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Italian Pages 97 Year 2004
Intervis te e saggi brevi
Umberto Galimberti
La lampada di Psiche Il mra di Paolo Belli
Introduzione
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Seconda edizione: aprile 2004 2001 , Edizioni Casagrande s.a., Bellinzona In copertina:
Figura mitologica femminile, disegno a penna di Antonio Rinaldi (Pinacoteca Zli,l) Progetto grafico: Nancy Ranfi e Marco Zooo e nel 2001. L'ultimo inten·ento, Tcrrommo. p,Jil'rra .wnta e scontro di Ctl'ilttì, i: stato raccolto pochi giorni dopo la traged ia dell' 11 settembre 200 1. T rascrivendo queste conve rsazio ni, ho cercato di man te nere il più possibi le la Freschezza c la mobilità del parla to, anche a costo di qualche Forzatura sint attica. Va pure ten uto presente che le citazioni di altri autori, anche quando racchiuse tra virgolette (per facilitan: la lettura), ricmergono dalla memoria e si innestano in un discorso orale che se ne appropria senza nessuna pretesa di correttezza filologic>, guai a prevaricare, 54
guai alla tracotanza, guai a oltrepassare il limite! Era una società dove il concetto di morte regolava l'etica. Se sei mortale sei finito, non compiere azioni eccessive, conosci il limite, non trasgredire! I trasgressori, coloro che oltrepassavano i limiti, erano gli eroi tragici. Dice Nietzsche: «La grecità sarebbe implosa se non avesse avuto una speranza»; e allora ecco Platone che introduce il concetto di anima, che è l'espediente in qualche modo dell'immortalità. Un'anima che non ha lo spessore dell'anima cristiana, è un'anima più come luogo della verità che come luogo della salvezza. Per i greci infatti non c'era un peccato originale da cui bisognava redimersi e poi salvarsi. C'era quindi una certa economia dell'uomo come animale finito nelle sue azioni, il quale può avere una speranza che tuttavia non garantisce assolutamente una vita ultraterrena. Per i cristiani invece il desiderio di immortalità è diventato infinito, anzi io sono convinto che il successo del cristianesimo è consistito esattamente nell'aver promesso speranze ultraterrene, rispetto alla cultura precedente che di speranze ultraterrene non ne aveva in nessun modo. Oggi ci troviamo invece nell'età della tecnica che ha depotenziato tutto il mondo della religione, perché la tecnica c1 55
consente di raggiungere, da noi, le cose che un tempo chiedevamo a Dio. Questa seco larizzazione della religione e questa sua sparizione (la morte di Dio di Nietzsche), ha il senso di affermare che Dio non è più la chiave interpretativa del mondo, perché altre sono le chiavi. Dio è morto; ed ecco che si ripropone il tema della morte in termini molto più drammatici di quanto non fosse nel contesto religioso, dove la morte era comunque un passaggto. La differenza tra l'ateo e il credente, la differenza radicale, qual è? È vero che entrambi credono (che ci sia una ulreriorità oppure che non ci sia), ma proprio per effetto di questa fede si modifica la qualità della vita. Perché colui che crede che c'è un'immortalità che magari si guadagna con il dolore, affronterà il dolore della vita in una chiave radicalmente diversa rispetto a colui che crede che il dolore non sia una caparra per l'aldilà ma se m plicemente una sofferenza che bisogna temere. È vero dunque che le due posizioni di chi crede e di chi non crede sono speculari, in entrambi i casi possiamo parlare di fede, ma la diversa qualità di questa fede modifica la qualità della vita. L'ateo è colui che costruisce un'etica del finito, che ron assume il dolore come caparra per la salvezza eterna, che vive nel suo limite e
concepisce la vita come mescolanza di gioie e dolori, accettandoli entrambi con estrema semplicità. L'atteggiamento è sostanzialmente quello greco. Quello cristiano, invece, prevede che il dolore sia una caparra per la salvezza, che la gioia verrà rinviata all'a ldilà e sotto questo profilo la capacità di consegna alla rassegnazione, all'accettazione del dolore è decisamente su peri ore rispetto a quella dell'ateo. G ià Marx faceva notare che la religione è l'oppio dci popoli, proprio per effetto di questa capacità di far tollerare il dolore in vista dell'aldi là; ma, diceva freud, anche a vantaggio di coloro che lo infliggono nell' aldiquà! Il p roblema del nostro tempo è che la morte c'è comunque, visualizzata come trapasso o come termine ultimo della mia esistenza. Come trapasso non è più accreditata come una volta, perché il mondo si è ateizzato e vi è oggi una diffusa capacità di pensarla come termine ultimo della vita (quindi la vita come riverbero di insignificanza). Mi pare che sia questo un motivo dilagante e tutto sommato anche il sottosuolo dell'atteggiamento depresso dell'occidentale.
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Il fallimento della modernità
Libertà, e[!,uaglianza, fratellanza: i tre principichiave della modernità (grande conquista della Rivoluzione francese, e chiave di volta delle democrazie occidentalt), paiono oggi particolarmente appannati. Per quali ragioni? Siamo soliti considerare la modernità come il tempo in cui si è cercato di far valere delle figure che la Rivoluzione franc ese ha indicato nelle parole libertà, uguaglianza e fra tellanza, guardando le sorti delle quali verrebbe da dire che la modernità è effettivamente fallita e io sono convinto che sia fallita. Se parliamo di libertà, già Marx aveva detto che la libertà cammina proporzionalmente alla quantità di denaro che si possiede, perché è chiaro che se io sono ricco sono più libero rispetto al povero. Ricordo che a Treviso avevo letto in un'osteria che se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria! La libertà è quindi pesantemente condizionata dall'economia.
Sull'uguaglianza si sono considerate due cose: l'uguaglianza degli uomini oppure l'uguaglianza per la soddisfazione dei bisogni. C i ha provato il comunismo e sembra che non ci sia riuscito. Il capitalismo non ci ha neppure provato, quindi l'uguaglianza diventa qualcosa che noi rivendichiamo di fronte a Dio post mortem. La fratellanza è un concetto che si è capito sempre poco, ma è invece il cardine degli altri due. Fratellanza vuol dire che io devo percepire l'altro (insisto su questa parola, perché l'altro è percepito come altro solo se lasciato nella sua alterità), lo devo percepire come mio fratello, come mio simile. D evo tuttavia !asciarlo nella sua alterità; mentre noi, oggi, quando siamo buoni, accettiamo gli altri solo nella forma dell' integrazione, quindi annullando la loro alterità: solo se tu diventi come uno di noi allora ti accettiamo! Neghiamo quindi l'alterità. La negazione dell'alterità è la negazione della differenza (e anche la negazione di una ricchezza). L'alternativa è: rifiutare l'altro. Si potrebbe dire: dimmi come accetti (o rifiuti) gli altri e ti dirò chi sei. Il problema della fratellanza (e del suo rovescio, l'alterità) è il riconoscimento dell'alterità, che viene recepita da noi solo sotto il profilo della sofferenza. Ci mobilitiamo quando gli altri soffrono. 59
Ridurre tuttavia il problema dell'alterità a quello della soH"erenza significa che con la parola fratellanza (e con il rispetto dell'alterità), percepiamo solam ente un prob lema assistenziale c non un problema di riconoscimento. La questione del riconoscimento è un problema classico, fondamentale, identificatorio, che identifica la condizione umana. Hegel dice che gli animali si aggrediscono per fame, gli uomini si aggrediscono per riconosc imento. Vogliono essere riconosciuti. Se il riconoscimento è il fondamento della mia identità e la mia identità viene sa lvaguardata dal riconoscimento dell'alterità, mi pare che il problema della frate llanza (che è il luogo, la forma, il terreno in cui accade il riconoscimento dell' identità e dell'alterità e quindi della fratellanza), sia un tema che si propone in maniera minacciosa in questo tempo. È inutile fare leggi razziali, sarebbe come pensare che un romano poteva difendersi dai barbari facendo delle leggi di esclusione! I processi di globalizzazione portano in evitabilmente al la global izzazione anche degli uomini. Questa è dunque una questione che pende minacciosamente sulla nostra testa di occidentali, difesissimi dal punto di vista tecnico, ma difesi da uno stru mento che, per quanto potentissimo, è anche fragilissimo. 6o
La tecnica potrà infatti risolverei molti problem i, ma non quello etico del riconoscimento dell 'altro, che sarà la condi zione della pace futura. Il fa llim ento di questi tre concetti rimanda allora a un altro fallim ento, o meglio, più che fallimento a un'altra fine , quella che io considero la fine dell' umanesimo. In che senso( Lihertà, uguaglianza e fratellanza sono tre categorie che prevedono un'etica a misura d'uomo. La mia persuasione è che l'uomo oggi non è più interessante, dal punto di vista degli apparati tecnici, che sono i veri regolatori della nostra cultura, perché la tecnica individua l'uomo esclusivamente come suo funzionario. Noi lo sappiamo e soffriamo di andare a lavorare per esempio in cooperazioni che sono già previste dall' apparato e dove la nostra individualità conta pochissimo, per cui il nostro riconoscimento, troppo logico, è nullo. L'uomo oggi non c'è più perché percepito so lo come funzionario dell'apparato tecnico. Nei confronti della tecnica abbiamo un atteggiamento molto ambivalente. Da un lato la temiamo, dall'altro la rincorriamo perché è diventata la cond izione della nostra esistenza. Noi occidentali siamo uomini assistiti dalla protesi tecnica. Questa ambivalenza si riflette 61
anche nei nostri giudizi abituali, quando succede per esempio un disastro ferroviario diciamo che c'è un errore umano che dovrà essere eliminato attraverso l' intervento tecnico. Quindi concepiamo già l'uomo come un errore, già a livello di senso comune, di sensibilità popolare. Ora io sono persuaso che l'uomo come l'abbiamo conosciuto non c'è più. Queste tre parole, libertà, uguaglianza, fratellanza, cedono perché è ceduto il soggetto. L'uomo non è più colui che governa la storia: egli è governato dagli apparati tecnici, i quali non hanno come scopo di far star meglio gli uomini, perché l' unico scopo della tecnica è il . . propno potenzlamen to. Il fa llimento dell a modernità è dunque la chiusura della vicenda umana, nel senso dell' «homo homini s» che abbiamo conosciuto per 2500 anni di storia: prima di allora non c'era l'umanesimo, oggi non c'è più l'umaneSlmo.
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La crisi della psicanalisi
La psicanalisz; dopo aver compiuto la bella età di cento anni (dalla pubblicazione de/l'Interpretazione dei sogni, il saggio di Freud unanimemente conszderato il suo atto di nascita) appare come una disciplina in crisi. Sempre meno sono i pazienti disposti ad affrontare il lavoro analitico. La farmacologia appare a molti un rimedio più facile e meno costoso. C rande successo hanno le psicoterapie brevi e finalizzate a trattamenti Jpecifià E così la scienza dell'inconscio, come la definiva Freud, sopravvissuta al nazùmo, rischia di non sopravvivere all'età della tecnica. Per quali ragioni? Lo scopo della psicanalisi era fondamentalmente la conoscenza di sé, cioè la psicanalisi è una terapia che guarisce. M a cosa vuol dire guarigione nel contesto psicanalitico? Guarigione vuol dire che devo arrivare a me stesso al di là di tutte le incrosrazioni che ho ricevuto dal mondo parental e, da l mondo sociale, dalle esigenze degli altri. Se arrivo a me stesso e conosco quel che sono posso
anche piegarmi e assecondare le esigenze degli altri, ma con consapevolezza. La guarigione psicanalitica consiste nella guarigione di sé, come dice Freud; o nel diventare se stessi, come dice Jung. Cose che peraltro aveva già detto Nictzsche: diventa ciò che sei! Il problema, oggi, è questo: alla tecnica interessano degli uomini individuati? Interessano degli uomini che conoscono se stessi? Io penso di no, perché alla tecnica interessano uomini seriali, sostituibili, abbastanza simili, perché in un processo di azioni già in qualche modo previste dagli apparati, l'individuazione è un elemento di disturbo. Quindi ciascuno di noi cercherà sempre meno di individuarsi quanto a specificità umana, e di farsi notare invece sempre di più nella sua coerenza alle attese degli apparati. Ne conseguono processi d i falsificazione di ' personifica%ione, che già Marx indicava. Persona vuoi dire maschera, io indosso la maschera sociale e anche la maschera d'ufficio ogni volta che vado a lavorare; mi produco in un linguaggio previsto dalla mia organizzazione, se vado in banca parlerò un linguaggio bancario e non un linguaggio umano, perché se parlo un linguaggio umano compio delle deroghe. Quindi è la tecnica stessa che m1 Invita a non essere me stesso, ma a essere
conforme all'apparato. Esercitandomi per cinque giorni alla settimana a essere conforme all'apparato, dimentico mc stesso; c'è quindi una sorta di riduzione della conoscenza di sé e una certa angoscia a iniziare un percorso di conoscenza di sé. Preferisco seppellire l'angoscia con dei farmaci, o con degli ottundimenti, o con delle feste, o con delle distrazioni, piuttosto di pervenire a uno sguardo su me stesso. A questo si deve aggiungere che una volta le psiche degli uomini erano molto difierenziate, perché ciascuno faceva un'esperienza differente del mondo. Oggi per fare esperienza del mondo, invece di uscire di casa, dobbiamo tornare a casa, accendere la televisione e la nostra anima viene rifornita dallo stesso mondo. Tutti siamo riforniti dallo stesso mondo, diventiamo quindi più omogenei e anche coloro che non accendono la televisione finiscono per sapere quello che gli altri sanno. Questa omogeneizzazione fa sì che quando due si incontrano non abbiano sostanzialmente nulla da dirsi. La psiche diventa un evento molto superficiale, soprattutto ci si difende dall'introspezione di sé. Al posto della psicanalisi subentrano pra tiche terapeutic he sviluppatesi sotto il segno del comportamenusmo e del
cognitivismo, dove se hai un' idea di storta rispetto all'ambiente sociale è meglio che la modifichi, se hai un comportamento deviante è meglio che te l'aggiusti: si tratta insomma di psicologia dell'adattamento e non di psicologia della conoscenza di sé. Siccome la tecnica non è qualcosa che ci passa a fianco, ma è il mondo in cui viviamo, questo mondo impone le sue leggi c per sopravvivere non possiamo che adeguarci. Ciò comporta la morte dei processi di conoscenza e l'incremento dei processi di adattamento. Naturalmente la fine dell'uomo come individuo e come curioso di sé comporta anche la fine della psicanalisi, perché conoscere se stessi non è una curiosità come le altre, è un percorso interiore che implica delle difficoltà in ordine alla qualità delle scoperte che si vengono a fare rispetto all'immagine di sé che si vorrebbe e che gli altri vorrebbero da noi. Io credo che questo tipo di percorso diventerà sempre più raro, per la semplice ragione che se l'uomo conta più per la sua prestazione che per quello che è (quando per esempio ci si trova in una riunione e uno mi dice il nome non mi dice niente, se mi dice que llo che fa incomincio a orientarmi), se c'è questo spostamento dall'essere al fare, allora è chiaro che nessuno è portato alla conoscenza di se, ma
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sarà sempre più attratto dalle proprie prestazioni, e di quelle avrà cura. Siccome la psicanalisi non ha cura della prestazione, ma dell'essere di ciascuno, la scienza dell' inconscio non può che ridursi ai margini come pratica di esseri che appariranno sostanzialmente eccentrici per la qualità della loro ricerca.
La comunicazione nell'era di internet
La rete comunicativa Ira persone e popoli si è infinita nep.,li ultimi anni come mai prima nella storia, soprattutto con la P,rande rivoluzione di internet. Nuove importanti trasformazioni sono annunciate a breve termine. Come internet e le nuove frontiere della comunicazione cambiano la qualità delle comunicazionifra le persone? Internet ha portato una rivoluzione in ord ine al pensiero, in ordine alla comunicazione e anche un po' di confusione tra parole che sembrano simili, ma simili non sono, come comunicazione e informazione. Mi pa re che l'elemento unificante tra il «prim a-inte rne t» e il «dopo-internet» sia la parola memoria. La memoria ha sempre costituito nell'uomo il fondamento della sua id e ntità, perch é se io non mi ricordo di me, se non ho me moria di me, non so più chi sono. Di consegue nza è il fondamento della tradizione d ella memoria di gruppo che consente a me che nasco di trovarm i in un ambiente con degli usi e dei 68
costumi che mi conferiscono un habitat c una dimensione. Questa memoria oggi noi la ritroviamo come categoria principale del mondo mediatico di internet. Solo che si tratta di una memoria come puro assemblaggio e accumulazione di dati, qu indi non più una memoria connessa alla qualità della mia id entità o alla qualità della mia vita, ma un magazzino dove io posso intervenire, assemblare, accumulare, togliere, espellere, adunare. Questo tipo di memoria è una disponibili tà, ma tutto ciò che è a disposizione prevede anche dei sogge tti che la sappiano utilizzare. Il soggetto, privato di pensiero, privato di identità, privato di memoria, si trova anche ad essere un soggetto molto elementare rispetto alla quantità di dati di cui può disporre. Siccome un magazzino è interessante non tanto per la quantità d i cose che possiede quanto per la capacità di utilizzare quello che si possiede, questo scarto è secondo me insupcrabile, perché andremo sempre di più verso un'accumulazione di dati ad opera di soggetti sempre meno capaci di disporne. Non vorrei che la gente pensasse che con internet si comunica di più, perché non posso chiamare comunicazione gli e-mail che si mandano; sono battute quelle, non sono
comunicazioni! La comunicazione prevede una relazione dove non c'è solamente il significato scritto di una parola, c'è la mimica, c'è lo sguardo, c'è quel doppio registro per cui le parole vengono confermate dalla gestualità c dalla mimica, o vengono trasformate dallo sguardo dell'altro. Per il resto si danno delle informazioni (arrivo l non arrivo; le cose sono fatte l non sono fatte, ccc.), che è altra cosa rispetto alla comunicazione. Soprattutto disponiamo di una possibilità di inform arci ben superiore alle cose che abbiamo effettivamente da dire. Non abbiamo una sensibilità c una produzione di pensiero grande come grande è il mezzo; abbiamo cioè un mezzo comunicati vo enormemente più ampio rispetto a quello che abbiamo effettivamente da comunicare. Un mezzo comunicativo di questo genere ci dà un senso di onnipotenza, ma questo non compensa l'impotenza del nostro pensiero, un pensiero che diventa sempre più povero, perché pensare non significa trasmettere velocemente dei dati, ma significa elaborare dei dati. Questo processo di elaborazione viene trascurato anche nelle scuole, anche nei processi di formazione dove non si forma l'uomo ma lo specialista. Qual è insomma il contenuto da comunicare? Il contenuto non ce lo dà il mezzo! )
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Dobbiamo considerare infine che il mezzo di comunicazione ci modifica, indipendentemente dall'uso buono o cattivo che ne facciamo: il solo fatto che io per comunicare usi internet mi modifica. Perché una cosa è comunicare con quel mezzo, a ltra cosa è comunicare guardandoci in faccia. Per cui i mezzi di comunicazione trasformano l'uomo indipendentemente dall'uso che se ne fa. Noi diventiamo una sorta di erem iti di massa, non dissimili da quelli che r5oo anni fa vivevano in Cappadocia, si ritiravano dal mondo nella loro grotta; loro per non vedere più il mondo, noi per non perdere neppure un frammento di mondo, ma con lo stesso solipsismo e con la stessa solitudine.
Pensare, esercizio obsoleto
L 'esercizio del pensiero è stato uno dei tratti fondamentali delle discipline umanùtiche. Imparare a pensare è quanto per secoli si è insegnato nelle migliori scuole e accademie, nobilissimo fine della pedagop,ia e della filosofia . Ma questi oggi sembrano principi ormai obsoletZ: Ciò che conta è l'acquisizione di una pratica, o di una conoscenza tecnica. L 'approfondimento del pensiero filosofico appare sempre più una disàplina superflua. Imparare a pensare sembra essere diventato un esercizio inutile. È un cambiamento epocale, che .regna il prevalere di una logica economica. Con quali conseguenze? La filosofia è stata superata dalla scienza, su questo non c'è alcun dubbio. Vediamo la qualità di questo superamento. La qualità consiste in questo, che la scienza è efficace, produce delle cose, crea mondi, mentre la filosofia contempla mondi. A questo riguardo non farei nessuna differenza fra la scienza e la tecnica. Nel senso che non considero la tecnica
un derivato della scienza, ma considero la tecnica l'anima della scienza. Perché lo sguardo dello scienziato non è mai uno sguardo contemplativo e disinteressato; è sempre uno sguardo che ha in vista la manipolazione del mondo c la sua trasformazione. Sarebbe come se in un bosco ci andassero un poeta e un falegname: non è lo stesso paesaggio che i due vedono! La filosofia è il poeta che va nel bosco, contempla il mondo, riflerte, pensa. Successivamente elabo ra un atteggiamento critico, c ioè si tratta d i vedere se l'esistente ha una sua legittimità, oppure serve interessi vari e merita di continuare a dirigere la storia, oppure se l'esistente debba essere modificato. Questo che noi chiamiamo «pensiero critico» è il tratto tip ico della filosofia. Oggi non ci troviamo più di fronte a un pensiero critico, ma a un pensiero specializzato. È questa la ragione per cui Heicleggcr ha c..! etto che la scienza non pensa perché l'uomo specializzato è l'uomo che non pensa in quanto segue procedure. Quello che a lui importa è vedere dove la procedura conduce. Quello ch e a lui importa è il risultato di una procedura, non la legittimità, l'opportunità, l'utilità, il vantaggio, lo svantaggio, i problemi che può creare, il risultato ottenuto da quella procedura. Infatti gli scienziati si proclamano sempre 73
innocenti. Lo stesso Ferm i, interrogato sul la bomba atomica, diceva: sì, mi sono reso conto di quello che ha fatto la bomba atomica, ma potevamo noi evitare questa ricerca c questa scoperta? Evidentemente no. E dunque la scienza, in quanto pensiero specializzato, produce l' aueggiamento mentale di chi non pensa criticamente, ma pensa produttivamente. Noi siamo passati da un pensiero critico, che è quello che ha caratterizzato l'umanità da duemila anni a questa parte, a un pensiero produttivo che produce delle cose, fa degli effetti, crea dei mondi, però non riflette sul senso di questi mondi. Questo è il tratto tipico del pensiero scientifico. Ora la mancanza di riflessione fa sì che noi raggiungiamo una condizione in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere e di valutare. Per cui ad esempio noi possiamo anche clonare gli uomini, ne siamo capaci, abbiamo la possibilità di farlo, ma non abbiamo nessuna capacità di valutare, di prevedere l' effetto di questa scoperta. Ci troviamo nella condizione in cui la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere e valutare, sebbene l'atteggiam ento previsionale, la messa in atto di uno sguardo che consideri e valuti l'opportunità di fare una cosa piuttosto che un'altra, sia la condizione necessaria per 74
individuare una direzione c una guida in questo mondo. Questa situazione era già stata prevista da Platone, il quale diceva che le tecniche sono capaci di/are le cose, ma non sono capaci di ualutare \e cose. Per questo aveva ipotizzato che accanto alle tecniche e al di sopra di esse ci fosse la politica, il cui compito era quello di indicare i fini per cui le tecniche dovevano produrre i loro effetti. Oggi assistiamo invece al fenomeno per cui la politica non è in grado di indicare i fini alla scienza, semmai è succube delle scoperte tecnico-scientifiche, e le ricerche tecnico-scientifiche producono delle cose senza la possibilità di valutare l'opportunità o meno di produrle. In questo senso sostengo che siamo come su un'automobile senza pilota, che va a trecento all'ora e anche di più, senza la possibilità di un governo. Questo comporta anche un secondo risvolto: nessun giovane è indotto a pensare c ri ticamente e prevarranno le specializzazioni produttive. Per cui avremo sempre più un'uman ità specialistica, competente in ordine al suo oggetto e acritica circa \'opportunità ch e quell'oggetto debba essere al mondo oppure no.
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La società d ella depressione
Una psicoanalista francese, Élùabeth Roudinesco, ha recentemente pubblicato un saggio ' in cui so.1·tiene che l'uso indi.1·criminato di psico/armacz; unitamente a una concezione asettica e meccanicistica della psiche e dei rapporti umam; /avorùce il di/fondersi di una «società depressiva>> che cancella ogni sogge!lività. È una tesi condivisibile? L 'età della tecnica sarebbe dunque anche l'età della depressione? Oggi viviamo nell'era della depressione, con questo non si scopre nie n te, perché l' umani tà ha sempre avuto una patologia egemone rispetto a tutte le altre, in ogni epoca storica. All'epoca dei greci la patologia egemone era la mania, che è poi l'euforia c la malinconia. Gli euforici erano allora i pazzi del villaggio; c i malinconici i po e ti , i filosofi e via di seguito. Nell' età mod erna con Cartesio, dopo la scoperta del corpo, tutti sono diventati Pcrd,,: la f'JICana lrll, ftlitori R1uni1i. Roma woo.
ipocondriaci, cioè avevano paura d i essere ammalati. Il filosofo Hegel ha avuto nel corso della sua vita un episodio di schizofrenia di due anni, che definisce come anni d'ipocondria (in real tà si trattava probabilmente di una dissociazione mentale, da cui era poi guarito). Nel l'Ottocento l'isteria - che era poi il conflitto tra desiderio sessuale e divieto della sessualità - era diventata egemone. Dall'analisi di tale conflitto, poi approfond ito ed elaborato da F reud, è nata la psicanali si. Il Novecento è senz'altro il secolo della depressione. La depressione era già nota prima, non a caso abbiamo parlato dell'antica Grecia come dell'epoca che aveva individuato la malinconia. Tuttavia la depressione ha cambiato volto nel «secolo breve». Mentre prima la malinconia, nella sua forma più grave, era connotata dal senso di colpa, dal rifugio del soggetto in un passato caratterizzato da colpe considerate irrimediabili, oggi invece la depressione non nasce più da una cultura della colpa, tipica delle società molto normate, molto regolate, molto dirette da impianti etici. Si diffond e una nuova forma d i depressione co me ins ufficienza a raggiungere gli obiettivi che ci vengono assegnati: ce la farò? o non ce la farò? Ecco quello che si domanda il depresso quando incomincia a capire che non ce la 77
farà! Il depresso di oggi non si colpevolizza, se non in second a battuta: siccome non cc la faccio non valgo niente! La nostra società, ponendoci d elle mete molto elevate ri spe tto agli standard abituali , ed elevandoli sempre più, moltiplica le condi zioni d'insuccesso e quindi di disidentità e di d epressione. Questo fe nomeno va valutato con attenzione. La depressione del giorno d 'oggi è caratterizzata come forma di insufficienza. Una conseguenza immediata è che vi si pon e rim edio attraverso la farmacologia, cioè si assumono farmaci per essere all' altezza. I farmaci aumentano lo standard delle nostre prestazioni e quindi diventano in qualche modo complici dell'elevazione d e llo standard , per cu i il farmaco non rimedia alla depressione, ma la tampona, alzando il livello di prestazio ne, quindi creando la pre messa per un' ul tcriorc d epressione. Ma penso che il punto nodale sia proprio questo: la depressione ha cambiato forma, non più il senso di colpa, ma il senso di insufficienza, tipico di un passaggio da una società dell'obbligazione, dove c'erano dei grandi regolamenti e quindi d e lle ipotizzabili trasgressioni, a una soc ietà dove ci sono invece altissimi obiettivi c grandi in suffic ienze a raggiungerli.
Pedofilia, il d esiderio inconfessabile
Nessun argomento suscita tanta indignazione e solleva tanti rigurgiti rel!,ressivi quanto d constatare che la pedo/ilia - una delle molteplici /orme della perversione- è una realtà con cui/are i conti. Una realtà psichica e una realtà economica, dato che esiste un commercio sommerso sia di porno[!,ra/ia (che prolifica z·n internet), sia di sessualità minori/e. È curioso che persino la psicanalisz; che pure ha a lungo trattato ii deszderio del /i?,lio, si trovi completamente spiazzata dal desiderio incon/essabile del padre- e in certi casi anche della madre. Le ragioni di un 'aberrante perversione. Diciamo che la pedofilia è una condizione di relazione sessuale che c'è sempre stata nella storia. Non è una novità del nostro tempo. L a novità del nostro tempo è costituita dal fatto che da evento sessuale è diventata un evento economic o. Stando poi alle ultime vicende che si sono verificate, sembra anche una faccenda di diritti umani, nel senso che i pedofili o ra rivendicano il diritto 79
di esprimere il loro Jesiderio. La comprens ion e di questo fenomeno è davvero miserabile. Non c'è trattato di psichiatria o di psicanalisi che ne parli in una maniera diffusa o perlomeno esauriente. Anch'io, quando ho scritto il Dizionariodipsicologia', ho dedicato solamente una decina di righe al problema, mentre gli altri dizion ari neppure la nominano. Varrebbe la pena di fare una piccola distinzione: innanzitutto il termine è sbagliato, perché pedofilia vuoi dire «amore per i fanciulli», propensione che può benissimo tradursi anche in opere positive. Non avrei nessuna difficoltà a dire che don Bosco era un pedofilo. Ciò che la gente chiama pedofilia dovrebbe chiamarsi invece pederastia, cioè relazione sessuale-erotica con i bambini. È un sentimento non facile da id e ntificare. Ma se questo piacere è così scon osciuto, evidentemente è perché l'erotismo parla anche un altro linguaggio - e non è infrequente che la sessualità si presti a parlare un altro linguaggio. Anche nei rapporti cosiddetti normali la sessuali tà parla un altro linguaggio, che è il riconoscimento dell a propria identità, il riconoscimento della propria potenza. Direi che Prima edizione
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Torino
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nella condizione pedofila il linguaggio che fiancheggia quello erotico è sostanzialmente la violenza, perché vi è una disparità enorme sia in termini di potere che di sapere, nel senso che l'adulto può sul bambino e sa molto di più del bambino. Perché la pedofilia è un fatto tanto grave? Perché un ragazzo > di non fare ciò che può. Questo nella storia non si è mai visto.
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Verso la sterilità?
Paesi come la Svizzera, t'Italia e la Spagna sono agli ultimi posti (in Europa e nel mondo) per p,li indici di natalità. l matrimoni si/anno e si smanIano con molta celerità. Alcuni vanno a sposarsi a Las Vep,as, poco fiduciosi/arse sulle sorti della loro unione. Ci sono sempre più /amz~lie senza /z~lz; con /z~li ado!Latz; e nuclei con pochi figlz; o /zi,li unici. Inoltre in alcuni paesi come l'Olanda, la Germania e alcuni cantoni della .'·)vizzera, si cominciano ad acce!Lare - e a lep,ittimare - famiglie omosessuali (dunque sterilz). Da tempo, è risaputo, la /amt~lia a!Lraversa una crùi profonda. Dove porterà questa trasformazione? Come cambieranno la famz~lia e la società, con.riderando il problema della crescente sterilità? [n Svizzera, in Italia, ma io penso in tutto l'Occidente, ad eccezione dell'America, non si fanno più figli, perché le nostre condizioni d'esistenza sono ta li che ogni nascita ne sconvolge il ritmo economico e il ritmo abitativo. Le nostre condizioni di vita sono ormai così I O!
complicate ed esigenti che ogni «sopraggiunto>> le modifica. E di solito le modifica verso il basso. Nelle società primitive i figli non incrinavano il regime economico di povertà media in cui si trovavano, anzi, costituivano una ricchezza. Mentre oggi noi viviamo in una società che non si fonda sulle «braccia» e per giunta ha anche un altissimo livello di prestazioni per la cura della crescita. Questo fa sì che ogni figlio costituisce sostanzialmente un i m pegno di notevole portata. Il fenomeno si è sviluppato soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Prima, quando la società era ancora agricola e contadina, i figli si facevano. Io stesso appartengo a una famiglia di dieci figli e m i rendo conto che dieci figli non sarei in grado di farli. C'è anche una seconda ragione: il benessere economico ha portato a un privilegio del desiderio rispetto al mondo della responsabilità: desiderio di comodità dei genitori; desiderio di cambiare partner, secondo le proprie inclinazioni sentimentali; desiderio d'impostare un rapporto non esclusivamente eterosessuale, secondo le proprie tendenze. Il primato del desiderio, rispetto al primato della responsabilità (sia detto senza un carattere mora listico) e delle istituzioni sociali, fa sì che oggi ci sia una variazione di qualità delle famiglie. Si tratta di famiglie tendenzialmente 102
sterili, perché la soddisfazione del desiderio (non capisco perché non debba essere legittimo) comporta un'incrinatura della famiglia come coppia riproduttiva. Il terzo elemento, invece, che ci persuade ancora di più è che, probabilmente, questa trasformazione ci fa vedere come la genealogia della famiglia non sia fondata tanto sull'amore, quanto piuttosto costituisca il primo nucleo di un'organizzazione economica. Le famiglie patriarcali prevedevano che tutti fossero dei soggetti lavorativi. Oggi il venir meno dell'utilità di braccia lavorative fa sì che le famiglie patriarcali si siano disfatte e siano nate famiglie basate sul regime del sentimento e non su quello della produzione economica e generativa. Finché la società era povera erano necessarie organizzazioni di natura familiare a forma forte; invece oggi che le possibilità economich e sono migliorate per tutti, la famiglia non svolge più il ruolo d'assistenza e di economia, ma semplicemente quello di piacevole convivenza tra gente che si ama. Inoltre, più lo stato si assume compiti e incarichi un tempo delegati alla famiglia, più assiste i bambini attraverso le organizzazioni degli asili n ido, più assiste i vecchi attraverso le organizzazioni dei ricoveri, più assiste le 103
persone al di fuori del lavoro attraverso le pensioni, ecc., più la funzione sociale della famiglia viene meno. Quind i venendo meno la famiglia come istituto economico-assistenziale, emerge una famiglia basata sul solo regime del sentimento. Cosa ne deriva da questa trasformazione? Due aspetti, secondo mc. Il primo: se l'unico regime attraverso cui decido le mie scelte d i convivenza è costituito da l sentimento - è chiaro che il sentimento è una cosa mobile, fluida, vaga, generica, intcrmitte nte -,ne consegue che le possibilità di distruzione e di composizione d'altri nuclei familiari saranno magg10r1. Secondo e lemento: se tutte le scelte che avvengono sul registro emotivo sono reversibili - perché noi oggi assistiamo a un fenomeno di reversibilità delle scelte impressionante: mi sposo, divorzio; sono incinta, abortisco ... - questa possibilità di recedere dalla propria scelta, che una volta era molto più limitata, fa sì che nascano quelle composizioni familiari mu ltiple, dove convivono molti padri, molte madri, dove i figli che nascono sono quelli che sono stati voluti rispetto a quelli che erano capitati. L'ampliamento dello spazio della libertà scompone il nucleo rigido della famiglia, un
tempo rego lato dalla necessità. Necessità economica, perché era l'un ico istituto di cui ci si poteva fidare, garanzia di sicurezza c di tutela. E in secondo luogo anche unico regime del mondo fiduciario, perché fuori della famiglia non si sapeva a che cosa si andava incontro. Risultato finale: la riduzione della procreazione. Un figl io cresciuto in una società agricola viene infatti cresciuto con pochi soldi c costituisce alla fine un vantaggio. Un figlio in una società emancipata costa molti sold i e non si sa se sia un vantaggio economico; non abbi amo bisogno di lui per essere ricchi, o addirittura potremmo essere più ricchi senza di lui. Questo comporterà, in breve, che l'Occide nte si estinguer à. Sarà una faccenda di cinquant'anni, ma l'Occidente si estinguerà perché non genera. Importerà forze nuove. La cu ltura occidentale diventerà un reperto o, comunyue, un bagaglio gestito da altre culture. Su yuesto non ho il minimo dubbio.
L'amore e il tempo
Nel suo romcmzo L' ignoranza•, lo scrittore Milan Kundera si interro?,a circa L'amore e il tempo. IL primo rapporto amoroso è diverso dal centesimo. IL centesimo è diverso dal millesimo. Cosa accadrebbe se La vita si allungasse ultenòrmente."J «Dove si situa La barriera al di là della quale- si chiede Lo scrittore ceco - La ripetizione diventerà stereotipata, quando non comica o addirittura impossibile? E una volta varcato questo Limite, che ne sarà del rapporto amoroso fra uomo e donna? Si dissolverà? O, al contrario, gli amanti considereranno La fase sessuale della Loro vita come La barbarica preistoria di un vero amore?» Tornano alla mente Le parole di jean-Paul ,)'artre: La vita è dunque una passione inutile? L' impressione è che Kundera guardi la relazio ne amorosa da u n punto di vista esterno c no n interno. Bisogna allora incominciare a d ire, demitizzando un po', che cos'è amore? Io Pubblicato guardo storicùtico? Come dire: potremmo navigare senza carte nautiche e senza rotta? Poppe r prende, mi pare, lucciole per lan terne. Nel senso che la mentalità storicistica non è assolutamente greca, ma affonda le sue radici nella tradizio ne giu d aico-cristiana. Basti pensare che i greci n on avevano storici; TTO
il più famoso, Tucidide, inizia le sue storie con questa espressione: «Faccio com inciare la sto ri a dieci anni prima della mia nascita, perché prim a non è successo niente di importante>>. Questo ci dice il livello di mentalità storica che potevano avere i greci. La ragione è molto semplice, per i greci il tempo era c iclico, q u alcosa di simile al tempo vissu to dagli agricoltori: inverno, primavera, estate, autunno e poi il ciclo ricomincia. In una mentalità cic lica non c'è storia. La storia incomincia con la tradizione giudaico-cristiana. Costoro pensano ch e il tempo sia scritto in un disegno, un disegno di salvezza. Se è inserito in un disegno, il tempo ha un senso; e quando il tempo ha un senso parliamo propriamente di storia. La storia è un tempo fornito di senso, che tende a una me ta. Questo tipo di tempo i cristiani l' hanno chiamato «escatologico»: éschatos è una parola greca che vuoi dire «ultimo». All'ultimo giorno, alla fine, si realizza quello che all'inizio e ra stato annunciato. A questo punto il tempo acquista senso. Questa men talità storica, di tradizion e cristiana, è stata ribadita dalla tradizione c dalla filosofia di Agostino. Non è assolutamente greca. Accusare Platone di essere storicista, di avere avviato lo storicismo, è prendere lucciole per lanterne. JJ!
La seconda lucciola per lantern a presa da Popper consiste nel fatto che egli ritiene che la mentalità platonica, la dialettica di Platone, sia antiscien tifica. Nel senso che Platone fissa le idee, gli schemi , i costrmti della mente, i numeri per la lettura del reale, men tre la scienza procede per esperimenti, per prove ed errori. O ra, se c'è una persona cui la scienza deve essere riconoscente è proprio P latone. Platone ha fatto un'operazione di gr andissimo valore scientifico, che consiste in questo: non fidiamoci dell' esperienza sensibil e. Perché? Se dovessi costru ire un sapere fondato sulle informazioni che ricevono i miei sensi, allora basterebbero due persone per non essere più d'accordo. «ln questa stanza fa caldo», direbbe l'una. «Fa freddo», risponderebbe l'altra. Dovessimo ottenere la risposta dalle sensazioni corporee, non ne arriveremmo a una. Rifiutando la conoscenza sensibile, Platone fissa il sape re come costruzione della mente, che lui chiama idee e numeri. Per conoscere le cose non dobbiamo dunque fidarci d elle sensazion i corporee e sensoriali. Il corpo, infatti, è mo lto svalutato da Platone. Dobbiamo fid arc i solamente delle idee costruite dall'anima. Quest'anima no n è l'anima cristiana, che si deve salvare, ma è l'organo delle id ee e dei costrutti mentali. Sotto questo p rofilo la scienza è debitrice a Platone. TT2
La scienza moderna, con Cartesio, non fa che ribadire la dimensione platonica. Quando Cartesio dice cogito ergo sum, vuoi dire che l'essere va considerato a partire d ai costrutti della mente, del cogito, esattamente come sosti ene Platone. La differenza nasce con l'età della tecnica, come la vado chiamando, un'età incominciata con la seconda guerra mondiale in maniera potente e decisiva. Prima, nella tradizione giudaico-cristiana, la sto ria aveva un senso, perch é proiettata verso uno scopo. L'età d ella tecnica non ha più nessun senso, perché non ha nessuno scopo. La scienza è la stessa cosa, bisogna evitare di pensare che la scienza sia pura c la tecn ica sia sporca, o che la tecnica sia solo un' applicazione della scienza, perch é già nello sguardo dello scienzia to c'è l'atteggiamento tecnico: lo sc ienziato non guarda il mondo per contemplarlo, ma per manipolarlo. Sarebbe come se in un bosco entrasse un poeta e con lui un fa legname: i due non vedono la stessa cosa. Lo sguardo scienti fico è lo sguardo del falegname. Non si dà una scienza pura, si dà sempre un a sc ienza già impostata, in o rdine alla manipolazione del mondo. Scienza e tecnica procedono oggi senza uno scopo, perché hanno come scopo esclusivamente - sottolineo esclusivamente - il
proprio potenziamenro. Di loro si potrehbe dire quello che Nietzsche fa dire a Zarathustra: «Cosa vuole la volontà di potenza?» E Zarathustra risponde: «La volonrà di potenza vuol e se stessa». Ecco, la scienza vuole solo il proprio potenziamento, al di là di qualsiasi scopo. L'eliminazione degli scopi determina il crollo dello storicismo, ma io direi che, prima dello storicismo, deter mina il crollo dell 'uomo come l'ahbiamo conosciuto, perché l'uomo che abbiamo conosciuto agiva in funzione di fini, mentre l'uomo che conosc iamo oggi non agisce in funzione di fini, ma della buona esecuzione di ordini o di azioni già descritte e prescritte dall'a p para t o tecnico. Oggi l'uomo è un funzionario dell'apparato tecnico, non è più un soggetto storico. Ma non è colpa di Platone. È vero che lo storicismo sia gravido di violenze, rispetto all'età della tecnica, che creerebbe per contro società aperte, non gravate dal peso della storia? Il tasso di violenza storicistico, che si muove sul la logica amico l nemico (m ia tradizione !tua tradizione, miei usi e costumi/ tuoi usi e costumi ... ), è un tasso di violenza inferiore, decisamente inferiore a quello che può esercitare l'apparato tecnico-scientifico su tutti gli uomini. I quali non avranno più da contrapporsi tra loro, perché saranno tutti, come diceva nel
1959 Herbert Marcuse, «uomini a una dimen-
sione>>, semplicemente depotenziati della loro carica umana, perché diventeranno semplicemente funzionari di apparati tecnici. Facciamo un esempio molto elementare: un serbo che dovesse uccidere un albanese o un albanese che dovesse uccidere un serbo, compiono delle azioni che sono alla portata dell' uomo, azioni accompagnate da un sentimento di amore o di odio, che le giustifica come azioni umane. Distruttive, ma umane. Il pilota euro-americano che sgancia le hombe su Belgrado non sa né amare, né odiare i serbi. Non è che uccide di meno, uccide di più, ma uccide con indifferenza, perché non sta facendo un'azione alla portata umana, corredata di amore o di odio, non gliene importa nulla dell'a more o dell'odio per i serbi, lui sta semplicemente lavorando. Quando è stato chiesto a uno di questi piloti che cosa provava, ha risposto: «Nothing, that was my job!» Questo era il mio lavoro! Ecco cosa ci porta l'età della tecnica: a una società dove non abbiamo neppure più bisogno di sentimenti d'odio per fare le guerre, è semplicemente un'operazione distruttiva, radicalmente priva d'emozioni e di sentimenti.
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Libertà e disuguaglianza
La parola libertà ha conosciuto, ne!!,li ultimi decennz; un curioso destino: da bandiera della sinistra nef!.li anni ,)'e.l·santa, a slogan della destra, trent'anni dopo. Scriveva il filosofo Karl Popper che la libertà è più importante dell'uguaf!.lianza: la ricerca dell'uguaglianza sociale in/atti causa inevitabilmente regimi violenti e persecutorz; come i reJ!.imi comunisti. Si pone tuttavia una questione: le «società aperte», come le chiama Popper in uno dei suoi saf!.f!.i più celebri•, accolgcmo zl principio della disuf!.uaf!.lianza, con l'inevitabzle esa ltazione del ricco e della ricchezza, per cui i Paperon de' Paperoni si trovano a f!.overnare il mondo, mentre aumenta prowessivamente nei paesi ricchi il numero dei miliardari (quasi il tre per cento negli ultimi due annz) e nei paesi poveri quelfo dei morti di /a me. Come conciliare dunque un princtfJÙJ irrinunciabile, com e quello di libertà, con quello di dùuf!.ua!!,lianza? /.ti
wcù·lti uf>l'rltl c 1 S/IOIII> rispetto alla dimora che ha storicamente conosciuto, significa essere lontano da sé. Marx ha chiamato questa cond izione «alienazione» c, coerentemente alle condizioni del suo tempo, ha circoscritto l'alienazione al modo di produzione capitalistico. Ma sia il capitalismo (causa dell'alienazione) sia il comunismo (che Marx progettava come rimedio all'alienazione) sono ancora figure iscritte 168
nell'umanismo, ossia ancora in quell'orizzonte di senso, tipico dell'età pre-tecnologica, dove l'uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento. Ma, nell'età della tecnica, che prende avvio quando l'universo dei mezzi non ha in vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovo lge, nel senso che l'uomo non è più un sopgelto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell'alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l'uomo come suo predicato. Ne consegue che la strumemazion e teorica messa a disposizione da Marx, che pure fu tra i primi a prevedere gli scenari dell'età della tecnica da lui chiamata «civiltà delle macchine», non è più del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non perché storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma perché Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con rife rimento all'uomo pre-Lecnolo?,ico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell'età della tecnica, non ci sono p1u né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono su bordinarsi sia i servi sia i stgnon.
A questo punto anche il concetto marxiano di «alienazione» appare insufficiente, perché di alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c'è un'antropologia che vuoi recu perarsi dalla sua estraneazione nella produzione, in un contesto caratterizzato dal conf1itto di due volontà, di due soggetti che ancora si considerano titolari delle loro azioni, non quando c'è un unico soggetto, l'apparato tecnico, rispetto al quale i singoli soggetti sono semplicemente suoi predicati. Esistendo esclusivamente come predicato dell'apparato tecnico che pone se stesso come assoluto, l'uomo non è più in grado di percepirsi come «alienato», perché l'alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario alternativo che l'assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro contesto scrive Romano Madera, l'uomo traduce la sua alienazione nell'apparato in identz/icaàone con l'apparato. Per effetto di questa identificazione, il soggetto individuale non reperisce in sé altra identità al di fuori di quella conferitagli dall'apparato e, quando si compie l'identificazione degli individui con la funzione assegnata dall'apparato, la funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni senso residuo di identità.
w. La tecnica e la revisione delle categorie
umanistiche Siccome, in quanto funzionario dell'apparato tecnico, l'uomo non è più leggibile secondo gli impianti categoriali elaborati e maturati nell'età pre-tecnologica, occorre una radicale revisione delle categorie umanistiche, a partire dalle nozioni di individuo, identità, libertà, comunicazione, fino al concetto di «anima», la cui arretratezza psichica ancora non consente all'uomo d 'oggi un'adeguata comprensione dell'età della tecnica. L'INDIVIDUO. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di «anima», rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell'età della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore quell'entità indivisibile (dal latino: in-dividuum) che a livello naturale fa parte della specie e a livello culturale di una società di cui ripete, per le sue caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l'individuo empirico, l'atomo sociale, ma il
sistema di valori che, a partire da questa singolarità , hanno deciso la nostra storia. L'TDENTITA. Questa nozione che, come quella di individuo, nasce all'interno dell'antropologia occid entale perché, prima dell'Occidente e a fianco dell'Occidente, l'individuo non riconosce la sua identità ma solo l' appartenenza al gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal riconoscimento. Solo che, mentre nell'età pre-tecnologica era possibile riconoscere l'identità di un individuo dalle sue azioni, perché queste erano lette come manifestazioni della sua anima, a sua volLa intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell'individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità, ma come possibilità calcolate dall'apparato tecnico, che non solo le prevede, ma add irittura le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il soggetto non rivela la sua identità, ma quella dell'apparato, all'interno del quale l'identità personale si risolve in pura c semplice funzionalità. LA LIBERTÀ. Se con questa parola intendiamo l'esercizio della libera scelta a partire dalle condizion i esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamentc avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello concesso nelle società poco differenziate,
dove la qualità personale e non oggettiva dei legami, nonché l'omogeneità sociale riducono il margine di libertà a quello elementare dell'obbedienza o della disobbedienza. La tecnica, avendo come suo imperativo la promozione di tutto ciò che si può promuovere, crea un sistema aperto che di continuo genera un ventaglio sempre più allargato di opzioni, che diventano via via praticabili in base ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio espressivo quello impersonale dei rap porti professionali, c rea quella scissione radicale tra «pubb lico>> e «privato» che, anche se da molti è acclamata come cardine della libertà, comporta quella conduzione schizofrenica della vita individuale (sch izofrenia funzionale), che si manifesta ogni volta che la funzione che all'individuo spetta come membro impersonale dell'organizzazione tecnica, entra in collisione con quello che l'individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina infatti per la prima volta nella storia la possibilità per l'indi viduo di entrare in rapporto con gli altri individu i, e quindi di «fare soc ietà», senza che ciò comporti un qualsiasi legame di natura personale. E allora, privati di una comune esperienza d'azione, che è 173
sempre più prerogativa esclusiva della tecnica, gli individui reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi c, nell'impossibilità di riconoscersi comun itariamente, finiscono con il considerare la società stessa in termini puramente stru mentali. LA CULTURA DT MASSA. La disarticolazione tra «pubblico» e