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Italian Pages 320 Year 2015
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nietzscheana saggi 24 collana diretta da Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari fondata da Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi comitato scientifico Keith Ansell-Pearsons, Paolo D’Iorio, Carlo Gentili, Scarlett Marton, Maria Filomena Molder, Karl Pestalozzi, Sergio Sánchez, Diego Sánchez Meca e Andreas Urs Sommer
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La Genealogia della morale Letture e interpretazioni
a cura di Bruna Giacomini, Pietro Gori, Fabio Grigenti
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
Il volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova, pubblicato nell’ambito del progetto di Ateneo 2013 – CPDA139424 dal titolo: «Umani e oltre. La categoria di “Umanismo” nel pensiero europeo del Novecento»
© Copyright 2015 EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL
via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884674265-0 ISSN 1970-6138
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Prefazione: Humanitas e oltre
Questo volume è uno dei risultati più importanti della ricerca iniziata a fine 2014 nell’ambito del Progetto di Ateneo 2013 Umani e oltre. La categoria di “Umanismo” nel pensiero europeo contemporaneo, del quale sono responsabile. Nel programma di ricerca, che ha coinvolto un team di ricercatori afferenti al Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Sociologia applicata dell’Università di Padova, si è messo a tema l’idea di “Umanismo” e il suo costante riemergere in seno alla cultura europea tra Otto e Novecento. Lo svolgimento effettivo del lavoro di indagine si è attuato a partire da una prospettiva multidisciplinare e ha condotto a mappare un territorio piuttosto variegato e difficilmente riconducibile a un orizzonte definito e comune. In particolare si è evidenziato che il concetto di “Umanismo” appare sospeso tra due considerazioni estreme e assolutamente inconciliabili: da un lato la sua ripresa positiva come concetto insostituibile della cultura europea, base del diritto e dello specifico irrinunciabile della nostra tradizione, dall’altro l’essere sentito come una sorta di “ferrovecchio” di cui liberarsi perché complice di quella storia della metafisica che da ultimo rivela il suo tratto violento e fortemente tracciato in senso etno-centrico. Non abbiamo preso le parti né di una né dell’altra prospettiva, ma abbiamo compreso che un nuovo tipo di umanità si sta approssimando e che il vecchio apparato “umanistico-pedagogico” legato al libro e ai diritti umani ha fatto il suo tempo. Non si tratta solo di lasciare l’Humanitas al suo destino, ma di progettare una nuova concettualità, che non sia solo una traccia incerta
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e sempre in crisi di una novità che arriva e ci sorprende. Di qui l’importanza e la forza premonitrice della lezione di Nietzsche: occorre pensare a un oltre, che già si era approssimato in ciò che siamo stati. Se saremo al di là dell’umano, e lo saremo, ciò avverrà secondo vincoli e determinazioni di tipo “genealogico” e quindi da sempre inscritti nella nostra storia. Nessun salto nel totalmente altro: non vi sarà mai qualcosa come un uomo non più umano, ma differenti attuazioni di intensità del potenziale che siamo. Potenziamento e nuovi dispositivi di disciplinamento – finora quello che ci ha condotti fino a qui è stata la morale – in vista di nuove e imprevedibili elevazioni umane, che oggi si annunciano soprattutto nei campi contigui della visione scientifica e dei protocolli di impiego delle tecnologie. In fondo, non c’è veramente alcuna novità, siamo sempre stati oltre noi stessi e, forse, Humanitas, ha voluto significare esattamente questo. Fabio Grigenti
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Nota al testo
Le opere e le lettere di Nietzsche sono citate a partire dall’edizione critica tedesca e italiana di riferimento: F. Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, ca. 40 Bände in 9 Abteilungen, begr. von G. Colli und M. Montinari. Fortgef. von V. Gerhardt, N. Miller, W. Müller-Lauter, K. Pestalozzi. Berlin/New York, de Gruyter 1967 ff. F. Nietzsche, Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, in 24 Bände, begr. von G. Colli und M. Montinari. Fortgef. von N. Miller, N. und A. Pieper, Berlin/New York, de Gruyter 1975 ff. F. Nietzsche, Opere complete, trad. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi 1964 ss. (nel testo abbreviate con la sigla OFN seguita dal numero del volume). F. Nietzsche, Epistolario, trad. it. Milano, Adelphi 1977-2011, vol I (1850-1869) a cura di M. Montinari; vol. II (1869-1874) a cura di G. Colli e M. Montinari; vol. III (1875-1879) a cura di G. Campioni e F. Gerratana; vol. IV (1880-1884) a cura di G. Campioni; vol. V (1885-1889) a cura di G. Campioni e M.C. Fornari. In alcuni contributi, si è seguita per il Crepuscolo degli idoli la nuova traduzione italiana a cura di P. Gori e C. Piazzesi, Roma, Carocci, 2012. I passi tratti dalle opere di Nietzsche sono indicati con l’abbreviazione del titolo dell’opera, seguita dal numero o dal titolo della sezione (ove presente) e dal numero del paragrafo (es. FW
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341; GM III 24; EH, Perché sono così saggio 1). I passi tratti dai quaderni e dai taccuini di Nietzsche sono invece indicati con la sigla NF (Nachgelassene Fragmente), seguita dall’anno di redazione, dal numero del gruppo e da quello della nota (es. NF 1888, 14[188]). Nel caso delle lettere inviate da Nietzsche, viene indicato il destinatario e la data (es. A H. Köselitz, 27.09.1888). Elenco delle abbreviazioni degli scritti di Nietzsche citati: NF = Nachgelassene Fragmente = Frammenti Postumi HL = Unzeitgemässe Betrachtungen II – Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben = Considerazioni inattuali II – Sull’utilità e il danno della storia per la vita SE = Unzeitgemäße Betrachtungen III – Schopenhauer als Erzieher = Considerazioni inattuali III – Schopenhauer come educatore BA = Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten = Sul futuro delle nostre istituzioni educative WL = Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne = Su verità e menzogna in senso extramorale GT = Geburt der Tragödie = Nascita della tragedia MA = Menschliches, Allzumenschliches I = Umano, troppo umano I VM = Menschliches, Allzumenschliches II – Vermischte Meinungen und Sprüche = Umano, troppo umano II – Opinioni e sentenze diverse WS = Menschliches, Allzumenschliches II – Der Wanderer und sein Schatten = Umano, troppo umano II – Il viandante e la sua ombra M = Morgenröthe = Aurora FW = Fröhliche Wissenschaft = La gaia scienza Za = Also sprach Zarathustra = Così parlò Zarathustra JGB = Jenseits von Gut und Böse = Al di là del bene e del male GM = Zur Genealogie der Moral = Genealogia della morale GD = Götzen-Dämmerung = Crepuscolo degli idoli AC = Der Antichrist = L’Anticristo EH = Ecce Homo = Ecce Homo DD = Dionysos-Dithyramben =Ditirambi di Dioniso
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Leggere la Genealogia della morale di Nietzsche Bruna Giacomini
Il presente volume contiene, rielaborati in forma di saggio, i testi di alcune delle relazioni presentate nel corso di un seminario di ricerca svoltosi tra aprile e ottobre 2013 nell’ambito della Scuola di Dottorato in Filosofia dell’Università di Padova. Agli incontri, coordinati dai proff. Umberto Curi, Bruna Giacomini, Fabio Grigenti, Laura Sanò e Alessandro Tessari, hanno partecipato regolarmente e attivamente altri docenti oltre a un buon numero di assegnisti, dottorandi e laureati del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata (FISPPA). L’attività di ricerca seminariale è stata ulteriormente arricchita dall’intervento del prof. Carlo Gentili dell’Università di Bologna che, nel corso di un intenso pomeriggio di lavoro, ha dato un importante contributo alla discussione. Nel libro che qui viene presentato, alle relazioni dibattute durante gli incontri sono stati aggiunti i saggi, redatti esclusivamente per la stampa, di alcuni importanti studiosi, italiani e stranieri, che hanno offerto un prezioso apporto allo svolgimento della ricerca. Il seminario è stato dedicato alla lettura della Genealogia della morale di Friedrich Nietzsche. Con la scelta di questo tema, il gruppo di docenti che da anni contribuisce con un proprio seminario al percorso di Filosofia e storia delle idee del Dottorato in Filosofia di Padova si è proposto essenzialmente due obiettivi. Anzitutto, esso ha inteso misurarsi con quello che costituisce uno dei compiti imprescindibili dell’indagine storico-filosofica, ovvero la lettura dei testi. La rilevanza e la peculiarità di tale momento vengono spesso ignorate o quantomeno sottovalutate a partire da due atteggiamenti tra loro contrapposti: quello che
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tende a considerare i testi nient’altro che materiali che il pensiero utilizza e manipola per i propri fini allo scopo di emanciparsene in un percorso che diviene autonomo da questi, e quello che, al contrario, si risolve integralmente in un esercizio di analisi, puntuale e rigoroso sul piano storico e filologico dei documenti, ma che spesso risulta essere cieco ed ottuso sul piano filosofico. Se in un caso, come molto spesso è accaduto nel processo di costruzione della tradizione della storia della filosofia, i filosofi si sono riferiti in modo prevalentemente strumentale al passato, allo scopo di mostrare l’irriducibile novità delle proprie tesi, nell’altro l’attività storiografica si è risolta in un inesausto, quanto sterile esercizio di erudizione, dimentico del carattere filosofico di questo stesso esercizio. Si potrebbe applicare a questo tipo di storiografia l’immagine con cui il giovane Nietzsche, negli anni in cui era ancora completamente immerso negli studi classici, descriveva l’attività di una certa filologia come un «affaccendarsi da talpe, con le cavità muscolari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferenti verso i veri, urgenti problemi della vita» (Lettera a E. Rohde, 20.11.1868). Accade così, come dichiarerà nella seconda delle sue Considerazioni inattuali, che «colui cui non importa nulla di un momento del passato, sia destinato a rappresentarlo». In questa luce il problema che il seminario si è posto è stato quello di cercare di capire come si potesse fare, della lettura di un testo, un esercizio filosofico capace di utilizzare gli strumenti storico-filologici, al fine non di imbalsamarne il cadavere senza vita per esibirlo nelle teche della tradizione, ma di interrogarne i significati vitali per il nostro presente e, al contempo, di lasciarlo parlare, mettendosi in ascolto di ciò che ha da dirci e delle questioni cui esso, come tale, ci rende attenti. Una simile lettura richiede la capacità di calibrare finemente – così come ancora una volta indicato da Nietzsche – due atteggiamenti opposti, ma altrettanto necessari: quello non storico, con cui poniamo domande radicate nell’orizzonte del nostro presente, per ciò che in esso vi è di unico e irriducibile ad ogni momento del passato, e quello storico, che, viceversa, dalla memoria di ciò che è stato fatto e
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pensato prima di noi e di cui siamo comunque gli eredi, cerca di trarre ammaestramenti e forza per condursi nel presente. Per questo l’uomo contemporaneo ha bisogno non solo di avventarsi in modo “inattuale” contro il tempo, ma anche di portare alla luce e custodire quei tesori trasmessi dalla tradizione, ma talora anche nascosti da essa, che il passato racchiude. Nell’analisi dello scritto nietzschiano scelto per il nostro studio tale orientamento si è tradotto in due diversi tipi di contributi, facilmente riconoscibili nel testo che segue: quelli di carattere più spiccatamente interpretativo, tesi ad evidenziare la rilevanza e la significatività di alcuni particolari temi che Nietzsche suggerisce all’attenzione della riflessione contemporanea, e quelli che, invece, seguendo una prospettiva d’indagine storiografica che si è affermata soprattutto a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, cercano di portare alla luce la trama nascosta dei fili che ricollegano Nietzsche, talvolta malgré lui, al suo tempo e a quella stessa tradizione filosofica moderna che egli ha ripetutamente dichiarato di spregiare rivendicando l’inattualità del suo pensiero. La lettura della Genealogia della morale ha risposto a un secondo e, per certi versi, più importante obiettivo: quello di trovarvi l’esempio di un diverso modo di indagare il passato, non nella forma della storia, ma della genealogia. L’opera riprende e rielabora quell’esercizio del sospetto già messo in atto da Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale nei confronti della storia e che nell’opera del 1887 viene rivolto in particolare alla storia della morale. Come spiega nella Prefazione della Genealogia, fin da quando aveva tredici anni Nietzsche aveva capito che questa non poteva ridursi a un esame delle diverse opinioni morali presenti in Occidente o sul pianeta, ma doveva essere una storia filosofica, ovvero un’interrogazione sull’origine del bene e del male, e cioè un’investigazione relativa al costituirsi di quella polarità nell’orizzonte della quale si danno problemi morali. La risposta adolescenziale di Nietzsche era stata metafisica: l’origine del male nel mondo andava cercata dietro al mondo e il filosofo in erba l’aveva reperita in Dio. All’epoca di Umano, troppo umano, cui la Genealogia intende esplicitamente riallacciarsi, la
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questione dell’origine della morale muta di forma e, in un certo senso, di livello: essa non può essere affrontata restando nell’ambito del discorso morale, ma ponendo la morale stessa come problema. Mentre indagava sul significato nichilistico della morale della compassione, esaltata da Schopenhauer, gli si spalancò davanti all’improvviso – riferisce Nietzsche – un nuovo orizzonte di ricerca, immenso e vertiginoso: non bisognava limitarsi ad indagare l’origine di questa o quella morale, ma della morale come tale, interrogandone il presupposto «trascendente ogni messa in questione», ovvero che essa avesse in se stessa un valore indipendentemente dai valori particolari che, in diversi momenti e contesti, erano stati privilegiati identificandoli con il “bene”. Per porre un simile problema era necessario intendere diversamente il significato del valore interpretandolo non secondo il senso attribuitogli dalla morale, ma secondo quello che esso assume in rapporto con la vita. I valori scaturiscono da operazioni di valutazione conseguenti a determinati «punti di vista di apprezzamento» (come scrive Deleuze) mediante le quali alcune regole di condotta sono ritenute preferibili ad altre e, successivamente, elevate a principi assoluti che pretendono di assolversi dal processo che li ha posti. Come Nietzsche aveva chiarito in Aurora, e particolarmente negli aforismi 21 e 24, una prescrizione assume significato morale quando la sua applicazione viene sottratta all’esperienza attribuendone un eventuale insuccesso a un difetto di esecuzione, oppure rendendone indeterminati e dunque inverificabili i risultati. Sulla base di tale rideterminazione del significato del valore prende corpo non una storia, ma una genealogia della morale. Per condurla è necessario fuoriuscire dall’autorappresentazione che la morale dà di se stessa attraverso un’indagine condotta su basi extramorali, di cui Nietzsche delinea due distinte direzioni di ricerca. Bisogna da una parte esaminare le condizioni nelle quali sono sorti e sono attecchiti i giudizi di valore di carattere propriamente morale risalendo alle valutazioni che la loro pretesa di assolutezza occulta, e dall’altra interrogarne la funzione nei confronti della vita, esaminando se e come, in base alle diverse
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circostanze storiche e culturali, essi abbiano promosso lo sviluppo umano o se all’opposto, come Nietzsche ritiene, lo abbiano intralciato e impoverito. Si tratta di due compiti distinti che erano stati chiaramente delineati già nella Gaia scienza. All’aforisma 7 Nietzsche aveva tratteggiato il programma di uno studio dei fatti morali scandito in più momenti. Bisognava anzitutto procedere a una descrizione analitica e approfondita delle diverse passioni (amore, cupidigia, invidia, devozione, crudeltà) per passare poi ad un’illustrazione, più esauriente possibile, delle differenti valutazioni morali che, in tempi diversi, popoli, ma anche individui differenti avevano dato delle passioni. La finalità di questa fase così articolata era quella di smascherare la presunta univocità dei fatti morali: ciò che una cultura considera morale non lo è affatto per un’altra. Tale varietà discende direttamente dal carattere prospettico e in questo senso ingiusto di ogni valutazione morale che su questa base, come metterà in chiaro nella Prefazione a Umano, troppo umano, definisce tanto le sue giustificazioni teleologiche, quanto le sue avversioni nei confronti dei valori opposti. L’indagine doveva però procedere oltre cercando di accertare i “fondamenti” di tali valutazioni: «per quale ragione splende qui questo sole di un giudizio di fondo e di un capitale metro di valore della moralità – laggiù invece quell’altro?» (FW 7). La convinzione di Nietzsche è che non solo tali fondamenti non siano né morali, né conoscitivi, ma non siano propriamente parlando neppure «fondamenti», bensì nient’altro che origini determinate, particolari, spesso infiltrate dal caso le cui radici vanno rintracciate nella forma di vita che li ha fatti valere. La genealogia della morale, in questo senso, non ricerca l’essenza del fenomeno morale né nel senso di una sua giustificazione ultima, né in quella di un’origine intesa come «il perfetto e il più essenziale» (WS 3) riconoscibile all’inizio della storia. Essa piuttosto ne esplora la «pudenda origo», ovvero i meccanismi nascosti e arbitrari attraverso i quali sono state apprezzate o disprezzate determinate condotte e, non meno irragionevolmente, le presunte regole che le guidano sono state elevate a principio (M 102).
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Il secondo compito è enunciato nel V libro della Gaia scienza – inserito, come è noto, nella seconda edizione dell’opera pubblicata nello stesso anno della Genealogia – e, in particolare, nell’aforisma 345. Si tratta di un’indagine del tutto nuova, che nessuno ha tentato prima d’allora. Una storia della morale che poteva essere parzialmente avvicinata al primo compito della genealogia era stata infatti già intrapresa, particolarmente tra i filosofi inglesi. I principi morali erano stati smascherati nella loro presunta assolutezza, comunque intesa, e ricondotti ai sentimenti morali – quali abnegazione, simpatia, compassione – di cui sarebbero stati espressione. Tale denuncia aveva indotto tali storici ad attribuirsi il merito di aver umanizzato la morale mostrando come essa, lungi dall’avere fondamenti incondizionati, fosse radicata nella natura umana. In realtà, secondo Nietzsche, tale opera di decostruzione restava da una parte occultamente cristiana, in quanto generalizzava sentimenti propri di quella morale rivelandosi così incapace di uscire dal suo orizzonte, ma, in secondo luogo e soprattutto, non coglieva il cuore del problema. Essa infatti si limitava a denunciare l’equivoco costituito dalla assolutizzazione di disposizioni naturali degli uomini. Con ciò tuttavia eludeva il significato proprio della morale: «Una morale potrebbe anche essersi sviluppata da un errore: tuttavia, anche se ciò fosse riconosciuto, non sarebbe ancora toccato il problema del suo valore» (FW 345). Esso è infatti racchiuso proprio in quel precetto «tu devi», ingiustificabile sia logicamente che storicamente, ma che tuttavia contraddistingue la morale, rendendola propriamente tale. In questo senso si tratta di fare ben altro che immanentizzare la morale o addirittura naturalizzarla. Ricondurre le leggi morali a determinazioni naturali caratteristiche dell’uomo non potrebbe infatti render ragione del perché si sia voluto elevare tali eventuali determinazioni a legge inderogabile. Il secondo fondamentale compito della genealogia consiste invece nel saggiare tale «valore», interrogandosi sul significato che ha rivestito per l’umanità occidentale e, in particolare moderna, l’applicazione di quel «tu devi» a determinate regole di condotta. Tale precetto ha investito, come mostra costantemen-
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te Nietzsche, non solo i comportamenti propriamente pratici dell’uomo, ma anche i suoi atteggiamenti cognitivi che si rivelano normativamente orientati alla verità ad ogni costo, come testimoniano esemplarmente gli scienziati moderni. In quanto perseguono la verità come obbligo morale essi sono del tutto incapaci di offrirne una valutazione o anche soltanto di considerare la possibilità di una valutazione. Di qui la ricerca che si dispiega nella Genealogia della morale e che culmina nella terza dissertazione dedicata agli ideali ascetici. Nel suo sforzo di penetrare il nocciolo di tali ideali Nietzsche ne esplora tanto le forme canoniche, sia sul piano storico – tra gli antichi come tra i moderni – che delle manifestazioni culturali – nella filosofia come, e soprattutto, nella religione cristiana –, quanto le espressioni che apparentemente li contrastano, ma in realtà ne sono marchiate, quali quelle che s’incarnano nella scienza da una parte e nell’ateismo dell’altra. La morale ascetica è in questo senso ravvisabile in manifestazioni che apparentemente non vi si richiamano o addirittura sembrano avversarla. Il peculiare valore che infine Nietzsche le riconosce dipende dalla sua capacità di connettere tra loro due fattori: anzitutto la capacità di dare un senso all’assurdità della sofferenza rendendola con ciò stesso non solo accettabile, ma desiderabile, e, in secondo luogo, la sua imputazione all’uomo e alla sua inespiabile colpa. La straordinaria e micidiale potenza di tale morale sta nell’individuare nell’incessante e pervicace opera di annichilimento di quanto è proprio della vita umana (sensi, ragione, felicità, bellezza) ciò che non solo la rende degna di essere vissuta, ma la regola ultima cui essa deve cercare di conformarsi, fino al punto di fare della massima sofferenza il suo supremo ideale. È noto come, particolarmente alla luce dell’interpretazione offertane da Foucault nel celebre saggio del 1971 Nietzsche, la genealogia, la storia, la genealogia nietzschiana della morale abbia delineato un modo profondamente nuovo di indagare le formazioni concettuali o più in generale culturali del passato che non ha la struttura della storia, almeno secondo la forma che questa ha assunto tra Sette e Ottocento. Esso se ne allontana su
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due punti fondamentali: non ricerca nell’origine di un concetto o della stessa filosofia la sua identità essenziale e autentica destinata a dispiegarsi in un processo di sviluppo e a guidarlo, ma l’emergere singolare, a partire da circostanze determinate, del tutto contingenti ed eterogenee tra loro di un avvenimento del pensiero che ha trovato le forze per contrastare gli altri e imporre il suo primato. L’affermarsi di determinate concettualità è sempre in questo senso il risultato del predominio di specifiche potenze che quelle concettualità fanno valere. In secondo luogo, e conseguentemente, s’interroga sulla rilevanza avuta da tale avvenimento nel plasmare secondo una certa forma l’uomo occidentale e ne interroga il senso, valutandone gli effetti sull’esistenza umana. In questo quadro la genealogia non solo induce a riflettere sui fondamenti della disciplina storico-filosofica così come comunemente l’intendiamo e la pratichiamo, ma apre ulteriormente la possibilità di applicare a essa la stessa indagine genealogica. Con la stessa radicalità con cui Nietzsche si è avventurato nel campo della morale e Foucault ne ha seguito l’esempio nella sua indagine sui saperi della modernità, si tratterebbe di muoversi nell’ambito della storia della filosofia, ponendola come problema. Prima di prendere in considerazione i differenti modelli che l’hanno ispirata e le diverse pratiche in cui si è tradotta, bisognerebbe chiedersi che significato essa abbia avuto per la filosofia, ovvero per quella attività di costante interrogazione del pensiero messa in moto e nutrita dal thauma. Riformulando il problema posto da Nietzsche, sarebbe necessario domandarsi se e in che forma la storia della filosofia abbia servito la filosofia o se, al contrario, in molte delle modalità assunte da quando si è costituita in specifica disciplina alla metà del ‘700, essa non l’abbia inibita o addirittura messa a tacere. Da una parte infatti il dibattimento critico di ciò che è stato elaborato da altri prima di noi, se condotto con radicalità e indipendenza di pensiero, è condizione indispensabile per comprendere e verificare la portata e il senso delle questioni su cui oggi ci s’interroga, dall’altra il confronto con il passato si è spesso tradotto in un mero esercizio di erudizione mediante il quale si è finito col rinunziare, come scriveva Kant (1996:
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66 n. 1), a «pensare da sé [selbstdenken]», cioè «a cercare in se stessi (…) la pietra ultima di paragone della verità», per affidarsi invece all’autorità e alla tutela di quanto altri hanno già pensato al posto nostro. In questa direzione la “polemica” nietzscheana indica non solo alla morale, ma anche alla storia della filosofia prospettive e modalità ancora “inattuali” per esaminare e riconsiderare il suo statuto.
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Verso una «resa dei conti con la morale» Pietro Gori
In una lettera scritta all’amica Meta von Salis il 22 agosto del 1888, Nietzsche commenta retrospettivamente la sua Genealogia della morale, osservando che in quel testo sono stati affrontati «problemi estremamente difficili per i quali non esisteva ancora una lingua, una terminologia. (…) Questo scritto scorre via come la cosa più naturale del mondo (…). Lo stile è veemente e trascinante, e tuttavia pieno di sottigliezze; inoltre ha una duttilità e varietà di colori che finora in prosa non avevo mai raggiunto». Trascurando il tono autocelebrativo che caratterizza molta della corrispondenza redatta da Nietzsche in quel periodo, questa valutazione è per buona parte condivisibile e aiuta a rendere conto della grande fortuna che la Genealogia ha avuto nel corso del XX secolo. Lo scritto polemico che Nietzsche pubblica nel 1887 è un testo originale, sotto molteplici aspetti. Lo è per il metodo che Nietzsche adotta, quell’indagine genealogica che si distingue dallo sguardo storico ed evoluzionistico proprio della filosofia di fine Ottocento – di cui è comunque in parte figlia; lo è per lo stile, così diverso da quello delle opere del corpus di Nietzsche che lo hanno preceduto e che lo seguiranno; lo è, infine, per la compattezza tematica e per il fatto di accompagnare con metodo il lettore in quella che è – a detta dello stesso Nietzsche – una questione fondamentale del suo pensiero. La Genealogia della morale nasce in effetti con l’obiettivo di offrire ai lettori una chiave di accesso a quella dimensione labirintica che è il pensiero di Nietzsche. Sempre nell’epistolario troviamo testimonianze in questo senso. In una lettera a Burkhardt del 14 novembre 1887, ad esempio, Nietzsche osserva che «tutte
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le pietanze che imbastisc[e] contengono parti tanto dure e indigeste, che proporle a degli ospiti (…) rappresenta un abuso dei rapporti di amicizia e di ospitalità», ma subito dopo assicura al destinatario di aver compiuto un lavoro meno ostico con la Genealogia. Anzi, la sua precisa «intenzione», con questo nuovo testo che «tratta di problemi psicologici della specie più dura», sarebbe stata di gettare chiarezza su «qualcuno dei principali presupposti di» Al di là del bene e del male – ultimo scritto pubblicato e che non aveva ricevuto l’accoglienza sperata («di quel libro tutti mi hanno detto la stessa cosa: che non si capisce di che cosa si tratta, che non sono altro che “raffinate assurdità”»). La stessa osservazione compare in una lettera di poco precedente (8.11.1887), destinata all’editore Naumann, in cui Nietzsche dichiara che «questo scritto polemico è strettamente connesso ad Al di là del bene e del male, come sua integrazione e chiarimento». In questa lettera, però, Nietzsche rivela qualcosa di più delle proprie intenzioni, che non si riducono certo alla volontà di fornire un sussidio per la comprensione della sua ultima opera. Il suo «desiderio principale» è piuttosto quello di stimolare l’interesse per la propria persona e per le proprie idee, offrendo ai lettori un testo che sia accattivante e fruibile, e che possa valere come solida base di partenza per un’indagine approfondita del suo pensiero. In altre parole, con la Genealogia Nietzsche si prefigge di «ottenere qualcosa che torni a vantaggio dei [suoi] scritti precedenti: che inviti cioè a leggerli e a prenderli sul serio». La sua pubblicazione risponde pertanto alla stessa esigenza che aveva portato Nietzsche a redigere le prefazioni dei testi pubblicati prima dello Zarathustra e di cui sarebbe uscita una seconda edizione. Queste prefazioni dovevano infatti mettere in luce la coerenza del percorso filosofico ed esistenziale compiuto da Nietzsche, mostrando quale fosse il denominatore comune delle riflessioni da lui svolte in precedenza e come fosse possibile navigare nell’arcipelago dei suoi aforismi senza perdersi. Ma soprattutto dovevano avere una funzione “promozionale”, per evitare gli insuccessi editoriali a cui erano andate incontro le opere precedenti – prima tra tutte, lo Zarathustra. E così, come
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Nietzsche stesso scrive a Meta von Salis il 14 settembre 1887, con la pubblicazione dell’ultima parte della Genealogia si chiude «il lavoro di un anno intero» volto a fornire «tutte le indicazioni essenziali per un orientamento provvisorio sul mio conto: dalla prefazione alla Nascita della tragedia fino alla prefazione del libro suddetto si dà una sorta di “storia dell’evoluzione”». La compattezza tematica a cui si è accennato prima quale tratto distintivo della Genealogia della morale risponde quindi a una precisa esigenza di Nietzsche, a quella volontà di fornire una ricapitolazione chiarificatrice di una questione che percorre la sua intera attività filosofica: il problema dell’«origine dei nostri pregiudizi morali» (GM, Prefazione 2). A tale questione sono dedicate le tre dissertazioni della Genealogia, vero e proprio scandaglio che si immerge nell’abisso della morale europea per individuarne i principi fondativi, senza però proporsi come momento finale di un processo che Nietzsche vede invece come ancora alle sue fasi iniziali. Per quanto, infatti, il testo si presenti come chiarificatore nei confronti delle opere che lo hanno preceduto, e in esso Nietzsche faccia il punto sulla questione della morale cristiana, la Genealogia non deve essere vista – come spesso è stato fatto – come un punto di arrivo del suo percorso filosofico. Essa è piuttosto un momento di passaggio della riflessione nietzscheana sulla cultura europea, che nel periodo 18861888 attraversa una fase di particolare vigore. L’interrogativo relativo ai valori morali – al «valore stesso di questi valori» – non è infatti che lo stimolo per una «nuova, immensa prospettiva» di cui Nietzsche intende farsi carico nella stagione finale della sua produzione. Questa prospettiva si realizza in «una critica dei valori morali», di una morale considerata come «il pericolo dei pericoli», in quanto responsabile di aver limitato lo sviluppo (spirituale) del tipo (culturale) uomo (GM, Prefazione 6). Il fatto che Nietzsche vedesse la Genealogia in questo modo, come prima parte di una più ampia riflessione sul problema della morale, è testimoniato da un’altra lettera (a F. Overbeck, 4.1.1888) che si riferisce a una bozza di indice redatta nell’autunno del 1887. A Overbeck, Nietzsche scrive che, con la Genealogia, ha voluto
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«isolare artificialmente i diversi focolai da cui ha avuto origine quella complessa creazione che si chiama morale», ma aggiunge che le tre dissertazioni, da sole, non realizzano questo obiettivo: «manca un quarto, un quinto e persino il più importante [primum mobile della morale] (“l’istinto del gregge”). – Questa parte per il momento l’ho dovuta accantonare in quanto troppo ampia, come pure la valutazione complessiva, alla fine, di tutti i diversi elementi, e con ciò una sorta di resa dei conti con la morale». Nella nota 9[83] del 1887, sempre sotto il titolo di «Genealogia della morale», si trova in effetti il piano per un «secondo scritto polemico», che sarebbe dovuto consistere in tre ulteriori dissertazioni (tra cui una dedicata all’istinto del gregge) e in una sezione conclusiva che doveva fungere da «resa dei conti con la morale (come Circe dei filosofi)». Scopo di Nietzsche, da quanto si può evincere da questo appunto, era di affrontare compiutamente la questione della morale come «origine del pessimismo e del nichilismo», e di condurre così la cultura europea nella sua «epoca tragica» (ibid.). Oltre a fungere da chiarificazione delle opere precedenti, la pubblicata Genealogia doveva quindi costituire il momento fondativo di un lavoro orientato a chiudere una fase della storia culturale europea. Essa pertanto introduce alla questione fondamentale che Nietzsche intende affrontare negli anni successivi, e la ricognizione delle diverse manifestazioni della morale europea che egli svolge al suo interno non è che il primo passo per la realizzazione del «compito» annunciato in chiusura del testo (e della nota del 1887 di cui sopra). Un compito che, come noto, rimanda al progetto editoriale e filosofico della Trasvalutazione di tutti i valori, che all’epoca della pubblicazione della Genealogia Nietzsche vede in fase avanzata di elaborazione. Tutto questo deve essere tenuto in considerazione nel momento in cui ci si appresta ad affrontare quel crocevia di temi e di problematiche del pensiero di Nietzsche che è la Genealogia della morale. Un testo, come detto, compatto ma variegato. Caratterizzato da una particolare unità tematica, ma ricco di spunti che offrono accessi a questioni di non secondaria importanza e
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che, nel loro complesso, definiscono la trama di un pensiero che manifesta la propria ricchezza e originalità al lettore più accorto. Di questa ricchezza si è cercato di rendere conto nelle pagine che seguono, attraverso contributi che, ciascuno a suo modo, affrontano il testo di Nietzsche illuminandone alcuni passaggi cruciali e intervenendo nella discussione di aspetti che si dimostrano rilevanti non solamente per la comprensione della filosofia di Nietzsche, ma anche per una valutazione del suo ruolo nella storia del pensiero occidentale contemporaneo. Il presente volume raccoglie quindi una serie di incursioni nella Genealogia della morale e offre nel suo complesso una ricognizione del testo che, senza pretesa di esaustività, ne saggia la qualità e la rilevanza per una ricerca storico-filosofica.
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Genealogia della morale: dalla premura didattica ai fini strategici Scarlett Marton
Tra i libri di Nietzsche, la Genealogia della morale è forse quello che negli ultimi anni è stato maggiormente studiato. Ma non è stato sempre così. La storia della ricezione del pensiero nietzscheano mostra chiaramente che, in epoche diverse, i commentatori e in generale i lettori hanno dedicato la propria attenzione alternativamente alle varie opere del filosofo tedesco. Negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, ad esempio, furono in particolare La nascita della tragedia e Così parlò Zarathustra a suscitare il maggiore interesse in Germania1, come pure in Italia2 e in Francia3. Tra le ragioni che si possono individuare per giustificare l’entusiasmo che la prima opera di Nietzsche suscitò negli anni immediatamente successivi al suo collasso mentale a Torino, va ricordato che, all’epoca della sua pubblicazione, la Nascita della tragedia venne celebrata nei circoli wagneriani, e successivamente continuò ad essere apprezzata dagli estimatori del compositore tedesco, che la leggevano mettendola in relazione con il Tristano e Isotta. Per quanto riguarda, invece, l’attenzione per lo Zarathustra, è bene notare che, in principio, la curiosità per la biografia di Nietzsche e l’enfasi che venne data al suo stile attutirono l’impatto delle sue idee. Molti lettori e interpreti partivano dal presupposto che il filosofo non avesse elaborato 1 Sulla prima ricezione del pensiero di Nietzsche in Germania cfr. Aschheim 1992 (in particolare i capitoli iniziali) e Pütz 1975. 2 Sulla prima ricezione del pensiero di Nietzsche in Italia cfr. Michelini 1974, Stefani 1975, Sturm 1991 e Marton 2007. 3 Sulla prima ricezione delle idee di Nietzsche in Francia cfr. Bianquis 1929, Nolte 1990, Smith 1991, Le Rider 1999, Forth 2001 e Marton 2009a.
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tanto un pensiero strutturato, quanto piuttosto un’“atmosfera”: l’importante era respirare l’aria dei suoi scritti e godere della fascinazione del suo linguaggio, in cui si riscopriva la sonorità pura e cristallina delle parole, la precisa corrispondenza tra le sfumature sonore e il senso dei termini, la nuova perfezione della lingua tedesca. Gli scritti di Nietzsche venivano quindi letti principalmente con una finalità estetica, mentre l’interesse per il suo pensiero era lasciato quasi del tutto in disparte. Alla Genealogia della morale si cominciò invece a prestare attenzione in un periodo storico successivo. Nella Francia degli anni ’60, ad esempio, Deleuze tributò grande importanza a quel libro. Nel suo Nietzsche e la filosofia (1962), in un discorso volto a confrontare Nietzsche e Kant, Deleuze sostenne che con la Genealogia della morale Nietzsche aveva voluto replicare la Critica della ragion pura (Deleuze, 1962, pp. 99-101)4. Secondo Deleuze, in particolare, nella prima dissertazione, che tratta del risentimento, Nietzsche analizzerebbe il paralogismo di una forza separata da ciò che essa produce; nella seconda, nel trattare della cattiva coscienza, egli sottolineerebbe invece la natura antinomica di una forza rivolta contro se stessa; nella terza, infine, denuncerebbe l’ideale ascetico come la massima mistificazione, quella di un ideale che comprende tutte le finzioni della morale e della conoscenza. Deleuze, quindi, presentò l’autore dello Zarathustra come un pensatore che sfidò l’ortodossia con le stesse armi utilizzate dalla tradizione filosofica. Il suo impegno nel costruire una nuova immagine pubblica di Nietzsche permise a quest’ultimo di passare dall’essere uno scrittore marginale al venire annoverato come il precursore delle questioni filosofiche più rilevanti. Tempo dopo, molti interpreti tenderanno a privilegiare la Genealogia tra gli scritti di Nietzsche. Nel 1994, Richard Schacht curò negli Stati Uniti un volume che raccoglieva contributi dedicati a quell’opera; in quell’occasione egli sostenne che essa costituiva, per molti aspetti, il punto più alto dell’attività filosofica di 4 Per un commento sull’interpretazione che Deleuze svolge della filosofia nietzscheana, cfr. Marton 1998.
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Nietzsche negli ultimi anni di sanità mentale (Schacht, 1994: x). Contemporaneamente, in Germania, Werner Stegmaier, pubblicò uno studio approfondito di quel testo (Stegmaier 1994); muovendo da una contestualizzazione della Genealogia nel corpus degli scritti nietzscheani e da considerazioni relative alle finalità di quell’opera, Stegmaier analizzò dettagliatamente le singole sezioni che la compongono. In epoca recente e seguendo queste linee-guida, numerosi studiosi hanno svolto studi specifici sulla Genealogia della morale nel suo complesso5 e sulle specifiche questioni individuabili al suo interno6. Questi sono solo alcuni esempi che mostrano la fortuna che questo libro ha avuto negli ultimi decenni, ma spiegare i motivi per cui esso è ancora oggi attuale e merita quindi di essere studiato va oltre gli obiettivi del presente contributo. 1. Il primo aspetto sul quale intendiamo soffermarci per svolgere le nostre considerazioni sulla Genealogia della morale riguarda il fatto che Nietzsche attribuisce grande importanza a quest’opera all’interno dei suoi scritti, come si legge in una nota contenuta nell’epilogo del Caso Wagner: Sulla contrapposizione tra «morale aristocratica» e «morale cristiana», la mia Genealogia della morale ha dato i primi chiarimenti: non esiste forse nella storia della conoscenza religiosa e morale una svolta più decisiva. Questo libro, la mia pietra di paragone per quanto mi appartiene, ha la fortuna di essere accessibile soltanto agli spiriti di più elevato sentire e massimamente rigorosi: agli altri mancano le orecchie.
In questo passo, che occupa un posizione particolare nel testo del 1888, il filosofo sottolinea, da un lato, la difficoltà di essere compreso e, dall’altro, il valore inestimabile della propria Genealogia. Nel fare questo, Nietzsche tocca due temi che ricorrono 5 Da menzionare, tra gli altri, Orsucci 2001, Janaway 2007, Conway 2007, Owen 2007 e Hatab 2008. 6 Cfr. per esempio Kemal 1990, Ridley 1998, Brusotti 2001, Bornedal 2004 e Sedwick 2005.
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in quest’ultima opera, quelli relativi alla comprensibilità e alla rilevanza dei suoi scritti – temi che per buona parte sono connessi tra di loro. Nella citazione tratta dal Caso Wagner, Nietzsche sembra inoltre attribuire particolare importanza alla «contrapposizione tra “morale aristocratica” e “morale cristiana”». Una valutazione, questa, che non sorprende, dal momento che anche in altre sue opere Nietzsche indica quale cifra comune dei propri scritti il suo sommo disprezzo nei confronti del cristianesimo (è quanto accade ad esempio nel caso della terza sezione della Nascita della tragedia)7. La valutazione che noi, oggi, possiamo offrire, è però diversa. Da una parte bisogna tenere in considerazione che, se negli scritti del 1888 Nietzsche sostiene che il cristianesimo sia la questione centrale delle sue opere precedenti – se, appunto, nel Caso Wagner egli dichiara che la «contrapposizione tra “morale aristocratica” e “morale cristiana”» sia l’aspetto più rilevante della Genealogia – queste sue affermazioni vanno comunque prese con la dovuta attenzione. In fondo, è molto probabile che esse siano segnate dalle distorsioni comuni a qualsiasi visione retrospettiva. D’altro canto, non si può negare il valore della Genealogia di Nietzsche, in quanto è proprio in quest’opera che egli individua una delle questioni filosofiche più significative degli ultimi due secoli: la nozione di risentimento. Nella Genealogia, infatti, Nietzsche diagnostica con chiarezza e per la prima volta il modo di pensare, agire e provare emozioni degli individui affetti da questa passione, e mostra in particolare come l’unico scopo dell’uomo del risentimento sia quello di affermare se stesso, negando tutti coloro che non gli è possibile eguagliare. All’inizio del XX secolo, muovendo dall’analisi svolta da Nietzsche, Max Scheler affrontò la questione del risentimento da una diversa prospettiva, sottolineando il manifestarsi di questo fenomeno nelle relazioni sociali8. Da questo punto di vista, 7 Cfr. EH, Nascita della tragedia 1: «In tutto il libro, silenzio profondo, ostile sul cristianesimo». 8 Scheler considera il risentimento come «un auto-avvelenamento psicologico, dotato di cause ed effetti ben determinati». A suo avviso, si tratta di una disposizione psicologica che, se repressa in maniera sistematica, produce particolari emozioni e sentimenti,
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quanto maggiore è la distanza tra la condizione giuridica di particolari gruppi – condizione dovuta al sistema politico o alla tradizione culturale – e quanto maggiore è il suo potere reale, tanto maggiore sarà il risentimento maturato. La stessa cosa non accadrebbe in un sistema sociale chiaramente differenziato, in una società di caste o in una democrazia che, tanto sul piano sociale che su quello politico, tenda a una distribuzione della ricchezza. Attribuendo al fenomeno del risentimento una connotazione e una portata differenti, Scheler ci spinge a riflettere sulla nostra società attuale (cfr. Marton 2008). Il presente contributo non riguarda però la questione del risentimento. Piuttosto, è nostro scopo riflettere sulla specificità della Genealogia della morale, muovendo dalla considerazione che, per via dello stile espositivo in esso adottato, essa venga considerata l’opera di Nietzsche che più delle altre può rientrare tra o essere assimilata ai testi della tradizione filosofica a cui siamo maggiormente abituati. Attraverso un confronto con le due opere che la precedono, cercheremo pertanto di rendere conto della relazione che intercorre tra di esse; inoltre, esaminando i diversi procedimenti adottati da Nietzsche, mostreremo la strategia che egli intende perseguire. 2. Non è esagerato affermare che nei suoi testi Nietzsche cerchi sempre di andare incontro ai propri lettori. Non è quindi un caso che, nel 1886, quando ripubblica la sua opera presso l’editore Fritzsch, egli inserisca nella Nascita della tragedia un Tentativo di autocritica, che rediga delle prefazioni per i due volumi di Umano, troppo umano, per Aurora e per la Gaia scienza, e che infine scriva una quinta parte da aggiungere a quest’ultima opera. Non è neppure un caso, inoltre, che egli progetti la stesura di Ecce homo, nel quale vi è un capitolo dedicato a ciascuno dei suoi come l’odio e il disprezzo, la gelosia e l’invidia, la rabbia e la cattiveria. Nel caso in cui questi sentimenti ed emozioni, che appartengono alla condizione umana, vengano sistematicamente repressi, essi «producono una deformazione più o meno permanente della capacità di valutare e in generale di giudicare» (Scheler 1972: 38).
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scritti editi. È precisamente con lo scopo di rendersi comprensibile che Nietzsche istruisce ripetutamente i propri lettori sul modo in cui egli debba essere letto. Nel fornire le indicazioni sul procedimento di lettura delle proprie opere, Nietzsche invita insistentemente ad adottare un approccio contraddistinto da attenzione e pazienza (cfr. in particolare BA, Introduzione; GM, Prefazione 8; EH, Perché scrivo libri così buoni? 5). Credendo di facilitare ai lettori la fruizione delle proprie opere, nel presentare un’idea che gli sta particolarmente a cuore, non di rado Nietzsche si preoccupa di rendere conto di quanto essa sia difficile da esprimere. È quanto accade, ad esempio, nella sezione Il convalescente della terza parte dello Zarathustra, in cui il protagonista dell’opera si ferma a riflettere sul linguaggio prima di affrontare in tutta la loro portata le conseguenze del proprio pensiero abissale. Nella medesima sezione, inoltre, subito dopo aver ricordato a Zarathustra che lui è il maestro dell’eterno ritorno, i suoi animali – l’aquila e il serpente – lo incitano a cantare9. Nietzsche insiste sulla difficoltà di esprimere le proprie idee anche in Al di là del bene e del male. Nell’ultima sezione di quest’opera egli denuncia infatti il carattere imperfetto del linguaggio e chiama in causa i suoi stessi scritti10. Nella Genealogia della morale, il filosofo procede allo stesso modo. Nella prima parte dell’opera, prendendo le distanze dal modo in cui utilitaristi ed evoluzionisti affrontano le questioni morali, Nietzsche si dedica a un’analisi dell’origine delle coppie di valori “bene” e “male”, “buono” e “malvagio”. Poco prima di affrontare la questione del risentimento, lascia la parola a un interlocutore immaginario, 9 Cfr. Za III, Il convalescente: «Non sono stati donati alle cose nomi e suoni, perché l’uomo trovi ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose. Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni!»; «Perché vedi, Zarathustra, per le tue nuove canzoni occorrono lire nuove». Sulle considerazioni di Nietzsche sul linguaggio cfr. Marton 2012. 10 Cfr. JGB 296: «Ahimè, che cosa siete mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! Or non è molto eravate ancora così versicolori, giovani e maliziosi, così colmi di spine e di droghe segrete, che mi facevate starnutire e ridere – e ora? Avete già messo a nudo la vostra novità, e alcuni di voi sono pronti, lo temo, a divenire tante verità: hanno già un’aria così immortale, così onesta da spezzare il cuore, così noiosa!».
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che definisce un «libero pensatore», «un rispettabile animale», «un democratico», per poi concludere: «Fino a quell’istante era tutt’orecchi e non ce la faceva più a sopportare il mio silenzio. Poiché per me, a questo punto, c’è molto da tacere» (GM I 9). Tacendo, Nietzsche fa intendere che il dialogo con quell’interlocutore non sia possibile; ancora di più, egli manifesta le difficoltà che si trova a dover superare per poter esprimere le proprie idee. Il desiderio di Nietzsche di farsi comprendere è evidente anche nel momento in cui, in uno dei suoi scritti, egli fa riferimento a un’altra sua opera. Questo procedimento viene adottato per esempio nelle prefazioni del 1886, aggiunte a libri già editi. Ne è un caso la prefazione a Umano, troppo umano II, nella quale, dopo essersi mostrato ancora una volta reticente nei confronti del linguaggio, Nietzsche afferma che «bisogna parlare solo quando non è lecito tacere; e solo di ciò che si è superato» (MA II, Prefazione 1). Inoltre, riferendosi alle Considerazioni inattuali, osserva che le prime tre dovrebbero essere retrodatate. Lo stesso procedimento ricorre negli scritti del 1888. Nel Crepuscolo degli idoli, per esempio, Nietzsche riprende un passo dello Zarathustra (GD, Parla il martello), mentre in Ecce homo vengono citati molti passi dello stesso poema11. E cosa dire di Nietzsche contra Wagner, in cui Nietzsche raccoglie passi tratti da libri precedentemente pubblicati, col preciso scopo di mostrare che lui e il compositore erano nature antitetiche sin dal 1877? La Genealogia è ricca di rimandi di questo tipo. Nella prefazione, per esempio, Nietzsche afferma che il suo studio dei pregiudizi morali era iniziato già con Umano, troppo umano (GM, Prefazione 2); rimanda il lettore a passi specifici di quel testo e di altre sue opere, come la raccolta di Opinioni e sentenze diverse, Il viandante e la sua ombra e Aurora (ibid.)12; infine, tratta della 11 In EH, Prefazione 4 tornano passaggi tratti da Za, Nelle isole beate e Della virtù che dona 3. 12 In GM, Prefazione 2, in particolare, Nietzsche rimanda a MA 45 a proposito della doppia preistoria di bene e male; a MA 136 in merito all’origine della morale ascetica; a MA 96 e 100 e a VM 89 per quel che riguarda l’eticità dei costumi; a MA 90, WS 26 e M 112 sull’origine della giustizia; a WS 22 e 33 sull’origine del castigo.
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comprensibilità dei propri scritti, prendendo come esempio lo Zarathustra (GM, Prefazione 8). Nel corso delle tre dissertazioni, Nietzsche fa invece più volte riferimento ad Al di là del bene e del male, Aurora e La gaia scienza13 e, all’inizio della terza dissertazione, cita in particolare un passo dello Zarathustra (GM III 1, in cui è citato Za, Del leggere e scrivere). Non si può negare che Nietzsche dia sempre e continuamente prova della propria premura didattica. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, alcuni procedimenti di cui egli fa uso nella Genealogia – come ad esempio rimandare ai propri scritti – invece di semplificare il lavoro del lettore, finiscono per appesantire la complessità dell’opera. Se infatti molte delle riflessioni che Nietzsche sviluppa nella Genealogia sono già presenti in altre opere, il lettore è spinto a interrogarsi sulle novità che Nietzsche intende apportare alle proprie considerazioni precedenti nel suo ultimo scritto. Ora, si potrebbe ipotizzare che, data la forma di dissertazione che la contraddistingue, la Genealogia costituisca un caso singolare e indipendente rispetto agli altri testi che rientrano nel corpus nietzscheano, e che, inoltre, essa offra un percorso di accesso privilegiato al pensiero del filosofo nel suo complesso. Sarebbe anche possibile sostenere che, essendo strutturata in una prefazione seguita da tre dissertazioni, quest’opera presenti un’esposizione lineare del pensiero di Nietzsche attorno ai fenomeni morali. Infine, dato il carattere dimostrativo di questa esposizione, la Genealogia sembrerebbe essere un testo particolarmente accessibile. Queste ipotesi sono naturalmente tutte da verificare, e ad esse ci dedicheremo nelle sezioni che seguono. 3. Quando, nel 1887, inizia a redigere Genealogia della morale, Nietzsche scrive all’editore Naumann che «questo scritto polemico è strettamente connesso ad Al di là del bene e del male, 13 GM I 7 rimanda a JGB 195; GM II 6 a JGB 197 e M 18, 77 e 113; GM III 9 a JGB 260 e M 18; GM III 24 a FW 344 e alla prefazione di M; GM III 27 a FW 357.
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come sua integrazione e chiarimento» (Lettera a C.G. Naumann, 8.11.1887)14. Ma, così come la sua nuova opera avrebbe dovuto chiarire Al di là del bene e del male, quest’ultima doveva spiegare lo Zarathustra – come Nietzsche stesso aveva fatto notare al proprio editore, in una lettera in cui si legge che Al di là del bene e del male «è una sorta di introduzione nei retroscena dello Zarathustra» (Lettera a E.W. Fritzsch, 7.8.1886)15. Tutto porta a pensare che, nel redigere questi tre libri, Nietzsche stesse cercando di tradurre i medesimi problemi in diverse formulazioni; ma soprattutto che, con l’intento di venire incontro ai propri lettori, egli abbia fatto ricorso a tutta la propria premura didattica. Se esaminati da vicino, Così parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale rivelano una certa continuità. Tra i vari elementi che accomunano questi testi non si può trascurare il procedimento genealogico. Non ci sono dubbi che il termine “genealogia” compaia solamente nell’ultima di queste opere, così come è indubbio che sia in quest’ultima che il compito genealogico si manifesti in tutta la sua pregnanza16. Nietzsche chiarisce in particolare che non si deve far confusione tra “genealogia” e “genesi”17: mentre il procedimento genetico ricerca l’origine delle cose, presupponendo di poter risalire fino alla loro essenza, quello genealogico critica proprio la nozione di essenza, ponendo in questione il valore che viene da lungo tempo attribuito alle cose. Nella Genealogia, Nietzsche prende in esame la nozione di valore e con ciò opera un’inversione critica. Nel dedicarsi a que14 Cfr. anche Stegmaier 1994: 26. Nella stessa lettera a Naumann, e sempre riferendosi alla Genealogia, Nietzsche scrive anche: «Il mio desiderio principale, per quanto riguarda questa pubblicazione, è quello di ottenere qualcosa che torni a vantaggio dei miei scritti precedenti: che inviti cioè a leggerli e a prenderli sul serio». 15 Cfr. anche la lettera a R. von Seydlitz, 26.10.1886, in cui si legge: «È una sorta di commento al mio Zarathustra. Ma come mi si dovrebbe comprendere bene per capire in quale senso ne sia un commento!». 16 Col termine “genealogia”, Nietzsche specifica quello che in JGB aveva chiamato «storia naturale della morale». L’idea è in qualche modo già presente in MA, in particolare nella sezione intitolata Contributo alla storia dei sentimenti morali. 17 Cfr. a questo proposito Foucault 1971 e, sull’interpretazione foucaultiana di Nietzsche, Marton 2009b.
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sta nozione, egli pone fin da subito la questione del valore dei valori, aprendo così la strada per una creazione dei valori. Se il valore di valori come “bene” e “male” non è mai stato posto in questione, è perché si guardò a essi come se esistessero da sempre: in quanto appartenenti a un al di là, questi trovavano legittimazione nel mondo soprasensibile. Una volta, però, che li si ponga in questione, essi rivelano immediatamente il loro essere semplicemente “umani, troppo umani”. Non si può dire dove né quando abbiano avuto origine, ma sembra certo che questi valori siano creazioni dell’uomo. Il valore dei valori deve quindi essere giudicato facendo riferimento al punto di vista dal quale questi ultimi traggono origine. Non basta, cioè, guardare alle prospettive valutative che essi aprono, ma si deve risalire al valore che essi possedevano nel momento in cui sono stati posti per la prima volta. Dal punto di vista nietzscheano, la questione del valore è duplice: i valori presuppongono valutazioni che hanno dato loro origine e gli hanno conferito il valore che possiedono; queste, per parte loro, nel momento in cui creano determinati valori ne presuppongono altri, che sono il fondamento dello stesso giudizio valutativo18. Il procedimento genealogico comporta, quindi, due direttrici inseparabili: da un lato, bisogna porre i valori in relazione col procedimento valutativo, mentre dall’altra bisogna porre il procedimento valutativo in relazione coi valori. Se si considera la Genealogia della morale nel suo complesso, si nota prima di tutto che il movimento del testo è tale per cui esso si apre con un rifiuto dell’idea che il fondamento ultimo dei valori morali possa essere trovato sul piano della metafisica e si chiude con una denuncia dei postulati metafisici surrettiziamente presenti nella morale degli schiavi. L’invenzione di un altro mondo permette agli uomini del risentimento di restaurare principi trascendenti, che vengono posti come fondamento della moralità; in questo modo, essi disprezzano il mondo in cui vivono e negano il carattere “umano, troppo umano” dei valori che loro 18 Seguiamo qui la lettura di Deleuze e la sua dettagliata analisi della nozione nietzscheana di valore e del procedimento genealogico (Deleuze 1973: Il tragico 1-3).
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stessi istituiscono. Dopo aver spiegato la prospettiva che intende adottare per riflettere sulle questioni morali, Nietzsche esamina innanzitutto i valori “bene” e “male”, così come sono stati adottati nelle antitetiche modalità giudicative dei nobili e degli schiavi. In seconda battuta, egli analizza il modo di procedere degli uomini del risentimento, mostrando la genesi delle nozioni di “colpa”, “giustizia”, “castigo” e “cattiva coscienza”. Infine, Nietzsche si concentra sull’operato di questi uomini nell’ambito artistico, in filosofia, nella religione e nella scienza, mettendo in luce come tutte queste siano manifestazioni dell’ideale ascetico. Nelle tre dissertazioni nel loro complesso, Nietzsche passa al setaccio della genealogia della morale il comportamento e la produzione dell’uomo del risentimento, sottoponendoli a una valutazione critica e giudicandone gli aspetti negativi. In tutti i casi si tratta di tentativi messi in atto da chi non ha la forza di lottare e cerca di evitare il conflitto e quindi denigrare la vita, che, secondo Nietzsche, non è altro che una lotta senza fine e senza sosta. La Genealogia si presenta, quindi, come l’opera in cui l’autore esplicita il procedimento genealogico meglio di quanto abbia fatto nelle opere precedenti – per quanto, torniamo a ripetere, questo procedimento sia già presente tanto in Al di là del bene e del male che in Così parlò Zarathustra. 4. Per verificare il fatto che Nietzsche abbia adottato il procedimento genealogico già prima della Genealogia, si prenda in considerazione ad esempio la sezione intitolata Dei dispregiatori del corpo del primo libro dello Zarathustra. L’obiettivo del protagonista in questo discorso consiste nell’attaccare il dualismo corpoanima e, in questo modo, combattere l’idea di un “io”, di un soggetto che permane o che può in qualche modo essere individuato. In nome del Sé (Selbst), Zarathustra promuove quindi la critica dell’io (Ich). Nietzsche non mostra o rivela cosa sia il Sé, né chiarisce cosa intenda con questo termine; semplicemente, si limita ad assumerlo come sinonimo di “corpo”. Una volta identificato con quest’ultimo, il Sé permette di concepire l’io in un altro modo,
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come entità inscritta in un diverso registro. È solo per mezzo di una finzione che l’io – che è pluralità di affetti e molteplicità degli impulsi – può costituire un’unità. Non è un caso che Nietzsche introduca questa sezione subito dopo quella intitolata Di coloro che abitano un mondo dietro al mondo: la critica del soggetto è difatti chiaramente debitrice della critica della metafisica, in quanto i metafisici, che postulano una visione dualistica del mondo, postulano allo stesso modo il dualismo corpo-anima. Dopo aver introdotto il problema che intende trattare – le diverse prospettive che si hanno del corpo – e aver chiarito la propria posizione – l’idea che il corpo preceda l’io –, Zarathustra affronta il suo obiettivo: svolgere una diagnosi dei propri antagonisti. «Voglio dire una parola ai dispregiatori del corpo. Che essi disprezzino è dovuto al loro apprezzare», afferma Zarathustra, e quindi domanda: «Ma che cos’è che ha creato l’apprezzare e il disprezzare e il valore e la volontà?». A questo interrogativo, Zarathustra risponde che «il Sé creatore ha creato per sé apprezzare e disprezzare, ha creato per sé il piacere e il dolore», per poi concludere: «Persino nella follia del vostro disprezzo, dispregiatori del corpo, voi servite il vostro Sé. Io vi dico: è il vostro Sé che vuol morire e si allontana dalla vita». Osservando che il disprezzo che i suoi antagonisti tributano al corpo deriva dal loro apprezzamento per l’anima, Zarathustra mette in relazione valori e valutazioni. Inoltre, egli giudica queste valutazioni, quando conclude che nei dispregiatori del corpo è il Sé a voler perire e il corpo a voler scomparire. Per quanto ancora in nuce, il procedimento genealogico, con il suo duplice movimento, si manifesta comunque già in questo discorso dello Zarathustra. Prima di tutto, il protagonista dell’opera riporta i valori alle valutazioni dalle quali essi traggono origine; quindi, sottopone a giudizio queste prospettive valutative, domandando cosa abbia «creato l’apprezzare e il disprezzare e il valore e la volontà»; infine, nel rispondere a quest’ultimo interrogativo affermando che è il proprio corpo a richiedere apprezzare e disprezzare, Zarathustra esplicita il criterio che intende adottare per valutarli entrambi.
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Il Al di là del bene e del male il procedimento genealogico si mostra ad esempio al § 260. Nietzsche inizia affermando l’esistenza di due tipi principali di valutazioni: quella dei signori e quella degli schiavi19. La maniera aristocratica di giudicare, in particolare, dà risalto al sentimento di pienezza e di eccesso di forza. «“Noi veritieri” – così i nobili chiamavano se stessi nell’antica Grecia». Prendendo se stesso come unico punto di riferimento, l’aristocratico non ha bisogno di approvazione e abbandona qualsiasi termine di comparazione; «conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori». Inizialmente, egli conferisce valore solamente agli uomini, ma poco dopo, per estensione, lo fa anche con le azioni. Lo schiavo, al contrario, valuta prima di tutto le azioni e giudica gli uomini in base a esse. Poco importa quale sia il criterio di giudizio adottato: le azioni possono essere valutate esaminando le loro conseguenze, considerando i motivi che le hanno ispirate, giudicando le intenzioni con le quali sono state compiute o persino considerandole buone o cattive “in sé”. Alla fine, comunque, il principio della valutazione di un individuo sarà sempre il modo con cui egli si relaziona col gruppo di cui fa parte (se l’aristocratico è “cattivo” perché incute timore, allora colui dal quale non vi è nulla da temere deve essere “buono”). Ponendo una cesura tra uomo e atto, si dà avvio a un processo di moralizzazione che tende a raccogliere tutto al suo interno. In tutto JGB 260, in cui vengono presi in esame questi due tipi di valutazione, Nietzsche porta avanti una critica delle «idee moderne»20. Nel trattare della morale dei signori, quindi, Nietzsche dimostra di trovarsi agli antipodi rispetto a una morale che attribuisce valore al disinteresse, all’altruismo e alla compassione. Quando invece si occupa della morale degli schiavi, egli mette bene in evidenza come quest’ultima dia rilievo ai mezzi adottati da chi soffre e che facilitano la sua sopravvivenza. Men19 È bene ricordare che l’idea di una duplice storia dei valori di bene e male si trova già in MA 45. 20 Nietzsche considera Al di là del bene e del male proprio come «una critica della modernità» (cfr. EH, Al di là del bene e del male 2).
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tre la morale dei signori «è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio, che si hanno doveri unicamente verso i propri simili», la morale degli schiavi «è essenzialmente morale utilitaria» (JGB 260). Nella Genealogia della morale, dopo aver esposto con particolare chiarezza, nella prefazione, cosa intenda per procedimento genealogico, nel § 10 della prima dissertazione Nietzsche riprende le questioni trattate in JGB 260. Concentrandosi sull’analisi della coppia di valori “bene” e “male”, “buono” e “malvagio”, però, invece di assumere come obiettivo critico le “idee moderne”, egli introduce la nozione di risentimento. Le parole chiave per comprendere questo sentimento sono odio e desiderio di vendetta. È la differenza, in particolare, che causa l’odio, o, meglio, a generarlo è il rifiuto della differenza. Incapace di contrastare il forte, l’uomo risentito chiede vendetta, ma, non potendola attuare, immagina il momento in cui la sua ira calerà impietosa e implacabile; così, egli fantastica sul momento in cui la vendetta gli sarà finalmente concessa. Il desiderio di vendetta nasce quindi dalla propria impotenza, e di essa si alimenta. Per questo motivo il risentimento non è sinonimo di reazione: è proprio perché incapace di reagire che il debole diventa risentito. Sulla base del percorso di analisi svolto da Nietzsche, si possono trarre alcune conclusioni. Prima di tutto, quello che la morale dei signori valuta “buono” deve essere diverso da ciò che la morale degli schiavi indica col medesimo termine. Così come i valori “buono” e “cattivo” sono stati creati dal punto di vista aristocratico, “buono” e “malvagio” seguono dalla prospettiva di valutazione degli schiavi. Questi valori derivano da due attitudini opposte: nel primo caso da un movimento di autoaffermazione, nel secondo da una tendenza negatrice e oppositrice. È chiaro, quindi, che non ci può essere equivalenza nel significato dei termini adottati, come è evidente nel caso del valore “buono”, a seconda che esso sia affermato dai signori o dagli schiavi. In secondo luogo, inoltre, si può dire che questo valore “buono” affermato in una delle due morali corrisponda esattamente al valore opposto, al “malvagio”, nell’altra. Nel momento in cui i forti
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affermano: «Noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici», i deboli dicono: «Se loro sono malvagi, allora siamo noi ad essere buoni». Pertanto, dal punto di vista della morale del risentimento, “malvagio” è precisamente il nobile, il coraggioso, il più forte, quello che nella morale dei signori è definito “buono”. La morale degli schiavi deriva quindi solamente da un’inversione dei valori e il suo atto fondativo non va oltre questa reazione. Nel momento in cui il valore “malvagio” della morale del risentimento corrisponde al valore “buono” dell’altra morale, i risentiti non creano propriamente nuovi valori, ma si limitano ad invertire quelli che erano stati posti dai nobili. Possiamo quindi verificare il fatto che, come si era detto in merito al procedimento genealogico, Al di là del bene e del male spieghi Così parlò Zarathustra, mentre la Genealogia della morale offra una delucidazione di Al di là del bene e del male. Nello Zarathustra, Nietzsche riflette sul comportamento dei dispregiatori del corpo; in Al di là del bene e del male, esamina la condotta degli uomini moderni; nella Genealogia, infine, analizza il modo di procedere degli uomini del risentimento. In tutti questi casi, Nietzsche svolge una diagnosi del modo di pensare, di agire e di provare emozioni di coloro che evitano la lotta e che quindi voltano le spalle alla vita. Nel passaggio da un libro a un altro, per quanto Nietzsche affronti in ciascuno di essi diverse questioni, egli mantiene un obiettivo comune, che consiste nel voler chiarire e approfondire un’unica problematica principale. Sulla base di questo, occorre quindi notare che, dal momento che già in Umano, troppo umano si trovano poste questioni che Nietzsche svolge nella Genealogia della morale, non è possibile isolare quest’ultima opera dal corpus dei suoi scritti. Inoltre, non sembra corretto pensare che essa costituisca un testo unitario, separato e autonomo rispetto agli altri libri pubblicati da Nietzsche, il cui contenuto permetta l’accesso al pensiero del filosofo nel suo complesso. 5. Un altro aspetto da segnalare consiste però nel fatto che, a differenza dello Zarathustra e di Al di là del bene e del male, la
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Genealogia della morale contiene indicazioni sull’approccio da adottare nei confronti degli scritti precedenti di Nietzsche. Nella prefazione a quest’opera, per esempio, Nietzsche scrive: Un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora «decifrato»; deve prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione. (GM, Prefazione 8)
E continua: Nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel che in un caso del genere intendo per «interpretazione» – a questo saggio è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento. (Ibid.)
Di primo acchito, saremmo portati ad affermare che in questo libro Nietzsche intenda fornire una chiave di lettura per i propri scritti aforistici. Ma è bene analizzare con maggiore attenzione quanto egli dichiara in questo passo. Il testo in esergo a GM III è il seguente: – Incuranti, beffardi, violenti – così ci vuole la saggezza: è una donna, ama sempre unicamente il guerriero. Così parlò Zarathustra
L’affermazione secondo cui è questo l’aforisma di cui Nietzsche parla nella prefazione dell’opera è problematica. In particolare, sono due gli aspetti che saltano immediatamente all’occhio: innanzitutto, il testo citato è tratto dalla prima parte di Così parlò Zarathustra, un libro che ben difficilmente potremmo definire aforistico – ma neppure il saggio che segue, con i suoi ventotto ampi paragrafi, potrebbe essere considerato un testo aforistico. Inoltre, a prima vista il saggio e l’esergo trattano temi diversi tra di loro, e sembrano quindi avere poco a che vedere l’uno con l’altro. D’altra parte, si può anche pensare che l’aforisma che Nietzsche ha in mente nella prefazione della Genealogia sia il primo paragrafo della terza dissertazione21, cosa che però è al21 Questa testi è stata sostenuta di recente da alcuni commentatori. Cfr. Clark 1997, Janaway 1997, Wilcox 1998 e Miklowitz 1999.
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trettanto problematica. Prima di tutto bisogna considerare che questo paragrafo è di fatto un riassunto, con poche variazioni, di quanto Nietzsche tratta nel resto del saggio. Inoltre, dopo aver presentato un breve dialogo che fa capire che nulla di quello che è stato detto fino a quel momento sia stato compreso, Nietzsche taglia corto con la frase «cominciamo dunque da capo» (GM III 1), e con ciò chiarisce che le tesi che aveva presentato schematicamente verranno svolte in quanto segue. Entrambe le possibilità considerate – che l’aforisma cui Nietzsche si riferisce nella prefazione della Genealogia sia l’esergo di GM III o il primo paragrafo di quel saggio – lasciano diverse questioni aperte. Senza cercare di rispondere a questi interrogativi specifici, proveremo invece a contestualizzare l’affermazione di Nietzsche per cui a GM III «è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento». Per far questo, occorre tornare al § 8 della prefazione e considerarlo per intero. Nietzsche inizia il paragrafo confrontando la Genealogia con i propri scritti precedenti: a suo avviso, il suo ultimo libro è «abbastanza chiaro» rispetto alle sue altre opere – che invece, per sua esplicita ammissione, «non sono facilmente accessibili» (GM, Prefazione 8). Prendendo come esempio lo Zarathustra, Nietzsche osserva poi che per conoscere e comprendere quell’opera è necessaria una disposizione particolare. Infine, riferendosi agli altri suoi scritti, commenta che «la forma aforistica presenta difficoltà: ciò è dovuto al fatto che oggigiorno non si dà sufficientemente importanza a questa forma» (ibid.). Fino a questo punto sembra che il filosofo si stia preoccupando ancora una volta della comprensibilità dei propri scritti. Ma è bene osservare che, in questo paragrafo, Nietzsche si concentra solamente sulle sue opere aforistiche. In quanto segue, infatti, egli sostiene che non basta leggere un aforisma per decifrarlo, ma occorre svolgerne un’interpretazione. Pertanto, bisogna capire bene cosa egli intenda con “aforisma”. In GM, Prefazione 2, Nietzsche ripercorre l’origine delle proprie riflessioni sui pregiudizi morali e afferma che esse «hanno ricevuto la loro prima sobria e provvisoria espressione in quella
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raccolta di aforismi che porta il titolo “Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi”». A questo proposito, è bene sapere che, negli anni immediatamente precedenti alla stesura del suo primo testo aforistico, Nietzsche lesse opere dei moralisti ed enciclopedisti francesi. Alla fine del 1877, quando riunì e rilesse i suoi appunti – pagine e pagine di riflessioni su molteplici temi, apparentemente molto diversificati e sconnessi – Nietzsche si domandò se non fosse il caso di pubblicarli in questa forma. Con tutta probabilità, in quell’occasione egli stava pensando a Diderot e Voltaire, due avversari della sistematicità in filosofia, ma anche a Chamfort e La Rouchefoucauld, con le loro sentenze e i loro pensieri. In effetti, è noto che nel Crepuscolo degli idoli, dopo aver sostenuto di essere, fra i Tedeschi, maestro nell’arte dell’aforisma e della sentenza, Nietzsche dichiari come propria ambizione «di dire in dieci frasi quel che ogni altro dice in un libro, – ciò che ogni altro non dice in un libro…» (GD, Scorribande 51). L’attenzione per le formule concise e la capacità di fissare obiettivi e di suscitare sorpresa nel lettore, sono aspetti che si ritrovano negli scritti dei moralisti francesi. Non a caso, Chamfort e La Rouchefoucauld, tanto apprezzati da Nietzsche, cercano lettori che non abbiano timore di mettersi in questione. Nei loro scritti si vede chiaramente che leggere una massima comporta un duello con l’autore e con se stessi. Se una massima è ben scritta, essa deve infatti stimolare un gioco tra chi la enuncia e chi la legge, poco importa se essa porta al plauso o a un commento indignato, se implica accordo o contestazione. È quindi lecito affermare che, se i moralisti francesi fanno ricorso alla sentenza, è perché il loro intento è prima di tutto quello di provocare il lettore. Nietzsche persegue il medesimo obiettivo. In Così parlò Zarathustra, egli chiarisce qual è la propria concezione della sentenza, e nella sezione Del leggere e scrivere, afferma: Chi scrive in sangue e sentenze, non vuol essere letto ma imparato a mente. Sui monti la via più diretta è quella da vetta a vetta: ma per questo occorre che tu abbia gambe lunghe. Le sentenze devono essere vette: e coloro ai quali si parla devono essere grandi e di alta statura.
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Adottando le sentenze come vette del pensiero, Nietzsche pensa che esse si contrappongano al raziocinio discorsivo uniforme, noioso e monotono. Irriverenti, le sentenze mettono in questione i pregiudizi e scuotono le opinioni comunemente accettate; in breve, provocano il lettore. Tuttavia, dal momento che egli esige che il lettore le impari a memoria, Nietzsche non si limita a cercare – come fanno i moralisti francesi – un lettore ricettivo e soprattutto coraggioso; piuttosto, egli pretende che i propri lettori siano disposti a incorporare quelle massime nella loro vita. Da quanto visto finora si può già inferire che Nietzsche attribuisce al termine “aforisma” impiegato nella prefazione della Genealogia un senso affine a quello di “sentenza”. In effetti, quando nel Crepuscolo Nietzsche definisce se stesso sommo maestro dell’aforisma e della sentenza tra i Tedeschi, egli stesso associa queste due modalità di scrittura. D’altra parte, però, Nietzsche sostiene anche che per decifrare un aforisma non è sufficiente leggerlo, ma occorre anche interpretarlo, e a questo scopo è necessaria un’arte dell’interpretazione. A questo punto della nostra indagine è bene insistere una volta di più sull’idea che Nietzsche richieda ai lettori dei propri aforismi e sentenze la capacità di incorporarle. Interpretare non può consistere nel solo esame critico della verità o falsità di determinate proposizioni. Attribuendo un senso completamente nuovo al concetto di interpretazione – che si aggiunge ai molteplici sensi che egli stesso adotta – Nietzsche stabilisce una stretta relazione tra arte dell’interpretazione e filologia, intendendo quest’ultima come arte del leggere bene. In Al di là del bene e del male, infatti, Nietzsche non esita a definirsi un «vecchio filologo che non può esimersi dalla malizia di riveder le bucce a certe cattive arti interpretative» (JGB 22). Considerando che le arti interpretative possono essere buone o cattive, Nietzsche afferma in particolare che la fisica del proprio tempo non rappresenta una spiegazione del mondo, ma «una [sua] interpretazione e un ordine imposto ad esso» (JGB 14); in quanto postula una «normatività della natura» (JGB 22), essa però non fa altro che proporre una cattiva interpretazione. Non si dimentichi, inoltre,
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che Nietzsche, filologo di formazione, intende l’arte dell’interpretazione, che egli stesso esercita, come una pratica finalizzata a smascherare illusioni e autoinganni, a sospettare di tutto ciò che ci si presenta come veritiero. 6. Le considerazioni sull’atteggiamento di Nietzsche nei confronti dei propri lettori stimolano alcune ulteriori osservazioni sulla Genealogia della morale, a partire dal fatto che essa venga presentata come uno scritto polemico, uno scritto conflittuale22 e che, nell’esergo di GM III, Nietzsche esprima l’idea che, in quanto donna, la saggezza ami «sempre e unicamente un guerriero». Questi due aspetti possono essere collegati, proprio a partire da una riflessione sul rapporto di Nietzsche con i destinatari delle sue opere. Egli si presenta infatti come un guerriero, non nascondendo la propria indole bellicosa e provocatoria quando, nel sollevare la domanda «che significano gli ideali ascetici?», mette in questione ciò che fino a quel momento ha orientato l’agire umano. La sua diagnosi del modo in cui l’uomo si è abituato a concepire il mondo e a trovare il proprio posto al suo interno culmina infatti in una denuncia della «volontà del nulla» che si trova alla base della civiltà occidentale (GM III 28), e serve a Nietzsche per far capire ai propri lettori che essi possono realizzare una trasformazione del loro modo di concepire uomo e mondo. Egli si prefigge quindi come scopo recondito quello di spingere questi lettori ad abbracciare un diverso modo di pensare, agire e provare emozioni, e pertanto passa da una premura didattica a fini strategici. È possibile che, nella Genealogia, Nietzsche abbia formulato con maggiore precisione i problemi relativi ai fenomeni morali per venire incontro ai propri lettori. È anche possibile che egli abbia adottato un linguaggio più accessibile per trattare tali problemi in modo da rendersi meglio comprensibile. Tuttavia, non 22 In alcuni casi quest’ultima può essere la traduzione migliore per rendere l’espressione originale che compare nel sottotitolo al testo: Streitschrift.
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possiamo trascurare il fatto che Nietzsche cerchi prima di tutto di persuadere il lettore, che voglia che questi fronteggi i suoi scritti per poi stimolarlo a trasformarsi. In Ecce homo, quando passa in rassegna le proprie opere pubblicate, in merito alla Genealogia Nietzsche scrive che le tre dissertazioni che compongono questa genealogia sono forse per espressione, intenzione e arte del sorprendere quanto più di inquietante sia stato scritto fino ad oggi. Dioniso è anche il dio delle tenebre. (EH, Genealogia della morale)
Lasciamo per il momento da parte l’analisi di quest’ultima osservazione, a prima vista enigmatica. Nel sottolineare l’eccezionalità della Genealogia «per espressione e intenzione», da un lato Nietzsche fa riferimento alla forma e al contenuto del libro. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, egli non presenta ragioni logiche o argomentazioni di alcun tipo; non cerca di sottoporre al vaglio del lettore le proprie idee per convincerlo della loro validità. Difatti, accanto a «espressione» e «intenzione» compare l’«arte del sorprendere», che è indissolubilmente connessa a forma e contenuto. Nel seguito di questa sezione di Ecce homo, Nietzsche si dedica poi al ritmo di ciascuna delle tre dissertazioni che compongono la Genealogia. Queste iniziano con un tono «freddo, scientifico, perfino ironico», e proseguono in un crescendo di «agitazione», «finché poi si raggiunge un tempo feroce», in cui la tensione raggiunge il proprio apice. Nietzsche rivela che l’inizio «deve indurre in errore», e così facendo chiarisce il fatto di non aver avuto l’intenzione di conferire al testo un carattere scientifico. Come si può notare, Nietzsche fornisce qui una descrizione che potremmo dire di carattere musicale e che è molto simile al modo in cui, ancora in Ecce homo, egli si esprime in riferimento alla sua «arte dello stile». A questo proposito, Nietzsche scrive che «comunicare uno stato, una tensione interna di pathos, per mezzo di segni, compreso il ritmo di questi segni – questo è il senso di ogni stile» (EH, Perché scrivo libri così buoni). Sembra quasi che egli concepisca lo stile come un sintomo: in quanto ma-
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nifestazione di uno stato, di un pathos, lo stile indica gli impulsi che dominano l’autore in un determinato momento, gli affetti che lo controllano e, di conseguenza, i giudizi di valore che si esprimono per suo tramite. Da ciò segue che non vi è uno stile valido per tutti gli autori – qualsiasi esso sia – e neppure uno stile che valga sempre per uno stesso autore. A questo proposito, Nietzsche infatti afferma che «buono è qualunque stile che comunica realmente uno stato interno, che non si sbaglia sui segni, sul ritmo dei segni, sui gesti» (ibid.). Vi sono tanti stili quanti sono gli stati interni. Chiunque pensi che vi sia uno stile “buono in sé” non è altro che un idealista. Chiunque pensi di possedere uno stile universalmente buono non sta facendo altro che manifestare gli impulsi che lo dominano. Se il buono stile è quello che comunica la tensione degli impulsi, la disposizione degli affetti, questa comunicazione è possibile per l’autore solo attraverso segni; inoltre, l’autore ha anche bisogno di trovare dei lettori che vivano le stesse tensioni, le stesse disposizioni affettive. Con la propria opera, Nietzsche va precisamente alla ricerca di questi lettori. Per far questo, però, nella Genealogia della morale egli non ricorre a una chiarezza cristallina. Invece di affidarsi alla luce apollinea, che delinea, distingue, dà forma, preferisce avvalersi di Dioniso che, come si è visto, «è anche il dio delle tenebre». Simbolizzando il primato del divenire, Dioniso rompe le barriere, infrange i limiti, cancella i contorni. Rivelando l’esuberanza dell’esistenza, evidenzia la lotta delle pulsioni che costituiscono e dominano l’essere umano. Nel chiamare in scena Dioniso, Nietzsche ci fa capire che, manifestando particolari tensioni di impulsi e disposizioni affettive, egli ha come scopo di stimolare nei propri lettori tensioni affini e analoghe disposizioni affettive. In questo modo, Nietzsche si augura di suscitare in loro un effetto trasformativo. 7. A partire dalle considerazioni sopra esposte, e che offrono sinteticamente uno sguardo d’insieme su alcuni dei contenuti della Genealogia della morale, ma soprattutto sugli obiettivi che
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Nietzsche si prefiggeva di raggiungere con la pubblicazione di quel testo, sembra alquanto temerario sostenere che quest’ultimo contenga un’esposizione lineare delle sue idee relative ai fenomeni morali e che si presenti come il suo scritto più accessibile in ragione del suo carattere dimostrativo. Da quanto si è visto, possiamo piuttosto osservare che il fatto che Nietzsche si preoccupi in maniera quasi ossessiva della comprensibilità delle proprie opere riveli ad un tempo il suo desiderio di farsi capire e la sua ansia di trovare qualcuno che sia in condizione di comprenderlo. Inoltre, diventa finalmente chiaro cosa egli intenda quando, nel Caso Wagner, afferma che la Genealogia della morale è un libro che «ha la fortuna di essere accessibile soltanto agli spiriti di più elevato sentire e massimamente rigorosi: agli altri mancano le orecchie…» (WA, Epilogo). Traduzione dal portoghese di Pietro Gori Bibliografia Achheim, Steven: 1992. The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, Berkeley, University of California Press. Bianquis, Geneviève: 1929. Nietzsche en France. L’influence de Nietzsche sur la pensée française, Paris, Félix Alcan. Bornedal, Peter: 2004. The Incredible Profundity of the Truly Superficial. Nietzsche’s ‘Master’ and ‘Slave’ as Mental Configurations, in: «Nietzsche-Studien» 33, pp. 129-155. Brusotti, Marco: 2001. Wille zum Nichts, Ressentiment, Hypnose. ‘Aktiv’ und ‘reaktiv’ in Nietzsches Genealogie der Moral, in: «Nietzsche-Studien» 30, pp. 107-132. Clark, Maudemarie: 1997. From the Nietzsche Archive: Concerning the Aphorism Explicated in Genealogy III, in: «Journal of the History of Philosophy» 35/4, pp. 611-614. Conway, Daniel: 2007. Nietzsche’s On the Genealogy of Morals: A Reader’s Guide, London, Continuum. Deleuze, Gilles: 1962. Nietzsche et la philosophie, Paris, PUF [19734].
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La bionda bestia e il prete. Considerazioni su GM I a partire dalle sue Lebensformen Alberto Giacomelli 1. Simbolo e forma di vita La prima Dissertazione della Genealogia della morale, che reca il titolo Buono e malvagio, buono e cattivo, si presenta come un’analisi psicologica del cristianesimo a partire dal tema del risentimento, che Nietzsche in Ecce Homo definisce «un movimento di rivalsa, nella sua essenza, la grande rivolta contro il dominio dei valori aristocratici» (EH, Genealogia della morale). Questo contributo intende mettere in luce la rilevanza del peculiare utilizzo da parte di Nietzsche di Lebensformen, ossia di forme di vita intese come tipi psicologici esemplari, come “paradigmi esistenziali”, al fine di argomentare, nel contesto di GM I, la genealogia dei concetti, o meglio dei valori morali, di «buono e malvagio, buono e cattivo» e il loro intreccio con la questione del ressentiment. Sebbene il termine Lebensform non costituisca esplicitamente un concetto chiave nell’economia generale del pensiero nietzscheano1, l’operazione della tipizzazione psicolo1 Nietzsche non sembra attribuire al termine Lebensform, che tra le opere pubblicate e i frammenti postumi occorre in tutto una decina di volte, una declinazione precipua: solo un’occorrenza è contenuta all’interno della Genealogia in riferimento alle asketischen Lebensformen. Il concetto di Lebensform, connesso a quello di Idealtyp der Individualität, risulta centrale nella riflessione Eduard Spranger (1921/1966: 20 ss.). Egli recepì l’influenza nietzschena della cosiddetta Lebensphilosophie in particolare attraverso la tradizione ermeneutica inaugurata dal suo maestro Wilhelm Dilthey: per Spranger i «tipi umani» sembrano costituire esclusivamente uno strumento euristico finalizzato a ridurre la complessità del reale, tramite quell’operazione di schematizzazione e astrazione che per Nietzsche è alla base della scienza. La Lebensform appare d’altro canto uno strumento necessario per stemperare gli esiti nichilisitci dell’eraclitismo nietzscheano,
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gica rappresenta di fatto – in particolare a partire dagli anni di stesura dello Zarathustra – una costante nelle opere di Nietzsche, il quale si serve di figure, di Sinnbilder, Denk-bilder, Gestalten, per delineare «categorie psichico-culturali» (Yovel 1998: 129) e dunque particolari modalità di espressione della volontà di potenza2. A partire dalla Nascita della tragedia, le figure dell’artista dionisiaco, del genio creatore, del coreuta, dell’eroe e in definitiva gli stessi Omero, Archiloco, Eschilo, Sofocle, Euripide e Socrate rappresentano dei “tipi” da intendersi come personificazioni concettuali, così come il Wanderer e il freier Geist raffigurano in Umano, troppo umano le modalità di esistenza del confutatore della metafisica, dello scettico, del maestro del sospetto che si emancipa dai valori assoluti e dalla logica del risentimento. Nello Zarathustra, poi, le Lebensformen si affollano nel più colorito consesso simbolico-allegorico: il pagliaccio-giullare, il santo vegliardo, il cammello, il leone, il fanciullo, il pallido delinquente, le mosche del mercato, le tarantole, il coscienzioso dello spirito, l’indovino, il mago e così via sono tutte configurazioni, immagini sensibili, maschere – nel senso classico di dramatis personae – in cui si esprime la vasta casistica delle formazioni provvisorie dell’umano, dal positivista al borghese, dal socialista al melanconico (Giacomelli 2012: 19). La casistica tipologica, che in senso lato risulta per Nietzsche sottesa alla grande generalizzadal momento che il tipo diventa per Spranger un ausilio tecnico per la psicologia non lontano dall’idea regolativa kantiana. 2 Commentando la Genealogia, Stegmaier fa significativamente riferimento alla «Nietzsches Typisierung», mostrando come le «decise tipizzazioni» risultino necessarie a Nietzsche per delineare i contorni dei caratteri psicologici facendone emergere i tratti più significativi senza pretese definitorie unilaterali (Stegmaier 1994: 89;107). È noto poi come la questione “tipologica” di matrice nietzscheana abbia giocato un ruolo essenziale nella fondazione della psicologia analitica di Jung, che individuò in particolare nella Nascita della tragedia e nella Genealogia della morale i riferimenti chiave per la stesura nel 1921 dei suoi Psychologische Typen (Bishop 1995: 124-129). L’importanza della questione del “tipo” nella riflessione nietzscheana viene rilevata anche da Heidegger, il quale afferma che «l’unicità del “tipo” consiste in una chiara regolarità dello stesso carattere che non tollera tuttavia alcun arido egualitarismo, ma ha bisogno di una peculiare gerarchia» (Heidegger 1961/2005: 654).
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zione psicologica tra il tipo attivo-creatore e il tipo passivo-reattivo, appare centrale anche nella Genealogia, in cui le figure del nobile-aristocratico, del padrone e dello schiavo, della bestia da preda, dell’ebreo, del sacerdote e via dicendo risultano funzionali all’interpretazione dei vari approcci all’esistenza dei singoli, nei quali la volontà di potenza rivela la propria natura plurale e molteplice, dal momento che si identifica con l’intreccio di relazioni delle diverse esistenze singolari, ovvero con i conflittuali campi di forze mai riconducibili a un centro che costituiscono la rete di interazioni del mondo. Nietzsche opera dunque consapevolmente un processo di semplificazione, una sorta di reductio ad simile relativa ai gradi di potenza degli individui concreti, cosicché la Lebensform assume la funzione di condensare in sé un intreccio di impulsi altrimenti inesplicabile: dall’aristocratico al prete, dalla controversa “bestia bionda” all’ebreo, i comportamenti dei “tipi umani” si strutturano e si ordinano gerarchicamente, come la salute e la malattia, in base a «differenze di grado» (NF 188889, 14[65]), cioè in base al rapporto delle forze che essi esprimono. Sono perciò prodotti dalla specifica posizione che il tipo occupa nello scontro tra forze. L’irriducibilità di tale interazione conflittuale a una dimensione metafisica ci consente di approcciare la Genealogia come teoria morale dell’interpretazione che riconosce il mondo come gioco infinito di pulsioni rivali, e quindi come volontà di potenza. Con la sua tipizzazione Nietzsche non intende inventariare i tipi psicologici del suo tempo incasellandoli in una rete categoriale stabile di stereotipi, ma al contrario dare provvisoriamente dei volti ai valori che hanno scandito la storia della morale occidentale. Il passaggio dall’individuale al tipico consente a Nietzsche di proporre una “fenomenologia dell’umano” finalizzata a quello che sente essere il compito più stringente per il filosofo, che «deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia [Rangordnung] dei valori» (GM I 17n.). Proprio per il loro carattere cangiante, le Lebensformen nietzscheane si attestano agli antipodi delle forme simboliche intese metafisicamente come immagini primordiali sottratte al divenire: la stessa nozione tradizionale di individuum di fatto
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viene confutata come semplice parola che sottende una collettività di istinti e affetti che prendono vita metaforicamente nel linguaggio nietzscheano attraverso personaggi e immagini sensibili. Solo se interpretiamo il tipo non come forma della realtà o come idea trascendente, ma come immagine interpretativa della volontà di potenza, possiamo comprendere il tentativo da parte di Nietzsche di restituire il costitutivo polimorfismo dell’essere e le sfaccettature prospettiche del nostro io plurale attraverso simboli. Nel Sinnbild come rappresentazione plastica delle pulsioni si esprime quindi la Lebensform come condensazione di determinate caratteristiche psicologiche. Lo stesso metodo genealogico si pone come alternativa radicale all’interrogazione metafisica: solo sostituendo alla domanda filosofica originaria “che cos’è?” la domanda «Per chi significa, per chi ha valore, a partire da quale visione del mondo, e a favore di quale tipo umano ciò che ha valore è ritenuto avere valore?» (Canevari 2008: 18), per Nietzsche diventa possibile la sovversione (Umkehrung) dei valori di «buono» e «cattivo». Al ti èstin socratico, che inaugura la tradizione platonico-cristiana opponendo al divenire un’essenza, un modello nel senso di eidos, di fondamento universale in sé e per sé (auto kath’hauto), il metodo genealogico oppone un’origine storica, psicologica, umana delle azioni morali. Il valore perciò va interpretato in relazione alla sua capacità di accrescere o diminuire la potenza, di vivificare e indebolire la Lebensform. L’impostazione genealogica contrappone dunque a una ricerca sulle essenze kath’hauto, una ricerca sempre relativa a qualcuno che percepisce, ossia prós ti. La pratica genealogica nietzscheana ha la finalità di smascherare la «pudenda origo» della morale (NF 1885, 2[189]), mostrando innanzitutto che i valori non sono mai realtà in sé ma interpretazioni, e in particolare interpretazioni di quegli istinti negati prima dalla psicologia cristiana e poi idealista. Ecco che una delle virtù psicologiche essenziali e delle determinazioni fondamentali della genealogia diventa il sospetto, che «consiste nel guardare dietro, sotto, in altri termini nell’esplorazione delle origini sotterranee di un’interpretazione» (Wotling 2006: 55). Sospettare significa
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poi anche smascherare, non ai fini di trovare un’essenza al di là dell’apparenza, ma di attestarsi sulla superficie, di riconoscere l’impraticabilità di qualsiasi dualismo metafisico e di accogliere la morale come gioco di superfici prive di sfondo (Gurisatti 2012: 15-16). Il cielo dei valori e delle verità assolute viene dunque riportato da Nietzsche al suo luogo di nascita “umano, troppo umano” e analizzato nel suo sviluppo storico-psicologico. I valori sono intesi come prodotto relativo allo spazio e al tempo, legati a condizioni sociali e a complessi meccanismi di interazione, soggetti a trasformazioni caratterizzate da processi di generazione, maturazione, morte talora violenta, coinvolti in un conflitto continuo e capaci di metamorfosi e rinascite. Con il proprio lavoro di scavo il metodo genealogico prelude sorprendentemente al procedimento psicoanalitico, dal momento che Nietzsche non parla di sostanza, di essenza, di cause prime, ma di risentimento, senso di colpa, conflitto dell’interiorità, crudeltà, cattiva coscienza: egli affronta il tema dell’enigma del sé, e ne ricerca, da psicologo, le origini profonde, latenti, un-bewussten.
2. Genealogia della psicologia del profondo. L’uomo del sottosuolo Decisivo risulta in questo senso l’incontro di Nietzsche con il volume L’esprit souterrain di Dostoevskij. La concomitanza tra la lettura a Nizza delle Memorie dal sottosuolo (seppure in una traduzione francese assai libera rispetto all’originale)3 e la stesura della Genealogia consente a Nietzsche di intrecciare le proprie intuizioni sulla psicologia del profondo con la critica al 3 Il testo letto da Nietzsche a Nizza nel 1886, ossia L’esprit souterrain (trad. di E. Halpèrine y Ch. Morice, Paris: Plon), non corrispondeva letteralmente alle Memorie del sottosuolo, ma consisteva, nella sua prima parte, nella traduzione abbastanza fedele di una novella di gioventù intitolata La patrona (1847), che nel volume appare col titolo di Katia, protagonista del racconto; la seconda parte de L’esprit souterrain consisteva invece nella traduzione parziale molto libera delle Memorie del sottosuolo (1864), presentata con il titolo di Lisa, figura femminile centrale nelle Memorie (Stellino 2011: 114).
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razionalismo filosofico fondato sulla conoscenza di sé, al punto che, riferendosi alla seconda parte de L’esprit souterrain, e dunque alla rivisitazione delle Memorie del sottosuolo intitolata Lisa, egli definisce il racconto «una autoderisione del “conosci te stesso”» (lettera a F. Overbeck, 23.02.1887). Non solo il socratico ti èstin, ma anche lo gnothi sautón appare dunque a Nietzsche come principio da cui diffidare in favore di un’«incoercibile diffidenza verso la possibilità della conoscenza di sé» (JGB 281)4. Diventa così chiaro il significato delle parole con le quali si apre la Genealogia: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi (…). Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare?» (GM Prefazione). Nietzsche riconosce in Dostoevskij un’affinità spirituale, una sensibilità comune nel modo di scandagliare il mondo sotterraneo della psiche, prescindendo da un lato dal primato della coscienza e dalla signoria della morale: «sono fermamente convinto che non solo la troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza sia una malattia» (Dostoevskij 1864/2002: 9), dall’altro negando l’idea come astrazione, in favore di una realtà valida solo di volta in volta e mai in assoluto, incarnata e vivente nel personaggio letterario. Anche la distinzione tra tipo attivo e reattivo (così come la nozione di ressentiment), sembra essere stata ispirata dalla lettura de L’esprit souterrain5, e sarà il presupposto fisiologico alla 4 Il riferimento allo gnothi sautón non è direttamente ascrivibile a Dostoevskij, ma ai due traduttori (Halpèrine e Morice) dell’edizione francese, che risultano anche gli autori “apocrifi” di un breve saggio che collega i due racconti al fine di giustificarne la continuità e di introdurre Lisa (la versione rimaneggiata delle Memorie del sottosuolo). (Stellino 2011: 117). I due traduttori non firmarono il saggio, nell’intento di fare apparire anch’esso come opera di Dostoevskij e dunque di ascrivergli il riferimento alla massima delfica. L’effetto pernicioso della conoscenza di sé viene ribadito da Nietzsche nell’accostamento semantico tra «conoscitore di te stesso [Selbstkenner]» e «carnefice di te stesso [Selbsthenker]» (DD, Tra gli uccelli rapaci). 5 Per la derivazione dostoevskijana del termine e la storia del concetto di ressentiment nel pensiero di Nietzsche si rimanda a Stellino 2011: 212-124. L’Autore rileva inoltre come l’aggettivo «reaktiv» faccia la sua comparsa in un quaderno del Nachlass nietzscheano del 1875 all’interno di una citazione tratta dall’opera di Dühring Der Werth des Lebens.
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base di tali acquisizioni, ossia il discrimine tra salute e malattia, tra l’uomo valoroso e forte e l’uomo impotente e risentito ad indurre Nietzsche ad affermare che solo una psico-fisiologia come teoria dell’interpretazione delle pulsioni del corpo (e dunque della volontà di potenza), potrà assurgere al ruolo di «signora delle scienze» (JGB 23)6. La voce che procede all’impietosa disamina dell’animo umano nella novella di Dostoevskij distingue tra il tipo «senza carattere» e «l’uomo di carattere», ossia «l’uomo d’azione», (Dostoevskij: 7-8): la Lebensform del «senza carattere», del malato di troppa coscienza come antipode dell’«uomo immediato», prelude chiaramente quella nietzscheana dell’uomo del ressentiment come antipode della noblesse aristocratica, ma il parallelismo non è così pacifico. Se in Nietzsche sarà «l’odio dell’impotenza» (GM I 7) degli schiavi a consentirgli di rovesciare le antiche gerarchie e di soverchiare i ben riusciti sostituendo alla morale dei signori il moralismo dei preti, in Dostoevskij sarà la vittoria dell’inetto, dell’«uomo intensamente cosciente» a innescare una dinamica di volontà di potenza in negativo, che crea «il sistema del delitto e del castigo, del senso di colpa e della quasi vergogna a pretendere la felicità e a prestare ascolto al soggetto-corpo piuttosto che alla voce daimonica interiore 6 Tale impostazione antimetafisica, che rigetta la psicologia idealista, la nozione di anima immateriale e, come vedremo, di intelletto puro e trasparente a se stesso, enfatizzando invece il corpo e la dimensione istintivo-pulsionale, non consente d’altra parte di innestare il pensiero di Nietzsche nell’alveo del riduzionismo naturalista, dal momento che Nietzsche non crede che la ricerca empirica abbia un maggiore “gradiente veritativo” rispetto ad altre forme di indagine, ma utilizza il naturalismo in senso metodologico, offrendo una teoria riguardante il fenomeno morale modellata sulle moderne acquisizioni scientifiche. Il superamento delle nozioni di “soggetto” e di “anima” da parte di Nietzsche appare comunque in continuità con le acquisizioni scientifiche del suo tempo, con particolare riguardo per gli sviluppi della cosiddetta “psicologia scientifica” di cui Nietzsche trova notizia prima di tutto nella Storia del materialismo di F. Lange e il cui principale obiettivo era l’affrancamento dalla metafisica della sostanza ancora imperante nelle indagini delle scienze cognitive (cfr. Gori 2015). Nietzsche ci invita quindi a emulare la disciplina degli scienziati quando indaghiamo noi stessi in termini di psico-fisiologia (Janaway 2007: 45; Leiter 2002: 113). Recentemente la centralità attribuita da Nietzsche alla dimensione fisiologica del metabolismo, del rapporto con l’ambiente atmosferico e con l’alimentazione (EH, Perché sono così accorto, 2-3), è stata messa in relazione anche allo stile metaforico della Genealogia (Blondel 2006: 67-75).
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sempre pronta al giudizio». (Russo 2014: 71). L’ipertrofico della coscienza, in virtù della sua inanità e incapacità d’azione, è una persona malata e maligna (cfr. Dostoevskij: 5), e tuttavia psicologicamente sottile, che si trae fuori dalla condizione del mediocre consenso quotidiano, che si svincola dalle logiche dell’abitudine e della convenzione proprio in virtù del suo arresto di fronte all’azione e in particolare alla volontà di vendetta. Simile ad un uomo superiore zarathustriano, l’uomo sotterraneo sembra quindi respingere e attrarre Nietzsche: da un lato Lebensform risentita che si crogiola «da insetto», o «da topo» nell’amarezza e nell’umiliazione, dall’altro lucido critico della falsità convenzionale e dell’ipocrisia moralista. Ecco che l’uomo del sottosuolo, «né cattivo né buono, né mascalzone né onesto» (Dostoevskij: 7), si rivela una figura esistenziale più complessa, che sembra anticipare non tanto lo schiavo della morale, quanto semmai alcuni tratti dell’Ulrich musiliano, protagonista de L’Uomo senza qualità, figurazione esemplare della deflagrazione della soggettività. Se è da escludersi uno specifico influsso delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij su L’uomo senza qualità di Musil, la filigrana nietzscheana del romanzo è nota e compendia in modo evidente i motivi della decadenza, della critica della morale, del prospettivismo, del nichilismo e dell’esistenza sperimentale. Il lavoro di scavo dostoevskijano e l’analisi genealogica di Nietzsche precorrono e inaugurano quindi quella ricerca rivolta alla dimensione impersonale, irrazionale, e in definitiva inconscia che diverrà decisiva a partire dal primo Novecento prima in ambito letterario, poi in ambito filosofico e scientifico. L’impronta nietzscheana ne l’Uomo senza qualità andrà riconosciuta in questo senso soprattutto nella rilevanza dedicata allo sfondo indistinto delle emozioni e delle pulsioni da cui la coscienza emerge come la punta di un iceberg, nella critica ai valori intesi come immutabili, nell’idea di mondo come totale relazionalità, indistricabile abbraccio di Bene e di Male, di gioia e di dolore, che perennemente fluiscono l’uno nell’altro. Già all’interno dello Zarathustra la componente magmatica degli istinti, che ribolle al di sotto dell’ego cosciente, viene continua-
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mente convocata: in una prospettiva in cui «mezzanotte è anche mezzogiorno» e «tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate» (Za, Il canto del nottambulo), all’uomo non è mai dato di rischiarare completamente la propria oscurità interiore. Tra i vari simboli espressione di questa complexio oppositorum, l’albero mostra all’interno dell’opera come l’elevazione della coscienza sia intrecciata allo sprofondare delle radici nella terra: «Quanto più egli vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanta più forza le sue radici tendono verso terra, in basso, verso le tenebre, l’abisso – verso il male» (Za, Dell’albero sul monte). I detentori delle «cattedre delle virtù» o della «coscienza immacolata», «coloro che abitano un mondo dietro il mondo», i «dispregiatori del corpo», i «sublimi», sono Lebensformen oggetto della critica zarathustriana proprio poiché, in un modo o nell’altro, operano al fine di arginare, inibire o “illuminare” gli aspetti corporei, pulsionali, carnali, dionisiaci, che appartengono all’uomo allo stesso modo in cui l’ombra appartiene all’albero anche nell’ora del mezzogiorno. Il protagonista delle Memorie del sottosuolo nega al pari di Nietzsche la possibilità dell’uomo teoretico puro, ab-solutus, tutto coscienza: tentare di cancellare l’oscuro, il negativo, l’ultimo resto terreno, significa andare contro il monito zarathustriano di fedeltà alla terra, nonché contro la fede nell’uomo compiutamente riuscito e trionfante postulata nella Genealogia (GM I 12). L’elevazione della coscienza è intrecciata con lo sprofondare delle radici nella terra, per cui non esiste funzione psichica razionale che non abbia il suo rovescio nella sfera ctonia dell’impulso, del notturno, dell’infracosciente, ovvero nel regno goethiano delle madri (Goethe 1808/2006: 549). Goethe stesso anticipa in effetti questo tema affermando significativamente in una lettera a Friedrich Wilhelm Reimer del 5 agosto 1810 che «l’uomo non può rimanere (…) a lungo in una condizione cosciente; egli deve rigettarsi di nuovo nell’incoscienza; perché lì vive la sua radice» (Mazzucchetti 1949: 186). L’uomo si caratterizza quindi per Nietzsche come pluralità in divenire (Hinübergehender) di impulsi, e dunque come ossimorica individualità plurale che non può venire circoscritta dalla psicologia, ma che sfugge alla cattura: di qui la definizione
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nietzscheana «in negativo» di uomo come «animale non ancora stabilmente determinato» (JGB, 62). Come l’uomo, anche la morale ha una natura plurivoca, che esclude l’esistenza di un unico oggetto stabile alla base dell’albero genealogico. Proprio in questa prospettiva Nietzsche polemizza all’inizio di GM I con gli «psicologi inglesi»: da un lato può condividere con Darwin la diffidenza nei confronti della derivazione di tutte le specie da un’unica forma di vita originaria, dall’altro prende decisamente le distanze dal cosiddetto positivismo evoluzionista anglosassone, in particolare dalle riflessioni di Herbert Spencer riguardo al metodo del rigoroso razionalismo antimetafisico e alla convinzione dell’esistenza di una radice genealogica univoca7. Quest’ultima critica verrà ripresa in GM II 12: da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell’unità di una cosa, di una forma, di un’istituzione, anche il suo fondamento d’origine (…). Ma tutti gli scopi, tutte le utilità, sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso, sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione.
Il riferimento al Wille zur Macht e al suo imporsi nell’ottica della Rangordnung delinea uno scenario in cui gli impulsi, ossia le «puntuazioni di volontà che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza» (NF 1888-89, 11 [73]), caratterizzano le relazioni dei singoli come una costante lotta finalizzata alla presenza e all’imposizione di un istinto sull’altro. I valori rivelano così la loro natura di istinti dominanti, cioè si impongono in virtù dalla posizione, alta o bassa, che i quanti di forza – o ancora le «radiazioni di potenza» o le «puntuazioni di potenza» (NF 1879-81, 6[70]; 1884-85, 34[123]) – occupano all’interno di quella pluralità di forze che noi convenzionalmente chiamiamo 7 È noto come l’impostazione genealogica di Nietzsche si sviluppi in diretta polemica con lo scritto di Paul Rée Der Ursprung der moralischen Empfindungen (1877), del quale viene criticata l’impostazione darwinista. In particolare i primi due capitoli dell’opera di Rée Der Ursprung der Begriffe gut und böse, e Der Ursprung des Gewissens affrontano tematiche strettamente legate a quelle di GM I. (Janaway 2007: 74-89).
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soggetto (Müller Lauter 1978: 189-235)8. In questo senso è possibile parlare di Rangordnung als Machtordnung, ossia di gerarchia come ordine della potenza. La morale esprime e manifesta quindi la tendenza (intesa come dinamica necessaria della volontà di potenza) di ciascuno a far prevalere il proprio “tipo”, ovvero i propri valori e la propria visione del mondo. Gli “psicologi inglesi” si riveleranno per Nietzsche il frutto più tardivo della morale (platonicocristiana), finalizzata all’imposizione degli istinti più meschini e degradati dell’uomo, ossia alla schiavitù dell’«utile e conforme al fine» (GM I, 3). Tale morale “inglese” presuppone un concettovalore di “buono”, che va sovvertito e inteso non come essenza extra-storica e astratta, ma come fenomeno storico, materiale e complesso: Orbene, per me è in primo luogo un fatto palmare che da parte di questa teoria viene ricercato e collocato in una sede errata il fulcro nativo del concetto di «buono»: il giudizio di «buono» non procede da coloro ai quali viene data prova di «bontà»! Sono stati invece gli stessi «buoni», vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di coniare le designazioni dei valori (…). Il pathos della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un «sotto», è questa l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo» (GM I 2).
8 Il termine “forza” (Kraft) viene derivato da Nietzsche dalla terminologia della fisica e della termodinamica a lui contemporanee e valeva all’epoca come sinonimo di “energia” (Energie). Su tale accezione fisica della forza, legata appunto agli studi sul principio di conservazione dell’energia e sull’azione a distanza di forze di azione e repulsione (magnetismo, elettricità), Nietzsche fonda alcune delle sue fondamentali considerazioni sulla plurivoca nozione di “potenza” (Abel 1998: 82-92; Gori 2007: 219-278).
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3. L’aristocratico Solo una vita soddisfatta di sé, forte, vigorosa, ben formata, felice e traboccante di energie attive ha la forza e l’ingenuità fanciullesca per proporre se stessa come modello di ciò che è buono e di valutare la vita positivamente e non come grave fardello. Ancora dunque l’origine della valutazione morale di “buono” non si fonda su astratte concezioni di “bontà”, di altruismo o di “utilità per i più”, ma su posizioni apparentemente egoistiche e autocentrate. Il tipo d’uomo dominante-aristocratico, kalòs kai agathòs, che pone come buono se stesso e tutto ciò che è affine al suo sentire, è dunque riconosciuto all’origine del valore di “buono” dal punto di vista genealogico. Questa prima acquisizione risulta problematica perché sembra porre i concetti di “buono” e di “egoistico” sul medesimo piano: l’opposizione dualistica egoismo-altruismo, buono-cattivo, tuttavia ricalca esattamente quei modelli semplicisticamente oppositivi della metafisica classica (Soggetto-Oggetto, Vero-Falso, Buono-Cattivo, Causa-Effetto, Origine-Fine), che Nietzsche interpreta come mere schematizzazioni e astrazioni illusorie del mondo. Come già si è cercato di argomentare, per Nietzsche il nostro io, inteso come ego cosciente, non costituisce affatto un primum gnoseologico-metafisico, ma si configura piuttosto come conseguenza e frutto di dinamiche pulsionali più originarie: «non esiste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; “colui che fa” non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto» (GM I 13). Proprio la nozione di “io”, intesa a partire da Descartes come ego cogito, come certezza immediata che consente al pensiero di cogliere se stesso in modo puro e senza falsificazioni, è l’illusione che per Nietzsche sta a fondamento della tradizionale sopravvalutazione della coscienza da parte della psicologia idealista. Alla realtà del cogito Nietzsche oppone il primato della lotta tra le pulsioni e dell’interpretazione, poiché l’io non coglie mai se stesso in modo chiaro e unitario:
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Continuano ad esserci ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano «certezze immediate», per esempio «io penso», o, come era la superstizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale «cosa in sé», e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell’oggetto. Ma non mi stancherò mai di ripetere che «certezza immediata», così come «assoluta conoscenza» e «cosa in sé» comportano una contradictio in adjecto (…). Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione «io penso», ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione della quali mi è difficile, forse impossibile, – come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un «io», infine, che sia già assodato che cos’è caratterizzabile in termini di pensiero, che io sappia che cos’è pensare. (JGB 16)
Ecco che il tipo aristocratico, e conseguentemente lo stesso concetto di “egoismo” nell’ambito della Genealogia, non vanno interpretati in senso meramente soggettivistico, tanto che Nietzsche parla di soggetto come di «miglior articolo di fede sulla terra» (GM I 13): quella del “nobile-ben-nato” rappresenta semmai, da un lato, come si è visto, una condizione di tracotanza fisiologica legata alla «salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da traboccare (GM I 7), dall’altro, una figurazione simbolica dell’uomo creatore dei propri valori e della propria morale, ossia dell’aristocratico del carattere e dello spirito inteso come colui che toglie alla vita ogni prevedibilità giocando innocentemente con le sue forme. I riferimenti alla nobiltà omerica, romana o germanica divengono dunque un pretesto per parlare del tipo attivo inteso come colui che si arroga un diritto che è insieme signorile e ludico nei confronti della vita, delle sue imposizioni e prescrizioni. Il pathos della distanza consente così di riconoscere secondariamente l’altro da sé come “non buono” in virtù di un sentimento di differenza irriducibile tra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, ossia tra chi è padrone delle maschere valoriali dell’esistenza e chi è invece schiavo di una morale impositiva. Nessuna nostalgia passatistica dunque da parte di Nietzsche nei confronti
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di una perduta età dell’oro ovvero di un mondo arcaico segnato dall’ethos della forza, ma, al contrario, un auspicio per la venuta futura di uomini «più interi» (JGB 257). Questo punto fondamentale viene chiarito da Nietzsche nel paragrafo conclusivo della nota postuma composta a Lenzer-Heide il 10 giugno 1887 e intitolata Il nichilismo europeo (che precede di esattamente un mese l’inizio della stesura della Genealogia): Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati (Mäßigsten), quelli che non hanno bisogno di princìpi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo. (NF 1887, 5[71])
L’aristocratico dunque è «intero» dal punto di vista psicologico nel senso che rappresenta colui il quale risponde con «serenità» (Gelassenheit) e senza bisogno di «totalizzazioni» alle sensazioni di «penuria», «insensatezza», e «causalità» derivanti dall’avanzata del nichilismo. (Stegmaier 2006: 47). Intesa in questo senso la Lebensform aristocratica condivide tratti di quella dello spirito libero e addirittura di quella indefinita e controversa dell’Übermensch, con la differenza che l’oltreuomo è figurazione che si pone addirittura al di là della tracotanza affermativa del signore, proprio perché si pone oltre ogni etica, compresa quella signorile. Con l’oltreuomo il nobile condivide da un lato la capacità di riconoscere nel nichilismo e dunque nella svalutazione dei valori tradizionali un’occasione e un «ideale di suprema potenza dello spirito» (NF 1887, 9 [39]), dall’altro la condizione di «straricco» (Überreich), legata alla “sovrabbondanza” (Überfluß). Perciò egli è assimilabile, nel suo agire, alla straripante pienezza della «virtù che dona»: Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soc-
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corso allo sventurato, ma non, o quasi non, per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. (JGB 260)
Alla cosiddetta «prassi di guerra», che talvolta Nietzsche fa propria nelle ultime opere edite esponendo il proprio pensiero a facili semplificazioni ideologiche (Stegmaier 1994: 57-59), si alterna dunque, specialmente nel Nachlaß l’immagine immune da hybris dell’uomo «di buon umore», «sicuro di sé», in cui «il piacere del caso, dell’incerto e dell’improvviso si manifesta come solletico» (NF 1887, 10[21]). Similmente alla «virtù che dona» che è intrinsecamente connessa al corpo, il pathos della distanza, proprio in quanto pathos, precede la dimensione cosciente e valutativa, prescinde da utilitaristici rendiconti, è un attitudine fisiologica dell’aristocratico che rivela come alla base del giudizio morale vi sia una più originaria pulsione volta a differenziare e gerarchizzare le Lebensformen. Espressioni quali Pathos der Distanz, Affekt der Distanz, moralische Distanz pongono il tema della differenza (sociale, di rango, ma più perspicuamente di potenza), come fondamentale elemento genealogico per la morale: solo un Dio che ci osservi da lontanissimo, sostiene Nietzsche, può vederci come tutti uguali, e sono note le parole di Zarathustra contro le tarantole, Sinnbild dei democratici: «Con questi predicatori dell’eguaglianza io non voglio essere confuso né scambiato. Perché così parla a me la giustizia: “gli uomini non sono eguali”» (Za, Delle tarantole). Il nobile, il potente, il forte si arroga il diritto di foggiare quei valori che il debole-kakós-deilós, l’infelice-meschino riceve supinamente. Si configura così la discriminante tra morale dei padroni e morale degli schiavi, in cui la distinzione tra buono e cattivo rispecchia quella tra dominante e sottomesso, tra potente e debole, tra prestante e malriuscito. Emerge qui un altro snodo problematico: come è possibile sovvertire radicalmente l’odierna gerarchia dei valori se ogni valore rappresenta in definitiva un agglomerato pulsionale provvisorio? In una prospettiva di critica all’oggettività, in cui tutti i valori sono semplicemente pregiudizi intersoggettivi, come si può scandire un nuovo ordine morale
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garantito dal rango? (cfr. Conway 1994: 319). Non risulta contraddittorio voler proporre qualsiasi nuova tavola di valori che si configuri come immagine rovesciata, come un rovesciamento di idoli perfettamente speculare a quelle tavole appena infrante dal martello genealogico? Se l’efficacia di un valore morale ha unicamente a che vedere con la capacità di quest’ultimo di incrementare la forza, accrescere la potenza e favorire la vita, d’altra parte Nietzsche nega la possibilità di definire il valore stesso della vita: «Giudizi, giudizi di valore sulla vita, in favore o a sfavore, in ultima analisi non possono essere mai veri; hanno valore soltanto come sintomi (…) in sé tali giudizi sono delle sciocchezze» (GD, Socrate 2). Procedendo su questa linea Nietzsche argomenta che «si dovrebbe avere una posizione al di fuori della vita (…) per poter toccare in generale il problema del valore della vita» (GD, Morale come contronatura 5). Le aporie in cui la riflessione nietzscheana sembra incombere appaiono meno perentorie se si pensa alla possibilità di ordinare gerarchicamente i valori solo come sintomi intesi in senso fisiologico: un nuovo ordine di valori pertanto non si basa sul semplice rovesciamento di quelli tradizionali, ma su una trasvalutazione (Umwertung) nel senso di una rivalutazione dei valori sulla base della loro vicinanza e lontananza dalla salute. Ecco che la morale assume il significato di cura della malattia della décadence, e una definizione della vita e dei suoi valori risulta superflua se tali valori si interpretano come «virtù senza moralina» (EH, Perché sono così accorto), cioè solo sulla base schiettamente antimetafisica della fisiologia. Fu proprio il risentimento, inteso come odio dei molti malati nei confronti dell’esuberante salute del singolo, dell’animo superiore, a segnare il fondamentale cambio di segno nella definizione di “buono” e “cattivo”. I “cattivi” non sono connotati moralmente in senso stretto dall’etica eroica, ma definiti dai nobili in base a constatazioni di dati di fatto, a differenze reali che non hanno nulla di astratto, sono cioè i semplici, gli inetti, i mediocri. Di qui la comparazione semantica proposta da Nietzsche tra le parole tedesche schlecht (cattivo), e schlicht (semplice) in GM I 4. Il cattivo è kakós-deilós nel senso di uomo comune di basso rango,
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che non ha ancora alcun legame con la malvagità. Il passaggio fondamentale dal “cattivo” al “malvagio” si ha quando il tipo reattivo sente il bisogno di introdurre un altro sistema di valutazioni che lo riscatti dalla propria situazione di sottomissione: il cattivo inteso come uomo semplice o plebeo reagisce alla razza dominante, ed è a questa altezza che Nietzsche introduce la figura quanto mai controversa della bionda bestia (die blonde Bestie).
4. La bionda bestia La Lebensform della «bionda bestia» rappresenta la metafora che diede probabilmente adito alle più pericolose mistificazioni ideologiche del pensiero nietzscheano: già dal quinto paragrafo della prima dissertazione Nietzsche propone un’analisi filologica in cui affianca il greco kakòs al latino malus e al greco mélas (nell’accezione di nero-scuro, bruno-moro), designante originariamente «l’uomo volgare in quanto appunto individuo dal colore scuro, soprattutto nero di capelli (“hic niger est”), l’autoctono preariano del suolo italico, che per il colore della pelle si distaccava, con la massima evidenza, dalla bionda razza dominante, cioè quella ariana dei conquistatori» (GM I 5)9. Dal punto di vista metaforico il Sinnbild della “bestia” rimanda in primo luogo al piacere selvaggio e sensuale legato alla “crudeltà dionisiaca”, e dunque da un lato all’innocenza barbarica, dall’altro all’essenza agonistica dell’ellenismo. Se associato all’aggettivo “bionda” rinvia invece ai caratteri di forza, nobiltà e purezza che i romani in fase di decadenza ascrivevano ai guerrieri germanici, i quali gradualmente si integravano nei ranghi dell’esercito imperiale (Schank 2004: 143, 148). Già nella Nascita della tragedia la dimensione della bestialità condensa l’immagine dell’integrazione 9 Il termine blonde Bestie entra nel vocabolario politico tedesco a partire dal 1895 e diverrà uno slogan antisemita, a partire dal 1906. Esso sarà poi il soprannome drammaticamente noto di Reinhard Heydrich, conosciuto anche come “il boia di Praga” (Brennecke 1976: 136).
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delle fiere selvagge nel corteo dionisiaco, esprimendo il rapporto sinergico tra natura e cultura caratteristico del mondo tragico: «Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre» (GT I). Le tre occorrenze dei termini «bionda bestia» all’interno della Genealogia (GM I 11) si riferiscono tuttavia alla «belva feroce» come assoggettata dalla malattia della morale addomesticante, ossia della civiltà che marca la netta separazione tra natura e cultura, conseguenza dell’avvicendamento degli schiavi e dei soggiogati agli audaci, ai nobili e ai tracotanti. Nel Crepuscolo degli idoli il concetto viene poi ribadito: «Nel primo Medioevo, quando effettivamente la Chiesa era soprattutto un serraglio, si dava ovunque la caccia ai più begli esemplari della “bionda bestia” – si “miglioravano”, per esempio, i nobili Germani» (GD, I “Miglioratori” dell’umanità 2). Il nuovo «senso di civiltà» consiste quindi nel «disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo” così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico» (GM I 11). La figura della «bionda bestia germanica» venne riconosciuta anche nell’immagine zarathustriana del «leone giallo dalla bionda criniera» (Za, Tra figlie del deserto), ma saranno le parole della Genealogia dedicate alla «bionda razza dominante, cioè quella ariana dei conquistatori (der herrschend gewordenen blonden, nämlich arischen Eroberer-Rasse)» (GM I 5), a indurre interpreti ideologicamente schierati a giustificare una continuità tra le teorie della superiorità su basi biologiche della razza e la riflessione nietzscheana. Sappiamo che Nietzsche possedeva nella sua biblioteca il libro di Theodor Poesche Die Arier. Ein Beitrag zur historischen Antropologie (Jena, 1878), nonché un testo canonico sull’antisemitismo: Über die gegenwärtige Lage des deutschen Reich di Paul de Lagarde (Göttingen, 1876; cfr. Vivarelli 2011: 183). Alla luce di una presunta vicinanza dei passi della Genealogia a questi lavori e all’opera di Joseph Arthur de Gobineu (Essai sur l’inégalité des races humaines, 1853-1854), non solo interpreti come Thomas Fritsch, Lanz-Liebenfels e Houston Steward Chamberlain forzeranno la connessione presentata nell’opera tra “buono”-“malvagio”,“puro”-“impuro”, ma individueranno
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nella contaminazione razziale della “bionda bestia” l’inesorabile declino dell’Europa, influenzando direttamente l’ideologia hitleriana10. Se la conoscenza diretta da parte di Nietzsche dell’opera di Gobineau sembra decisamente dubbia11, una semplice disamina più attenta di GM I 11 è sufficiente a mostrare la distanza tra Nietzsche e qualsivoglia apologia razziale. Leggiamo infatti che, nel momento in cui «la belva deve di nuovo balzar fuori, deve di nuovo rinselvarsi – aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi – tutti sono uguali in questo bisogno», e ancora come «tra gli antichi germani e noi altri tedeschi esista a malapena un’affinità concettuale e tantomeno una parentela di sangue» (GM I 11)12. Consapevole del pericolo di fraintendimenti e mitizzazioni fondate sulla devozione acritica di seguaci in cerca di nuove fedi, Nietzsche si pone dunque al di là delle letture eroico-germaniche, biologistico-darwiniane, religiose e addirittura antisemite, dal momento che la «bestia bionda» è 10 Lo spirito materialistico, biologistico e collettivista legato alla dottrina dell’igiene della razza (Rassenhygiene), verrà fatto proprio da autori del nazionalsocialismo ortodosso quali Baeumler, Rosemberg, Spethmann, Weichelt e Obenauer. (Penzo 1997: 132). È noto come in particolare le dottrine nietzscheane della blonde Bestie e dell’Übermensch verranno rilette dai teorici di regime in una prospettiva sia di esistenzialismo eroico dal punto di vista psicologico-pedagogico, che di selezione e perfezionamento biologico dal punto di vista scientifico. Tale prospettiva diede adito all’intreccio tra l’elemento “spirituale” dell’educazione (Erziehung) e l’elemento “naturale” dell’allevamento (Züchtung) in visione di una Überart, di una specie superiore. 11 Il nome di Gobineau compare solo una volta negli scritti di Nietzsche, in una lettera a Köselitz del 10.12.1888. Inizialmente vicino a Wagner, Gobineau avrebbe poi preso le distanze dal musicista criticando il Parsifal. Dalle testimonianze biografiche di Andler (1928: 175) e di E. Förster-Nietzsche (1904: 886), si evince che il rapporto tra Gobineau e Nietzsche – che non si conobbero mai personalmente – fu sostanzialmente irrilevante. Va quindi senz’altro ridimensionata l’idea di Taureck il quale, relativamente a GM I 5, afferma che Nietzsche sarebbe «caduto nella trappola di Gobineau». (Taureck 1989: 31). Nietzsche si interessò invece alle ricerche del medico e patologo Rudolph Virchow relativamente all’ipotesi dell’esistenza di una popolazione preariana dai capelli scuri in Prussia. (GM I 5; Orsucci 1998: 1). 12 Già durante gli anni di insegnamento a Basilea, del resto, Nietzsche era solito stigmatizzare il mito dell’autoctonia greca sottolineando l’importanza degli influssi orientali e semitici sulla cultura ellenica, mentre all’altezza di Umano, troppo umano la mescolanza dei popoli viene interpretata, alla luce di diverse letture antropologiche coeve, come un arricchimento.
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innanzitutto un tipo umano, rappresenta cioè la Lebensform del dominatore «indipendentemente da qualsiasi contesto razziale e da qualsiasi riflessione sul legame tra razza, suolo, clima e cultura» (Canevari, 2008). Ma è possibile spingersi ancora oltre: proprio in quanto lontana da ogni fervore tellurico legato alla retorica völkisch del Blut und Boden, la Lebensform della «bionda bestia» che incarna il tipo dominatore si può associare a quella dell’artista, inteso ancora una volta non come signore nel senso di soggetto prevaricatore, ma come colui che nel senso più alto non crea solo opere ma nuove forme di esistenza, in un’ottica in cui vita e arte vengono a convergere. L’artista pertanto non è colui che semplicemente raggiunge, afferra e si nutre della propria preda, ma colui che istintivamente, inconsapevolmente, irresponsabilmente, plasma e produce esperimenti esistenziali. Nel suo predare, l’artista cattura, distrugge e insieme crea qualcosa di vitale dall’altrimenti informe massa degli ultimi uomini.
5. Il prete Alla plurivoca figura della «bionda bestia» si oppone radicalmente la forma di vita dell’animale addomesticato, che trova la sua quintessenza nel prete, responsabile della metamorfosi dell’animale da preda in animale in gabbia. Inizialmente accettata nell’apparentemente innocua veste del mago e dello sciamano, addirittura considerata indispensabile per l’organizzazione e la decodifica dei sistemi simbolici delle nobili bestie da preda, la figura del prete si rivela invece responsabile non solo del passaggio dall’opposizione buono-malvagio all’opposizione buono-cattivo, ma anche del rovesciamento di tali termini: il sacerdote ha saputo cioè trasformare le volontà puramente negative che covavano negli animi ancora semplici dei sottomessi kakòi-malvagi in energie capaci di creare valori, anzi, contro-valori in grado in definitiva di vincere sugli antagonisti, ovvero sui buoni-nobili. Ma vi è nella Lebensform sacerdotale una forza sovvertitrice più profonda: come possiamo leggere in Ecce Homo, la figura del sacerdote risulta centrale per
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le riflessioni psicologiche della Genealogia nel senso più ampio: «questo libro contiene la prima psicologia del sacerdote» (EH, Genealogia della morale). Ebbene, se l’intera psicologia nietzscheana si fonda sul primato del Trieb, dell’impulso – e in generale delle Stimmungen e delle Neigungen intese come stati d’animo e passioni – rispetto alla Selbstgewissheit intesa come soggetto cosciente, il sacerdote emerge come responsabile tout court della comparsa della coscienza come elemento preminente sull’impulso. La responsabilità del sacerdote è da riconoscersi nella sua opera civilizzatrice: la metafisica del prete in quanto nemica dei sensi reprime quella dimensione oscura, tracotante, notturna, istintuale e pre-cosciente che era incarnata dall’aristocratico e dalla bestia bionda, opponendole l’interiorizzazione, il ressentiment come coscienza dei deboli e dei sottomessi. Nella Lebensform del prete sembra così specchiarsi la figura antidionisiaca per eccellenza di Socrate, che a sua volta aveva opposto l’ottimismo intellettualista all’abisso del tragico. Riemerge qui l’influsso dostoevskijano relativo al ressentiment: il prete asceta, che risulterà una figura centrale per le riflessioni contenute in GM III, è il solo in grado di sedurre lo schiavo donando nuovo senso alla sua sofferenza. La condizione fondamentale di sofferenza che rende ingiustificata e ingiustificabile l’esistenza finalmente trova una spiegazione nel concetto di colpa. L’essenza stessa del tragico, ossia l’impossibilità di «spiegare da dove venga e da cosa sia motivato il dolore che è intrinseco all’essere uomini» (Curi 2008: 68), trova dunque il suo phármakon, il suo rimedio nelle nozioni «paradossali e paralogiche come “colpa”, “peccato”, “peccaminosità”, “pervertimento”, “dannazione”» (GM III 16). La mancanza di felicità, di piacere e di gioia che segna la vita dello schiavo, lo induce a trovare motivazioni: «“qualcuno deve essere responsabile del fatto che mi sento male” – è caratteristica di tutti i malati questa conclusione, (…) “io soffro: qualcuno deve averne colpa”» (GM III 16). La malattia consiste esattamente nell’incapacità di superare l’assurdità della sofferenza, e la cura del prete sta nel fornire una risposta alla domanda pressante e tormentosa sulla mancanza di senso: «in se stesso» l’uomo deve cercare «il primo avvenimento sulla “cagio-
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ne” del suo soffrire (…) in una colpa, in un frammento di passato, deve comprendere la sua stessa sofferenza come una condizione di castigo» (GM III 20). In questo modo il sofferente diviene «peccatore», e la sofferenza diviene «colpa, timore, castigo» (ibid.). Il “farmaco” somministrato al “malato” non ha come effetto una effettiva Überwindung della sofferenza, nel senso di una guarigione che consenta il pieno recupero della vita terrena, bensì determina una volontà nichilistica e passiva di sofferenza, di macerazione, di avvilimento del corpo nella prospettiva escatologica di guadagnare una vita postuma beata, nella quale felicità ed assenza di dolore coincideranno. Più l’ideale si allontana dalla corporeità e si attesta nella sua irrealizzabilità terrena, più motiva la tensione verso di sé (Stegmaier 2004: 155). Il prete annulla la mancanza di senso della vita ricomprendendo il male nella dimensione della colpa che esige un castigo: Ormai si indovina che cosa per lo meno ha tentato, a mio avviso, l’artistico istinto risanatore della vita attraverso il prete ascetico (…): a rendere innocui sino ad un certo punto i malati, a distruggere gl’inguaribili attraverso se stessi, a dare ai malati lievi una rigorosa direzione alla volta di sé, una direzione a ritroso del loro ressentiment (…). Va da sé che non può trattarsi assolutamente (…) di un reale risanamento fisiologicamente inteso; non si potrebbe neppure affermare che qui l’istinto della vita abbia in qualche modo intenzionalmente mirato al risanamento. (GM, III, 16)
La sovversione morale e psicologica di cui il sacerdote è responsabile ha dunque la sua origine nella «grande ragione» del corpo, che Nietzsche in Così parlò Zarathustra (Za, Dei dispregiatori del corpo) descrive non solo nel senso di Leib, di mera fisicità, ma come Selbst, ossia come complesso di attività istintive che riassume in sé quei conflitti delle funzioni corporee che per Nietzsche sono in continuità con i processi mentali. Esattamente agli antipodi di tale rivalutazione fisiologica, che non riconosce più nel corpo un elemento umile e basso, sottomesso all’intelletto, ma al contrario stabilisce una corrispondenza totale tra corpo e “spirito”, il sacerdote incarna le pratiche antivitali di astinenza e rinuncia. E tuttavia, proprio in quanto espressione del tipo debole, Lebensform
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in cui si manifesta un deficit di volontà di potenza, egli si innalza paradossalmente a dominatore, riuscendo a far prevalere la propria valutazione risentita e reattiva del mondo. Assistiamo quindi ad una torsione per cui, agli occhi del sacerdote, il corpo diviene centrale in virtù del suo essere negato, ossia non nella prospettiva di una rivalutazione dei sensi, ma di una loro spiritualizzazione, mortificazione e infine negazione. Tutta la dimensione dietetica, che postula l’astensione dalla carne, il digiuno, la continenza sessuale, la fuga «nel deserto» (GM I 6), è finalizzata a fornire un nuovo significato morale a quei termini di «puro» «e impuro» che originariamente segnavano le discriminati tra classi. Le pratiche rinunciatarie gettano l’uomo in una condizione di prostrazione, ne perpetrano lo stato di malattia, eppure proprio il prete che di tali pratiche è foriero è portato a proporre dei rimedi, delle terapie, delle prognosi. Egli edifica così un intero mondo alternativo tanto alla malattia fisica quanto alla patologia esistenziale e psicologica. Tale apertura allo spazio dell’interiorità è riconosciuta da Nietzsche come pericolo (Gefahr), termine decisivo all’interno della Genealogia che indica come la condizione di debolezza dello spirito reattivo si rivolga in volontà di vendetta che tenacemente ribolle consumando l’animo del debole e del malriuscito: «l’immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo europeo nasconde il nostro massimo pericolo (unsere grösste Gefahr)» (GM I 12). Su questo terreno nasce l’alleanza tra il prete e i sottomessi, qui il termine “cattivo” passa a significare “malvagio”. Nascono nell’ultimo uomo la doppiezza, l’ambiguità, il risentimento che erano estranei alla schietta semplicità dei signori, che appunto da ora divengono i “malvagi”. Lo stile di vita del sacerdote comporta dunque un sovvertimento morale della massima pericolosità poiché fonda nuove tavole di valori sul terreno dell’interiorità.
6. L’ebreo Il volto concreto che Nietzsche dà al personaggio del prete è da riconoscersi nell’Ebreo, che è Sinn-bild del popolo che ha
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portato il tipo sacerdotale alla sua massima espressione. Tra il 1886 e il 1888 l’atteggiamento di Nietzsche nei confronti degli ebrei oscilla pericolosamente tra l’ammirazione e la critica: in Al di là del bene e del male leggiamo ad esempio che: «gli Ebrei sono senza dubbio la razza più forte, più tenace e più pura che viva oggi in Europa» (JGB, 251)13. All’interno della Genealogia egli ascrive ai semiti la responsabilità di aver inaugurato la rivolta degli schiavi della morale e di aver rovesciato l’originario significato dei termini «buono» e «cattivo»: Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro «i nobili», «i potenti», «i signori», «i depositari del potere» non merita una parola in confronto a ciò che contro costoro hanno fatto gli Ebrei; gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che ha saputo infine prendersi soddisfazione di propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta. (…) Sono stati gli Ebrei ad aver osato, con una terrificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore (buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dei) [gut = vornehm = mächtig = schön = glücklich = gottgeliebt] ovverosia «i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti, gli unici uomini pii per i quali soli esiste una beatitudine». (GM I 7)
Il risentimento ebraico nei confronti dei nobili dominatori, considerati come crudeli tiranni, non solo sovverte l’aristocratica coincidenza dei valori di bontà e potenza, ma subisce poi la sua più sottile metamorfosi nell’amore cristiano, interpretato come «la più raffinata forma di vendetta mai apparsa, dove la volontà di preminenza degli schiavi sui dominatori raggiunge la sua migliore espressione» (Canevari: 2008, 79). L’amore cristiano si configura così come il trionfo del debole e del malato sul 13 È del resto noto il disprezzo nietzscheano per gli antisemiti, come dimostrano le critiche a Eugen Dühring, a Lagarde, al cognato Förster e soprattutto a Wagner (Vivarelli 2011: 184).
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forte e sul sano, come la vittoria della volontà di negazione su quella di affermazione. La glorificazione del dolore, della passione sulla Croce, è l’apogeo dell’automortificazione e insieme la giustificazione della vendetta dei deboli contro i nuovi malvagi, ossia i cattivi, ossia i nobili. La vendetta degli schiavi innesca così un sentimento che potremmo definire di Shadenfreude, di godimento per l’infelicità inflitta agli antichi padroni, segnati e avvelenati dalla colpa. È a questa altezza che, come si è già accennato, si può rilevare una latente ma centrale affinità tra le figure del sacerdote ebraico, del prete cristiano e quella del Socrate descritto nella Nascita della tragedia: figura sostanzialmente plebea, impertinente e irriguardosa nei confronti degli ideali dei nobili, fautrice di un metodo dialettico finalizzato alle essenze e dunque agli antipodi rispetto al metodo genealogico, Socrate diviene per Nietzsche il corresponsabile dal punto di vista teoretico della decadenza e del pervertimento che sacerdoti e preti hanno innescato dal punto di vista morale. Socrate gode nell’umiliare la crème aristocratica ateniese attestandola in una condizione di inferiorità non fisiologica o psicologica, ma dialettico-razionale. Nel Simposio assistiamo a un esempio tipico di Schadenfreude nel momento in cui il nobile Alcibiade dichiara che soltanto Socrate è in grado di fargli provare vergogna di se stesso (Simposio 216 b): l’intero metodo socratico si può così considerare una messa in luce dell’incapacità da parte di nobili e dominatori di rendere ragione del loro modo d’essere e del loro sistema di valori. L’aristocratico soccombe perché non ha mai sentito il bisogno di giustificare se stesso e le proprie azioni, non è quindi necessario riferirsi alle riflessioni nietzscheane sulla tragedia euripidea per vedere come l’ingenua esuberanza del nobile decada agli occhi di Nietzsche sotto una nuova forma di agone fondato sul lógos. Se il nome di Socrate all’interno della riflessione nietzscheana all’altezza della Genealogia compare esplicitamente solo una volta in relazione alla critica al matrimonio (GM III 8), ben più esplicito è il riferimento alla figura storica di Paolo di Tarso (considerato la terza figura ebraica più importante dopo Gesù e Pietro). In Paolo Nietzsche riconosce il catalizzatore dell’odio
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sordo covato dalle masse oppresse dell’Impero romano, colui che trasformò il disprezzo (la Ver-achtung) verso i forti in «forza organizzata sul piano sociale (Chiesa), ed in forza coerente sul piano dottrinale, (Dogma)» (Canevari 2008: 83). In questo senso Nietzsche osserva: Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero «gli schiavi» o «la plebe» o «il gregge», chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo. “I signori” sono liquidati, la morale dell’uomo comune ha vinto. (GM I 9)
Lo spirito del popolo, prima ebraico e poi cristiano, ha assunto all’epoca di Nietzsche il volto degli ideali democratici, del socialismo, e, per tornare all’inizio della dissertazione, il volto dello spirito positivista di quegli psicologi inglesi ignari che la predilezione per il “fatto” sia debitrice al medesimo spirito livellatore di cui è affetta la morale dei servi. Se nell’incondizionata fiducia nell’oggettività scientifica Nietzsche riconosce il rischio di una nuova fede laica – pensiamo al catechismo positivista di Comte – egli riconosce al contempo nei movimenti politici e sociali espressioni delle classi lavoratrici un desiderio di livellamento e di uguaglianza come espressione delle pulsioni di vendetta e di risentimento (cfr. ad esempio JGB 203 e Pasqualotto 2008: 114-133). L’odio originario, la volontà del nulla, dopo molte metamorfosi si rivela oggi come nichilismo che pervade ogni manifestazione dello spirito: a questo progressivo esaurimento dello spirito, ovvero alla décadence, Nietzsche vuol opporre una Lebensform inedita, che, come si è accennato, superi anche la tracotanza del signore: A questo punto non riesco a reprimere un sospiro e un’ultima speranza. (…) Ma concedetemi di tanto in tanto – posto che esistano divine dispensatrici, al di là del bene e del male – uno sguardo, un solo sguardo concedetemi unicamente rivolto a qualche cosa di perfetto, di compiutamente riuscito, di beato (…). A un uomo che giustifichi l’uomo, a una fortunata, complementare e redentrice, ventura umana (…). Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il
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presentimento che tutto continui a sprofondare (…). La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo?... Noi siamo stanchi dell’uomo… (GM I 12)
Ecco che il vuoto di senso dell’epoca attuale si fa per Nietzsche chance per l’avvento dell’oltreuomo, il quale, benché non venga esplicitamente nominato nella Genealogia, resta presente in filigrana come orizzonte di sublimazione dell’etica agonale in una sovrana e innocente indifferenza, che disattiva la dinamica del ressentiment appunto per assenza di antagonisti. Risulta centrale allora, come argomenta Loeb (2006: 163-173) il riferimento in apertura della seconda Dissertazione alla «forza del dimenticare (Kraft der Vergeßlichkeit)» intesa non come svuotamento o oblio assoluto, ma come emancipazione da due millenni di morale e insieme come facoltà attiva di incorporazione-assimilazione (Einverleibung e Einverseelung), «appropriazione spirituale» di un passato che diviene linfa vitale per il corpo, che viene digerito e dimenticato come una pietanza nutriente. Il mantenersi nel presente, l’attestarsi nell’attimo, impedisce la duplicazione riflessiva tipica del modello platonico-cristiano e quindi la morale risentita dello schiavo, che necessita costitutivamente di un mondo a lui esteriore e opposto. Come questa umanità futura possa concretizzarsi nel tempo e nella storia resta taciuto, rimangono aperti il presagio e la grande promessa di una Lebensform a venire: Ma in qualche tempo, in un’età più forte di questo marcido, dubitoso presente, dovrà pur giungere a noi l’uomo redentore, l’uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore che sempre la sua forza incalzante torna a spingere via da ogni eremo e da ogni trascendenza (…). Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione (…) dovrà un giorno venire… (GM II 24)
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1. Genealogia, il termine è di evidente interesse nell’ambito della morale. Poiché, anzitutto, se si segue Nietzsche, esso permette di evitare ogni percorso di ordine storico che pretenda di rendere conto di quei grandi concetti che troviamo all’origine del nostro modo di pensare; esso permette anche di disfarsi di ogni preoccupazione riguardante la ricerca di un’origine e tutto ciò che le assomiglia. Evidente e di una grande utilità, nella misura in cui la morale è, a colpo sicuro, l’ambito prediletto delle cose indeterminate, quelle che talvolta sono capaci di generare consenso con poca spesa e, allo stesso tempo, di trovare un’ampia approvazione per la maggioranza delle proposizioni che proliferano in questo campo. Lo si vede immediatamente leggendo la Genealogia della morale, quando serve Nietzsche non teme di utilizzare le virgolette per i vocaboli più noti, quelli che necessariamente vengono richiesti in questa prospettiva – per esempio nella seconda Dissertazione, “colpa” e “cattiva coscienza” e, nella prima, “buono” e i diversi contrari di questo aggettivo determinante. La tipografia va qui pienamente tenuta in conto e più che mai fa parte del lavoro di scrittura, partecipa dunque di una prospettiva fondamentalmente critica. Ci sono quindi dei termini correnti che non possono più essere intesi per delle ragioni che conviene precisare, termini che possono essere tanto meno compresi quanto più essi organizzano un buon numero dei nostri enunciati e autorizzano la circolazione di ciò che, da troppo tempo, sembra esprimersi con una facilità sconcertante. Credo che questo sia uno dei Leitmotiv di Nietzsche, special-
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mente in questo libro. Una certa facilità nell’uso può talvolta avere valore di sintomo, in ogni caso essere l’indizio di un vero problema e, conseguentemente, convocare in particolare la riflessione o – cosa che può avere lo stesso senso – suscitare delle considerazioni ironiche per chi diventa attento a un fenomeno di tale natura. Delle frasi troppo ben formate, in effetti, sono capaci di far sorgere il sospetto e di rimettere in moto un’interrogazione. Degli enunciati troppo lisci e con una portata troppo grande sono in grado di far nascere molte domande, domande necessariamente sconvolgenti rispetto a ciò che crediamo (da molto tempo) riguardare l’ambito della morale. La genealogia è un cammino che ha soprattutto l’obiettivo di mostrare da dove vengono certe parole, da quali luoghi procedono un certo numero di concetti, i quali, esaminati da vicino, dimostrano di essere senza alcun rapporto con ciò che designano. Bisogna imparare a ricostituire tali traiettorie ma anche ad ascoltare queste grandi parole che s’impongono tanto nei discorsi più correnti, quanto negli enunciati presunti astratti. È la messa in opera di una posizione di ritirata che è sul punto di lasciar intendere che, contrariamente a ciò che è dichiarato qua e là, non è il senso delle parole ad essere in gioco, dato che, a considerarla con precisione, una dimensione di questo tipo è in effetti introvabile. Si dirà che qui si tratta in qualche maniera di una sorta di ripiegamento della filosofia (e di tutta la morale) su se stesse, come un seguito dato al movimento kantiano della “critica” sotto un’altra forma, indubbiamente più radicale. Poiché non è più la ragione1 a far le spese dell’operazione, ma il linguaggio, nella sua forma reputata più nobile o più compiuta, cioè la produzione dei concetti e la formazione delle proposizioni che vi derivano. La constatazione che Nietzsche fa qui come in altri testi può insomma riassumersi così: noi non sappiamo più ciò che diciamo quando continuiamo ad utilizzare questi grandi termini o i loro equivalenti; i concetti più comuni hanno tutto ciò che serve per 1 Ricordo una frase di Adorno che sembra andare nella stessa direzione: «[...] l’autocritica della ragione è la sua vera morale» (Adorno 20069: § 81, 146).
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disorientarci. Per Nietzsche non si tratta affatto di rifiutarli e nemmeno di volerli confutare – ciò sarebbe assurdo o a sproposito. Si tratta piuttosto di tentare di comprendere e di esplicitare dove ci conducono, quel che ci fanno cogliere o, anche, quel che ci fanno fare, le operazioni alle quali essi si prestano mediante se stessi senza che noi possiamo intervenire, ciò su cui ci accecano, e via di seguito. La funzione di concetti di questa importanza non è quindi mai univoca. Poiché qui si trova una vera eredità di cui, spesso, ci si serve senza mai interrogarsi sulla sua provenienza, sui suoi aspetti maggiori o sulle sue più diverse costituenti. L’erede si trova in qualche modo spossessato di ciò che presumeva ricevere. Il “noi” perde il controllo delle forme di discorso più abituali, e allo stesso tempo indubbiamente perde anche una parte della sua consistenza, volendo mantenere ad ogni costo dei concetti e delle proposizioni vacanti. Conferiamo tutta la fiducia al Senso senza avere i mezzi per comprendere di cosa si costituisca; investiamo senza posa su alcune evidenze di cui supponiamo, inoltre, che esse siano riconducibili come automaticamente attraverso il tempo, e conseguentemente al di là di noi stessi. Vogliamo ignorare che questo Senso può, come altre cose d’altronde, alterarsi nella durata, modificarsi da cima a fondo, che non potrà mai essere fissato una volta per tutte. Così l’eredità si disfa nella misura in cui si trasmette, è capace di essere ricevuta in modi diversi – supponendo che sia un solo blocco nei suoi primi momenti. Assumere la misura di una tale mancanza è il primo passo di un cammino che antepone tutto alla genealogia. Indubbiamente è anche ciò che permette di fare un uso effettivamente ironico del pensiero, per esempio sospendendo le diverse credenze che certi termini sembrano voler sostenere o che certe frasi possono suscitare. Impegnarsi in un cammino genealogico di questo tipo è avere continuamente a che fare con delle modalità di credenza – Glaube – e di fiducia – Vertrauen – che giungono a noi da lontano e che, oltretutto, non si danno mai come tali, sembrano dissimularsi dietro alla facciata concettuale e scomparirvi quasi totalmente, lasciando intatta la facciata stessa.
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Nietzsche è filologo quanto filosofo. Per lui non si tratta affatto di chiedersi, ancora una volta, cosa sia la “colpa” o la “cattiva coscienza”, cosa siano il “buono” o il “cattivo” – e via di seguito, ma di spostare interamente l’insieme del problema. Bisogna dunque, del tutto diversamente, chiedersi da dove arrivano designazioni di quest’ordine, a cosa corrispondono, che cosa nascondono, da dove vengono le diverse azioni – o reazioni – alle quali sono sottoposte. A fondamento del cammino nietzscheano c’è il seguente elemento su cui s’insiste: sotto ai concetti più correnti – i più datati, quelli che troviamo sotto il segno della più grande evidenza – si trova un gioco di forze, dei conflitti, delle interpretazioni e, ancora di più, dei movimenti continui che si direbbero riguardare una vera captazione di tipo ideologico2: altrimenti detto, tutto quel che arriva ad annebbiare il Senso interferendo con le sue pretese, tutto quel che gli fa perdere il suo prestigio, le sue tradizionali caratteristiche, tutto quel che può contribuire a eroderlo. In fondo, ogni volta, è come se la società non smettesse di intervenire nelle nozioni rientrando nel campo della morale più ordinaria, come se essa premesse senza posa sulla parola tramite concetti a cui, d’altronde, la stessa morale – quando non la società stessa... – attribuisce valore al carattere astratto, all’aspetto distaccato, ossia assoluto. La genealogia deve inventarsi le basi mediante le quali potrà cogliere o riconoscere tale pregnanza e le diverse modalità di un’intercessione, le forme di un’incessante interferenza – cosa che si potrebbe designare come esistente nelle pieghe del pensiero. La morale esiste raramente senza che vi sia un’influenza della “sociologia”. L’esempio indubbiamente più probante di questo lavoro si trova in GM II 13, che fondamentalmente affronta la cruciale nozione di “pena”. Qui si vede chiaramente come l’introduzione di un cammino genealogico permetta a Nietzsche di precisare alcuni discorsi precedenti e anche di riformulali in modo più serrato, di riprendere delle intuizioni molto più antiche per dare loro un corso più ampio o una portata più generale. In altri termini: 2
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ogni enunciato di portata filosofica (o morale) dipende da un’interpretazione, è legato a delle preferenze (o a degli obblighi) che sfuggono all’interrogazione, non è del tutto separabile dalle diverse circostanze della sua formazione; insomma, i “giudizi di valore” sono allegorici, molto spesso dicono una cosa proprio mentre la nascondono, avendo di mira un’altra cosa rispetto a quella che ci mettono davanti, costantemente sfasati da se stessi, senza posa in equilibrio instabile. Quindi la morale appare essere prima di tutto come un problema d’insieme più che una risposta, come costituita di fatto da diversi enunciati dei quali non è possibile fidarsi. Di conseguenza è una sorta di fondamentale disinganno che il cammino genealogico concepito da Nietzsche mette in moto. È come se, malgrado tutte le smentite che sono state loro inflitte, si mantenessero delle promesse molto precedenti, come se il fatto che esse non siano state mantenute in questa prospettiva non avesse grande importanza e non fosse grave. Nella “Prefazione” della Genealogia della morale Nietzsche afferma che bisogna «cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori – e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando» (GM, Prefazione 6). Tanto lo sviluppo quanto la modificazione cambiano il bersaglio iniziale – o ciò che può farne le veci, ciò che si può supporre essere stato così (per le necessità della dimostrazione). Ciò vale soprattutto per la “pena”, esclusivamente posta in questione in questo paragrafo. Rapidamente ricordo qui a grandi linee questo cruciale discorso per sottolinearne qualche punto o eventualmente per ampliarlo, ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività. 2. A partire dal momento in cui si prende in considerazione la “pena”, si è obbligati a distinguere con precisione ciò che è durevole, «l’uso, l’atto, il “dramma”», una successione di procedure diverse, sia che da un lato, in un simile dispositivo, si formi una costante, sia che, dall’altro lato, si formi ciò che è fluido, «il signi-
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ficato, lo scopo, l’attesa, che si connette all’esecuzione di tali procedure» (GM II 13). Tutto ciò che è dell’ordine della procedura riguarda, con ogni probabilità, una certa preesistenza, e da essa sembra trarre anche una parvenza di legittimità; mentre il “significato” è manifestamente più tardo, come secondario, accessorio, e richiede delle virgolette o un trattamento similare. Il grande privilegio che la filosofia ha accordato a questa categoria superiore del Significato sembra essere qui particolarmente maltrattato, in qualche modo abolito, sembra non avere più nessuna portata. È d’altronde per questo verso che Nietzsche reintroduce una parvenza di storia – a parte il fatto che il termine è evidentemente assunto in un’accezione del tutto minore, quasi peggiorativa; serve solo per menzionare una successione di esecuzioni, una serie di utilizzi contingenti di cui ora, secondo Nietzsche, si può anche vedere il compimento nell’Europa attuale; degli abbondanti utilizzi che svuotano il termine dell’essenziale della sua sostanza e conseguentemente lo privano dei suoi poteri, si potrebbe anche dire che ne fanno una sorta di grande carcassa vuota che può di conseguenza servire da supporto ai disegni più insensati, alle correzioni più casuali o alle imprese più nefaste – soprattutto, agli enunciati più incompatibili. Qui la storia è convocata solo per testimoniare di questo corso accidentato, di queste derive insensate, nella misura in cui è in grado di indicare una serie di problemi che richiedono di essere trattati. Tanto vale dire che lo stesso concetto di “pena” è propriamente introvabile, che di fatto non c’è alcuna unità di senso quando questo termine viene enunciato, che dunque non ci si può sostenere su ciò che un termine così incerto è supposto significare. Con questa parola si ha una sorta di cristallizzazione tardiva che non può mascherare a lungo il fatto che ce ne siamo serviti per gli scopi più vari – e che si continua d’altronde per la stessa via, come se niente fosse, come se il concetto potesse mantenersi intoccabile nelle sue variazioni. L’esito di questa storia si riassume nel fatto che questo concetto non ha più alcun rapporto col “senso”, che è sottomesso ai movimenti più contraddittori o più contrastanti, tormentato da forze incompatibili – si dirà che
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è diventato propriamente inutilizzabile, che non risponde più a niente di specifico – mentre al tempo stesso non si smette di farvi appello sotto una forma o un’altra, menzionandolo o meno. Per ampliare un po’ il discorso di Nietzsche, si dirà che la nostra modernità è costituita da termini – o concetti, nozioni – di questo tipo; diciamo anche da parole che articolano (senza mai arrivare a dirlo in quanto tale) un «dramma» e un’«attesa», una struttura molto antica e una legittimazione recente che rispondono a un bisogno momentaneo. Si noterà dunque che qui ci sono all’opera due processi differenti che entrano forzatamente in gioco: da un lato, l’articolazione tra la forma detta durevole e l’elemento presentato come fluido, dall’altro il fatto che si destina a questa struttura lontana uno scopo a seconda delle circostanze, che gli s’impone un nuovo orientamento – perlomeno in apparenza. Il tempo è per forza il beneficiario di questo insieme; tenerne conto contribuisce a rovinare ogni intento di Senso; tutto ciò che può sembrare prendere a prestito dei tratti dall’“eternità” (o dai suoi equivalenti) si disfa. 3. Ciò che trattiene l’attenzione di Nietzsche è in primis che questa storia ha un esito che diventa visibile – diciamo che ciò vale anzitutto per chi si preoccupa della genealogia e ha compreso che bisogna, per quanto possibile, attenersi sempre a siffatta prospettiva. I termini che Nietzsche utilizza qui sono di primaria importanza: «una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e (...) del tutto impossibile a definirsi» (GM II 13). Si coglie in questo il paradosso di un’unità che giunge a mantenersi proprio quando è impossibile farsene qualsiasi cosa, quando è impossibile avvalersene. In questo modo uno dei maggiori concetti della morale sfuggirebbe alla definizione, sarebbe propriamente inafferrabile, si potrebbe aggiungere che farebbe parte di quel che Paul Valéry chiamò spesso le «Cose vaghe». La conseguenza di questa mancanza maggiore è immediatamente indicata a chiare lettere da Nietzsche come dipendente dall’evidenza più elementare: «È oggi impossibile dire esattamente per
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quale ragione si addiviene alla pena» (GM II 13). Logica implacabile di una tale constatazione. La questione «per quale ragione?» non è dunque più all’ordine del giorno in questa prospettiva, essa dev’essere necessariamente accantonata; si può capire facilmente come ciò comporti delle conseguenze di primaria importanza, ovvero anzitutto una lenta rovina delle “evidenze” tanto dell’ambito della morale come in altri ambiti, in particolare il politico o l’economico. Dover abbandonare definitivamente una questione di questa ampiezza produce, di tanto in tanto, degli effetti su ogni cammino di pensiero, sposta alcuni dei suoi giochi, modifica da cima a fondo il regime generale della riflessione. Qualcosa di cruciale viene a mancare alle nostre abitudini di pensiero e giunge a farsi sintomo. Per dirlo altrimenti: un’istanza che rivendica, sotto una forma o un’altra, la “pena”, che la auspica, giunge per forza a parlare nel vuoto, non sa più nemmeno cosa dice, perché non è più nella misura di enunciare un qualunque motivo per reclamare un’azione di questa natura, poiché di fatto essa resta senza un “perché”. L’orecchio del filologo è capace di percepire questi spazi vuoti, questi buchi nel discorso, di cogliere che vi sono delle cose maggiori che non sono più formulate del tutto. In qualche modo la morale diventa orfana e, al contempo, gli enunciati a poco a poco perdono ogni credibilità, ogni affidabilità; essi non hanno più il fondamento che gli si supponeva da tanto tempo. È come la fine programmata di una “fede”, necessaria in simili contesti, una fede che non diceva il suo nome, che non poteva farlo e che aveva tanta più efficacia quanto meno si mostrava. Di questa «unità difficile da risolversi, difficile ad analizzarsi», che sfugge ad ogni presa concettuale ossia a ogni circoscrizione, si dirà anche che essa paradossalmente accompagna delle pratiche instabili – con ciò voglio indicare delle azioni che obbediscono a una necessità momentanea o a un’urgenza d’ordine strettamente sociale –, che rispondono a un’aspettativa che non è più formulata, che hanno di mira uno scopo che non si nomina mai in quanto tale. Zweck ed Erwartung sono i due migliori indicatori per comprendere come proceda la “pena”: il Sinn si disfa del fatto
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della sola presenza di questi due tipi di realtà operanti nel meccanismo. Si ha qui all’opera una sorta di mutismo obbligato, dei modi di fare che, a colpo sicuro, esigono di non essere mai menzionati, che restano obbligatoriamente in disparte – un mutismo che è come la condizione stessa del funzionamento di un buon numero di processi analoghi o semplicemente simili nell’ambito della morale o altrove. È quel che Nietzsche indica qui proprio in filigrana e che spesso si ritroverà altrove, in parecchi dei suoi testi. Già Pascal e Jeremy Bentham, ovviamente per vie diverse, mettevano l’accento su meccanismi di questo tipo o su processi in buona parte analoghi; per il primo ciò riguarda anzitutto la “religione”, per il secondo “la politica”, più ancora della morale. Montaigne, da parte sua, parlava di questa cosa determinante che ai suoi occhi era il «fondamento mistico dell’autorità» – una formula densa, particolarmente ricca, che, poco dopo, sarà ripresa e lungamente commentata da Pascal. Nietzsche si è fatto l’erede – diretto o indiretto, se così si può dire – di discorsi di una simile portata; la sfumatura è minima, di poco peso, tra il fatto di interpretarli, ossia di prolungarli riconoscendo loro un potere di suggestione, o il gesto, in apparenza del tutto diverso, che consiste nel reinventarli con i propri mezzi, in altri contesti, riprendendoli in frasi totalmente differenti. Valéry, coi termini che gli sono propri, mi sembra iscriversi in una prospettiva simile, particolarmente vicina anche per via dell’interesse che dimostra per le diverse istituzioni e, soprattutto, com’è noto, a ciò che sempre sembra fondarle su di una modalità singolare, a ciò che in ogni caso conferisce loro un corso in gran parte immaginario (e, non bisogna dimenticarlo, solido allo stesso tempo), ciò che egli chiama Fiducia. È difficile dire se egli abbia letto con attenzione la Genealogia della morale o solamente sfogliato il libro. Che importa, d’altronde: credo che egli ne reinventi le vie e i percorsi attraverso modalità proprie, ne riscopra il movimento con effetti del tutto diversi e grazie a dei termini rielaborati all’infinito. A mio avviso, i suoi Cahiers possono essere letti come degli interminabili esercizi in vista di una genealogia – parallela a quella ingaggiata da Nietzsche – che non
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si occupano unicamente della “morale”, ma che si preoccupano piuttosto dei grandi concetti all’opera nell’insieme della filosofia. In quest’ottica, l’ironia, com’è noto, è senza posa messa in opera da Valéry; essa risponde anche a una necessità che si dirà di “metodo”, partecipa del lavoro di tutti gli istanti; è una delle modalità fondamentali di un pensiero di questo tipo. Si trovano qui dei discorsi che, attraverso percorsi diversi, vanno incontro alla grande Idea filosofica tedesca – anzitutto hegeliana –, quell’Idea secondo cui è la Storia che a poco a poco fa accadere il Senso conferendogli un corso concreto; di conseguenza per il Senso il Tempo è il concetto stesso3. Secondo Nietzsche, il carattere «tardivo» dell’Europa (cfr. GM II 13) fa sì che essa non sia più orientata verso la prospettiva privilegiata della definizione (verso quel che per molto tempo è stato chiamato “Concetto o Senso”), e anche che abbandoni del tutto la prospettiva del “perché”.4 La principale ragione di questa mancanza deriva specialmente dal fatto che “pena” non può altro che essere indicata tra virgolette e che la stessa cosa accade indubbiamente anche per i grandi imperativi, i concetti maggiori della morale – così come per altri, d’altronde. Le principali nozioni morali dicono sempre di più o un’altra cosa rispetto a quel che si presumeva enunciassero o anche producessero: il “Senso” fa le spese di questo fondamentale difetto, assentandosi dall’orizzonte. Un certo tipo di discorso è come votato a dissolversi, quindi a disfarsi dall’interno, non obbedendo più alla destinazione che gli era propria, non assolvendo più al ruolo che gli era stato assegnato da lunga data: si tratta in particolare di un effetto di usura, per riprendere una metafora comune a Valéry e a Nietzsche, e anche di un effetto di svalutazione 3 Come è noto, è stato Alexandre Kojève a modificare la filosofia hegeliana in questo senso, pur restando del tutto fedele al testo hegeliano. 4 Questo viene a volte chiamato “nichilismo”: è come il momento in cui un pensiero incontra i possibili che ha emesso per molto tempo, il momento in cui si deve confrontare con ciò che ha prodotto senza averlo né misurato né compreso, in cui il pensiero diventa dunque fortemente dipendente da ciò che ha dovuto fabbricare in momenti diversi, da quegli artifici sui quali ha dovuto sostenersi.
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che genera una pratica quasi illimitata del sospetto.5 Entrambi gli effetti mostrano quel che vi è di profondamente enigmatico nel solo fatto di essere obbligati a dire che, in un dato momento della Storia, i valori si svalutano, quali che siano le motivazioni o le modalità di questa diserzione maggiore. Una rovina che anzitutto proviene dal modo in cui, ben prima di noi, essi sono stati posti, e dalle credenze di cui li si è dotati6, dagli investimenti che essi hanno sopportato. 4. È una sorta di forte messa in guardia quella che Nietzsche compie qui, su questo oggetto che è lontano dall’essere insignificante, la “pena” – realtà che si presume rispondere a un’azione distruttrice, far fronte a ciò che è “male”, rimediare ai diversi tipi di “crimine” che una società può conoscere. La constatazione è implacabile: difetto di senso e mancanza di coerenza da parte di coloro – evidentemente molto numerosi: la società nella sua interezza e come istanza d’insieme – che evocano la necessità della “pena” e l’incapacità di legittimare ciò che si formula (più spesso) con un grande vigore. È dell’ordine del dev’essere così e non altrimenti. Senza minimamente forzare il discorso, si dirà che, come conseguenza diretta di quest’osservazione cruciale, una società non sa più ciò che fa quando pretende di obbedire a questa necessità interna, ossia il fatto di doversi preoccupare con priorità delle forme del “crimine”, di dover quindi trovare le modalità (le più umane, le più razionali...) di sbarazzarsene. Resta il fatto che formulare un’economia di siffatta natura non va mai da sé, espone colui che vi si arrischia a molti fastidi – evidentemente da parte del corpo sociale, cioè del tale o talaltro dei suoi rappresentanti nell’ordine morale o ancora nell’ambito politico. A questo proposito le accuse non mancheranno, com’è noto, tanto 5 L’economia è molto spesso presente in queste operazioni, per una ragione o per l’altra: essa ha un ruolo maggiore da giocare, molto spesso su alcune modalità metaforiche a partire dal XIX secolo. 6 Cosa che non è senza analogie con l’insieme del percorso di Etienne de La Boétie nel famoso Discorso sulla servitù volontaria.
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per Nietzsche quanto per Valéry, del resto con la medesima banalità e senza riguardare nulla di preciso. Anche se si hanno delle buone ragioni per credere che siano in gran parte conosciuti, dal fatto in particolare che molti altri li hanno già lungamente evocati o suggeriti, esistono delle specie di segreti che evidentemente è preferibile non scoprire, delle modalità di funzionamento sulle quali è meglio non attardarsi troppo. Si taccerà presto come inutile – o anche come propriamente inumano... – ogni percorso che, brancolando, si azzardi ad enunciare qualcosa secondo una simile logica o che, cosa ancora più grave, mostri tutta l’assurdità di questo processo, facendo intendere che qui si finisce nell’ambito delle operazioni che non obbediscono ad alcuna razionalità. Se non si sa più «per quale ragione si addiviene alla pena», sembra che non si riesca più a sapere precisamente quel che si pretende punire, rispetto a chi e in quale prospettiva si possa avere una risposta al “crimine”. La questione resta, inevitabile, imprescindibile: è quindi la stessa istanza che indica ciò che è il misfatto, che annuncia che vi dovrà essere punizione e che fornisce anche le “ragioni”7 per procedere in questo modo? Si potrebbe dire che è il corpo sociale che non comprende più ciò che mette all’opera, che non ha più i mezzi per cogliere ciò che enuncia, ciò che decreta come morale elementare, ciò che propone come “valori” del momento, ciò che eredita su modalità contraddittorie. Vi sono qui molti sintomi che diventano inseparabili e che s’impongono sempre più all’attenzione, divenendo in qualche modo parlanti. Il corpo sociale non sa più e dunque non è in grado di enunciare cosa sia la pena. Insomma, siamo di fronte ad un’impossibilità radicale di dare senso a quel che può costituire il cimento stesso di una società; come un fondamentale divieto di parlare e, soprattutto, un’incapacità di pronunciarsi su ciò che sembra dover (o poter) riunire una società, su quel che eventualmente gli conferirebbe consistenza. Manteniamo il termine “pena” in circolazione – d’altronde, come fare altrimenti? – ma non possiamo più comprenderlo, coglierne la coerenza inter7
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Si capisce perché qui servano, specialmente, delle virgolette.
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na; esso resta fluttuante, totalmente indeciso, pronto soprattutto a servire le cause più diverse, le più contraddittorie – mi sembra un po’ come il tempo in Sant’Agostino: se nessuno ci chiede cosa nasconde il termine stesso, le cose possono seguire il loro corso senza grandi difficoltà, almeno per un po’; di contro, se qualcuno – che s’intenda di genealogia o meno – ci chiede di precisarlo o d’indicarne almeno un po’ i contorni e di cosa effettivamente si tratti con un simile termine, il problema si presenta in tutta la sua ampiezza, il concetto stesso sembra effettivamente inutilizzabile nella misura in cui lascia spazio, ad ogni occorrenza, a un utilizzo particolare o a un’applicazione interessata. La fine del Concetto, la sua sparizione, è in particolare quel momento in cui una società – o almeno alcuni dei suoi rappresentanti, specialmente quelli che parlano per gli altri – fa intervenire un interesse particolare con il pretesto della più grande generalità, in cui uno scopo specifico predomina assumendo tutte le apparenze del bene comune. Come si può facilmente supporre, la cosa avviene di frequente – nell’ambito della morale, ovviamente in quello della politica e oggi, a caratteri cubitali, in quello economico. La fine del Concetto coincide anche con questi momenti, abbastanza abituali, in cui si arriva a confondere l’aspettativa (o la speranza) e la verità, lo sconto e il risultato, il semplice desiderio e la realtà; tutte quelle numerose operazioni attraverso le quali si canalizzano delle forze conferendo loro un nome nobile in apparenza, una nomina che crea consenso. Si dirà, in un modo un po’ diverso: a furia di impiegare in questo modo un termine di siffatta portata – intendo la “pena” –, un bel giorno si manifestano i danni dovuti all’usura, l’indeterminazione fa problema nella durata e lascia spazio a captazioni o assoggettamenti imprevedibili. Attraverso questo, si può senza dubbio capire tutta l’importanza che Nietzsche riconosce al «noi» – ai diversi «noialtri...» che egli d’altronde cerca di costituire secondo registri differenti –, in particolare nei suoi ultimi testi, e tutte le difficoltà che egli ugualmente incontra per differenziare, all’interno di questa istanza grammaticale e di questa sorta di realtà manifestamente polimorfa,
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delle forme fondamentalmente diverse8. Chi può dunque dire “noi” nei diversi enunciati che mirano a punire? In quale tempo un simile “noi” può effettivamente parlare? A chi direttamente si rivolge quando raccomanda la “pena” come principale soluzione? A che cosa questo “noi” può richiamarsi senza rischiare d’essere immediatamente contraddetto? 5. È noto il grande Leitmotiv di questi ultimi anni di Nietzsche, ciò che egli tenta di riprendere facendolo variare in particolare sotto il nome di «nichilismo»: i valori stessi si svalutano fortemente; vi è una caduta visibile del loro corso, quest’ultimo essendo spesso stato forzato senza che si potesse ammetterlo; non è più possibile evitare un crollo di questa portata o continuare a mantenere i valori in rialzo; è impensabile il non vedere ciò che accade davanti ai nostri occhi; è sempre più vano ricorrere a degli artifici che, anche loro, hanno fatto il loro tempo e qui non possono più essere d’alcun aiuto. La morale si trova costantemente in una situazione precaria, diventa insensata: è ciò che permette a qualunque captazione ideologica di giungere a innestarsi sulla “procedura” e di influenzarla, conferendogli un orientamento disastroso, senza grande rapporto con i diversi valori esaltati. Il risentimento o altri movimenti della stessa natura sanno sfruttare bene questa situazione. È proprio questo che occupa Nietzsche nei suoi ultimi testi. Si dirà che per lui si tratta di definire un «noi» liberatosi il più possibile dai diversi artifici di cui si è dotato – altrimenti detto, un «noi» che abbia compreso che conviene, prima di tutto, separarsi da «obiettivi» prefissati e da «aspettative» già formulate, per cominciare semplicemente ad esistere. Evidentemente la «genealogia» nietzscheana costituisce veramente un problema moderno, più precisamente post-hegeliano. Lo riassumo in due parole nel modo seguente: la massima incom8 Per un approfondimento sulla questione del “noi” in Nietzsche, ci si permette di rimandare al nostro Rey 2010.
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patibilità tra la definizione (o il concetto) e lo svolgimento di un processo. Un problema di una simile portata è comune, secondo forme ovviamente differenti, a Kierkegaard, Bergson e Heidegger (prima di tutto in Sein und Zeit). Dal momento in cui vi è un processo – trasformazione, modificazione, lavoro... – l’unità rischia di diventare inafferrabile e la prospettiva concettuale di rivelarsi effettivamente impraticabile; bisogna in qualche modo procedere diversamente, inventare dei modi di dire (e di fare) che provengano da altri orizzonti. Ognuno di questi pensatori si serve della messa in opera di un dispositivo in vista di rendere conto di questa inadeguatezza congenita, di questo disadattamento tra ciò che è e una forma di Discorso che ha largamente predominato e ha prescritto le forme (e i limiti) di ciò che è pensabile. Il modo attraverso cui Nietzsche tratta questo problema consiste anzitutto nell’introdurre la prospettiva di quel che egli chiama semiotica nel modo seguente: «Tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente [semiotisch] un intero processo, si sottraggono alla definizione». Per precisare bene i giochi di questa posizione, Nietzsche aggiunge questa osservazione: «Definibile è soltanto ciò che non ha storia» (GM II 13). Qui come altrove, Nietzsche oscilla tra i “segni” (dalla forte connotazione medica, com’è noto) e i “geroglifici” – trattati nella “Prefazione” della Genealogia della morale – di cui si conosce la provenienza ma che, ciononostante, restano profondamente enigmatici. Questi due termini (intesi secondo un’accezione nietzscheana) possono essere confrontati con l’«als» che compare alla fine di GM II 13, nell’assai lungo elenco che va a chiudere questo paragrafo conferendogli una grande forza teoretica. La “pena” in quanto..., la “pena” come... o al posto di... Questa è una modalità per introdurre ai differenti “sensi” della pena – cioè rispetto agli usi, alle modifiche, alle ristrutturazioni, alle reinterpretazioni – i termini si potrebbero moltiplicare: è ciò che fa Valéry – rispetto a ciò che chiamiamo, malgrado tutto, “pena”: sia essa ciò che usurpa questa denominazione, quel che siamo costretti a chiamare in tal modo, dunque ciò che può essere formulato solo facendo a poco a poco scoppiare il concetto stesso. La “pena” non giunge
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mai propriamente a enunciarsi, ma è necessariamente sempre als, esiste solo come qualcos’altro; non può dunque accedere a nessuna generalità, è già sempre al servizio di uno Zweck o anche semplicemente impegnata con una Erwartung, non ha dunque nessuna purezza, è sempre sminuita, non è quasi niente di per sé. Dal momento in cui si pronuncia questa parola – o quando la si sottintende: fa lo stesso –, c’è un asservimento che interferisce, viene a prodursi un’impostazione gerarchica, una scala di valori che viene posta come in silenzio – e via di seguito9. La “pena” è sempre altra cosa da se stessa, un’altra cosa che, essenzialmente, canalizza e sfrutta ciò che può sembrare durevole e stabile nel dispositivo d’insieme; essa è come necessariamente abitata da un “als” che in qualche modo ne moltiplica all’infinito le forme. Del resto, è ciò che fa sì che essa non possa avere nessuna portata nell’ordine della morale – pure nella morale sociale. In questa lunga enumerazione si vedono bene le possibili destinazioni della “pena”. Ma s’intravede altrettanto quel che di fatto è la sua economia – quella che in particolare si lascia ricondurre all’opposizione “creditore/debitore”, di cui Nietzsche parla molto in questo libro come altrove. Evidentemente si potrebbe proseguire questa lista, arricchirla di particolarità, trovare altri “als”, mettere in luce altre legittimazioni o giustificazioni di questo processo. Le forme sembrano potersi declinare a perdita d’occhio, e tutto questo riguarderebbe chiaramente un certo numero di dibattiti attuali. In altri termini, si dirà che il cammino genealogico ha come conseguenza fondamentalmente lo sconvolgimento di tutto ciò che si apparenta a un “giudizio determinante” (o giudizio sintetico a priori) – nel senso forte che Kant conferisce a questa espressione. Si tratta dell’obbligo di riprendere per altre strade, con degli strumenti da costruire, ciò che procede dal “giudizio riflettente”, di cercare in qualche modo di rendere conto della diversità nella quale si confrontano un buon numero di ambiti. 9 La genealogia obbliga a riconoscere che costantemente esiste, al posto del Concetto, l’elencazione – il “via di seguito”, l’“eccetera” ed altre formule simili.
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6. Da tutto questo seguono alcune questioni. Che cosa sarebbe un politico che non accettasse di regolarsi su di un Senso già dato, che non cercasse di piegarsi a bisogni o a domande presunte, che cercasse di tener conto del gioco esistente tra il “relativamente durevole” e il “fluido”, che si rifiutasse di contare su “valori” facendo affidamento sul passato, l’anzianità o la prestazione? Che cosa sarebbe un’etica che cercasse di ridurre il più possibile il campo dell’“als”? Che cosa potrebbe risultare per il “noi”? Che cosa può essere un pensiero che rinuncia alle agevolazioni dell’etimologia per impegnarsi ancora di più in una ruminazione genealogica, su di un terreno in cui i giochi del linguaggio assumono una forte consistenza? Accenno velocemente e indirettamente, sviluppando il discorso di Nietzsche, all’opposizione (o alla controversia...) tra Heidegger e Wittgenstein. Il XX secolo è il momento in cui si formula questo grande dilemma, qui enunciato in modo schematico: o l’etimologia generalizzata (del greco antico e di certe lingue moderne, soprattutto il tedesco) che ha di mira una verità da disoccultare, o l’ipotesi secondo cui le parole rispondono a “scopi” o “aspettative”. Due concezioni totalmente opposte ossia strettamente incompatibili; per quanto il dilemma sia enunciato sinteticamente, si vede comunque che queste sono due modalità di tornare sulla dimensione del tempo in quanto inseparabile tanto dalla ricerca dell’étymon quanto da ciò che nominiamo giochi di linguaggio o artifici (poetici, o altri), che a essa sono connessi. Secondo la modalità empirica che caratterizza propriamente il suo stile, Valéry si è messo alla prova nel tenere insieme un cammino in cui i “segni” non sono del resto altro da ciò che qualifico come “genealogico”, una poetica che conduce l’artefatto al suo apice d’intensità e una preoccupazione filosofica rispetto al tempo e a termini astratti dello stesso tipo. Esiste un fatto molto notevole, è l’intermittenza del bisogno di questo termine [il tempo]. E mantengo come principio capitale del “mio sistema” o metodo la regola di non dissociare mai da una definizione di
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parola (o da un utilizzo di precisione di una parola “astratta”) l’idea del bisogno di questa parola. Essa deve rispondere a qualche domanda, che d’altronde può risultare da un’operazione su di un’altra parola data; per es. negazione, contrasto, possibilità, [capace], [possibile]), complementare, ecc. In tal caso l’esistenza della parola è giustificata – cosa che (trattandosi di parole astratte) è essenziale alla buona economia del funzionamento dei segni, il più frequente funzionamento del trasformatore mentale. Esso è un organo di passaggio. (Valéry 1957-62: t. XXIV, 441)
E Valéry parla, nella stessa prospettiva, di «segni che sono inseparabili da una relazione, comparazione, impossibili da isolare da qualche funzione o ruolo, come le lettere in algebra» (Valéry 1957-62: t. XXIV, 442). Come Nietzsche, ma anche differenziandosi da lui, Valéry ci rende attenti al fatto che un cammino genealogico non riguarda unicamente le parole, ma anche, se non di più, la formazione degli enunciati, le diverse operazioni grazie alle quali le parole originano delle frasi che, in cambio, vengono a modificare fondamentalmente l’accezione di quelle parole – e questo accade in tutti gli ambiti. Traduzione dal francese di Barbara Scapolo
Bibliografia Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund: 20069. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, § 81, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi. La Boétie (de), Etienne: 2014. Discorso sulla servitù volontaria, trad. it. a cura di E. Donaggio, Milano, Feltrinelli. Rey, Jean-Michel: 2010. L’età dei concetti, in Per una concettualità del presente, a c. di B. Giacomini, “Paradosso”, Padova, Il Poligrafo, pp. 39-53. Valéry, Paul: 1957-62; t. XXIV. Cahiers [fac-similé], t. I-XXIX, Paris, Éditions du C.N.R.S.
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Credenza, fiducia o conoscenza? Alcune riflessioni a partire da GM II 13 Barbara Scapolo
Il passo che dà avvio alle riflessioni che vorrei proporre in questo approfondimento è quello relativo all’analisi nietzscheana svolta sull’ambivalente concetto di “pena” [Strafe] nella sua sedimentazione di significati, luogo che è stato già più volte indicato, a giusto titolo, come uno dei momenti teoretici più significativi della Genealogia della morale. Alcune delle mie considerazioni appariranno in perfetta continuità e complementarietà con il contributo di Jean-Michel Rey proposto in questo volume (come anche rispetto ad altri suoi lavori1), sebbene esse aspirino a una problematizzazione che tenga conto non solo dell’opera di Nietzsche in questione, ma anche di alcuni punti nodali della riflessione del filosofo tedesco considerata nel suo insieme. Nello specifico, il fulcro di questa mia analisi riguarderà la problematicità di concetti quali “credenza”, “fiducia” e “conoscenza”2: una loro messa in questione deve necessariamente attraversare il pensiero nietzscheano e farsi carico della sua portata ineludibile, come si cercherà di mostrare in seguito. In GM II 13, luogo qui posto in questione, confluiscono, fino a sovrapporsi, la verità come problema (cfr. JGB 1) e la morale come problema (cfr. FW 345); esso offrirà un’occasione per riflettere ancora una volta sul significato di questa tangenza di 1 Ci si riferisce al lavoro dedicato in precedenza alla Genealogia della morale (Rey 2010) non meno che alle ricerche sul problema del credito e della credenza nella prospettiva di un’ontologia del mondo sociale: cfr. Rey 1998, Rey 2002 e Rey 2003. 2 Per un approfondimento ulteriore su questi temi, si rimanda a: Scapolo 2010, Scapolo 2011, Scapolo 2013 e Scapolo 2014.
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temi nietzscheani e, al contempo, diverrà quello snodo che permetterà di individuare una vera e propria chiave di volta circa la problematicità della morale e della conoscenza. Vale la pena evidenziarlo subito, non si deve mai dimenticare che per tali ambiti Nietzsche aspira ad una comprensione prospettica, come indicato nella Genealogia della morale stessa3. Per il filosofo tedesco esiste infatti «un legame inavvertito tra concezioni morali, convinzioni scientifiche, concetti ed espressione linguistica» (Canevari 2008: 103): egli si è adoperato anzitutto per fare in modo che tale rapporto venisse alla luce, ha voluto, cercato e realizzato un prospettivismo del sapere proprio perché non ha mai scisso l’attività teoretica dall’ethos o dall’habitus con cui il filosofo del domani sarà capace di interrogare la realtà, ma anche in ragione del fatto che l’esistenza stessa è venuto assumendo un carattere prospettico: «Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta “infinito”: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite» (FW 374). Non si deve infatti dimenticare che, per Nietzsche, il senso della verità [Warheitsinn] si è sempre mosso nella direzione della scepsi, ovvero secondo una chiave sperimentale dei problemi, senza “Verità” con la maiuscola, senza dogmi, assiomi, assolutismi (cfr. FW 51); in effetti, come è indicato nei Frammenti postumi, «dare un senso resta un compito da assolvere», in continua evoluzione (cfr. NF 1887-88, 9[48]). L’ethos scettico emerge con forza maggiore laddove venga a crollare ogni fede ottimistica nell’universalità della ragione, sostituita dallo spettacolo affascinante e tragico della pluriversalità, ovvero dell’irriducibilità conflittuale dei diversi punti di vista, delle diverse opinioni. Com’è noto, il suo continuo percorrere e ripercorrere i problemi secondo angolature e prospettive differenti va iscritto nel progetto generale di una «gaia scienza», che riguarda un sapere 3 «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”» (GM III 12).
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che considera secondo una modalità scettico-ironica gli elementi del suo stesso discorso, essendo un errore l’aderirvi in maniera assoluta, un errore il considerarli come effettivamente acquisiti. Nietzsche lo scettico, come il suo Zarathustra, è infatti perennemente alla ricerca, è un viandante che tenta e percorre vie diverse per giungere alla diffidenza, alla sfiducia [Mißtrauen] verso ogni Verità imposta come assoluto. Tanto la critica e la negazione (il «filosofare con il martello»), quanto la scepsi sono al servizio di questo esperimento: egli altro non desidera che «una buona dose d’incertezza», un orizzonte libero, un mare aperto, entro cui sia possibile esercitare tutto il possibile del pensiero, illimitatamente, senza confini. «Che cosa è stato finora ostacolato? Il nostro impulso a sperimentare» (NF 1886-87, 7[6]).
1. Un proficuo sintomo da interpretare genealogicamente Com’è noto, la seconda dissertazione della Genealogia della morale riguarda in particolare lo studio della tras-formazione (da intendersi come divenire della forma, come mutamento, come processo di formazione nella tensione tra continuità e cambiamento) degli strumenti messi in atto dalla società per «allevare e disciplinare un animale cui sia consentito fare delle promesse» (GM II 1) e dei risultati ottenuti da questa operazione. La società è per Nietzsche superiore all’individuo per forza e potenza; in particolare, rispetto a quest’ultimo, essa si pone nella posizione del creditore rispetto al debitore. In virtù di questa relazione gerarchica, la società ha strutturato il sistema di pene e punizioni per costringere l’individuo all’obbedienza e indurlo al rispetto della collettività e degli impegni che con essa ha assunto. Questo processo, come sappiamo, è per Nietzsche essenzialmente repressivo: grazie all’eticità dei costumi e alla sociale camicia di forza posta sugli istinti, l’uomo divenne uomo, ossia diventò affidabile, detto altrimenti divenne effettivamente prevedibile. Dall’analisi compiuta qui, nel cuore della Genealogia, emerge anzitutto un’evidente paradossalità e ambivalenza del concetto di “pena”:
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Nietzsche mette chiaramente in luce come originariamente essa non coincidesse affatto con la sofferenza. Chiedendosi come sia potuto succedere che al sentimento del dolore si sia associata la cognizione della colpa e quindi della giustizia della pena, ci viene mostrato come a poco a poco i due concetti abbiano finito per coincidere e sostituirsi al contraccambio, «alle forme fondamentali della compera, della vendita, del commercio» (GM II 4). Detto altrimenti, Nietzsche ci induce a riflettere sulle trasformazioni per cui la pena è arrivata a sostituirsi alla compensazione, rispondendo al paradigma della concezione retributivo/ compensativa cui originariamente era stata consegnata la colpa, o il debito: alla parte lesa, ossia al creditore, «viene concessa (...) a titolo di rimborso e di compensazione una sorta di soddisfazione intima», ossia il doloroso castigo del reo, il debitore (GM II 5). Qui Nietzsche sottopone al più radicale tentativo genealogico anche il lemma tedesco Schuld, concetto polisemico di cui la lingua tedesca bene esprime la complessità, essendo traducibile al contempo con “debito”, “colpa” e “dovere” e, pertanto, essendo a sua volta un ottimo terreno per la messa in opera del metodo genealogico stesso. In GM II 13 Nietzsche ci dice che “pena” è un concetto difficile da definire (e quindi da utilizzare) nella misura in cui la sua unità di significati sembra mancare; il moltiplicarsi dei suoi sensi rende il concetto «incerto, suppletivo, accidentale». Si consideri inoltre che «l’intera storia di una cosa, di un organo, di un uso può essere (...) un’ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppure bisogno di essere in connessione tra loro»; detto altrimenti, «la forma è fluida ma il senso lo è ancor di più». Il problema sollevato da Nietzsche, sul quale peraltro possiamo rilevare una sua marcata insistenza, riguarda il fatto che non si riesce più a sapere di che cosa parliamo quando utilizziamo termini così correnti come Strafe o Schuld. Ricorderemo un passaggio di GM I 5, dove la stratificazione di significati nel linguaggio è indicata come un «problema silenzioso», che appartiene proprio alle cose e ai termini che le designano, problema che, senza la
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genealogia, passa sotto silenzio nell’uso abituale. Abbiamo dunque incorporato un mondo di segni delle cose e di una tale confusa mescolanza siamo ormai succubi, dipendenti. Siamo intrappolati in parole e concetti provenienti dal passato, non riusciamo a stabilirne l’effettiva consistenza, l’effettiva possibilità di coincidenza con il nostro presente. Proprio perché non sappiamo nulla, o quasi, della “pena”, Nietzsche ci presenta la necessità di svolgere un excursus lungo la storia di questo concetto. La nuova consapevolezza che egli desidera per il filosofo dell’avvenire è proprio il senso storico, ossia la capacità di vedere i fenomeni di conoscenza, collocati nel tempo e nello spazio, non come un “già dato” ma come sempre suscettibili di interpretazione. In GM I 4 egli ci ha esplicitamente indicato la necessità di ricerca delle stratificazioni storiche dei significati presenti nel linguaggio, che, come sappiamo, sono per il genealogista come reperti del passato nascosti nel sottosuolo per l’archeologo: al suo sguardo, le illusioni provocate dal linguaggio appaiono per ciò che sono, ovvero dei sintomi da interpretare4. Si tratta allora di ripercorre il più possibile le metamorfosi di significato subite dai concetti anzitutto mediante una ricostruzione etimologica e storica. Detto altrimenti, è urgente inventare delle modalità di accesso a ciò che è passato, dimenticato, seppellito, a ciò che è stato finora ignorato per una più completa, più prospettica, comprensione del nostro presente. La Genealogia della morale è in questo senso l’esposizione del metodo genealogico attraverso la sua diretta messa in opera. Com’è noto, Nietzsche trasforma la domanda filosofica originaria, il “che cos’è?” di Socrate, in “che cosa significa?”, che a sua volta prelude al problema “Per chi significa, per chi ha valore questa cosa o questo concetto? A partire da quale visione del mondo, e a favore di quale tipo umano ciò che ha valore è ritenuto avere valore?”5. È di fondamentale importanza evidenziare 4
Cfr. ad es. NF 1885-86, 2[165]. «Ma posto che la fede sia svanita, si ripropone la questione: “chi parla?”» (NF 1886-87, 7[6]). 5
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ancora una volta che per Nietzsche non è mai indifferente chi sia a pronunciare un giudizio di valore. La genealogia come metodo apre al sospetto, alla diffidenza rispetto al valore dei valori mediante la ricerca della loro origine e del loro significato. Nel § 6 della Prefazione della Genealogia della morale ci viene infatti fatto notare come si sia preso il valore dei valori come dato, come risultante di fatto. In questo senso, verità extramorali saranno allora quelle che non danno per acquisito una volta per tutte e in modo autoevidente questo valore dei valori morali; ci si potrà appellare alla loro “verità” solo se si riuscirà a mantenerne aperta la problematicità. In tal senso il modus operandi genealogico diviene per Nietzsche fondamentale per la realizzazione del grande progetto della trasvalutazione di tutti i valori. Nel senso più specifico su cui vorrei focalizzare l’attenzione in questa sede, egli ci mostra come ci serviamo di concetti di cui crediamo di conoscere il significato e, contemporaneamente, che senza l’approccio genealogico non possiamo capire nulla dei concetti e dei termini che usiamo abitualmente. Detto altrimenti, senza genealogia non potremo mai avere effettiva conoscenza. In effetti, dietro ai concetti, il genealogista vede sempre all’opera delle forze oscure: su di esse è necessario ruminare, scervellarsi [Grübeln], perché un inganno, un’impostura, un’illusione – ossia una credenza – è sempre all’opera.
2. La critica genealogica della realtà psicologica della credenza Il termine tedesco con cui Nietzsche indica la fede e la credenza, usati come sinonimi, è Glaube. In tutta la sua opera, egli torna continuamente su tutte le forme della Glaube, innumerevoli sono i luoghi rintracciabili. Come già Hobbes6, Spinoza7 e, per
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Cfr. Hobbes 1651/2011: I Parte, XII. Cfr. Spinoza 1670/2010: Prefazione, 1-6.
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vie ancora più articolate, Hume8, per Nietzsche l’uomo è quasi sempre totalmente incline a soggiacere alla Glaube, ossia propenso a credere a qualunque cosa9. Un discorso differente riguarda invece la fiducia [Vertrauen], sulla quale torneremo più approfonditamente in seguito. Per ora vale la pena sottolineare solo come Nietzsche rilevi che, al pari dell’esperimento, la negazione, la diffidenza e la contraddizione, anche la credenza, il convincimento e la fiducia sono capacità, potenzialità umane. In particolare, la Glaube fu subordinata alla conoscenza certa e posta al suo servizio; in tal modo la conoscenza divenne un frammento della vita stessa e per l’uomo divenne indispensabile illudersi di possedere un sapere sulla realtà e sulla vita (cfr. FW 110). La vita deve ispirare fiducia [Vertrauen]: il compito, posto in questo modo, è immane. Per assolverlo, l’uomo deve essere, già per sua natura, mentitore [Lügner], deve essere, più che qualsiasi altra cosa, artista [Künstler]. Ed egli lo è anche: metafisica, religione, morale, scienza: non sono altro, tutte, che emanazioni della volontà dell’uomo di ricorrere all’arte, di mentire, di fuggire di fronte alla «verità». La facoltà stessa, grazie alla quale egli fa violenza alla realtà mediante la menzogna, questa facoltà artistica per eccellenza dell’uomo: egli l’ha in comune con tutto ciò che è. (...) Che il carattere dell’esistenza venga misconosciuto – è il profondissimo e supremo fine recondito dietro tutto quanto è virtù, scienza, devozione, tendenza artistica. Molte cose non vederle mai, molte cose vederle falsamente, e vederne molte altre che non ci sono: oh, come si è accorti nelle situazioni in cui si è ben lungi dal ritenersi accorti! (NF 1888, 17[3]).
Senza credenze, illusioni e menzogne, senza la certezza di conoscere il vero e il falso, il bello e il brutto, la causa e l’effetto, non potremmo vivere, non potremmo – come approfondiremo meglio in seguito – avere fiducia nella vita. Tuttavia, l’esperimento di Nietzsche ci indica un’altra direzione, che possiamo riassumere con la seguente domanda: fino a che punto le verità 8
Tra i molti luoghi di rimando possibili, in particolare cfr. Hume 1741/2008. Prospettiva sulla quale oggi si continua ad interrogarsi: cfr. ad es. Girotto/Pievani/ Vallortigara 2008. 9
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molteplici e prospettiche che costituiscono il mondo e il nostro stesso esistere sopportano di essere assimilate, assorbite, cristallizzate in una risposta che necessariamente si trasformerà in una credenza? Ci serviamo del concetto di “pena” perché crediamo di sapere che cosa significhi, quale sia la sua verità: ma quali sono le ripercussioni, gli effetti concreti di questa nostra ignoranza? Lo si è detto, Nietzsche ci mostra come le credenze siano in gran parte necessarie alla vita umana e come ogni società ne regoli variamente l’uso (ciò è evidente, ad esempio, nel caso dell’analisi compiuta da Nietzsche sul concetto di “pena”). Tuttavia egli ci mostra anche le devastazioni che ogni credenza, ogni fede non possono fare a meno di produrre nel tessuto sociale e nell’ordine della conoscenza, sul terreno della morale come su quello della scienza. Si badi bene: non troviamo in Nietzsche una semplice indagine e critica alla Glaube di matrice metafisica o religiosa, ma una radicale critica al suo funzionamento come facoltà, alla sua operatività problematica in ogni ambito della conoscenza e della prassi dell’uomo. In particolare, lungo la scia humiana, attraverso la critica genealogica della realtà psicologica della credenza, facoltà costantemente attiva nell’uomo, il filosofo tedesco si àncora in maniera assolutamente inedita e proficua allo scetticismo. Nella sua riflessione vediamo infatti dispiegarsi pienamente una disposizione che non si limita a mettere semplicemente tutto in dubbio, ma, con un’attitudine più prossima all’ethos scettico antico (che Nietzsche ben conosceva), egli nega decisamente la possibilità di trovare la Verità come assoluto. Nel suo pensiero confluiscono in maniera radicale tutte le attitudini e le disposizioni della scepsi, non meno che i suoi risultati problematici, scagliati contro concetti-bersaglio e contro rapporti mendaci, creati dall’uomo mentitore-artista per sopravvivere, come verofalso, buono-cattivo, causa-effetto, origine-fine. Le stesse nozioni di causa o di soggetto per Nietzsche non sono altro che credenze, delle finzioni necessarie, illusorie e pregiudiziali, così come l’unità e la coerenza della persona, intesa come istanza senza contraddizioni. Egli vuole soprattutto mostrarci l’urgenza dello smascheramento di questa illusione, ossia come l’uomo sia piut-
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tosto un processo complesso ed incerto, in continua mutazione e senza una direzione precisa. Leggiamo nel § 54 dell’Anticristo: Gli uomini della convinzione non sono da prendere in alcuna considerazione per tutto quanto è fondamentale sul valore e disvalore. Convinzioni sono carceri. Non vedono abbastanza lontano, non vedono sotto di sé. (...) La libertà da ogni specie di convinzioni, il saper guardare liberamente è parte integrante della forza… (…) Viceversa il bisogno di una fede [Glauben] (...) è un bisogno della debolezza. L’uomo di fede, il «credente» [der Gläubige] di ogni specie, è necessariamente un uomo dipendente – un uomo che non può disporre di se stesso come scopo, che non può in generale disporre scopi derivandoli da se stesso. Il «credente» non si appartiene, egli può essere soltanto un mezzo, egli deve essere usato, sente la necessità di qualcuno che lo usi. Il suo istinto attribuisce massimo onore a una morale della spersonalizzazione (...) Ogni specie di fede è, per se stessa, un’espressione della spersonalizzazione, di autoalienazione… (…) Il credente non è libero di avere in genere una coscienza per la questione del «vero» e del «non vero»: essere onesti su questo punto sarebbe la sua immediata rovina. (AC 54)
«Fede [Glaube] significa non voler sapere quel che è vero» (AC 52). Occorre dunque dimostrare che tutte le costruzioni del mondo sono antropomorfismi e che, senza un certo autoinganno, nessuno può credere con sicurezza di possedere la verità. Avere fede nella verità, altro non significa che illudersi. Anzitutto, servendosi della scepsi genealogica, si giunge a constatare e a dimostrare che il mondo non è razionale: vale la pena di rileggere un celebre aforisma de Il viandante e la sua ombra, intitolato La ragione del mondo: Che il mondo non sia il compendio di un’eterna razionalità, lo si può definitivamente dimostrare col fatto che quel pezzo di mondo che noi conosciamo – voglio dire la nostra ragione umana – non è eccessivamente razionale. E se essa non è in ogni tempo e completamente saggia e razionale, neanche il resto del mondo lo sarà; qui vale la conclusione a minori ad majus, a parte ad totum, e invero con forza decisiva. (WS 2)
Nietzsche constata come non si possa suscitare Glaube nell’uomo solo con «promesse di ricompensa e castigo – la fede che “muove le montagne” si può fondare solo sulla coscienza del no-
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stro inevitabile naufragio, se non accettiamo la salvezza che ci viene ancora offerta…», ossia la Glaube scaturisce direttamente dall’«intelligenza della nostra situazione», ossia da un’inconscia comprensione del carattere irrazionale, caotico e contraddittorio della nostra esistenza e dalla volontà di misconoscerlo per poter vivere (NF 1887-88, 11[271]): com’è noto, in Nietzsche la logica della “necessità della menzogna” non procede mai senza la puntuale considerazione tanto della sua “utilità” quanto del suo “danno”. Il Grundproblem riguarderà allora lo scoprire «da dove viene questa onnipotenza della fede? della fede nella morale? [Des Glaubens an die Moral?]» (NF 1885-86, 2[165]). Si ebbe bisogno di Dio come di una sanzione assoluta, che non ha sopra di sé nessun’altra istanza, come di un «imperativo categorico»; o, in quanto si credeva all’autorità della ragione, si ebbe bisogno di una metafisica dell’unità, in virtù della quale diventasse logico ---. (NF 1886-87, 7[6]) Ingenuità, come se la morale restasse, quando viene a mancare il Dio sanzionante! L’«al di là» è assolutamente necessario, se si tratta di mantenere in piedi la fede nella morale. (NF 1885-86, 2[165])
Il pregiudizio moralistico di base proprio del filosofo, secondo lo scettico Nietzsche, consiste nel credere che l’esser vero sia in se stesso omogeneo, ordinato e garantito sistematicamente, di modo che vi si possa riporre fiducia [Vertrauen], in modo irriflesso. Il problema qui sollevato trova il suo fondamento nel moralismo, a sua volta costruzione mendace: Prescindendo da una sanzione e garanzia religiosa dei nostri sensi e della nostra razionalità – donde potrebbe venirci un diritto alla fiducia [Vertrauen] verso l’esistenza? Che il pensiero sia poi misura del reale – che ciò che non si può pensare non sia – è un goffo non plus ultra di una credulità moralistica (nell’esistenza di un essenziale principio di verità nel fondo delle cose), è in sé una pazza affermazione contraddetta ogni momento dalla nostra esperienza. Noi addirittura non possiamo pensare niente, in quanto è… (NF 1885-86, 2[93])
Non esiste alcun Assoluto in cui il contraddittorio e l’assurdo che ci pervade e ci circonda possa venire eliminato, assorbito o inverato in un’inimmaginabile e ineffabile coordinazione, spie-
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gazione, logica. L’intera riflessione di Nietzsche ci mostra come sia stato proprio attraverso la stessa naturale disposizione a trovare delle ragioni, delle spiegazioni a cui credere, che l’uomo ha costruito gli edifici fittizi della conoscenza, della morale e della religione. Le “leggi del pensiero”, come quella di identità o di contraddizione, non hanno nulla di dimostrabile o di razionale, ma sono solo modi irriducibili di pensare attraverso cui abbiamo cercato di interpretare il mondo: è proprio quando non funzionano più che ci accorgiamo di tutta la loro provvisorietà e arbitrarietà. Il filosofo tedesco aspira ad un tentativo di pensare sulla morale senza cedere al suo incantesimo, con diffidenza [Mißtrauisch] per il raggiro dei suoi bei gesti e sguardi. (…) Il mio tentativo [è] di intendere i giudizi morali come sintomi e linguaggi di segni, in cui si rivelano i fatti del prosperare o del deperire fisiologico, come anche la coscienza delle condizioni di conservazione o di crescita. (…) La mia proposizione principale è questa: non ci sono fenomeni morali, ma c’è solo un’interpretazione morale di questi fenomeni. (NF 1885-86, 2[165])
Come indicato nella Gaia scienza, l’uomo necessita di una comprensibilità concettuale dell’esistenza, di una certa ristrettezza coerente, logica, che fughi ogni sua paura – infatti, «è la logica a riacquietare, a dar fiducia» (FW 370). Tuttavia, «dietro tutte le altre valutazioni si celano in modo determinante (…) valutazioni morali. Posto che esse cadano, con che cosa misureremo poi? e che valore avranno poi conoscenza, ecc. ecc.???» (NF 1885-86, 2[165]). Il problema posto qui da Nietzsche ha una portata enorme e, coerentemente al suo filosofare, non propone risposte definitive: è dunque comprensibile perché egli affermi che «i fenomeni morali mi hanno impegnato come enigmi» (NF 1886-87, 7[6]).
3. L’intimo e pericoloso rapporto di credenza e fiducia Proprio nel cuore del progetto di «trasvalutazione di tutti i valori», Nietzsche ci indica la necessità di negarsi di riposare in una «fiducia senza fine» [endlosen Vertrauen] (FW 285): la “verità”
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«non vale come supremo criterio di valore, ancor meno come potenza suprema» (NF 1888, 17[3]), è infatti «il più duro dei servizi» (AC 50), ogni sua briciola sarà conquistata faticosamente, a furia di lotta, sacrificando quasi tutto ciò cui di solito sono attaccati l’abitudine non meno che il cuore, il nostro amore, la nostra fiducia [Vertrauen] nella vita. Si dovrà anzitutto lottare contro l’«INERTIA», che è attiva nei seguenti ambiti: 1) nella fiducia [Vertrauen], perché la diffidenza [Mißtrauen] costa tensione, osservazione, riflessione; 2) nella venerazione, dove la distanza della potenza è grande e la sottomissione necessaria (…) 3) nel senso della verità. Che cos’è vero? Dove si dà una spiegazione che ci costa il minimo sforzo di pensiero. 4) Nella simpatia. Farsi uguali, cercare di sentire allo stesso modo, accettare un sentimento già esistente è un sollievo: è qualcosa di passivo rispetto a qualcosa di attivo (…) 5) Nell’imparzialità e freddezza del giudizio: si aborre dallo sforzo che costa l’affetto e si preferisce trarsi in disparte, assumere una posizione «obiettiva». 6) Nella probità: si preferisce obbedire a una legge che già esiste piuttosto che crearsi una legge, comandare a sé e agli altri. La paura del comandare. Meglio sottomettersi che reagire. 7) Nella tolleranza: la paura di esercitare il proprio diritto, di giudicare. (NF 1886-87, 7[6])
Della fiducia, primo tra i luoghi indicati sui quali vigilare rispetto a ogni nostra forma di inerzia, abitudine, passività10, è ora necessario specificare la valenza che il concetto viene ad assumere sotto il maglio del genealogista Nietzsche. La sfumatura di differenza di significato tra “fede/credenza” e “fiducia” è per noi sottile, quasi impercettibile, sembra persino non essere importante; nel nostro linguaggio corrente spesso utilizziamo i due termini come sinonimi. Come osserva Vittorio Pelligra (2007: 37), «che quello definitorio sia un problema cruciale è oramai ampiamente riconosciuto. 10 «Contro la debolezza prodotta dalla fiducia [Vertrauen]. Io insegno la profonda diffidenza [Mißtrauen]» (NF 1883, 17[52]); cfr. anche NF 1883, 20[9].
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La fiducia è sempre descritta come un “concetto elusivo” e un “fenomeno multidimensionale altamente complesso”; per questo essa ha dato origine a un “ambiguo pot-pourri di definizioni”, basato spesso su una “confusione concettuale”». In effetti, sebbene a ognuno di noi appaia evidente, se non addirittura scontato, come la fiducia sia una componente costitutiva della nostra esistenza, meno ovvio è condurre un’analisi su tale concetto, che ingloba molteplici significati e presuppone necessariamente un approccio interdisciplinare. Tale confusione sorge anzitutto perché utilizziamo il concetto “fiducia” credendo di sapere che cosa significhi: anche per questo termine valgono infatti le medesime considerazioni critiche che Nietzsche svolge nella Genealogia della morale per il concetto di “pena”. La stratificazione di significati e gli utilizzi più svariati della “fiducia” di fatto impedisce di coglierne l’essenza più propria, la consistenza specifica. Come la “pena”, anche la “fiducia” è un concetto «fluido» su cui si sono sedimentate le più diverse valenze; esso è proveniente da un altro tempo (è dotato quindi di una sua storia, tutta da decifrare), e pertanto è, agli occhi del genealogista, un sintomo da interpretare. Di più ancora, l’analisi del concetto di “pena” compiuto da Nietzsche evidenzia il darsi di un simulacro, di ogni simulacro, parvenza o fenomeno, come segno semanticamente vuoto; segno che non dice nulla, segno di cui la stratificazione progressiva di significati annienta ogni possibilità di determinazione di contenuto, rivoluzione per cui «tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale» (Baudrillard 1979: 18). Tuttavia, è proprio Nietzsche a metterci sulla buona strada per cercare di tracciare almeno i confini del concetto, ovvero egli ci rende in grado di misurarne la problematicità, servendosi di due modalità critiche: la prima, quella genealogica, da lui messa in opera a titolo esemplificativo in GM II 13 sul concetto di “pena”, di cui in precedenza abbiamo cercato di analizzare la valenza (lo si è detto, l’analisi che qui viene effettuata vale infatti per tutti i concetti che utilizziamo correntemente nel nostro linguaggio e pertanto essa ci fornisce un metodo preciso con cui abbordare anche il concetto di “fiducia”). La seconda riguarda la portata
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specifica che il termine fiducia [Vertrauen] viene ad assumere proprio in Nietzsche, essendo per noi interpreti del suo pensiero impossibile prescindere dalla solerte attenzione al linguaggio di cui egli dà sempre prova nella sua scrittura, quest’ultima da intendersi quale ricettacolo pratico della sua stessa filosofia. Va inoltre rilevato che, d’accordo con Nietzsche, anche Paul Valéry ha tentato la medesima operazione critica, che aspirava a «uscire dal linguaggio [sostituendo] all’espressione linguistica una sostanza pensabile» (Valéry 2002: 350), allo scopo di verificarne, mediante la transazione, la conversione reale. Faire sans croire: prima di credere ad un concetto è necessario «averne un’idea che sia separabile dai nomi e dalle proposizioni» (Valéry 2002: 362). Anzitutto va detto che, da un’analisi delle ricorrenze nietzscheane, Vertrauen s’incontra molto meno frequentemente di Glaube: sono ad esempio solo 10 i luoghi in cui troviamo il primo termine nella Genealogia della morale11. Sebbene spesso credenza e fiducia si sovrappongano nel significato (esiste, innegabilmente, un loro legame e ciò non fa altro che ampliarne la difficoltà di comprensione), vi è tuttavia una differenza marcata: la fiducia è quella funzione che produce credenza nel senso di credito. Nel passo della Genealogia della morale in questione, dove Nietzsche mette alla prova genealogica il concetto di “pena”, egli in realtà compie un passo decisivo anche nei confronti del concetto di “fiducia”: il filosofo tedesco infatti ci indica come, di fronte ad una riflessione sul significato di “pena”, vacilli la nostra credenza [Glaube] nel concetto stesso, scaturente dall’incertezza e dalla mancata unità di significato di questo termine ormai logoro, ma non la “fiducia” [Vertrauen] in esso – altrimenti già non lo useremmo più, non accordandovi alcun credito, dunque nessuna efficacia e operatività. «Il più grande sforzo» sarà allora quello di comprendere che «sono indicibilmen11 Un’imprecisione nella traduzione italiana crea confusione in proposito, per cui apparentemente il termine fiducia (Vertrauen) conterebbe 11 occorrenze. Tuttavia, in GM II 14, quando Nietzsche parla dell’odierno vacillare della nostra fiducia nella pena, in realtà il termine che egli usa è Glaube: a vacillare è la nostra credenza nel valore della pena, perché, come abbiamo visto, non sappiamo bene quale significato attribuirvi. Come si approfondirà, la fiducia nella pena rimane intatta.
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te più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono. (…) fin dal principio la parvenza ha finito quasi sempre per diventare la sostanza, e come sostanza agisce!» (FW 58). Detto altrimenti, «ciò che è più di tutto complicato contiene motivo di fiducia [Anlaß zum Vertrauen] più di ciò che è semplice» (NF 1884, 27[70]). Ne consegue che, al di fuori dal codice che li sacralizza, i nomi e i concetti non meritino più di essere «onorati» e nemmeno rispettati. L’unica possibile credenza orientante questo operare critico è quella per cui «i pesi di tutte le cose devono essere nuovamente determinati» (FW 269). È utile convocare nuovamente Paul Valéry per marcare più specificamente questo punto: Il ruolo del linguaggio è strano. Come quello della fiducia che permette di acquistare senza averne i mezzi o di vendere, il linguaggio permette delle combinazioni che possono fare a meno di valori autentici e non sono convertibili in essi. Molte parole sono insolvibili e coloro che le rifiutano vengono chiamati «scettici». E lo stesso vale per molte combinazioni di parole. Si sostituisce il poter vedere (o fare) col poter «esprimere», che esige soltanto condizioni che dipendono esclusivamente dal funzionamento dei segni – e non dalle cose significate. (Valéry 2000: 108)
Funzionale al ragionamento che stiamo cercando di presentare, è ricordare che il verbo tedesco trauen, “fidarsi”, “aver fiducia”, “azzardare” e il sostantivo Vertrauen, “fiducia”, derivano dal verbo tedesco trösten, “consolare”, “rassicurare”, “confortare”, “dare fiducia” (questi significati sono d’altronde molto vicini al confidare dell’italiano e al confier del francese, entrambi derivanti dal latino cumfidere). Duplice è la dimensione semantica coinvolta dalla fiducia: da un lato, il concetto significa allora “avere fede”, e cioè credere, pur senza poter contar su alcun sostegno certo e incontrovertibile per la propria credenza (ovvero è qui implicata una certa dose d’incertezza, che emerge con chiarezza anche dalla relazione credito-debito). Se mi adfido è proprio perché non so, cioè sono molto lontano da ogni conoscenza stabile e certa relativamente al futuro, e tuttavia avverto la necessità di rischiare: per farlo, dovrò “investire”, ossia
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dovrò mettere in campo una certa dose di fiducia. Dall’altro lato, la fiducia implica un “legame” fra colui che nutre un’aspettativa positiva e colui al quale essa è rivolta, un legame che ci si aspetta venga rispettato attraverso l’atto del solvere. In tali casi essa conduce i soggetti della relazione a “esporsi”, ossia ad assumersi dei rischi, e li vincola a un patto più o meno esplicito. Soprattutto, la fiducia dà origine ad atti che si trovano spesso nella posizione di produrre, di creare autonomamente: in effetti, non stupisce scoprire che il significato originario di “investire” sia quello di “coprire, adornare” (derivato del sostantivo femminile latino vestis, “vestito”, “abito”): detto altrimenti, l’azione dell’“investire in” o “su” qualcuno o qualcosa (corollario del credere), è basata specificamente sull’incertezza propria del futuro, e nel presente agisce “adornando”, “vestendo”, ossia coprendo e camuffando la realtà. Nietzsche ci permette di smascherare le narrazioni della fiducia raccolte in maniera acritica, proprio mostrando come, con circolarità autoalimentantesi, ogni narrazione, ossia ogni Glaube, si fonda proprio sulla fiducia [Vertrauen] che le viene accordata. Credere parrebbe allora configurarsi come la disposizione a conferire alle affermazioni che facciamo e che ci vengono proposte un surplus di significato e di importanza rispetto al loro significato originario, mediante una fiducia pacificamente loro accordata. Si crede quando si investe in qualcosa di indeterminato e confuso (in quanto non ne ho esperienza o conoscenza diretta) che passa per essere una conoscenza certa, non solo per un breve periodo, ma a volte per tutta la vita. Infatti la fiducia, presupponendo un investimento, è ben lungi dal ridursi semplicemente a una dimensione irenica di affidamento (simmetria), ma sempre presuppone anche il rischio e l’incertezza (asimmetria). Sia detto come inciso, è per questa ragione che, come felicemente ha individuato Herman Melville nel suo ultimo romanzo, The confidence man. His Masquerade (1857), uomo di fiducia e truffatore si rivelano essere figure assai prossime12. 12
Nella lingua inglese, il con-man è il truffatore (la truffa è anch’essa indicata dai
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4. Conoscenza = capovolgere ogni fiducia in dubbio È pertanto massimamente urgente, ci dice Nietzsche, isolare e criticare tutte quelle credenze, costruzioni o finzioni che rivelano del fiduciario. Mediante la critica genealogica, egli attua una scepsi o «trasvalutazione di tutti i valori» cercando di capovolgere ogni fiducia in dubbio (cfr. FW 343). Fede, fiducia e conoscenza s’intrecciano indissolubilmente: la «trasvalutazione di tutti i valori» permette infatti di riconoscere come finora, mediante un unico atto di fiducia, si sia indicato come vero ciò che invece è un’elaborazione della nostra mente atta a sopportare la durezza dell’esistenza, necessaria per conferire un “senso” e un “ordine” rassicurante alla vita e per sopportare un universo a-finalistico e a-razionale; è in questo senso che la menzogna si deve intendere come necessaria alla vita, che altrimenti sarebbe insopportabile per l’uomo. Ma, come indicato nel § 130 di Aurora, non esistono né volontà né fini, ce li siamo immaginati, li abbiamo creati e, soprattutto, vi abbiamo dato credito, li abbiamo sostenuti, ossia abbiamo con fiducia investito troppo su di essi, mascherando e camuffando la realtà13. Credere si confonde con il conoscere quando si smette di interrogarsi: La fiducia [Vertrauen] nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, cioè il giudizio di valore della logica, dimostrano solo la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro «verità». Che dev’esserci una quantità di fede [Glaube], che è permesso giudicare, che su tutti i valori essenziali manca il dubbio: è questo il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Cioè termini composti confidence-trick o confidence-game). Nel termine inglese va rilevata la presenza del problematico confidence, che certamente indica la fiducia (sebbene più comunemente tale significato sia veicolato dal termine trust), ma in particolare esso indica la confidenza come partecipazione ai segreti altrui o come sicurezza, fiducia in se stessi (selfconfidence) che può anche diventare spavalderia, sicumera eccessiva (over-confidence). Non è pertanto un caso che in italiano il con-man, il procacciatore di fiducia di Melville, sia esplicitamente diventato il “truffatore”, l’“impostore”: come es. di traduzione, cfr. Melville 1991 e Melville 1998 e, per un approfondimento, Scapolo 2013. 13 «La realtà del credito, di tutto il commercio mondiale, dei mezzi di comunicazione – si esprime in ciò in un’enorme, sommessa fiducia nell’uomo...» (NF 1888, 15[63]).
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che qualcosa sia ritenuto vero, è necessario; non che qualcosa sia vero. (NF 1887, 9[38]).
Credere è anzitutto un atto veicolato dal linguaggio. A Nietzsche fa eco Wittgenstein in Della certezza: la stessa possibilità di convincersi «fa parte del giuoco linguistico» (Wittgenstein 2000: 3). Per avere un credo abbiamo sempre bisogno di un altro a cui mostrare che crediamo, a cui parlare di ciò che crediamo: questo “altro” possono essere gli uomini o perfino Dio. Se la credenza è condivisa, essa acquisisce ancora maggiore potenza. Tuttavia, è sempre Wittgenstein a indicarci come «dal fatto che a me – o a tutti – sembri così, non segue che sia così» (Wittgenstein 2000: 2). «Anche quando la persona più degna di fiducia mi assicura di sapere che le cose stanno così e così, questo, da solo, non può convincermi che davvero lo sia. Mi può soltanto convincere che crede di saperlo» (Wittgenstein 2000: 137). La convinzione e la credenza si potenziano se condivise, ossia quando vengono alimentate dalla fiducia, dal credito accordato da molte persone. Come indicato nella Gaia scienza, «il pericolo più grande» s’incontra nell’«universalità e obbligatorietà universalmente imposta di una credenza, nella non arbitrarietà del giudicare. E il più grande lavoro degli uomini fino ad oggi fu quello di mettersi d’accordo gli uni con gli altri su moltissime cose e d’imporsi una legge di armonia, indifferenti al fatto che queste cose fossero vere o false» (FW 76). Possiamo divenire coscienti di questo fatto, ossia del frequente scambio tra conoscenza e credenza, solo quando prestiamo solerte attenzione al linguaggio, strumento principale di ogni metafisica, dove abbondano le isostenie14. 14 Ricorderemo che per gli scettici antichi l’isosthenia era l’ugual forza di tesi opposte su un medesimo tema o problema (da isos = uguale, e sthénos = forza); attraverso l’isostenia delle ragioni pro o contro una certa ipotesi, lo scettico non poteva che concludere per una sospensione generalizzata del proprio assenso e giudizio, detta epoché, e al contempo non poteva che astenersi dal coltivare ogni forma di opinione (dottrina dell'adoxìa), se non arrivando addirittura a rinunciare a parlare (dottrina dell'aphasìa). Di fronte alle isostenie teoriche lo scettico si asteneva, mentre nella vita pratica, avendo di mira, come gli stoici, l’imperturbabilità del proprio animo, egli si limitava ad adeguarsi ai costumi: ciò accadeva perché si può ragionevolmente persistere in un’astensione radicale del giudicare solo nel campo del sapere teorico, ma non nella pratica quotidiana, dove,
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Per Nietzsche la radice di queste imposture concordate e alimentate dalla fiducia15 è infatti da ricercarsi sempre nel linguaggio: la nostra lingua non è uno strumento neutro, essendo una forma di razionalità implicita che contribuisce a creare i fatti; il linguaggio ha una modalità valutativa non esplicita, una «metafisica segreta». Il filosofo tedesco ritorna frequentemente su questo punto: lo strumento principale di produzione della Glaube è proprio il linguaggio; come già Sesto Empirico, Nietzsche nega definitivamente la possibilità di spiegare, di dispiegare il reale linguisticamente, pur essendo il linguaggio l’unico strumento di cui disponiamo per interpretare e condividere con gli altri la nostra esperienza nel e del mondo. Per questa ragione egli ci dice che «i teorici della conoscenza (…) sono rimasti penzoloni nei lacci della grammatica (la metafisica popolare)» (FW 354).16 Come indicato nel in GM III 24, l’obiettivo dei veri uomini della conoscenza sarà quello di esercitarsi a diventare increduli [Ungläubigen], diffidenti [Mißtrauisch] verso ogni sorta di credenti [Gläubige]. Nietzsche ci dice che credere ancora nella verità, in qualsivoglia assoluto, è possibile solo perché non si osa vivere su delle ipotesi, in quanto è molto più facile vivere in un mondo dogmatico che in un sistema incompiuto, che tuttavia dispone di prospettive illimitate. Ogni assolutismo, ogni certezza, ogni dogma devono pertanto essere messi in questione. Lo si è ribadito più volte, il pregiudizio di base del filosofo, secondo lo scettico Nietzsche, consiste nel credere che l’esser vero sia in se stesso omogeneo, ordinato e garantito sistematicamente, di modo che vi si possa accordare fiducia in maniera senza certezza teorica, sempre si decide e si deve decidere. Per lo scettico, le decisioni della vita pratica derivano proprio dall’incertezza e, non avendo alcun fondamento nella conoscenza certa del vero e del giusto, ignorano del tutto la skepsi propria di ogni sapere. 15 In questa sede non è possibile approfondire adeguatamente le problematiche specificamente socio-politiche scaturenti da questa analisi, sebbene esse possano senza dubbio essere intraviste accostando tali considerazioni a quelle svolte in GM II, dove (lo si è analizzato in precedenza) Nietzsche tratta proprio degli strumenti messi in atto dalla società per allevare, disciplinare, rendere affidabili i suoi membri. Cfr. inoltre il contributo di J.-M. Rey in questo volume. 16 Tanto Valéry quanto Wittgenstein non sono lontani da questa prospettiva.
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irriflessa. L’intera opera di Nietzsche ci mostra come sia stato proprio attraverso la sua stessa naturale disposizione a trovare delle ragioni, delle spiegazioni a cui credere e conferire fiducia, che l’uomo ha costruito gli edifici fittizi della conoscenza, della morale e della religione. Che qualcosa sia creduto --(…) L’affermazione che la verità ci sia e che l’ignoranza e l’errore abbiano avuto fine, è uno dei più grandi sviamenti che si diano. Posto che essa venga creduta, la volontà di esame, di ricerca, di prudenza, di esperimento ne risulta paralizzata: può perfino apparire sacrilega, ossia come un dubitare della verità… La «verità» è quindi più funesta dell’errore e dell’ignoranza, in quanto imbriglia le forze con cui si lavora a illuminare e conoscere. (…) – è più comodo obbedire che esaminare… è più lusinghiero pensare «ho la verità» che vedere il buio dappertutto intorno a sé… – soprattutto: tranquillizza, dà fiducia, allevia la vita – «migliora» il carattere, in quanto riduce la sfiducia… (NF 1888, 15[46])
La vera scienza, la vera saggezza, la «gaia scienza» di Nietzsche produce invece nell’individuo «la grande salute», perché, come la natura, come l’universo, non è buona né cattiva; come mostrato dalla Genealogia della morale, queste categorie con cui interpretiamo noi stessi, gli altri e il mondo appartengono all’ambito della Glaube in quanto finzioni, convenzioni-convinzioni da noi stessi inventate. Pertanto, la gaia scienza non ha motivi né fondamenti per discriminare, ossia per optare in maniera assoluta per una credenza piuttosto che un’altra; essa può certamente “investire” e conferire serena fiducia a una Glaube, senza tuttavia dimenticarne lo statuto illusorio e la sua operatività funzionale creditizia necessaria al governo di un’esistenza caotica e irrazionale. Non si tratta infatti di pervenire alla sospensione di ogni giudizio causato dal relativismo delle verità, come accadeva per alcune scuole scettiche antiche. Nietzsche ricerca piuttosto una «raffinatezza della diffidenza» (JGB 260), egli si serve di una «scepsi sottilmente accorta» (AC 10). La scienza che si vuole «gaia», attraverso la scepsi, permette dunque di distinguere senza discriminare dogmaticamente e
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incontrovertibilmente, in maniera innocente e spontanea; permette di vivere non sopra o al di fuori del mondo, ma nel mondo stesso, indissolubilmente intrecciati ad esso; consente di non limitarsi a immiserirsi in una gestione interessata del mondo, volta più a produrre fiducia e credito (ovvero a far credere e a rendere massimamente operativi tutti i derivati connessi a questo processo), che a indagare le possibilità e le modalità entro le quali possa darsi un pensare critico-filosofico che, prima di ogni altro contenuto specifico, si proponga come una resistenza rispetto a ciò che al pensiero stesso viene imposto. La nuova fiducia animata da questo ethos dev’essere «una distinzione, un onore», ossia accordata non in maniera automatica, irriflessa, a causa dei giochi linguistici (cfr. NF 1888, 15[98]). Ogni surplus fiduciario verrà bilanciato dal suo opposto: «– Troppo disposto alla fiducia [Vertrauen]? Ma un solitario ha sempre ammucchiato una grande provvista di fiducia, allo stesso modo naturalmente che di sfiducia [Mißtrauen]» (NF 1885-86, 1[204]). La «grande salute» che sarà prodotta da questa nuova scienza coincide con «quell’eccesso che dà allo spirito libero la pericolosa prerogativa di poter vivere d’ora innanzi per esperimento e di potersi offrire all’avventura» (MA 4). Per questa ragione, nel § 477 di Aurora, Nietzsche si considera «redento dallo scetticismo» (M 477), e finalmente capace non solo di negare, non solo di dubitare, ma di dire sì alla vita e al mondo. L’«ultima scepsi» coincide con l’individuazione degli inconfutabili errori dell’uomo (cfr. FW 265); detto altrimenti, si tratta, in tutta spontaneità ed innocenza, di cercare di diventare ciò che si è, in tutta la propria contraddittorietà e incoerenza, al di là di ogni imperativo categorico, di ogni dover essere, di ogni credenza e convinzione assunta in maniera dogmatica e incontrovertibile.
Bibliografia Baudrillard, Jean: 1979. Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli.
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Canevari, Matteo: 2008. Leggere la Genealogia della morale di Nietzsche, Como-Pavia, Ibis. Girotto, Vittorio, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara: 2008. Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Torino, Codice edizioni. Hobbes, Thomas: 1651/201115. Leviatano, Roma-Bari, Laterza. Hume, David: 1741/2008. La superstizione e l’entusiasmo, in Sulla religione e sui miracoli. Sulla provvidenza e il male, Roma-Bari, Laterza, pp. 53-61. Melville, Herman: 1991. Il truffatore di fiducia, in: Tutte le opere narrative di H. Melville, vol. VI, a c. di R. Bianchi, Milano, Mursia. Melville, Herman: 1998. L’impostore, Milano, Frassinelli. Pelligra, Vittorio: 2007. I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, Bologna, Il Mulino. Rey, Jean-Michel: 1998. La part de l’autre, Paris, PUF. Rey, Jean-Michel: 2002. Le Temps du crédit, Paris, Desclée de Brouwer. Rey, Jean-Michel: 2003. Les promesses de l’Œuvre. Artaud, Nietzsche, Simone Weil, Paris, Desclée de Brouwer. Rey, Jean-Michel: 2010. L’età dei concetti, in: Per una concettualità del presente, a c. di B. Giacomini, «Paradosso», Padova, Il Poligrafo, pp. 39-53. Scapolo, Barbara: 2010. Nella direzione di ciò che si sottrae. “Fiducia” e “credito” come problema, in: Per una concettualità del presente, a c. di B. Giacomini, «Paradosso», Padova, Il Poligrafo, pp. 109-129. Scapolo, Barbara: 2011. Io credo, tu credi, noi crediamo, in: «QuiLibri» 8, pp. 22-24. Scapolo, Barbara: 2013. La dimensione fiduciaria nella relazione creditodebito. Di alcuni problemi suggeriti da Herman Melville, in: «Lessico di Etica Pubblica» IV/1, pp. 108-117. Scapolo, Barbara: 2014. Fiducia nella fiducia? Note a margine di alcuni esempi, in «QuiLibri» 25, pp. 39-42. Spinoza, Baruch: 1670/2010. Trattato Teologico-politico, in: Id., Tutte le opere, a c. di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano, pp. 628-1125. Valéry, Paul: 2000. Quaderni, vol. II, Milano, Adelphi. Valéry, Paul: 2002. Quaderni, vol. V, Milano, Adelphi. Wittgenstein, Ludwig: 2000. Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Torino, Einaudi.
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Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche: una lettura non-deflazionista João Constâncio 1. Lettura deflazionista e non-deflazionista Nietzsche formula un “ideale” di libertà? È possibile, in qualche modo, ascrivere questo autore alla tradizione kantiana che concepisce la libertà come autonomia? Possiamo almeno sostenere che egli faccia riferimento, se non a un ideale, almeno a un concetto chiaro e coerente di libertà? Queste sono alcune delle questioni di cui si occupa la più recente letteratura secondaria su Nietzsche. Brian Leiter (2011) ha sostenuto che, quando Nietzsche, nella sezione dedicata all’«individuo sovrano» in GM (II, 2) e nel paragrafo Il mio concetto di libertà contenuto in GD (Scorribande 38), elogia «libertà», «autonomia» e «responsabilità», egli non si stia riferendo a ciò che noi intendiamo con quei termini. Secondo Leiter, la “libertà” dell’individuo sovrano non sarebbe altro che una «sensazione di libertà», e quindi nulla più che un’«attitudine» o «predisposizione» (Leiter, 2011: 115). Un individuo di quel tipo potrebbe avere dei motivi per sentirsi libero, ma in realtà non lo sarebbe. Dal momento che molti passaggi delle opere di Nietzsche sono chiari sul fatto che egli non creda nell’esistenza di un «libero volere», nell’efficacia di deliberazione e scelta, e neppure in qualche tipo di orientamento consapevole delle proprie azioni, non è possibile che egli ammetta libertà, autonomia e responsabilità o, in altri termini, che faccia riferimento a una nozione di libertà intesa come autonomia di un agente che sia responsabile delle proprie azioni. Pertanto, secondo Leiter, in quei luoghi Nietzsche userebbe i termini «li-
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bertà», «autonomia» e «responsabilità» in senso «revisionista» e all’interno di una strategia «persuasiva» (ibidem: 102). Il suo scopo sarebbe infatti semplicemente quello di utilizzare una connotazione emozionale positiva di quelle parole per poterci convincere di qualcosa che però non rientra nel significato – presente o passato – di quei termini. L’uso «positivo» operato da Nietzsche è solo un modo per spingerci ad ammirare la (involontaria) «signoria sovra di sé» (GM II 2) di quelle persone il cui destino è, innanzitutto, di vivere vite meno incoerenti di quelle degli altri e, in secondo luogo, di amare il loro proprio destino. Per la precisione, Leiter ritiene che, oltre a questa interpretazione puramente retorica della sezione sull’individuo sovrano, si possa dare di essa un’altra «lettura deflazionista» (Leiter 2011: 103), la quale consisterebbe nel vedere la sezione come una descrizione ironica e caricaturale del borghese moderno, che ritiene di essere libero e autonomo (di essere, cioè, un autentico «individuo», in grado di creare i suoi propri valori e agire «coscienziosamente», un «signore» di se stesso e del proprio destino, a cui sia dovuto disprezzare gli immorali «mentitori» e tributare rispetto ai suoi «pari»), laddove invece il suo «privilegio» non consiste che nell’abilità da «piccolo commerciante» di «fare promesse e saldare i propri debiti» (ibidem). In ogni caso, sostiene Leiter, la sezione fa parte della critica che Nietzsche muove alla «speranza illuminista che gli uomini, grazie al libero volere e alle proprie capacità razionali, possano divenire uguali» (ibidem: 118)1. Entrambe queste letture deflazioniste offrono spunti interessanti di interpretazione del testo di Nietzsche, ma trascurano un fatto evidente: la descrizione dell’individuo sovrano è molto simile alla quella dell’aristocrazia che si trova in GM I (in parti1 Hatab (2008) offre un’interpretazione deflazionista dell’individuo sovrano molto simile a quella di Leiter, in quanto considera il primo «espressione dell’individuo libero e razionale tipico della moralità e della filosofia politica moderne»; l’individuo sovrano sarebbe quindi una manifestazione dell’ideale liberale e moderno che Nietzsche respinge. Per quanto io condivida l’idea che Nietzsche respinga questo ideale, cercherò di mostrare che il suo «individuo sovrano» non ne rappresenta un’incorporazione; al contrario, esso incorpora un ideale alternativo, puramente nietzscheano.
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colare § 10), e ancora di più alle frequenti descrizioni e apprezzamenti da parte di Nietzsche della natura «superiore» e del «tipo umano dotato del maggiore valore» che «ha già fatto più volte la sua comparsa» nel corso della storia umana (cfr. p. es. A 3-6). Ciononostante, le considerazioni di Leiter fanno emergere una questione rilevante. Posto che Nietzsche si contrapponga strenuamente all’ideale liberale e moderno di «libertà come autonomia», perché dovrebbe utilizzare in un senso positivo proprio quelle parole che normalmente critica in quanto espressione di un ideale pericoloso, nichilistico e decadente? Se Nietzsche si pone come obiettivo quello di definire un’alternativa all’ideale liberale e moderno di «libertà come autonomia», perché dovrebbe descrivere il suo nuovo ideale proprio come un ideale di «libertà come autonomia»? La mia proposta interpretativa consiste nel sostenere che quando, in GM II 2, Nietzsche sostiene di concepire l’individuo sovrano come «libero» e «autonomo», egli stia sì facendo riferimento alla connotazione emozionale positiva che i termini “libertà” e “autonomia” hanno in epoca moderna, ma stia anche sostenendo che è necessario ripensare il significato di questi termini, così come la stessa “sovranità” del tipo umano superiore. La sua strategia può quindi essere definita revisionista (come sostiene Leiter), se e solo se essa comporta un mutamento concettuale dei termini “libertà” e “autonomia” che investe solo incidentalmente il significato comune di queste parole; detto altrimenti, se e solo se questo mutamento non deriva da una critica dell’utilizzo e della storia di questi termini – quale può essere ad esempio una genealogia dei concetti di libertà e autonomia. In quanto segue cercherò di mostrare brevemente come questo tipo di critica genealogica comporti il mutamento concettuale di cui sopra. Mi concentrerò inizialmente su alcuni passaggi cruciali del paragrafo Il mio concetto di libertà (GD, Scorribande 38), per poi svolgere una rapida analisi del significato dei termini “libertà” e “autonomia” in GM II 2.
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2. Il mio concetto di libertà La struttura del paragrafo Il mio concetto di libertà consiste in una serie di contrapposizioni che servono a Nietzsche per distinguere la propria nozione di libertà da quella liberale. Ecco il testo integrale: Il mio concetto di libertà. – Il valore di una cosa non sta talvolta in ciò che si raggiunge per mezzo di essa, ma in ciò che si paga per essa, – in ciò che essa ci costa. Ne do un esempio. Le istituzioni liberali cessano immediatamente di essere liberali non appena le si ottiene: non c’è in seguito nessun peggiore e più radicale danneggiatore della libertà che le istituzioni liberali. Si sa bene che cosa esse mettono in atto: esse minano la volontà di potenza, sono il livellamento di monte e valle elevato a morale, rendono piccoli, codardi e voluttuosi, – con esse trionfa sempre l’animale gregario. Liberalismo: detto chiaramente trasformazione in animale gregario… Finché si combatte ancora per esse, queste istituzioni producono tutt’altri effetti; allora esse promuovono realmente la libertà in maniera potente. Se si osserva più precisamente, è la guerra che produce questi effetti, la guerra per le istituzioni liberali, che, in quanto guerra, fa persistere gli istinti illiberali. E la guerra educa alla libertà. E cos’è infatti la libertà! Avere la volontà della responsabilità per se stessi. Mantenere salda la distanza che ci separa. Diventare indifferenti agli affanni, alla durezza, alla privazione, perfino alla vita. Essere pronti a sacrificare esseri umani alla propria causa, senza escludere se stessi. Libertà significa che gli istinti virili, che gioiscono della guerra e della vittoria, dominano sugli altri istinti, per esempio su quello della “felicità”. L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta di benessere, che sognano bottegai, cristiani, mucche, femmine, Inglesi e altri democratici. L’uomo libero è guerriero. – Da che cosa si misura la libertà, negli individui come nei popoli? Dalla resistenza che deve essere superata, dalla fatica che costa rimanere in alto. Si dovrebbe cercare il tipo supremo di uomo libero là dove viene superata continuamente la resistenza suprema: a cinque passi dalla tirannia, vicinissimo alla soglia del pericolo della schiavitù. Questo è vero dal punto di vista psicologico, se si intendono qui per “tiranni” gli istinti spietati e terribili che richiedono il massimo di autorità e disciplina contro se stessi – il tipo più bello, Giulio Cesare –; questo è vero anche dal punto di vista politico, basta fare qualche passo
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attraverso la storia. I popoli che ebbero qualche valore, che acquisirono valore, non lo fecero mai sotto istituzioni liberali: fu il grande pericolo a far di loro qualcosa che merita profondo rispetto, il pericolo, che solo ci insegna a conoscere i nostri ausili, le nostre virtù, le nostre difese e le nostre armi, il nostro spirito, – che ci costringe a essere forti… Primo principio: si deve avere bisogno di diventare forti, altrimenti non lo si diventa mai. – Quelle grandi serre per una specie forte, per la più forte specie uomo che sia finora esistita, le comunità aristocratiche alla maniera di Roma e Venezia, intesero la libertà precisamente nel senso in cui io comprendo la parola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, che si conquista… (GD, Scorribande 38)
Le prime due contrapposizioni che vengono poste in questa sezione sono chiare. Prima di tutto, Nietzsche confronta «la guerra per le istituzioni liberali» con la fase finale di quel conflitto, l’istituzionalizzazione liberale della libertà. In secondo luogo, le vite di chi soccombe alla «trasformazione in animale gregario» – il processo di socializzazione inteso come una trasformazione dell’uomo in «funzione del gregge» (FW 116) – vengono confrontate con le vite di chi, in qualche modo, è in grado di mantenere «la distanza che ci separa». «L’uomo libero è guerriero», afferma Nietzsche, riferendosi a chiunque sia abbastanza forte da resistere all’istituzionalizzazione della libertà e alla trasformazione in animale gregario – chiunque, cioè, sia in grado di scontrarsi con questi processi (cosa che chiaramente è diversa dall’esservi soggiogato o dal vivere al di fuori di essi). A mio avviso, l’obiettivo di Nietzsche nel porre queste due contrapposizioni è di affermare che “libertà” dovrebbe significare “indipendenza” e “individualità”. Nella Gaia scienza, ad esempio, Nietzsche definisce la libertà come «indipendenza dell’anima» (FW 98) e affermazione del «singolo» (der Einzelne) «contro leggi e costumi e vicini» (FW 143), e quindi contro il «gregge» (FW 116 e 149). In Al di là del bene e del male, inoltre, egli afferma che «l’elevata, autonoma spiritualità, la volontà di far parte per se stessi, la grande ragione» vengono comunemente intesi come una minaccia per il gregge e per l’istinto gregario (JGB 201). Allo stesso modo, in un altro celebre paragrafo di
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GD, Nietzsche elogia la libertà di Goethe – o meglio la forza che ha permesso al suo spirito di «diventare libero» – in quanto potere da lui dimostrato di essere creatore di se stesso, di dire «sì a tutto quanto gli era affine» e di non conoscere «più nulla di proibito, se non la debolezza» (GD, Scorribande 49). Pertanto, vi è libertà laddove vi è uno spirito «guerriero» che faccia in modo che l’indipendenza e l’individualità di un soggetto non vengano, per così dire, assorbite dal gregge – da lui assimilate, dissolte in una «funzione del gregge» (FW 116). Si noti che il tipo di indipendenza e individualità che Nietzsche ha in mente qui è solo relativa. Ciò di cui egli parla è un grado elevato di indipendenza rispetto al gregge e di individualità rispetto all’«animale gregario». Nietzsche, quindi, non sta sostenendo un individualismo volto a esaltare un isolamento assoluto dal gregge, quanto piuttosto una guerra contro il gregge. Nel paragrafo su Goethe, Nietzsche scrive persino che l’elevato grado di individualità conseguito da Goethe era in sé «riprovevole» e che, come ogni altra cosa, esso poteva «redimersi e affermarsi nell’intero» (GD, Scorribande 49)2. La terza contrapposizione presente nel paragrafo Il mio concetto di libertà mette di fronte libertà e istinto «della “felicità”». Con essa, Nietzsche intende prima di tutto chiarire che, per evitare di essere risucchiati dal modo di pensare massificato e diventare così una «funzione del gregge», bisogna essere abbastanza forti da resistere alle comodità derivanti dall’appartenere al gregge – abbastanza forti da non dover mai lottare perché si desidera un incremento di quell’agio. Diventare liberi significa «diventare indifferenti agli affanni, alla durezza, alla privazione, perfino alla 2 In parole povere, Nietzsche non esalta l’individualità in sé e per sé, ma evidenzia come una tendenza individualistica possa dare risalto alla vita umana mediante la determinazione di una nuova «gerarchia» (Rangordnung) al suo interno. Cfr. p. es. NF 188687, 7[6]: «La mia filosofia è diretta a fondare una gerarchia [Rangordnung]: non una morale individualistica». In questa nota postuma Nietzsche riflette sul fatto che tanto una morale collettivistica quanto una individualistica siano egualitarie, e quindi prevengano entrambe il tipo di squilibrio delle forze (le Rangordnungen) che è proprio della vita in generale.
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vita. Essere pronti a sacrificare esseri umani alla propria causa, senza escludere se stessi», e quindi calpestare «la spregevole sorta di benessere, che sognano bottegai, cristiani, mucche, femmine, Inglesi e altri democratici» (GD, Scorribande 38). Ma in questa contrapposizione tra comodità e libertà c’è dell’altro. In questo contesto, infatti, Nietzsche definisce la libertà come l’«avere la volontà della responsabilità per se stessi». La libertà non comporta quindi solamente indipendenza e individualità, ma anche responsabilità. Si è liberi, infatti, solo quando si può dire di essere stati abbastanza forti da intraprendere un’azione senza scaricarne la responsabilità su una qualche norma imposta dalla morale del gregge, o comunque senza appoggiarsi a ciò che il gregge pretende che sia fatto. Se isolate dal loro contesto, queste considerazioni potrebbero suonare come una pura e semplice difesa della fiducia liberale in principi razionali di scelta e deliberazione. Naturalmente, le cose non stanno in questi termini. Definendo il contesto entro cui contrappone la propria nozione di libertà con il concetto liberale, Nietzsche manifesta chiaramente di non considerare né la libertà né la responsabilità in termini di principi razionali di scelta e deliberazione. La “volontà” di cui parla Nietzsche è una forza essenzialmente pre-conscia, pre-razionale, che appartiene all’ambito degli affetti e degli istinti – una forza di cui ogni azione deliberativa non è che uno «strumento», mentre le «intenzioni» e «volontà» coscienti ne sono meri «segni e sintomi» (cfr. p.es. JGB 32)3. Chiaramente, un grado elevato di libertà richiede una «grande ragione» (JGB 201), e quindi l’esperienza di questo alto 3 Sulla concezione nietzscheana del volere come forza non-cosciente (più propriamente, come pura e semplice attività organizzata in maniera spontanea di una molteplicità di «volontà inferiori») cfr. Constâncio 2011a e 2014. È molto probabile che la concezione che Nietzsche ha del volere (Wollen) e il suo rifiuto della nozione di “volontà” intesa come “entità” o una “facoltà” in qualche modo indipendente, debba molto al testo di Théodule Ribot, Les maladies de la volonté (1882). Come Ribot, Nietzsche ritiene che si possa parlare propriamente di “volontà” solo in riferimento a organismi viventi dotati di coscienza (cfr. FW 127), ma, d’altra parte, egli considera la volontà cosciente come la mera superficie di un’immensa e complessa «concatenazione gerarchica» di «volontà inferiori» (cfr. JGB 19).
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grado di libertà comporterà un qualche tipo di “deliberazione” o “scelta”, per quanto la libertà non si riduca a nessuna di esse. Questo discorso assume chiarezza al termine della sezione, quando Nietzsche introduce un’ultima contrapposizione tra il concetto di libertà delle moderne società liberali e quello proprio di «Roma e Venezia»: Quelle grandi serre per una specie forte, per la più forte specie uomo che sia finora esistita, le comunità aristocratiche alla maniera di Roma e Venezia, intesero la libertà precisamente nel senso in cui io comprendo la parola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, che si conquista… (GD, Scorribande 38)
Nel nominare queste due città, Nietzsche sembra riferirsi alla tradizione del repubblicanesimo classico, e in modo particolare al repubblicanesimo di Machiavelli – e questo è già di per sé un segnale del fatto che la nozione di libertà cui fa riferimento non è “revisionista” e neppure meramente retorica. Il repubblicanesimo di Machiavelli presenta varie differenze significative rispetto alla democrazia liberale. Tra le altre cose, esso prevede la separazione tra un’élite aristocratica e la plebe, e quindi considera che la libertà derivi non tanto dall’universalizzazione dell’uguaglianza, quanto dall’esistenza di ambiti di uguaglianza gerarchici e asimmetrici. Solo questo tipo di «gerarchia» (Rangordnung) assicura la stabilità dell’auto-governo e la sovranità di uno Stato (o Città-stato), ovvero la libertà tanto per lo Stato quanto per un numero esiguo di “grandi uomini” che si sono conquistati virtù e gloria al suo interno. Pertanto, quando Nietzsche sostiene di considerare la libertà come «qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, che si conquista…», egli pensa prima di tutto che la libertà sia un traguardo da conseguire. Gli uomini non sono nati liberi e la libertà non è una loro abilità “naturale”. Solo i pregiudizi metafisici della tradizione liberale ci portano a credere che la libertà sia l’abilità – innata nella natura umana – di prendere decisioni e fare scelte in maniera razionale. In realtà, la libertà è un traguardo talmente difficile e raro da conseguire, che dovremmo considerarlo una precondizione essenziale della grandezza uma-
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na – qualcosa di equivalente alla «gagliardia» (Tüchtigkeit), da Nietzsche definita come «virtù nello stile del Rinascimento, virtù libera dall’ipocrisia morale» (A 2)4. In ogni caso, sarebbe un errore imperdonabile pensare che Nietzsche possa essere etichettato come avvocato del repubblicanesimo classico. Come si legge in GD, Scorribande 43, egli è infatti chiaramente convinto che non sia possibile operare un qualsiasi tipo di regressione [Rückbildung], e ritiene quindi insensato ogni tentativo di ristabilire ideali pre-moderni: «Detto all’orecchio dei conservatori. – Quel che prima non si sapeva, e oggi si sa, si potrebbe sapere –, è che una regressione, un ritorno, in qualunque senso e grado, non è possibile»5. Se le cose stanno così, il riferimento di Nietzsche a «Roma e Venezia» non comporta la difesa di un ideale pre-moderno che vada ripristinato, ma impone di porre in questione l’ideale predominante della modernità invitando a guardarlo da una prospettiva pre-moderna, con occhi e affetti diversi – allo scopo di poter superare (non “riconciliare”, ma proprio oltrepassare) tanto quell’ideale predo4 Si noti che l’espressione «Roma e Venezia» è un riferimento non tanto al Rinascimento in generale, ma alla concezione di Machiavelli in particolare, anche perché che quest’ultimo riteneva che Venezia, diversamente da Firenze, fosse stata capace di preservare proprio i principi dell’organizzazione politica di Roma (cfr. ad esempio Machiavelli (1532/2002) Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, XLIX, LV). Tuttavia, non possiamo essere certi che Nietzsche avesse in mente questa contrapposizione tra Venezia e Firenze, ed è quindi possibile che egli intenda riferirsi semplicemente all’antica Roma e in generale al periodo rinascimentale. Jacob Burckhardt, del cui profondo influsso sulla concezione che Nietzsche ebbe del Rinascimento si è invece più sicuri, elogiò la «stabilità di Venezia», ma dimostrò un entusiasmo ancora maggiore per la meno stabile Firenze (Cfr. Burckhardt 1860/1952, pp. 58-82). Il suo entusiasmo era dovuto all’idea che, nel corso del Rinascimento, a Firenze più che negli altri stati «l’uomo si trasforma nell’individuo spirituale, e come tale si afferma» (ibid., p. 98). Secondo Burckhardt, il valore inestimabile del Rinascimento consisteva nel fatto che esso permise lo sviluppo – forse addirittura la nascita – dell’individualità (dell’«uomo singolare» o «uomo unico»), e questo fu dovuto fatto che in quel periodo si risvegliò una grande «libertà dello spirito» (ibid. p. 74 e 98 ss.). 5 Cfr. anche NF 1888, 15[97]: «Ciò che prima non si sapeva: una formazione regressiva non è possibile. Ma tutti i moralisti e i preti hanno cercato di riportare gli uomini a uno schema passato e di sviluppare in loro virtù che furono una volta virtù. Persino i politici non sono esenti da questo tentativo, specialmente i conservatori».
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minante, quanto quello che Nietzsche utilizza come strumento di critica. In parole povere, Nietzsche invita i propri lettori a sviluppare autonomamente una versione moderna di quella nozione di libertà come individualità, indipendenza, responsabilità e virtù che fu propria dell’epoca antica e rinascimentale. Ma come potrà mai essere una simile versione moderna? Uno degli aspetti maggiormente significativi del paragrafo Il mio concetto di libertà è che esso sembra non considerare i problemi metafisici od ontologici che comunemente sono connessi al problema della libertà in epoca moderna. Quasi sicuramente uno dei motivi per cui Nietzsche contrappone la concezione moderna di libertà a quella antica e rinascimentale è che quest’ultima è non-metafisica. Machiavelli, per esempio, considera la libertà sul piano meramente politico e non prende in considerazione la questione metafisica relativa alla libertà o meno del volere. Ma, ancora una volta, Nietzsche non può accontentarsi di un concetto ingenuo e pre-moderno, che semplicemente non tocchi le questioni che il pensiero filosofico ha sollevato nei secoli seguenti. Il paragrafo Il mio concetto di libertà definisce forse una nozione critica e genealogica di libertà? In qualche modo sì. Nietzsche scrive che, «negli individui come nei popoli», la libertà si misura «dalla resistenza che deve essere superata, dalla fatica che costa rimanere in alto. Si dovrebbe cercare il tipo supremo di uomo libero là dove viene superata continuamente la resistenza suprema» (GD, Scorribande 38). Nietzsche quindi concepisce la libertà come un superamento di resistenze, in modo particolare come il superamento di quella che rappresenta la «resistenza suprema» che impedisce di conseguire indipendenza, individualità, responsabilità e gagliardia (Tüchtigkeit) – in altre parole, quella che determina il «mutamento dell’uomo in animale da gregge». In altre parole, Nietzsche concepisce la libertà nei termini di «volontà di potenza». Quest’ultima si manifesta infatti laddove vi è un campo di relazioni tra molteplici «volontà di potenza», e questo campo non è altro che il luogo di scontro tra resistenze. Come si legge in un quaderno di Nietzsche, infatti, «la volontà di potenza può manifestarsi solo contro delle resistenze» (NF 1887,
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9[151]); questo significa che si dà volontà di potenza nel momento in cui vi è una molteplicità di «volontà» che oppongono reciprocamente resistenza, una «lotta» per il dominio che vive della tensione generata dalla resistenza di «volontà contro volontà» («Wille gegen Willen», NF 1886-87, 5[9])6. La volontà di potenza è l’«ipotesi» anti-metafisica e anti-ontologica per eccellenza – un’alternativa a qualsiasi concezione metafisica e ontologica della vita e della natura che rappresenta un caso unico nella storia del pensiero filosofico e scientifico7. In Al di là del bene e del male è proprio nel contesto di questa esposizione della volontà di potenza che Nietzsche respinge, sul piano genealogico, tanto la dottrina del «libero volere» quanto quella del «volere non libero». Entrambe sono da lui considerate come segni e sintomi di diverse pulsioni istintive sorte nel corso della storia umana. Secondo Nietzsche, molti di noi hanno creduto nella dottrina del «libero volere» perché avvertivano la necessità di credere nella «loro “responsabilità”, [nel]la fede in se stessi, [nel] loro personale diritto al proprio merito», mentre altri hanno creduto alla dottrina del «volere non libero» perché avevano bisogno di credere di non avere mai «alcuna responsabilità né colpa di nulla» e desideravano, «traendo questo loro atteggiamento da un intimo disprezzo per se stessi, di poter togliere di mezzo se stessi in una qualsiasi direzione» (JGB 21)8. Entrambe queste dottrine sono quindi sempre state una funzione di strategie di 6 Sulla natura relazionale della nozione nietzscheana di volontà di potenza e sul tema di «resistenza» e «lotta», cfr. Müller-Lauter 1999: 161-182; Müller-Lauter 1999b: 39-68 e 119-136; Ottmann 1999: 355-358. Cfr. anche Constâncio 2014. 7 Cfr. JGB 1-36. Sul valore critico (e quindi anti-metafisico e anti-ontologico) dell’«ipotesi» della volontà di potenza (JGB 36) si veda in particolare Stegmaier 1992: 307 ss.; Stegmaier 2013: 167-170; Stack 1983: 16, 23, 67-68, 105, 227, 239, 248 e 293. 8 Si noti che in JGB Nietzsche presenta il «libero volere» come una dottrina del «forte», e il «volere non libero» come una dottrina del «debole», mentre in FW 113 il «libero volere» viene descritto come creazione del «debole». Questa discrepanza può comunque essere giustificata sulla base dell’idea che Nietzsche consideri queste posizioni come segni e sintomi di tendenze che mutano nel corso della storia umana (per cui, in epoche differenti, il «debole» potrebbe essere portato a credere tanto nel «libero volere» quanto nel «volere non libero», e queste due posizioni acquisterebbero un significato diverso a seconda del caso).
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potenza istintive, sono state create e credute non perché fossero “vere”, ma perché, in particolari circostanze, stimolavano il sentimento di potenza di qualcuno. In questo contesto, dunque, la volontà di potenza di Nietzsche è un’ipotesi che sorge dalla sua critica genealogica di dottrine e interpretazioni passate. La sua ipotesi è la seguente: quando qualcuno parla della propria «libertà» o «non-libertà», in realtà si tratta solo del segnale e sintomo del fatto che le sue pulsioni sono «volontà di potenza»9. Quando Brian Leiter sostiene che per Nietzsche «libertà» sia solo una «sensazione di libertà» (o un «sentimento di potenza», come in GM II 2), e quindi che non si tratti propriamente di libertà, egli sembra però pensare che sia necessario concepire la libertà in senso assoluto, come il potere di prendere decisioni e fare scelte senza nessuna interferenza dall’«esterno» – un «libero volere» nel senso tradizionale del termine. Se la libertà deve avere questa natura metafisica, allora la critica di Nietzsche ai concetti di causa sui e causa prima gli sarebbe stata sufficiente per criticare anche l’idea di libertà (e non la sola concezione metafisica di «libero volere»). Eppure, Nietzsche non abbandona in toto questa idea. Quello che fa è semplicemente un tentativo di concettualizzare la libertà in maniera genealogica e non-metafisica, ripensandola nei termini di potenza e relazioni di potenza. Cosa può dirci questa concettualizzazione? Prima di tutto, che occorre intendere il concetto di “libertà” in termini di gradazioni. Ciò è d’altra parte inevitabile, una volta che l’azione umana viene intesa nei termini di «volontà di potenza», e quindi di rapporti di potere. Superare una resistenza non significa eliminarla, ma piuttosto incorporarla, assimilarla, renderla utile per un qualche scopo (o «sfruttarla» per la «crescita», come a volte sostiene Nietzsche). Una forza può danneggiare o meno ciò che viene superato in potenza (esistono infatti processi di «crescita» mutua o reciproca), ma in nessun caso si tratta di una forza e di 9 All’obiezione per cui anche la sua ipotesi non sarebbe che un ulteriore segno e sintomo di altre strategie di potere e di bisogni istintivi – che sia cioè «solo un’interpretazione» – Nietzsche, come è ben noto, risponde: «Ebbene, tanto meglio» (JGB 22).
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una potenza assolute. La potenza è relazionale: vi sono solamente gradi di potere, e questi sono sempre relativi al grado di resistenza che resta attivo10. Questa concettualizzazione ci fa capire che con “libertà” si intende “libertà di potere”, ma non una mera “sensazione di potere”. Per quanto – cosa di cui Nietzsche è ben consapevole – questa sensazione possa essere ingannevole, sembra comunque che egli creda anche che essa sia un segnale del fatto che, per quanto in misura minima, un certo grado di indipendenza, individualità, responsabilità e gagliardia sia stato conseguito e che di questo si sia consapevoli. Solitamente, quando si fa questa esperienza – quando si fa esperienza di un incremento nella sensazione di potenza e ci si sente indipendenti, autonomi, responsabili di se stessi e particolarmente dotati nel conseguimento di determinati compiti (p.es. artistici) – la tendenza è quella di interpretare la nostra esperienza come manifestazione di un «libero volere». Ma questa è una cattiva interpretazione, se ciò significa che la nostra libertà consiste in una scelta tra opzioni alternative mediante una deliberazione consapevole. Lo è, inoltre, se significa che essa consiste in un grado di indipendenza, individualità, responsabilità e gagliardia di cui la sensazione di potenza non è che segno, sintomo, superficie ed espressione. Per dare senso alla posizione di Nietzsche occorre quindi provare a navigare tra Scilla e Cariddi. Da un lato, bisogna evitare di attribuirgli una concezione metafisica od ontologica della libertà. Quando Nietzsche scrive che libertà significa «avere la volontà della responsabilità per se stessi», o che essa si misuri «dalla resistenza che deve essere superata», non sta dicendo che sia possibile individuare un “in sé” o anche solo un “fenomeno” a cui dare il nome “libertà”. Piuttosto, Nietzsche cerca di attribuire al termine e alla nozione di libertà un nuovo significato. D’altro canto, però, è anche necessario respingere la posizione di Leiter secondo cui la nozione nietzscheana di libertà sarebbe 10 Cfr. Ottmann 1999: 355-358. Cfr. Anche NF 1885, 40[55] e 1884, 26[276]: “Dominare è: sopportare il contrappeso della forza minore – dunque una specie di prosecuzione della lotta. Anche obbedire è una lotta: la forza che, appunto, resta per resistere”.
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puramente retorica. Quel “concetto” è infatti creato dalle «forze attive e interpretative» di Nietzsche, e quindi è «solo un’interpretazione» di un termine, ma non un’interpretazione arbitraria. Essa infatti deriva da una critica genealogica degli usi che di quel termine sono stati fatti nel corso della storia, e quindi è (o per lo meno pretende di essere) un «concetto più completo» – e per questo più «oggettivo» (GM III 12) – di altri concetti di libertà. Tutto questo mostra che la concezione nietzscheana tocca le principali questioni filosofiche che in epoca moderna sono state poste relativamente alla questione della libertà, e non è quindi ingenua o pre-moderna. La domanda a questo punto è: perché i contenuti del nuovo concetto di libertà che Nietzsche elabora dovrebbero coinvolgere le aspirazioni dell’uomo moderno? Per una risposta a questo interrogativo occorre passare alla sezione di GM dedicata all’«individuo sovrano».
3. Libertà e autonomia dell’individuo sovrano Il paragrafo dedicato all’individuo sovrano – da leggere assieme al paragrafo precedente (GM III 1) – è parte di un resoconto in chiave evolutiva di come il processo di socializzazione abbia «plasmato» una «memoria della volontà» e così «un animale, cui sia consentito far delle promesse» (GM II 1). La mia personale opinione è che Nietzsche pensi che un processo di questo tipo abbia reso molti uomini «non-liberi», ma che sia anche convinto che vi siano alcune eccezioni a questa non-libertà, uomini «liberi» quali sono ad esempio gli «individui sovrani». Gli uomini non-liberi manifestano una «cattiva coscienza» che li fa obbedire alla società e conseguire gli obiettivi che essa prefigge. In altre parole, gli uomini non-liberi possono solo fare e mantenere le promesse che la società impone loro; essi promettono e si sentono responsabili solamente di ciò che viene comandato loro da altri (altri individui o un “altro” impersonale quale può essere la società). Gli individui sovrani, invece, gli uomini liberi, possono fare e mantenere promesse in completa autonomia – sono in gra-
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do di seguire la loro coscienza, di crearsi i propri obiettivi e ridefinire autonomamente gli obiettivi della società. Come i filosofi descritti in Al di là del bene e del male, gli individui sovrani sono «coloro che comandano e legiferano: essi affermano “così deve essere!”, essi determinano in primo luogo il “dove” e l’“a che scopo” degli uomini» (JGB 211). Da qui la loro indipendenza, individualità, responsabilità e gagliardia; da qui il loro «senso di potenza», la loro «libertà». C’è forse una qualche intenzione ironica e caricaturale in tutto questo? Se sì, essa consiste solamente nell’indicazione che nelle società moderne troppe persone si considerino troppo alla leggera «individui sovrani», e ciascuno sia erroneamente spinto a considerarsi «libero» e persino dotato di un «libero volere». Ma c’è una qualche ragione per dubitare che quanto Nietzsche scrive in questo paragrafo (come in molti altri luoghi dei suoi scritti) esprima un’evidente contrapposizione tra l’uomo comune e l’individuo sovrano? Nietzsche descrive quest’ultimo come «il frutto più maturo» del processo di socializzazione (GM II 2 e 3). Egli, inoltre, lo presenta esplicitamente come il tipo umano da ammirare e che è stato forgiato dalla «durezza, tirannide, ottusità e idiotismo» propria di quel processo (GM II 2). Per questo motivo, Nietzsche scrive che un individuo di questo tipo è dotato di una «volontà» che è «sua propria»; essa non è infatti solamente «durevole», ma anche «indipendente», e questo è ciò che lo rende «sovrano» e non semplicemente (in un senso non tradizionale) un «signore del libero volere» (GM II 2). A lui solo è «consentito fare promesse». L’uomo comune è il frutto del «compito più immediato di rendere» quest’ultimo «sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile» (ibid.). Anche lui fa e mantiene promesse, ma, dal momento che la sua volontà non è indipendente dalla quella «sociale», essa non è completamente autonoma; all’uomo comune, quindi, non è propriamente «consentito far delle promesse» (o lo è solo in misura minima). Poco oltre, Nietzsche spiega il proprio punto di vista descrivendo l’individuo sovrano come «l’individuo eguale soltanto a
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se stesso, nuovamente riscattato dalla eticità dei costumi» (GM II 2). Il fatto che egli sia «eguale solamente a se stesso» significa che è eccezionalmente individuale, e l’idea che egli diventi tale liberandosi dall’eticità dei costumi implica che, come deve essere, il processo di socializzazione cancella la dimensione individuale dell’uomo imponendo costumi che «coltivano e allevano» un tipo umano obbediente11. La posizione che Nietzsche sostiene qui è la stessa del paragrafo Il mio concetto di libertà del Crepuscolo degli idoli – l’idea, cioè, che esistano due alternative: essere risucchiati dalla «tendenza all’animalizzazione gregaria dell’uomo» o essere abbastanza forti da resisterle in qualche modo. Ogni forma di libertà umana consiste in un certo grado di potenza in relazione al processo di socializzazione. Questo processo è quindi il campo di resistenza in contrapposizione al quale emerge la libertà umana – o, in altre parole, la libertà consiste nel superamento, in misura sufficiente, della resistenza opposta all’individualità da quel processo che, se da un lato minaccia questa individualità, dall’altro la rende anche possibile. Nel momento in cui afferma che un individuo sovrano è in qualche misura libero «dalla eticità dei costumi», Nietzsche sostiene anche che costui possieda «la sua misura di valore» (GM II 2). Letteralmente, “auto-nomia” significa in effetti “darsi la 11 È opportuno osservare che per Nietzsche non si può parlare di etica se essa non è incarnata in istituzioni giuridiche e norme di condotta (cfr. A 57 e NF 1885, 34[176]). Anche le etiche moderne, filosofiche, rientrano comunque nella «eticità dei costumi», come si legge in Aurora: «Eticità non è nient’altro (dunque in particolar modo niente più) che obbedienza ai costumi» (M 9). Sulla considerazione che ogni etica sia connessa al processo di allevamento di un certo «tipo» o «forma di vita» o «specie», si veda NF 1885, 35[20]. L’etica è più precisamente una forma si «addomesticamento» (Zähmung) sociale dell’organismo umano (cfr. GM I 11, II 22, III 13 e 21; GD, I “Miglioratori” dell’umanità 2 e 5; A 22; NF 1884, 25[236], 27[56] e 27[59]). Si noti inoltre che coscienza e linguaggio sono strumenti essenziali del processo di socializzazione. Essi rendono infatti possibile una visione complessiva: coi loro segni e concetti semplificati permettono la comunicazione all’interno della società e determinano quell’ambiente mediocre, generalizzato, in cui le differenze vengono meno; un ambiente all’interno del quale noi stessi viviamo la maggior parte della nostra vita. Per il fatto di trovarci all’interno di questo ambiente tendiamo a vivere conformemente alla «logica» e «volontà» impersonale della società, finendo per vederci privati della nostra individualità (cfr. JGB 268, FW 354, GM I 11 e II 16).
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propria legge”, e quindi i propri valori o la propria «misura di valore». Nella Gaia scienza Nietzsche afferma esplicitamente che coloro i quali «si creano da sé» e sono in grado di «diventare ciò che sono» possono far questo perché sono «legislatori di se stessi» (FW 335; cfr. anche FW 290). Essi sanno in particolare creare «nuove tavole di valori» che appartengano solo a loro, e quindi sono in grado di porre in completa indipendenza un nuovo «ideale» per loro stessi (FW 335 e 382). Per questo motivo, Nietzsche li chiama «i nuovi, gli irripetibili, gli inconfutabili» (FW 335). Nell’Anticristo, inoltre, afferma che «ognuno deve inventare le proprie virtù, i propri imperativi categorici» (A 11), ovvero le proprie «leggi». Queste osservazioni segnalano già una differenza fondamentale tra il concetto di autonomia di Nietzsche e quello di Kant. Per Nietzsche non vi sono “leggi” nel senso kantiano – leggi che ci siano date quali componenti intrinseci della natura immutabile e universale della nostra ragione (cfr. A 11). Un individuo sovrano si dà le sue proprie leggi, e questo “darsi” è sostanzialmente un’attività creatrice. Inoltre, va detto che la creazione di una legge (o di «nuovi valori») nel senso in cui la pensa Nietzsche non è un processo controllato dalla nostra coscienza, o comunque un processo che si verifichi sostanzialmente ed essenzialmente a livello autocosciente – come se la coscienza potesse essere isolata dal continuum di processi pre-consci, pulsioni e affetti che si svolgono in maniera istintiva e che costituiscono una persona. La coscienza non gioca alcun ruolo nell’«creazione di sé» fino al livello che Nietzsche chiama finale e «superficiale» di quei processi. Inoltre, perché una legge di cui siamo coscienti possa effettivamente governare l’organismo, essa dev’essere «incorporata» nella gerarchia (Rangordnung) delle pulsioni e dei valori di una certa persona. Essa deve quindi operare e possedere una forza motivazionale che intervenga al livello delle pulsioni e degli istinti12. Essere «autonomi» esclude quindi l’essere «morali», mentre ri12 Per una disamina più approfondita della questione di coscienza e autocoscienza si veda anche Constancio 2011a, 2012a e 2012b.
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chiede di essere «sovra-morali», dal momento che si è autonomi se e solo se si è creatori di una legge che nessun altro può avere creato, una legge che, essendo incorporata nelle nostre più intime valutazioni, fa sì che ciascuno di noi sia un individuo unico nel proprio genere. Questo, però, non significa che una legge autonoma non possa avere una dimensione “universale”. Dal momento che l’autonomia è una questione di grado (o di indipendenza relativa), essa si fonda sempre su di una dimensione sociale e va considerata come emergente non solo dai rapporti di potenza tra le pulsioni di una persona, ma anche da quelli tra le pulsioni di quest’ultima e quelle di un’altra persona – in altre parole, il genere di rapporti di potere che dà vita alla società e alla storia dell’uomo. Gli effetti dell’autonomia di una certa persona sono quindi tanto sociali che individuali. Per questo motivo, l’individuo sovrano può fungere da esempio per gli altri e la sua creazione di sé può modificare i valori dominanti e i costumi che regolano le relazioni sociali (si ricordi, ad esempio, come la creazione di sé attribuita a Goethe possa «redimersi e affermarsi nell’intero»). In un certo senso, le leggi della società scaturiscono dall’attività di individui autonomi e sovrani, ma questo comporta che la loro “universalità” non sia mai il prodotto di una ragione pratica a-storica. Per quanto tutto questo sembri contrapporsi radicalmente alla concezione kantiana – e per quanto Nietzsche ritenga di contrapporsi a Kant quando afferma che «“autonomo” e “etico” si escludono» –, la posizione di Kant è in realtà meno univoca di quanto pensi Nietzsche. La vacuità formale dell’imperativo categorico kantiano implica che esso non specifichi mai quali doveri un soggetto dovrebbe soddisfare in una determinata situazione – «e questo comporta che il peso della determinazione del contenuto del dovere gravi completamente sul soggetto» (Žižek 2008: 53)13. Guardando le cose in questi termini, la con13 Werner Stegmaier (1994: 137) fa la medesima osservazione, e sostiene che Nietzsche e Kant siano fondamentalmente in accordo: «Anche secondo Kant ciascuno deve sottoporre la proprie massime e i principi pratici delle proprie valutazioni all’imperativo categorico. La valutazione può legittimare sempre e solo l’azione di un singolo in una particolare situazione». Cfr. anche Simon 1992. La tesi secondo cui Kant e Nietzsche
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sapevolezza dell’imperativo categorico isola il soggetto da quello che Nietzsche chiama il gregge, e lo rende quindi sovramorale in senso nietzscheano. Il soggetto non può più contare sull’«eticità dei costumi», ed è quindi portato a sentirsi responsabile delle proprie azioni. Questo sentimento di responsabilità è ciò che Nietzsche chiama coscienza (Gewissen) e, a conti fatti, egli pensa che essere legislatori di se stessi e divenire autonomi sia lo stesso che seguire la propria coscienza. Ma questa concezione non è troppo kantiana per essere attribuita a Nietzsche? In effetti ci sono luoghi in cui Nietzsche diverge radicalmente da Kant (o per lo meno crede di farlo), sulla base di due motivi fondamentali. Prima di tutto, la «coscienza» di Nietzsche (o «la migliore coscienza», GM II 11) è propriamente «a-morale», e Nietzsche ritiene che solo la cattiva coscienza sia segnata dalla morale. Questo è evidente, per esempio, da quanto si legge al termine del terzo libro della Gaia scienza: «Che cosa dice la tua coscienza? Devi diventare quello che sei» (FW 270). In questo senso, la coscienza è un istinto che ci prescrive di “diventare ciò che siamo”, di giudicare in maniera indipendente e di assumerci la responsabilità dalle nostre azioni (cfr. FW 2, 117 e 335). La coscienza è «cattiva coscienza» solo quando ci spinge a diventare ciò che non siamo, ma al contrario ciò che l’eticità ci richiede di essere. È questa una coscienza «malata» che ci fa vivere negativamente la nostra individualità e, come un giudice morale che vive dentro di noi, ci impone di rinunciare al nostro giudizio personale e di agire conformemente a una presunta «legge universale». Questa è vera “schiavitù” o “non-libertà”, mentre seguire la nostra coscienza significa divenire liberi, perché vuol dire agire potendo «dire sì anche a se stessi» (GM II 3) e non provare vergogna nel divenire ciò che si è: Che cos’è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi. (FW 375)
condividono posizioni affini sul tema della responsabilità individuale è stata fortemente sostenuta anche da Volker Gerhardt (1992).
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Non avere più vergogna davanti a se stessi e agire affermando la propria più intima essenza è propriamente “libertà”, perché tutto questo crea indipendenza, individualità, responsabilità, gagliardia e, soprattutto, genera un sentimento di potenza che rende possibile l’attribuirsi un valore che derivi solo da noi stessi, e non da opinioni e prescrizioni di altri soggetti (JGB 261). Il sentimento della «sovranità personale» (Personal-Souveränität) ha una lunga storia alle sue spalle (cfr. NF 1887-1888, 11[286]), e proviene dallo sviluppo della coscienza in quanto istinto che ci spinge a diventare ciò che siamo, a diventare individui14. Pertanto, diversamente da Kant, la coscienza di Nietzsche non ha nulla a che vedere con il «libero volere». Quest’ultimo è un prodotto del processo di socializzazione e di «allevamento» dell’uomo – non a caso, come Nietzsche osserva esplicitamente, ne è «un frutto maturo, ma anche un frutto tardivo» (GM II 3), che fa la propria comparsa nella storia umana solamente dopo la cattiva coscienza, dopo il «lavoro preistorico» che ha reso l’uomo «necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile» (GM II 2). In altre parole, la «migliore coscienza» è un privilegio molto raro, il privilegio degli individui sovrani. La riflessione di Nietzsche sull’individuo sovrano si chiude con queste considerazioni: La superba cognizione dello straordinario privilegio della responsabilità, la consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sovra se stesso e sul destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo ed è divenuta istinto, istinto dominante – quale nome darà a questo istinto dominante, ammesso che senta in sé il bisogno di una parola per esso? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza… (GM II 2).
14 In FW 335, in particolare, Nietzsche distingue la coscienza morale dalla «coscienza intellettuale», e spiega che quest’ultima, in quanto «coscienza dietro la tua “coscienza”», è il modo più onesto di giudicare che rivela il modo di pensare propriamente morale e ci permette di creare un nostro proprio ideale, divenire ciò che siamo, e quindi renderci nuovi, unici e ineguagliabili.
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Esse sollevano almeno tre questioni fondamentali in riferimento all’individuo sovrano: (a) qual è il valore euristico di questa figura, o, detto altrimenti, in che modo essa contribuisce allo scopo di creare un’alternativa all’ideale ascetico? (b) Qual è la relazione tra l’individuo sovrano e l’idea che Nietzsche ha del filosofo in quanto animato dalla «passione per la conoscenza»? Infine, (c) questa figura possiede un valore particolare per i moderni lettori di Nietzsche e magari, più in generale, per la civiltà moderna? (a) Per rispondere al primo interrogativo bisogna considerare innanzitutto che l’individuo sovrano, in quanto «frutto più maturo» del processo di socializzazione, è un individuo spirituale, e quindi uno «spirito libero», non importa se di grado basso o elevato. Ciò deriva dal fatto che è il processo di socializzazione a creare l’“anima” o “spirito” umani, attraverso l’interiorizzazione degli istinti della nostra specie – questo processo dona «profondità, latitudine, altezza e misura» allo spirito umano, inibendo o comunque ostruendo lo «sfogo all’esterno» dei nostri istinti (GM II 16). Con questo impedimento degli «istinti della libertà» (ibid.) sembra che «un enorme quantum di libertà» sia stato «eliminato dal mondo», mentre in realtà esso è stato solo «reso latente» in una diversa forma (GM II 17). In questo modo si rende possibile il conseguimento di un nuovo tipo di libertà – una libertà spirituale o «libertà dello spirito». L’individuo sovrano è un «maestro del libero volere» proprio nella misura in cui è capace di sfruttare questo nuovo tipo di libertà, attualizzando ciò che è latente15. L’individuo sovrano è l’uomo libero dall’eticità 15 Cfr. gli usi che Nietzsche fa dell’espressione «libertà dello spirito» (Freiheit des Geistes) in MA I, Prefazione 4; MA II 26, 221 e 286; VM 211; WS 72, 318 e 350; M 56 e 358; GM III 24; A 47. Si veda anche FW 143, in cui Nietzsche identifica la libertà con «l’egoismo e la sovranità [Selbstherrlichkeit] del singolo» e parla di una «libertà di spirito e multiforme spiritualità dell’uomo». Il libro sul Rinascimento di Burckhardt potrebbe aver influito sulla genesi della nozione nietzscheana di individuo sovrano. Come si è detto sopra, Burckhardt elogia il rinascimento per aver prodotto un simile tipo umano, di cui l’autore designa esplicitamente il carattere col termine «sovranità» (Souveränität), la quale altro non è che l’abilità di perseguire un’azione indipendente (o autonoma). Burckhardt (1860/1952: 418): «Di fronte ad ogni obiettività, e ad ostacoli e leggi d’ogni maniera,
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dei costumi che può comparire solo in un periodo tardo della storia dell’umanità, quando il processo di socializzazione ha reso possibile per un numero esiguo di individui eccezionali di sentirsi “liberi”. In questa nuova forma (la forma della “seconda innocenza”), la libertà è un’esperienza di indipendenza, individualità, responsabilità, gagliardia, coscienza e autonomia – un’esperienza spirituale completamente diversa da qualsiasi esperienza propria dell’uomo pre-sociale. Il valore euristico della figura dell’individuo sovrano diviene quindi chiaro. Il (presunto) fatto che nel passato sia esistito un esiguo numero di individui sovrani dimostra che il processo di socializzazione non preclude il tipo di affermazione dell’esistenza che scaturisce da bisogni, pulsioni, istinti, e affetti non ascetici e non nichilisti. Gli uomini non sono irrevocabilmente destinati a vivere la loro vita come nel buio di una caverna o in una “valle di lacrime”. Anche all’interno della società, l’uomo non deve vivere la propria esistenza come un “nulla” (nihil) che può acquisire valore solamente se interpretato come mezzo per fini o scopi trascendenti. Quello che Schopenhauer ha definito il «bisogno metafisico dell’uomo» (WWV II, 17) non è una sua disposizione naturale e ineluttabile. Un’esistenza scevra dalla metafisica e dall’ideale ascetico è invece possibile – perché lo è una libertà intesa come «sentimento di potenza» puramente immanente. (b) Diversamente dalla “prima innocenza” dell’animale uomo, l’esperienza spirituale della libertà vissuta dall’individuo sovrano presuppone un processo di liberazione dall’eticità dei costumi. A questo partecipa una «memoria della volontà» (GM II 1), che è comunque una sorta di «volontà» attiva (per quanto si svolga principalmente a livello inconscio). Non per nulla, la «vera dottrina della volontà e della libertà» di Zarathustra dice, molto semplicemente, che «volere libera» (Z II, Sulle isole beate). Ma l’elemento cruciale è che la liberazione dall’eticità dei costumi è una questione di grado, e il massimo grado di liberazione – il [il carattere degli italiani del Rinascimento] ha il sentimento della propria sovranità e si decide con autonomia in ogni singolo caso».
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massimo grado di spiritualità per uno «spirito libero» – dovrebbe essere visto come la “grande liberazione” dalle “menzogne” più radicate e dannose della tradizione come i concetti di Dio, anima, soggetto, causa, colpa, peccato, responsabilità morale o scelta – in breve, dall’ideale ascetico16. Pertanto, nelle società moderne dominate dall’ideale ascetico i gradi più elevati di sovranità e spiritualità – la forma ideale di «libertà dello spirito» – sono privilegio dei filosofi in grado di operare una trasvalutazione genealogica dei valori17. Per usare il linguaggio del quinto libro della Gaia scienza possiamo dire che, se una persona si libera dal «bisogno di fede» (FW 347, cfr. A 54), e in particolare del bisogno di una «fede metafisica» (FW 344), diventa capace di creare un nuovo tipo di salute umana, una salute post-ascetica, «la grande salute» (FW 382). In FW 347 Nietzsche scrive che si potrebbe pensare un piacere e un’energia dell’autodeterminazione, una libertà del volere, in cui uno spirito prende congedo da ogni fede, da ogni desiderio di certezza, adusato come è a sapersi tenere su corde leggere e su leggere possibilità, a danzare perfino sugli abissi. Un tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence.
Non vi è dubbio che queste osservazioni esprimano l’idea che Nietzsche ha del concetto di libertà, la sua idea personale di un’esistenza filosofica che afferma se stessa e sperimenta una 16 Cfr. MA I, Prefazione; GD, I quattro grandi errori 8; A 15; EH, Perché io sono un destino 1. 17 Sul concetto nietzscheano di «elevate spiritualità» (hohe Geistigkeit), cfr. JGB 40, 44, 61, 201, 213, 252, 257 e 219. Cfr. anche Constâncio 2011b: 106, 109, 114, e Richardson 2009. Richardson sostiene in particolare che, secondo Nietzsche, la libertà è un fenomeno storico o evolutivo che può manifestarsi in diversi gradi di sviluppo, e la cui forma suprema dipende da processi genealogici che rivelano le “menzogne” insite nelle nostre valutazioni passate. Questo è un aspetto determinante per l’interpretazione dell’individuo sovrano. È infatti una falsa pista quella che si propone di discutere se l’individuo sovrano sia un fenomeno passato (e forse presente) o, come sostiene Hatab (2008: 176), un «fenomeno a venire». Da un lato, la figura dell’individuo sovrano rappresenta il «tipo di superiore valore» che è «già esistito abbastanza spesso» (A 3), ma, d’altra parte, Nietzsche pone la questione se siano possibili una spiritualizzazione, un superamento e un auto-superamento (Selbstaufhebung) delle forme che esso ha avuto sin qui (cfr. Giacoia Junior 2011: 174-175).
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«libertà sopra le cose» (FW 107) dietro la spinta della «passione della conoscenza» e non del bisogno di trovare una risposta all’interrogativo dell’ideale ascetico: «Posso credere in una qualche “verità” assoluta che dia un senso alla mia sofferenza e uno scopo alla vita in generale?» Di nuovo, la figura dell’individuo sovrano è un segnale che questo tipo di esistenza libera e di libera spiritualità – anche di «libertà del volere» in un senso nuovo – è possibile. La filosofia, secondo Nietzsche, ha a che fare con la «sovranità». Come spiega nell’Anticristo, infatti, la «grande passione» che è privilegio di quegli spiriti filosofici che sono abbastanza forti da potersi confrontare con il «bisogno di fede» e vivere liberi da «qualsiasi specie di convinzioni» – quella grande passione «si sa sovrana [weiss sich souverain]» (A 54, cfr. NF 1888, 11[48]). (c) La risposta alla terza e ultima questione è in parte anticipata dal contenuto delle prime due. La figura dell’individuo sovrano ha un valore per i moderni lettori di Nietzsche e in certa misura anche per la civiltà moderna nel suo complesso, in quanto mostra che vi può essere una forma di esistenza – un «mare aperto» di vita e conoscenza (FW 343) – oltre i limiti dettati dall’ideale ascetico. C’è però un ulteriore elemento da considerare. Nietzsche concepisce la nozione di «sovranità» in termini moderni, e precisamente in termini di «coscienza» e «autonomia»18. Nelle società moderne la gente si considera “libera” perché pensa che tutti gli uomini siano ugualmente in grado di agire secondo la propria coscienza e determinare autonomamente i propri valori. Questo 18 Il termine «coscienza» compare solo alla fine di GM II 2, come nome che l’individuo sovrano dà al proprio istinto dominante. Tuttavia, Stegmaier (1994: 131-138) osserva correttamente che quando, in GM II 1, Nietzsche sostiene che gli uomini devono possedere una «memoria della volontà» per poter fare e mantenere promesse, quello che intende con queste parole è precisamente il senso di «responsabilità» che lui chiama «coscienza» (Gewissen). Buona e cattiva coscienza sono due forme della nostra «memoria della volontà». Inoltre, si può notare che per Nietzsche tanto la «volontà» quanto la «memoria» umana non sono eventi di cui siamo immediatamente consapevoli. Già nel 1872-1873 Nietzsche scrive in un quaderno: «La coscienza prende inizio con il senso di causalità, in altre parole, la memoria è più antica della coscienza. Nella mimosa, per esempio, noi troviamo memoria ma non coscienza» (NF 1872-1873, 19[161]. Cfr. FW 354).
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è un aspetto rilevante della versione moderna dell’ideale ascetico – un aspetto che Nietzsche pone fortemente in questione nel momento in cui sostiene che coscienza e autonomia siano appannaggio di un esiguo numero di individui sovrani, e da ultimo dei filosofi. Nietzsche pone la cosa con particolare asprezza quando scrive che ogni individuo sovrano proverà «rispetto» e «riverenza» (Ehrfurcht) per i suoi «pari», ma «disprezzerà» chi non si dimostrerà abbastanza forte da essere responsabile per se stesso e completamente autonomo (GM II 2). Da un lato, questa considerazione è profondamente kantiana. Essere autonomi comporta infatti il rispetto per gli altri che sono parimente autonomi, il rispetto per la loro autonomia (cfr. Bailey 2012 e 2013). Questa posizione si trova sicuramente alla base dell’idea che Nietzsche ha della «modernità». Ma come dovremmo considerare il disprezzo dell’individuo sovrano per chi non gli è pari? Per certi aspetti, questa è con buona probabilità solo una diagnosi “realistica” della psicologia di qualsiasi individuo sovrano. Con le differenze dovute al proprio grado di coscienza, ciascuno creerà la propria gerarchia (Rangordnung), e gli sarà di conseguenza impossibile dimostrare il medesimo rispetto per tutti e per tutto. Ogni individuo sovrano dovrà quindi disprezzare per poter venerare (cfr. Z, Dell’uomo superiore 3). Ma questo non comporta un’approvazione dell’ineguaglianza sociale e politica? Non implica un rifiuto aristocratico ed elitario dello spirito della modernità? Come si è visto, Nietzsche sembra essere sicuro del fatto che non si possa tornare indietro rispetto al grado di spiritualità conseguito in epoca moderna, ma che, al contrario, si possa solo progredire. Se le cose stanno in questi termini, non dovremmo concludere che Nietzsche invita il lettore moderno ad assumere una prospettiva progressista e non conservativa? Egli, inoltre, pensa chiaramente che l’ideale ascetico sia dannoso per tutta l’umanità, non solo per una sua parte, e pertanto il suo «compito» comprende di contribuire a un radicale mutamento della civiltà del quale tutti possano beneficiare. Se le cose stanno così, in GM II 2 Nietzsche non sta semplicemente suggerendo che l’individuo sovrano sarà incline a disprezzare la
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maggior parte delle persone perché nelle società moderne esse non sono abbastanza autonome? Che nelle nostre società liberali c’è ancora molta strada da fare perché tutti possano (e debbano) riconoscersi reciprocamente come individui liberi e autonomi? Che noi stiamo diventando pericolosamente «ultimi uomini», completamente privi di indipendenza, individualità, responsabilità, grandezza, spirito, coscienza, autonomia – in una parola: libertà? Come è noto, Nietzsche vuole liberare la nostra civiltà dall’ideale ascetico condividendo il proprio ideale filosofico con un numero selezionato di lettori – più precisamente, mostrando ai «filosofi dell’avvenire» che è possibile e desiderabile vivere secondo bisogni non ascetici e non metafisici. Il suo desiderio per le epoche a venire non è forse che si possa acquisire maggiore libertà e autonomia, e con ciò realizzare un auto-superamento della modernità seguendo i grandi esempi dei Greci, dei Romani, e degli Italiani dell’epoca rinascimentale? Sulla base delle nostre moderne aspirazioni di libertà e autonomia, non dovrebbe essere questo anche il nostro desiderio – il nostro nuovo «ideale»? Questo non è altro che un ulteriore «punto interrogativo» di Nietzsche – un interrogativo che dovrebbe riguardare i suoi lettori di oggi con la stessa forza con cui deve aver riguardato un esiguo numero di suoi contemporanei. Traduzione dall’inglese di Pietro Gori
Bibliografia Bailey, Tom: 2013. Nietzsche’s Engagements with Kant, in: Oxford Handbook of Nietzsche, a c. di John Richardson e Ken Gemes, Oxford, Oxford University Press, pp. 134-159. Bailey, Tom: 2012. Vulnerabilities of Agency: Kant and Nietzsche on Political Community, in: As the Spider Spins: Essays on Nietzsche’s Critique and Use of Language, a c. di João Constâncio e Maria João Majer Branco, Berlin/Boston, de Gruyter, pp. 107-127. Burckhardt, Jacob: 1860/1952. La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it. Firenze, Sansoni.
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Constâncio, João: 2014. Nietzsche on Consciousness, Will, and Choice: Another Look at Nietzschean Freedom, in: Nietzsche on Consciousness and the Embodied Mind, a c. di Manuel Dries, Berlin/ Boston, de Gruyter (in pubblicazione). Constâncio, João: 2012a. “A Sort of Schema of Ourselves”: On Nietzsche’s “Ideal” and “Concept” of Freedom, in: «Nietzsche-Studien» 41, pp. 127-162. Constâncio, João: 2012b. Consciousness, Communication, and Self-Expression. Towards an Interpretation of Aphorism 354 of Nietzsche’s The Gay Science, in: As the Spider Spins: Essays on Nietzsche’s Critique and use of Language, a c. di João Constâncio and Maria João Majer Branco, Berlin/Boston, de Gruyter, pp. 197-231. Constâncio, João: 2011a. On Consciousness: Nietzsche’s Departure from Schopenhauer, in: «Nietzsche-Studien» 40, pp. 1-42. Constâncio, João: 2011b. Instinct and Language in Nietzsche’s Beyond Good and Evil, in: Nietzsche on Instinct and Language, a c. di João Constâncio e Maria João Majer Branco, Berlin/Boston, de Gruyter, pp. 80-116. Gerhardt, Volker: 1992. Selbstbegründung. Nietzsches Moral der Individualität, in: «Nietzsche-Studien» 21, pp. 28-49. Giacoia Junior, Oswaldo: 2011. Zu Nietzsches Satz “‘autonom’ und ‘sittlich’ schliesst sich aus” (GM II 2), in: «Nietzsche-Studien» 40, pp. 156-177. Hatab, Lawrence J.: 2008. Breaking the Contract Theory: The Individual and the Law in Nietzsche’s Genealogy, in: Nietzsche, Power and Politics: Rethinking Nietzsche’s Legacy for Political Thought, a c. di Herman Siemens e Vasti Roodt, Berlin/New York, de Gruyter, pp. 169-188. Leiter, Brian: 2011. Who is the “Sovereign Individual”? Nietzsche on Freedom, in: Cambridge Critical Guide to Nietzsche’s On the Genealogy of Morality, a c. di Simon May, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 101-119. Machiavelli, Niccolò: 1532/2002. Il Principe e altre opere politiche, Milano, Garzanti. Müller-Lauter, Wolfgang: 1999a. Nietzsche: His Philosophy of Contradictions and the Contradictions of his Philosophy, trad. eng. Chicago, Urbana.
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Müller-Lauter, Wolfgang: 1999b. Über Werden und Wille zur Macht, Berlin/New York, de Gruyter. Ottmann, Henning: 1999. Philosophie und Politik bei Nietzsche, Berlin/ New York, de Gruyter. Richardson, John: 2009. Nietzsche’s Freedoms, in: Nietzsche on Freedom and Autonomy, a c. di Ken Gemes e Simon May, Oxford, Oxford University Press, pp. 127-149. Simon, Josef: 1992. Der Philosoph als Gesetzgeber. Kant und Nietzsche, in: Perspektiven des Perspektivismus, Gedenkenschrift Friedrich Kaulbach, a c. di Volker Gerhardt e Norbert Herold, Würzburg, Königshausen & Neumann, pp. 203-218. Stegmaier, Werner: 2013. Friedrich Nietzsche zur Einführung, Hamburg, Junius. Stegmaier, Werner: 1994. Nietzsches “Genealogie der Moral”, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft. Stegmaier, Werner: 1992. Philosophie der Fluktuanz. Dilthey und Nietzsche, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht. Stack, George J.: 1983. Lange and Nietzsche, Berlin, de Gruyter. Žižek, Slavoj: 2008. The Ticklish Subject, London/New York, Verso.
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“Faute de mieux” par excellence L’esito problematico di GM III Federica Negri
Contro il valore di ciò che rimane in eterno uguale a se stesso (vedi l’ingenuità di Spinoza, come pure di Descartes) c’è il valore di ciò che è più breve e fugace, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita. NF 1887, 9[26]
1. L’ascesi, un ideale da “ruminare” e digerire La dissertazione conclusiva della Genealogia della morale si presenta, già dal titolo, come un nucleo problematico estremamente complesso, solo parzialmente risolutore di una quantità di temi diversi messi in campo già nelle sezioni precedenti. Come spesso accade nelle opere di Nietzsche, molteplici sottili indicazioni da parte del filosofo avevano intessuto l’intero testo, preparando sotterraneamente l’affondo finale. D’altra parte, eravamo già avvertiti sin dalle prime pagine, quando Nietzsche invita il lettore ad «esercitare (…) la lettura come arte», recuperando una pratica che «oggidì è stata disimparata nel modo più assoluto», e avverte che «per giungere alla “leggibilità” dei [suoi] libri occorre ancora del tempo – una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non “uomini moderni”: il ruminare…» (GM Prefazione 8). L’avvertenza sulla complessità del testo ci prepara a un’impresa ardua, che necessita di una capacità fisica di sopportare tempi lunghi e – apparentemente – inutili. Il ruminare, il riflettere a lungo sulle medesime questioni prepara, in effetti, a una
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buona digestione e assimilazione dei contenuti più ostici. La buona digestione è da intendersi come sinonimo di una buona salute e di un naturale gusto, come una saggezza del corpo che permette al filosofo di comprendere le differenze come sfumature, come gradualità e non in termini oppositivi, sottraendosi alla stretta logica binaria della metafisica1. La sua «grande salute» (FW 382) è rivelata proprio dalla capacità di nutrirsi con profitto di tutto ciò che incontra sulla propria strada, di misurarsi con ciò che il cammino riserva. L’analisi dovrà essere interpretativa nel senso più profondo, per poter smascherare l’ideale più dannoso dell’intera cultura occidentale – ma forse anche di gran parte di quella orientale – quello ascetico. Qual è il senso dell’ideale ascetico? Quale è stata la sua funzione e di che cosa, in realtà, è la maschera? Questi interrogativi si pongono in maniera chiara alla fine di un libro che ha voluto essere «una critica dei valori morali» (GM Prefazione 6). In questa terza sezione, non si tratta più solo di analizzare un valore in particolare per smascherarlo, quanto piuttosto di affondare la critica al punto da far saltare l’intero sistema dei valori, la sua pretesa necessità ai fini dell’esistenza umana, per far risaltare la totale inadeguatezza del valore supremo dell’ascetismo rispetto anche al suo fine dichiarato. Questa ricerca va di pari passo con la domanda sulla volontà di verità. In Ecce homo, parlando del testo, con riferimento esplicito a questa sezione, Nietzsche espone chiaramente le proprie intenzioni: La terza dissertazione risponde alla domanda di dove provenga la immensa potenza dell’ideale ascetico (…) sebbene questo sia l’ideale dannoso par excellence, una volontà della fine, un ideale della décadence. Risposta: non perché, come si vuol credere, Dio agisca dietro i sacerdoti, ma faute de mieux – perché fino a oggi è stato l’unico ideale, perché non aveva concorrenti. «Perché l’uomo preferisce ancora volere il nul1 Cfr. su questo Pasqualotto (1988: 188): «La bellezza del soggetto, il suo essere “saporoso” [schmackhaft], ossia la sua saggezza, consiste soprattutto nella sua capacità di considerarsi non come una identità in contrasto ad una molteplicità, ma come una pluralità di differenze in movimento. Vi è bellezza e saggezza, insomma, quando il soggetto si mostra in grado di superare la propria unità».
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la, piuttosto che non volere»… Soprattutto mancava un contro-ideale – fino a Zarathustra. (EH Genealogia della morale)
L’idea che guida questo contributo è prima di tutto che in GM III Nietzsche, dopo aver analizzato nelle sezioni precedenti il meccanismo del vincolo morale come strumento di potere, esamini l’ideale ascetico come via estrema di controllo per i malati della volontà, che non possono rinunciare a volere qualcosa – fosse anche il nulla – piuttosto che non volere. In secondo luogo, che il filosofo non proponga, in realtà, nessun tipo di soluzione, come se fosse impossibile liberarsi dall’idealità come ultimo rifugio sicuro, se non grazie a un “contro-ideale”, che tuttavia appare comprensibile da pochi. La persistenza dell’ideale sarebbe segno di una sua effettiva valenza positiva che – se esso fosse giustamente declinato – potrebbe ancora servire come alternativa e contenimento della volontà. Effettivamente, il valutare che ha come prima conseguenza la creazione di valori e ideali risponde all’esigenza fondamentale di conservazione che appartiene all’uomo: «per conservarsi (…) per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano!» (Za Dei mille e uno scopo). Fondamentale, in questa analisi, è l’esame della natura funzionale della volontà nella vita umana; Nietzsche sembra qui tornare ai suoi antichi amori2, dato che l’intera discussione sulla volontà di potenza che percorre la terza dissertazione – ma, in realtà, tutto il testo della Genealogia – ci riporta alla volontà di Schopenhauer. In verità, per Nietzsche, si tratta ora di compiere il nichilismo, non quello della morale della compassione di Schopenhauer3, ma quello che ha veramente lasciato andare il volere 2 Cfr. Colli e Montinari in Notizie e note alla Genealogia: «La parentela del nuovo principio filosofico della “volontà di potenza” con il principio schopenhaueriano della “volontà di vivere” è evidente e indiscutibile (e lo dice Nietzsche stesso). […] Il nucleo delle due concezioni è identico, e anche il principio di Schopenhauer era immanente come quello di Nietzsche: in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale, che è in noi (ogni teologia è superata) e di cui diventiamo partecipi per un’apprensione immediata. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al fatto che Schopenhauer la rifiuta e vuole negarla, Nietzsche invece l’accetta e vuole affermarla. Insomma non sta nel principio l’originalità di Nietzsche, ma nella reazione al principio» (OFN, VI/2, pp. 371-372). 3 Nietzsche, ricordando gli scritti che lo hanno condotto alla Genealogia, scrive
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e non ci condanna a volere il nulla. Nietzsche si appresta quindi a un compito estremamente difficile, ossia tentare di raggiungere una “volontaria” non volontarietà dell’azione4. La terza dissertazione si apre con una citazione da Così parlò Zarathustra, opera che precede e, in un certo senso, fa da sfondo a questo libro (assieme a Umano, troppo umano, La Gaia scienza e Aurora). Come dichiarato da Nietzsche in EH, lo Zarathustra contiene forse l’unico possibile antidoto all’ideale ascetico; per questo motivo, questo esergo mi sembra che assuma un significato ben rilevante e contenga elementi utili alla decifrazione della discussione finale. Incuranti, beffardi, violenti – così ci vuole la saggezza: è una donna, ama sempre unicamente un guerriero.
Il passaggio allude a una serie di fondamentali elementi: primo tra tutti, la figura della saggezza-donna, così come viene delineata nello Zarathustra (Za, Il canto della danza), in grado di non aver paura della propria superficialità. Solo una donna in grado di incarnare questa saggezza può essere la degna compagna di chi creerà al di sopra di sé l’oltreuomo (Za, Di antiche tavole e nuove 23). Si tratta di una donna come Arianna, dionisiaca e libera, e come la vita, «mutevole e impertinente»5. In secondo elemento nella Prefazione: «Per me era in questione il valore della morale – e a questo riguardo dovevo fare i conti quasi unicamente con il mio grande maestro Schopenhauer (…) Si trattava, in special modo, del valore del “non egoistico”, degli istinti di compassione, di autonegazione e di autosacrificio, (…) Precisamente qui vedevo il grande pericolo dell’umanità, la sua più sublime tentazione e seduzione – verso che cosa poi? Verso il nulla?» (GM Prefazione 5). 4 La discussione sulla volontà è sicuramente un punto estremamente delicato, che implica il superamento dell’idealismo filosofico, ma anche tutta la demistificazione del concetto di coscienza (M 119; M 115). La questione è resa ulteriormente complessa dal fatto che, come è noto, la critica alla nozione di volontà sembra lasciare comunque spazio a una forma di libertà individuale che si fonderebbe proprio sull’accettazione del nichilismo. Non è possibile in questa sede soffermarsi su questo tema, che coinvolge le nozioni di “amor fati”, del “divenire ciò che si è” e di “individuo sovrano” (di cui Nietzsche parla proprio nella Genealogia (GM II 2) e su cui João Constâncio ha scritto nel presente volume). La letteratura secondaria, d’altra parte, si è ampiamente dedicata a tali questioni in passato (cfr. p.es. Gemes/May 2009). 5 In particolare, è La seconda canzone di danza che ci permette di confermare questa
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contenuto nella citazione riguarda l’idea del filosofo guerriero che affronta le macerie della mancanza totale di valori traendo gioia da questa nuova libertà. Questo guerriero ha lo spirito irriverente del bambino, che gioca tralasciando il senso comune, non considerando i valori invece di rifiutarli. Se questo guerriero è innocente6 e assimilabile al filosofo che Nietzsche vuole essere, si può dire che egli debba avere le doti di un ballerino,7 che debba essere dotato della «più grande scioltezza e forza» (FW 381).8 Il nostro impegno di lettori – al pari del filosofo che ha compiuto la genealogia, come sembra indicare la citazione – dovrà ispirarsi allo stesso spirito incurante, beffardo e – a volte – violento, nel senso di una attenzione decostruttiva per smascherare i meccanismi di potere occultati dalla morale, in particolare quelli dell’ideale ascetico, che rappresenta la quintessenza di questo strumento di controllo assoluto.
2. Le maschere dell’ideale ascetico «Che significano gli ideali ascetici?», questo interrogativo che titola GM III diventa presto un ritornello che ci accompagna nei identificazione tra la donna, la saggezza, la vita e Arianna. Cfr. anche DD, Lamento di Arianna. 6 L’innocenza è la conseguenza della corretta lettura dell’inesistente causalità del mondo: «Siamo stati noi a inventare il concetto di “scopo”: nella realtà lo scopo è assente… (…) Che nessuno più sia reso responsabile, che la natura dell’essere non possa venire ricondotto a una causa prima, che il mondo non sia (…) una unità, tutto ciò soltanto è la grande liberazione – con ciò soltanto è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire» (GD, I quattro grandi errori 8). Su questo e sul rischio di un pericoloso disimpegno nell’azione, cfr. Stellino 2011. 7 Danzare il pensiero come sinonimo di nichilismo attivo: Pasqualotto 1998, pp. 101 ss.; FW 368 (contro la musica wagneriana, rifiutata perché fisiologicamente nociva); oltre al «“Danzare in catene”, farsi le cose difficili e poi stendervi sopra l’illusione della facilità» (WS 140). 8 In GD, Nietzsche scrive: «(…) il pensare è cosa che vuol essere appresa allo stesso modo con cui vuole essere appresa la danza, come una specie di danza…» (GD Quel che i tedeschi non hanno 7). Nietzsche mette sotto il segno della «levità del piede nelle cose dello spirito» la sua filosofia.
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meandri di un’analisi sempre più approfondita, non solo della questione in sé, ma di tutte le tentacolari implicazioni del più perverso degli ideali. Sin dal primo paragrafo, Nietzsche afferma che, per ben intendere il problema, bisogna tenere conto delle molteplici “tipologie” umane in cui si declina questo ideale: i filosofi e i dotti, le donne, i «fisiologicamente malriusciti e alterati», i sacerdoti e i santi. Per tutti questi, l’ideale ascetico acquisisce una sfumatura unica, per quanto si tratti di un valore che tende a riconfermarne le caratteristiche fondamentali, mantenendoli ben legati a se stessi, incapaci di cambiare ed evolversi. La persistenza dell’ideale ascetico – e la sua presenza in caratteri apparentemente così diversi – segnala una debolezza caratteristica del genere umano, ossia la mancanza della forza di rifiutare ogni appiglio al valore, l’impossibilità di rinunciare ad un fine per la propria esistenza. L’insensatezza della casualità, l’amor fati, che Nietzsche prospetta nella sua filosofia è impensabile per la quasi totalità degli uomini. La delusione e il senso di vuoto spingono a cercare, perciò la volontà continua a esercitare il suo fascino, persino in coloro che fronteggiano la crisi dei valori europei. Nietzsche parla di un «horror vacui», un timore atavico e abissale di non volere più nulla, e aggiunge che, piuttosto di fronteggiare il vuoto, l’uomo «preferisce volere il nulla». In GM III 1 Nietzsche ostenta la pretesa “inattualità” di questa sua tesi9 e, con la scusa di doverne offrire una spiegazione, riprende il filo delle due dissertazioni precedenti, per offrirci una sorta di fenomenologia dell’ideale ascetico all’interno della comunità umana. Alla fine, però, si giunge a capire che questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, (…) tutto ciò significa (…) una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è 9 Cfr. FW 381: «Quando si scrive, non si vuole soltanto essere compresi, ma senza dubbio anche non essere compresi. (…) Tutte le leggi più sottili di uno stile hanno qui la loro origine: tengono lontani a un tempo, creano distanza, interdicono “l’accesso”, la comprensione, come si è detto – mentre aprono gli orecchi di coloro che d’orecchio ci sono affini».
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e resta una volontà!… E per ripetere in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere.
Il volere il nulla rimane così l’ultimo senso del nostro esistere come volontà di vivere, proprio perché l’uomo può sopportare la sofferenza, il dolore o la morte, ma non la mancanza totale di senso dell’esistenza. La volontà sembra essere l’espressione più raffinata del primordiale istinto di sopravvivenza che tenta di ancorarci a questo mondo tramite le cose, e ci spinge all’attaccamento per assicurare la nostra esistenza, ma ancora più la sua persistenza. La questione, in fin dei conti, è quella di un nichilismo che – proprio perché cosciente dell’inconsistenza dei valori – sceglie di volere il nulla come ultimo appiglio10.
3. A ciascuno il suo: Wagner, Kant e Schopenhauer I bersagli espliciti di GM III sono Wagner, Kant e, ovviamente, Schopenhauer. Per guidarci nella sua analisi del significato degli ideali ascetici, Nietzsche decide di considerare prima di tutto il valore che ha avuto per Wagner l’adesione, in tarda età, agli ideali della castità. Adesione che ha coinciso con una confessione pubblica di questa scelta, a uso e consumo del pubblico adorante. Nietzsche si interroga sul significato del Parsifal, «quel selvatico giovanotto», esempio della spettacolarizzazione del casto cristianesimo wagneriano; il disprezzo del filosofo è talmente grande che arriva a domandarsi se non si tratti forse di uno scherzo dell’artista Wagner, di una «suprema libertà e trascendenza d’artista» (GM III 3), perché, se così non fosse, che cosa mai dovremmo leggere in quest’opera forzatamente cattolicheggiante? «(Cosa sarebbe, infatti, il Parsifal inteso sul serio? (…) Un’apostasia e una conversione agli ideali cristianamente morbosi e 10
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Cfr. Brusotti 2001 e, sulla tipologia del nichilismo, Gillespie 1999.
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oscurantistici?» (ibid.). In questo caso, per lui così vicino e per molti versi doloroso, che egli definisce come «tipico», Nietzsche premette che è necessario separare l’artista dalla sua opera, non farsi ingannare dalla “contiguity” psicologica, portando avanti in questo modo la critica agli psicologi inglesi con cui aveva inaugurato il libro (cfr. GM I 7). In sintesi, non si può far coincidere in maniera sbrigativa l’artista con ciò che rappresenta, concepisce ed esprime: «Il fatto è che se egli fosse tutto questo, non potrebbe rappresentarlo, concepirlo, esprimerlo. (…) Un perfetto e completo artista è staccato per l’eternità dal “reale”, dall’effettuale» (GM III 4). Sicuramente, Parsifal non è Wagner. Tuttavia, Nietzsche vorrebbe che egli non avesse preso congedo dal mondo con quest’opera, «non con un Parsifal, bensì in un modo più vittorioso, più sicuro di sé, più wagneriano (…) meno schopenhaueriano, meno nichilistico» (GM III 4). Per Nietzsche, Wagner esemplifica nella maniera più evidente la falsità dell’ideale ascetico, la doppiezza di intenti che si nasconde dietro la facciata “rispettabile” della privazione volontaria. La vicenda che lega Nietzsche a Wagner – come si sa – si sovrappone alla vita intellettuale del primo e la influenza profondamente; dal giovanile innamoramento e stato di simbiosi, Nietzsche giunge a un violento rifiuto e distacco, nel periodo in cui il suo pensiero arriva a maturazione. Si può dire che Wagner personifichi tutto ciò che Nietzsche non vuole essere, come intellettuale e come artista, soprattutto perché, agli occhi di Nietzsche, Wagner è il décadent per eccellenza (Campioni 1994). Nello stesso periodo in cui compone la Genealogia della morale, Nietzsche sembra voler chiudere i conti con il musicista, scrivendo un testo infuocato nel quale decostruisce sistematicamente il musicista – Il caso Wagner – oltre ad aver previsto una summa delle sue critiche allo stesso, che uscirà con il titolo Nietzsche contra Wagner. La prima di queste opere, pubblicata nella primavera del 1888 – ci aiuta a capire meglio la distanza che ormai divide i due antichi amici11: 11
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In Ecce homo, tuttavia, la valutazione di Wagner non sembra essere così negativa
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Voltare le spalle a Wagner fu per me un destino (…). Una lunga storia! – Si vuole una parola per designarla? Forse superamento di sé. (…) Io sono, tanto quanto Wagner, il figlio di questo tempo, voglio dire un décadent: solo che io ho compreso ciò, mi sono difeso contro di ciò. (…) Quel che mi ha più profondamente occupato è in realtà il problema della décadence. (WA, Prefazione)12
Effettivamente, per Nietzsche è importante mettere in luce un concetto fondamentale, ossia la comune provenienza dal terreno di decadenza della contemporaneità europea13. Nietzsche ha avuto la forza di lottare e contrapporsi a questa malattia, facendosene studioso, al tempo stesso fisiologo, psicologo e medico14, mentre Wagner resta una malattia contagiosa da cui soprattutto i giovani dovrebbero guardarsi, dato che costituisce un vero e proprio «“pervertimento” del gusto» (WA, Poscritto) che rende incapaci di sottrarsi alla seduzione dell’idealismo e alla falsa chiarezza dei valori. Ciò che Wagner incarna è quindi l’ideale ascetico come malattia della decadenza. Qual è, allora, il valore dell’ideale ascetico per l’artista Wagner? Nullo, «o una tale quantità di cose diverse, che è lo stesso di nulla!» (GM III 5). La scelta di Wagner non sembra dettata da un convincimento personale o morale, ma – come si è detto – dalla convenienza; la stessa decisione di abbracciare la filosofia di Schopenhauer cela, in realtà, l’incapacità di sostenere la propria come ci si aspetterebbe, Nietzsche scrive: «I Tedeschi sono canaille. (…) Eccettuati i miei rapporti con alcuni artisti, e innanzitutto con Richard Wagner, non ho mai passato una buona ora con dei Tedeschi…» (EH, Il caso Wagner 4). Nonostante tutti i difetti di Wagner, Nietzsche preferisce criticare i Tedeschi, escludendo il musicista in nome di una vicinanza da artista. 12 Altro campione della décadence descritto come particolarmente vicino e, perciò, inquietante, è il Socrate della Nascita della tragedia (cfr. anche EH, La nascita della tragedia 1). 13 Il legame tra la decadenza e il nichilismo è il concetto chiave di una coappartenenza che spiega come chi ne fa parte possa essere l’unico in grado di guarire se stesso e gli altri: «Mettiamo pure da parte il fatto che io sono un décadent: ebbene, ne sono anche l’antitesi» (EH, Perché sono così saggio 2). 14 Cfr. Rovatti (2012: XII s.): «Noi siamo autorizzati a sovrapporre le tre figure (psicologo, fisiologo, medico) in un ibrido assai personalizzato (…). Trasfigurazione di un “fare filosofia” progettualmente molto lontano da ogni tradizione professionale attribuibile al cosiddetto filosofo».
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convinzione senza l’appoggio di un pensiero autorevole: [Wagner] si rese improvvisamente conto che con la teoria e la innovazione schopenhaueriana c’era da fare qualcosa di più in majorem musicae gloriam, – cioè con la sovranità della musica, come la intendeva Schopenhauer, (…) il musicista crebbe enormemente di valore; diventò ormai un oracolo, un sacerdote, anzi più di un sacerdote, una specie di portavoce dell’«in sé» delle cose, un telefono dell’al di là. (…) C’è da stupirsi che finisse per parlare, un bel giorno, d’ideali ascetici?… (GM III 5)
Il cambio di strada di Wagner è solo il voltafaccia di un consumato conoscitore del pubblico, della fama, di chi insegue l’approvazione altrui e vive nel riflesso di sé negli occhi degli altri15. L’idea di Nietzsche è che Wagner si appoggi alla filosofia di Schopenhauer, perché altrimenti non avrebbe mai la forza di sostenere certe idee; questa scelta si dimostra vincente perché, aderendo al pensiero del filosofo di Danzica, Wagner è riuscito a trasformare se stesso in «un telefono dell’al di là» (GM III 5), una vera e propria divinità. Come discepolo di Schopenhauer, in GM III Wagner è per Nietzsche soprattutto un elemento di passaggio, che gli permette di introdurre una questione «più seria: quando un vero filosofo rende omaggio all’ideale ascetico, uno spirito realmente piantato su se stesso come Schopenhauer, un uomo e un cavaliere dallo sguardo bronzeo (…) che significa tutto questo?» (GM III 5). Per quale motivo un filosofo che, evidentemente, gode ancora della stima di Nietzsche, persegue la via dell’ideale ascetico? Prima di dedicarsi alla filosofia di Schopenhauer, Nietzsche chiama però in causa il pensiero di Kant, per metter in luce la natura fondamentalmente passionale del movente artistico, il suo essere riaffermazione perentoria di una volontà. L’oggetto del contendere è l’estetica, proprio perché è l’artista ad identificarsi con il prete, come l’esempio di Wagner ben esemplifica: Kant pensava di rendere onore all’arte quando fra i predicati del 15 Per una disamina della complessa “questione” si veda Campioni 1998: 197-219 e Campioni 2008: 138 ss.
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bello preferì e pose in primo piano quelli che costituiscono l’onore della conoscenza: impersonalità e validità universale. (…) «Bello – ha detto Kant – è quel che piace in guisa disinteressata». Disinteressata! Si confronti questa definizione con quell’altra espressa da uno «spettatore» e artista vero – Stendhal, che chiama il bello une promesse de bonheur. Qui comunque è rifiutata e cancellata proprio quell’unica cosa che Kant mette in rilievo nella condizione estetica: le désintéressement. Chi ha ragione: Kant o Stendhal? (GM III 6)
Kant, quindi, avrebbe commesso un errore di prospettiva fondamentale con la definizione del bello come ciò che piace «in guisa disinteressata», perché questo disinteresse è così irreale che carica l’esperienza estetica di una falsità irrecuperabile16. Schopenhauer, d’altro canto, pur dichiarandosi kantiano, carica la questione di una sfumatura eminentemente sessuale: l’effetto dell’esperienza estetica sarebbe simile a una droga che distoglie dall’«“interesse” sessuale» perciò «egli non si è mai stancato di magnificare questa liberazione dalla “volontà” come la grande prerogativa e utilità della condizione estetica» (GM III 6). L’appello di Nietzsche alla separazione tra l’autore e la sua opera sembra, a questo punto, cedere il passo a un’interpretazione fisiologica del pensiero di Schopenhauer17, dato che egli si 16 Sul complesso rapporto con la filosofia kantiana si veda Marton 2011, articolo ricco anche di riferimenti puntuali ad alcuni elementi della numerosa bibliografia sul punto. 17 La compenetrazione tra biografia e pensiero – immediato risvolto della mancanza di separazione tra mente e corpo – è un fattore essenziale della filosofia di Nietzsche, più volte riaffermata dallo stesso filosofo come imprescindibile per una corretta interpretazione del suo pensiero (basti pensare alla prefazione della Gaia scienza e al richiamo all’«esperienza vissuta» propedeutica alla comprensione del libro; FW, Prefazione alla seconda edizione). Questo elemento mette in pericolo l’immagine dell’algido teoreta e viene spesso trascurato per la paura, forse, di mettere in crisi un’immagine ideale del filosofo. Tra i primissimi interpreti a tentare una spiegazione di questa pericolosa vicinanza in Nietzsche troviamo Lou Andreas-Salomé, che nel 1894 pubblicò Friedrich Nietzsche in seinen Werken, leggendone la filosofia come organicamente connessa alle vicende di salute e malattia: «Se il compito principale del biografo è quello di far luce sul pensatore attraverso l’uomo, ciò vale in modo particolare per Nietzsche poiché in lui, come in nessun altro, si è verificata una piena coincidenza tra le sue opere e la sua biografia» (Andreas-Salomé 2009: 15). Tra gli altri, sarebbe importante ritornare sulle illuminanti analisi di Sarah Kofman che, in particolare in Explosions I e Explosions II – dosando sapientemente analisi freudiana e modalità nietzscheana – riesce a penetrare il pensiero
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chiede se «la concezione di fondo della sua “Volontà e rappresentazione” (…) abbia preso origine da una generalizzazione di codesta esperienza della sessualità. (GM III 6) A detta di Nietzsche, Schopenhauer dimostra di cercare il bello per un «interesse fortissimo, personalissimo quant’altri mai: quello del torturato che si sviticchia dalla sua tortura» (GM III 6). La vera anima dell’ideale ascetico di Schopenhauer è, perciò, il tentativo di sottrarsi alla volontà di vivere, questo “sviticchiarsi da una tortura” che, tuttavia, riesce solo a riconfermare con maggiore veemenza la volontà stessa. Il rapporto con i sensi e la sessualità è problematico generalmente per i filosofi, non solo per Schopenhauer. Esiste un pregiudizio del filosofo a favore dell’ascetismo sembra fornire modalità certe per giungere alla realizzazione di sé, come «un optimum delle condizioni di suprema e arditissima spiritualità – e con ciò non nega “l’esistenza”, sibbene afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esistenza, e questo forse sino al punto da non restargli lontano l’empio desiderio: pereat mundus, fiat philosophia, fiat philosophus, fiam!…» (GM III 7). Nietzsche pensa che i filosofi che si affidano all’ascetismo, sperando di divenire animali alati, si sbaglino grossolanamente: la loro scelta non può condurli a un reale distacco, poiché non ha nulla a che fare con la “cosa in sé”, ma riguarda solo le loro personali necessità. Non c’è nessuna virtù, il vero movente è il filosofo stesso («pereat mundus (…) fiat philosophus»), o meglio, la sua incapacità di stare al mondo per la quale egli sceglie di cancellare il mondo stesso. I filosofi che predicano l’ascetismo sono lontanissimi dalla virtù, ma impegnati a rimanere in quelle che pensano essere le migliori condizioni di esistenza; per far questo, sono pronti a piegare il resto del mondo alla loro estrema volontà. del filosofo partendo dal fulcro inquietante di Ecce homo. Questa modalità è in grado di evidenziare, nella filosofia di Nietzsche, il lato più attuale – dato che ci proietta in un contesto di consapevolezza sull’inconscio – e quello più antico – dato che fa emergere la profonda consonanza con il modello greco antico di filosofia come “esercizio” e “pratica di vita” (Hadot 2005: 155 ss. Cfr. anche Hadot 1998: 219 ss.).
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4. L’orecchio del filosofo Nella contrapposizione che Nietzsche istituisce tra i “dotti”18 e gli “spiriti forti”, possiamo individuare una possibilità di chiarimento sul tipo di filosofo a cui Nietzsche si sente vicino: egli rifugge il chiasso, è lontano da ogni attualità19. Il tono della sua voce è rivelativo: chi è sicuro di sé, infatti, «parla basso; cerca la riservatezza, si fa aspettare. Si riconosce un filosofo dal suo rifuggire tre cose abbaglianti e chiassose: la gloria, i principi e le donne» (GM III 8). La voce rivela e l’ascolto attento coglie il vero senso20. Come spesso accade, Nietzsche nasconde mettendo in evidenza: il sottolineare la dimensione acustica, la necessità di ascoltare, rimanda direttamente all’unica possibilità di far filosofia diversamente all’interno di un contesto pesantemente ipotecato dalla metafisica tradizionale. Il pensiero deve farsi canto, la scrittura deve farsi poesia per potersi svincolare dalla dialettica dicotomica. Zarathustra era stato il tentativo di Nietzsche di far sentire questo nuovo pensiero; non essendo stato ascoltato, il filosofo si trova costretto a tornare a fare patti con le modalità più quotidiane del pensiero. Lo stile è diventato ormai «grande stile»21, l’aforisma era stato solo il primo passo per portare a questo risultato22. 18 Cfr. Za, Dei dotti. Si veda anche JGB 211, dove negli «operai della filosofia» possiamo leggere una figura ancora distante dal «vero filosofo» che non è solo critico, ma creativo e sperimentatore, imprudente e giocatore (JGB 205). 19 Il filosofo di cui si tratteggia la possibilità è il «vero filosofo» (JGB 205). Stimolante l’articolo di Babette Babich (2000), anche se non direttamente sulla questione della Genealogia. 20 Questo richiamo alla dimensione uditiva è estremamente importante per comprendere Nietzsche: non si tratta mai, infatti, solo di leggere, ma bisogna ascoltare, “sentire”, “intendere” e aprirsi alla tonalità di un pensiero inaudito. 21 Kofman (1993: 44) osserva che «Lo stile, e soprattutto quello di Nietzsche, deve perciò esser pensato allo stesso modo al plurale. (…) Lo stile è pensato qui con riferimento alla musica». Per un approfondimento su questo complesso tema si veda anche, tra gli altri, Crawford 1991: 210-237; Derrida 1991; Derrida 1993; Cacciari 1975-1976: 464-492. Cfr. anche EH, Perché scrivo libri così buoni 4. 22 Secondo la Kofman (1972: 167), «l’aforisma con la sua brevità, la sua densità, invi-
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Il vero filosofo deve possedere questo istinto corporeo del ritmo che gli consente di pensare danzando23, ossia con destrezza e creatività24. La sua diversità lo rende spirito «materno», che sceglie naturalmente l’astinenza per preservare la propria creatura, «esonerato dal dover pensare a sé» (GM III 8). Il termine «materno» sottolinea tutta la distanza dall’ideale socratico: il filosofo non è più l’ostetrico delle idee altrui, ma le mette al mondo lui stesso, non rinnegando così la componente corporea del pensiero, fondamentale in ogni idea ben riuscita. Il filosofo vero è gravido delle proprie idee, le cresce in sé e le partorisce con tutto il dolore che questo comporta. A guidarlo è la necessità, non certo la virtù; è l’intelligenza del corpo a fargli scegliere la cosa migliore da fare e quella alla quale rinunciare. Non c’è una scelta utile alla base dell’astinenza, ma «è invece proprio il loro istinto “materno” ciò che qui, a vantaggio dell’opera in gestazione, spregiudicatamente dispone di tutte le altre riserve e risorse di forza, di vigore della vita animale: la forza più grande utilizza allora quella più piccola» (GM III 8).
5. Ascesi e digiuno come strumento di potere L’astinenza come estinzione camuffata della sensualità è solo una trasfigurazione dello stimolo sessuale ed implica una riafferta a danzare: è la scrittura stessa della volontà di potenza, affermatrice, leggera, innocente. Scrittura che cancella l’opposizione di gioco e serietà, di superficie e della profondità della forma e del contenuto, del divertimento e del lavoro». 23 «Solo nella danza io so parlare i simboli delle cose più alte» (Za, Il canto dei sepolcri), ma anche: «Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare» (Za, Del leggere e scrivere). La danza, come espressione corporea della capacità di volere senza attaccamento al fine, in maniera innocente, è ampiamente presente nello Zarathustra, spesso come elemento carismatico e seduttivo legato al femminile. Cfr. per esempio Za, Di antiche tavole e nuove: «Così io voglio l’uomo e la donna: l’uno prode in guerra e l’altra valida nel generare figli, ambedue però bravi danzatori nella testa e nelle gambe. E perduto sia per noi quel giorno, in cui non si sia danzato almeno una volta! E falsa sia per noi ogni verità, che non sia stata accompagnata da una risata». Cfr. anche Negri 2011: 75-105. 24 Cfr. la chiusa di JGB 211: «Il loro “conoscere” è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza».
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mazione della volontà di vivere e riprodursi. I brahmani, contemplativi per eccellenza, hanno saputo edificare il proprio potere su questo tipo di astinenza rendendola il senso della propria esistenza (GM III 10). Nietzsche richiama il brahmanesimo, il buddhismo o l’induismo, come esempi della più raffinata soluzione della volontà di primeggiare sugli altri e di imposizione della propria morale; tutte queste forme sono strettamente legate alla volontà del nulla che caratterizza le forme dell’idealismo ascetico, una «volontà vivente di contraddizione e di contronatura» che, «come fecero gli asceti della filosofia Vedanta, [degrada] la corporeità a illusione, e similmente il dolore, la molteplicità, l’intera antitesi concettuale “soggetto” e “oggetto” – errori, null’altro che errori!» (GM III 12). I riferimenti sono molteplici all’interno della Genealogia, ma, in definitiva, si può concordare sul fatto che si tratta di soluzioni che, seppur raffinate dal punto di vista dell’interpretazione, sono legate ad un nichilismo retrivo, che condanna la potenza vitale25. Come gli antichi brahmani, i filosofi hanno dovuto travestirsi, hanno dovuto assumere la maschera del già conosciuto per essere accettati: perciò, l’atteggiamento (il vivere appartato o la negazione del mondo) ha finito per acquisire validità in sé e diventare 25 Un’analisi puntuale della lettura del pensiero indiano da parte di Nietzsche è stata recentemente compiuta da Emanuela Magno, che sottolinea: «L’ideale ascetico (di cui la religione del Buddha è testimone esemplare), con il suo portato di rinuncia e di potente volontà negatrice del mondo, e come “senso” offerto all’assurdità della sofferenza, presenta, per Nietzsche, un solido nesso con lo spirito e l’atteggiamento filosofico che da sempre deriva il valore delle sue metafisiche, della sua “volontà di verità”, da una sotterranea “avversione alla vita” di cui l’ideale ascetico incarna la forma spiritualizzata» (Magno 2012: 167). Il buddhismo conserva, dunque, la doppia funzione di termine positivo, nei confronti del cristianesimo, e di termine negativo, in quanto, nonostante la raffinatezza della sua analisi, non è riuscito a uscire da un nichilismo passivo: «Per Nietzsche, il buddhismo ancora testimonia, nonostante la lucidità del suo esame conoscitivo e i suoi risultati di condotta – che hanno determinato un’“altra” e più alta morale rispetto a quella della filiazione cristiana –, una forma “passiva” di nichilismo, una forma, dunque, ancora, priva di quella forza propulsiva e dirompente in grado di sovvertire l’ordine, i codici, le gerarchie dei valori teorici ed etici annunciata dalla “filosofia nietzscheana”, che alla crisi europea risponde con la potenzialità straripante di un nichilismo della forza, in grado di ricreare l’uomo dalle sue stesse ceneri, di divinizzare la sua più intima natura: di contro all’essere della metafisica e di Dio, la potenza abissale dell’evento, il divenire» (ibid., 169).
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cifra di una vita filosofica. In definitiva, scrive Nietzsche, lo spirito filosofico ha sempre dovuto innanzitutto travestirsi e mascherarsi nei tipi anteriormente stabiliti dell’uomo contemplativo (…). L’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, (…) costui (…) dovette credere in esso per poterlo rappresentare. Il prete ascetico ha costituito (…) la forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere. (GM III 10)
Se, quindi, abbiamo compreso questa funzione storica dell’ideale, è venuto il momento di porsi la domanda più importante, ossia se è veramente venuto il tempo per il nuovo “filosofo”. È necessario interrogare il valore dell’ideale ascetico proprio ora che la funzione del prete asceta è svelata: egli, infatti, ha fede in quell’ideale e ne fa la sua potenza. Il filosofo coincide con il prete asceta quando crede nell’ideale di cui si è rivestito, e si smarrisce nell’affermazione della propria volontà di comandare il mondo. Egli ha la necessità di raccogliere adepti proponendo il miraggio di un mondo vero, puro e perfetto: «L’asceta tratta la vita come un cammino sbagliato, (…) come un errore che si confuta – si deve confutare, mediante l’azione: giacché costui esige che si proceda insieme a lui, impone a forza, dove può, la sua valutazione dell’esistenza» (GM III 11). Egli ha bisogno di essere creduto e seguito. L’indagine di Nietzsche, che diviene fisiologica (GM III 11), si concentra sul prete asceta per rivelare l’unitaria matrice religiosa del problema: questa figura, infatti, rivela la lacerante contraddizione vitale del ressentiment, una rabbia contro il mondo in cui è la vita stessa a essere l’odiato bersaglio dell’asceta, e, soprattutto, i suoi segni, come la prosperità fisiologica, la gioia e la bellezza: Una vita ascetica è infatti un’autocontraddizione: domina qui un ressentiment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa. (…) Tutto ciò è paradossale in sommo grado: ci troviamo di fronte a una disarmonicità che vuole se stessa disarmonica, che di se stessa gode in questa sofferenza. (GM III 11)
Non riuscendo a vivere, l’asceta condanna la vita come male;
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l’unica dimensione possibile dell’essere viene ricercata nel nulla. Ogni filosofia che parta da questa premessa non può che essere una volontà del nulla, «un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza» (GM III 11), una radicale distruzione di qualsiasi possibilità di ragionare e di raggiungere la verità della vita nella sua impermanenza e mancanza di senso. Contro questa deriva della volontà dell’ideale ascetico di “correggere” lo sguardo e costituire uno sguardo «puro, senza volontà, senza dolore», che può solo restituire un concetto immaginario del reale, Nietzsche contrappone una diversa modalità di filosofare, un «vedere prospettico, (…) un “conoscere” prospettico»26, che renda conto delle «forze attive e interpretative» che caratterizzano la complessità del mondo (GM III 12). Questo sguardo prospettico è uno sguardo di “occhi” e di “affetti”, che riammette a pieno titolo la dimensione materiale dell’esistenza. Si tratta della filosofia degna della «grande ragione» (Za, Dei dispregiatori del corpo). Lo sguardo esente da ogni traccia di sensualità dell’ideale ascetico è, infatti, solo un mito costruito dalla filosofia per elevare il pensiero all’immobilità, per tentare di dargli una forma perenne che lo sottragga all’oblio. Se questa astrazione funzionale viene “dimenticata”, la filosofia diventa un elemento di squalificazione totale della realtà fluida e sfuggente della vita. La desensualizzazione della ragione crea pertanto un vuoto incolmabile nello sguardo, privandolo di se stesso – dato che sempre siamo carne vivente – e sostituendo a esso uno sguardo artificiale, «di sorvolo»27, che perde la possibilità di farsi carico di quell’occhio che è e sempre sarà il punto cieco della visione, il suo punto 26 Sul prospettivismo come fulcro della possibilità di superare l’idea metafisica di verità unica, si vedano Gori 2011; Stellino 2011; Cfr. anche Gori 2010 e Ibáñez-Noé 1999. Su prospettivismo e ascetismo in GM III 12 si veda infine il contributo di Carlo Gentili al presente volume. 27 Faccio riferimento alla definizione di Merleau-Ponty, “pensiero di sorvolo”, che egli usa ne L’occhio e lo spirito a proposito dello sguardo che si pretende esente dall’essere “carne del mondo”, ad esempio quello della scienza e di molta filosofia (cfr. MerleauPonty 1989: 15). Sulla possibilità di intendere Nietzsche come un proto-fenomenologo, cfr. Daigle 2011.
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morto. Un tale ideale non può quindi funzionare, non conduce lontano; come ci insegna il fisiologo, infatti, ogni nostro “concetto” altro non è che una sintesi di sconosciuti e molteplici apporti percettivi, sensoriali o reattivi.28 L’intelligere funziona solo ed esclusivamente grazie alle passioni, o meglio ancora, grazie a pulsioni di cui – spesso – non siamo neppure consapevoli (FW 333). L’ideale ascetico non è però una lotta con la morte, per la morte; in esso Nietzsche vede piuttosto uno «stratagemma nella conservazione della vita» (GM III 13), un tentativo di imporre un’altra modalità di vita escludendo tutte le altre, per paura. L’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e di salute di una vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la sua esistenza. (…) La vita lotta in esso e attraverso di esso con la morte e contro la morte, l’ideale ascetico è uno stratagemma nella conservazione della vita. (GM III 13)
Il prete asceta è, di fatto, «il desiderio, fatto carne, di un essere-in-altro-mondo, di un essere-in-altro-luogo, e invero il grado supremo di questo desiderio, il suo caratteristico ardore e la sua passione: ma appunto la potenza del suo desiderare è il ceppo che lo inchioda qui» (GM III 13). Non solo il prete asceta è inchiodato a questa esistenza, ma escogita raffinate modalità per mantenere nella stessa situazione le schiere di «falliti, di malcontenti, di malriusciti, di sciagurati, di sofferenti di sé». Coloro che non vogliono essere se stessi vengono convinti a rimanere tali, perché così riconfermano il prete asceta nella sua funzione e nel suo potere; egli infatti è «pastore e difensore del gregge malato: solo così comprendiamo la sua missione storica. Il dominio sui sofferenti è il suo regno, a esso lo rinvia il suo istinto, in esso possiede la sua vera arte, la sua maestria, la sua specie di felicità» (GM III 15). L’effetto di questo movimento perverso è la nausea e la compassione di fronte all’uomo, e il suo più nefasto prodotto è il nichilismo (evidentemente passivo e deteriore).
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6. Ressentiment e peccato, le catene del prete-filosofo Il prete, pur malato della stessa debolezza codarda e ripugnante del suo “gregge”, ha la capacità di dominare gli altri; egli ha capito che è necessario rendere sempre più malato e sofferente il gregge, per padroneggiarlo. Con arte sopraffina, egli sa pertanto indirizzare il ressentiment29. Il prete è il modificatore di direzione del ressentiment. Ogni sofferente, infatti, cerca istintivamente una causa del proprio dolore, (…) un autore responsabile, sensibile alla sofferenza – insomma un qualsivoglia essere vivente su cui, con un qualche pretesto, possa scaricare di fatto o in effigie le sue passioni; poiché lo sgravarsi delle passioni è il massimo tentativo di sollievo, cioè di stordimento da parte del sofferente, il suo narcotico involontariamente desiderato contro ogni sorta di tormento. (GM III 15)
Ogni malato cerca un capro espiatorio, una causa, per dare un senso alla propria sofferenza, ed ecco che il prete esegue il suo capolavoro: convince il malato che l’origine di ogni tormento è lui stesso, inventando la colpa. La mossa è sicuramente ardita, completamente falso il contenuto; però funziona, e la direzione del ressentiment è cambiata in modo tale da rinsaldare ancora più il potere del prete asceta, che diviene l’unica àncora di salvezza da se stessi. A questo punto, Il prete mette in campo una serie di raffinate tecniche per organizzare e mantenere il potere sull’armento; tra questi, l’amore del prossimo svela la vera natura del movimento ascetico come espressione della volontà di potenza, proprio perché è dominio sull’altro. Prescrivendo «amore per il prossimo», il prete asceta prescrive in fondo un’eccitazione dell’istinto più forte e maggiormente affermatore di vita, anche se dosato con la massima cautela – la volontà di potenza. La gioia della «più piccola superiorità», implicita in ogni beneficare, avvantaggiare, trattare con distinzione, è il più abbondante mezzo di conforto di cui sono soliti servirsi i fisiologicamente inibiti. (GM III 18) 29 Sulla astuta doppiezza del prete asceta – pur con altra impostazione – cfr. Orsucci 2001: 128-142.
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Il capolavoro della perversione del prete asceta è il fatto di essere riuscito a rendere il malato totalmente dipendente dal senso di colpa, tramutandolo in «peccatore»30, grazie ad una interpretazione distorta della vita. L’uomo che in qualche modo (…) soffre di se stesso, senza sapere perché, a che pro, desideroso di ragioni, (…) finisce per consigliarsi con qualcuno che sa anche le cose occulte – ed ecco, riceve un avvertimento, riceve dal suo mago, il prete asceta, il primo avvertimento sulla «cagione» del suo soffrire: deve cercarla in se stesso, in una colpa, in un frammento di passato, deve comprendere la sua stessa sofferenza come una condizione di castigo… (GM III 20)
Il peccatore è chiuso in un circolo vizioso, come una «gallina intorno alla quale sia tracciata una linea» (GM III 20). L’ideale ascetico ha distorto l’intera storia europea: non ne sono esenti, infatti, né la scienza né gli idealisti, gli ultimi contemplativi che pensano, a torto, di trovarsi lontani dalle posizioni del prete asceta; l’errore comune a tutti è la «fede nello stesso ideale ascetico, la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità»31. La scienza, da molti indicata come antagonista dell’ascetismo, è in realtà nutrita dallo stesso errore, ossia dalla fede incrollabile nell’esistenza di una verità assoluta, convinzione che non si discosta molto dalla volontà di verità del prete asceta. Neppure la scienza tocca quindi la radice del problema, cioè il fatto che il rapporto dell’uomo con il mondo (e con se stesso) sia animato da una fondamentale esigenza di ricercare la “verità”; neppure lei, infatti, mette in dubbio il fatto che ci sia bisogno di una verità per vivere. La scienza, perciò, non riesce a essere una vera alternativa rispetto alla religione, ma ne rappresenta una possibile declinazione. La scienza stessa esige ormai una giustificazione (…). Non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza «priva di presupposti», il 30 Un interessante confronto tra questa figura specifica di GM e la filosofia del Foucault della Storia della sessualità, si trova in Konoval 2013. 31 Per un approfondimento su questo tema, cfr. i contributi di Helmut Heit e Pietro Gori al presente volume.
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pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia, una «fede» deve sempre preesistere, affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all’esistenza (GM III 24).
Per Nietzsche, è necessario andare oltre e mettere in dubbio il valore della verità, la sua necessità, la sua stessa esistenza. Chi mai potrà porre un interrogativo come questo, se gli scienziati e i filosofi attuali sono incapaci di vedere il problema, dato che sono incollati ad esso? Potranno forse farlo gli “uomini della conoscenza” che, ben conoscendo il valore consolatorio della fede, ne disconoscono il valore veritativo, dato che «una fede vigorosa, che rende beati è un sospetto verso ciò di cui essa è fede, non fonda “verità”, fonda una certa verosimiglianza – dell’illusione» (GM III 24)? Gli “uomini della conoscenza” possono essere gli unici in grado di farlo perché hanno «un sé bramoso di tutto che vorrebbe vedere attraverso molti individui come attraverso i suoi stessi occhi e mercè loro vorrebbe afferrare come con le sue stesse mani» (FW 249). Il prospettivismo è il loro naturale atteggiamento.
7. «Noi, uomini della conoscenza» Gli «uomini della conoscenza» – a cui Nietzsche si associa – non vogliono proporre alcun contro-valore da ostentare perché non sono fautori di una rinnovata metafisica, ma sono coloro che sanno interpretare e sciogliere l’incanto della “verità” ad ogni costo, mostrandone il fondo oscuro. Sanno rinunciare all’obbligo della verità, possono accettare che non ve ne sia una. Non si dimentichi la Prefazione della Genealogia: Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare? (GM, Prefazione 1)
Per quale motivo essi rimangono sconosciuti a loro stessi?
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Forse perché sanno di non dover cercare nessuna conoscenza assoluta, che implicherebbe la fede in un’essenza, in una verità ultima dell’esistenza, che è impossibile da pensare32. Questi uomini non hanno cercato di svelare il mistero della vita, perché sanno che non c’è nulla da svelare sotto l’apparenza del fenomeno; proprio per questo non sono impauriti, ma traggono da ciò un senso di libertà. La parvenza di cui i «temerari dello spirito» (FW, Prefazione alla seconda edizione 4)33 si nutrono è la vita liberata dall’ideale, dalla ricerca insensata di un “senso” di ciò che chiamiamo “io”, che è solo un nome per indicare una molteplicità complessa di atti del nostro corpo che rimangono inesorabilmente sconosciuti34. Come gli antichi Greci, conoscitori di Baubo35, essi sanno vivere rimanendo alla superficie, dove si cela la vera profondità, hanno «la coscienza della parvenza»36. 32 Patrick Wotling (2008) si domanda come si giustifichi «prima di tutto l’identificazione della filosofia con la ricerca della verità. (…) Nessun filosofo ha domandato perché bisognerebbe preferire la verità all’errore, o all’ignoranza; neppure se fosse legittimo operare una tale separazione dualista tra verità ed errore, apparenza, illusione: la cosa sembrava, in qualche modo, andare da sé». 33 Il «vero filosofo (…) vive in guisa “non filosofica” e “non saggia”, soprattutto imprudente» (JGB 205). 34 «L’unità dell’io è quella di un complexus ed è solo attraverso una illusione metafisica che gli si accorda l’unità ideale e fittizia del punto matematico. Essa consiste non nell’atto di una “essenza” pretesa semplice, ma in una coordinazione di centri nervosi che rappresentano loro stessi una coordinazione delle funzioni dell’organismo» (Campioni 1998: 236). 35 Sull’importanza fondamentale del richiamo a Baubo ha scritto Sarah Kofman, svelando in maniera inequivocabile il legame essenzialmente ambiguo tra Baubo, Dioniso e il femminile negato dalla filosofia: «La figura di Baubo significa che una logica semplice non saprebbe capire la vita che non è né profondità né superficie, che dietro il velo c’è un altro velo, e dietro uno strato di pittura ce n’è un’altra; [Baubo] significa anche che l’apparenza non deve suscitare né scetticismo né pessimismo, ma il riso affermatore di un vivente che sa che, malgrado la morte, la vita può ritornare indefinitamente. (…) Baubo e Dioniso sarebbero quindi due dei molteplici nomi della vita proteiforme. Contrariamente a Baubo, tuttavia, Dioniso è nudo. Nudità che non significa rivelazione di una verità, ma affermazione senza velo dell’apparenza» (Kofman 1986: 255-257). 36 Cfr. FW 54: «Parvenza è per me proprio ciò che opera e vive, che si spinge tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più – che tra tutti questi sognatori anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia danza».
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Non crediamo più che la verità resti ancora verità, se le si tolgono i veli di dosso; abbiamo vissuto abbastanza per credere in questo. (…) Forse la verità è donna. (…) Forse il suo nome, per dirla in greco, è Baubo?… Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! (FW, Prefazione alla seconda edizione 4)
Il dionisiaco, evocato dalla figura di Baubo, simbolizza le caratteristiche del nichilista attivo, in grado di giocare il mondo secondo la dinamica dell’eterno ritorno, senza paura. Nietzsche sa che anche gli «uomini della conoscenza» – i filosofi non idealisti e antimetafisici – non sono totalmente indipendenti dai presupposti metafisici, anche solo per il fatto che la loro stessa consapevolezza filosofica è nata della metafisica37. Questa consapevolezza è il fondamento della diffidenza che contraddistingue gli «uomini della conoscenza», che sono costantemente alla ricerca di interpretazioni che mettano in scacco l’assolutezza del principio, della “verità ad ogni costo”. Essi si sanno interni a una tradizione da cui scaturisce la domanda sulla volontà di verità (GM III 27) e affrontano coraggiosamente il crollo della metafisica fronteggiando la dimensione nichilistica dell’esistenza; questo li rende, però, in grado di danzare sulle macerie e di immaginare un’alternativa all’immobilismo pretesco, forse grazie all’accettazione della naturale «legge della vita, legge del necessario “autosuperamento” nell’essenza della vita» (ibid.). In questo modo, figli della stessa morale cristiana, essi possono affrontare alla radice il problema della volontà di verità38. Che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se 37 Cfr. FW 344, citato in GM III 24: «È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza – che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina…». 38 Per un’analisi di tale questione si rimanda ancora al contributo di Pietro Gori al presente volume.
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stessa come problema?… Per questa progressiva autocoscienza della volontà di verità, a partire da questo momento – non v’è alcun dubbio – va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli… (GM III 27)
Prendere coscienza del problema è indispensabile per salvarsi dalla cecità dell’ideale ascetico che, nelle sue molteplici forme si insinua nella nostra vita, distruggendola e avvelenandola con il sospetto, rendendola indesiderabile con il peso del peccato e della colpa. Sicuramente, quello che si può contrapporre non è una volontà di sostituzione dell’ideale, ma – come abbiamo visto – la necessità di continua analisi e demistificazione nell’ottica del prospettivismo, che permetta di mettere in luce l’inconsistenza del vicolo cieco nel quale l’umanità sembra chiusa. Solo chi non riesce a vedere l’inutilità della ricerca di una “verità”, di un senso, pensa che la mancanza di quest’ultimo sia un problema invalicabile. La natura dell’uomo lo conduce alla ricerca di una consolazione, di una spiegazione o di un colpevole, perché l’amor fati è intollerabilmente leggero. Pochi uomini, in realtà, hanno la forza di accettare questa inutilità del fine. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il “faute de mieux” par excellence che sia mai esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida. (GM III 28)
L’ideale ascetico continua a essere scelto perché è un’interpretazione che offre un senso alla sofferenza – un’interpretazione che ha però la colpa di volersi unica e assoluta. Nonostante il dolore che provoca e le rinunce che impone, essa continua inoltre a riaffermare un volere, anche se nella sua forma più infelice e nichilista. L’uomo della conoscenza sa e può non fermarsi a una interpretazione, intende il mondo prospetticamente e, in questo
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modo, distrugge senza posa il castello di dogmi e illusioni del prete-filosofo asceta. La posizione di Nietzsche, che era apparsa chiara sin dall’inizio della terza dissertazione, coincide, a mio parere, in modo discorsivo con l’orizzonte di un’umanità a venire e dello zarathustriano Übermensch: non imposizione, ma possibilità di un altro modo di essere, un vero ribaltamento interno dell’edificio metafisico che, facendo emergere le aporie della filosofia, sia in grado di riconquistare senza paura il non detto che la struttura segretamente. La vita, a lungo negata e condannata, è il “convitato di pietra” della metafisica occidentale, che ne struttura la storia con la sua assenza; solo riammettendola a pieno titolo nel pensiero, accettandone la multiforme impermanenza, si avrà l’opportunità di uscire da un nichilismo distruttivo che, non riuscendo ad accettare il cambiamento, lo condanna contrapponendo principi e valori eterni e inamovibili. Non a caso, infatti, questa è la prospettiva celebre nota composta da Nietzsche a Lenzer-Heide il 10 giugno 1887, a poche settimane dall’inizio della stesura della Genealogia39: Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati, quelli che non hanno bisogno di articoli di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare all’uomo con una notevole riduzione del suo valore, senza per questo diventare piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie, e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della loro potenza, e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo. (NF 1886-87, 5[71])
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Cfr. su questo Stegmaier 1994.
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Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia Ascesi e askesis in GM III Giovanni Gurisatti 1. Il “tipo umano” Schopenhauer per Nietzsche In un discorso tenuto al Nietzsche-Archiv di Weimar il 15 ottobre 1924, in occasione dell’80° anniversario della nascita di Nietzsche, intitolato Nietzsche und sein Jahrhundert, Oswald Spengler esalta la capacità fisiognomica del filosofo di vedere la storia, penetrando con lo sguardo nell’anima di tempi, popoli e civiltà, esattamente come nel caso dei singoli individui (cfr. Spengler 1924/1937: 116-119). Questa peculiare psicologia delle epoche – valga per tutte quella dell’epoca tragica sviluppata nella Nascita della tragedia – implica l’individuazione di “tipi umani” in grado di esprimere in modo concentrato, come monadi leibniziane, un intero universo storico. Come nella Nascita della tragedia massima importanza viene attribuita al tipo umano “Socrate”, «il tipo di una forma di esistenza prima di lui mai esistita, il tipo dell’uomo teoretico» (GT 15) – tipo razionalistico, ottimistico, etico, dialettico, opposto al tipo tragico, artistico, estetico, dionisiaco –, così nella Genealogia della morale massima importanza riveste il tipo umano “Schopenhauer”, identificato con il tipo umano del “prete ascetico” (o “prete asceta”), emblema monadologico di un’epoca decadente caratterizzata dalla rinuncia a tutto ciò che è vitale, vigoroso, sano, affermativo. Prigioniero del suo ressentiment, il prete asceta, lungo un percorso di successive negazioni che, alla fine, sfociano nella stanchezza, nel tedio di se stessi e nella volontà rancorosa del nulla, prova, al tempo stesso, grande nausea e grande compassione per l’uomo, ponendosi così come «il naturale avversario, nonché spregiatore,
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di ogni rude, tempestosa, sfrenata, aspra, brutalmente rapace salute e possanza» (GM III 15). Come il tipo dell’uomo teoretico della Nascita della tragedia si oppone all’esuberanza poietico-creativa del dionisaco, così il tipo del prete asceta della Genealogia «muove guerra» agli «animali da preda», ovvero alla «magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria» (GM I 11), protagonista della prima dissertazione del testo1. In entrambi i casi è il tipo Schopenhauer a essere nel mirino di Nietzsche: nella prefazione del 1886 alla terza edizione della Nascita della tragedia (il celebre Tentativo di autocritica) l’antiDioniso Schopenhauer, in ciò erede tanto del platonismo socratico quanto dell’ascetismo cristiano (cfr. EH, La nascita della tragedia 2), è simbolo di pessimismo, rassegnazione, ostilità alla vita, ascesi quietista («un’aspirazione al nulla, alla fine, al riposo», GT Tentativo di autocritica 5); allo stesso modo, nella quasi coeva (1887) prefazione alla Genealogia, al nome di Schopenhauer sono collegati gli ideali ascetico-morali dell’autonegazione, dell’autosacrificio, della compassione (cristiana e buddhista), intesi come malattie della cultura europea. È quindi contro il tipo Schopenhauer-prete asceta che la Genealogia viene scritta, e ciò sembra non lasciare dubbi circa il giudizio di Nietzsche riguardo l’utilità o il danno dell’“ideale ascetico” per la vita e la filosofia: esclusivamente dannosa sarebbe l’ascesi poiché – come nel caso della storia malamente intesa della Seconda inattuale – essa sarebbe nient’altro che l’espressione schopenhaueriana di «una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita» (GM III 28). È questo, del resto, il senso polemico esplicito della terza dissertazione della Genealogia – come lo è, per quanto retrospettivamente, della Nascita della tragedia –, scritta anzitutto contro la coppia Wagner-Schopenhauer, colpevoli di avere, ciascuno a suo modo, subordinato l’arte, di per sé dionisiaca, all’ideale ascetico della rinuncia e della rassegnazione. Non v’è infatti contrapposizione più 1 Sulla figura della “bionda bestia” si veda il contributo di Alberto Giacomelli a questo volume, in particolare § 4.
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radicale, per Nietzsche, di quella tra ideale ascetico e arte: Platone contro Omero: ecco il totale, autentico antagonismo – là il volontario “uomo della trascendenza”, il grande calunniatore della vita, qui il suo involontario divinizzatore, la sua aurea natura. Un vassallaggio artistico al servizio dell’ideale ascetico è perciò la più effettiva depravazione di un artista che possa esistere. (GM III 25)
Trascurando in questa sede la questione di Wagner, è chiaro fino a che punto l’ascetismo estetico platonizzante di Schopenhauer, esposto nel III libro del Mondo, potesse irritare Nietzsche, votato com’è a individuare nell’esperienza artistica il culmine di una contemplazione che è, anzitutto, liberazione – per quanto momentanea – dalla vita e dai suoi tormenti, preludio di una più duratura estasi antivitale che solo l’ascesi (la “santità” cristiana o buddhista: l’unio mystica e il nirvana) può offrire. Non v’è dubbio che, per Schopenhauer, l’artista stia dalla parte dell’asceta e del santo, cioè dei grandi negatori dell’esistenza, e non abbia nulla del dionisiaco nietzscheano, per cui l’arte è, all’estremo opposto, liberazione della vita e delle sue incontenibili energie plastiche. Insomma: nello schema di Nietzsche il tipo umano Schopenhauer, a sua volta identificato con il prete asceta, si oppone diametralmente sia al tipo umano del «guerriero aristocratico» (il dominatore capace di un agire forte, libero, gioioso, per cui vale l’equazione buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dèi, cfr. GM I 7), sia al tipo umano dell’«artista dionisiaco» (che è potenza creatrice, liberazione simbolica, menzogna santificante, volontà di maschera), di cui costituisce la malattia: «Il prete asceta ha guastato la salute dell’anima» (GM III 22). L’ideale ascetico non può essere quindi di alcuna utilità per una filosofia che si intende come diretta incarnazione dell’ideale aristocratico e dell’ideale estetico.
2. Il prete asceta di Nietzsche e il santo di Schopenhauer Quando si parla di fisiognomica di un “tipo umano” è corrente l’obiezione secondo cui il fisionomo, identificando il tipo, altro
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non farebbe in realtà che produrne una “semiotica”, ovvero una struttura almeno parzialmente arbitraria di segni frutto non già di interpretazione dell’espressione oggettiva, bensì di una proiezione empatica di idee o codificazioni preconcette nell’oggetto preventivamente svuotato del suo senso proprio. Il tipo non verrebbe tanto conosciuto ex novo, quanto ri-conosciuto. Si potrebbe obiettare, quindi, che in Nietzsche il tipo Schopenhauer (come il tipo Socrate) sia solo il frutto di una forzatura interpretativa a uso e consumo della contrapposizione strategica tra prete asceta, da un lato, guerriero aristocratico e artista dionisiaco dall’altro. In realtà in gran parte non è così, e non è questo che vogliamo sostenere. Non v’è dubbio infatti che tra la figura del prete asceta in Nietzsche e quella del santo in Schopenhauer le affinità siano patenti. Ecco in sintesi le più importanti: a) Negazione della vita. Per Nietzsche nell’ascesi «la vita ha valore di un ponte per quell’altra esistenza. L’asceta tratta la vita come un cammino sbagliato, (...) ovvero come un errore che si confuta – si deve confutare» (GM III 11). Un’idea basilare che ricorre alla lettera nel Mondo: «Non v’è dubbio che l’esistenza debba essere considerata come un errore, la liberazione dal quale è la redenzione (...). La vita, per sua costituzione, porta il carattere di qualcosa, di cui dobbiamo perdere il gusto e di cui dobbiamo liberarci come di un errore» (WWV II: 1529 e 1568)2. Perciò i sentimenti del prete asceta sono nausea, stanchezza, tedio, vendetta, rancore, ressentiment contro la vita, e l’unica meta perseguibile gli appare una redenzione che si dà fuori dalla vita: i «santi», per Nietzsche, trovano «la loro quiete nel nulla (“Dio”)» (GM III 1), proprio come scrive Schopenhauer alla fine del IV libro del Mondo: Con la volontà svanisce anche il mondo e non ci resta davanti che il nulla. È bene, dunque, che si meditino la vita e gli atti dei santi (...). Quel nulla che si delinea quale meta finale al di là della santità e della virtù. (WWV I: 575) 2 Nel corso del testo sono state adottate le seguenti abbreviazioni per le opere di Schopenhauer: WWV I = Il mondo come volontà e rappresentazione; WWV II = Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione” (trad. it. Schopenhauer 1859/2003).
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Ed è più che legittima, qui, la critica di Nietzsche alla voluntas di noluntas di Schopenhauer, ovvero al fatto che il santo schopenhaueriano – contraddittoriamente – «preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere» (GM III 1 e 28), in tal modo esaltando e portando all’estremo proprio quella volontà che crede di annullare, trasformando il Wille zum Nichts pur sempre in Wille zur Macht: Una vita ascetica è un’autocontraddizione: domina qui un ressentiment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni (...). Tutto ciò è paradossale in sommo grado. (GM III 11)
b) Rifiuto di sé. Per Nietzsche la vita ascetica è espiazione volontaria, autorinuncia, flagellazione, olocausto di se stessi; chi pratica l’ascesi degrada la sua corporeità a illusione, ricusa fede al proprio io, nega a se stesso la propria realtà (cfr. GM III 12): Se possibile, più nessuna volontà, nessun desiderio; evitare tutto quanto crea passione, fa «sangue» (...); non amare; non odiare; imperturbabilità; non vendicarsi; non arricchirsi; non lavorare; mendicare; possibilmente nessuna donna o meno donne possibile (...). Risultato, in termini psicologico-morali, «rifiuto di sé», «santificazione». (GM III 17)
È appena il caso di ricordare – talmente noti sono questi passaggi – che in Schopenhauer la via dell’ascesi, dunque della redenzione, passa esattamente attraverso un graduale rifiuto di sé che ha nella mortificazione del corpo la conditio sine qua non della santificazione: [L’asceta] non permette che si riaccenda in lui l’ardore né della collera né del desiderio, e mortifica, al pari della volontà, anche la sua oggettivazione visibile, il corpo (...). Pratica il digiuno, la macerazione; giunge a flagellare la propria carne (...). Con il termine ascesi intendo, in senso stretto, quell’annientamento intenzionale della volontà, che si ottiene rinunciando ai piaceri e andando in cerca delle sofferenze, cioè la pratica volontaria di una vita di penitenza e di macerazioni, vissuta in vista di una costante mortificazione del volere. (WWV I: 536 e 548)
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Ed è giustissima qui la critica dialettico-negativa cui Nietzsche, da psichiatra – al seguito di La Rochefoucauld e in anticipo su Freud – sottopone le virtù ascetiche scaturite dalla “rimozione” del corpo, degli istinti, dei bisogni e delle passioni: Ogni volta che il prete asceta ha attuato questo trattamento [tormenti espiatori, contrizioni e spasimi di redenzione] (...), sempre lo stato morboso è cresciuto con sinistra prontezza in profondità e in estensione. Quale è sempre stato l’«esito»? Un sistema nervoso sconquassato, in aggiunta a ciò che già prima era malato. (GM III 21)
In quanto rimozione e repressione degli istinti vitali il training di penitenza e redenzione ottiene una guarigione che è peggiore della malattia: manifestazioni epilettiche, paralisi e depressioni croniche, isterismo, deliri di morte, ecc. – dove insomma il culto sublimamente morale dell’ideale ascetico si svela essere nient’altro che una forma patologica di nevrosi religiosa … c) Contemplazione, conversione, compassione. Per Nietzsche, oltre a essere puro, senza volontà, atemporale soggetto della conoscenza contemplativa avulsa dal corpo e dalle sue passioni – il che lo assimila all’artista del III libro del Mondo («Colui che è rapito in tale contemplazione» scrive Schopenhauer «non è più individuo [l’individuo è annientato dalla contemplazione], ma assurge a soggetto conoscente puro, a soggetto che è di là dal dolore, di là dalla volontà, di là dal tempo», WWV I 264) –, il prete asceta «è il desiderio, fatto carne, di un essere-in-altro-modo, di un essere-in-altro-luogo» (GM III 13), incarna cioè quell’ideale della conversione via-da-sé, via-dal-mondo, via-dalla-vita che viene ampiamente tematizzato da Schopenhauer, per il quale l’uomo virtuoso perviene ad uno stato di volontaria rinunzia, di rassegnazione, di perfetta quiete e di soppressione completa del volere (...). La sua volontà cambia direzione: non afferma più la propria essenza specchiantesi nel fenomeno [il sé, il mondo, il corpo, la vita – n.d.t.]; la nega. Il fenomeno in cui si manifesta questo cambiamento di direzione è il passaggio dalla virtù all’ascesi. (WWV I: 532-533)
E anche qui Nietzsche coglie nel segno quando denuncia nei
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sentimenti perversi di colpa, peccato, peccaminosità, pervertimento, dannazione, timore, castigo le molle ultime sia della sofferenza, sia del desiderio di redenzione dell’asceta (cfr. GM III 16 e 20). Schopenhauer stesso ammette che la grande verità, la redeeming feature (cfr. WWV II: 1529) della soteriologia ebraico-cristiana e orientale sta nel concetto di colpa, ovvero di «peccato originale»: Il nostro unico vero peccato è, di fatto, il peccato originale (...). L’intimo nucleo e lo spirito profondo del cristianesimo sono identici a quelli del brahmanesimo e del buddhismo: tutti e tre insegnano che il genere umano porta su di sé una grave colpa per il fatto stesso di esistere (...). L’esistenza stessa dell’uomo è (...) identica alla caduta nel peccato. (WWV II: 1527)
Infine, la compassione, il Mit-Leid, la pietas e la caritas, tutti concetti celeberrimi sviluppati da Schopenhauer nel IV libro del Mondo e nel Fondamento della morale, costituenti la chiave di volta della sua metafisica etica, che consentono a Nietzsche sia, da un lato, di identificare correttamente il prete asceta con l’uomo della «grande compassione per l’uomo» (GM III 14), uomo buono, dunque morale, in quanto fondamentalmente altruistico, non egoistico, non affermativo – sia, dall’altro, di denunciare (come già nello Zarathustra) il meccanismo perverso per cui l’amore compassionevole per il prossimo si svela in realtà essere frutto dell’egoismo e «dell’istinto più forte e maggiormente affermatore di vita», cioè della volontà di potenza di colui che, nella pietas, non fa che affermare la propria superiorità e il proprio dominio sull’oggetto del Mit-Leid (cfr. GM III 18). Alla luce di questi sia pur succinti riscontri è impossibile sostenere che la fisiognomica nietzscheana del tipo umano Schopenhauer-prete asceta sia ingannevole: tutte le virtù e le pratiche ascetiche elencate, infatti, identificano «sportsmen della santità» (GM III 17) i cui modelli estremi sono in Nietzsche, come analogamente in Schopenhauer (cfr. WWV I: 530-557), i mistici cristiani, buddhisti e brahmanici, gli esicasti del Monte Athos, Santa Teresa d’Avila, il Perfetto, il Buddha, il credente
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del Vedanta, tutti accomunati dalla ricerca di uno stato supremo di liberazione/redenzione (dalla vita, oltre la vita) che è “ipnosi totale”, estasi, quiete e mistero. Le parole con cui Nietzsche, nella Genealogia, riassume il quadro soteriologico in cui l’ascesi perviene al suo culmine sembrano tratte direttamente dalle ultime pagine del IV libro del Mondo: redenzione è «essere una cosa sola con il Brahman, (...) un internarsi nel Brahman, (...) una raggiunta unio mystica con Dio. (...) Il nulla, in tutte le religioni pessimistiche, è chiamato Dio» (GM III 17). Il bene supremo, il positivo stesso, il valore dei valori è identificato con «l’ipnotico senso del nulla, la quiete del sonno profondissimo, insomma l’assenza di dolore» (ibidem), che costituisce l’unica salvezza possibile dei “radicalmente stanchi e scontenti” della vita, la cui anima «si solleva uscendo da questo corpo, [entrando] nell’altissima luce» (ibidem). Soprattutto, è bene ribadirlo, tale salvezza estatico-ipnotica presuppone per Nietzsche il raggiungimento, tramite le virtù e le pratiche ascetiche, di una forma di impersonalità, di rinuncia a sé e di oblio di sé, insomma di una «incuria sui» (GM III 18), che è la condizione stessa dell’unio mystica – proprio come scrive Schopenhauer in un passo canonico: La salvezza è qualcosa di assolutamente estraneo alla nostra personalità; sua condizione necessaria è anzi proprio la negazione, la soppressione della individualità personale (WWV I: 570).
Riassumendo: per Nietzsche negazione della vita, rifiuto di sé e della personalità, contemplazione, conversione, compassione, incuria sui e redenzione come ipnosi totale e unio mystica sono i tratti fisiognomici, affatto “schopenhaueriani”, di un prete asceta che ha «guastato la salute dell’anima» della sua epoca, dando vita a un uomo addomesticato, indebolito, avvilito, raffinato, infrollito, svirilizzato, danneggiato, malato, malcontento, depresso (cfr. GM III 21). In quanto nemico sia dell’ideale aristocratico del “guerriero”, sia dell’ideale estetico dell’“artista”, l’ideale ascetico alla Schopenhauer sarebbe dunque il grande nemico della filosofia e del pensiero, che ne subiscono il danno e non ne hanno alcuna utilità.
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3. Ascesi cristiana e askesis greca nella Genealogia della morale Se si arrestasse qui, una lettura della terza dissertazione della Genealogia non porterebbe nulla di nuovo e si limiterebbe ad alimentare la vulgata dell’odio di Nietzsche per gli ideali ascetici e, quindi, per il “prete” Schopenhauer. Si pongono tuttavia alcune domande: a) esiste nel Nietzsche della Genealogia un’accezione (almeno tendenzialmente) positiva dell’ideale ascetico, in cui esso sia al servizio della salute dell’anima, quindi sia utile alla filosofia? b) È corretto rinchiudere l’intera filosofia di Schopenhauer nella gabbia soteriologica culminante nella figura del prete-santo asceta e nell’ascesi mistica cristiana e buddhista? c) Una eventuale accezione positiva dell’ideale ascetico sarebbe anch’essa in contrapposizione con l’ideale aristocratico (il “guerriero” della filosofia) e con l’ideale estetico (l’“artista” della filosofia)? Quanto alla prima questione è Nietzsche stesso a metterci la classica pulce nell’orecchio. Scrive infatti: Il prete asceta ripone [nell’ideale ascetico] non soltanto la sua fede, bensì anche la sua volontà, la sua potenza, il suo interesse. Con quell’ideale si erige e cade il suo diritto all’esistenza: c’è da stupirsi se ci imbattiamo qui in un tremendo avversario, una volta ammesso che noi fossimo gli avversari di questo ideale? (GM III 11, c.n.)
E altrove: Tutto il mio rispetto per l’ideale ascetico, sempreché esso sia onesto! fintanto crede a se stesso e non ci vien fuori con delle frottole! (GM III 26, c.n.)
Infine: L’ideale ascetico continua sempre a avere, per il momento, un’unica specie di reali nemici e danneggiatori: sono i commedianti di questo ideale – essi infatti suscitano diffidenza (GM III 27, c.n.)
Senza poter approfondire qui l’aspetto “da commediante” e
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“disonesto” dell’ideale ascetico che Nietzsche riferisce senz’altro a Wagner (non a Schopenhauer), è bene ricordare – come altrove si è fatto (cfr. Gurisatti: 2013a) – che nello Zarathustra il “mago” Wagner (il “commediante”, appunto) non è un tipo umano opposto-esterno a Zarathustra, bensì ne costituisce quell’alter ego parodistico e patologico, quel rovescio grottesco e deteriore interno che, purtuttavia, ne contiene, ex negativo, un elemento di verità e di salute. Quindi, anche l’ideale ascetico storpiato dal commediante deve avere una sua verità, la quale non suscita necessariamente avversione e ostilità, bensì “rispetto” nel filosofo, come Nietzsche stesso sembra ammettere. Emerge insomma qui tra le righe (ma nemmeno troppo) un’altra accezione dell’ascesi, assai più compatibile con la pratica della filosofia, e più simile all’askesis greca che alla mistica cristiana-buddhista sopra descritta. Ai tipi umani del prete asceta (rinunciatario e volto alla redenzione), dell’aristocratico guerriero (affermativo e volto alla potenza) e dell’artista dionisiaco (creativo e volto alla liberazione) se ne potrebbe quindi aggiungere un quarto, quello del filosofo saggio (meditativo e volto alla cura sui). Scrive infatti Nietzsche: Nei filosofi e nei dotti [gli ideali ascetici significano] una specie di fiuto e d’istinto per le più favorevoli condizioni preliminari di una elevata spiritualità. (GM III 1, c.n.) Esiste una particolare prevenzione dei filosofi a favore dell’intero ideale ascetico, una loro predilezione (GM III 7, c.n.)
Si tratta, come si vede, di tracce importanti circa un connubio positivo, utile e salutare tra ideale ascetico, elevata spiritualità e filosofia, che Nietzsche sviluppa in GM III 7-10, significativamente prima che, a partire da GM III 11, con una svolta argomentativa, il “prete ascetico” prenda definitivamente il sopravvento sul “filosofo saggio” (filosofo asketico) nell’intero svolgimento del testo. Benché sfumata e non tematizzata in sé, questa dimensione dell’askesis filosofica va ascoltata con attenzione, dato che la sua apparente somiglianza strutturale con la dimensione dell’ascesi mistica nasconde in realtà una profonda differenza concettuale
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tra le due prospettive. In nuce non v’è nulla di più distante del filosofo/saggio dal prete/santo. Sta di fatto che per Nietzsche il “tipo del filosofo” (cfr. GM III 7) incarna un ideale asketico la cui positività stride nettamente con gli anatemi scagliati contro l’ideale ascetico del “tipo del prete”: Che cosa significa l’ideale ascetico in un filosofo? Come si sarà indovinato da un pezzo, – è questa la mia risposta: alla sua vista sorride il filosofo, come di fronte a un optimum delle condizioni di suprema e arditissima spiritualità [c.n.] – e con ciò non nega l’“esistenza”, sibbene afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esistenza. (GM III 7) Un certo ascetismo, (...) una dura e serena rinuncia spontaneamente voluta appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità [c.n.], come pure alle sue più naturali conseguenze: così fin dall’inizio non ci sarà da stupirsi se l’ideale ascetico non è mai stato trattato dai filosofi senza qualche prevenzione favorevole. In una seria verifica storica il nesso tra ideale ascetico e filosofia risulta persino ancor più stretto e rigoroso [c.n.]. (GM III 9)
Più volte nella Genealogia Nietzsche ribadisce che l’ideale ascetico, anziché esserne la dannazione, è la “condizione” stessa della filosofia (come spiritualità e prassi vitale, non come tecnica e sapere disciplinare), per poi sottolineare il “nesso stretto e rigoroso tra ideale ascetico e filosofia”, dove però – e questo è il punto – la dura e serena disciplina ascetica del filosofo non nega affatto la vita e l’esistenza, ma, all’opposto, è al servizio della vita e dell’esistenza, è, insomma, askesis, cura sui, estetica dell’esistenza. L’askesis, infatti, è sì esercizio, disciplina, rigore e stile di vita, cultura, cura e pratica di sé, però non mira a una redenzione trascendente la vita, ma a una condizione di felicità, ovvero di indipendenza e di libertà dentro la vita; non mortifica il corpo, ma lo governa – lo esercita – con il rigore del training, facendone un medium psico-fisico di spiritualità; non ambisce all’unio mystica o al nirvana, ma a un’ataraxia e a un’autarkeia cha danno salute, serenità e autogoverno; non persegue la rinuncia a sé e alla personalità, ma la conquista e la costituzione di sé, secondo il motto “diventa ciò che sei”, che non si addice al prete asceta, ma è la
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principale regola di vita del filosofo saggio. GM III 8 parla la lingua dell’askesis greco-romana, non dell’ascesi cristiana, del filosofo saggio, non del prete asceta, ponendosi in una prospettiva affatto eudemonologica, non soteriologica. I filosofi che praticano l’ideale ascetico, scrive infatti Nietzsche, «pensano a sé – che importa loro “il sacro”!». Così però si ribalta tutto, poiché mentre al santo/asceta importa solo il sacro (la conversione via-da-sé, via-dal-mondo verso l’Altro), al saggio/ filosofo importa solo il sé (la conversione verso-di-sé, dentro-ilmondo, verso lo Stesso). Ecco che allora l’ascesi, anziché malattia cristiana che guasta la salute dell’anima – quindi della filosofia – diventa viceversa salute greco-romana che è condizione imprescindibile del sano filosofare: Libertà da costrizione, molestia, frastuono, da affari, doveri, cure; chiarezza in testa; danza, balzo e volo dei pensieri; un’aria buona, (...) come lo è l’aria sulle cime, dove ogni essere animale diventa più spirituale e mette le ali; tranquillità in tutti i sotterranei; tutti i cani messi per benino a catena; (...) nessun verme roditore di ambizione ferita; viscere umili e sottomesse (...); estraneo il cuore (GM III 8)
Come si vede, in questo breve elenco delle condizioni psicofisiche, offerte dall’askesis, del sano filosofare – anzitutto la libertà e l’indipendenza dalle costrizioni imposte dal mondo, dal corpo e dalle passioni – non v’è niente che ricordi la negatività, la nausea, il tedio di se stessi, la rinuncia e la volontà rancorosa del nulla connesse, per Nietzsche, all’ideale ascetico cristiano. Al contrario, giacché i filosofi greco-ellenistici, nell’ideale ascetico, vedono non un limite e un danno, bensì una meta e un’utilità per la filosofia, pensano cioè «al sereno ascetismo di un animale divinizzato e divenuto alato, il quale, più che starsene quieto, volteggia al di sopra della vita» (ibidem). Questo ascetismo sereno del saggio, all’apparenza così simile, ma in realtà diametralmente opposto all’ascetismo risentito del prete, è la chiave di volta dell’askesis, il che implica un’altra distinzione fondamentale presente nella Genealogia: mentre infatti nella prospettiva soteriologica «le tre pompose parole dell’ideale ascetico: povertà, umiltà,
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castità» (ibidem) nominano altrettante virtù morali, cioè un codice di norme cui il prete asceta deve saper ubbidire per negare la vita, rinunciare a sé (al proprio corpo, ecc.) e perseguire la redenzione, nella prospettiva della saggezza le stesse parole nominano invece soltanto regole pratiche, massime di saggezza e cura di sé che il filosofo deve assimilare, metabolizzare e praticare per agire nella vita, governare se stesso (il proprio corpo, ecc.) e perseguire la tranquillitas animi che prelude al sano filosofare. In questo senso “asketico” povertà, umiltà e castità saranno sempre presenti, fino a un certo punto, nella «vita di tutti i grandi, fecondi, ingegnosi spiriti», [e] niente affatto – cosa che va da sé – come se fossero, caso mai, le loro “virtù”, – che cos’ha a che fare questa specie di uomini con le virtù! – sibbene come le condizioni più peculiari e più naturali della loro migliore esistenza, della loro più bella fecondità. (ibidem)
L’enfasi scritturale di Nietzsche esalta la crucialità del momento – e a dire il vero queste parole contengono la legittimazione di un’ars vivendi e di una epimeleia heautou che, praticate da un’aristocrazia dello spirito, hanno un unico fine: non la trascendenza ma l’est-etica dell’esistenza. Non in quanto virtù trascendenti ma in quanto regole pratiche immanenti di una tale est-etica, povertà, umiltà e castità sono modi non per sottrarsi all’esistenza, ma per darle una (bella) forma, e sono espressione non di una rinuncia a sé, ma del raggiunto dominio di sé su di sé: è la «spiritualità dominatrice» del filosofo, non la sua rinuncia alla vita, a dover prima di tutto «porre le briglie a un’indomabile ed eccitabile superbia o a una proterva sensualità» (ibidem). Il filosofo sarà dunque povero, poiché il deserto, la solitudine, la quiete, il silenzio, ecc., sono tipici degli «spiriti forti e indipendenti per natura» – ma in ciò «non v’è affatto “virtù”» (ibidem); sarà umile, poiché la riservatezza, la moderazione, la semplicità, il parlare basso, il rifiuto della gloria e della ribalta sono indice di una «suprema signoria» su se stessi – ma non sono virtuose (cfr. ibidem); infine, sarà casto, ma in senso opposto a quello che il codice della virtù impone al prete asceta:
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Non c’è qui nulla di una castità dovuta a un qualche ascetico scrupolo o odio per i sensi [c.n.], come c’è ben poca castità quando un atleta o un fantino si astiene dalle donne: è invece il loro istinto dominante (...) a esigere questo. Ogni artista sa come l’atto sessuale abbia, negli stati di grande tensione e preparazione spirituale, ripercussioni dannose. (ibidem)
Nietzsche definisce i preti asceti «sportsmen della ‘santità’», che si sottopongono a un training il cui esito sono il rifiuto di sé e la santificazione. In questo caso però la situazione è opposta: nella vita del filosofo saggio – qui opportunamente accomunato non all’anacoreta e al cenobita, ma all’atleta (Athlet), al fantino (Jockey) e all’artista da circo (Artist), che rappresentano la versione per così dire sportiva dell’askesis – vi sono bensì esercizio, disciplina, training (il gymnazein greco), astinenze e diete (diaita, in greco, significa anzitutto regime, disciplina, comportamento metodico, modo di vivere); tuttavia nel suo contesto atleticosportivo sacrifici, privazioni, rinunce non mirano all’abbandono di sé, ma alla conquista, alla costituzione, alla trasformazione, al rafforzamento e all’equipaggiamento (paraskeue) di sé. La funzione dell’askesis è etopoietica: per suo tramite ci si costituisce come soggetto etico, ma al tempo stesso come soggetto di carattere (ethos) – come Sé – e solo questo soggetto può legittimamente praticare la filosofia. Nietzsche nella Genealogia non esplicita nulla di tutto ciò, però afferma che «i singoli impulsi e le singole virtù del filosofo», vale a dire quel certo ascetismo, inteso come dura e serena rinuncia spontaneamente voluta, che è condizione favorevole di un’altissima spiritualità (cfr. GM III 9), rappresentano una fase storico-culturale precedente e opposta a quella in cui – con il cristianesimo – si assiste alla nascita dell’ideale ascetico propriamente detto. Scrive infatti: Non si è già ben compreso che tutti insieme questi impulsi e queste virtù per lunghissimo tempo procedevano in senso opposto alle prime esigenze della morale e della coscienza? (ibidem, c.n.)
GM III 10 prelude al definitivo passaggio – storico e argomen-
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tativo – dall’askesis antica all’ascesi cristiana, vale a dire dall’ideale ascetico praticato da filosofi “assetati di potenza e fiduciosi in se stessi” all’ideale ascetico praticato da preti “negatori della vita e risentiti contro se stessi”, ideale che a partire da GM III 11 catalizza – come più sopra illustrato – la riflessione critica nietzscheana sul tipo umano del prete asceta-Schopenhauer. Si passa cioè da una situazione in cui l’ideale ascetico è visto come condizione di possibilità della sana filosofia: per lungo tempo l’ideale ascetico è servito al filosofo come forma fenomenica, come presupposto esistenziale – costui dovette rappresentarlo, per poter essere filosofo, dovette credere in esso, per poterlo rappresentare (...). Per lunghissimo tempo la filosofia non sarebbe stata per nulla possibile sulla terra senza un involucro e un rivestimento ascetico. (GM III 10)
a una situazione in cui il medesimo ideale, tradotto nei termini del misticismo e del moralismo cristiani, è visto come il principale ostacolo per una filosofia che ha nel guerriero dominatore (= ideale aristocratico) e nell’artista dionisiaco (= ideale estetico) i suoi “tipi”. È per questo che Nietzsche – riprendendo il filo conduttore della dissertazione – conclude che il prete ascetico ha costituito, fino ai nostri tempi, la ripugnante e cupa forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere e si mosse tortuosamente strisciando. (ibidem)
Si potrebbe dire che, nell’ottica di Nietzsche, il tipo umano del prete asceta rappresenti la versione parodistica, degradata e decadente – coscienziosa e moraleggiante – del tipo umano del filosofo asketa, in quanto la sua ascesi è ormai ancilla virtutis e non ancilla sapientiae. Nella Genealogia emerge l’idea che i guasti e le perversioni della “salute dell’anima” dovuti all’ideale ascetico siano da ricollegarsi al passaggio epocale dal «pieno splendore greco-romano» al periodo in cui «agitatori cristiani chiamati Padri della Chiesa» iniziarono a diffondere e a imporre il Nuovo Testamento (cfr. GM III 22). È per questo che la beffarda stroncatura nietzscheana, in parte autocontraddittoria, del
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rapporto produttivo tra ideale ascetico e filosofia nella Genalogia non deve far dimenticare né i positivi apprezzamenti dell’askesis da noi evidenziati, né tantomeno la differenza sostanziale e concettuale tra una filosofia praticata dal tipo umano del filosofo saggio e una filosofia praticata dal tipo umano del prete asceta, poiché se è escluso che questo secondo tipo sia conciliabile con quelli del guerriero aristocratico e dell’artista dionisiaco, non è affatto detto che ciò avvenga – come vedremo più sotto – anche nel caso specifico del filosofo saggio. Sta di fatto che, per quanto preponderante nella Genealogia, la critica di Nietzsche all’ideale ascetico soteriologico, morale-virtuoso, del prete-Schopenhauer, non può in nessun caso oscurare del tutto – a prescindere dalla logica polemica dell’argomentazione – la sua considerazione dell’ideale ascetico eudemonologico, pratico-esistenziale, del filosofo-saggio, le cui tracce – da noi certo interpretate con qualche forzatura – per quanto sfumate, non meritano di essere cancellate in mero omaggio a una tradizione interpretativa consolidata.
4. Excursus: come il filosofo diventa ciò che è L’idea, che emerge tra le righe della Genealogia della morale, secondo cui un certo tipo di ideale ascetico – inteso come askesis – è non solo perfettamente compatibile con lo sviluppo di una sana filosofia, ma ne è anzi la condizione pratica di possibilità, trova conferma, et pour cause, in quella straordinaria autobiografia filosofica di Nietzsche che è Ecce homo, redatta un anno dopo (1888) la pubblicazione della Genealogia e recante nel suo motto «Come si diventa ciò che si è» il rinvio al celebre monito pindarico di ogni possibile saggezza: «Diventa ciò che sei!»3. Si tratta quindi di un testo prettamente “eudemonologico”, il cui estensore, secondo la migliore tradizione sapienziale, prendendo 3 Già nel 1881 Nietzsche annota: «Continua sempre a divenire ciò che tu sei – educatore e plasmatore di te stesso!» (NF 1881, 11[106]).
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spunto dalla sua personale ars vivendi («mi racconterò la mia vita», EH, Perché sono così saggio 1), ci informa non solo circa le modalità della sua saggezza (Weisheit) e accortezza (Klugheit) – due termini chiave di ogni dimensione pratica della filosofia –, ma anche del perché esse abbiano costituito, appunto, la condizione di possibilità della sua capacità di scrivere “buoni libri”, ossia di essere un “buono-e-sano” filosofo. Lo sparso puzzle di tracce asketiche presenti nella Genealogia trova quindi in Ecce homo – e dove altrimenti? – una sia pur precaria sistemazione. A mero titolo esemplificativo ne sintetizziamo alcuni passaggi, utili a illustrare il positivo connubio tra ideale ascetico come askesis e filosofia: a) Ecce homo è la cronaca di una epimeleia heautou, una cura sui il cui protagonista, con rigore, disciplina, costrizione ed esercizio, “prende per mano se stesso e si guarisce da solo” (cfr. EH, Perché sono così saggio 2), trasformando per autorisanamento la malattia in salute: «Avevo tratto la mia filosofia dalla mia stessa volontà di salute, di vita …» (ibidem). Al tempo stesso, Ecce homo è la cronaca di un’ars vivendi e di una estetica dell’esistenza il cui esito è ein wohlgerathner Mensch, un «uomo benriuscito» (ibidem), un uomo che, dunque, ha acquisito autopoieticamente una bella forma; b) per ottenere tale risultato il protagonista ha assimilato, metabolizzato, cioè esistenzialmente praticato alcune elementari regole di vita, che si ritrovano ovunque nella millenaria tradizione degli esercizi spirituali della saggezza: 1. l’esercizio della moderazione e dell’autocontrollo («il suo piacere, il suo desiderio, cessano appena si supera la misura del conveniente» [ibidem]; «non si è mai sforzato di avere onori, donne, denaro!» [EH, Perché sono così accorto 9]; «invano si cercherebbe nel mio essere un tratto di fanatismo. In nessun momento della mia vita si può riscontrare un comportamento arrogante o patetico. Il pathos dell’atteggiamento non appartiene alla grandezza» [EH, Perché sono così accorto 10]); 2. l’esercizio della serenità e del buon umore («[nessuno] avrà
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certo notato in me un qualunque segno di tensione, ma anzi una freschezza e una serenità traboccanti (...). Una minima costrizione, l’aspetto cupo, una certa durezza nella voce, sono tutti argomenti contro un uomo, e tanto più contro la sua opera! … Non è lecito avere i nervi…» [ibidem]; «Bisogna non avere i nervi, bisogna avere un ventre gaio (...), bisogna avere la durezza fra le proprie abitudini, per essere di buon umore e sereni in mezzo a nient’altro che a dure verità» [EH, Perché scrivo libri così buoni 3]); 3. l’esercizio della resilienza, che implica il ribaltamento della malattia su se stessa, dello choc in chance («trae vantaggio dalle disavventure; ciò che non lo uccide lo rafforza» [EH, Perché sono così saggio 2]); 4. l’esercizio del distacco, o del non-attaccamento («[egli] è un principio di selezione, lascia cadere molte cose» [ibidem]); 5. l’esercizio della solitudine («si trova sempre in compagnia di se stesso» [ibidem]; «[ha] bisogno di solitudine, voglio dire di guarigione, di tornare a [se] stesso, di respirare il soffio di un’aria libera» [EH, Perché sono così saggio 8); 6. l’esercizio della prudenza e della cautela («reagisce lentamente agli stimoli, di qualsiasi genere siano (...) – saggia lo stimolo che arriva, è ben lontano dal volergli andare incontro» [EH, Perché sono così saggio 2]); 7. l’esercizio dell’autoconfessione e dell’autoconsapevolezza («non crede né alla “disgrazia”, né alla “colpa”: sa chiudere i conti con se stesso» [ibidem]); 8. l’esercizio del dominio di sé e dell’autocontrollo di fronte alle offese («ogni volta che una piccola o una grandissima sciocchezza viene commessa contro di me, io mi proibisco qualsiasi rappresaglia» [EH, Perché sono così saggio 5]; «Un’altra accortezza nell’autodifesa è quella di reagire il più raramente possibile …» [EH, Perché sono così accorto 8]); 9. l’esercizio della coerenza e della integrità con se stessi («una estrema integrità con me stesso è il presupposto della mia esistenza» [EH, Perché sono così saggio 8]); 10. l’esercizio dell’amor fati («la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati (...). Non solo sopportare, e tantomeno
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dissimulare, il necessario – tutto l’idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario – ma amarlo …» [EH, Perché sono così accorto 10]). Da Epicuro e Zenone a Seneca, da Marco Aurelio a Gracián e Montaigne, da Epitteto a Schopenhauer (come vedremo) a Leopardi e ai moralisti francesi – sempre la saggezza (e la filosofia) pratica parla questa lingua “ascetica” … c) Soprattutto, per ottenere salute, bella forma, buona filosofia, il filosofo deve “mettere per benino tutti i cani a catena”, cioè non già rimuovere, reprimere e soggiogare, bensì governare saggiamente le passioni, anzitutto quelle (gelosia, invidia, vanità, ambizione, orgoglio, iracondia, vendetta, rancore, ecc.) che generano ressentiment, il peggior nemico della enkrateia, della autarkeia e della ataraxia del filosofo. Questa la massima sapienziale di Nietzsche: Nulla fa bruciare tanto rapidamente quanto le passioni del ressentiment. La furia, la vulnerabilità morbosa, il desiderio, la sete impotente di vendetta (...) – questa è sicuramente la maniera più dannosa di reagire per chi non ha più forze: ne conseguono un rapido consumo di energia nervosa, un aumento anormale di secrezioni nocive, per esempio con versamenti di bile nello stomaco. (EH, Perché sono così saggio 6)
Vittoria sul ressentiment, liberazione dell’anima dal ressentiment, questo è il «primo passo verso la guarigione» (ibidem) – un passo, si badi, non già morale ma fisiologico, che cioè non guarda alla virtù morale ma alla prassi vitale, giacché il ressentiment «non è dannoso a nessuno quanto al risentito stesso», e, soprattutto, nelle nature forti «è un sentimento superfluo, un sentimento da dominare, e saperlo dominare è quasi la prova della propria ricchezza» (ibidem). Così non parla un prete asceta, bensì un aristocratico, anzi un guerriero dello spirito, un «filosofo guerresco» (EH, Perché sono così saggio 7), il cui pathos aggressivo, nel fare filosofia, è segno di forza proprio perché non contiene un sol grammo di quel sentimento di rancore e di vendetta che è, viceversa, segno di debolezza, e che solo un’askesis ben meditata è in grado di
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governare e tenere sotto controllo: «Se si disprezza, non si può fare guerra» (ibidem), scrive Nietzsche parlando di sé, e indicando così, in base alla propria diretta esperienza di filosofo, un chiaro elemento di necessaria compatibilità tra il governo di sé del filosofo-saggio e l’ars polemica del filosofo-guerriero, maestro d’armi (filosofiche) in quanto maestro di sé. Solo il guerriero che esercita l’askesis può aggredire senza ressentiment ed essere, così, tanto più forte, vincente e sovrano nei confronti del proprio avversario: «Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l’opposto di uno spirito negatore» (EH, Perché io sono un destino 1). d) Tuttavia, questi esercizi strettamente spirituali – eseguiti con la mente – non esauriscono la cura sui del filosofo, giacché a essere protagonista nell’askesis è anche il corpo, non già il corpo rimosso e represso, mortificato dalla virtù morale, del prete asceta, bensì il corpo governato e disciplinato, messo a regime dalla diaita del saggio: «Tu, come devi nutrirti, per raggiungere il tuo massimo di forza, di Virtù in senso rinascimentale, di virtù senza moralina?» (EH, Perché sono così accorto 1). Contro ogni “idealismo” nel pensiero, Ecce homo pone «il problema della alimentazione» al centro della filosofia, laddove non c’è salute dell’anima che non sia, al tempo stesso, salute del corpo. Si badi: i consigli dietetici e le massime di astinenza riportati in Ecce homo non hanno, nelle intenzioni di Nietzsche, nulla di metaforico, ma rivelano la sua profonda consapevolezza della unità psico-fisica che sta all’origine della sana filosofia: Un’inerzia anche lieve dell’intestino, diventata cattiva abitudine, è più che sufficiente a trasformare un genio in qualcosa di mediocre (...). Il ritmo del metabolismo è in preciso rapporto con la mobilità o fiacchezza dei piedi dello spirito; lo «spirito» è solo una specie particolare di questo metabolismo (EH, Perché sono così accorto 2).
Ma se lo spirito, oltre a uno stomaco, ha anche dei “piedi” (e non solo delle “ali”), per tenersi in forma dovrà camminare, muoversi, allenarsi, schiodare il «sedere di pietra» dalla sua seggiola: Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono
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nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini (EH, Perché sono così accorto 1).
Solo il «maledetto idealismo», insomma, può troncare la radice che la filosofia affonda nella dieta, nel training, nella scelta del clima e del luogo dove vivere, ecc., poiché tutto questo contribuisce a fare del corpo non l’ostacolo, ma il medium stesso del filosofare. Solo un corpo governato e messo a regime dall’askesis, infatti, può fornire al filosofo il fondamento psico-fisico adeguato al percorso biografico che lo conduce a “diventare ciò che è”, ovvero al supremo egoismo in cui il Sé incontra se stesso: l’idea individuale (il carattere dominante, archetipo o daimon) che organizza dall’interno tutta la sua vita, lentamente guida i passi indietro dalle deviazioni, dalle vie perdute, prepara qualità e capacità singolari (...) – elabora successivamente tutti i poteri subalterni, prima di far trapelare qualcosa del compito dominante, della «meta», del «fine», del «senso». (EH, Perché sono così accorto 9)
Se curata con saggezza, questa idea-daimon salta fuori un giorno all’improvviso, matura, nella sua massima perfezione, donando al filosofo non solo la sapienza, ma anche la felicità: «Vista da questa parte» scrive Nietzsche «la mia vita è semplicemente meravigliosa» (ibidem). Ciò che egli qui chiama sano egoismo, in quanto «arte dell’autoconservazione», «accortezza suprema» e rigorosa «autodisciplina» (ibidem), altro non è che la cura sui, contrapposta – pur nella somiglianza – alla incuria sui dell’ascesi “idealistica”, univocamente votata all’abbandono e all’annullamento del daimon personale. E non può esservi alcun dubbio circa l’estrema serietà filosofica con cui Nietzsche enuncia le regole della sua ars vivendi, cui attribuisce un ruolo epocale – dunque “tipico” – di trasvalutazione di tutti i valori correnti in filosofia: Queste piccole cose – alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo – sono inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante [c.n.]. Proprio da qui biso-
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gna cominciare a cambiare tutte le proprie nozioni. Quelle che finora l’umanità ha considerato cose serie, non sono neppure delle realtà, sono semplici prodotti della immaginazione, o più esattamente menzogne che derivano dai cattivi istinti di nature malate, dannose nel senso più profondo – tutti i concetti di «Dio», «anima», «virtù», «peccato», «al di là», «verità», «vita eterna» (...). Si è imparato a disprezzare le «piccole» cose, che sono poi le faccende fondamentali della vita … (EH, Perché sono così accorto 10)
Nulla più di questo passo – da noi appositamente riportato per intero – dimostra fino a che punto l’ipotesi di un rapporto positivo tra ideale ascetico (inteso come askesis) e filosofia, presente nella Genealogia della morale, trovi giustificazione e applicazione nell’esercizio della filosofia praticato da Nietzsche stesso e teorizzato (in forma di massime di saggezza) in Ecce homo, che ne costituisce la sedimentazione autobiografica. Altrettanto decisivo è il fatto che egli, contestando la mendacità idealistica dei concetti trascendenti derivati alla filosofia dal cristianesimo – tutto ciò che nella Genealogia si riassume nell’ideale ascetico –, sembra indicare in un rinnovato rapporto tra askesis e filosofia la via che essa deve riprendere – in termini epocali – per tornare a essere autenticamente se stessa, nella teoria come nella prassi. Ed è questa, di fatto, la conclusione parenetica di Ecce homo, per cui gli ideali ascetici sono inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – «santo» –, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita, i problemi dell’alimentazione, dell’abitare, della dieta spirituale, della cura dei malati, della pulizia, del tempo che fa! Invece della salute la «salvezza dell’anima» – cioè una folie circulaire fra le convulsioni della penitenza e l’isteria della redenzione! (EH, Perché io sono un destino 8)
Ancora cura contro incuria, dunque, askesis contro ascesi, salute contro salvezza, saggezza contro redenzione, estetica dell’esistenza contro morale, uomo bello e nobile, «fiero e benriuscito» (EH, Perché io sono un destino 8) contro uomo buono e virtuoso – però nel contempo fallito, malcontento, malriuscito, sciagurato, sofferente di sé (cfr. GM III 13).
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Ma, allora, se le cose stanno così, è evidente che per Nietzsche deve esserci un rapporto positivo tra ideale ascetico, ideale aristocratico e ideale estetico, cioè tra i tipi umani del filosofo saggio, del guerriero aristocratico e dell’artista dionisiaco – tanto più positivo quanto più negativo è quello che essi mantengono con il tipo umano del prete asceta analizzato nella Genealogia.
5. Schopenhauer: soltanto un prete asceta? A questo punto è opportuno affrontare, in estrema sintesi, la seconda delle questioni rimaste aperte, ovvero la liceità teorica e filologica della identificazione, preponderante nella Genealogia, del tipo umano Schopenhauer con il tipo umano del prete asceta, ovvero della sua filosofia con un’apologia tout court dell’ideale ascetico in senso soteriologico, mistico, cristiano e buddhista. Per quanto ci riguarda, l’angustia della prospettiva nietzscheana – perniciosissima per la successiva corretta ricezione di Schopenhauer – è evidente, come abbiamo tentato di dimostrare in una serie di lavori dedicati, appunto, al versante saggio e asketico, ellenistico-romano e neostoico della filosofia pratica schopenhaueriana, in cui la prospettiva soteriologica, senz’altro dominante, convive tuttavia con una prospettiva eudemonologica per nulla secondaria, che lascia le proprie tracce lungo tutta la riflessione di Schopenhauer, dai primi appunti giovanili fino alle tarde note dei Senilia4. Abituati dall’accattivante veemenza della scrittura di Nietzsche, nonché dalla sua capacità di costruire tipi umani ad hoc, a considerare quella di Schopenhauer una filosofia ruotante attorno all’unico pensiero della virtù morale, della redenzione e della salvezza, quindi all’ideale mistico e metafisico della santità intesa come arte del non vivere, noluntas e ascesi in quanto estrema rinuncia e drastico ripudio di sé e del mondo, abbiamo scordato che il prete asceta (il santo) di Schopenhauer trova il 4
Cfr. Gurisatti 2002; 2004; 2007; 2013b.
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suo pendant sistematico nel filosofo pratico (il saggio), il quale – in virtù di una valida ragione pratica – esercita e teorizza un’ars vivendi e una epimeleia heautou direttamente finalizzate alla conquista di sé come base di una solida serenità terrena e di una sana filosofia mondana. In realtà, proprio come accade nella Genealogia nietzscheana, ascesi e askesis, mistica e saggezza sono compresenti – con diverse accentuazioni – nella filosofia di Schopenhauer, e non è certo un caso che molte riflessioni parenetiche presenti nei suoi Aforismi sulla saggezza della vita trovino immediata corrispondenza in Ecce homo. Del resto, il giovane Nietzsche – quello della Terza considerazione inattuale – se ne rende conto, parlando di Schopenhauer come di «un educatore e di un maestro severo, del quale posso gloriarmi» (SE 1), e del quale apprezza la «posizione pura e da vero antico verso la filosofia» (SE 3, c.n.). In compagnia di Goethe e Montaigne – non già di Eckhart e Buddha – Schopenhauer presenta qui le caratteristiche di «onestà, serenità, fermezza» del tipo umano dell’antico parresiaste stoico, che è in grado di contrastare, con la propria condotta esemplare, la tirannide dell’epoca: L’esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l’aspetto, l’atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere (...). Schopenhauer fa pochi complimenti con la casta accademica, si separa, aspira all’indipendenza dallo Stato e dalla società – questo è il suo esempio, il suo modello. (SE 3)
“Vero eremita”, “filosofo solitario”, “libero nello spirito”, votato “alla libertà e all’onestà”, nonché dotato di “coraggiosa visibilità filosofica”, Schopenhauer combatte ciò che gli impedisce di essere grande, il che in lui non significa altro che: essere liberamente e interamente se stesso (...). L’anelito alla natura vigorosa, all’umanità sana e semplice, era in lui un anelito verso se stesso. (SE 3, c.n.)
Altro che prete ascetico! Altro che rinuncia a sé e alla vita! Altro che tedio e stanchezza! La «vita eroica» e «l’eroismo del-
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la veridicità» di Schopenhauer sono finalizzati, per il Nietzsche della Terza inattuale, a un’unica decisione: «Io voglio rimanere mio!» (SE 4). A dire la verità, di ciò v’è ancora traccia nella prima parte della terza sezione della Genealogia, in cui, diversamente che del piccolo commediante gregario Wagner, dell’eroe-guerriero Schopenhauer si dice pur sempre: quando un vero filosofo rende omaggio all’ideale ascetico, uno spirito realmente piantato su se stesso come Schopenhauer, un uomo e un cavaliere dallo sguardo bronzeo, che ha il coraggio di essere se stesso [c.n.], che sa di essere solo (...), che significa tutto questo? (GM III 5)
Di fatto, le considerazioni asketiche svolte in GM III 7-10 da noi precedentemente analizzate si svolgono anche nel nome di Schopenhauer, nella cui tipicità filosofica rientrano anche elementi positivi dell’ideale ascetico, come l’indipendenza (ad esempio l’orrore per il matrimonio e i figli), la libertà, l’ozio, la solitudine, la moderazione, il governo delle passioni, la serenità, che appartengono – come si è visto – alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità. Schopenhauer, annota Nietzsche en passant, «non era pessimista, quantunque lo desiderasse» (cfr. GM III 7), poi lo paragona agli «antichi Cinici», e ne sottolinea l’indomabile irriducibilità polemica (ibidem). Più sotto sempre di sfuggita egli giunge a menzionare lo Eis heauton (cfr. GM III 19 e Schopenhauer 2003), il diario segreto di Schopenhauer, andato perduto, ma la cui ricostruzione consente di cogliere fino a che punto, rivolgendosi “a se stesso”, egli non parlasse affatto il linguaggio del prete asceta, bensì, manifestamente, quello del filosofo-saggio5. 5 «In ogni epoca c’è stata nelle nazioni civili una stirpe di monaci naturali, gente che, cosciente di possedere capacità intellettuali superiori, ha anteposto a ogni altro bene la formazione e l’esercizio di queste, e quindi ha condotto una vita contemplativa, cioè attiva in senso spirituale, i cui frutti sono poi andati a vantaggio dell’umanità. Essi hanno rinunciato di conseguenza alla ricchezza, al guadagno, alla fama terrena, ad avere una famiglia propria: così vuole la legge di compensazione (...). Possedendo un grado più elevato di coscienza, quindi un’esistenza superiore, la mia saggezza di vita consiste nel mantenere puro e imperturbabile il godimento di essa, e a tale scopo non pretendere nient’altro» (Schopenhauer 2003: 59-60, c.n.).
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Viceversa, resta vero – e lo si è detto con chiarezza – che il ruolo tipologico preponderante affidato a Schopenhauer nella Genealogia è appunto quello del prete asceta, non del saggio asketico, e ciò, in fondo, in piena coerenza con quanto Schopenhauer stesso afferma della propria saggezza di vita, ufficialmente relegata in una dimensione popolare ed empirica secondaria rispetto al suo «più alto punto di vista metafisico ed etico» (Schopenhauer 1998: 423), culminante nell’ascesi mistica. Ciò non toglie che al tipo umano Schopenhauer – se se ne vuole rispettare la complessità caratterologica –, così come alla sua opera – se se ne vuole rispettare la complessità teorica e filologica – non appartiene solo il tipo umano del prete asceta, ma anche, in modo complementare, il tipo umano del filosofo saggio, quindi non solo l’ascesi mistica ma anche l’askesis intramondana.
6. La saggezza di Dioniso Traiamo quindi alcune conclusioni dal percorso fatto, e affrontiamo l’ultima questione rimasta aperta, quella cioè del rapporto tra ideale ascetico, ideale aristocratico e ideale estetico. a) È innegabile la presenza, in GM III, di un’attenzione di Nietzsche per il rapporto positivo tra ideale ascetico inteso come askesis e vita filosofica nel senso autentico del termine, di cui quell’ideale è una “condizione di possibilità”. Che per Nietzsche questo, nel 1887-1888, fosse un problema aperto è dimostrato non solo dalle pagine di Ecce homo, ma anche da un passaggio del penultimo paragrafo di GM III in cui egli si ripromette di riaffrontare «in maniera più radicale e rigorosa» il problema del significato dell’ideale ascetico in un altro contesto, cioè nella sezione Per la storia del nichilismo europeo dell’opera, ancora in fase di approntamento, La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori (GM III 27). Ora, se, alla luce della prospettiva da noi proposta, si considera quanto Nietzsche afferma nel celebre frammento di Lenzer Heide datato 10 giugno 1887 – che quindi precede di circa un mese la stesura della
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Genealogia – e intitolato appunto Il nichilismo europeo, il risultato non può sorprendere: «Quali uomini si riveleranno allora i più forti?», si chiede Nietzsche alludendo all’umanità futura del nichilismo compiuto, e risponde: i più moderati [c.n.], quelli che non hanno bisogno di princìpi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo. (NF 1887, 5[71], § 15)
Questo manifesto elogio, anch’esso epocale, della “moderazione” unita alla forza, alla salute, al coraggio e alla potenza – che ne esclude l’univoca riduzione a sintomo di debolezza, malattia, viltà e rinuncia – ci consente due ulteriori considerazioni: b) mentre l’ideale ascetico del tipo umano del prete asceta si contrappone diametralmente – come sua malattia morale – all’ideale aristocratico del guerriero affermativo (nobile, virile, forte, potente, dominatore, prevaricatore, predatore, ecc., «tutto pervaso di vita e di passione», GM I 10), l’ideale del saggio asketa, proprio in virtù della sua moderazione, può essere non solo compatibile con l’ideale del guerriero, ma anzi più che mai utile – in quanto sua salute – al filosofo-guerriero stesso, nella misura in cui, come si è visto, gli consente quel dominio (che non è rimozione) e quel governo (che non è repressione) delle passioni che, solo, purifica qualsiasi arte marziale da ogni pernicioso ressentiment. Poiché esiste un ressentiment della forza, e non solo della debolezza (la «morale da schiavi»), la morale aristocratica può esplicarsi nella sua più autentica potentia solo se il nobile, il potente, il dominatore è al tempo stesso saggio, moderato, ascetico ed esercita l’autarkeia, l’ataraxia, l’enkrateia: «Se si disprezza, non si può fare guerra» ammonisce Nietzsche, e comunque per essere un buon guerriero «non è lecito avere i nervi…». c) Infine, si è detto che la contrapposizione tra l’ideale ascetico
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del prete asceta e l’ideale estetico dell’artista dionisiaco costituisce l’origine e la meta della terza dissertazione, ed è infatti all’arte – come “antagonista tout court, volontà opposta e opposto ideale dell’ideale ascetico” – che Nietzsche ritorna nei paragrafi conclusivi della Genealogia: L’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua la tranquilla coscienza, è in maniera molto più radicale della scienza contrapposta all’ideale ascetico: lo avvertì l’istinto di Platone, il più grande nemico dell’arte che l’Europa abbia fino a oggi prodotto (...). Un vassallaggio artistico al servizio dell’ideale ascetico è perciò la più effettiva depravazione di un artista che possa esistere. (GM III 25)
In effetti, nulla più dell’ideale ascetico sembrerebbe incompatibile con l’ideale estetico libero, libertario, affermativo, esuberante, vitale, creativo, plastico, ebbro, eccessivo, danzante, giocoso, ecc., dell’artista dionisiaco. Qui la prospettiva di Nietzsche si allarga, assumendo tonalità epistemologiche e ontologiche ampie, in quella delineata dal celebre capitolo Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola del Crepuscolo degli idoli. «La volontà di verità ha bisogno di una critica» scrive nella Genealogia «in via sperimentale deve porsi una volta in questione il valore della verità…» (GM III 24)6. Alla costrittiva volontà di verità e di veracità cui sono strettamente legati l’ideale ascetico e la moralità cristiani – nonché la scienza del dotto, anch’esso “tipo umano” ascetico nel senso della stanchezza e della decadenza – si contrappone la volontà di menzogna, di illusione e di apparenza dell’artista dionisiaco, per il quale «esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico» (GM III 12). Per l’artista dionisiaco «la volontà di parvenza, di illusione, di inganno, di divenire e mutare è più profonda, “più metafisica” della volontà di verità, di realtà, di essere» (NF 1888, 14[18]). Tuttavia proprio questa liberazione estetico-dionisiaca delle apparenze (ovvero delle maschere), per non mutarsi in mera commedia arbitraria delle prospettive e delle interpretazioni – al6
A tale questione è dedicato il contributo di Pietro Gori al presente volume.
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trimenti detto: in relativismo deteriore7, tanto assoluto quanto autocontraddittorio – necessita di un katechon etico-pratico, che, nel caso dell’artista, solo l’ideale ascetico del saggio asketa può fornire, senza ricadere nei limiti moralistici dell’ideale ascetico del prete asceta, il che costituirebbe un controsenso. Se infatti – come altrove già abbiamo cercato di indicare (Gurisatti: 2013a) – da un lato la volontà artistica (l’ideale estetico) di illusione, opposta alla volontà di verità, contribuisce a sradicare l’apparenza da qualsiasi fondamento stabile – in campo teoretico nell’esercizio della conoscenza, in campo pratico nell’esercizio dell’esistenza – aprendo alla pluralizzazione irreferenziale delle maschere, dall’altro lato solo il permanere di un contrappeso etico non moralistico (l’ideale asketico) impedisce che tale positivo sradicamento si ribalti in cattiva infinità dell’interpretazione. Se si vuole una filosofia interpretativa davvero sana, tra aisthesis e askesis deve stabilirsi un circolo est-etico virtuoso ed equilibrato. In ciò consisterebbe la saggezza di Dioniso. Insomma: proprio in virtù della sua moderazione, che però non ha nulla del moralismo dell’ideale ascetico del prete asceta, l’ideale ascetico del saggio asketa può essere non solo compatibile con l’ideale estetico dell’artista dionisiaco, ma anzi più che mai utile – in quanto sua salute – al filosofo-artista stesso, nella misura in cui è in grado di costituire un pendant etico della sua esuberanza estetica. L’artista dionisiaco, infatti, può essere bensì creativo nella menzogna, esuberante nella maschera, ebbro nell’apparenza, danzante nell’illusione, giocoso nell’inganno, quanto vuole, eppure, per poter esercitare al meglio questa sua altissima spiritualità prospettica e interpretativa, dev’essere anche capace, a nostro avviso, di praticare quel “certo ascetismo”, che è anzitutto cura e governo di sé. Zarathustra stesso ne è un esempio. Il protagonista della liberazione delle apparenze, in definitiva, dev’essere a sua volta asketicamente libero da, con e per se stesso – nel contempo grande attore, regista e spettatore di se stes7 Sul prospettivismo “morale” di Nietzsche e la sua contrapposizione con una forma di “relativismo forte” cfr. Gori/Stellino 2014.
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so – in modo tale che la sua est-etica dell’esistenza, basata sulla volontà di apparenza, menzogna, illusione, inganno, non diventi una grottesca parodia, anzi, una farsa di se stessa, come accade nel “mago” Wagner dello Zarathustra e della Genealogia della morale, il commediante, falsario, mentitore par excellence, il cui ideale ascetico il saggio Zarathustra ha ragione di temere come la propria più terribile malattia.
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Prospettiva e ascetismo Una lettura di GM III 12 Carlo Gentili
1. Al fatto che la filosofia di Nietzsche sia stata intesa prevalentemente come una critica della morale si deve probabilmente una buona parte della sua fortuna. Ad avallare questa interpretazione si potrebbero naturalmente ricordare le numerose definizioni che Nietzsche dà di se stesso. Ci limitiamo a citare le parole della prefazione alla seconda edizione di Umano, troppo umano: «Ecco che già ricomincio a fare quello che ho sempre fatto, io vecchio immoralista e uccellatore, e parlo in modo immorale, extramorale, “al di là del bene e del male”» (MA, Prefazione 1); e quelle, ancor più esplicite, della prefazione alla seconda edizione di Aurora: «In noi giunge al suo compimento, posto che vogliate una formula – l’autosoppressione della morale» (M, Prefazione 4). Entrambe queste citazioni, tuttavia, si riferiscono al medesimo anno, quel 1886 nel quale Nietzsche ripubblica le sue opere precedenti più importanti dotandole di nuove prefazioni e aggiunte varie e cerca, in tal modo, di dare un’impronta unitaria alla sua riflessione1. Anche il tema della morale gli si presenta ora strettamente congiunto alla sua filosofia; con la sua rilettura, egli ricollega argomenti già presenti, seppure lasciati talvolta irrisolti, nelle sue prime opere. Per quel che qui ci interessa, si tratterà di vedere come il problema della morale abbia le 1 Il caso più vistoso è certamente quello della nuova prefazione alla Nascita della tragedia, la cui ora dichiarata «tendenza antimorale» sarebbe da misurarsi «dal silenzio cauto e ostile con cui in tutto il libro è trattato il cristianesimo» (GT, Tentativo di autocritica 5).
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sue radici nell’impostazione teoretica ed epistemologica della filosofia nietzschiana, ossia nel modo in cui è presentata la natura della conoscenza. Leggiamo, ancora dalla Prefazione di Umano, troppo umano il monito che Nietzsche rivolge a se stesso: Dovevi imparare a comprendere ciò che appartiene alla prospettiva in ogni giudizio di valore: lo spostamento, la deformazione e l’apparente teleologia degli orizzonti e ogni altra cosa che fa parte della prospettiva (…). Dovevi imparare a comprendere la necessaria ingiustizia di ogni pro e contro, l’ingiustizia come inseparabile dalla vita, la vita stessa come condizionata dalla prospettiva e dalla sua ingiustizia. (MA, Prefazione 6)
Attorno alla parola chiave “prospettiva” Nietzsche raccoglie qui non solo il tema dei valori, e dunque della morale, ma anche quello della “vita” che già caratterizza i suoi primi scritti2. La dimensione teoretica del concetto di “prospettiva” affiora, qui, nel suo accostamento con l’«apparente teleologia». E che quest’ultima venga attribuita agli «orizzonti» segnala l’intero nesso problematico come già presente nella filosofia del primo Nietzsche. È infatti nella seconda Inattuale che, in relazione alla distinzione tra sentire «in modo storico» e «non storico», egli delinea un concetto riconducibile a quello di prospettiva, pur non utilizzando questo termine: «Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte»; l’azione, prosegue, dipende «dal fatto che ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che non è rischiarabile e oscuro» (HL 1). Se il termine “prospettivismo” compare piuttosto tardi3 2 Valga, per tutti i passi menzionabili, quello celeberrimo della seconda Considerazione inattuale: «Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere (…). Ossia ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione (…). Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (HL, Prefazione). 3 Per la prima volta nel V libro della Gaia scienza (siamo, dunque, ancora nell’anno cruciale 1886, dato che il V libro viene ultimato entro la fine di quell’anno, pur se la seconda edizione dell’opera apparirà solo nel 1887) dove, osservando come le nostre azioni perdano il loro carattere personale una volta tradotte nella coscienza, Nietzsche scrive: «Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io» (FW 354).
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nell’opera di Nietzsche e il suo uso resta alquanto raro, il termine “prospettiva”, nel senso specifico che qui interessa, lo troviamo, dettagliatamente trattato, in un frammento del 1881, in cui – sotto la premessa che «la nostra conoscenza non è una conoscenza in sé» ma il risultato di un accumularsi di errori – viene precisato che questi errori sono «necessari errori ottici, (…) nel caso che tutte le leggi della prospettiva debbano essere errori in sé». Nel nostro occhio – «un poeta inconsapevole e, in pari tempo, un logico» – le cose appaiono come corpi a noi estranei, dotati di esistenza e persistenza; una tale «immagine rispecchiata dell’occhio» è il fondamento della scienza, che è dunque «la nostra potenza poeticologica di fissare le prospettive per tutte le cose, mediante la quale ci conserviamo in vita» (NF 1881, 15[9]). Questa impostazione di carattere epistemologico viene da Nietzsche immediatamente applicata alla morale, come si legge in un frammento dello stesso anno: «A ogni morale appartiene un certo tipo di analisi delle azioni: sono tutte sbagliate. Ma ogni morale ha le sue prospettive e i suoi angoli visuali» (NF 1881, 12[195]). Quegli elementi che Nietzsche ha individuato sul piano epistemologico – “errori necessari”, “prospettive” ecc. – concorrono quindi alla definizione della morale, come leggiamo in un frammento più tardo: «La morale è un errore utile, o meglio (…) una menzogna ritenuta necessaria» (NF 1888, 15[64]). Possiamo quindi enucleare, nei testi citati, un contingente di termini il cui significato appare pressoché intercambiabile: “errori” (“ottici”, “necessari”, “utili”, o anche “azioni sbagliate”), “immagine”, “menzogna”; il loro valore puramente epistemico è riconducibile al concetto, apparentemente più neutro, di “prospettiva”. Due dei termini citati – “immagine” e “menzogna” – hanno già una lunga storia nell’opera di Nietzsche. Il termine “immagine” lo troviamo già, in un contesto significativo, nella Nascita della tragedia. Qui è la «“volontà” ellenica» a far nascere il mondo degli dèi olimpici ponendosi «di fronte uno specchio trasfiguratore» e creando in tal modo «la sfera della bellezza», in cui i Greci «videro le loro immagini in uno specchio [Spiegelbilder], gli dèi olimpici». Conoscendo «i terrori e le atrocità dell’e-
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sistenza», l’uomo greco dovette porre davanti ad essi, per poter vivere, «la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (GT 3). “Specchio”, “immagine”, “sogno”, “bellezza” – tutti ugualmente immagini deformate della realtà – dischiudono quel regno della “parvenza” che rende la vita possibile. Se considerata nella sua struttura puramente epistemica, quest’impostazione non è diversa da quella presentata nel già citato frammento del 1881, nel quale la “prospettiva” è legata alla necessità della “conservazione in vita”. Quanto alla “menzogna”4, basterà solo accennare al rilievo che essa assume nello scritto pubblicato postumo del 1873, Su verità e menzogna in senso extramorale. Quel che però ci interessa qui sottolineare non è tanto la ben nota definizione del linguaggio come menzogna – in quanto la parola si fonda sulla «equiparazione di ciò che non è uguale» (WL 1) – quanto il fatto che, tra gli strumenti atti a produrre menzogne, Nietzsche cita in primo luogo l’intelletto. Esso «è concesso – unicamente come aiuto [Hülfsmittel] – agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un minuto nell’esistenza» (WL 1). Questa definizione, per così dire al minimo, della funzione dell’intelletto come mero Hülfsmittel è ciò che consente a Nietzsche di riconoscere tale funzione tanto nell’uomo quanto nella zanzara. In entrambi è l’intelletto a produrre quell’errore prospettico, quell’illusione fondamentale, quel «pathos», che consente loro di vivere sentendosi entrambi «il centro (…) di questo mondo» (WL 1). L’intelletto è dunque uno strumento che produce prospettive, immagini illusorie, in una parola finzioni. Ciò che qui si avverte è un confronto serrato, anche se condotto sotto traccia, con Kant. Torniamo al frammento del 1881 citato in precedenza: «Le nostre leggi sono quelle che noi met4 Il termine è naturalmente presente anche nella Nascita della tragedia; in particolare nel «contrasto» tra la «effettiva verità di natura», rappresentata dal Satiro barbuto, e «la menzogna della civiltà»; contrasto che Nietzsche definisce «simile a quello che sussiste fra il nucleo eterno delle cose, la cosa in sé, e tutto quanto il mondo apparente» (GT 8). Una precisazione, quest’ultima, che dev’essere intesa in riferimento tanto a Kant che a Schopenhauer: di ciò si dovrà tener conto in merito a quanto diremo più avanti.
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tiamo nel mondo – per quanto l’apparenza insegni l’inverso e sembri indicare noi stessi come la conseguenza di quel mondo, quelle leggi come le leggi del mondo nel loro effetto su di noi» (NF 1881, 15[9]). Oltre alla comparsa della parola “legge” (Gesetz), d’inequivocabile provenienza kantiana5, si osserverà come l’intera frase sembri ricalcare l’argomento che sta alla base della kopernikanische Wende. Ma il punto decisivo è l’affermazione che siamo noi a introdurre nel mondo le nostre leggi. Qui il confronto con Kant è evidente, e lo diventa ancor più se consideriamo con la dovuta attenzione l’unico luogo nel quale Nietzsche conduce un esplicito e diretto confronto, sia pure solo allo stato di abbozzo, con la filosofia di Kant, in particolare con la Critica della facoltà di giudizio. All’aprile-maggio del 1868 risalgono alcune annotazioni destinate alla stesura di una Doktorarbeit – nota successivamente con il titolo convenzionale La teleologia da Kant in poi – con la quale egli aveva probabilmente pensato, per un momento, «di laurearsi non in filologia classica, ma in filosofia» (Schlechta-Anders 1962: 58). Qui leggiamo una versione più precisa dell’affermazione contenuta nel frammento citato: «La finalità dell’organico, la regolarità (Gesetzmäßigkeit) dell’inorganico sono introdotte nella natura dal nostro intelletto» (NF 1868, 62[7]). Quanto una tale affermazione sia in linea con Kant, Nietzsche lo constata poco più avanti, quando osserva che la produzione di «qualcosa di conforme a un fine (zweckmäßig)» potrebbe essere dovuta solo al «caso» (Zufall), e conclude: «Egli [sc. Kant] ha ragione: la finalità sta solo nella nostra idea» (NF 1868, 62[52]). Nietzsche riassume qui ciò che Kant scrive nella sezione IV dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio distinguendo la facoltà determinante di giudizio, per la quale la legge che sussume il particolare nell’universale è data a priori dall’intelletto, da una facoltà riflettente di giudizio che interviene per ricondurre all’unità quelle leggi empiriche che governano la molteplicità delle forme della natura, le quali non 5 Il testo originale: unsere Gesetze und Gesetzmäßigkeiten («le nostre leggi e conformità a leggi») denuncia in modo ancor più evidente il debito nei confronti di Kant.
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potrebbero che essere lasciate indeterminate dalle leggi universali date a priori dall’intelletto. Queste leggi empiriche sono quindi «contingenti (zufällig) secondo il modo di intendere del nostro intelletto» e tuttavia, in quanto leggi, devono essere necessarie secondo un principio dell’unità del molteplice, «sebbene a noi sconosciuto»; è un tale principio ciò di cui la facoltà riflettente di giudizio necessita per poter risalire dal particolare della natura all’universale. Questo principio è la «conformità a scopi» (Zweckmäßigkeit) della natura, del quale occorre supporre che sia dato da un intelletto – «sebbene non il nostro» – che renda possibile «un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari della natura». Il concetto della conformità a scopi della natura ci consente di rappresentare la natura «come se [als ob] un intelletto contenesse il fondamento dell’unità del molteplice delle sue leggi empiriche». Lo als ob segnala che non siamo legittimati ad ammettere effettivamente un tale intelletto, perché con il principio della conformità a scopi la facoltà riflettente di giudizio «dà solo a se stessa una legge e non alla natura» (KdU, Introduzione, IV [B XXVI-XXVIII])6. Come Kant precisa più avanti, nella Critica della facoltà teleologica di giudizio, la conformità oggettiva della natura a scopi può essere assunta solo soggettivamente: per il principio di causalità – mediante il quale noi interpretiamo le cose della natura come rapporto di mezzi a scopi – «non abbiamo affatto un fondamento nell’idea universale della natura», e «neppure l’esperienza può provarcene la realtà»; perché questo fosse possibile, dovrebbe essere intervenuto «prima un ragionamento capzioso (Vernünftelei)» che avesse fatto «scivolare» (hineinspielen) nella natura un concetto di scopo del quale c’è biso6 Nel corso del testo verranno utilizzate le seguenti sigle per le opere di Kant: P = Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können; KrV = Kritik der reinen Vernunft; KpV = Kritik der praktischen Vernunft; KdU = Kritik der Urteilskraft. Le sigle saranno seguite dal numero del paragrafo o della sezione e, nel caso di KrV e KdU, dal riferimento alle pagine della prima o seconda edizione (indicate rispettivamente con le lettere A e B) tra parentesi quadre. Nel caso di P e KpV si indicheranno invece i numeri di pagina dell’edizione tedesca e della sua traduzione italiana riportate nella bibliografia conclusiva.
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gno, invece, solo «per rendere comprensibile la natura secondo un principio soggettivo di collegamento delle rappresentazioni in noi» (KdU 61 [B 268]). Al § 75 Kant precisa che la conformità a scopi oggettiva della natura è solo «un principio critico della ragione». Una cosa è dire che la generazione delle cose della natura è possibile solo mediante una causa che agisce secondo intenzioni; altra cosa è dire: «non posso giudicare» della possibilità e della generazione delle cose della natura, «secondo la costituzione delle mie facoltà conoscitive», se non pensando una causa che agisca secondo intenzioni: «Nel primo caso voglio stabilire qualcosa sull’oggetto (…) nel secondo caso la ragione determina solo l’uso delle mie facoltà conoscitive». Il primo principio è «un principio oggettivo per la facoltà determinante di giudizio», il secondo «un principio soggettivo solo per la facoltà riflettente di giudizio, quindi una massima che la ragione le addossa» (KdU 75 [B 333-334])7. Una teleologia della natura dev’essere dunque presupposta al solo fine di comprendere la natura stessa, di poter avere con essa un’“esperienza”. Ora, poiché solo l’uomo è in grado di “presupporre” un tale sistema di scopi, ciò equivale a dire che la natura può essere compresa solo a partire dall’uomo. È qui che, nel suo abbozzo giovanile, Nietzsche individua il vizio fondamentale di antropomorfismo (cfr. Gentili 2010), e la sua critica muove dal rilievo di una petitio principii: il ragionamento di Kant non è volto alla possibilità di comprendere la natura, bensì solo il presupposto di una teleologia, che si dà per acquisito al fine di una comprensione della natura stessa: «Kant cerca di dimostrare che siamo costretti a pensare i corpi naturali come premeditati, cioè secondo concetti di finalità. Io posso ammettere solo che 7 Cfr. anche KdU 67 [B 301]: nel concepire l’idea della natura «come un sistema secondo la regola degli scopi», per cui «ogni meccanismo della natura secondo principi della ragione» dev’essere subordinato a quell’idea, il «principio della ragione» spetta alla natura «come solo soggettivo, cioè come massima»; «va da sé che questo è un principio non per la facoltà determinante di giudizio, ma per quella riflettente, che esso è regolativo e non costitutivo, e che noi in tal modo otteniamo solo un filo conduttore per considerare secondo un nuovo ordine legale le cose della natura».
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questo è un modo di spiegarsi la teleologia» (NF 1868, 62[3]). In realtà, «ciò che è conforme a un fine è l’eccezione. Ciò che è conforme a un fine è casuale. In esso si rivela una completa mancanza di ragione» (NF 1868, 62[5]). Spiegare la vita ricorrendo a cause finali corrisponde a una “umanizzazione” della natura; e Nietzsche annota a questo proposito: «Esempi di un antropomorfismo infantile anche in Kant» (NF 1868, 62[47]). È nella natura dell’uomo immaginare la vita secondo un’analogia con la sua stessa esistenza: «L’uomo riconosce nella natura qualcosa di simile e qualcosa di estraneo, e ne cerca la spiegazione» (NF 1868, 62[54]). Ma è proprio questa disomogeneità tra il simile e l’estraneo a mettere fuori gioco «una teleologia senza lacune: la quale non esiste»; contro di essa sta «quella terribile lotta degli individui (che pure manifestano un’idea) e delle specie» (NF 1868, 62[7]). Quest’affermazione rivela lo strumento del quale Nietzsche si serve nella sua lettura di Kant: Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, che parla della «lotta perpetua e implacabile» che caratterizza la varietà dei fenomeni nei quali la volontà si oggettiva (WWV 226 [232])8. Ed è ancora qui che Nietzsche trova lo spunto per la sua critica all’antropomorfismo e antropocentrismo di Kant. Scrive infatti Schopenhauer: L’idea dell’uomo, per manifestarsi in tutto il suo valore, aveva bisogno di non apparire sola e distaccata, ma di essere accompagnata da tutta la scala discendente dei vari gradi della natura, attraverso le forme animali ed il regno vegetale, fino all’inorganico. (ibid.)
Questa attenzione a un mondo della natura nel quale l’uomo perde la sua posizione di privilegio caratterizzerà in modo decisivo la filosofia del Nietzsche maturo9. Ed è in questo contesto 8 In seguito nel testo WWV = A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung. La sigla sarà seguita dai numeri di pagina dell’edizione tedesca e della sua traduzione italiana indicate nella bibliografia conclusiva. 9 Ci limitiamo a due esempi significativi, il primo tratto dalla Gaia scienza: «Quando sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più? Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!» (FW 109); il secondo dall’Anticristo: «Non deriviamo più l’uomo dallo “spirito”, dalla “divinità”, lo abbiamo
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che si presenta a Nietzsche, per la prima volta, il tema kantiano della “cosa in sé”, letto dunque anch’esso alla luce di Schopenhauer: «La cosa in sé deve manifestare la sua unità nell’accordo di tutti i fenomeni. Tutte le parti della natura vengono incontro l’una all’altra, poiché una sola è la volontà» (NF 1868, 62[7]). È la stessa idea che Schopenhauer esprime con la metafora della «lanterna magica» che mostra immagini diverse pur restando unica: «Così nella molteplicità dei fenomeni», posti nello spazio «l’uno accanto all’altro», «una e identica è la volontà che si manifesta» (WWV 226 [232]). A questa data, la “cosa in sé” si presenta a Nietzsche in conseguenza del concetto kantiano della conoscenza matematica. Dopo aver citato alla lettera Kant – «“Si comprende pienamente solo ciò che si può fare da sé e realizzare secondo concetti”» (NF 1868, 62[40]; cfr. KdU 68 [B 310])10 – Nietzsche commenta: «Perciò si può comprendere pienamente solo ciò che è matematico. (Dunque comprensione formale)». Per tutto ciò che non è matematico «ci troviamo di fronte all’ignoto». La conclusione che ne trae indirizza già agli sviluppi futuri della sua posizione teoretico-epistemologica: «Per far fronte a questo l’uomo inventa concetti, che però raccolgono solo una somma di proprietà fenomeniche, non raggiungono la cosa» (NF 1868, 62[40]); dove è evidente che la «cosa» è la “cosa in sé”. E, se il rapporto tra i fenomeni e la “cosa in sé” è ancora letto alla luce della «lanterna magica» schopenhaueriana, il punto su cui giova porre attenzione è quell’«inventa» (erfindet). In una parola, ricollocato tra gli animali» (AC 14). Per altro, nell’abbozzo del 1868, questo tema mostra anche risvolti kantiani desunti dalla Storia universale della natura e teoria del cielo, che Nietzsche non legge direttamente ma conosce attraverso la lettura della Geschichte der neuern Philosophie di Kuno Fischer (cfr. Gentili 2010). 10 Nella pagina da cui Nietzsche trae la citazione Kant pone la necessità di designare una causalità della natura «secondo un’analogia con la nostra nell’uso tecnico della ragione, per avere sott’occhio la regola secondo la quale certi prodotti della natura debbono essere indagati». In questo modo, mediante l’osservazione e l’esperimento, «noi potremmo produrre da noi come la natura». Se la fisica si occupa delle «disposizioni esterne della natura», essa può tuttavia considerare solo il loro «meccanismo», mentre il loro «riferimento a scopi (…) non può affatto esibirlo, perché questa necessità del collegamento riguarda interamente il legame dei nostri concetti e non la costituzione delle cose» (KdU 68 [B 310]). Si tratta, pertanto, di una comprensione solamente formale.
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già a questa data Nietzsche colloca la “cosa in sé” in quell’ambito delle “invenzioni”, delle “finzioni”, degli “errori” al quale appartengono, in generale, tutti i concetti. Così egli scrive in Umano, troppo umano, citando di nuovo Kant alla lettera, questa volta quello dei Prolegomeni: Quando Kant dice che “l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive a questa”11, ciò è pienamente vero riguardo al concetto di natura che noi siamo costretti a collegare con essa (natura = mondo come rappresentazione, cioè come errore), che è però il compendio di una moltitudine di errori dell’intelletto. Le leggi dei numeri sono totalmente inapplicabili a un mondo che non sia nostra rappresentazione: esse valgono solo nel mondo umano. (MA 19)
La mossa decisiva contro l’antropocentrismo kantiano consiste proprio nel mettere in rilievo la natura irrimediabilmente antropomorfa della nostra conoscenza; vale a dire, il fatto che la conoscenza umana vale solo in quanto essa sia ridotta alla conoscenza dal punto di vista umano; al prezzo, dunque, della perdita di quella universalità che Kant preservava ritenendo l’uomo l’unica creatura in grado di considerare la natura secondo un sistema di fini. Se le leggi della natura, essendo concetti dell’intelletto umano, non sono che “rappresentazioni”, appartengono esse stesse al mondo dei fenomeni dietro al quale la “cosa in sé” scompare. In questa conclusione la stessa impostazione schopenhaueriana viene superata da un’altra impostazione, nella quale l’influenza di Schopenhauer è pure presente: quella della Storia del materialismo di Friedrich A. Lange. Secondo Lange, infatti, non solo la “cosa in sé” è inconoscibile, ma di essa non possiamo dire neppure che esista: si tratta di una pura ipotesi del nostro intelletto, la cui attività è interamente determinata da fenomeni in quanto «il nostro mondo non può essere altro che un mondo della rappresentazione [eine Welt der Vorstellung]»; se, dunque, ci chiediamo dove stia il fondamento delle cose, la risposta non può che essere: «nei fenomeni». La “cosa in sé” risulta essa stessa, alla 11
Cfr. P 320 [82].
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fine, una “rappresentazione” del nostro intelletto, e la sua necessità si radica nell’organizzazione di questo, precisamente nel principio di causalità. In altre parole, essa si rivela come la causa (supposta come semplice ipotesi) dei fenomeni; e, con ciò, essa si sottrae lasciando sul campo, al suo posto, il mondo dei fenomeni: «Più la “cosa in sé” si volatilizza [verflüchtigt] e si riduce a una semplice rappresentazione, più il mondo dei fenomeni acquista realtà» (Lange 1866/1974: II, 498). In questa riduzione del noumeno ai fenomeni sta la chiave per intendere il nesso tra la prospettiva teoretico-epistemologica e quella morale in Nietzsche. Ma, per documentare quest’affermazione, dobbiamo di nuovo risalire brevemente a Kant il quale, nella Critica della ragion pratica, distingue l’uso dell’intelletto mostrato nella «parte analitica della Critica della ragion pura speculativa» – dove i principi sintetici derivati dai concetti «potevano esistere soltanto in relazione alla intuizione, che era sensibile»12 ed era quindi «negata alla ragione speculativa ogni conoscenza positiva» dei noumeni – da «un mondo dell’intelletto puro» nel quale la legge morale si dà a conoscere come ciò che appare «inesplicabile» a partire dai dati del mondo sensibile. La legge morale si fonda pertanto sui noumeni – benché questi continuino a non essere conosciuti, perché ogni conoscenza non può prescindere dall’intuizione sensibile – ed è, quindi, «la legge fondamentale di una natura soprasensibile», in virtù della quale una «copia» del mondo dell’intelletto puro «deve esistere nel mondo sensibile, per altro nello stesso tempo, senza danno alle leggi di questo» (KpV 50-51 [91-93]). È per superare la difficoltà di assolvere a questo compito che, successivamente, Kant si risolve a trattare nello specifico una facoltà di giudicare alla quale vengono attribuite funzioni in parte diverse e accresciute 12 Cfr. KrV, II, Introduzione I [A 51]: «La nostra natura è cosiffatta che l’intuizione non può essere mai altrimenti che sensibile, cioè non contiene se non il modo in cui siamo modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile è l’intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche».
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rispetto a quelle assegnatele nella Critica della ragion pura. La facoltà di giudizio viene ora riconosciuta come «membro intermedio (Mittelglied) tra l’intelletto e la ragione» (KdU, Prefazione [B V]). Questo Mittelglied deve ricomporre l’«immenso abisso (unübersehbare Kluft) tra il dominio del concetto della natura, il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, il soprasensibile» (KdU, Introduzione II [B XIX]): ciò che non è possibile mediante il solo uso teoretico della ragione. Ma una tale ricomposizione potrà realizzarsi solo in una delle due direzioni possibili: se non è infatti ammissibile che il mondo sensibile abbia influenza su quello soprasensibile, si dovrà per contro ammettere che il secondo abbia influenza sul primo: Cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo assegnato dalle sue leggi [seine Gesetze: dunque le leggi del concetto della libertà], e di conseguenza la natura deve poter essere pensata anche in modo che la conformità a leggi della sua forma si accordi almeno con la possibilità degli scopi da realizzare in essa secondo leggi della libertà. (KdU, Introduzione II [B XIX-XX])
Si radica in questa esigenza la necessità di una “facoltà teleologica di giudizio”, ossia della «facoltà di giudicare la conformità a scopi reale (oggettiva) della natura mediante l’intelletto e la ragione» (KdU, Introduzione VIII [B L]). L’intervento della ragione, la facoltà del soprasensibile, è qui posto da Kant con l’intento di salvaguardare la libertà, e dunque la morale, dal condizionamento del sensibile, dal momento che della legge morale non è in ogni caso consentito avere esperienza. Quel che fa Nietzsche è una patente contravvenzione del veto kantiano: se il soprasensibile non è che “rappresentazione” ed “errore”, rientra esso stesso nel modo dei fenomeni; e pertanto, nel rapporto posto da Kant tra sensibile e soprasensibile, è semmai proprio il primo ad avere influenza sul secondo. Quella conformità a leggi e regolarità in virtù delle quali la ragione crede di poter comprendere la natura non sono, in realtà, che proiezioni della misura umana sulla natura stessa. Se per Kant si può legittimamente parlare di «belle forme» della natura poiché
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– una volta presupposta soggettivamente una conformità a scopi della natura «nelle sue leggi particolari rispetto all’afferrabilità [Faßlichkeit] da parte dell’umana facoltà di giudizio» – ci si possono «aspettare come possibili» prodotti della natura «come se fossero predisposti» proprio per tale facoltà cosicché essi servono «a intrattenere le facoltà dell’animo» (KdU, 61 [B 267])13, per Nietzsche, invece, questo nesso tra bellezza e comprensione – che non lascia fuori neppure l’aspetto morale poiché, come abbiamo visto, è alla facoltà teleologica di giudizio, in cui ha un ruolo fondamentale la ragione in quanto facoltà del soprasensibile, che viene riconosciuto l’ufficio di presupporre nella natura una conformità a scopi – un tale nesso è solo la riprova del carattere antropomorfico dell’impostazione kantiana: il mondo nel suo insieme è piuttosto «caos per tutta l’eternità», nel senso di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane [unsere ästhetischen Menschlichkeiten] (…). L’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo! (FW 109)14
Acquisire questa consapevolezza non significa tuttavia che l’uomo debba rinunciare a interpretare il mondo sulla sua propria misura. L’antropocentrismo – che nell’impostazione kantiana si presenta a Nietzsche come mero pregiudizio in quanto, a 13 Cfr. anche KdU, Introduzione VI [B XXXIX]: il fatto che «l’ordine della natura secondo le sue leggi particolari, in tutta la loro molteplicità ed eterogeneità», sembri superare, a causa di ciò, «ogni nostra capacità di afferrarlo (Fassungskraft)», e possa ciò malgrado essere adeguato a quest’ultima, è solo «contingente» (zufällig). Quando ciò accade, per opera dell’intelletto che introduce in quelle leggi molteplici ed eterogenee «un’unità dei principi», ciò rappresenta il raggiungimento di un intento che, in quanto tale, è necessariamente «legato con il sentimento del piacere». 14 Nella frase di Nietzsche è possibile cogliere un’eco di Lange il quale, in un capitolo in cui il principio della selezione naturale di Darwin viene riletto secondo l’idea kantiana della teleologia, scrive: «È questo mondo un caso speciale tra innumerevoli mondi ugualmente pensabili che rimarrebbero in un caos eterno e in un’immobilità eterna, oppure si può sostenere che, qualunque sia stata la costituzione originaria delle cose, dovette infine prodursi, secondo il principio di Darwin, un ordine, una bellezza, una perfezione quali noi li vediamo?» (Lange 1866/1974: II, 719).
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suo dire, viene elevato a misura assoluta – diviene pienamente legittimo se assunto come “punto di vista”, “prospettiva”. L’uomo è legittimato a sentirsi centro dell’universo nella stessa misura in cui lo sono la zanzara di Su verità e menzogna o la formica del Viandante e la sua ombra15. A legittimare tale sentimento non è più la pretesa superiorità dell’uomo ma l’obiettivo, comune a qualsiasi essere vivente, della “conservazione della specie” (Arterhaltung). Qui sta la radice del dissolversi della distinzione tra un «mondo vero» – quello dell’“intelletto puro” e dei noumeni di Kant, dei principi e delle leggi morali: in una parola, della metafisica – e un mondo «apparente»: quello della vita sensibile: «C’è solo un mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso». Per difenderci da esso «noi abbiamo bisogno della menzogna». Alle «diverse forme di menzogna» l’uomo ha dato i nomi della filosofia: «la metafisica, la morale, la religione, la scienza»; «col loro sussidio si crede nella vita» (NF 1887-1888, 11[415]). Nell’efficacia ai fini della Arterhaltung sta l’autentico valore epistemico delle conoscenze, la cui «forza» «non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita» (FW 110). La Arterhaltung può dare risposta tanto, sul piano teoretico, alla domanda di Kant sulla possibilità dei giudizi sintetici a priori: «È tempo di renderci conto che tali giudizi devono essere creduti come veri al fine della conservazione di esseri della nostra specie» (JGB 11); quanto può, sul piano morale, giustificare il male: «L’odio, il piacere della perversità, la brama di rapina e di dominio, e tutto quello che solitamente è chiamato malvagio, appartengono alla sorprendente economia della conservazione della specie» (FW 1). Una volta ricondotta alla sua radice epistemica, la morale pensata «come problema» fa cadere anche ogni obiezione contro di essa. L’errore degli «storici della morale» consiste, per un verso, 15 Cfr. WS 14: «Forse la formica nel bosco immagina altrettanto fortemente di essere meta e scopo dell’esistenza del bosco, come facciamo noi quando alla fine dell’umanità, nella nostra fantasia, ricolleghiamo quasi involontariamente la fine della terra».
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nel presupporre un universale consenso dei popoli civili sui principi della morale; ma, per l’altro verso, constatato «che presso popoli diversi le estimazioni morali sono necessariamente diverse», nel concludere «per la non obbligatorietà di ogni morale: le quali cose sono, entrambe, puerilità parimenti grosse» (FW 345). Con ciò Nietzsche prende posizione tanto contro l’universalismo quanto contro il relativismo morale; come è stato osservato, «nel problema della morale non si tratta (…) di false opinioni né di vera conoscenza di essa, bensì del valore che essa ha per la vita» (Stegmaier 2012: 167). Cosicché, anche qualora si provasse che la morale si è sviluppata «da un errore (…) non sarebbe ancora toccato il problema del suo valore» (FW 345). Proprio in quanto “errore”, ma produttivo ai fini della Arterhaltung, la morale svela la sua “verità” fattuale. 2. Se il modo in cui Nietzsche affronta il problema della morale ha, alla sua radice, l’impostazione teoretico-epistemologica, trovandosi quindi inscindibilmente legato alla “prospettiva”, non desta meraviglia che questo nodo essenziale venga esposto in un passaggio dell’opera che Nietzsche dedica esplicitamente a quel problema: la Genealogia della morale e, precisamente, il § 12 della terza Dissertazione: Che cosa significano gli ideali ascetici? L’obiettivo polemico di Nietzsche è, qui, Kant non meno di Schopenhauer, per lo meno nella misura in cui, a suo giudizio, il secondo resta sulla via tracciata dal primo a proposito della “cosa in sé”. Esaminiamo innanzitutto il rapporto che Nietzsche pone, in generale, tra filosofia e ascetismo: «Incontestabilmente, finché sulla terra ci saranno filosofi, ovunque siano esistiti filosofi (…) sussiste una particolare irritazione e astiosità filosofica contro la sensualità». Ne fornisce la prova proprio Schopenhauer, il quale «aveva trattato la sessualità come un nemico personale (compreso il suo strumento, la donna, questo instrumentum diaboli)» (GM III 7). Non è un caso che i grandi filosofi non fossero sposati: Eraclito, Platone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant e Schopenhauer
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non lo furono. (…) Un filosofo sposato appartiene alla commedia, questa è la mia tesi: e quell’eccezione di Socrate – il malizioso Socrate sembra che si sia sposato ironice, proprio per dimostrare questa tesi. (GM III 7)
Nel filosofo l’ideale ascetico è motivato dalla volontà d’indipendenza che lo libera dalle costrizioni che il mondo esercita su di lui. Il suo motto sarà dunque «pereat mundus, fiat philosophia, fiat philosophus, fiam!» (GM III 7)16; dove l’ultima parola indica che Nietzsche include, tra questi filosofi, se stesso. L’ideale ascetico ha rappresentato, per lo spirito filosofico, un travestimento necessario per potersi manifestare: «Il prete ascetico ha costituito, fino ai nostri tempi, la ripugnante e cupa forma larvale sotto la quale soltanto la filosofia ebbe diritto di vivere» (GM III 10). Ciò che il “prete ascetico” nega è la propria esistenza particolare e individuale, che viene posta «in relazione a un’esistenza di specie del tutto diversa», per la quale la vita individuale non ha che «il valore di un ponte». La vita diviene per l’asceta un errore e un «cammino sbagliato» e la sua «volontà di potenza» si manifesta come una forza che vuole «ostruire le sorgenti della forza», rivolgendo il suo sguardo «astioso e perfido» contro la «prosperità fisiologica, in particolare contro la sua espressione, la bellezza, la gioia» (GM III 11). Una volta che questa volontà ascetica sia passata nella filosofia, quell’esistenza “di specie del tutto diversa” diviene il «regno della verità e dell’essere», il cielo della metafisica. Anche nel «concetto kantiano del “carattere intelligibile delle cose”» – quello che, come abbiamo visto sopra, Kant chiama il «mondo dell’intelletto puro» – sopravvive «qualcosa di questa lasciva disarmonicità ascetica» (GM III 12). Quel che Nietzsche individua come il risultato di questa disposizione ascetica della 16 Il motto inventato da Nietzsche è una palese rielaborazione del detto «fiat iustitia, pereat mundus» che la tradizione attribuisce all’imperatore Ferdinando I d’Asburgo. Dato il contesto, tuttavia, è più che probabile che Nietzsche voglia alludere all’uso che Kant ne fa nello scritto Per la pace perpetua, in cui così è spiegato: «“Regni la giustizia, dovessero anche perire tutti insieme i furfanti che abitano il mondo”, è un principio giuridico coraggioso, che tronca tutte le tortuose vie tracciate dall’inganno o dalla violenza» (Kant 1795/1992: 94 [196]).
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filosofia è proprio l’idea della “cosa in sé”, che gli appare come l’impoverimento del mondo reale e sensibile, il risultato di una sottrazione delle determinazioni individuali da un’idea di soggettività che si trova ridotta a mera astrazione. Su questa linea, tuttavia, oggetto della sua critica diviene Schopenhauer tanto quanto Kant: «D’ora innanzi guardiamoci meglio (…) signori filosofi, dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che ha impiantato un “puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto della conoscenza”» (GM III 12). La frase che Nietzsche riporta tra virgolette è una citazione da WWV, § 34, in cui Schopenhauer distingue tra una «conoscenza comune delle cose particolari» e una conoscenza «delle idee». Nella seconda il soggetto tralascia i rapporti tra le cose fondati sul principio di ragion sufficiente per assurgere «a soggetto conoscente puro, a soggetto che è al di là dal dolore, di là dalla volontà, di là dal tempo». Egli non si cura più delle cose come esse sono in relazione tra di loro o con lui, «ma unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono»; e la cosa particolare diviene, in questa contemplazione, «l’idea della sua specie», in cui la volontà, ossia «l’in sé dell’idea», si rende indipendente dalla rappresentazione (WWV 256-258 [263-265]). Nietzsche vede qui all’opera «concetti contraddittori come “pura ragione”, “assoluta spiritualità”, “conoscenza in sé”». La contraddizione sta nella pretesa di escludere dal nostro concetto della cosa quella percezione sensibile che, sola, rende la cosa percepibile: «Qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato»; si pretende di escludere quelle «forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto vedere diventa un vedere qualcosa» (GM III 12). Schopenhauer scrive infatti che, nella conoscenza delle idee, occorre fare in modo che «l’oggetto sembri esistere da solo, senza nessuno che lo percepisca» (WWV 257 [264]). Qui, tuttavia, Nietzsche sembra voler opporre a Schopenhauer proprio Kant; ma si tratta, in realtà, di un Kant che viene opposto a sé stesso. Infatti, «eliminare in genere la volontà», «sospendere tutte quante le passioni (Affekte)», non significherebbe altro che «castrare l’intelletto». Il che sembra un richiamo a Kant, che dichiara «vuoti» i pensieri «senza
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contenuto», ossia privi di quegli oggetti che possono essere dati solo nella sensazione (KrV II, Introduzione I [A 51]; cfr. supra, nota 12); ma è, nel contempo, un richiamo contro Kant, il quale dichiara altresì che, se la «materia» dei fenomeni può esser data solo a posteriori, la loro «forma» deve darsi «a priori nello spirito», e deve dunque «potersi considerare separata [abgesondert] da ogni sensazione» (KrV I, 1 [A 20]). Che, nel brano citato, Nietzsche usi il termine Affekte (nella traduzione italiana reso, forse non del tutto propriamente, con “passioni”)17, suona esso stesso come un implicito riferimento a Kant. Nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, infatti, Kant definisce la «sensazione» (Empfindung) come «l’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti [affiziert]» (KrV I, 1 [B 34-A 20]). Successivamente tuttavia, nella Logica trascendentale, egli definisce l’intelletto «la facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza», che è però «la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile» (KrV II, Introduzione I [A 51]; cfr. supra, nota 12). L’intelletto appare quindi, per un verso, necessariamente legato all’intuizione sensibile, per l’altro anche, tuttavia, indipendente da essa, in quanto facoltà spontanea. La posizione di Nietzsche sembra costringere Kant al vincolo formulato dalle sue stesse parole per cui, se le intuizioni prive di concetti non possono darci conoscenza, non lo possono però neppure i concetti «senza che a loro corrisponda in qualche modo una intuizione» (KrV II, Introduzione I [B 75]). Se, kantianamente, è la sensibilità la facoltà – sia pure solo “ricettiva” – che costituisce la fonte originaria della nostra conoscenza, tutto quanto segue – compresa l’attività dell’intelletto – resta necessariamente su questa linea. È a questa linea che Nietzsche dà il nome di “prospettiva”. La definizione di ciò che un oggetto è non proviene da una facoltà, l’intelletto, di cui si supponga in qualche modo (secondo Nietzsche con17 Fatto salvo, naturalmente, il significato originario del termine “passione” (dal lt. patior e dal gr. pascho) che è l’“essere passivo”, il “subire”; un significato che, tuttavia, rimane occultato nell’uso comune del termine.
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traddittoriamente) anche un’attività spontanea, ma dalla presa in considerazione del maggior numero possibile di “prospettive” radicate nella vita percettiva sensibile: Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere» prospettico; e quanti più affetti [Affekte] lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra «obiettività». (GM III 12)
Che Nietzsche parli di «obiettività» rivela che ciò che egli pone qui in questione è proprio la legittimità della “cosa in sé” e, più esattamente, la distinzione posta da Kant tra l’esistenza e la conoscibilità della “cosa in sé”. Se, nel brano citato, egli sembra fare confusione (dal punto di vista dell’ortodossia kantiana) tra il «concetto» di una cosa e l’«obiettività», questa apparente confusione indica proprio che – a parer suo e, evidentemente, contro Kant – la pretesa «obiettività» (la “cosa in sé”) altro non può essere che il concetto dell’oggetto che ricade, in quanto tale, nella “prospettiva”. Se la nostra conoscenza è «soltanto» prospettica, anche la “cosa in sé” – poiché soltanto ciò che è conosciuto può essere ri-conosciuto anche come esistente18 – costituisce l’apertura di una prospettiva in cui essa si dà semplicemente come forma vuota19 in cui si raccoglie la totalità dei fenomeni. Della difficoltà di distinguere tra la “cosa in sé” e il concetto dell’oggetto – di modo che la prima possa stare completamente a parte rispetto all’attività conoscitiva dell’intelletto legata alla sensibilità – si rende conto lo stesso Kant. Nei Prolegomeni egli si interroga sull’eventualità che l’aver affermato come unica conoscenza possibile quella dei fenomeni – «semplici rappresentazio18 Cfr. FW 355, in cui il concetto di “conoscenza” (Erkenntnis) è analizzato nella sua derivazione dal verbo erkennen (“riconoscere”). Cosicché Nietzsche può interrogarsi su ciò che significa quando uno «del popolo» afferma: «“Lui mi ha riconosciuto” [erkannt]» e concludere che «conoscenza» (Erkenntnis) non significa altro che questo: «Qualcosa d’ignoto dev’essere ricondotto a qualcosa di noto. (…) Il noto, vale a dire: ciò cui siamo così abituati da non meravigliarcene più». 19 Cfr. NF 1885, 40[65]: «“Non il mondo come cosa in sé – esso è vuoto, vuoto di senso e degno di un’omerica risata!”».
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ni della sensitività» – possa procurargli l’accusa di «evidente idealismo» (ossia di non aver fatto un passo oltre Berkeley). Ma una tale accusa, argomenta Kant, sarebbe plausibile se si affermasse che non esistono «altri esseri che pensanti» per i pensieri dei quali non esistessero oggetti corrispondenti fuori di essi. Questo sarebbe “idealismo”. Poiché, al contrario, egli ha supposto che le rappresentazioni degli oggetti sono prodotte dalle affezioni che quegli stessi oggetti producono sui nostri sensi – l’intuizione, è scritto nell’Estetica trascendentale, ha luogo solo «a condizione che l’oggetto ci sia dato» e che esso pertanto «modifichi» (affiziere) lo spirito (KrV I, 1 [B 34]) – ciò significa che, se non possiamo dire ciò che quegli oggetti siano “in sé”, possiamo tuttavia certificare la loro esistenza. «Io ammetto, adunque, certamente che fuor di noi ci sian dei corpi, cioè cose»; e la parola “corpo” «significa soltanto il fenomeno di quell’oggetto che è a noi sconosciuto, ma che non per questo è meno reale» (P 288-289 [44]). Questa spiegazione solleva tuttavia le obiezioni di Schopenhauer, secondo il quale Kant, pur essendo nel giusto nel riconoscere la “cosa in sé”, cade nell’errore di derivarla dall’intuizione empirica. Quest’ultima, infatti, «è e rimane veramente nostra sola rappresentazione; è il mondo come rappresentazione»; possiamo giungere «all’essere in sé» di questo mondo solo ricorrendo «all’autocoscienza, che svela la volontà come l’in sé del nostro proprio fenomeno» (WWV 588 [606]). L’errore di Kant consisterebbe propriamente nel non aver distinto la conoscenza intuitiva dalla conoscenza astratta, come si vede nel momento in cui l’oggetto puramente intuito nella sensazione, in uno stato quindi di «pura ricettività», diviene propriamente un oggetto – l’«“oggetto d’esperienza”» (WWV 589 [607]) – grazie all’intervento delle categorie, ossia dei concetti puri dell’intelletto. Con ciò «la conoscenza intuitiva è totalmente abbandonata» ed entra in essa una classe diversa di rappresentazioni: i concetti astratti. In questo modo Kant «porta il pensiero già nell’intuizione e pone le basi per l’irrimediabile mescolanza (Vermischung) di conoscenza intuitiva e conoscenza astratta». Poiché, però, non solo l’oggetto viene compreso grazie alle categorie dell’intelletto ma, nel con-
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tempo, questi concetti generali hanno per oggetto «cose singole», egli porta anche «l’intuizione nel pensiero» (WWV 592 [610]). Di questa mescolanza appare segnata la stessa “cosa in sé”. Nella distinzione, posta da Kant, tra la rappresentazione, l’oggetto della rappresentazione (pensato dall’intelletto tramite le categorie), e la “cosa in sé” posta al di là del conoscibile, il secondo rappresenta un «ibrido» (Zwitter) che, se non è la “cosa in sé”, è certamente «il suo affine più vicino» (WWV 598 [616]), in quanto Kant lo costruisce «con ciò che egli ha tolto in parte alla rappresentazione (…) in parte alla cosa in sé» (WWV 600 [618]). Poiché tutto il processo conoscitivo si avvia con l’intuizione sensibile, anche la “cosa in sé” porta il marchio di questa “ibridazione”. L’errore di Kant si colloca quindi, secondo Schopenhauer, a monte: in quella distinzione tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione che «già Berkeley» aveva dimostrato infondata (WWV 598 [616]). Già nelle pagine precedenti egli si era dichiarato sorpreso che Kant non avesse dedotto l’esistenza relativa del fenomeno «dalla verità semplice, così a portata di mano, innegabile, “nessun oggetto senza soggetto”» (WWV 586 [603]), nel qual caso sarebbe stato costretto a constatare che l’oggetto è sempre dipendente e condizionato dal soggetto. In un primo momento Schopenhauer pensa che Kant avesse eluso «questo principio berkeleyano» proprio per non incorrere nell’accusa di “idealismo”, incappando tuttavia, con ciò, nelle contraddizioni che egli rileva nella struttura complessiva della Critica della ragion pura. Quando però gli capita di leggere la prima edizione (1781) dell’opera, egli vi scopre una frase, soppressa nella seconda edizione (1787), che risolve, a suo dire, ogni contraddizione, in quanto riporta il mondo esterno alla «pura rappresentazione del soggetto conoscente». La frase, citata da Schopenhauer, recita: “Se viene meno il soggetto pensante, l’intero mondo corporeo deve venire meno, in quanto esso non è che il fenomeno nella sensibilità del nostro soggetto e una specie delle sue rappresentazioni”. (WWV 586 [604]; cfr. KrV [A 383])
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to sarebbero ricondotti sul lato della rappresentazione, da cui sarebbe invece liberata la “cosa in sé”, assegnata alla volontà in quanto “in sé” del fenomeno che può essere colto solo nell’autocoscienza. Non è questo il luogo in cui analizzare la fondatezza della critica di Schopenhauer. Ci preme piuttosto rilevare che queste pagine, che si leggono nell’appendice del Mondo intitolata Critica della filosofia kantiana, sono ben note a Nietzsche: compresa la citazione del passo omesso da Kant. È infatti una risposta proprio al problema lì posto da Kant quanto leggiamo in un frammento del 1881: «Un mondo senza soggetto – è possibile pensarlo? Ma si pensi ora tutta la vita annullata d’un colpo; perché tutto il resto non potrebbe continuare a muoversi tranquillamente, ed essere così come ora lo vediamo?». Poiché il soggetto pensante è l’uomo, il venir meno del mondo corporeo una volta eliminato l’uomo che lo pensa appare a Nietzsche la conferma del vizio antropomorfico di Kant. Del pari è una risposta a Kant l’affermazione che leggiamo subito dopo: «Posto che i colori siano soggettivi – niente ci dice che essi non sarebbero pensabili oggettivamente» (NF 1881, 10[D82]). Nei Prolegomeni Kant aveva sostenuto che la sua dottrina non può dirsi idealistica tanto quanto non può ritenersi idealista «colui che vuol far valere i colori non come qualità che ineriscono all’oggetto in sé ma soltanto come modificazioni inerenti al senso della vista». Se, però, Kant ricava da ciò che le proprietà che costituiscono l’intuizione di un corpo appartengono solo al suo fenomeno e questo non significa che l’esistenza della cosa venga «tolta» (aufgehoben) – come fa l’“idealismo” –, «ma soltanto si mostra che non possiamo affatto, attraverso i sensi, conoscerla come è in sé» (P 289 [45]), Nietzsche fa invece un deciso passo oltre Kant affermando che niente può escludere che il noumeno coincida con il fenomeno: «La possibilità che il mondo sia simile a quello che ci appare non è affatto eliminata, quando riconosciamo i fattori soggettivi». Se è data questa coincidenza, non c’è più alcun bisogno di privilegiare la posizione dell’uomo identificando questi “fattori soggettivi” esclusivamente con il pensiero (sia esso quello delle categorie o la “cosa in
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sé” semplicemente pensata). Per di più, «volersi rappresentare il mondo senza soggetto» – «rappresentare senza rappresentazione» – è una contraddizione che solo il pensiero può formulare: occorrerebbe pur sempre, infatti, «eliminare il soggetto con il pensiero» (das Subjekt wegdenken). Questo wegdenken è manifestamente possibile solo all’uomo. Ma, se si elimina l’uomo soggetto pensante, ecco che la certificazione dell’esistenza del mondo corporeo può essere fornita da qualsiasi altro essere vivente. Mirando evidentemente troppo basso nel numero, in riferimento a quello che proprio Kant chiama le infinitamente «molteplici forme della natura» (KdU, Introduzione IV), Nietzsche annota che «forse, vi sono centinaia di migliaia di rappresentazioni soggettive»; se, dunque, si «elimina col pensiero» (wegdenken) il mondo umano, «resta quello delle formiche» (NF 1881, 10[D 82]). Ed è, questa, l’applicazione diretta di un pensiero di Schopenhauer, il quale osserva che – se l’impressione non è che «una pura sensazione nell’organo di senso» che viene trasformata in rappresentazione mediante l’applicazione del principio di causalità (dunque mediante una prestazione basica dell’intelletto, senza che intervengano i concetti e i pensieri, legati, secondo quanto Kant stesso afferma, alla “spontaneità” dell’intelletto stesso, ossia a una sua fraintesa, secondo Schopenhauer, indipendenza dall’intuizione) e delle forme intuitive dello spazio e del tempo – allora questa rappresentazione può essere distinta dall’oggetto solo «se ci si pone la questione della cosa in sé, mentre se se ne prescinde è identica con esso». Con ciò «l’ufficio dell’intelletto e della conoscenza intuitiva è compiuto (…). Perciò anche l’animale ha queste rappresentazioni» (WWV 591-592 [609-610]). In linea con questa impostazione è la conclusione del frammento di Nietzsche, che accoglie l’affermazione fatta da Kant nel passo omesso citato da Schopenhauer ma la applica non già all’uomo, bensì all’animale, perché anch’esso è capace di sensazioni: «E se si pensasse di eliminare tutta la vita tranne la formica: davvero da questa dipenderebbe l’esistenza? Sì, il valore dell’esistenza dipende dall’essere senziente» (NF 1881, 10[D82]). Facendo un passo oltre Kant, Nietzsche fa però un passo an-
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che oltre Schopenhauer. Se, infatti, l’obiettivo di quest’ultimo è pur sempre di salvaguardare la “cosa in sé”20, limitandosi a criticare il modo in cui Kant vi giunge, per Nietzsche, più radicalmente, la “cosa in sé” non esiste o è, al massimo, una mera finzione21 postulata dalla metafisica22. Già in un frammento del 1872-1873 è possibile cogliere il suo distacco da Schopenhauer: «Se noi riconduciamo l’intero mondo intellettuale sino allo stimolo e alla sensazione, questa percezione poverissima fornisce una spiegazione irrisoria». Ancor più netta è l’osservazione immediatamente successiva: «La proposizione (…) non vi è soggetto senza oggetto, né oggetto senza soggetto, è perfettamente vera, ma di una estrema banalità». Posto il problema in questi termini, la conclusione rigorosamente sviluppata non può portare che all’irrilevanza della “cosa in sé”: «Non possiamo affermare nulla riguardo alla cosa in sé, poiché sotto i nostri piedi abbiamo tolto il punto di appoggio [Standpunkt] fornito da chi conosce, cioè da chi misura». Un tale «essere che misura» è l’uomo, dato che Nietzsche ipotizza una derivazione del termine Mensch (“uomo”) da messen (“misurare”). Ma, contro la pretesa centralità di questo essere, Nietzsche gioca nuovamente la carta della critica dell’antropomorfismo: «Anche la pianta è un essere che misura». Le proprietà delle cose – «che cosa siano le cose» – «ci interessano non già in se stesse, ma in quanto agiscono su di noi» (NF 1872-1873, 19[156]). È a partire da qui che Nietzsche comincia a immaginare una funzione della conoscenza scientifica che approderà all’idea di una gaia scienza. Come si ricorderà, in GM III 12 egli parla della necessità di impegnare «quanti più affetti» e «quanti più occhi» 20 Cfr. NF 1885, 34[82]: «Schopenhauer credette di aver trovato – in una facoltà già sufficientemente stimata, la volontà – lo stesso e anche di più [sc. rispetto alla “intuizione intellettuale” di Schelling], ossia la “cosa in sé”». 21 Cfr. NF 1885, 38[14]: «La “cosa” è solo una finzione, la “cosa in sé” è addirittura una finzione contraddittoria e illecita; ma anche il conoscere, quello assoluto e quindi anche quello relativo, è del pari solo una finzione!». 22 Cfr. GD, I quattro grandi errori 3: «Per non parlare della “cosa in sé”, dell’horrendum pudendum dei metafisici!».
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nella determinazione di una cosa, in modo da giungere a una supposta completezza del «vedere prospettico». In una parola, ciò significa, come abbiamo già rilevato, che solo in una tale supposta completezza di tutte le prospettive possibili noi potremmo determinare ciò che la cosa sia, giungendo all’identificazione di fenomeno e noumeno. Questo compito potrebbe essere portato a termine solo da una scienza puramente descrittiva. Ad essa Nietzsche accenna in un frammento ancora del 1872-1873, nel quale parla della conoscenza scientifica come di una forma di «rispecchiamento» (Wiederspiegelung) che si sviluppa in parallelo con lo svilupparsi dell’uomo: «L’immagine del mondo diventa dunque sempre più vera e più completa». Ponendosi come continuazione del processo naturale, questa conoscenza produrrà una «graduale liberazione da ciò che è troppo antropomorfico» (NF 1872-1873, 19[158]). Successivamente, tuttavia, proprio questo modello di scienza gli appare in linea con il concetto tradizionale, che mira alla conoscenza positiva delle cose: noi chiamiamo «“spiegazione”» ciò che è in realtà solo «“descrizione”». Dicendo che una cosa (l’effetto) segue a un’altra (la causa), ancora «non abbiamo compreso nulla»; descrivendo le cose, non facciamo altro che proiettarvi «la nostra immagine»: la scienza è «la più fedele umanizzazione possibile delle cose» (FW 112). Non è pertanto possibile ottenere, con questo modello di scienza, una descrizione della natura che prescinda dall’uomo; non è neppure possibile sommare tutte le possibili prospettive che appartengono alla sfera del vivente. L’identificazione di fenomeno e noumeno si rivela irrealizzabile. Da questa irrealizzabilità emerge l’idea di una gaia scienza: «Ridere di se stessi come si dovrebbe, se si volesse ridere procedendo da tutta la verità [aus der ganzen Wahrheit heraus]»; da quest’ultima non può essere esclusa nessuna prospettiva legata al vivente, e non ne può quindi emergere che la nostra «sconfinata abiezione di mosca e ranocchio». Solo quando avremo appreso a ridere della nostra pretesa di conoscere, quando il riso sarà «alleato alla saggezza, forse allora ci sarà, se non altro, una gaia scienza» (FW 1). In una scienza come questa, la “cosa in sé” non scompare, ma si presen-
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ta essa stessa come prospettiva: «Il “che cos’è ciò?” è un dar senso, visto da un’altra cosa. L’“essenza”, l’“entità” sono qualcosa di prospettivistico e presuppongono già una pluralità. Alla base c’è sempre un “che cos’è ciò per me?” (per noi, per tutto ciò che vive, ecc.)» (NF 1885-1886, 2[149]). La partita non è però, con ciò, ancora chiusa. Che cosa impedirebbe, infatti, di ridurre la pluralità delle prospettive a semplici punti di vista soggettivi (il “per me”)? Che non esistano fatti ma solo interpretazioni è riconducibile alla soggettività delle interpretazioni? «“Tutto è soggettivo”, dite voi», ma aggiungere il soggetto all’interpretazione è già un’interpretazione: «In quanto la parola “conoscenza” abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”» (NF 1886-1887, 7[60]). Dunque la pluralità di senso è già data nel mondo. Ora, tuttavia, come posso cogliere questa pluralità di senso se la mia conoscenza è puramente prospettica, se ogni mio atto conoscitivo è compreso ogni volta nei limiti della prospettiva? Come posso avere consapevolezza che la mia conoscenza è prospettica, se proprio il fatto che sia prospettica non mi consente di intenderla come tale? E, in aggiunta: che cosa significa ancora “conoscenza”, date queste premesse? Per garantire questa possibilità dovrebbe esistere un punto di vista più elevato dal quale poter concludere che, appunto, la mia conoscenza è prospettica. Nell’aforisma 374 (Il nostro nuovo infinito) del quinto libro della Gaia scienza Nietzsche nega con decisione l’esistenza di un tale punto di vista: definire fino a che punto l’esistenza sia prospettica non può essere stabilito «nemmeno attraverso la più diligente analisi» perché, in quest’analisi, «l’intelletto umano non può fare a meno di vedere se stesso sotto le sue forme prospettiche e soltanto in esse. Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo» (FW 374). Questo approdo scettico, quasi un esito afasico, della concezione nietzschiana della conoscenza, è tuttavia possibile solo se si mantiene quanto meno la consapevolezza che la nostra conoscenza è prospettica. Il che è consentito dalla consapevolezza che le prospettive sono infinite; che, se è impossibile raccogliere tutte le prospettive fenome-
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niche fino a farle coincidere con il noumeno, quest’ultimo resta tuttavia come ipotesi puramente negativa e regolativa che guida la nostra conoscenza. La “cosa in sé” di Kant diviene il “nuovo infinito” di Nietzsche: è l’ultima partita che la “cosa in sé” può ancora giocare. Come ha scritto Volker Gerhardt, «ogni essere comprende della realtà sempre e soltanto la sua porzione specifica, e questa porzione è per lui l’intero». Se non esiste «alcuna prospettiva complessiva assoluta che circoscriva tutte le altre», essa tuttavia, proprio in quanto si sottrae, può essere considerata tra quelle che Kant definiva le «“condizioni trascendentali”» del conoscere (Gerhardt 2006: 141-142). Benché il giudizio di Nietzsche sullo scetticismo appaia ondivago – ora celebrato come imprescindibile strumento teoretico contro i dogmatismi della metafisica e i pregiudizi della morale, ora condannato come malattia della volontà che inibisce le istanze legate alla vita – il risultato della sua impostazione teoretico-epistemologica si colloca decisamente nel segno della scepsi. Nell’esito afasico di questa scepsi, il riso della gaia scienza si sostituisce alla volontà di affermare e di conoscere. Questo esito è già chiaramente indicato in un aforisma del Viandante e la sua ombra, in cui un vecchio domanda allo scettico Pirrone: «Oh amico! Tacere e ridere – è ora questa tutta la tua filosofia?»; «Non sarebbe la più cattiva» è la risposta di Pirrone (WS 213).
Bibliografia Gentili, Carlo: 2010. Kants ‘kindischer’ Anthropomorphismus. Nietzsches Kritik der ‘objektiven’ Teleologie, in: «Nietzsche-Studien» 39, pp. 100-119. Gerhardt, Volker: 2006. Friedrich Nietzsche, München, Beck. Kant, Immanuel: 1781/1998 (KrV). Kritik der reinen Vernunft, Hamburg, Meiner [trad. it. Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 1987]. Kant, Immanuel: 1783/1911 (P). Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, in: Kant’s
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gesammelte Schriften, vol. IV, Berlin, Reimer, pp. 253-383 [trad. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Roma-Bari, Laterza, 1982]. Kant, Immanuel: 1788/1990 (KpV). Kritik der praktischen Vernunft, a c. di K. Vorlander, Hamburg, Meiner [trad. it. Critica della ragion pratica, Roma-Bari, Laterza, 2003]. Kant, Immanuel: 1790/2006 (KdU). Kritik der Urteilskraft, a c. di H.F. Klemme, Hamburg, Meiner [trad. it. Critica della facoltà di giudizio, Torino, Einaudi, 1999]. Kant, Immanuel: 1795/1992. Zur ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, a c. di H.F. Klemme, Hamburg, Meiner [trad. it. Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant, in: Kant, Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto, a c. di F. Gonnelli, RomaBari, Laterza 2003]. Lange, Friedrich Albert: 1866/1974. Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 2 voll., Frankfurt a. M., Suhrkamp. Schlechta, Karl e Anni Anders: 1962. Friedrich Nietzsche. Von den verbongenen Anfängen seines Philosophierens, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann. Schopenhauer, Arthur: 1859/1986 (WWV). Die Welt als Wille und Vorstellung, 2 voll., Frankfurt a. M., Suhrkamp [trad. it., Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mondadori]. Stegmaier, Werner: 2012. Nietzsches Befreiung der Philosophie. Kontextuelle Interpretation des V. Buchs der Fröhlichen Wissenschaft, Berlin/Boston, De Gruyter.
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Gaia scienza e ideali ascetici (GM III 23-28) Helmut Heit
Al termine della Genealogia della morale, Nietzsche sviluppa l’idea secondo la quale la scienza non si presenta affatto come un antagonista dell’ideale ascetico, ma al contrario come la sua forma più sublime. Tale prospettiva è strettamente connessa alla concezione di una scienza gaia, alla quale egli fa ripetutamente riferimento nella Genealogia. Al fine di chiarire il rapporto tra scienza e ascesi è innanzitutto necessario comprendere cosa siano e cosa significhino gli ideali ascetici, e in secondo luogo cosa sia e cosa possa significare la scienza. Per quanto riguarda la seconda questione, tenterò di distinguere, sulla base dell’esemplare analisi di un testo di Max Heinze, la forma ascetica della scienza da quella “gaia”. Ponendo particolare attenzione alla filosofia della scienza di Nietzsche, risulta evidente che la polemica con la volontà di verità istituzionalizzata non appare unilaterale e, contrariamente alla lettura fornita da Charles Larmores, nemmeno inconsistente. La “gaia scienza” rappresenta un’occasione storico-culturale, sviluppatasi attraverso una lunga, accurata e rigorosa ricerca della verità. Ora che la fede e la certezza della conoscenza della verità si sono fatte fragili, la gaia scienza come forma di filosofia potrebbe assumersi il compito di delineare un nuovo “perché” alternativo agli ideali ascetici perdurati sinora.
1. Gaia scienza come compenso della serietà laboriosa Lo scritto polemico Genealogia della morale può a buon diritto venire considerato come un libro sobrio e persino scientifico,
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come un «vero e proprio trattato», nel quale Nietzsche perviene «ad uno dei punti più alti della propria arte dell’argomentazione» (Höffe 2004: 7). Egli sembra anche mantenere un atteggiamento generalmente aperto nei confronti della scienza e delle sue pretese di validità1. La Genealogia della morale si presenta al lettore quasi come uno studio finalizzato a un’indagine storico-culturale sull’«origine dei nostri pregiudizi morali» (GM, Prefazione 2), che fa vanto tanto del suo «addottrinamento storico e filologico», quanto della sua sensibilità per i «problemi psicologici» (GM, Prefazione 3). Già il suo titolo promette “logoi” sulla “genesis”, e in apertura della prima Dissertazione si parla addirittura di «sacrificare ogni idealità alla verità» (GM I 1). Non a caso Nietzsche pone la nuova opera esplicitamente in connessione con lo scritto giovanile, talora definito positivistico, Umano, troppo umano, che avrebbe inaugurato la fase dello spirito libero e del cosiddetto Réealismus2. Anche nella Genealogia vi sono tracce che trovano esplicita risonanza in Rée, ossia che ora, in seguito al compimento della religione e della metafisica, e «da quando hanno scritto Lamark e Darwin, i fenomeni morali possano essere riportati altrettanto bene a cause naturali» (Rée 1877/2004: 127). A differenza delle «ipotesi inglesi costruite sulle nuvole», Nietzsche indirizza expressis verbis l’attenzione sul «grigio, il documentato, l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito» (GM, Prefazione 7). Questo suona come un programma, che da altri sarà praticato in modo più dettagliato e anche più “grigio”, come nel caso di Foucault, che nei suoi studi archeologici e genealogici si 1 Maudemarie Clark (1990: 103), dal momento che sembra non distinguere né cogliere differenze di grado tra critica alla scienza e critica alla verità, interpreta questo atteggiamento positivo verso la scienza come prova che Nietzsche, al più tardi nella Genealogia, abbia rivisto le sue precedenti critiche alla verità. 2 Per il termine Réealismus si veda la lettera a Paul Rée del 10 agosto 1878, così come Ruckenbauer (2002: 37-83). Significativamente Nietzsche sottolinea inoltre nella Prefazione del 1886 alla seconda parte di Umano, troppo umano il legame di questo scritto con i precedenti lavori e pensieri risalenti intorno al 1870 (MA II, Prefazione 1). Secondo Karl Schlechta e Anni Anders questa osservazione «va presa sul serio lettera per lettera», ed essi sottolineano lo sforzo di Nietzsche per far emergere delle continuità nella sua opera (Schlechta/Anders 1962:11).
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fermerà letteralmente «ai dettagli e alle coincidenze» (Foucault 1971/2000: 72). D’altro canto, all’interno della Genealogia si cercano invano indagini di questo tipo. Ci sono, è vero, osservazioni sul concetto di estlós (vero, nobile) in Teognide di Megara (GM I 5), si parla di una «storia bimillenaria» della rivolta degli schiavi nella morale (GM I 7), i concetti di “colpa”, “coscienza”, “dovere” vengono messi (vagamente) in connessione con la sfera dei “debiti-diritti” (GM II 6), e la filosofia dei Vedanta viene citata dal commentario di Paul Deussen (GM III 17); tuttavia, il testo fornisce ben poche ricostruzioni storiche riconducibili al modello della scienza “normale” e corroborate da fatti verificabili. I polverosi dettagli di una precisa ricerca scientifica delle «condizioni e delle circostanze» dalle quali certi pregiudizi morali «sono nati e si sono andati sviluppando e modificando» (GM, Prefazione 6) non sono posti al centro di questo scritto polemico. Guardando al contenuto effettivo della Genealogia si può dire piuttosto che, in ultima analisi, a Nietzsche importava svolgere in questo scritto qualcosa di diverso e forse «molto più importante» di «una congerie di ipotesi mie o altrui sull’origine della morale» (GM, Prefazione 5), sia ciò concepito sulle nuvole o sul grigio. Al posto di concreti studi storici e analisi metodologiche di casi esemplificativi e di fonti, Nietzsche delinea un campo di ricerca in base a discussioni paradigmatiche, solleva questioni fondamentali e indica le direzioni delle loro soluzioni. Proprio in questo senso, nella significativa osservazione posta al termine della prima Dissertazione, egli espone un programma di ricerca interdisciplinare al quale possano prendere parte gli studiosi di differenti ambiti. La Genealogia della morale è in realtà un invito alla ricerca ben più che una soluzione della stessa (Fett 2001).Questo non solo è dovuto al fatto che un singolo ricercatore risulterebbe sopraffatto da un simile inaudito progetto di studi storico-morali, ma risulta anche dalla concezione che Nietzsche aveva della gerarchia (Rangordnung) delle scienze e del ruolo specifico della filosofia in essa. Di questa gerarchia egli parla molto chiaramente nella nota al termine della prima Dissertazione: «Tutte le scienze devono ormai elaborare in via preparatoria il compito futuro dei filosofi:
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intendendo questo compito nel senso che il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori» (GM I, Nota). Le singole specifiche scienze assumono così un carattere strumentale e, in quanto le Dissertazioni della Genealogia rappresentano tali singoli studi scientifici, Nietzsche le caratterizza retrospettivamente come lavori «preliminari» (EH, Genealogia della morale). Solo la filosofia si interroga sistematicamente sul “perché” e si confronta come unica disciplina con la sfida di intraprendere una gerarchia degli obiettivi d’azione, anche dell’azione del ricercatore. Questo compito superiore garantisce allo stesso tempo alla filosofia una posizione privilegiata nella gerarchia delle scienze3. Sul compito specifico della filosofia si tornerà più avanti. Per il momento ci si limita a considerare che la Genealogia della morale non vuol essere il libro di un erudito specializzato, ma il libro di un filosofo; quindi, non si tratta in senso stretto di un libro scientifico. Tuttavia, come mostrano i passaggi analizzati finora, le scienze assumono nella Genealogia della morale una posizione importante. In quanto studi storico-morali – ai quali Nietzsche, oltre all’etimologia e alla linguistica, vuole includere anche la medicina e la fisiologia – essi forniscono le competenze necessarie che sono fondamentali per una «critica dei valori morali» (GM, Prefazione 6). In quanto tali, apportano un contributo significativo per affrontare i problemi morali seriamente, così come per affrontare la loro critica e la loro trasvalutazione. In questo modo viene proposta una nuova definizione di scienza, che va oltre la sua mera funzione specialistica. Utilizzando il nome della sua Gaia scienza (ampliata nel 1887 con un sottotitolo, un quinto libro e un’appendice di canzoni), Nietzsche parla di questa ulteriore dimensione della scienza: «La gioiosa serenità (Heiterkeit) o, per dirla nel mio linguaggio, la gaia scienza – è un premio: un premio per una lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea serietà 3 Su questo tema Tilman Borsche (2012) ha fornito un contributo significativo, che sottolinea in particolare il carattere autoriflessivo e antidogmatico della filosofia della scienza di Nietzsche.
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che indubbiamente non è cosa di tutti» (GM, Prefazione 7). In questo passaggio enigmatico viene accennata una considerazione storico-culturale che sarà di supporto per l’esposizione successiva, sebbene né l’espressione “gioiosa serenità” né “gaia scienza” stiano al centro delle seguenti Dissertazioni. Al contrario, al termine dello scritto, la scienza viene chiamata in causa nel contesto d’azione del non troppo sereno ideale ascetico. Ciò non di meno, questo nesso, nella lettura qui proposta, risulta centrale. La combinazione, indicata nella prefazione dell’opera, di gioiosa serenità e serietà, ovvero la gaia scienza come premio e risultato di una laboriosa serietà, rivela il suo pieno significato solo in connessione con le osservazioni sulla scienza e gli ideali ascetici svolte al termine della Genealogia della morale.
2. Ideali ascetici come lavoro per amore del lavoro La terza Dissertazione della Genealogia della morale si incentra sostanzialmente su due questioni: «che significano gli ideali ascetici?» (GM III 1) e «dove si trova la volontà opposta in cui si esprimeva un ideale opposto?» (GM III 23). Solo nel contesto del secondo quesito le scienze giocano un ruolo di rilievo, anche se non particolarmente positivo. La proposta di adottare la scienza contemporanea come una sorta di contro-ideale viene decisamente respinta da Nietzsche. Per capire questa diagnosi radicale è necessaria una più profonda comprensione degli ideali ascetici stessi, ed è quindi opportuno riferirsi anzitutto alla prima questione: «che significano gli ideali ascetici?». In primo luogo, è sorprendente che Nietzsche non chieda cosa siano gli ideali ascetici, ma cosa essi significhino. Il “significato” di cui si parla qui non riguarda certo la questione del riferimento (Referenz), per come può intenderla una moderna filosofia del linguaggio di matrice fregeana. Già relativamente al concetto di pena Nietzsche aveva individuato in maniera inequivocabile ciò che anche Hegel prima di lui e Adorno dopo di lui hanno sottolineato: «tutti i concetti, in cui si condensa semioticamente un intero processo,
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si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia» (GM II 13). Quanto detto vale ancora di più per i cosiddetti “ideali ascetici”, il cui significato non muta solo storicamente, ma anche in relazione agli uomini o ai tipi umani. Se nel mondo che ci concerne in quanto esseri mortali ci siano cose rilevanti senza storia, noi potremmo lasciarle da parte. I fenomeni culturali, come ad esempio gli ideali umani, hanno naturalmente una storia. Fissare attraverso una definizione qualcosa che è invece storico-dinamico può effettivamente essere utile per la pratica comunicativa, ma semplifica, falsifica e nega la storicità del fenomeno in questione opponendosi a una sua migliore comprensione, pur sapendo che le cose stanno diversamente. Di conseguenza, Nietzsche non ci fornisce alcuna determinazione e ancor meno alcuna definizione dell’estensione dei momenti essenziali e accidentali degli ideali ascetici. Piuttosto, nella terza Dissertazione il concreto procedere tiene conto della storicità e della pluralità del significato degli ideali ascetici attraverso lo sviluppo di una genealogia di tipi esemplari4. Già l’uso del plurale nel titolo della terza Dissertazione indica che nella locuzione “ideali ascetici” si condensa una sintesi, il cui significato può venire alla luce solo attraverso un approccio multiprospettico5. Con “significato” si intende probabilmente quale funzione, quali vantaggi-svantaggi e quali effetti gli ideali ascetici abbiamo per determinati tipi umani e perché ricevono da questi praticamente o esplicitamente attenzione o addirittura apprezzamento. In que4 Le “decise tipizzazioni” utilizzate da Nietzsche anche in altre parti della Genealogia sono state valutate criticamene: «È possibile respingerle come iperboli unilaterali, ma vi è del metodo. Nietzsche spinge le unilateralità a tal punto che esse sono immediatamente riconoscibili come tali. Le sue tipizzazioni sono scorci prospettici, concetti che non ritraggono, ma tracciano netti contorni che dovrebbero far emergere ciò che secondo la sua prospettiva è significativo» (Stegmaier 1994: 89). Tuttavia, i tipi di esemplari di Nietzsche non corrispondono unicamente al suo personale punto di vista. Piuttosto mettono da un lato in primo piano importanti aspetti di fenomeni storici, e dall’altro evitano celate falsificazioni, che derivano dalla pretesa rappresentazione definitoria. Proprio nella loro iperbolicità i tipi nietzscheani fanno emergere la verità, perché «solo l’esagerazione è vera» (Horkheimer/Adorno 1944: 142) – un’affermazione ovviamente esagerata di per sé. 5 D’altro canto Nietzsche parla di “ideale ascetico” (GM III 1) al singolare fin dall’inizio, e nel corso della terza Dissertazione è sempre il singolare a prevalere.
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sto senso, l’ideale ascetico “significa” qualcosa che fa indovinare «ciò che sta nascosto dietro di lui, sotto di lui, in lui, ciò di cui esso è l’espressione provvisoria, non chiara, sovraccarica d’interrogativi e di fraintendimenti» (GM III 23). Per giungere a una prima nozione preliminare degli ideali ascetici, si può dire che essi, in quanto “ideali”, portino a espressione valori e obbiettivi, contrassegnino qualcosa verso cui indirizzarsi e quindi indichino al di là delle condizioni attuali. Al contempo, Nietzsche connota tali ideali come “ascetici” e li mette così in relazione alla rinuncia, all’astinenza e alla disciplina. Come diviene chiaro in GM III 2, gli ideali ascetici si intrecciano in particolare con l’inibizione della sessualità, ma non corrispondono a essa. L’alternativa alla disinibizione sessuale la vedono solo «gli sciagurati porci» (GM III 2) nel rigoroso ascetismo, quando nella castità riconoscono il suo opposto e lo venerano. Al contrario, proprio l’equilibrio tra animale e angelo sedurrebbe i ben riusciti (die Wohlgeratenen) all’esistenza. A tal proposito, il rapporto tra ascetismo e ideale non è al momento chiaro. Werner Stegmaier presume a riguardo che l’ascesi sia necessaria per tendere a un ideale, «e che per questo l’ideale sia ideale ascetico» (Stegmaier 2004: 154). Questo è senz’altro corretto, giacché un certo grado di ascesi fa parte delle condizioni per la realizzazione di ogni ideale, ma ciò non comporta che gli ideali stessi siano compiutamente ascetici, e che quindi tale attributo ne costituisca la specificazione. A questo punto si fa strada un’ulteriore considerazione di Stegmaier, secondo il quale, paradossalmente, un ideale specificamente ascetico diviene attrattivo in virtù della sua irrealizzabilità: «il fatto che non possa essere raggiunto non solo non lo svaluta, ma motiva a maggiori sforzi per la sua realizzazione, e questo più da esso si è lontani» (Stegmaier 2004: 155). A questa conclusione giunge anche Charles Larmore: «ciò che Nietzsche vuol denotare col generico termine degli ideali ascetici, è la convinzione di avere un obbiettivo mai completamente raggiungibile verso il quale si deve tendere perseveranti, coscienziosi e disposti a fare sacrifici» (Larmore 2004: 166). Pertanto, agli ideali ascetici appartiene una certa mancanza di misura, un’irrequietezza
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permanentemente percepita come inadeguatezza, così come una forte tensione verso il futuro e il progresso, e in questo senso anche verso l’aldilà. Nella misura in cui gli ideali ascetici consistono in questa tensione verso obbiettivi irraggiungibili, essa stessa assume la funzione di un vero e proprio valore. Ecco che la pratica della forma di vita ascetica non è più solo un mezzo, ma di fatto l’intero contenuto e lo scopo dell’ideale ascetico. Vedremo come la ricerca scientifica della verità corrisponda a questa vocazione. Allo stesso modo, non si sottolineerà mai abbastanza che gli ideali ascetici o quantomeno l’ascesi non sono in Nietzsche in alcun modo di per sé connotati in senso negativo, ma hanno un aspetto positivo sia per la cultura in quanto tale, sia per specifici tipi umani. Il loro significato dipende in particolare dal fatto che essi rappresentino, per un determinato tipo, solamente un mezzo per un fine personale, o che invece finiscano per occupare il posto di quello stesso fine. Questa alternativa diventa chiara nel confronto tra i filosofi, presso i quali gli ideali ascetici giungono già alla «questione più seria» (GM III 5), e i preti, presso i quali soltanto l’ideale ascetico diventa «una cosa seria» (GM III 11)6. Il filosofo si pone positivamente nei confronti degli ideali ascetici, poiché questi fanno parte della sua condizione esistenziale in quanto libero pensatore, «egli con questo non nega “l’esistenza”, piuttosto afferma in essa la sua esistenza e unicamente la sua esistenza» (GM III 7). Alla sua esistenza appartengono solitudine e deserto, libertà dalle preoccupazioni e responsabilità, pace interiore come esteriore e una disposizione controllata delle passioni interne, dove «tutti i cani [sono] messi per benino alla catena» (GM III 8). Anche un certo distacco dal mondo fa parte di queste condizioni, per Nietzsche, che comprende se stesso e i propri lettori in queste condizioni: «noi filosofi abbiamo soprattutto bisogno di un’unica quiete: quella lontana da ogni “attualità”» 6 Nietzsche non presta alcuna ulteriore attenzione al significato opportunista, confortante e civettuolo degli ideali ascetici per signore o per la normale massa dei disgraziati e degli scontenti. All’artista, cioè sostanzialmente a Wagner, dedica alcuni paragrafi, giungendo alla conclusione che gli ideali ascetici non avessero in sostanza per lui “alcun significato” (Guéry 2004: 137, cfr. GM III 5).
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(GM III 8). In questo senso le tre «pompose parole» degli ideali ascetici «povertà, umiltà, castità» corrispondono alle «tre cose abbaglianti e chiassose» che il filosofo evita: «la gloria, i principi e le donne» (GM 8 III). D’altro canto, vi sono qui delle indicazioni per una svolta produttiva, che risulta di interesse relativamente alla questione centrale circa il rapporto tra ascetismo e scienza, poiché i filosofi «pensano in definitiva al sereno ascetismo di un animale divinizzato e divenuto alato» (GM III 8). Essi sono per Nietzsche «ponti verso l’indipendenza» (GM III 7), e quindi mezzi per un fine personale più alto. In questo senso Nietzsche constata che «una dura e serena rinuncia spontaneamente voluta appartiene alle condizioni favorevoli di un’altissima spiritualità, come pure alle sue più naturali conseguenze» (GM III 9). Così, per il filosofo l’ideale ascetico non significa solamente un presupposto e una conseguenza della propria esistenza, ma si intreccia con la gioiosa serenità e con la divinizzazione. Questa dimensione gioiosa suggerisce anche una connessione tra filosofia e scienza, che potrebbe, in opposizione alla “scienza della serietà”, assumersi effettivamente il compito di un’alternativa agli ideali ascetici. Nei preti, invece, l’indagine relativa al significato dell’ideale ascetico non rinviene alcuna traccia di gioiosa serenità. «Solo a questo punto, dopo esserci concentrati sul prete ascetico, affrontiamo seriamente da vicino il nostro problema: che cosa significa l’ideale ascetico? Ora facciamo sul serio: siamo ormai faccia a faccia con il vero e proprio rappresentante della serietà in generale?» (GM III 11). Senza entrare qui troppo nei dettagli circa lo specifico contributo che il prete offre alla filosofia culturale della Genealogia della morale, la sua serietà che si contrappone alla potenzialmente gioiosa ascesi dei filosofi documenta le possibilità di significato fondamentalmente diverse degli ideali ascetici. Nel tipo del prete, al quale Nietzsche accosta il filosofo Eugen Dühring (GM III 14, cfr. Stegmaier 2004: 157), gli ideali ascetici acquisiscono un significato profondo e pericoloso nella storia della cultura. Il «prete è il modificatore di direzione del ressentiment» (GM III 15), in lui gli ideali ascetici si mostrano
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come «istinto di protezione e di salute di una vita degenerante» (GM III 13) e come espressione di malattia. Ma per il prete l’ascetismo non è più soltanto al servizio della protezione e della conservazione; piuttosto, il risentimento diviene qui creativo e produce una volontà di vivere paradossalmente ostile alla vita, che consiste nel perpetrare se stessa come ideale ascetico: «qui si consuma un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza» (GM III 11). Con l’ausilio dell’ideale ascetico, il prete coltiva il dolore dell’esistenza e la giustifica come tensione imperfetta verso obiettivi irraggiungibili. Gli sforzi presenti, le sconfitte, le debolezze, il dolore, le scoraggianti avversità non vanno solamente sopportate, ma accolte come sforzi e prove necessarie sulla strada per l’ideale; vengono in definitiva convertite da obiezioni a contrassegni di una vita ben riuscita. Con ciò il prete riesce da una parte a dare un senso alla sofferenza, poiché «ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire» (GM II 7). Inoltre, il prete offre diverse pratiche ed esercizi per lo più di successo per evitare una depressione suicida. Queste comprendono l’attenuazione generale del sentimento vitale (GM III 17), il lavoro eccessivo e insensato, ma anche una dose di piccoli piaceri, come ad esempio l’amore per il prossimo (GM III 18). Il suo mezzo più potente e più pericoloso è l’entusiasmo, l’«aberrazione del sentimento» (GM III 19). Mezzo ed espressione dell’ideale ascetico possono essere anche le manifestazioni apparentemente estreme di un sentimento vitale indomabile, come è particolarmente evidente nella complessa strumentalizzazione del senso di colpa. D’altra parte, nonostante questo contributo, il prete non è in definitiva un medico; egli porta «unguenti e balsami, non v’è dubbio; ma ha prima bisogno di ferire per poter essere medico» (GM III 15). Con l’ausilio della sua complessa strumentazione palliativa e consolatoria egli non solo non coglie la causa prima del dolore, ma al contrario la esalta e la rinnova. Tra l’altro, assume così il ruolo privilegiato di pastore nella sua «concentrazione e organizzazione dei malati (…) (– la designazione più popolare di ciò che è la parola “Chiesa”)» (GM III 16). I preti universa-
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lizzano così gli ideali ascetici, che altrimenti avrebbero significati concreti unicamente per determinati tipi concreti, e li universalizzano verso una forma generale della rappresentazione e della concezione del mondo assieme all’orientamento morale all’interno di esso. Nel tipo del prete l’ideale ascetico giunge così a se stesso. Esso dà all’azione e al pensiero umani una destinazione (se stesso), così come dà un senso alla vita e al dolore. L’influsso dominante dell’ideale ascetico sulle pulsioni vitali e sugli affetti passa così da essere un mezzo concreto e parzialmente utile a essere uno scopo indipendente e un massimo ideale, dal momento che, in assenza di un altro e più potente ideale, non sarebbe altrimenti possibile indicare a che scopo tutto lo sforzo debba risultare in ultima analisi valido.
3. Scienza ascetica come zelo senza scopo ovvero idealismo credente Anche se una genealogia non può essere una confutazione di giudizi normativi, è tuttavia chiaro che Nietzsche non proponga di rivalutare gli ideali ascetici e veda anzi come problematiche le prospettive che essi aprono e il loro effetto sul piano culturale. Su questo sfondo egli pone un secondo insieme di questioni alla fine della terza Dissertazione: «Dov’è il contrapposto di questo sistema chiuso di volontà, meta e interpretazione? Perché manca il contrapposto? … Dov’è l’altra “unica meta”?» (GM III 23). Riprendendo una risposta in uso nei suoi tempi, Nietzsche giunge così a parlare della scienza, che ha come obbiettivo una conoscenza della verità oggettiva e sobria: «Mi si dice che [questo contrapposto] non manca, che non solo ha ingaggiato una lunga fortunata battaglia con quell’ideale, ma che già in tutto quanto è più importante si sarebbe imposto su quell’ideale: ne sarebbe una testimonianza la nostra scienza tutta quanta» (GM III 23). Pensare alla scienza come “controparte” di una visione del mondo dominata dai preti potrebbe apparire cosa ovvia, nel tardo Ottocento. Diverse narrazioni storico-culturali facevano riferi-
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mento a una posizione mutata delle scienze, in base alla quale l’umanità da origini primitive e infantili si sarebbe sviluppata attraverso un processo graduale che spesso viene messo in parallelo con le fasi della vita dell’uomo, e che nella fase storicoculturale dell’Europa contemporanea avrebbe raggiunto una sobrietà e virilità adulte. Varianti di questa storia del progresso si possono trovare in numerosi autori del Diciannovesimo secolo; per esempio, Nietzsche aveva studiato a fondo i libri di John William Draper7. Di particolare rilievo è la formulazione della legge delle tre fasi di Comte: dopo una fase mitico-religiosa e una fase filosofico-metafisica, l’umanità entra finalmente in una fase scientifico-positiva. Elementi centrali di queste narrazioni sono le considerazioni etnografiche sulle culture primitive, le contrapposizioni culturali con la chiesa contemporanea e il trionfo tecnologico-sociale delle scienze naturali. Dopo la confutazione dei tradizionali sistemi religiosi e metafisici – come giustamente riassume Werner Stegmaier –, le scienze dovrebbero «prendere ora il posto della religione e della morale, e lo scienziato dovrebbe sostituire il prete» (Stegmaier 1994: 193). Dal momento che le precedenti forme di rappresentazione e concezione simbolica del mondo hanno perso la loro funzione persuasiva e vincolante, è la scienza, o addirittura, nello specifico, gli scienziati, a doversi assumere il compito di stabilire i principi dell’orientamento culturale. Nietzsche si domanda se le scienze siano all’altezza del compito, e se queste “scienze moderne” e “filosofie della verità” abbiano il «coraggio di sé, la volontà di sé sino a oggi s’è cavata d’impaccio abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù negatrici» (GM III 23). Contro questa immagine sicura di sé, e 7 Nella biblioteca di Nietzsche si trovano ancora i testi di John William Draper da lui comperati nel 1875: Geschichte der geistigen Entwickelung Europas. (Leipzig: Wigand, 1871) und Geschichte der Conflicte zwischen Religion und Wissenschaft (Leipzig: Brockhaus, 1875). In entrambi gli studi, Draper ripercorre la concorrenza tra religione e scienza dagli inizi della ricerca scientifica nell’antica Grecia (nella quale solamente la Biblioteca di Alessandria viene da lui considerata come «fucina di una ricerca rigorosamente scientifica»), attraverso la medievale «età della fede» sino alla contemporanea «età della ragione».
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sebbene Nietzsche si sia dichiarato in questo scritto un amico delle scienze, egli non accorda ad esse questa centrale funzione culturale: «oggi la scienza non ha assolutamente alcuna fede in sé – e ovunque essa è ancora passione, amore, ardore, sofferenza, non costituisce l’antitesi di quell’ideale ascetico, ma piuttosto la sua stessa forma più recente e più nobile» (GM 3 23). Con questa formulazione Nietzsche differenzia due funzioni di scienza, ovvero due tipi di scienziato, che nei paragrafi seguenti verranno ulteriormente analizzate. Da un lato egli vede un «popolo d’operai abbastanza a modo e modesto» (GM III 23), e dall’altro gli «ultimi idealisti» e «tisici dello spirito» (GM III 24). Per comprendere la sua filosofia della scienza è fondamentale tener presente questa distinzione8. Nietzsche vede la stragrande maggioranza degli scienziati e delle pratiche scientifiche del suo tempo fare ricerca “da piccole nicchie”, soddisfatti «di fare qualcosa di molto utile» (GM III 24) attraverso un lavoro rigoroso, così da affrontare metodicamente i problemi scientifici. Si può certamente pensare alla pratica di soluzione di enigmi, che secondo l’analisi di Thomas Kuhn caratterizza la ricerca della “scienza normale”, per cui si ha fiducia di poter risolvere un determinato problema seguendo le regole stabilite all’interno di un paradigma fisso9. Nietzsche rispetta senz’altro queste ricerche dettagliate e specializzate («del loro lavoro io mi rallegro», GM III 23) e non nega l’utilità di tale ricerca, né la validità dei suoi risultati. In pratica, non assume alcun atteggiamento antiscientifico, ma esclude la possibilità di una visione del mondo scientifica indipendente, che si configurerebbe come alternativa 8 Anche nel sesto paragrafo di Al di là del bene e del male Nietzsche opera questa distinzione. Da un lato colloca la grande filosofia come “autoconfessione del suo autore”, che testimonia «in quale disposizione gerarchica (Rangordnung) i più intimi istinti della natura siano posti gli uni rispetto agli altri» Dall’altro lato l’erudito è un «piccolo meccanismo d’orologeria che, caricato a dovere, svolge alacremente il suo bravo lavoro» e ha il suo vero interesse al di fuori della ricerca «semmai nella famiglia o nel guadagno o nella politica; è anzi quasi indifferente che il suo piccolo congegno venga applicato a questo o a quell’altro settore della scienza e che il giovane lavoratore, “pieno di speranze”, faccia di sé un buon filologo o un esperto di funghi o un chimico» (JGB 6). 9 Cfr. Kuhn 1969: 49-56.
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all’ideale ascetico. Piuttosto, per Nietzsche «la valentia dei nostri dotti migliori, la loro smorta diligenza, la loro testa giorno e notte fumigante, la loro stessa maestria di mestiere» (GM III 23) è l’indizio di un’attività essenzialmente priva di direzioni, che non ha alcun ideale al di sopra di sé. In questo senso la scienza è un nascondiglio, nasconde in sé «l’inquietudine della stessa assenza di ideali, il soffrire la mancanza del grande amore, l’insufficienza di una involontaria moderazione» (GM III 23). Di sicuro le speculazioni di questo tipo sugli stati d’animo degli scienziati “normali” sono difficilmente dimostrabili, ma non sembrano di per sé implausibili. La giovane generazione scientifica (una parola che avrebbe sicuramente avuto il favore di Nietzsche), auspica attraverso lo zelo e la competenza, così come attraverso la fortuna e le buone relazioni, di guadagnare un posto fisso e venire infine confermata. Il professore ordinario, al contrario, aspetta che gli sia assegnato un particolare ambito di ricerca, attende il successivo accreditamento, il segno del crescente prestigio nella comunità scientifica di appartenenza, oppure anche solo la pensione. Per quanto riguarda la questione del perché, anche solo del perché delle scienze, egli ha al massimo un’opinione personale. Nietzsche pone accanto al tipo degli operosi-eruditi-disinteressati, gli “ultimi idealisti” tra gli scienziati contemporanei, che si credono comunque rappresentanti di un altro ideale (GM III 24), anche se essi, nel loro agire, esercitano la medesima sobrietà dei filosofi. Di conseguenza, non sorprende che Nietzsche caratterizzi in genere con un certo apprezzamento anche questo tipo di «spiriti duri, severi, temperati, eroici, che costituiscono l’onore della nostra età», con la sua «esigenza di pulizia intellettuale» (GM III 24). In realtà, egli riconosce se stesso in questi spiriti, egli conosce da vicino il loro ateismo e scetticismo, e apprezza «quella veneranda moderazione filosofica (…) quel voler restare inchiodati dinanzi all’effettuale, al factum brutum» e «quel rinunciare all’interpretazione in generale» (GM III 24). Nietzsche in definitiva non riconosce anche in questo secondo tipo nessun contro-ideale. Sottolineando il loro “voler stare inchiodati” innanzi ai piccoli fatti e al tentativo di rinunciare a valutazioni e
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interpretazioni, così come ad arrogarsi traduzioni, essi portano ad espressione uno scetticismo ancor più radicale di quanto si trovi presso gli eruditi meno idealisti. Giacché essi vogliono astenersi da qualsiasi giudizio, portano al massimo «l’autodisprezzo dell’uomo» (GM III 25). Allo stesso modo, fanno ciò sulla base di una credenza doppiamente problematica: il fatto che credano è già di per sé problematico, nel senso che nella fede viene ad espressione un atteggiamento fiducioso e acritico verso ciò che si crede. Quello che credono è problematico perché la loro fede nel valore assoluto della verità e la loro ferma volontà a riguardo «è la fede nell’ideale ascetico stesso» (GM III 24), quand’anche nella sua forma più sublime e raffinata. Perciò si differenziano così dagli autentici spiriti liberi, «poiché credono ancora alla verità…» (GM III 24). Questa fede, allora, è ciò che unisce e collega indissolubilmente idealisti e scienziati nella pratica e nella virtù dell’ascesi. Al contrario, la “nostra diffidenza” insegna a prendere in considerazione solo una fede particolarmente forte ed ermeticamente protetta, come indizio dell’improbabilità di ciò che si crede: «noi “uomini della conoscenza” siamo da tempo divenuti diffidenti verso ogni sorta di credenti» (GM III 24). Questa diffidenza, perfino nella sua distanza critica di fronte a ogni ingenuità, evidentemente un prodotto della volontà di verità, si indirizza ora alla fede nel valore della verità stessa. Le scienze dunque non si pongono come alternativa agli ideali ascetici, e questo per due ragioni: in primo luogo la scienza non può produrre alcun ideale opposto, poiché «ha sotto ogni aspetto innanzitutto bisogno di un ideale di valore, di una potenza creatrice» (GM III 25). Come faranno significativamente più tardi Max Weber, Robert Merton e altri, la scienza viene qui considerata come istituzione neutra dal punto di vista dei valori anche da Nietzsche. Le scienze non possono decidere cosa vale la pena conoscere e cosa no per mezzo della scienza stessa. Sebbene siano le scienze a porre nuovi problemi, e con ciò esse stimolino gli interessi conoscitivi, la questione del se e del perché si voglia ricercare e sapere specificamente qualcosa si pone al di fuori della ricerca scientifica e non trova risposta attraver-
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so conoscenze scientifiche. Anche al di là della concreta pratica scientifica, la scienza ci può istruire sui mezzi idonei per il raggiungimento dei nostri scopi, oppure su incoerenze e discrasie tra obbiettivi diversi, ma non può porre questi stessi scopi. Intesa in questo modo – strumentalmente – un’immagine del mondo puramente scientifica non è possibile, poiché non vi sono mezzi per stabilire valori. Tenendo in considerazione il valore, al quale le scienze intrinsecamente si riferiscono, ossia la verità, si dimostra per Nietzsche come in ciò non sia da vedere propriamente un contrapposto dell’ideale ascetico, «anzi nell’intimo processo formativo di quello essa rappresenta ancora, in sostanza, addirittura la forza propulsiva» (GM III 25). Questa è la seconda ragione per cui le scienze non si oppongono all’ideale ascetico, dal momento che essi «riposano invero sullo stesso suolo», si basano comunemente «sull’identica sopravvalutazione della verità (più esattamente: sull’identica fede nella insuscettibilità di valutazione e di critica da parte della verità», e possono pertanto essere messe in questione solo congiuntamente: «una svalutazione dell’ideale ascetico trae inevitabilmente dietro di sé anche una svalutazione della scienza» (GM III 5). Le citazioni della Gaia scienza e i contenuti di GM III insistono su tale svalutazione dei valori, e hanno perciò il fine comune di porre quantomeno in questione la volontà di verità. Cosa comporti la questione del valore della verità e quale compito ci competa nella forma di una “gaia scienza” è l’oggetto dei prossimi due capitoli10.
4. Volontà di verità come ascesi intramondana Il discorso «sul valore morale della scienza» pronunciato da Max Heinze in occasione dell’avvicendamento al rettorato all’Università di Lipsia il 31 ottobre 1883 costituisce un buon riferimento per considerare in maniera più concreta il significa10 Sulla problematizzazione della verità in GM III 24 e 27 si veda anche il contributo di Pietro Gori al presente volume.
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to della volontà di verità per l’autocomprensione della scienza da parte dei contemporanei di Nietzsche. Il testo in questione si trova nella biblioteca privata di Nietzsche ed è sicuramente un dono da parte dell’autore. Se Nietzsche abbia letto il testo non è così rilevante, poiché in questo contesto esso svolge piuttosto una funzione esemplare. Nietzsche aveva conosciuto Max Heinze nel 1861, a Schulpforta, quando egli divenne suo tutore in seguito alla prematura scomparsa di Robert Buddensieg. Nel 1874 furono colleghi per un anno a Basilea, al qual proposito Nietzsche alla sua partenza si espresse in maniera non troppo lusinghiera: «Che quel povero sciocco di Heinze sia uscito di scena sono proprio contento, alla lunga era una cosa insopportabile. E in generale tutta la congrega dei professori tedeschi. Heinze però è un esemplare eccezionalmente limitato di questa razza già di per sé non molto affascinante e piuttosto povera di contenuti» (lettera a E. Nietzsche, 19.04.1875). Dopodiché mantennero per il resto della vita rapporti formalmente educati. Nietzsche fece sempre pervenire a Heinze copie gratuite dei suoi libri e infine Heinze, in quanto tutore di Nietzsche, tenne un discorso di fronte alla sua tomba. Nonostante i suoi commenti sprezzanti sulla banda professorale tedesca, Nietzsche nel 1883 sondò comunque la possibilità di una cattedra di filosofia a Lipsia. Da Heinze ricevette ben presto una valutazione informale ma chiara: «Heinze, attualmente rettore dell’Università, mi ha detto a chiare lettere che a Lipsia la mia domanda non verrà accolta (e sicuramente in nessuna delle Università tedesche); e che la facoltà non ardirà proporre il mio nome al Ministero – a motivo della mia posizione nei riguardi del Cristianesimo e delle mie idee su Dio. Bravo! Questo modo di vedere le cose mi ha fatto ritrovare il mio coraggio» (A H. Köselitz, 26.08.1883). Evidentemente questo atteggiamento rafforzò Nietzsche nella convinzione della validità e dell’importanza della sua critica. Heinze stesso nel suo discorso per il rettorato espresse delle considerazioni sul rapporto tra religione, verità e scienza, del tipo che egli nella lettera attribuisce alla facoltà e al ministero. Dando il via al suo discorso programmatico sulla questione
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di un valore morale delle scienze, Heinze fornisce brevemente alcune risposte classiche. Per Kant solo il retto volere può essere considerato pienamente buono, Rousseau nega esplicitamente la questione e anche la dottrina “patologica” del pessimismo e parte dalla considerazione «che la conoscenza e la felicità non aumentano in proporzioni uguali» (Heinze 1883: 19). Giacché la scienza ha creato una varietà di mezzi che facilitano la vita e alleviano i mali degli uomini d’oggi, c’è «al giorno d’oggi per il singolo la possibilità di acquisire un relativo benessere, che in media è maggiore rispetto al passato». Utilizzando un’implicita equazione tra benessere e felicità, Heinze conclude così che «in generale non si può pensare a una riduzione della felicità del genere umano» (Heinze 1883, 20) e sottolinea, in linea con la concezione comune del suo tempo, i vantaggi pratici della scienza e della tecnologia. In ogni caso nella storia della filosofia sono state prevalenti le correnti che hanno posto in stretta connessione la conoscenza e la felicità, a partire dalla tesi socratica «virtù è conoscenza» (Heinze 1883: 21), fino alla Wissenschaftslehre di Fichte (Heinze 1883: 25). La morale non è però un privilegio delle scienze, poiché ognuno dovrebbe «nella sua professione riconoscere la volontà di Dio, compiere il proprio dovere e avvicinarsi all’idea morale» (Heinze 1883: 26). Tuttavia, Heinze fa notare che, partendo dal sublime soddisfacimento dell’aspirazione umana a conoscere nelle scienze, si può capire perché Platone e Aristotele riconobbero in ciò la perfezione più alta dell’uomo. Del resto è ancora oggi evidente una posizione speciale delle scienze «perché da essa dipende lo sviluppo della conoscenza e in seguito a questa anche l’aumento del benessere e della moralità del genere umano» (Heinze 1883: 26). In quanto istituzioni culturali, Heinze attribuisce alle scienze una straordinaria importanza per un maggiore sviluppo e una maggiore elevazione tecnologica e morale della società. In questo modo egli sembra sostenere l’idea che le scienze posseggano una forma di “autocoscienza”, e potrebbe senz’altro appartenere a coloro che dicono che il contro-ideale cercato da Nietzsche non manca affatto. Relativamente alla sua determinazione del rapporto interno tra
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scienza e morale, si rivela però anche in Heinze il legame con gli ideali ascetici. La «virtù principale del cristiano e dell’uomo è l’umiltà, una virtù che gli scienziati potrebbero e dovrebbero apprendere in modo particolare» (Heinze 1883: 27). Nello splendido concetto di “ideale ascetico” non si esprime soltanto un atteggiamento umile dello scienziato nei confronti delle sue prestazioni individuali, ma anche verso le possibilità della stessa della scienza: «L’idea di scienza come visione completa dell’ordine legittimo e sistematico della totalità delle cose non viene mai raggiunta, all’uomo è posto con essa un compito senza fine, e solo riguardo ad essa l’anelito verso un sempre ulteriore miglioramento può essere continuamente tenuto vivo, ma allo stesso tempo rimane vigile la consapevolezza delle barriere che da sempre si sono interposte all’uomo come all’umanità. Quindi l’idea del meraviglioso risultato raggiunto dall’uomo non può nascere, o almeno non può mantenersi continuamente» (Heinze 1883: 27). Heinze esprime così un atteggiamento che si lega alla consapevolezza generale nel passaggio dalla comprensione classica della scienza a quella moderna, e che Gregor Schiemann (1997), aveva caratterizzato come «perdita di certezza nella verità» (Wahrheitsgewissheitsverlust). La sua caratteristica principale è la visione limitata e il carattere essenzialmente fallibile di tutte le conoscenze scientifiche. L’ideale della ricerca della verità è dunque una idea regolativa alla quale noi possiamo al massimo avvicinarci11. Nella formulazione di Heinze questo atteggiamento umile mostra allo stesso tempo le caratteristiche dell’ideale ascetico: sebbene, o proprio perché, l’idea della scienza non possa mai essere realizzata, la ricerca scientifica della verità da mezzo concreto diviene compito infinito, e la tensione perennemente tenuta desta diviene fine a se stessa. Anche la forma che questa tensione assume ha il carattere del lavoro ascetico, giacché il ricercatore scientifico deve mantenere una doppia libertà: in primo luogo si 11 Questo cambiamento dell’immagine della scienza come ipotetico-deduttiva invece della tradizionale concezione assiomatico-deduttiva nella seconda metà del XIX secolo viene descritta con particolare chiarezza da Alwin Diemer (1968).
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libererà da se stesso, egli «cerca, senza alcun vantaggio esterno in mente, la verità», ed impara «a porre in secondo piano i propri stessi interessi e a porsi al servizio di un potere superiore più generale» (Heinze 1883: 28). In secondo luogo si emanciperà da autorità e pregiudizi sociali. Nonostante l’obbiettivo della verità non venga positivamente e definitivamente raggiunto attraverso questa presa di distanza, ciò non di meno si intravede una conseguenza pratica: «Se i discepoli della scienza subordinano se stessi e tutto il resto all’idea della scienza, allora presso questi anche in campo morale la legge prevarrà facilmente sull’arbitrio personale, e la regola universale su quella individuale» (Heinze 1883: 28). Al termine di queste argomentazioni Heinze giunge a parlare anche di Martin Lutero come modello di questa tensione verso la verità, e chiede infine la benedizione di Dio per i lavori del nuovo anno accademico, ma questo si può tralasciare. È fondamentale invece che Heinze intenda la scienza come una ricerca disciplinata della verità e allo stesso tempo sia convinto che, per quanto ci sforziamo per questo ideale, alla fine non riusciremo mai a raggiungerlo. Allo stesso tempo, la continua ricerca della verità viene giustificata dai suoi “effetti collaterali”, in particolare attraverso l’educazione a una morale dell’impegno consapevole del proprio dovere e attraverso le crescenti possibilità tecnologiche, che derivano dal continuo aumento di conoscenze specialistiche. Il lavoro del progresso scientifico è infinito, sia che la ricerca sia fine a se stessa (ovvero senza un proprio ideale), sia che sia al servizio di altri interessi, generalmente economici. La stretta connessione tra scienza e ideali ascetici con i tratti fondamentali di un’etica del lavoro capitalistico-protestante è stata sottolineata da Babette Babich: «Il modello sociale di regolamentazione e impersonalità che caratterizza il nostro mondo del lavoro e dell’impresa è il criterio esplicito non solo del capitalismo, ma anche dell’efficienza scientifica» (Babich 1994: 193). La scienza è, tanto nella sua pratica quanto nella sua teoria, una forma di ascesi intramondana, in quanto si adatta alle modalità produttive del capitalismo, insieme al quale essa inaugura il suo trionfo mondiale nel XIX secolo. Questi sforzi inesausti e ricchi di sacrifici per un costante
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incremento di efficienza in campo scientifico aumentano attraverso la volontà di verità, il cui valore stesso come idea puramente regolativa non viene messo in questione . Qui Nietzsche riconosce nell’ulteriore avanzamento dello scetticismo illuminato un’irrinunciabile premessa per superare gli ideali ascetici.
5. Il valore della verità in una gaia scienza Il passo più importante verso il superamento degli ideali ascetici e verso la realizzazione di veri spiriti liberi e di una vera gaia scienza viene riconosciuto da Nietzsche nel raggiungimento di una svalutazione (Wertabschätzung) della verità. Nonostante Nietzsche lasci quantomeno aperto il risultato di una simile svalutazione, non pochi vedono nella mera messa in discussione del valore della verità un procedimento problematico, se non incoerente o autocontraddittorio12. Questa critica è stata presentata in maniera particolarmente decisa da Charles Larmore in relazione alla conclusione della Genealogia. Nietzsche avrebbe sollevato una serie di questioni molto buone, ma la sua trattazione sarebbe «in ultima analisi superficiale» (Larmore 2004: 168). Larmore riassume una di queste questioni come segue: «Perché la verità dovrebbe essere così importante, apparire così imprescindibile da renderci difficile immaginare una vita in cui non ci possiamo orientare secondo opinioni che teniamo per vere?» (Larmore 2004: 167). Già il modo in cui qui viene tradotta l’esigenza di Nietzsche di una svalutazione della verità, rimanda a una serie di problemi che si situano tra le tesi di Nietzsche e la critica di Larmore: la questione del valore viene identificata con la questione dell’importanza ovvero dell’apparente necessarietà, la verità viene identificata con la qualità delle opinioni; il problema della verità appare come il problema psicologico di orientamento verso ciò che crediamo essere vero, e l’istanza chiarificatrice dovrebbe indicare quale vita possiamo immaginare. Come si vedrà, que12
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Cfr. Heit 2009.
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sti cambiamenti e traduzioni non sono in ultima analisi adatti a comprendere e criticare adeguatamente il legame che Nietzsche pone tra volontà di verità e ideale ascetico. Il nucleo dell’ideale ascetico (conformemente all’interpretazione esposta anche qui) consiste per Larmore «nell’avere un obbiettivo mai completamente raggiungibile, verso il quale la coscienza deve costantemente tendere e sacrificarsi» (Larmore 2004: 166). A mio avviso, Larmore non contesta il fatto che la verità possa essere intesa come un valore irraggiungibile al quale tuttavia si deve tendere, anche se egli intende chiaramente la verità come qualcosa di cui possiamo disporre positivamente. Il motivo per cui egli reputa fuorviante la connessione degli ideali ascetici con la volontà di verità è altro e più profondo: il valore di verità non si configura come atto arbitrario dell’uomo, ma piuttosto come un obbligo, che noi possiamo evitare solo a patto di non pensare più razionalmente: «Il legame con la verità non è così estraneo al pensiero, come Nietzsche ipotizza qui. Al contrario, il pensiero è in definitiva incomprensibile se non lo si pensa come indirizzato verso la verità. Si può addirittura dire che questo rapporto necessario tra pensiero e verità abbia il carattere di un obbligo. Giacché come si potrebbe in genere pensare, senza sentirsi obbligati ad osservare almeno in una certa misura ciò che si ritiene già vero?» (Larmore 2004: 169). In questa domanda vaga e retoricamente formulata già si preannuncia la linea centrale di ragionamento che Larmore sviluppa nel corso del testo. A questo proposito l’esatto significato del sentimento dell’obbligo viene trattato purtroppo con altrettanta poca precisione così come la limitazione relativizzante secondo la quale si dovrebbe tener conto almeno in certa misura del proprio modo di ritenere vero qualcosa. Larmore analizza piuttosto il carattere specifico dell’obbligo alla verità, e questo dimostra che egli implicitamente intende l’ideale ascetico solo come convenzione arbitraria – infatti l’integrazione diventa perspicua solo attraverso la direzione della sua critica. Sebbene la verità sia un valore, non si tratterebbe di un valore convenzionale o facoltativo. A differenza di altri obblighi, la costrizione del pensare alla verità
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non è soggetta all’arbitrio umano, ma sarebbe piuttosto condizione necessaria del pensiero stesso. Perciò, per Larmore un pensiero senza valutazione della verità non solo è incomprensibile, ma neanche realizzabile per noi: «Senza la verità quale punto di riferimento essenziale il pensiero è semplicemente impossibile» (Larmore 2004: 171). Tuttavia, quando Nietzsche mette apparentemente in discussione questa impossibilità, non sembra essere quel filosofo particolarmente acuto (tiefblickender) che punta criticamente il dito contro un «residuo d’ideale» (GM III 27). Piuttosto che essere una «lacuna di ogni filosofia», agli occhi di Larmore l’obiezione che finora non esisterebbe alcuna «coscienza di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di una giustificazione» (GM III 24) discredita lo stesso pensiero di Nietzsche: «Ciò che Nietzsche non ravvisa è che alcuni obblighi, il riconoscimento di certi valori come appunto della verità, sono così profondamente ancorati nel pensiero, che costituiscono le condizioni della sua possibilità. Tali valori non sono creati dal pensiero. Al contrario, solo sotto la loro guida il pensiero si può orientare». (Larmore 2004: 172). Data l’importanza fondamentale di questa obiezione per la comprensione della filosofia di Nietzsche e della volontà di verità, vale la pena di soffermarsi un momento su questa citazione. Sarà anche da chiarire che cosa si possa intendere con il discorso di certi obblighi e certi valori, nonché del profondo ancoraggio di tali obblighi nel pensiero. Innanzitutto, bisogna domandarsi da dove provengano questi obblighi, dal momento che essi – contrariamente a quanto sostenuto da Kant – non vengono creati dal pensiero. Con la sua metafora dell’ancoraggio Larmore vuole probabilmente dire che dobbiamo considerarci sottomessi a questi obblighi di pensiero «per poter pensare in modo coerente» (Larmore 2004: 171). La tensione verso la verità viene così riportata in modo astorico e aprioristico alla sua funzione necessaria di pensiero per il pensiero (coerente) stesso13. Al contrario, Nietzsche segue nel13 A riguardo Larmore afferma occasionalmente che senza l’orientamento alla verità «il pensiero» è complessivamente «in definitiva incomprensibile» (169) o addirittura
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la sua genealogia della volontà di verità il paradigma scientifico del proprio tempo, che prevede di dedurre le forme categoriali della conoscenza umana del mondo e le condizioni del nostro uso della ragione dal processo naturale, storico e culturale della storia umana. In questa naturalizzazione e storicizzazione di Kant Nietzsche segue Lange ed altri. Così, le forme del pensiero umano non diventano un mero gioco facoltativo dell’arbitrio individuale, e non viene neppure smentita la loro funzionalità generale, così come da una derivazione storico-naturale della visione dell’uomo non deriva che l’individuo potrebbe cambiare arbitrariamente il proprio spettro ottico, oppure che l’occhio umano sia sostanzialmente inutile. Larmore resta debitore di un certo tipo di risposta sulla provenienza delle leggi del pensiero. La tesi che il pensiero possa “trovare la propria strada” solo sulla base di un orientamento alla verità non contraddice l’idea per cui il valore della verità sarebbe creato dal pensiero. Funzione e origine sono due cose differenti dal punto di vista teorico-evolutivo. Attraverso questa falsa disgiunzione Larmore dà l’impressione che si potrebbe eliminare la questione dell’origine di determinati obblighi semplicemente rimandando alla loro indispensabilità. Ancor più importante delle questioni citate sopra è la domanda se l’orientamento alla verità non sia di per sé un obbligo di pensiero non modificabile e assoluto la cui violazione porta inevitabilmente a incoerenze. Parlando di incoerenza, Larmore non caratterizza, a differenza di altri critici, alcuna contraddizione logica, pragmatico-linguistica o performativa, bensì un conflitto psicologico: «Non ci si può ingannare con piena coscienza del fatto che si sia computo un atto di autoinganno» (Larmore 2004: 170). Questa dichiarazione non è immediatamente comprensibile. Innumerevoli illusioni ottiche dimostrano che è possibile vedere o addirittura dover vedere linee tremolanti o cerchi rotanti, senza la necessità di cogliere in modo pienamente consa«impossibile» (171), senza di esso non si potrebbe «pensare coerentemente» (171), il pensiero non può «trovare la sua strada» (172). Probabilmente egli non vede differenze rilevanti tra queste modalità espressive.
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pevole che si tratta di un autoinganno. Possiamo anche essere consapevoli di un inganno, senza che questo inganno scompaia o perda ogni significato. Possiamo infine essere più o meno sicuri del fatto che si tratti di un inganno o meno. Ciò è dovuto al fatto che tra la certezza della verità e la certezza assoluta dell’inganno c’è una molteplicità di gradazioni e sfumature. Si può dimostrare che con l’aiuto di una comprensione della verità non binaria anche l’autoinganno consapevole può venire pensato coerentemente. Mentre noi crediamo più o meno, ma non abbiamo nessuna certezza assoluta, che esista la materia nera, che le aziende private abbiano a cuore solo i loro profitti, oppure che una certa persona sia il partner per la vita, possiamo anche tenere aperta la possibilità di essere caduti in un inganno. Possiamo anche essere sicuri che si tratti di un punto di vista semplicistico o esagerato, e in senso stretto sbagliato, che noi tuttavia utilizziamo e consideriamo appropriato. Allo stesso modo, nella realtà di tutti i giorni così come nella pratica scientifica, operiamo per idealizzazioni, tipizzazioni, approssimazioni e semplificazioni, la cui sostanziale falsità può apparire chiara. Anche in ambito della costruzione di teorie scientifiche il confine tra verità e inganno non è così perentorio, come Larmore crede quando afferma che «proprio come non ci si può ingannare senza credere che l’illusione sia vera, così gli scienziati non possono fare propria alcuna ipotesi senza avanzare la pretesa che questa “interpretazione” sia corretta» (Larmore 2004: 175). Questa opinione dimostra che la concezione della natura ipotetica e provvisoria della conoscenza scientifica, che alla fine dell’Ottocento si caratterizza come opinione prevalente degli storici della scienza – e dei filosofi –, non ha ancora trovato un consenso generale. A questo proposito, secondo il giudizio esemplare di Max Heinze, l’autocomprensione di uno scienziato illuminato consiste proprio nel fatto di non essere più convinto della verità assoluta e inconfutabile della propria interpretazione. Un tale atteggiamento addirittura si opporrebbe, con il suo dogmatismo, all’obbiettivo del progresso scientifico. L’atteggiamento epistemico con il quale si adotta un’ipotesi non è infatti più quello della certezza, ma della migliore credibilità
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a disposizione. Solo attraverso la perdita di certezza nella verità si apre lo spazio per pensare a una valutazione della volontà di verità e di conseguenza anche a una scienza “gaia”. Considerando le prove raccolte finora per una gaia scienza, alcuni momenti tipologici diventano riconoscibili in modo sia positivo che negativo. Come i filosofi gioiosi e pronti alla rinuncia, così anche la gaia scienza non rinuncerà agli strumenti dell’ascesi, della concentrazione e del distacco. La volontà di verità sublimata dal punto di vista storico-culturale permane come ideale di onestà intellettuale. Questa onestà invita tuttavia a uno scetticismo che si radicalizza contro le condizioni classiche della ricerca scientifica della verità. In contrasto con il modello di Sisifo della contemporanea ricerca ascetica della verità, la gaia scienza sa che deve esaminare da sé i propri valori e i propri obbiettivi. La caratteristica più importante di questo nuovo atteggiamento scientifico è quindi un grado di consapevolezza superiore. Allo stesso tempo essa è “scienza” nel senso che rispetta la somma dei piccoli fatti, sa disporli vantaggiosamente in una gerarchia ed integrarli in una visione del mondo. Questa visione del mondo, invece, non è già fissata del tutto, bensì offre all’uomo un ricco spazio di possibilità e di forme – e in ciò la gaia scienza trova la propria gioiosa serenità. Se e come una tale alternativa sia possibile nella pratica, può essere dimostrato solo sperimentalmente. Traduzione dal tedesco di A. Giacomelli
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Porre in questione il valore della verità Riflessioni sul compito della tarda filosofia di Nietzsche a partire da GM III 24-27 Pietro Gori I paragrafi conclusivi della terza dissertazione della Genealogia della morale hanno una funzione rilevante nell’economia dell’intera opera. Essi di fatto fungono da chiusura non solo della sezione, ma di tutto il libro, e possono essere letti come vero e proprio “snodo” del pensiero maturo di Nietzsche. Nelle ultime pagine della Genealogia, infatti, Nietzsche tira le fila di una riflessione svolta in particolare dopo la pubblicazione dello Zarathustra e legata per molti aspetti alla revisione delle sue opere giovanili in vista della loro seconda edizione (La nascita della tragedia, i due volumi di Umano, troppo umano, Aurora e la Gaia scienza). Questa riflessione viene poi indirizzata da Nietzsche verso il progetto editoriale e filosofico che sfocerà nel trittico di testi composti nel 1888 (Anticristo, Crepuscolo degli idoli e Ecce homo). Il nucleo concettuale attorno al quale tutto questo ruota è in particolare la questione della verità, o meglio della «volontà di verità», che Nietzsche individua come fondamento della cultura europea e della sua morale – a suo avviso responsabile principale «del fatto che una in sé possibile suprema istanza e magnificenza del tipo uomo non è mai stata raggiunta» (GM, Prefazione 6) –, alla cui disamina e critica la Genealogia è complessivamente dedicata. Il presente contributo si concentrerà sull’idea che il contenuto dei paragrafi conclusivi della Genealogia rappresenti il centro di una rete di concetti che costituisce l’intelaiatura della tarda filosofia di Nietzsche. Se letta nel contesto della sua produzione nel periodo 1886-18881, la problematizzazione della verità an1 Per una contestualizzazione della Genealogia negli scritti maturi di Nietzsche cfr. Stegmaier 1994: cap. 3.
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nunciata in particolare in GM III 24 e 27 dimostra la propria rilevanza e centralità, in quanto passaggio fondamentale per portare a maturazione le istanze critiche del pensiero di Nietzsche e permettere la realizzazione della «filosofia dell’avvenire» di cui Al di là del bene e del male doveva costituire il preludio.
1. Ideale ascetico e volontà di verità La questione della verità emerge al termine della disamina che Nietzsche compie dell’ideale ascetico. Dopo essersi occupato delle sue manifestazioni religiose e artistiche, Nietzsche chiama in causa il terzo elemento che, con arte e religione, completa l’orizzonte culturale Europeo: la scienza moderna. In quanto «filosofia della realtà [che] crede soltanto a se stessa, possiede il coraggio di sé, la volontà di sé e sino a oggi s’è cavata d’impaccio abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù negatrici», la scienza si presenta come il «contrapposto» dell’ideale ascetico, e di essa si è comunemente portati a pensare che «già in tutto quanto è più importante si [sia] imposta» su quest’ultimo (GM III 23). Ma questa è una visione falsata, secondo Nietzsche, in quanto la scienza moderna non solo «non costituisce l’antitesi di quell’ideale ascetico, ma [ne è] piuttosto la sua stessa forma più recente e più nobile» (ibid.)2. Scienza e ideale ascetico non sono infatti che manifestazioni di un principio fondamentale, che Nietzsche individua quale radice della cultura europea nel suo complesso e al quale dà il nome di “volontà di verità”. In GM III 25 leggiamo infatti che «scienza e ideale ascetico riposano invero sullo stesso suolo (…): sull’identica sopravvalutazione della verità (più esattamente: sull’identica fede nella insuscettibilità di valutazione e critica da parte della verità)». Secondo quanto Nietzsche aveva già sostenuto in FW 344 (appartenente al quinto libro della Gaia scienza e quindi coevo alla 2 Sul rapporto tra scienza e ideale ascetico si veda anche il contributo di Helmut Heit in questo volume.
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Genealogia), non esiste «una scienza “scevra di presupposti”», e anche «la scienza riposa su una fede» nel momento in cui non abbandona «la convinzione che “niente è più necessario della verità, e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano”». Nella Genealogia, Nietzsche recupera l’idea che la scienza – e in generale la nostra conoscenza – riposi su di una «fede metafisica»3 e, attraverso una citazione dello stesso FW 344, fa emergere la questione relativa alla volontà di verità. È proprio su quest’ultima, infatti, sulla «fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità», che la scienza fonda le proprie basi, così come qualsiasi altra forma di descrizione e interpretazione del mondo (GM III 24). Il principio è esattamente quello posto dall’ideale ascetico, l’identificazione della verità col divino, l’idea che essa sia per noi l’istanza suprema, incondizionata e incontestabile. Un aspetto, questo, che secondo Nietzsche nessuna filosofia ha finora mai saputo e voluto affrontare, dal momento che proprio «l’ideale ascetico è stato fino a oggi padrone di ogni filosofia», e quindi non vi erano i presupposti perché si guardasse criticamente alla verità, «non era in alcun modo lecito alla verità essere problema» (ibid.). Questa «lacuna» propria delle filosofie passate costituisce il terreno sul quale Nietzsche intende costruire il suo pensiero maturo. In quanto aspetto che, nell’epoca dominata dalla metafisica platonica e cristiana, non poteva essere messo in alcun modo in discussione, la fede nella verità è il principale elemento destinato a crollare nel momento in cui si affermi la morte di Dio. Nella parte di FW 344 citata in GM III 24, infatti, Nietzsche invita a riflettere sulle conseguenze di tale evento, su cosa rimanga della 3 La posizione di Nietzsche rispetto al sapere scientifico va contestualizzata per essere adeguatamente compresa. Molto sinteticamente si può dire che, contrariamente a quanto si pensa, il suo atteggiamento non è in principio avverso alla scienza in generale. Quello che egli critica è infatti in particolare l’orientamento meccanicistico delle scienze naturali della propria epoca, che nasconde una metafisica sostanzialistica non diversa da quella individuabile in ambito religioso. Come si dirà tra breve, questa critica è in particolare in linea con quanto sostenuto in ambito scientifico da alcuni autori contemporanei a Nietzsche, tra i quali risalta in particolare Ernst Mach, di cui si è certi che Nietzsche abbia conosciuto l’opera per lo meno dopo il 1886. Cfr. su questo, tra gli altri, Gori 2009 e 2014.
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verità, prima identificata con Dio, nel momento in cui quest’ultimo «si rivela come la nostra più lunga menzogna»4. E continua affermando che a partire dall’istante in cui la fede nel Dio dell’ideale ascetico è negata, esiste anche un nuovo problema: quello del valore della verità. – La volontà di verità ha bisogno di una critica – con ciò determiniamo il nostro proprio compito –, in via sperimentale deve porsi una volta in questione il valore della verità… (GM III 24)
Per comprendere adeguatamente la connessione tra critica della verità e morte di Dio occorre fermarsi un momento a riflettere su quest’ultimo concetto, che può essere inteso nel senso forse meno poetico ma altrettanto efficace come un disincanto post-positivistico nei confronti della descrizione del mondo. Non bisogna infatti dimenticare che Nietzsche vive nell’epoca in cui la scienza si affranca dai principi del meccanicismo newtoniano e prende la strada che porterà, tra gli altri, al convenzionalismo di Poincarè e al relativismo di Einstein. Come è stato oramai ampiamente dimostrato dagli studi sulle fonti del suo pensiero, Nietzsche si interessa al dibattito in corso e, stimolato prima di tutto dalla Storia del materialismo di Friedrich Lange, legge testi scientifici di varia natura, dalla chimica alla biologia, dalla teoria della conoscenza all’astronomia (cfr. Heit/Heller 2014). In particolare, seppur indirettamente, Nietzsche condivide le posizioni antimetafisiche di Ernst Mach, che grande parte ebbe ad esempio nello svolgimento della psicologia scientifica e che contribuì a mettere in questione le potenzialità esplicative della scienza, influendo profondamente sulle prospettive della filosofia scientifica del primo Novecento5. Sulla base dei numerosi spunti che Nietzsche raccoglie da quel dibattito, egli arriva a formulare un’epistemologia prospettivistica 4 Werner Stegmaier (1994: 49 ss.) mostra bene come in FW 344 la messa in questione della verità conseguente alla caduta di Dio, suo garante supremo, si estenda al piano della morale. In generale, Stegmaier osserva che negli aforismi di apertura di FW V Nietzsche espone alcune delle tematiche principali sulle quali si concentrerà in GM e che seguono dall’evento europeo della morte di Dio (cfr. in particolare FW 343). 5 Per un confronto tra le posizioni di Nietzsche e Mach in epistemologia e psicologia si vedano Hussain 2004 e Gori 2015, 2012 e 2009.
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che insiste prima di tutto sul carattere relativo e funzionale – o addirittura pragmatico – della verità, e quindi contesta che a essa venga attribuito un valore assoluto. In altre parole, Nietzsche respinge il «pregiudizio morale» per cui «la verità abbia maggior valore dell’apparenza» (JGB 34). All’epistemologia di Nietzsche è dedicato il paragrafo successivo del presente contributo, che permetterà di rendere conto di quale fosse il percorso di riflessione che Nietzsche aveva alle spalle nel momento in cui in GM III 24 egli annuncia di aver individuato nella volontà di verità un luogo cruciale per il pensiero occidentale – riprendendo quanto affermato in apertura di Al di là del bene e del male, quando scrive che «il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi. (…) E si potrebbe mai credere all’impressione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia stato finora mai posto – che siamo stati noi per primi ad averlo intravisto, preso di mira, osato?» (JGB 1)6. Prima di passare a questo, è però opportuno un chiarimento sul rapporto tra epistemologia e assiologia in Nietzsche. Nel sottolineare la centralità della riflessione epistemologica di Nietzsche per la sua filosofia matura, non si vuole negare l’importanza che per lui ha sempre avuto la questione morale. La stessa lettura della morte di Dio come posizione conseguente alla messa in questione del potere esplicativo della conoscenza (umana in generale e scientifica in particolare) non vuole certo circoscrivere quel concetto entro la sola sfera teoretica. È nostra intenzione, piuttosto, mettere in luce come Nietzsche trovi nelle questioni epistemologiche un fondamento solido per la propria critica della morale europea, e sviluppi quindi sul piano teoretico gli strumenti critici che gli serviranno per operare un «contromovimento» in grado di annullare gli effetti che quella morale 6 Si può ricordare, qui, che nelle intenzioni di Nietzsche la Genealogia doveva fungere da «integrazione e chiarimento» di Al di là del bene e del male (Lettera a C. G. Naumann, 8.11.1887). Questo spiega il motivo per cui in essa ritornino temi presenti in JGB, che vede tra i propri contenuti principali la questione del carattere prospettico della vita e della verità. Ciononostante, resta quantomeno singolare che la Genealogia di fatto si chiuda con il medesimo annuncio che apre Al di là del bene e del male.
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ha avuto sull’uomo (cfr. NF 1887-88, 11[411] e JGB 203). Porre in questione il valore della verità significa quindi per Nietzsche andare alla radice della morale, in quanto nella volontà di verità egli individua il fondamento stesso della metafisica occidentale, il principio logico “puro” che si trova alla base di qualsiasi attribuzione di valore. Questo è comunque comprensibile dal modo in cui Nietzsche introduce la questione nella Genealogia, che occupa un posto privilegiato, di particolare risalto, comparendo in chiusura dell’opera. Il problema del valore della verità emerge infatti nel contesto generale di una critica genealogica della morale e in quello particolare di una riflessione sull’ideale ascetico, e a esso si arriva solo al termine di una disamina delle varie forme in cui quest’ultimo si è storicamente presentato. Solo dopo aver preso in considerazione e rigettato religione, arte e scienza come manifestazioni dell’ideale ascetico si raggiunge infatti il nucleo più profondo e inesplorato di questo ideale (il suo «nocciolo» (Kern), GM III 27), e si varca la soglia di quell’antro labirintico nel quale neppure gli spiriti «europei, cristiani» che vogliono dirsi liberi hanno il coraggio di smarrirsi (GM III 24).
2. L’epistemologia di Nietzsche L’epistemologia di Nietzsche si fonda prevalentemente sull’idea che l’uomo svolga un ruolo attivo nel processo conoscitivo. Attraverso i suoi organi di senso e il suo intelletto questi arriva infatti a creare qualcosa, anziché semplicemente replicare uno stato di cose7. La nostra conoscenza del mondo non rispetta quindi per Nietzsche i principi della adaequatio rei (cfr. Müller-Lauter 1999: 61), o, per usare una terminologia contemporanea, essa non si conforma alla “teoria della corrispondenza” che, secondo William Ja7 La teoria della conoscenza di Nietzsche è stata ampiamente studiata. Si veda ad esempio Grimm 1977 e Clark 1990. La posizione di Nietzsche fu notevolmente influenzata dagli studi di fisiologia della percezione svolti nel corso dell’Ottocento, e che egli conobbe a partire dalla lettura della Storia del materialismo di Lange (cfr. Gori 2009: cap. 1, § 3.4 e Stack 1983: cap. 5).
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mes, caratterizza il senso comune e in base alla quale «un’idea vera deve copiare la sua realtà», restituendola quindi per come essa è (James 1907/2011: 93). Al contrario, Nietzsche pensa che non sia per noi fisiologicamente possibile un rapporto oggettivo e incondizionato con il reale, e ritiene pertanto che non si possa dare alcuna «conoscenza in sé» (cfr. NF 1881, 15[9]). Seguendo la terminologia tradizionale – che Nietzsche cerca di superare modificando il significato dei termini in uso, ma senza con questo abbandonarli –, la nostra conoscenza del mondo può essere quindi definita solo come una descrizione erronea e falsificatrice della realtà8. Tutti questi elementi sono ben evidenti in quanto Nietzsche scrive in JGB 34, in cui, come anticipato, egli mette in discussione la plausibilità della tradizionale attribuzione di valore alla verità. Posto che «l’erroneità del mondo, in cui crediamo di vivere, [sia] l’aspetto più sicuro e più saldo di cui possono ancora impadronirsi i nostri occhi», e che quindi l’ambito della nostra conoscenza del mondo sia esclusivamente quel «mondo apparente» che la metafisica tradizionale circoscrive a partire da una contrapposizione con il «mondo “vero”» delle forme immutabili e assolute9, Nietzsche osserva l’impossibilità di uscire da quella dimensione, e commenta: Che la verità abbia maggior valore dell’apparenza, non è più che un pregiudizio morale; è persino l’ammissione peggio dimostrata che ci sia al mondo. Si voglia dunque confessare a se stessi quanto segue: che non ci sarebbe assolutamente vita, se non sulla base di valutazioni e illusioni prospettiche; e se si volesse (…) togliere completamente di mezzo il «mondo apparente», ebbene, posto che voi possiate far questo, – anche della vostra «verità», almeno in questo caso, non rimarrebbe più nulla! Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esista una sostanziale antitesi di «vero» e «falso»? Non basta forse riconoscere 8
Per una recente discussione del “falsificazionismo” di Nietzsche, cfr. Riccardi 2011. Del rapporto tra mondo “vero” e mondo “apparente” Nietzsche parla in particolare in GD, La “Ragione” nella filosofia e Come il “mondo vero” finì per diventare favola. In quest’ultima sezione, in particolare, egli ripropone la logica di annullamento di entrambi questi piani conoscitivi che espone in JGB 34. Cfr. su questo il commento di Gori e Piazzesi a queste sezioni del Crepuscolo degli idoli in Nietzsche 1889/2012: 160 ss. 9
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diversi gradi di illusorietà, nonché, per così dire, ombre e tonalità complessive, più chiare e più oscure, dell’apparenza? (…) Per quale ragione mai il mondo, che in qualche maniera ci concerne, – non potrebbe essere una finzione? (JGB 34)
L’interrogativo che anima il compito esposto in GM III 24 e 27, la questione morale del perché si attribuisca alla verità un valore superiore rispetto all’apparenza, si fonda su di un’epistemologia in base alla quale non è possibile parlare di “verità” in senso assoluto, come accesso incondizionato al piano della realtà, mentre quello che ci è dato conoscere – il “mondo” come risultato della nostra esperienza conoscitiva – non è altro che un insieme di «valutazioni e illusioni prospettiche». Ancora di più, Nietzsche ammette che proprio queste falsificazioni e interpretazioni del mondo possiedano un reale valore per l’uomo, in quanto si sono dimostrate funzionali alla conservazione della vita. La visione evolutiva della conoscenza è una caratteristica dell’epistemologia di Nietzsche fin dalla sua prima, embrionale formulazione nello scritto pubblicato postumo Su verità e menzogna in senso extramorale (1873). In questo testo Nietzsche connette le posizioni schopenhaueriane sulla conoscenza umana come «mezzo di conservazione dell’individuo e della specie» (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, § 27) con la teoria di Gustav Gerber, ricavandone la ben nota definizione dell’attività intellettiva come produzione di «metafore» (WL)10. L’idea di fondo è che l’uomo intervenga sul mondo in maniera creativa e che la conoscenza sia un’operazione artistica, estetica, di produzione di forme a partire da un materiale caotico che richiede di essere ordinato per poter essere gestito. Nell’ambito del suo agire comunicativo, l’uomo si serve dunque di un’“interpretazione” della realtà percepita, un’“illusione” di verità, che però, in ragione del suo valore fondamentale per la vita, viene scambiata con quest’ultima11. 10 Il testo di Gerber letto da Nietzsche è Die Sprache als Kunst (2 voll., 1871-1872). Sull’influsso di Gerber sulla teoria del linguaggio del giovane Nietzsche si veda, tra gli altri, Meijers 1988. 11 Da qui la celebre definizione secondo cui «le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria» (WL).
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La lettura della Storia del materialismo di Friedrich Lange, che conteneva una trattazione della fisiologia della percezione che insiste sull’attività di selezione propria degli organi di senso rispetto agli stimoli provenienti dal mondo esterno, permise a Nietzsche di formulare in maniera più compiuta questa sua prima intuizione, muovendo verso la teoria della conoscenza esposta in Umano, troppo umano, dove il carattere metaforico della descrizione linguistica del mondo lascia il posto alla sua costituiva “erroneità”. Presupponendo un intervento attivo degli organi percettivi sulla realtà, Nietzsche arriva a considerare ogni atto conoscitivo come una fondamentale falsificazione del mondo, e il mondo fenomenico come una «rappresentazione del mondo fabbricata con errori intellettuali e tramandatici in eredità»: Ciò che noi ora chiamiamo il mondo è il risultato di una quantità di errori e fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici, e che sono cresciuti intrecciandosi gli uni alle altre e ci vengono ora trasmessi in eredità come tesoro accumulato in tutto il passato – come tesoro: perché il valore della nostra umanità riposa su di esso. (MA 16)
Questa concezione evolutiva della conoscenza, che attribuisce valore alla dimensione fenomenica in quanto essa si è dimostrata funzionale alla conservazione della specie, viene sviluppata da Nietzsche negli anni seguenti e costituisce un elemento distintivo della sua epistemologia prospettivistica. Nel riflettere sui caratteri della nostra esperienza del mondo, Nietzsche osserva in particolare il fatto che non si dia alcuna conoscenza in sé, dal momento che ogni rapporto con la realtà è per noi mediato dall’attività semplificatrice e organizzatrice dei nostri organi di senso e del nostro intelletto. Per questo motivo Nietzsche osserva che lo stesso concetto di “conoscenza” andrebbe inteso in un senso diverso, per rendere conto di un’attività che egli descrive nei termini di una «deduzione, che si accresce da millenni, da tutta una serie di errori ottici – necessari, posto che in generale vogliamo vivere –, errori, nel caso che tutte le leggi della prospettiva debbano essere errori in sé» (NF 1881, 15[9]). In questa
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nota postuma Nietzsche ribadisce il valore della falsificazione del mondo operata dai nostri organi di senso e dal nostro intelletto di cui aveva parlato in MA 16, sottolineando il fatto che gli “errori” siano necessari ai fini della conservazione della specie, e che quindi debbano essere considerati un «tesoro» per il genere umano. Ma il luogo in cui la considerazione evolutiva della conoscenza di Nietzsche è delineata con maggiore chiarezza è probabilmente l’aforisma 110 della Gaia scienza, intitolato Origine della conoscenza. In questa sezione Nietzsche osserva prima di tutto che alcune concezioni proprie del senso comune relative all’esistenza di entità sostanziali, del libero volere e di un bene valido universalmente e in sé non sono che «erronei articoli di fede» tramandati nel corso della storia evolutiva dell’uomo in ragione della loro utilità per la vita. «Per immensi periodi di tempo – scrive Nietzsche – l’intelletto non ha prodotto altro che errori: alcuni di questi si dimostrarono utili e atti alla conservazione della specie», e sulla base di questa utilità si cominciò a valutare “vero” e “non vero”. L’incorporazione di questi «primordiali errori di fondo», inoltre, è intervenuta secondo Nietzsche sino al livello sensoriale, tanto che non è possibile per noi accedere a un livello conoscitivo “im-mediato”. La conclusione di questo ragionamento è pertanto che «la forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita». Vale a dire, una conoscenza è valida non tanto se offre un accesso alla realtà delle cose, quanto se si dimostra vantaggiosa per il nostro orientamento nel mondo. Nietzsche ribadirà questa posizione in uno dei suoi ultimi quaderni, in cui scriverà che la «logica e le categorie di ragione» sono solamente «dei mezzi per accomodare il mondo a fini utilitari (…per un’utile falsificazione)», e il «criterio della verità» che i filosofi individuano in loro non è altro che «l’utilità biologica di un tale sistema della falsificazione per principio» (NF 1888, 14[153]). Per quanto le nozioni logiche non siano quindi di per se stesse un «criterio della verità, ovvero della realtà», esse restano comunque il nostro più efficace strumento per descrivere il mondo, ed è legittimo che a esse si continui ad attribuire un
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valore di verità, in ragione però solamente della loro utilità per la conservazione della specie (ibid.). Non occorre procedere ulteriormente in questa disamina per svolgere le osservazioni che ci interessano in questa sede. Da quanto detto è già di per sé evidente che la teoria della conoscenza cui Nietzsche fa riferimento metta in discussione la tradizionale concezione della verità e imponga un cambiamento sostanziale del significato da attribuire a tale nozione. Fondamentalmente, secondo Nietzsche, non è più possibile pensare alla verità come al «prendere coscienza di qualcosa che sia “in sé” fisso e determinato». Al contrario, «la verità non è qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo» (NF 1887, 9[91])12. “Vero” è pertanto solo il nome che si dà alle forme logiche prodotte dal nostro intelletto che maggiormente promuovono la vita e che permettono all’uomo di intervenire sul mondo prima di tutto orientandosi in esso, per poi dominarlo attraverso il calcolo e la misura. Ciò che noi chiamiamo “conoscenza del mondo” non è quindi altro che un intervento su di esso, un suo condizionamento, laddove non è possibile alcun tipo di rapporto non mediato e incondizionato con la realtà. Da questo segue che i termini “vero” e “falso” non possono più valere quali sinonimi di “incondizionato” e “condizionato”. Anzi, l’intera dimensione della conoscenza rientra nel secondo caso e la verità può essere giudicata solamente a partire da una valutazione relativa (e pragmatica) tra le molteplici determinazioni erronee (che, secondo il principio di corrispondenza, sarebbero state definite “false”). Detto sinteticamente: «La verità non significa il contrario dell’errore, bensì la posizione di taluni errori rispetto a taluni altri» (NF 1885, 34[247]). Questa considerazione conclusiva ci riporta alla questione che Nietzsche pone in JGB 34, in cui egli affronta il «pregiudizio mo12 Questa osservazione di Nietzsche dà sostanza a un possibile confronto tra la concezione nietzscheana della verità e quella di William James (cfr. Gori 2013, in particolare p. 82). Sulla nuova nozione di verità di Nietzsche come espressione della «volontà di potenza» e principio dinamico antitetico alla determinazione di una «cosa in sé» cfr. Stegmaier 1985: 83 s.
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rale» secondo cui la verità ha maggior valore dell’apparenza. «Il problema del valore della verità» (JGB 1 e GM III 24) consiste in particolare nel rendere conto della nostra volontà di perseguire il “vero” anziché il “non vero”, una volontà di fatto immotivata, nel momento in cui questa stessa distinzione è un prodotto dell’interpretazione metafisica tradizionale e non sussiste in sé (cfr. JGB 2). Ancora in Al di là del bene e del male, Nietzsche osserva come la considerazione che siano stati «i giudizi più falsi, (…) le finzioni logiche» a promuovere e conservare la vita, e che quindi occorra «ammettere la non verità come condizione della vita», determinerebbe un progresso per la filosofia, che si porrebbe, «già soltanto per ciò, al di là del bene e del male» (JGB 4). Far cadere la distinzione tra “vero” e “falso” significa in particolare attribuire valore al “mondo apparente”, in quanto piano delle «valutazioni e illusioni prospettiche» senza le quali «non ci sarebbe assolutamente vita» (JGB 34). Il progresso della filosofia passa quindi per l’accettazione della tarda epistemologia di Nietzsche, nota col nome di prospettivismo, da lui espressamente definita come l’idea per cui il mondo di cui possiamo avere coscienza è solo un mondo di superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato (…); a ogni farsi della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione, falsificazione, riduzione alla superficialità e generalizzazione. (…) Non abbiamo nessun organo per il conoscere, per la «verità»: noi «sappiamo» (o crediamo, o c’immaginiamo) precisamente tanto quanto può essere vantaggioso sapere nell’interesse del gregge umano, della specie. (FW 354)13
Da quanto si è visto si può dire che la teoria della conoscenza che Nietzsche elabora comporti la necessità di riferirsi a una nuova nozione di verità, la quale ammetta il condizionamento come suo principio fondamentale. La presa di coscienza del carattere mediato della nostra conoscenza del mondo non porta quindi Nietzsche alla negazione assoluta di qualsiasi principio 13 Sulla connessione tra il “mondo apparente” e l’elemento prospettico inerente alla nostra conoscenza del mondo cfr. anche NF 1886-1887, 6[23] e 1888, 14[184]. Per un approfondimento sul prospettivismo di Nietzsche cfr. Gori/Stellino 2014, Gori 2010, Cox 1997 e Gerhard 1989.
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veritativo (posizione che potremmo chiamare “nichilismo epistemologico”), ma diviene per lui lo stimolo per la creazione di nuovi criteri di valutazione, per la definizione di nuovi principi veritativi. Una volta rifiutato il carattere assoluto della verità, inoltre, l’attenzione si sposta dall’oggetto – non più “conoscibile” nel senso tradizionale – al soggetto che impone la propria interpretazione su ciò che conosce e che si deve confrontare con gli altri soggetti che avanzano istanze in linea di principio egualmente valide14. L’apertura di questo orizzonte rappresenta il passaggio più rilevante della tarda filosofia di Nietzsche, il cui prospettivismo negatore del valore in sé della verità si pone in contrasto con l’intera dimensione culturale europea fondata sull’ideale ascetico. Il prospettivismo si contrappone in particolare alla volontà di verità che anima questo ideale e che «rifiuta di attribuire valore a quel tipo di verità che possiamo effettivamente conseguire nel mondo in cui viviamo» (Leiter 2002: 278). A partire dalle quattro proposizioni poste in chiusura di GD, “Ragione” 6, Brian Leiter (2002: 279) sostiene conclusivamente che: La volontà di una conoscenza non-prospettica della verità è ascetica o negatrice della vita perché priva di valore il mondo in cui viviamo e che conosciamo, liquidandolo come pura «apparenza»; essa pone come «vere» tutte le caratteristiche che «contraddicono» la nostra vita; e può persino (vedi la «terza proposizione») farsi sostenitrice di una motivazione ostile alla vita. Questi rilievi [di Nietzsche] hanno di certo un carattere speculativo e in qualche modo metaforico, ma rappresentano almeno in parte la base delle considerazioni che portano Nietzsche a giudicare la volontà di verità come ascetica.
3. Prospettivismo e trasvalutazione: il compito di Nietzsche Il percorso teoretico svolto da Nietzsche ha quindi come esito finale la messa in questione del valore della verità annunciata in 14 In GM III 12 Nietzsche osserva che «esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conoscere” prospettico», e lega l’idea di «oggettività» e «completezza» nella creazione di nozioni e concetti all’accumulo di quante più posizioni possibili.
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GM III 24 e l’affermazione di quell’interrogativo – esistenziale oltre che epistemologico (cfr. FW 357 e GM III 27-28) – conseguente alla presa di coscienza del fatto che «niente più si rivela divino salvo l’errore, la cecità, la menzogna, [e] Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna» (FW 344 e GM III 24). Il prospettivismo di Nietzsche permette in particolare di abbandonare la «fede metafisica» che anima il pensiero occidentale, «quella fede cristiana che era anche la fede di Platone» (ibid.); nel far questo, esso fa vacillare l’intero sistema culturale europeo, manifestando oltretutto il proprio ruolo nel processo di critica della morale cristiana che Nietzsche ha messo in atto sin da Umano, troppo umano (cfr. GM, Prefazione 2). In GM III 27 Nietzsche riprende la questione della volontà di verità, evidenziando questa volta il suo ruolo “epocale” e connettendola al progetto editoriale e filosofico che portava avanti in quegli anni (la Trasvalutazione dei valori, qui ancora annunciata sotto il titolo di Volontà di potenza)15. In questo paragrafo, Nietzsche insiste in particolare sul fatto che l’ideale ascetico rechi in sé i germi della propria distruzione, del proprio annichilimento, in quanto la «bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio» e conduce quindi all’ateismo, non è che «una delle ultime fasi di sviluppo» di quell’ideale (GM III 27). La cultura europea, che fonda le proprie radici nell’ideale ascetico, è quindi destinata a collassare in ragione della propria logica interna, ed è per questo che Nietzsche parla di un «autosuperamento dell’Europa», al termine del quale si assisterà al crollo del «cristianesimo come morale»16. Ancor più rilevante è però che in ragione dell’avvenu15 Per un’analisi critica del susseguirsi dei progetti editoriali di un’opera intitolata Volontà di potenza, che Nietzsche elaborò nei suoi quaderni a partire dal 1885, si veda Montinari 1982: cap. 8 (Nietzsches Nachlaß von 1885 bis 1888 oder Textkritik und Wille zur Macht). 16 L’Europa in Nietzsche deve essere intesa primariamente come spazio culturale e spirituale. Carlo Gentili (2014: 121) definisce in particolare l’Europa come «il continente spirituale creato dal cristianesimo» e, per questo motivo, osserva che la morte di Dio è per Nietzsche il momento conclusivo di quel sistema culturale: «Posto che il Dio di cui si proclama la morte è il Dio del cristianesimo, e che il cristianesimo ha dato alla civilizza-
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ta morte di Dio e del conseguente fatto che l’interrogativo relativo alla volontà di verità sia finalmente stato posto, Nietzsche ritenga che si sia giunti alla soglia di questo avvenimento, e che sia quindi possibile compiere il passo decisivo per aprire una nuova fase di pensiero: Avendo la veracità cristiana tratto una conclusione dopo l’altra, trae infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa; ma questo avviene quand’essa pone la questione «che cosa significa ogni volontà di verità?»… E a questo punto tocco ancora il mio problema (…): che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema? … Per questa progressiva autocoscienza della volontà di verità, a partire da questo momento – non v’è alcun dubbio – va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli… (GM III 27)
In questo paragrafo, ancor più che in GM III 24, Nietzsche insiste sull’importanza della questione della volontà di verità, che ha per lui un vero e proprio ruolo cruciale nella storia europea, e si fa carico di portare a compimento un processo di sviluppo e liberazione spirituale che proprio nella critica al valore in sé della verità trova la sua arma più devastante. Il tono del discorso di Nietzsche, inoltre, manifesta la convinzione che si stia facendo strada una nuova consapevolezza rispetto alla cultura tradizionale, una coscienza antimetafisica conseguente alla messa in questione degli antichi principi e che permette di predisporre lo spazio entro cui operare quel «contromovimento» che prende il nome di trasvalutazione dei valori (NF 1887-88, 11[411]). Tutto questo riprende e in parte sviluppa quanto Nietzsche aveva scritto nella prefazione di Al di là del bene e del male. Anche in quella sede Nietzsche tirava le fila di un obiettivo che dava zione europea la sua forma più propria, la “morte di Dio” rappresenta il compimento di questa civilizzazione» (Gentili 2014: 119). Sul concetto di Europa in Nietzsche cfr. anche Witzler 2001.
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per raggiunto dal pensiero occidentale e, guardando oltre tale traguardo, delineava i contorni di una «filosofia dell’avvenire». L’attenzione di Nietzsche si concentra in particolare sul «platonismo in Europa», a suo dire una «caricatura» dogmatica della riflessione sul problema della verità. Platone, osserva Nietzsche, ha compiuto «il peggiore e il più ostinato e pericoloso di tutti gli errori» con l’«invenzione del puro spirito e del bene in sé», ma ora che esso è superato, ora che l’Europa, liberata da questo incubo, riprende fiato e per lo meno può godere un sonno più sano, siamo noi, il cui compito è precisamente quello di vegliare, gli eredi di tutta quella forza che è stata allevata e ingrandita dalla lotta contro questo errore. Significherebbe davvero capovolgere la verità e negare il carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita, se si parlasse dello spirito e del bene, come ha fatto Platone. (…) La lotta contro Platone o, per esprimerci in modo più accessibile e adatto al «popolo», la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica – giacché il cristianesimo è un platonismo per il «popolo» – ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito come ancora non si era avuta sulla terra: con un arco teso a tal punto si può ormai prendere a bersaglio le mete più lontane. (…) Noi, che non siamo né gesuiti, né democratici, e neppure abbastanza tedeschi, noi buoni europei e spiriti liberi, assai liberi – noi la sentiamo ancora, tutta la pena dello spirito e la tensione del suo arco! E forse anche la freccia, il compito, e chissà? la meta…
Alla luce di quanto osservato sopra, ciò che prima di tutto emerge da questo passo è la contrapposizione tra dogmatismo e prospettivismo, e il conseguente ruolo giocato da quest’ultimo. La lotta contro il platonismo è infatti corroborata dall’affermazione del «carattere prospettico» dell’esistenza, che si contrappone alla volontà di individuare un qualsiasi assoluto, sia esso il vero o il bene in sé. In quanto il modello metafisico di Platone si trova alla base del cristianesimo e assieme a quest’ultimo costituisce la radice dell’Europa, il prospettivismo di Nietzsche conferma inoltre il proprio ruolo di strumento in grado di minare le basi di un intero sistema culturale e viene a essere il punto di riferimento di quei «buoni europei e spiriti liberi» che – assieme a lui – Nietzsche individua quali promotori del rinnovamento
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spirituale conseguente alla morte di Dio (di loro si parlerà nella sezione successiva). L’idea che la «lotta contro Platone» e «la secolare oppressione cristiano-ecclesiastica» sia giunta a una fase decisiva e che tutto sia pronto per il necessario crollo del «cristianesimo come morale», attribuisce infine alla questione della volontà di verità un valore significativo e destinale. In quanto quest’ultima costituisce il fondamento di quella morale, non è più possibile procrastinare un compito (Aufgabe) che appartiene agli eredi di questo percorso spirituale e che in GM III 24 Nietzsche fa proprio: «in via sperimentale deve porsi una volta in questione il valore della verità…». Il tema del compito è ricorrente nelle ultime opere di Nietzsche e nel suo epistolario, e si lega in particolare al progetto della Trasvalutazione di tutti i valori17. Esso permette quindi di connettere direttamente la Genealogia tanto alle opere precedenti quando a quelle che seguiranno, le quali non sono che lo sviluppo finale del piano editoriale che in GM III 27 Nietzsche annuncia come in corso di realizzazione. Si prenda ad esempio il Crepuscolo degli idoli, testo redatto col preciso scopo di creare lo spazio teorico all’interno del quale fosse possibile svolgere quel progetto (che, oltretutto, nel 1888 doveva essere stato completato almeno nella sua prima parte. Cfr. la lettera a H. Köselitz, 27.09.1887 e Gori/ Piazzesi 2012: 9-17): nella prefazione al Crepuscolo Nietzsche defi17 In JGB 203, ad esempio, Nietzsche annuncia il «nuovo compito» che permetterà uno sviluppo spirituale dell’uomo e la creazione di «nuovi filosofi (…), spiriti abbastanza forti e originali da poter promuovere opposti apprezzamenti di valore e trasvalutare, capovolgere “valori eterni”», contrastando in questo modo il processo di «degenerazione e immeschinimento dell’uomo» realizzato dalla morale cristiana e dai movimenti democratici. Cfr. anche NF 1885, 35[30] e 1887-88, 11[411]. Ma è nelle lettere di Nietzsche del periodo 1887-88 che si nota meglio quanto peso egli attribuisse al progetto della Trasvalutazione dei valori, considerando non solo l’impatto che avrebbe avuto sulla cultura europea, ma anche il suo valore per la propria vita. In diverse occasioni egli parla infatti di un “destino” che si sta compiendo e considera il completamento della Trasvalutazione come qualcosa dal quale non può esimersi. Cfr. p. es la lettera a F. Overbeck, 12.11.1887: «Ho un compito che non mi permette di pensare molto a me stesso (un compito, un destino, o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare). Questo compito mi ha fatto ammalare, ma mi restituirà anche la salute». Cfr. anche, tra le altre, le lettere a M. von Meysenbug, 12.5.1887, a E. Nietzsche, 15.10.1887 e a P. Deussen, 14.9.1888.
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nisce la trasvalutazione di tutti i valori come «un compito, che è un destino» (ein Schicksal von Aufgabe) di cui egli intende assumere il peso, e la cui realizzazione passa attraverso un’auscultazione degli «idoli eterni» sui quali si regge il sistema di pensiero Occidentale. Questi idoli – Nietzsche lo rivela in Ecce Homo – non sono che le antiche verità, le credenze consolidatesi nel corso dei secoli sulla base del modello metafisico platonico-cristiano e del dogmatismo a esso intrinseco (EH, Crepuscolo degli idoli 1). Obiettivo di Nietzsche è pertanto rivelare che i concetti comunemente adottati dal senso comune prima e dal pensiero filosofico poi mancano di un contenuto stabile, al contrario di quanto si suppone. Ecco che quindi la Trasvalutazione si collega con l’epistemologia prospettivistica, in quanto la prima si fonda su una critica della verità che mette in luce l’inconsistenza ontologica delle nozioni su cui si regge il sistema culturale dell’Occidente europeo. L’operazione che Nietzsche intende svolgere nel Crepuscolo non è però completamente negativa. O meglio, lo è, ma è al contempo finalizzata non tanto a una distruzione nichilistica del sapere, quanto alla preparazione del terreno per la realizzazione di una nuova cultura. La comprensione di questo aspetto permette di capire meglio anche il contenuto della parte finale della Genealogia e il senso che Nietzsche attribuisce al crollo della morale europea. Questo è possibile, in particolare, attraverso una disamina di due concetti fondamentali per definire in che modo Nietzsche interpreta gli esiti della morte di Dio nel suo periodo maturo di riflessione: Heiterkeit e Heimatlosigkeit.
4. Esiti: la gioiosa serenità per la mancanza di patria L’apertura del Crepuscolo degli idoli pone immediatamente il lettore di fronte alla questione principale che Nietzsche vuole trattare, quella della trasvalutazione dei valori. Nel farlo, Nietzsche manifesta un atteggiamento spirituale che egli ritiene di fondamentale importanza per potersi occupare di tale questione, e osserva: «Mantenere la propria gioiosa serenità [Heiterkeit]
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in mezzo a una faccenda oscura e di enorme responsabilità non è una piccola prova di bravura: e tuttavia, che cosa sarebbe più necessario di una gioiosa serenità?»18. La nozione di Heiterkeit19 ha un valore significativo per la filosofia matura di Nietzsche, e rimanda al quinto libro della Gaia scienza in generale e al suo aforisma di apertura in particolare. In FW 343, intitolato appunto Quel che significa la nostra serenità, Nietzsche muove proprio dal «più grande avvenimento recente – che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile» per descrivere l’atteggiamento spirituale che a tale evento deve seguire. Contrariamente alla reazione dell’uomo folle che per la prima volta annuncia la morte di Dio in FW 125 ed esprime la propria preoccupazione per la conseguente condizione di disorientamento epistemico ed esistenziale, i «filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia che “il vecchio Dio è morto”, [si sentono] come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il [loro] cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d’attesa» (FW 343). Per loro, infatti, «il mare (…) sta aperto dinanzi, forse non vi è mai ancora stato un mare così “aperto”» (ibid.), e questo orizzonte libero da impedimenti non li spaventa, ma anzi è da stimolo per un intervento creativo sul mondo. Il passaggio da FW 125 a FW 343 rivela quindi un mutato atteggiamento di Nietzsche nei confronti di questo evento capitale, figlio di una consapevolezza maturata nell’arco di tempo che separa le due edizioni della Gaia scienza. Un periodo, questo, – è bene ricordarlo – in cui Nietzsche pubblica le quattro parti dello Zarathustra, il cui preludio è anticipato proprio nell’aforisma che chiude la prima edizione della Gaia Scienza (FW 342). A Zarathustra Nietzsche affida esplicitamente l’incarico di diffondere il verbo della nuova umanità a venire e i discorsi del profeta persiano rappresentano evidentemente per lui uno spartiacque all’interno della propria produzione. È dopo 18 Qui, come sopra, si è seguita la versione italiana del Crepuscolo a c. di Gori e Piazzesi, in particolare perché si distingue per il modo in cui viene tradotto proprio il termine Heiterkeit (cfr. Nietzsche 1889/2012, p. 125). 19 Per una ricognizione della nozione di Heiterkeit in Nietzsche cfr. Stegmaier 2012: 95-101.
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il completamento di quell’opera (la cui ultima parte era destinata a pochi, intimi amici ritenuti in grado di comprendere il pensiero di Nietzsche), infatti, che Nietzsche si impegna in una ripubblicazione e prefazione delle proprie opere, ma soprattutto nell’ampliamento della Gaia scienza con una nuova sezione che raccoglie le istanze critiche del proprio pensiero orientandole verso la sua proposta filosofica positiva20. In FW V, inoltre, Nietzsche raccoglie idealmente attorno a sé i propri lettori, gli spiriti a lui affini, coloro che condividono con lui non tanto il sentimento di critica nei confronti della metafisica tradizionale, quanto la capacità di incanalare questa critica in un’azione educatrice che permetta l’elevazione finale della spiritualità europea (da qui l’ampio utilizzo della prima persona plurale fin dal titolo). La Stimmung di tutta questa sezione, significativamente intitolata Noi senza paura, è proprio la Heiterkeit, sentimento che, come si diceva, risponde al timore provato di fronte al disorientamento dovuto alla perdita dei tradizionali punti di riferimento con il coraggio di chi, libero da vincoli, vive con orgoglio la responsabilità di dover percorrere autonomamente la strada che gli si presenta innanzi – ancora di più, di dover di trovare o creare la propria strada, giacché, come insegna Zarathustra, una strada valida per tutti e che esista prima di essere percorsa «non esiste» (Za, Dello spirito di gravità). In quanto reazione alla morte di Dio, la sensazione di gioiosa serenità si lega a un altro concetto che gioca un ruolo importante nella tarda filosofia di Nietzsche per via della particolare ricchezza semantica che lo contraddistingue, quello di Heimatlosigkeit o “mancanza di patria”. La morte di Dio muta infatti completamente l’orizzonte di senso dell’uomo europeo e lo costringe a una condizione apolide, da intendersi prima di tutto come affrancamento dai tradizionali sistemi di riferimento e che Nietzsche interpreta, di nuovo, come valore positivo. L’idea della mancanza di patria può essere certo intesa in un senso letterale come liberazione da una visione nazionalistica che impedisca lo sviluppo culturale di un popolo e rappresenti un vincolo coerci20
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Per un’interpretazione contestuale di FW V si veda Stegmaier 2012.
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tivo per il suo spirito (così Nietzsche presenta le cose, a esempio, in VM 323). Ma la convinzione di Nietzsche che nella propria epoca si stia realizzando l’«ascesa di un tipo umano essenzialmente sovranazionale e nomade» (JGB 242) ha un significato più ampio, in quanto l’apertura culturale non è che l’esito, l’applicazione sul piano pratico di un atteggiamento esistenziale che contrasta ogni forma di assolutismo e non si preclude la ricchezza di un confronto tra posizioni rivali e alternative. Così, in FW 377, Nietzsche attribuisce «in un senso eminente e onorifico» il titolo di «senza patria» a chi si è dimostrato in grado di reggere il peso della morte di Dio ed è riemerso dall’abisso del nichilismo con rinnovata salute. A costoro – tra i quali il più delle volte annovera se stesso – Nietzsche dà il nome di buoni europei21, i «ricchi eredi di un millenario spirito europeo», ostili al cristianesimo «proprio perché è nel cristianesimo che abbiamo le nostre radici» (FW 377). In questo aforisma Nietzsche riprende quanto scritto nella Prefazione di Al di là del bene e del male, l’idea che la lotta contro Platone abbia avviato un processo di elevazione spirituale che solo i «buoni europei e spiriti liberi» continuano a portare avanti. Questo processo consiste in particolare nel progressivo affrancamento dal dogmatismo platonico-cristiano sul quale si fonda l’Europa, e la Heimatlosigkeit di cui parla Nietzsche va quindi interpretata come la capacità di orientarsi nel mondo senza fare riferimento a principi veritativi e valori assoluti22. Essa è quindi strettamente collegata alla questione epistemologica sulla quale Nietzsche riflette con insistenza, e condivide con quest’ultima gli esiti non nichilistici che egli ne trae. Così come la critica del «valore metafisico», del «valore in sé della verità» non si esaurisce in una negazione della possibilità che si diano principi veritativi di qualche tipo (ad esempio condizionati o prospettici), la mancanza di patria costituisce per 21 Per una disamina del buon europeo di Nietzsche cfr. Gori/Stellino 2015 e Venturelli 2010. 22 Sul concetto di Heimatlosigkeit in Nietzsche e la sua oscillazione tra una prospettiva politica e una «sovrapolitica, filosofica», cfr. Stegmaier 2012: 544 ss.
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i buoni europei e per i filosofi dell’avvenire un campo di possibilità cui guardare positivamente, per diventare finalmente creatori «di nuove tavole di valori» e «legislatori di se stessi» (FW 335). In quanto soggetti che hanno vissuto la malattia degenerativa del cristianesimo e da essa sono guariti, producendo le misure adatte a realizzare una reazione interna e una conseguente mutazione fisiologica di tipo opposto23, i buoni europei dimostrano di potersi costituire come guida del processo di autosuperamento della morale cristiana e, per questo motivo, possono essere gli affidatari del compito che Nietzsche circoscrive quale principale obiettivo della propria filosofia matura24. In questi termini egli parla di loro anche in FW 357, aforisma che viene ripreso e citato proprio in GM III 27, e che riporta quindi al luogo iniziale del nostro percorso di riflessione. In entrambe queste sezioni Nietzsche sostiene che «l’ateismo assoluto» non è che la «vittoria finale faticosamente conquistata della coscienza europea, in quanto è l’atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna della fede in Dio» (FW 357; in GM III 27 Nietzsche espone la cosa con poche varianti), e continua osservando che «la moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggior rigore (…) ha ormai fatto il suo tempo» ed è destinato a crollare a causa della sua stessa logica interna. Si prepara quindi il «più lungo e più valoroso autosuperamento dell’Europa», i cui eredi sono appunto i buoni europei (ibid.). L’affrancamento dalla propria patria che a questi ultimi è possibile, da intendersi nel senso di un rifiuto dei principi sui quali si regge l’Europa come spazio culturale – primo tra tutti l’ideale ascetico con la sua volontà di verità –, permette di affermare che i buoni europei possano dirsi spiriti compiutamente liberi, contrariamente agli «spiriti liberi europei, cristiani» che non sanno 23 Nella prefazione alla seconda edizione di Umano, troppo umano II, Nietzsche definisce i buoni europei «sanissimi» e «fortissimi», individui in grado «di percorrere la via verso una nuova salute». Cfr. Gori/Stellino 2015: § 2.1. 24 Ad essi Nietzsche destina esplicitamente i suoi scritti e il suo pensiero maturo (cfr. MA II, Prefazione e FW 377).
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invece prendere le distanze «dalla fede nella stessa verità» (GM III 24). Diversamente da loro, i buoni europei hanno il coraggio di affrontare la rinuncia dell’ultimo punto di riferimento che resta all’uomo europeo, e di prendere su di sé il peso della proposizione «nulla è vero, tutto è permesso»25, con le sue «labirintiche conseguenze» (ibid.). Come si è detto, essi infatti portano la morale cristiana alle sue estreme conseguenze, ed è il modo in cui costoro si comportano di fronte all’abisso nichilistico che quella proposizione apre a contraddistinguerli. La posizione degli Assassini non può infatti essere per Nietzsche il punto di arrivo del pensiero, per quanto necessario sia confrontarsi con essa. L’obiet tivo di Nietzsche è infatti creativo, ma, per quanto egli inviti a una nuova creazione di valori, comprende che per realizzarla è necessario liberarsi di tutti i vincoli appartenenti alla precedente visione del mondo. Ecco che allora l’atteggiamento spirituale dei buoni europei, la gioiosa serenità conseguente all’accettazione della propria condizione apolide, esemplifica il modello di filosofo a cui Nietzsche aspira: un individuo in grado di reagire positivamente agli esiti nichilistici del percorso che conduce al superamento della morale europea e di tramutare il vuoto che trova aperto sotto i propri piedi in uno spazio di azione creatrice26. 25 Per una discussione sull’attribuzione di questa proposizione a Nietzsche e sul valore nichilistico che essa reca in sé cfr. Niemeyer 1998. Per una sua connessione col tema del prospettivismo nietzscheano, cfr. Gori/Stellino 2014: 118 ss. 26 Si noti che Nietzsche presenta il percorso di guarigione dalla malattia del nichilismo come un elemento metaforicamente autobiografico. Nella prefazione alla seconda edizione della Gaia scienza egli parla ad esempio dei «saturnali di uno spirito che ha resistito con pazienza a una lunga, orribile oppressione (…) e che ora è invaso dalla speranza di salute, dall’ebbrezza della convalescenza» (FW, Prefazione 1). Ancora, nella coeva Prefazione di Aurora (scritta anch’essa nel 1886), Nietzsche si presenta come un «essere sotterraneo» che è «tornato indietro» da un viaggio nelle tenebre (M, Prefazione 1 e 2). La sua strada era in particolare quella della messa in questione della morale: «Allora, intrapresi qualcosa che non a tutti sarebbe dato di fare: discesi nelle profondità, perforai il fondo, cominciai a sondare e a scalzare un’antica fiducia, sulla quale noi filosofi, da un paio di millenni, eravamo soliti edificare come sul più sicuro fondamento (…): cominciai a scalzare la nostra fiducia nella morale» (M, Prefazione 2). L’esito di questo percorso è una nuova guarigione e uno sviluppo spirituale che permette a Nietzsche di annoverarsi tra gli «uomini della conoscenza», nei quali «giunge a compimento (…) l’autosoppressione della morale» (M, Prefazione 5. Cfr. anche FW, Prefazione 4). Alla Prefazione di Aurora
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5. Conclusioni Da quanto si è detto si possono svolgere alcune considerazioni conclusive sui paragrafi che chiudono la Genealogia della morale di Nietzsche. Il nucleo teorico che essi espongono è chiaramente significativo nell’economia del pensiero maturo di Nietzsche, e la questione della verità che egli pone in particolare in GM III 24 e 27 costituisce il centro di una riflessione che coinvolge per lo meno tutti i suoi scritti posteriori allo Zarathustra. Come si è visto, tale questione si collega a tesi esposte in Al di là del bene e del male e nel quinto libro della Gaia scienza, ma anche a idee che si riferiscono ai contenuti di opere precedenti e di cui Nietzsche offre uno sguardo retrospettivo nelle prefazioni scritte nel 1886 (ne è un esempio la questione della «fiducia nella morale» di cui egli parla nella Prefazione alla seconda edizione di Aurora). Inoltre, il problema della volontà di verità è prima di tutto funzionale allo svolgimento della Trasvalutazione dei valori, e collega pertanto la Genealogia agli scritti del 1888 (in particolare Crepuscolo degli idoli e Anticristo). Tutto questo non è di certo tenuto nascosto da Nietzsche, la cui strategia comunicativa insiste anzi particolarmente sull’intersezione dei temi da lui trattati, che nella “coda” a GM trovano un punto di incontro. Egli infatti cita direttamente aforismi della Gaia scienza (in GM III 24 e 27), rimanda al quinto libro di quest’opera e alla prefazione di Aurora (GM III 24), annuncia di stare approntando un’opera intitolata Volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, all’interno della quale comparirà una sezione intitolata Per la storia del nichilismo europeo27 (GM III 27). Le sezioni conclusive della Genealogia sono quindi caratterizzate da questo gioco di rimandi e anticipazioni costruito allo scopo di concentrare l’attenzione del lettore su un unico punto focale, verso il quale convergerebbe Nietzsche rimanda alla fine di GM III 24, per una migliore comprensione del contenuto di quel paragrafo. 27 Questo titolo rimanda alla nota postuma 5[71] del 1887, conosciuta come frammento di Lenzer-Heide, in cui Nietzsche espone sinteticamente ma in maniera ben strutturata una serie di osservazioni sul nichilismo europeo. Cfr. Stegmaier 1994: 49 ss.
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l’intera produzione di Nietzsche. Quest’ultimo è per l’appunto il «nuovo problema» del «valore della verità», la cui disamina critica costituisce il compito della sua tarda filosofia.
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Indice dei nomi
Abel G., 65 Adorno T., 86n, 243, 244n Alcibiade, 79 Anders A., 215, 240n Andler C., 73 Archiloco, 56 Aristotele, 256 Aschheim S., 29n Babich B., 165n, 258 Baeumler A., 73n Bailey T., 149 Bentham J., 93 Bergson H., 99 Berkeley G., 230-1 Bianquis G., 29n Bishop P., 56n Blondel E., 61n Bornedal P., 31n Borsche T., 242 Brennecke D., 71n Brusotti M., 31n, 159n Buddha, 167n, 187, 204 Buddensieg R., 255 Burckhardt J., 133n, 145n Cacciari M., 165n Campioni G., 160, 162n, 174n Canevari M., 58, 74, 78, 80, 104 Giulio Cesare, 128 Chamberlain H.S., 72 Chamfort, 46 Clark M., 44n, 240n, 272n Colli G., 255n
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Comte A., 80, 250 Constâncio J., 131n, 135n, 147n, 156n Conway D., 31, 70 Cox C., 278n Crawford C., 165n Curi U., 75 Daigle C., 169n Darwin C., 64, 223n, 240 Deleuze G., 14, 30, 38n Derrida J., 165n Deussen P., 241, 283n Descartes R., 66, 153 Diemer A., 257n Diderot D., 46 Dilthey W., 55n Dioniso, 49, 50, 72, 174n, 182, 206, 209 Dostoevskij F., 59-62 Draper J.W., 250 Dühring E., 60n, 78n, 247 Eckhart M., 204 Einstein A., 270 Epicuro, 199 Epitteto, 199 Eschilo, 56 Euripide, 56 Ferdinando I d’Asburgo, 226 Fett O., 241 Fichte J.G., 256 Fischer K., 219n Forth C., 29
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Foucault M., 17, 18, 37n, 172n, 240, 241 Förster T., 38n. Freud S., 316, 186 Fritzsch E.W., 33, 37 Fritsch T., 72 Gemes K., 156n Gentili C., 169n, 217, 219n, 280n, 281n Gerber G., 274 Gerhardt V., 143n, 237 Gesù, 79 Giacoia O. Jr., 147n Giacomelli A., 56, 182n Gillespie M.A., 159 Girotto V., 109 Gobineau A., 73 Goethe J.W., 63, 130, 142, 204 Gori P., 61n, 65n, 169n, 172n, 175n, 208n, 209n, 254n, 269n, 270n, 272n, 277n, 278n, 283, 285n, 287n, 288n, 289n Gurisatti G., 59, 190, 203n, 209 Gracián B., 199 Grimm R., 272n Guéry F., 246n Hadot P., 164n Halpèrine E., 59n, 60n Hatab L., 31n, 126n, 147n Hegel F.W., 243 Heidegger M., 56n, 99, 101 Heinze M., 239, 254-8, 263 Heit H., 172n, 259n, 268n, 270 Heller L., 270 Heydrich R., 71n Hobbes T., 108 Horkheimer M., 244n Höffe O., 240 Hume D., 109 Hussain N., 270n Ibáñez-Noé J., 169 James W., 273, 277n
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Janaway C., 31n, 44n, 61n, 64n Jung C.G., 56n Kant I., 18, 30, 100, 141-4, 159, 162, 163, 214-222, 224-234, 237, 256, 261, 262 Kemal S., 31n Kierkegaard S., 99 Kofman S., 163n, 165n, 174n Kojève A., 94n Köselitz H., 73n, 255, 283 Kuhn T., 251 La Boétie E., 95n Lagarde P., 78n Lange F.A., 61n, 220, 221, 223n, 262, 270, 272n, 275 Larmores Ch., 239 Leiter B., 61n, 125-7, 136, 137, 279 Leopardi G., 199 Liebenfels J.L., 72 Loeb P., 81 Mach E., 269n, 270 Machiavelli N., 132-4 Magno E., 167n Marco Aurelio, 199 Marton S., 29n, 30n, 33, 34n, 37n, 163n May S., 156n Mazzucchetti L., 63n Meijers A., 274n Melville H., 118, 119n Merleau-Ponty M., 169n Merton R., 253 von Meysenbug M., 283n Michelini G., 29n Miklowitz P.S., 44n Montaigne M., 93, 199, 204 Montinari M., 155n, 280 Morice C., 59n, 60 Musil R., 62 Müller-Lauter W., 65, 135n, 272 Naumann C.G., 22, 36, 37, 271 Negri F., 166n Niemeyer C., 289n
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Nietzsche E., 255, 283n Nolte E., 29n Obenauer K.J., 73n Omero, 56, 183 Orsucci A., 31, 73n, 171n Ottmann H., 135n, 137n Overbeck F., 23, 60, 283n Owen D., 31n Paolo di Tarso, 79 Parsifal, 160 Pascal B., 93 Pasqualotto G., 80, 154n, 157n Pelligra V., 114 Penzo G., 73n Pietro, 79 Pievani T., 109 Piazzesi C., 273n, 283, 285n Pirrone, 237 Platone, 175n, 183, 208, 225, 256, 280, 282, 283, 287 Poesche T., 72 Poincaré H., 270 Pütz P., 29 Rée P., 64, 240 Reimer F.W., 63 Rey J.M., 98n, 103, 121n Ribot T., 131n Riccardi M., 173n Richardson J., 147n Le Rider J., 29n Ridley A., 31n Rohde E., 12 Rosemberg A., 73n La Rouchefoucauld F., 46 Rousseau J.J., 256 Rovatti P.A., 161n Ruckenbauer H.W., 240n Russo M., 62 von Salis M., 21, 23 Salomé L.A., 163n Scapolo B., 103n, 119n Schacht R., 30, 31
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Indice dei nomi
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Schank G., 71 Scheler M., 32, 33 Schelling F.W.J., 234 Schiemann G., 257 Schlechta K., 215, 240n Schopenhauer A., 14, 67, 146, 155, 156, 159, 161-4, 181-90, 195, 196, 199, 203-6, 214n, 218-20, 225, 227, 230-4 Sedwick P., 31 Seneca, 199 von Seydlitz R., 37n Sesto Empirico, 121 Simon J., 142n Smith D., 29n Socrate, 56, 75, 79, 107, 161n, 181, 184, 226 Sofocle, 56 Spencer H., 64 Spengler O., 181 Spranger E., 55n, 56n Spethmann W., 73n Spinoza B., 108, 225 Stack G., 135n, 272n Stefani M.A., 29 Stegmaier W., 31, 37n, 56n, 68, 69, 76, 135n, 142n, 148n, 177n, 225, 244n, 245, 247, 250, 267n, 270n, 277n, 285-7n, 290n Stellino P., 59n, 60n, 157n, 169n, 209n, 278n, 287-9n Sturm E., 29n Taureck B.H.F., 73n Teognide di Megara, 241 Teresa d’Avila, 187 Valéry P., 91, 93, 94, 96, 99, 101, 102, 116, 117, 121n Venturelli A., 287n Virchow R., 73n Vivarelli V., 72, 78n Voltaire, 46 Wagner R., 73n, 78n, 159-62, 182,
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La Genealogia della morale
183, 190, 205, 210, 246n Weber M., 253 Weichelt H., 73n Wilcox J.T., 44n Wittgenstein L., 101, 120, 121n
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Witzler R., 281n Wotling P., 58, 174n Yovel Y., 56 Zenone, 199 Žižek S., 142
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Gli Autori
João Constâncio è professore aggregato in filosofia presso l’Università Nuova di Lisbona, dove insegna dal 1996, e direttore del Nietzsche International Lab. È autore di numerosi articoli su Nietzsche, tra cui On Consciousness: Nietzsche’s Departure from Schopenhauer (NietzscheStudien 40, 2011) e ‘A Sort of Schema of Ourselves’: On Nietzsche’s ‘Ideal’ and ‘Concept’ of Freedom’ (Nietzsche-Studien 41, 2012), e del lavoro monografico Arte e niilismo: Nietzsche e o enigma do mundo (Lisbona 2013). In collaborazione con altri specialisti di Nietzsche ha inoltre curato la pubblicazione dei volumi Nietzsche on Instinct and Language (Berlin/ Boston 2011), As the Spider Spins: Essays on Nietzsche’s Critique and Use of Language (Berlin/ Boston 2012), Sujeito, décadence e art: Nietzsche e a modernidade (Lisboa/Rio de Janeiro 2014) e Nietzsche and the Problem of Subjectivity (Berlin/Boston 2015). Carlo Gentili insegna Estetica all’Università di Bologna. Si è occupato del rapporto tra ermeneutica e fenomenologia e di temi della filosofia tedesca, in particolare del pensiero di Nietzsche. Fa parte del comitato scientifico delle «Nietzsche-Studien» ed è membro della “Friedrich-Nietzsche-Stiftung”. Ha pubblicato: Ermeneutica e metodica. Studi sulla metodologia del comprendere, Genova, Marietti, 1996; A partire da Nietzsche, Genova, Marietti, 1998; Nietzsche, Bologna, Il Mulino, 2001 (ed. spagnola Madrid, Editorial Biblioteca Nueva, 2004; ed. tedesca Nietzsches Kulturkritik zwischen Philologie und Philosophie, Basel, Schwabe, 2010); La filosofia come genere letterario, Bologna, Pendragon, 2003; Il tragico (in collab. con G. Garelli), Bologna, Il Mulino, 2010. Ha inoltre curato, insieme a Cathrin Nielsen, il volume Der Tod Gottes und die Wissenschaft. Zur Wissenschaftskritik Nietzsches, Berlin-New York, De Gruyter, 2010. Alberto Giacomelli è dottore in ricerca in Filosofia teoretica e
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pratica presso l’Università degli studi di Padova. Ha studiato presso la Eberhard Karls Universität di Tübingen, la Humboldt-Universität e la Technische-Universität di Berlino. Collabora con la cattedra di Estetica del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. È membro del Centro Interdipartimentale “Colli-Montinari” di Studi su Nietzsche e la cultura europea e del Seminario Permanete Nietzscheano. Ha pubblicato la monografia Simbolica per tutti e per nessuno. Stile e figurazione nello Zarathustra di Nietzsche (Milano, Mimesis Edizioni, 2012). Con recensioni e contributi in volumi collettanei nazionali e internazionali ha cercato di mettere in luce il rapporto tra il pensiero di Nietzsche e l’estetica del XIX-XX secolo, soprattutto di area tedesca. Pietro Gori è dottore di ricerca in filosofia moderna e contemporanea e dal 2011 svolge attività di ricerca presso l’Istituto di Filosofia dell’Università Nuova di Lisbona. È autore di due testi monografici sul rapporto di Nietzsche con la cultura scientifica della sua epoca (La visione dinamica del mondo. Nietzsche e la filosofia naturale di Boscovich, Napoli 2007 e Il meccanicismo metafisico. Scienza, filosofia e storia in Nietzsche e Mach, Bologna 2009) e curatore, assieme a Chiara Piazzesi, di un’edizione italiana commentata del Crepuscolo degli idoli di Nietzsche (Roma 2012). Sempre su Nietzsche, ha curato assieme a Paolo Stellino il volume Teorie e pratiche della verità in Nietzsche (Pisa 2011), e ha infine pubblicato numerosi articoli in riviste internazionali. È attualmente impegnato in un lavoro di ricerca dedicato alla psicologia ottocentesca e al monismo neutrale di Ernst Mach e William James. Giovanni Gurisatti insegna Storia dell’estetica contemporanea nel Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. Studioso, traduttore e curatore di opere di Heidegger e di Schopenhauer, si occupa soprattutto di autori di area tedesca, con particolare riferimento a Walter Benjamin. In Caratterologia, metafisica e saggezza. Lettura fisiognomica di Schopenhauer (Il poligrafo, 2002), e in Schopenhauer maestro di saggezza (Angelo Colla, 2007), ha approfondito la tematica del rapporto tra carattere, comportamento, stile di vita e saggezza. Ne deriva una originale rilettura dell’opera schopenhaueriana, che la assimila alla ricerca di P. Hadot e di M. Foucault sulla “cura di sé” nell’età classica. Nel suo ultimo lavoro, Scacco alla realtà. Estetica e dialettica della derealizzazione mediatica (Quodlibet, 2012), in cui la figura di Nietzsche svolge un ruolo decisivo, solleva la questione di un’etica basata sulla cura di sé
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come opzione preferenziale all’interno della generale perdita di senso della realtà che caratterizza la società contemporanea. Helmut Heit dal 2007 lavora presso la Technischen Universität di Berlino, dove svolge una ricerca dedicata al rapporto di Nietzsche con il razionalismo occidentale. Nel 2012-13 è stato borsista presso l’Institute for Advanced Study di Princeton (USA), e nel 2014-15 visiting professor a Pelotas (Brasile). Tra i suoi lavori si contano le monografie Der Ursprungsmythos der Vernunft. Zur philosophiehistorischen Genealogie des griechischen Wunders (2007) e Grundwissen Philosophie: Frühgriechische Philosophie (2011), e la curatela dei volumi Paul Feyerabend: Naturphilosophie (con Eric Oberheim, 2009) e Nietzsche und die Wissenschaften. Natur-, geistes- und sozialwissenschaftliche Kontexte (con Lisa Heller, 2014). Scarlett Marton è professoressa all’Università di São Paulo, fondatrice del GEN (Grupo de Estudios Nietzsche) e della rivista Cadernos Nietzsche. È autrice di libri e articoli, pubblicati in Brasile, Europa e America Latina, sulla filosofia di Nietzsche. Tra questi: Nietzsche e a arte de decifrar enigmas (São Paulo, 2014), Nietzsche, das forças cósmicas aos valores humanos (Belo Horizonte, 20103), Nietzsche, Kant et la métaphysique dogmatique, «Nietzsche-Studien», 40 (2011), e Nietzsche in Brasilien, «Nietzsche-Studien», 29 (2000). Federica Negri, dopo la laurea in filosofia morale all’Università di Padova, ha conseguito il dottorato in “Storia delle scritture femminili” presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” in cotutela con l’Université “Charles De Gaulle - Lille III”. Si è occupata a lungo del pensiero di Simone Weil e ha collaborato con la cattedra di “Storia della filosofia contemporanea” dell’Università di Padova. Autrice di lavori su Simone Weil (numerosi articoli e la monografia La passione della purezza. Simone Weil e Cristina Campo, Il Poligrafo, Padova 2005), Friedrich Nietzsche (Ti temo vicina, ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne, Mimesis, Milano-Udine 2011), e Maurice Merleau-Ponty (Il punto cieco. Note su L’occhio e lo spirito di Maurice Merleau-Ponty, Libreriauniversitaria edizioni, Padova 2013), oltre a numerosi altri saggi su Cristina Campo, Lou Salomè, e Alain. Attualmente collabora come docente a contratto (Estetica e Antropologia filosofica) nel corso di laurea in “Scienze e tecniche della comunicazione grafica e multimediale” presso lo IUSVE (Istituto Universitario Salesiano Venezia), sedi di Mestre e Verona.
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Jean-Michel Rey, oggi professore emerito, ha insegnato filosofia ed estetica all’Université de Paris 8 (1969-2008) ed è stato Direttore del programma al Collège International de Philosophie (1992-1998). Oltre a numerosi saggi, ha pubblicato, a partire dal 1971, studi su Nietzsche (ricorderemo l’ormai celebre L’enjeu des signes. Lecture de Nietzsche, Seuil 1971), Freud, Kafka, Valéry, Péguy, Artaud, Edgar Quinet. Si ricordano qui le pubblicazioni più recenti: Paul ou les ambiguïtés (éditions de L’Olivier 2008); L’oubli dans les temps troublés (éditions de L’Olivier 2010); la trilogia dal titolo Histoires d’escrocs: t.1, La vengeance par le crédit ou Monte-Cristo (éditions de L’Olivier 2013), t.2, La banqueroute en famille ou Les Buddenbrook (éditions de L’Olivier 2014), t.3, L’escroquerie de l’homme par l’homme ou The Confidence-Man (éditions de L’Olivier 2014). Infine, i lavori sul problema del credito e della credenza nella prospettiva di un’ontologia del mondo sociale: La part de l’autre (PUF, 1998); Le Temps du crédit (Desclée de Brouwer 2002); Les promesses de l’œuvre (Desclée de Brouwer 2003) e, in italiano, La religione come istanza critica, a cura di M. Fimiani (Paparo 2013). Barbara Scapolo è dottore di ricerca in Scienze della Cultura presso la Scuola Internazionale di Alti Studi di Modena. Dal 2006 al 2014 è stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento FISPPA (Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata) dell’Università di Padova. È membro dell’Équipe des Études P. Valéry di Parigi (ITEM-CNRS) dal 2006. Ha ottenuto l’Abilitazione scientifica nazionale come professore universitario di II fascia in “Estetica e teoria dei linguaggi” e in “Filosofia morale”. Giornalista pubblicista, è membro della redazione della rivista «QuiLibri» e del comitato scientifico della rivista «Esercizi filosofici». Autrice di numerosi saggi apparsi su riviste nazionali e internazionali, ha pubblicato le monografie: Comprendere il limite. L’indagine delle choses divines in P. Valéry (Pellegrini 2007), Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E.M. Cioran (Mimesis 2009); Leggere “Timore e tremore” di Kierkegaard (Ibis 2013). Sua è inoltre la cura del recente volume collettaneo Per un sapere della crisi. La dissoluzione del sogno cartesiano tra Ottocento e Novecento (Aracne 2014). Ha inoltre tradotto e curato le seguenti edizioni italiane: di P. Valéry, Storie infrante (San Marco dei Giustiniani 2006), Lettere e note su Nietzsche (Mimesis, 2010) ed Eupalinos o l’architetto (Mimesis 2011); di E. Cioran e P. Alechinsky, Vacillamenti (Mimesis 2011) e, di K. Löwith, P. Valéry. Tratti fondamentali del suo pensiero filosofico (Ananke 2012).
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Indice
Prefazione: Humanitas e oltre, di Fabio Grigenti
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Nota al testo
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Introduzioni Leggere la Genealogia della morale di Nietzsche, di Bruna Giacomini
11
Verso una «resa dei conti con la morale», di Pietro Gori
21
Letture e interpretazioni Scarlett Marton Genealogia della morale: dalla premura didattica ai fini strategici
27
Alberto Giacomelli La bionda bestia e il prete. Considerazioni su GM I a partire dalle sue Lebensformen
55
Jean-Michel Rey Note su alcune forme incompatibili
85
Barbara Scapolo Credenza, fiducia o conoscenza? Alcune riflessioni a partire da GM II 13
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La Genealogia della morale
João Constâncio Libertà e autonomia dell’individuo sovrano in Nietzsche: una lettura non-deflazionista
125
Federica Negri “Faute de mieux” par excellence. L’esito problematico di GM III
153
Giovanni Gurisatti Sull’utilità e il danno dell’ideale ascetico per la filosofia. Ascesi e askesis in GM III
181
Carlo Gentili Prospettiva e ascetismo. Una lettura di GM III 12
211
Helmut Heit Gaia scienza e ideali ascetici (GM III 23-28)
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Pietro Gori Porre in questione il valore della verità. Riflessioni sul compito 267 della tarda filosofia di Nietzsche a partire da GM III 24-27 Bibliografia
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Finito di stampare nel mese di luglio 2015
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nietzscheana 24 collana diretta da Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari fondata da Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi saggi, quaderni, testi 0. Giorgio Colli, Ellenismo e oltre. Einleitung, a cura di Stefano Busellato, con una introduzione di Sandro Barbera [edizione fuori commercio], 2005, pp. 108. [sezione quaderni] 1. Sandro Barbera, Paolo D’Iorio, Justus H. Ulbricht, [a cura di], Friedrich Nietzsche. Rezeption und Kultus, 2004, pp. 362. [sezione saggi] 2. Sergio Franzese, [a cura di], Nietzsche e l’America, 2005, pp. 292. [sezione saggi] 3. Claudia Rosciglione, Homo Natura, 2005, pp. 220. [sezione saggi] 4. Richard Wagner, Sulla vivisezione. Lettera aperta al signor Ernst von Weber, autore dello scritto «Le camere di tortura della scienza», Traduzione, introduzione e note di Sandro Barbera e Giuliano Campioni, 2006, pp. 48. [sezione quaderni] 5. Maria Cristina Fornari, La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, 2006, pp. 362. [sezione saggi] 6. Luca Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla coscienza negli anni 1880-1888, 2006, pp. 264. [sezione saggi] 7. Patrick Wotling, Il pensiero del sottosuolo, traduzione di Chiara Piazzesi, 2006, pp. 76. [sezione quaderni] 8. Maria Cristina Fornari [a cura di], Nietzsche. Edizioni e interpretazioni, 2006, pp. 552. [sezione saggi] 9. Friedrich Nietzsche im 20. Jahrhundert. Aspekte seiner Rezeption, a cura di Sandro Barbera, Renate Müller-Buck, 2006. [sezione saggi] 10. Giuliano Campioni, Nietzsche. La morale dell’eroe, 2008, pp. 156. [sezione saggi]
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11. Chiara Colli Staude, Nietzsche filologo tra inattualità e vita. Il confronto con i Greci, 2009, pp. 166. [sezione quaderni] 12. Friedrich Nietzsche, Gli Academica di Cicerone. Appunti preparatori alle lezioni universitarie 1870-71. A cura e con un saggio introduttivo di Stefano Busellato, 2009, pp. 170. [sezione testi] 13. Sandro Barbera, Giuliano Campioni, Il genio tiranno. Ragione e dominio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, prefazione di Mazzino Montinari, 2009, pp. 218. [sezione saggi] 14. Chiara Piazzesi, Giuliano Campioni, Patrick Wotling [a cura di], Letture della Gaia scienza - Lectures du Gai savoir, 2010, pp. 384. [sezione saggi] 15. Giuliano Campioni, Leonardo Pica Ciamarra, Marco Segala [a cura di], Goethe, Schopenhauer, Nietzsche. Saggi in memoria di Sandro Barbera, 2012, pp. 708. [sezione saggi] 16. Pietro Gori, Paolo Stellino [a cura di], Teorie e pratiche della verità in Nietzsche, 2012, pp. 212. [sezione saggi] 17. Donatella Morea, Il respiro più lungo. L’aforisma nelle opere di Friedrich Nietzsche, 2012, pp. 282. [sezione saggi] 18. Céline Denat, Chiara Piazzesi [a cura di], Nietzsche, pensatore della politica? Nietzsche, pensatore del sociale?, 2014, pp. 206. [sezione saggi] 19. Elena Laurenzi, Sotto il segno dell’aurora. Studi su María Zambrano e Friedrich Nietzsche, 2012, pp. 182. [sezione saggi] 20. Annamaria Lossi, La ragione estetica. Saggio su Nietzsche, 2012, pp. 172. [sezione saggi] 21. Francesca Manno, Attore e mimo dionisiaco. Nietzsche, Wagner e il teatro d’avanguardia francese, 2012, pp. 348. [sezione saggi] 22. Stefano Busellato [a cura di], Nietzsche dal Brasile. Contributi dalla ricerca contemporanea, 2014, pp. 204. [sezione saggi] 23. Annamaria Lossi, Claus Zittel [a cura di], Nietzsche scrittore. Saggi di estetica, narratologia, etica, 2014, pp. 216. [sezione saggi] 24. Bruna Giacomini, Pietro Gori, Fabio Grigenti [a cura di], La Genealogia della morale. Letture e interpretazioni, 2015, pp. 320. [sezione saggi]