Il cambio
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Zitiervorschau

Bruno Vespa.

IL CAMBIO. Uomini e retroscena della nuova Repubblica.

ARNOLDO MONDADORI EDITORE.

Il cambio.

A mio padre. Forse si sarebbe divertito. I protagonisti. Tutti gli uomini del Presidente. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri già presidente Fininvest. Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza, già vicepresidente Fininvest Comunicazioni. Cesare Previti, ministro della Difesa. Giuliano Ferrara, ministro per i Rapporti con il Parlamento e portavoce del governo. Giuliano Urbani, ministro per la riforma della Pubblica Amministrazione. Niccolò Querci, assistente personale del presidente del Consiglio. Antonio Tajani, parlamentare europeo e portavoce di Forza Italia. Già capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Gianni Pilo, deputato di Forza Italia e amministratore delegato Diakron. Miti Simonetto, responsabile per l'immagine del presidente del Consiglio.

Casa, dolce casa. Fedele Confalonieri, presidente Fininvest. Franco Tatò, amrninistratore delegato Fininvest. Marcello Dell'Utri, presidente Publitalia.

Parenti/serpenti Umberto Bossi, segretario Lega Nord. Roberto Maroni, ministro dell'Interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri. Francesco Speroni, ministro per le Riforme Istituzionali. Giancarlo Pagliarini, ministro del Bilancio. Vito Gnutti, ministro dell'Industria.

Donna, giovane, cattolica, leghista. Irene Pivetti, presidente della Camera dei deputati.

Alleati di ferro, o no? Gianfranco Fini, segretario del Msi, coordinatore di Alleanza nazionale. Giuseppe Tatarella, vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro delle Poste e Telecomunicazioni.

I Gli alleati dubbiosi. Pier Ferdinando Casini, segretario del Centro cristiano democratico. Clemente Mastella, ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Francesco D'Onofrio, ministro della Pubblica Istruzione.

Comunisti, postcomunisti. Enrico Berlinguer, segretario del Pci (1972-1984). Achille Occhetto, segretario del Pci (1987-1990) e del Pds (1990-1994). Massimo D'Alema, segretario del Pds. Walter Veltroni, direttore dell'Unità. Massimo Cacciari, sindaco di Venezia.

Democristiani, pattisti, popolari. Mino Martinazzoli, segretario della Dc (1992-1994) e del Partito popolare italiano (gennaio-giugno 1994). Rocco Buttiglione, segretario del Partito popolare.

Ciriaco De Mita, segretario della Dc (1982-1989) e presidente del Consiglio dei ministri (1988-1989). Mario Segni, già deputato della Dc, leader del Patto Segni.

Procuratori di Giustizia. Ovvero: Di Pietro vs. Berlusconi Alfredo Biondi, ministro di Grazia e Giustizia. Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo della Repubblica in Milano. Gerardo D'Ambrosio, procuratore aggiunto. Antonio Di Pietro, sostituto procuratore. Piercamillo Davigo, sostituto procuratore. Gherardo Colombo, sostituto procuratore. Tiziana Parenti, presidente della Commissione parlamentare antimafia, già sostituto procuratore in Milano. Luciano Violante, vicepresidente della Camera dei deputati, già giudice istruttore in Torino, responsabile per il Pci dei problemi della Giustizia e presidente della Commissione parlamentare antimafia (1992-1994).

Il Quirinale. Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica. Marianna Scalfaro, sua figlia. Gaetano Gifuni, segretario generale della Presidenza della Repubblica. Gaetano Scelba, capo del servizio stampa della Presidenza.

Sisde e dintorni. Maurizio Broccoletti, già direttore amministrativo del Sisde. Michele Finocchi, già capo di gabinetto del Sisde. Gerardo Di Pasquale, già capo del reparto logistico del Sisde. Antonio Galati, responsabile dei fondi riservati del Sisde. Rosa Maria Sorrentino, già funzionaria dell'ufficio logistico del Sisde. Riccardo Malpica, già direttore del Sisde. Matilde Martucci, sua segretaria al Sisde.

Nicola Mancino, ministro dell'Interno (1992-1994). Raffaele Lauro, suo capo di gabinetto. Angelo Finocchiaro, già direttore del Sisde. Alessandro Voci, già direttore del Sisde. Adolfo Salabé, architetto, consulente del Quirinale e del Sisde. Vittorio Mele, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Già procuratore capo della Repubblica in Roma. Michele Coiro, procuratore capo della Repubblica in Roma.

Gli assenti. Giulio Andreotti, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri tra il 1972 e il 1992. Bettino Craxi, presidente del Consiglio dei ministri (1983-1987) e segretario del Psi (1976-1993). Arnaldo Forlani, presidente del Consiglio dei ministri (1980-1981) e segretario della Dc (1969-1973 e 1989-1992). Francesco De Lorenzo, già ministro della Sanità. Paolo Cirino Pomicino, già ministro del Bilancio. Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc (1986-1993).

Una notte d'estate il cavaliere... Un sorriso. Sto guardando il suo sorriso. Ambiguo? No, direi di no. Accattivante? Abbastanza, ma senza esagerare. Cordiale, contenuto, educato? Sì, qualcosa del genere.

Va bene, sorrido anch'io. Non passano mai i secondi che separano il «silenzio!» dell'assistente di studio dall'«orologio!» seguito subito dal «nero!» e dalla sigla della trasmissione. Sorrido disteso, per guadagnare un'altra manciata di secondi... Ma dove guarda il Cavaliere? Non sta guardando me. Mi volto. Non sta guardando neanche Paolo Vasile, il direttore del Centro di produzione Fininvest di Roma che non

lo molla un momento durante le apparizioni televisive. E non guarda nemmeno la telecamera alle mie spalle, quella giusta per i suoi primi piani. Ragazzi, questa è grossa. Il Cavaliere non sta guardando nessuno. Pensa al suo pubblico, ai milioni di persone che lo vedranno tra poco e prova il sorriso. Sì, prova il sorriso. In tanti anni di mestiere credevo di aver catalogato al completo la tipologia dell'attesa televisiva: gente sicura di sé e gente che se la fa addosso per l'emozione, gente che si stira i nervi della faccia e che si rischiara la voce. Ma uno che ha studiato l'intervista al punto di provare il sorriso d'apertura, be' no: giuro che è la prima volta.

E il pomeriggio di martedì 15 marzo 1994. Mancano dodici giorni alle elezioni e Berlusconi ha accettato il mio invito ad illustrare il programma di Forza Italia nella rubrica «Oltre le parole». Al mattino, aprendogli le finestre di casa su piazza Navona, il silenzioso Alfredo gli ha portato in camera, con la colazione, il profumo della precoce primavera romana di

16 17 quest'anno e il numero appena uscito della rivista americana «Newsweek» che esibisce in copertina una sua foto. Soprabito blu sportivo, maglione girocollo dello stesso colore, camicia aperta a quadrettini biancocelesti. Svettante, verso il titolo del giornale, il sorriso.

Lo stesso che avrebbe provato nel pomeriggio davanti alle telecamere e che invano avrei cercato di ricambiare, illudendomi che il Cavaliere stesse sorridendo a me e non alla Storia.

Trovare una bella foto da copertina non è facile. Non è facile, per la verità, nemmeno trovarne una brutta. Lo sanno bene all'«Espresso», dove hanno dovuto impegnarsi molto per pubblicare nell'arco di tutta la campagna elettorale soltanto foto in cui Berlusconi assomiglia all'orco di buona memoria.

«Newsweek», come tutti i grandi giornali, intendeva inviare un proprio fotografo. Ma Berlusconi non aveva tempo per sottoporsi a una lunga seduta. E forse non ne aveva nemmeno voglia. E magari non si fidava nemmeno troppo. Il Cavaliere è un professionista del settore. Miti Simonetto, che lavora con lui da tredici anni, lo ha assistito durante tutta la campagna elettorale e, quando Berlusconi diventerà presidente del Consiglio, non esiterà a dimettersi dalla Fininvest per seguirlo come consulente a Palazzo Chigi.

La ferrea Miti dunque non abbocca. Offre le «sue» foto di Berlusconi. Ma stavolta è «Newsweek» a non starci: decide allora di rivolgersi a una importante agenzia e - quel che più conta - pubblica una foto che, seppure non fornita da Berlusconi, dà un'immagine molto gratificante e positiva del Cavaliere. Intrigante anche il titolo di «Newsweek»: Il Principe Mercante. Secco il sommario: «Il miliardario Silvio Berlusconi può diventare il prossimo primo ministro italiano». All'interno, sei pagine d'inchiesta, una d'intervista e tante foto di Berlusconi con qualche spruzzo di Occhetto, Fini, Segni e Bossi. La chiave dell'articolo è in un'affermazione e in una domanda: Berlusconi sta cavalcando il rifiuto montante contro il vecchio sistema di fare politica. Ma cambierà realmente qualcosa?

Nessuno lo sa, in questo profumato pomeriggio di primavera negli studi Rai al Nomentano: la vecchia e gloriosa Dear Film, piccola Cinecittà di Roma Est dove nacque e prosperò la Settimana Incom, il cinegiornale degli anni Cinquanta stroncato dalla nascente televisione.

Nessuno sa come andranno le elezioni. Ma Berlusconi ormai fa notizia anche se si soffia il naso. Quando arrivo nel cortile che introduce agli studi, vedo che il Gran Circo delle Occasioni Speciali è al completo. Niente giornalisti perché in sciopero. Ma i fotografi ci sono tutti: gli specialisti di politica e quelli dello spettacolo, le grandi agenzie e i piccoli freelance. Poi c'è la polizia. E i carabinieri. I funzionari Rai addetti al ricevimento degli ospiti importanti sono schierati a fare gli onori di casa.

I fotografi vengono dall'altra cittadella Rai di Saxa Rubra dove il Cavaliere è andato a registrare una tribuna elettorale approfittando per fare campagna anche lì, in casa del Servizio Pubblico, il Nemico Istituzionale. Gli sfilano sotto il naso gruppi di kamikaze aziendali con la maglietta «Forza Rai»: il Cavallo di viale Mazzini schiaccia il Biscione di Arcore. Lui sorride (sempre quel sorriso) e si vendica tuffandosi su una scolaresca in visita, provocando gridolini e svenimenti di gruppo e firmando tanti autografi da fare invidia a Baggio. E i fotografi lì, a macinare rullini su rullini.

«Non avete fatto indigestione?» chiedo al gruppo schierato. Nemmeno per idea. E quando arriva la Thema del Cavaliere, preceduta e seguita dalle due vetture della scorta priva-

ta, ecco i flash che lo massacrano di nuovo.

Berlusconi indossa la divisa elettorale: doppiopetto grigio, camicia celeste con il collo a punte in giù, cravatta classicissima fumo di Londra a piccoli pois bianchi. Quasi un abito da cerimonia.

Lo accompagnano il capo ufficio stampa, Antonio Tajani, già redattore del «Giornale» di Montanelli, e l'assistente personale Niccolò Querci.

Sulla porta si unisce al gruppo Paolo Vasile. Vecchia volpe del cinema e ottimo professionista della tivù, lui è il Gran Visir di Berlusconi. n sapore del Mulino Bianco

Gli studi della Dear sono per Vasile una specie di Mulino Bianco. C'è dappertutto sapore di casa, cioè di cinema, il cinema romano dei bei tempi. Che donne, ragazzi, per il giovane direttore di produzione dei film di Steno e di Festa Campanile, di Sergio Corbucci di Marco Vicario. Che bel giro con Tognazzi e Monica Vitti, con Ornella Muti e Renato Pozzetto. Ma il grande cinema è già al tramonto quando nell'83 a Vasile telefona Sergio Parenzo, che nella Fininvest ancora in fasce si occupa dell'acquisto di filrn. Canale 5 è nato da tre anni, produce poco e quasi tutto a Milano. A Roma l'emittente ha solo un piccolo studio in piazza Adriana e produce soltanto «n pranzo è servito» con Corrado al teatro Palace. Chiede dunque Parenzo a Vasile: «Perché non ci metti su un centro di produzione tv? Il cinema è il cinema, ma la Tv è il futuro». Vasile accetta e comincia a guardarsi intorno. La Rai è concentrata in via Teulada e si concede qualche usci-

ta il sabato sera al Teatro delle Vittorie. Vasile comincia a produrre qualcosa alla Dear Film, poi nei teatri della Safa Palatino. La Dear non sarebbe male, ma la Rai ci è arrivata prima e comincia ad allargarsi. Resta la Safa, dove Alberto Sordi ha girato quasi tutti i suoi film. Il Palatino è bello, gli studi pure: Vasile convince Berlusconi a farci il quartier generale romano delle sue Tv. Ma quando, il 14 marzo, torna dopo tanto tempo alla Dear Film, Vasile sente di nuovo il profumo del Mulino Bianco.

A proposito: perché Vasile va alla Dear il 14 marzo quando l'intervista con Berlusconi è fissata per il 15 pomeriggio? «Per restituire al Cavaliere un po' dell'umanità persa negli spot elettorali» risponde a chi lo incrocia nei larghi corridoi del Centro di produzione Rai Nomentano, tra le diavolesse di «Tunnel» e le ragazzine che sperano in un'inquadratura a «Domenica In».

Vasile ha studiato a lungo come «vendere» alle telecamere il prodotto Berlusconi in campagna elettorale ed è arrivato alle seguenti conclusioni.

Un uomo politico è tecnicamente diverso dall'attore che fa ridere o fa innamorare. L'uomo politico deve dare una sensa-

zione di realtà, di immediatezza, deve spezzare il diaframma che si crea tra il pubblico e la rappresentazione televisiva del personaggio. «Se Berlusconi è stanco,» dice Vasile «bisogna far capire agli spettatori che è stanco. E un uomo come loro, che ha lavorato tutto il giorno e la sera, quando entra nelle case attraverso la Tv, è stanco morto come la gran parte di

quelli che stanno ad ascoltarlo.»

Il pubblico è convinto che, se un'inquadratura viene bene o viene male, merito o demerito sono del cameraman e della telecamera. Questo è vero solo in parte. Il vero taglio dell'inquadratura viene dato dalle luci. Ai tecnici Rai della Dear, Vasile chiede la cortesia di fare molta attenzione alle luci su Berlusconi: devono avere un taglio estremamente realistico, ma al tempo stesso con qualche concessione alla morbidezza. Perché? «Ma perché se non dai alle luci un minimo di morbidezza, un brufolo in televisione ti diventa un vulcano» dice Vasile, girando il coltello nell'antica piaga del vostro autore che, avendo più di un brufolo, si è prodotto negli anni in innumerevoli quanto spettacolari eruzioni.

Allora si bada a un controluce meno impietoso, si evitano i primissimi piani, magari si monta un cross-screen, un filtro per la telecamera che ammorbidisce i lineamenti senza alterarli. Molti accorgimenti, insomma, per restituire al personaggio Berlusconi la sua piena naturalezza. Per questo occorre evitare qualunque appesantimento di trucco. Ma, al tempo stesso, un minimo di trucco serve perché anche la pelle più levigata, secca e luminosa e la luce più morbida possono sortire effetti devastanti.

Per evitare problemi Berlusconi arriva già pronto e alla truccatrice della Rai concede soltanto qualche minuto per i ritocchi.

Eccolo, dunque, il Cavaliere alla sua prima apparizione televisiva, che in attesa del «silenzio!» dell'assistente di studio ha un sorriso per tutti e uno particolare per la telecamera

(quella con il cross-screen?) che tra un momento l'inquadrerà. «Oltre le parole» è una trasmissione molto semplice. In una cornice spartana, il padre della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, spiega in un centinaio di secondi che cosa si-

20 21 gnifica Polo delle Libertà (nel caso di Berlusconi) o Centro, Destra, Sinistra (per gli altri ospiti).

All'intervistato restano poi circa nove minuti per rispondere a una decina di domande molto secche sul suo programma elettorale. Berlusconi risponde come un treno. Conosce benissimo la parte, sorride, ammicca, ammonisce, rassicura, promette. Parla del famoso milione di posti di lavoro, del rilancio della scuola pubblica e di nuove opportunità per quella privata, della riduzione delle tasse e di una gestione privata degli ospedali E quando gli parli del famoso impiccio delle troppe Tv, lul dice che è pronto a vendere, ma non a svendere. Finito? Finito. Nuovo sorriso, stretta di mano a tutti gli uomini dello studio e poi di nuovo via verso le elezioni. Anzi, verso la vittoria, perché, mentre tutti i candidati vanno dalla cartomante a chiedere come andrà il 27 marzo, a lui i sondaggi di Gianni Pilo hanno già assicurato la vittoria.

Noi della strada restiamo un po' frastornati dinanzi a queste certezze, ma quando l'accento toscano di Luigi Ricci, implacabile analista di indici di ascolto e flussi di pubblico, mi fornisce i dati minuto per minuto del breve show di Berlusconi, a Gianni Pilo comincio a crederci un po' anch'io: solo

nel caso Moro, forse, era capitato che il pubblico in ascolto quadruplicasse in dieci minuti.

Arriva ad Arcore il Diavolo Tentatore

Berlusconi in Tv, dunque. Le ultime volte c'era andato per parlare del Milan. Anche qui col sorriso, visti i tre scudetti consecutivi. Molto tempo prima, forse, per parlare del sistema televisivo. Ma se ne è persa la memoria. Mai aveva parlato di politica. Gli imprenditori non lo fanno d'abitudine. I taccuini dei cronisti non hanno mai raccolto da Giovanni Agnelli più di una battuta, di un segnale. Oualcosa di più da Carlo De Benedetti, con tutte le conseguenze del caso. Ma scendere in campo personalmente come leader politico per ogni grande imprenditore è stato semplicemente inconcepibile da quando esiste l'Italia unita. Perché, dunque, Silvio Berlusconi s'è deciso a giocarsi alla roulette di Montecitorio il proprio futuro e quello delle sue aziende?

Il Diavolo Tentatore è stato, suo malgrado, un elegante studioso di 58 anni. Giuliano Urbani, professore di Scienza della politica alla Bocconi di Milano, mi riceve nell'estate del '94 nel suo studio di ministro per le Regioni e la Riforma della Pubblica Amministrazione. Palazzo Vidoni porta i segni di due mani inconfondibili: quella di Raffaello, che forse ne ha progettato una facciata e vi ha lasciato alcuni affreschi, e quella di Starace, che ha commissionato altri affreschi, con aquile e fasci, nelle sue stanze di segretario del Pnf, oggi occupate dal placido professore al quale si deve l'ingresso in politica di Berlusconi.

Urbani sorride volentieri e non ha l'aria di uno a caccia di

rivalse. Ma la vita gli ha riservato qualche buona soddisfazione. Negli anni Settanta, quando al Tgl facevamo dibattiti ideologici su comunismo e sistema capitalistico (Il Pci è un partito democratico? Esiste la Terza Via di Berlinguer?) ed eravamo attentissimi a coprire tutte le aree politico-culturali del paese (a noi sembrava pluralismo. O era lottizzazione delle idee?), il giovane professor Urbani veniva invitato tra gli ultimi quando ci si accorgeva che dinanzi alle falangi bianche (Augusto Del Noce o De Rosa o Scoppola) e rosse (Spriano o Vacca o Boffa), accanto agli ex marxisti critici (Colletti), mancava l'area liberaldemocratica. E Urbani veniva volentieri, diceva cose molto sensate, ma non se lo filava nessuno perché fin da allora il problema centrale era non solo e non tanto dove dovesse andare il Pci, ma dove dovessero andare i cattolici: restare al centro, incoraggiare le prime timide scelte riformiste di quel Craxi che aveva appena soppiantato De Martino, allearsi col Pci nello storico compromesso invocato da Berlinguer dopo la tragedia del Cile del '73, oppure, come avrebbe detto Bossi vent'anni dopo, prendere i voti a destra e gestirli a sinistra?

Contava poco, allora, il giovane professor Urbani e certo non avrebbe sospettato che un paio di decenni più tardi la crisi dei giganti lo avrebbe proiettato al centro della politica italiana accanto a un suo coetaneo che, ai tempi del dibattito sulla Terza Via del Pci, quando pensava in grande aveva in mente Milano Due.

«Siamo nel giugno del '93» racconta Urbani «tra le due tornate elettorali che avrebbero portato come sindaci Formentini a Milano e Castellani a Torino. La nuova legge elettorale

per il Parlamento è ormai pronta, anche se non si conoscono ancora alcuni aspetti come lo scorporo dei voti e altri tecnicismi inventati da Mattarella. Faccio un giro di conferenze presso molti Rotary e molte associazioni imprenditoriali: l'Assolombarda a Milano, l'Unione Industriale di Torino, le strutture omologhe di Bergamo, Brescia e altre città. Dico che la nuova legge elettorale costituisce a rnio giudizio una jattura, ma presenta anche un'opportunità. La jattura è questa: la sinistra è la sola ad aver capito che, unita, col 30 per cento dei voti, cioè meno di un terzo, può conquistare 440 seggi alla Camera, cioè più di due terzi. Il nuovo sistema elettorale nasce per far confrontare due contendenti, ma qui il contendente è uno solo. E le gare con un solo concorrente», sorride Urbani attingendo alla sua formazione anglosassone, «sono unfair, ineleganti. Ma accanto alla jattura, c'è un'opportunità. Che è questa. Per costruire un polo concorrente a quello di sinistra centrato sul Pds non c'è bisogno di un grande partito, con un forte apparato, una mastodontica struttura propagandistica. E sufficiente presentare nei diversi collegi uninominali persone molto rispettabili con forte radicamento locale. Nel sistema proporzionale, per quasi cinquant'anni sono scesi in competizione i partiti. Nel sistema maggioritario, competono le persone. Tutto sta a verificare se il mondo che non si riconosce nella sinistra sia in grado di schierare persone adeguate collegio per collegio. In questo caso si potrà competere.»

Nelle elezioni del '94 questo risulterà solo parzialmente esatto. E vero che né Forza Italia né il Polo delle Libertà hanno potuto mettere in piedi un apparato nemmeno lontanamente comparabile con quello del Pds. Ma è anche vero che moltissimi elettori hanno votato «Berlusconi» senza

nemmeno conoscere il signor Rossi del proprio collegio. Lasciamo continuare il professor Urbani nel suo racconto del giugno '93.

~.

«Il presidente del Consiglio, se permette, dovrebbe fare un altro discorso. Come si può immaginare un miracolo economico nelle condizioni in cui operano oggi le imprese? Creiamo un mercato trasparente: ci vogliono dieci minuti.»

Come finirà?

«Non ne ho idea perché, vede, certi fenomeni trascendono le indagini. Ho sempre sostenuto che le nostre indagini hanno avuto successo perché il sistema è crollato. Non sono le indagini che lo hanno fatto crollare, è stato il crollo del sistema che ha determinato l'esito positivo delle indagini perché si è allentato il potere di ricatto e di intimidazione. Ma il sistema è crollato perché sono finiti i quattrini e poiché i quattrini continuano a non esserci, credo che non potrebbe rimanere in piedi nessun sistema fondato sullo sperpero del pubblico denaro. Questo è il problema politico di fondo. Ma mi pare che nessuno se lo ponga.»

Al mattino, in fila davanti al Santuario di Antonio Di Pietro

Per completare la lunga riflessione awiata con Pier Camillo Davigo, martedì 26 luglio vado a trovare il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Ma prima rendo omaggio al Santuario: l'ufficio di Antonio Di Pietro. Non fosse per la transenna di legno guardata da un carabiniere che impedisce l'accesso ai non addetti ai lavori, il corridoio che introduce al Santuario da solo varrebbe il viaggio. Certo, ho il privilegio di capitare in una mattinata speciale, quella in cui Di Pietro firma la nuova richiesta d'arresto per Paolo Berlusconi, fratello di quel presidente del Consiglio che all'atto di formare il governo gli aveva chiesto di fargli da superministro dell'Interno. Ma il mio collega Maurizio Losa, che vive qui dal giorno dell'arresto di Mario Chiesa, il remoto 17 febbraio 1992, mi dice che il tran tran è sempre lo stesso.

Di Pietro dispone di cinque stanze: al momento dell'arresto di Chiesa ne aveva una, come tutti i sostituti. Poi gli inquisiti del processo n. 8655 (Mani pulite) sono arrivati a 1800 (350 arrestati) e il giudice non sa più dove mettere le carte, nonostante i ripetuti traslochi e l'ampliamento dei locali. Sono cresciuti anche i collaboratori. Un pubblico ministero abitualmente ne ha un paio, i più potenti e fortunati arrivano a cinque o sei. Di Pietro ne ha un numero variabile, a seconda dei momenti, fra trenta e trentacinque. Dieci sottufficiali della Guardia di Finanza, una quindicina tra carabinieri e poliziotti, un paio di vigili urbani, cinque o sei tra segretarie e cancellieri. In più una struttura di computer che non s'è mai vista in un palazzo di giustizia, messa in piedi da Di Pietro in persona e che gli consente in tempo reale di ricostruire la posizione processuale e lo stato delle indagini relativi a mi-

gliaia di persone.

«Venga a vedere come lavoro» mi aveva detto allegro una volta. «La saluto volentieri» m'ha ripetuto l'altro ieri. Ma non è la giornata adatta. Arriva presto, come ogni mattina, il maggiore Paolo La Forgia, comandante del Nucleo operativo dei carabinieri, un bell'uomo giovane e allegro in abito blu estivo e la borsa da manager. Entra, prende il menu della giornata, saluta e scompare.

Si presenta presto, con l'abito chiaro e la borsa da manager, anche un altro signore. E il colonnello Ugo Marchetti, comandante del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Per lui, arrivato a Milano l'anno scorso per sistemare un po' di cose, salire ogni mattina nell'ufficio di Di Pietro (e degli altri sostituti, ai quali ha ceduto complessivamente quaranta investigatori per le sole indagini sulla corruzione) è un calvario durissimo.

Marchetti comanda ottocento uomini. Centottanta si occupano di sole verifiche tributarie nell'area economica largamente più ricca del paese. Uno dei sei gruppi che formano il nucleo di Marchetti, il sesto, si occupa delle verifiche più delicate, quelle sulle grandi imprese. Per questo nel suo organico (cinquanta-sessanta persone) ci sono molti ufficiali. Ora il Sesto gruppo non esiste più: quasi tutti i suoi uomini sono in prigione o agli arresti domiciliari o comunque inquisiti. Sono accusati di episodi accaduti in anni in cui Marchetti prestava servizio al Comando generale di Roma. Ma lui porta addosso quegli ordini di carcerazione come piaghe aperte.

«Mi sento come se stessi in fondo a un pozzo molto profon-

do e molto buio. Ogni tanto mi pare di vedere lassù filtrare un po di luce. Ma poi con la notte torna l'angoscia. Mi creda, la Guardia di Finanza non è corrotta. Sono poche decine di persone che si sono lasciate comprare. Anzi, che si sono associate per farsi comprare. Adesso loro sono quasi tutti agli arresti domiciliari ma hanno messo in prigione noi, gli innocenti, le decine di migliaia di finanzieri che fanno onestamente il proprio lavoro. Lei mi chiede che accadrebbe se i giudici di tutta Italia si mettessero a fare le indagini su di noi. Magari le facessero. Certo, forse qualche corrotto da qualche parte verrebbe ancora fuori. Ma si dimostrerebbe che il nostro tessuto è sano. La maledizione ci è piovuta addosso qui a Milano perché qui il desiderio di denaro e di benessere si fa più forte, i freni morali si allentano-.- Un ufficiale, come fa un ufficiale a farsi comprare? Come è possibile che ci sia capitata addosso una tragedia del genere a quasi quindici anni dallo scandalo dei petroli che coinvolse i nostri vertici? Ma noi andiamo avanti. Dobbiamo farlo. Io sto ricostituendo il Sesto gruppo. Tutta gente nuova, per ricominciare da capo. E intanto le altre verifiche, quelle più piccole, queUe quotidiane, debbono procedere. Ma sapesse con che animo...»

Questo mi dice il colonnello Marchetti con l'angoscia e l'orgoglio che gli si leggono dietro gli occhiali da sole. E mi ha accompagnato, intanto, davanti alla porta del procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli. Nell'estate del '94, Borrelli è ancora una volta l'uomo più potente d'Italia. I sondaggi, com'è giusto, parlano sempre di Di Pietro. Di Pietro è il prim'attore, uno di quei primi attori grandissimi, alla Ruggeri, alla Randone, senza i quali la compagnia non sarebbe stata nemmeno messa in piedi e che rendono grande un testo

teatrale, consentendosi anche qualche licenza che a loro - e solo a loro - è consentita. Ma in un ufficio ordinato gerarchicamente come le Procure italiane, Borrelli è il regista. E lui che firma lo spettacolo, ne imposta la filosofia, impone una certa lettura critica del testo. Qualcuno dice che si è stancato, che vuole andarsene dalla poltrona che scotta prima di bruciarsi e che ha rinunciato a malincuore, molto a malincuore alla presidenza della Corte d'appello dopo le dimissioni di Piero Pajardi, costretto ad allontanarsi per le polemiche sul caso Curtò nonostante gli ispettori del ministero lo avessero completamente scagionato (e in ottobre morirà di infarto). Altri dicono che comunque Borrelli non ce l'avrebbe fatta, perché osteggiato da Magistratura democratica che gli avrebbe fatto preferire dal vecchio Consiglio superiore un magistrato a essa più vicino.

Stanco o no, deluso o no, Borrelli tiene tuttora la scena con elegante fermezza, anche se in molti giurano che le fila di Mani pulite le tiene il suo aggiunto Gerardo D'Ambrosio, geniale nel lavoro subacqueo che emerse solo per litigare con Tiziana Parenti a proposito dell'inchiesta sul Pds e non se ne è mai pentito abbastanza.

In ogni caso, se Borrelli lo avesse incoraggiato, forse Di Pietro sarebbe ministro dell'Interno del governo presieduto da Silvio Berlusconi. Ma non lo ha incoraggiato. Anzi. E la sorte vuole che proprio nella torrida mattinata del 26 luglio, il magistrato molisano presenti al giudice per le indagini preliminari richiesta d'arresto per il dottor Paolo Berlusconi, fratello minore e devoto del primo ministro, e partecipe delle sue imprese.

Borrelli: «Se a forza di lavarlo il panno si strappa? Pazienza»

Sulla parete di fondo dell'ufficio di Borrelli, una dolce signora ottocentesca posa nel tramonto di montagna di un quadro prestato dalla sovrintendenza. Nel bel salotto verde in tinta con gli abiti estivi del procuratore e appena consunto dalle visite frequenti, il dottor Borrelli sorride quando gli giro il timore di Saverio Vertone che un uso eccessivo di detersivi, invece di fare il panno sempre più bianco, finisca per strapparlo. Sorride, ma dissente.

«Questo paese aveva bisogno di uno shock. Non si può addebitare alle nostre inchieste il fermo degli appalti o il minore afflusso di clienti nei ristoranti, quando la crisi economica ha tutt'altra origine. Il trauma sarà lungo e doloroso, ma non si può accettare alcuna forma di corruzione. Lei rni chiede che cosa accadrebbe se dopo la nostra inchiesta sulla Guardia di Finanza ne partissero altre cento da altrettante Procure italiane e se si indagasse su tutti gli uffici delle imposte, tutti gli uffici edilizi, tutti i comandi dei vigili urbani, su chiunque abbia il potere d'interdizione e possa in astratto farlo valere. Non lo so che cosa accadrebbe. Ma così non si poteva andare avanti. Alcuni dei finanzieri che abbiamo arrestato facevano più o meno questo discorso: ho fatto un accertamento di mezzo miliardo, faccio pagare alla ditta duecentocinquanta milioni allo Stato, ne chiedo cento per me, mi pare un'equa transazione. Ha capito? Così nessuno si sentiva in colpa...»

Parliamo della carcerazione preventiva e per Borrelli va bene com'era prevista prima del decreto Biondi e come lo è

prima della nuova legge proposta dal governo.

«Qualche parola in più o in meno, ma la sostanza funziona. Ha ragione Davigo quando dice che è il potere reale di una persona che porta alla carica e non viceversa e che soltanto la carcerazione può interrompere la rete di rapporti che rendono potente l'inquisito. Lei dice che spesso la carcerazione preventiva finisce con l'essere una anticipazione della pena. Guardi, con l'eccezione di Greganti, le nostre carcerazioni in genere sono tutte molto brevi...»

Molto brevi? S'avanza il fantasma di Gabriele Cagliari, che dopo centotrentatré giorni di carcerazione non accettò un nuovo ordine di cattura e mise la testa nel sacchetto di plastica. («Lo avevano dimenticato in carcere» disse un uomo fin troppo cauto come il ministro della Giustizia, Giovanni Conso.) E Nobili, presidente dell'Iri. E Ligresti, detenuto per quattro mesi e mezzo. Ed Enzo Carra, condotto in ceppi in aula e condannato per essersi rifiutato di confermare di aver sentito una certa frase pronunciata da una certa persona... («Carra non sa niente di tangenti» mi dirà Severino Citaristi. «Di quelle cose non parlavo nemmeno con lo specchio.») «A morte, a morte...» gridavano sotto la ghigliottina le vecchie tr*oteuses senza alzare gli occhi dall'uncinetto. Meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in prigione, intimavano in altri tempi i garantisti. Oggi è un'altra stagione: l'entità del bottino e la qualità dei ladri sono tali che se nel mucchio capita qualcuno che non c'entra e se la pena viene scontata in parte prima della sentenza, pazienza.

Ripeto al procuratore capo la domanda già rivolta al suo sostituto Davigo: vi si rimprovera di mettere in prigione un

signore per il reato A e di tenercelo fino a quando egli non avrà parlato di B, C, D...

«Se c'è una rete di rapporti interconnessi,» dice il dottor Borrelli «soltanto facendo chiarezza su tutto essa si può spezzare. Lei mi chiede come si fa a sostenere il pericolo d'inquinamento delle prove quando si arresta una persona dopo tanti anni dal fatto. Lei non può immaginare il livello di impunità al quale ci si era abituati. Eppoi le prove possono inquinarsi per un periodo molto lungo. Solo la carcerazione può interrompere certe connivenze. Anche se è brevissima. Solo la confessione rende inaffidabile il soggetto. Finora ci siamo attenuti a questa lirlea ed è risultata una linea vincente.»

Ricordo al procuratore Borrelli una osservazione che raccolsi nel '93 da Giovanni Agnelli: «Gli americani non ci capiscono» disse l'Awocato. «Da noi si va in prigione prima del processo e spesso non ci si va dopo. Da loro anche i mafiosi più potenti restano liberi fino al momento del giudizio, ma pOi il carcere è una cosa seria.»

Borrelli auspica che anche l'Italia possa avere in futuro un sistema simile. Ma obietta: «Alla base di tutto debbono esserci rigidi controlli amministrativi da parte delle autorità dello Stato che debbono far funzionare sul serio un apparato con procedure molto semplificate, ma anche molto rigorose. Accurati controlli prima, grande durezza nella repressione dopo. In questa ottica, cioè nell'ottica di un radicale cambiamento di sistema, è ipotizzabile perfino un'amnistia. Da noi le amnistie sono state varate periodicamente soltanto per

vuotare le carceri. E invece le amnistie vanno fatte eccezionalmente, quando si vuole marcare una distinzione netta tra un passato da chiudere e un futuro da costruire. I re facevano le amnistie quando nasceva l'erede al trono: anche questo era un avvenimento che segnava un passaggio epocale».

In attesa di una radicale riforma dello Stato che consenta ai governanti di arrivare al famoso «colpo di spugna», il procuratore capo di Milano non lascia trasparire le preoccupazioni gestionali su Mani pulite (l'enorme numero di processi da celebrare, per esempio) di cui nell'estate del '93 mi parlò apertamente Antonio Di Pietro. «Abbiamo già fatto centinaia di processi,» dice Borrelli «faremo anche gli altri.»

Bussano alla porta. «Entra, Antonio~> dice il procuratore. E Di Pietro, vestito da Di Pietro. Espressione sorridente e indecifrabile, maniche di camicia, colletto slacciato. Assiste agli ultimi dieci minuti della nostra conversazione senza aprire bocca. Resta poi da solo una mezz'ora dal procuratore. I tempi della giornata lasciano immaginare che lo stia inforrnando della richiesta d'arresto per Paolo Berlusconi.

Quando esce, Losa e io lo accompagnamo alla sua stanza fendendo due ali di cronisti. Di Pietro saluta quelli che conosce meglio, s'accorge di aver saltato Andrea Pamparana di Canale 5 che ha seguito l'intera vicenda di Mani pulite. Allora si ferma, torna indietro di qualche passo, tende la mano al cronista: «Ciao, Pamparana». L'arresto di Paolo Berlusconi è una cosa, i rapporti con Canale 5 un'altra.

Mandato anche stavolta agli arresti domiciliari, il fratello del presidente del Consiglio (inquisito per tangenti per circa

300 milioni pagati dal gruppo Fininvest alla Guardia di Finanza), Di Pietro se ne va in vacanza in Molise.

Al ritorno, sabato 3 settembre, si presenta a Cernobbio, dove ogni anno lo studio Ambrosetti riunisce il Gotha dell'imprenditoria italiana. Si siede accanto a molti industriali che ha messo sotto inchiesta per Tangentopoli, schiva i giornalisti, va alla tribuna e legge un discorso in cui dice che così non si può andare avanti, che «la trasparenza senza l'efficienza non produce alcuna economia in democrazia». In breve, propone una sanatoria per Tangentopoli: chiunque, corruttore o corrotto, denuncia tangenti sulle quali non è stata ancora aperta un'inchiesta, restituisce la somma indebitamente percepita ed esce dal giro degli incarichi pubblici, evita la galera.

Gli imprenditori, che davanti a Di Pietro son disposti anche a fare la danza dei sette veli, si spellano le mani. Potrebbero fare diversamente con l'uomo che dispone del diritto di vita e di morte su loro e sulle loro aziende? La sera stessa, però, quando il «giudice più amato d'Italia» compare sui televisori di casa, più d'uno spettatore storce il muso. A parte le riserve di merito (incitamento alla delazione con tutto quello che ne deriva), ci si chiede se sia giusto che le leggi le propongano i giudici che devono applicarle. Davanti a quella platea, poi, l'indornani i mormorii si fanno più forti quando ci si accorge che quella di Di Pietro non era una proposta astratta, ma più che concreta: due quotidiani pubblicano infatti il testo completo di una proposta di legge, articolo per articolo. Di più: si scopre che al progetto hanno lavorato insieme per l'intera estate alcuni giudici di Mani pulite (soprat-

tutto Davigo) e alcuni awocati difensori di industriali sotto processO. Infine, se il ministro della Giustizia non ne sapeva rlienteIgnazio La Russa, awocato milanese e vicepresidente della Camera per conto di Alleanza nazionale, annuncia di essere informato del progetto fin da luglio e di averne discusso con Fini da un lato e con Davigo dall'altro. Sollecitato da Biondi e da Ferrara, Berlusconi dopo due giorni di silenzio arnmonisce i giudici «a fare il loro mestiere, solo il loro mestiere senza interferenze». Qualcuno scrive che, dinanzi alla sfiducia dei cittadini verso i politici (vecchi e nuovi), i soli che possano dettare le condizioni per l'uscita da Tangentopoli sono i giudici. Ma questo vorrebbe dire strappare la Costituzione dello Stato.

Non è finita. Il 14 settembre Di Pietro presenta il suo progetto all'Università Statale di Milano. Nell'arco di dieci anni sono in molti a essersi raffreddati, anche parecchi imprenditori che non sanno come andrà a finire la questione. Il giudice lancia un appello alla nazione e paragona l'Italia a Sagunto: sarà espugnata dai barbari se i politici non la smettono con le chiacchiere. L'ultima volta che la caduta di Sagunto era stata evocata, fu il 7 gennaio del 1980. Il cardinale di Palermo, Pappalardo, lanciò un grido di dolore davanti alla salma di Piersanti Mattarella, assassinato dalla mafia. Le circostanze erano diverse, diverso il ruolo di chi lanciava l'appello. Le parole di Di Pietro vengono accolte con freddezza.

A fine settembre, il giudice fa, suo malgrado (credo ancora una volta in buonafede), il passo più sbagliato. Esce presso Larus, un piccolo editore di Bergamo, un commentario alla Costituzione curato dal giudice. Non si tratta solo di un contributo tecnico, ma anche qui di un messaggio di forte cara-

tura politica. Invoca per l'Italia nuovi padri fondatori (un'autocandidatura?), censura il governo e soprattutto Berlusconi: «Il governo non può pretendere che l'informazione pubblica Si uniformi alla sua politica senza diritto di critica (un'amara esperienza in tal senso l'abbiamo avuta ai tempi del Minculpop)». (Presente nell'ultima bozza, la frase è scomparsa nella versione definitiva.) A parte il riferimento un po' ardito, il problema della libera informazione è cruciale per qualunque paese democratico. Ma può essere sollevato in questi termini dal giudice più potente d'Italia che sta indagando sulla Fininvest? E infatti stavolta Di Pietro resta solo. La sinistra l'ha già mollato perché ne teme un avvicinamento ad Alleanza nazionale. Ma adesso anche Fini prende le distanze.

Violante: «Sì, i pubblici ministeri sono troppo potenti...»

Concludo questo breve viaggio nei rapporti tra magistratura e politica a Montecitorio, nell'ufficio di Luciano Violante, vicepresidente della Camera.

Anche se ha lasciato la magistratura nel '79 per entrare nei ruoli parlamentari del Pci, Violante ha la fama di giudice più potente d'Italia. Si favoleggia che dalla poltrona di presidente della Commissione parlamentare antimafia che ha occupato fino all'incidente Minzolini-Dell'Utri del marzo '94 abbia esercitato un controllo indiretto ma formidabile, sulle Procure italiane più importanti e in particolare su quella di Palermo, per il suo vecchio rapporto di amicizia e di intesa professionale con Giancarlo Caselli, suo antico collega a Torino negli anni bui del terrorismo.

Quando subito dopo le elezioni politiche di marzo ho detto ad Achille Occhetto che tra le ragioni della sconfitta dei progressisti potevano annotarsi il timore di una omologazione a sinistra dell'inforrnazione (anche quella della Rai dei Professori) e della magistratura, vista l'influenza di Violante sulle Procure, la reazione istintiva del segretario del Pds fu «ma non sulla Procura di Milano...», lasciando involontariamente intendere che altrove Violante contasse più di qualcosa.

Il giorno delle sue dimissioni da presidente dell'Antimafia, uno dei leader dello schieramento progressista mi disse: «Meglio così. Dovessimo vincere noi ci risparmieremmo un pericoloso ministro dell'Interno...».

Quando giro a Violante questo giudizio allarmato e allarmante, se non altro perché in arrivo da sinistra, il vicepresidente della Camera resta un po' perplesso e poi commenta: «Quando mi sono dimesso, ho ricevuto ventiduemila messaggi di solidarietà da cittadini comuni. Forse faccio paura perché so fare il mio lavoro».

La visita a Violante nasce da un quesito: i procuratori della Repubblica e i loro sostituti sono troppo potenti, tanto da costituire il Potere per eccellenza in questo paese? La risposta del vicepresidente della Camera sembra condividere un certo allarme: «Quando la politica sposa un processo, la gente ha paura. Guai se il magistrato cerca il consenso dei cittadini. Guai se si crea un asse diretto tra consenso popolare e iniziativa giudiziaria. Lei mi chiede se la gente ha avuto paura prima del voto e per questo non ha scelto la sinistra. Credo che la grande massa dei cittadini non ne abbia avuta. Ma non c'è

dubbio che negli strati medio-alti dell'opinione pubblica del nostro paese ci sia stata una forte preoccupazione».

Violante suggerisce tre correttivi ai poteri del pubblico ministero.

«Innanzitutto bisogna rendere più incisive le norme sulla responsabilità dei magistrati. Adesso, delegata di fatto all'iniziativa del ministro della Giustizia, non è una cosa seria, anche se quella dei magistrati è la categoria più sottoposta a prowedimenti disciplinari. Il secondo problema è che i giudici delle indagini preliminari sono troppo pochi rispetto ai pubblici ministeri. A Palermo su quaranta Pm ci sono soltanto otto Gip. Il giudice quindi ha poco tempo per studiare le richieste della Procura e quasi sempre finisce con l'avallarle. Occorre dunque una riforma giudiziaria che affidando molti processi minori al giudice di pace, consenta di recuperare milleduecento magistrati a compiti più delicati. Il terzo e più grave problema è quello di restituire una forte autorevolezza alla politica. Alcune iniziative del governo Berlusconi (per esempio, la restituzione dell'indennità giudiziaria a magistrati distaccati a compiti diversi da quelli giudicanti) fanno apparire tuttora di fatto la classe politica subordinata alla magistratura. E questo non va bene.»

Anche Violante vuole frenare dunque i pubblici ministeri? Quando al telefono gli ho detto che il potere dei giudici sarebbe stato il tema principale della nostra conversazione, Violante mi hmandato per fax un suo articolo uscito alla fine del '93 su «Micromega». C'era già scritto il progetto per tagliare le unghie ai magistrati, anche in caso di vittoria delle

sinistre.

«Questo potere ha ormai assunto una dimensione patologica... Il centro di gravità del processo, invece, di fermarsi sul dibattimento come luogo di verifica delle opposte ragioni dell'accusa e della difesa, è costituito dalle indagini preliminari, che rappresentano, per necessità, la fase più autoritaria del processo penale. Si aggiunga la sostanziale discrezionalità dell~azione penale per definire un quadro di preoccupante concentrazione di poteri su una fase processuale nella quale i valori propri della giurisdizione sono meno presenti.»

L'avevo detto a Di Pietro il 20 luglio del '93, giorno del suicidio di Gabriele Cagliari: chiunque vincerà le elezioni, sinistra, centro, destra (ma allora alla destra non ci pensava nessuno), ridurrà il vostro potere. Lui non ci credeva. Forse era incerto sul fatto che ci avrebbero provato. Ma era sicuro del fatto che non ci sarebbero riusciti.

Bossi, il terremoto quotidiano

Prende il caffè dolcissimo, Umberto Bossi. «Quanti cucchiaini?» «Due.» Siamo nel bar del Centro Rai Nomentano, il lunedì di San Benedetto che precede le elezioni. Le produzioni oggi tirano il fiato. Fanno festa le belle arpie di «Tunnel» e i più sani e più belli di Rosanna Lambertucci, gli occhialini colorati di Luca Giurato e il sorriso di Mara Venier. Riposano la sempre verde Catherine Spaak e il sempre giovine in boccio Cecchi Paone. Insomma il convento passa soltanto Bossi e Bertinotti che si alternano nel francescano salotto di «Oltre le parole», ammoniti dallo spettro lontano di Giovanni Sartori, padre della scienza politica italiana, che vuol sapere che dia-

volo significhino per i suddetti e gli altri pregiati leader invitati alla trasmissione parole-contenitore come destra, sinistra, centro, federalismo, progressismo, liberaldemocrazia, polo delle libertà...

Beve dunque il caffè dolce l'Umberto e non s'awede che due manovaloni quiriti lo misurano con lo sguardo domandandosi con l'antica preveggenza romana se un domani il gran capo leghista non tornerà con l'ufficiale giudiziario a metterli all'asta tutti insieme con le palme finte di Cecchi Paone, i divani rosa della Lambertucci, le ballerine di «Domenica In», gli ospiti misteriosi della Spaak, i tunnel rossoOcchetto della banda di «Avanzi» e tutto il resto, compreso il Vespa che, goloso com'è, guarda ammirato i due cucchiaini colmi di zucchero con cui ha appena condito il caffè di Bossi.

Il quale Bossi il caffè se l'è guadagnato fino all'ultima goccia, abbandonando gli amati comizi nella protettiva terra

lumbard e schivando perfino un dirottamento in corso a Fiut micino pur di arrivare puntuale al modesto appuntamento di «Oltre le parole». Sorpresa.

Quando due settimane prima avevo chiamato Simonetta Faverio, sua addetta stampa per l'invito di rito, la risposta era stata cortese ma negativa: «Grazie, ma l'Umberto ha detto che non farà più televisione. No, nemmeno Tribuna elettorale. Farà soltanto l'appello agli elettori, i tre minuti finali. Va bene Maroni?».

Bossi è Bossi, certo, ma come si fa a rifiutare Maroni, il nu-

mero due delegato non solo alle pubbliche relazioni, ma addirittura candidato dall'Umberto a fare il presidente del Consiglio al posto dell'odioso alleato Berlusconi?

Naturalmente è fatale un po' di dietrologia. Immagino dunque che Bossi non abbia deciso di ignorare la televisione per dedicarsi agli amati comizi, ma perché i suoi - Maroni in testa - lo hanno chiuso a tripla mandata in Lombardia per arginarne i danni. Da molto tempo, infatti, gli esperti di comunicazione suggeriscono maliziosamente agli avversari del leader leghista: «Vi preoccupate di Bossi? Allora fatelo parlare». In televisione, naturalmente. In Tv il celodurismo rende sempre meno.

Le immagini truculente care all'Umberto, il tagliare la gola agli awersari, l'ostentare proiettili per i giudici, sono oro, incenso e mirra portato al presepe dei suoi oppositori. «Che vada in Tv, l'Umberto. Che vada. Peggio per lui.» Questo insinuano gli esperti maliziosi. E invece eccolo, Bossi, entrare tranquillo, col sorriso un po' intimidito, nel bar semideserto del Nomentano. Mi sembra perfino bello. Oddio, bello il Bossi? Carino. Forse nemmeno carino. Insomma, meno brutto di come appare in Tv, certo meno brutto di come lo ritrae Giorgio Forattini, con i dentoni da Dracula e lo spadone leghista alla cintura.

Lo ricordavo diverso, Bossi. Un solo incontro, casuale, in un corridoio di Montecitorio, poco dopo le elezioni del '92. Ero direttore del Tgl e avevo sottovalutato il fenomeno leghista. Mi sembrava impossibile che la borghesia lombardoveneta, la più avanzata d'Italia, avesse abbandonato la culla protettiva del sistema, che aveva garantito sicurezza per

quarantacinque anni, per tuffarsi tra le braccia di uno che prometteva di tagliare l'Italia, di abbandonare il Sud al suo destino, che gridava a Pontida: «I soldi del Nord restino al Nord e il resto d'Italia s'arrangi». Non avevo capito a che livello di non ritorno fosse arrivata l'incazzatura degli italiani. Bossi attraversava gli odiati corridoi del potere a grandi falcate, protetto da una piccola corte di pretoriani guidata da Francesco Speroni, che fin da allora portava la giacca rossa come rossa era la mantella di Liborio, il più celebre prefetto del Pretorio, negli anni di «Carosello».

Dissi a Bossi: «Le porto il rispetto che merita la grande quantità di persone che la votano». Bossi fu garbato, ma mi sembrò abbastanza ostile e grintoso, assomigliava a quello di Forattini. Quale atteggiamento d'altra parte avrebbe potuto avere dinanzi al direttore di uno degli odiati giornali di Stato, incarnazione dell'orrido potere romano? Eppure la mia frase parve rassicurarlo, e Bossi si chetò.

Penso a quel gelido incontro adesso che bevo il caffè con un uomo tutt'affatto diverso. Bossi è assai più potente di allora e il suo linguaggio è diventato più duro, perfino sanguinario («Abbiamo tagliato la gola alla Dc da orecchio a orecchio»).

Ma nel pomeriggio di San Benedetto ha l'aria mite, sorridente e un po' velata d'imbarazzo, del titolare di una piccola impresa brianzola che abbia vinto la gara d'appalto per i condizionatori d'aria della Rai e sia venuto a vedere se il lavoro non sia per caso troppo impegnativo. L'unico segno di riconoscimento che gli trovi addosso è il distintivo d'oro del

la Lega. Per il resto, il tono è dimesso, da borghese piccolo piccolo quasi proletario che dovrebbe fare invidia non dico all'aristocratico Occhetto da Capalbio, ma almeno al raffinato Bertinotti da Torino Mirafiori.

Giacchettina a quadretti azzurro-celesti, camicia celeste Upim slacciata alla Bossi, cravattina rosso cupo che porta i segni di estenuanti e malriuscite annodature, pantaloni scuri stazzonati calzini grigi slavati a righine strette e infine scarpe nere a punta quadra di design albanese.

Fa tenerezza, l'Umberto pronto per lo show della Tv romana. E il personale di studio, che ne ha viste tante e ha l'animo buonolo adotta subito. La guardarobiera che non conosce il Bossi-pensiero gli dice di allacciarsi la camicia e di tirar su la cravatta- Lui lo farebbe pure per non dire di no e compiacere la signora Lo fermo io, quasi d'autorità. «Lascia stare tutto com'è, altrimenti non ti riconoscono più.»

La guardarobiera non capisce e insiste perché almeno il bordo inferiore della cravatta non gli spunti dalla giacca. Bossi stavolta l'accontenta: tira su, tira giù e lascia tutto peggio di prima. La truccatrice gli spolvera il viso con un po' di cipria e lui si toglie gli occhiali a goccia e lascia fare.

L'unico gesto di difesa netta lo compie quando la parrucchiera fa per rawiargli i capelli. «No» la ferma Bossi. Chiede lo specchio, si tocca compiaciuto il caschetto grigio a riga centrale e la congeda con un sorriso: «Va bene così».

Ma lo studio è ormai conquistato e Fabio, l'assistente, apre il coro delle indiscrezioni più gradite: quelle sul trucco di

Berlusconi.

«Sapesse, onorè... Sò venuti a fà le prove, sò venuti... Sì, il giorno prima: abbassa 'sta luce, smorza il controluce, sposta la telecammera. Sa onorè: ci aveva paura che gli sbagliassimo le luci apposta pe' fallo venì male...»

«Eppoi il trucco» dice un'altra. «E venuto già pronto, ha accettato da noi un tocco di cipria e una passatina di pettine. Ma prima, in camerino, ci aveva la sua assistente personale...»

Bossi si diverte, ma sembra soprattutto stordito dalla potenza di fuoco mass-mediologica del suo alleato-rivale.

«Per forza,» dice alla fine, quasi per consolare se stesso e il personale di Nomentano Due, «col mestiere che fa...»

Le «rluvolette» del Cavaliere

n «mestiere» di Berlusconi è l'incubo di Bossi dal 26 gennaio, da quando il Cavaliere è entrato in politica con un messaggio televisivo. Bossi è convinto che Berlusconi ricavi il suo potere esclusivamente dalle reti della Fininvest, ritiene che possa usarle secondo i suoi capricci, non si commuove quando vede che il cuore di Costanzo e quello di Mentana battono per i progressisti: è convinto che il giorno in cui fosse costretto a vendere Canale 5 il Cavaliere sarebbe politicamente finito.

Per questo vuole ossessivamente un giornale per la Lega e soprattutto una rete televisiva (pubblica?, privata?) che fac-

cia i suoi interessi. Per questo a fine settembre minaccerà sfracelli dopo l'esclusione di uomini della Lega (primo fra tutti il suo biografo Daniele Vimercati) dai nuovi assetti che guideranno l'informazione della Rai. Sul tema dell'informazione Umberto Bossi è tornato con impressionante costanza in ciascuno dei cinque incontri che abbiamo avuto tra marzo e luglio del '94. Mi dice il 22 aprile, mentre è aspro il confronto postelettorale con Berlusconi: «Bisogna stare attenti alle manipolazioni, alle nuvolette d'incenso che escono dal televisore. E facile manipolare la gente, promettendo certezza in quello che viene abitualmente considerato il bene primario cioè la governabilità. Bisogna badare a che non si ripetano lé esperienze delle settimane scorse. E la democrazia correrà minori pericoli».

Bossi non nomina mai Berlusconi, a meno che non vi sia costretto da un intervistatore. Ma ogni accenno polemico si riferisce a lui. Berlusconi non viene mai difeso da Bossi. Spesso è attaccato con una asprezza inedita nei rapporti tra alleati nella Prima Repubblica, la cui debolezza di fondo è stata proprio la conflittualità delle coalizioni. La definizione più gentile che nell'arco del '94 Bossi ha dato di Forza Italia è stata «il male minore». In ciascuno dei nostri colloqui e delle nostre interviste l'atteggiamento di Bossi nei confronti del Cavaliere è sprezzante. Ma quando gli dico, come naturale conclusione, «Quindi l'alleanza non si fa», oppure «Quindi non farete il governo insieme» o ancora, dopo le elezioni europee di giugno '94, «Quindi farete la crisi», la risposta di Bossi è invariabilmente di segno opposto a tutto il ragionamento precedente. «L'alleanza è necessaria», «Il governo si deve fare presto», «La crisi è impensabile e ancor più lo sarebbero nuove elezioni anticipate».

In realtà l'atteggiamento negativo di Bossi nei confronti di Berlusconi non è mosso tanto da un giudizio politico, quanto da un umanissimo eppure inconfessabile risentimento personale. Come vedremo, Bossi comincia a far politica nel '79 quando s'innamora dell'ideale autonomistico incontrando il leader dell'Union Valdotaine, Bruno Salvadori, davanti a un manifesto nell'Università di Pavia. Quindici anni non sono i cinquanta di Andreotti, ma non sono nemmeno i tre mesi di Berlusconi- E comprensibile, quindi, che quando prima delle elezioni Bossi sente il suo prestigioso alleato parlare tranquillamente di candidatura alla presidenza del Consiglio avverta una nausea da partoriente e quando dopo le elezioni lo vede comparire in televisione con la scritta sul mezzobusto: «Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri» o, peggio, lo sente chiamare «Dear Silvio» da Clinton e lo vede a braccetto con Kohl e con Eltsin come se fossero Sacchi e Baresi, subisca tutti gli effetti negativi della «sindrome da Maratona»: quella dell'atleta che nella «classica» inventata suo malgrado da Filippide è stato in testa dal primo momento al quarantaduesimo chilometro e poi si vede sorpassare alla grande negli ultimi centonovantacinque metri da uno sconosciuto Speedy Gonzales iscrittosi alla gara poco prima della chiusura dei termini.

«Berlusconi? Ma sì, gli concederemo di fare il ministro dello Sport e dello Spettacolo. Credo che gli si addica come ruolo.» Così dichiara Bossi a Flavia Baldi del «Giorno» il 25 marzo, due giorni prima delle elezioni, mentre mangia con la consueta parsimonia un piatto di spaghetti offertogli in una bella casa di largo Quinto Alpini, a Milano, da una settanten-

ne signora Carla innamorata di lui e incontrata poco prima al mercato rionale dove il Senatùr sta concludendo la sua campagna elettorale.

«La Lega sarà un rombo di tuono» urla qualche ora dopo in piazza Duomo a seimila scatenati che gridano ritmando: «Chi non salta / comunista è». E orgoglioso dei ventiduemila chilometri fatti in campagna elettorale («Noi non avevamo le Tv» dice a Massimo Arcidiacono dell'«Indipendente») e si allarga a estendere i veti anche agli alleati meridionali di Berlusconi: «Chi, Fini? Sarebbe come tornare al passato remoto. No, cari miei, con un fascista non faremo il governo». E ancora, a chi gli ricorda che Fini è alleato di Berlusconi: «Berlusconi si preoccupi di far votare il suo di partito, perché il nostro è già così grande e così forte che non ha bisogno di altri voti. E lui che nonostante le luci azzurrate e le ciprie, ha qualche difficoltà».

Bossi sa che non è vero. Sa che appena tre mesi prima, a fine '93, i sondaggi accreditano la Lega del 19 per cento, ridotto immediatamente al 12 quando a fine gennaio scende in campo Berlusconi. Sa che sotto elezioni le cose vanno perfino peggio, non tanto perché sente awicinarsi 1'8.4 che gli daranno le urne, quanto perché vede crescere il suo amico alleato.

Eppure, a gennaio, è proprio il suo atteggiamento (insieme con quello di Segni e di Martinazzoli) a convincere il Cavaliere alla grande sfida, mentre Maroni, che forse avverte di più il pericolo, scongiura Berlusconi di aspettare il veto formale del leader popolare per ritardare un impegno diretto ormai già deciso.

L'accordo del 24 gennaio tra Segni e Maroni per una intesa tra leghisti e pattisti procura grande sconcerto tra i popolari e terribili accuse di tradimento da parte della sinistra referendaria. Ma a ben guardare potrebbe rappresentare l'ultima possibilità per portare Segni a Palazzo Chigi con la benedizione del Cavaliere, e con Bossi vero nume tutelare.

«Segni all'ultima svolta» titola ironica «la Repubblica» che chiarisce subito: «Patto d'azione con i leghisti per arrivare a Palazzo Chigi». Al cronista che gli chiede se è ormai tramontata l'ipotesi di andare solo alle elezioni con Martinazzoli, Segni risponde: «Voglio marciare insieme a tanti. Anche Martinazzoli sa che non deve marciare da solo. Siamo nel maggioritario, ora».

In realtà sia Martinazzoli che Bossi pensano di essere assai più forti di quel che sono: il primo è convinto di poter rappresentare l'ago della bilancia di qualunque governo e di determinare il presidente del Consiglio (più Prodi che Segni, se i progressisti saranno più forti della destra); il secondo pensa che insistere sulla pregiudiziale federalista gli porterà il Nord in dote e che può, anzi deve, fare a meno dei vecchi democristiani così poco amati dal popolo leghista.

Così Bossi in quarantotto ore smentisce Maroni, Martinazzoli tira un sospiro di sollievo e ritiene che l'acquisizione esclusiva di Segni possa consegnargli le chiavi del governo. gerlusconi (grazie ai sondaggi quotidiani di Pilo) è il solo a capire che l'uno e l'altro gli stanno regalando Palazzo Chigi.

ffIn fondo, I'ho fregato»

Per tutta la campagna elettorale, Bossi insiste sul federalismo per consolidare le simpatie dello zoccolo duro della Lega e quando un mese dopo la rottura con Segni, venerdì 25 febbraio a Brescia, l'inviato del «Corriere» Gianluigi da Rold gli fa notare che l'ultimo sondaggio Cirm colloca la Lega al 9.5 per cento contro il 25 di Berlusconi, Bossi risponde: «Dopo il voto, quello che conterà sarà la forza parlamentare. Io sono certo che la Lega diventerà il gruppo più forte e più compatto. Mettiamo subito tutti sull'avviso: per governare, questa volta, bisognerà fare i conti con noi. E vedrete che ci saranno delle sorprese».

Fino alla vigilia elettorale, Bossi gioca due carte: la forza parlamentare della Lega e la grande delega che si aspetta dal Nord. Sul primo punto, quando a una settimana dal voto lo accompagno alla porta dopo l'intervista sui programmi elettorali e il caffè molto ben zuccherato, lui mi confida: «In fondo, Berlusconi l'ho fregato perché il settanta per cento dei parlamentari del Polo delle Libertà eletti al Nord sono i miei. Anche a Fini andrà bene perché metà degli eletti nel Sud sono suoi».

Così per larghe linee avverrà. Ma è il messaggio politico dell'elettorato che sarà diverso da quello sperato da Bossi. Il leader della Lega conta fino all'ultimo di avere almeno sulla proporzionale (cioè nel voto «ideologico») un piazzamento migliore di Forza Italia. E così non sarà. E spera di poter essere il vero punto di riferimento del Nord, per dettare le condizioni istituzionali al nuovo governo. Ma nemmeno questo secondo desiderio verrà soddisfatto, se le sue quarantunomila preferenze personali nel primo collegio di Milano saranno

attribuite per due terzi all'elettorato di Forza Italia e solo per un terzo a quello della Lega.

Così gli ultimi giorni di campagna elettorale vengono condotti da Bossi con la consueta, straordinaria generosità personale, ma in un clima di grande nervosismo.

Il 22 marzo il «Corriere della Sera~, da sempre organo del la borghesia lombarda, annuncia che «imprenditori e Lega sono sempre più divisi mentre cresce la protesta di una categoria produttiva che non si sente rappresentata nelle candidature». Nella stessa pagina, Gianni Riotta raccoglie le ultime confessioni dell'Umberto, spesso mattatore di «Milano, Italia».

S~amo a cinque giorni dalle elezioni e non si può dire che tra Bossi e Berlusconi sia scoppiato l'idillio. Dice il Senatùr: «Fronteggio la carica del nemico, anche tra le mie file». E chi è il nemico? Lo conferma a Riotta un consigliere di Bossi: «Umberto sa di essere alleato con un nemico. Siamo alle corde, ma non ci arrendiamo». Poco più in là c'è il generale: in queste ore Bossi si identifica sempre di più con un suo eroe, il generale russo Mikhail Ilarionovic Kutuzov, che aspetta la battaglia della Beresina. Per dare la carica alle truppe, demonizza il nemico. Che è anche suo alleato. Infila nel registratore di casa un vecchio film del grande Kurosawa, Kagemusha, I'ombra del guerriero, e ne riassume la storia a Riotta «con una voce che di colpo si fa soffice, come se raccontasse una fiaba»: «E la storia di un re che, attratto da una musica sotto le mura della città assediata, finisce ucciso da una freccia. Gli ufficiali, temendo che senza il re l'esercito venga sgominato,

arruolano un sosia, la sua copia carbone, e lo portano in giro. Ma il vecchio re era saggio, il nuovo è finto. Il potere l'ottieni solo se parli con te stesso e sai capire cosa dici. Nessuno può cambiare la natura delle cose. Il ferro non diventa oro, un sosia non è il re. Quando arrivi alla prova sei solo: muore il nuovo re, l'esercito è sconfitto». E chi è il re finto? n Cavaliere, naturalmente. Anzi, dice Bossi per marcare la differenza: «Io sono un fante. Combatto nella palude. La mia tattica è pericolosissima».

Prima delle elezioni, Bossi assomiglia ai guerrieri terribili, eroici e tristi delle leggende omeriche. Al «Corriere» fa avere per il paginone che gli viene dedicato una foto in cui suona con dolcezza il violoncello con la testa appoggiata sulla guancia di sua moglie Emanuela. A Riotta racconta che «il potere non conta. Conta tornare a casa a trovare i figli, la cosa migliore che ho. Arriverò a notte fonda, mi infilerò sotto le lenzuola con loro. Così sentono che ci sono».

«Berluskaiser? Mai a Palazzo Chigi...»

Le elezioni del 27 marzo portano a Bossi meno della metà dei voti di Berlusconi e soprattutto gli procurano un imbarazzante confronto al Nord con l'alleato-nemico. Nell'Italia settentrionale la Lega tocca il 17 per cento dei voti, contro il 23.5 di Forza Italia. Nella Milano di Formentini la forbice si allarga: 16 contro 28.6. Stesso rapporto, più o meno, in Lombardia e in Piemonte. Dieci punti a favore di Forza Italia in Trentino e in Emilia. Ironia vuole che solo nel Veneto lo scarto sia di un paio di punti. Perché ironia? Ma perché nel Veneto comanda Franco Rocchetta, presidente della Lega Nord e massimo awersario interno di Bossi al quale, subito dopo le ele-

zioni, manda a dire dalle colonne di «Panorama»: «I miei maestri sono stati gli agricoltori e i muratori, non i giocatori d'azzardo». E chi è il giocatore awentato se non l'Umberto? Che già il 31 marzo, alla prima riunione degli eletti della Lega, prende da parte Rocchetta e lo diffida a mettersi in pista per diventare ministro. (In autunno Rocchetta romperà definitivamente col senatùr.)

Nella settimana successiva alle elezioni, Bossi alza il tiro contro Berlusconi.

Manda intanto due awertimenti a Scalfaro: 1. «Sono io, è la Lega che rivendica il diritto alla guida delle trattative di governo». 2. «Il presidente non si azzardi a fare di testa sua. Se designa Berlusconi, stavolta il Nord s'incazza davvero» (Giovanni Cerutti, «La Stampa», 30 marzo). E poi ancora, sullo stesso giornale: «Non dimenticherò mai che Forza Italia è nata per battere la Lega. Non dimenticherò mai che volevano farci fare la fine della Rete o dei Verdi, poverelli». «Bossi vivente, Berlusconi non andrà mai a Palazzo Chigi.» «Dietro Fini c'è un passato che non si cancella con una visitina alle Fosse Ardeatine. Li ho visti bene i saluti al Duce in Tv!»

Per l'intera Settimana Santa, Bossi cosparge di spine il calvario di Berlusconi.

Intanto, s'infuria col Cavaliere perché il primo incontro politico avviene a casa di Fedele Confalonieri, presidente della Fininvest, alla presenza del vicepresidente Gianni Letta. E il sernplice odore di Fininvest fa su Bossi lo stesso effetto di un drappo rosso su un toro.

Poi continua a dire che Berlusconi non sarà mai premier (2 aprile, Sabato Santo) e chiede l'incarico per formare un governo istituzionale, affermando che «con Berlusconi la democrazia è a rischio» (4 aprile, lunedì dell'Angelo).

Lo stesso giorno Bossi confida a Daniele Vimercati del «Giornale»: «Berlusconi politico io l'ho già misurato. Nel senso che, quando l'ho incontrato (dopo le elezioni) m'ha detto: "Dai, mettiamoci d'accordo, che così dividiamo il potere, io e te, per vent'anni". Capito? Un altro ventennio, mi proponeva». Ribatte Berlusconi: «Non ho mai promesso un ventennio di potere: ho soltanto proposto a Bossi dieci anni di sviluppo e di benessere per il popolo italiano».

Il 5 aprile, con la Pasqua andata di traverso, Berlusconi perde la pazienza e interrompe le trattative. Non può accettare che un suo alleato di rango lo chiami pubblicamente «Berluscone», «Berluscaz» e infine «Berluskaiser». E intanto il fiore all'occhiello della sua Mondadori, «Panorama», pubblica un sondaggio commissionato alla Swg di Trieste secondo il quale oltre un terzo degli elettori della Lega mostra insofferenza per le posizioni del suo leader e il quaranta per cento degli elettori del Carroccio non confermerebbe il suo voto per le bizze di Bossi, pur restando nel campo moderato (un passaggio a Forza Italia?). Infine, secondo Swg e «Panorama», «la Lega dovrebbe partecipare a un governo che i più vogliono guidato da Silvio Berlusconi».

Quando Bossi rientra da Ponte di Legno dove ha passato in serenità la sua Pasqua accontentandosi di rovinare quella del Cavaliere, vado a intervistarlo nel suo ufficio a Monteci-

torio.

La segreteria di Bossi suggerisce, al primo impatto, la stessa improvvisa sensazione di extraterritorialità che si prova entrando negli uffici dell'ambasciata americana. Lì è il distri-

tore d'acqua gelata in corridoio, il modo di scrivere sulle agnedi archiviare i fogli negli uffici che ti fa pensare di essere entrato in un pianeta diverso, dietro l'uscio che si apre sul traffico di via Veneto. Qui sono i poster leghisti appesi dovunque che rivendicano la diversità nordista, il diritto alla scuola che è cosa diversa da quello invocato nei paesi della Sicilia: in quanto non diritto nazionale all'alfabetizzazione e alla parità delle condizioni di partenza per i giovani, ma diritto locale ad avere insegnanti che parlino il dialetto dei ragazzi, che siano sangue del loro sangue, ben consapevoli della diversità nordista della quale la Lega ha fatto fin dalla sua nascita la base di ogni progetto e di ogni rivendicazione.

L'unico elemento di piena territorialità romana in questa stanza è la bella segretaria di Bossi, Gabriella Pulcini, la sola persona abilitata a gestirne gli incontri, gli appuntamenti, a regolare il traffico d'entrata e uscita dalla sua stanza e anche a organizzargli quel po' di vita romana che Bossi si concede. Lo segue dal Senato, quando Bossi più che un parlamentare era una stravaganza politica. «Quando ho l'influenza, Gabriella viene perfino a farmi la minestrina» dice Bossi. «Ma basta, eh?, perché con le segretarie non bisogna fare altro» aggiunge mentre la ferrea collaboratrice diventa paonazza e cerca di scivolare sotto la scrivania.

Facciamo con Bossi l'intervista per il Tgl e lui digrigna i denti contro Berlusconi, ma butta anche qualche goccia d'acqua sul fuoco, preparandosi alla grande convention di Pontida in cui non potrà teorizzare la rottura col Cavaliere. Poi, a rnicrofoni spenti, mi dice che il governo bisogna farlo e presto, entro aprile. E mi fa capire, anche, quali sentimenti contrastanti si nascondono dietro la richiesta leghista del ministero dell'Interno («L'unico per il quale potrei sacrificare Maroni»). Bossi è combattuto tra il desiderio (e anche dalla curiosità) di entrare nel sancta sanctorum del Viminale che la Dc non ha mollato mai in quarantacinque anni e il timore di dover gestire difficili situazioni riguardanti la sicurezza del paese e l'ordine pubblico. Da questi timori nasce la richiesta di sdoppiare gli Interni e di assegnare alla Lega un ministero delle Autonomie che prenda dal Viminale la rosa delle prefetture e del controllo politico del paese, lasciando a qualcun altro le spine dell'ordine pubblico. Richiesta destinata a cadere per le resistenze a creare un ministero di sola polizia da parte di Berlusconi e dello stesso Scalfaro, che pure al Viminale non vorrebbe in alcun modo un leghista e fa il tifo per una personalità più tranquilla.

«Stavamo per prendere le armi, noi della Lega»

Ma nel nostro colloquio Bossi va oltre. E la prima volta che possiamo affrontare una discussione politica a tutto campo e lui colloca tra 1'86 e 1'87 un momento di altissima crisi di cui non avevamo avuto notizia. «Stavamo per prendere le armi, noi della Lega» mi dice. «Le armi?» chiedo. «Sì, le armi» conferma Bossi. Lo dice con grande tranquillità, come se stesse parlando di un fatto storico ormai lontano e consolidato, come se stesse parlando di Garibaldi. Fa una pausa, aspira la

sigaretta con un gesto largo e disteso del braccio e riprende: «Stavamo andando alle armi perché non c'era altro da fare. Il regime sembrava incrollabile».

Sarebbe nato, dunque, un terrorismo leghista? Forse al momento di entrare in azione le convinzioni democratiche di Bossi l'avrebbero fermato. E certo però che la tentazione di una iniziativa disperata contro un sistema che gli appariva corrotto, impresentabile eppure apparentemente solido, BosSl deve averla avuta se Roberta Filippini, una brava collega dell'Ansa di Torino mi dice una sera, per caso, di averlo sentito affermare la stessa cosa in un discorso elettorale in Piemonte. Siamo a cena il 6 maggio in una trattoria del Lingotto. Claudio Abbado ha appena inaugurato con la Nona di Mahler la splendida sala da concerto realizzata da Renzo Piano. Parliamo di musica, dei Berliner, delle occasioni perdute da Roma che aspetta dal dopoguerra la costruzione di una struttura modulare come il Lingotto che sia al tempo stesso sede di congressi, di grandi mostre e di concerti Poi il discorso scivola sulla politica, racconto i miei incontri con Bossi e dico alla collega che mi ha impressionato quella frase: «Stavamo per prendere le armi». Lei mi guarda stupita e mi dice: «Sai che l'ho sentita anch'io in un comizio a Novara? Bossi disse: "Migliaia di giovani del Nord, nelle valli, nelle pianure, nelle montagne, erano pronti a fare la rivoluzione. ~Ia io li convinsi a scegliere la via democratica al cambiamento". Era il 22 marzo. Alla fine del comizio mi awicinai per chiedergli conferma e lui mi trattò bruscamente. Chiamai la sede centrale dell'Ansa a Roma. In assenza di una registrazione e in assenza di una conferma da parte di Bossi, decidemmo di non trasmettere questo passaggio del discorso».

(Il 29 agosto Bossi ripeterà la cosa durante le sue vacanze in Sardegna a Porto Cervo. Il cronista dell'Ansa stavolta è in compagnia di altri colleghi e giura di aver sentito il leader della Lega dire di aver fermato trecentomila bergamaschi in armi pronti per la rivoluzione. La notizia fa il giro del del mondo e imbarazza sia il governo che la Lega. Bossi smentisce di aver mai parlato di trecentomila armati, ma conferma il fermento rivoluzionario. La Procura di Bergamo apre un'inchiesta.)

Ma torniamo nella stanza di Bossi che seduto sotto la finestra continua placidamente a divorare sigarette come se fossero di cioccolata. Parla degli anni d'oro di Craxi, quelli che hanno alimentato di più l'odio della Lega verso il sistema dei partiti. «Era una dittatura. Una dittatura subdola, che ti scivola sotto senza che tu te ne accorga. Una dittatura fondata sulla commistione tra politica e affari, sulle verità nascoste, sull'equilibrio nella ripartizione delle tangenti. Se non fosse arrivata la Lega, la gente non si sarebbe accorta di quanto può essere asfissiante il regime partitocratico.»

La Lega comincia a picconare e ottiene qui e là la caduta di qualche calcinaccio. Di Pietro fa il resto e il cambiamento politico è superiore a ogni ragionevole previsione.

Poche ore dopo il nostro colloquio Bossi s'incontra con l'odiatissimo Fini e la domenica in Albis, 10 aprile, a una settimana dalle cannonate di Ponte di Legno, va ad annunciare a quarantamila leghisti raccolti sul prato di Pontida che il governo si farà. Titola «il Giornale» di Feltri che ormai segue la Lega con la stessa attenzione che il direttore le dedicava all'«Indipendente»: «Sarà un governo a orologeria. Bossi

scioglie le riserve e awerte: riforme entro sei mesi o faremo la Repubblica del Nord». Il consueto cocktail di annunci rassicuranti e di minacce celoduriste offre grande conforto al popolo leghista. Racconta Renato Farina, sempre sul «Giornale»: «Il miracolo c'è stato. Il popolo che nei vapori di un'al ba rugiadosa scendeva nello spiazzone verde con i figli ir spalla e una certa confusione nella zucca, adesso risale baldanzoso e quieto verso le automobili bloccate nel più colossale ingorgo pedemontano della storia. L'unico ingorgo felice, senza un colpo di clacson, dell'umana avventura... Gianfranco Miglio ha profetizzato: "Baceranno la terra dove i leghisti hanno posato i piedi, perché verrà un tempo di prosperità che nessuno può immaginare adesso". Cinque ore pnma questi quarantamila non sapevano più chi erano e dove soffiava la storia. Adesso l'universo si è risistemato e sono come i cavalieri del Santo Sepolcro che hanno ritrovato il calice divino e vogliono starci intorno, silenziosi e danzanti».

«Giovane, cattolica, leghista»

Ancora sei giorni e Bossi mette a segno il colpo più grosso: il 16 aprile, appena insediato il nuovo Parlamento, Irene Pivetti diventa a trentuno anni presidente della Camera. Ecco il suo racconto: «Il giorno dopo Pontida, l'11 aprile, mi chiama Maroni e rni annuncia che Bossi proporrà al Consiglio federale la mia candidatura a vicepresidente della Camera. Resto molto sorpresa. Dopo le elezioni pensavo di potermi occupare a tempo pieno della consulta cattolica. Un ministero? No, semmai perlsavo a un eventuale incarico di sottosegretario... Quando Maroni mi parla dell'orientamento di Bossi, dico che se la cosa andasse in porto, avrei bisogno di tutto il soste-

gno della Lega. Maroni mi rassicura e poi scompare per un paio di giorni. Bossi si fa vivo il 13. Sto all'Università Cattolica e mi cerca sul cellulare. Irene, mi dice, guarda che Speroni non passa al Senato e credo che ti toccherà fare il presidente della Camera».

La ragazza ha un carattere forte e controlla bene l'emozione. Le fa piacere ricevere questa notizia dal capo perché i rapporti con lui hanno sempre girato a corrente alternata. Non è stato lui a toglierla poco prima delle elezioni dal suo ~llegio naturale di Milano per mandarla tra la Bovisa e 2uarto Oggiaro?

«Non c'ero mai stata in vita mia» confessa la Pivetti. «Una ~ona rossa che più rossa non si pub. La Lega aveva una se~ione, Rifondazione comunista ne aveva sei. Tra emarginati li ogni genere ho fatto la mia campagna elettorale solo con i nilitanti- Campagna elettorale? Era un'ordalia. Quattro canlidati e tutti cattolici. I progressisti mi avevano messo contro m cristiano sociale. Cattolico il Popolare, cattolico quello di Alleanza nazionale. E andata bene. Ho vinto con quasi il 53 per cento.»

Tomiamo al 14 aprile, vigilia dell'apertura del Parlamento. "è un vertice di maggioranza. Bossi, com'è giusto, incassa la vittoria politica. Fini fa filtrare la notizia che è stato lui a proporre la Pivetti.

«Arrivo a Montecitorio mentre il vertice è in corso, vado a ifugiarmi nella sala dove i deputati leggono i giornali. Vado ì perché è uno dei pochissimi posti in cui i giornalisti non ~ossono entrare. Mezz'ora dopo escono Bossi e Tatarella per

mnunciare le candidature in conferenza stampa. Con la naggioranza che abbiamo alla Camera, l'elezione è certa. Come ho reagito? Stringendo i denti.»

Alla giovane presidente i sostenitori politici riconoscono tre qualità ideali per l'incarico: «E giovane, cattolica e leghista». Ma di avversari la ragazza non ne ha pochi.

Una sera, in campagna elettorale, sono tra il pubblico del «Maurizio Costanzo Show» quando sento che un brusio accompagna l'ingresso in platea di una giovane donna che va ad occupare una poltrona centrale di prima fila. Chiedo a un collega: «Chi è quella lì?». E lui mi guarda come un marziano: «Ma come, non conosci la Pivetti?». Al «Costanzo Show» l'assegnazione dei posti segue un cerimoniale che fa impallidire il protocollo delle visite di Stato. In prima fila vanno gli ospiti di riguardo, in fatto di popolarità, e soprattutto quelli dai quali ci si aspettano le domande più autorevoli e micidiali. La Pivetti, in questo senso, è la persona ideale. Attaccata sempre e da tutte le parti, rispedisce i siluri al mittente aumentandOne il potenziale esplosivo.

«L'Espresso» le dà il benservito immediatamente dopo la nomina. Il titolo del ritratto di Roberto De Caro è «Giovinezza, giovinezza... ». Il sommario è meno ambiguo, ma micidiale: «Politicamente è nata ieri. Ideologicamente è una cattolica khomeinista. Umanarnente è timida, sprezzante. Questa sarebbe la rottura col passato?». Le vengono rinfacciati il suo integralismo cattolico («C'è una vera religione che è la religione cattolica e le altre che non lo sono»), la sua antipatia per il cardinale di Milano, Martini, che non ha mai vo-

luto riceverla, la sua supposta debolezza per gli scismatici tradizionalisti di monsignor Lefèbvre («Non è vero, seguo soltanto la dottrina del cardinale Ratzinger»), il suo supposto antisemitismo che nascerebbe dal rancore per il deicidio («E una vergogna, mai detto niente del genere»), la sua intraprendenza che la porta a prendere la parola senza invito nel '91 alle Settimane sociali della Chiesa come esponente della consulta cattolica della Lega. Vengono sottovalutati o trattati con sufficienza la sua solidità culturale, le sue ricerche sui manoscritti del Cinquecento, la sua attività di completamento e di revisione, appena laureata, del Grande dizionario illustrato della lingua italiana di suo nonno, Aldo Gabrielli.

Viene infine enfatizzata e condita di mistero la sua separazione coniugale dal coetaneo Paolo Taranta, conosciuto all'Università Cattolica, sposato a venticinque anni e legalmente abbandonato a trenta, oggi banchiere d'affari a Londra.

Lei non ha il corpo fragile di San Sebastiano, le frecce le fanno il solletico, rende onore al vecchio soprannome di Ercolina e tira dritto per la sua strada.

Il giorno dell'apertura del Parlamento la inseguo in una toilette del gruppo leghista dove è andata a nascondersi per sottrarsi alla caccia dei giornalisti. E gentile e paziente, non sorride ma dalla fessura di una porta mi dice che sì, mi concederà la prima intervista televisiva da presidente della Camera. Mantiene la promessa, ma dovranno passare molti giorni perché dal momento in cui Alfredo Biondi ne proclama l'elezione, cade su di lei una rete protettiva implacabile. Mi dice Umberto Bossi: «Povera ragazza, le peserà fare la ca-

stellana, chiusa nel palazzo. Ci sono tanti bei quadri, d'accordo, ma a trentun anni...».

E invece, quando la incontro, vedo che la castellana s'è ambientata benissimo e ha già le idee molto chiare su come procedere, anche nei dettagli. Quando m'accorgo che sopra il divano sul quale siedo c'è un grande quadro di Sironi (Composizione, 1938), un poco angosciante, è vero, ma di grande qualità, lei mi dice subito che ha intenzione di farlo rimuovere per sostituirlo con uno artisticamente modesto, ma di grande significato politico, che ritrae l'insediamento del primo Parlamento castigliano. «Il problema» ammette «è di come farlo entrare dalla porta, visto che è enorme.»

Cerco di farmi carico della sua solitudine, le dico che in fondo, abitando alla Camera, può infilare la porta come vuole per andare dove vuole, perché la scorta la sera se ne è andata tranquilla dopo averla deposta in un palazzo superprotetto.

Lei mi guarda stupita e un po' incredula. Allora entro nei dettagli del piano di fuga. «Guardi, presidente. Le pattuglie di polizia addette alla protezione di obiettivi fissi una abitazione o un palazzo, hanno l'ordine di non muoversi per nessuna ragione. Ma se lei abitasse a casa sua, vedendola uscire all'improwiso, probabilmente per un riflesso condizionato qualcuno la seguirebbe o la pregherebbe di dargli il tempo di awertire la Centrale e lei si troverebbe in difficoltà. Al contrario, le pattuglie che stazionano intorno alla Camera proteggono il Parlamento, non la sua persona, alla quale è addetta invece una scorta mobile che lei ha già mandato a casa.

Quindi, se lei esce all'improwiso, i poliziotti restano di sale, ma non possono seguirla. Non possono abbandonare un obiettivo fisso come la Camera. E prima che facciano in tempo ad awertire la Centrale, lei è già scomparsa. Proviamo?»

La Pivetti ride e scuote la testa. «Sono sicura che farebbero passare ugualmente un guaio agli uomini della mia scorta. Certo, so bene che li ho mandati io a casa. Ma se la prenderebbero ugualmente con loro. Io li adoro. Non voglio, non posso procurare grattacapi a questi ragazzi.»

E rassegnata, la Castellana.

Ha l'unico problema di non ingrassare visto che non si muove più e per risolverlo va a fare jogging in un posto protetto indossando una tuta della polizia.

Dunque, la vita di castellana non le pesa e non le pesa limitare le follie delle sue solitarie serate a un po' di televisione, qualche videocassetta e libri come n nuovo Machiavelli l'arte di sopravvivere in politica, secondo quanto accerta Ant~ nio Padellaro dell'«Espresso» che seppellisce il presidente con questa anonima quartina raccolta in transatlantico: «La Camera vuota è un triste mortorio. / A quest'ora Tatarella è già al Gilda. / E Irene? E qui dove visse Leonilde / rinchiusa nell'urna di Montecitorio».

Prima di andarsene in vacanza a Ferragosto, la Pivetti ha già consolidato la sua immagine di guastafeste dalla mira lunga, tanto da costringere «L'Espresso» ad aggiornare in estate il poco lusinghiero ritratto primaverile. Sotto il titolo Irene dei miracoli viene pubblicato il seguente sommario:

«Convoca ambasciatori, dice la sua sulla guerra in Ruanda. Bolla l'aborto e affonda il femminismo. Si sgancia da Bossi e mette a soqquadro Montecitorio. Così il presidente della Camera si candida a vero uomo forte della Repubblica».

Quando in maggio fa riaprire per la messa quotidiana la chiesetta di Montecitorio intitolata a San Gregorio di Nazianzo, un giornale laico come «La Stampa» si inginocchia: «Da quella giovane donna, il busto eretto, le mani giunte, le ginocchia sugli antichi mattoni, proveniva una forza di grande intensità e mistero».

Quando in luglio concorre con il presidente del Senato Carlo Scognamiglio a nominare i nuovi amministratori della Rai senza concordarne i nomi né con Bossi né tanto meno con Berlusconi, la sinistra va in brodo di giuggiole, salvo a pentirsene in ottobre.

(Ma alla fine di agosto, la sua pubblica, durissima presa di posizione antiabortista al Meeting di Rimini promosso da Comunione e Liberazione, provocherà a sinistra reazioni adeguate e una presa di distanze dallo stesso Buttiglione, nonostante il tema gli sia molto caro.)

Vado di nuovo a trovarla a fine luglio per parlare dei suoi primi cento giorni di regno e la trovo ormai padrona assoluta del campo. Le sigarette e i sigari per gli ospiti son sempre lì sul tavolino come la prima volta (marca diversa dalle sue che stavolta sono Royal). Ma quando cerco con lo sguardo il Sironi del '38 vedo che lo sfratto è stato eseguito, come promesso, e al posto del Parlamento castigliano che evidentemente

non è entrato dalla porta c'è un quadretto di anonimo italiano del Settecento che raffigura un ridotto di teatro.

Di scappare una sera dalla Camera senza scorta per farsi una pizza in pace, nemmeno a parlarne. La ragazza Pivetti arriva a Roma il lunedì con l'aereo militare («Usavo quelli di linea, ma gli uomini della sicurezza mi hanno detto che gli complicavo la vita»), si mura in 580 metri quadrati di appartamento presidenziale, dove il rumore più forte è il passo felpato dei camerieri, non riceve nessuno, né va a casa di qualcuno perché a Roma non ha amici, finché a Dio piacendo arriva il venerdì pomeriggio quando con la gioia del medio manager lombardo trasferito d'ufficio a Roma torna di corsa a Milano, lavora un po' (ma tra le sue mura, vuoi mettere) il sabato mattina, mentre gli amici fanno la spesa per passare la sera insieme o andare tutti nella casa dei genitori sul Lago Maggiore.

«Quando mi hanno eletto» racconta «temevo le difficoltà di conduzione del dibattito in aula. Ho scoperto con sorpresa di essere il capo di una azienda con duemila dipendenti e mille miliardi di budget. Ma non immaginavo che questo lavoro fosse così costoso in termini personali. D'altra parte...»

La guardo pensando ai suoi trentun anni. Alla sua età qualcuna cerca marito, molte cercano lavoro, altre decidono se lasciare la casa dei genitori per prendersi un paio di stanze da sola o magari con un'amica per spendere meno e dare meno nell'occhio. Irene vive su un altro pianeta. Il matrimonio con Paolo Taranta è ormai archiviato, chissà se ne verrà un altro dopo un eventuale annullamento della Sacra Rota. Vive sola senza che nessuno possa arricciare il naso in 580

metri quadrati. Un lavoro ce l'ha. Eppure mi viene di chiederle quello che chiederei a qualunque giovane: come vede il futuro della sua generazione.

«Meglio di qualche mese fa» mi risponde la Pivetti. «Stiamo rimontando i guasti di una lunga crisi politica, morale, istituzionale. Credo dawero che l'economia sarà rilanciata, che aumenteranno i posti di lavoro, che le istituzioni diventeranno più forti. Vede, il danno più grosso che ci ha procurato Tangentopoli è stato la caduta verticale di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il mio impegno principale sta proprio nell'invertire questa tendenza. L'apertura domenicale della Camera una volta al mese, permanente dall'autunno del '94, tende proprio ad awicinarci ai cittadini, a far capire che la sovranità popolare è qualcosa di diverso e superiore rispetto alla volontà dei partiti. Sono i partiti ad essere strumento della volontà popolare.»

Irene Pivetti non ha rinunciato alla sua femminilità. Se le cito una frase di giornale, in cui lei dice di avere «gli occhi (grigioazzurri) del color di Atena», ride protestando che la frase è di un giornalista e l'hanno attribuita a lei per un incidente tipografico. Se le chiedo qualcosa sulla somiglianza con Ornella Muti («Si è tagliata i capelli per questo?») o sulla sua bellezza, si scherrnisce fino a un certo punto: disseppellisce finalmente la trentenne murata dentro il presidente della Camera.

Porta il foulard in tinta con il tailleur acquamarina. E una divisa, ormai. So che sotto il foulard c'è il Sacro Cuore di Vandea, simbolo dei martiri cattolici che nel 1793 resistettero alla Rivoluzione francese e furono massacrati.

Quando le dico che nei discorsi di fantapolitica da salotto di cui è stato pieno il '94, qualcuno la vede in un futuro di medio-lungo periodo come una Giovanna d'Arco emergente sulle rovine e/o scissioni della Lega alla guida di un nuovo partito con forte radicamento cattolico, lei scuote la testa: «I cattolici stanno vivendo in Italia una salutare stagione di ripensamento. Sono convinta che il tradizionale legame del loro mondo con un solo partito come la Dc abbia privato i cattolici come tali di una forte visibilità politica. Adesso che la Dc non c'è più e i cattolici votano per partiti diversi, è indispensabile che si mantengano uniti su alcuni valori di fondo legati alle loro convinzioni. I cattolici debbono portare avanti le loro istanze senza complessi, riaffermando coraggiosamente la loro identità. Per questo porto al collo la Croce di Vandea, simbolo della santità popolare».

Riflette un momento e mormora: «Si parla sempre della Rivoluzione francese, si è parlato sempre dell'Inquisizione. E mai una parola sullo sterminio di Vandea...» che, puntualmente, va a ricordare sul posto a fine estate.

Lei non rappresenta più la Lega, ripete ogni momento. Lei è il presidente di tutta l'assemblea. Ma il giorno che Bossi e Maroni volessero fare l'alleanza - istituzionale o no - con il Pds, qualche conto con la terribile Irene dovrebbero farlo.

Un occhio a Occhetfo, uno al governo

La conquista con la Pivetti della terza carica dello Stato non tranquillizza affatto Umberto Bossi. Per un mese intero, dalle rassicurazioni di Pontida (10 aprile) alla nascita del governo

Berlusconi, cinque settimane più tardi, Bossi continua a giocare a tutto campo sconcertando gli alleati. Spiega a Valeria Gandus di «Panorama» che nella stretta finale per il governo gli chiede come mai flirti con Occhetto e faccia entrare il Pds nella giunta di Varese: «Noi siamo popolani e populisti, non certo conservatori di destra. E chi è popolano rappresenta, all'interno del Polo delle Libertà, l'area progressista. Siamo nati nelle strade, noi, non nei salotti buoni. Il voto ce lo danno la piccola e media impresa, gli artigiani, i lavoratori che mantengono il paese, mica Mediobanca. Dunque tocca a noi chiedere garanzie anche per l'opposizione, perché non siamo affatto d'accordo con l'idea che chi vince si prende tutto».

Se con l'occhio sinistro Bossi guarda a Occhetto, con il destro fa il pieno di ministeri. E che ministeri. Gli Interni a Maroni è il più grosso successo politico. Ma il Bilancio a Pagliarini gli consente di ficcare il naso in tutti i conti pubblici, l'Industria per Gnutti gli permette di rafforzare i rapporti con le categorie produttive che guardano alla Lega con simpatia e le Riforme Istituzionali per Speroni sono la spada del federalismo sospesa sulle sorti del governo. A questo ministero aspirava legittimamente il grande ideologo del federalismo leghista, Gianfranco Miglio. Ma Miglio resta fuori. E stato un veto del Quirinale, spiega Bossi. E stato un veto di Bossi, dicono sottovoce Forza Italia e Alleanza nazionale. Miglio accredita il veto del Quirinale come vendetta per le sue continue richieste di processare Scalfaro per i fondi del Sisde («Panorama», 28 maggio). Ma se ne va ugualmente dalla Lega sbattendo la porta e insultando Bossi. Dice a Maurizio Tortorella di «Panorama»: «Bossi non è in grado di governare niente, nemmeno di fare l'assessore in un comunello». E in

autunno completa la sua rivincita scrivendo nel libro Io, Bossi e la Lega: «Dal punto di vista culturale, Bossi è vicino allo zero... Nella scelta dei collaboratori, tra una persona integra ma scomoda e un'altra più maneggevele perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Il clima delle riunioni della Lega è dominato dalla paura...». Aggiunge, in un'intervista a «Panorama», di mettere la mano sul fuoco circa la personale onestà di Bossi, ma di aver saputo da lui che i Ferruzzi avrebbero aiutato la Lega nelle elezioni del '92.

Bossi non è tipo da incassare con eleganza. Dice a Guido Quaranta dell'«Espresso»: «Miglio è proprio un poveraccio perché appena si è vista sfuggire la poltrona di ministro, ha dato fuori di testa. Che figura, elemosinare un ministero alla sua età... E stato consigliere di Ciriaco De Mita nonché amico di Bettino Craxi. E salito sul Carroccio quando ha visto che nessuno gli dava retta».

Ma questa è arte varia. Il problema politico di Bossi, come rileva Giorgio Galli, è tutt'altro. Bossi ha il 18 per cento della presenza parlamentare con poco più dell'8 per cento dei voti alle elezioni politiche di marzo. La Lega è bloccata sul Po con percentuali largamente inferiori al 30 per cento immaginato nel '93. Lo sfondamento in Emilia Romagna non è riuscito, le prospettive sono incerte. Secondo Galli, Bossi ha pochi mesi per utilizzare un potere contrattuale largamente superiore ai numeri di cui dispone.

E che fa l'Umberto nella campagna elettorale per le Europee?

Attacca tutti i giorni, in tutte le sedi, il suo nemico-alleato Silvio Berlusconi. Lo attacca nelle piazze, lo attacca alla televisione. Racconta Giampaolo Pansa sull'«Espresso» dopo averlo visto a «Milano, Italia»: «Dovevate sentirlo, il Bossi, come ce l'aveva col Berlusconi e la sua Forza Italia: gente senza valori, raccattata qua e là, da quel Berlusca che viene dal passato e che è sceso in campo soltanto perché così hanno voluto i poteri forti allo scopo di tenere in piedi, attraverso il Berlusca medesimo, la partitocrazia della Prima Repubblica. Sì, il Bossi diceva questo e subito dopo spiegava che lui era l'alleato numero uno del Berlusca perché doveva assicurare la governabilità all'Italia. E continuava spiegando che, per lo stesso motivo, aveva stretto un patto di ferro con quelli [parole sue] della porcilaia fascista».

Bossi tiene questo atteggiamento per ribadire l'identità della Lega, alla quale pensa in modo ossessivo. Ma i suoi elettori sono moderati, non lo capiscono e i risultati delle elezioni europee e delle amministrative che si svolgono in simultanea sono per Bossi un castigo durissimo. Nella Milano di Marco Formentini in un anno la Lega scende dal 40 al 12 per cento, nella Torino di Gipo Farassino tra le politiche del '92 e le Europee del '94 la caduta è dal 23 al 9 per cento, nel Veneto di Franco Rocchetta - la regione in cui la Lega aveva ridotto più che in ogni altra il distacco da Forza Italia alle politiche del 27 marzo - in due mesi e mezzo è scesa dal 21.7 al 15.6. Ma Bossi non fa autocritica. Il martedì 15 giugno successivo alle elezioni, viene al Tgl in un dibattito dedicato ai riflessi del voto sul governo e si pronuncia su Berlusconi in maniera tale da suscitare la clamorosa, pubblica protesta di Raffaele Della Valle, invitato come capogruppo di Forza Ita-

lia alla Camera.

A sei mesi dal patto di Assago nel quale Bossi stabilì l'alleanza elettorale con Berlusconi, dopo due consultazioni estremamente favorevoli al Cavaliere e dopo la formazione di un governo presieduto dal medesimo, gli uomini della maggioranza si chiedono quanto possa andare avanti un rapporto così conflittuale.

A cena da Maria

In una sera caldissima di metà giugno, Maria Angiolillo riceve per festeggiare il nuovo ministro del Tesoro, Lamberto Dini. Il salotto di Maria, affacciato su Trinità dei Monti, è da decenni il più raffinato ed esclusivo punto di ritrovo degli uomini del Palazzo. La padrona di casa, vedova del fondatore del «Tempo» Renato Angiolillo, riceve solo amici. Ma i suoi amici son quelli che contano nella politica, nella finanza, nella magistratura, con qualche moderato spruzzo di gioma lismo.

Nella serata in onore di Dini, che ha traslocato da via Nazionale (Banca d'Italia) alla vicina via XX Settembre (Ministero del Tesoro), si parla molto del rafforzamento di Berlusconi dopo la vistosa affermazione alle Europee. Ma gli ospiti che abitano a Palazzo Chigi, o che lo frequentano, sono molto preoccupati. Temono la rivincita della sinistra? Ma no, il Pds è in panne dopo le dimissioni di Occhetto. L'eterna indecisione dei Popolari che non sanno da che parte andare? Meno che mai. La risicatissima maggioranza al Senato che complica la governabilità? Un sospiro per l'eccessivo aplomb di Carlo Scognamiglio e va giù anche questa. No, in casa Berlusco-

ni si teme solo e soltanto Umberto Bossi. Ma sì, l'alleato del Polo delle Libertà, quello che Donata Righetti ha definito sulla «Voce» di Montanelli «sfinge lombarda, sibilla padana». Tacerà la Sfinge? Parlerà la Sibilla?

Mentre gli impeccabili camerieri di Maria accendono con una bugia d'argento il mezzo toscano di Gianni Letta, il discorso che rimbalza da un tavolo all'altro è più o meno il seguente: d'accordo, Berlusconi è forte oltre le previsioni; e gli awersari, con la crisi dell'intera sinistra, sono deboli oltre le previsioni. Ma la valanga di voti che s'è riversata su Forza Italia rende molto più pesante la cambiale che il presidente del Consiglio ha presentato all'incasso. Le aspettative nei suoi confronti sono enormi e lui s'è impegnato a mantenere ogni promessa fatta in campagna elettorale. Sa che da questo dipende molto più il futuro del suo governo. Dipende il suo futuro di leader politico. Quanto tempo durerà la luna di miele con gli italiani?

Forse un po' più dei cento giorni chiesti da Berlusconi per varare il primo, corposo pacco di provvedimenti. Ma non più di centocinquanta, fino all'autunno. Cinque mesi passano in fretta. Dunque bisogna governare correndo a testa bassa. Berlusconi non aspetta altro. Ma Bossi lo frena. I ministri della Lega si comportano correttamente, ma nelle commissioni parlamentari c'è il rischio dell'imboscata continua, mentre Walter Veltroni dice apertamente che intende dialogare con Bossi almeno per quanto riguarda la riforma elettorale e quella bomba a orologeria che è l'informazione, cioè il futuro della Rai e della Fininvest.

Bossi vuole logorare Berlusconi, temono alcuni commensali di Maria Angiolillo, vuole portarlo stremato e quasi impotente alla fine della luna di miele con gli italiani. Se continua a parlare del presidente del Consiglio nei termini usati durante l'intera campagna elettorale per le Europee e nelle trasmissioni postelettorali, Berlusconi dovrà salire al Quirinale e chiedere a Scalfaro un nuovo scioglimento delle Camere. Un trauma, certo, e per questo Scalfaro non vuole saperne. Ma se la Sfinge continua a far la sfinge, se la Sibilla continua a dire oggi una cosa e domani un'altra, quella delle elezioni potrebbe essere dawero una strada obbligata.

In verità gli amici di Maria Angiolillo sono persone di grande equilibrio e quindi le elezioni anticipate sono più un fantasma che si presenta spontaneamente che una minaccia pur larvatamente evocata. Però...

Ecco dunque che mi vien voglia di conoscere più da vicino la Sibilla padana. Gli ho parlato diverse volte nel suo ufficio a Montecitorio e negli studi televisivi. Ma lì Bossi manda la sua controfigura: che se la cava niente male, in verità. («Io sono uomo di piazza» mi disse una volta. «Quando la Lega avrà la sua televisione e i suoi giornali, potrò anche andare a casa.») Ma è pur sempre una controfigura rispetto al Bossi da piazza.

Andiamo dunque a vederlo in piazza. Anzi, nella Piazza leghista per eccellenza, sul Gran Prato di Pontida.

E qui scopro un primo mistero che è anche uno degli elementi del carisma dell'Umberto presso i suoi. Gemonio, il paese di Bossi, non è molto lontano da Pontida.

Ci si aspetta, dunque, che la domenica mattina il capo leghista prenda il caffelatte con moglie e figli e parta per la scampagnata. «E invece no. Bossi va in ritiro» mi dice solenne Gabriella Poli, un gran bel tocco di bresciana mora che dopo un paio d'anni di attività in terra di missione dalle parti dell'infedele Rocchetta e della Liga Veneta è venuta in Lombardia a sostituire come capo ufficio stampa Simonetta Faverio, diventata onorevole.

«In ritiro? E dove?» «Non posso dirtelo.» «Dai, Gabriella, non lo dico a nessuno. Debbo vederlo, il ritiro di Bossi. Debbo raccontarlo nel libro.» Niente da fare. Occhioni e capelli neri sul lungo vestito in tinta, la Gabriella è dura come il suo principale. «Ci vediamo a Pontida.»

A Pontida con Irene

E invece la fortuna vuole che a tre chilometri dal luogo fatale, attratto da un movimento sospetto di auto di scorta, io faccia marcia indietro. Magari incontro Maroni. Nel bar di un alberghetto a due stelle trovo invece una spremuta d'arancia ghiacciata e accanto alla spremuta il foulard di Irene Pivetti e stretto dal foulard, al maschile come vuole l'interessata, il presidente della Camera in persona. Begli occhi verdemare, l'onorevole presidente. E belle gambe un po' intristite dal tailleur d'ordinanza. Due mesi di servizio ed è già capitano di lungo corso.

Come va? «Bene, ma sembra un secolo.» Anche lei a Pontida? «Non mi piacciono i presidenti delle Camere che fanno

attività di partito. Ma io sono nata qui, politicamente. E allora ho fatto un salutino e via, prima che cominci la manifestazione di partito.» E in crisi la Lega? «Sa, bisogna intendersi. La Lega è in una situazione critica, ma in senso etimologico. E in una crisi di crescita. Non vuole mettere in conto tutta la strada che la Lega ha fatto in poco tempo? E un partito giovane, nato e cresciuto da solo per combattere il sistema politico precedente. Un partito con una sua fisionomia precisa, con i suoi ideali. Il primo trauma è stato allearsi con partiti diversi, con origini e storie diverse. Il secondo trauma è stato dover fare con questi partiti così diversi addirittura un governo...» A proposito, sta aspettando Maroni? «No. Sto aspettando Bossi.»

Eccola, dunque, la tana della Sfinge. Ed ecco la Sfinge in persona che scende dalla camera con i foglietti del discorso in mano, abbraccia la sua creatura Pivetti e la sequestra per un'ora. Bossi mi guarda con l'aria da cucciolone buono che fa davanti alle sorprese.

«Posso venire a Pontida in macchina con te?» chiedo al Senaturche resta Senatùr anche da deputato. E il Senatùr mi dice che sì, posso andare, e fa un cenno al Babbini.

Gran personaggio Pino Babbini, consigliere comunale in

ilano e autista-segretario-guardia del corpo del Senatùr. ~Ii accompagna alla Thema blindata e chiarisce subito: «L'abbiamo comprata noi, mica è del ministero, anche se è targata Roma». Gli sta stretta, la Thema al Babbini. Per una decina d'anni, nei favolosi Sessanta, è stato pilota di Formula Junior «C'era anche il Regazzoni, ma allora non si becca-

va una lira.»

La Thema del Babbini è la casa di Bossi. «In campagna elettorale abbiamo fatto mille chilometri al giorno e guarda cosa mangia, gli strudel della Pavesi. Non mangia e non dorme per correre da un capo all'altro dei territori della Lega. Anche la storia di Clinton, quando Bossi non è andato alla cena di Berlusconi, è diversa da come l'hanno raccontata i giornali. Stavamo a Cortina per un comizio quando arriva un fax del Berlusconi, un giorno prima della cena. Bossi a Roma non ha nemmeno un guardaroba: appena può corre a casa. Ma stavamo a Cortina ed eravamo attesi l'indomani per altri due comizi nel Veneto, a Cittadella e a Verona. Umberto avrebbe dovuto comprarsi un vestito e correre a Roma. Ci siam guardati: vestito e cena o i due comizi? Abbiamo scelto i due comizi, ma l'Umberto si è dispiaciuto: qui debbo aspettare quarant'anni per rivedere un presidente americano. Non poteva invitarlo prima, Berlusconi?»

Babbini entra nel bar, vede che Bossi sta ancora tubando con la Pivetti. E allora torna fuori e nell'attesa mi dà una lezione di educazione civica.

«Non puoi dire viva il popolo e poi fregartene. Non puoi guadagnare un milionetrecentomila lire al mese e pagare un milione d'affitto. Alla gente devi garantire aria e acqua pulita, una casa e un lavoro. Poi nessuno ti impedisce di guadagnare un miliardo al mese. Comunque un conto è dire queste cose e un altro è amministrare. La burocrazia è infernale, riesce a paralizzare tutto. Ti faccio un esempio. Un giorno andiamo con Umberto da Niguarda a Meda. C'è coda per un

incidente. Ci awiciniamo e vediamo che stanno tirando fuori tre cadaveri da una macchina con la fiamma ossidrica. E una famiglia venuta a Milano per fare spese che è stata schiacciata da un'altra auto che veniva da Meda e ha fatto il salto di corsia. Dico a Umberto che è una vergogna, che sono anni che si chiede di mettere un guardrail e non ci si riesce Bossi s'infuria, prende il telefono e urla a Formentini che bi sogna prowedere subito. Il povero sindaco di Milano urla a sua volta ai burocrati di sbrigarsi, perché è tutto pronto per cominciare i lavori e invece son passati altri sei mesi e altri sei morti prima di sentirci dire che adesso cominceranno Pensa, per un guardrail...»

Bossi finalmente bacia di nuovo la Pivetti e scende. Ha dormito meno di un'ora. Fa sempre così quando viene a Pontida. E arrivato a mezzanotte, è rimasto due ore a chiacchierare con dei leghisti venuti da Roma, è salito in camera a scrivere il discorso, ha finito alle sette, è sceso a prendere un caffè, è risalito, ha dormito meno di un'ora, ha lavorato di nuovo fino all'arrivo della Pivetti.

Tiene in mano una cartellina trasparente con i bordi rossi Dentro la cartellina, un pacco di fogli grandi a quadretti. E sopra la carteUina, il discorso notturno scritto con una calligrafia grande e chiara, quasi elementare, là dove uno che guarda la pettinatura di Bossi, le sue giacche a quadretti che fanno a cazzotti con le cravatte annodate su se stesse e comunque lontane dal collo, là dove uno si sarebbe aspettato una calligrafia irruenta, aggressiva e un po' pasticciata. Comunque fa una certa impressione vedere il discorso di un leader (anzi, un discorso di svolta) scritto a mano su fogli a quadretti. Né riletture, né eleganti battiture al computer,

nernmeno il vezzo della carta intestata Camera dei Deputati che perfino uno come Andreotti, che si scrive tutto da solo dai discorsi parlamentari ai biglietti d'auguri - non manca di portarsi dietro. Una calligrafia grande e chiara, senza i ghirigori che nell'88 colpiscono il vecchio giornalista parlamentare Luigi Rossi, già capo ufficio stampa dei senatori Dc e destinato a diventare parlamentare leghista a 82 anni e a vedersi confermato a 84.

«Quando traccia una linea disegnando uno scarabocchio,» scrive Rossi nel suo Tempo di Bossi «significa che Bossi sta individuando le varie tattiche da seguire al momento dell'attacco. Quando disegna delle frecce, a mio parere e secondo gli algoritmi di Freud, significa che le soluzioni politiche nella sua testa sono più di una e che egli si sforza di scegliere quella che ha maggiori probabilità di vittoria. Quando disegna un cerchio al principio e alla fine di una retta, vuol dire che la soluzione è pronta e ha già stabilito il piano di attacco.»

«Or si fa avanti Alberto da Giussano...»

Come ti sei svegliato, chiedo a Bossi quando sale in macchina, partito di lotta o di governo? L'Umberto grugnisce un non so che con il sorriso, ma il Babbini ha già rallentato perché s'intravedono le due ali di folla che accolgono la Sfinge a Pontida.

Pontida, la mitica Pontida della Lega Lombarda, del Giuramento, di Alberto da Giussano, del riscatto italico contro il Barbarossa. Qui i venti comuni lombardi s'allearono nel do-

dicesimo secolo con veneti, piemontesi ed emiliani «per cacciare l'imperatore Federico Barbarossa, portabandiera del centralismo medievale», come dice Umberto Bossi nell'autobiografia scritta con Daniele Vimercati. E poiché la parola centralismo fa sull'Umberto lo stesso effetto dell'aglio e del crocifisso sui vampiri, ecco l'amore perduto del nostro per Alberto da Giussano, il condottiero della Lega Lombarda conosciuto da ragazzo sul libro di Massimo d'Azeglio ed evocato dall'amatissima nonna Celesta che sull'aia di Cassano Magnago cantava col Carducci: «Or si fa avanti Alberto da Giussano / di ben tutta la spalla egli soverchia...». Ecco allora che quando nell'82 lo studente fuoricorso in medicina Bossi Umberto lascia il sogno di diventare condotto di campagna per perdersi nell'ideale autonomista, si chiede quale simbolo ci sia per la sua Lega «più adatto dell'Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano». E corre a fotografarla in cento modi fino a quando, dopo mezza giornata di prove, non riesce a eliminare con un grandangolo qualsiasi goffaggine della statua tozza e pesante per farne un cavaliere come deve essere, slanciato verso i suoi ideali e l'immancabile vittoria Ecco dunque il prato di Pontida risorgere dopo otto secoli a simbolo storico per la prima adunata postalbertina e umbertiana della primavera del '90 in cui sotto le bandiere biancorosse della Lega Nord si raccolgono solo in cinquecento per diventare cinquemila un anno dopo, trentamila a cavallo delle politiche del '92 che portano a Roma ottanta parlamentari leghisti e altrettanti dopo le politiche del '94 quando i parlamentari di Bossi sia pure eletti col «paghi due e prendi tre» di Berlusconi, diventano centoventi.

Stavolta sono meno di diecimila, che fanno anfiteatro in-

torno al palco dal quale il sindaco di Milano Formentini per esorcizzare le divisioni esistenti grida con quanto fiato ha in corpo che «la Lega è unaaaa!».

«Abbiamo organizzato la manifestazione all'ultimo momento,» si scusa Bossi in macchina «ma son venuti ugualmente da mezza Italia.» Sarà l'organizzazione frettolosa, sarà la botta delle Europee, sarà il primo fine settimana di sole dopo tanti di pioggia: i bagni di folla di qualche settimana fa sono lontani. Eppure a me che vengo per la prima volta il colpo d'occhio dell'anfiteatro pieno di celoduristi urlanti con mogli, figli e qualche suocera al seguito fa un certo effetto. Mi complimento con l'Umberto per tenerlo su: «Una mobilitazione simile riusciva soltanto ai comunisti». «Attento a parlare di mobilitazione,» mi rimprovera lui «questi son venuti spontaneamente, senza che nessuno li abbia inquadrati.»

«Dai, Babbini, che qui facciamo notte» dice all'autista-segretario-guardia del corpo. Ma Pino la sa lunga, sa che l'Umberto se non stringe qualche centinaio di mani prima di salire sul palco non carbura e infatti ha già abbassato il finestrino antiproiettile della Thema per farsi toccare dalla sua gente che vede vacillare la propria fede solo quando mi vede seduto sul sedile posteriore della macchina. Sarà mica impazzito l'Umberto a presentarsi con quello là proprio a Pontida. Che diavolo gli avranno fatto a Roma? La sconfitta alle Europee gli ha fatto perdere la testa? Ma ancora una volta la fede prevale sul dubbio. Annoterà l'indomani un cronista della «Stampa»: «La stessa persona, dico la stessa persona, quando -~ossi arriva gli grida: Umberto, che diavolo ci fai con quel fo-

runcolo? E quando Vespa dopo la manifestazione sta risalendo in macchina con Bossi, si avvicina al giornalista: Signor ~espa, arrivederci alla prossima volta».

Salito finalmente sul palco di Pontida, in un clima agreste che consente al ministro Pagliarini di addentare un panino alla mortadella sotto il tendone della stampa, Bossi risponde alla mia domanda sul partito di lotta e di governo e annuncia: siamo al governo, restiamo noi stessi, ma assicuriamo fedeltà al governo. L'obiettivo sono le regionali del '95 e fin da adesso vi prometto che lascerò i miei ministri a Roma e tornerò nei vostri paesi, nei vostri bar, nelle vostre case a fare la politica del porta-a-porta. Punto e a capo.

Firma per un'ora buona quaderni, magliette e bandiere, stringe callose mani popolane, bacia varesotte gagliarde e pupi inebriati. Poi risale in macchina e spiega: «Per tutta la campagna elettorale mi dicevano di lasciar perdere quello là. Ma sì, il Berlusconi. Devi andarci d'accordo, è il tuo alleato. Ma io non potevo farmi schiacciare da Forza Italia. La Lega ha una sua storia, ha i suoi ideali, la sua dignità politica. E popolana e popolare. Quelli là sono nati ieri, dobbiamo impedire che riciclino l'intera Dc. Dobbiamo impedire soprattutto che la gente ci consideri la stessa cosa. Con Berlusconi dobbiamo percorrere la stessa strada, ma dobbiamo restare distinti e distinguibili. E invece si è fatta alla televisione e sui giornali una grandissima confusione. Siamo stati presentati come una armata Brancaleone in disfacimento, per delegittimarci nei confronti del nostro elettorato hanno montato la storia del laburismo. Con le elezioni politiche ho messo in cascina 180 parlamentari, ma prima delle Europee dovevo difendere la nostra diversità. E allora ho fatto deliberatamente

quel che ho fatto. Quegli attacchi duri erano premeditati. Sapevo che una parte del nostro elettorato non avrebbe capito, sapevo che avrei perso qualcosa alle Europee. Ma non m'importa. Adesso basta. Adesso che la nostra diversità è chiara, possiamo restare lealmente al governo e garantire la governabilità invocata dal nostro elettorato».

«Anche perché» lo interrompo «Berlusconi ha perso la pazienza e se tu tiri troppo la corda, lui va da Scalfaro e gli chiede lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate un'altra volta.»

Bossi si gira, mi fa un ghigno alla Forattini, sfodera la spada di Alberto da Giussano che aveva appena sepolto a Pontida e mi ringhia: «Se Berlusconi dice che non ce la fa a governare, Scalfaro l'incarico deve darlo a me».

Fossimo in un film, il regista farebbe udire un tuono. Ma siamo tornati da Ginetto, a Gramlongo di Palazzago. La grande tavolata leghista è apparecchiata, l'intero stato maggiore lumbard Sl stringe intorno al capo per testimoniare al popolo di Pontida (e all'unico giornalista intervenuto al pranzo) che la Lega è una ed è forte.

A tavola da Ginetto

Nel tavolo centrale, che costruisce un ferro di cavallo con gli altri due, Bossi ha Speroni alla destra e Maroni alla sinistra. Chi scrive gli siede di fronte, accanto a Gipo Farassino, che s'è presa sul prato di Pontida una bella bacchettata perché i suoi piemontesi non accettano la totale egemonia lombarda

sulla Lega. Niente, peraltro, a confronto delle legnate piovute sulla schiena di Rocchetta e della Liga Veneta, che hanno spinto troppo la critica all'Umberto e non si son fatti vedere non dico al pranzo, ma nemmeno nel circondario di Pontida. Maroni è invece venuto prima sul palco e poi qui a tavola accanto al capo per attestare che lui all'Umberto le scarpe non le farà mai.

«Da quando ci conosciamo, io e Umberto? Dal '79, dalla Rne del '79. Mi ero laureato in legge il 5 dicembre e non avevo niente, ma proprio niente da fare. Sì, forse volevo diventare giornalista, ma non c'era niente in giro.

L'incontro con Bossi avvenne per colpa del comune di Varese. C'era un'area verde sopra il mio paese, Lozza, e il comune voleva farci una lottizzazione.

Noi protestammo, Umberto lesse la cosa sui giornali e rni invitò a casa sua.

Cominciò a parlarmi di autonomismo, l'indomani andammo a dipingere su un cavalcavia della Milano-Laghi all'al-

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tezza di Castronno la prima scritta "Lega Autonomista Lombarda".»

«Ti ricordi come la prese male tua madre?» interviene Bossi mordicchiando un pezzo di pane.

«Certo, tu per me eri la cattiva compagnia da evitare» ri-

sponde Maroni. «Ma quella volta mia madre aveva ragione. Le prendemmo la macchina per andare a scrivere sul cavalcavia, poi l'agitazione era tanta che combinammo un casino e le macchiammo tutta l'auto di vernice verde. Quando tornai a casa alle cinque del mattino provai a lavarla alla bell'e meglio, ma certe macchie non andarono via e mia madre s'infuriò. E s'infuriò ancor di più quando le confessai quello che avevo fatto con Umberto...»

«Bei pirla a fare le cose da carbonari di notte» commenta il rninistro per le Riforme istituzionali Francesco Speroni. «Ormai si stuprano le donne in pieno giorno senza che nessuno intervenga. Chi se ne fotte se uno va a scrivere una cosa sul cavalcavia dell'autostrada!»

Il '79 è un anno importante per la vita di Bossi. In febbraio, dieci mesi prima della scappatella politica con Maroni, incontra Bruno Salvadori davanti all'Università di Pavia. Bossi ha 38 anni e sta finalmente per laurearsi in medicina, Salvadori è il primo vero leader autonomista italiano e gli propone di fare l'attivista per l'Union Valdotaine. Bossi è indeciso. Ha sposato da tre anni la prima moglie, Gigliola Guidali, «una bella donna borghese, molto diversa da me». E arrivato anche il primo figlio, Riccardo, che oggi ha diciassette anni. Deve mantenere una famiglia e ha la prospettiva di poter essere economicamente autosufficiente entro un anno. Ma la faccia di Salvadori e l'idea federalista gli entrano nell'anima. I due cominciano a lavorare insieme per l'Union Valdotaine, l'unica struttura politica federalista d'Italia. Ma nell'estate dell'80 Salvadori muore in un incidente stradale, lasciando Bossi privo di un amico, di una guida politica e di soldi. Anzi, con

un discreto debito accumulato per finanziare quel po' di politica che si faceva.

Interrompo il racconto di Bossi per chiedere a lui e ai compagni di partito e di tavola: per chi votavate allora?

«Votavo per la Dc o per il Psi» risponde l'Umberto. «La formazione cattolica veniva dalla famiglia di mio padre. Le idee socialiste da quella di mia madre, soprattutto da mia nonna. Che tipo franco, gagliardo, che era nonna Celesta.» E negli occhi di Bossi ripassano le ragazzate estive, le grida della nonna socialista con la madonnina appesa in capo al letto, il rimpianto per l'aia e per il vecchio cedro che sta ancora lì, in modo che lui possa vederlo a distanza di trentacinque anni quando passa per l'autostrada. La nostalgia per una vita povera «in cui si badava a risparmiare e non a consumare come adesso».

«I miei genitori» s'inserisce beffardo Maroni «avevano invece tre tessere. Quella della Dc, quella del Pli e quella del Pri. Ognuna serviva ad introdurli in ambienti diversi. Io ho votato una volta per il Psiup, sì il Partito Scomparso In Un Pomeriggio. Poi ho votato due volte Pci, prima del compromesso storico. Poi ho votato Democrazia proletaria. Mi sarebbe piaciuto votare anche per il Partito comunista marxista-leninista d'Italia. Perché non l'ho fatto? Non era presente nella mia circoscrizione...»

«Io invece» sussurra mesto Gipo Farassino «ho sempre votato Pci.»

«Insomma» riprende Bossi, mentre invano cerco di riem-

pirgli il bicchiere di vino, «ho impiegato tre anni a togliermi i venti milioni di debiti per l'attività politica fatta per l'Union Valdataine.»

Nell'82 Umberto incontra la nuova donna della sua vita. Emanuela Marrone sta qui a tavola con noi. Ha fatto scalare Maroni di una sedia per sedersi accanto al marito. Vorrei che Forattini guardasse le tenerezze di Bossi: non potrebbe disegnarlo più così com'è. Roba da far impallidire la Bella e la Bestia. Carezze, coccole, un isolamento sentimentale perfetto nonostante ci siano nella sala di Ginetto un centinaio di persone urlanti tra involtini alla bergamasca e spaghetti al ragù e nonostante intorno alla coppia gravitino Speroni e Maroni, Farassino e chi scrive: oggettivamente non è il massimo per due che farebbero invidia a Peynet. La Bella a quanto pare s'è innamorata a prima vista.

«Ci siamo incontrati alla Famiglia Bosina di Varese,» mi racconta lei «in un convegno sui dialetti.» Ha scritto lui nel libro di Vimercati: «Mi colpì quella ragazza dolcissima e sorddente, il suo corpo sottile e flessuoso, i suoi occhi chiari, molto espressivi e sinceri». Aggiunge adesso, facendola arrossire appena: «Non aveva il ragazzo, giocava con le ceramiche. Teneva tutta per sé una carica di femminilità enorme». Lei lo ricambia tracciando il ritratto del padre esemplare: «Sa perché Umberto si ritira qui prima di andare a Pontida? Perché a casa i bambini non lo lascerebbero lavorare. Renzo ha sei anni, Roberto Libertà ne ha quattro. Lui li vede poco, ma ha con loro un rapporto molto intenso. Giocano sul letto, giocano a palla in cucina. Insomma non lo lasciano in pace un momento. E invece prima di Pontida Umberto

non mangia, non dorme, ha bisogno di stare in pace. Che dicono i bambini quando lo vedono in televisione? Niente, credono che tutti i papà vadano in Tv allo stesso modo...».

«Ricordi, Manuela, nel tuo monolocale...»

Interviene perfido il Maroni: «Manuela, perché ti ostini a considerarlo un santo, quando santo non è? Ricordi i primi tempi, nel monolocale che affittasti per renderti indipendente dai tuoi? Facevi la maestra, dovevi alzarti alle sei e alle due di notte Umberto e io giravamo ancora per la stanza a fabbricare colla per manifesti. I tuoi occhi imploranti guardavano me, mica lui». Sorride, Manuela e si crogiola quando il suo uomo ne esalta la militanza protoleghista: «Ricordi quanti volantini sei andata a distribuire? Sei stata la prima a Bergamo, la prima a Sondrio. E nell'84 fosti la prima a essere fermata dalla polizia».

Grande annata, 1'84 per lo studente fuoricorso in medicina che ormai ha puntato tutto sulla politica. Da un anno ha portato Emanuela dal monolocale a un bilocale in via Quarnero, una strada bruttissima alla periferia di Varese. Daniele Vimercati, cronista del «Giornale», descrive così questa casa in cui Bossi e la sua nuova famiglia son rimasti fino al '92: «Il primo locale è una cucina che funge pure da soggiorno. Un vecchio acquaio, un tavolo di legno, un armadio a muro su cui campeggia, tra una paccottiglia di soprammobili senza valore, il Telegatto consegnato da Canale 5 al padrone di casa. L'altra stanza è occupata quasi interamente da un letto matrimoniale, trovano spazio a malapena un altro lettino e una culla...», perché intanto sono nati i due figli di Emanuela. Questo ritratto è del '91, quando il Senatùr era già il Se-

natùr e girava quasi tutto il suo stipendio alla Lega. Figuriamoci che cosa doveva essere nell'84. Ma Umberto ed Emanuela sono ugualmente felici perché il 12 aprile nasce la Lega. La Lega Autonomista Lombarda.

Ricorda a tavola Bossi: «Alle elezioni europee dell'84 ci presentiamo con la Liga Veneta, ma non becchiamo nessun seggio. L'anno dopo, alle amministrative, prendiamo un consigliere comunale a Gallarate, uno comunale e uno provinciale a Varese. Nell'87 entriamo finalmente in Parlamento a Roma. Io al senato, Leoni alla Camera, mentre Speroni diventa consigliere comunale ad Albizzate...».

E tu dove stavi?, chiedo al ministro dell'Interno.

«Io mi ero sposato e avevo cambiato cinque lavori in due anni. Io ho arato il terreno, Umberto e gli altri hanno seminato e io onestamente ho partecipato al raccolto.»

Il raccolto continua ancora modesto nell'89 con Francesco Speroni e Luigi Moretti che guadagnano un seggio a Strasburgo, ed esplode nel '90 quando il Senatùr conquista il 20 per cento dei seggi in Lombardia e quindici seggi in Consiglio regionale.

«Nel '90 facciamo il pieno anche noi in Piemonte» s'inserisce Farassino. «Avevamo seminato fin dall'86 con Piemonte Autonomista, abbiamo avviato nell'87 i primi rapporti con Bossi, fondato nell'89 la prima Alleanza Nord. Nel '90, finalmente, sono arrivati tre consiglieri alla regione e 127 consiglieri comunali.»

L'opinione pubblica nazionale che abita sotto il Po scopre il fenomeno leghista soltanto nel '90. E lo scopre anche la gran parte dei giornalisti, me compreso. Ho condotto per il Tgl tutte le maratone elettorali dal '76 al '92. Ricordo con qualche imbarazzo, a ripensarci, soltanto quella del '90 perché nei collegamenti fui insolitamente aggressivo proprio con i leghisti. Non li conoscevo affatto, l'immagine pubblicistica di Bossi era sgradevole e comunque di basso profilo; mi sembrava impossibile che la parte economicamente più attiva del paese fosse sensibile a un leader che parlava un linguaggio così ruvido, minacciava di dividere l'Italia in tre e soprattutto rifiutava ogni forma di solidarietà con il Mezzogiorno.

Non posso dire che oggi le posizioni di Bossi mi abbiano convinto. Ma debbo ammettere di aver capito solo molto tardi, dopo le elezioni politiche del 5 aprile '92, quanto fosse profondo il risentimento dell'intera Italia del Nord verso il centralismo romano e come fosse insopportabile per la piccola borghesia imprenditoriale l'occupazione del territorio compiuta troppo spesso dai partiti storici.

«Sai che ha faffo Craxi?»

Secondo Bossi, è stato proprio l'odiato Craxi a favorire lo sviluppo della Lega e la conoscenza dei suoi programmi. «Ha capito già nell'88 che potevamo dargli noia e sai che ha fatto? E venuto qui a Pontida a parlare di regionalismo. E così ha fatto diventare problema nazionale, senza volerlo, quello che fino ad allora era una istanza che noi non eravamo riusciti a far uscire da un ambito strettamente locale. La gente da anni

era incavolata sul fisco, sulle difficoltà burocratiche per fare qualunque cosa, sui pasticci dei partiti nazionali. Craxi è caduto in pieno nella trappola federalista. Nel '90-91 ha commesso un altro errore clamoroso. I socialisti hanno cercato di agguantare il nostro capogruppo al Consiglio regionale lombardo. Io ho cercato di awertirlo, il Franco Castellazzi [Bossi in verità non lo nomina, mai, tanto è il risentimento che gli è rimasto in corpo]. Attento, gli ho detto, se ci avviciniamo troppo ai socialisti quelli ci assorbono. Lui non è stato a sentire, nel '91 è uscito dalla Lega per fare un gruppo autonomo. Il partito delle poltrone. Noi li abbiamo espulsi, abbiamo piantato un gran casino dentro il Psi, insomma abbiamo fatto abortire il tentativo di indebolire la Lega.

L'ultimo autogol Craxi l'ha fatto dopo le elezioni del '92, quando si doveva eleggere il presidente della Repubblica. Lui voleva Forlani al Quirinale, noi abbiamo pregato Luigi Rossi di far credere ad Andreotti che avremmo votato per lui. Povero Rossi, lui era in imbarazzo. Ma alla fine ha rispet tato gli interessi del partito. Al momento giusto, naturalmen te, abbiamo fatto mancare i nostri voti anche ad Andreotti, ma quando se ne sono accorti era ormai tardi.»

Siamo ormai alla fine del pranzo e Bossi continua a corteggiare la moglie e scherza con Farassino. «Gipo, che cavolo di pendola a orologeria ci hai regalato? Il suono è buono, ma scambia le mezze ore con quelle intere.» Gipo gli risponde serio: «Guarda, Umberto, devi caricarla al contrario, così se metti le mezze ore suonerà allLe ore intere». Poi aggiunge sottovoce: «Dove cavolo vado a prenderla un'altra pendola dellL'Ottocento?». Bossi se ne accorge e lo provoca: «Ma quale

comprare. Dicci piuttosto in quale villa l'hai rubata...».

Ma non basta. Umberto, gran donnaiolo al di là dellLe apparenze, affonda il vecchio Gipo proprio sul campo sexy. «Una volta andiamo a Roma e Gipo dice: ti porto a cena in un locale di lusso con due signore dell'alta società romana. Umberto, per favore, comportati bene, non farmi fare cattive figure. Guardo queste due gran signore, una si è seduta a tavola con un cappello enorme e comincio ad avere qualche dubbio. A metà cena i dubbi crescono, perché una delle due m'infila una gamba tra le mie. A fine cena i dubbi sono ormai certezza: l'altra gran signora apre la borsa e tira fuori una bottiglia di champagne che s'era portata da casa. Gipo, vergognati di frequentare certa gente...»

Luigi Rossi freme, aspetta che Manuela tagli la torta con fragole e zabaione per i suoi 84 anni. Bossi ormai va a ruota ]Libera. Gli chiedo giudizi personali su alleati e awersari ma lui, che non ha toccato una goccia di vino, non si lascia fregare e riacquista la piena lucidità politica: «Berlusconi? E abile, senza di lui non avremmo combinato niente, il Polo delle Libertà non sarebbe nato. Ma poi... Non capisco quando mi prendono in giro per i miei riferimenti storici. I Guelfi, per esempio. Vinsero, ma poi si divisero al loro interno. Fini? Lo facevo di minore spessore politico. Gli son piovuti addosso voti come grandine, ma lui li ha ben sistemati sullLa scena politica. Diciamo che comincia a beccare giusto... Il Pds lo vedo in caduta, mentre crescerà il Polo dellLe Li-

Prtà e si ridurrà drasticamente il numero dei partiti veri e

pri. I Popolari? Gravitano nella nostra stessa area. Ma lo-

. sono popolari, noi siamo popolani...»

Quando parla di popolanità Bossi si compiace come alla ~na boccata di un Montecristo umidificato al punto glusto al primo sorso di un Bas Armagnac degli anni Venti. Mi uardo intorno. Emanuela Bossi allLunga le fette di dolce a ,uigi Rossi che le distribuisce alle tre tavolate del ferro di caa~Lo. Popolani? Sì, popolani. AllLegri, rumorosi, vincenti anhe se le Europee sono andate male. Innamorati persi del loD capo. Perfino le Istituzioni hanno disertato il pranzo di 'ontida. Il ministro del Bilancio, Pagliarini, s'era messo al ento divorando il panino alla mortadella durante il discorso Li Bossi. Ma non è venuto Gnutti, ministro dell'Industria; è ipartita per Milano la Pivetti, presidente della Camera. Sì, ci ono un paio di ministri anche qui. Ma son quelli guasconi e canzonati della prima ora. Lo Speroni che abita a dieci mi-

ti dalla Malpensa, torna in aereo da Roma a casa ogni sera

al mattino rientra al ministero dopo aver accompagnato i igli a scuola. E il Maroni, che non sta nellLa pellLe al pensiero he alla sera metterà gli occhia]Li scuri, un cappellino da mato e un paperino luminoso sulla giacca jeans per raggiungere a sua band allLa festa della birra di Varese.

Esco per salutare Ginetto e non c'è nemmeno una Thema lei pranzi politici tradizionali. Anzi, c'è quellLa del paziente ~abbini che aspetta di riportare il Bossi a giocare a pallLa con ~enzo e Roberto Libertà. C'è la scorta di Maroni. E c'è la Pas,at del ministro, che se ne va a spasso sullLa sua macchina fani]Liare e si fa seguire dai poliziotti sulla blindata. Che tipo è

uesto ministro dell'Interno che votava per Democrazia proetaria e rimpiange di non aver potuto mettere la croce sul simbolo del Partito comunista d'Italia (marxista-leninista)? E l'anti-Bossi? E il post-Bossi? E l'altra metà di Bossi? E quello che Terence Hill era per Bud Spencer? Andiamo a conoscerlo neglio, al palazzo del Viminale, il palazzo dei palazzi romani, sfuggito alla Dc dopo quarantasette anni.

Maroni, organo Hammond e scrivania di De Gasperi

Entro, mi fermo sulla porta. Lui non se ne accorge. Dietro la scrivania di De Gasperi, saltella in maniche di camicia sulla poltrona di Tambroni giocando con la tastiera del computer come se fosse l'amato organo Hammond. Su una parete alla sua destra, qualche padre della patria è stato sloggiato per far posto a uno storico manifesto: il 23 luglio 1994 al festival di Porretta Terme, (unico in Europa per la musica soul) il Distretto 51 and the Capric Horns with the Sweet Soul Sisters si esibisce con la sezione fiati dei Memphis Horns, che ha accompagnato i più famosi artisti neri. Merito del tastierista del gruppo, onorevole dottor Roberto Maroni, deputato della Lega Nord e ministro dell'Interno della Repubblica italiana.

«Lo sai che Porretta Terme è l'unica città che ha dedicato una strada a Otis Redding?» L'amata nonna di Bossi direbbe che si è rivoltato il mondo. Quando sono entrato per la prima volta in questa stanza? Il 15 agosto 1969. Dietro la scrivania di De Gasperi c'era il doppiopetto grigio del senatore professor Paolo Emilio Taviani. Consueta intervista di Ferragosto a passeggio per via Nazionale. Taviani era allegro, mancavano ancora quattro mesi alla prima bomba postbellica, quella di

piazza Fontana...

E l'ultima volta? Ah sì, è stato con Mancino. Ricordate il sequestro in Sardegna del piccolo Farouk? Era l'estate del '92, il Tg5 era nato da poco e avrebbe dato chissà che per battere noi del Tgl sulla liberazione del ragazzo.

Noi non potevamo spendere, né promettere. Dovevamo vincere sul campo. Facemmo una riunione operativa ad Olbia, con Pino Scaccia e un bravissimo reporter locale Antonello Zappadu che lavorava per noi. Il nostro uomo era Graziano Mesina che aveva accettato di collaborare gratis, da quando era stato coinvolto in qualche modo nelle trattative sul ragazzo. E quando Farouk fu liberato (con un giorno di ritardo sul previsto, ci disse Mesina) noi, grazie a Mesina, demmo la notizia per primi. Prima della polizia. E questo non Cl fu perdonato.

Taviani, Mancino. E in mezzo tutti i fantasmi della Prima

Repubblica. Gente mediocre talvolta, e talvolta invece gente che meriterebbe gratitudine, ma che è rimasta a vario titolo sepolta sotto le macerie di un sistema crollato.

Adesso lì c'è il Bobo Maroni da Varese. Che ha fatto ripristinare il computer collegato con l'Ansa per avere le notizie in tempo reale (prima ci pensavano gli addetti stampa, «Signor Ministro, scusi se disturbo, ma le agenzie dicono che...»). E per sovrannumero gli allega due agende elettroniche personali. Una grande, che tra una consultazione e l'altra manda in onda gli allegri fantasmi elettronici dei videogiochi

per ragazzi e appena il ministro sfiora un tasto gli mostra un'agenda vera e propria, con le ore, le righe e le spirali finte che la fanno sembrare un autentico libro. C'è poi quella piccola da tasca: le regalano a ciascuno di noi a Natale e in gran parte finiscono a un figlio o in un cassetto. Maroni no: tiene lì dentro il suo archivio personale. «Vuoi sapere quando ho incontrato Formigoni e Martinazzoli?» Due colpi delle dita a salsicciotto, come dicono quelli della sua Band, e vien fuori il 17 gennaio. E Berlusconi, nei giorni caldi della trattativa per scendere in campo? «Vediamo un po'... L'ho visto ad Arcore, non ad Arese come sta scritto qui... aspetta che correggo... L'ho visto domenica 23 gennaio. Segni? Largo del Nazareno, lunedì 24 alle 11...»

E allegro, Bobo Maroni, perché ha vinto la battaglia sul decreto Biondi contro Berlusconi, di cui dovrebbe essere il braccio destro, anzi il braccio armato, e contro il governo di cui è vicepresidente. Quando incontro Maroni è passato un mese e mezzo dalle elezioni Europee e dalla cena in casa di Maria Angiolillo in cui, mentre i camerieri accendevano il mezzo toscano a Gianr~i Letta, tutti gli chiedevano come avrebbero fatto a governare con Bossi. Giro la domanda a Maroni e lui mi risponde con un sorriso raggelante: «Deve governare così perché non ci sono alternative».

D'accordo, però ammetterai che questo livello di scontro nella Prima Repubblica era rarissimo tra alleati di governo. Se Craxi un giorno era incavolato ordinava una stilettata a Ghino di Tacco. Un altro giorno era De Mita a restituirgliela, magari facendo una telefonata a Eugenio Scalfari. Ma poi alla bell'e meglio, tutto si sistemava. «Sta' attento a questi paragoni» risponde Maroni. «Nella

Prima Repubblica si litigava sugli interessi. E alla fine su quelli ci si metteva d'accordo: una presidenza a me, una a te All'interno della nuova maggioranza di governo, noi discu tiamo di principi di valori. E su questi se l'accordo è più difficile, la litigiosità è più nobile. Dunque, non bisogna scandalizzarsi più di tanto per le nostre discussioni con Berlusconi e con gli altri alleati di governo.»

E vero che se Berlusconi dovesse mai dimettersi, la Lega sarebbe pronta ad allearsi con i Popolari e con il Pds?

«Qualcuno di noi ci pensa. L'elettorato vuole essere governato e lasciato in pace. La gente vuole che venga completata l'opera di pulizia e vuole che l'economia riparta. Queste aspirazioni sono di destra, di centro o di sinistra? Non lo so. Io stesso, d'altra parte, non ho mai nascosto le mie simpatie di sinistra. Bossi mi ha chiesto di occupare, nella scacchiera della Lega, il posto della torre a sinistra. E nessuno dei miei elettori mi ha mai guardato con diffidenza per questo. Nella mia attività di ministro finora ho ricevuto apprezzamenti da gente di destra e da gente di sinistra. In Consiglio dei ministri qualche volta mi riconosco più facilmente nelle posizioni di Forza Italia che in quelle della Lega. In altri momenti, mi sento più vicino a Rifondazione Comunista. Questo non vuol dire essere ambigui o tenere i piedi in due scarpe. Significa essere coerenti con se stessi.»

Maroni torna spesso sull'accordo strategico, sull'«accordo di progetto».

«Qui all'Interno ho tre sottosegretari. Due sono di Forza

Italia, uno è di Alleanza nazionale. Il primo giorno li ho chiamati tutti e ho detto: vogliamo fare un progetto insieme? Ci siamo messi d'accordo e da allora non ho problemi.»

E qual è il progetto della Lega? «La rivoluzione.» Maroni è in maniche di camicia, stamattina non ha fatto la barba, non vede l'ora di rimettersi il giubbetto jeans, il cappelluccio nero dell'hockey club, gli occhiali scuri e la spilla luminosa al bavero e di raggiungere con l'organo Hammond il Distretto 51. Ma è pur sempre un ministro dell'Interno. E sentirsi rispondere che il suo progetto è la rivoluzione fa un certo effetto.

«Sì, il mio progetto è la rivoluzione,» insiste lui «la rivoluzione federalista. Il federalismo economico, culturale. Qualche cosa che sta ben oltre il cambiamento di alcune regole. E la valorizzazione della multiformità culturale di questo paese. Vedi, finora si è sempre parlato di localismo. Localismo è un termine negativo. Multiformità culturale dell'Italia è invece una espressione positiva. Prima che arrivassi tu, ho incontrato una delegazione di sindaci pugliesi i quali mi hanno dimostrato perché storicamente, economicamente, culturalmente, socialmente deve nascere la provincia di Barletta. In quell'area c'è una identità di valori che deve trovare sbocco in una provincia. Ecco da dove bisogna partire per riscoprire e valorizzare le identità di tante zone italiane. Ecco perché bisogna ridisegnare i confini delle regioni. E sai chi sta portando avanti questo disegno? I sindaci. Non importa che siano di centro, di destra o di sinistra. Quando sentono proporsi la valorizzazione delle decisioni locali rispetto a quelle centrali abbattono ogni confine ideologico e politico. Il Pds di fatto è favorevole a questo progetto perché i sindaci ce li ha. E adesso che anche Forza Italia e Alleanza nazionale cominciano ad

avere i loro, si uniranno al gruppo. Al ministro dell'Interno leghista i sindaci di ogni colore chiedono soltanto autonomia.»

Prende fiato, il Bobo Maroni, risponde sulla linea direttissima del ministro a una signora che non chiama evidentemente da qualche anno e cerca Cossiga. «No, signora, il senatore non lavora più qui.» Poi spara l'annuncio: «All'inizio del '95 il governo proporrà al Parlamento una legge delega per riordinare le autonomie locali. E per far questo, per far nascere il federalismo, non bisogna nemmeno modificare la Costituzione. Aspetta... Dov'è la Costituzione?... Sul tavolo del ministro dell'Interno non c'è una copia della Costituzione?... Ah, eccola. Dunque, vediamo un po'... Ecco, guarda l'articolo 5: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali... adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento". Capito? Non dice nemmeno: La Repubblica è una e indivisibile. Punto. No, dice: La Repubblica virgola una e indivisibile virgola riconosce e promuove le autonomie locali... Finora abbiamo parlato di enti locali, quasi per tenerli in soggezione. Vuoi mettere com'è più nobile parlare di autonornie locali? D'ora in avanti saranno proprio queste le cellule, il mattone su cui si fonda lo Stato. Io sto facendo il giro d'Italia perché il mio potere nasce dalla periferia. Finora abbiamo fatto credere ai sindaci e ai prefetti che era il ministro dell'Interno, era l'autorità centrale, a delegare i poteri alla periferia. E invece, guarda un po', è proprio dai prefetti e dai sindaci che nasce la mia autorità».

Il deputato Boso, leghista e trentino, che assiste al collo-

quio, muove nell'assenso tutta la sua mole massiccia. Ma mi par di udire un cigolio nella scrivania di un altro trentino che abitò in questa stanza, Alcide De Gasperi, che già deve subire il poster dei Capric Horn e delle Sweet Soul Sisters e dopo questo discorso del Maroni non ci capisce più niente: non varcherà quella soglia un prefetto di terza classe o il presidente della nascitura provincia di Barletta a dare ordini all'eccellenza più eccellente di tutti, il signor Ministro dell'Interno?

Ma Bobo Maroni è ormai inarrestabile e parla del progetto federalista con la stessa tenerezza che gli procura la musica del defunto ma immortale Otis Redding: «I principi sui quali sarà chiamato a discutere il Parlamento sono i seguenti. 1. L'organizzazione comunale (come si fa il city manager? quante fasce di dirigenti debbono esserci? chi si può chiamare con un contratto a termine?). 2. Finanza locale (quali imposte vanno cedute dal centro alla periferia?). 3. Sistemi di controllo (chi ha il diritto di controllare un sindaco eletto dalla popolazione? Certo non i burocrati ai quali la legge delega ancora questa funzione). Su questo sta lavorando una commissione di ventisette persone, divisa in tre sottocommissioni di nove che analizzano ciascuna uno dei tre punti chiave. Ci sono sindaci di città enormi e sindaci di comuni con cento abitanti. Ci sono prefetti e presidenti di comunità montane. Dovranno costruire il primo gradino del federalismo italiano. Il resto sarà fatto con un cambiamento culturale che richiede più tempo».

Il ministro ha finito. Boso è compiaciutissimo («rl serve un quarto sottosegretario?»), il capo ufficio stampa Giuseppe Montebelli è ammirato. Chiedo a Maroni che impressione gli

abbia fatto entrare per la prima volta in questa stanza testimone di tanta parte della storia italiana moderna.

«Be', un po' di soggezione l'ho avuta. Sai, uno che viene da Varese entra qua, gli dicono di sedersi alla scrivania di De Gasperi, si guarda intorno, vede quadri che stanno qui da decenni, tocca una bottoniera che lo collega con tutti... Hai la sensazione fisica di un grande potere. E awerti subito il rischio di cedere alle lusinghe. E allora lo sai perché vado a suonare con i miei amici del Distretto 51? Per toccare la gente qualunque, rientrare nel mondo vero. E così faccio anche con il mio lavoro di ministro. Ero appena arrivato qui e stavo scorrendo le agenzie con il computer, come hai visto quando sei entrato. A un certo punto ho letto che i sindaci di Piana degli Albanesi volevano incontrare il ministro dell'Interno perché subivano attentati intimidatori. In genere i ministri rispondono con una lettera e soprattutto rispondono con calma. Io ho chiamato il mio capo di gabinetto, prefetto Gelati e gli ho detto: domani andiamo a Piana degli Albanesi. Ho sentito prima un po' di silenzio, poi lo schianto del povero prefetto.»

Maroni si alza, indossa una delle sue giacche di colore non ministeriale (ne indossavo purtroppo una simile il giorno dell'assassinio di Moro e Sergio Saviane, con la consueta finezza, la definì «giallo merdetta»). Parliamo di servizi segreti. «Vuoi vedere dove conservo i famosi fascicoli del Sisde, quelli sulla Lega, su Cossiga, su Scalfaro e compagnia bella?» Una tenda, una porta, una cassaforte ed eccoli lì, i raccoglitori grigi.

«Posso guardare?» azzardo. E perfino il dissacrante Bobo Maroni, tastierista del «Distretto 51.The Capric Horns with the Sweet Soul Sisters» è costretto, con una risata, a sbattermi la porta della cassaforte in faccia. Fini, il postfascismo al potere

«Era il '69 o il '70, non ricordo, le date non sono il mio forte. Avevo dunque 17 o18 anni. A Bologna, dove viveva la mia famiglia, davano un film, Berretti verdi, l'unico che gli americani avessero fatto per sostenere la guerra del Vietnam. Ma in Italia la sinistra lo giudicava un film imperialista e organizzò una serie di picchettaggi fuori del cinema. Con alcuni amici decidemmo di infischiarcene dei gruppettari: non ritenevamo, infatti, che vedere il film significasse commettere un crimine contro il glorioso popolo vietnamita. Entrammo dunque nel cinema dopo qualche tafferuglio e il giorno dopo trovai in classe un tazebao con la scritta "Fini / fascista / sei il primo della lista".

Mi awicinai così ai ragazzi della Giovane Italia che esistevano anche nella mia scuola e diventai "fascista" per amore della libertà, perché non potevo accettare che qualcuno mi impedisse di andare a cinema o mi imponesse di leggere i libretti rossi di Mao durante le ore di scuola o mi costringesse a partecipare a cortei per non so quale strampalata iniziativa antifascista.

Alla fine degli anni Sessanta, nessuno si opponeva a queste forme di illiberalità manifestate dall'ultrasinistra. C'era, anzi, un'acquiescenza totale da parte di quelle che per noi ragazzi erano le istituzioni più vicine. I professori, per esempio. Ricordo con grandissima amarezza gli insegnanti che al-

la fine delle superiori mi spiegavano perché bisognava andare a certi cortei. Se non la pensavi come loro, eri un reietto. Così si sviluppò in me una sorta di ribellione anticonformista. Mi schierai dall'altra parte, perché solo lì si aveva il coraggio di dissentire nelle assemblee scolastiche. Il &scismo rappresentava un modello per noi giovani? No. Io allora non sapevo assolutamente nulla di che cosa fosse il fascismo, se non quello che avevo letto sui libri di scuola. Cioè niente, perché sui libri di scuola il fascismo non c'è. Avvicinandomi ai ragazzi della Giovane Italia, entrando poi nel Msi mi resi conto che quel che teneva unito questo mondo non era l'opposizione di un regime alla Costituzione repubblicana, perché nessuno di noi pensava che si potesse restaurare la dittatura o sopprimere in qualunque modo la libertà. Il vincolo che ci univa era il desiderio di sentirci liberi, di pensarla in modo diverso rispetto alla massa. Certo, tu mi chiedi perché, se il fascismo non c'entrava, molti di noi salutavano romanamente, come fanno ancora oggi alcuni dei nostri giovani. Me lo son chiesto anch'io e mi sono convinto che era quello il modo più semplice, più diretto e in fondo perfino meno impegnativo per esprimere un'identità. Ma, a pensarci bene, era anche il più stupido.

La mia attività di partito è cominciata nel '71, quando avevo 19 anni e la mia famiglia si era trasferita a Roma. Mio padre era funzionario di una compagnia petrolifera, la Gulf, che nell'estate del '71 lo mandò a dirigere la filiale di Roma. Poi la compagnia fu travolta dalla crisi petrolifera del '73, mio padre fu licenziato e si mise in proprio gestendo stazioni di servizio. Nel '71 avevo appena finito le superiori e, arrivato a Roma, m'iscrissi a Pedagogia. Sono momenti di svolta

nella vita di un uomo e io a Roma non conoscevo nessuno. Com'era diversa Roma dalla mia Bologna. Mi sembrò all'inizio una specie di rnostro, paragonata alla mia città più allegra, più ordinata, con i portici, il passeggio. Abitavamo a Monteverde e la prima cosa che feci per non sentirmi completamente isolato fu di contattare la sezione del Movimento sociale del mio quartiere. Andiamo a vedere, pensai, se c'è lo stesso ambiente che ho lasciato nelle sezioni bolognesi. E devo dire che, più o meno, l'ambiente era lo stesso. Si awertiva la stessa sensazione di essere emarginati e la stessa volontà di non rassegnarvici. Ma a Roma trovai una, come chiamarla?, maggiore agibilità che a Bologna, perché il consenso che qui incontrava la destra non era certo quello, assai modesto~ che avevo lasciato alle mie spalle. Mi feci così i primi amici romani. I dirigenti che conobbi all'inizio furono Massimo Anderson, che dirigeva il Fronte della gioventù a livello nazionale, e Teodoro Bontempo, sì, quello che adesso chiamano Er Pecora, che dirigeva il Fronte nella provincia di Roma.

Almirante? Almirante lo conoscevo già, per come può dire di conoscerlo un ragazzino che lo guarda mentre parla sul palco. Io l'avevo visto a Bologna, nel '69. Era un leader carismatico, una figura mitica per noi ragazzi. Un uomo di grande coraggio. Sul palco era il Capo. Dopo, standogli a fianco per tanti anni, ho scoperto in lui tratti di profonda umanità che non emergevano affatto dalla sua figura retorico-gonfiata, ma anzi vi contrastavano profondamente. Se dovessi indicare una cosa che non ho mai visto in Almirante, è la superbia. Sapeva comandare, ma arrivava al risultato convincendo gli altri assai più che imponendosi. Era tutto fuorché autoritario. Noi ragazzi, guardandolo lì sul palco, restavamo affascinati dalla sua straordinaria capacità di comunicare. Lo co-

nobbi quando a Roma fui nominato dirigente del Fronte della gioventù. Ma furono contatti formali, non avrei mai immaginato che cosa sarebbe accaduto in seguito.

Ma torniamo agli anni dell'università. Mi sono laureato nel '76 senza mai frequentare. Perché? Ma perché farlo era impossibile per me e per quelli che la pensavano come me. Erano gli anni di Autonomia, gli anni in cui "uccidere un fascista / non è reato". Quando andavo a fare gli esami, bastava che uno del collettivo comunista di Monteverde, il mio quartiere, mi riconoscesse per essere cacciato via a calci nel sedere, nella migliore delle ipotesi, e a bastonate, nella peggiore. Ricordo quegli anni come un incubo, non per la difficoltà degli esami ma per il clima in cui si svolgevano. Intendiamoci: se io facevo gli esami con la fifa blu addosso, non è perché fossi una mosca bianca. Tutti i missini avevano la stessa sensazione. Ricordi il '74, quando Almirante si fermò al Cantagallo sull'autostrada del Sole e i camerieri entrarono in sciopero perché a un fascista non si dà da mangiare? Nessuno insorgeva, nessuno protestava. Basta andarsi a rileggere i quotidiani dei giorni successivi a quell'episodio. D'altra parte non era fascista anche Montanelli quando le Brigate rosse che si stavano organizzando gli spararono nel '77? Nel ~73 i terroristi dell'ultrasinistra andarono a incendiare di notte la casa del povero Mattei, il segretario della sezione Msi di Primavalle e gli ammazzarono due figli. Nel '75 Daniela Di Sotto, che dieci anni dopo sarebbe diventata mia moglie, rischiò di morire insieme a un amico nella sezione QuadraroCinecittà, che fu assalita a colpi di molotov. Ma i terroristi fecero di più: dopo aver buttato le bombe incendiarie nella sezione che era ricavata in una specie di garage, chiusero la

saracinesca dell'ingresso con un lucchetto perché Daniela e l'altro ragazzo morissero bruciati. Per fortuna lì vicino lavorava un carrozziere che corse con gli attrezzi e arrivò appena in tempo per aprire la saracinesca. Daniela uscì senza capelli. Li aveva belli, lunghi e il fuoco glieli aveva divorati. L'altro ragazzo era moribondo, irriconoscibile: se la cavò portandosi dietro le cicatrici per quindici anni.

Noi avevamo l'impressione nettissima di essere come i neri in Sud Africa. Nei nostri confronti c'era l'apartheid e questo naturalmente accentuava il senso di appartenenza alla comunità. Il nostro cameratismo non si chiamava così tanto per evocare il camerata di memoria fascista, quanto per significare la nostra costrizione a stare insieme tra noi e solo tra noi, a vivere in un cerchio forzatamente ristretto di amicizie e di contatti, perché noi ci sentivamo oggettivamente diversi e tutto ci induceva a pensare che questa fosse la verità.

Quello è stato, a mio giudizio, il periodo più doloroso che la società italiana abbia vissuto in democrazia. Il periodo più odioso per le discriminazioni ai nostri danni. Perché alle discriminazioni morali è seguita la fase del terrorismo, e noi abbiamo avuto ventitré morti nel giro di qualche anno e dieci anni di guerra dichiarata, tra il '73 e 1'83, senza sapere chi la combatteva e perché.»

«Quel giorno, ad Acca Larentia, io c'ero»

«Certo, tu mi ricordi che c'è stato anche il terrorismo nero. Ma il terrorismo nero è nato più tardi, nel '77. Ed è nato dopo la strage di Acca Larentia. Quel giorno terribile, il 7 gennaio 1977, io c'ero. Le Brigate rosse fecero l'agguato. Aspettarono

che due ragazzi uscissero dalla nostra sede, spararono con una mitraglietta, li ammazzarono tutti e due. Arrivò la notizia e corremmo tutti là. Ricordo quella pozza di sangue fresco, grande, enorme, perché quando ti ammazzano con una mitraglietta ti sventrano. Arrivò la troupe di non so bene quale televisione, il cameraman aveva la sigaretta accesa e in modo del tutto involontario la buttò lì dove avevano ucciso i nostri ragazzi. La sigaretta si spense nel sangue. Ci fu tra i nostri una sorta di esplosione. Esplosero il dolore, il rancore, l'odio fino a quel momento soffocati nel silenzio. Intervennero i carabinieri. L'ufficialetto che comandava la pattuglia fu preso dal panico, ordinò agli uomini di puntare le armi, partirono diversi colpi. Uno ammazzò Stefano Recchioni, lì, sul colpo. Io ero accanto a lui. Lui a destra, io a sinistra. Se ci fossimo invertiti di posto, sarei morto io. E invece io fui colpito a una gamba e lui alla fronte.

Il terrorismo nero nacque allora. Nacque, anzi, quello che fu definito successivamente «spontaneismo armato». Alcuni ragazzi, quelli più deboli ed esaltati, decisero di reagire occhio per occhio, dente per dente. Ma, mentre a sinistra c'era una strategia politica, seppure folle, perché le Br teorizzavano la rivoluzione, dando sfogo a un lucido bisogno eversivo e criminale, a destra c'era lo spontaneismo. A destra, il ragazzotto si metteva la pistola in tasca e poi si vendicava se qualcuno gli faceva uno sgarbo, vero o presunto che fosse. Non c'è mai stata una strategia in tutto questo, come emerge dagli atti delle inchieste giudiziarie. Tanto è vero che il terrorismo nero finì nel momento in cui arrestarono quei quattro o cinque che ne erano i capi.

Adesso non venirmi a parlare di bombe e di stragi fasciste. Noi abbiamo sempre considerato lo stragismo la cosa più infame che potesse essere orchestrata. Piazzare una bomba e poi chi c'è c'è. Noi, a un certo punto, cominciammo a scrivere sui muri: "Tutte le bombe fanno Rumor". Rumor era il ministro dell'Interno dell'epoca. Poi hai visto che recentemente Piero Buscaroli ha rivelato certe vecchie ammissioni di Taviani, anche lui ministro dell'Interno. Taviani ha smentito... E allora quando la sinistra cominciò a parlare di stragi di Stato, noi del Fronte della gioventù non eravamo poi mica tanto in disaccordo. Tieni conto, comunque, che noi del Fronte, noi giovani missini, eravamo in fortissima rotta di collisione con Avanguardia nazionale, con Ordine nero, con tutte le organizzazioni extraparlamentari di destra. E comunque, sulla base dei processi celebrati finora, debbo escludere anche una loro responsabilità. °ggi poi, mi sento dire che quelle strag invece di destabilizzare il potere, lo hanno stabilizzato...

Comunque, per tornare a quegli anni, il potere politico aveva una verità precostituita: le stragi sono fasciste. Dove nasce la mia grande stima per Cossiga e la nostra successiva amicizia? Nasce dal fatto che lui è stato l'unico uomo politico che per rispondere alla sua coscienza ha chiesto scusa alla destra. Ricordi quando disse: "Io ero ministro dell'Interno quando awenne la strage di Bologna e dissi che era una strage fascista perché così mi avevano riferito gli investigatori. Oggi mi rendo conto che era una verità preconcetta, una verità di regime".

Ora si fa strada perfino la pista internazionale, perché la bomba scoppiò il giorno in cui veniva firmato l'accordo tra l'Italia e Malta. Malta era sull'orlo della guerra con la Libia, e

Gheddafi non voleva quell'accordo. Comunque, allora la bomba era fascista e noi eravamo il comodissimo capro espiatorio di tante porcherie e di tante stragi. Certo, a ripensarci, se qualcuno allora mi avesse detto che l'evoluzione della vita politica italiana ci avrebbe portato al governo, lo avrei fatto ricoverare in manicomio. Noi rispondevamo alla nostra criminalizzazione con un fortissimo desiderio di non mollare. Il nostro "Boia chi molla" non era l'apologia delle barricate di Reggio Calabria. Rappresentava il nostro dovere morale di non mollare, di tenere duro anche nei momenti più difficili.

Tu mi chiedi se quando arrivava la notizia di una strage abbiamo mai pensato che potesse essere stata organizzata da uno dei nostri. Dei nostri del partito, no, mai. Poteva essere stato qualcuno di quella che noi chiamavamo manovalanza? Il fascista che aveva in casa non so quante svastiche e magari il busto di Mussolini, ma non aveva niente a che spartire con la nostra organizzazione giovanile e meno che mai con il partito? Questo era il cruccio di Almirante. E io per questo l'ho visto soffrire in modo inimmaginabile. Lui chiedeva "doppia pena di morte" per quelli che dichiarandosi fascisti commettevano dei crimini. Tutta la politica di Almirante, al contrario, era una politica di affermazione dell'ordine. Ricordo interminabili discussioni in cui ci invitava a rispettare i carabinieri e i poliziotti perché rappresentavano lo Stato. Noi giovani, per la verità, restavamo un po' perplessi perché vedevamo nei poliziotti e nei carabinieri quelli che ci bastonavano a ogni manifestazione. Naturalmente, aveva ragione lui.

In quegli anni abbiamo mai guardato al fascismo come modello di uno Stato nuovo da costruire? No. Non eravamo così ingenui da pensare che si potessero cancellare le conquiste successive alla fine della guerra. Noi la libertà l'abbiamo amata perché qualcuno ce la voleva togliere; figurati se, a nostra volta, potevamo immaginare di togliere a qualcuno la libertà. Siamo nati in una società in cui c'erano i partiti, la democrazia, la televisione, la stampa libera. Nessuno ha mai pensato di poter riproporre uno Stato totalitario. Quello che non capivamo allora - e francamente non lo capisco nemmeno oggi - è per quale motivo ci fosse la demonizzazione assoluta di tutto quanto è stato realizzato dal '22 al '39 o al '45. Ci sarà pure qualcosa da preservare per la memoria storica del nostro popolo? Non era, per esempio, indecente negare che Gentile sia stato un grande filosofo solo perché si è schierato con Mussolini anche dopo il '43 e considerarlo un criminale anche dopo che è stato ucciso da teppisti? Che cosa c'entra riconoscere questo col desiderio di rivedere qualcuno affacciarsi di nuovo da un balcone? Saremmo morti dal ridere al solo pensarlo. Ci limitavamo ad avvertire le incongruenze di un antifascismo che a mio awiso non era l'apologia della libertà e della democrazia, ma il cavallo di Troia che i comunisti usavano per arrivare al potere. Perché non si poteva essere antifascisti e avere come modello Ho Chi Minh o Stalin. In tanti anni di militanza nel mio partito, io non ho mai trovato qualcuno che non riconoscesse che le leggi razziali erano un crimine. Una volta, in un campo scuola, un ragazzino chiese ad Almirante perché aveva scritto un libro sulla difesa della razza e lui gli rispose con grandissima umanità che quella era l'unica pagina deUa sua vita per cui provasse vergogna.

E allora ti ripeto che per noi essere fascisti voleva dire esprimere il nostro anticonfo~mismo, il nostro desiderio di libertà. Libertà di pensarla come pareva a noi.»

«E Almirante mi disse: ti affido il Msi»

«Almirante nel '72 dette vita alla Destra nazionale, l'ipotesi della grande destra italiana. Ma i tempi non erano maturi e nel '76 ci fu la scissione perché la Dc si comprò metà del partito. Andreotti ti ha detto di aver letto la notizia sul giornale? Non era lui il regista dell'operazione. Tra l'altro, l'unico punto che si realizzò nel "piano di rinascita nazionale" di Licio Gelli fu proprio la spaccatura del Msi e la nascita di una destra che lui chiamava costituzionale. Comunque, Democrazia nazionale morì nelle elezioni del '79. Si ritrovò decapitato anche il Fronte della gioventù, facemmo un'assemblea per indicare ad Almirante una rosa di nomi fra cui scegliere il nuovo segretario e Almirante scelse me. Era il '77. Sono rimasto segretario del Fronte per dieci anni, mentre nell'83 approdavo in Parlamento.

Se c'è una data in cui Almirante mi ha nominato suo erede politico, è un giorno del settembre 1987. In un discorso a Mirabello, in provincia di Ferrara, lui propose di fare un congresso per l'elezione del suo successore. Almirante era già ammalato, il congresso si fece nel gennaio dell'88 e lui morì nel maggio successivo. Decise di passare la mano dopo le elezioni politiche dell'87. Si era stancato molto e pensò a me per la successione, con il salto di una generazione, che era quella dei Rauti, dei Valensise, i colonnelli del Msi.

Quando me lo disse? Qualche giorno prima del discorso di Mirabello. Me lo disse proprio nella stanza in cui tu e io adesso stiamo parlando, qui nella sede del partito. Era la sua stanza. Mi chiamò, mi disse che le forze lo stavano abbandonando, non si sentiva più all'altezza del compito, avrebbe voluto un congresso in cui non si sarebbe ricandidato. Mi assicurò che non era una mossa di tattica politica, non si sarebbe ricandidato sul serio. "Ti starò vicino," mi disse Almirante "non ti preoccupare." L'idea di fare il segretario del partito non mi era mai saltata in testa. E allora gli chiesi perché aveva scelto me. Mi rispose che bisognava guardare avanti e sal tare una generazione come la sua, che era stata fascista, aveva fatto la guerra e aveva scritto nel bene e nel male le pagine del dopoguerra. Ricordo che aggiunse testualmente: "Il Msi ha un futuro soltanto se si rinnova e si rinnova sul serio. Sol tanto se voi giovani riuscirete a proiettarlo nel futuro".

La scelta di Almirante creò qualche problema nel partito. Al congresso furono presentate quattro candidature. Contro di me c'erano Rauti e Servello e non ho difficoltà ad ammettere che se potetti candidarmi e vincere, fu solo perché Almirante aveva deciso così. Il suo carisma era talmente forte che molti si dissero: se Almirante ha deciso così, ci sarà pure una ragione.

Rauti arrivò secondo nelle votazioni e mi sostituì due anni dopo, al congresso di Rimini. I miei due anni di segreteria non erano stati un granché: una gestione incolore, senza infamia e soprattutto senza lode. Il Msi era all'angolo, i consensi cominciavano ad assottigliarsi, la morte di Almirante aveva prodotto una forte crisi di leadership. Con i due eterni litiganti, Fini e Rauti, il partito si stava lacerando. Così, nel di-

cembre dell'89 i colonnelli si misero d'accordo con Rauti in una riunione all'Hotel Bernini di Roma. Nacque il "cartello del Bernini" che era accreditato del 70 per cento dei voti congressuali. E invece a Rimini Rauti fu eletto al mio posto soltanto col 52 per cento. Pinuccio Tatarella, l'attuale vicepresidente del Consiglio, disse allora: "Il Msi ha perso un segretario, la destra ha trovato un leader".

A Rimini accadde, in effetti, una cosa curiosa: contrariamente alle aspettative dei militanti e dei giornalisti, recuperai sedici punti. Ai congressi dei partiti ci va la classe dirigente, non gli iscritti. Eppure a Rimini accadde il miracolo. Il delfino aveva cominciato a nuotare da solo.

Tu ti chiedi giustamente come mai, visto che io stesso mi dico reduce da una gestione incolore della segreteria. Forse ha ragione mia moglie quando sostiene che, dopo il tradimento dei "colonnelli", o dimostravi di avere un po' di palle o era finita. E allora diciamo che in quel congresso riuscii a esprimere quello che prima mi era mancato, togliendomi di dosso tutti i complessi che mi erano venuti per la difficoltà di trovarmi a dirigere a 35 anni un partito carico di storia, insieme con personaggi che hanno scritto una parte di quella storia e una classe dirigente che aveva un'età doppia della mia.

Alle regionali del '91 eravamo scesi a una media nazionale del 3.9 per cento, il minimo storico.

Quando il comitato centrale mi rielesse nel luglio del '91, il dramma si era già consumato. Se ne erano andati Pisanò, Mennitti, Staiti e non c'era nessuno che giurasse sul fatto che

il partito sarebbe arrivato alla fine dell'anno, anche perché io ero un cavallo di ritorno. Insomma, mi ritrovai solo, se ne era andato anche il portavoce, chiamai Francesco Storace e gli chiesi di darmi una mano. Feci a tutti questo discorso: "Poiché stiamo morendo, non ho interesse a che ci venga celebrato un bel funerale così poi, a salma tumulata, tutti dicano, be', in fondo erano delle brave persone. No, non ci sto. Perché non cerchiamo invece di dimostrare a tutti che siamo dei figli di puttana?".

Fu all'insegna di questa illuminazione politica che cominciammo a tirare fendenti a destra e a sinistra, senza grandi strategie, puntando sull'orgoglio, rimettendo cioè in piazza una destra che da anni prendeva soltanto batoste. Cominciammo con grande fatica e altrettanta costanza a organizza~e rnanifestazioni dappertutto. Ricordo che a Ferragosto del '91 stavo in Sardegna e da lì partì l'iniziativa che tutti i militanti, gli iscritti, i giovani portassero la loro solidarietà agli anziani abbandonati negli ospizi. Sai, il giorno di Ferragosto, qualunque cosa accada fa notizia. E Storace, che in questo è bravo, riuscì a far passare la notizia in tutti i telegiornali e i giornali radio, anche perché le sparavamo proprio grosse. Poi Cossiga cominciò a esternare. E alle prime picconate del presidente capii al volo che dovevamo sostenerlo, perché lui poteva essere il detonatore della situazione. Appena Cossiga fu attaccato, noi ci precipitammo a difenderlo, organizzando manifestazioni di solidarietà per il presidente. Nacque cosi la favola che io ero il suo megafono.

Cossiga mi chiamava spessissimo. Anzi, mi svegliava~ spessissimo. "Pronto? Sono Cossiga." Guardavo l'orologio

massimo le sei. Sì, l'ho anche incontrato spesso, una decina i di volte in un anno, molto meno di quanto non si sia scritto. Cossiga era indignato da un lato per gli attacchi ai quali veniva sottoposto, dall'altro perché la Dc e gli altri partiti di governo non capivano che il sistema si stava sgretolando e che la vera sovranità non stava più nel Parlamento, ma nella volontà popolare. Cossiga diventava così il punto di riferimento istituzionale per i nostri primi progetti di democrazia diretta e di presidenzialismo.

n nostro attivismo era servito intanto a rianimare un po' il partito, così che alle elezioni politiche del '92, contro ogni previsione, non perdemmo nemmeno un deputato rispetto alle elezioni dell'87, quando c'era Almirante. Allora i nostri capirono che il problema della leadership non si poneva più, che il dopo Almirante era finito. Tra la primavera del '92 e quella del '93, noi abbiamo continuato ad avere buoni risultati. Dove eravamo al 3 per cento passavamo al 4, dove eravamo all'8 passavamo al 9. Nessuno pensava più che saremmo morti. Senonché c'era il referendum Segni, che voleva introdurre il maggioritario. Col nuovo sistema rischiavamo di scomparire noi e, a maggior ragione, le forze inferiori alla nostra. Per questo contro il referendum Segni feci una battaglia durissima, in totale solitudine, insieme soltanto a Orlando e a Bertinotti. E prendemmo tutti una gran batosta. Ero molto preoccupato: con il tasso d'ideologismo del Msi e la pregiudiziale antifascista ancora così forte in Italia, pensavo, il sistema maggioritario ci porterà fuori delle istituzioni. Se ci andrà bene, ci consentiranno di ritirarci in una riserva indiana.»

«Onorevole Fini, ci sarebbero cinquanta milioni per lei...»

«Dopo il 18 aprile del '93 facemmo una riunione di comitato centrale in cui tutto il dibattito girò intorno a questo problema: come poter esercitare ancora un ruolo politico nella società italiana in assenza quasi totale di rappresentanza parlamentare. Avevamo infatti calcolato di avere non più di cinque deputati, se ci fosse stato il recupero proporzionale. Vedemmo giusto, tuttavia, a non fare alcuna forma di ostruzionismo in Parlamento quando si discusse la nuova legge elettorale. Noi eravamo sostenitori della democrazia diretta e non ce la sentimmo di fare barricate per impedire che passasse la legge maggioritaria voluta dalla grande maggioranza dei cittadini.

Intanto continuavamo a prendere iniziative largamente popolari, come il grande sostegno alla magistratura milanese. Perché prima ho dimenticato di dirti che nel '92, mentre Cossiga picconava, Di Pietro arrestava. Noi eravamo fuori dal giro e così, nell'ottobre di quell'anno, potetti portare centomila persone in piazza a Roma che indossavano i guanti bianchi, galvanizzate dall'idea di poter dire: noi non abbiamo preso soldi. A me ne hanno mai offerti? Una volta sola, parecchi anni fa. Ero consigliere comunale di San Felice Circeo, era in discussione una variante al piano regolatore e un tizio venne a dirmi: se vota a favore, ci sono cinquanta milioni per lei. Risposi no, grazie, e da allora non mi è più capitato niente del genere. In compenso il partito ha un formidabile indebitamento bancario...

La legge elettorale di Mattarella passava intanto in Parlamento. Noi votammo contro, ma senza fare tragedie. Quan-

do nella primavera del '93 si sperimentò il maggioritario con l'elezione diretta dei sindaci, nacque in me e in Pinuccio Tatarella l'idea di formare un'aggregazione più vasta che avremmo chiamato Alleanza nazionale. Le prime elezioni dirette dei sindaci ci sorpresero. Noi restammo tagliati fuori dalle grandi città, ma andammo al ballottaggio in otto comuni minori di una certa consistenza: Altamura, Corato, Colleferro, San Vito dei Normanni, ecc. In tutti e otto fummo opposti alla sinistra e in tutti e otto vincemmo. Capitava per la prima volta che dei missini doc andassero a guidare una città. Ne venne una prima conclusione: vincevano solo persone credibili; dinanzi a queste la pregiudiziale antifascista era superata; nel Mezzogiorno arrivavano ai nostri candidati voti a valanga di ex democristiani disorientati dalla frantumazione del partito per il quale avevano sempre votato.

Venne l'estate e me ne andai in vacanza negli Stati Uniti con il pensiero alle elezioni autunnali per i sindaci di Roma e di Napoli. E qui mi venne una fifa blu perché la destra di popolo, l'aggregazione dei valori cristiani era andata bene a Corato e ad Altamura. Ma Roma e Napoli erano un'altra cosa: qui ci giocavamo il futuro del Msi.

Rientrato dalle vacanze, cercai di verificare la possibilità di un accordo di centro concordato in qualche modo con la Dc. La nascita di Alleanza nazionale era stata salutata con favore da tutta quella parte della società civile (una fetta di mondo cattolico, il mondo del commercio, una buona parte di quello imprenditoriale) che temeva una vittoria della sinistra dove, per quanto riguarda Roma, Rutelli era lanciatissimo ormai da mesi. A Roma il solo Msi poteva contare sul 12 per cento

dei voti, che non erano una forza trascurabile. La Dc era divisa: dobbiamo guardare anche a loro, insisteva Buttiglione, ma Martinazzoli negava ogni apertura. Si avvicinava a noi gente tradizionalmente vicina alla Dc come Fisichella e Rebecchini. Un incontro con Mancino mi convinse che l'accordo con la Dc era impensabile e che, dovendo scegliere, loro avrebbero guardato dall'altra parte. Solo dopo aver constatato che non era realistica nessun'altra candidatura che coinvolgesse un fronte più ampio e aggregante, decisi di giocare la carta della mia candidatura. E il 21 novembre avvenne il miracolo: Rutelli era al 36 per cento, io ero riuscito a toccare il 31 per cento.

Che giorni indimenticabili queUi che divisero il primo turno dal secondo. Andavamo tutte le sere in televisione e l'Italia intera scoprì che esisteva un tipo che si chiamava Gianfranco Fini. Che città straordinaria si è dimostrata Roma, generosa e infingarda al tempo stesso. Sembrava di essere tornati alla Firenze dei Guelfi e dei Ghibellini.Te ne accorgevi entrando al bar per il primo dei tanti caffè della giornata. C'era quello che ti diceva: "Onoré, me raccomando...". E l'altro che vuotava di fretta e in silenzio la sua tazza per uscire subito facendo finta di non averti riconosciuto. E che corse, da un capo all'altro della città, dal salotto della principessa Pallavicini ai baraccati di Ponte Galeria.

Che mi chiedeva la gente? Difficilmente raccomandazioni personali. Mi chiedeva una migliore qualità della vita. Mi chiedeva di risolvere il problema del traffico, dei trasporti, della sanità. Da Prati a Tor Tre Teste, awertii una straordinaria sensibilità ai problemi della sicurezza personale, la richiesta del vigile di quartiere. Vidi serpeggiare un sentimento

razzista nei confronti dei nomadi, considerati, da chi abitava vicino a un loro campo, nemici a tutti gli effetti. E capii che lo stesso sentimento di ostilità cominciava a maturare nei confronti degli extracomunitari. Un giorno incontrai un poveraccio, disoccupato e con tre figli, che mi disse: "Onoré, me so' alzato alle cinque, so' andato ai mercati generali, ho comprato un po' de fiori, me so' messo a venderli pe' strada. E arrivato il vigile e me l'ha sequestrati". Gli risposi che il vigile aveva fatto bene, visto che lui non aveva la licenza. "Hai raggione, onoré," mi rispose quello "ma perché ar marocchino che stava vicino a me nun gliel'ha sequestrati?" Capii che il razzismo può nascere da queste cose.

Il 5 dicembre Rutelli vinse con il 53 per cento, io arrivai a un incredibile 47 per cento. E a Napoli anche Alessandra Mussolini ottenne contro Bassolino un risultato sorprendente. Sono molti a dirmi, come fai tu adesso, che la mia fortuna politica nasce dalla sconfitta di misura nel dicembre '93 perché come sindaco di Roma mi avrebbero massacrato. E possibile. All'inizio del '94 restava comunque il problema di come utilizzare il successo di Roma e di Napoli in una nuova strategia del partito.

Già l'11 dicembre, sei giorni dopo il ballottaggio, avevo annunciato in comitato centrale la volontà di dar vita - così dissi - a "una grande alleanza nazionale non ideologica, priva di qualsiasi nostalgia restauratrice, aperta alla società civile, in sintonia con i grandi valori della cultura occidentale".

Nacque così l'idea di una destra di governo, perché ormai - dopo il 47 per cento conquistato a Roma - non aveva più

senso parlare soltanto di Msi. E fu il momento dell'alleanza con Silvio Berlusconi.

Con Berlusconi non avevamo mai avuto rapporti. Ma era l'unico grande imprenditore che avesse manifestato rispett nei confronti del Movimento sociale fin dai tempi di Alm i rante. Quando io ero candidato a fare il sindaco di Rorna Berlusconi disse, inaugurando un supermercato a Casalecchio, che dovendo scegliere tra me e Rutelli avrebbe scelto me. Successe quel che successe e io gli telefonai per ringraziarlo, mai pensando che tra noi avrebbe potuto svilupparsi un'alleanza politica.

Si rifece vivo lui all'inizio del '94 per parteciparmi le sue preoccupazioni per una fin troppo probabile vittoria elettorale della sinistra e le sue idee circa possibili aggregazioni moderate. Noi ci stavamo ponendo lo stesso problema, perché Alleanza nazionale da sola, pur confortata dai risultati di Roma e di Napoli, non sarebbe andata oltre un certo punto. I nostri del Nord temevano la meridionalizzazione del partito. Erano i mesi in cui si pronosticava un Nord leghista, un Centro pidiessino e un Sud democristiano, con crescenti probabilità, dopo i risultati nelle amministrative d'autunno, che la sinistra finisse per vincere dappertutto.

Incontrai Berlusconi ad Arcore e nacque l'ipotesi di un cartello nazionale con Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega Nord in tutta Italia. Ma Bossi si oppose. Non voleva avere rapporti con noi, non voleva saperne di accordi che impegnassero la Lega insieme con Alleanza nazionale. I suoi attacchi nei nostri confronti erano così duri che un giorno (non c'eravamo mai incontrati direttamente) andai a trovarlo per

chiedergliene ragione. Sul veto a un'alleanza generale Bossi fu irremovibile e lì si manifestò la grande capacità di Berlusconi di fare da cerniera tra due movimenti - An e Lega Nord - che si trovavano molto lontani tra loro.

Il rifiuto di ogni colloquio da parte di Segni e di Martinazzoli, convinti di potercela fare da soli, ha fatto il resto. La notte delle elezioni, mentre i miei collaboratori entravano nella stanza con i foglietti delle preferenze e mi dicevano che a Roma avevamo conquistato 22 seggi su 24, 4 seggi a Ragusa su 4 e così via, dicevo: è incredibile, è incredibile. Oggi guido un movimento che ha in Parlamento 109 deputati e 49 senatori. Nel '92 i deputati del Msi erano 33.»

Questa è la storia di Gianfranco Fini raccontata da lui medesimo

Questa è la storia di Gianfranco Fini raccontata da lui medesimo. Raccontata in una mattina dell'estate 1994 nel suo ufflcio di via della Scrofa («Fu Almirante a comprare la sede. Meno male, altrimenti saremmo stati strozzati dagli affitti...») durante una conversazione di due ore e mezzo. Fini ha fatto in modo che non fosse mai interrotta nemmeno da uno squillo di telefono.

Ero già stato in questa stanza la mattina del 25 aprile. Avevo chiesto a Fini di vedere la festa della Liberazione «dall'altra parte» e mi aveva colpito nel suo ufficio l'assenza totale di passato remoto, che molti s'aspetterebbero tuttora presente nella sede ufficiale del Msi. E invece Fini si mantiene coerente con quello che ha sibilato al federale di Firenze: per far-

gli piacere in campagna elettorale, questi lo aveva accolto sul palco con l'inno a Roma («Sole che sorgi / libero e giocondo»), in testa all'hit parade del fascismo: «Abbiamo cambiato musica» gli disse Fini. «Cerca di cambiare disco.»

Nella stanza di Fini in via della Scrofa ho cercato a lungo qualche elemento di contraddizione, qualche legame imbarazzante. Niente. Assenza di passato remoto. Presenza di passato prossimo con una doverosa immagine di Almirante, al quale Fini deve molto. Poi un medaglione del Papa, cimeli dei carabinieri e di un sindacato di polizia, la storica prima pagina del «Secolo» del 29 marzo con il gran titolo Vittoria e una vignetta con dedica di Giorgio Forattini: Fini dal balcone di piazza Venezia saluta romanamente Occhetto e Rutelli che se ne vanno in motorino.

Anche con Rutelli, dopo le elezioni e la provvidenziale sconfitta, Fini s'è preso una fortuita e micidiale rivincita. Era l'alba del 31 marzo, tre giorni dopo le elezioni, e nel quartiere Prati il silenzio avvolgeva il palazzo dell'Ina in via Ennio Quirino Visconti in cui abitano Francesco Cossiga, Angela Buttiglione e - al pianoterra - il sindaco Francesco Rutelli con la bella moglie, Barbara Palombelli.

Le sei erano passate da venti minuti quando una decina di attivisti del Msi guidati da due freschi deputati, Giovanni Alemanno ed Enzo Savarese, arrivarono con rapidità, silenzio e ardimento degni di una rinata X Mas, sotto le finestre del sindaco. Solo allora cantarono a squarciagola: «Rutelli, Rutelli / Cambia lavoro! Rutelli, Rutelli / Cambia lavoro!». E che cosa fece qualche minuto più tardi il giovane sindaco di Roma, al quale per età e passione scooteristica la goliardia

non dovrebbe far difetto? Svegliò Gianfranco Fini dicendogli più o meno: «Gianfranco, non mandarmi più i tuoi sotto casa a fare questi scherzi».

Fini trasformò l'autorevole lagnanza in un boomerang micidiale: «Francesco, ma ti pare che io possa fare di queste cose? Tu, piuttosto, impara a perdere e non svegliarmi più a quest ora...».

Tatarella, il Richelieu di Cerignola

Ma se Fini è il padre di Alleanza nazionale e dei suoi imprevedibili successi, Giuseppe Tatarella ne è il nonno. Scrisse infatti sul suo periodico «Repubblica presidenziale» fin dal maggio del '93, come rivela un anno più tardi Bianca Stancanelli su «Panorama»: «L'alleanza nazionale deve essere l'alternativa per tutti gli italiani che considerano superate e inascoltabili le sirene della Dc e della sinistra, vecchie e nuove». E Gianfranco Fini gliene riconosce perfettamente il merito. La prima volta che parlammo di Tatarella mi raccontò due cose.

Una era la raccomandazione di Almirante: «Litiga con tutti, ma mai con Tatarella». L'altra che Tatarella, capo del partito in Puglia («Voglio farne la nostra Emilia rossa» mi disse Fini già prima delle elezioni del marzo '94), aveva caratterizzato il partito nella sua regione sulla linea postfascista molto prima di quando Fini l'abbia fatto a Roma.

Questo pugliese sessantenne, sposato e senza figli, appassionato di tressette almeno quanto Ciriaco De Mita e grande

animatore dei conciliaboli di Montecitorio, è il numero due del partito e del governo, dove unisce alla carica istituzionale di vicepresidente del Consiglio quella politica delicatissima di ministro delle Poste, owero di sovrintendente potentissimo di quel mondo della comunicazione via etere che affianca, tra le altre, le tre reti della Rai, sulle quali il governo Berlusconi ha manifestato subito grande interesse, e le tre reti Fininvestpossedute dal presidente del Consiglio.

Acquisendo un potere così autorevole (vicepresidenza) e così sostanziale (Poste), Tatarella ha realizzato un'altra parte del disegno strategico di Fini: conquistare il Palazzo senza

r fretta, senza spintoni, lasciando la precedenza agli altri se si tratta di un atto di cortesia e di lungimiranza politica, ma assicurandosi alcune posizioni strategiche per dimostrare alla pubblica opinione, e soprattutto agli increduli militanti, che a cinquant'anni dalla fine della guerra il Msi è andato sul serio al potere. (Magistrale è stata, in questo senso, l'elezione al Consiglio superiore della magistratura ottenuta da Fini per due stimati missini della vecchia guardia come Franchi e Pazzaglia.)

Quando lo incontrai poche ore dopo l'accordo con Berlusconi e Bossi per portare la Pivetti e Scognamiglio alla presidenza delle Camere, Fini era contento come se entrambi i presidenti fossero suoi. «Noi non abbiamo chiesto niente,» spiegò «ma vedrai che Alleanza nazionale al governo sarà visibile, molto visibile.» E così è stato. Visibilissimo Tatarella (non c'è decisione politica significativa che non lo veda protagonista). Visibile un'altra missina doc come Adriana Poli Bortone, ministro dell'Agricoltura. Visibili due «alleati na-

zionali» come Publio Fiori (Trasporti) e Domenico Fisichella (Università e Ricerca, posto - quest'ultimo - appannaggio tradizionale di accademici laico-socialisti). Per quanto riguarda le massime istituzioni, Fini era contento perché non gli interessava vincere la partita (sapeva benissimo di non avere ancora le carte giuste), ma sedersi al tavolo da gioco nella sala più esclusiva del Casinò, blandito e ossequiato dai più famosi frequentatori.

P Se il Richelieu di Cerignola, come chiamano Tatarella, tira Fini per il bordo sinistro della giacca, invano Pino Rauti tenta di spostarlo di un millimetro a destra tirandogli la giacca dall'altra parte.

Rauti, la Rifondazione fascista mancata.

Abbiamo visto che Rauti è stato segretario del Msi per un anno tra il '90 e il '91, tra un Fini e l'altro. L'arrivo alla segreteria era per lui il coronamento di un'intera esistenza politica Rauti era infatti un giornalista colto e professionalmente molto bravo. Ma già nel '60, quando dirigeva la redazione province del «Tempo» di Angiolillo (l'avrebbe poi sostituito Gianni Letta), la sua testa era altrove: nella politica e nei durissimi scontri dell'epoca. A noi adolescenti di bottega arrivavano sul suo conto le notizie più avventurose. Come una volta, quando ci fu un'esplosione dimostrativa e senza danni in una sede romana della Cgil e si favoleggiava che Rauti avesse l'articolo già pronto. Se la notizia non era vera, direbbe Montanelli, assomigliava molto al carattere del protagonista.

E chiaro che, quando Rauti vede Fini inchinarsi davanti al sacrario delle Fosse Ardeatine o, peggio, lo sente parlare di antifascismo, si chiede se il mondo (soprattutto il «suo» mondo) abbia il diritto di cambiare così in fretta.

«E un suicidio» dice la sera del 30 settembre quando Gianfranco Fini annuncia in direzione che proporrà al congresso del '95 lo scioglimento del Msi e la confluenza in Alleanza nazionale. «E un suicidio. Ma io combatto e resisto. Io non esco, non faccio Rifondazione fascista.»

Rauti oggi è un rispettabile deputato europeo eletto sotto le insegne di Alleanza nazionale. Non solo non pensa a una Rifondazione fascista, ma dice che Fini e i suoi tirano troppo la corda, son loro a doversene andare. Ipotesi, con rispetto parlando, di modesto realismo.

Il capolavoro di Fini è stato proprio questo. Raggiungere il 12-13 per cento dei voti con i consensi di tanti ex centristi delusi e sbandati ma anche con quelli che non saltano un anniversario del 28 ottobre.

Quanto durerà? Fini non ha fretta e, nonostante la giovane età, ragiona come quei principi della Chiesa che lavorano per la storia. Anche se poi lui è attentissimo al raccolto stagionale.

Quando inciampa in una domanda postagli quasi casualmente da Alberto Statera per «La Stampa» tre giorni dopo le elezioni di marzo e dice che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo», Fini dimostra che il suo istinto, se non proprio il suo cuore, stanno ancora da quella parte.

Ma quando, la mattina del 25 aprile, gli chiedo di commentare l'episodio di Genova in cui la straordinaria testimonianza sull'olocausto trasmessa dal film La lista di Schindler è stata accolta da inni nazisti, afferma tranquillamente che questa «è la dimostrazione che ai giovani bisogna insegnare la storia». E aggiunge che «non bisogna fare in modo che la storia appaia come propaganda e men che meno che diventi argomento di lotta politica quotidiana». E chiarisce: «Il fascismo è nato e morto col Duce. Noi siamo una destra democratica, non una nuova forma di fascismo morbido».

Così, giocando sul reale «desiderio degli italiani di arrivare alla conciliazione nazionale», pur senza abiure formali che gli creerebbero più di un problema nella vecchia casa, Gianfranco Fini prima ha inaspettatamente scongelato in chiave democratica e governativa (senza pagare il pedaggio che a Occhetto costò la Bolognina) qualche milione di voti rimasto inutilizzato in freezer per decenni.

Poi ha spalancato le porte di un appartamento nuovo e più grande, dove nel salotto buono il ritratto di Chirac, patron della destra democratica francese, troneggia lì dove fino a ieri forse sarebbe comparso quello del neofascista JeanMarie Le Pen.

I seicento partecipanti alla crociera estiva sull'Achille Lauro erano un campione perfettamente rappresentativo della nuova destra di Alleanza nazionale. Se non mancava la signora col medaglione di Mussolini al collo, erano certamente più numerose le persone che avevano sempre votato al

centro e che vedono in Fini (da loro considerato un bene più durevole di Berlusconi) la sponda più solida per proteggersi da un governo delle sinistre.

Esaltato dai sondaggi d'opinione dell'autunno '94, spinto da Tatarella e invano trattenuto da Rauti, Fini cercherà lo sfondamento al centro, verso Forza Italia e i Popolari, per assumere la leadership definitiva dello schieramento conservatore. Come vedremo nel capitolo finale, dovrà regolare una volta per tutte i conti col fascismo. Ma poiché la politica di Bossi rischia di diventare indefinibile, sta a Berlusconi e a Buttiglione riportare al centro o far scivolare verso la nuova destra il polo moderato della politica italiana.

Fine prima parte.

D'Alema ha un sogno: Buttiglione...

L'11 giugno del '94 «l'Unità» regala ai suoi lettori una videocassetta, «Caro Enrico». E il decimo anniversario della morte improvvisa di Enrico Berlinguer e come allora si è all'immediata vigilia di una consultazione europea. Commozione, rimpianto e orgoglio di partito s'intrecciano con un ultimo tentativo di mobilitazione per arginare una nuova affermazione del Cavaliere-Presidente che si annuncia robusta.

«Caro Enrico», firmata dai nomi più autorevoli del cinema italiano, è un bellissimo documento giornalistico e insieme una straordinaria testimonianza di archeologia politica. I dieci anni che ci separano dagli awenimenti raccontati sembrano infatti quaranta o forse ottanta o persino cento: è difficile contare quanto tempo separa un'epoca dall'altra.

Com'è giovane, Berlinguer, la sera del 7 giugno 1984 quando tiene il suo ultimo comizio elettorale in piazza dei Frutti a Padova. Giovane e affascinante. I suoi 62 anni anagrafici sono spazzati via dai capelli nerissimi che Berlinguer ha lasciato crescere appena, rispetto al taglio a spazzola di qualche anno prima e che ora, sul palco di Padova, gli fanno cadere perfino un ricciolo sulla fronte. C'è tutto l'uomo in questa immagine rawicinata che la cassetta dell'«Unità» ripropone dal videoregistratore. n SuO sguardo penetrante che buca gli occhiali rettangolari con la montatura robusta, il suo volto scavato di intellettuale sofferente che piace tanto alle donne, il suo distacco aristocratico da ogni cura nell'abbigliamento, che non è burocratico come quello di un Ingrao o di un Cossutta, ma non concede niente al garbato sinistrese dei più giovani Occhetto e Petruccioli. Giacchetta chiara a quadreffl, camicia rigorosamente bianca, cravatta abbandonata lì in mezzo, a testimoniare da sola una giornata di fatica.

Sul palco Berlinguer veste a pieno titolo i panni del grande leader, che porta naturalmente anche in tutte le riunioni politiche, ma che smette appena sceso dalla tribuna o uscito dal suo ufficio alle Botteghe Oscure per indossare quelli dell'uomo timido e schivo che darebbe molto per rendersi invisibile.

Ogni intervista è per lui un supplizio al quale lo sottopone con ineguagliata maestrìa il suo segretario e portavoce Tonino Tatò. Tatò ha capito da tempo che i bagni di folla nelle piazze rigurgitanti di bandiere rosse servono a motivare lo zoccolo duro del partito. Ma poiché il Pci gioca ormai a tutto campo e punta dritto alla conquista del potere, servono an-

che i grandi giornali borghesi e la televisione di Stato (quelle private di fatto ancora non esistono).

Ecco dunque Tatò preparare le memorabili interviste al «Corriere» e alla «Repubblica» con scrupolo e astuzia impareggiabili: concorda le domande, o almeno vuole esserne informato, assiste all'intervista e poi chiede di rileggere ogni risposta, calibra ogni sfumatura, si assicura che l'immagine del leader sia gratificante al punto giusto. Nessun assistente dei leader democristiani che si sono alternati al potere per quasi cinquant'anni ha saputo mai fare niente di paragonabile. C'è anche da dire che la grande stampa e la televisione italiana hanno sempre avuto per Berlinguer un particolarissimo riguardo e che nella nostra categoria bastò la grande vittoria elettorale del Pci alle amministrative del 15 giugno 1975 per procurare repentine crisi di coscienza in favore della sinistra. Niente di nuovo, peraltro. Accadde nel '43 per Badoglio, si ripeterà in modo assai più massiccio tra la fine del '93 e l'inizio del '94 in favore di un fronte progressista già accreditato di vittoria elettorale e di governo. Con imbarazzanti frenate dopo il 28 marzo, che hanno lasciato i segni sull'asfalto. E nuove sgornmate verso la direzione opposta.

La frittata di Berlinguer

Con la televisione le cose sono più complicate. Se fai una frittata, è difficile reintegrare le uova. Berlinguer in televisione è molto bravo. Ha un controllo linguistico perfetto. Non gli scappa una sillaba che non voglia dire. In questo (ma non solo in questo) va d'accordo con Andreotti. Lontanissimo dal fascino tribunizio di un Almirante o di un Pannella, conquista una parte cospicua del pubblico maschile con i suoi ra-

gionamenti serrati e una parte ancor più rilevante di quello fernminile con la sua timida corteccia che nasconde un carattere di ferro. Eppure non va mai in diretta. «Non mi gioco quarant'anni di vita politica per un aggettivo sbagliato» risponde a Villy De Luca.Né accetta incontri faccia a faccia con alleati o awersari. Né Craxi, né Andreotti, né Zaccagnini: che da parte loro la pensano allo stesso modo. Chi glielo fa fare di mettere in pericolo un'alleanza reale o possibile, di far vedere al pubblico che non ci si aggredisce come i più scatenati vorrebbero, di dimostrarsi meno brillanti di un avversario in buona giornata? In America lo fanno? L'Italia è altra cosa. Così, all'inizio degli anni Ottanta, interi cicli di «Ping pong» passano senza che mi sia possibile far indossare i guantoni a due segretari insieme.

Ma anche per le semplici interviste Berlinguer gioca con cautela. Durante le elezioni del presidente della Repubblica che porteranno Pertini al Quirinale, nell'estate del '78, per una intera mattinata lo aspetto nel Transatlantico di Montecitorio all'uscita dell'aula. Berlinguer entra e~l esce. Ogni volta mi avvicino, lo saluto, gli chiedo una breve intervista. Lui sorride, vorrebbe ritirarsi dentro il guscio come una testuggine di fronte al pericolo, gli dispiace dire di no, ma non ha alcuna intenzione di accettare, prende tempo, saluta e rientra in aula. E la cosa va avanti fino a quando, pur di evitare l'incontro, Berlinguer decide di non muoversi più dall'emiciclo. Quando, l'anno dopo, viene rieletto in congresso, l'intervista al Tgl è rituale.

Il Pci ha il cuore al terzo piano di via Teulada, dove Andrea Barbato, diventato direttore del Tg2 con il gradimento

di Francesco De Martino, ha spostato immediatamente le artiglierie a copertura di Botteghe Oscure. Ma gli ascolti sono quattro a uno in favore del Tgl e l'intervista televisiva d'obbligo va concessa alla testata di Emilio Rossi, che segue con grande attenzione ma con altrettanta autonomia la lenta evoluzione in corso nel Pci.

«Che gli chiedi?» mi ammonisce dunque Tonino Tatò nell'ufficetto ricavato per Berlinguer in uno dei recessi del Palasport di Roma. «Un po' di prospettive politiche e un po' di questioni ideologiche» rispondo fissando un saggio di Lenin sulla scuola che il segretario ha lasciato sul suo tavolo di lavoro. Tatò si rabbuia, ma non obietta. D'altra parte, Berlinguer è in grado di rispondere a qualunque domanda. Un col po al cerchio e uno alla botte, una rassicurazione alla base tradizionale e un segnale accattivante alla crescente borghesia progressista. Un doroteismo di alto livello che di elezione in elezione porta il Pci a governare il paese in condominio con la Dc di Aldo Moro e Giulio Andreotti.

In un'era geologica diversa come l'attuale, fa sorridere il pensiero che un'intervista televisiva (destinata cioè a un pubblico di massa) possa solo fermarsi su questioni ideologiche. Ma sono queste a tenere banco alla fine degli anni Settanta. «L'autonomia di azione politica e di ricerca teorica, la nostra indipendenza organizzativa e la fine di ogni partitoguida e di ogni Stato-guida, i rapporti costruttivi con i socialisti, non significa né che noi vogliamo diventare socialdemocratici, né che cessiamo di essere internazionalisti, anche se il Pci non appartiene ad alcuna internazionale.» Così Berlinguer risponde a Carlo Casalegno, che all'inizio del '76 gli chiede per «La Stampa» come mai il Pci abbia deciso di par-

tecipare sia al XXV congresso del Pcus a Mosca, sia alla successiva conferenza comunista paneuropea voluta dai russi per riaffermare la propria autonomia.

Sono gli anni dell'eurocomunismo e della «terza via» tra socialismo reale e socialdemocrazia. Adesso sembrano questioni senza senso, ma alla fine degli anni Settanta giornali e televisioni parlano solo di questo. Si combattono dispute serissime a colpi di Voltaire e Robespierre e di tutta la letteratura politica che li separa da Marx ed Engels, da Lenin e Trockij. I comunisti sparano salve di Gramsci e aggiungono E;obeKi, in sovrannumero; i socialisti rispondono rispolverando i premarxisti Fourier e Proudhon. Norberto Bobbio e

gusto Del Noce, Paolo Spriano e Domenico Settembrini, ~Lucio Colletti ed Enzo Bettiza appaiono in televisione più di Pippo Baudo e Mike Bongiorno con indici di ascolto da gran ; varietà.

Il Pci viene sottoposto a spietati esami di democrazia. La questione non è di poco conto se un sondaggio Doxa realizzato alla fine del '77 (quando il Pci ha già il fiato sul collo della Dc per rubarle il primato) accerta che il 94 per cento dei militanti comunisti ritiene che i servizi forniti dallo Stato ai cittadini siano migliori in Urss che in Italia, 1'82 per cento pensa che in Unione Sovietica i cittadini abbiano maggiori possibilità di fare un lavoro adatto alle proprie capacità e ai propri meriti, il 72 per cento ritiene che in Urss vengano garantite migliori prospettive per il futuro dei figli e solo il 48 per cento ritiene che in Italia la libertà di pensiero e i diritti individuali siano garantiti meglio che a Mosca.

Rispondendo ad alcune mie domande nel novembre del '77, sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, Paolo Bufalini afferma, a nome della segreteria comunista, che l'economia italiana deve andare ben oltre l'esperienza svedese, «dove non è mai stata intaccata la logica capitalistica», e deve arrivare al socialismo «attraverso una programmazione democratica che abbia determinati strumenti pubblici, che lasci uno spazio all'iniziativa privata, come del resto è accaduto in alcune società socialiste perché, per esempio, nella Repubblica democratica tedesca per lunghi anni e ancora oggi in parte - è coesistita una iniziativa privata sia nell'industria che nell'agricoltura».

A Padova treiorni prima della mor~e

Tutto questo retroterra, il tormentato awicinamento del Pci verso una democrazia di tipo completamente occidentale e le difficoltà derivanti da una lunga militanza di segno diverso, rni tornano alla mente mentre rivedo le immagini dell'ultimo comizio di Berlinguer a Padova, tre giorni prima della morte.

«L'Italia democratica non può fare a meno del Pci, che rappresenta un terzo deU'elettorato e le forze più vive della società.» Sembra il Berlinguer dei giorni migliori (e invece ha già più di una difficoltà politica) quello che ricorda ai militanti padovani la vittoriosa mobilitazione contro il terrori smo proprio nell'ateneo in cui gli ideali di Curiel e di Concetto Marchesi hanno sconfitto quelli di Toni Negri.

Ma quattro minuti più tardi, quando parla di «rinnovamento e risanamento della società con salde garanzie di de-

mocrazia e libertà», lo sguardo si appanna all'improvviso. Parla di P2 e di lotta contro quelli che vogliono abolire la scala mobile e si ferma. La mano corre sulla bocca, gli occhiali diventano pesanti. Berlinguer se li sfila, cerca di riprendere, dice ancora qualche parola, si ferma di nuovo. La telecamera allarga l'inquadratura all'intero palco e alle spalle di Berlinguer compare la maschera tragica di Tatò che ha intuito il dramma, ma non se la sente di intervenire. Anche il pubblico ha ormai capito che Berlinguer sta male e lo applaude, grida «Enrico, Enrico!». Applaude senza sosta anche Tatò, come per esorcizzare la tragedia che già gli si legge sul volto.

Ma Berlinguer vuole finire a tutti costi il discorso. «Vi invito a impegnarvi tutti nei pochi giorni che ci separano dal voto...» Lo sguardo è ormai stravolto, gli occhiali non bastano più a proteggerlo. «...con lo slancio che avete sempre dimostrato nei momenti cruciali della nostra vita...»

Gli applausi lo sommergono di nuovo, ma forse Berlinguer non li ascolta più. Arriva in coma all'ospedale, muore tre giorni dopo.

Va a prenderselo il vecchio Pertini con l'aereo presidenziale e mai nei tempi moderni si era assistito a una manifestazione così imponente di lutto. Non ai funerali di Togliatti, né a quelli di Moro, che pure era morto in circostanze ben più drammatiche per lui e per la nazione. Forse bisogna tornare indietro al primo anno del secolo, alla morte di Umberto I per mano di Bresci. Ma si tratta di un'altra epoca.

Albino Longhi, direttore del Tgl, mi affida la cronaca di-

retta dei funerali. Ne ho fatte molte, purtroppo. Dai funerali della scorta di Moro a quelli di Moro stesso, da Mattarella a Bachelet, da Nenni a Ugo La Malfa. So in partenza che questi sono diversi, perché la morte di Berlinguer ha prodotto nei giornali e in televisione quello che i sociologi chiamano subito un «processo di omogeneizzazione etico-politica». Ricorderò l'anno successivo in un libro-documento dell'«Unità»: «Questi funerali nascono in un clima diverso. Non mi spingerei a dire, come scrive "il Manifesto" che "persino gli avverSari e i nemici gli affidano una delega, una rappresentazione di sé". Ma certo il coinvolgimento emotivo, anche all'esterno del popolo comunista, è molto alto e in qualche modo sorprendente. I mezzi di comunicazione di massa hanno avuto in questo senso un ruolo determinante. Per quattro giorni quasi tutti i giornali italiani hanno titolato a piena pagina sull'agonia del leader comunista e dedicato molte pagine a una commemorazione in crescendo che, di fatto, ha preceduto il momento della morte. La stessa televisione, nei servizi dall'ospedale di Padova, è uscita talvolta dalla sua abituale sobrietà».

Viene deciso l'impiego di un numero straordinario di telecamere, sei. Una settima viene montata sull'elicottero. Su questa decisione di Longhi non siamo tutti concordi. Io stesso, confermerò qualche mese più tardi alla festa dell'Unità, sono perplesso perché mai nella sua storia trentennale la televisione ha utilizzato l'elicottero per manifestazioni di massa che avessero una qualche connotazione politica. Sono tuttora convinto che, se la domenica successiva, alle elezioni europee, si verificherà il «minisorpasso» del Pci sulla Dc, una parte cospicua del merito sarà dell'«effetto Berlinguer» e della televisione. Ma sull'uso dell'elicottero credo di aver sba-

gliato. Rivisti a dieci anni di distanza, questi funerali sono uno straordinario evento giornalistico. Rinunciare alle spettacolari immagini dall'alto di piazza San Giovanni sarebbe stato un errore. Come è stato un errore, frutto della prudenza e delle convenienze politiche, non mostrare per decenni la folla dei comizi o non far vedere l'aula di Montecitorio semivuota perché altrimenti avrebbe protestato la presidenza della Camera. I fatti sono fatti. Nasconderne o ridimensionarne alcuni aspetti non dovrebbe far parte del nostro mestiere di cronisti.

Chi si fida di Achille?

Ripenso agli anni di Berlinguer, mentre nella casa romana di Achille Occhetto la governante Rossana serve il caffè. E una caldissima giornata di fine luglio e il governo sta entrando nella tempesta con l'arresto di Salvatore Sciascia, capo dei servizi finanziari della Fininvest. Ma nella penombra dello studio di Occhetto, affacciato sulla cupola della Sinagoga, il tempo sembra essersi fermato. L'ex segretario del Pds è appena arrivato dalla Maremma e sta per tornarci, per trascorrere la fine dell'estate '94 all'Uliveto di Manciano, un posto di campagna vicino Grosseto per il quale ha lasciato dopo molti anni la mitica Capalbio. E per completare con la giornalista Teresa Bartoli la stesura del suo libro, n sentimento e la ragione, che in settembre manderà di traverso a Massimo D'Alema la Festa dell'Unità a Modena. Gli anni di Berlinguer, la successione a Natta, la svolta della Bolognina, il trionfo autunnale nelle elezioni dei sindaci sembrano lontanissimi.

Occhetto è ancora schiacciato dal peso dell'ingratitudine che ha caratterizzato gli ultimi mesi della sua direzione alle Botteghe Oscure e guarda in termini cupi al proprio futuro politico.

Ripenso a due copertine gemelle pubblicate da «Panorama» a quasi vent'anni di distanza. La prima porta la data del 20 marzo 1975. Mancano tre mesi alle elezioni amministrative che consegneranno al Pci la guida delle grandi città italiane e il settimanale titola, accanto a una grande foto di Berlinguer, Possiamo fidarci dei comunisti? Scrive all'interno il giornale: «Soggezione a Mosca? Nemmeno a parlarne. Patto Atlantico? Accettato in attesa che la distensione lo svuoti. Economia? Garantire equi margini di profitto allo scopo di evitare fughe di capitali. Perfino nello stile i dirigenti del Partito comunista italiano si comportano ormai come ministri di un governo-ombra». E invece sappiamo com'è andata.

Passano diciannove anni, il Pci ottiene alle amministrative di fine '93 il maggior successo locale dalle elezioni del '75. Quasi tutti gli osservatori gli infiorano archi di trionfo verso Palazzo Chigi nelle politiche di primavera. E «Panorama» nel

numero del 19 dicembre si chiede: «Chi si fida di Achille?». La opertina è un capolavoro di Giorgio Forattini. Il grande disegnatore satirico aggiorna la famosa vignetta pubblicata dalla «Repubblica» nel '77 quando Berlinguer, in pieno compromesso storico, awolto in una preziosa veste da camera, sorbisce un tè, infastidito per la rumorosa manifestazione dei metalmeccanici che passa sotto le sue finestre e di cui dà notizia «l'Unità» che stringe tra le mani.

Nella nuova edizione, la preziosa veste da camera awolge Achille Occhetto che nella tazza da tè ereditata da Berlinguer versa un generoso quantitativo di champagne: Cordon Rouge, naturalmente, che Forattini etichetta con falce e martello. Rosse sono le preziose tende di casa, rosse le bandiere che si intravedono oltre la finestra. Occhetto non ha lo sguardo infastidito di Berlinguer. Gongola invece perché «l'Unità» titola Vittoria, mentre sulle pareti di casa il vecchio ritratto di Marx che Berlinguer aveva alle spalle è sostituito da un doveroso ritrattino del vecchio Enrico, mentre la stanza è illuminata da un quadro con l'effigie principesca di Giovanni Agnelli, che Forattini vede evidentemente alleato del nuovo Barone Rosso, ormai lanciatissimo verso il governo.

E invece Occhetto è qui, a chiedersi ancora una volta perché la sinistra ha perso elezioni che aveva vinto. «I motivi sono tanti» risponde. «E vero, avevamo vinto a novembre. Ma la scelta del governo di una città è cosa diversa dalla scelta del governo nazionale. Evidentemente una parte consistente dell'elettorato non è pronta alla naturale alternanza tra destra e sinistra. Poi è cambiato il terreno di gioco. Dopo le elezioni dell'autunno Berlusconi ha detto: i progressisti si sono organizzati, ci hanno battuto, a questo punto debbo entrare in campo. Ma ha giocato su un campo diverso. Le elezioni dei sindaci erano una partita a due tempi. Nel primo turno ciascuno poteva manifestare tranquillamente la propria preferenza per il singolo partito, per poi scegliere tra destra e sinistra al momento del ballottaggio. Con il sistema maggioritario a turno unico, abbiamo constatato che la mentalità dell'elettore resta quella del vecchio sistema proporzionale: difende la propria bandiera e guarda meno alla squadra.

Questo vale per la destra e per la sinistra. Berlusconi ha studiato bene la legge e ha collocato una parte del centro nel cuore della destra rendendola fruibile.

Ha ragione Veltroni quando dice che noi abbiamo perso perché la gente ha visto la sinistra come un'alleanza che si muoveva "contro", e noi abbiamo cercato di surrogare, senza riuscirci, questo deficit d'iniziativa che si notava nel tavolo progressista. O l'elettore medio di centro veniva con noi oppure avremmo perso. Credo di aver fatto il possibile per conquistarlo: sono andato a presentare il nostro programma economico (il migliore, secondo un giornale come il "Sole-24 Ore") ai maggiori importatori di Londra e sono andato al quartier generale della Nato tirandomi dietro le critiche di Bertinotti. Non ero così pazzo da credere che avremmo avuto la maggioranza assoluta. Si poteva immaginare una maggioranza relativa della sinistra o della destra, con l'ago della bilancia collocato al centro.»

Forse per questo, tra gennaio e febbraio, Romano Prodi era pronto a lasciare l'Iri per Palazzo Chigi, dove nel '93 non lo mandò, al posto di Amato e prima di Ciampi, un fatale errore di calcolo di Mario Segni che non si rassegnava a fargli da vicepresidente. E se Prodi fosse andato a Palazzo Chigi dopo le elezioni di marzo, i progressisti avrebbero premiato Ciampi con il Quirinale, se la posizione di Scalfaro si fosse fatta più difficile.

Tutto questo, come sappiamo, non è awenuto. Ma Occhetto non si rassegna a farsi allontanare, con il gesto secco e ultimativo della mano che scaccia una mollica ingombrante, dal tavolo che ritiene di aver costruito più di ogni altro. E

nella penombra di questa stanza, mentre un bellissimo Pulcinella ci guarda sfinito da una sedia a dondolo, tomano gli anni della grande svolta dell'89. Torna il momento della Bolognina.

Quel giorno alla Bolognina

«Tre giomi dopo la caduta del Muro di Berlino, il 12 novembre dell'89, vado in Emilia su invito di un vecchio partigiano che mi ha chiamato per i quarantacinque anni della battaglia di Portalame contro i tedeschi. La discussione sul futuro del nostro partito è ormai vecchia di mesi, di anni. Dopo la tragedia di Tien An Men ho detto che il comunismo intemazionale è finito, staccando nettamente il Pci dai comunisti francesi che rimangono legati a vecchie concezioni. Poi c'era stata la vicenda rumena di Ceausescu. Ma se scelgo la Bolognina per annunciare il cambiamento con rapidità assoluta e senza consultare nessuno non è per riparare qualche atto disdicevole accaduto all'estero. La caduta del Muro non è solo l'esemplificazione della crisi dell'Est, ma è anche il simbolo della crisi della guerra fredda e della necessità di un nuovo modo di vivere a Est come a Ovest. Chi capisce immediatamente in Italia che la fine dei muri porta con sé la fine delle politiche consociative e della centralità democristiana che si nascondevano dietro i muri è Francesco Cossiga, che pure andrà in una direzione opposta alla mia. Ma torniamo alla Bolognina, dove decido di fare ai nostri partigiani lo stesso discorso che Gorbaciov fece ai veterani sovietici: "Voi avete vinto la seconda guerra mondiale, ma se non cambiamo tutto finirete per perderne i frutti". Ai piedi del palco si avvicina un cronista e mi chiede: "Le sue parole lasciano presagire

tutto?". Gli dico di sì e poco dopo le agenzie annunciano: forse il Pci cambia nome. Debbo ricordare che nel XVIII congresso del febbraio '89 ho detto tra gli applausi che non avremmo mai cambiato nome sotto la pressione di Craxi e che solo una nuova costituente delle forze della sinistra ci avrebbe fatto muovere. Quando escono le agenzie sul cambio di nome è già tardi, e sono in volo verso Roma. I giomalisti mi cercano invano al telefono. Così l'indomani "l'Unità", che in questo periodo è diretto da D'Alema, pubblica la notizia del possibile cambio di nome col punto interrogativo.»

In realtà, l'atteggiamento del giomale comunista è ancora più prudente. Occhetto non ha awertito nessuno del suo discorso e il giornale di D'Alema non gli manda nemmeno un inviato al seguito. Pubblica dunque il servizio del corrispondente bolognese Walter Dondi, ma soprattutto lo pubblica in modo sorprendentemente riduttivo. L'apertura di lunedì 13 novembre è infatti dedicata all'annuncio che Hans Modrow diventerà primo ministro della Repubblica democratica tedesca. Al discorso del segretario del Pci viene assegnato un titolo assai meno vistoso a centro pagina: «Occhetto ai veterani della Resistenza: dobbiamo inventare strade nuove. A chi gli chiede se il Pci cambierà nome risponde: tutto è possibile». E nemmeno due giorni dopo, quando dopo l'ulteriore prudenza del martedì, tutti i giornali annunciano il cambiamento di nome, «l'Unità» non vorrà sbilanciarsi. Parla di «nuovo partito per la sinistra», ma awerte che «il segretario parla di cambiamenti radicali (anche nel nome), mentre si registrano consensi, riserve, dissensi ed è in vista un congresso straordinario».

Ma torniamo al racconto di Occhetto. Quando rientra in

casa, la domenica notte, il segretario del Pci si chiude nello studio per scrivere l'intervento per la segreteria dell'indomani e per la direzione che si riunirà il mercoledì. Gli tengono compagnia le ventisette pipe ordinate in tre piani di rastrelliera sulla sinistra del tavolo di legno scuro.

«Il lunedì» racconta «arrivo in segreteria quasi in stato di allucinazione. Nel fine settimana ero stato a Bruxelles per incontrare i laburisti inglesi, poi a Mantova per la mostra di Giulio Romano. Infine alla Bolognina. Alla riunione partecipano Fassino, Bassolino, Mussi, Livia Turco, Veltroni, Petruccioli. Intervengono anche Ariemma e D'Alema, come direttore dell'"Unità". Tutti accolgono le mie proposte con entusiasmo, tanto che sono io a un certo punto a dire: fermiamoci un momento, ditemi subito con franchezza se debbo andare avanti. Per non creare equivoci, interpello tutti i presenti, uno per uno. E tutti mi rispondono sì, siamo d'accordo. Due giorni dopo, le mie tesi vengono approvate anche in direzione, ma qui i contrari sono parecchi: Ingrao, Tortorella, Natta, Chiarante. La base invece si dimostra sorprendentemente a favore. Immaginavo di dover formare una corrente minoritaria del partito e invece mi danno ragione sette iscritti su dieci. Nel marzo del '90 il dibattito si sposta in congresso, nell'autunno dello stesso anno nasce il simbolo.»

.bella la quercia, è solida...»

Me la ricordo bene, quella sera. Sono da poco direttore del Tgl e chiedo a Walter Veltroni, che guida il settore informativo del partito, di mostrare per primi il nuovo simbolo sulla nostra rete. «E vero che c'è una quercia?» chiedo. Ma poi,

quando Occhetto viene in studio e Veltroni sfodera il simbolo, vediamo che lo strappo finale non è stato compiuto (né forse poteva compiersi) e una falce e un martello, piccoli ma ben visibili, fanno «capoccella» ai piedi dell'albero.

Occhetto è gasatissimo: «E bella la quercia, è solida. E anche segretario della Quercia suona bene, è imponente».

Oualche mese dopo, nel febbraio del '91, awiene a Rimini la scissione di Rifondazione comunista. «Mi chiedi» dice Occhetto «se poteva essere evitata. Dopo Bologna avemmo un anno intero per evitarla e ci si fece credere che si poteva impedire. Ma a ripensarci, era nel conto.»

Il congresso di Rimini è amaro anche per un'altra ragione. Si svolge durante la guerra del Golfo che divide profondamente i comunisti. Ma al di là delle divisioni, come annota Gianfranco Piazzesi sul «Corriere della Sera», «una volta sopraggiunto il momento di eleggere a capo del partito nuovo il suo padre fondatore e unico candidato, Occhetto aveva il diritto di pretendere una votazione plebiscitaria».

E invece no, il sorgere delle correnti seppellisce il segretario che le ha autorizzate, seppellendo a sua volta dopo settant'anni il centralismo democratico del Pci. Il segretario del Pds non viene rieletto per dieci voti, si contano trentasette franchi tiratori fuori dell'opposizione. L'elezione awerrà dopo qualche giorno in consiglio nazionale, ma la base scarica sconcerto e frustrazioni dalle onde di Italia Radio e D'Alema deve difendersi dai sospetti sul «Corriere della Sera»: «Pub darsi, come scrive Giuliano Ferrara, che io sia un surgelato, ma sono un surgelato leale. Il giorno che dovessi pensare di

sedermi su quella poltrona, lo direi chiaro e forte».

Torniamo al racconto di Occhetto: «Nelle prime elezioni successive, il 5 aprile del '92, il Pds prende il 16 per cento dei voti e Rifondazione quasi il 7: la somma fa il vecchio Pci. Ma dall~analisi del voto scopriamo che il rimescolamento è stato

200 201 più forte, che il Pds ha avuto molti voti in entrata. Passano da allora due anni terribili in cui sono scomparsi interi partiti che venivano dalla Prima Repubblica e noi stessi siamo stati sotto tiro per Tangentopoli. E alle elezioni di marzo, mentre va a picco quasi tutto quello che arriva dal passato, il Pds arriva al 20.4 per cento, guadagnando quattro punti e mezzo sul '92, mentre Rifondazione non si muove. Un risultato importante, mi pare, se si pensa che Craxi parlava di onda lunga socialista quando passava dal 9.5 al 9.7 per cento e che il nostro risultato di marzo si è consolidato in giugno in Sardegna e in molte città».

Fa una pausa, Occhetto. Lo sguardo gli sale alla grande foto dell'abbraccio con Arafat che domina la scrivania. Poi trasmette il risultato di quella che deve essere stata una lunga e dolorosa riflessione: «Non accetto che mi si dica: è cambiato il mondo, te ne devi andare».

Poi mormora: «Pago paradossalmente il fatto che il Centro non ha avuto il 2 per cento di voti in più e che Orlando ha retto in Sicilia meno del previsto. Se avessimo vinto, avremmo trasferito al governo una soluzione di sinistra-centro co-

me quella che a Torino ha portato all'elezione del sindaco Castellani».

Tra le elezioni di marzo e quelle di giugno Achille Occhetto percorre tutto il suo calvario: «Se a metà giugno non mi fossi dimesso, sarei ancora il segretario del Pds. Ma la situazione diventa inaccettabile già in aprile. Il totodimissioni di Occhetto diventa lo sport nazionale. Appena scendo da un palco in qualunque città italiana, trovo subito un cronista che mi chiede quando mi dimetto. Il fatto è che non trovo nel partito l'accordo totale su un'ipotesi che attutirebbe la campagna esterna. E cioè un sollecito congresso di linea che mi confermi segretario con l'incarico di traghettare il partito verso una nuova leadership da eleggere in un successivo, vicino congresso di svolta».

Ma il vento tira da un'altra parte. La base rumoreggia, Giampaolo Pansa - l'opinionista più vicino al Pds - scrive sull'«Espresso» del 3 giugno, sotto il titolo Achílle e la frittata, il seguente benservito: «Ha avuto coraggio. Ma ha concluso il suo ciclo. Ha portato più voti al Pds. Ma ha condotto la sinistra alla sconfitta. E deve farsi da parte».

Occhetto non ama affatto Pansa, ma è costretto a dargli retta.

«Così le dimissioni maturano nel momento stesso in cui mi comunicano le proiezioni del risultato europeo. Mi fisso nella testa alcune frasi che scriverò nella lettera di congedo. Spiego ai dirigenti del partito che non scendo davanti alle telecamere per commentare il risultato perché se i giornalisti mi facessero una domanda sulle dimissioni non potrei ri-

spondere negativamente, poi me ne vado a casa.»

Quando Occhetto sale al secondo piano di via Tribuna Campitelli 23, ai confini del Ghetto, è l'una del mattino di lunedì 14 giugno. Lo aspetta la moglie Aureliana, mezz'ora più tardi il segretario dorme.

Al mattino legge i giornali in compagnia della moglie, mentre Rossana serve la colazione. Dalla terrazza la Sinagoga è bellissima, vien voglia di toccarla. Ma Occhetto ha altro per la testa.

Arriva alle 10 al suo ufficio al sesto piano delle Botteghe Oscure, si chiude nella stanza e comincia a scrivere a mano la lettera di dimissioni («Ho usato soltanto una volta la macchina, scrivendo lentamente da solo il discorso della Bolognina: non volevo che nessuno lo conoscesse prima del tempo»): «Cari compagni, la situazione politica è dominata da una inquietante vittoria della destra... Sarebbero dannose esitazioni e incertezze per quel che riguarda la direzione del partito. Come sapete, già all'indomani delle politiche, è stato posto da alcune parti, a dire il vero esterne al partito, il problema delle mie dimissioni. Debbo dire con franchezza che non ho condiviso le ragioni in base alle quali si argomentava per questa ipotesi, anche perché giudico che il Pds in questi anni abbia conosciuto un significativo rafforzamento... Pur ritenendo che sia stato un grave errore politico cercare in ogni modo di indebolire l'immagine, proprio nel momento più vivo dello scontro, del segretario del Pds, oggi sento che il mio dovere è un altro... Ricordo con particolare intensità quanti nel corso di questa campagna elettorale mi gridavano: Achil-

le, non mollare! Voglio rassicurarli. Questa mia decisione non è un cedimento, ma un atto di orgoglio e di lotta in nome del Pds e della sinistra. Sono e sarò, comunque, al loro fian-

co...».

Occhetto passa i suoi fogli alla segretaria Stefania Fredda per la battitura. Poi il testo finisce tra le mani di Massimo De Angelis, il dirigente alto, elegante e silenzioso che guida l'ufficio stampa del partito: lo distribuisce ai giornalisti nella conferenza stampa convocata per le tre del pomeriggio. L'ex segretario, intanto, è tornato a casa, non uscirà più fino all'indomani, deludendo l'attesa di decine di cronisti che si accalcano nella strettissima Tribuna Campitelli. Fa gli straordinari anche Rossana, la governante. Il suo orario finirebbe alle 12.30, ma stasera esce alle 19, dice che Occhetto sta benissimo e quando un cameraman della Fininvest fa troppo l'invadente lo manda romanescamente a quel paese.

«Tutta la sinistra europea resta esterrefatta» commenta Occhetto. «Gli osservatori erano abituati ai riti della Prima Repubblica, quando vinceva sempre il centro e se uno guadagnava lo 0.1 per cento faceva suonare la banda. Non capiscono come mai il Pds migliori di quatko punti e mezzo e caccino via il segretario.»

Oggi Occhetto si sente «come un altoforno»: «Negli ultimi cinque anni ho vissuto la fine del comunismo, il crollo dell'Unione Sovietica, la nascita del Pds, la scomparsa della Dc e del Psi, la riforma elettorale, la vittoria di Berlusconi... Ho dovuto prendere decisioni furibonde ora dopo ora. E sempre senza spegnere l'altoforno. Come gli operai della

Breda, che durante gli scioperi lo lasciavano sempre acceso, pena la rovina della fabbrica e del lavoro...».

E come in un altoforno ribollono i suoi risentimenti: «No, non ho ancora superato quel che è successo. Non accetto le critiche di D'Alema e un certo tipo di votazioni. Se il Pds confermerà questo atteggiamento al congresso, dovrò riconsiderare la mia partecipazione alla vita politica...».

Oueste ultime parole cadono come pietre nella penombra del Ghetto. Pulcinella, Arafat e le pipe son sempre là. Al piano di sopra Rossana ha ormai preparato il pranzo, e Achille Occhetto, appena appoggiato allo schienale del divano, mi sta dicendo che il suo è un futuro a tutto campo. L'aveva detto una sola volta prima di adesso, in una Iunga intervista all~«unità» del 15 luglio, rispondendo così alla dGmanda finale di Alberto Leiss: «Come vedi il tuo futuro imp~gno politico?»: «Dipende anche dalle reazioni che susciterà questo mio intervento. Se stimolerà una riflessione nel partito. O se sarà percepito come un nuovo strappo da parte di quel rompicoglioni che ci ha fatto già tanto soffrire. In fondo, con la politica, si può anche smettere». Ma non prima, par di capire, di aver dato di nuovo battaglia.

Scriverà nel suo libro: «Io non mi sento più uomo che torna in una caserma. La mia vita è ormai nella carovana... Se la carovana riprendesse per davvero il cammino (utilizzando tutti gli spezzoni della sinistra, ma in un contesto che guarda ben oltre), io non potrei che essere là, con gli altri».

«D'Alema segretario? A Occhetto vengono le infantigliole»

La mattina di martedì 14 giugno i giornali portano in casa di Massimo D'Alema, fra Trastevere e il Portuense, due notizie: una è buona, l'altra è cattiva. La notizia buona sono le dimissioni di Occhetto, che gli consentono finalmente di puntare alla segreteria del partito. La notizia cattiva è che Occhetto, considerandolo il responsabile principe della sua caduta, farà di tutto per impedirne l'elezione. Lo annuncia a tutta pagina «La Stampa», pubblicando la seguente, esemplare confidenza di Piero Salvagni che la penna omicida di Augusto Minzolini presenta come funzionario di lungo corso del partito: «A Occhetto ogni volta che gli parlano di una possibile segreteria D'Alema gli vengono le infantigliole (tradotto dal romanesco: fibrillazioni al cuore...). In realtà, fin dal momento in cui ha consegnato a Massimo De Angelis la sua lettera di dimissioni perché fosse illustrata alla stampa, il pomeriggio del 13 giugno, Occhetto ha pensato di opporre a Massimo D'Alema il giovane direttore dell"'Unità" Walter Veltroni».

All'inizio, Veltroni sembra incerto, ma il bombardamento di telefonate che arrivano dalla casa di Occhetto in Maremma direttamente a Veltroni e soprattutto attraverso il collabo-

204 205 ratore più stretto dell'ex segretario, Claudio Petruccioli, fanno breccia lentamente nella sua resistenza.

Il 16 giugno, secondo quanto accerta Francesco De Vito per «L'Espresso», Petruccioli e Piero Fassino, leader dei comunisti torinesi e anche lui occhettiano di ferro, dicono a

Veltroni che la sua candidatura è nei fatti, indipendentemente dalla sua volontà. Sulla stessa posizione sta Fabio Mussi e così viene lanciata l'idea del referendum fra tutti gli iscritti promossa dal sindaco di Bologna Walter Vitali.

D'Alema a questo punto sa di correre un grosso pericolo. Teme che la consultazione possa essere condizionata dalla stampa, in genere più favorevole a Veltroni, e dice che niente è più inaccettabile che essere eterodiretti. «Il rischio più grave di un referendum sul segretario è proprio questo. Io non ci sto. Allora è meglio un congresso.»

Anche in un colloquio awenuto a fine luglio nel suo studio di segretario a Botteghe Oscure, D'Alema mi conferma che il congresso sarebbe stata la soluzione migliore: «Io ero persino contrario alle dimissioni immediate di Occhetto. Dopo le elezioni politiche di marzo, gli dissi che avrebbe dovuto annunciare per l'autunno un congresso di cambiamento e fare come fece nella Dc Moro nel '68: è finita una stagione politica, mi metto da parte, mi faccio garante del cambiamento. Perché Occhetto non ha accettato? Per orgoglio personale, credo. Lui s'aspettava di essere confermato al congresso immaginando di andare via dopo. E ha condotto la campagna elettorale per le Europee in una condizione di isolamento e pagando un forte prezzo personale. Questo mi è dispiaciuto. Ma alla fine ha detto: visto che non volete confermarmi al congresso, è inutile che mi faccia logorare. Preferisco andarmene subito. Abbiamo trascorso insieme in questo ufficio la serata delle elezioni europee. Occhetto non deve tirarsi in disparte. E non credo che rinuncerà alla vita politica».

D'Alema occupa con piena disinvoltura l'ampia stanza del segretario al sesto piano di Botteghe Oscure. Nel grande scaffale alle spalle della scrivania sta sostituendo i libri di Occhetto con i suoi, e il primo quadro che s'è portato dall'ufficio che occupava alla Camera è un curioso, duplice ritratto di Berlinguer. Il deputato di Gallipoli, come aveva il vezzo di chiamarsi, è uomo di mondo e sa che nei primi mesi della sua segreteria il fantasma di Occhetto è seduto sulla poltrona d'angolo, come il Pulcinella sfinito che assiste muto a quel che avviene nello studio privato di Occhetto dalla sedia a dondolo.

«Perché si sono guastati i rapporti tra noi? C'è qualche cosa che non ho capito, che sto ancora cercando di afferrare. Quella di Occhetto è stata una direzione fortemente personalizzata ed è apprezzabile che si sia assunto molte responsabilità in prima persona. Caratterialmente, Occhetto ha uno stile isolato.

Questo lo ha portato a vivere con difficoltà un rapporto paritario all'interno del nostro gruppo dirigente. Tra lui e me c'è una diversità di cultura politica, più che di linea. Lui ha un senso molto forte della leadership che si manifesta in forti gesti personali. Io sono più tagliato per avviare processi di costruzione, per far avanzare un progetto in modo collegiale. E naturalmente posso incontrare qualche difficoltà quando le esigenze di immagine prevalgono sulla sostanza. Occhetto credeva che io fossi il punto di riferimento di un'area occulta del partito. E invece io sono soltanto il punto di riferimento di un giovane gruppo dirigente che si è formato nella seconda metà degli anni Settanta, quando io ero il segretario della Federazione giovanile comunista. Per questo, forse, ho rap-

presentato un contrappeso ingombrante all'interno del gruppo dirigente.»

Tra D'Alema e Veltroni, la «guerra deifax»

Torniamo ai venti giorni intercorsi tra le dimissioni di Occhetto e l'elezione di D'Alema. «Baffino», come qualcuno lo chiama non si sa bene se con affetto o malizia, si rende conto che la familiarità con l'apparato che lo porterà alla vittoria rischia di essere la causa più temibile della sua sconfitta.

Dice il 22 giugno all'«Unità»: «Mi rendo conto che in questo momento, di fronte a un elettorato vicino a noi ma ancora incerto, possa rappresentare un handicap l'essere espressione più marcata della tradizione comunista italiana».

206 207 Per questo due giorni prima, quando lunedì 20 giugno si riunisce il nuovo coordinamento politico chiamato a scegliere tra referendum e congresso, D'Alema boccia la prima ipotesi senza esitazione. «L'idea di procedere subito,» racconta «già mi lascia perplesso. Perché non andare a una forma di reggenza in attesa del congresso? Prevale l'altra tesi, sostenuta da quasi tutti. Il sindaco di Bologna ha proposto un referendum tra gli iscritti. Ma non è previsto dallo statuto. E poi chi lo toglie di mezzo un segretario eletto da tutti?»

Fassino, uomo di Occhetto, propone che il segretario venga eletto da un consiglio nazionale allargato a tutti i dirigenti nel partito presenti nelle istituzioni più importanti. Ma alla

fine prevale la soluzione dell'elezione in consiglio nazionale, che sarà preceduta da una consultazione di circa diecimila dirigenti.

«Mi lascia perplesso anche questa soluzione» mi dice D'Alema. «A che serve, visto che poi comunque il segretario deve eleggerlo il consiglio nazionale? Queste consultazioni sanno di antico, vengono fatte nei conciliaboli nei confessionali...»

Comunque va così. E tra D'Alema e Veltroni scoppia la «guerra dei fax».

Riviviamola nel racconto di Walter Veltroni: «La consultazione finisce lunedì 28 giugno, il consiglio nazionale è convocato per il giovedì 30 e il venerdì 1° luglio. Alle 19.30 del lunedì D'Alema e io veniamo chiamati dal presidente del consiglio nazionale, Giglia Tedesco, e dal presidente della commissione di garanzia, Giuseppe Chiarante. Ci vediamo al secondo piano di Botteghe Oscure. Ci comunicano i risultati della consultazione: il 42 per cento ha votato per me, il 37 per D'Alema. E ci dicono che l'indomani, in direzione, dovremo pronunciare i discorsi per formalizzare le candidature. Torno a casa e ho la conferma che mia moglie e le bambine non vedono con nessun favore l'ipotesi che io diventi segretario. Flavia è addirittura terrorizzata all'idea di comparire sui giornali. Martina, la rnia bambina più grande che ha sette anni, sta guardando la televisione, sente parlare delle nostre candidature e mi fa: "Papà, quella cosa che dicono in Tv non la devi fare. Tu devi rimanere al giornale"».

Martina ha sei mesi meno di Giulia, la primogenita di

D~Alema- Vittoria, la piccola di Veltroni, ha sei mesi in meno di Francesco, il piccolo di D'Alema che ha quattro anni. Le due famiglie si frequentano spesso, i bambini sono amici.

Per questo, mentre Martina dice al papà che non deve fare «quella cosa», in casa di D'Alema Giulia è ancora più preoccupata: «Non è che se tu e zio Walter litigate io non potrò più vedere Martina?».

Nella casa di piazza Fiume, al quartiere Salario, Veltroni ha la scrivania completamente ingombrata da un computer, peraltro incompatibile con la rete telematica dell'«Unità», il giornale che dirige. Quando Walter deve scrivere, si sistema quindi in sala da pranzo, sotto le grandi librerie cariche di libri, naturalmente, ma anche delle amate videocassette con i grandi film.

La sera di lunedì 27 luglio aspetta, dunque, che moglie e figlie siano andate a letto e comincia a scrivere alle 23. Finisce alle due e mezzo del mattino e impiega tanto tempo perché il discorso è molto impegnativo e perché ogni tanto Walter accende la Tv per vedere le partite dei mondiali di calcio, anche se l'Italia non è impegnata.

D'Alema, invece, dorme sonni tranquilli. Il suo discorso l'ha scritto addirittura il giorno prima. Domenica mattina ha mandato moglie e figli al mare al Circeo e s'è goduta la pace domestica alla scrivania. Un discorso, per il consiglio nazionale, avrebbe dovuto farlo. E allora se l'è trovato pronto per la direzione.

Mercoledì 29 luglio dinanzi alla direzione del Pds, dove vengono ratificate le due candidature da proporre al consiglio nazionale, si presentano due uomini uniti dall'amicizia delle mogli e dei figli e separati, più che da sette anni di età, da cultura, carattere, esperienze e visione del partito e della società.

Entrambi sono nati e cresciuti nel partito e spesso si sono sviluppati in modo parallelo. («Quando io ero segretario nazionale della Federazione giovanile comunista, Walter dirigeva la gioventù comunista romana» racconta D'Alema. «Quando io ero responsabile della propaganda, Walter dirigeva il settore della stampa.») Eppure, mentre D'Alema

208 209 guardava alla società con gli occhi del partito, Veltroni si sforzava di guardare al partito con gli occhi della società.

Al partito D'Alema si presenta sugli attenti a 13 anni, il 2 dicembre 1962, al congresso: non porta i baffi per ragioni d'età, ma colpiscono i suoi riccioli bruni sopra la divisa da «pioniere», mentre reca ai compagni il saluto della sua organizzazione e Togliatti lo applaude «come Leopoldo II d'Asburgo-Lorena applaudiva il piccolo Mozart», secondo il felice parallelo tracciato su «Panorama» da Fiamma Nirenstein. Alla Normale di Pisa la formazione marxista gli viene affinata da un «comunista pensoso» come Nicola Badaloni. («E l'unica vittoria della mia vita» gli dirà con gli occhi lucidi il vecchio filosofo subito dopo l'elezione del 1° luglio '94.) Ma il contatto con l'apparato awiene tra il '76 e 1'80 quando D'Alema dirige la Federazione giovanile comunista. Sono

anni intensi e talvolta terribili per l'Italia e per il Pci di Enrico Berlinguer. Dentro c'è di tutto: la nascita e la morte del compromesso storico, la contestazione di Lama all'Università di Roma a opera degli autonomi, l'occupazione militar-goliardica che gli stessi autonomi fanno dell'inviolabile Bologna, la denuncia drammatica del terrorismo da parte del Pci dopo l'assassinio di Guido Rossa, il sequestro e la morte di Moro, l'ascesa di Craxi e la rottura del patto tra De Martino e Berlinguer...

E dunque già un dirigente navigato quello che va a dirigere per alcuni anni la difficile federazione pugliese: qui trova il suo collegio elettorale e qui nasce il vezzo del «deputato di Gallipoli» (terra del futuro segretario dei Popolari, Rocco Buttiglione). Al congresso di Firenze dell'86, D'Alema si presenta con la fama di dirigente «duro e puro» che conosce bene l'acqua in cui nuota: tanto bene da saper alternare lo stile libero, nei momenti in cui serve lo scatto, alla rana, lo stile in cui il risultato è legato anche a una certa capacità di nuotare sott'acqua. Qui D'Alema si dice sottoposto alla «supervisione del superbaffo occhettista», come scrive Giampaolo Pansa, che del giovane responsabile dell'organizzazione del partito (il ruolo che consacra D'Alema come uomo d'apparato) scrive questo edificante ritratto: «Gerarchetto intelligente, intollerante, saccente, supponente, gelido, attento a non scomporsi mai, un giovane sughero ben piazzato nelle acque morte del centro del partito».

Ma della tutela di Occhetto, D'Alema deve imparare presto a fare a meno se nell'87 «Panorama» lo saluta con questo titolo: «D'Alema: sarò io il Massimo? E il giovane, potente

capo dell'apparato comunista, nemico di miglioristi e socialisti. Emancipatosi da Occhetto, ha già in mente il Pci del Duemila: la fotocopia di quello di Berlinguer». Il giornale insiste sulle similitudini tra il leader carismatico e il giovanissimo delfino. Aspetti caratteriali come la vita schiva, il modo di vestire sobrio, il sorriso non frequente (ma diventerà frequentissimo nella nuova strategia d'immagine successiva alla elezione alla segreteria). E al tempo stesso l'insistenza un po' ossessiva sulla «diversità comunista» - scrive «Panorama» nell'87 - «il disprezzo per chi non è d'accordo con lui, l'aria di chi ne sa di più e mette soggezione».

In realtà, dall'estate del '94, D'Alema sembra assai migliore della sua immagine. E se non esiste dirigente che dalla morte di Berlinguer in poi non se ne sia dichiarato emulo, c'è da aspettarsi, come ci dirà lui stesso, che D'Alema si giocherà la sua leadership proprio nella costruzione di un nuovo rapporto con i cattolici. Non nel condizionamento egemonico e consociativo che fu il frutto degli anni di Berlinguer, largamente sopravvissuto al compromesso storico, ma in una condizione reale di parità e, paradossalmente, con un occhio preferenziale proprio verso quell'area moderata del partito che negli ultimi giorni del luglio '94 ha portato Rocco Buttiglione alla guida del Partito popolare.

Walter? Si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci

Nonostante D'Alema, come abbiamo visto, ami presentare politicamente Veltroni come il fratello minore, le differenze tra i due cominciano proprio nell'approccio iniziale con la politica. Figlio del grande Vittorio, che mise in piedi negli anni Cinquanta la prima redazione radiocronache della Rai per

diventare il primo direttore del Tg alla nascita della televisione nel '54, Walter da ragazzo vuole fare il regista. E lascia

210

111

211 l'Istituto sperimentale di cinematografia per awicinarsi alla politica solo dopo una terribile nottata di incubi e mal di testa.

Fosse vivo, Giancarlo Pajetta ripeterebbe per lui la micidiale battuta inventata per Berlinguer: «Si iscrisse giovanissimo alla direzione del partito». Perché Walter è come quei giovani generali dalla carriera fulminante che hanno maturato i gradi senza muoversi dallo stato maggiore. La natura del giovanotto sta proprio in questo: il partito è un terminale della società e non viceversa. E che cosa produce di nuovo la società negli anni Ottanta quando il giovane Veltroni si occupa di stampa per il Bottegone? Produce la Fininvest e la lotta all'ultimo sangue tra il Biscione di Arcore e il Cavallo di viale Mazzini. Il giovane dirigente comunista capisce subito la posta in gioco. E merito suo se nell'87 il Pci entra a vele spiegate nella Rai conquistando Tg3, Rai Tre e una serie di posizioni di controllo e di potere molto ramificate e assai meno espugnabili di quelle conquistate nei decenni dai partiti di maggioranza. Ed è merito suo, soprattutto, aver capito prima degli altri quale influenza hanno esercitato certi programmi sui valori degli italiani. «I miei compagni» ama dire Veltroni «Sl affannano a cronometrare quanti secondi ci danno i Tg della Fininvest. Bisogna chiedersi invece come Dallas e Beautiful abbiano cambiato gli italiani.»

Se in uno scenario di fantapolitica Berlusconi piantasse tutto per tornare alla Fininvest e Veltroni piantasse tutto per mettersi sul mercato come cervello televisivo, il primo potrebbe affidargli tranquillamente la direzione di una delle sue reti. E se l'assunzione fosse invece compiuta dalla Rai, c'è da giurare che la prograrnmazione diretta da Veltroni sarebbe certamente più aperta di quella proposta negli ultimi anni da una rete, pur innovativa, come Rai Tre.

Nella sua piccola stanza di direttore dell'«Unità», Veltroni conserva manifesti di Bob Kennedy e di Anna Magnani. E attentissimo a tutte le oscillazioni sociali percepibili attraverso i sismografi del cinema americano, mentre i suoi compagni trascorrono intere giornate a discutere gli ordini del giorno di Francesco Maselli. Indossa le camicie Brooks Brothers, mentre non sarà certo con l'ortodosso D'Alema che lo stile di sartoria di Botteghe Oscure farun decollo irresistibile. E se Susanna Tamaro nell'estate del '94 sfonda le cinquecentomila copie con Va' dove ti porta il cuore, Veltroni tiene il libro sul comodino anche nelle inquiete notti del consiglio nazionale, laddove un uomo che pure guardava al futuro come Enrico Berlinguer teneva sorprendentemente sul suo tavolo di lavoro al congresso di Roma del '79 una copia ben gualcita e assimilata del saggio di Lenin sulla scuola.

Si arriva così al Consiglio nazionale che si tiene in una sede inedita, l'auditorium della Fiera di Roma, alle porte dell'Eur. Nel suo discorso, Veltroni awerte i compagni: «Noi vinceremo solo se saremo più moderni della destra». E per rintuzzare le accuse di «clintonismo», dice: «A me interessa la sinistra occidentale che cerca la difficile via del cambiamento». Lui riesce a mettere insieme a Clinton e a un presi-

dente assai meno controverso come Roosevelt, la sinistra di Palme e di Brandt, quella inglese di Blair e quella sudafricana di Mandela e, sopra tutti, «l'innovazione straordinaria con la quale Berlinguer cambiò il partito».

Così Veltroni si copre da tutte le parti. «Eppure ho parlato per dire quello che penso, non per convincere la platea» mi dirà più tardi. «Conosco bene i riti della comunità, le parole chiave del cerimoniale. Ma deliberatamente non ne ho fatto uso.» D'Alema sa che il punto debole dell'amico-awersario è proprio l'identità da dare al partito, identità nella quale la base si rannicchia proprio nei momenti difficili come questo. E dice con crudezza: «Io temo il prevalere di una concezione che ci spinge verso un appannamento della nostra identità, mossa dall'illusione che se si appanna questa identità sarà più facile convergere al centro. Temo il prevalere di una sorta di sinistra elettorale, d'opinione, non costruita nella società e negli interessi. Una sinistra che rischierebbe di lasciare senza rappresentanza le forze sociali, del lavoro, spingendo il nostro mondo nel settarismo e nella subalternità».

Queste parole, probabilmente, suoneranno decisive. La notte tra il giovedì e il venerdì del voto trascorre tranquilla ai due capi di Roma dove abitano Veltroni e D'Alema. Flavia Veltroni partecipa all'attesa del marito con affettuosa premura, ma senza esagerare. «Non dovrei essere più teso, più coinvolto?» si chiede Veltroni. «Non è che un giorno rni verrà una brutta malattia e mi spiegheranno che è dovuta a forti tensioni non scaricate al momento giusto?» Dettosi questo, il direttore dell'«Unità» se ne va in sala da pranzo a scrivere il discorso di replica, convinto di non avere nulla da rimprove-

rarsi. «Comunque andrà, andrà bene.»

Fra Trastevere e il Portuense, dove abita D'Alema, l'atmosfera è più o meno la stessa. Mentre Massimo scrive la sua replica («Stavolta deve essere concisa, non basta una scaletta»), la moglie, che insegna all'università, prepara la relazione per un convegno di storici.

L'indomani, primo giorno di luglio, «l'Unità», che ha fatto sforzi ammirevoli per non tradire la doverosa simpatia per il proprio direttore, dà l'apertura alla crisi della Rai. «Si dimettono i professori. Il governo occupa la Rai.» Il titolo sul consiglio nazionale è nella parte bassa della pagina (Veltroni o D'Alerna? Oggi si vota), arricchito da una foto in cui zio Walter e zio Massimo, per dirla con le loro figlie, si stringono la mano sorridendo.

In un paio d'ore si consuma il rito. Le repliche, il voto, una maggioranza per D'Alema superiore a ogni attesa.

Veltroni siede pallidissimo in prima fila. Cerca di sorridere, ma sul momento la botta è forte. «Che cosa c'è di più bello che dirigere un giornale?» gli dico cercando d'incoraggiarlo. Poi accompagno D'Alema alle Botteghe Oscure perché alla Fiera di Roma è impossibile fare due chiacchiere in pace. («Guarda che casino. Questo è il Pds, non il vecchio Partito comunista italiano» mi dice il nuovo segretario con una battuta che nasconde convinzioni profonde.)

«La vittoria di Massimo? Sta in questa borsa...»

Al Bottegone saliamo in terrazza. Il panorama di Roma è

straordinario, ma il luogo mi pare poco utilizzato. «Vedi questi mattoni?» dice D'Alema. «Stanno qui dal '56. Li utilizzarono i nostri compagni quando il palazzo fu attaccato dai fascisti dopo i fatti d'Ungheria. Durante la grande nevicata di quell'anno, queste pile di mattoni furono sommerse e ogni tanto qualcuno andava a batterci.»

D'Alema si china: «Guarda, ci sono nate delle piantine, intorno».

Si rialza e mormora, quasi a dare con una battuta il senso di una svolta annunciata: «Li faremo rimuovere, questi mattoni».

Poco fa, uscendo dalla Fiera di Roma, uno dei funzionari della segreteria del partito, dalemiano di ferro, mi ha detto mostrandomi una borsa nera: «La vedi questa? Sta tutto qui dentro. Tutto che? La vittoria di Massimo. Tutta la strategia d'attacco per la conquista della segreteria. Voto dopo voto. Hai sentito la replica? Massimo ha fatto un discorso da statista. Hai capito? Da statista. Veltroni? Parla troppo di America, di televisione... Sai in quanti l'hanno lasciato al momento del voto? Una settantina...».

Eppure D'Alema nega di essere stato eletto dall'apparato: «Che garanzie vuoi che dia il segretario ai funzionari del partito, oltre allo stipendio? No, nel nostro consiglio nazionale ci sono più professori universitari che segretari di federazione. Non è stato un voto dell'apparato, ma di un organismo dirigente. E un concetto molto più complesso». (Diverso è il parere di Veltroni: «Sapevo che in consiglio nazionale

avrei perso. E un organismo formatosi nel '91 sulla base delle vecchie mozioni: Ingrao e Tortorella da una parte con i comunisti democratici, Napolitano e Macaluso dall'altra con i riformisti. Bassolino per conto suo... Il voto è stato frutto di questi schieramenti e di questa logica. Un voto di autoprotezione dell'apparato? Non credo. Eleggendo D'Alema, il consiglio nazionale ha voluto garantire una strutturazione del partito maggiore di quella che avrei potuto offrire io. Ma è difficile immaginare che il Pds possa arroccarsi su se stes-

so».)

Osserva D'Alema: «Nei miei confronti c'era prevenzione, una sensazione di chiusura. Qualcuno diceva, anche tra i compagni, che sono un trinariciuto. Poi hanno ascoltato i miei discorsi e si sono ricreduti in molti. Hanno visto che insistevo sulla volontà di cambiare, di innovare. Molti sono venuti da me e mi hanno detto: mi hai convinto. Uno dei rniei invece, mi ha detto che non mi avrebbe votato: non gli è piaciuta la mia posizione sulla scuola, là dove dico che bisogna pensare a un sistema pubblico del quale possano far parte anche le scuole religiose».

Parla di due amministratori delegati per il partito e mi dice che, se Veltroni vuole, può fargli da vicesegretario anche conservando la direzione dell'«Unità».

Veltroni sente la notizia al Tgl delle 20, mentre ha un dito intinto in un enorme barattolo di Nutella regalatogli come premio di consolazione dai suoi compagni di lavoro all'«Unità». E arrivato al giornale nel primo pomeriggio dopo aver pranzato a casa con le bambine per tranquillizzarle

sulle vacanze: «Zio Massimo ci consente di andare al mare».

Poi si trasferisce nella galleria di via Due Macelli. «Convoco tutti nella stanza delle riunioni. Assumo un aspetto molto grave e tirato. I miei colleghi mi guardano preoccupati. Qualcuno pensa che la botta per me sia stata più forte del previsto. Quando ci son tutti, comincio a parlare: debbo comunicarvi una decisione molto grave... tiro fuori di tasca un tovagliolo e me lo annodo al collo. Avevo scommesso con la redazione una cena per ciascun redattore sul fatto che non sarei stato eletto. E adesso avevo la ferma intenzione di farmela pagare.»

Nel fine settimana, D'Alema corre al mare nel suo collegio pugliese di Gallipoli, mentre Veltroni si accontenta della piscina del Circolo dei deputati.

Il lunedì nella sede dell'«Unità» si presenta D'Alema. Si chiude per un'ora nella stanza del direttore e propone a Veltroni la vicesegreteria o qualunque altra cosa voglia fare. Mentre Simonetta, che divide con Patrizia la cura della segreteria di Veltroni, porta due caffè, il giovane direttore ringrazia e dice che «l'Unità» gli basta e gli avanza per costruire la coalizione dei democratici, una sorta di centro-sinistra radicalmente rinnovato a cui pensa da tempo. D'Alema accetta la decisione di Veltroni e dice di condividere la linea politica che il direttore vuole dare al giornale. I due si promettono rinnovata lealtà, affermano che nessuno dei due farà a meno dell'altro e passano nella stanza della redazione politica per un brindisi generale.

Lo sforzo che si propone Massimo D'Alema è gigantesco: andare incontro al centro moderato con l'orgoglio del passato comunista e la piena rivendicazione delle scelte compiute dal Pds.

«Che cosa è cambiato nel passaggio dal Pci al Pds? E cambiata la forma-partito, anche con effetti negativi. La nostra vita interna è mutata radicalmente col passaggio dal centralismo democratico alla divisione in correnti. La scissione non è stata cosa da poco: ci ha portato via uno zoccolo duro che aveva una sua forza morale e l'orgoglio della militanza, ma rappresentava anche un freno all'innovazione politica. Per queStO Occhetto non si è fermato. C'è stato poi un cambiamento di cultura politica su un punto centrale. Il Pci era un partito proporzionalista e centralista. Il Pds è stato uno dei motori del referendum e - attraverso il referendum - del sistema politico italiano. Abbiamo fatto da supporto a Segni che senza di noi non avrebbe vinto.»

«Venne Segni a dirmi: non ce la facciamo»

«Tra l'autunno dell'89 e l'inizio del '90,» testimonia Occhetto nel nostro incontro «mentre nel Pci infuria la battaglia sul nome e sulla identità della formazione politica che avrebbe dovuto prenderne il posto, incontro Mario Segni per vedere se possiamo dargli una mano nella raccolta delle firme per il referendum. Gli dico: "Mario, la nostra è una tradizione proporzionalista, ma qui sta awenendo un terremoto politico; non so che cosa succederà, ma noi ti daremo una mano perché non ha senso cambiare la struttura del nostro partito, senza cambiare il sistema politico italiano".

Un anno dopo, quando la raccolta di firme ristagna, Segni torna da me con Scoppola e Ciccardini e mi dice: "Non ce la facciamo". Lo incoraggio, gli dico che il nostro impegno sarà rafforzato. Per questa continua azione comune, credo che rimarrà storica l'immagine del giorno della vittoria, quando un uomo moderato e di destra come Segni esce dalla sede del movimento referendario di largo del Nazareno sottobraccio a un uomo di sinistra come me, per awiarci insieme a fare la conferenza stampa sotto lo sguardo delle televisioni di tutto il mondo.»

«Siamo stati, dunque, il primo grande partito popolare che si è avviato decisamente verso il cambiamento» riprende D'Alema. «Era matura la base per questa svolta? Sì, dopo lo shock iniziale, il cambiamento è stato largamente compreso.»

D'Alema spiega così le sconfitte elettorali della primavera '94: «Non ci siamo resi conto del fatto che il crollo del vecchio sistema non eliminava il peso determinante del centro politico e sociale del paese. E invece, sia pur presentandosi in forme diverse, il centro è ancora l'ago della bilancia del sistema politico italiano. Ci siamo illusi dopo le elezioni dei sindaci nell'autunno del '93 che il centro fosse ormai definitivamente fuori gioco e che la partita fosse ormai ridotta a un confronto tra la destra e la sinistra. La novità dell'ingresso in politica di Berlusconi non sta solo nel suo ruolo di imprenditore televisivo e nell'uso che ha fatto delle Tv in campagna elettorale. Sta soprattutto nel fatto che ha colto al volo la disponibilità di una parte del vecchio centro di rendersi disponibile a una alleanza con la destra. Quando Berlusconi ha fatto questa operazione, l'alleanza dei progressisti avrebbe dovuto ri-

spondere aprendosi al centro democratico. Ma dinanzi alla profondità della crisi italiana, la nostra risposta è stata insufficiente. La nostra sconfitta riflette in modo speculare quella di Segni e Martinazzoli: hanno perso perché riproporre semplicemente la centralità del moderatismo cattolico è ormai insufficiente. Dobbiamo riconoscerlo con franchezza: l'unico elemento dawero innovativo della politica italiana negli ultimi tempi è stata l'intuizione di Berlusconi di far nascere intorno a Forza Italia una grande rappresentanza di destra di tipo europeo. Noi, eredi della vecchia sinistra politica, di fatto non proponevamo novità».

«E vero,» ammette Veltroni «abbiamo sottovalutato la possibilità che il centro si ricomponesse sotto le bandiere di Berlusconi e potesse allearsi con la destra. Nell'euforia della vittoria autunnale nelle grandi città, non abbiamo capito le dimensioni di quello che fin da allora si manifestava come un enorme fatto nuovo: i moderati erano pronti a votare per Fini e Alessandra Mussolini pur di non votare per noi. L'altra ragione per cui abbiamo perso nelle elezioni primaverili del ~94 è che siamo apparsi uno schieramento "contro". Berlusconi parlava di prospettive in positivo, noi di prospettive in negativo. Il Cavaliere è stato molto abile su due fronti. Da un lato, ha saputo tenere insieme due cavalli, come Lega e Alleanza nazionale, che marciavano in direzioni opposte. Dall'altro, tastando il polso al paese, ha capito che, dopo due anni di recessione, di Tangentopoli, di terremoto politico-istituzionale, la gente aveva una gran voglia di venirne fuori. E lui ha costruito un ponte di promesse e di illusioni per portare l'elettore moderato lontano dal fiume in piena. Il nostro errore? Tentare di abbattere il ponte di Berlusconi invece di costruirne noi uno più solido e più credibile. Il suo capolavo-

ro? Far passare la destra per innovatrice e la sinistra per conservatrice. E presentarsi, lui che viene dal vecchio, come il campione del nuovo.»

E, adesso, quale partito intendono costruire il «comunista» D'Alema e l'«americano» Veltroni? Entrambi convengono che non si possono vincere elezioni senza i voti del centro moderato di Buttiglione e degli scontenti dell'attuale maggioranza di governo.

«La sinistra» dice Veltroni «è chiamata a fare scelte strategiche senza le ambiguità che hanno caratterizzato la campagna elettorale. Nuove alleanze con Rifondazione comunista? Le nostre alleanze avranno tante anime, ma con Rifondazione mi pare che siamo arrivati a una tale differenza... A mio giudizio dovremo muoverci su tre dimensioni. 1. Il Pds deve diventare un partito dinamico, aperto, consapevole di non essere tutta la sinistra italiana. 2. Il Polo progressista deve avere una sua caratura autonoma: basta con i cespugli all'ombra della Quercia. 3. E indispensabile guardare a un centro che parta da Ciampi per arrivare fino ai cattolici. Quali cattolici? Tu mi chiedi se Prodi e Mattarella, Rosy Bindi e Tina Anselmi siano sufficienti per vincere le elezioni. Con questi l'alleanza è più facile, ma dobbiamo andare a cercare altri voti a destra. Perché a destra non c'è andata soltanto gente di destra. Ci sono andati tanti moderati che si son sentiti costretti a compiere questa scelta...»

Sia Veltroni che D'Alema contano di giocare la carta moderata fin dal primo appuntamento elettorale. Ed entrambi ritengono che la coalizione dei democratici «destinata a pren-

dere immediatamente il posto della vecchia alleanza dei progressisti» non debba essere guidata dal segretario del Pds.

Su questo dissente Occhetto per orgoglio di appartenenza: «Non è detto che il leader della nuova alleanza debba essere il segretario del Pds. Ma perché escluderlo pregiudizialmente?».

Sui rapporti con Rifondazione, D'Alema è più sfumato di Veltroni, ma ugualmente chiaro se si va appena oltre le parole: «E evidente che la coalizione dei democratici debba andare ben al di là dell'alleanza dei progressisti. E leader non deve esserne il segretario del Pds, né il segretario di qualunque altro partito. La scelta del leader, che alle prossime elezioni politiche intendiamo proporre come primo ministro, va fatta attraverso elezioni primarie. Con lo stesso criterio dovrà avvenire la selezione dei candidati, senza le lottizzazioni che si sono avute anche da noi».

«Cacciari? E chi è, Pico della Mirandola?»

La linea dell'apertura a tutto campo è sposata in pieno da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia e professore di Estetica all'università, che una parte molto consistente dell'elettorato di sinistra vede come l'uomo nuovo capace di abbattere i vecchi steccati. Cacciari nasconde benissimo i suoi cinquant'anni nella fluente cornice di lunga capigliatura e barba nerissima, centrata da intensi occhi grigi. Per questo piace alle donne, ma è riuscito a restare celibe, e nessuno ormai si scandalizza più se lo vede preferire una conferenza ai domenicani di Firenze il venerdì sera in cui dovrebbe chiudere la campagna elettorale a Venezia o salire in ritiro sul monte

Athos a scrivere in cella un capitolo delle Icone della legge sotto lo sguardo diffidente dei monaci. E stato deputato del Pci per due legislature tra il '76 e 1'83, in tempo per occuparsi di chimica procurandosi l'arnmirata attenzione degli economisti ufficiali di Botteghe Oscure e la dispettosa ironia di Napoleone Colajanni che nel maggio del '94 ha dichiarato

«Espresso»: «Come si fa a sapere di chimica, scrivere di filosofia, comporre libretti d'opera e capire di politica? E chi è, Pico della Mirandola?». Ignaro che il paragone può sembrare perfino riduttivo all'onnisciente sindaco di Venezia. In gioventù Cacciari ha avuto Toni Negri come compagno d'avventura politica, ha militato in Potere operaio e deliziato gli operai del Petrolchimico di Marghera con tazebao zeppi di citazioni di Marx in tedesco. Oggi prova a gestire la città più bella-e-impossibile del mondo con un certo realismo, ma è evidente che i suoi interessi vanno assai oltre la Laguna. Tanto è vero che nel grande studio di Ca' Farsetti dove mi riceve il pomeriggio del 16 luglio in cui Venezia festeggia il Redentore, vedo molte copie della «Repubblica» ma non c'è ombra del «Gazzettino».

Cacciari parla con passione dei problemi di Venezia («Porto Marghera ne ha tre volte quelli di Bagnoli») e guida la rivolta dei sindaci contro i lacci e i lacciuoli della burocrazia. («Perché debbo sottoporre i fanghi dei canali da dragare a cento analisi diverse, quando sappiamo benissimo che a Venezia non troveremo l'uranio arricchito?»)

Ma, mentre in anticamera il presidente delle Ferrovie Lorenzo Necci lo aspetta per proporgli lo spostamento della

stazione di Santa Lucia alla stazione marittima, Cacciari s'illumina quando gli chiedi lumi sul futuro politico della sinistra: «D'Alema è un uomo intelligente. O cambia tutto o si rassegna a gestire una rendita di soprawivenza. Il Pds deve far germogliare una nuova e più vasta alleanza, mantenendo ben distinta la forma partito dalla coalizione e dismettendo ogni pretesa egemonica. La sinistra ha vinto nei comuni importanti come Venezia perché qui abbiamo impiegato tre mesi per spiegare alla gente il nostro programma, mentre al centro non s'è fatto niente del genere e le candidature sono state scelte seguendo le peggiori tradizioni del centralismo democratico. La sinistra ha confuso questioni numeriche e questioni politiche. La partecipazione dei cattolici democratici alla costruzione di un programma è fondamentale per ragioni ideali e politiche indipendenti dal loro peso numerico. E invece siamo tornati alle alleanze di togliattiana memoria, strumentali e senza alcun fermento culturale che le giustificasse.

220 221 La sinistra non è stata finora capace di fare un discorso approfondito su questo papato, sul cattolicesimo di oggi, sulla Chiesa di oggi. Tutto si vede in termini di rapporti tra partiti politici. Nessuno di noi si chiede che cosa voglia dire essere cattolico oggi. Chi si interroga, qui nel Veneto, sulle ragioni per cui si è passati, nella città di Padova, dal 55 per cento di voti alla Dc al 55 per cento di voti a Forza Italia che ha fatto eleggere deputato Emma Bonino? La Bonino, ha capito? La protagonista delle battaglie più clamorose in favore del divorzio e dell'aborto. Che diavolo sta succedendo? O si mette mano subito alla situazione pensando a un leader di coalizione che non sia il leader di un partito, oppure Berlusconi

resterà al potere per tutta la vita».

Si accendono gli occhi grigi di Massimo Cacciari. Dal Canal Grande salgono le note strazianti di O sole mío... da quattro gondole affiancate e gremite di giapponesi immobili che hanno ormai perso conoscenza cotti dal sole a quaranta gradi e dalle stonature del gondoliere. Cacciari mi accompagna alla porta e, mentre faccio staffetta con Necci, il sindaco mormora: «Dubito che D'Alema possa accettare un ruolo residuale. Sulla sua elezione hanno pesato le preoccupazioni dell'apparato. Ma anche Gorbaciov fu eletto per ragioni di continuità e poi ha fatto quel che ha fatto. Nella storia ci sono destini ai quali non si può sfuggire...».

VII

Un filosofo tra i Popolari

«Il capofamiglia è morto, la vedova vuole che tutto rimanga come l'ha lasciato la buonanima. Non si pagano debiti, non si fanno acquisti, non si spostano mobili. Qualcuno pensa che per far nascere il nuovo Partito popolare sia stato sufficiente che la sinistra abbia espulso una parte del vecchio. E invece se vogliamo rinnovarci dawero, tutti quanti - sinistra compresa - dobbiamo cambiare pelle. E per cambiare pelle il partito ha bisogno di una guida. Chi? Io, per esempio.»

E una mattina di maggio e al telefono Rocco Buttiglione parla, si diceva una volta, come un libro stampato. Da uno che di mestiere fa il filosofo, ci si aspetta di tutto. E invece il fratello minore di Angela (per anni si è sentito additare così)

si esprime con sorprendente chiarezza e con una velocità di esposizione che farebbe impallidire Sandro Ciotti. Tanto che la penna corre sul taccuino in rassegnato ritardo sulla lucida esposizione del professore.

L'avevo incontrato una sola volta, nei camerini di Maurizio Costanzo. Era venuto per fare un «Uno contro tutti» preelettorale.

«Come va?» gli avevo chiesto. «Siamo in recupero» aveva risposto. «Ben per voi. Perché tutti parlano bene del Ppi, ma sento poca gente disposta a votarlo. Non c'è il rischio che finiate come il Partito d'Azione, fatto di gente molto per bene, ma così piccolo da non avere nessun rilievo politico?»

Buttiglione aveva scosso la testa con un sorriso ottimista, guadagnando la scena di Costanzo. Ma in cuor suo sapeva che sarebbe andata come è andata. E adesso, già prima delle elezioni europee, espone con micidiale chiarezza il suo piano di battaglia.

«Sarà già molto se riusciremo a introdurre le elezioni a doppio turno, ma in ogni caso il centro statico non può esistere. Il Partito popolare è molto più grande dei suoi deputati. Se Ppi e Patto per l'Italia si fossero presentati dall'una o dall'altra parte, avrebbero avuto 120/130 deputati decisivi per il destino di questo paese. Con sei milioni di voti e 46 deputati, ogni deputato c'è costato 120/130 mila voti. La Lega ha avuto tre milioni di voti, la metà dei nostri, e centoventidue deputati. Sbaglia chi dice che si sacrifica l'identità del partito appoggiandosi ad una aggregazione. E la cultura del partito, la sua storia a garantirne l'identità.»

E così il professore ha liquidato il primo dei tre pregiudizi che a suo awiso frenano il nuovo partito popolare: la cultura della proporzionale, «la cultura per la quale si era abituati prima a prendere voti e solo dopo a decidere cosa farne».

Ne restano altri due. «C'è la cultura del keinesismo italiano» dice Buttiglione. «L'idea che al deficit di offerta di lavoro si faccia fronte con una offerta aggiuntiva dello Stato e che al deficit di solidarietà del sistema e della società più civile si faccia fronte allo stesso modo.

E invece lo Stato che deve stimolare le imprese a dare lavoro a tutti stabilendo un circuito virtuoso tra Stato, sistema del le famiglie della società civile e individui per creare solidarietà. La scenetta classica è quella dell'elettore che dice al deputato: "Ho votato sempre per lei, non le ho mai chiesto niente, trovi un lavoro a mio figlio". Si costringe il deputato a gestire il problema socialmente (creare un nuovo posto di lavoro) e in maniera clientelare (salvare il proprio posto in Parlamento). Invece il discorso dovrebbe essere il seguente: "Caro onorevole, molti giovani, tra cui mio figlio, non trovano lavoro. Che cosa fa il sistema delle imprese per produrre nuovi posti?". Berlusconi sostiene le stesse cose? Io non ho mai detto che non possa dirle, ma non è vero queste cose le abbia dette tutte lui e non è vero che le abbia dette per primo.»

Il terzo complesso che secondo Buttiglione i Popolari dovrebbero scrollarsi di dosso è la cultura dell'unità antifascista.

«Il fascismo» dice il professore, senza nemmeno conceder-

si una boccata al toscano che deve pur avere da qualche parte, «è stato a lungo dipinto come il male metafisico. L'antifascismo era il bene metafisico. Il comunismo è antifascista ed è quindi buono in quanto tale. L'orizzonte politico italiano è stato dominato a lungo dalla sintesi di tutte le forze antifasciste. Il comunismo superato dialetticamente, ma non rinnegato, è un concetto della cultura azionista che ha molto influenzato la cultura democristiana. I partiti del Cln, come detentori della legittimità antifascista, hanno esercitato una tutela sulla società italiana perché questa ha accettato o comunque ha subìto il fascismo. Al contrario, il comunismo non si lascia assorbire in nessuna sintesi ulteriore, ma si dissolve davanti a una resistenza. Oggi la società civile non accetta più la tutela e il fascismo va rifiutato con motivazioni diverse. L'antifascismo dei cattolici è diventato l'antifascismo della Costituzione come rifiuto del mito della violenza e della forza e come affermazione del primato della persona, dei diritti naturali e delle società naturali che precedono lo Stato. Questo non è solo antifascismo. E antitotalitarismo e quindi anche anticomunismo, pur se è vero che in Italia la forma totalitaria riuscita ad affermarsi è stata il fascismo. Noi dobbiamo dunque portare Alleanza nazionale e fare i conti con il proprio passato e a rompere con il fascismo. Dobbiamo impedire che Alleanza nazionale finisca per trasformare il mito antifascista in un rilancio oggettivo del fascismo. Il fascismo non è un male metafisico, ma è un male storico.»

«Berlusconi? Portiamolo al centro~

Rocco Buttiglione adesso fa una pausa, sento attraverso la cornetta che finalmente dà soddisfazione al suo frustratissimo mezzo toscano e passa alle conclusioni politiche.

«Noi dobbiamo organizzare un'area moderata. A chi ci accusa di volerci spostare a destra, rispondo che noi siamo il centro e che se facciamo una aggregazione moderata, la fondiamo sui contenuti del centro. E vero, siamo divisi sul giudizio su Forza Italia. Alcuni di noi dicono che Berlusconi rappresenta una destra pericolosa. Io invece considero il movimento di Berlusconi una aggregazione di centro che è andata a destra. Sbagliando. Lui ha avuto una vittoria numerica, ma gli sarà molto difficile ottenere una vittoria politica. Noi dobbiamo lavorare per permettergli di ritornare al centro.»

Poi assesta una botta alla sinistra del suo partito: «Gramsci diceva che esiste il cadornismo politico: si verifica quando i capi portano i loro soldati a fare battaglie che sono perse in partenza. E invece i capi debbono essere consapevoli della fatica e dei sacrifici che chiedono a quelli che seguono. E debbono stare attenti a non rompere il vincolo di disciplina. No, la rnia non è una minaccia di scissione. Sono nato in una famiglia di militari che hanno servito per disciplina anche nelle guerre che non condividevano. Si deve seguire anche Cadorna? I miei mi hanno insegnato a seguire la bandiera. Io rispetterei chi tra noi dicesse che bisogna schierarsi con la sinistra. Ma finora non l'ha fatto nessuno e comunque sarebbe sbagliato. Le ragioni? Il nostro è un elettorato moderato e difficilmente ci seguirebbe. Per andare a sinistra dovremmo avere una maggioranza molto forte, molto unita e compiere una scelta unitaria: noi siamo l'esatto contrario. Eppoi non faremmo gli interessi del paese. In futuro dovranno nascere due poli, uno fondato su una sinistra moderata, l'altro sul

centro. Se noi siamo il centro, non possiamo andare a sinistra. Dobbiamo invece aiutare Alleanza democratica e una parte del Pds a costruire una sinistra di governo».

E intanto propone di allearsi con Fini e Berlusconi per combattere il federalismo della Lega, con Bossi e Berlusconi per favorire una definitiva revisione del fascismo da parte di Fini e infine con Fini e Bossi per togliere un po' di potere televisivo al presidente del Consiglio.

Questo mi dice Rocco Buttiglione, professore di filosofia nell'ateneo di Teramo e prorettore dell'Università del Lichtenstein, in una bella mattinata di maggio. Rosetta Jervolino regge il Ppi con Mancino, Andreatta e la sinistra del partito. Occhetto è ancora segretario del Pds.

Mancano ancora due mesi all'elezione di D'Alema, tre a quella di Buttiglione e poco più al famoso «vertice del limoncello» tenuto in agosto dai due capi dell'opposizione sulla spiaggia di Gallipoli e replicato in settembre alla festa di «Cuore» con tanta intensità da far ingelosire Bertinotti.

Ma prima di scrivere le puntate successive, dobbiamo ricordare rapidamente quelle precedenti.

«Cavaliere, la politica non si fa con il pallottoliere.» Così nell'autunno del '93 Mino Martinazzoli si congeda da Silvio Berlusconi dopo il dessert fatto servire da Gianni Letta nella sua casa della Camilluccia.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, Martinazzoli non ha mai realmente considerato Berlusconi un possibile part-

ner politico. Li divide tutto: la formazione culturale e le regole di vita, il modo di pensare e quello di esprimersi. Li divide soprattutto, alla fine del '93, la valutazione sullo scenario politico che si aprirà con le elezioni politiche di primavera. Berlusconi, come sappiamo, parla a tutti in modo ossessivo del «modello Urbani»: se i moderati d'ogni confessione non lavorano insieme, le sinistre con un terzo dei voti prenderanno due terzi dei seggi nel nuovo Parlamento.

Martinazzoli è per vocazione un uomo di centro che guarda (volentieri) a sinistra. E convinto che le sinistre vinceranno. Ma è convintissimo che senza l'appoggio suo e di Mariotto Segni nessun governo sarà mai possibile. Il recuperato rapporto con Segni lo fa ben sperare. D'altra parte, come abbiamo visto nel capitolo iniziale, non ha portato avanti il discorso sulle alleanze perché giudica improponibile un patto con Fini e non realistico quello con un Bossi che ha fatto della crociata anti-Dc le fondamenta politiche della Lega. Dunque, alleanza obbligata con Segni e solo con Segni.

L'aeroplanino di Segni lascia la Dc

Paragoniamo per un momento il Patto Segni a uno di quegli aerei-giocattolo telecomandati da terra dall'irrequieto deputato di Sassari. La sua spettacolare esibizione sui tetti di Roma è durata esattamente sei mesi ed è stata seguita col fiato in gola da tutto il mondo politico. Mariotto ha fatto decollare il suo aeroplanino all'improwiso il 29 marzo 1993 da piazza del Gesù, sede centrale della Dc, dove era rimasto parcheg-

226

227 giato - seppure con qualche inquietudine - per diciassette anni. «Il drammatico accelerarsi della crisi, soprattutto in questi ultimi giorni, mi ha definitivamente convinto che il tentativo di riformare dall'interno questo partito è senza alcuna speranza... Non posso lasciare il dubbio che una vittoria del Sì possa contribuire in qualche modo a rafforzare i vecchi apparati.»

Il congedo viene vissuto da Martinazzoli come una pugnalata, proprio nei giorni in cui la Dc vive il momento più difficile della sua storia: alla legione degli inquisiti, s'è infatti da poche ore aggiunto uno degli uomini simbolo del partito, Giulio Andreotti, accusato dai giudici di Palermo di collusioni con la mafia.

Il decollo da piazza del Gesù viene salutato con il gelo dai partiti di governo («Ha propagandato sotto l'etichetta del modernismo vecchia merce già venduta dal padre» annota perfido il socialista Ugo Intini) e con entusiasmo da sinistra («E il fenomeno politico più rilevante degli ultimi anniscrive «l'Unità»).

Pochi giorni dopo, il 18 aprile, Segni polverizza i risultati già eccellenti conquistati il 9 giugno del '91 quando passò a grande maggioranza la proposta di preferenza unica contro il parere di Craxi che aveva invitato (incautamente) gli italiani ad andarsene al mare. I risultati del referendum per l'introduzione al Senato del sistema maggioritario sono trionfali. Segni è l'eroe nazionale. Cossiga va negli Stati Uniti a spiegare che in Italia dovrà nascere sulle ceneri della Dc una grande coalizione moderata, mentre a piazza del Gesù quasi

nessuno crede alla possibilità di un accordo con Lega e Msi e Occhetto, impazzito di gioia, grida alla folla progressista: «Clintoniani d'Italia, unitevi!».

Il segretario del Pds segue l'evoluzione dell'aeroplanino di Segni, convinto che prima o poi verrà ad atterrare nei pressi del Bottegone. Alleanza democratica, infatti, il raggruppamento politico pieno d'ideali ma anche di ambiguità nel quale Mariotto si trova con il pidiessino referendario Augusto Barbera e con Ferdinando Adornato, cucciolo diletto di Eugenio Scalfari, pende infatti più a sinistra che al centro. Ma il 28 settembre arriva un nuovo colpo d'ala: proprio quando sta planando verso il Bottegone, l'aeroplanino di Mariotto vi-

~ra bruscamente all'altezza del tappezziere Paganini e torna indietro. Occhetto poggia irritato il binocolo e dichiara: «Segni è la copertura di un Centro assai poco edificabile».

~a Mariotto non si perde d'animo: lasciato Occhetto, trova sulla sua strada Montanelli che gli mette a disposizione «il Giornale» e soprattutto la sua indiscutibile autorità sui rnoderati italiani per farne un vero leader aiutandolo a raccogliere il milione di firme che a Segni serve per dimostrare che le sue legioni non sono fatte, come quelle del Papa, di solo spirito.

Così, quando Martinazzoli rifiuta le offerte di Berlusconi, gli italiani moderati che ignorano i disegni del Cavaliere sognano Mariotto presidente del Consiglio.

Tra il novembre e il dicembre del '93, nel giro di presenta-

zioni di Telecamera con vista, incontro soprattutto nel Veneto ex democristiano molti imprenditori e professionisti che hanno votato Lega, ma si dichiarano pronti ad abbandonare Bossi se al Centro Segni riuscirà a costruire qualcosa di solido. (Come è noto, voteranno per Berlusconi.)

A Martinazzoli, intanto, il simbolo della Dc comincia a pesare. Subito dopo il referendum di aprile, il segretario ha annunciato l'intenzione di rifondare in tempi brevi il Partito popolare di Sturzo. Ma i mesi passano e diventa sempre più difficile portare nella nuova formazione politica, pure depurata delle facce giudicate impresentabili, tutte le «componenti ideali» della vecchia Dc.

«Martinazzoli lavora per un governo Prodi»

All'inizio di dicembre, Martinazzoli riceve a piazza del Gesù quattro dirigenti dell'ala moderata del partito: Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella, Francesco d'Onofrio, Ombretta Fumagalli Carulli.

«Siamo preoccupati per la linea politica della segreteria» racconta Casini. «Manifestiamo a Martinazzoli il nostro timore che il futuro Partito popolare e il governo Ciampi si facciano mallevadori di un governo delle sinistre. Il segretario cerca di tranquillizzarci, ma noi restiamo convinti che si lavori per un governo Prodi o un Ciampibis aperti a sinistra.»

Casini afferma che le preoccupazioni del suo gruppo sono soltanto di tipo politico. «Il bipolarismo è ormai indispensabile. Eppoi Martinazzoli s'era impegnato a cedere il posto a Buttiglione e non l'ha fatto.»

Racconta Martinazzoli: «Quell'incontro awiene in un clima turbato da awenimenti maturati nelle due settimane precedenti. Casini e i suoi avevano presentato ai gruppi parlamentari un documento in disaccordo con la linea della segreteria. Gerardo Bianco, capogruppo alla Camera, scrisse allora un suo documento per fissare la rotta politica da seguire fino alle elezioni. Il documento di Bianco fu approvato a larga maggioranza. Il gruppo di Casini votò contro e nei giorni successivi ignorò la linea dettata da Bianco. Incontrarono anche altre forze politiche discutendo del loro documento, tant'è vero che telefonai a D'Onofrio per lamentarmi. Quando lo ricevo a piazza del Gesù, Casini e gli altri mi invitano a correggere la linea stabilita dal partito nella costituente del luglio precedente e ad allearci con la Lega e Forza Italia. Rispondo di no. Casini mi abbraccia e vanno via».

Il segretario non si rassegna e fa scendere in campo tre autorevoli capi storici della Dc: Forlani cerca di convincere Casini a restare nella casa madre, De Mita esercita pressioni su Mastella, Cossiga awicina il suo pupillo D'Onofrio.

Racconta ancora Casini: «Preghiamo Cossiga di fare da testimone del nostro travaglio, di verificare che andiamo verso la scissione non per le solite bizze interne di partito, ma per ragioni politiche. Cossiga va a trovare Martinazzoli a Brescia per proporgli di fare il leader di uno schieramento moderato da contrapporre al cartello dei progressisti. Al ritorno, ci dice di aver ascoltato molte belle parole, ma di aver constatato che la differenza che ci separa è incolmabile».

«Cossiga parla anche a me del suo tentativo,» testimonia Ciriaco De Mita «ma non ho mai capito se si è mosso per evitare la scissione o per accelerarla. Nel tardo autunno del '93, nei gruppi parlamentari democristiani c'è molta angoscia per le condizioni del partito e si sviluppa un forte risentimento contro Martinazzoli la cui direzione peraltro è assolutamente disastrosa. C'è una frustrazione diffusa. Molti parlamentari non si sentono rappresentati e diventa fortissima la tentazione di dar vita a un corpo distinto. In novembre, d'accordo col segretario, cerco di ridurre il numero di firme che stanno raccogliendosi nella fronda e cerco di alleggerire la formidabile pressione degli scontenti sui Gruppi. Ma la maggior parte dei deputati e dei senatori non si rasserena: non si sente rassicurata sulle ragioni della sua stessa presenza nel partito. Un malessere profondo nasce dalla constatazione che la ricerca del "nuovo" non mira a recuperare le vere ragioni della presenza politica dei democratici cristiani. La gran parte dei nostri si sente bollata come "vecchia", mentre vede esaltato come "nuovo" tutto ciò che ci è estraneo. Così i gruppi parlamentari vengono colti dal panico. Molti deputati hanno ormai deciso di non continuare l'attività politica, ma s'aspetterebbero un maggiore coinvolgimento. Le promesse s'alternano alle minacce e questo dilata lo spazio del disagio. Quando Martinazzoli mi chiede di intervenire per evitare l'uscita di Casini e degli altri dal partito, cerco di convincerli rassicurandoli sulle candidature. Mi obietta Mastella: come fai a rassicurare me se è in forse anche la tua candidatura? Così la rottura si consuma più per la forza degli eventi che per una decisione meditata con serenità e fermezza.»

Dice Casini: «Non è un problema di candidature. Martinazzoli in questo senso ci aveva rassicurato». Dice Martinaz-

zoli: «Anch'io credo che il problema sia eminentemente politico. Certo, tutti ormai hanno paura dello scontro diretto imposto dal maggioritario e cercano salvezza nel recupero proporzionale. Forse, se avessi proposto a tutti di fare i capilista... In ogni caso è Berlusconi il demiurgo della scissione. Non ci fosse la sua zattera pronta a raccogliere i profughi, nessuno si butterebbe dalla nave».

La Chiesa: «Evitate la scissione»

La Chiesa, da sempre favorevole all'unità politica dei cattolici, interviene in ogni modo per impedire che Casini e i suoi escano dal partito. Ci sono consultazioni continue, dirette e

230 231 indirette, con tutti i prelati che contano, dal segretario di Stato Angelo Sodano al presidente della Cei Camillo Ruini al segretario Dionigi Tettamanzi.

Il cardinal Ruini si chiude nel riserbo dopo la clamorosa sconfitta di tutti i candidati democristiani nei centri più importanti dove si vota a novembre (che schiaffo il ballottaggio a Roma di Fini e Rutelli). La sua posizione favorevole all'unità politica dei cattolici (e quindi alla Dc) viene da tempo contestata da parecchi vescovi all'interno della Cei. Ma la posizione di Ruini diventa inattaccabile il 10 gennaio quando il papa scrive una lettera ai vescovi italiani che gli osservatori più maliziosi giudicano ispirata dal vicario di Roma. Mai Giovanni Paolo II si era awicinato tanto alla politica italiana. Chi conosce il papa, sa peraltro che la sua formazione cultu-

rale e spirituale lo porta agli antipodi di qualunque controversia politica, anche se questa riguarda la sua amatissima Italia. Qualunque suo messaggio vola dunque più in alto di dove vorrebbero i lettori maliziosi. Certo, nella lettera del 10 gennaio parla di solidarietà in termini che fanno riflettere la Lega; parla di moralità pubblica e privata con parole che mettono a disagio più di un politico «cattolico» che magari ruba fino al sabato e la domenica va puntualissimo a messa; parla di diritti individuali in termini opposti ai valori tradizionali della sinistra. E se parla di «necessità» della presenza politica dei cattolici, pensa innanzitutto alla sua esperienza polacca. Mi disse nel novembre del '77 quando andai a trovarlo giovane cardinale nella sua Cracovia: «Qui i cattolici debbono lottare per ottenere ogni cosa: la carta per stampare i loro giornali e il permesso per costruire le loro chiese. Sono larghissima maggioranza nel paese e non hanno accesso in televisione. Nessuno di loro in ogni caso diventerà "direttore": ai cattolici sono negati fin dalla nascita posti di responsabilità». E dunque evidente che papa Wojt,vla consideri la presenza politica dei cattolici lo strumento indispensabile per la realizzazione dei valori in cui credono. E altrettanto evidente che quando scrive che «i laici cristiani devono testimoniare attraverso una presenza unita e coerente nel campo sociale e politico» lanci alla Dc un monito a non dividersi. I valori in cui credono i cattolici - dice in sostanza il papa - sono già così difflcili da realizzarsi quando si è uniti che la divisione, in qualunque paese, indebolirebbe la lotta.

Osserva subito Pier Ferdinando Casini (e la stessa cosa farà Irene Pivetti) che è importante restare uniti sui valori, anche se si milita in forze politiche diverse. Così quando la decisione di uscire dalla casa madre è presa, Casini dà per

scontata l'opposizione dell'«Awenire», il giornale dei vescovi italiani (che difatti arriva, fortissima), trema al pensiero di una scomunica vaticana, ma alla fine vede con sollievo che dall'«Osservatore Romano» non partono anatemi, né diretti, né indiretti. Il giornale del Vaticano dà infatti notizia della nascita del nuovo «soggetto politico~> pubblicando senza commenti tre righe a fondo pagina.

Muore la vecchia Dc e nasco~o due gemelli

La scissione avviene il 18 gennaio 1994, doloroso anniversario del messaggio «ai liberi e forti» lanciato da Luigi Sturzo per la fondazione del primo Partito popolare. Casini riunisce una trentina di parlamentari dissidenti nel rinnovato albergo della Minerva, a due passi dall'indisponibile albergo Santa Chiara dove la sera del 18 gennaio 1919 Sturzo «licenziò» la costituzione del partito. Dinanzi ai promotori regionali, Ombretta Fumagalli Carulli legge il documento di fondazione del Centro cristiano democratico.

Casini non parla di scissione, ma di parto gemellare della vecchia Dc. Il pomeriggio dello stesso giorno, infatti, negli austeri saloni di Palazzo Baldassini in via delle Coppelle presso la fondazione Sturzo nasce il nuovo Partito popolare italiano.

Fa da padrone di casa lo storico Gabriele De Rosa, presidente della fondazione e capo dei senatori dc. La cerimonia è sobria, la nascita formale del nuovo partito è rinviata all'assemblea costituente.

Mancano ormai quaranta giorni alle elezioni, Segni subordina il gemellaggio del Patto con il nuovo Ppi di Martinazzoli all'assenza di candidature discusse. Ottiene che De Mita non venga messo in lista. Mancino e Mattarella vengono iscritti nelle liste proporzionali del Ppi e non in quelle comuni col Patto. Quasi tutti i capi storici della Dc, travolti dal ciclone di Tangentopoli, lasciano il campo.

«Al Nord partiamo battuti» racconta De Mita, comunque attivissimo in campagna elettorale. «Ma il partito sbaglia la sua strategia nel Centro-Sud. Invece di proporre un ricambio equilibrato tra vecchio e nuovo, produce una discriminazione astratta, stabilendo chi è buono e chi è cattivo e facendo venir meno il raccordo politico con larghissime fasce di elettorato. Vengono inventate candidature spesso di buona qualità personale, ma senza riscontro sul territorio, dando così al nostro elettorato la sensazione che il Partito popolare combattesse per perdere invece che per vincere le elezioni.»

Martinazzoli conduce una campagna centrista, esaltando De Gasperi e bacchettando Occhetto per rintuzzare chi, all'esterno ma anche all'interno del partito, dice che è pronto a fare un governo col Pds. Accusa Rai e Fininvest di aver polarizzato lo scontro tra destra e sinistra emarginando il centro. Ma il suo bersaglio preferito, quello che gli procura un singolare godimento quando ne parla male, è indiscutibilmente Silvio Berlusconi.

Lunedì 21 marzo a «Mixer» dice che ha «una naturale affltudine alla bugia, un'idea della politica come pallottoliere» (ricordate?). Alla fine si lascia andare: «Ha un pensiero imbecille». Per un politico colto e raffinato come l'awocato Marti-

nazzoli quest'ultima è una caduta di stile. Rivelatrice della consapevolezza che l'odiato Cavaliere, insieme con gli alieni Fini e Bossi, rischia di prendere la maggioranza assoluta.

Testimone di questa angoscia nella vigilia pre-elettorale è Massimo Franco, l'inviato di «Panorama» che segue gli ultimi comizi di Martinazzoli. Al di là della sua apparenza funerea, il segretario del Ppi è un uomo simpatico e perfino divertente. Quando viaggia in macchina canta romanze d'opera (come Giuseppe De Rita) o addirittura le canzoni di Gianna Nannini. E invece negli ultimi giorni di marzo sta zitto, è turbato dal mutamento improvviso del suo elettorato, dalla sua volatilità: «Pensiamo a Segni» dice. «Sei mesi fa aveva in mano l'Italia. Ora, certo anche per i suoi errori, è attaccato da ogni parte.»

Grida ai contadini della Padania: «Se vince Berlusconi, la Tv ve la mette anche nei campi». E si concede i soli momenti di sinistro divertimento quando accarezza ostentamente un corno regalatogli - dice - da un napoletano pazzo.

Martinazzoli se ne va. «Ma al congresso avrei vinto»

Le elezioni vanno male. La Dc lascia il Parlamento con con 203 deputati e 112 senatori, il Ppi vi rientra con 33 deputati e 31 senatori. Il «Mattarellum», come Sartori chiama il maggioritario, ha colpito duro. «Me l'aspettavo» dice Martinazzoli nella sua casa bresciana. «Noi comunque siamo vivi.» A Roma non scende («Nella settimana di Pasqua dalle mie parti si resta in casa per le grandi pulizie»). Martedì sera mi collego con il suo studio bresciano per un commento postelettorale.

Non minimizza la sconfitta, offre un commento dignitoso: «Ha vinto la destra, governi». Annuncia le dimissioni, le formalizza il mattino successivo con una lettera a Rosa Russo Jervolino. Mi dirà sei mesi più tardi: «Non è stato un gesto di paura. Nel giro di qualche ora capii che gli uomini del rnio partito stavano vivendo le elezioni non come una sconfitta, ma come una disfatta. Non avrei guidato un gruppo più ridotto di Popolari, ma un manipolo di soldati che si sentivano superstiti. In casi come questi, il generale può solo andarsene. D'altra parte non mi ero ricandidato e avevo detto che sarei andato via dopo il congresso. A quelli che mi hanno rimproverato ho detto: avrei dovuto fare come Occhetto? Passare qualche mese a mediare nella guerra della Bindi contro Formigoni? No, meglio così. Certo, se avessi partecipato al congresso, l'avrei vinto...».

Al congresso di fine luglio, Martinazzoli non partecipa nemmeno da spettatore.

Riprende invece la toga e in autunno difende Michelangelo Agrusti, suo amico e compagno di partito, che durante quel congresso viene arrestato per una storia di corruzione alla quale si dice estraneo. («Tornando all'awocatura» mi dice in settembre Martinazzoli «capisco che nella fase dell'inchiesta la difesa dell'imputato non esiste più. Il tema della

234 235 divisione delle carriere tra pubblico ministero e giudice sta diventando decisivo...») Poi si candida a sindaco di Brescia con il sostegno di Buttiglione e D'Alema.

Perché il Ppi esce così male dalle elezioni? «Il problema» dice Martinazzoli «è che i voti della Dc non ci sono più. Li ha mangiati Tangentopoli. Il nostro vecchio interclassismo non funziona più, il mondo cattolico è frantumato, abbiamo perso molte schegge a sinistra. Eppoi la destra ha reinventato un partito comunista che non c'era più giocando come nel '48 sulla paura della gente. Se sommi la perdurante fobia comunista e la nostra insignificanza, ecco i risultati. Aggiungi che Occhetto è stato l'apprendista stregone di questa destra sostenendo che il centro non esisteva e che bisognava schierarsi. Aggiungi ancora che noi siamo stati dipinti come il caval lo di Troia della sinistra... La mia idea era che bisognasse resistere sia ai modelli proposti dalla destra che a quelli consolidati a sinistra. Sono convinto di essere nel giusto, ma evidentemente gli elettori erano di diverso avviso. Il vero demiurgo di questa nuova fase politica è stato comunque certamente Berlusconi. Senza di lui né la Lega sarebbe andata mai al potere né Fini avrebbe potuto accreditare il Msi come destra di governo. E un merito? E un demerito? Chissà...»

Perché nel 1993 la Democrazia cristiana ha accettato di patrocinare una legge elettorale suicida? Questa è la risposta di De Mita: «Nessuno ha avuto il coraggio di assumere una iniziativa adeguata che modificasse il sistema elettorale prima del referendum del '93. Quando presiedevo la commissione Bicamerale, cominciammo ad assumere qualche iniziativa e ogni volta che Dc e Pds erano sulla stessa lunghezza d'onda, almeno sulla necessità di decidere, si arrivava subito a larghissimi accordi. Poi tutti quanti cominciarono a cavalcare il passaggio referendario, temendo di essere spiazzati dalla pubblica opinione. Non ho capito se ha cominciato Occhetto

o Martinazzoli. Ma chi è partito per secondo, lo ha fatto un istante dopo il primo. Affondarono il lavoro della commissione e corsero a sponsorizzare il referendum. L'errore fatto da molti, quando si arrivò alle elezioni, fu di ritenere che il quando arrivarci fosse molto più importante del come arrivarci. E poi di credere che il fatto stesso di semplificare gli gchieramenti politici portasse alla semplificazione dei problerni A mio giudizio avremmo dovuto dire agli elettori che il problema principale non era di scegliere chi avrebbe governato, ma chi avrebbe provveduto meglio a rimettere in ordine le istituzioni. Se la Dc avesse spiegato le ragioni della crisi e qualche proposta per superarla, anche in minoranza sarebbe stato un punto di riferimento politico preciso. Adesso tutti corrono verso il centro. Ma quello che manca alla destra e alla sinistra non sono poche decine di deputati o di senatori in più. Manca la capacità di far politica. E noi avremmo potuto occupare questo spazio».

Buttiglione segretario senza De Mita

Debbono passare quattro mesi e l'ulteriore sconfitta alle Europee di giugno perché finalmente il Partito popolare celebri il suo congresso. I candidati alla segreteria sono due persone accomunate da una indiscutibile dignità personale e divise da visioni politiche molto diverse. Giovanni Bianchi, già presidente delle Acli, milanese di Sesto San Giovanni, oppositore feroce della guerra del Golfo, viene candidato dalla sinistra del partito. Rocco Buttiglione, il filosofo amico del Papa e allievo di Augusto Del Noce, è il leader dei moderati e ha avuto grosse soddisfazioni nei precongressi regionali.

Quando il 27 luglio nella sauna dell'Ergife a Roma si apro-

no i lavori, i vecchi cronisti parlamentari sono smarriti. Non ci sono ministri, non c'è la coda di auto blu fuori dell'albergo, il vecchio gioco delle correnti non è scomparso ma appare molto semplificato. C'è una destra e una sinistra. Rosy Bindi preferirebbe perdere la virtù piuttosto che votare per Buttiglione, Formigoni farebbe lo stesso sacrificio piuttosto che votare per Bianchi. E un gioco democratico trasparente, ma durissimo e combattuto senza esclusione di colpi. A ricordare il passato interviene soltanto il vecchio e commosso Fanfani. E l'unico in grado di unire la platea in un applauso struggente. L'unico a ricordare con la sua sola presenza alla destra e alla sinistra del partito che cinquant'anni di Dc non sono tutti da buttare e che se il paese gode da quarant'anni di

236 237 una prosperità inimmaginabile del dopoguerra, un po' di merito è anche del partito di Sturzo e di De Gasperi, di Moro e di Fanfani e perché no? forse anche di qualche dirigente di anni più vicini, proprio quelli che al solo nominarli si scatena la piazza.

Al centro del congresso c'è Ciriaco De Mita, non amato in fondo né a sinistra e né a destra, ma temuto da entrambi gli schieramenti.

Dopo tre giorni, salta la candidatura di Bianchi, non prima che il professore abbia bollato la maggioranza di governo: «E lontana dalla cultura della legalità, vede lo Stato come bottino da spartire tra i vincitori». La sinistra ha capito che Bianchi è battuto e cerca di conquistare i voti di De Mita candi-

dando il suo vecchio amico Nicola Mancino, ministro dell'Interno fino alle elezioni di marzo. Lo scontro, che già era acceso, diventa incandescente. I moderati accusano la sinistra di giocare sul vecchio (parola ormai in grado di atterrare un toro) e alludono pesantemente alla storia del Sisde, anche se Mancino è stato scagionato. La sinistra alza le barricate per non far passare Buttiglione, accusandolo apertamente di essere pronto a prostrarsi davanti a Berlusconi. Tra urla, lacrime e spintoni, come titola «Il Messaggero» del 30 luglio, alla fine la spunta Buttiglione (55 per cento contro il 45). E la spunta senza De Mita, con il quale pure aveva awiato una concreta trattativa: «Perché alla fine non l'ho sostenuto? Perché altro è Buttiglione, altro sono le forze che gli ruotano intorno. Non mi interessava far parte di uno schieramento, ma concorrere a una soluzione che non c'è stata. L'elezione di Buttiglione non è comunque un fatto negativo. Ma non è sufficiente. Bisogna creare dunque le condizioni politiche che al momento del congresso non esistevano. Io, per esempio, avrei fatto lui segretario, ma con una direzione composta di persone del tutto diverse da lui. In ogni caso, con Buttiglione la sinistra interna sta sbagliando. Lo ha etichettato come clerico-moderato che è una categoria politica che non esiste. Molti, nella sinistra del Ppi, vivono nella contemplazione di ciò che è stata la sinistra democristiana e hanno la pretesa di identificarsi con quanto di buono essa ha fatto. Ma certe cose non possono ripetersi storicamente. Non si può vivere nel ricordo con una superbia intellettuale che di fatto portaall'impotenza. Insomma, tra Rosy Bindi e Buttiglione, il mo~erno è Buttiglione».

Dall'indomani della sua elezione, Buttiglione (46anni, moglie e tre figlie, un cane - Teo - e un continuo app~rovvi-

gionamento di sigari toscani) diventa l'uomo più corte~ggiato della scena politica italiana.

Il Pds era partito in anticipo, dichiarando fin dal 12 luglio con un «fondo» di Walter Veltroni sull'«Unità» che «c'bisogno di un centro forte» e che a gestirlo è meglio uno come Buttiglione che un elemento debole della sinistra in terna. D'Alema apre subito un dialogo, Berlusconi fa caloros e congratulazioni, Segni vede la rinascita di un Centro co~nune. Perfino Leoluca Orlando ha impegnative parole di app rezzamento («Può essere un nuovo De Gasperi...» ). Il prof~essore sorride, ma si chiude a riccio. Sa di vendere merce che può rivelarsi molto pregiata nel medio periodo e non ha fretta né di awiare trattative, né di fare subito il prezzo.

A mezz'agosto, Buttiglione e D'Alema raggiungono Gallipoli con le rispettive famiglie. Il primo ci è nato, il se~condo ne ha fatto il proprio collegio elettorale.

«D'Alema mi ha telefonato subito dopo l'elezione» raccOnta Buttiglione. «Tra noi c'è simpatia, abbiamo amici in comune. Promettiamo di vederci. Quando arrivo a Gallipoli, già so che D'Alema vuole vedermi. Andiamo a pranzo al "Bastione", un ristorante legato in qualche modo alla mia farniglia perché il locale sta in un edificio che fu del pittore Agesilao Flora, imparentato con mio padre. A tavola non ci diciamo niente di nuovo. Verifichiamo invece posizioni già note. Punto primo. Tra noi c'è bisogno e volontà di dialogo. Punto secondo. Decidiamo di non chiuderci a priori sulle rispettive posizioni quando si discute di temi enormi come la farniglia, lo Stato sociale, la scuola, la bioetica. Queste aperture sono

possibili perché ha vinto D'Alema. Se avesse vinto il partito scalfariano con Veltroni, non sarebbe stata la stessa cosa. D'Alema insiste nel dirmi che Veltroni è diverso da come lo giudico io, non merita questo sospetto. Può darsi, lo conOsco poco. Il pranzo con D'Alema, comunque, è stato un pranzo.

238 239 E ridicolo immaginare che i problerni della sinistra, del centro e della destra possano risolversi a tavola.»

In settembre Buttiglione, schivato un altro pranzo a Gallipoli con D'Alema, incontra di nuovo il segretario del Pds alla festa di «Cuore». I due si scambiano nuovi messaggi di attenzione che fanno ingelosire il leader di Rifondazione, Bertinotti, e preoccupano Casini. («Non apprezzo affatto tutto questo» mi dice. «Ho paura che Rocco si faccia condizionare.»)

Il leader del Ccd lavora per una nuova aggregazione che veda collaborare col suo partito i Popolari di Buttiglione, Forza Italia di Berlusconi e un Fini alleggerito della zavorra che lo sbilancia troppo a destra. Prevede la scomparsa in tempi brevi dei partiti ideologici e vede il centro «non più come collocazione politica, ma come riferimento culturale di governo per i due poli, come denominatore comune di entrambi i competitori».

Dove bafte il cuore di Rocco?

Come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, il cuore di Buttiglione batte più in direzione di Berlusconi che in quella

di D'Alema. Ma nei primissimi mesi del suo mandato, il segretario dei Popolari vuole chiarire bene le regole del gioco. Per esempio, vuole il doppio turno elettorale alla francese «che obbliga le forze politiche ad aggregarsi e non distrugge il pluralismo». Su questo è più vicino a D'Alema che a Berlusconi.

«Come si fa» mi dice Buttiglione «a pensare di costruire con il turno unico senza recupero proporzionale, come vuole il referendum di Pannella, una aggregazione che vada da me a Bertinotti oppure da me a Rauti? Sarebbe il caos. Negli Stati Uniti lo fanno? Lì il Parlamento può essere conflittuale perché governa il presidente. Lo fanno in Inghilterra? Lì il bipartitismo si delinea fin dal 1689... No, qui da noi non si può eleggere un deputato con il 35/40 per cento dei voti. I moderati non debbono essere ricattati dagli estremisti. Il problema centrale è di convincere Berlusconi e D'Alema a convergere verso il centro. Una strada opposta a quella che ha percorso Occhetto che, alleandosi con Rifondazione, legittimò il Ppi come antagonista di sistema. Comunque, non ha sbagliato solo Occhetto- E stata la sagra degli errori...» A metà settembre, almeno sulla legge elettorale, Fini gli manifesta qualche apertura.

Buttiglione non ha alcun interesse a far cadere il governo Berlusconi (come d'altra parte non ce l'ha D'Alema). Poiché non vuole fargli da sgabello, dice che se la situazione fosse insostenibile, il governo istituzionale dovrebbe servire solo a modificare la legge elettorale. I Popolari, insomma, cercano di ritardare il voto al massimo, soprattutto se dovesse restare il turno unico o dovesse passare l'idea di Pannella di togliere

anche quel 25 per cento di recupero proporzionale che c'è adesso.

Buttiglione vuole dare anche a Berlusconi il tempo di allentare i suoi legami a destra, senza che questo provochi traumi. «Berlusconi è per sua natura un uomo di centro. Ha capito benissimo cosa deve fare. Bisogna dargliene la possibilità in un clima sereno. Personalmente, ho molte critiche da fare a questo governo. Ma non condivido gli esasperati attacchi personali al presidente del Consiglio. Dobbiamo risolvere un problema politico e l'awersione viscerale a una persona non aiuta. Tra l'altro Berlusconi mi è pure simpatico... Nulla vieta che mentre si governa si parli anche delle fasi successive. Noi Popolari dobbiamo stabilire un asse diretto con Forza Italia. Senza la Lega? Questo poi lo vedremo. Intanto, dobbiamo aiutare i processi interni di trasformazione dei partiti. La destra per esempio deve emarginare i fascisti. Fini deve insistere nell'opera di scioglimento dei fasci, deve portare Alleanza nazionale a un congedo sereno dall'epoca fascista. Quando dico che il fascismo non era il male assoluto, ma un male storico non intendo dire che fascismo e antifascismo erano la stessa cosa. Dico più semplicemente che la cultura antifascista ha emarginato alcuni valori positivi che il fascismo aveva fatto propri. Prendiamo il valore di nazione. Il fascismo se ne impossessò, ma è un errore sostenere - come si è fatto per decenni - che chi crede nel valore di nazione sia fascista o amico dei fascisti. Una ri-

240 241 flessione su questo tema aiuta anche a capire il dramma di quanti hanno combattuto perché credevano nella loro nazio-

ne e si son sentiti bollare automaticamente come fascisti. Capire questo significa uscire morbidamente dal nostro passato e recuperare alla democrazia anche molta gente che è rimasta imprigionata lì dentro.»

Buttiglione estende a Rifondazione lo stesso discorso che fa per la destra.

«D'Alema deve rendersi autonomo per sciogliere il nodo culturale e politico che blocca Rifondazione. Ripeto: sia a destra che a sinistra occorre rendersi autonomi dal ricatto degli estremismi.»

Il problema di Buttiglione è portare unito il suo partito a questo appuntamento. Il gioco a tutto campo ha tenuto tranquilla la sinistra interna nei primi mesi del suo mandato: «Se faccio un'alleanza a sinistra, non incontro alcun ostacolo. La sinistra del partito favorisce il dialogo. Il problema nasce quando si guarda dall'altra parte. La nostra sinistra interna deve uscire dall'ideologia azionista. Noi dobbiamo puntare alla giustizia sociale in condizioni di mercato. Noi non aderiremo mai all'ideologia del mercato senza solidarietà. Ma non possiamo sottrarci se tra mercato e solidarietà si stabilisce una forte alleanza. Il difetto della vecchia sinistra democristiana, più che cattolica, era di privilegiare gli schieramenti rispetto ai contenuti. Adesso i democristiani non ci sono più, i comunisti nemmeno...».

Cauto nell'iniziativa politica, Buttiglione manifesta prudenza anche nei grandi temi morali di forte rilevanza sociale come l'aborto. Quando a fine estate del '94, nel Meeting di

Comunione e liberazione a Rimini, Irene Pivetti infiamma la platea con la sua crociata antiabortista, Buttiglione resta freddo, ma non perché il presidente della Camera gli ha tolto la battuta. «Noi cattolici dobbiamo avere nei confronti dell'aborto» dice «lo stesso atteggiamento che il governo francese ebbe tra il 1870 e il 1914 sul tema dell'Alsazia-Lorena: pensarci sempre, non parlarne mai. Non si può parlare di una questione così delicata in termini dirompenti se non si dispone delle forze sufficienti a risolverlo. Ma anche se avessimo le forze per risolverlo, non potremmo parlare dell'aborto in termini di maggioranze. E una questione che va affrontata con il contributo di tutti. Non potrà mai essere questione di governo.»

Questo mi dice il filosofo Rocco Buttiglione all'inizio dell'autunno '94. Negli stessi giorni, due ex segretari della Dc come Ciriaco De Mita e Mino Martinazzoli esprimono corpose riserve sullo scenario politico dominante.

«L'Italia» mi dice De Mita «ha bisogno di una politica, non di un accordo di potere. Berlusconi ha vinto sull'onda di una emozione. Per costruire una politica ci serve tempo. n fenomeno della Lega non va sottovalutato. E l'espressione più vistosa del disagio del ceto medio ignorato dalle politiche tradizionali. La Lega ha un elettorato moderato che ha contestato in modo moderno la politica dominante. Ma attenzione: si tratta di una protesta più radicale di quella del '68. Non commettiamo l'errore di credere che il declino della Lega equivalga alla caduta della protesta. Sarebbe come mettere il belletto sulle macchie di morbillo illudendoci di aver dato al paziente la cura giusta. Più politiche sono le motivazioni alla base del successo della destra tradizionale, con la

quale occorre fare i conti. Fini si sta muovendo, ma l'evoluzione della destra mette in gioco il sistema democratico tradizionale, anche per superarne i limiti. Occorre vedere come Alleanza Nazionale intende passare dai valori ai quali dice di ispirarsi alle scelte politiche quotidiane. Il problema centrale è che queste forze rischiano di essere tenute insieme da un progetto non democratico. E il progetto della democrazia plebiscitaria. La delega a una sola volontà segna la fine della democrazia pluralista. Sarebbe un grosso passo indietro. Certe volte amputare le gambe a qualcuno gli consente di sopravvivere. E una necessità, non una scelta gratificante. E dopo l'intervento il corpo ne porterà sempre il segno. La politica è diversa. Non può arrendersi dinanzi a nessuna difficoltà. Se le difficoltà prevalgono sulla capacità di rispondere, la democrazia non c'è più.»

Anche Martinazzoli vede molti rischi nella democrazia plebiscitaria e comunque la considera incompatibile con gli ideali del Ppi: «Berlusconi predica una democrazia del messaggio, della leadership carismatica, della semplificazione. E un'idea di democrazia diversa da quella di un movimento popolare. E inutile che Buttiglione cerchi di recuperare Berlusconi al centro. Lui è la destra. L'idea di redimerlo non mi convince. Al posto suo guarderei con maggiore attenzione alla Lega. Bossi almeno ha un progetto. Un progetto discutibile, intendiamoci, che in nessun caso può essere un punto di arrivo. Ha tempo fino alle prossime politiche per realizzarlo, ma non è detto che ci riesca. E un acrobata, si esibisce senza rete, può anche rompersi l'osso del collo...». Eppure, nell'autunno dell'incredibile '94, Martinazzoli accetta dai Popolari e dal Pds la candidatura a sindaco di Brescia, strizzando l'oc-

chio - in spregio a Forza Italia - proprio all'acrobata Bossi.

Bossi, Berlusconi, D'Alema, Fini, Buttiglione.

Postfascismo. Postcomunismo. Postdc. Post tutto. E complicato essere moderati. E complicato essere progressisti. Un fatto è certo. In Parlamento Buttiglione conta un quarto di Bossi e un terzo di Fini. I suoi voti sono largamente insufficienti a ribaltare qualunque maggioranza. Eppure tutti lo corteggiano come se il Partito popolare fosse l'unico crocevia della politica italiana. Come la Dc...

VIII

Le spine del Quirinale

«Per me tortellini di pesce. Mia moglie assaggia la sfoglia di ostriche e tartufi di mare.» E la sera di domenica 27 febbraio 1994. La tramontana ha ripulito il cielo romano e la luna piena occhieggia sul Colosseo dietro una nuvoletta superstite.

Tra l'anfiteatro e la basilica di San Giovanni, ancora dolente per l'attentato dell'estate scorsa, c'è in via dei Santi Quattro un ristorante piccolissimo e raffinato, «Ai tre Scalini» di Rossana e Matteo. Stasera Rossana non è in servizio e l'onere intero dell'ospitalità ricade sul marito Matteo e sul giovane e geniale Davide, che non fanno rimpiangere l'assenza, forzata da qualche tempo, di una delle grandi signore della cucina romana.

Arrivano dunque i tortellini di pesce sul tavolo di Giovanni Maria Flick, docente di fama, awocato di grido e raffinato

gourmet, che ha deciso di riscattare una durissima settimana di lavoro con una confortevole cena in compagnia della paziente consorte. Ma il prestigioso piatto fatto preparare con devozione dal buon Matteo si raffredda, mentre sale la temperatura del Greco di Tufo servito a dieci gradi dall'inappuntabile Davide.

Il professore è infatti autorevolmente indaffarato con importanti interlocutori: tanto importanti che più importanti non si può.

Mentre i tortellini si trasformano melanconicamente in un piatto di rosticceria col fomo guasto, Giovanni Maria Flick fa la spola tra il telefono di Matteo e il cellulare prontamente sguainato da un commensale per la prestigiosa occorrenza.

244 245 (Il professor Flick fa un punto d'onore del fatto di non possedere un cellulare. Se ne pentì il giorno dell'arresto di Carlo De Benedetti, ma, superata quell'emergenza, ritenne di poterne fare a meno per qualunque altra.)

«Buonasera, signorina. Come sta? Posso parlare con suo padre? Grazie... Buonasera, presidente... No, non ho parlato con il procuratore. E fuori per il fine settimana... Il cellulare? Mi dice la Batteria del Ministero dell'Interno che il telefonino del procuratore risulta spento... Ho parlato con l'aggiunto e mi pare di capire...»

Flick si accorge di poter essere ascoltato e opportunamente

si allontana nascondendosi dietro una colonna da cui ogni tanto arriva l'eco di frasi come: «...certo, è molto spiacevole... un chiarimento è necessario... non c'è dubbio, presidente...».

Di tanto in tanto, da dietro la colonna, spunta la barba sale e pepe di Flick, e un osservatore attento leggerebbe nei suoi occhiali sguardi di grande afflizione alla vista dei tortellini ormai surgelati e del Greco di Tufo la cui temperatura è inevitabilmente salita a quella di un Barolo.

D'altra parte, quando la patria chiama...

Se Tangentopoli ha reso Di Pietro e i suoi colleghi più popolari di Pippo Baudo e Mike Bongiorno, ha fatto al tempo stesso esplodere le denunce dei redditi degli awocati penalisti più bravi che hanno recuperato nel giro di due anni il gap finanziario e lo status professionale che tradizionalmente li divideva dagli schizzinosi colleghi civilisti.

Ouando, molti anni fa, abbandonò la toga di giudice per la cattedra universitaria alla Luiss e la libera professione forense, Flick non immaginava che le inevitabili frustrazioni del momento sarebbero state compensate con il sollecito raggiungimento dei vertici della carriera e la prestigiosa assistenza professionale di clienti importantissimi (come Raul Gardini, Carlo De Benedetti, Sergio Cragnotti e di «non clienti» ancora più importanti come il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro).

Flick, per la verità, si è occupato di sua figlia Marianna. Marianna? Un prestigioso awocato penalista alla sobria e riservata corte di Marianna Scalfaro? E a far che?

Marianna Scalfaro viene lambita suo malgrado dalla vicenda Sisde alla fine di ottobre del 1993. n settimanale «Epoca» pubblica una foto in cui la figlia del presidente della Repubblica viene ritratta accanto a un signore alto, elegante, con la folta capigliatura appena brizzolata, una vistosa fede nuziale all'anulare sinistro e un gran pacco in mano.

Marianna Scalfaro, che indossa un abito fucsia a maniche corte, e l'anonimo accompagnatore sorridono: l'atteggiamento della coppia non lascia immaginare nulla se non l'innocentissimo shopping di due amici legati da vecchia e rispettosa consuetudine.

«Lo shopping misterioso di Marianna» titola «Epoca», e scrive nel sommario: «Ottobre 1993. Roma, via del Babuino. Anche la più schiva delle first lady si è finalmente concessa una distrazione: un semplice giro per antiquari e boutique del centro. Pochi minuti in tutto che però rivelano i suoi gusti. Ecco in quali negozi è entrata e che cosa voleva comprare. Mentre fuori l'aspettava un architetto quarantenne».

E la prima volta che Marianna Scalfaro viene ritratta al di fuori di cerimonie ufficiali da quando il padre è diventato presidente della Repubblica.

E il servizio di «Epoca» nasce in circostanze curiose. A ogni settimanale vengono continuamente offerte foto da decine di agenzie, alcune grandi e di consolidata reputazione, altre piccole e costrette a sgomitare per soprawivere in un mercato saturo oltre l'immaginabile.

A metà ottobre nella redazione del giornale si presenta il signor Giansiracusa, titolare di una piccola agenzia, e offre del materiale senza chiarire subito - ricorda il direttore di «Epoca» Riccardo Briglia - che tra le foto in vendita c'è quella di Marianna. Se ne accorge l'occhio fino del condirettore Massimo Donelli, che annusa il colpo e ne parla con Briglia. I due sanno che Marianna non è mai stata fotografata in privato, comprano le foto e stabiliscono di mandarne una copia al Quirinale prima di deciderne la pubblicazione. Dal Quirinale non arriva nessuna reazione. Briglia insiste, e solo dopo qualche giorno arriva la risposta: fatene quel che volete.

Briglia si sente sollevato e affida ad Antonietta Garzia un pezzo leggero sul pomeriggio di shopping di Marianna Scalfaro. Visto che il Quirinale non ha nulla da obiettare, di-

246 247 cono al giornale, si può forzare sul titolo e giocare un pochino sul misterioso architetto.

Entra in scena l'architetto Salabé

Quando il giornale va in edicola, scoppia il caso.

Si scopre, infatti, che il sorridente signore con la fede al dito e il pacco in mano è l'architetto Adolfo Salabé, 64 anni portati benissimo, titolare di una rete di società che fatturano decine di miliardi all'anno ai servizi segreti, prevalentemente per ristrutturazioni di immobili riservati e che svolge stabilmente la stessa opera di consulenza al Quirinale.

La frequentazione di Salabé da parte di Marianna non deve sorprendere.

Scalfaro è stato ministro dell'Interno dal 1983 al 1987 e ha abitato anche nello stabile di via Giovanni Lanza dove ha sede il Sisde, abituale committente di Salabé. Marianna ha quindi conosciuto e frequentato, se non altro per circostanze condominiali, molti dirigenti e impiegati del Servizio, tra cui quella Rosa Maria Sorrentino, funzionaria dell'ufficio programmazione del Servizio, che le faceva spesso compagnia e che sarà anch'essa pesantemente coinvolta nello scandalo dei fondi riservati del Sisde.

Tutto normale, dunque? In apparenza. Perché è uscita su «Epoca» la foto di Marianna Scalfaro e di Adolfo Salabé? L'ha scattata uno dei tanti paparazzi che presidiano il centro di Roma in attesa dell'incontro fortunato o qualcuno che andava a colpo sicuro e ha usato l'inconsapevole settimanale per mandare un segnale al colle più alto? E quale segnale? E perché? Il direttore di «Epoca» si insospettisce e teme di essersi fatto involontario strumento di qualche sotterranea lotta di potere. Convoca Giansiracusa, titolare dell'agenzia che gli ha venduto le foto, e ne riceve la più ampia assicurazione che Riccardo Dotti autore dello «scoop», l'ha fatto dawero per caso.

Dall'ingrandimento di una foto risulterebbe peraltro la presenza in via del Babuino di un altro fotoreporter: significa

che Marianna è rimasta vittima di paparazzi che non sapeva-

I no quel che facevano?

«Un sospetto m'è rimasto» dice oggi Briglia, poco incoraggiato peraltro ad approfondire il caso, vista l'apparente indifferenza del Quirinale circa la pubblicazione delle foto. In realtà al Quirinale non debbono aver gradito molto l'iniziativa. Ma intelligentemente non l'hanno bloccata, sapendo che una foto non pubblicata crea problemi e imbarazzi cento volte maggiori di una foto pubblicata. Un po' di mistero, dunque, resta.

Per capire quale fosse il clima nei palazzi romani della politica nel mese di ottobre del '93, dobbiamo tornare indietro di quasi un anno.

Nel dicembre del '92, il pubblico ministero romano Antonino Vinci, indagando sui palazzi venduti agli enti pubblici a prezzi superiori a quelli di mercato per produrre tangenti, scopre in un'agenzia della Carimonte 14 miliardi depositati sui conti correnti personali di cinque dirigenti e funzionari del Sisde: Maurizio Broccoletti, di anni 50 da Rieti, direttore amministrativo del Servizio; Gerardo Di Pasquale, di anni 50 da Agropoli, capo del reparto logistico; Michele Finocchi, di anni 57 da Roma, capo di gabinetto; Antonio Galati, di anni 50, da Monterosso Calabro, responsabile dei fondi riservati; Rosa Maria Sorrentino, di anni 46 da Sant'Andrea di Conza, funzionaria dell'ufficio programmazione. Vinci chiede chiarimenti e i cinque gli dicono in coro che quei soldi non sono loro (cambieranrlo versione nei mesi successivi), ma appartengono al Servizio e si trovano sui loro conti correnti per ragioni di copertura. La tesi viene confermata dal prefetto Ric-

cardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dal direttore in carica, prefetto Angelo Finocchiaro, il quale peraltro dirà successivamente che mai Malpica gli aveva parlato di questo genere

Vinci non riscontra nella vicenda estremi di reato, ordina alla Carimonte di trasferire quei 14 miliardi sui conti del Sisde e chiude il capitolo.

Lo riapre, nella primavera del '93, un altro pubblico ministero romano, Leonardo Frisani. Indagando sulla bancarotta di un'agenzia di viaggi, la Miura, Frisani scopre che i veri proprietari ne sono due alti funzionari del Sisde, Michele Pinocchi e Gerardo Di Pasquale. Frisani arriva anche ai conti miliardari della Carimonte, sospetta che qualche funzionario del Sisde non abbia fatto transitare quelle cifre sul proprio conto corrente per ragioni di servizio e ordina l'arresto di Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Servizio, che ha perso il suo incarico nel '91 in seguito a un'ispezione interna, come altri dirigenti che risulteranno poi coinvolti nella gestione impropria dei fondi riservati del Servizio.

Il procuratore della Repubblica Mele viene a sapere dell'iniziativa di Frisani quando Broccoletti si trova già nel carcere militare di Forte Boccea.

Si arrabbia, toglie l'inchiesta al suo sostituto che ricorre al Csm, riottenendola, affiancato tuttavia dal procuratore aggiunto, Ettore Torri.

Sui giornali esplode intanto la polemica sulla gestione dei fondi riservati dei Servizi. Nel '93, su 724 rniliardi assegnati

complessivamente ai tre Servizi (Sismi per il controspionaggio, Sisde per la sicurezza interna e Cesis per il vano coordinamento tra gli altri due), il Sisde ne ha avuti 130, di cui 75 «riservati», cioè svincolati da ogni rendiconto.

Tutto questo di per sé non sarebbe scandaloso: se i servizi segreti dovessero esibire la ricevuta fiscale per ogni spesa sostenuta, sarebbero tutt'altra cosa da quella per cui sono stati inventati. L'opinione pubblica resta peraltro sconcertata perché, mentre non si leva nessun ministro dell'Interno a garantire sulla legittimità dell'operato del Sisde, nel Servizio si scopre un'intera classe dirigente assai più preoccupata di garantire la tranquillità economica ai propri discendenti che non la sicurezza del paese.

All'inizio di luglio, l'ex direttore Riccardo Malpica conferma la tesi che i conti Carimonte sono «coperture» alle effettive necessità del Sisde, mentre si scopre che le doverose spese per rendere adeguatamente protetti gli appartamenti di alcune personalità politiche particolarmente esposte si sono generosamente estese alla tappezzeria e alle piante tropicali.

Nella seconda metà del mese vengono arrestati altri quattro funzionari: Galati, Finocchi, Sorrentino e Di Pasquale. Smentendo le versioni precedenti, i quattro sostengono che i soldi della Carimonte sono di loro proprietà, frutto di prerni particolarmente generosi, anche perché intanto la magistratura scopre un altro pozzo di San Patrizio a San Marino, che porta a una cinquantina di miliardi che sarebbero stati sottratti al Sisde.

«Si è spontaneamente presentato il signor

Broccolet~i Maurizio»

Ma il peggio deve ancora arrivare. E arriva «l'anno '93 addì 28 del mese di ottobre», quando «avanti al Pm dr. Ettore Torri si è spontaneamente presentato il signor Broccoletti Maurizio, il quale è assistito dall'awocato Nino Marazzita. Il predetto intende dichiarare...».

Broccoletti lo ricordiamo, è l'ex direttore amministrativo del Sisde, rimesso in libertà dopo 37 giorni passati, durante l'estate, nel carcere militare di Forte Boccea dopo la prima, accurata ispezione del giudice Frisani sui conti correnti della Carimonte. Più che una dichiarazione, la deposizione del «predetto» è una bomba che lesiona vistosamente i palazzi romani della politica e delle istituzioni.

Leggiamo la prima pagina della deposizione di Broccoletti: «Nel dicembre '92 sono stati rinvenuti presso la Carimonte libretti e titoli vari collegati a dipendenti del Sisde. In relazione ad accordi intercorsi a livello di vertice (prefetti Malpica e Finocchiaro) nonché altre personalità politiche (ministro dell'Interno Nicola Mancino, presidente del Consiglio Giuliano Amato, presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nonché capo della polizia Parisi e il suo capo di gabinetto Lauro), secondo quanto mi ha riferito Malpica, presente la sua segretaria Matilde Martucci, previa formale promessa di chiusura della vicenda e successiva restituzione delle somme, i funzionari interessati dichiararono all'epoca che le somme rinvenute erano di pertinenza del Sisde e che i relativi depositi erano stati costituiti su incarico del direttore, prefetto Malpica. Poiché a seguito di ulteriori indagini è ri-

sultato che taluni depositi erano stati utilizzati per personali

250 251 esigenze, è scattata per tutti l'accusa di peculato. A questo punto le persone interessate, cioè noi indagati, abbiamo d~ vuto rivelare che le somme non erano di pertinenza del Sisde, ma personali, provenienti in buona parte da premi e riconoscimenti per particolari prestazioni avuti dal prefetto Malpica e dai suoi successori o predecessori. La versione sostenuta da Malpica non corrisponde a verità».

Dinanzi alla gravità di queste accuse, passa fatalmente in secondo piano la seconda parte della deposizione di Broccoletti, lì dove il «predetto» racconta come i fondi riservati fossero distribuiti con disinvolta larghezza a funzionari del Sisde e di altre amministrazioni, a politici e a militari mescolando in un'avvilente marmellata affari di Stato e vicende assai meno nobili. Dal racconto dell'ex direttore amministrativo del Sisde emerge anche l'assoluta autonomia di spesa del direttore Malpica e della sua segretaria Matilde Martucci, detta non a caso la «zarina», che nel giro di qualche anno avrebbe acquistato cinque appartamenti e regalato al figlio Alberto l'agenzia di viaggi «Scilla Travel».

Broccoletti firma il verbale che gli sottopone il giudice Torri e scompare (verrà arrestato trentacinque giorni dopo a Montecarlo, protetto da baffi e parrucca). Così, quando poche ore dopo l'interrogatorio, il 29 ottobre, il giudice Vincenzo Terranova accoglie le richieste di Torri e Frisani per sei ordini di cattura contro Riccardo Malpica e i cinque componenti della «banda del Sisde», soltando l'ex direttore

si consegna docilmente al generale dei carabinieri Subrani e al colonnello Mori del Raggruppamento operazioni speciali.

Il 29 ottobre, giorno in cui la chiesa onora San Ferruccio, è per Oscar Luigi Scalfaro un venerdì di passione.

Il Quirinale è inondato di messaggi di solidarietà. Scrivono Leo Valiani e Norberto Bobbio, Vittorio Foa e Antonio Giolitti. Ciampi, Spadolini e Napolitano sono vicini a Scalfaro come sempre. Da Modena, dov'è riunita a convegno, si associa la Dc di Martinazzoli, mentre dal Vaticano si fanno sentire i cardinali che contano, Angelo Sodano e Camillo Ruini. Ma a Scalfaro non basta. Il presidente aspetta un solo documento di solidarietà: dal procuratore della Repubblica di Roma, Vittorio Mele. Ma Mele, il venerdì di San Ferruccio, sembra non aver fretta. Vuole riguardarsi le carte, si muove come sempre con grande cautela.

Il Quirinale sbotta, come si dice a Roma, e fa trasmettere dal Grl delle 19 questa irritata comunicazione: «La Presidenza della Repubblica attende fino a tarda sera una forte precisazione da parte della magistratura sulla vicenda». I giornalisti corrono da Mele e gli sollecitano un commento. A Daniele Mastrogiacomo della «Repubblica» alla fine dichiara: «I miei collaboratori e io siamo in perfetta sintonia con il Quirinale. Sappiamo che nell'interrogatorio si è fatto riferimento al presidente. Nella nostra autonomia svolgeremo i dovuti e opportuni accertamenti. Domani diffonderemo un documento sulla vicenda».

Ma a Scalfaro il «domani» del procuratore non basta. Nelle

quattro pagine di verbale riempite da Broccoletti davanti al giudice Torri, accanto al micidiale accenno alla riunione fatta al Quirinale alla fine del '92 per mettere a tacere la vicenda (episodio che sarà sempre smentito), c'è un altro elemento che turba profondamente il presidente della Repubblica. Racconta infatti Broccoletti: «Timpano e Locci, responsabili della gestione dei fondi riservati prima di Galati, a me e al Galati stesso hanno riferito che mensilmente predisponevano una busta contenente 100 milioni intestata "signor Ministro" e che loro consegnavano al direttore Malpica. Producono una cassetta magnetica registrata dal Galati e relativa a un colloquio tra lui e il Locci nel corso del quale si parla appunto di quella busta». Elencando i beneficiari di «stipendi riservati» Broccoletti attribuisce un cospicuo mensile al prefetto Lattarulo, capo di gabinetto di Scalfaro quando questi era ministro dell'Interno, e afferma che il sistema era in voga da una decina d'anni, coinvolgendo in pieno anche la gestione rninisteriale del presidente della Repubblica.

Scalfaro è furibondo. Il capo dello Stato non può entrare in polemica con un funzionario dei servizi segreti ricercato per associazione a delinquere. E s'aspetta che la Procura di Roma lo faccia per lui. Quando vede che, anche dopo l'arresto di Malpica awenuto nel pomeriggio, tutto tace, affida prima al Grl delle 19 un pubblico monito alla Procura perché proweda, e poi esplode poco prima delle 20.30 con un comunicato ufficiale stilato in tempo perché il Tgl lo trasmetta prima del la chiusura.

I più stretti collaboratori del presidente lo invitano alla cautela. Il capo dello Stato non ha molte possibilità d'intervento e sia il segretario generale Gifuni che il capo del servi-

zio stampa Scelba temono che con un comunicato ufficiale emesso mentre tutto è ancora in movimento si percorra una strada di non ritorno.

Ma il presidente, che del suo rigore morale ha fatto una bandiera, non sente ragioni.

Così alle 20.28 Fabrizio Ferragni, il giornalista parlamentare del Tgl accreditato presso il Quirinale, irrompe in trasmissione con un drammatico servizio telefonico.

Nella sua storia quarantennale, il telegiornale della sera è stato innumerevoli volte uno spartiacque della vita pubblica italiana. Il «bello della diretta» è stato scoperto in anni remoti. Se la riunione politica di un partito doveva trasmettere un importante messaggio trasversale a partiti alleati o awersari, c'era da giurare che finisse prima delle otto di sera. La stessa accortezza avevano i presidenti del Consiglio quando volevano far conoscere subito i prowedimenti urgenti del governo. Quando stava a Palazzo Chigi, Craxi aveva il Tgl delle 20 come punto di riferimento fisso e un po' ne approfittava, costringendo il suo capo ufficio stampa Antonio Ghirelli a chiamare due minuti prima della sigla di apertura, suscitando reazioni irriferibili nel conduttore di turno. Nei congressi di partito, che si aprivano sempre nel tardo pomeriggio per la disperazione dei cronisti, invariabilmente il segretario politico trascinava la sua relazione fin oltre le 20 per prendersi gli applausi conclusivi in diretta tv.

Quando il capo dello Stato voleva usare una cortesia al presidente del Consiglio incaricato, lo tratteneva a colloquio

fino all'ora fatidica per consentirgli di leggere la lista dei ministri in diretta e nell'ora di massimo ascolto. Tutto questo richiedeva una certa accortezza di cerimoniale. Nei primi anni Settanta, ricordo di aver fatto da regista ai movimenti del segretario generale del Quirinale durante la presidenza Leone, l'awocato Nicola Picella, dandogli il là per l'ingresso in campo una volta partita la sigla di apertura del Tg.

A dire il vero, non solo i politici sono tradizionalmente sensibili al fascino della diretta e della massima audience. Nei primi anni Settanta, al processo d'appello per la strage del Vajont, mi permisi di dire al presidente della Corte che fatti salvi naturalmente i tempi, il rigore e l'autonomia della giustizia - se per caso la sentenza fosse stata pronta tra le 20 e le 20.30, la lettura sarebbe andata in onda in diretta del Tg. Il caso volle che la giustizia concludesse il suo corso travagliato alle 20.15. La stessa cosa era accaduta nel processo di primo grado: la sentenza fu trasmessa in diretta alle 13.30.

«Falsità e intrighi contro il capo dello Stato»

E fatale, quindi, che la sera di venerdì 29 ottobre Scalfaro, visto l'inutile segnale trasmesso dal Grl delle 19, approfitti degli ultimi minuti del Tgl delle 20 per esternare la sua indignazione: «E almeno la terza volta» dice il comunicato del Quirinale «che si deve registrare il tentativo di porre in essere, con falsità e intrighi, insinuazioni che vorrebbero toccare il capo dello Stato, al chiaro fine di destabilizzare le istituzioni della nostra democrazia, che vive un tempo non certo facile. Il presidente della Repubblica - nella assoluta serenità e consapevolezza di avere, in ogni responsabilità istituzionale, di governo e politica, applicato col massimo scrupolo sempre

e soltanto la legge - condanna con fermezza tale ignobile sistema che arreca grave danno alla civile convivenza e allo Stato democratico».

Scrivendo di suo pugno questa durissima nota, Scalfaro smorza sul nascere una polemica politica montante. Poco prima infatti, alle generiche seppur gravi preoccupazioni di Occhetto, s'erano affiancate le pesanti richieste della Lega, mai tenera con Scalfaro («Smentisca subito e nettamente») e le più insidiose considerazioni del missino Servello: «O Broccoletti è un Di Rosa in pantaloni (l'accenno è alla bella e inaffidabile Mata Hari veneta Donatella Di Rosa), manovrato da qualche centrale occulta di potere, oppure per il Quirinale si awicina l'impeachment».

Impeachment, la parola proibita. La parola fatale a Nixon e a Leone. La parola temuta da Cossiga al punto di trasformarlo irl un martellatore implacabile dei suoi avversari per impedire che si saldasse il temuto asse tra Andreotti, la sinistra dc e i comunisti che fu fatale a Leone. La parola esorcizzata da Scalfaro con il comunicato letto con studiata solennità da Paolo Frajese in coda al Tgl delle 20.

Scalfaro parla di un terzo tentativo di screditarlo. Per trovare gli altri due bisogna tornare indietro di dieci mesi, all'inverno del '93, quando per due volte nel giro di quaranta giorni, 1'8 febbraio e il 18 marzo, il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli dovette chiarire pubblicamente che il presidente non era coinvolto in alcun episodio di corruzione.

Vittorio Mele aspetta le due e mezzo del pomeriggio dell'indomani, sabato 31 ottobre, per scagionare il presidente della Repubblica: «Da accertamenti disposti di cui soltanto stamattina si è avuto il risultato, le circostanze riferite da un funzionario del Sisde, delle quali si è occupata la stampa, al di là del significato difensivo che esse esprimono, riguardano un periodo successivo a quello in cui il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è stato ministro dell'Interno. E pertanto da escludere ogni forma di coinvolgimento del presidente anche nella gestione dei fondi riservati, essendo stato peraltro acquisito il regolare rendiconto degli stessi all'atto del passaggio delle consegne dal prefetto Parisi al prefetto Malpica. Si precisa inoltre che l'attuale ministro dell'Interno Nicola Mancino non risulta menzionato tra coloro che avrebbero utilizzato o consentito l'uso distorto dei fondi segreti del Servizio».

Respira di sollievo Scalfaro, che ha trascorso questo sabato di passione lontano dal Ouirinale, in compagnia di Napolitano e di Ciampi che lo hanno confortato.

Mele ha aspettato il primo pomeriggio per stilare il comunicato perché al mattino ha interrogato Malpica e ha voluto rassicurarsi circa l'assenza di nuovi colpi di mano. In realtà Malpica si limita a portare avanti il gioco concordato con i suoi ex collaboratori del Sisde. A proposito dei 14 miliardi, trovati l'anno precedente dal giudice Vinci sui conti dei funzionari del Sisde alla banca Carimonte, cambia versione e dice di essere stato costretto a mentire al pubblico ministero: quei soldi, in realtà, sarebbero fondi personali dei funzionari, e la tesi che fossero invece del Sisde (al quale furono restituiti da Vinci) sarebbe stata concordata in sede politica col mini-

stro Mancino per sgonfiare l'azione giudiziaria, con la promessa di una futura restituzione.

I giudici Torri e Frisani sono insoddisfatti dei primi interrogatori di Malpica, che parla a rate e non convince. Della vicenda comincia a interessarsi anche il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti perché si parla di una loro ennesima riforma. Ma il suo presidente Pecchioli, riferendosi alla deposizione di Malpica, parla di chiamata in causa di ministri dell'Interno senza far capire con chiarezza se il periodo di Scalfaro sia escluso o no.

Lega e Msi continuano a martellare il Quirinale. Bossi dice che il presidente della Repubblica deve andarsene dopo le elezioni («Si ritiri in convento» incalza il presidente della Lega, Rocchetta). Fini aggiunge che, come ex ministro dell'Interno, Scalfaro deve essere ascoltato dal Comitato dei servizi.

Parla Galati, bomba a Montecitorio

A dare la spallata finale interviene il 3 novembre Michele Galati, cassiere del Sisde fino al dicembre del '92, quando fu scoperto il famoso conto Carimonte. Tra Carimonte e Credito Industriale Sammarinese (l'altra banca-salvadanaio dei benestanti funzionari del Sisde), Galati risulta intestatario di circa 6 miliardi. Agli stupefatti giudici Torri e Frisani, l'ex cassiere dice che quei soldi sono suoi, frutto dei 50 milioni di premi mensili ricevuti dal Servizio. E per dimostrare che le borse del Sisde erano generose con tutti afferma che almeno dal 1982 tutti i ministri dell'Interno ricevevano un appannaggio di 100 milioni mensili. Anche Scalfaro? Anche Scalfa-

ro, risponde Galati. Anche Gava, Scotti e Mancino? Anche loro. Anche Fanfani? Fanfani no, dice Galati. Awicinato per «La Stampa» da Guido Tiberga, il senatore conferma: «L'opinione pubblica dovrebbe essere contenta che ci sia gente che quei soldi non li ha voluti. Dovrebbe essere stato così per

256 257 tutti. Ma non so che cosa è successo e non tocca a me esprimere giudizi».

Ma la stilettata di Galati al capo dello Stato non si ferma ai 100 milioni. Il funzionario aggiunge perfidamente che i Servizi «aiutavano un amico di Marianna Scalfaro». Si tratta dell'architetto Salabé che per il Sisde ha fatto cospicui lavori. Dai documenti acquisiti dalla magistratura durante gli interrogatori, risulterà anche che Salabé aveva un trattamento privilegiato: il 12 marzo 1992 il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti firma un decreto per l'urgente acquisizione di un immobile in via Poli 12, necessario agli uffici del Sisde. Il prezzo dichiarato è di 15 miliardi e mezzo. Ma il nuovo direttore del Servizio, Alessandro Voci autorizza una spesa complessiva di 25 miliardi. La differenza viene versata in nero, si giustifica Voci, per non aggravare di 2 miliardi di Iva i costi per l'ufficio e per non far lievitare ulteriormente il prezzo dell'immobile, vista l'incidenza fiscale che sarebbe maggiore.

L'architetto Salabé è anche proprietario di due lussuosi e discreti complessi alberghieri (il Borgo Paraelios, a Poggio Catino, cinquanta chilometri da Roma, e la Baja Paraelios a Tropea, in Calabria) frequentati da personaggi al massimo livello politico. E consulente del Quirinale per le più delicate

ristrutturazioni edilizie. Ma è su piazza da almeno dieci anni e presentarlo semplicemente come «amico di Marianna» significa mirare al cuore del presidente.

Come avevano fatto Broccoletti e Malpica, anche Galati parla di una riunione al massimo livello tenuta nel dicembre del '92 alla presenza di Scalfaro, per concordare una versione da dare alla magistratura dopo lo scandalo Carimonte e mettere tutto a tacere. A differenza dei suoi colleghi, Galati porta apparenti pezze d'appoggio: foglietti, numeri, sigle che il procuratore Mele definisce «pretesa documentazione costituita da appunti informali recanti firme o sigle attribuibili agli stessi indagati o a persone dello stesso ambiente». Carte che per legge andrebbero distrutte ogni tre mesi, ma che gli uomini del Sisde hanno scrupolosamente conservato per garantirsi una serena vecchiaia. Galati viene interrogato il 2 novembre, Mele passa tutta la giornata del 3 con i suoi collaboratori per decidere se trattenere l'inchiesta o trasferirla al Tribunale dei ministri (deciderà di trattenerla) e solo alle sei del pomeriggio gli stralci più esplosivi emergono dai computer delle agenzie di stampa e arrivano naturalmente anche sui terminali dei giornalisti parlamentari a Montecitorio. «In aula si vota la riforma dell'articolo 138 della Costituzione» racconta su «la Repubblica» Barbara Palombelli «ed è una votazione importante: le luci arancione lampeggiano per richiamare all'ordine tutti i deputati. Nel Transatlantico che sembrava deserto, improvvisamente, come formiche impazzite, tutti i cronisti parlamentari iniziano ad agitare foglietti. Su quelle pagine strappate dalle telescriventi, l'assalto al Quirinale, l'accusa al capo dello Stato, le insinuazioni verso il ministro degli Interni...»

I parlamentari votano in gran fretta per correre in Transatlantico e riempire i taccuini dei cronisti. Gerardo Bianco dichiara alla «Repubblica»: «Conosciamo Scalfaro da trent'anni, il suo rigore, la sua intransigenza...». Meno generosa Irene Pivetti della Lega, che certo non immaginava quanti contatti avrebbe dovuto avere in futuro col presidente: «Tutto previsto. La Lega aveva denunciato la corruzione del sistema...», mentre Diego Novelli della Rete parla di «carte false».

Su tutte le dichiarazioni pesa la prospettiva delle elezioni anticipate. Tranne la Dc e il vecchio pentapartito, tutti vogliono che Scalfaro sciolga al più presto le Camere. Nella bagarre di Montecitorio, la sera del 3 novembre, molti nella sinistra, nella Lega e nel Msi vedono dietro le carte scottanti degli «spioni» o «barbe finte», come vengono chiamati in gergo gli agenti dei Servizi, una manovra per evitare il ricorso anticipato alle urne o comunque per ritardarlo il più possibile. Alla sincera solidarietà di alcuni parlamentari deve pertanto sommarsi il sostegno strumentale di altri, che temono oltre l'immaginabile le dimissioni del capo dello Stato, sufficienti a provocare un lunghissimo rinvio della consultazione. Fanno eccezione i leader del Msi e della Dc. Fini vuole le elezioni presto, anche se non può prevedere l'exploit del 28 marzo: nonostante questo, insiste nel ventilare l'impeachment di Scalfaro. Martinazzoli vuole le elezioni il più tardi possibile, anche se non arriva a prevedere i disastrosi risultati di primavera: ma la lealtà nei confronti del capo dello Sta-

258 259 to, del ministro dell'Interno Mancino e dei ministri dell'In-

terno, tutti democristiani, che si sono alternati al Viminale dalla prima legislatura in poi, gli impone un'immediata e pubblica condanna delle deposizioni di Galati e dell'uso strumentale che comincia a farsene.

La signora Garofalo veste il marito

D'accordo con Occhetto, Martinazzoli rifiuta l'immediato dibattito in aula richiesto da altre forze politiche.

Al Quirinale si trascorrono intanto ore molto difficili. Il capo dello Stato e i suoi collaboratori hanno conosciuto, ovviamente, in anticipo sulle agenzie di stampa il contenuto esplosivo della deposizione di Galati. E sanno qualcosa di molto più grave, che i giornali conosceranno dopo un paio di giorni: subito dopo l'arresto, l'ex direttore del Sisde, Riccardo Malpica, ha confermato la deposizione di Galati («Preparavo ogni mese una busta con 100 milioni e l'intestazione: signor Ministro») aggiungendo di aver consegnato personalmente la somma a Scalfaro. Il Quirinale apre dunque fin dal pomeriggio una serie di consultazioni riservate con i presidenti delle Camere e con il presidente del Consiglio, da cui Scalfaro riceve rinnovata solidarietà. Ma non basta. Il presidente sta pensando di parlare alla nazione. Viene preparata una bozza di messaggio televisivo e Scalfaro - che tiene alla sua onestà più che a ogni altra cosa - scrive esplicitamente che ha sempre fatto un uso rigorosamente istituzionale dei fondi assegnatigli come ministro dell'Interno, ma la frase non sarà mai pronunciata davanti alle telecamere.

La diffusione dei verbali di Galati attraverso le agenzie di

stampa e il pandemonio che ne nasce a Montecitorio convincono il Quirinale a rompere gli indugi e alle 20.30 il presidente decide di rivolgersi al paese nella stessa serata. Cinque minuti più tardi (il telegiornale è appena finito) il redattore del Tgl Fabrizio Ferragni chiama dal Quirinale il suo direttore, Demetrio Volcic, e gli annuncia una telefonata formale della direzione generale della Rai alla quale in quegli stessi minuti il Quirinale sta chiedendo ufficialmente uno spazio a reti unificate. Destinatario della richiesta Giovanni Garofalo, responsabile della struttura tecnico-informativa della Rai presso il Quirinale.

A conferma del fatto che Scalfaro ha deciso soltanto nella tarda serata di rivolgersi al paese, il centralino del Quirinale trova Garofalo a casa, vicino a piazza Navona. Ci è arrivato da poco, si è messo in pantofole e veste da camera, e la signora Dina ha appena portato la pasta in tavola, quando squilla il telefono. «Dottore, un momento: le passiamo il segretario generale della Presidenza della Repubblica». Garofalo guarda con un po' di malinconia gli spaghetti che si raggrumano quando attraverso la cornetta, invece della voce sommessa di Gaetano Gifuni, gli arriva quella squillante di Gaetano Scelba, per gli amici Tanino, capo del servizio stampa del Quirinale. «Scusarni, Giovanni. Il presidente ha deciso di rivolgersi al paese con un messaggio...» «...televisivo?» sussurra Garofalo nella fervida speranza che Scalfaro abbia scelto una forma di esternazione più cauta e, soprattutto, che possa fare a meno della sua presenza fisica al Quirinale. «Televisivo» ribatte implacabile Tanino. E aggiunge, fatalmente: «Pensi tu a tutto, naturalmente?».

Garofalo risponde di sì perché non può fare altrimenti, e

comunque senza quasi avvedersene. Il bravo giornalista ha infatti assunto il suo incarico al Quirinale soltanto da quattro mesi. Viene dalla radio, dove è stato chiamato nel '91 dal direttore Marco Conti, che lo convinse a lasciare Bari e la vicedirezione della «Gazzetta del Mezzogiorno» per assumere la guida della redazione politica del Gr2. Garofalo non ha mai fatto televisione, non ha avuto tempo di maturare esperienze tecniche in questo campo e ha appena cominciato a studiare il rinnovo degli apparati per trasmettere dal Quirinale.

Quando Scelba gli annuncia che di lì a poco il presidente vuole parlare agli italiani in diretta tv e che lui, Garofalo, «deve pensare a tutto», il nostro deve richiamare tutta la forza della propria fibra per sostenersi. «Arrivo subito» dice.

A questo punto la famiglia Garofalo dà prova di una formidabile organizzazione logistica. La signora Dina toglie dalle spalle del marito la vestaglia e la sostituisce con una carnicia, abbottona collo e polsini, getta via le pantofole e recupera un paio di scarpe di riguardo. Tutto questo mentre Giovanni, mantenendo appoggiata con la guancia sinistra la cornetta del telefono sulla spalla, cerca di mettersi in contatto attraverso la Batteria, l'efficientissimo centralino riservato del governo, con il direttore generale Gianni Locatelli e con il suo assistente Sergio Borsi. Locatelli corre a viale Mazzini, mentre Garofalo, al quale ormai la moglie deve soltanto allacciare le scarpe, chiama i tecnici dell'emergenza nella cittadella Rai di Saxa Rubra per ordinare l'immediato invio di un pullman leggero da riprese esterne al palazzo del Quirinale.

Lui stesso si presenta ai corazzieri di guardia all'ingresso

di via del Quirinale (la «palazzina» dove sta lo studio privato del presidente) alle 21 precise, appena mezz'ora dopo la telefonata di Scelba. Ma i corazzieri non lo fanno passare. «Dove vuole andare a quest'ora?» chiedono a Garofalo, e quando lui di soprannumero annuncia addirittura l'arrivo di un pullman per le riprese esterne, poco manca che i corazzieri lo prendano per matto. Ma il responsabile della struttura tecnico-informativa della Rai presso il Quirinale, che ha saltato la cena, si è fatto vestire dalla moglie e ha costretto il direttore generale a tornare in plancia di comando a viale Mazzini, tutto può sentirsi dire, tranne che di essere matto. Ordina dunque ai corazzieri di cercare il dottor Scelba e la Rai può occupare finalrnente il Palazzo, anche per conto di Fininvest e Telemontecarlo che, per evitare nuove emergenze e un inutile spiegamento di telecamere aggiuntive, hanno chiesto il segnale audiovideo di trasmissione alla televisione di Stato.

M Cagliari e Perry Mason scompaiono dal video

Alle 22 Rai Uno sta trasmettendo una partita del Cagliari in Coppa Uefa e Rai Due un bel film della serie Perry Mason quando sulla parte bassa del teleschermo compare quello che in gergo si chiama «serpentone»: una striscia ripetuta in cui si annuncia che alle «22.15 il presidente della Repubblica rivolgerà un messaggio agli italiani». Alle 22.15 in effetti i programmi vengono interrotti. Viene interrotto Perry Mason, e pazienza. Ma viene interrotta anche la partita del Cagliari, ed è bene a questo punto che il lettore sappia che le partite di calcio in diretta sono la cosa più sacra per i telespettatori italiani. Se il 23 maggio del '92 si decise sciaguratamente di non interrompere «Scommettiamo che...?» per dare spazio alla

morte di Falcone, l'interruzione di una partita di calcio in diretta, sia pure di una «provinciale» come il Cagliari, richiede un'assoluta emergenza. Un «messaggio agli italiani» del presidente della Repubblica in effetti lo è. Solo che, quando viene interrotta la trasmissione della partita di Coppa Uefa, sugli schermi non compare il volto paterno e accigliato di Oscar Luigi Scalfaro, ma una bella signora che dice che il sederino di suo figlio con quei pannolini in offerta speciale è così asciutto che più non si potrebbe. Dopo i pannolini, il caffè. Dopo il caffè, l'auto economica e sicura che siccome c'è la crisi viene quasi regalata, ma solo fino al 15 novembre. Insomma, nove interminabili minuti di pubblicità, mentre Onofrio Pirrotta ricompare imbarazzatissimo su Rai Due, Paolo Liguori debutta come direttore-anchorman di Italia Uno nelle condizioni più difficili e nemmeno una vecchia volpe come Emilio Fede sul Tg4 sa come cavarsela.

Che succede? Succede che nei cavi che portano dalle telecamere piazzate nello studio di Scalfaro ai trasmettitori della Rai (che a loro volta debbono passare a Fininvest e Telemontecarlo immagini e sonoro del messaggio) transitano le immagini, ma non la voce di Scalfaro. La tensione è altissima, Giovanni Garofalo non sa che pesci prendere, mentre il presidente riesce perfino a scherzare («Ce la faremo prima di Natale?») e il paese, rimasto senza messaggio, ma anche senza partita, senza Perry Mason e senza tutto il resto, comincia a innervosirsi e a intasare i centralini della Rai e dei giornali per chiedere spiegazioni.

Ma il problema è tecnicamente irrisolvibile in tempi brevi e la Rai è costretta a mandare di gran carriera al Quirinale

una stazione satellite mobile («ITA 17») che consente alle 22.30 al capo deUo Stato di fare finalmente «capoccella», come dicevano amabilmente i vecchi tecnici di studio di una generazione ormai scomparsa.

«Un saluto a tutti» attacca Scalfaro e va subito giù duro: «Una constatazione: prima si e tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. Occorre rimanere saldi, sereni. Penso sia giunto il momento di fare un esame chiaro dell'attuale realtà italiana per trame conclusioni forti ed efficaci». Dice parole gravi e accorate, il presidente della Repubblica. Parla di «tentativo di lenta distruzione dello Stato». E aggiunge: «A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l'allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l'istituto costituzionale della Presidenza della Repubblica».

Scalfaro arriva poi al punto cruciale, le elezioni anticipate: «Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato. Questa mia presa di posizione non ha alcuna recondita intenzione di allontanare le elezioni politiche. Il mio pensiero fu chiaramente espresso il 4 ottobre a Bologna, ed è di assoluto, doveroso, sostanziale rispetto del risultato referendario che ha voluto una nuova legge elettorale perché sia attuata. Tale volontà non muta, e sono vane le pressioni che si manifestano da più parti, con varia arroganza e con diversi, anche se opposti intendimenti, e troppe volte con forme rozze e volgari, fino al punto di configurare reato.

Per questo, pur nell'asprezza disgustosa della sleale battaglia, mio dovere primario è di non darla vinta a chi lavora allo sfascio.»

La chiusura è una chiamata morale alle armi: «Siamo a un passaggio difficile per l'Italia e per il popolo italiano. Non si affronta che con la responsabilità e il sacrificio, con l'amore per la patria. A questo siamo chiamati. A questo occorre rispondere».

Scalfaro ha parlato per sette minuti. E ne passano appena una decina per raccogliere le prime, contrastanti reazioni. «Ouello del presidente Scalfaro è un messaggio responsabile, doverosamente preoccupato degli interessi della nazione» dice Achille Occhetto. «Ha parlato poco e non s'è capito niente» ribatte Francesco Speroni, capogruppo della Lega al Senato. «Bastava dire: non mi dimetto e sciolgo le Camere.» Gelida la replica del dc Mattarella: «Di fronte alla nobiltà del messaggio del presidente Scalfaro e alla gravità dell'attacco alle istituzioni, la Lega non sa uscire dalla volgarità e non rinuncia all irresponsabile sciacallaggio politico».

Resta da chiedersi perché Scalfaro abbia depennato dal suo messaggio la frase sull'uso sempre rigorosamente istituzionale dei fondi assegnatigli. Quando l'abbia depennata, non sappiamo. E certo che, mentre i tecnici della Rai impazzivano per stabilire il collegamento con il Quirinale, Scalfaro ha riletto ininterrottamente il messaggio cancellando e aggiungendo frasi di suo pugno e facendo, come spesso gli accade, completamente di testa sua.

Un ministro dell'Interno (e Scalfaro lo è stato per quattro anni) ha il diritto-dovere di disporre di fondi riservati e di amministrarli discrezionalmente con l'unico vincolo di rispettare la legge. La vicenda Sisde ci ha dimostrato che molte persone hanno largamente abusato di questa discrezionalità. Ma dell'onestà di Scalfaro nessuno ha dubitato. La sua attività politica dalla Costituente a oggi è specchiata. La sua casa di periferia in città e la sua villetta a Santa Severa dimostrano un'assoluta sobrietà di costumi. Scalfaro è stato sempre il prototipo del politico onesto. Pur conoscendomi pochissimo, alla fine del '91 aveva accettato la proposta di un'importante casa editrice torinese di scrivere con me un libro-intervista su morale e politica; l'iniziativa, rilanciata dagli inizi di Tangentopoli, cadde per la sua chiamata al Quirinale.

Perché, dunque, non giocare a carte scoperte puntando sul carisma che lo lega agli italiani? A chi glielo chiede, il presidente risponde di non aver voluto, quel 3 novembre, dare l'impressione di essere sceso in campo per una difesa personale. Voleva salvare la rispettabilità delle istituzioni. Ma più d'uno, nel mondo politico, non ha apprezzato il gesto.

«Il presidente è alle corde»

«Presidente alle corde»: così «Panorama» titola il servizio di Stefano Brusadelli e Massimo Franco la settimana successiva al messaggio. Dice il giornale: «Ostaggio della Lega e del Pds

264 265 che vogliono elezioni al più presto, accusano molti parlamentari della Dc. Che scalpitano».

L'articolo comincia con l'amara confessione di Gerardo Bianco, capo dei deputati dc: «Ormai mi pare chiaro. Dopo le elezioni anticipate, faranno la festa al capo dello Stato...». E aggiunge, dopo aver riferito le diverse posizioni politiche sul caso: «Il vero dramma di Scalfaro è questo miscuglio di solidarietà e di veleni. Nessuno lo vuole cacciare, per ora. Al contrario. Molti lo vogliono così: al Quirinale, ma indebolito da voci infamanti. Diventa ogni giorno più palpabile la sensazione che un capo dello Stato azzoppato faccia comodo a tanti giocatori del potere. La Lega può continuare a ricattarlo, minacciando secessioni parlamentari e governi prowisori se non ci saranno elezioni entro primavera... Anche Occhetto ha puntato tutto sul voto. E uno Scalfaro debole significa una Dc debole. Forse può significare persino l'incarico a un esponente del Pds per guidare il primo esecutivo della prossima legislatura. Sotto voce, alle Botteghe Oscure già si fanno piani per rintuzzare l'offensiva anti-Scalfaro prevedibile dopo il voto anticipato; almeno fino alla formazione del nuovo governo».

Con la sola eccezione dell'«Indipendente», che lo martella ogni giorno con titoli scandalistici, il presidente della Repubblica viene difeso da tutta la grande stampa.

Questa generale solidarietà insospettisce Lanfranco Vaccari che lamenta come «i giornali si dedichino al ridimensionamento dello scandalo».

Scrive Vaccari: «La coincidenza fra la reazione dei politici e quella della stampa è curiosa. La prima è del tutto compren-

sibile: i maggiori partiti oggi vogliono andare alle elezioni e l'impeachment del presidente le ritarderebbe. Per questo, tendono a bollare la vicenda del Sisde come manovra organizzata dagli irriducibili dell'ancien régime. Danno un'interpretazione politica dei fatti, li piegano alle loro convenienze. Fanno il loro mestiere. E lecito però chiedersi se fanno il loro mestiere i media quando si lanciano in una difesa preconcetta di Scalfaro, assoggettandosi alla prevalenza della ragion politica. Per giornali votati all'informazione e non alla politica, il problema è solo stabilire se il presidente ha preso i soldi del Sisde e come li ha usati. L'alternativa non è fra giustizia e democrazia. Ma fra verità e bugie. Nient'altro».

«Altro fango da Malpica: Scalfaro lo pagavo io» titola «la Repubblica» venerdì 5 novembre. I giornali sono appena arrivati sulla scrivania del procuratore capo di Roma, Vittorio Mele, che da piazzale Clodio parte nei confronti di Malpica e dei suoi un siluro imprevedibile: l'ex direttore e gli altri due dirigenti che più si sono esposti contro Scalfaro, il direttore amministrativo Broccoletti e l'ex cassiere Galati, vengono imputati di «attentato agli organi della Costituzione»: l'articolo 289 del codice penale prevede per questo reato una pena minima di dieci anni. Motivazioni giuridiche o ragion di Stato?, chiede il cronista giudiziario della «Repubblica», Raimondo Bultrini, al procuratore aggiunto Ettore Torri. La risposta: «E abbastanza intuibile, non c'è bisogno che ve lo dica io. Certamente c'è una base giuridica, però hanno pesato fortemente elementi di opportunità generale».

Nelle settimane successive, mentre si dibatte sulla data delle elezioni anticipate, il dramma assume talvolta tinte grottesche. «In coda per un bacetto della Zarina» titola a pie-

na pagina il «Corriere della Sera» del 14 novembre.

La Zarina, ve la ricordate? E Matilde Martucci segretaria di Malpica. Arrestata alcuni giorni dopo il suo principale, accusata di aver messo su una fortuna in pochi anni, la Martucci viene ritratta come l'autentica Circe del Sisde.

Titola ancora il