Porta di Pietra», disse Tungdil, riportando la sua ambasciata. «Avete già reso alla sua stirpe un servigio di valore inestimabile; in questo modo vorrebbe ricambiarlo, anche se solo in parte, dato che il debito che ha nei vostri confronti è infinitamente più grande.» Gemmil notò bene che, da una parte, Tungdil non parlava con assoluta convinzione, e che, dall'altra, non aveva detto «alla mia stirpe». Probabilmente non vi aveva fatto caso, ma comunque l'eroe di Giogonero non si comportava più come se fosse uno dei Quinti, dal momento che il suo giuramento di ripopolare i Monti Grigi era stato rispettato. «Tu non credi che dovremmo partire?» chiese il re con franchezza. «No», ammise Tungdil apertamente, spiegando al re i suoi motivi come aveva fatto davanti ai sovrani dei nani. Le sue obiezioni trovarono lì maggiore ascolto. «Le tue riflessioni sono
sensate», gli concesse Gemmil. «Ma non temi di far cadere su di te la colpa di aver abbandonato la Terra Nascosta alla distruzione? Che cosa vorresti fare contro l'inganno dei Terzi? «Pregare i Liberi di appoggiare il mio piano», rispose lui senza esitare. «Quando tu concludi un affare e ne va di parecchio denaro, pagheresti senza prima aver visto la merce? Conosci qualcuno che abbia comprato dei diamanti senza neanche avere aperto il sacchetto in cui sono custoditi?» Vide che il re scuoteva la testa. «Prima di abbandonare la nostra terra, non sarebbe giusto e ragionevole assicurarci che i Terzi possiedano l'arma che hanno promesso, e che facciano davvero qualcosa contro gli avatar? Se così non fosse, la nostra patria sarebbe destinata alla rovina. I Terzi non potranno certo fermare gli avatar.» Gemmil guardò Sanda. «Che cosa ne pensi?» «Per i parametri del nostro popolo, non è molto tempo che ho lasciato i Monti Neri. Mi ricorderei se si fosse parlato di qualcosa d'importante custodito a Giogonero», disse lei in tono prudente. «Quel monte ha per noi un grande valore, è uno dei luoghi dei nostri antenati, ma non so nulla di misteri e segreti. Ciò che sta facendo Lorimbas mi stupisce.» «Be', sono passati parecchi cicli da quando hai abbandonato la tua stirpe», obiettò Myr inaspettatamente. «Chi sa che cos'è successo nel frattempo? Pensiamo a come sono cambiate le cose nel giro di un ciclo. Io non confiderei troppo in questa tua opinione, Sanda.» Stava rimproverando la regina con evidente disprezzo. «Sii prudente, Gemmil. Lorimbas può essere venuto davvero in possesso di un'arma del genere.» Tungdil si sentì colto alla sprovvista. «Che cosa stai dicendo, Myr? Sei contro di me?» «No», rispose lei in tono rassicurante. Gli prese la mano. «Non sono contro di te. Sono contro la temerarietà e l'audacia, che certo un eroe deve avere, ma che possono portare molti alla rovina.» Gli strinse le dita. «Nella nostra piccola disputa devi considerarmi la voce della ragione. Ma quando alla fine avrete preso la vostra decisione, anche contro la voce della ragione, sarò al tuo fianco, qualunque sia il tuo piano.» «Considera un'altra cosa, Tungdil.» Sanda indicò se stessa. «Vuoi condividere il mio stesso destino? Tu ti opporresti al tuo imperatore, e questo implicherebbe una punizione anche per un eroe come te. Diventeresti un reietto. A prescindere dalla situazione e dal possibile successo che potrà derivare dalle tue azioni, la tua disobbedienza verrà valutata come infinitamente più grave rispetto a quella dei tanti che hanno trasgredito solo le
regole delle stirpi o dei clan.» S'interruppe un istante. «Forse non potrai mai più ritornare tra i Quinti. Sei consapevole di questo?» Tungdil sorrise. «Da quando sono tra di voi, mi sembra di appartenere a questo posto. Sono circondato da nani consapevoli delle loro tradizioni, ma che non se ne lasciano tiranneggiare e che conducono una vita libera. Qui ho legato il mio cuore a quello di una nana.» Benché le sue parole non mostrassero tentennamenti, Tungdil rivide per un istante il volto di Balyndis. Lei ha preso la sua decisione, io devo prendere la mia, si difese in anticipo di fronte al suo demone interiore, per impedirgli di dire la sua senza essere richiesto. Tu non m'inganni, lo sentì però ridacchiare. «Visto che sei sicuro di ciò che intendi fare, spiegami nel dettaglio ciò che hai in mente», lo incoraggiò Gemmil. «È tempo che i Liberi facciano la loro parte per difendere la Terra Nascosta.» E Tungdil spiegò il suo piano. Terra Nascosta, regno dei Primi, versante orientale dei Monti Rossi, 6234° ciclo solare, inizio inverno Iniziò di nuovo a nevicare. I fiocchi di neve si posavano sulle nove torri e sulle due file di mura della Guardiadiferro orientale, che erano state rapidamente ricostruite dai Primi. Ogni mano aveva dato il suo contributo, fino a che le macerie non erano state rimosse e le pietre ben disposte l'una sopra l'altra. Erano stati eretti di nuovo anche i cinque valli che chiudevano la forra che portava all'ingresso del regno dei Primi. Gli ingegneri avevano imparato dagli errori dei loro predecessori e nella ricostruzione avevano messo in conto che, prima che gli edifici fossero a rischio, potesse cadere sulle torri e sui ponti una quantità di neve tre volte superiore a quella caduta nel precedente ciclo solare. Lungo il pendio erano stati disposti frangivalanghe: spessi cunei di pietra e bastioni di basalto, posti di traverso, avrebbero catturato la Morte Bianca prima che piombasse di nuovo sui bastioni dei nani. Ciò che resisteva alla neve e al ghiaccio si opponeva anche a Lorimbas Cuordacciaio e al suo esercito, che era allineato davanti alla porta chiusa del primo vallo, in attesa di entrare nella forra. Salfalur era davanti al portale e cercava un meccanismo di apertura, ma
sui battenti di pietra trovava solo punti spogli, laddove un tempo c'erano le rune che assicuravano l'ingresso ai visitatori. A quelli benvenuti. «Niente», gridò a Lorimbas che, come gli altri Terzi, si riparava dal freddo gelido portando spessi mantelli di lana sopra le armature, nonché guanti e sciarpe; in quanto sovrano, Lorimbas portava sulle spalle una pelliccia, e sul capo spiccava l'elmo regale. «La porta è serrata. Dovremo arrampicarci.» «Banda di maledetti!» esclamò il re, e la sua voce riecheggiò tra le pareti della forra. Salfalur ritornò da lui; pesante e muscoloso, il guerriero sprofondava parecchio nella neve. «Non è un grande ostacolo. Tra poco eleggeremo il rifugio di Xamtys nostra proprietà» Ordinò di avanzare ai soldati muniti di corde e rampini. Quegli attrezzi non appartenevano all'equipaggiamento tipico degli eserciti naneschi, visto che nessun nano si arrampicava volentieri sulle corde, ma le notizie giunte da nord e da nord-est avevano preparato il Mastro di guerra a quella eventualità. I reparti incaricati di occupare i regni dei Quarti e dei Quinti si erano trovati di fronte a ingressi sbarrati. Gli accessi erano stati assicurati in modo tale che nemmeno un topo avrebbe trovato un varco. «Scommetto che i Primi si sono comportati esattamente come gli altri», mormorò Lorimbas stizzito, che da tempo si aspettava di ricevere notizie simili da sud, dal regno dei Secondi. Niente era più fastidioso che farsi rubare dall'incudine il pezzo di ferro ancora caldo, e giusto prima dell'ultimo colpo di martello. Ciò che lo faceva arrabbiare ancora di più era che non rimaneva più nessuno su cui sfogare la sua collera. «Ti direi: che Vraccas guidi il tuo braccio e il tuo martello, ma so che tu non dai nessun valore alla benedizione di Vraccas», risuonò un saluto, forte e del tutto imprevisto. Sembrava provenire dalla montagna stessa. Un nano solitario comparve sul parapetto, proprio sopra la porta. «Per cui dirò solo: salute a te, Lorimbas Cuordacciaio del clan dei Frantumaroccia, della stirpe del Terzo.» Salfalur fece un breve cenno a Lorimbas. Aveva riconosciuto subito il nano. Il sovrano dei Terzi strinse i pugni. «Quindi sei tu Tungdil Manodoro, l'assassino di mio nipote.» «Il quale ha attentato alla vita di mia moglie», replicò Tungdil. «Si è scelto da solo il suo destino. Chiedilo all'assassino di Lotrobur, sta a fianco
a te.» «Ti sventrerò mentre ancora respiri», gridò Lorimbas estraendo l'ascia. «Prova pure, ma non ci riuscirai mai. O pensi di aprire le porte della Guardiadiferro a suon di muggiti?» rise l'altro appoggiando le mani sul muro, ostentando così la superiorità della sua posizione. «Continua a gridare, e attirerai la Morte Bianca. Arriverà sino al fondo della forra, lì dove te ne stai a strillare come un mezz'orco pelato.» Tungdil sollevò gli occhi e si guardò intorno, come a osservare qualcosa di molto lontano. «Hai paura delle montagne? Perché sei venuto con così tanti guerrieri? Quanti saranno? Cinquemila? E dov'è l'arma con cui hai promesso a elfi e uomini di combattere gli avatar?» «Questo non ti riguarda! Vattene dalla mia fortezza!» «Dal momento che io so come si apre, direi che è la mia fortezza, Lorimbas. Non t'inviterò a entrare fino a che non ci avrai mostrato l'arma e non ci avrai spiegato come funziona.» Il sovrano dei Terzi sollevò la punta dell'ascia. «Tu hai escogitato tutto questo! Hai violato gli accordi e la parola di Gandogar», disse, furibondo. «L'imperatore ti...» «Io sono un Terzo», lo interruppe Tungdil, per nulla impressionato. «Lo hai dimenticato?» Sollevò l'ascia e indicò Salfalur. «Chiedilo a lui, se non mi vuoi credere. Ha ucciso mia madre e mio padre e ha gettato me in un burrone, dove la mano di Vraccas mi ha salvato e mi ha portato fino a qui, perché sventassi il vostro tradimento ai danni della Terra Nascosta.» Tungdil impugnò l'arma con entrambe le mani e si rizzò. Si ergeva sul camminamento, come un guardiano. «Allora, Lorimbas. Dov'è l'arma?» Salfalur fece un cenno ai nani dotati di rampini, che presero ad avanzare verso il muro. Tungdil digrignò i denti. «È così facile sconfiggere gli avatar? Bastano nani con corde e chiodi da arrampicata? Ma qualora aveste intenzione di salire quassù, sappiate che non sono solo.» Mentre parlava, alla sua sinistra comparve Boïndil, alla sua destra Boëndal, con in mano le armi pronte all'uso e per nulla inclini a scherzare. «Questo però è davvero un tradimento e una violazione degli accordi», osservò Salfalur. «Conosco quei due, appartengono ai Secondi.» «Non più, Grosso. Ti sbagli», replicò il Rabbioso con sommo gusto; le asce gli ruotavano tra le mani, come se morissero dalla voglia di essere usate contro un nemico. «Ci siamo separati dalla nostra stirpe.» Gemmil entrò nella visuale di Lorimbas. «Ora appartengono a noi, i Li-
beri.» A un suo cenno, il camminamento del primo baluardo si riempì di nani muniti di scudi, mazze, asce e altre armi. Qua e là issavano sui merli pesanti massi, pronti a gettarli sui nemici in caso di attacco. «Su questo muro e alle sue spalle ti aspettano i guerrieri di Aureorifugio, dietro ancora quelli di Tesordigemme e molti altri. Dovrai superare diecimila nani, cinque valli e la Guardiadiferro, con la sua doppia cerchia di mura e le sue nove torri, prima di camminare sul ponte che ti porterà nel regno dei Primi.» «E me.» Narmora si accostò al parapetto, con un mantello rosso sopra il vestito. «E me, Rodario l'Incredibile», fece l'attore, solenne, cercando di suscitare particolare sensazione col suo vestito da mago, invero molto fantasioso. «Sono dotato di poteri magici, la cui terribile potenza quasi eguaglia quella della mia mentore, Narmora la Sinistra.» Tungdil fece roteare l'ascia. «Dunque, mio buon Lorimbas, puoi attaccare, oppure puoi risparmiare a te e ai tuoi tutto questo... I massi, i dardi e gli attacchi magici cui non potrete rispondere. Basta che ci mostri l'arma che userai contro gli avatar, e che ci spieghi come funziona.» Il re fece vagare lo sguardo sui numerosi volti che affollavano l'alto muro. «Non l'abbiamo con noi», disse, stizzito. «Prima volevamo occupare il nostro regno e presidiarlo.» «Benissimo. Allora tu e tutti quelli che sono con te aspetterete finché non ci saremo convinti dell'efficacia dell'arma. Spero per voi che non ci voglia molto, altrimenti vi ritroverete presto congelati.» Fece un cenno verso destra. «Là sopra troverete una caverna, ci potrebbero stare la metà dei tuoi guerrieri. Auguro al resto di voi di aver portato abbastanza coperte.» «Sapientone, come faremo a capire se l'arma serve a qualcosa?» chiese Boïndil, a bassa voce. Tungdil sorrise. «Vedi come Lorimbas si agita e muove gli occhi? Vedi quanto Salfalur scoppia dalla voglia di saltare su questo muro e farmi a pezzi?» «Sì. E allora?» replicò il Rabbioso. «Quello che intende dire, fratello mio, è che Lorimbas non possiede affatto questa misteriosa arma», gli spiegò Boëndal, contento di aver deciso di fidarsi di Tungdil e di seguirlo. Si era dimostrata la scelta giusta. «Avevi ragione, Sapientone. Lorimbas ha imbrogliato i sovrani di uomini, elfi e
nani.» In altre circostanze Tungdil sarebbe stato felice di esultare, ma la sua vittoria aveva un sapore terribile. «Questo significa che, per combattere gli avatar, potremo confidare solo in Narmora. Si dovrà dare da fare, fino a che il nostro esercito di innocenti non sarà stato allestito. Dobbiamo mandare immediatamente dei messaggeri agli altri nani e alle case reali per informarli della nuova situazione.» «L'arma sarà qui tra due rotazioni», gridò Lorimbas. «Non precipitate la situazione. Vedrete che vi si apriranno gli occhi.» «Aspettiamo volentieri, se quella che ci porti è la salvezza», ribatté Tungdil. Poi si rivolse ai suoi amici. «Attaccheranno, questo è sicuro. Utilizzeranno la proroga per escogitare qualche meschinità. Le sentinelle devono stare in guardia, ci sarà un assalto.» Boïndil incrociò le asce. «Che vengano! Il mio cuore geme all'idea di uccidere nani e di versare il loro sangue, ma se lo sono meritato. Vraccas mi perdonerà.» «Voi Terzi!» echeggiò la voce di Lorimbas, nell'aria fredda. «Voi Terzi che vi siete trovati dalla parte sbagliata, come te, Sanda Ardentecoraggio, io vi giuro: tornate in grembo alla vostra stirpe e tutti i vostri errori saranno perdonati. Fatelo, prima che su di voi ricada una colpa ben più grande.» «Un altro stratagemma, Lorimbas?» gridò Tungdil. «Non ti servirà a nulla.» Con la coda dell'occhio notò che Sanda, incerta, guardò prima Gemmil poi Myr. Si ricordò delle parole ammonitrici della chirurga. «Due rotazioni, Lorimbas. Siamo molto ansiosi di vedere che aspetto ha un'arma capace di annientare gli dei.» Indietreggiò finché non fu sicuro di non poter essere visto da sotto. Narmora e gli altri nani lo imitarono. Tungdil non sapeva ancora se dovesse rallegrarsi. Aveva avuto ragione a pensare il peggio, ma in fondo avrebbe preferito vedere spuntare Lorimbas accanto a una macchina capace di annientare un avatar con un colpo solo. Narmora gli si avvicinò; sembrava leggergli nei pensieri. «Che facciamo adesso? Sembra che presto dovremo combattere su due fronti.» I suoi occhi scuri, quasi interamente neri, puntarono verso ovest. «Dopo parecchie rotazioni in cui non sembrava stesse accadendo niente, nelle ultime notti i segni si sono fatti più preoccupanti. Gli avatar si avvicinano.» Era contenta di aver lasciato la sua bambina nel palazzo di Porista. Sotto la custodia della balia, Rosild, era più al sicuro di quanto non lo fosse lì, per quanto la separazione facesse soffrire lei e Furgas.
«Che cosa potrai fare contro di loro?» domandò Tungdil. Lei rise senza gioia. «Se la leggenda è esatta, avrò a che fare con schegge di un dio.» Lo guardò, visibilmente scoraggiata. «Sono stata istruita da Andôkai per circa sei mesi. Lei era una maga che affinava le sue arti da più di cento cicli, e si sentiva ancora lontana dall'aver raggiunto la perfezione che cercava.» Narmora abbassò la voce. «E nemmeno lei sapeva che cosa si dovesse fare contro gli avatar. Nessuno sa nulla di preciso, a parte il fatto che portano morte e distruzione nelle regioni che attraversano. Nôd'onn aveva ragione, Tungdil. Ci mise in guardia e noi l'abbiamo ucciso. L'unico che fosse abbastanza forte da sconfiggerli è morto.» Fece un profondo respiro. «Questo è uno degli ultimi momenti di quiete. Godiamocelo, prima che il mondo tramonti.» Si voltò, facendo per allontanarsi. «Dirò a Furgas che deve caricare le catapulte.» «Fa' anche dire alle sentinelle del versante occidentale di riferirci qualsiasi stranezza», le chiese il nano. «Spero che riusciremo a sistemare la questione con Lorimbas prima che gli avatar si avvicinino o incontrino Xamtys in campo aperto.» Narmora annuì e tornò alla fortezza. «Ha liberato il suo uomo dal veleno», disse Myr, pensierosa. «Deve avere moltiplicato il suo potere molto in fretta, se pensi che poco prima aveva detto di non essere in grado di farlo.» «Mi ricordo. E spero che sia forte abbastanza. Non deve solo padroneggiare bene la magia, deve anche avere più fiducia in se stessa.» Tungdil strinse la nana tra le braccia. «Come finirà la nostra storia? Verremmo uccisi da Lorimbas e Salfalur o moriremo di fronte agli avatar? O forse metteremo tutti in fuga?» Myr gli accarezzò la guancia. «Sono una chirurga, non una veggente. Qualunque cosa accadrà, io sarò al tuo fianco. Una sola volta ti ho lasciato da solo, e non capiterà mai più che la tua vita finisca in pericolo per causa mia. Nessun avatar e nessun Salfalur m'impediranno di raggiungerti, quando avrai bisogno di me.» Guardò la moltitudine di nani che occupava il baluardo, e che si raccoglieva al caldo dei fuochi della Guardiadiferro orientale. «Nelle prossime due rotazioni dovrò preparare i miei strumenti. Ci saranno molti feriti, se Lorimbas attaccherà.» «No. Non riusciranno a salire sul muro.» «Ne sei sicuro? Perché mai dovrebbero arrampicarsi, se qualcuno aprirà loro la porta?» Entrambi guardarono Sanda Ardentecoraggio, che si tratteneva con le
sentinelle poste accanto al passaggio, impartendo i suoi ordini. «Sarà la nostra rovina, se qualcuno non la tiene d'occhio», disse Myr. «Quello sarà il mio compito.» *
*
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Le due rotazioni volarono. Dopo che furono trascorse, Tungdil, Narmora e i gemelli attendevano sul camminamento che Lorimbas s'inventasse un'altra scusa o che lanciasse il suo attacco. «Che cos'hanno fatto nel frattempo?» chiese Tungdil a una sentinella. «Hanno cantato. Un canto dopo l'altro. Davanti alla porta. Canti di battaglia, pieni di insulti, dalla mattina alla sera», brontolò la sentinella, e si vedeva che i versi non gli erano per niente piaciuti. «Non si riusciva a chiudere occhio, tanto cantavano forte. Ma le loro voci non hanno fatto cadere il muro.» «E non smettono di cantare.» Boëndal indicò con un cenno del capo la caverna da cui usciva un fiume di Terzi. «Ci provano di nuovo.» I nemici si posizionarono proprio di fronte al vallo, formando un grosso rettangolo, il cui lato maggiore era lungo quanto il muro dei difensori. Si avvicinavano cantando. Lorimbas marciava alla loro testa e si fermò quando furono a trenta passi dalla porta. «Nessun'arma, Lorimbas?» domandò Tungdil con sarcasmo, conoscendo già la risposta. «Non ce n'è mai stata una, Tungdil Manodoro, traditore del tuo stesso sangue», urlò il re dei Terzi. «Prima di morire devi sapere che tutti voi - tu, gli intelligenti uomini, i superbi elfi e i saggi nani - siete caduti nella nostra trappola. Non esistono gli avatar.» «Questo è davvero geniale. Ora neghi semplicemente che ci sia il pericolo.» Tungdil fece segno ai nani di prepararsi. «Che cosa t'inventerai ancora?» «Un attacco. In questo momento, quattromila nani sono davanti all'ingresso occidentale della Terra Nascosta e lo attaccheranno mentre io farò cadere questo muro. Nulla m'impedirà di conquistare tutti i regni dei nani. I nostri preparativi sono terminati, le nostre spie hanno fatto un ottimo lavoro.» «Dov'è il Grosso?» Il Rabbioso guardava con sospetto le file dei nemici. «Non lo vedo da nessuna parte. E i pappamolle qui sotto sono al massimo
quattromila. Gli altri mille devono essere nascosti da qualche parte.» «Hai ragione. C'è qualcosa che non va», mormorò Tungdil, prima di rivolgersi nuovamente a Lorimbas. «Se gli avatar non esistono, che cos'è che vediamo ogni notte in cielo? Sei forse un mago?» Il re rise. «Sì, sono un mago. Ma non come quella che hai accanto. Io posso trasportare nani nella Terra dell'Aldilà, veloce come il vento, e far accendere loro fuochi immensi in cui bruciare zolfo e altro. Facendovi credere alle leggende sugli avatar.» «Ma che...» «È il segreto di Giogonero, che tu, mio grande eroe, non hai scoperto», lo canzonò Lorimbas. «Avete calpestato ogni angolo del pianoro e non ne avete compreso il valore. Possiede tunnel propri, scavati dai Terzi migliaia di cicli fa per rendere possibili attacchi da entrambi i versanti dei monti. Quando mi giunse voce che tutti voi temevate il pericolo che veniva dall'ovest, io ve ne ho offerto uno.» «Stai ancora mentendo!» «No, è la verità. I miei migliori ingegneri si trovano davanti alla porta occidentale del regno di Xamtys, e coi loro fuochi d'artificio fanno in modo che l'intera Terra Nascosta se la faccia nei pantaloni», rivelò Lorimbas, esultante. «I tuoi ingegneri non possono prevedere le stelle cadenti. Non esiste un mangano tanto grosso...» «Be', la stella era vera. Per noi è stata un caso fortunato. È precipitata, è vero, ma niente di più. La mia gente ha visto da lontano il punto in cui ha impattato, e non c'era nulla, nessuna traccia di un dio, solo fango ribollente.» Il re si diede una pacca su una coscia. «E quella pozza di fango ha alimentato la vostra paura di ciò che aveva predetto Nôd'onn! Alla fine ne eravate così convinti che avrei potuto chiedervi qualunque cosa.» «E l'hai quasi ottenuta», mormorò Tungdil. «Vi do la possibilità di scegliere: apri la porta e consegnati a noi, e lasceremo che i nani migrino in pace; oppure rimani lì e muori con loro. Non concederemo nessuna pietà.» Narmora fissò sgomenta il re dei Terzi. Erano state solo menzogne. Ho perso mio figlio, ho ucciso Andôkai, Furgas è stato a un passo dalla morte, e tutto a causa dei suoi intrighi! Sollevò le braccia, con gli occhi completamente neri. «Lorimbas Cuordacciaio», gridò con voce profonda, e i nani intorno a lei indietreggiarono. «Pagherai per ciò che hai fatto.» «Non ora, strega!» replicò il nano, prima di suonare il suo corno.
Un istante dopo, la roccia su cui poggiava il muro sprofondò, e il muro crollò con grande fragore. I difensori caddero con esso. La maggior parte dei guerrieri che si trovavano sugli spalti venne schiacciata dai conci, grandi come nani, o ne fu sepolta. L'ultima pietra stava ancora rotolando quando i Terzi si lanciarono in avanti, salirono su quello che restava del muro e si gettarono contro i Liberi presi alla sprovvista e senza comandanti. Ma la situazione divenne ancora peggiore per i guerrieri di Aureorifugio. In più punti della forra, alle loro spalle, spuntarono picconi e rampini. Dai tunnel scavati in tutta fretta saltarono fuori i mille guerrieri mancanti. Guidati dal temuto Salfalur, colsero i Liberi alle spalle. Il primo scontro ebbe il suo corso. Quando il sole tramontò, almeno tremila difensori giacevano morti tra il primo e il secondo vallo, e i Terzi festeggiarono la loro vittoria con canti dedicati a Lorimbur. Tungdil e i gemelli erano riusciti a estrarre Narmora, gravemente ferita, da sotto le pietre e a trasportarla oltre la seconda porta prima che qualcuno notasse ciò che stavano facendo. Erano riusciti a salvarsi anche Gemmil, Sanda e novecento Liberi, completamente sconvolti. Narmora chiuse gli occhi e si concentrò per guarirsi da sé; le ferite si chiusero con la velocità con cui cade l'acqua di una piccola cascata. La mezz'alba saltò in piedi subito dopo. «Devo uccidere Lorimbas...» «No, Narmora, non oggi», la pregò Tungdil. «Dobbiamo abbandonare le quattro linee di difesa avanzate, non è possibile tenerle di fronte alle tattiche dei Terzi. Risparmia le tue forze per la difesa della fortezza vera e propria.» La mezz'alba stava per rispondere, quando Myr arrivò trafelata. «Venerabile maga!» gridò mentre ancora era lontana. «Venite a vedere che cosa ci hanno portato le sentinelle del versante occidentale.» «Altri feriti», suppose Narmora. «Un ferito», precisò Myr. «Lo conoscete. È Djerun... almeno credo.» «O un altro tentativo di uccidere la nuova maga», brontolò Boïndil. «Quanti ce ne sono di questi, e da dove spuntano? Qualcuno dovrebbe tappare il buco.» «E chi ce li manda?» aggiunse Tungdil. «Grazie, Boïndil!» «Prego. Ma per cosa?» Seguirono di corsa Myr lungo i ponti, raggiungendo l'atrio scavato nella
montagna. «Grazie per avermi suggerito una domanda importante, alla quale Lorimbas non saprebbe rispondere. E che è preoccupante», rispose Tungdil a Boïndil strada facendo. Guardò Myr, e dal suo sguardo intuì che anche lei aveva compreso. Sul pavimento della sala giaceva Djerun, o quello che doveva essere Djerun. La sua armatura pareva malridotta. Era piena di graffi, bruciature e ammaccature. Punte di lancia spezzate, pezzi di spade e chiodi di mazze e mazzafrusti testimoniavano i combattimenti che Djerun aveva dovuto superare. Tutta l'armatura era coperta di macchie del suo sangue giallo vivido. Stava disteso per terra, immobile. «Qualcuno sa lo djerunesco?» fece Boïndil accarezzandosi la barba. Tutti guardarono Narmora. «Temo di dovervi deludere. Non me l'ha insegnato», ammise la mezz'alba. «Andôkai si è portata il segreto di quella lingua con sé nella...» «Dov'è la signora?» chiese una voce estremamente roca. «Ehi, ha borbottato qualcosa!» disse Boïndil. «Ohi, testa di latta! Sii gentile, parla in modo che ti possiamo capire.» Impavido, gli si avvicinò. «Tu sei il nostro vecchio Facciadiferro, non è vero?» Adocchiò la visiera. «Balyndis ci potrebbe dire se è la sua armatura oppure no. Su, diamogli un'occhiata.» Le sue corte dita si tesero verso la parte inferiore della maschera. «Digli di smetterla», sentì dire Narmora, e capì che era Djerun a parlarle. «Sento che in te è avvenuto un grande cambiamento, mezz'alba. Porti dentro di te ciò che un tempo apparteneva a Nôd'onn.» «Guarda un po', ha borbottato di nuovo», rise Boïndil, estraendo un'ascia e tenendone il lato smussato davanti a sé. «Prova a saltarmi addosso e ti do un colpo su quella testa di ferro che...» «Boïndil, smettila!» ordinò Narmora. «Mi è... tornato in mente come si fa.» Le sue labbra si mossero da sole, formando parole e suoni che lei stessa non aveva mai sentito prima. Il potere della pietra, pensò lei, chiedendosi dove avesse appreso quella lingua. «No, non è il potere della pietra, ma di ciò che vi era contenuto», rivelò Nudin, che era comparso dal nulla e stava accanto a Djerun. «E ti sarà ancora più utile, se tu...» Improvvisamente era di nuovo scomparso. Narmora cercò di non far trapelare la sua confusione. È un'allucinazione, dev'essere una conseguenza della caduta tra le pietre. «Djerun, la tua
signora è morta», gli spiegò. «È stata uccisa da una creatura simile a te, rivestita di un'armatura come la tua. Ne sai qualcosa?» «Dunque la successione spetta a te?» «Perché non si alza?» chiese Boïndil, dando col manico dell'ascia dei colpetti impertinenti sul petto di Djerun. «Si è addormentato? Parla o sta russando, Narmora?» «Vedi di stare tranquillo, fratello», lo rimproverò Boëndal tirandolo indietro per una spalla. «Se continui a non dargli tregua, finisce che ti salta addosso.» «È disarmato e ferito, cosa potrebbe farmi?» «Potrei strapparlo in due. È molto facile, la cotta di maglia non fa resistenza», disse Djerun a Narmora. «Allora, la successione spetta a te?» «Io non la volevo di certo», confessò la mezz'alba. «Mi chiamano Narmora la Sinistra, e custodirò la memoria di Andôkai.» «Tu eri la sua apprendista, e adori lo stesso dio che adorava lei, per cui ti servirò come ho servito lei», annunciò il colosso in armatura. «Raccontaci che cosa ti è successo, Djerun.» «La mia vita sta svanendo. Ho bisogno che mi curiate col vostro potere, signora.» «Quale incantesimo...» «Nessun incantesimo.» Voltò la testa verso di lei. «Ho bisogno del vostro potere.» «Ah! Il barattolone è ancora vivo!» fece il Rabbioso. «E sembra essere quello vero.» «Boïndil!» gli gridarono tutti. Imbronciato, il nano scrollò le spalle e tacque. Per il momento. «Il tuo sangue, signora.» «Che intendi dire?» «Ne ho bisogno. È meglio della carne delle creature di cui mi nutro. Il sangue di una maga mi vincola a lei e mi dà nuova forza.» «Uscite tutti», ordinò Narmora, sforzandosi di nascondere quanto fosse agitata. «Per guarirlo devo pronunciare un incantesimo che può essere pericoloso per voi.» Il Rabbioso lasciò la stanza molto malvolentieri. Quando furono soli, Narmora, col cuore che le batteva forte, s'inginocchiò accanto al colosso, si rimboccò una manica e gli offrì le arterie, tenendogli il braccio davanti alla visiera. Djerun alzò il braccio destro, aprì la chiusura e sollevò la maschera. La
maga si sforzò di guardare la creatura che le si stava palesando. Come Balyndis, rabbrividì all'orribile vista. «Farà male, signora», disse il guerriero per prepararla al dolore che lei avrebbe sentito. Con un rapido movimento del capo infilò le zanne nell'avambraccio della mezz'alba, lo squarciò e vi pressò sopra la sua bocca senza labbra. A Narmora vennero subito le vertigini. Il suo nuovo seguace sembrava volerle succhiare tutto il sangue dalle vene. La lasciò un istante prima che lei perdesse i sensi, e la maga si accasciò sul pavimento della sala pronunciando subito un incantesimo di guarigione per richiudere il taglio. Gli occhi di Djerun presero a splendere di luce viola, che divenne sempre più viva e penetrante, più chiara della luce del sole. La mezz'alba sentì che dentro all'armatura del colosso qualcosa scricchiolava e frusciava, cigolava e strideva. Poi il guerriero si scrollò dalla corazza le punte di lancia, e numerosi altri pezzi di armi caddero sulla pietra. «Avete un buon sapore, signora. Sa addirittura un po' di Andôkai», tuonò Djerun, rinvigorito come un giovane dio. «E sapete di potere, molto più potere di quanto ne possedesse Andôkai. Siete un'ottima fonte di nutrimento e di cura.» Si alzò, fresco e riposato, come se si levasse da un sonnellino pomeridiano, e chinò la testa, di nuovo coperta dall'elmo. «Ora vi voglio raccontare quello che ho visto: Andôkai mi mandò in cerca degli avatar. Attraversai i Monti Rossi e vagai per la pianura che si trova al di là di essi. Trovai dei nani che facevano cose strane, ma dal momento che non era mio compito occuparmi di loro, li aggirai. Superai un cratere largo quattro volte la lunghezza della forra che sta davanti a questa fortezza; dentro di esso ribolliva una massa incandescente. Poi superai una desolata striscia di terra, coperta di cenere, che era caduta vittima di una grande siccità. Lì trovai gli scheletri di soldati che portavano i colori del Weyurn. Poi m'imbattei in un esercito. Portavano stendardi bianchi, raffiguranti dieci rune differenti; le loro armature erano così bianche da bruciarmi gli occhi, e cavalcavano i cavalli più bianchi che abbia mai visto. Benché mi tenessi nascosto per osservarli, mi notarono e mi attaccarono.
Ogni volta che ne uccidevo uno, altri quattro mi assalivano, fino a che non mi domarono e mi trascinarono al cospetto di dieci figure avvolte da un'aura di assoluta purezza. Una corona di raggi circondava ognuno di loro; accecato da tanta luce, non potei scorgerne i volti. Mi chiesero da dove venissi e, poiché non rispondevo, mi colmarono con la loro pietà, il loro amore, la loro speranza e il loro calore, tanto da farmi urlare. Si aspettavano che cedessi, ma non lo feci. Mi liberai e corsi via, per raccontare ad Andôkai ciò che avevo visto. Loro mi gridarono dietro che i probi e gli onesti della Terra Nascosta non avevano più da temere a lungo. Avrebbero portato la rovina di tutti quelli che avessero trovato impuri e malvagi, e avrebbero liberato la terra dal demone di Tion che vi aveva dominato per centinaia di cicli. Io corsi con la luna e col sole lungo sentieri nascosti, fino a che non arrivai davanti alla fortezza dei nani.» Narmora si toccava il braccio, che era guarito senza che rimanessero cicatrici. Almeno adesso so che cosa vogliono da noi. Pensano che Nôd'onn e la Terra Estinta esistano ancora, non sanno che nel frattempo li abbiamo sconfitti. «Grazie, Djerun», mormorò, assorta nei suoi pensieri. «E i nani, signora?» «La cosa non ci riguarda. Sono Terzi.» «Non intendevo quelli che si comportavano in modo strano. Mentre fuggivo, una parte del Bianco Esercito era sulle mie tracce. Devono aver raggiunto già da tempo i nani, non solo i Terzi, ma anche degli altri. Mi stavano venendo incontro, e avevano vecchi e bambini con sé.» La maga annuì. Non provava compassione per i Terzi, ma la situazione di Xamtys la preoccupava. Raggiunse la porta che conduceva nel corridoio in cui l'attendevano Tungdil e i suoi amici. Non appena aprì la porta, le teste si voltarono di scatto. Vedeva bene quanto fossero ansiosi di sentire le novità. «Gli avatar esistono. Stanno arrivando», disse. E la curiosità divenne paura. *
*
*
«Che dite, il piccolo collerico soldo di cacio sarebbe disposto a parlamentare, se gli raccontassimo che la minaccia esiste davvero?» Rodario
sentiva più che altro il bisogno di dire qualcosa, in modo da rompere il pesante silenzio che dominava la sala. Tungdil, Gemmil, Narmora, i gemelli e tutti i nani che avessero rango e prestigio erano riuniti per discutere sul da farsi, mentre Salfalur scavalcava un vallo dopo l'altro e si avvicinava alla fortezza. Le trappole allestite da Furgas erano costate la vita già a trecento Terzi, ma i fanatici discendenti di Lorimbur non si lasciavano frenare. Erano a un passo dal conquistare il primo regno dei nani e ad annientare una volta per tutte l'ultima resistenza che si contrapponeva loro. Non sospettavano neanche che le menzogne sugli avatar si fossero dimostrate vere. Boïndil sbuffò. «Eccolo di nuovo, il nostro Fanfarone! Credi davvero, incredibile Rodario...» L'attore sollevò subito un dito ammonitore. «Ormai mi chiamo Rodario l'Incredibile», insistette di fronte al nano. «Potrebbe essere il momento giusto, mio caro amico dalle corte gambe e il sangue caldo.» Il Rabbioso si piantò le mani sui fianchi. «Non sei né un apprendista né un mago. Sei un imbroglione che ha la fortuna di avere come compagno d'armi un ingegnoso magister technicus dotato quasi quanto un nano.» Si diede un colpetto sulla fronte. «Ehi, so che dobbiamo fare! Coi Musi di porco non ha funzionato, ma forse potresti sconfiggere gli avatar con le tue chiacchiere.» «Non c'è motivo di offendere, signor Rabbioso. Vi ho soltanto sottoposto una proposta.» «Una proposta da dementi», ribatté Boïndil. «No, non lo è.» «Oh, certo che lo è!» «Nient'affatto.» «E invece sì.» «Basta, voi due!» s'intromise Narmora. Guardò Rodario. «E Boïndil ha ragione, mio incredibile apprendista. È una proposta da dementi.» «Attaccatemi pure alle spalle», si lamentò l'attore. «Pensavo soltanto che potessimo rivolgerci a Lorimbas appellandoci alla ragione. In fin dei conti, per tutti questi cicli ha vigilato sui Monti Neri e ha difeso il passo orientale contro i mostri. Sembra che i Terzi abbiano conservato almeno in questo uno scampolo di decenza.» Boëndal fece schioccare la lingua. «Proviamoci. Alla peggio rifiuterà. Ma abbiamo bisogno di prove, altrimenti crederà alle nostre parole quanto noi crediamo alle sue.»
«Ho mandato un messo a Xamtys, per metterla in guardia dagli avatar e informarla della nostra situazione», intervenne Tungdil. «Spero che la raggiunga in tempo.» La porta venne spalancata. «Venite subito! Abbiamo bisogno di aiuto alla prima porta. I Terzi minacciano di sfondare», annunciò un nano. «Si può pensare di loro quello che si vuole, ma sono guerrieri molto abili», brontolò Boïndil mentre si alzava e seguiva il messaggero; teneva già le asce in mano. «Ma io gli mostrerò che un Secondo può combattere bene quanto loro, anche senza quegli scarabocchi in faccia.» Rise. «Ah, adesso ho capito! Gli scarabocchi sono la traccia che devono seguire le mie asce.» Tungdil avvertiva chiaramente che il Rabbioso non era affatto ansioso di combattere come quando si trattava di uccidere mezz'orchi, bogglin e altre bestie. Pur senza farne parola con nessuno, Tungdil aveva anche concluso che, con tutta probabilità, i Terzi alla fine sarebbero usciti vincitori da quella battaglia ai piedi dei Monti Rossi. Sarà una battaglia grande e sanguinosa, che verrà ricordata con grande rispetto. Rimaneva da vedere che impatto avrebbero avuto sull'andamento della battaglia la magia di Narmora, la forza di Djerun e l'inventiva di Furgas. Tungdil aveva visto i Terzi in azione, durante il primo scontro, ed era rimasto ammutolito da quanto fossero forti, disciplinati e capaci nell'utilizzo delle armi. Ma questo non basterà a Salfalur. Lo ucciderò comunque. Prese la sua ascia, attraversò a grandi passi l'atrio e il ponte e raggiunse gli spalti della più alta delle torri, da cui si aveva la visuale migliore sulla battaglia. Rimase sbalordito. I genieri dei Terzi avevano dimostrato d'intendersi anche di costruzioni. Avevano fatto a pezzi i valli che avevano superato e, con le pietre che ne avevano ricavato, avevano eretto una grande torre triangolare, il cui angolo anteriore puntava sulle due file di mura della Guardiadiferro, come fosse la lama di una mannaia, superandole di venti passi in altezza. La costruzione era inclinata in avanti e provvista di puntelli che le impedivano di cadere prima del tempo. Intorno ai puntelli erano assicurate delle corde. Tungdil arrivò giusto in tempo per vedere che cinquanta Terzi prendevano le corde e le tiravano con tutte le loro forze per strappare i puntelli dalla struttura. La torre si abbassò lentamente in avanti, poi la caduta accelerò, e la costruzione improvvisata si abbatté sul muro come un gigantesco cuneo. Torre e mura andarono in pezzi: i Terzi avevano aperto la breccia
che serviva loro. L'assalto iniziò. «L'avevo detto che era un errore non disturbarli durante la costruzione della torre», commentò Boïndil, guardando in basso. «I Liberi non sono fatti per combattere», aggiunse commentando le loro capacità e il modo in cui tentavano di arrestare i nemici. «Anche la nostra superiorità numerica serve a poco.» Corsero sul montacarichi per scendere e unirsi alla battaglia. «Se Xamtys non tornerà presto, Lorimbas fra poco avrà il regno che vuole.» Tungdil scorse Salfalur nelle prime file, dove, con un solo colpo del suo gigantesco martello, abbatteva anche più nani contemporaneamente. «Mi occupo io di lui», disse stringendo le dita intorno al manico dell'ascia. «Tu prenditi Lorimbas.» I difensori gettarono fiumi di scorie fuse sui nemici; il petrolio si riversò su di essi e prese fuoco in modo strano poco prima di raggiungere i nani nemici. Sul fianco sinistro dei difensori lampeggiavano nubi di fuoco. Narmora e Rodario facevano di tutto per respingere i Terzi, la mezz'alba con la vera magia, l'uomo coi dispositivi costruiti da Furgas, facendo finta di scagliare contro di loro un incantesimo dopo l'altro. Djerun badava che nessuno si avvicinasse troppo ai due. Ma i Terzi non provavano paura neppure di fronte al colosso, che era tre volte più grande di loro. Indietreggiarono per fare posto ai lancieri e ai picchieri, che lo attaccarono da distanza di sicurezza. Non avevano ancora raggiunto la rampa che conduceva alla porta della seconda fila di mura. Dietro di essa si trovava la scala d'accesso alla nona torre, da cui partiva il ponte che, superando il profondo burrone, portava al regno della regina Xamtys. Finché la porta rimaneva chiusa, vincere lo scontro contro i Liberi, che difendevano la rampa con tenacia, non avrebbe portato ai Terzi nessun vantaggio. Tungdil si fece strada combattendo, e aveva quasi raggiunto Salfalur quando sentì Myr gridare. Si voltò e la vide sdraiata a terra, davanti alla porta, con le borse degli strumenti sparsi tutt'intorno. Sanda Ardentecoraggio era sopra di lei, e brandiva una mazza con aria minacciosa. I battenti della porta cominciarono a scostarsi, cosa che fu subito notata dai Terzi. Allora è vero! Sanda è una traditrice! Tungdil ritornò rapidamente sui suoi passi e arrancò tra i cadaveri dei nani per aiutare la sua sposa. E io,
idiota, che mi fidavo di lei! Prima che le avesse raggiunte, il Rabbioso lo superò, si gettò sulla regina e la scaraventò a terra. Myr portava in faccia lo stampo della mano di Sanda: aveva il rosso profilo di cinque dita sulla guancia destra, e le scorreva sangue dal naso e da un angolo della bocca. «Ha aperto la porta per i Terzi!» ansimò mettendosi in piedi con l'aiuto di Tungdil. «L'ho vista troppo tardi.» «Brava, hai compiuto la tua missione», replicò Tungdil baciandola, sollevato dal fatto che Boïndil fosse riuscito a frapporsi tra le due. «Vieni, dobbiamo chiudere la porta.» Si affrettarono sotto l'arco, e imprecarono perché Sanda aveva reso inutilizzabile l'argano e aveva svolto interamente la catena, ammucchiandola sulla pietra. Nel frattempo, la Terza parava i colpi di Boïndil come se fosse per lei un gioco da ragazzi, cosa che fece infuriare l'altro ancora di più. Ormai gli occhi del Rabbioso sembravano guardare nel vuoto; la sua furia guerriera aveva preso il controllo della sua mente e ne guidava le azioni. «Ti faccio vedere io che vuol dire cercare di ammazzare la nana che ha salvato mio fratello», tuonò, aumentando la velocità dei suoi attacchi. «Non volevo ucciderla», ribatté lei, dovendo fare assai più attenzione per evitare le asce guizzanti. «Traditrice!» Il nano simulò un fendente. «Io? Lei ha aperto la...» L'ascia compì un'oscillazione inaspettata e le colpì l'ascella dal basso. Cotta di maglia e ossa finirono a pezzi. Mentre Sanda ancora lottava contro lo stordimento e il dolore, il Rabbioso le diede un calcio sulla rotula, rompendola e costringendo la nana a terra. «Mente!» gridò Myr agitata, sollevò un pugnale e fece per lanciarlo. Tungdil la fermò. «Calmati, non può più fare niente.» «Lo giuro», gemette Sanda cercando di fermare la perdita di sangue con una mano. «Myr ha aperto la porta. Sono arrivata tardi...» Deglutì. «Io so chi è. È la figlia di Lorimbas.» «Come no!» la schernì Boïndil. «E io sono il figlio carnale di Vraccas.» «È stata lei!» Sanda si appoggiò al muro, spossata, mentre il sangue le scorreva copiosamente dalla ferita. L'ascia aveva reciso l'arteria. «L'ho riconosciuta il primo giorno che è comparsa ad Aureorifugio. Volevo dirlo a Gemmil, ma lei mi minacciò. Avrebbe mandato un messaggio a suo padre, e tutti i miei parenti sarebbero stati uccisi.» «Bugiarda svergognata!» Myr la indicò col pugnale. «Prima di morire cerchi di metterci l'uno contro l'altra. Tu sei una Terza, non io.»
«A Porista ha simulato l'aggressione, in modo da poter dare a Romo tutti gli appunti senza sollevare sospetti su di sé. Altrimenti perché le avrebbe risparmiato la vita?» continuò Sanda, chiudendo gli occhi. «Ti ha mai detto, Tungdil, che aveva già stretto per due volte il patto di ferro? Il suo primo consorte è morto di febbre, l'altro è bruciato vivo nella sua camera da letto.» Puntò i suoi occhi su di lui, e il nano non poté scorgervi traccia di menzogna. «Quando vidi che stava dando la caccia a Gemmil, le misi il bastone tra le ruote.» I pensieri di Tungdil si accavallavano. Dovette ripensare a ciò che era avvenuto a Porista, al viaggio di ritorno, allo strano sfogo emotivo di Myr dopo l'incendio. «La febbre, l'incendio nella locanda...» cominciò a dire, lentamente. Gli occhi rossi di lei sbatterono le palpebre, incerti. Le afferrò un braccio e la trasse a sé come fosse una bambina disobbediente. «Giura sul tuo amore!» Lacrime scorrevano dagli occhi di Myr. «Tungdil... io... Tu credi a una Terza più che a me?» «Giuralo, e non ne riparleremo mai più.» Myrmianda abbassò lo sguardo. «Non avrei mai potuto farti soffrire ancora. L'amore è arrivato, e io non ho potuto fare niente per oppormi. Quella notte, alla locanda, ho capito che cosa significavi per me...» Iniziò a piangere. «Myr, dimmi che non sei la figlia di Lorimbas», mormorò Tungdil. Si sentì più tradito che mai. Prima Balyndis, ora lei, la mia sposa. All'improvviso, tutto ciò che lo circondava divenne irrilevante. La battaglia contro i Terzi, la salvezza della Terra Nascosta... La nana tirò su col naso, si asciugò le lacrime con la manica del vestito e lo guardò dritto negli occhi. «E invece sì, Tungdil. Sono la figlia di Lorimbas Cuordacciaio. Mi ha mandato tra i Liberi per osservarli, scoprire i loro segreti e preparare la conquista delle loro città. Sono nata albina, la natura mi ha dato il camuffamento migliore possibile, e mi sono bastati qualche menzogna e un po' di battiti di ciglia per diventare una dei Liberi. Ma tu hai cambiato tutto.» Gli prese la mano. «In realtà avevo il compito di ucciderti, ma il mio cuore ha deciso diversamente. Tu...» Guardò oltre di lui e sussultò. Gli afferrò le spalle e fece un passo intorno a lui; poi qualcosa la colpì alla schiena con tanta forza che gli crollò addosso. Tungdil la tenne stretta; la nana aprì le labbra, ansimando come se stesse affogando. Alle sue spalle c'era Salfalur. Le mani del nano stringevano il manico
del martello da guerra, sulla cui cima era innestato uno sperone lungo quanto un avambraccio; la punta usciva dalla gabbia toracica di Myr. «Non ti avrei mai...» sussurrò la figlia di Lorimbas, affondando le dita nelle spalle di Tungdil. «Non odiarmi...» Il suo fragile corpo si afflosciò, e Myr morì tra le braccia di Tungdil, offrendogli ancora, nonostante il dolore, un sorriso. Salfalur estrasse il metallo con cautela. La punta scivolò dalla sua schiena con un lieve schiocco. «Non ne avevi abbastanza?» Tungdil la posò dolcemente per terra e brandì l'ascia. «Non ti bastava avermi preso i genitori? Dovevi prendermi anche mia moglie?» «Tua moglie?» Salfalur fissò Myr, raggelato. «No, non tua moglie.» Allungò la mano sinistra e toccò il sangue che scorreva lungo lo sperone. Lo fregò tra le dita. «Mia moglie. A causa tua, ho ucciso mia moglie», ribatté con freddezza. «Per questo morirai di mille morti, Tungdil Manodoro.» «Tua...» Sconvolto, Tungdil fece un passo indietro, ma si dominò subito. «Allora non stiamo ad aspettare la fine», mormorò, cupo, preparandosi al combattimento. Presero a girare in tondo, ognuno attendeva che fosse l'altro a cominciare. Salfalur aprì il combattimento sollevando il martello, ma fermò il colpo prima di averlo sferrato. Con suo grande stupore, il corno di Lorimbas lo chiamava alla ritirata. La regina Xamtys era tornata di gran fretta nella sua patria con una parte dei suoi soldati, e si stava schierando sui merli. Tungdil vide che Salfalur lottava col desiderio di terminare il combattimento appena cominciato. Ma il Mastro di guerra era responsabile dei suoi soldati; alla fine abbassò l'arma, con negli occhi la promessa di riprendere il duello in un'altra occasione. Non lì, non quel giorno. Tungdil annuì. *
*
*
Un'altra nana non sarebbe sopravvissuta a quel giorno. Sanda Ardentecoraggio attendeva la morte tra le braccia di Gemmil; l'emorragia era troppo forte. Boïndil era accanto a lei, e non sapeva che fare. «Va tutto bene», lo rassicurò la regina con voce rotta. «Conosco la tua maledizione, Boïndil Duelame, non potevi fare altro.»
Il guerriero cadde sulle ginocchia, accanto a lei. «Io...» «No, non tormentarti. Io ti perdono.» La nana alzò la mano, schiudendo le dita coperte di sangue. Il volto del Rabbioso era colmo di pentimento. Le strinse la mano, senza parlare. Poco dopo, la vita uscì dal corpo di Sanda. «Vraccas mi deve odiare, se mi ha permesso di fare una cosa del genere senza prendersi la mia vita», mormorò Boïndil, col volto impietrito. I suoi occhi pieni di lacrime tradivano i suoi sentimenti. «Avrei potuto atterrarla, ma il mio sangue caldo mi ha fatto uccidere un'altra nana nell'ebbrezza della lotta. Prima Smeralda, ora Sanda.» Gemmil si alzò e fece cenno ad alcuni nani, che sollevarono con attenzione la loro regina e la portarono nella fortezza. «È come ha detto lei: non puoi farci nulla, Boïndil. Sei stato ingannato dalla perfidia di Myr, e non puoi contrastare la tua natura, la tua furia guerriera.» Gli posò una mano sulla spalla per mostrargli che anche lui non gli serbava rancore. Poi andò via. Non è un bel giorno. Tungdil guardò il corpo di Myrmianda e i suoi abiti imbevuti di sangue; poi la prese in braccio, attraversò il cortile colmo di morti e feriti e seguì i Terzi, che stavano arretrando. «Lorimbas!» gridò forte. «Ti porto tua figlia, morta per mano di Salfalur.» La adagiò ai suoi piedi. «Eccola. Prendila, se la vuoi seppellire.» Lorimbas comparve circondato da una ventina dei suoi guerrieri. Senza Salfalur. «Su di te c'è una maledizione, Tungdil Manodoro.» Senza guardarlo, il re s'inginocchiò accanto al corpo della figlia e le carezzò i capelli bianchi. «Uccidi tutto ciò che amo e che mi è caro. Prima Romo, ora Myr.» La sollevò dolcemente. «Non ci sarà mai pace tra noi due, Tungdil. Tuo padre era esattamente come te. Con lui è cominciato tutto, e con la tua morte tutto finirà.» «Lorimbas Cuordacciaio!» gridò Xamtys avvicinandosi. «Ti porto quello che resta della tua gente.» Indicò una manciata di nani. «Ecco tutti i sopravvissuti del tuo secondo esercito, quello che doveva attaccare la Guardiadiferro occidentale.» «Dunque i Primi sono guerrieri assai più capaci di quanto pensassi.» Lorimbas lanciò uno sguardo di disprezzo sui sopravvissuti, che erano coperti da ustioni e tagli. «Non sono stati i Primi, mio signore», disse uno di loro, col volto distorto dal dolore. «Sono stati gli avatar.»
«Cosa?» Il sovrano trasalì. «Che stai dicendo? Ti hanno promesso una ricompensa per raccontarmi queste menzogne?» «No, mio signore, esistono davvero!» «Non esistono! Sono una leggenda che serve a spaventare bambini, bestie e sempliciotti!» ribatté Lorimbas, tenendo la figlia stretta al petto. «Eravamo in marcia verso ovest», intervenne un secondo nano. «Avevamo davanti a noi le unità di Xamtys, che ritornavano a est, quando la loro cavalleria ci ha raggiunti. Grandi cavalli bianchi, c'erano anche unicorni, e cavalcavano tra le nostre file senza preoccuparsi del fatto che ci difendessimo oppure no. Non provavano nessuna paura.» Il Terzo vacillò, e fu sorretto dal nano che aveva accanto. «Poi sono venuti loro, lucenti come la neve fresca su cui splenda il sole di mezzogiorno. Brillavano come diamanti ed erano più caldi delle braci di una fucina. Riuscivano a essere ovunque, contemporaneamente, e ci hanno coperto con... io non so che cosa fosse», sussurrò disperato. «Sono stato colpito da una nube di luce, sono caduto, ma mi sono rialzato prima che ne mandassero un'altra. Sono corso via per mettermi in salvo, fino a che non ho raggiunto le linee dei Primi, che ci hanno fatto prigionieri.» Lorimbas si era fatto molto attento. «Che ne è stato delle altre migliaia?» Il guerriero scosse la testa, su cui vi erano pochi capelli e molta carne bruciata. «Non lo so, mio signore, ma il vento che ci seguiva portava con sé ceneri ancora calde.» «Noi abbiamo mandato un esploratore che ci ha riferito cose simili. La spedizione del Weyurn, che avrebbe dovuto fare una ricognizione, è stata distrutta allo stesso modo», riferì Tungdil. «Esistono, Lorimbas.» Il re strinse il corpo di Myr così tanto che dalla ferita sgorgò ancora sangue, imbrattandolo. «No, non esistono», sussurrò. «No, no e no, non possono esistere. Li abbiamo inventati, abbiamo solo finto che...» «Che facciamo ora, Lorimbas?» Xamtys lo guardava con aria di sfida. «Continuiamo a combattere per il mio regno o lottiamo fianco a fianco sul versante occidentale, per impedire agli avatar il passaggio?» Il re accarezzò la peluria argentata sulla guancia della figlia. «Tutto ciò cui miravo è perduto. Che almeno la Terra Nascosta non debba subire un destino terribile.» Rivolse il capo verso Tungdil, continuando a non guardarlo negli occhi. «Se sopravvivremo alla battaglia, ti sfiderò a duello. La tua famiglia deve estinguersi, come sarebbe dovuto succedere già da tempo.» Poi si rivolse alla regina. «Annuncio una tregua tra noi e tutte le altre stirpi, fino a che gli avatar non siano stati respinti. Lo giuro su mia figlia
morta, del cui sangue sono coperte le mie mani.» Si voltò. «Richiamerò tutti i miei guerrieri qui, sui Monti Rossi, e attenderò con voi l'arrivo degli avatar.» «Quanti guerrieri porterai?» chiese Xamtys. Lorimbas non la degnò di uno sguardo. «Basteranno a distruggere quegli esseri.» Tenendo in braccio Myr, sparì tra le sue guardie e raggiunse le file dei suoi combattenti. Là dove passava, le armi e le teste dei nani si abbassavano, salutando la principessa dei Terzi. V Terra Nascosta, regno dei Primi, versante orientale dei Monti Rossi, 6234° ciclo solare, inizio inverno «Non riusciremo mai più a scacciarli, dopo che si saranno stabiliti qui. Migliaia di Terzi. Nel mio regno.» Xamtys ne era davvero impressionata. «Non saremmo mai riusciti a respingerli. Ci avrebbero battuti in qualunque battaglia, perché sono più bravi di noi nel maneggiare le armi.» Si erano incontrati nella sala delle assemblee per discutere una strategia nella lotta contro gli avatar. Sapevano bene che per combattere i frammenti di un dio c'era bisogno di qualcosa di speciale, ma non era facile capire che cosa. Cercavano una soluzione davanti a una birra e a un pasto robusto. «In ogni caso, prego che ne muoiano tantissimi contro gli avatar», disse Boïndil, esprimendo ad alta voce i suoi pensieri. «Se ne rimarranno solo qualche centinaia, potremo stare tranquilli.» Prese un boccale e si spillò della birra, che corse nera dalla botte formando una cremosa schiuma bianca. «Forse può sembrare prematuro, ma non dobbiamo dimenticarci di preparare un piano per conquistare Giogonero. Quando questa situazione sarà risolta dovremo occuparci dei Terzi, sperando che si siano indeboliti. Difficilmente capiterà di nuovo di adunare un esercito di nani così grande. Non dobbiamo permettere loro a nessun costo di mantenere il possesso dei tunnel del tavoliere.» Tungdil era d'accordo. «I nostri messaggeri sono in viaggio verso Gandogar, Glaïmbar e Balendilín; ma ci vorranno alcune rotazioni prima che ci raggiungano coi loro guerrieri. Neppure i Terzi potranno resistere alla nostra superiorità. Li costringeremo alla resa.» Osservò la mappa dei Monti
Rossi, che stava sul tavolo, davanti a lui. «Ma prima ci aspetta la partita contro gli avatar.» Xamtys annui. «Ho con me cinquemila soldati.» Tungdil guardò Furgas, Narmora e Rodario. «A che punto siete voi?» «A parte lanciare incantesimi, non posso fare nulla. E per quello non c'è bisogno di altri preparativi; ho ancora energie sufficienti», rispose la maga. Liquidò così la questione, perché sapeva che i nani non capivano molto di magia. Un qualunque mago si sarebbe stupito del fatto che, dopo essersi impegnata contro i Terzi, fosse già pronta a contrapporsi agli avatar, senza provare timore e senza cercare un campo magico da cui attingere nuove energie. Era la malachite a renderla capace di tanto. Furgas aveva disteso sul tavolo degli schizzi. «Ho fatto smontare la maggior parte delle catapulte, che non ci servono più contro i Terzi, e le ho fatte portare verso la Guardiadiferro occidentale. Ci sono parecchie braccia disponibili, per cui stiamo procedendo in fretta. Le macchine sono state già rimontate. Se le facessimo tirare contemporaneamente, potremmo oscurare il cielo.» «Molto bene», lo lodò Tungdil. «Rodario?» Si corresse subito prima di sentir proteste da parte dell'attore. «Rodario l'Incredibile?» «Grazie, troppo gentile», replicò l'uomo in tono leggermente seccato. Si alzò, assumendo una studiata posa da oratore. «Sono pronto a fare da esca e da finto mago, attirando su di me l'ira degli avatar, in modo che la mia mentore, Narmora la Sinistra, possa raccogliere inosservata il suo potere e dispiegarlo per uccidere gli avatar.» Si schiarì la voce. «Colgo l'occasione per sottolineare che per me è un vero onore essere un membro sacrificabile della squadra di eroi, ma allo stesso tempo faccio presente che sarei anche lieto di offrire questo ruolo a un altro. Qualcuno desidera assumerlo al posto mio?» Nessuno si fece avanti. «Lo immaginavo», mormorò facendo una smorfia. Si sedette. «Mi tocca un maledetto ruolo secondario, e per di più sarò ricompensato con la morte. Spero almeno che la Terra Nascosta si ricordi di me.» «Sopravviverai, Rodario», sogghignò Tungdil. «Ti rivedremo tutti sul palco del Curiosum.» «E il pezzo s'intitolerà: 'Come Rodario l'Incredibile salvò il mondo'», lo canzonò il Rabbioso, vuotando il boccale. «Se hai bisogno di un'altra storiella divertente, usa quella del mezz'orco che chiede la strada al nano.» «E come fa?» La loro discussione fu interrotta dall'annuncio che le truppe di Lorimbas
stavano entrando nella fortezza. Salirono insieme sul loggione che correva sulla parte alta dell'atrio e osservarono, in preda a sentimenti contrastanti, la parata dei guerrieri dei Terzi. Armati fino ai denti e coperti da pesanti armature, i sudditi di Lorimbas avanzavano in silenzio e con volti cupi. Scatenavano un grande fragore di ferro, accompagnato dal rumore sordo degli stivali sulla roccia. Alcuni reparti erano costituiti da nani col volto coperto di tatuaggi: l'elite dei guerrieri dei Terzi. Anche da lontano, gli spettatori avvertivano chiaramente che erano insoddisfatti. Erano entrati nella fortezza senza averla conquistata in battaglia. «Si potrebbe quasi averne paura», commentò Rodario, un po' agitato. «Hanno un'aria così cattiva che, se fossi un avatar, mi arrenderei subito.» «Peccato che tu non lo sia», replicò il Rabbioso. Tirò su col naso e sputò in alto; il grumo mancò per un pelo uno dei guerrieri tatuati. «Guardateli, i nemici dei nani. Non sarà facile per me combattere accanto a loro. In ogni caso, non gli volterò mai le spalle.» Tungdil si riscosse dal tetro spettacolo. «Andiamo anche noi sul versante occidentale», decise appoggiando le mani sulle spalle dei gemelli. «Venite, amici. Dobbiamo difendere la Terra Nascosta. Anche senza la Lama di Fuoco.» Utilizzando dei vagoncini, attraversarono il regno dei Primi. Dopo un breve viaggio, raggiunsero le strutture difensive sull'altro lato dei Monti Rossi. La Guardiadiferro occidentale era perfettamente simmetrica rispetto alla sua gemella orientale. Xamtys ne aveva fatto rafforzare ulteriormente le mura, in modo da renderle meno soggette alla neve e al freddo. Due file di mura, nove torri, un unico ingresso ai Monti Rossi. Davanti alla fortezza vera e propria, serpeggiava una forra ampia e incassata protetta da cinque valli trasversali. Era uno strano spettacolo. I Liberi e i Primi occupavano insieme gli spalti della fortezza vera e propria, mentre le file dei guerrieri di Lorimbas affollavano i valli antistanti. I tre gruppi di nani non sarebbero potuti essere più differenti, eppure avevano un obiettivo comune: proteggere la Terra Nascosta. E attendevano insieme l'arrivo del loro potentissimo nemico. Come poche rotazioni prima, Tungdil stava sulla più alta delle torri e cercava di stimare il numero dei Terzi. Dovevano essere più di ventimila.
Xamtys aveva ragione. Non saremmo mai riusciti a contenerli. Puntò lo sguardo verso la forra e si mise a scrutare, senza sapere bene a che cosa dovesse prestare attenzione. Quando scese il crepuscolo, scorse una luce splendente che brillava all'altra estremità del passo; i suoi raggi arrivavano fino alle nubi, e si stava avvicinando. Al nano parve che un sole d'argento si aggirasse sulla superficie della terra. Era ancora molto lontano, ma Tungdil poteva ben immaginare che effetto potesse avere da vicino. Già da quella distanza non riusciva a fissarla a lungo. «Si comincia.» Narmora si mise al suo fianco, appoggiando le mani sul parapetto. «Mi chiedo se non dovremmo semplicemente trattare. Perché non dovremmo dire loro che Nôd'onn e il demone della Terra Estinta non esistono più e che li abbiamo distrutti? Non avrebbero più nessun motivo di entrare nella Terra Nascosta.» «E chi dovrebbe andare lì a parlarci?» chiese Tungdil. «Ho bisogno di una vergine», replicò l'altra. «Perché mai, mia sinistra signora? Djerun ha voglia di qualcosa di più tenero?» intervenne Rodario, asciutto, mentre si univa a loro. «Non è il momento di scherzare, Incredibile», ribatté lei. «Gli avatar risparmiano i puri, quindi a una vergine non faranno nulla di male. Potrebbe uscire e spiegare che sono arrivati tardi.» Guardò Tungdil. «Andrei volentieri io stessa, ma offrirei loro un ottimo motivo per continuare la loro marcia.» «Pensi davvero che un piano del genere possa funzionare?» «Be', dovremmo almeno provarci. Spesso la soluzione più semplice è quella giusta.» Fu così che, verso sera, una giovane nana lasciò la fortezza principale, avvolta da una pelliccia bianca. Fyrna Testanobile del clan dei Trovaferro, di ventiquattro rotazioni, quindi ancora molto giovane per i parametri dei nani, e mai toccata da nano, venne scelta da Xamtys nella schiera di volontarie che si erano candidate. Narmora le aveva spiegato che cosa dire. «Non aggiungere altro. Se sono disposti a trattare, torna da noi e riferisci le loro condizioni. Non dire nulla dei nostri guerrieri e dei preparativi.» Fyrna obbedì e attraversò la forra; benché sembrasse coraggiosa, trasaliva tutte le volte che la porta di un baluardo si serrava alle sue spalle. Scomparve oltre il pendio, e ai nani non rimase altro da fare che pregare
per lei e sperare nel suo ritorno. La luce splendente continuava ad avanzare senza pietà. Verso mezzanotte, la luna piena rischiarava i Monti Rossi. La luce splendente si fermò all'improvviso, cosa che i guerrieri in attesa notarono subito. «Quella brava ragazza deve averli raggiunti», stimò Xamtys, tesa. «Vraccas, proteggila!» Narmora appoggiò le braccia sui merli, tenendo gli occhi fissi sul bagliore. «Spero che siano comprensivi e che si ritirino.» «Guardate!» Il Rabbioso strattonò Tungdil, poi indicò la luce. «Vedete? Si sta indebolendo!» «Fyrna ce l'ha fatta!» gridò Xamtys, incredula. «Vraccas... voterò a te tutto il mio tesoro, se ci risparmierai questa prova!» In effetti, il chiarore scemò fino a diventare un leggero riverbero sulle pareti dei monti. Poi svanì del tutto. Ha funzionato davvero! Tungdil si rivolse a Narmora, ridendo. «Avevi ragione! La risposta più facile è spesso quella giusta.» Ai nani schierati sui camminamenti della fortezza e dei valli non era sfuggito l'accaduto. Esultarono, abbandonando la tensione che li aveva dominati fino a quel momento, e per un istante caddero le barriere tra Primi, Liberi e Terzi. La gioia li unì. Anche se per poco. «Aspettiamo il resoconto di Fyrna», disse Tungdil stringendo la mano della mezz'alba. Poi entrò per prendersi un boccale di calda birra aromatica e attendere sulla torre l'arrivo della coraggiosa ambasciatrice. La notte passò. Sulle creste dei monti si levò il sole del mattino, scaldando coi suoi primi raggi i soldati infreddoliti. La fiducia dei nani crebbe. Ma Fyrna Testanobile del clan dei Trovaferro non tornava. Verso mezzogiorno, Xamtys mandò un'unità in ricognizione, perché il tempo minacciava di peggiorare, e in caso di tormenta nessuno sarebbe riuscito a fare un passo oltre i portali. Tornarono indietro ore dopo, portando con sé un'ambasciatrice priva di sensi ma viva. Narmora la visitò e si occupò dell'assideramento che la notte trascorsa in mezzo alla neve aveva procurato alla giovane nana. «Per il resto sta bene», disse per tranquillizzare Tungdil e gli altri dopo un primo esame. La svegliò con dei leggeri colpi sulla guancia e le porse una tazza di tisana di licheni.
Fyrna bevve in fretta. «Ho fallito, mia signora», confessò tremante, inchinandosi di fronte alla sua regina. «Sono arrivata troppo tardi.» «Sei arrivata troppo tardi? E questo che vorrebbe dire?» Boïndil indicò la forra. «Là sotto non ci sono! Per tutte le bestie di Tion, dove sono scomparsi allora? Si sono trasformati in semplice purezza?» «Stai calmo», brontolò Boëndal, dandogli uno spintone. «Mi stavo avvicinando a loro, e a un certo punto la luce è diventata troppo forte. Allora ho iniziato a chiamare forte, per farmi vedere», raccontava la giovane. «Una figura fatta di luce è volata da me, chiedendomi amichevolmente che cosa volessi.» Fyrna guardò Narmora. «Io le ho detto esattamente quello che voi mi avevate incaricato di dire, venerabile maga, ma la figura si è messa a ridere. Una risata crudele e acuta, una vibrazione alta che mi ha attraversato il corpo. La sentivo dentro di me.» Bevve un altro sorso. «La figura mi ha detto che non mi dovevo preoccupare, che sarebbe stato rapido. Poi mi ha toccato e io... mi sono svegliata qui.» Tungdil guardò i volti preoccupati dei suoi amici. «Se non sono qui e non stanno neanche marciando verso di noi, dove sono finiti?» «Nei tunnel», risuonò la voce di Lorimbas alle loro spalle. Il Terzo si era avvicinato in silenzio e aveva ascoltato la conclusione del racconto. «Hanno scoperto i nostri tunnel.» Un brivido corse lungo la schiena di Tungdil. «Compariranno nel bel mezzo della Terra Nascosta. E a Giogonero non c'è nessuno ad attenderli», sussurrò, terrorizzato. «Siamo sul versante sbagliato!» Rimasero paralizzati dallo stupore. Immaginarono tutti una luce immacolata librarsi sopra il tavoliere, seguita dal Bianco Esercito, che avrebbe incenerito tutte le città e le contrade nella vana ricerca di Nôd'onn. «Sono finito in una cripta? Siamo stati fermi abbastanza», li spronò il Rabbioso. «Che stiamo aspettando ancora? Sappiamo dove c'è bisogno di noi.» Terra Nascosta, regno di Gauragar, Giogonero, 6234° ciclo solare, inizio inverno Theogil Manodura afferrò la catena con entrambe le mani e la tirò con forza. Le carrucole dell'argano gli rendevano il lavoro meno pesante, così sollevò senza fatica il vagoncino privo di conducente che si trovava sulla rotaia sbagliata. Non sapeva come fosse arrivato.
Quando aveva preso servizio, il vagoncino era già lì. Probabilmente si era perso su un binario morto, ma era stata una vera fortuna che durante il suo viaggio solitario non si fosse scontrato con un altro vagoncino occupato da nani; la cosa avrebbe sicuramente comportato un grave incidente. In quel momento bloccava la corsia riservata a eventuali ritardatari che volessero fare una sosta a Giogonero prima di proseguire il viaggio verso i Monti Rossi, per contrapporsi agli avatar. «Adesso ti metto via», mormorò al vagoncino, spingendolo avanti con una mano. Le sospensioni erano attaccate ai binari di scorrimento con delle piccole rotelle, il che facilitava parecchio lo smistamento e il cambio di rotaia del mezzo. Lo spinse nell'angolo posteriore della stanza, dov'erano immagazzinati innumerevoli vagoni. Lo posò con cautela, staccò i ganci dagli appositi occhielli e posò le mani sul bordo superiore, per spingerlo all'indietro. In quel momento sentì un rumore. Veniva dal tunnel, e pareva il lontano sferragliare di parecchi vagoncini. E questo che vuol dire? si chiese, pensando a quale contingente di soldati fosse stato annunciato per quella rotazione. Tutti i guerrieri dei Terzi erano in viaggio verso ovest, o erano già arrivati. Gli ordini di Lorimbas erano giunti del tutto inattesi, ma nessuno aveva esitato nell'eseguirli. Theogil lasciò il vagoncino e si avvicinò con cautela al tunnel da cui proveniva il rumore. Trattenendo il fiato, si mise in ascolto, per accertarsi di quello che stava sentendo. Sibili e sferragliamenti diventavano sempre più forti. Che idioti, pensò arrabbiato. Non stanno rispettando le distanze di sicurezza. Quando arriveranno si accartocceranno l'uno dentro l'altro e s'incastreranno ben bene, anche se la pista d'arrivo è lunga. Il nano iniziò a prendere rapidi provvedimenti; rafforzò i sacchi di paglia sui fermacarri, in modo che non vi fossero troppi feriti, e si appostò accanto alla grossa leva della cabina di manovra. Non appena avesse visto i vagoncini, avrebbe cercato di ripartirli su diversi binari di arrivo, riducendo così il numero degli scontri. Non poteva ancora avere idea di quante unità stessero rientrando da Giogonero. Fissava l'apertura, avvolta nell'oscurità, e aspettava di vedere la debole luce che proveniva dalla lanterna schermata posta nella parte anteriore dei vagoncini. Dopo non molto vide una luce, che però non poteva venire in nessun modo dalle lanterne schermate. Illuminava il tunnel a giorno, come
se dentro vi splendesse il sole. Theogil dovette distogliere lo sguardo, tanto la luce diventava abbagliante a mano a mano che si avvicinava. Che cosa si sono portati dietro? Hanno inventato un nuovo tipo di lanterna? si chiese affidandosi interamente alle sue orecchie, che gli avrebbero indicato quando azionare la leva. A quel punto sentì i freni stridere. I conducenti stavano premendo i ceppi di ferro contro le sottili ruote per ridurre la velocità. Aria spirò dai tunnel, sospinta dai carrelli in avvicinamento. Theogil sentì degli strani odori, che non appartenevano a nani né a uomini né a elfi o mostri. Le folate di vento gli sollevavano la barba e gli facevano oscillare le estremità della cotta di maglia. Portavano con sé un odore di armi bene oliate, ferro sano e mani appena lavate, che si mescolava a una qualche purissima essenza. Poi il primo vagoncino sfrecciò fuori del tunnel, illuminando l'immensa sala fino al suo angolo più remoto. «Spegnetela, qualunque cosa sia», ordinò il nano a squarciagola. La luce eccessiva gli faceva lacrimare gli occhi; serrò bene le palpebre e azionò la leva a occhi chiusi, indirizzando i veicoli nei diversi binari di arrivo in base a quello che sentiva. «Spostateli fuori dei binari, o ci saranno molti feriti!» gridò cercando di farsi sentire sopra gli stridii. La luce che portavano con loro era così intensa che Theogil riusciva a vedere il rosso del sangue che gli scorreva nelle palpebre; il chiarore ne oltrepassava la pelle sottile, rendendole trasparenti come se stesse fissando il sole di mezzogiorno. Gli si avvicinò qualcosa di molto caldo, e qualcuno lo afferrò per le spalle con dita incandescenti, spostandolo dalla leva senza tanti complimenti. «Ehi, sta' attento! Mi stai bruciando!» A quel punto dovette aprire gli occhi per dare una cauta occhiata. Davanti a lui c'era una creatura fatta di luce; era alta all'incirca come un essere umano ed era circondata da un'aura tanto bianca da bruciare le pupille. L'aria intorno a lui tremolava. «Io ti saluto, Sotterraneo», gli disse con voce amichevole. «Non avere paura di me, non ti farò nulla, se in te risiede il bene.» Theogil afferrò la sua mazza con la mano destra e fece un passo indietro. «Che cosa sei?» chiese in tono brusco. «E chi ti ha dato il permesso di usare i nostri vagoncini?» Con la sinistra prese il corno dalla cintura e lo portò alle labbra per dare l'allarme, ma la creatura lanciò contro di lui una saetta di luce, mandando a
fuoco lo strumento. Il nano lo lasciò cadere subito a terra, prima che le fiamme gli raggiungessero la barba. I suoi ultimi dubbi si sciolsero come la materia di cui era fatto il corno. Esistono davvero! Mi trovo di fronte a un avatar! Come si addiceva a un nano, strinse la mazza con entrambe le mani e la levò, pronto a combattere. «Vattene. Non avete nessun motivo di essere qui e di portare sofferenza alla nostra terra.» «Sofferenza? No, noi non portiamo nessuna sofferenza. Noi la distruggiamo», replicò l'avatar, sempre amichevole. «Il male ha molte forme. Noi sappiamo che Nôd'onn non esiste più. Ce lo ha detto una Sotterranea. Ma sappiamo anche che ci sono altre creature che adorano Tion o che sono state create da lui.» L'essere si avvicinò e Theogil, che pure era abituato al calore della forgia, non poté fare altro che arretrare di fronte al calore che emanava la creatura. «Dove troveremo gli albi, Sotterraneo e creatura del buon Essgar? Vi libereremo di loro, dissolvendone le anime corrotte, in modo che non dobbiate più averne paura.» «Andatevene!» gridò il nano, alzando minacciosamente la mazza. «Sistemeremo da soli quegli ignobili Orecchi appuntiti! Nessuno ha chiesto il vostro aiuto! Voi distruggete il bene e il male!» «Solo ciò che è puro resiste al nostro sguardo. Ciò che riduciamo in cenere non è abbastanza puro.» L'avatar avanzò in modo così rapido che il nano non riuscì a ritrarsi, e gli toccò la testa. «Mostrami, Sotterraneo, se sei incorrotto o se porti in te una macchia tale da giustificare la tua distruzione.» Theogil si sentì paralizzato da un calore incredibile; ferro incandescente gli bruciava attraverso le tempie, gli trapassava il cranio e gli lambiva il cervello, prosciugandolo. Le sue braccia faticavano a sorreggere la mazza, che si abbassò contro la sua volontà e alla fine cadde a terra. «Tu hai mentito», disse la creatura in tono di biasimo. «Mi hai nascosto che ci sono ancora mezz'orchi in una terra chiamata Toboribor, nel sud-est. E nei tuoi pensieri vedo degli orchi, in una regione montuosa di nome Borwôl, nel nord-est.» Rise felice. «Ah, abbiamo molto da fare nella Terra Nascosta. Presto si meriterà il nome che porta, Theogil Manodura, presto sarà davvero nascosta. Nascosta al male e libera dai pericoli che minacciano gli uomini, gli elfi e il tuo popolo.» Le dita ustionanti lasciarono la presa. Il nano barcollò all'indietro e crollò su un blocco di ferro. L'avatar indietreggiò. «Guardatevi bene dall'ostacolarci nel compimento
della nostra divina missione! Chiunque si frapponga sul nostro cammino sarà trattato come un alleato nel male.» Il nano si coprì il volto con le mani per proteggersi dalla luce e sbirciò per vedere che cosa stesse succedendo nella sala. Era piena di guerrieri in armatura bianca, che portavano stendardi chiari e si organizzavano in gruppi a mano a mano che arrivavano. Sembravano non essere disturbati dalla luce accecante, mentre il nano temeva che gli occhi gli sarebbero evaporati se non li avesse richiusi subito. Il rumore che riecheggiava nella sala d'arrivo non rimase a lungo inascoltato. Theogil vide che diverse guardie stavano scendendo cautamente l'ampia scala che portava ai livelli più alti del tavoliere. Quando videro che cosa stava accadendo, uno di loro diede immediatamente l'allarme. Il corno risuonò forte attraverso i cunicoli e le aule di Giogonero, chiamando alle armi i pochi difensori rimasti. «Oh, stolti!» esclamò la figura circonfusa di luce, dispiaciuta. «Avete scelto voi stessi la vostra rovina, benché perseguiate i nostri stessi obiettivi. Ora dovrete morire.» «E io ti mostrerò che non abbiamo paura di te e dei tuoi soldati», gridò Theogil ringhiando. Saltò in piedi e corse contro l'avatar, risoluto, con un grido di guerra sulle labbra e la mazza levata. Poco prima che raggiungesse la creatura scintillante, un calore irresistibile lo investì. Il metallo che portava addosso divenne rosso incandescente, il cuoio bruciò e carne e sangue evaporarono più in fretta di una goccia d'acqua sulla brace. Di Theogil Manodura non rimase altro che un mucchietto di cenere e qualche pezzetto di osso carbonizzato. I fiocchi grigi si erano appena depositati sulla pietra che vennero dispersi completamente dagli stivali dei guerrieri degli avatar, che si gettavano sui nani in avvicinamento. Terra Nascosta, regno di Gauragar, fine del 6234° ciclo solare, inverno Boïndil camminava a passi pesanti sulla neve fresca che, come zucchero a velo, copriva la terra, gli alberi e le tende. Entrò per ultimo nella grande tenda in cui si stava discutendo; si accostò al fuoco per scaldarsi e prese un boccale di birra dal piccolo tavolo. Come tutti gli altri, si godeva un'ultima sera tranquilla prima che la spedizione raggiungesse, a metà della rotazio-
ne successiva, il pianoro e che, molto verosimilmente, s'imbattesse negli avatar. «Questi bastardi», esordì il Rabbioso pieno di convinzione. «Si vede che vengono da Tion. Da quel dio non può venire nulla di buono. Fanno del male anche quando vanno a caccia del male.» Vuotò il boccale e se ne riempì subito un altro. Puntò le sue pupille, piccole come capocchie di spillo, verso Tungdil. «I nostri esploratori ci hanno già riferito qualcosa?» «Solo che la cavalleria ha lasciato il monte e sta cavalcando verso nord», intervenne Lorimbas. «In parte si sono mossi attraverso i tunnel e li hanno fatti crollare dietro di loro.» «E i tuoi ricognitori come hanno fatto a scoprirlo?» s'informò il Rabbioso. «Dalle crepe che si sono formate in superficie», rispose il re dei Terzi. «Coi loro poteri magici, gli avatar hanno fatto crollare grosse sezioni dei tunnel che partono da Giogonero. Quello che non è riuscito a fare il terremoto causato dalla stella cadente sono riusciti a farlo con le loro forze.» Xamtys annuì. «Anche noi abbiamo notato cose simili. Anche i nostri tunnel non sono più sicuri, e gli eserciti di Balendilín, Gandogar e Glaïmbar dovranno viaggiare in superficie.» «Peggio per noi.» Tungdil osservò ancora una volta la cartina. Tracciò mentalmente una linea retta che prolungasse il tragitto fino a quel momento percorso dagli avatar e dal loro esercito, e così facendo arrivò allo Dsôn Balsur. «Se si pensa alla forza del loro esercito, il fatto che marcino contro gli albi ha senso», disse esternando le sue valutazioni. «Al momento sono i nostri peggiori nemici. Con l'ulteriore potere che l'Acqua Nera ha loro concesso, sono sicuramente una degna preda degli avatar.» «Se non fossero così devastanti per i territori che attraversano, direi che potremmo lasciarli fare», osservò la regina. «Loro sono in condizione di sterminare gli albi, cosa che non è riuscita agli uomini, agli elfi e a noi. Da quella notte in cui hanno aggredito gli uomini, non si riescono più a trovare volontari; anche i soldati disertano a frotte, quando vengono a sapere di essere destinati al fronte dello Dsôn Balsur.» «Dici bene, Xamtys. Da quando hanno scoperto le proprietà dell'Acqua Nera, gli albi sono diventati ancora più pericolosi e letali», le diede ragione Tungdil. «Gli esploratori ci hanno riferito che il territorio intorno a Giogonero non è innevato, mentre nel giro di poche rotazioni noi siamo sprofondati nel bianco fino alle pance.» Guardò Narmora. «Sei pronta per l'incontro?»
La mezz'alba stava guardando la fiamma tremolante della lanterna appesa al palo centrale della tenda. «Non so se la mia magia potrà fare qualcosa contro di loro», ammise. «Io percorro il cammino dell'equilibrio tra bene e male, e possiedo il potere di entrambi. Non sarebbe meglio attaccarli con qualcosa che attinga il suo potere solo esclusivamente dal bene?» Distolse lo sguardo dal fuoco. «Scopriremo presto che cosa potrò concludere con la mia magia.» «E io sono al tuo fianco», la rassicurò Rodario, sforzandosi di sembrare sereno e fiducioso. «Farò credere loro di avere davanti il più potente mago della Terra Nascosta e tu, stando in agguato, li metterai in ginocchio l'uno dopo l'altro.» L'attore bevve un sorso di birra, facendo una smorfia: era troppo amara, troppo maltata e troppo forte. «O almeno ci proverai», aggiunse a voce un po' più bassa. «Dopo la mia morte, mi piacerebbe avere una statua a Porista. Sarebbe possibile?» la pregò a voce ancora più bassa, mentre lei faceva finta di non sentire. Tungdil sorrise. Notò che Djerun stava immobile dietro la sua nuova signora, vegliando su di lei. La sua armatura danneggiata lo rendeva ancora più temibile di prima, perché mostrava che stava ancora in piedi nonostante i tanti colpi di spada e di lancia, e pure il fuoco. Mentre lo osservava, al nano venne in mente uno strano pensiero. Gli avatar avevano a disposizione poteri magici immensi con cui contrapporsi a ogni forma di male che capitasse loro a tiro. Come diceva la leggenda, e come i Terzi sopravvissuti avevano confermato, si poteva resistere a un incontro con loro solo per caso, o essendo puri abbastanza, qualunque cosa significasse. Ma Djerun è ancora vivo. In realtà avrebbero dovuto annientarlo. È pur sempre una creatura del male, e la sua forza lo rende assai più pericoloso di mezz'orchi, bogglin o orchi. Tungdil sentì lo stomaco contrarsi, mentre l'emozione cresceva in lui. Eppure è sopravvissuto ai loro attacchi. Non può essere stato un caso. Senza spiegare che cosa stesse facendo, si alzò, si avvicinò alla guardia del corpo di Narmora e ne sfiorò l'armatura con le dita, seguendo il disegno degli intarsi anneriti dal fuoco magico degli avatar. Toccò le rune e i simboli che Balyndis vi aveva posto per ordine di Andôkai. Che siano stati loro a proteggerlo? «Perdona, eroe di Giogonero, ma che stai facendo?» chiese Rodario, stupito. «So bene che voi nani avete un debole per la metallurgia di buona fattura, ma è questo il momento opportuno per mettersi a periziare?»
Tungdil non replicò all'osservazione dell'attore. «Narmora, chiedi a Djerun che cos'è accaduto di preciso quando ha incontrato gli avatar.» «Non c'è bisogno. Capisce ciò che dici», replicò la mezz'alba. Dopo poco risuonò la voce che nessuno dei presenti, a parte la maga, riusciva a comprendere. «Be', se ho capito bene, lo hanno attaccato con degli incantesimi.» Tungdil fece un passo indietro e diede qualche colpetto contro il metallo dell'armatura. «E come mai è sopravvissuto allo stesso tipo di attacco che ha incenerito i nani dei Terzi, che erano altrettanto protetti?» chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Djerun non è certo una creatura che possa confidare nella pietà degli avatar. Devono avere impiegato ogni forza a loro disposizione per annientarlo. Ma, con tutti i loro poteri, presumibilmente immensi, sono riusciti solo a coprirgli di fuliggine l'armatura. Se non l'avesse sottomesso l'esercito che li accompagna, forse non sarebbero riusciti affatto a batterlo.» «Intendi dire che la sua armatura lo ha protetto dalla loro magia?» dedusse Boëndal. Aveva capito all'istante dove l'amico volesse andare a parare; come lo aveva capito Narmora, glielo si poteva leggere in faccia. «Allora Andôkai aveva davvero trovato un mezzo contro di loro?» continuò il nano. La mezz'alba scosse la testa. «No, non posso immaginare una cosa del genere. Perché mai non lo avrebbe detto a nessuno? Perché se lo sarebbe dovuto tenere per sé?» «Per non deluderci, qualora non si fosse rivelato il sistema giusto?» propose Rodario. «Può ben darsi che la maga abbia mandato il qui presente cavaliere proprio con l'intenzione di mettere alla prova il suo rimedio, prima di parlarne con noi.» «Tu non la conoscevi bene. Non avrebbe mai messo in pericolo la vita di Djerun in modo sconsiderato. È finito per caso nelle mani degli avatar, non perché fosse il suo compito», ribatté Narmora. Fece cenno a Tungdil di scostarsi dalla sua guardia del corpo, poi sollevò le braccia e preparò un incantesimo. «Vedremo subito se è stata l'armatura a proteggerlo dal loro potere.» Emise qualche breve parola, per preparare Djerun a quanto stava per succedere, poi iniziò a pronunciare l'incantesimo. «Non intenderai farlo davvero dentro una tenda...» cominciò a protestare il Rabbioso. Ma Narmora non si preoccupò di rispondere. Una fiammella della lanterna posta sopra il tavolo si staccò dallo stoppino e volò nella mano aperta
della mezz'alba, tingendosi di rosso rubino. S'ingrandì fino a raggiungere le dimensioni di una testa, poi saettò verso l'ampio petto corazzato di Djerun. Tra i crepiti esplose sul colosso, avvolgendone il petto con le fiamme. Le rune diventarono incandescenti, e quell'inferno si estinse all'istante. Djerun non barcollò neanche. «Ora proviamo con qualcosa di più potente», mormorò la mezz'alba sollevando il braccio destro. Tutte le fiamme presenti nella tenda si raccolsero tra le sue dita, unendosi in una caldissima sfera di fuoco che Narmora scagliò contro il colosso. Djerun scomparve di nuovo tra le fiamme, e quella volta la forza dell'impatto lo fece cadere in ginocchio. Ma, dopo che la vampata si fu estinta, si rialzò e mormorò qualcosa. «Ha detto di aver sentito il calore, ma che non lo ha ferito», tradusse la mezz'alba, in preda all'eccitazione. Un cenno delle sue dita bastò a riaccendere lo stoppino, e la luce ritornò nella tenda. «E nessuno pensi che io lo abbia risparmiato, con un fuoco del genere avrei potuto sciogliere del ferro.» Narmora si avvicinò a Djerun e ne esaminò l'armatura, scuotendo la testa; poi vi posò sopra una mano. «È calda, nulla più. E le rune continuano a brillare un po'.» Si rivolse ai nani. «Ne sono certa: Balyndis ha preparato un'armatura che non funziona solo contro le armi convenzionali.» Tungdil sospirò, sollevato. «Vraccas, ancora una volta l'arte che ci hai masso nelle vene ci darà la possibilità di proteggere la Terra Nascosta. Noi ti rendiamo grazie.» Si lasciò cadere sulle ginocchia e lo ringraziò con una preghiera ad alta voce; gli altri nani lo imitarono. Eccetto Lorimbas. Vraccas non comparirà per salvarvi. Lo sguardo sprezzante del re dei Terzi vagò sulle teste chine, che tanto avrebbe voluto staccare dal collo. Ma non lo poteva fare. Non ancora. Tungdil fu il primo ad alzarsi. «Dobbiamo portare qui Balyndis il più presto possibile», disse, felice di avere acceso una scintilla di speranza. «Deve sapere che abbiamo bisogno della procedura usata per fabbricare l'armatura di Djerun.» Sembra che sia la mia maledizione, doverla sempre rincontrare. «La cosa migliore sarebbe forgiare diecimila di quelle armature», suggerì Boëndal con le mani appoggiate sulla sua azza. «Io non sono certo un vigliacco, ma penso che senza questa protezione non avrebbe senso affrontarli in campo aperto. Pensate a quanti sopravvissuti ci sono stati finora.» Tungdil inviò subito verso i Monti Grigi quattro messi, per essere sicuro
che Balyndis ricevesse la notizia. «Domani vedremo che cosa succede a Giogonero, poi decideremo il da farsi», consigliò. «Anch'io preferirei farlo una volta forgiate le armature, ma viste le circostanze dobbiamo attaccare prima.» Indicò la mappa, sulla quale lo Dsôn Balsur era contrassegnato con una spessa linea nera. «Se distruggeranno gli albi, la loro forza aumenterà, perché il loro potere si nutre del male che distruggono. E non sappiamo se le armature reggeranno ancora, dopo.» «Ma ora abbiamo speranza», si rallegrò il Rabbioso. «Ah, come falcerò per bene gli avatar, quando sarò infilato in quella bella armatura! I primi dieci sono miei, che sia chiaro.» «Sono solo in undici», gli fece notare suo fratello. Gli altri risero. Boïndil digrignò i denti e brindò alla sua. «E allora? Non è colpa mia se non ce n'è per tutti.» *
*
*
Il buon umore di quella sera non era destinato a durare. A mezzogiorno della rotazione successiva raggiunsero il tavoliere. Mentre si avvicinavano a Giogonero, rimanendo ancora a distanza di sicurezza, videro che le nubi scure stagliate contro il cielo invernale non erano nuvole cariche di neve, bensì banchi di fumo. Ed era palese da dove venissero. Il monte dalla cima mozzata ardeva. Il fuoco non usciva da singole fenditure o aperture: l'intero ammasso roccioso era in fiamme. Il denso fumo oscurava il sole, intorbidendone il chiaro disco e trasformando il giorno in sera. Tra gli scricchiolii, si staccavano grandi pezzi del monte, cadendo nella polvere; la terra, un tempo innevata e gelata, era inaridita. Le vampe si alzavano sempre più, sembravano voler bruciare perfino il sole. «Non avrei mai creduto di vedere una cosa del genere», mormorò Xamtys. «Come hanno fatto, maga?» chiese il Rabbioso, incredulo. «Gli avatar hanno trasformato il granito in carbone?» Narmora strinse gli occhi a fessura. «È un monito, per tutti coloro che li seguono. Una dimostrazione della loro forza.» «Come faccio a riprodurre una cosa del genere sul palco?» sospirò Rodario. Furgas fece spallucce. Tungdil si mise l'ascia in spalla. «Andiamo a vedere da vicino.» Gli avatar avevano fatto qualcosa d'incredibile. Nel raggio di cinquecen-
to passi intorno al pianoro la neve si trasformava in fanghiglia. Dopo altri trecento passi il suolo diventava asciutto, come in estate, e gli stivali dell'esercito di nani sollevavano nubi di polvere. Non si avvicinarono a più di duecentocinquanta passi, poiché non era possibile evitare le pietre che crollavano da corta distanza. Di tanto in tanto scoprivano nella polvere i resti di asce e mazze; qua e là giacevano a terra ossa annerite e pezzi di armatura divenuti ammassi deformi, in cui erano arsi i resti carbonizzati di chi le indossava. Dei custodi di Giogonero non era rimasto nient'altro. Lorimbas teneva gli occhi fissi su quella devastazione inimmaginabile, con gli occhi lucidi. «Per voi saranno stati solo dei Terzi, quelli che sono morti tra le fiamme», disse a voce bassa, faticando a controllarsi. «Ma per me sono scomparsi degli amici, la cui morte chiama vendetta.» Le fiamme di Giogonero appiccarono il fuoco nei cuori dei Terzi. Per loro, la lotta contro gli avatar assunse improvvisamente una dimensione personale e terribile. «Non abbiamo speranza», mormorò Rodario raspando con la punta dello stivale nella polvere grigia. «Senza le armature non ha senso marciare contro di loro. O forse qualcuno la vede diversamente?» «Forse non ci rimane scelta», replicò Lorimbas con voce cupa, mentre osservava la larga traccia che gli avatar avevano lasciato dietro di sé nella loro marcia verso nord. Una striscia di terra smossa e libera dalla neve, larga cento passi, mostrava a lui e agli altri la direzione in cui si erano mossi gli aggressori. Si chinò e raccolse una testa d'ascia; le era ancora attaccato ciò che restava del manico carbonizzato. «Manodoro ha ragione. Dobbiamo fermarli prima che raggiungano lo Dsôn Balsur e annientino gli albi. Non possiamo permettere che si rafforzino ulteriormente.» «Pazzesco, vero?» sbottò il Rabbioso. «Per un sacco di rotazioni abbiamo tentato di scacciare quegli Orecchi appuntiti dal paese, e adesso li dobbiamo difendere da quelli che potrebbero farlo.» «Non piace affatto neanche a me», disse Tungdil. «Non possiamo permettere agli avatar di annientare lo Dsôn Balsur, ma questo non salverà gli albi dalla loro distruzione definitiva. È solo rimandata.» Guardò Lorimbas. «Diecimila dei tuoi Terzi sono in condizione di superare il Bianco Esercito, in modo da stringerlo in una morsa?» Il re annuì. «Bene. Allora Narmora, Rodario, i gemelli e io andremo con loro per fermare la marcia degli stranieri. Li costringeremo alla battaglia, mentre
voi li attaccherete da dietro insieme coi Liberi e coi Primi. Narmora si occuperà degli avatar non appena si mostreranno.» Prese Boïndil per una spalla. «Questa è una sfida di tuo gusto?» «Non lo so», rispose il Rabbioso, incerto. «Forse è troppo grande perfino per me.» Mentre Tungdil si apprestava a intraprendere coi migliori guerrieri dei Terzi una rapida avanzata verso nord per superare gli avatar, il rilievo, un tempo imponente, si era ridotto a nient'altro che una collinetta allungata e piena di crepacci, alta non più di cinquanta passi. E quando verso sera si fermarono per un breve riposo, videro che nel punto in cui un tempo si ergeva Giogonero si alzavano ancora più scintille. Il massiccio tavoliere era completamente bruciato, distrutto dal fuoco degli avatar. Ma per quanto Tungdil e i Terzi facessero di tutto per superare l'esercito nemico, che di notte proiettava sul cielo scuro un forte chiarore mostrando così la sua posizione, non vi riuscivano. Sembrava che i soldati degli avatar non avessero bisogno di riposare e che camminassero dalla mattina alla sera percorrendo facilmente miglia su miglia, mentre alla decima rotazione i Terzi cominciavano a essere affaticati. «Se continuano a correre così, tra dieci rotazioni saranno dagli Orecchi appuntiti», valutò il Rabbioso, una sera. Era seduto accanto al fuoco e stava osservando le numerose vesciche che gli erano venute. «Riusciamo a stento a stare loro dietro. Come faranno Gemmil, Xamtys e Lorimbas, col grosso dell'esercito, a non perdere terreno?» Tungdil studiò la mappa. Intorno a lui sedevano i comandanti dei Terzi. I loro volti tatuati rimanevano inespressivi e non tradivano in nessun modo quello che pensavano o provavano. «Il piano concordato non è più sostenibile», disse dopo che ebbe valutato le distanze. Con l'estremità della sua lunga pipa indicò il confine dello Dsôn Balsur. «Dobbiamo muoverci più in fretta e intercettarli qui, sul confine. Se non facciamo così, sarà difficile riuscire a fermarli. Manderò un messo all'armata principale per trasmettere i nuovi piani.» I comandanti dei Terzi ascoltavano in silenzio. «Rischioso, ma necessario», commentò Boëndal. «Con la meta a poca distanza, si sforzeranno ancora di più di distanziarci e di raggiungere il cuore del regno degli albi.» «Non abbiamo scelta. Siamo troppo lenti.» Tungdil lesse i resoconti degli esploratori che, all'insaputa degli avatar, seguivano la retroguardia del
Bianco Esercito e prestavano regolarmente rapporto. Nel frattempo quattro città erano cadute sotto i colpi degli stranieri. Avevano rifiutato di appoggiarli, ed erano state saccheggiate e bruciate dai soldati. Presumibilmente vi erano stati pochi sopravvissuti, per lo più bambini e ragazze, cui le creature avevano concesso pietà. Tutti gli altri erano stati tramutati in cenere, come i nani di Giogonero. La stessa cosa era accaduta alle foreste, ai campi, ai prati e a tutti i paesaggi che avevano attraversato. L'esercito nemico lasciava dietro di sé un ampio sentiero di cenere e terra riarsa. Era possibile che vi fosse poca purezza nel cuore degli uomini e dei nani, ma Tungdil nutriva forti dubbi sul fatto che così tanti fossero corrotti al punto da meritare la morte. Non capisco molto dei parametri con cui gli dei giudicano le cose, ma ciò che stanno facendo alla Terra Nascosta depone contro di loro. Neppure gli albi sono riusciti a portare tanta sofferenza agli uomini. Gettò un rapporto nel falò e guardò il foglio accartocciarsi, contorcersi e prendere fuoco. Il suo pensiero corse subito a Giogonero e ai morti di cui gli avatar erano responsabili. Sono peggio delle bestie. Quella notte sognò Balyndis e Myr. Le due nane lottavano per il suo amore, l'una con maglio e tenaglie, l'altra con coltelli affilati. All'improvviso comparve Salfalur. Le uccise entrambe e poi, piangendo a dirotto, si scagliò contro Tungdil. Questi si svegliò proprio mentre l'arma si abbassava su di lui. Boïndil gli era seduto accanto, e l'aveva riscosso dall'incubo. «In piedi, Sapientone. Il Bianco Esercito marcia più in fretta del solito. Sembra che il vento gli abbia raccontato il nostro piano.» Tungdil si alzò imprecando, allacciò l'armatura, infilò la coperta nello zaino e si mise al piccolo trotto per raggiungere l'avanguardia dell'esercito, che era già in marcia. I Terzi non avevano ritenuto necessario svegliarlo. Se non fosse stato per il Rabbioso, al risveglio si sarebbe ritrovato da solo accanto al fuoco. Sentiva sguardi perforanti sulla nuca, mentre superava le varie file di guerrieri. Avrebbe fatto come Boïndil: pur appartenendo alla stessa stirpe, non avrebbe mai voltato loro le spalle in battaglia. Terra Nascosta, ottantadue miglia a nord-est dello Dsôn Balsur, fine del 6234° ciclo solare, inverno
Ondori fece voltare il suo toro di fuoco e guardò con orgoglio la schiera di quattromila guerrieri che la seguiva attraverso le tenebre. Avevano tutti bevuto l'Acqua Nera, i loro poteri erano aumentati e nessun'arma mortale li avrebbe potuti battere. Gli Eterni le avevano affidato il compito di marciare contro l'Âlandur e annientare Liútasil. L'alba non avrebbe potuto chiedere di meglio. La distruzione del principe degli elfi aveva la priorità sulla sua personale campagna di vendetta contro i nani e, con la nuova forza attribuita loro dall'Acqua Nera, gli albi potevano prendersi tutto il tempo del mondo, prima di fare loro una visita. Con un po' di fortuna e la benedizione di Tion, a lei e ai suoi guerrieri si sarebbe presentata l'occasione per travolgere le linee di Liútasil. A seconda di come sarebbe riuscito l'attacco, avrebbero proseguito la loro campagna attraverso l'Âlandur e ridotto in cenere il maggior numero possibile di insediamenti. La torre degli Eterni sarebbe stata decorata con nuove ossa di elfi, e la testa del principe nemico sarebbe stata collocata sulla cima. Ma guarda. Qualche viaggiatore incauto. Ai piedi di un piccolo rilievo solitario s'intravedeva un debole bagliore rosso. Proveniva sicuramente da un focolare mal schermato. Fece cenno a due dozzine di guerrieri di avvicinarsi a lei e di accompagnarla. Con un po' di fortuna, già stanotte ucciderò qualche elfo. Attraversando il fondovalle, si avvicinarono silenziosamente alla roccia, la cui parete formava una sporgenza offrendo una protezione contro la pioggia e la neve. In altre circostanze sarebbe stato un posto eccellente per sostare, ma quella notte la protezione degli dei non era coi viaggiatori. Ondori smontò dal toro e prese a strisciare senza fare rumore. Sentiva russare, e percepiva il forte odore di tabacco delle sue vittime. Poco dopo stava in piedi, dietro la copertura offerta da un masso, e osservava nell'ombra le prede che le venivano offerte. Sbalordita, vide i corpi tarchiati di nani sdraiati intorno al debole fuoco. La sentinella stava accovacciata su una pietra, voltandole le spalle, e fumava beatamente una pipa; di tanto in tanto immergeva una scodella in una pentola, che stava sul fuoco, e beveva un sorso di liquido fumante. Ondori li contò. Erano venti. Ma che ci fanno qui? Non sono esploratori; qui non c'è proprio niente che valga la pena esplorare. Con gesti concisi ordinò ai suoi di lasciarne in vita uno, per poterlo interrogare; gli altri non le servivano. Si concentrò sul fuoco e lo costrinse ad
affievolirsi. Le fiamme le obbedirono e, dopo essersi impennate un po', si spensero. Imprecando a bassa voce, la sentinella si alzò e gettò sulla brace del legno secco, si mise sulle ginocchia e soffiò per riattizzare il fuoco. Ondori si staccò dall'ombra della roccia e sgusciò accanto a lui. Si mosse in modo così silenzioso che il nano non ebbe modo di reagire. L'arma a forma di falce dell'alba gli tagliò la gola. Mentre moriva dissanguato, cadde tra le braci, su cui si sparse la sua linfa vitale, spegnendole completamente. Il rumore riscosse un nano dal suo torpore. Aveva appena sollevato la testa, ancora intorpidito dal sonno, che tre frecce gli strapparono la vita; si riadagiò lentamente sulle coperte, come se volesse continuare a dormire. Gli albi seminarono la morte tra le file dei nani, tagliando loro le gole, infilando sottili pugnali nei loro occhi chiusi o trafiggendoli con le spade. Ondori si sedette davanti all'ultimo superstite, gli tolse l'arma, che teneva vicino, e gli toccò la spalla con l'asta da combattimento. L'altro si drizzò, ancora semiassopito, e l'alba vide che si trattava di una nana. Questa allungò subito una mano, in cerca della sua arma, ma invano. «Non fiatare», sussurrò Ondori, tenendo sollevata l'arma della nana, in modo che la vedesse. Poi la scagliò nella neve. «Se ti metti a gridare, prima muoiono i tuoi amici, poi tu. Hai capito bene, Cavernicola?» La nana annuì. «Che ci fate qua?» chiese Ondori. «Siamo venuti a vedere che cosa state facendo.» L'alba scoprì i denti. «Non mentirmi, Gambecorte.» Il volto della nana le era vagamente familiare. «Io ti conosco. Ti ho vista durante la battaglia ai Monti Grigi! Gridando hai distolto l'attenzione da me, e io sono riuscita a fuggire.» Sorrise malignamente. «Sei la moglie del re di quella masnada che si è trasferita nelle aule abbandonate dei Monti Grigi. Manderà un esercito contro di noi? Siete gli esploratori?» «No, ti sbagli», ribatté la nana, caparbia. «Dovevamo vedere che cosa succede ai margini dello Dsôn Balsur e poi andare dagli elfi per trattare con loro.» Ondori fece un rapido movimento col bastone, schiacciando un bottone nascosto che fece uscire una lama all'estremità dell'arma. La punta sfiorò la gola della prigioniera. «Di' la verità, Cavernicola.» Fece volteggiare l'asta, portandone la punta sul fianco di un nano che si trovava alla sua destra. «Pensa ai tuoi amici», sussurrò, minacciosa. «Posso farli dormire per sem-
pre.» La nana incassò la testa. «Tu non gli farai niente, Occhineri», replicò, poco intimidita. Impassibile, Ondori abbassò la lama, infilandola nel corpo del nano, comunque già morto. Ma la nana cadde nella sua trappola, e pensò che fosse stato il suo silenzio intransigente a causare la morte del compagno. «Ora siete rimasti in diciotto, Cavernicola. Te compresa. Hai ancora voglia di mentire?» «Mostro!» La nana si lanciò in avanti senza preavviso, scansò di lato l'asta e piombò sull'alba, che però scivolò da sotto con l'agilità di un felino, sfuggendo alle forti dita dell'avversaria. «Troppo lenta.» Ondori le sferrò con tutte le sue forze un calcio sotto il mento e sorrise nel vedere il corpo della nana afflosciarsi. Il destino mi ha riservato una bella preda. La nana, solo apparentemente priva di sensi, estrasse il pugnale e glielo infilò nella gamba sinistra, trapassando il cuoio dello stivale. «Alle armi!» gridò gettandosi di nuovo sull'alba, puntandole il pugnale alla gola. «C'è un'Occhineri nel campo!» «Non uccidetela!» comandò Ondori, nonostante il dolore. «È importante, ci serve viva.» Le afferrò il braccio che reggeva il pugnale. La nana era fortissima, e pure parecchio pesante, per non parlare della decisione con cui chiedeva conto dell'uccisione del suo amico. Quattro albi le erano intorno, la afferrarono da dietro, la staccarono da Ondori e la scaraventarono sul suolo gelato. Poi le bloccarono braccia e gambe, ma lei continuava a dimenarsi e a cercare di liberarsi dal peso dei nemici. L'alba tagliò un brandello di stoffa dall'abito di un nano morto e si fasciò la profonda ferita, che presto si sarebbe rimarginata da sé. «Maledetti bachi di montagna», ringhiò colpendo la nana con l'estremità smussata dell'asta. «Ti porteremo con noi, Cavernicola. Sei la moglie del re e un'ottima amica di Tungdil Manodoro.» Fece cenno ai suoi accompagnatori di legarla. «Il mio intuito mi dice che sarai di grande valore per noi.» S'incamminò, zoppicando. I suoi guerrieri la seguivano tirandosi dietro la prigioniera, che si opponeva con la caparbietà di un mulo, tanto che alla fine gli albi presero a trascinarla sulla neve. Era l'unica traccia che lasciavano alle loro spalle. Ondori tirò un sospiro di sollievo, quando montò di nuovo in sella al suo toro. Il taglio pulsava dolorosamente; certo l'Acqua Nera faceva in modo
che la ferita si richiudesse rapidamente, ma non attenuava il dolore. L'alba annodò l'estremità della corda con cui avevano legato la nana a un occhiello della sella, in modo che la prigioniera non potesse scappare. Tornarono al loro piccolo esercito e proseguirono il loro viaggio verso l'Âlandur. Il toro voltò il capo, dilatando le froge per annusare l'aria. Il suo comportamento mise in allerta l'alba, che si girò sulla sella e guardò verso ovest. Per tutte le essenze, che cos'è? Una lunga striscia di luce si muoveva attraverso il Gauragar, puntando dritta verso i confini dello Dsôn Balsur. La punta della striscia era a due rotazioni di distanza dalla foresta. Gli umani hanno escogitato un nuovo sistema per bruciare gli alberi? si chiese Ondori, valutando se gli uomini potessero aver già ritrovato il loro coraggio. Ma respinse subito quell'ipotesi. Non conosceva nessun tipo di lanterna che potesse gettare una luce del genere, perfino quelle degli elfi non raggiungevano una tale penetrante luminosità. E non poteva trattarsi di fuoco, il bagliore era troppo chiaro, troppo bianco. «Cavernicola!» Diede un calcio alla nana, che stava vicino al toro, colpendola in mezzo alle spalle. «È opera vostra?» La prigioniera le lanciò uno sguardo omicida, poi scrollò le spalle. «Può darsi, Occhineri.» «Dunque non lo è.» Sembra che un fiume di palandio fuso scorra sopra la terra... L'alba pensò a una sola spiegazione possibile: Andôkai. Probabilmente gli umani avevano blandito e pregato la maga fino a che non le era venuto in mente un incantesimo che permettesse loro di riprendere la campagna contro gli albi. Dopo una breve riflessione, Ondori respinse quell'idea. Il soprannome «Burrascosa» dimostrava che la maga era dedita alle forze dell'aria; non sarebbe stato certo nel suo stile marciare di notte attraverso la landa oscura come fosse un faro e avvertire così graziosamente le sentinelle degli albi del suo arrivo. Che succede laggiù? Ondori aveva una spiacevole sensazione, il bianco splendente di quella luce le faceva male agli occhi. «Fermi!» gridò forte. «Torniamo indietro.» Indicò la striscia luminosa. «Andiamo a vedere di che si tratta, prima di occuparci dell'Âlandur.» I portaordini spronarono i loro destrieri della notte; solo due rimasero accanto a lei. Persa nei suoi pensieri, Ondori si toccò la cicatrice che la benedizione degli Eterni le aveva lasciato sulla fronte. Forse s'ingannava, ma le pareva che iniziasse a bruciare, come se si fosse infiammata.
«Ondori», disse uno dei portaordini indicando verso sud. «Non è un altro fuoco, quello?» In effetti, a molte miglia di distanza si scorgeva un bagliore che assomigliava a quello che si stava avvicinando. «Non è un pericolo per noi», stabilì, tranquillizzata. «Ma teniamolo sott'occhio. Qualunque cosa sia, non deve aggirarci e attaccare a nord.» «Quindi abbiamo a che fare con due eserciti», suppose il portaordini, sorridendo. «Gli Eterni ne saranno contenti. Avremo parecchie ossa nuove da consegnare loro.» L'alba si fregò la cicatrice dolente. «Sicuro», mormorò, sentendo uno strano senso d'insicurezza alla vista di quella luce che si avvicinava rapidamente. «Sbrighiamoci, voglio scoprire con cosa abbiamo a che fare.» *
*
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Mentre il sole sorgeva, Ondori osservava la colonna di soldati dalle lucide armature bianche, che riflettevano la strana luminosità tanto da rendere impossibile mantenere a lungo lo sguardo. Le rune che recavano sugli stendardi le erano del tutto sconosciute, e di certo non erano della Terra Nascosta. «Duemila e cinquecento cavalieri, ventimila fanti», stimò un portaordini, accanto a lei, osservando la massa di nemici sconosciuti. «Dobbiamo assolutamente informare gli Eterni.» «Le nostre sentinelle li avranno sicuramente scoperti», lo tranquillizzò Ondori, socchiudendo gli occhi. «Non appena si sarà fatta sera e quelle loro maledette armature non brilleranno più come diamanti, attaccheremo la loro retroguardia. Voglio prendere qualcuno prigioniero, in modo da poterlo interrogare.» Il poco che riusciva a scorgere delle loro armature e delle loro vesti non si adattava a nessun esercito che avesse mai affrontato, e a Giogonero aveva visto soldati provenienti da tutti i regni degli uomini. Da dove vengono? Le pareva strano che i popoli della Terra Nascosta avessero sguinzagliato contro di loro dei mercenari stranieri senza che gli albi ne avessero avuto il minimo sentore. In fin dei conti, le loro spie avevano origliato molte conversazioni tenute dagli assedianti accanto al fuoco. «Chiunque siano, li accoglierò cordialmente secondo le nostre usanze», rise malevola, ritornando insieme con la sua scorta dal grosso dell'esercito. Seguirono fino a sera la coda dell'armata nemica, attendendo che il sole
tramontasse del tutto. Avevano legato la nana a un albero e le avevano dato da mangiare della neve, perché non morisse di sete. «Non ci vorrà molto. Presto saremo di nuovo da te e ti porteremo dagli Eterni», le promise Ondori provando a camminare con cautela. L'Acqua Nera aveva guarito la ferita alla gamba, e l'alba si sentiva come se non gliela avessero mai pugnalata. Salì in sella al toro e si mise alla testa delle truppe. Ciò che vide osservando la retroguardia nemica non le piacque affatto: le armature degli stranieri sembravano avere immagazzinato i raggi del sole. Avevano perso pochissimo della loro luminosità, costringendo Ondori a dare un ordine inconsueto: mettere sugli occhi le bende dalle sottili fessure che usavano quando marciavano sulla neve. Protetti da quello strano biancore, gli albi tesero un agguato alla retroguardia. Ondori fu colta dall'incertezza già mentre assaltavano le ultime file. Agrass sbuffava e saltellava, agitato, anziché irrompere tra le linee dei nemici, come faceva di solito, seminando la confusione. E più si avvicinava ai nemici, più il tatuaggio sulla fronte le sembrava caldo. Il combattimento iniziò inaspettatamente male. I soldati sconosciuti dovevano aver presagito il loro attacco, oppure conoscevano il mestiere delle armi così bene da non farsi mai prendere dal panico. Quando il primo di loro cadde di sella, trafitto dalla freccia di un albo, gli scudi dei fanti formarono immediatamente un muro. Dietro di loro si raccolse una parte dei cavalieri, che coi loro lunghi scudi alzarono il muro protettivo di tre passi buoni; attraverso i varchi spuntavano lance e alabarde. D'un tratto sugli albi splendette un sole di mezzanotte, investendoli con un caldo bagliore bianco. Ondori gridò. Il segno che portava sulla fronte bruciava come fuoco liquido, infliggendole dolori incredibili. L'attacco era già fallito. «Voi siete gli albi di cui ci hanno parlato», disse il sole. «Io sento che siete corrotti, che portate in voi il seme di Tion e che volete diffonderlo.» Il sole divenne più chiaro, più caldo. «Ma finalmente tutto ciò avrà fine. Non minaccerete più la Terra Nascosta con la vostra esistenza.» Un'ondata di arsura travolse gli albi. Un terzo di loro prese fuoco e si buttò a terra, agonizzante, rotolandosi per cercare di estinguere le fiamme.
Inutilmente. Ondori vide la nuvola incandescente avanzare e si gettò sotto il toro, sperando che non la calpestasse con gli zoccoli. Chiuse gli occhi e avvertì il calore cocente. Intorno a lei tutto scoppiettava, come se capelli e abiti dei suoi guerrieri stessero prendendo fuoco; il fetore era bestiale. Ricevette qualche potente calcio da parte del suo toro. Poi l'alito assassino, che pareva essere uscito direttamente dalle fauci di un drago, terminò. L'alba balzò in piedi e vide i resti carbonizzati di Agrass che ancora si contorcevano al suolo. Il fuoco aveva in parte disciolto perfino la maschera da combattimento in metallo. «Via!» gridò. «Tornate nella macchia!» I suoi ordini si persero tra le sprezzanti grida dei soldati, che iniziarono il loro contrattacco. La cavalleria della retroguardia si gettò in avanti, impavidi galopparono sui loro cavalli bianchi in mezzo alle nere file degli albi, abbattendone e trafiggendone a dozzine. Ondori raggelò. Benché venissero colpiti quasi tutti al corpo, i suoi guerrieri non si rialzavano. Qualunque fosse il potere di cui disponevano le armi dei loro nemici, era più forte di quello dell'Acqua Nera. Siamo vulnerabili come chiunque altro, pensò inorridita, mettendosi in fuga. Era impossibile sopravvivere a un nemico del genere. Saltò sopra i feriti, cercando di salvarsi nel sottobosco inaridito della macchia da cui erano sortiti per attaccare. La cavalleria degli sconosciuti desistette subito, e i fanti non erano in grado di tenere la sua velocità. Ma Ondori non rallentò; il terrore della luce calda le mise le ali ai piedi, la spronò e le fece dimenticare il dolore al fianco e la mancanza di fiato, finché non raggiunse una radura, dove si lasciò cadere, esausta. Non rimase sola a lungo. L'uno dopo l'altro la raggiunsero i sopravvissuti del suo corpo di spedizione. Una decina. Gli altri giacevano da qualche parte, lontano, bruciati o trafitti. «Che cos'era?» ansimò un albo, sconvolto. Ondori non riusciva a parlare. I polmoni le facevano male e, quando si sfiorò la fronte dolente, sopra la maschera, la pelle si sgretolò. La mano le si coprì di una cenere nera e appiccicosa, e la parte di cranio corrispondente le rimase scoperta. Il suo grido, furente e sofferente al tempo stesso, risuonò forte nella notte. Le sue dita affondarono nel terreno.
In quell'istante un paio di larghi stivali scalcagnati entrarono nel campo visivo di Ondori. «Oh, guarda un po' chi abbiamo qui!» esclamò una voce profonda. Poi un oggetto pesante la colpì alla nuca, e l'alba crollò a terra, tramortita. VI Terra Nascosta, ventuno miglia a nord-ovest dello Dsôn Balsur, fine del 6234° ciclo solare, inverno «La conosco, la sua maschera l'ha tradita. Era di fronte a me, sui Monti Grigi, e ha cercato di uccidermi.» Tungdil osservava l'alba legata accanto al fuoco, sul suolo gelato. Intorno a Ondori sedevano lui e i suoi amici, attendendo che rinvenisse. «Si è presa la Lama di Fuoco.» Il Rabbioso teneva una delle sue asce pronte a colpire, in modo da poter uccidere l'alba al minimo segno di pericolo. «Per me ci sta mettendo troppo», brontolò. «Se tu non l'avessi colpita così forte, a quest'ora sarebbe sveglia», gli disse Boëndal per ricordargli chi era il responsabile. «Allora ci penso io.» Tungdil prese una manciata di neve e gliela gettò in faccia. Le avevano tolto la maschera, sotto cui si nascondeva il tipico volto allungato che contraddistingueva sia albi sia elfi, un volto segnato dalle vampate dell'ascia. La neve le si abbatté in faccia; in parte le rimase attaccata alla pelle calda e iniziò a sciogliersi. «Forse è più utile il caldo. Sembra che ne abbia già fatto conoscenza», congetturò Boïndil chinandosi in avanti per prendere coi guanti un tizzone ardente. L'alba spalancò gli occhi. «Non ci provare», sibilò. «Lo sapevo. L'Occhineri era sveglia», sogghignò il nano, mentre le mostrava l'ascia. «Fai la brava, o ti trito come prezzemolo.» Tungdil le fece un cenno col capo. «Finalmente ti vedo senza la maschera.» «Hai infranto il mio giuramento. Per questo conoscerai l'ira di Tion», sputò lei piena di rancore. «Non ti resta molto da vivere, Manodoro. Il poco che resta anche ai tuoi amici.» Rodario scosse la testa. «Ma sentitela un po', la piccola gatta selvatica
dalle orecchie a punta. L'abbiamo legata come un salame e lei cerca ancora d'infilarci in gola i suoi artigli.» Si mise in posa. «Ascolta, alba. Io sono Rodario l'Incredibile, apprendista di Narmora la Sinistra, e ti potrei distruggere in un istante, se lo volessi, ma ti risparmieremo la vita, se...» «Dicci dove si trova la Lama di Fuoco», lo interruppe Boïndil, cosa che gli valse la teatrale indignazione del presunto apprendista. «Là dove voi non arriverete mai», rispose Ondori. «No, noi no. Ma ci sono ottime probabilità che quegli altri raggiungano la vostra capitale e la radano al suolo», ribatté Tungdil. «Intendi dire gli stranieri? E c'è bisogno della Lama di Fuoco per fermarli?» Nel cuore dell'alba si accese un barlume di speranza. «Dunque si trova a Dsôn?» dedusse Tungdil. L'alba tacque e cercò di ordinare le idee riguardo a ciò che aveva appena appreso. Mentre faceva finta di dormire, i nani avevano parlato degli stranieri. A Ondori era parso che volessero sbarrare la strada al loro esercito. «Ho capito che non siete stati voi a chiamarli. Ma perché li volete fermare?» chiese. «Non stanno facendo esattamente quello cui voi mirate da sempre?» «Allora non sa davvero nulla», si fece sfuggire Rodario, sbalordito. «Di' un po', piccola gatta selvatica, non hai mai sentito nulla riguardo la leggenda degli avatar?» Quando lei scosse la testa, l'attore gliela riportò con parole ornate, colorandola un po' per incuterle ancora più paura, e concluse distendendo le braccia in avanti. «I tuoi uomini sono arsi nella purezza degli avatar, i frammenti del dio che tu adori. Tutto ciò non è di straordinaria ironia?» «Non si daranno pace finché non avranno annientato anche l'ultimo di noi», mormorò Ondori, meditabonda. A quel punto si spiegava diverse cose: il suo brutto presentimento durante l'attacco alla retroguardia dei nemici, la circostanza che la cicatrice fattale dagli Eterni era arsa in presenza dell'avatar, e che l'Acqua Nera che scorreva nelle loro vene avesse perso i suoi effetti. E capì che non vi era nulla che potesse difendere lo Dsôn Balsur dall'invasione degli avatar. A parte i fetidi Cavernicoli. Scoppiò a ridere. «Sì, è davvero assurdo. Ora a difenderci sono gli stessi che bramano la nostra distruzione.» «In realtà è ancora più divertente», replicò Tungdil, guardandola però seriamente. «Dovremo combattere fianco a fianco per attaccare il nemico con tutte le nostre forze.» «Cavernicolo, non possiamo sopravvivere al loro potere», lo contraddis-
se lei, rabbrividendo al pensiero della nube di luce e calore. «Sarebbe come lanciare una palla di neve contro il sole.» «Basta che la palla di neve sia grande a sufficienza», ribatté l'altro, accingendosi a tagliare le corde che la legavano. «Metti da parte l'inimicizia che c'è tra di noi e torna di corsa alla tua capitale. Incontra i tuoi sovrani e spiega loro che cosa minaccia il vostro regno. Quanti più si mettono sulla strada degli avatar, tante più possibilità abbiamo contro di loro.» «Lo farò.» Quando Ondori si rimise la maschera per coprirsi il volto deturpato, si fece avanti una donna protetta da un'armatura di cuoio nera; aveva i tratti troppo allungati per un essere umano. «Il mio nome è Narmora, ero allieva di Andôkai la Burrascosa», disse presentandosi nella lingua degli albi; Ondori la capì, pur se l'accento e l'intonazione erano per lei terribili a sentirsi. «Riporta questo ai tuoi sovrani: se non ci manderanno nessun guerriero, lasceremo agli avatar mano libera e staremo a vedere che cosa faranno del vostro regno. Preferiamo concedere più potere agli avatar, piuttosto che sacrificare vite preziose.» I suoi occhi divennero neri e minacciosi. «Che non vi venga in mente di non fare nulla, o mostrerò loro personalmente la strada per il cuore dello Dsôn Balsur. E li aiuterò ad annientarvi.» È una di noi! Ondori non poté fare altro che annuire. «Lo riferirò agli Eterni», promise con voce roca. Si sfilò i lacci e si alzò. «Giuralo sul tuo sangue», le ordinò la maga con voce cupa. L'afferrò per il braccio sinistro e le incise il dorso della mano; poi le tenne la lama del coltello, sporca di sangue, davanti agli occhi. «Il mio sortilegio ti troverà ovunque, seguirà le tue tracce come una fiera e ti annienterà, se solo avrò l'impressione che tu mi stia ingannando.» Ondori non oppose resistenza; la maga era convincente e le incuteva timore. «Farò ciò che chiedi», balbettò. «Per mostrarti che io non intendo ingannarti, ti rivelerò dove abbiamo legato una prigioniera. Una Cavernicola.» Le descrisse come arrivare all'albero dove avevano lasciato la nana, poi abbandonò di corsa il bivacco e scomparve nell'oscurità. «Non voglio sapere che cosa le hai detto», fece Boïndil di malumore. «Vorrei anche non aver sentito quella lingua.» «Allora non avrei scoperto che non lontano da qui una nana attende di essere liberata», replicò Narmora sorridendo, mentre gli occhi le tornavano del loro colore normale. «Devo mandare Djerun, o ci pensate voi?» Era una domanda inutile. Per i nani era ovvio liberare una di loro da una situazione così spiacevole, per cui Tungdil, i gemelli e trenta volontari
s'inoltrarono nella vegetazione per cercare la prigioniera. Raggiunsero il punto che era stato loro indicato. Ma qualcuno li aveva preceduti, come poterono intuire dalla neve disciolta e dalle numerose orme di soldati in marcia. Ai rami dell'abete pendeva la corda con cui gli albi avevano legato la loro prigioniera. «L'hanno trovata gli avatar.» Tungdil girò intorno al tronco, cercando un'indicazione sulle origini della nana. Accanto alle orme degli stivali, mezza schiacciata nella terra, scoprì una collana spezzata: era stata forgiata con piastrine di ferro ornate da piccole sferette d'oro. La conosceva fin troppo bene. «Balyndis», mormorò, raccogliendo la collana e pulendola delicatamente. Nelle mani degli avatar non era caduto solo il suo vero grande amore, ma anche il segreto dell'armatura di Djerun. «Allora queste prove non finiscono mai?» mugugnò il Rabbioso. «A un certo punto ne ho abbastanza anch'io.» Boëndal appoggiò una mano sulla spalla di Tungdil, per consolarlo. «Non c'è stimolo migliore per annientare l'esercito degli avatar, Sapientone. Non temere, libereremo la tua amata dalle mani del nemico.» «Non è più la mia amata, l'hai dimenticato, Boëndal?» Tungdil si mise la collana intorno al polso destro, sopra il fazzoletto di Frala, la sua amica umana, morta da tempo. Se anche dovessi battermi da solo contro gli avatar, Vraccas, la riavrò indietro. «No, non l'ho dimenticato. E la donna di Glaïmbar. Ma resterà sempre la tua amata.» Dentro di sé, Tungdil gli diede ragione. *
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Tungdil, i gemelli e l'armata di diecimila Terzi riuscirono con una marcia forzata a superare l'esercito degli avatar. Si disposero davanti al sentiero che gli uomini avevano aperto col fuoco attraverso la foresta.. Tungdil fece nascondere nel sottobosco duemila nani, dividendoli in due reparti, uno a destra e uno a sinistra del corpo principale. L'alba che avevano mandato nella capitale del regno riportò loro la notizia di una tregua temporanea. Ciò garantiva che nessuna freccia nera sarebbe piovuta su di loro e nessun albo li avrebbe aggrediti alle spalle. In passato, altri avevano avuto meno fortuna di loro. I nani guardavano con orrore i resti di strane statue fatte con cadaveri di esseri umani, che gli
albi avevano allestito lungo il sentiero come monumento del loro trionfo. Ovunque sventolavano bandiere di pelle umana, su cui erano stati tracciati col sangue dei morti rune e simboli degli albi. Nei mesi caldi gli agenti atmosferici avevano già messo a dura prova quelle ributtanti opere d'arte, ma il freddo le preservava dall'ulteriore deterioramento, e la neve copriva col suo bianco velo i corpi, risparmiando ai nani la vista di particolari raccapriccianti. In momenti come quelli, Tungdil e i suoi amici provavano non poca voglia di lasciare agli avatar mano libera. Ammesso che provassero paura, i Terzi non lo davano affatto a vedere. I loro volti tatuati erano fissi verso sud, da dove sarebbe comparso il nemico; i guerrieri formavano disciplinatamente file su file, tenendo alti gli scudi e reggendo l'arma con la mano libera. A Boïndil, che, come suo fratello, non si allontanava mai da Tungdil, davano un'impressione di straordinaria forza. Anche se i due gemelli non lo dicevano espressamente, ritenevano che fosse loro compito proteggere la vita del loro amico e custodirlo da attacchi provenienti dalle loro stesse file. Il fatto che i nani combattessero insieme non significava che si fidassero gli uni degli altri. Nella tarda mattinata tornò un esploratore inviato da Tungdil in avanscoperta. «Stanno arrivando», riferì il nano. «La distanza della nostra armata principale dovrebbe essere di circa mezza rotazione, sono riuscito a scorgerla all'orizzonte.» Tungdil lo ringraziò e lo mandò a schierarsi tra i suoi commilitoni. «Mezza rotazione», ripeté. «Sarà un lavoro difficile.» Pensò a quanto poco fossero durati i quattromila albi che si erano imbattuti negli avatar. Maledettamente difficile! «Non sarà facile, ma non è impossibile», cercò d'incoraggiarlo il Rabbioso, mentre estraeva la seconda ascia. Qualche ora più tardi, un vento caldo annunciò l'arrivo del nemico. «Mantenete le posizioni», ricordò Tungdil facendo riportare le sue indicazioni ai capitani mediante i portaordini. «Quando arriverà il fuoco, sollevate gli scudi tenendoli inclinati e rannicchiatevi dietro, così passerà sopra di voi.» Sentirono il rombo di zoccoli. La cavalleria degli avatar si accalcò davanti a loro, formando due linee; alle sue spalle marciava l'avanguardia dell'esercito, coprendo cavalieri e cavalcature con lunghe lance dietro cui avrebbero potuto ritirarsi in caso di attacco nemico. I nani osservavano impassibili l'avanzata dei nemici. Solo quando il ba-
gliore si fece insopportabile si legarono delle bende davanti agli occhi, per proteggerli dal riverbero. Poi, una figura circonfusa di luce si staccò dalle file, avvicinandosi lentamente. Si librava sopra la neve, che si scioglieva sotto di lei all'istante. Si fermò a dieci passi di distanza. In quei contorni abbaglianti era impossibile scorgere un volto. «Voi siete i nani», disse con un'infinita bontà nella voce. «Per migliaia di cicli avete difeso la Terra Nascosta dalle bestie di Tion, per quanto vi era possibile. Ma ora vi contrapponete a noi, che perseguiamo il vostro stesso obiettivo?» «Avatar, preghiamo te e i tuoi guerrieri di abbandonare subito la nostra patria», replicò Tungdil. «Siete dannosi per il suolo, per le creature e per tutto ciò che vi circonda.» «Noi abbiamo un compito», dichiarò la voce. «Albi, orchi, mezz'orchi... Questa terra ci offre tutti loro. Per cui non ce ne andremo prima di averli annientati. Vogliamo umiliare Tion e aumentare la nostra potenza, in modo tale da poter un giorno marciare contro Tion stesso.» L'avatar scivolò in avanti, e Tungdil sentì il calore aumentare percettibilmente. «Fatevi da parte, nani, e non vi capiterà nulla di male.» La sua mano scintillante indicò il nord. «La torre e la città sono la nostra meta.» «Non ve lo possiamo permettere, perché, aumentando il vostro potere, diventereste ancora più pericolosi.» Tungdil sollevò lo scudo e si preparò a essere investito dall'ondata di bianco incandescente. «Noi nani proteggiamo la Terra Nascosta dai pericoli. Dal momento che voi siete un pericolo per la Terra Nascosta, non ci rimane altra scelta che fermarvi. E sarà...» Inaspettatamente, Djerun corse in avanti. Con tre falcate potenti finì accanto alla figura, l'afferrò al collo con entrambe le mani e lo strinse. L'avatar strillò, avvolgendosi in un manto di luce brillante che investì Djerun, ma il colosso sembrò non risentirne. L'odore di metallo caldo riempì l'aria. Urla terrorizzate si levarono tra le file dell'esercito avversario. Poi si sentì un forte rumore, come se una tenda spessa e pesante fosse stata strappata in due. A quel rumore s'intrecciarono cigolii e sferragliamenti. In un istante il bagliore si dissolse, e i nani udirono il muggito trionfante di Djerun. Teneva sollevato l'avatar, diviso in due, che, stagliato contro il cielo grigio, aveva ormai un aspetto del tutto umano: un uomo sui trenta cicli, il cui abito di stoffa era imbevuto di sangue. Il colosso rivestito di metallo scagliò le due metà in aria, descrivendo un'alta parabola; i resti caddero nella neve, rotolarono qualche volta, poi
rimasero immobili. Non si ricomposero, né ripresero ad ardere. Non vi era più nulla di divino in essi. «Quella è la scheggia di un dio!» Boïndil deglutì. «L'ha strappato in due... come un pollo.» «Un mortale», sussurrò Narmora. Scoppiò a ridere, sollevata. «Ha capito dall'odore che era un essere umano! Sono solo incantatori, che coi loro giochi di prestigio vogliono far credere di essere gli avatar.» Tungdil si unì alla risata, scrollandosi di dosso tutte le paure che gli avevano fatto dubitare di poter sopravvivere a quel giorno e di riuscire a salvare Balyndis. L'allegria si diffuse, e poco dopo risuonavano per lo schieramento dei nani forti risate di scherno, che non terminarono neppure quando la cavalleria nemica iniziò l'attacco. Le armature, che ancora risplendevano, avevano perso buona parte della loro lucentezza, scomparsa con la morte del mago sconosciuto. Boïndil sollevò scudo e ascia. «Spaccate le ginocchia ai ronzini e i cavalieri vi finiranno in braccio», gridò al colmo del suo entusiasmo guerresco. Come tutti gli altri, aveva riacquistato fiducia nella vittoria. Guidati da Tungdil, ottomila nani si gettarono in avanti con un grido di battaglia sulle labbra. *
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Uccidere il primo falso avatar era stato tanto facile quanto divenne difficile sostenere l'attacco dei soldati nemici. Incolleriti dalla morte di uno dei loro capi, gli stranieri si gettarono in battaglia pieni di furia, e stavano mettendo in serie difficoltà i nani con la loro veloce e mobile cavalleria. I cavalli irrompevano a forza tra le file dei nani, aprendo varchi nei muri di scudi in cui i fanti, che incalzavano alle loro spalle, s'infilavano facendo vacillare lo schieramento nemico. «Ripiegare!» Tungdil fece arretrare l'esercito, assottigliato dalle perdite, per avvicinarlo alla protezione offerta dagli alberi. Non appena raggiunsero il bordo della foresta, i due reparti rimasti nascosti nella vegetazione si fecero avanti, respingendo la fanteria degli avatar. «Resistete», li incitò Tungdil. «Il sole sta tramontando, tra non molto Lorimbas arriverà in nostro aiuto.» A quel punto si avvicinò la seconda figura luminosa, che però non
commise l'errore di farsi troppo avanti. Levitava a tre passi dal suolo, alle spalle delle proprie file, e scagliava sfere infuocate nel combattimento. Narmora doveva usare tutte le sue forze per respingerle e dirigerle in mezzo ai nemici. Quando l'avatar comprese di avere di fronte un'avversaria alla sua altezza, ordinò alle sue truppe di attaccare il fianco in cui si trovava la mezz'alba. Tungdil chiamò a sé i gemelli e con loro si affrettò a raggiungere Narmora per difenderla. Il combattimento infuriò ancora prima che arrivassero in posizione, e la maga scomparve nel tumulto della battaglia. «Non dobbiamo perderla, per nessun motivo», gridò Tungdil. Le scuri, l'azza e l'ascia si scavarono un passaggio tra i nemici; avanzarono in linea retta verso il punto in cui pensavano dovesse trovarsi la mezz'alba. Alla fine la raggiunsero. Si stava difendendo dal feroce assalto dei soldati avversari. Come se non bastasse, il secondo avatar si trovava nei paraggi e la incalzava attaccandola con una serie di incantesimi. I Terzi che la circondavano non perdevano posizioni, mentre la mazza di Djerun abbatteva con ogni colpo tre o più uomini che si avvicinavano troppo alla sua signora. Ma i guerrieri nemici sapevano che era solo una questione di tempo, e che prima o poi i nani avrebbero ceduto. Erano troppo pochi. Madida di sudore, Narmora stava accanto a Djerun e, tracciando simboli nell'aria, lanciava i suoi incantesimi. «Non posso resistergli ancora a lungo», disse a Tungdil, ansimando. «Djerun non è abbastanza vicino al mago per ucciderlo.» Deviò un fulmine che stava sfrecciando contro di lei, dirigendolo verso gli aggressori; l'energia ne arse una dozzina. Tungdil esitò un istante, prima di comandare una sortita per fare sì che i Terzi aprissero un varco per Djerun. Dove sono gli altri nove avatar? si chiedeva. Fin dal principio della battaglia si era aspettato di bruciare insieme col suo esercito in una nube di fuoco, com'era successo agli albi prima di loro. Perché non fanno nulla e sacrificano le vite dei propri soldati? Decise di tentare la sorte e guidò coi gemelli l'offensiva. I Terzi li seguirono e dimostrarono di essere in grado d'infliggere gravi perdite ai nemici, pur essendo in inferiorità numerica. Ma erano davvero troppo pochi. All'imbrunire, proprio mentre l'attacco dei nani si arenava, ricevettero i soccorsi. Sopra le loro teste volò un'immensa nube, che scrosciò e sibilò
come uno stormo di uccelli per poi abbattersi con fragore sulle armature dei nemici. Erano centinaia di frecce. Frecce dalle aste e dalle piume nere. «Gli Orecchi appuntiti dagli occhi neri hanno preso la decisione giusta», brontolò Boïndil. «Diventa sempre più difficile uscire vivi da questo campo.» Parò il colpo di un soldato, gli troncò la mano armata e gli menò un fendente sulla coscia scoperta. «Terzi, albi e avatar.» Col movimento successivo colpì un nemico al fianco. La lama dell'ascia sfondò l'armatura e lasciò dietro di sé una profonda ferita. «Devo guardarmi intorno in continuazione per tenere tutti sott'occhio.» Boëndal vibrò un colpo d'azza e col lato piatto frantumò un elmo e la testa che conteneva. «Tieni d'occhio quello che hai davanti e smettila di darti tanti pensieri», consigliò al fratello tergendosi dal volto il sangue e il sudore con la lunga barba. «Lì davanti c'è l'avatar, è lì che dobbiamo arrivare.» Le frecce degli albi sibilavano senza sosta sopra le loro teste, spargendo tra i nemici le loro piume mortali. La determinazione dei nemici sfumava a vista d'occhio, e i primi cominciavano a ritirarsi ordinatamente, tenendo gli scudi in alto per difendersi dai proiettili. Il momento di Djerun era arrivato. Lasciò il fianco di Narmora e corse in avanti, abbattendo ogni avversario che finisse incautamente entro la portata delle sue armi. Si fermò immediatamente alle spalle di Tungdil. Con una facilità che nessuno si sarebbe aspettato, spiccò un salto di sette passi abbondanti, volando sopra elmi, scudi e teste, e atterrò in mezzo ai nemici, a soli due passi dal secondo avatar. La figura circonfusa di luce si volse subito ad affrontarlo lanciandogli un fascio di bianca energia scoppiettante. L'incantesimo si abbatté sull'armatura di Djerun, facendone brillare i simboli senza che il colosso sembrasse accusare il colpo. I raggi cercarono il loro bersaglio tra i soldati circostanti, e per Djerun fu facile raggiungere l'avatar. Si affidò di nuovo alla sua forza sovrumana; le sue dita coperte di metallo ghermirono il corpo nascosto dalla luce, che divenne più vivida e intensa, fino a che non si udì un acuto urlo di morte, e il bagliore si spense del tutto. Con un cupo brontolio Djerun sollevò il cadavere del secondo mago, cui aveva spezzato il collo. Luce violetta s'irradiava dalle fessure dell'elmo, come se il colosso avesse trasformato il suo orgoglio in quel bagliore. Si godette la vittoria, girando su se stesso per assicurarsi che l'esercito nemico sapesse che il suo condottiero era morto, prima di gettarlo via come un giocattolo divenuto noioso. Il cadavere volò in aria e atterrò sulle punte
delle lance e delle alabarde della sua stessa gente. In un attimo, il campo di battaglia piombò nel silenzio. Se i nemici avevano potuto interpretare la morte del primo avatar come un caso, a quel punto era chiaro a tutti che quelle creature erano tutt'altro che divine e imbattibili. Il sangue del mago scorreva sul metallo e sulle aste di legno come quello di chiunque altro. Non emetteva più nessuna luce salvifica, e ogni traccia di purezza era scomparsa. «Ora!» gridò Tungdil, tutto eccitato. «Trucidateli prima che si riprendano dalla paura!» La sua ascia si abbatté su uno scudo, frantumando il braccio che lo reggeva; gridando, l'uomo cadde sul suolo smosso. Il combattimento infiammò di nuovo, e a quel punto la fiducia animava le guerriere e i guerrieri di Tungdil. Gli albi uscirono dalla copertura della foresta, per gettarsi anche loro nel combattimento corpo a corpo, e un'acuta nota di corno annunciò l'arrivo di Xamtys e dell'armata principale di Liberi, Primi e Terzi. L'esercito nemico aveva come obiettivo principale quello di uccidere la creatura che aveva strappato loro gli avatar. Lo incalzavano senza dargli tregua, lo colpivano per poi ritrarsi al momento giusto; se il colosso riusciva a colpirne uno, gliene piombavano addosso altri quattro. Boïndil notò che Djerun era in difficoltà. «Guardate, Testadilatta è nei guai.» Bastò un breve sguardo ai volti stanchi di Tungdil e di Boëndal. «Andiamo a salvarlo. Ormai mi ero abituato a lui, mi spiacerebbe...» Boëndal lanciò un grido di avvertimento e lanciò l'azza. La pesante arma ruotò volando verso un cavaliere che galoppava contro Djerun lancia in resta. Ma il cavaliere vide l'oggetto in arrivo e si abbassò, lasciando scivolare l'arma devastante sopra la sua testa. Djerun era troppo impegnato a tenere a bada i picchieri, e sentì tardi lo scalpiccio di zoccoli alle sue spalle. Riuscì ancora a voltarsi di tre quarti, ma la lancia gli trapassò di traverso il basso ventre. Il cavaliere pagò con la vita il suo attacco coraggioso, quando la mazza del colosso gli sfondò il petto. I picchieri incalzarono subito il nemico, atterrando Djerun. Tungdil e gli altri nani persero di vista la mezz'alba. «Narmora!» gridò Tungdil, avvisandola della sorte del suo custode. La mezz'alba lo cercò con lo sguardo, ma non riuscì a scorgerlo nella calca di guerrieri. «Non lo vedo», gridò in risposta, lanciando un raggio di fuoco nella direzione indicata da Tungdil. «Vi libero la strada, cercatelo voi.»
I nani si prepararono a farsi strada verso Djerun all'attacco successivo della maga. Ciò che non potevano sapere era che Narmora non impiegò tutta la sua energia per lanciare l'incantesimo. Djerun si era certamente dimostrato utile, dal momento che, grazie a lui, avevano capito che esisteva un'armatura capace di resistere alla magia dei presunti avatar. Ma la mezz'alba non gli aveva perdonato di aver preso parte alla cospirazione contro di lei. Se muore, bene. Se sopravvive, troverà la morte in un'altra occasione, pensò Narmora con indifferenza guardando i nani che avanzavano nel tentativo di salvare Djerun. Di certo non mi prodigherò. Non per lui. *
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I picchieri si dimostrarono nemici di grandissima tenacia; con le loro lunghe picche e alabarde deviavano tutti i colpi dei nani. Una fila di punte di ferro si contrapponeva ai nani, tenendoli a distanza, una seconda fila guizzava continuamente in avanti ferendo chiunque cercasse di aprirsi un varco nel groviglio di lance e di spezzare le aste. Da qualche parte, alle loro spalle, giaceva Djerun. «Ehi, adesso mi avete proprio stancato! Vedrete che cosa significa attirarsi la collera di un nano», gridò Boïndil, furente, e fece per attaccare, ma il suo più assennato fratello lo trattenne. «Ti infilzerebbero come un polletto arrosto», lo avvertì Boëndal. Numerose alte figure si stavano posizionando intorno a loro, con gli archi tesi puntati verso i picchieri. Poco dopo le frecce sibilarono tra i nemici, uccidendone parecchi e creando una breccia larga due passi scarsi. «Non fermatevi», disse una voce femminile, e Tungdil riconobbe la figlia di Sinthoras. «Sbrigatevi.» «Questo non mi piace.» Boïndil la guardava con diffidenza. «Avremo loro e i loro maledetti archi alle spalle», ringhiò, rivolto a suo fratello. «Sì. Potremmo tirare su di voi in qualunque momento», confermò Ondori sorridendo. «Ma perché mai dovremmo? Al momento abbiamo gli stessi nemici.» Guardò i soldati stranieri e ordinò alla sua gente di tirare una seconda ondata di frecce, visto che la foresta di lance si era già rinserrata. «Forza, Manodoro.» Prese un arco e incoccò una freccia. «Veglierò personalmente sulla tua vita, in modo che sia io a prendertela, in futuro.» Gli occhi dell'alba erano pieni di odio. A Tungdil non rimase altra scelta. Indirizzando una silenziosa preghiera
a Vraccas, si gettò sulla breccia, mentre i gemelli e i Terzi lo seguivano. Benché si fosse ripromesso, e con fermezza, di non farlo, voltò la testa per guardare in direzione dell'alba. Ondori aveva l'arco teso, e mirava proprio su di lui. In un attimo le dita lasciarono la corda e la freccia schizzò in avanti. Il nano già immaginava il dolore che stava per provare, ma come per miracolo la freccia lo mancò. L'alba abbassò l'arco e indicò qualcosa davanti a lui. Tungdil si voltò e vide che il tiro aveva ucciso un nemico che si trovava proprio di fronte a lui. Voltandosi verso l'alba, il nano stava per finire dritto sulla spada del soldato. Dovrò fidarmi del suo odio. È la mia migliore difesa, pensò. Saltò il cadavere e attaccò i soldati per raggiungere Djerun. Ma del colosso della maga non vi era traccia. A quel punto, trovandosi tra le file dei nemici, il Rabbioso non aveva più freni. I picchieri portavano come seconda arma delle spade corte, che non servivano a nulla contro mazze, scuri, asce e martelli. In un attimo, i nani si trovarono in superiorità; non offrirono ai nemici nessuna pietà e non avevano neppure intenzione di fare prigionieri. Lo scontro durò fino al principio della notte, quando ciò che rimaneva dell'esercito dei presunti avatar giaceva ormai a terra, sul limitare della foresta dello Dsôn Balsur. Finalmente trovarono Djerun. Giaceva circondato da cadaveri, e non si muoveva. Non reagì quando lo chiamarono ad alta voce, né quando gli scossero con forza le spalle. Dagli innumerevoli fori sulla sua armatura scorreva il sinistro sangue giallastro, che formava un'enorme pozza tutt'intorno. Tungdil chiamò Narmora ad alta voce. «Indietro di dieci passi», ordinò la mezz'alba. «Nessuno deve vedere ciò che farò. È una magia che può uccidervi.» Distese un mantello su di sé e la testa di Djerun. Così nascosta, aprì la visiera. Le orbite dell'orribile volto bestiale erano vuote, nulla più vi splendeva o faceva pensare che vi fosse vita. Narmora non provava compassione, ma neppure soddisfazione; Djerun era stato per lei solo il braccio dell'odiata Andôkai. Così, alla fine, sei stato punito per ciò che hai fatto a me e a Furgas. Richiuse la visiera e lasciò cadere il mantello, poi si alzò. «È morto», annunciò. «Djerun ha dato la sua vita per distruggere due avatar. Non ci dimenticheremo di lui.» Si avvicinò a Tungdil. «Avete trovato Balyndis?» Boïndil scosse la testa, stizzito. «Non capisco. Dove accidenti l'hanno
portata?» «E io non capisco perché c'erano solo due autoproclamati avatar», aggiunse Tungdil. La preoccupazione per il destino della nana lo opprimeva. «Dove sono spariti gli altri nove?» «Forse non sono mai stati più di due», ipotizzò Narmora. «Ho visto i corpi delle presunte schegge divine, e ho avuto l'impressione che fossero semplici uomini.» Mostrò ai nani gli oggetti che aveva sottratto ai morti. «Amuleti, anelli, cristalli e altri strumenti che vengono usati per immagazzinare energia magica. Se glieli si prende, non possono più fare nulla.» «Era grazie a quelli che splendevano?» chiese il Rabbioso. La mezz'alba annuì. «Dev'essersi trattato di un incantesimo che riuscivano a mantenere grazie ai loro talismani. In quel modo davano l'impressione di essere divinità.» Indicò uno dei soldati morti. «Vedete la pietra lunare che portano tutti sopra l'armatura, appena sotto il collo? L'incantesimo fatto su quelle pietre garantiva che i soldati rilucessero quasi quanto i loro signori.» «Imbroglioni», borbottò il Rabbioso facendo un cenno verso Rodario, che si era unito a loro. «Come te. Ci hanno fatto credere di essere qualcos'altro.» «Devo dissentire nel modo più assoluto», protestò l'attore. «Mi sono comportato valorosamente e ho fatto credere ai nemici di avere a che fare con un vero mago.» In effetti le sue vesti sembravano sgualcite e avevano subito qualche taglio, senza che però lui fosse rimasto ferito. Come spuntando dal nulla, Ondori era tra loro. Sembrava essere stata emanata dall'oscurità. Il Rabbioso estrasse subito un'ascia dalla cintura e la puntò verso di lei, minaccioso. «Sta' indietro, Occhineri. La battaglia è stata combattuta, siamo di nuovo nemici.» «Se così fosse, morderesti la polvere già da un po', Cavernicolo», ribatté l'altra con aria di superiorità. «Mi è venuto in mente che potrei avere la soluzione del mistero degli avatar mancanti. Poco prima d'imbattermi in voi, ho scorto nella notte una seconda fonte di chiarore che si muoveva verso ovest. Che si siano divisi?» «Senza che noi ce ne accorgessimo?» «Sì. Senza che voi ve ne accorgeste. Voi Cavernicoli avete il sonno profondo; è facilissimo sorprendervi di notte e uccidervi. O ingannarvi.» Lo fissò da dietro, la maschera. «Io lo so bene.» Se Tungdil e Boëndal non lo avessero afferrato per le spalle, il Rabbioso
si sarebbe sicuramente scagliato contro l'alba. Si limitò a dimenarsi e a insultarla. «Dove vorranno andare?» chiese Tungdil alle persone lì raccolte. «Che cosa c'è a ovest che possa interessare loro? Là non vivono orchi o mezz'orchi.» Rifletté sulla leggenda. «Anche se sono normali maghi, pare vero che traggono forza dalla distruzione del male. Staranno cercando qualcosa di malvagio.» Narmora impallidì. «Porista...» sussurrò. «Porista è malvagia?» chiese Rodario, stupito. «Non ho mai avuto un'impressione del genere, al contrario. Le persone sono molto amichevoli, se si eccettuano alcuni mariti che...» «No, non sto parlando delle persone. Parlo della sorgente che si trova nelle fondamenta del palazzo. Alimenta tutti i campi magici dei regni», spiegò la mezz'alba. «Salito al potere, Nôd'onn l'alterò e la convertì al male, in modo da essere l'unico a poterne attingere. Era rimasto possibile solo ad Andôkai, e ora a me, perché devota a Samusin: luce e tenebra mi si dischiudono allo stesso modo.» Tungdil intuì che cosa intendessero fare gli avatar. «E la fonte non è tornata normale dopo la morte del mago?» Narmora scosse la testa. «Allora potrebbe essere una meta interessante.» «Che effetto potrebbe avere sulla Terra Nascosta?» s'interrogò Boëndal. «Non m'intendo di magia, ma non sarebbe un guaio se i campi improvvisamente sparissero? Forse fanno parte della terra come le fondamenta su cui si ergono le montagne. Non si vedono, ma sono importanti.» «Narmora, è possibile prosciugare la sorgente, o distruggerla?» chiese Tungdil, allarmato. «Non lo so», ammise la mezz'alba. «Potrebbe esserci qualcosa a riguardo negli archivi, ma... sono a Porista.» Sussultò, guardando Furgas. «Come nostra figlia.» «Allora continuiamo a essere compagni d'arme», concluse Ondori con freddezza. «Buon per voi. Rimarrete in vita un po' più a lungo.» Tungdil guardò l'immenso campo di battaglia, coperto di cadaveri. Dunque questo è stato solo l'inizio, Vraccas. Dei più di trentamila nani, di cui ventiduemila Terzi, ne erano rimasti circa ventimila. Con quei guerrieri, dovevano marciare contro una città e un numero sconosciuto di nemici guidati da maghi potenti. Tungdil non faceva affidamento su uomini ed elfi. Dopo la distruzione
del loro esercito nello Dsôn Balsur, i primi non erano in condizione di raccogliere rapidamente nuove forze, mentre i secondi si sarebbero sicuramente rifiutati di combattere a fianco degli albi. In ogni caso, avrebbe inviato dei messaggeri nell'Âlandur per chiedere l'aiuto degli elfi. Tutto è nelle nostre mani, Vraccas. Solo nelle nostre. Tungdil volse lo sguardo là dove, da qualche parte nell'oscurità della notte, si trovavano i Monti Grigi. «I figli del Fabbro devono compiere il loro dovere», disse con voce ferma. Per un qualche motivo si convinse che Balyndis era ancora viva. La troverò e la libererò. Il Rabbioso annuì. «Sembra che tocchi a noi, Sapientone. Ma siamo pratici di queste cose.» Indicò l'alba e i Terzi. «Anche se avrei preferito altri alleati.» Un albo si avvicinò a Ondori e le sussurrò qualcosa in un orecchio. «Abbiamo trovato delle tracce, Cavernicoli», riferì l'alba. «Appartengono a un gruppo di cavalieri; non dovrebbero essere più di venti. Probabilmente marciano verso Porista. Nel punto in cui sono montati in sella c'erano anche impronte di stivali della misura di un bambino.» Tungdil tirò il fiato. «Non è un bambino, è una nana. Una nana che conosce il segreto dell'armatura che può resistere alla magia degli avatar.» «Vi sembrerà indelicato, ma non sarebbe stato più semplice ucciderla?» fece notare Rodario con poco tatto. «Di sicuro sarebbe stato più semplice. Ma in qualche modo devono avere capito che non è una nana qualunque. Forse hanno scoperto che è in grado di forgiare armature che possono resistere alla loro magia. Considerate che, con armature del genere, i falsi avatar potrebbero rendere il loro esercito ancora più forte. O rafforzare se stessi.» Tungdil guardò il cerchio di persone con aria risoluta. «Dobbiamo liberare Balyndis, prima di attaccare Porista. Senza di lei e il segreto dell'armatura di Djerun non ha senso marciare contro la città. Ci ridurrebbero in cenere. Alcuni di noi dovranno introdursi furtivamente in città e salvare Balyndis.» «Vengo con voi», disse Ondori. Il motivo della sua scelta era chiaro: lei avrebbe ucciso Tungdil e i gemelli, nessun altro. Furgas e Rodario si scambiarono rapidi sguardi. «Noi conosciamo la città come le nostre tasche», ricordò il magister technicus. «Vi guiderò...» «... ma solo se prenderete anche nostra figlia», disse Narmora, ponendolo come condizione. «Non voglio che durante i combattimenti le capiti qualcosa. Ho già perso mio figlio.» Guardò Tungdil. «Promettimelo.» Anche se così i rischi della loro temeraria impresa aumentavano ancor di
più, il nano acconsentì, chiedendosi quanto Narmora fosse cambiata. L'apprendistato presso Andôkai ha lasciato le sue tracce, pensò. Guardò dispiaciuto Djerun, che sarebbe loro mancato, e non solo per la sua enorme forza. Poi gli venne un'idea. Terra Nascosta, centottantasette miglia a est di Porista, fine del 6234° ciclo, inverno Attraverso la bruma mattutina risuonò forte il limpido suono di un martello da fabbro. Tungdil si trovava nella piccola fucina di un villaggio di nome Klinntal, in cui si erano imbattuti durante il loro viaggio verso Porista, e lavorava sull'imponente corazza di Djerun. In base a una prima valutazione, il materiale, se usato con parsimonia, sarebbe bastato per creare un'armatura per lui e per i gemelli. Tungdil aveva ben ponderato che cosa forgiare col metallo ricavato dalle singole parti della corazza. Prima di scomporre il pettorale, i bracciali e gli schinieri aveva preparato un disegno preciso dell'armatura originale, in modo da poter incidere le rune nei punti giusti. «Come procediamo?» s'informò Boëndal, che dava una mano all'amico insieme con Boïndil, il fabbro del villaggio e il suo apprendista. Gli umani erano sbalorditi dalla destrezza delle mani di Tungdil, che usava il martello in modo insolitamente veloce, ma comunque forte e preciso. «Ci vorrà parecchio. Gli attrezzi non sono quelli cui sono abituato e la forgia tira male e dovrebbe essere più calda», disse Tungdil. La testa del martello sfrecciò verso il basso, plasmando sempre più il metallo. «Le nostre armature faranno male, non abbiamo tempo di adattarle come si deve.» «Se mi protegge da quei maledetti maghi, mi può anche staccare la carne dalle ossa», brontolò il Rabbioso mentre si occupava d'incidere le rune su un pezzo pronto. Lo soppesò nella mano. «È pesante. In combattimento saremo più lenti del solito», avvisò il fratello. «E il prossimo che lancia l'arma senza averne una di riserva mi deve un sacco di monete d'oro», aggiunse alludendo a Boëndal che, cercando di salvare Djerun, aveva scagliato la sua azza contro il cavaliere nemico. «Sta diventando un malcostume.» Per più di nove rotazioni avevano marciato attraverso l'innevato Gauragar. Avevano seppellito il cadavere di Djerun nello Dsôn Balsur, insieme con l'elmo e con la cotta di maglia, proteggendo anche dopo la morte il
segreto del suo aspetto. Subito dopo, Tungdil era partito insieme con Boïndil, Boëndal, Ondori, Rodario e Furgas per raggiungere la capitale il più velocemente possibile. Narmora avrebbe viaggiato con l'esercito, proteggendolo nel caso in cui gli avatar avessero cercato di tendere qualche insidia di natura magica durante la marcia. «Ma guarda che io ce l'avevo eccome un'arma di riserva», replicò Boëndal con un sorriso, indicando l'accetta che portava alla cintura. «Io non ti dovrò mai quel denaro.» Indicò Tungdil con le tenaglie. «Altri invece sì, eh, Sapientone?» Tungdil stava esaminando l'armatura, plasmata dal continuo martellare. Si strofinò il volto accaldato con un po' d'acqua e si tolse la fuliggine grigia dalla barba bruna, che era ormai diventata lunga. Ascoltava solo per metà, i suoi pensieri erano concentrati sul lavoro e su Balyndis. Nell'ultimo periodo era stato molto silenzioso; rimuginava spesso, cercando di sondare i sentimenti che provava. Era logorato dalle delusioni. Il tradimento di Myr, che pure lo aveva amato tanto da morire per lui, la decisione che Balyndis aveva preso contro di lui e contro il loro amore, le altezze vertiginose e i baratri infiniti in cui le due nane lo aveva lanciato provocavano in lui una strana malinconia. E allora non vi era nulla che lo rallegrasse, e non riusciva a fare altro che accusare la sua malasorte. Non importava che cosa avesse tra le mani, era sempre destinato al dolore e alla sfortuna. Qualche volta, ma solo qualche volta, si augurava di morire in battaglia, così almeno la sua anima avrebbe trovato pace nella Fucina Eterna di Vraccas... «Sapientone?» sentì chiedere da Boëndal con voce preoccupata. Tungdil si tolse l'acqua dalla barba. «Non è niente», minimizzò, costringendosi a sorridere. Poi sciolse i lacci del grembiule di cuoio e lo posò. «Ho fame e ho voglia di una buona birra.» «Anch'io», concordò il Rabbioso. «Peccato che qui non abbiano della buona birra.» Lasciarono la fucina e attraversarono il cortile della cascina in cui si erano acquartierati. Già da lontano sentivano l'odore di carne arrosto e di pane appena sfornato. Entrarono nella piccola stanza, in cui Furgas sonnecchiava su una sottile panca posta dietro il tavolo. Ondori si era messa comoda accanto al camino. L'abbondanza di carne era dovuta all'alba e al suo arco, poiché pur se gli
abitanti del villaggio avevano giurato che dall'inizio dell'inverno non si trovava più selvaggina nei dintorni, lei scovava sempre una preda, prima un capriolo, poi parecchie lepri. Era una cacciatrice eccezionale, e presumibilmente non faceva nessuna differenza tra le creature: animali, uomini, nani, mezz'orchi... tutti si trovavano allo stesso livello, che ovviamente era molto inferiore a quello su cui stava un'alba. Quando entrarono, Ondori non alzò gli occhi; era impegnata a costruire figurine mobili usando ossa e tendini delle sue prede. Col suo affilato coltello intagliava gli ossicini fino a ottenerne anche dei volti. Aveva preparato per la figlia del contadino un flauto d'osso dal suono bellissimo. Tungdil suppose che l'alba facesse tali cose non solo coi resti degli animali, ma anche con quelli dei nemici uccisi. Gli si rivoltò lo stomaco immaginando un albo suonare la tibia di un nano. A ogni modo, si riempirono la pancia con la selvaggina che Ondori aveva abbattuto. Il lavoro all'incudine richiedeva braccia molto vigorose e, quando non erano nelle loro montagne, i nani ottenevano le energie necessarie soprattutto dalla carne. Furgas si svegliò, si stirò e guardò Rodario, che prendeva appunti gettando lo sguardo in direzione dell'alba. Ne fece un rapido schizzo. «Trovo che sia un personaggio oltremodo interessante», mormorò l'attore. «Il suo sforzo di proteggere Tungdil dai nemici dipende dal fatto che lo vuole uccidere lei stessa. Questo sviluppo del pezzo sarà eccezionale. Veramente drammatico», disse entusiasta, chiudendo il suo libretto. «Sai che non siamo su un palco?» replicò Furgas. «Lo so perfettamente», annuì l'altro. «Non facciamo prove, non c'è un suggeritore, non ci sono spettatori, e purtroppo neppure incassi.» Si servì della zuppa di cavoli che la contadina aveva portato loro prima di allontanarsi di gran fretta. «Se qualcuno mi avesse detto che avrei preso parte a un'altra campagna contro il male, gli avrei riso in faccia.» Soffiò sul liquido caldo. «Io volevo solo gestire il mio Curiosum, sedurre donne e condurre una tranquilla vita da attore. Ma già si alza il sipario su un altro spettacolo che potrebbe costarmi la vita.» «Ma guarda un po'», lo punzecchiò Boëndal. «Siamo in vena meditativa, Rodario?» «Ebbene sì. Potrebbe dipendere dall'inverno... tutto questo grigiore interminabile...» Alzò il bicchiere verso Tungdil. «A lui capita la stessa cosa. Da quando siamo partiti è rimasto quasi sempre in silenzio. Che ne dite di una storiella divertente? Non so ancora com'è quella del mezz'orco e del
nano.» Tungdil si prese della birra calda. «Dire che sono una guida divertente sarebbe un po' eccessivo.» Il Rabbioso brindò con lui. «Siamo tutti preoccupati per Balyndis, non sei l'unico, Sapientone. E immaginiamo che tu sia ancora più angosciato di noi. Il vecchio amore non arrugginisce, così si dice.» Si morse la lingua per non dire altro che potesse deprimere ancora di più l'umore di Tungdil. «Scusa, mi sono di nuovo distratto.» «Hai parlato di nuovo bene», lo corresse Tungdil. E hai ragione, aggiunse tra sé, aspettando che il suo demone interiore si facesse subito sentire. Invece tacque. Taceva perché Tungdil aveva smesso di mentire a se stesso. L'amo ancora, e l'amerò sempre. Nel mio cuore nessuna la eguaglierà mai, ed è meglio che io resti solo, piuttosto che rendere infelice un'altra nana non corrispondendo in pieno al suo amore. Bevve un altro sorso di birra e si alzò. «Venite, abbiamo delle armature da forgiare.» Ci vollero altre due rotazioni, prima che le armature fossero pronte e si adattassero sufficientemente bene ai loro corpi; quattro rotazioni dopo furono pronti bracciali, schinieri ed elmi. Avevano anche preparato gli elementi delle manopole, che avrebbero legato insieme strada facendo con del filo di ferro. Dopo una rapida marcia forzata attraverso il Gauragar, arrivarono finalmente nei pressi di Porista. Già da lontano videro chi erano i nuovi sovrani della città. Gli stendardi coi simboli sconosciuti sventolavano sulle torri del palazzo, e in tutto l'abitato erano state montate tende che in parte sovrastavano anche le case. Pattuglie facevano la ronda sul muro esterno della città, controllando chi voleva entrare o uscire. «Comoda la vita.» Furgas indicò le gru che giravano qua e là; i lavori di costruzione proseguivano, nonostante l'occupazione. «Sembra che ai nostri falsi avatar piacciano le mie macchine.» Stava per aggiungere qualcosa, quando sentirono il terremoto sotto i loro piedi. Dapprima non era più di un tremito, ma si fece più forte, scuotendo la neve dagli alberi circostanti. Poi finì. Tungdil si girò e guardò nella direzione opposta per vedere se l'ondata del terremoto stesse proseguendo la sua corsa. In effetti, avanzava. L'onda si dilatava verso l'esterno, come se qualcuno avesse gettato un sasso in uno stagno. Tungdil lo capì dalla vibrazione dei rami e dalla neve che ne cadeva. Poi s'indebolì e scemò.
«Si stanno dando da fare con la fonte», valutò. «Guardate che stanno combinando.» Boïndil si scrollò dalle spalle la neve che era caduta dai rami, e poiché non portava l'elmo, finì col gettarsela sul collo, dove si sciolse in gelida acqua che gli corse lungo la schiena. «Se si limita a un po' di tremolio, la Terra Nascosta può sopportarlo.» «Sarà meglio che nulla danneggi la fonte in nessun modo.» Boëndal guardò Furgas e Rodario. «Allora, Lunghi. Rendetevi utili e mostrateci gli ingressi segreti.» Furgas fece un cenno verso nord. «Laggiù abbiamo cominciato a costruire un sistema di canali. I vecchi canali erano crollati, perciò abbiamo allargato i pozzi e li abbiamo murati a volta. I primi cinquecento passi della nuova condotta sono stati completati e ci porteranno dall'esterno fino ai pressi della piazza del mercato.» «Avete chiuso l'ingresso in qualche modo?» Tungdil provò l'assetto della sua armatura completa, che lo stringeva in modo soffocante; l'elmo, che aveva già infilato, gli limitava la vista. Anche i gemelli sembravano poco entusiasti della nuova protezione. «Non capisco come Testadilatta riuscisse a sopportarla», disse una voce cavernosa proveniente dall'elmo del Rabbioso. Seguì una forte imprecazione. «Maledizione, mi si è impigliata la barba. Questo affare me la strappa a ciuffi.» «Abbiamo chiuso l'ingresso con un portone di legno», spiegò Furgas. «In modo che di notte non entrassero animali in città. L'ingresso è nascosto, sono sicuro che non l'hanno visto.» Fece per muoversi, ma Ondori lo trattenne. «Fa' andare avanti me», gli disse. Incoccò una freccia nell'arco, senza tenderlo, e si avviò di soppiatto, mentre gli altri la seguivano a una distanza di dieci passi. «Cari, piccoli portatori di speranza della Terra Nascosta», mormorò Rodario dopo che ebbero percorso metà del tragitto. «Cigolate, sferragliate e rumoreggiate come se cercaste in tutti i modi di attirare l'attenzione. Ma nessuno ha una goccia di olio per le cerniere?» «Ci stavamo giusto chiedendo come facesse Djerun a essere così silenzioso con tutto questo metallo addosso», replicò Boïndil, alzando la visiera. «Sarebbe bello, se poteste venire subito a capo di questo mistero. Non mi piacerebbe finire prigioniero degli avatar. Proviamo un po'.» Rodario si
chinò, raccolse un po' di neve e la strofinò su un'articolazione dell'armatura del Rabbioso, che emise immediatamente rumori ancora più tremendi. «Ehi, piccolo caparbio...» Boïndil spintonò l'attore, che cadde nella neve sparendo in una nuvola bianca. «Vedete di tenermi lontano il Fanfarone! Le sue idee geniali ci faranno finire tra le braccia del nemico. Dovremmo spedirlo dall'altra parte di Porista, così ci farebbe da bel diversivo.» Rodario saltò in piedi, irritato. «Be', mio vanitoso amico Colpisciloduro e Daglieneancora, è proprio quello che farò», sbottò, risentito. «Io sono pur sempre un integro cittadino di Porista, che gestisce un teatro, per cui non mi dovrebbe essere difficile entrare in città.» «Dai, sii ragionevole», lo pregò Tungdil. «Rimani con noi...» «Grazie tante, no.» Rodario non si lasciò convincere, e alzò il braccio in segno di saluto. «Vi aspetto nella piazza del mercato grande. Per allora avrò sicuramente scoperto qual è la situazione in città.» Girò sui tacchi e se ne andò tutto impettito. «Se ne vada pure», brontolò Boïndil. «Avrebbe blaterato tutto il tempo.» Tungdil guardò l'attore allontanarsi. Non gli piaceva affatto che si separasse da loro; con la sua inimitabile eloquenza poteva rendersi utile, in caso di bisogno. D'altra parte, non dubitava che Rodario si sarebbe aperto la strada per il Curiosum a forza di chiacchiere, senza sollevare il minimo sospetto di essere una spia o un nemico degli avatar. «Non sono affatto sicuro che sappia quello che fa, ma so che ce la farà», osservò Furgas. «Supererà le mura senza problemi, potete starne certi. Uno che riesce a ottenebrare la mente di un padre infuriato cui è stata sedotta la figlia può affrontare qualunque cosa.» Proseguirono, seguendo i segni che Ondori aveva intenzionalmente tracciato sulla neve. L'alba infatti non lasciava impronte e, con l'aiuto degli oscuri poteri del suo popolo, riusciva a essere completamente invisibile, se le si offriva appena un'ombra in cui nascondersi. «È la figlia di quel Sinthoras? Ho capito bene?» chiese il Rabbioso. «Allora dovremmo subito ucciderla quando non avremo più bisogno di lei, altrimenti c'infilerà a tutti una freccia tra le costole. Non mi fido dell'Occhineri, puzza di tradimento e di morte. Morte di nani.» Tungdil gli diede ragione. «Ti dirò quand'è il momento. Fino ad allora rimani calmo, Boïndil. Non possiamo permetterci un combattimento con lei mentre siamo in mezzo ai nemici.» Si avvicinarono strisciando alle mura di Porista, ricostruite di recente.
Sotto un muro non ancora terminato, trovarono il passaggio che Furgas aveva descritto. Era alto all'incirca quanto un uomo, ed era chiuso da un assito. Il vento aveva soffiato tanta neve contro la pietra e il legno davanti all'ingresso del canale che una sentinella o un passante casuale non l'avrebbero mai notato. L'alba vi si era accovacciata accanto e sorvegliava i dintorni. «Quello che si dice un punto debole», disse Boëndal con un leggero tono di rimprovero. «Questo espone la città a colpi di mano, no?» «No», replicò Furgas sorridendo. «Abbiamo disposto delle grate che si possono azionare in caso di pericolo. Ma al momento non sono abbassate, il che ci fa comodo.» Superò il pendio saltellando sulla neve. I nani lo seguivano goffamente. Sentivano la mancanza delle loro cotte di maglia, che erano meno pesanti e consentivano molta più libertà di movimento. Con pochi movimenti di mano, Furgas aprì i lucchetti. Quando tutti furono entrati nella condotta, richiuse la porta. Poi accese una piccola lanterna e fece strada con passo deciso. Dopo dieci passi indicò cinque fessure che si trovavano sul soffitto, susseguendosi alla distanza di tre passi l'una dall'altra. «E da lì che si possono calare le grate. Sono fatte di sbarre spesse un braccio e sono in grado di resistere a qualunque tentativo di piegarle o di svellerle dalla loro sede», spiegò, illustrando i provvedimenti che aveva preso per la sicurezza della città. «Nessuno conquisterà Porista passando da qua.» «E noi che stiamo facendo adesso? Una gita?» sogghignò il Rabbioso, facendo attenzione a non scivolare su una pozza d'acqua ghiacciata. «Il tuo progetto ha già una falla.» Furgas rise piano. «Devono essere stati gli dei a farmi dimenticare di azionare questi dispositivi di sicurezza.» Ripresero ad avanzare con grande cautela. Ondori si trovava da qualche parte, nascosta nelle tenebre davanti a loro. Rimase celata ai loro occhi finché non comparve a fianco di Boëndal. «Potete camminare più in fretta», disse. «Qui sotto siamo soli. Ho esplorato la condotta fino all'uscita, e non c'è nessun ostacolo.» Scomparve di nuovo nell'oscurità e ricomparve solo quando gli altri raggiunsero il punto in cui iniziava una scala che conduceva in alto. «Queste sono state pensate per l'addetto», li informò Furgas. «Sarà suo compito scendere qua sotto regolarmente e controllare che tutto sia a posto
e che non si siano formati ingorghi. Abbiamo nascosto l'ingresso con una lastra di pietra che si apre dall'esterno, ma con un po' di sforzo dovremmo riuscire a spostarla anche dall'interno.» Ondori salì le scale e segnalò loro che potevano raggiungerla. La scala era molto stretta e ci dovettero passare uno per volta. La copertura era ormai sopra di loro ma, per quanto spingessero, non si spostava. Furgas cercò di sbirciare attraverso una fenditura. «L'hanno sprangata.» «Almeno hanno pensato a questo.» Il Rabbioso toccò una parete. «È ben costruito. Non sarà facile per noi scavarci un varco.» Ondori alzò la mano, facendoli zittire. Qualcuno stava armeggiando dall'altra parte della lastra. Le travi vennero spostate con fracasso, poi la copertura traballò, e i cinque sentirono dei gemiti soffocati. «Che sia Rodario?» sussurrò Boëndal. «Apriamo e vediamo chi è», propose il Rabbioso, appoggiando le mani sulla pietra. Gli altri lo aiutarono, mentre l'alba preparava l'arco. La copertura cedette alla pressione e si sollevò di slancio. Videro il volto sporco di un uomo con accanto a sé un grosso secchio di spazzatura. Pareva molto stupito nel vedere qualcosa venirgli incontro dai sotterranei di Porista. «Mastro Furgas», balbettò. «Che ci fate...» Si fece da parte, lasciando loro spazio. «Venite fuori, svelti. Di sicuro non vorrete che gli stranieri vi scoprano, no?» «Si chiama Ertil», lo presentò brevemente Furgas. «Porta il rancio ai cantonieri, per questo ci conosciamo.» «Ti fidi di lui?» chiese Ondori con freddezza. Non aveva ancora abbassato l'arco. «Un'elfa!» esclamò Ertil, pieno di timoroso rispetto, quando notò l'alta figura slanciata dell'alba. Cercò di scorgerne meglio il volto. In fin dei conti la bellezza delle creature di Sitalia veniva celebrata in una quantità di ballate; non capiva perché lei la tenesse nascosta sotto una maschera. «È fidato», si affrettò a dire Furgas per evitare che Ondori uccidesse l'uomo. «Può dirci che cos'è successo.» L'uomo annuì. «Certo, mastro Furgas. Per me è un onore. Meno male che ho pensato di portare via l'immondizia.» Guardò lo strano gruppo che usciva dalla condotta, poi svuotò il secchio dai rifiuti. «Nel caso doveste scappare attraverso il passaggio. Non vorrei che scivolaste.» Rimisero la lastra al suo posto e sgusciarono lungo i vicoli, all'ombra
delle case, finché non raggiunsero la casa di Ertil. L'uomo li fece entrare, accese alcune candele e portò loro qualcosa da bere. «Sono arrivati quindici rotazioni fa. Brillavano così tanto che alcuni, volendo guardarli, hanno perso la vista», raccontò. «Si sono sparsi in tutta la città e hanno ucciso le guardie che cercavano di difendere le proprietà di Narmora. I loro capi sono creature luminose, scintillanti; sono spariti nel palazzo, e non li abbiamo più visti. Non fanno niente, ci lasciano continuare il nostro lavoro, come prima, ma nessuno osa avvicinarsi al palazzo. Hanno fatto annunciare che la città ora appartiene agli Amsha.» «Ci sono stati tumulti?» «No. Non abbiamo osato.» Ertil abbassò lo sguardo. «Noi siamo pochi, loro hanno diecimila soldati. Sono troppi.» «Nessuno ve ne fa una colpa», disse Furgas per tranquillizzarlo. «Sei riuscito a contare le figure luminose? Quante erano?» «Ne ho viste cinque. Altri dicono di averne viste di più, ed è possibile che i miei occhi siano stati ingannati da tutta quella luce.» Guardò il magister technicus. «Che cosa sono, mastro Furgas? Se ne andranno? Stanno facendo qualcosa a palazzo, e non può essere niente di buono. Da due rotazioni le bestie si comportano in modo strano, sono inquiete e cercano di uscire dalle stalle. Quando verrà la venerabile maga a liberarci?» «Presto, Ertil. Siamo qui in perlustrazione», lo rassicurò. «La cosa più importante, adesso, è che tu non racconti a nessuno di averci visti.» L'uomo annuì. «Quando sono arrivati, c'era una nana con loro?» Tungdil voleva assicurarsi delle condizioni di Balyndis. «Sai dove possono averla portata?» «Una nana? Sì, me la ricordo.» Indicò fuori della finestra, in direzione del palazzo. «Era con un gruppo che è arrivato a Porista solo sette rotazioni fa. Lo so perché sono passato davanti alle porte, mentre volevo andare al mercato. Galoppavano all'impazzata e, se non mi fossi scansato, mi avrebbero tranquillamente travolto. Sono andati a palazzo.» «E mia figlia?» lo incalzò Furgas. «Ne sai qualcosa?» Ertil scosse la testa. «No. Nessuno è uscito dal palazzo.» «Questo è comunque un vantaggio», brontolò il Rabbioso. «Dobbiamo andare in un solo posto per recuperare tutte e due. Questo ci faciliterà la ritirata.» Boëndal stava alla finestra e scrutava fuori, in cerca dell'attore. «La strada è completamente deserta», commentò. «Rodario salterebbe agli occhi come una bruciatura su un farsetto di cuoio immacolato, se venisse da que-
sta parte.» «Non preoccuparti», disse Furgas. «Ce la farà.» «Non possiamo aspettarlo a lungo», obiettò Tungdil. «Dobbiamo strappare loro Balyndis prima che sveli il segreto dell'armatura.» Immaginava che la stessero torturando, mutilando e umiliando. «Meglio se andiamo subito. Io mi oriento perfettamente nel palazzo», disse Furgas. «Ma prima dovete oliare quelle cerniere.» Ertil portò ai nani olio di girasole, ed essi riuscirono a mettere a tacere le giunture, anche se il Rabbioso ebbe da ridire su quel modo di procedere. La loro impresa più rischiosa poteva cominciare. Ondori si mise in testa, la seguivano Furgas e i nani in armatura. Avevano chiesto a Ertil di tenere sott'occhio l'ingresso e d'intercettare Rodario, qualora fosse arrivato, e di trattenerlo a casa sua finché non fossero tornati. O non fossero stati catturati. Attraversarono furtivi le strade della silenziosa Porista. Furgas non riusciva a contenere la sua preoccupazione per il fatto che l'attore non fosse arrivato. Dovrebbe essere qui da un bel po'. Che cosa gli può essere successo? VII Terra Nascosta, Gauragar, Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234°/6235° ciclo solare, inverno Ricordati che non è una prova, e che le guardie non hanno spade finte. Rodario si diede una mossa, afferrò le sterpaglie che aveva raccolto a casaccio e marciò verso la porta, nei cui pressi vide nove guardie annoiate, protette da armature sfavillanti. Si stavano scaldando intorno a un focolare. Quando si avvicinò, cambiarono ben poco il loro atteggiamento rilassato. «Dove vai?» Uno di loro gli sbarrò il passo, puntandogli una lancia contro il ventre. «E da dove vieni?» «Vengo da là», rispose l'attore, indicando l'aperta campagna e usando un'inflessione quasi incomprensibile, in modo che lo ritenessero una sorta di minorato mentale. «E vado di là.» Indicò il vicolo alle spalle della porta, poi mostrò i sottili rami che trasportava. «Ho raccolto. Per il fuoco della cucina. Così danno da mangiare.» La sua speranza crebbe. «Ah, finalmente abbiamo trovato lo scemo del
paese», disse forte il soldato. Raccolse un tizzone mezzo bruciato, che si era ormai spento, e lo pose sulla fascina che l'attore teneva al petto. «Ecco, prendi anche questo. Al nostro fuoco non piacciono le teste di legno.» Rodario fece una risata ingenua, fingendo di essergli grato. S'inchinò e lasciò cadere intenzionalmente della legna. Imprecando iniziò a raccoglierla, ma nel farlo perse di sua volontà l'intera fascina e per riprenderla sfilò davanti ai soldati, che si misero a ridere e si concessero un po' di svago lanciandogli i ramoscelli oltre la porta. L'attore stette al gioco e iniziò a correre dietro i pezzi più grossi come un cane dietro un osso, ma non appena scomparve dietro l'angolo più vicino, smise repentinamente di ridere. È stato fin troppo facile. Gettò la legna e si mise a camminare a passo svelto. Non intendeva mettersi a correre; non voleva attirare su di sé attenzioni sgradite di cui non aveva nessun bisogno. Si orientava perfettamente nelle strette strade. Il suo tragitto passava davanti al Curiosum, e quando lo raggiunse le sue gambe si bloccarono. Accarezzò con cuore dolente la porta sprangata e il manifesto, su cui era scritto: MOMENTANEAMENTE CHIUSO PER SPETTACOLO IN TRASFERTA. L'INCREDIBILE RODARIO SARÀ PERÒ PRESTO DI RITORNO E ADDOLCIRÀ DI NUOVO LA VITA QUOTIDIANA DEGLI ABITANTI DI PORISTA COI SUOI SPETTACOLI. PAZIENTATE E VEDRETE, SPETTATORI, QUANTO È TALENTUOSO E GAGLIARDO. «Un vero peccato, non trovate?» lamentò una dolce voce di donna alle sue spalle. «L'avrei conosciuto volentieri, questo Rodarlo.» «Si chiama l'Incredibile Rodario», ribatté lui, insistendo sul titolo completo. Si voltò, aspettando di trovarsi davanti una vecchia matrona ubriaca di ritorno dal suo giretto in taverna. Ma rimase sorpreso. Stava guardando una giovane donna, più o meno della sua età, che si proteggeva dal freddo con una costosa pelliccia. Un cappuccio le proteggeva i capelli dalla nevicata che stava cominciando. «Dev'essere incredibilmente bravo», aggiunse sorridendo col suo fascino inimitabile. «Siete appena arrivato in città?» congetturò la donna, notando che indossava abiti malridotti e che non era rasato. «Non è un periodo molto scomodo per compiere lunghi viaggi?» «Quando a uno muore il cavallo, si è costretti a camminare, mia signora», disse iniziando a intessere una storia di pura invenzione che, alla fine,
gli avrebbe conquistato i favori della donna. «Sono a stento scampato ad alcuni briganti che hanno ferito il mio cavallo. La mia cavalcatura è infine crepata, e i mascalzoni mi hanno sottratto beni e averi.» «Fatemi indovinare: voi siete un nobile, e stavate raggiungendo la vostra amata qui a Porista.» Si spostò una ciocca bruna dal volto e corrispose il suo sorriso in modo non meno malizioso. «Non ho inteso il vostro nome, signor...?» L'attore vacillò. Era chiaro che aveva smascherato la sua storiella già dalle primissime battute. Un osso duro. Tanto meglio. La sfida renderà la situazione ancora più interessante. Non gli sfuggiva che là donna stava guardando qualcosa alle sue spalle. La imitò e dovette scoppiare a ridere. Che idiota. Aveva completamente dimenticato l'immenso ritratto di lui sorridente che aveva voluto far dipingere accanto all'ingresso del teatro. A sua richiesta. Per fortuna le guardie non l'avevano ancora notato. «Ora mi rivelerete perché non volete dirmi chi siete veramente?» lo pregò la donna, avvicinandosi. «Perché l'Incredibile Rodano racconta bugie?» I suoi occhi verde scuro lo esaminavano con attenzione. «Stavo giusto per arrivarci», replicò, preparando la mossa successiva. «E dal momento che voi sapete chi sono, mi rivelerete com'è possibile che una bella donna come voi si aggiri di notte per le strade di Porista, sola e senza scorta? Non vi conosco, nobile signora, e credetemi, conosco...» «Tutte le donne della città?» chiese lei scoppiando a ridere. «Allora fare la vostra conoscenza sarebbe cosa assai sconveniente.» «No, non conosco tutte le donne della città. Ma sono stato nominato ricostruttore della città da Andôkai la Burrascosa e poi da Narmora la Sinistra. Insieme col mio compare Furgas, ho ricostruito ciò che era distrutto...» La seguì con gli occhi mentre lei gli girava intorno. «Ed è per questo che ho conosciuto tante persone.» Istintivamente distese una mano e la prese per un braccio, mentre era davanti a lui e si accingeva a girargli intorno un'altra volta. «Ma non ho mai visto voi. Eppure perfino le pietre dei vicoli dovrebbero decantare la vostra bellezza e formare mosaici che ricordino il vostro volto.» La donna sorrise, quella volta come una ragazzina che avesse ricevuto il primo complimento da un ammiratore. «Avete citato uno dei vostri spettacoli o avete improvvisato?» «Sono parole uniche per una donna unica, come voi», bisbigliò Rodario. Era chiaro che alla donna piaceva quello che stava dicendo, e se ne ralle-
grò. Non ho dimenticato come si fa. Per caso guardò sopra la spalla di lei e vide la strada che portava alla piazza del mercato grande. Gli tornò in mente il motivo per cui si trovava a Porista. Purtroppo il piano non prevedeva che s'interessasse più da vicino della bella sconosciuta, come avrebbe voluto. Era da davvero troppo tempo che rinunciava all'eterno gioco tra uomo e donna. Controllati, si rimproverò. Non puoi fare aspettare ancora i tuoi amici. Con un gesto risoluto ma galante prese la mano guantata di bianco della donna e la baciò. «Ditemi, dove posso ritrovarvi? Mi stanno attendendo per una prova segreta cui non posso assolutamente mancare. Ma dopo potremmo rivederci. Se lo desiderate», le disse lanciandole un intenso sguardo. La donna ritrasse la mano. Sembrava delusa. «Optate così in fretta per la fuga, Rodario?» Iniziò a risalire il vicolo. «Be', allora non vi trattengo. Ma sarà per me un piacere vedere presto sul palco lo spettacolo cui state lavorando.» Occhieggiò in modo provocante, si girò e scomparve subito nel nevischio, senza voltarsi neppure una volta indietro. «Dove posso trovarvi? Vorrei mandarvi l'invito!» gridò l'attore, ma senza ottenere risposta. Maledizione! Un po' abbattuto, si affrettò lungo la stradina e sboccò sulla piazza del mercato. I fiocchi di neve cadevano sempre più fitti, offrendogli protezione. Sgattaiolò fino al punto in cui la condotta sotterranea raggiungeva la superficie. Vide che i chiavistelli erano aperti, e notò delle orme che non erano state ancora coperte completamente dalla neve fresca. Non mi hanno aspettato! Batté un piede, indignato. Lo hanno fatto apposta. Scommetto che è stato il Rabbioso. Ha insistito perché andassero senza di me. Si grattò la barbetta. Il suo orgoglio ferito spronò la sua temerarietà e gli fece girare i tacchi, pronto a raggiungere il palazzo. Rimarrete a bocca aperta, promise ai nani, immaginando già da quale incresciosa situazione li avrebbe salvati col suo arrivo. Mentre camminava controllò i suoi attrezzi, che, in caso di necessità, l'avrebbero trasformato nel mago Rodario l'Incredibile, e che gli avevano già reso ottimi servizi in battaglia. Nelle tasche del vestito nascondeva polverine di ogni tipo che, combinate col fuoco, producevano fiammate accecanti, nubi irritanti e banchi di nebbia colorati; le quattro fialette di acido stavano in una scatola appositamente imbottita. Ma l'elemento più importante erano i lanciafiamme progettati da Furgas,
le cui bocche erano fissate ai polsini di entrambe le maniche. L'estremità dotata della piccola pietra focaia sporgeva verso l'esterno, mentre all'altra estremità vi era una sacca di cuoio piena d'aria e infiammabili semi di erba strega. Quando comprimeva la sacca, i semi venivano sparati fuori; contemporaneamente, la pressione azionava un meccanismo che sfregava la pietra e incendiava i semi in uscita. Quello che aveva impressionato i mezz'orchi sui Monti Grigi sarebbe servito anche contro semplici soldati. Pure la meccanica poteva essere una sorta di magia. Quando le mura del palazzo comparvero davanti a lui, gli venne in mente che non sarebbe stato facile entrare. Visto che in assenza di Narmora si era dovuto occupare dell'amico Furgas, sapeva la parola d'accesso, ma certo gli avatar si sarebbero stupiti nel vedere le porte aprirsi davanti a un uomo che non avevano invitato. In che altro modo potrei entrare? «La vostra prova è già finita?» sentì dire di nuovo dalla voce della bella sconosciuta, alle sue spalle. L'attore si voltò con una piroetta. Era felice di rivederla così presto. «Si direbbe che i miei venerabili colleghi abbiano preferito passare la serata con un barilotto di vino, piuttosto che esercitarsi sullo spettacolo», mentì. «Allora fatemi l'onore di tenermi compagnia per cena e di raccontarmi i vostri nuovi propositi.» Gli sorrise in un modo così provocante che l'uomo non poté fare altro che annuire, mentre con l'immaginazione già le toglieva mantello e vestiti. Sicuramente profumava di latte e seta. «Ma vi devo avvertire: il mio guardaroba lascia molto a desiderare. Sono tornato oggi da un viaggio e non ho avuto la minima opportunità di rinfrescarmi. O di radermi», disse Rodario in tono di scusa. «Questo lo vedo, ma credo che potremo fare qualcosa al riguardo. Nei miei alloggi troveremo qualcosa di adatto a voi.» Si avvicinò. L'attore le offrì il braccio, e lei lo accettò. «Il mio nome è Lirkim», si presentò, mentre iniziava a guidarlo. «In che locanda siete alloggiata?» chiese Rodario per evitare scenate sgradevoli; presso le figlie di questo o quell'oste aveva soggiornato in modo molto personale, e avrebbe trovato estremamente imbarazzante venire rimproverato per i suoi amorazzi davanti a Lirkim. La donna si fermò di fronte alla porta del palazzo e scosse la testa. «Non soggiorno in locanda, signor Rodario.» Pronunciò una parola d'accesso a lui sconosciuta, compiendo nel mentre un gesto molto aggraziato. I battenti della porta si aprirono. «È qui che risiedo.» L'attore rimase impalato sulla soglia. «Avete trovato alloggio presso gli
avatar? Ma non mi pare affatto che siate una semplice serva. Siete una governante?» «Non dovete preoccuparvi, signor Rodario. Sono strani a vedersi, ma non fanno nulla a chi li lascia in pace. E noi non abbiamo intenzione di molestarli, non è vero?» La donna continuò a tenerlo a braccetto e proseguì. Rodario la seguì. A quel punto iniziò a preoccuparsi seriamente, non tanto per se stesso quanto per i suoi compagni, i quali ignoravano che la porta non si apriva più con la vecchia formula. Lui invece ringraziava gli dei. Ho davvero una fortuna sfacciata. Sorrise. Lo attendeva una notte d'amore, o quantomeno un bagno e una buona cena; poi avrebbe girato il palazzo in cerca di Balyndis e Dorsa. Salverò Balyndis e la figlia di Narmora, e diventerò un eroe. Così tapperò una volta per tutte la bocca al piccolo Colpisciloduro. Quando vedrà che il Fanfarone ha concluso più di lui, gli cadrà la mascella! «Che cosa c'è, signor Rodario?» chiese Lirkim con curiosità. «La vostra preoccupazione si è rapidamente trasformata in soddisfazione...» «Mi è dato di vedere ciò che pochi occhi hanno visto. Posso osservare il palazzo dall'interno», disse per spiegare l'espressione beata che aveva assunto il suo volto. La donna era chiaramente stupita. Stavano salendo le scale, e le guardie li fecero passare. «Davvero? Pur essendo incaricato della ricostruzione della città non siete mai stato da Andôkai?» «Purtroppo no. Ha sempre fatto mistero di questo edificio. Temeva che se ne spargesse la voce, e che questo facilitasse gli attentati, specie dopo che gli avatar tentarono di ucciderla», spiegò, continuando a mentire spensieratamente. «Voi sapete dove si trova adesso?» «Intendete dire la maga che ne ha assunto il posto, Narmora? È partita, sta andando da qualche parte, a nord. Mi ha ordinato di continuare a occuparmi della ricostruzione di Porista.» Imboccò automaticamente il corridoio che portava alla stanza di Furgas, al che Lirkim gli afferrò subito il braccio. «Fermo, fermo. Ma dove volete andare? Avete dimenticato che sono io la vostra guida?» Rodario rise imbarazzato. «Certo che no, ero distratto.» Parecchi uomini in armatura sfilarono davanti a loro. Salutarono Lirkim e guardarono meravigliati Rodario.
Lui rispose con un cordiale cenno di capo, come se si trattasse di vecchi amici. Sulle loro armature notò che non mancava mai un piccolo frammento di pietra lunare, ma non brillava. Evidentemente lo faceva solo quando lo voleva il portatore. Si sentiva grandiosamente e si trovava a un passo dal diventare esuberante. Era seduto in mezzo alla tana dell'orco e, ciò nonostante, era al sicuro come nel grembo di Palandiell. Lirkim lo accompagnò nell'ala della servitù, chiamò due serve che Rodario non aveva mai visto e ordinò loro di occuparsi di lui. «Farò preparare la cena, ci vediamo tra un'ora», gli disse la donna prendendo commiato. Si tolse un guanto e gli porse il dorso della sua bianca mano. «Ne sono molto lieto, nobile signora.» Rodario baciò la sua morbida pelle, e gli parve che sapesse di latte e seta. *
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Furgas aveva previsto fin da principio di non passare dalla porta principale, per quanto potesse sembrare più comodo. Gli avatar si circondavano sicuramente di guardie, che di certo presidiavano innanzitutto l'ingresso e che avrebbero notato subito la loro irruzione. «Ci sono due porte secondarie, a quanto mi ha detto Narmora. Sono invisibili agli occhi normali, ma io ne conosco una. O quantomeno so più o meno dove si trova.» «Più o meno. Questo è davvero esaltante», brontolò Boïndil, visibilmente scontento. «Già, se fosse stato per te, avremmo fatto irruzione attraverso la porta principale, ci saremmo fatti strada a forza sino a Balyndis e Dorsa e poi ci saremmo ritirati combattendo», disse suo fratello in tono di rimprovero. «Datti una calmata. Abbiamo a che fare con nemici che ridono delle tue asce.» Furgas tastò il muro. «Eccola qui.» Pronunciò una formula, ma non accadde nulla. «Sei sicuro?» Tungdil esaminò la pietra facendo scorrere le dita, ma sulla sua superficie non trovò fughe né irregolarità significative. Ondori ripeté la formula, e sul muro divennero visibili i contorni di una porta. Il Rabbioso si volse verso di lei. «Come hai fatto, spilungona?» «Va' avanti», gli ordinò con aria di sufficienza. «Voi Cavernicoli non
capite niente di magia.» Guardò Furgas. «Come non ne capiscono la maggioranza degli umani.» «E tu invece ne capisci, eh?» Boïndil non voleva farsi dare ordini da un'alba, e tantomeno in tono sussiegoso. «Certo. Di sicuro più di te», ribatté lei alzando le spalle. «Che hai? Va' avanti o levati dai piedi.» Boëndal spinse il fratello in avanti per evitare altre discussioni. L'uno dopo l'altro entrarono nel piccolo giardino che stava nell'ampia area settentrionale del palazzo. Nessuno sembrava aver notato gli intrusi. «Dobbiamo essere veloci», disse l'alba. «Quando una pattuglia scoprirà le vostre orme, i falsi avatar sapranno che nel palazzo c'è qualcuno che non è stato invitato.» Furgas si mise in testa al gruppo e lo guidò attraverso i corridoi dell'ala della servitù, che supponeva essere vuota. Davanti a una svolta si fermò all'improvviso e si schiacciò contro la parete; i nani si fermarono subito ed evitarono ogni movimento, per non tradirsi col rumore delle loro armature. Sentirono la voce di una donna che parlava con un accento che pareva straniero. «Farò preparare la cena, ci vediamo tra un'ora.» «Ne sono molto lieto, nobile signora», replicò un uomo dal tono di voce inconfondibile. «Il Fanfarone!» si lasciò sfuggire il Rabbioso, stupefatto. «Che idiozia ha combinato questa volta?» «Che furbata, vorrai dire», lo corresse Furgas, sogghignando. Si sentì chiudere una porta. Guardò oltre l'angolo e vide una donna avvolta in una pelliccia bianca camminare lungo il corridoio. «Propongo di lasciarlo continuare col suo piano.» «E ci guadagna pure una cena!» esclamò Boïndil a bassa voce. «Sta' zitto!» sibilò Ondori. «Tu non puoi dirmi quello che devo fare, spilungona dagli occhi neri», ribatté il Rabbioso, impassibile. «Se avessimo ammazzato prima i tuoi genitori, non esisteresti neanche, per cui ci devi ringraziare se sei viva.» L'alba si limitò a fulminare il nano con lo sguardo omicida dei suoi occhi grigi, ma quello non gli fece la cortesia di morire. Furgas alzò la mano. «Si è fermata», sussurrò ai suoi compagni. «Ora... prosegue.» Ondori gli mise in mano il suo arco. «Vado a chiedergli che cos'ha in mente di fare», spiegò. Scivolò fino alla porta dietro la quale supponeva si trovasse l'attore. Stette un po' in ascolto, poi l'aprì lentamente.
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Rodario sedeva in una tinozza, circondato da schiuma profumata, e si strofinava via dalla pelle lo sporco delle rotazioni precedenti. Si lavava la polvere del Gauragar, che spariva insieme con gli sporadici aghi di pino derivanti dalle ultime notti passate all'addiaccio. Poi prese un rasoio, orientò lo specchio e si rasò la barba ispida che inquinava i suoi tratti incredibilmente affascinanti. «Capita sempre così. Uno crede di essere solo, e non lo è.» Ondori afferrò la mano dell'uomo, tenendola ferma, prima che per lo spavento lui si tagliasse la gola. «Hai trovato un modo per entrare a palazzo, vedo.» Rodario tirò un sospiro di sollievo. «Santo cielo, questi albi... Anche Narmora sapeva sgusciare in maniera tanto funesta.» L'alba gli lasciò la mano, e l'uomo riprese a radersi. «Mi fa piacere che siate entrati anche voi. O sei l'unica ad avercela fatta?» «No, gli altri mi aspettano fuori. Sono qui solo per chiederti che cos'hai in mente di fare.» «Io? Mi sto facendo bello per cenare con una donna bellissima, che è di certo una servitrice d'alto rango degli avatar», rispose in tono enfatico. «Un po' di vino, un po' di scialba conversazione con un buon pizzico di finta simpatia e mi dirà tutto ciò che voglio.» Posizionò il rasoio e se lo passò sulla pelle. «Dove si trova la bambina, dov'è Balyndis e che cosa ci riservano queste tronfie divinità.» Si sorrise nello specchio, controllando la precisione della rasatura. «Poi salverò bimba e nana e umilierò il piccolo Colpisciloduro. Geniale, vero?» Ondori sogghignò sotto la maschera. «Ti sei inventato tutto adesso.» «No, il mio piano scaturisce da una ponderata riflessione», ribatté l'attore, indignato. «E voi? Che cosa farete voi?» «Visto che penserai a tutto tu, ce ne andremo via.» L'alba vide l'attrezzatura accatastata su una panca. «Parlando seriamente: ci guarderemo intorno e vedremo se riusciremo a raggiungere l'obiettivo prima di te.» L'uomo agitò il rasoio, tagliando un mucchietto di schiuma. «Dovrò venirvi a salvare, puoi scommetterci», le profetizzò. «Adesso esci, prima che torni una serva e mi veda con te.» Ondori non rispose, e quando Rodario si voltò verso di lei, non c'era già più. «Un campanellino attaccato alla caviglia, ecco che cosa ci vorrebbe per lei e per Narmora», si disse mentre radeva gli ultimi peli. Poi si accarezzò il pizzetto e si fece l'occhiolino. Eh,
sì. Lirkim canterà. *
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«Sì, come no. Lui salverà noi. Forse in una delle sue commedie strampalate.» Boïndil sbuffò. «Quello sbruffone s'inventa cose che non stanno né in cielo né in terra.» «Comunque ha un piano.» Tungdil era sbalordito dal talento che l'attore aveva per trovarsi al posto giusto nel momento giusto. «Se noi non dovessimo avere successo, avremmo ancora una carta in serbo.» «Sì, certo, quando una brezza farà volare un'incudine.» Il Rabbioso non voleva darsi per vinto; per lui era fuori discussione: sarebbero stati loro a salvare le prigioniere. Furgas pose fine alla sterile discussione riprendendo l'avanzata all'interno del palazzo. «Cerchiamo Dorsa. Forse hanno lasciato la bambina nella sua stanza.» Dopo poco erano davanti alla porta della camera. Ancora una volta fu l'alba a entrare furtivamente, prima che lo facessero i nani con le loro armature. L'alba aprì loro la porta. «Tutto tranquillo. A parte il fatto che la bambina possiede poteri di cui non so nulla.» Furgas la superò di corsa e guardò nel lettino in cui la sua bambina dormiva serena; nulla sembrava indicare che le avessero fatto del male. Tungdil, Boïndil e Boëndal erano poco scostati, e si rallegravano per il padre. Ondori li avvisò che qualcuno si stava avvicinando alla stanza. Entrò una donna. L'alba l'afferrò da dietro e le mise la lama del pugnale sul collo scoperto. «Zitta!» sibilò in tono gelido. «Lasciala», disse Furgas. «È la balia!» Con un po' di esitazione, l'alba lasciò la presa, mentre l'uomo raggiungeva la donna e l'abbracciava. «Rosild! A te e a mia figlia non è successo niente. Che cos'è accaduto?» «Mastro Furgas», balbettò la ragazza. Le sorprese erano troppe per lei. «Voi...» Le occorse un attimo per controllarsi. «Gli stranieri sono venuti a palazzo e l'hanno requisito. Ho detto di essere una serva, che Dorsa era mia figlia e che avevo il permesso di tenerla qui finché la maga non fosse tornata. Mi hanno detto che potevo restare e che dovevo occuparmi del rancio delle guardie del palazzo.» Il Rabbioso faticava a capire. «Brava gente, questi avatar.» «Brava gente? Devo assaggiare il cibo prima di loro, tutte le volte, e
hanno detto che uccideranno me e Dorsa se anche un solo soldato rimane con un po' d'appetito», spiegò Rosild. «Capirete che vivo nel terrore continuo, per me e per la bambina.» Furgas la prese per le spalle. «Sei stata coraggiosa, Rosild. È finita, ti portiamo fuori.» «Ma prima dobbiamo sapere dove hanno portato Balyndis.» Tungdil si avvicinò alla donna. «Sai dirci dove si trova Balyndis? Ci hanno detto che è arrivata qui sette rotazioni fa.» «Balyndis... La nana si chiama così?» Rosild corrugò la fronte. «Ho sentito che erano arrivati degli altri soldati, una manciata. Erano molto agitati, e sono scomparsi subito nel palazzo. Pensavo che la prigioniera fosse un bambino o uno gnomo. Strano che non abbia pensato da me che potesse essere una Cavernicola...» «Nana», la corresse subito Boïndil. «Chiedo scusa... Una nana.» Rosild guardò Furgas. «Credo che l'abbiano portata nella stanza alta, quella con una cupola. Da allora non l'ho più vista.» «Preparati per una fuga rapida», le disse Tungdil. «Ma sii silenziosa e non attirare l'attenzione delle guardie su di te. Quando avremo liberato la nana dovremo scappare molto in fretta. Fuori fa freddo; prendi dei vestiti caldi per Dorsa.» La balia impallidì un po', ma annuì. Tungdil fissò i volti gravi dei suoi amici. «Fin qui, tutto bene. Vraccas è con noi. Andiamo a liberare Balyndis.» *
*
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Rodario guardava al di là della luce delle candele e non riusciva a distogliere lo sguardo dal bel volto della sua ospite. La donna portava un abito bianco, ricco di ricami, che le arrivava ai polpacci. Era di una stoffa simile alla seta. «Siete così bella da far impallidire perfino la luce delle candele», disse l'attore, impressionato. Alzò il bicchiere di vino rosso. «A voi e alla vostra bellezza, che non verrà mai dimenticata.» La sua manica minacciò di scivolare e di scoprire il lanciafiamme che portava all'avambraccio; riuscì a impedirlo con un rapido movimento, e senza versare il vino. Maledizione! «Il vostro parlare è molto galante. Ma attendete due decadi, e la mia pelle ben tesa penderà come una rete sformata», replicò la donna. Tuttavia
brindò con lui con un gesto sobrio, e i suoi occhi verdi rivelarono che apprezzava i complimenti. Rodario provava molto gusto a poter dispiegare tutto il talento; le figlie di contadini, le locandiere e anche le donne di città si potevano impressionare con molto meno. Ma quella donna, qualunque ruolo ricoprisse al servizio degli avatar, era anche un'ottima conversatrice. Prima che il loro incontro finisse in un'indimenticabile notte d'amore, cosa su cui non nutriva nessun dubbio, l'attore aveva bisogno di alcune informazioni. Le avrebbe usate più tardi, mentre la donna, spossata dai giochi amorosi, avrebbe dormito beata tra i morbidi cuscini. Si sistemò gli abiti, si alzò, prese la caraffa e le versò del vino. Nel farlo, una goccia rossa saltò dal bicchiere e si posò sulla spalla scoperta di Lirkim. «Perdonate la goffaggine.» Seguendo un'ispirazione, Rodario tolse delicatamente la goccia con un bacio. Lei lo lasciò fare, porgendogli il bianco collo che brillava sotto i lunghi capelli bruni. «Oh, un'altra.» L'attore fece finta di averne scoperta un'altra, e la baciò un'altra volta. Notò soddisfatto che le stava venendo la pelle d'oca. Sono ancora in grado di farlo! esultò, mentre tornava a sedersi. La scintilla era accesa, a quel punto doveva vedere se sarebbe divampato il fuoco della passione. La manica minacciò nuovamente di scivolare, tradendo il suo segreto. Sarà veramente impegnativo. Rodario portava ancora la sua attrezzatura da finto mago solo perché non sapeva altrimenti dove metterla. Non poteva appoggiarla da nessuna parte; se l'avesse nascosta nelle tasche, le avrebbe sformate. Più tardi, prima che s'iniziasse a fare sul serio, avrebbe dovuto distrarre l'attenzione di Lirkim per un tempo sufficiente, in modo da potersene sbarazzare. «Peccato che non fossero di più», commentò la donna, provocandolo, mentre tornava a dedicarsi all'eccezionale cibo. «Più tardi potrei trovarne molte altre», replicò Rodario, socchiudendo gli occhi. «Da dove viene il vino?» «Dalla cantina della maga. Questo è il bello del conquistare. Al vincitore spetta ogni cosa.» «E agli avatar non importa che voi vi stiate intrattenendo con un uomo che fino a poco fa era al servizio di Narmora?» «Era? Non lo siete più, signor Rodario?»
Un brivido freddo lo attraversò. Che intende dire? Ha intuito qualcosa del mio doppio gioco? Si schiarì la voce. «Be', io appartengo alla città che i vostri signori hanno conquistato; di conseguenza mi considero ora al loro servizio.» «Atteggiamento molto acuto, che vi evita un sacco di noie.» La donna rise. «No, non hanno nulla in contrario. Solo chi non è con loro è contro di loro. Uomini come voi non hanno nulla da temere.» «Questo avrà fatto piacere agli addetti al palazzo», disse Rodario pilotando la conversazione verso il destino di Dorsa. «Narmora non aveva una serva?» Lirkim annuì, tagliò un pezzetto di carne e lo portò alla bocca. Rispose solo dopo aver masticato con calma e deglutito. «Sì. Rosild e la sua figlioletta sono ancora qui, e la balia continua a prestare il suo servizio al meglio. Come vedete, gli avatar non hanno cambiato nulla.» «Già. Sembra che la situazione sia meno terribile di quanto la dipingano in giro.» Nascose accuratamente il sollievo che provava nel sapere che la balia e la bambina stavano bene. «Davvero?» Lirkim posò le posate sul bordo del piatto. «Che cosa avete sentito sugli avatar?» «Che sono una leggenda e che riducono a un cumulo di macerie le regioni...» S'interruppe. «Strano... A ben pensarci...» «Esattamente, mio caro Rodario. Se le cose stessero così come dicono, Porista sarebbe da tempo in fiamme. Avete altre tavolette sul loro conto? Ci si potrebbe fare un pezzo di teatro.» «Ne ho molte altre.» Le raccontò tutto ciò che aveva visto durante la battaglia ai margini dello Dsôn Balsur come se gli fosse stato riferito da un soldato: dall'energia magica fino ad arrivare al bagliore delle armature; tacque della morte dei due avatar. Lirkim lo ascoltava con attenzione, sembrava esserne molto divertita. «E a quanto si dice avrebbero rapito una nana, il che mi sembra pura invenzione. Che se ne farebbero mai di una Cavernicola?» Rodario infilò la forchetta in un pezzo di carne e mangiò. «Molte cose che quel soldato vi ha raccontato sono vere», annuì Lirkim, divertita, mentre sorseggiava il vino. Subito l'attore brindò, invitandola a bere di più. Le guance arrossate della donna suggerivano che l'alcol che stava bevendo ormai da un'ora stava facendo effetto. «Ma sono spiegabili, come lo sono molti trucchi che le menti semplici
difficilmente riescono a smascherare.» Lirkim si mise una mano davanti alla bocca, spalancando gli occhi. «Ma che sto dicendo?» «Non vi denuncerò presso gli avatar», scherzò Rodario simulando indifferenza. «Gli dei possono certo creare allucinazioni, come quella della nana, anche se io non ne capisco il senso.» Si alzò e le versò da bere, ma la donna si oppose con poco entusiasmo. «Non è un'allucinazione. Si sono presi la Sotterranea per strapparle un segreto.» Fece una risatina, come fosse una ragazzetta. «Sono tenaci, quei piccoli scavarocce.» «E così scoprono come si trasforma il piombo in oro? Gli avatar s'interessano a cose così terrene?» rise lui, come se stesse parlando per celia. «Ah, che se ne farebbero dell'oro?» Lirkim toccò col suo bicchiere quello di Rodario, facendolo tintinnare. «La nana conosce la formula con cui si può produrre un particolare tipo di... Sia quello che sia. Presto comunque non ne avranno più bisogno.» Le palpebre le divennero pesanti, e con la mano libera prese a tastare la coscia di Rodario. «Ditemi, signor Rodario, non vorremmo...» «Ma certo che vorremmo», disse lui, svelto. «Solo mi chiedevo ancora di questo interrogatorio che non è più così importante.» «Infatti non lo è.» La donna si alzò, gettandogli la braccia intorno al collo. «Presto gli avatar saranno così potenti che si prenderanno quello che vorranno, e potranno sfidare persino gli dei. Ognuno di loro dominerà su un regno immenso e s'innalzerà a un livello che nessuno ha mai raggiunto. La parola 'imperatore' non basterà a descriverne la potenza. E la Terra Nascosta...» Lirkim si morse un labbro, un gesto molto ambiguo, o almeno così lo trovò l'attore. «La Terra Nascosta ora non è un nostro problema.» In verità, a Rodario sarebbe piaciuto molto dimostrare per bene alla donna che grande amatore fosse, ma le cose che lei gli aveva appena detto ebbero sul suo desiderio l'effetto di una secchiata d'acqua ghiacciata nella biancheria, o della comparsa di un marito furente nella camera da letto. Ogni voglia scomparve di colpo. In quel momento, qualcuno spalancò la porta. Non avrebbe dovuto evocare mentalmente i mariti. Dal rumore, che aveva sentito già parecchie volte in vita sua, Rodario capì che il visitatore era furibondo, come ci si poteva aspettare da un marito tradito. A fare irruzione era stato un uomo biondissimo, intorno ai trenta cicli; indossava un abito bianco e reggeva una bacchetta lunga un avambraccio, dall'estremità curva. Con lui entrarono nella stanza tre armigeri.
L'intimità tra Rodario e Lirkim era finita. L'attore aveva visto alcuni di quei volti già prima, nel corridoio. «Sei sposata, Lirkim?» le sussurrò. Lei scosse la testa, sembrava stupita dall'irruzione quanto lui. «Allora gli avatar hanno davvero qualcosa in contrario sul fatto che noi...» «È lui, Fascou! Ne sono sicuro», gridò uno dei soldati indicando Rodario con la spada. «Lirkim, allontanati da lui», ordinò l'uomo vestito di bianco. Invece di obbedire, la donna si mise davanti a Rodario. «No, Fascou, tu non gli farai nulla. Vattene e torna a divertirti con la Cavernicola, o trastullati ancora con gli altri intorno alla fonte, ma non provarti a toccarlo. È mio! Anch'io ho bisogno di un po' di divertimento.» «Sei ubriaca, Lirkim», replicò l'uomo in tono accondiscendente. «Stai difendendo uno dei nostri peggiori nemici. Quell'uomo è Rodario...» «L'Incredibile Rodario», lo corresse lei con la testardaggine degli ubriachi. «Lo so, gestisce il Curiosum...» Fascou fece un passo in avanti e sollevò un braccio, le dita distese in avanti. «No, si chiama Rodario l'Incredibile ed è l'apprendista di Narmora.» Il soldato annuì. «Ho combattuto sul fianco difeso da lui. Le sue mani sputavano fuoco e, quando le distendeva, i miei uomini si scioglievano come burro al sole.» Rodario stentava a crederci. Aveva sempre desiderato essere famoso, anche molto al di là dei confini delle città in cui recitava, e in quel momento il suo sogno, divenuto realtà, lo stava gettando in braccio alla morte. Va bene, allora recitiamo la parte dell'apprendista di Narmora. Si erse in tutta la sua statura, puntò una mano verso Fascou e con l'altra afferrò la gola della stupitissima Lirkim, poi scoppiò nella sua migliore risata da mascalzone. «Fermi dove siete! O questa donna...» Più in fretta di quanto una tempesta spenga una candela, davanti a lui comparve un bianco incandescente, che lo accecò, impedendogli di vedere qualunque cosa al di là di esso. Lirkim si era trasformata in un sole incandescente, e alla luce seguì subito il calore. *
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Furgas guidò il gruppo attraverso gli scuri corridoi del palazzo. Alla fine si fermarono davanti alle porte della grande sala sormontata da una cupola. Era spalancata: evidentemente gli avatar non temevano che la nana scappasse.
«Potrebbe essere una trappola», li avvisò Boëndal. Ondori si fece avanti per controllare la situazione. Tornò subito dopo. «Non c'è niente. A parte una nana incatenata», disse laconicamente, cedendo il passo ai nani. Capirono subito perché nessuno montava la guardia davanti alla porta. Balyndis giaceva per terra, in mezzo alla stanza. Aveva le braccia e le gambe rotte, con le ossa che sporgevano in parte dalla carne. Sangue e suppurazioni secche le coprivano la pelle. Il torso nudo era pieno di tagli e segni di bruciature, che tracciavano un disegno confuso. I lunghi capelli bruni erano stati strappati a ciuffi, ed erano sparsi intorno a lei. Fascette di metallo inchiodate nel marmo le cingevano polsi e caviglie, tenendola stretta al pavimento della sala. A quella vista orribile, Tungdil cominciò a piangere. Ma che ti hanno fatto? S'inginocchiò accanto a lei e le tastò la fronte. Era molto calda. Le infezioni. Sollevò l'ascia e fece saltare le fascette. Balyndis non reagì ai colpi né al rumore che facevano. I suoi occhi rimanevano chiusi. «Nessuno può trattare così una nana», ringhiò il Rabbioso. Lo sguardo gli divenne vacuo, annunciando l'approssimarsi della sua furia guerriera. «Vraccas, mandami uno di questi falsi stregoni e io lo spezzerò con le mie mani come fosse una pagnotta!» Boëndal passò a Tungdil il suo mantello, in modo da coprire la nana. «Spero di dover curare solo le ferite esterne», mormorò. «Non sono riusciti a piegare la sua volontà, altrimenti sarebbe già morta.» Tungdil se la caricò sulle spalle. «Per lo stesso motivo, sono certo che non sono riusciti a devastare la sua mente.» Per lui era ormai chiaro che gli autoproclamati discendenti di Tion non meritavano la minima pietà, neanche a volerli giustificare con la loro campagna contro il male. Nulla poteva in nessun modo autorizzare l'arrogante e crudele comportamento che avevano nei confronti di chi si trovava sul loro cammino. Tungdil si alzò e raggelò. Accanto alla parete orientale della stanza c'era il suo padre adottivo: Lot-Ionan! «È possibile?» sussurrò. Si avvicinò con prudenza all'uomo che lo aveva preso con sé e lo aveva cresciuto; poi capì di essersi ingannato. Davanti a lui c'era ciò che Nôd'onn aveva fatto del suo mentore: un oggetto, un'immagine pietrificata di quell'uomo a lui tanto caro. L'incantesimo del traditore lo aveva trasformato in pietra.
Irrimediabilmente, pensò, ricordando le parole di Andôkai. Singhiozzò, perché quello spettacolo gli faceva male all'anima, e gli ricordava i bei cicli trascorsi con Lot-Ionan e la serva umana, Frala, che gli era tanto amica. Tungdil accarezzò la statua, poi si voltò. Non era più tempo per le lacrime. Era giunto il momento dell'odio. Tornarono indietro e s'imbatterono nella balia, che, pur spaventata, era pronta alla fuga. La donna diede loro una spessa coperta in cui avvolgere Balyndis, in modo che il freddo invernale non l'assiderasse; Furgas si assunse il compito di portare la nana priva di sensi. La loro irruzione nel palazzo continuava a passare inosservata. Avanzavano in maniera lenta, ma costante. Attraverso una delle uscite posteriori lasciarono l'edificio, raggiunsero il giardino e puntarono al passaggio segreto. *
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Questo maledetto pezzo di letame è un avatar! Rodario si comportò in modo assai poco galante. Non potendo vedere niente più che un immenso chiarore, assestò a quel sole sorgente un calcio laddove supponeva esserci il sedere, scaraventandolo così contro il tavolo che aveva davanti. Si sentì un gran fracasso, e l'astro si spense. Quindi l'attore puntò alla cieca i lanciafiamme contro i soldati e l'altro avatar. Gridò qualche formula inventata su due piedi e, quando sentì le grida di sorpresa, scagliò in avanti anche due fialette di acido. Poi si tuffò sotto il tavolo. Se si era aspettato di essere trasformato istantaneamente in un mucchietto di cenere, a quel punto assodò che non era successo niente del genere. Tutto intorno vi era puzza di bruciato, ma lui era indenne. Non appena poté di nuovo distinguere i contorni della stanza, vide che i soldati si rotolavano sul pavimento, tra le fiamme, mentre l'uomo in abito bianco giaceva morto in mezzo a loro. Una delle fialette l'aveva colpito in testa: metà del cranio e l'intero volto erano stati divorati dall'acido. Eccitato dall'inatteso successo, l'attore strisciò fuori del suo riparo. «Questo è quello che succede a chi si mette contro Rodario l'Incredibile!» Lirkim giaceva col torso riverso sul piano del tavolo, coprendo il suo piatto e due vassoi da portata; aveva battuto una tempia sul legno con tanta forza da perdere i sensi. «E tu sappi che nessuna femmina si fa gioco di Rodario!» la schernì. Ho
appena sconfitto due avatar! Si appoggiò le mani sui fianchi e rise come avrebbe fatto uno dei suoi personaggi teatrali. Afferrò la donna per la nuca e la tirò indietro, le tolse tutti i gioielli che portava al collo e alle dita, per sottrarle tutta l'energia magica, e se li mise in tasca. Tu vieni con me. Ci racconterai che cosa cercate di fare tu e i tuoi amici con la sorgente della magia. Ingollò ancora un considerevole sorso di vino, poi frantumò la caraffa vuota sulla testa della donna per essere sicuro che non riprendesse i sensi. La botta e il vino gli avrebbero risparmiato quella preoccupazione. Si era appena gettato Lirkim sulle spalle, quando sentì uno scalpiccio di piedi davanti alla porta. I rumori del combattimento erano stati forti e impossibili da ignorare, e dovevano aver messo le guardie in allarme. La gioia per la vittoria scomparve in un istante, e anche la sua spavalderia si sciolse come il trucco nella calura di un teatro troppo affollato. I piedi dell'attore lo condussero alla finestra, guardò nel giardino e scorse diverse figure. Piccole figure. Spalancò le ante. «Ehi, amici! Ho rapito un falso avatar!» Indicò il sedere della donna. «Ma i suoi divini compari mi sono alle calcagna. Sareste così gentili da...» «Vieni giù, Fanfarone!» gridò Boïndil in risposta, gesticolando selvaggiamente. «Conosciamo una via d'uscita!» «Non è mia abitudine trattare le donne in codesta maniera. Perdonatemi», disse al sedere in tono di scusa. Quindi gettò Lirkim giù dalla finestra; dopo un breve volo, la donna cadde sulla neve. Lui le saltò dietro e atterrò a poca distanza. Si assicurò rapidamente che il cuore della donna battesse ancora, poi se la issò sulle spalle e corse dietro i compagni. Ondori aprì un passaggio magico nelle massicce mura del palazzo. Uscirono dal giardino e corsero per le strade deserte di Porista. La coltre di nevischio diventava sempre più spessa e copriva la loro fuga, rendendo impossibile scorgerli a più di cinque passi. «Che caso fortunato», ansimò l'attore sotto il suo carico, vedendo che i compagni avevano compiuto la missione. «Sembra che siamo di nuovo i beniamini degli dei. Balyndis, la bambina e uno degli avatar. Non si poteva sperare in un successo maggiore.» «Ma che continui a vaneggiare riguardo a un avatar?» sbuffò Boïndil, cui l'armatura pesava come a Tungdil e a Boëndal. Limitava la loro velocità, cosa che non faceva torto all'attore, dal momento che il carico che portava era per lui una sfida insolita. Solo Furgas non sembrava risentire del suo fardello.
«Si chiama Lirkim», prese a spiegare Rodario. «Dapprima ha finto di essere una donna al servizio degli avatar. A essere sinceri, sono io che l'ho pensato. Ma mentre mangiavamo è arrivato un suo amico, che non era invitato, e allora finalmente ho capito la verità.» «Ma certo. Il Fanfarone ha catturato un avatar.» Il respiro del Rabbioso si stava facendo sibilante. La prigioniera mormorò parole incomprensibili, sembrava parlasse di avatar ed Eoîl. Ondori stette ad ascoltare il tono in cui parlava, quindi le sferrò un forte pugno in faccia, riducendola al silenzio. «Era un incantesimo», disse. «Non volevo che ci creasse problemi.» «Smettete di parlare e risparmiate il fiato per la corsa», ringhiò Tungdil, mentre lottava coi dolori al fianco, che stavano aumentando. Raggiunsero la piazza, dove Ertil li stava aspettando dietro una catasta di botti vuote. Mentre l'uomo stava aprendo l'ingresso della condotta, Ondori all'improvviso girò su se stessa e fissò la frenetica danza della neve. I fiocchi intorno a loro si trasformarono, divennero prima grumi di ghiaccio, poi pesanti gocce d'acqua che picchiettavano sulle armature. «Dentro!» ordinò l'alba incoccando una freccia. Furgas si mise al sicuro con Balyndis, quindi scesero la balia con la bimba e Rodario con la prigioniera. Attraverso la pioggia volò una luminosa sfera dorata che s'ingrandiva puntando dritta verso Boïndil, il quale era l'ultimo della fila. Il nano ebbe appena il tempo di abbassare la visiera dell'elmo, poi la sfera lo colpì al petto, trasformandosi in una palla di fuoco che lo avvolse completamente. Anche Tungdil e Boëndal ne avvertirono il calore, e Ondori gridò. Quando le fiamme magiche si estinsero, il Rabbioso stava ancora in piedi. Era lambito da piccole fiammelle che si spensero poco dopo. L'armatura rielaborata aveva resistito alla potenza dell'incantesimo. «Eccoli qui!» gridò un uomo nell'oscurità. Un istante dopo si era trasformato in un essere circonfuso di luce. «Da questa parte!» «Il tuo trucchetto non ha funzionato, eh, imbroglione? Sono curioso di vedere il colore del tuo sangue», tuonò Boïndil gettandosi contro l'avatar; suo fratello brandì l'azza e scattò in avanti anche lui. «Per Balyndis!» gridò forte Tungdil lanciandosi in battaglia. Il falso avatar scagliò contro di loro un incantesimo dopo l'altro, cercando di fermarli prima che arrivassero fino a lui, ma non vi era modo di piegare l'ostinazione e la volontà ferrea di tre nani furibondi e pieni di odio.
Tungdil si sentiva come un pezzo di minerale in un altoforno. L'armatura risparmiava al suo corpo l'effetto devastante degli incantesimi, ma si stava surriscaldando e avrebbe finito con l'arrostirlo, se non avessero distrutto il nemico per tempo. Il calore delle fiamme aveva reso le armi dei nani di un rosso incandescente; i manici in legno, già bruciacchiati, rischiavano di prendere fuoco, ma l'ascia, le scuri e l'azza trovarono il loro bersaglio prima di diventare inutilizzabili. Anche se i nani, per via della luce, non vedevano bene l'uomo, il suo vago contorno fu per loro più che sufficiente. Dopo i primi due colpi del Rabbioso il bagliore si estinse, e davanti al trio apparve un uomo ferito alle cosce. Dimostrava una sessantina di cicli, e stava alzando una spada corta per difendersi. Non gli servì a nulla. I suoi abiti bianchi non lo protessero dalle lame calde e dal lungo uncino dell'azza. I nani lo incalzarono da tre lati fino a che il sangue dell'uomo mutilato e gemente non riempì il canaletto di scolo. Per sicurezza, Boëndal gli frantumò il cranio; quindi corsero nel tunnel, chiudendone l'ingresso. «Un altro in meno», disse Boïndil con ferocia. «Ma qui dentro inizia a fare veramente caldo.» «Dov'è Ondori?» chiese Rodario, mentre si sistemava Lirkim sulle spalle e si avvicinava a Tungdil. Notarono solo a quel punto la sua assenza. Durante il combattimento non vi avevano fatto caso. «L'ho sentita gridare...» «Sarà arsa in quella nube incandescente», ipotizzò il Rabbioso, con un ghigno cattivo sulle labbra. «Non è una gran perdita. E non ci dovremo scervellare su come liberarci di lei.» Cominciò a percorrere la condotta a passi pesanti, mettendosi in testa al gruppo. «Anche se avrei preferito ucciderla io.» Nessuno pianse la morte di Ondori, ma d'altra parte nessuno di loro era sicuro della sua dipartita. *
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Riuscirono a fare un altro miracolo e raggiunsero l'esercito di Terzi, Liberi, Primi e albi, la cui avanguardia era arrivata a dieci miglia da Porista. Tungdil portò subito Balyndis da Narmora, che liberò la nana dai dolori
e dalle ferite più gravi e affidò il resto della guarigione alla naturale forte fibra dei nani. Quando udì il pianto della bimba, tutta la durezza che Narmora dimostrava come maga si sciolse e la mezz'alba corse tra le lacrime a riabbracciare Furgas e Dorsa. I nani li circondavano, commossi, e perfino il Rabbioso si dovette asciugare una lacrima dalla guancia barbuta. Tungdil non si allontanò un istante dal capezzale di Balyndis; le procurò acqua fresca, le lavò la fuliggine e il sangue essiccato, trattò le bruciature con delle pomate e attese con ansia che riaprisse gli occhi. «Vieni, Sapientone?» gli chiese Boëndal verso sera. «Narmora vorrebbe che tu partecipassi all'interrogatorio dell'avatar. Più domande ci vengono in mente, meglio è.» Tungdil si separò malvolentieri dalla nana, le accarezzò una mano e seguì l'amico. «Non nutrire false speranze», si sentì in dovere di dire l'altro. «Glaïmbar ti sarà eternamente grato di aver salvato sua moglie. Ma lei...» «Lo so», lo interruppe Tungdil, sorridendo mesto. «Lo so, amico mio. Lei non lo lascerà mai. Ma io so che l'amerò per sempre, come lei ama me. Mi è ormai chiaro da tempo che, nonostante la mia storia con Myr, era lei a possedere il mio cuore, e così sarà sempre. Mi comporterò come Boïndil e starò alla larga dalle nane. Qualunque legame sarebbe un'offesa ai suoi sentimenti e un tradimento nei suoi confronti. Sono molto grato di essere stato io a salvarla, e ancora più grato di poterla di nuovo chiamare amica. Prego Vraccas che lei perdoni il mio comportamento.» Boëndal annuì e lo condusse nel capanno per il carbone in cui avevano chiuso Lirkim. Narmora, Boïndil e Rodario, che reggeva un secchio d'acqua, erano già lì. «Cominciamo, dunque.» L'attore vuotò il secchio sulla schiena di Lirkim, che era legata col volto fisso a terra. L'acqua gelata scorse sul suo corpo, e la donna spalancò subito gli occhi. Rodario si accovacciò vicino a lei. «Ti porgo i miei saluti. Dal momento che non siamo riusciti a proseguire la nostra conversazione a Porista, ti ho portata dai miei amici. Al minimo accenno di magia, morirai. Mi hai inteso?» Lirkim cercò di guardarsi intorno, ma riuscì a vedere solo stivali, schinieri e punte di armi rivolte verso la sua testa. «Il mio braccio destro fa un male terribile», mormorò con voce soffocata. «Già, credo che si sia rotto quando ti ho... quando sei caduta dalla fine-
stra.» Rodario si sforzava di non sembrare in nessun modo carino e di non mostrare compassione, anche se, considerata la bellezza della donna, gli riusciva difficile credere che lei fosse responsabile della morte di migliaia di persone. «Hai inteso comunque quello che ti ho detto?» «Non lancerò incantesimi», promise Lirkim, con la voce che le tremava quanto il corpo. L'acqua gelata e il freddo che aveva preso durante il viaggio la stavano tormentando. «Che cosa avete in mente di fare con la sorgente della magia?» domandò l'attore iniziando l'interrogatorio. Stava per metterle una coperta addosso, ma Tungdil gliela tolse subito di mano, lanciandogli uno sguardo spietato. «L'Eoîl ha sentito la sorgente mentre stavamo marciando sopra una delle sue propaggini, in viaggio verso lo Dsôn Balsur. Ha trovato un modo per utilizzare quella energia», spiegò la donna tossendo. «Non so precisamente che cosa abbia in mente, ma ci ha detto che eravamo a un passo dal raggiungere le vette del potere.» «Quanti siete? E chi siete davvero?» chiese Narmora. «Siete umani, questo è sicuro. Parla, perché ogni esitazione ti avvicina alla morte.» Lirkim annuì debolmente. «Siamo sette stregoni, tre donne e quattro uomini, più l'Eoîl. Ci siamo uniti circa quattrocento cicli fa e abbiamo messo insieme le nostre forze per raggiungere un potere che ci permettesse di sconfiggere qualunque avversario. La leggenda degli avatar e della loro venuta ci ha aiutato a diffondere il terrore. Voi siete i primi che siano riusciti a metterci in difficoltà.» Boïndil le diede un. calcio a un piede. «Che cos'è un Eoîl?» «Un Eoîl è... un Eoîl. Non è facile da descrivere, ed è l'unico di noi a essere veramente divino.» «Divino? Non farmi ridere. Risparmiaci le tavolette; è un millantatore, un ciarlatano come te», la schernì il Rabbioso. Lirkim rimase ferma. «Lui è un Eoîl. Là da dove vengo ce ne sono ben pochi. Sono incantatori potenti, e tutte le creature li temono. Lo vedrete voi stessi quando marcerete contro Porista, come credo che intendiate fare. Lui vi distruggerà. È il suo potere a trasformare le regioni in deserti e i mari in distese di sale, non il nostro. Noi siamo...» «E voi attingete la vostra forza dal male che distruggete?» la incalzò la maga. «Sì. L'Eoîl ci ha insegnato le formule che trasformano la bassezza presente nei mostri in energia. Noi usiamo quell'energia per pronunciare i nostri sortilegi. Quando apprendemmo che c'era una fonte di energia mal-
vagia...» «Voi lo sapevate? Non siete venuti da noi per via di Nôd'onn?» «L'Eoîl lo sapeva. Ha anche detto che il demone che possedeva Nôd'onn non era stato distrutto completamente.» «Ne ho abbastanza di queste ciance sull'Eoîl!» Boïndil stava già estraendo un'ascia, ma Boëndal lo trattenne. «Eravate a Porista perché l'Eoîl aveva in mente di fare qualcosa con la sorgente, ma tu non sai cosa?» riassunse Tungdil. La donna annuì. «Che cosa volevate dalla nana?» «Hanno trovato la nana legata a un albero e si sono chiesti che cosa significasse», disse Lirkim. I denti le battevano per via del freddo, mozzandole le frasi. «Le hanno fatto credere di essere suoi simili che volevano liberarla, e così lei ha raccontato loro di conoscere la formula dell'armatura. Quando la battaglia si è conclusa in modo disastroso per noi, e Timshar e S'liinsh sono stati fatti a pezzi da un Aneoîl, abbiamo pensato che la nana potesse alludere solo a quella armatura. Volevamo impadronirci della formula.» «L'hai conciata tu così?» «No. È stato l'Eoîl. Odia i Sotterranei dal profondo del cuore.» Era chiaro che Lirkim conosceva le creature come Djerun, e pareva che esistesse una parentela tra esse e l'Eoîl. Tungdil glielo chiese. «Non hanno niente in comune, a parte il fatto di uccidere le creature del male, anche se per motivi diversi. L'Aneoîl lo fa perché vuole sterminare quelle che sono troppo deboli, l'Eoîl lo fa perché vuole distruggere il male in tutte le sue forme.» La donna girò la testa, guardando verso Narmora. «È stata una sua idea quella di mandare un Aneoîl alla tua signora. Sapeva che l'aggressione sarebbe riuscita.» La mezz'alba rise con cattiveria. «Può darsi che il tuo Eoîl ti sembri molto potente, ma non ha fatto i conti con molte cose.» «Esatto! Con me, per esempio», disse subito Rodario. Tungdil si rallegrava delle notizie rivelate dalla prigioniera. Non credeva che osasse mentire, sembrava troppo terrorizzata dal buio della capanna e da ciò che la circondava per farlo. Abbiamo già ucciso quattro stregoni e una è davanti a noi, prigioniera. Rimangono due maghi e un Eoîl, qualunque cosa sia. La fiducia crebbe dentro di lui. Quando tutto sarà finito, le chiederò della Terra dell'Aldilà. Sa sicuramente qualcosa sui Sotterranei. Ma adesso non è il momento opportuno. Narmora stava riflettendo. «A che punto sono i preparativi dell'Eoli?»
«Ci ha detto ieri che non avremmo dovuto pazientare ancora a lungo. Solo nove o dieci rotazioni.» «Si affretterà, perché immaginerà che la stiamo interrogando», disse Tungdil, grave. «Abbiamo subito bisogno di un piano per conquistare Porista, o la Terra Nascosta si troverà di fronte alla sua ora più buia.» Boëndal lo guardò. «Cosa te lo fa pensare, Sapientone?» «Vi ricordate del terremoto che abbiamo sentito sotto i nostri piedi?» Narmora assunse un'espressione preoccupata. «Sento che attraversa i campi magici da quando abbiamo iniziato la marcia. Non sono quasi più presenti, come se la fonte si stesse prosciugando.» «O come se qualcuno ne stesse deviando il corso», ipotizzò Tungdil. «Qualunque cosa stia facendo l'Eoîl, deve finire, altrimenti sovvertirà la struttura della Terra Nascosta e la manderà in rovina.» Guardò i suoi compagni. «Troviamoci nella mia tenda quando il sole sarà tramontato. Abbiamo una città da conquistare.» «Che ne facciamo di lei?» Il Rabbioso indicò la prigioniera, le cui labbra si erano ormai tinte di blu. «Può ancora lanciare degli incantesimi, è troppo pericolosa...» «È mia prigioniera, e non può più lanciare incantesimi. Le ho tolto i talismani in cui era accumulato il suo potere», rivelò Rodarlo. «Decido io che cosa fare o non fare di lei.» Narmora scosse la testa. «No, Incredibile. La sicurezza di tutti noi è più importante. È una di coloro che si sono nominati avatar, e non mi hanno dato nessun motivo per accordare loro pietà. Sono troppo pericolosi.» «V'imploro, risparmiatemi la vita», mormorò Lirkim, tremante. Ormai stentava a parlare. «Non potrei mettervi in pericolo nemmeno se volessi. Rodario ha detto la verità. Senza i miei talismani sono innocua.» «Questo l'avevo capito anch'io», rise Boïndil. «Per favore, non voglio che l'ammazziate così», disse Rodario, concitato. «Non è giusto.» «Anch'io sono per lasciarla in vita, almeno finché Porista non sarà in mano nostra.» Tungdil la guardò con disprezzo. «Vedremo se importa qualcosa ai suoi amici e se ci tornerà utile nella lotta contro di loro.» Tutto in lui si ribellava all'idea di uccidere una persona indifesa. Narmora levò un mano e lanciò un fulmine crepitante sulla schiena di Lirkim. La donna gridò, s'impennò e tirò i legacci senza riuscire a liberarsi. Il colpo le aveva lacerato il vestito, lasciando una vescica grossa come il
palmo di una mano. Quella che un tempo era un avatar si rilassò di nuovo solo quando il terribile dolore lasciò il suo corpo. «Sì, sembra proprio che i suoi poteri l'abbiano abbandonata», disse la mezz'alba. Si chinò e le strappò una ciocca di capelli. «Con questa, Lirkim, posso preparare un sortilegio che ti troverà ovunque. Ti ucciderà, non importa che tu sia nella Terra Nascosta o dove ti pare. Comportati bene, e verrai risparmiata.» Narmora lasciò la capanna. I nani la seguirono, e quattro guerrieri dei Terzi rimasero a fare la guardia. Rodario prese un pugno di neve all'esterno e lo mise sulla vescica in cui si stava raccogliendo il pus. Lirkim rabbrividì. «Grazie», sussurrò tra i singhiozzi. «Grazie, mi hai salvato la vita.» L'attore le sciolse i legacci, l'aiutò ad alzarsi e a coricarsi su un giaciglio. La donna si tolse gli abiti bagnati e s'infilò sotto la coperta grezza. «Che cosa volevi da me, Lirkim? Quand'eravamo a Porista, intendo», chiese Rodario a bassa voce. «Non era chiaro?» replicò lei. «Sei un uomo affascinante, e stavo cercando compagnia fuori del palazzo. Ti ho incontrato, e il resto l'ha deciso la serata.» Già, e che serata. Prima che la donna lo impietosisse ancor di più, Rodario richiamò alla mente la battaglia ai confini dello Dsôn Balsur; si ripeté che, per quanto la donna potesse sembrare dolce e fragile, lei e i suoi amici avevano fatto cose orribili. Quattrocento cicli, ed è ancora così giovane e fresca... «Hai parlato del demone, Lirkim. La creatura che si era impossessata di Nudin e che lo ha trasformato in un traditore.» La donna annuì. «Come può essere riuscito a sopravvivere?» Lirkim scosse le spalle, e l'attore intuì la risposta prima che aprisse bocca. «L'Eoîl lo sa. Solo lui ha il potere d'individuarlo.» Rodario avvertì un rumore vicino all'ingresso, si voltò e vide un'ombra correre davanti alla finestra del capanno. Qualcuno aveva origliato la loro breve conversazione. Si alzò e corse verso la porta, ma attraverso la fitta coltre di nevischio riuscì a distinguere soltanto un vago contorno che si perse nella tormenta. Davanti alla porta non vi era nessuna orma che indicasse in che direzione fosse scappato lo sconosciuto. Narmora? Che fosse lei? L'uomo rientrò nel capanno. E questo che vorrà dire?
VIII Terra Nascosta, nord-ovest del regno di Urgon, davanti alle porte del regno dei Quarti, nei Monti Marroni, 6234°/6235° ciclo solare, inverno Irritato, il capitano Vallasin avanzava sulla neve che diveniva sempre più alta, puntando direttamente verso la posizione della sentinella più avanzata. Si strinse di più il caldo mantello di lana. «Allora?» gridò già da lontano, per risparmiarsi un inutile tratto di strada. «Novità?» «No, capitano», urlò la sentinella in risposta. «La porta non si muove.» Vallasin si fermò, alzò la mano in segno di saluto e, di un umore ancora peggiore, ritornò nella sua tenda, dove l'attendevano un fuoco e un tè caldo. Il rituale si ripeteva da più di quaranta rotazioni, senza che accadesse nulla di nuovo. Andava dalla sentinella, la quale gli diceva che non succedeva niente. Entrò nel suo alloggiamento, appese il mantello a un gancio del palo centrale della tenda e si gettò sulla sedia da campo. Il suo aiutante gli portò una tazza della bevanda fumante. A dispetto del fuoco, tra le sottili pareti di stoffa la temperatura non era gradevole; il gelido vento invernale soffiava senza pietà attraverso le più piccole fenditure. «Sono riusciti a...» L'aiutante non terminò la domanda. Lo leggeva in faccia al capitano che non vi era nulla di cui rallegrarsi. «È inaccettabile!» sbottò Vallasin, infuriato. «Stiamo davanti alle porte di un regno di nani incustodito, con diecimila uomini, e non riusciamo ad aprirne la maledetta porta.» Bevve il suo tè guardando la montagna di ordini che nel frattempo gli aveva fatto pervenire re Belletain. Il sovrano dell'Urgon s'informava quasi quotidianamente sullo stato della missione, e ogni volta il capitano doveva mandargli un messo che tornava a corte con notizie deludenti. Alla lunga quella situazione non avrebbe giovato alla sua sudata posizione di comando. Da un momento all'altro, il folle Belletain poteva prendere la decisione di promuovere un altro al posto di capitano e di deporlo per incapacità. «Ci dobbiamo riuscire!» «I chiavistelli dei nani sono irraggiungibili per i nostri genieri», gli ricordò l'aiutante. «Non riusciamo né a scardinare la porta né a infilarci sotto
dei cunei.» Vallasin sventolò un foglio di carta. «Lo so, io. Spiegalo piuttosto al nostro re e agli uomini rannicchiati qua fuori a farsi gelare il sangue.» Infuriandosi sempre di più, si alzò e iniziò a camminare su e giù tra l'ingresso e il palo maestro. «Ne sono morti assiderati già quarantasette! Quarantasette! E per cosa? Per una maledetta porta e un accordo non rispettato.» Era stato concordato coi Terzi che le porte sarebbero dovute rimanere aperte, in modo che l'ingresso nel regno e la ricerca del tesoro dei Quarti potessero procedere veloci e senza intoppi. Ma l'entrata del regno si era dimostrata invalicabile, sfidava arieti e cunei, e perfino i picconi si smussavano contro il granito. Maledetta attesa! Dapprima avevano marciato fin lì su ordine di Belletain, per tenersi pronti alla conquista, poi era apparso il corpo di spedizione dei Terzi, al che erano due gli eserciti accampati davanti alle porte chiuse. Improvvisamente i Terzi avevano raccolto armi e bagagli ed erano spariti senza dare spiegazioni. A Vallasin non era rimasto altro da fare che rimanere dov'era, per quanto potesse essere assurdo. Un ordine era pur sempre un ordine. Sentirono un cavallo avvicinarsi alla tenda. «Per Palandiell, dev'essere un altro messaggero da parte di Belletain», esplose Vallasin. «Non si stanca mai di leggere brutte notizie?» Il messo entrò nella tenda. Era completamente coperto da un sottile strato di neve; la sciarpa che portava davanti alla bocca e al naso era incrostata di ghiaccio, poiché l'umidità del suo alito congelava dentro il panno di lana in pochi istanti. Prese un rotolo di pelle sigillato da una tasca e lo porse al comandante. «Per voi, capitano.» Vallasin fece cenno al suo aiutante di dare al cavaliere una tazza di tè, in modo che si scaldasse. Quindi aprì il rotolo e ne estrasse la lettera. Fece per appoggiarlo sulla pila senza leggerlo e per infilare nell'involucro la risposta, che aveva già scritto, quando notò che il re quella volta aveva scritto di più. E non si trattava del suo richiamo dal servizio. «Cosa?» mormorò, stupito. «Il nostro stimato re c'impartisce un ordine di marcia. Lasciamo i Monti Grigi», annunciò riassumendo con evidente sollievo ciò che aveva letto. Fece chiamare i suoi ufficiali, che si precipitarono poco dopo nella tenda. «Signori, re Belletain ci scrive che nella Terra Nascosta stanno succedendo grandi cose. Dichiara che l'alleanza tra lui e re Lorimbas Cuordacciaio è finita, dal momento che non considera adempiuti i vincoli da parte
dei Terzi.» Arrotolò il foglio. «Per noi questo significa: smontare le tende e mettersi in marcia. Domattina vorrei andarmene da questa ghiacciaia.» «E che direzione prenderemo, capitano?» chiese uno dei subalterni. Vallasin indicò un punto sulla mappa. «Marceremo speditamente verso sud, come ci è comandato dal re, e convergeremo qui. La nostra avanzata non sarà in nessun modo attesa, e la sorpresa sarà dalla nostra.» «Tanto peggio per il nemico», rise uno dei suoi uomini, e gli altri si unirono alla risata. «E tanto meglio per noi», confermò il capitano, sollevato dal fatto che nessuno avesse mosso obiezioni contro il piano. Anche lui lo considerava di difficile attuazione, soprattutto perché avrebbero dovuto muoversi al di là dei confini, ma il principe Mallen dell'Idoslân non avrebbe avuto sicuramente nulla in contrario. Era la strada più breve. «Preparate gli uomini, dovremo essere rapidi.» Li congedò e scrisse una breve risposta per Belletain. Quella volta non aveva dubbi: lui e il suo esercito avrebbero presto vantato un successo. Dovevano solo non arrivare troppo tardi. Terra Nascosta, Gauragar, a dieci miglia da Porista, già capitale del regno incantato di Lios Nudin, 6234°/6235° ciclo solare, inverno Balyndis scacciò le tenebre che circondavano la sua mente. Sollevò le palpebre e si guardò intorno, aspettandosi di vedere sopra di sé quella cupola che per lei aveva perso ogni bellezza. Aveva sofferto troppo in quella sala. Se avesse potuto, avrebbe fatto a pezzi quel posto con le sue mani. Invece guardava la parete di una tenda bianca e, a giudicare dal sole, doveva essere all'incirca mezzogiorno. Girò la testa, meravigliata, e vide una testa bruna appoggiata sul suo letto. Sentì un basso respiro che le era assai familiare. Tungdil? Distese con cautela la mano e gli toccò i capelli, accarezzandoli piano per non svegliarlo. Si era addormentato mentre vegliava su di lei. Vraccas ha ascoltato le mie preghiere. Alzò le numerose coperte e osservò le bruciature sul suo corpo che, sotto lo strato di unguenti, apparivano come macchie rosso vivo. Narmora deve avermi guarito le ossa rotte. Piena di stupore toccò i punti in cui prima sporgevano le sue ossa frantumate. Tungdil si riscosse dal suo torpore. Quando vide che la nana si era svegliata, il suo viso s'illuminò. A Balyndis sembrava che vi fosse qualcosa di
più maturo e più grave in lui rispetto al loro ultimo incontro. Qualunque cosa gli fosse capitata nel frattempo, non doveva essere stato nulla di buono. «Come stai?» chiese Tungdil con delicatezza, prendendole la mano. «La maga ha fatto un miracolo», mormorò lei. «Non sento quasi più dolore.» Trasse il nano verso di sé e lo abbracciò a lungo. Rimasero in silenzio finché lui non si staccò. «Ti sarò sempre debitrice.» «Tra amici non si è mai in debito», replicò lui. «Se vuoi ancora essermi amica, Balyndis. Mi sono comportato come uno stupido gnomo, e non posso che chiederti scusa», disse iniziando un discorso che aveva ponderato a lungo. «Non so se siano stati l'orgoglio ferito, la gelosia o un altro sentimento a farmi comportare in quel modo, ma adesso vedo le cose con più chiarezza.» Le strinse la mano. «Sarei molto felice di essere tuo amico.» «Non ho mai smesso di considerarti un amico», confessò lei, toccata dalla sua onestà. «E sarà sempre così.» «Sì. Sarà sempre così», annuì lui, felice, guardandola negli occhi. I loro sguardi si sciolsero in amore l'uno per l'altra. «Comunque dovresti ringraziare Boëndal e il Rabbioso, e Furgas, che ha avuto una grossa parte nella tua liberazione.» Le descrisse brevemente la loro temeraria incursione nel palazzo e l'esito della loro impresa. Balyndis si toccò il cranio rasato. «Quell'alba che vi ha accompagnati...» disse con rabbia. «Da come me l'hai descritta, penso sia la stessa che ha intercettato me e la mia scorta e che mi ha legata all'albero cui mi hanno trovata gli avatar.» Gli raccontò del massacro. «Poco dopo la scomparsa degli albi, mi si è avvicinato un nano. Io ero fin troppo felice di vedere uno del nostro popolo e gli ho rivelato troppe cose, prima di notare che si comportava in modo strano e che rivelasse di essere un avatar. Mi hanno portato a Porista e hanno cercato di piegare la mia volontà.» Tacque, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «Ma Vraccas mi ha dato la forza di non rivelare loro la procedura. Non avrei resistito ancora a lungo, Tungdil», aggiunse tra i singhiozzi. Il nano la prese tra le braccia e le accarezzò la testa delicatamente fino a che non si calmò. «Ce l'hai fatta, Balyndis. Ora sei al sicuro.» Comprese che Ondori aveva approfittato dell'attacco dell'avatar per separarsi da loro. Aveva riconosciuto la nana e temeva che, se si fosse risvegliata, la situazione per lei sarebbe precipitata, che fossero compagni d'armi oppure no. «Com'è andata con l'armatura di Djerun? Ha funzionato?» volle sapere
la nana, e Tungdil glielo raccontò. «Allora devo tornare subito ai Monti Grigi e preparare altra di quella lega», decise senza riguardo per il suo stato di salute. «Perché mai dovresti andare fin lì?» Balyndis batté le nocche sulla corazza che l'altro portava sul petto. «Si può produrre questo metallo solo col fuoco della fucina di Vapordrago. Ho legato insieme tionio e palandio, e solo col suo calore è possibile unire quei due metalli.» Tungdil valutò la distanza, che era di diverse centinaia di miglia, come pure il cattivo tempo e le condizioni della nana. «Non abbiamo tempo», concluse, sgomento. «Porista deve cadere entro nove rotazioni, o questo essere che chiamano Eoîl porterà sulla Terra Nascosta una devastazione finora sconosciuta.» Balyndis rimase in silenzio e gli lanciò uno sguardo triste, perché capiva la pericolosità del compito che aspettava i suoi amici. «Allora tocca a te e ai gemelli contrapporvi agli avatar e sconfiggerli.» Scoprì un punto dell'armatura che non le piaceva. «Chi l'ha forgiata? Tu?» chiese in tono di rimprovero. «Non avevo molto tempo», ribatté lui per addolcire il suo disappunto. La nana si alzò, si gettò addosso i vestiti da uomo, accorciati per la bisogna, che le erano già stati preparati, si mise in testa un berretto e tese la mano verso l'altro. «Vieni.» Tungdil cercò di protestare.«Che vuoi fare? Tu devi...» «No, dobbiamo sistemare i tuoi erroracci», lo interruppe lei sorridendo. «Chiama i gemelli. Prepareremo tre armature che faranno invidia agli avatar. Non voglio che in futuro qualcuno dica che la Terra Nascosta è stata salvata da nani con armature grossolane.» Tungdil rise, le prese la mano e la seguì nella fucina da campo. Nel frattempo si unirono Boïndil e Boëndal, che abbracciarono con gioia Balyndis. Il calore della forgia e l'armamentario di martelli, tenaglie e scalpelli di metallo svegliarono le forze nascoste della nana. Anche Tungdil si gustò il fatto di far danzare il martello sull'incudine e di eliminare i difetti delle armature colpo dopo colpo. Seguendo il ritmo del metallo sul metallo, il Rabbioso intonò un vecchio inno di battaglia. Suo fratello si unì, mentre Tungdil e Balyndis si permisero di giocare battendo sempre più velocemente e trasformando l'inno in un canto pieno di fuoco e di velocità, fino a che i gemelli si arresero ridendo. In quelle ore, circondati dal calore, dal ferro e da buoni amici, i quattro
dimenticarono che cosa li attendeva. Dopo poco sentirono i nani che si trovavano nelle vicinanze della fucina unirsi al canto. I Liberi e i Primi cantavano a turno le strofe, seguendo il ritmo rapidissimo, e facevano a gara a chi incespicava per primo con le parole. Quando anche il loro canto finì, con un applauso, la voce profonda di un singolo cantante si fece strada nel rumore. Una pietra solitaria sui Monti Neri sapeva che molte altre pietre vi erano, uguali a lei eppur diverse. Non poteva guardarle, benché lo volesse, non poteva chiamarle, benché lo desiderasse, non poteva andar da loro, benché lo bramasse. I suoi monti gelosi glielo avevan proibito, a lei, la pietra solitaria sui Monti Neri. L'atmosfera distesa scomparve in un attimo. Tungdil aveva notato che il canto proveniva dalle file dei Terzi. Dovette ripensare alle parole di Sanda, la quale gli aveva detto che non tutti i Terzi provavano odio per gli altri nani. I monti gelosi, pensò. Quell'espressione sottintendeva sicuramente che Lorimbas e, con lui, tutti i sovrani dei Terzi si contrapponevano a una possibile riconciliazione. Pregò Vraccas di poter vedere il giorno in cui tutti i nani della Terra Nascosta si sarebbero potuti incontrare senza rischiare la propria vita. «Che canzone triste. Meno male che è finita, altrimenti sarei dovuto andare a ubriacarmi», mormorò Boïndil indossando lo schiniere appena sistemato. «Adesso non fa più male», disse constatando la qualità dell'opera. «In due rotazioni avremo concluso il lavoro», stimò Balyndis. «Fino ad allora gli avatar saranno ancora risparmiati.» «Sta bene», ghignò il Rabbioso, che si stava affaccendando coi bracciali. Pieno di ammirazione, si meravigliò della precisione con cui la nana lavo-
rava benché non fosse nelle migliori condizioni fisiche. «Ma solo due rotazioni, non un istante di più.» «Fa caldo veramente in fretta quando scagliano i loro incantesimi», disse Boëndal accarezzandosi la barba. «La devo bagnare, altrimenti rischio che mi prenda fuoco. Sarebbe davvero spiacevole, dopo che l'ho coltivata tanto a lungo.» «Ah, siete qua.» Rodario entrò nella fucina. «Gli allegri compari si preparano a salvare un'altra volta la Terra Nascosta dalle oscure forze...» S'interruppe, appoggiandosi l'indice sulle labbra. «Be', no, in realtà non sono affatto oscure forze. Come si può spiegare al popolino che i buoni devono combattere contro i buoni per proteggere il bene?» «Ti verrà in mente qualcosa», replicò Tungdil con convinzione. «La tua prigioniera ha rivelato qualcos'altro d'importante?» «Non esplicitamente. Ma mi è venuta in mente una cosa.» L'attore prese delle tenaglie e prese a giocherellarci. «Lirkim ha detto che, secondo l'Eoîl, una parte del demone che ha reso Nudin un traditore continua a esistere.» «Cosa?» Balyndis fissò l'uomo, stupita. «Ci ho riflettuto anch'io.» Tungdil indicò la sua ascia, forgiata in modo magistrale ma comunque ordinaria. «Se ha ragione, abbiamo assolutamente bisogno di riavere la Lama di Fuoco, che continua a essere nelle mani degli albi. Ma ammetto di non sapere proprio come sia possibile che anche solo un pezzetto di quell'essere sia riuscito a sopravvivere. L'ho distrutto con la Lama di Fuoco, l'avete visto tutti.» «Non può essere molto potente. Altrimenti si sarebbe già manifestato di nuovo da un pezzo. La Terra Estinta ha perso il suo influsso e nulla fa presagire che il male, così come l'abbiamo conosciuto, esista ancora. Non è rimasto null'altro che l'Acqua Nera.» Rodario posò le tenaglie. «Ma sono comunque preoccupato. Non sarebbe male se riusciste a catturare l'Eoîl vivo.» Il Rabbioso si fece una grassa risata. «È il più potente dei maghi sopravvissuti. Lo hai dimenticato?» «Io ho preso prigioniera la mia avatar, senza bisogno di ucciderla. E non avevo un'armatura miracolosa», ribatté l'attore con impertinenza, evitando però accuratamente di descrivere le precise circostanze in cui vi era riuscito. «Perché dovremmo risparmiarlo?» domandò Boëndal, più diplomatico del fratello. «Perché questo Eoîl è in grado di riconoscere il pezzetto di demone che
sarebbe sopravvissuto. Me lo ha detto Lirkim.» Tungdil rifletté. «Quindi la venuta degli avatar ha un lato positivo. Con l'ausilio del loro capo riusciremo a trovare l'ultimo avanzo di quella antica minaccia.» Annuì, rivolgendosi a Rodano. «Risparmiare l'Eoîl ha senso, allora.» «Il Fanfarone avrebbe potuto dirlo subito», borbottò Boïndil. Fece ruotare la mola e iniziò ad affilare le sue asce. «Che facciamo allora? Ce lo trasciniamo con una catena per la Terra Nascosta aspettando che c'indichi qualcosa?» «Posso pensare che l'ultimo resto del demone si trovi in un posto in cui c'è dell'Acqua Nera, o in una Foresta Disanimata.» Boëndal infilò le dita nel cinturone. «È probabile, no? Gli uomini dicono che là dentro la gente impazzisce. Che sia opera del demone?» «Prima pensiamo a prendere Porista e a sconfiggere gli avatar, poi ci occuperemo di tutto il resto», concluse Tungdil. Prese i pezzi della sua armatura che erano già pronti e si avviò verso la sua tenda, per ristorarsi. Il lavoro in fucina gli metteva fame. Più tardi s'incontrarono nella tenda consiliare, dove la regina Xamtys li attendeva con buone notizie. «Glaïmbar, Balendilïn e Gandogar hanno rioccupato i loro regni e manderanno i loro eserciti a Porista per aiutarci. Il principe Mallen cercherà di arruolare nuovi volontari e ci ha scritto che re Belletain si è scrollato di dosso il suo ottenebramento - e pure il suo guaritore della stirpe dei Terzi - e che gli ha chiesto il permesso di poter inviare un esercito attraverso l'Idoslân. Comunque, nessuno di loro riuscirà ad arrivare in tempo per la battaglia, a parte forse i diecimila soldati di Belletain.» «Questi diecimila soldati sono quello che ci serve. Prenderemo Porista», dichiarò Tungdil, deciso. «Furgas mi ha promesso di costruire le migliori macchine d'assedio nel più breve tempo possibile. Entro quattro rotazioni cominceremo il tiro sull'esercito nemico, in modo da ridurne gli effettivi prima del combattimento vero e proprio. Poi ci creeremo una via d'accesso alla città. Due brecce saranno più che sufficienti, e conosciamo il punto debole di Porista.» «E pensare che l'avevamo ricostruita così bene...» si lamentò Rodario. «Speriamo di non colpire il mio Curiosum.» Si avvicinò all'uscita. «Parlerò di nuovo con Lirkim.» Tirò indietro la pesante pelle che faceva da isolante. «Credo di poterla indurre...» Un chiaro bagliore irruppe nel crepuscolo invernale. Un sole grigio
sporco precipitava dalle nuvole cariche di neve, puntando direttamente verso il campo dei nani. Le grida terrorizzate delle sentinelle animarono le tende; i nani uscirono all'aperto imbracciando armi e scudi. Tra loro vi era anche Narmora, che distese le braccia per lanciare un incantesimo di difesa. Ma non le riuscì in tempo. La sfera si colorò di verde e perse parte della sua luminosità, prima di sfondare con forza il tetto del capanno del carbone; dalle finestre e dalla porta uscirono vampate color malachite lunghe come lance, e la piccola costruzione collassò su se stessa tra le fiamme. Subito i nani circondarono le macerie e iniziarono a gettarvi sopra della neve per impedire che il fuoco si propagasse alle tende. Rodario fissò quell'inferno cui nessuno poteva essere sopravvissuto. «Lirkim...» sussurrò, turbato. Davvero non portava fortuna alle donne che incontrava. *
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L'Eoîl li aveva avvisati che la sua forza non era da sottovalutare, e che era in grado di punire un tradimento anche da grande distanza. Per quel motivo fecero di tutto per costruire ancora più in fretta le macchine da tiro. Furgas le progettò in modo tale che potessero scagliare grandi rocce, tronchi d'albero e ceppi irti di chiodi; non disponevano di olio o petrolio, per cui a ferire i nemici sarebbe dovuto bastare il peso dei proiettili. Gli esploratori degli albi riferirono che l'esercito degli avatar si stava concentrando sulla difesa di Porista e che non avrebbe cercato di decidere la guerra con una battaglia davanti alle porte della città. Avrebbero evitato il campo aperto e avrebbero lasciato che fossero gli albi e i nani a condurre un attacco sanguinoso. Poi la temperatura crebbe, e il paese fu avvolto da fitte nebbie; nessuno dei due schieramenti avrebbe visto molto. Neppure i nani rimasero inattivi. In quanto esperti minatori, scavarono un tunnel fino alla condotta in cui erano passati Tungdil e i suoi amici per recuperare Dorsa e Balyndis. Stando al piano, alcuni dei guerrieri scelti dei Terzi avrebbero percorso quel tragitto insieme con un manipolo di albi, e avrebbero preparato il terreno per Tungdil, i gemelli e altri guerrieri dei Primi e dei Liberi. Nel migliore dei casi, sarebbero riusciti a sorprendere e a sbaragliare i difensori. Nel frattempo Narmora, Rodario e un'altra parte dell'esercito avrebbero
condotto degli attacchi diversivi in due punti delle mura per far credere agli avatar che i nani intendessero conquistare la città con un assedio tradizionale. «Concentreremo il tiro sulle torri e sugli spalti delle mura», propose Furgas. «Così ridurremo al minimo le vittime tra i civili. Gli abitanti della città hanno già patito duramente l'occupazione degli stranieri e patiranno ancora durante i combattimenti per le strade.» Gli alleati erano d'accordo. Alla settima rotazione sorse il giorno che avrebbe deciso il destino della Terra Nascosta. Il sole faticava a farsi strada tra le fosche nubi. L'aria rimase brumosa e grigia; non nevicava, ma vi era la consueta cortina di nebbia. Tungdil prese commiato da Balyndis, che, a causa delle sue condizioni di salute, sarebbe rimasta nelle retrovie. I due si scambiarono un lungo, amichevole abbraccio, e perfino un osservatore attento avrebbe stentato a capire la profondità dei loro veri sentimenti. «Ci rivedremo», le promise inspirando profondamente il suo profumo. «Al più tardi, nella Fucina Eterna di Vraccas.» Lei deglutì. «Il Fabbro divino ti proteggerà. Sei già stato un eroe, e lo sarai di nuovo.» «Sicuro quanto la morte degli avatar», disse il Rabbioso ridendo sotto i baffi. «Ci siamo noi con te, no, Sapientone?» I gemelli strinsero la mano alla nana, poi serrarono le file col cupo reparto composto da albi e Terzi. «Stanno bene insieme», commentò il Rabbioso, mentre li guardava disgustato. «Le loro anime sono nere, come i tatuaggi degli uni e le armature degli altri. Io ti ringrazio, Vraccas, perché non si sono mai alleati.» L'uno dopo l'altro scivolarono nell'angusto tunnel e strisciarono in avanti a carponi, cosa non piacevole, viste le armature che portavano. Più di una volta rimasero impigliati in qualche radice e dovettero farsi largo tra fango e terra fredda. Presto iniziarono ad avvertire lievi scosse, dalle quali dedussero che le macchine d'assedio avevano cominciato il loro lavoro, bombardando i soldati degli avatar con pietre e tronchi d'albero. Ogni tremito indicava un colpo. Manciate di terra, ma anche blocchi più grandi, si staccavano dal soffitto improvvisato del loro basso cunicolo; col tempo, sarebbe crollato sotto la sollecitazione delle vibrazioni anche senza ricevere un colpo diretto. Tungdil e i gemelli continuarono ad avanzare
strisciando; non serviva a nulla lasciarsi paralizzare dalla paura, anche se l'avvertivano. Alla fine raggiunsero la condotta, che si era già riempita di albi e di Terzi. «Oh, adesso sì che raccoglie i rifiuti», scherzò il Rabbioso. «Ma solo da quando sei arrivato», replicò uno dei Terzi, digrignando i denti. «Adesso puzza anche di pantaloni pieni.» Boïndil fece per lanciarsi contro il Terzo, ma Tungdil si mise in mezzo. «Usa la tua furia contro gli avatar, non contro le persone a fianco delle quali combatterai», lo rimproverò. «E comunque hai cominciato tu, per cui non stupirti se ti ha insultato. Quando gridi in una caverna, quello che hai detto riecheggia.» Imprecando, il Rabbioso abbandonò il suo proposito. «Sta bene. Ma solo perché sono di buon umore.» Attesero finché la condotta non fu piena di guerrieri, poi Tungdil fece segno di andare all'esterno. Uscirono senza difficoltà. Gli avatar non pensavano che i loro nemici sarebbero arrivati per la via che avevano usato la prima volta. Gli albi assunsero l'avanguardia. Cinquanta di loro scivolarono come ombre tra i vicoli di Porista, tenendo sotto controllo i dintorni. Poco dopo si sentì un debole fischio. A quel punto si misero in movimento i Terzi. Raggiunsero la superficie, si sparsero per la piazza del mercato e si lanciarono verso il palazzo, pronti ad abbattere con mazze, asce e mazzafrusti qualunque cosa ostacolasse loro l'avanzata. Tungdil e i gemelli li seguirono. *
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Furgas osservava le traiettorie dei proiettili, e a ogni lancio correggeva l'angolo di regolazione delle macchine fino a che i conci, i massi e i grossi ceppi non si abbattevano precisamente dove voleva lui. La nebbia gli limitava la vista, senza però rendergli impossibile il lavoro. I proiettili stavano risparmiando le case degli abitanti, abbattendosi invece sulle torri, danneggiando i masti, aprendo squarci nelle porte e distruggendo parte dei camminamenti. I difensori non avevano nulla del genere con cui rispondere. Completamente indifesi, potevano soltanto aspettare che quella pioggia letale finisse
e che cominciasse la tempesta vera e propria, in cui finalmente avrebbero potuto combattere guerriero contro guerriero. «Gli avatar restano nelle retrovie.» Balyndis stava seguendo la battaglia dalle macchine, poste a distanza di sicurezza. Furgas annuì e diede il segnale per la salva successiva. Le funi vennero tagliate, i contrappesi dei lunghi bracci di legno si abbassarono bruscamente e scagliarono le pietre, che volarono in aria descrivendo alte parabole. L'obiettivo era frantumare il tetto delle torri di sorveglianza e uccidere i soldati che vi stavano cercando protezione. «Mi stupisce che non ritengano necessario aiutare la loro gente», commentò Furgas. Iniziò il procedimento di ricarica, che richiedeva parecchio tempo e rendeva necessario l'uso dei muscoli. Furgas non disdegnava di metterci mano, e manovrava un argano. «Non che voglia suggerire agli avatar una pessima idea, ma queste macchine sono un bersaglio perfetto.» Balyndis guardò le mura, che distavano circa duecentocinquanta passi, in cui si era creata una vistosa crepa. «Lo so, Furgas. Ma questo significa che sono impegnati con qualcosa di più importante della battaglia.» «Pensi che stiano manipolando la sorgente a loro favore?» L'uomo rivolse lo sguardo sulle cime delle case, che in alcuni punti superavano l'altezza delle mura, ma la nebbia non accennava a diradarsi. Non riusciva a vedere al di là dei bastioni di Porista. «Va da Gemmil, Xamtys e Narmora», disse alla nana. «Devono decidere loro quando iniziare l'attacco.» Un freccia incendiaria di colore verde volò dietro le mura della città, brillando visibilmente attraverso la nebbia. Gli albi erano entrati attraverso la condotta e facevano il segnale concordato per comunicare che stavano cominciando l'attacco. «Interrompete il tiro sugli spalti», gridò Furgas. «Attaccate solo le porte.» I nani delle stirpi dei Liberi e dei Primi, che tenevano delle bende davanti agli occhi per proteggersi dalla luminosità delle armature dei nemici, presero su ordine dei loro comandanti le scale da assalto e partirono al trotto verso le mura, per impegnare i soldati degli avatar su due fronti. Contemporaneamente, cominciò anche l'assalto sul lato nord della città, dove Lorimbas e i suoi Terzi, insieme con Rodario, conducevano un attacco diversivo per confondere ancora di più i difensori. Furgas guardava impressionato la moltitudine di nani che si muoveva verso Porista. Se un vero dio non fosse giunto in loro aiuto, i falsi avatar
avrebbero sicuramente perso la battaglia e sarebbero stati battuti per sempre. Tra i nani scorse l'alta figura di Narmora, che portava la sua armatura e, sopra, un abito rosso scuro. Anche se non ti venera, Palandiell, proteggila, pregò pieno di preoccupazione. Se lo è meritato. *
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Raggiunsero l'ingresso del palazzo senza che un solo guerriero bloccasse loro la strada. Non capisco. Nessuno cerca di fermarci. Che ci stia aspettando una grossa sorpresa? Tungdil non degnò la porta principale neppure di uno sguardo. Era insensato cercare di aprirla con la forza, e arrampicarsi era un suicidio. I dispositivi di protezione contro i visitatori indesiderati erano ancora in funzione, e ciò significava che chiunque cercasse di arrampicarsi sul muro rimaneva impigliato in cima da un'invisibile barriera magica, come una mosca in una ragnatela. La vista delle ossa sbiancate di chi ci aveva provato riportò alla ragione anche i più spavaldi guerrieri dei Terzi. Tungdil li condusse in un vicolo laterale e di lì fino alla porta segreta che Furgas aveva mostrato loro, e ripeté la formula con la stessa intonazione usata da Ondori. Quella volta la porta obbedì al primo tentativo, aprendosi verso l'interno, ma una freccia vi passò subito attraverso, colpendo alla spalla il Terzo che stava accanto a Tungdil. «Mi sembrava troppo facile», brontolò Boëndal schiacciandosi contro la parete. «È soltanto una sfida, niente di più», commentò Boïndil, allegro. «Speriamo che dietro gli arcieri ci sia qualche guerriero vero al quale mostrare le mie asce.» Uno dei Terzi pose quattro scudi l'uno sopra l'altro e li legò insieme con un cinturone, preparandosi ad avanzare attraverso il passaggio. Dietro di lui si raccolsero altri che si stavano attrezzando alla stessa maniera, in modo da costruire solidi ripari per i guerrieri che li avrebbero seguiti. Agivano in modo autonomo, nessuno aveva chiesto a Tungdil che cosa fare. Probabilmente non avrebbero neppure accettato ordini da parte sua; mettevano in atto ciò che Lorimbas aveva chiesto loro: fare tutto ciò che occorreva perché i tre nani potessero raggiungere gli avatar e ucciderli. «Pronti?» chiese uno dei guerrieri tatuati a Tungdil, che rispose con un
cenno del capo. «Andiamo!» I nani si lanciarono all'interno. Sentirono sibilare delle frecce, ma gli spessi scudi le trattennero. Dietro la loro solida copertura, i Terzi fecero irruzione nel giardino in cui erano attesi dai soldati. I panni con le fessure per gli occhi li aiutavano contro il bagliore, che comunque non possedeva la stessa intensità che aveva le prime volte che avevano incontrato i guerrieri degli avatar. La magia che impregnava le pietre lunari si stava indebolendo per motivi ignoti ai nani. I Terzi si avvicinarono agli arcieri per ingaggiare battaglia. Ben presto fu chiaro che avevano a che fare con avversari altrettanto forti. Per ogni caduto, due soldati avanzavano coprendo il buco lasciato. Si difendevano dai nani accanitamente, con la forza della disperazione, cercando d'impedire il prosieguo dell'incursione nemica. «Guardate!» fece il Rabbioso, indicando la seconda torre per altezza. «Che cos'è?» Indicava una debole luce che proveniva dalla cima. Non riuscivano a vedere meglio, perché il bagliore, pur filtrando attraverso le nubi, rimaneva occultato dalla nebbia. «Gli avatar sono lì sopra? Ma che ci fanno là?» «Uno almeno è qui», disse una voce di uomo dalla balconata. Una figura circonfusa di luce levò le mani, materializzando due sfere di fiamme dorate. «E questo avatar vi distruggerà. Non dovrete più preoccuparvi del male nella Terra Nascosta.» Le sfere ardenti volarono in mezzo all'ammasso di Terzi. *
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Narmora raggiunse rapidamente il muro, salendo una scala. I difensori gettavano le pietre in modo troppo impetuoso e non la colpirono. Giunta in alto, prese le armi dalla cintura. Una era costituita da due lame curve, a forma di mezzaluna, innestate su un breve pezzo di metallo, una a destra e l'altra a sinistra. La seconda era