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1 I Compendi per la scuola
Giuseppe Rocco
COMPENDIO DI LETTERATURA ITALIANA Per la scuola media
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INDICE
INTRODUZIONE ………………………………………………………………………………5 IL MEDIOEVO …………………………………………………………………………………6 Il quadro storico-politico. ………………………………………………….............................6 Il quadro culturale. …………………………………………………………………………....7 Il volgare italiano. …………………………………………………………………………….8 L’attività letteraria in Italia. ………………………………………………..............................8 La poesia in volgare. ………………………………………………………………………….9 La poesia religiosa umbra. ……………………………………………………………………9 Le sacre rappresentazioni. …………………………………………………….........................9 La Scuola siciliana. ……………………………………………………………………………9 Il Dolce Stil Novo. ……………………………………………………………………………10 Dante e il Dolce Stil Novo. …………………………………………………………………..10 La poesia comica toscana. ……………………………………………………………………10 Cecco Angiolieri. ……………………………………………………………………………..10 Il mondo della Divina Commedia di Dante Alighieri. ………………………………………..11 Il mondo del Canzoniere di Francesco Petrarca. ……………………………………………...16 Il mondo del Decameron di Giovanni Boccaccio. …………………………………………………18 IL RINASCIMENTO …………………………………………………………………………….21 Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………...21 Il quadro culturale. …………………………………………………………………………….22 L’attività letteraria in Italia. ……………………………………………………………………23 L’epica rinascimentale italiana. ………………………………………………………………..23 Tre grandi protagonisti del Rinascimento italiano. ……………………………………………24 Niccolò Machiavelli. …………………………………………………………………………..24 Ludovico Ariosto. ……………………………………………………………………………..25 Torquato Tasso. ……………………………………………………………………………….27 IL SEICENTO E IL SETTECENTO. ………………………………………………………….29 Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………..29 Il quadro culturale del Seicento. ………………………………………………………………29 L’attività letteraria nell’Italia del Seicento. …………………………………………………...30 Il quadro culturale del Settecento. …………………………………………………………….30 L’attività letteraria nell’Italia del Settecento. …………………………………………………31 Nuove forme espressive nel Seicento e nel Settecento italiano. ………………………………31 La Commedia dell’arte. ……………………………………………………………………….31 Le maschere della Commedia dell’arte. ………………………………………………………31 Giuseppe Parini. …………………………………………………………….............................33 Carlo Goldoni. …………………………………………………………………………………34 L’OTTOCENTO …………………………………………………………………………………36 Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………...36 Il quadro culturale. ……………………………………………………………………………..37 Il Romanticismo. ………………………………………………………………………………37 I TEMI DEL ROMANTICISMO………………………………………………………………37 I DUE VOLTI DEL ROMANTICISMO. ……………………………………………………...38 La letteratura romantica in Italia. ………………………………………………………………38 Il Positivismo……………………………………………………………………………………39 IL RUOLO DELLO SCRITTORE. …………………………………………………………….39 IL ROMANZO NATURALISTA. ……………………………………………………………..39
3 Il Verismo italiano. ……………………………………………………………………………39 I protagonisti del Romanticismo italiano: Foscolo, Leopardi, Manzoni. ………………………….40 Ugo Foscolo. …………………………………………………………………………………...40 Giacomo Leopardi. …………………………………………………………………………….41 Alessandro Manzoni. …………………………………………………………………………..42 Narrativa e poesia di fine Ottocento: Capuana, Verga, Carducci. ……………………………..45 La narrativa del Verismo. ……………………………………………………………………...45 Luigi Capuana. …………………………………………………………………………………45 Giovanni Verga: la trama e il significato dei Malavoglia. …………………………………….45 Giosue Carducci. ……………………………………………………………............................46 IL PRIMO NOVECENTO ………………………………………………………………………48 Il quadro storico-politico. ……………………………………………………………………...48 Il quadro culturale. …………………………………………………………………………….49 La crisi di inizio secolo. ……………………………………………………………………….49 Il Decadentismo. ………………………………………………………………………………50 Il Simbolismo. ………………………………………………………………............................50 Valori nuovi e nuove idee. …………………………………………………….........................50 Le Avanguardie. ……………………………………………………………………………….50 L’attività letteraria in Italia. ……………………………………………………………………51 La lirica del primo Novecento. ………………………………………………………………...51 La narrativa e il teatro del primo Novecento. ………………………………………………….51 Due protagonisti del Decadentismo italiano: Pascoli e D’Annunzio. …………………………52 Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. …………………………………………………….52 Esperienze poetiche del primo Novecento. ……………………………………………………55 Il mondo dei crepuscolari. ……………………………………………………………………..55 Sergio Corazzini. ………………………………………………………………………………55 Guido Gozzano. ………………………………………………………………………………..55 Marino Moretti. ………………………………………………………………………………..55 Aldo Palazzeschi. ……………………………………………………………………………...56 Un variegato panorama di sperimentazioni. …………………………………………………..56 Filippo Tommaso Marinetti. …………………………………………………………………..57 Camillo Sbarbaro. ……………………………………………………………………………..57 Dino Campana. ………………………………………………………………………………..57 Clemente Rebora. ……………………………………………………………………………..57 Vincenzo Cardarelli. …………………………………………………………………………..58 Giuseppe Ungaretti: la poesia e l’esperienza della guerra. ……………………………………58 Il romanzo di analisi nelle voci di tre narratori: Svevo, Pirandello e Tozzi. ………………….59 La narrativa e la crisi del Novecento. …………………………………………………………59 La coscienza di Zeno di Italo Svevo. ………………………………………………………….59 Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. ……………………………………………………….60 L’opera narrativa di Federigo Tozzi. ………………………………………………………….61 Esperienze teatrali del primo Novecento. ……………………………………………………..62 La presenza di grandi autori. …………………………………………………………………..62 La verità non esiste: Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello. ………………………………….63 Tra “magia” e ironia: Nostra Dea di Massimo Bontempelli. …………………………………64 Corruzione al Palazzo di giustizia: il teatro di Ugo Betti. …………………………………….64 IL SECONDO NOVECENTO ………………………………………………..............................66 Il quadro storico-politico. ………………………………………………………........................66 Il quadro culturale. ……………………………………………………………………………..67 La cultura verso il terzo millennio. ……………………………………………………………67
4 L’attività letteraria in Italia. ……………………………………………………………………68 La nuova poesia. ……………………………………………………………………………….69 Il clima poetico del dopoguerra. ……………………………………………………………….69 Eugenio Montale: la poetica del “negativo”. …………………………………………………..69 Umberto Saba: un comune destino di dolore. …………………………………………………70 La poesia di Quasimodo e l’ermetismo. ……………………………………………………….71 Sandro Penna: una poesia di grande “semplicità”. …………………………………………….72 Giorgio Caproni. ……………………………………………………………………………….72 Mario Luzi: il tempo e l’eternità. ………………………………………………………………73 Giovanni Giudici: un esempio di realismo poetico. ……………………………………………73 Narrativa del secondo Novecento. ……………………………………………………………..74 Dal Realismo al Neorealismo. …………………………………………………........................74 Ignazio Silone: un’anticipazione del neorealismo. …………………………………………….74 Vasco Pratolini: il primo esempio di narrativa neorealista. ……………………………………75 Cesare Pavese, tra realismo e romanzo di analisi. ……………………………………………..75 Alberto Moravia: l’”urgenza della fame”. ……………………………………………………..76 Il rapporto di Pasolini con il neorealismo. ……………………………………………………..76 L’ultima narrativa. ……………………………………………………………………………..77 Italo Calvino: la ribellione di Cosimo. …………………………………………………………78 Elsa Morante: il magico mondo dell’infanzia. …………………………………………………79 Antonio Tabucchi: il lento risveglio di una coscienza. ………………………….......................79
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INTRODUZIONE
Con il termine “Letteratura” si designò in origine l’arte del leggere e dello scrivere e, in seguito, la conoscenza di tutto ciò che veniva affidato alla scrittura, cioè, come dicevano i latini, alle litterae. “Letteratura” divenne quindi sinonimo di cultura e di dottrina umana. Ma per orientarsi nell’immensa materia di opere affidate alla scrittura si è sentita la necessità di procedere a una loro sistemazione, creando precise partizioni relative all’argomento trattato ora da storici, ora da filosofi, scienziati, artisti. Nascono così diverse tipologie di letteratura, dalla storiografia alla filosofia, dalle opere scientifiche a quelle sull’arte. Attualmente per “Letteratura” si intende l’insieme delle opere affidate, naturalmente, alla scrittura, nelle quali però emerge un aspetto particolare, quello che trasmette stati d’animo, ideali, valori, giudizi sul mondo. Ma quale mondo? Certo quello in cui è vissuto l’autore e che è costruito sulle esperienze del passato. Ecco perché parliamo di storia della letteratura e precisiamo anche l’ambito geografico in cui essa si è formata (storia della letteratura italiana, o francese, o inglese ecc.). Occorre dunque collocare l’opera e il suo autore nel cuore della storia, indicandone i tempi e individuandone l’evoluzione nei vari movimenti culturali che hanno accompagnato sempre, a sostegno o a contrasto, gli avvenimenti politici, economici e sociali della storia di un popolo.
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IL MEDIOEVO
Prima di iniziare lo studio dei grandi autori della Letteratura italiana dell’età medievale è necessario rispondere a queste domande: Qual era il quadro storico e politico del nostro Paese? Qual era il pensiero dominante che caratterizzava gli uomini di cultura di questo periodo? Quale lingua parlavano e in quale lingua scrivevano gli uomini che abitavano la nostra penisola nel cosiddetto basso Medioevo, cioè nel Duecento e nel Trecento? Quando avremo chiarito tali questioni, potremo iniziare la rassegna dei grandi poeti e scrittori che da quei lontani secoli fino ad oggi hanno reso illustre la cultura del nostro Paese. Il quadro storico-politico. L’Impero e il Papato. I fondamenti sui quali si reggeva il mondo medievale erano due grandi istituzioni: l’Impero e il Papato. Ambedue erano ritenute istituzioni universali e sacre e si disputavano la funzione di guida di tutto il genere umano. Da questa disputa erano nate tante contese e si erano creati due partiti, quello dei Guelfi, che appoggiavano il Papato, e quello dei Ghibellini, che appoggiavano l’imperatore. La maggior parte delle città italiane erano sconvolte da queste due opposte fazioni, che rivaleggiavano per ottenere il potere cittadino. Ma i Ghibellini subirono un durissimo colpo nel 1266, quando, sul campo di battaglia di Benevento, morì Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, ultimo rappresentante del partito imperiale. A sconfiggerlo era stato il francese Carlo d’Angiò, che il papa aveva chiamato in aiuto contro il suo avversario Manfredi. I Ghibellini persero il potere in quasi tutte le città italiane; i Guelfi trionfarono. Ma, se l’Impero, con il crollo del partito ghibellino, perse il suo prestigio, anche il Papato si venne ben presto a trovare in gravi difficoltà, quando fu costretto a fare i conti con chi era venuto in suo aiuto ed esigeva ora una pesante ricompensa: il re francese Filippo il Bello, infatti, pretendeva di sottoporre alla sua autorità non solo alcuni territori della penisola, ma lo stesso Papato. Dallo scontro con lo Stato nazionale francese il Papato uscì sconfitto. La Chiesa dovette piegarsi alla volontà e alla potenza della corona francese, trasferendo la sede papale ad Avignone, nel sud della Francia. La “cattività avignonese”, cioè la prigionia del Papato nella città francese, durò per circa settant’anni, dal 1309 al 1377: durante questo lungo periodo, la Chiesa fu guidata da papi francesi e fu amministrata da funzionari francesi. L’”esilio” ridusse notevolmente la libertà d’azione della Chiesa in Europa e in Italia, e si fece sentire soprattutto a Roma, lacerata dalle discordie tra le grandi famiglie, che aspiravano al potere della città. Il Comune. Accanto alle due grandi istituzioni dell’Impero e del Papato si era sviluppata in Italia, a partire dall’XI secolo, un’altra particolare forma di governo, che operava all’interno delle città: il Comune. Questo organismo politico, che si affermò soprattutto nel centro-nord, fu promosso dalla borghesia cittadina; si fondava, infatti, sulla libera associazione di artigiani e mercanti (Arti e Corporazioni), sulla libertà dei commerci e sulla libera espressione delle opinioni politiche, anche se tutti i Comuni dell’Italia centro-settentrionale appartenevano territorialmente all’imperatore germanico. La diversità delle opinioni politiche fu causa, all’interno di ogni Comune, di dure contese e di lotte fratricide, determinate dal desiderio di ciascun partito di ottenere il potere nella città. In particolare, a Firenze, dopo la sconfitta dei Ghibellini, la lotta politica si svolse tutta nell’ambito della parte guelfa, a sua volta divisa nelle fazioni dei Bianchi e dei Neri. Fra il 1300 e il 1301 la parte nera,
7 sostenuta dal pontefice Bonifacio VIII, ebbe il sopravvento e impose nella città un proprio governo, che decretò l’esilio di tutti i Bianchi, fra i quali il poeta Dante Alighieri, che apparteneva a questo partito. Le Signorie. Nel corso del Trecento si assistette al progressivo ampliarsi della sfera politica dei Comuni: dalla città, attraverso l’assoggettamento del contado, si giunse alla formazione di Stati più ampi, le Signorie, così chiamate perché soggette alla guida di un unico “signore”. In un primo tempo il regime signorile mantenne, almeno formalmente, le istituzioni del Comune (consigli, magistrature, organi vari), che però, in seguito, persero di valore. Il signore, infatti, rafforzò il suo potere, che veniva trasmesso all’erede, e cercò di rendere legittima la propria posizione, richiedendo che fosse riconosciuta dall’imperatore o dal papa. Il Regno del Sud. Una storia a parte caratterizza invece il Mezzogiorno d’Italia. Già nel 1197, un giovanissimo principe, Federico II di Svevia, aveva ereditato dal padre l’impero tedesco e dalla madre, ultima erede dei Normanni Altavilla, tutta l’Italia meridionale. E proprio a Palermo egli stabilì la sua splendida corte, vivacizzata dalla presenza di numerosi letterati. Dopo la sua morte, nel 1250, e dopo quella di suo figlio Manfredi, sconfitto a Benevento da Carlo d’Angiò, in seguito a varie vicende, il regno fu diviso tra gli Angioini di Francia, che si stabilirono nel meridione d’Italia con sede a Napoli, e gli Aragonesi di Spagna, che occuparono la Sicilia. L’Italia meridionale, dunque, non conobbe l’esperienza dei Comuni e delle Signorie, rimanendo fino alla spedizione garibaldina del 1860 un regno affidato, dopo alterne vicende, alla guida di sovrani di origine spagnola.
Il quadro culturale. La cultura medievale è profondamente influenzata in ogni suo aspetto dalla Chiesa. Se la cultura antica poneva ogni felicità nei beni della terra e nella vita che l’uomo vi conduce, in questo nuovo clima la vera patria è il cielo; la dimora sulla terra è sentita come un periodo di attesa o di preparazione a quel felice momento in cui l’anima, con la morte fisica, si libererà del peso e dell’impaccio del corpo e volerà verso la sua vera sede, il cielo. Il mondo pagano considerava la vita come dominata e oppressa da un fato misterioso e spesso avverso agli uomini, contro cui era vano anche l’eroismo dei singoli. Ora invece, il mondo cristiano sosteneva che l’esistenza dell’uomo è vegliata dalla Provvidenza di Dio, i cui segreti sfuggono alla nostra comprensione, ma che ci conduce alla felicità e alla salvezza. Accanto a queste posizioni religiose, nel corso del Trecento, si affermano anche correnti di pensiero “laico”, cioè non soggetto all’influenza della Chiesa. La società comunale e mercantile tende a valorizzare le virtù dell’intelligenza, dell’astuzia, dell’accorta amministrazione. Anche l’uomo nel suo aspetto “naturale” appare degno di considerazione. E a poco a poco si riscoprono, attraverso le testimonianze dell’antichità classica, i valori celebrati dagli antichi scrittori. E’ su questi nuovi interessi che viene formandosi, verso la fine del Trecento, la cultura dell’Umanesimo, che avrà grande sviluppo nel secolo successivo.
8 Il volgare italiano. Per oltre cinquecento anni, dalla caduta dell’Impero romano (476 d. C.) sino a qualche decennio dopo il Mille, in Italia si parlava una lingua che in realtà non era più il latino (almeno quello “classico” usato al momento del maggiore fulgore di Roma) e non era ancora quello italiano. Era la lingua parlata del “volgo” cioè dal popolo e per questo chiamata volgare. Il volgare a lungo fu solo parlato: era dunque una lingua orale, mentre il latino, pur trasformato e quindi diverso da quello classico, restava patrimonio della classe dei dotti che continuavano a scrivere nell’antica lingua di Roma. Alla fine del Duecento, un grande letterato e poeta, Dante Alighieri, affidò al volgare anche la parola scritta. Dante, infatti, rendendosi conto che il latino non poteva essere compreso che da un numero limitato di persone, decise di scegliere per il suo imponente poema, la Divina Commedia, il volgare. E proprio sulla lingua volgare, Dante scrisse un’opera, De vulgari eloquentia, nella quale definì la sua posizione nei riguardi della lingua letteraria capace di competere con il latino. Come lui, più tardi usarono il volgare anche Francesco Petrarca per il suo Canzoniere e Giovanni Boccaccio per il suo Decameron. Attraverso l’opera di questi grandissimi autori, il volgare, e in particolare il volgare toscano (gli autori erano nati tutti e tre in questa regione), dimostrava di essere una lingua non solo nuova, ricca, varia, ma utilizzabile per qualsiasi componimento letterario, sia in prosa che in poesia.
L’attività letteraria in Italia. La letteratura italiana nasce dunque nel XIII secolo. Accanto ad alcuni minori, che trattano temi di carattere religioso (San Francesco d’Assisi, Jacopone da Todi) e di carattere laico (Cecco Angiolieri), essa è testimoniata dal sorgere di due scuole poetiche, quella dei Siciliani e successivamente quella del Dolce Stil Novo, alla quale appartengono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli e lo stesso Dante Alighieri. Come si è detto, emergono tuttavia soprattutto le voci di tre grandi, Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, impegnati ciascuno in particolari generi letterari: Dante nella narrazione allegorica del viaggio nell’oltretomba, Petrarca nella lirica amorosa, Boccaccio nella novellistica. Nella Divina Commedia, Dante Alighieri, attraverso l’incontro con i dannati dell’Inferno, con i penitenti del Purgatorio, con i beati del Paradiso, rappresenta la realtà dei suoi tempi, colta attraverso gli errori, le colpe e le virtù degli uomini: un immenso affresco del mondo medievale in tutti i suoi aspetti positivi e negativi. Nel Canzoniere, invece, Francesco Petrarca canta il suo amore non corrisposto per Laura, una giovane donna che con il fascino della bellezza lo attrae e nello stesso tempo gli provoca un profondo senso di colpa, perché lo allontana da Dio, abbandonandolo in preda al peccato. Nel Decameron, infine, Giovanni Boccaccio raccoglie una grande varietà di storie sia del mondo classico che medievale, organizzate secondo un percorso di grandi temi (la fortuna, la cortesia, l’amore, le beffe, gli arguti motti, ecc.), che ci offrono uno specchio della realtà sociale e dei valori dominanti nel Trecento.
9 La poesia in volgare. La poesia religiosa umbra. La prima voce della letteratura italiana è quella della lirica religiosa in volgare umbro: la voce di San Francesco, che innalza la sua lode a Dio con il Cantico delle Creature. La poesia religiosa si esprime infatti soprattutto attraverso la lauda, un canto ritmato, inizialmente in latino, nel quale hanno modo di esprimersi anche i fedeli. Confraternite di laici, i laudesi, raccolgono testi che vengono destinati al canto in chiesa, durante le processioni o le ricorrenze religiose. Una di queste laudi è appunto il Cantico delle Creature di San Francesco. E lauda è anche il Pianto della Madonna di Jacopone da Todi. Le sacre rappresentazioni. Jacopo de’ Benedetti (che usa riferirsi a se stesso col soprannome di Jacopone), vissuto nella seconda metà del Duecento, dopo una profonda crisi religiosa entrò nell’ordine dei Francescani. La sua fama è legata alle laudi drammatiche in volgare umbro e in particolare a quella intitolata Pianto della Madonna. Ma che cos’erano queste laudi drammatiche, e quali esiti hanno avuto? Cerchiamo di rispondere a queste domande. Quando la lauda, di cui è esempio il Cantico delle creature di San Francesco, si articola in un dialogo a due o più voci, essa si trasforma facilmente in uno spettacolo, che ha come scopo quello di essere presentato a un pubblico, naturalmente di fedeli. Nasce così la lauda drammatica o sacra rappresentazione, una forma di teatro abbastanza diffusa nel Duecento e nel Trecento, quando nelle chiese e nei monasteri i fedeli rappresentavano i momenti più importanti della vita di Gesù Cristo. In Italia si manifestò soprattutto ad opera dei flagellanti, una confraternita religiosa che durante le processioni si flagellava e nel contempo rievocava, a più voci, fatti della vita di Gesù. Col tempo si andarono precisando le parti degli attori, la scenografia, i luoghi scelti per l’azione. La direzione era affidata al festaiolo, una specie di impresario, che era anche il suggeritore e il macchinista nel caso di utilizzo di macchinari per l’intervento di angeli o di diavoli. Il Pianto della Madonna di Jacopone, costruito con un dialogo a più voci in versi, da recitare in chiesa, è dunque una lauda drammatica, prima espressione del teatro popolare italiano. La Scuola siciliana. Avrai letto nel libro di storia che alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia, si riunivano numerosi poeti, che dettero vita alla Scuola siciliana. Siamo nella prima metà del Duecento e questi poeti traggono la loro ispirazione dai trovatori provenzali, cantori e poeti del sud della Francia che vagavano di corte in corte per celebrare la bellezza della donna amata secondo uno stile molto raffinato. I poeti della scuola siciliana che utilizzano contenuti simili a quelli dei trovatori cantano la donna amata come una creatura superiore a cui dichiarano la propria servitù. Ad essa infatti dedicano la loro poesia come un atto di omaggio, simile a quello del vassallo nei confronti del proprio signore. La preziosità del linguaggio, lo schema raffinato delle rime, l’”invenzione” del sonetto fanno di questa scuola poetica un modello a cui si ispireranno poi anche gli stilnovisti. Tra i più noti esponenti della Scuola siciliana vi furono, oltre allo stesso Federico II, Pier delle Vigne, celebrato da Dante nella Divina Commedia, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne.
10 Il Dolce Stil Novo. Con l’espressione Dolce Stil Novo, coniata da Dante nel suo Purgatorio, si indica l’esperienza di un gruppo di intellettuali bolognesi (Guido Guinizzelli) e fiorentini (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, lo stesso Dante), che condivisero una medesima scelta di argomenti, quali l’amore e l’amicizia, e una stessa maniera di poetare, servendosi della forma del sonetto o di quella della canzone. Nelle liriche degli “stilnovisti”, la donna è una creatura angelica, portatrice di un messaggio celeste e perciò strumento di salvezza. Questo amore tutto spirituale alberga solo in un’anima “gentile”, che esprime il suo sentimento attraverso la lode. Dante e il Dolce Stil Novo. Anche Dante fu poeta stilnovista. La donna che egli amò, e che cantò col nome di Beatrice, influì sulla sua vita e sulla sua poesia in modo assai profondo. In lei gli studiosi hanno individuato Bice Portinari, che si spense a soli ventiquattro anni. Nella Vita Nuova, che Dante compose qualche tempo dopo la morte di lei, raccogliendo le liriche stilnovistiche che aveva scritto in suo onore e collegandole con testi in prosa, il poeta racconta la storia dell’amore purissimo nutrito per la fanciulla fin dalla più tenera età. Egli diede questo titolo alla sua opera per indicare che Beatrice aveva dato un orientamento nuovo alla sua vita, fin dal primo incontro, avvenuto all’età di nove anni. Essa è per il poeta l’angelo che Dio ha mandato sulla terra perché gli uomini conoscano visibilmente la bellezza del Paradiso. Chi la guarda depone ogni ira e prova nel proprio cuore una dolcezza che le parole non possono esprimere. Dopo un primo smarrimento all’annuncio della morte di Beatrice, Dante decide di continuare la celebrazione di lei in un’opera più degna. E’ un chiaro riferimento alla Divina Commedia dove Beatrice sarà la guida di Dante nel Paradiso. La poesia comica toscana. Dalla seconda metà del Duecento, in Toscana, accanto alla spiritualità e ai nobili ideali espressi dallo Stilnovismo, si sviluppa anche un filone comico-realistico, i cui soggetti e temi sono ispirati alla vita terrena e ai molteplici aspetti spesso burleschi della realtà quotidiana. Questo filone si esprime tanto nella prosa – con i racconti del Novellino, di autore anonimo, e con le Trecentonovelle di Franco Sacchetti – quanto nella poesia, con autori quali Rustico Filippi, Folgore da San Gimignano e Cecco Angiolieri, il più noto. Cecco Angiolieri. Contemporaneo di Dante, Cecco Angiolieri sembra divertirsi a rovesciare in modo burlesco i modelli stilnovisti; in particolar modo, alla caratteristica celebrazione della donna come creatura angelica sostituisce, soprattutto nei sonetti dedicati alla donna amata, Becchina, le offese, le ingiurie e un linguaggio rozzo e volgare. La poesia più celebre dell’Angiolieri è comunque S’i’ fosse foco, una elencazione di desideri tra i più empi e malvagi, la cui sostanziale scherzosità appare chiara solo nel finale.
11 Il mondo della Divina Commedia di Dante Alighieri. Il Medioevo, pur mostrando una diversità di aspetti e caratteri, è profondamente influenzato dal Cristianesimo, che pervade la vita quotidiana degli uomini e ispira artisti e intellettuali. Sul piano culturale e letterario, il culmine della religiosità medievale è certamente rappresentato dalla Commedia di Dante Alighieri, in seguito chiamata Divina Commedia perché risaltasse già dal titolo il suo carattere di opera sacra. Essa è infatti e prima di tutto un eccezionale documento della cultura medievale, della fede, del pensiero politico di quel periodo storico. Perciò è testimonianza di una cultura molto diversa dalla nostra. Lo si ricava chiaramente dalla struttura dell’opera, che si rifà alla cosmologia geocentrica (da geo = Terra), dovuta all’astronomo egiziano Tolomeo vissuto nel II secolo d. C. e accettata dalla Chiesa. Anche per Dante la Terra è immobile al centro dell’universo e intorno ad essa girano nove sfere celesti, tutte quante circondate dall’Empireo, sede di Dio. Un ordine universale regge l’intero universo e in esso si riflette l’orma di Dio creatore. A questo ordine si ispira la simmetria “geometrica” del poema dantesco nella suddivisione della vasta materia affrontata. Tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), ciascuna di 33 canti con l’aggiunta di un canto di premessa per l’Inferno, per cui si raggiunge il totale di 100 canti. Nove cerchi nell’Inferno; due balze più sette cornici nel Purgatorio; nove sfere celesti nel Paradiso. La stessa forma metrica scelta dal poeta, la terzina, ripropone il 3 e i suoi multipli come numero perfetto. Tutta questa rigorosa simmetria rivela la tendenza medievale ad una sistematica suddivisione del creato secondo l’orientamento del pensiero diffuso in quel tempo e che si insegnava nelle università (la filosofia scolastica). Ma in questa “gabbia” creata da Dante vivono personaggi indimenticabili che, con il loro esempio di eterno dolore nell’Inferno, di sofferta attesa nel Purgatorio, di eterna felicità nel Paradiso, offrono ai vivi la possibilità di liberarsi dal male, edificando sulla Terra il regno della giustizia e della pace.
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15 DA RICORDARE. La cronologia del viaggio ultraterreno. Dante immagina di compiere il suo viaggio nell’anno 1300, durante la settimana santa (fra l’8 e il 15 aprile, secondo alcuni studiosi). Gli elementi simbolici. Gli artisti medievali si compiacquero introdurre nelle loro opere tutto un gioco di simboli e di significati occulti, quasi sempre con intenzioni religiose o comunque morali. Esempi di questo gusto nella Divina Commedia sono: a) il frequente ricorrere del numero 3, simbolo della Trinità: e così la strofa usata da Dante è di 3 versi; 3 sono le cantiche; la struttura del poema, per quanto riguarda il numero dei canti, risulta di 1 + 33 +33 + 33; b) la figura di Virgilio che simboleggia la ragione umana e quindi solo fino ad un certo punto può guidare Dante nel suo viaggio; dopo è necessario l’intervento di Beatrice simbolo della Verità rivelata, della Teologia; c) le fiere che Dante incontra all’inizio del suo viaggio e che corrispondono a peccaminosi atteggiamenti dell’animo umano: lupa = avidità; lonza = malizia; leone = violenza. Va ricordato che non è sempre facile determinare il preciso significato di tutti i simboli e varie sono le interpretazioni degli studiosi. La legge del contrappasso. La pena cioè è sempre in relazione con il peccato: o per contrasto (esempio, i golosi: mentre nella vita amarono le finezze ora invece sono colpiti da una fetida pioggia) o per affinità (esempio, i falsari: come nella vita falsificarono metalli o denari, così hanno il corpo sfigurato, falsificato da deformanti malattie). L’autore. Dante Alighieri nasce nel 1265 a Firenze da una famiglia di piccola nobiltà, che parteggia per il partito politico dei Guelfi. Riceve un’istruzione accurata e si perfeziona negli studi di retorica e di filosofia. Dedicatosi assai presto alla poesia, canta il suo amore per Beatrice, che gli appare simile a un angelo inviato da Dio a lui e all’umanità intera per elevare al cielo chiunque la veda. Alla morte della donna, Dante raccoglie in un’opera, che intitola Vita Nuova, le rime e le prose che aveva composto in suo onore, decidendo poi di celebrarla in un’opera più degna. Quest’opera sarà la Divina Commedia, nella quale Beatrice ha il ruolo di guida di Dante nel Paradiso. Attivo uomo politico (scrive anche un trattato politico, il De Monarchia), Dante prende parte alle drammatiche discordie tra le famiglie fiorentine guelfe del tempo, divise tra la fazione dei Bianchi, di cui egli è sostenitore, e quella dei Neri; da questi ultimi, vittoriosi, è costretto all’esilio. A trentasette anni deve separarsi dalla casa natale, dalla famiglia, dagli amici e, soprattutto, dalla città che ama d’un affetto profondissimo. Al dolore dell’esilio si aggiungerà poi l’umiliazione di dover chiedere protezione e assistenza ai potenti principi del tempo. E presso uno di questi, Guido da Polenta, signore di Ravenna, egli muore nel 1321. Dante è autore anche di un’opera dottrinale in volgare, il Convivio, di un trattato in latino sulla lingua, De vulgari eloquentia, di versi in volgare, Rime, e di 13 Epistole in latino, nelle quali parla anche di vari argomenti che riguardano la sua vita, l’esilio e il suo grande poema. In tre punti si può sintetizzare l’esperienza di Dante: 1. la fede cristiana; 2. la passione politica; 3. l’esilio da Firenze.
16 Il mondo del Canzoniere di Francesco Petrarca. L’opera maggiore di Francesco Petrarca, il Canzoniere, è una raccolta di 366 liriche in volgare italiano (per lo più sonetti), ispirate dalla donna amata, Laura. Esso si distingue in due parti fondamentali: la prima parte (che comprende 263 composizioni) segue i vari momenti dell’amore per Laura, ma contiene anche alcune rime di argomento politico e di altro genere; la seconda parte è invece segnata dall’amarezza, dovuta soprattutto alla morte di Laura, avvenuta nel 1348. Tuttavia la successione dei singoli componimenti nella raccolta non tiene conto dell’ordine cronologico della loro composizione, perché la vicenda d’amore, che è quella essenziale, non corrisponde a un racconto realistico e non segue, pertanto, un filo narrativo. Le poesie sono accostate secondo i motivi, i temi, i momenti e le situazioni psicologiche e tendono a mettere in luce i diversi stati d’animo dell’autore. Nasce così una concezione nuova della poesia, che influirà sulla cultura di tutta l’Europa. Scaturiti dall’esperienza individuale e da una personalissima vicenda d’amore, i versi del Petrarca acquistano infatti valore universale, in quanto esprimono l’universo dei sentimenti che stanno al fondo dell’animo di ogni uomo. In ciò sta essenzialmente la novità del Petrarca nella storia della letteratura. Per lui, infatti, il poeta non è, come per Dante, un maestro di fede o di morale, ma un cantore capace di trasfigurare l’esperienza personale in sentimenti universali, il quale trova nella lirica la forma espressiva più adatta. La poesia infatti non segue la ragione, ma l’immaginazione e ha la stessa natura della musica: è un canto che si innalza sui sentimenti umani di gioia o dolore, traducendoli in immagini e musicalità. Per questo la poesia è sempre fonte di gioia, anche quando il contenuto è malinconico. Nonostante che di per sé la poesia non sia utile, né necessaria, essa diviene così la più stabile delle creazioni umane, perché resta valida per sempre. L’influenza del Petrarca sulla poesia di tutta Europa fu profonda, lunga, costante e dette vita a un modello di composizione cui fu attribuito il nome di petrarchismo. L’imitazione non venne praticata solo da poeti mediocri e di debole ispirazione, ma anche da artisti molto originali e dotati. Basti pensare all’inglese William Shakespeare, che nella seconda metà del Cinquecento compose oltre cento sonetti di modello petrarchesco, o a Giacomo Leopardi, nelle cui liriche si riscontrano molti echi della poesia di Petrarca. Quali le ragioni della grande influenza esercitata da questa poesia? Prima fra tutte il tema amoroso, di cui Petrarca aveva mostrato le infinite possibili espressioni; poi il contrasto fra terra e cielo, cioè l’opposizione tra una passione tutta umana e una profonda inclinazione religiosa tesa ad esaltare un amore puramente spirituale; infine la grande capacità “tecnica” con cui il poeta era riuscito a contenere un mondo sentimentale estremamente vario e complesso entro il brevissimo spazio di quattordici versi, cioè nel sonetto, oppure in quello, un po’ più ampio, della canzone. I poeti del Novecento, che hanno a lungo studiato e anche imitato Petrarca, sono invece stati più spesso attratti, come Giuseppe Ungaretti, dal modo in cui egli svolge il tema del tempo, che rappresenta il senso della fragilità di ogni esperienza umana. Il sonetto. Il sonetto è una breve composizione nata nel Medioevo in Provenza e diffusa in Italia dalla Scuola siciliana. Fin dalle sue origini il sonetto è composto di quattro strofe: due quartine (strofe di 4 versi) e due terzine (strofe di 3 versi), per un totale di 14 versi. Il sonetto è stata una delle forme più diffuse nella poesia italiana, fin dai suoi inizi: anche Dante scrisse sonetti e così tanti altri poeti che incontrerai proseguendo lo studio della letteratura. Il sonetto è una delle composizioni preferite dal Petrarca, che in esso esprime la pena del suo sentimento amoroso non corrisposto o il dolore per la morte di Laura, la donna da lui amata. La pena del sentimento non corrisposto lo ferisce ed egli cerca luoghi deserti perché nessuno gli possa leggere in viso la sofferenza che prova nell’animo. Solo la natura potrà confortarlo. Ma è una fuga inutile: può sfuggire agli uomini, non all’amore. Questa pena determina dunque nel poeta due stati d’animo strettamente legati l’uno all’altro: il desiderio di solitudine e l’aspirazione alla riflessione. Essi sono resi con grande efficacia rappresentativa nel sonetto Solo e pensoso…Infatti il ritmo grave
17 del primo verso (Solo e pensoso i più deserti campi) esprime perfettamente la stanchezza interiore del poeta vittima d’Amore; l’andamento solenne del secondo (vo mesurando a passi tardi e lenti) introduce il motivo della solitaria, ininterrotta meditazione. Ecco così delineato lo sfondo su cui prende rilievo la dolorosa vicenda del protagonista. La canzone. Anche la canzone, come il sonetto, è una forma di composizione poetica usata dal Petrarca. La canzone si compone di strofe, chiamate stanze, in numero variabile da cinque a sette; chiude la canzone una stanza più breve, detta commiato. Essa può, come il sonetto, avere contenuti diversi. Quella petrarchesca canta soprattutto l’amore del suo poeta per Laura, motivo fondamentale del Canzoniere. L’autore. Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304, da esuli fiorentini. Giovanissimo, si trasferisce con la sua famiglia in Provenza, ad Avignone, la città che, per volontà dei re francesi, è divenuta la sede del Papato. Per ubbidire al padre, segue gli studi di giurisprudenza, ma in realtà predilige quelli letterari. Il venerdì santo del 1327, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, vede una bellissima donna, Laura, e si innamora di lei. Questo amore, non corrisposto, sarà l’argomento della sua opera maggiore, il Canzoniere, composto di 366 liriche. Le sue poesie lo rendono presto famoso, tanto che egli ottiene la corona di poeta dal re di Napoli, Roberto d’Angiò. Postosi al servizio della curia papale e di potenti famiglie del suo tempo, riceve molti incarichi diplomatici e si reca in varie città italiane, presso le corti di principi e signori. Trascorre gli ultimi anni della vita tra Padova, Venezia e ad Arquà, sui colli Euganei presso Padova, dove muore nel 1374. Oltre che del celebre Canzoniere, Petrarca è autore di molte altre opere, quasi tutte in latino. Tra quelle in versi, si ricordano particolarmente il Bucolicum carmen e il poema Africa; tra quelle in prosa, alcuni trattati (come il Secretum e il De vita solitaria) e le Epistole. L’unica altra sua opera in volgare è il poema allegorico I Trionfi.
18 Il mondo del Decameron di Giovanni Boccaccio. Il Decameron è una raccolta di 100 novelle, inquadrate in una “cornice” narrativa di cui ti diamo il prospetto. Attraverso questi racconti Giovanni Boccaccio dipinge una immagine vivacissima dell’umanità, paragonabile per vivezza di colori a quegli affreschi della stessa epoca che puoi ancora oggi ammirare sulle pareti delle chiese e dei palazzi. Uomini e donne, nobili e popolani, mercanti e artisti animano il racconto con la loro personalità e le loro virtù. Ne scaturisce una visione realistica della vita cittadina nei suoi aspetti più diversi, dove sciocchi e saggi, onesti e imbroglioni, ipocriti e virtuosi, tutti trovano uno spazio, entrando in rapporto gli uni con gli altri. A Boccaccio non interessa mettere in evidenza i “cattivi” e i “buoni”; il suo scopo è di rappresentare un’umanità varia, con i suoi pregi e le sue debolezze, un’umanità che egli osserva con simpatia, cercando tuttavia di esaltare un comportamento sempre corretto e dignitoso, anche se aperto alle gioie e ai piaceri della vita. Una galleria di figure affidata al giudizio del lettore, che ne potrà trarre un effettivo insegnamento per la propria vita. Quella proposta da Boccaccio nel Decameron è una nuova morale, insieme “umanistica” e “cittadina”. Umanistica nel senso che essa si fonda sull’idea di un uomo che deve essere considerato per se stesso, per quello che vale; cittadina, perché l’uomo non esiste, non conta nulla, se non all’interno di una rete di rapporti umani. Ognuno deve dunque definire la propria “virtù” rispettando la propria natura, ma anche la ragione; deve saper vivere non in solitaria meditazione, ma a contatto con gli altri individui, rispettandoli ed esercitando quelle virtù della “cortesia” e della “misura” che sono segno di una autentica umanità. I vili, gli sciocchi, gli ipocriti non sono certo trascurati nel Decameron: sono i tipi che, con signorile distacco, vengono colpiti dalla beffa ideata da Boccaccio per suscitare il sorriso nel lettore e per farlo riflettere anche su questa realtà negativa della vita cittadina.
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20 L’autore. La splendida corte di Napoli dove regna Roberto d’Angiò è l’ambiente in cui si manifestano i primi interessi letterari di Giovanni Boccaccio che, nato nel 1313 a Certaldo (presso Firenze), si reca giovanissimo nella città partenopea e lì soggiorna per oltre un decennio (1327 – 1340). Gli anni felici trascorsi a Napoli si riflettono nelle sue prime composizioni in prosa e in poesia. A Firenze, nel 1348, Boccaccio è testimone della terribile pestilenza che colpisce la città e che diventa lo scenario e lo sfondo della sua opera maggiore, il Decameron, a cui è affidata la sua fama. Muore nel 1375 a Certaldo, dove si era ritirato negli ultimi anni della vita per dedicarsi allo studio di testi latini e greci. Conosciuto quasi esclusivamente per il Decameron, massimo capolavoro della prosa trecentesca, Boccaccio è tuttavia autore di molte altre opere in volgare, come le Rime, diversi poemi e poemetti (tra cui il Filostrato, l’Amorosa visione e il Ninfale fiesolano), alcuni romanzi (Filocolo, Elegia di Madonna Fiammetta), il Ninfale d’Ameto (misto di prosa e poesia), il Trattatello in laude di Dante. Dedicatosi, negli ultimi anni della vita, agli studi eruditi sulle lingue classiche, Boccaccio ha lasciato anche diverse opere in latino.
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IL RINASCIMENTO
Il Rinascimento italiano, forse la stagione più bella e vitale di tutta la nostra cultura, influenzò, con la poesia, con il pensiero e con l’arte, tutte le letterature europee. Fu un’età caratterizzata da una nuova concezione dell’uomo, di cui non si esaltavano più, come nel Medioevo, le virtù della contemplazione e della rinuncia, bensì l’azione, l’energia, la forza della volontà. Se il monaco era stato l’uomo-tipo del Medioevo, il protagonista della nuova età fu il capitano di ventura, il Signore, colui che, con la forza dell’ingegno e delle armi, cioè con virtù attive, creava la propria fortuna. In questo periodo la cultura e l’arte classica vennero studiate con nuovo amore. Si leggevano gli antichi testi con venerazione, con umiltà e con rispetto, se ne studiava la lingua originale, esempio anch’essa di armonia e di eleganza: in quegli antichi autori, secondo il pensiero del Rinascimento, si ritrovavano i principi della saggezza e della capacità umana. Da ciò nacque la condanna del Medioevo, avvertito come un’età di barbarie e di ignoranza, mentre ci si sentiva orgogliosi di scoprirsi eredi della civiltà classica e continuatori del suo messaggio. Il quadro storico-politico. Dalla Signoria al Principato. Nel corso del Quattrocento la maggior parte dei Comuni dell’Italia centro settentrionale si era ormai evoluta nella forma della Signoria. A Milano si era costituito il potere dei Visconti, con un’estensione regionale che giungeva fino al Piemonte, e che confinava con lo Stato veneziano, con la Toscana, con l’Emilia e con l’Umbria. A Verona e Vicenza dominavano gli Scaligeri, a Mantova i Gonzaga, a Ferrara (e poi anche a Modena e Reggio) gli Estensi, a Firenze i Medici. Quando poi il papa o l’imperatore riconobbero ufficialmente ai vari signori il possesso dei domini territoriali, alle Signorie si sostituì una nuova forma di governo che prese il nome di Principato e il signore acquistò il titolo di duca. La divisione dell’Italia centro settentrionale in vari Principati dette inizio a una serie di contese che logorarono la vita politica di ciascuno di essi e che spinsero i vari principi a chiedere l’aiuto delle potenze straniere. Queste volentieri intervennero nelle vicende interne dell’Italia, per assicurare la pace ma in realtà con lo scopo di imporre la propria “protezione”. Ebbe così inizio la dominazione delle case regnanti d’oltralpe nel nostro Paese: Francia, Spagna, Germania portarono i loro eserciti in Italia e qui, ora affiancati, ora osteggiati dai vari principi e dal papa, sconvolsero il territorio della penisola, che diventò campo di battaglia delle loro contese non solo per il predominio sull’Italia, ma anche sull’Europa. Un’Europa in fiamme. Il Cinquecento fu per l’Europa, scossa da gravi conflitti politici e religiosi, un secolo di grandi turbamenti. Protagoniste ne furono le corone di Francia, d’Inghilterra, ma soprattutto quella di Spagna, quando ascese al trono imperiale Carlo V, erede da parte di madre del regno spagnolo e da parte di padre dell’impero germanico. La posizione di grande potere e prestigio della Spagna fu causa di rivalità con le altre potenze europee, in particolare Francia e Inghilterra, con le quali scoppiarono violente guerre che si protrassero per decenni e si complicarono, poi, in seguito a sanguinosi conflitti religiosi. La riforma luterana. Nel 1517, infatti, il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero, traendo occasione dalla vergognosa campagna di commercio delle indulgenze promossa da papa Leone X per la costruzione della basilica di San Pietro, pubblicò le sue tesi di riforma della Chiesa di Roma. Il papa tentò, senza però riuscirvi, di soffocare le tesi luterane, che erano state accolte da numerosi principi tedeschi, e trovò
22 un alleato nell’imperatore Carlo V. Questi, infatti, condannò Lutero come fuorilegge, sollevando però le proteste dei principi tedeschi sostenitori della riforma luterana. Di qui il termine di “protestanti” per i seguaci di Lutero a cui si contrappongono i seguaci della Chiesa universale di Roma, che prendono il nome di “cattolici” (dal greco katholikòs = universale). Le guerre di religione e la Controriforma. Questa divisione del mondo cristiano da una parte segnò l’inizio delle guerre di religione, che insanguinarono l’Europa per quasi quaranta anni; dall’altra spinse la Chiesa ad attuare una reale riforma dei propri costumi, che si realizzò nella Controriforma, espressione di una netta opposizione ai protestantesimo, con istituti di repressione e di censura come il Tribunale dell’Inquisizione, a seguito del Concilio di Trento (1545-1563). Intanto, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492 apriva un’era di grande prosperità, soprattutto per la Spagna che aveva finanziato l’impresa.
Il quadro culturale. Umanesimo e Rinascimento. Fra il XV e il XVI secolo l’Italia vive e trasmette all’Europa quel rinnovamento culturale che va sotto il nome di Rinascimento. In questo periodo, portando a compimento un indirizzo cominciato già nel XIV secolo, la cultura e l’arte classica vengono studiate con nuovo amore: si cercano nelle biblioteche dei monasteri e si leggono gli antichi testi latini e greci, le cosiddette humanae litterae. Da questa espressione nasce il termine Umanesimo, con cui viene indicato il nuovo fervore verso il mondo classico. L’humanitas recuperata nei classici sembra offrire il modello di un uomo libero, ricco di forze creative, in armonioso rapporto con la natura. Un uomo, dunque, che è considerato centro dell’universo, misura di tutte le cose, libero artefice del proprio destino. L’esaltazione dell’uomo non si limita solo al valore del suo ingegno ma si estende anche a celebrarne l’armonia del corpo, la bellezza, così come si ricerca la perfetta armonia degli edifici e delle figure nelle rappresentazioni pittoriche. Si studia ora la legge della prospettiva, che consente di riprodurre sul piano lo spazio nelle sue proporzioni reali. Anche il rapporto con il tempo si modifica: si comincia ora a comprendere la diversità delle varie epoche. Nasce una coscienza storica che comporta uno studio critico degli eventi e dei suoi protagonisti. La questione della lingua. La questione della lingua si era aperta con Dante, che aveva esposto la sua teoria nel De vulgari eloquentia. Essa fu ripresa con particolare vigore nel Cinquecento, quando divenne uno degli argomenti più dibattuti: discutere sulla lingua significava soprattutto definire i caratteri di un nuovo linguaggio letterario nazionale. Si era infatti ormai costituito un ceto di scrittori e di pubblico di alto livello sociale, interessato ad una produzione letteraria capace di tradurre in volgare le conquiste culturali dell’Umanesimo: era necessario, conseguentemente, porsi il problema di eliminare i vari “idiomi” regionali e di elaborare un unico “volgare illustre”, cioè una lingua letteraria nazionale che riflettesse sia l’unità di cultura, sia la nobiltà e la dignità della parola cui aspiravano gli scrittori e i lettori ai quali essi si rivolgevano. Grande protagonista della questione linguistico-letteraria del Rinascimento fu il letterato veneziano Pietro Bembo. Egli, nelle Prose della volgar lingua, teorizzò una lingua letteraria “pura” e immutabile, desunta esclusivamente dai “buoni autori” toscani trecenteschi, in particolare Dante, Petrarca e Boccaccio.
23 L’invenzione della stampa. La diffusione delle opere letterarie in volgare trasse un potente incentivo dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1452) e dal ricorso ad essa non solo per testi di carattere culturale e storico, ma anche, e soprattutto, religioso. La Riforma luterana e la Controriforma li diffusero, affidandone la lettura ai chierici e ai dotti che nelle chiese e nelle piazze facevano conoscere alla massa degli analfabeti i testi sacri e le loro interpretazioni. Prese così avvio, specialmente nei Paesi protestanti, una vera e propria rivoluzione culturale e lentamente, col tempo, la massa delle persone da pubblico di ascoltatori divenne pubblico di lettori: basti pensare alla prestigiosa cifra di trecentomila copie delle opere di Lutero e della Bibbia stampate e vendute nel XVI secolo. L’attività letteraria in Italia. Il Rinascimento italiano vanta tre grandissimi autori che si sono cimentati in vari generi letterari: Niccolò Machiavelli, che deve la propria fama a un trattato sul modo di guidare lo Stato, Il Principe; Ludovico Ariosto, autore di un celebre poema cavalleresco, l’Orlando furioso, che conciliava con grande libertà narrativa i temi amorosi e d’avventura con quelli guerreschi ed eroici; Torquato Tasso che, vissuto nel clima della Controriforma, tradusse nel suo poema eroico, la Gerusalemme liberata, i tormenti e i travagli di un uomo attratto da un appassionato amore per i beni terreni e contemporaneamente frenato dalla rigorosa osservanza dei principi cattolici. Accanto ad essi vanno ricordati altri autori, fra cui Matteo Maria Boiardo, cui si deve il poema Orlando innamorato, poi ripreso dall’Ariosto con l’Orlando furioso; Agnolo Poliziano, vissuto alla corte di Lorenzo dei Medici e autore delle Stanze per la giostra in onore di Giuliano, fratello di Lorenzo; lo stesso Lorenzo, che si cimentò in canti per il carnevale come la Canzone di Bacco o il poemetto rustico Nencia da Barberino; Baldassare Castiglione, autore del trattato Il Cortegiano, in cui viene esaltata la figura del perfetto uomo di corte. L’epica rinascimentale italiana. Le chansons de geste che, come abbiamo già accennato a proposito della più famosa di esse la Chanson de Roland, fiorirono nel Nord della Francia a partire dall’XI secolo, conobbero una straordinaria fortuna anche al di fuori della loro patria di origine. E ben si comprendono le ragioni del favore popolare che accolse questo genere letterario: le vicende di Carlo e dei suoi paladini in continua lotta contro gli infedeli, con la loro netta distinzione tra personaggi positivi e negativi, tra le forze del bene e quelle del male – sempre vincitrici le prime, sempre sconfitte le seconde dopo una finale battaglia risolutiva – sono, di per se stesse, elementi che fanno presa sull’animo della folla. Ma occorre ricordare che la Chiesa stessa, la cui cultura idealizzò ben presto Carlo Magno fino a farne una specie di santo, favorì la diffusione delle chanson a lui ispirate, al punto che dopo il Mille la sua figura storica era circonfusa di un alone di epica leggenda. Il mito del sovrano franco e dei suoi paladini, se venne elaborato dalla cultura cristiana nell’età delle crociate, fu però “trasmesso” e divulgato fuori di Francia ad opera soprattutto dei giullari, dei cantori popolari che girando da un paese all’altro in occasione di fiere, mercati, feste religiose e frequentando ugualmente le piazze e le corti, recitavano e cantavano, ricordandoli a memoria, questi testi epici. Naturalmente in questa opera di divulgazione ci si allontanò sempre più dalla lettera e soprattutto dallo spirito dei modelli originari, sia perché i giullari “traducevano” dal francese in modo approssimativo sia perché, desiderosi e bisognosi del consenso popolare, erano indotti a semplificare caratteri e vicende, introducendovi sia elementi estranei all’originale, come il gusto
24 della caricatura e dell’”avventura”, sia trame secondarie che si sviluppavano e si dilatavano a spese della principale. Giullari e cantori in realtà adattavano, forse inconsapevolmente, la materia del ciclo carolingio allo spirito dei tempi, assai diversi, nei quali si trovavano a vivere e dei quali essi, a continuo contatto con la folla, erano, per il loro stesso mestiere, i primi a cogliere le nuove esigenze e i mutamenti del gusto. Due sono i grandi filoni del poema epico-cavalleresco in Italia: il primo, che fa capo a Matteo Maria Boiardo e a Ludovico Ariosto, sviluppa il motivo dell’avventura fino a risolverlo in una stupenda e remota fiaba, in un’evasione romanzesca; l’altro, più legato alla cultura dei giullari, sottolinea l’aspetto comico e grottesco di quel mondo: Luigi Pulci ne è il massimo rappresentante. Poi sarà la fine anche di questa nuova fase del poema cavalleresco. Il cavaliere non ricomparirà più nella cultura occidentale. Ci ha salutato con l’angoscia e la malinconia del solenne paladino di Cristo di Torquato Tasso e con l’amarezza disincantata di Don Chisciotte, grottesco e solitario personaggio di Miguel de Cervantes.
Tre grandi protagonisti del Rinascimento italiano. Niccolò Machiavelli. Niccolò Machiavelli è, insieme a Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, uno dei grandi protagonisti della cultura rinascimentale. Come tutti gli intellettuali del suo tempo, egli vede l’uomo nella sua dimensione terrena. Ma mentre gli altri scrittori, poeti, filosofi ne celebrano la supremazia, ponendolo al centro del creato, Machiavelli ne riscontra gli aspetti negativi: l’egoismo, la volontà di sopraffazione, il desiderio smodato di ricchezze. Per Machiavelli, insomma, l’uomo è malvagio. Chi, a questo punto, può intervenire a controllare e a moderare la malvagità umana? Nella prospettiva tutta terrena del Rinascimento, non può più trattarsi di Dio, come pensava l’intellettuale del Medioevo: guardando con coraggio le cose nella loro realtà, senza finzioni né vane illusioni, Machiavelli giunge alla conclusione che solo uno Stato forte, ben guidato da un Principe può vincere la crudeltà dei singoli individui e costituire un organismo saldo e pacifico al suo interno. L’autore. Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 e fin da piccolo studia con passione i classici latini, in particolare le Storie di Tito Livio. Verso i trent’anni inizia la sua carriera politica, entrando al servizio della Repubblica fiorentina instaurata a seguito della cacciata dei Medici dalla città. Numerose sono le sue “missioni” diplomatiche, sia in Italia sia all’estero: egli ha modo così di confrontare le forme di governo e le teorie politiche degli antichi con l’esperienza diretta della realtà contemporanea. Tutto questo contribuisce alla formazione del suo pensiero politico. La caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno dei Medici al governo della città costringono Machiavelli a un forzato esilio nei suoi possedimenti di San Casciano, nei pressi di Firenze, dove la meditazione sui fatti politici del presente e del passato fa scaturire le sue opere più importanti: il trattato Il Principe, la commedia La Mandragola, i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Dell’arte della guerra e la novella comica Belfagor Arcidiavolo. Egli si riavvicina, poi, ai Medici, che gli danno l’incarico di occuparsi della difesa della città, minacciata dalle truppe di Carlo V. Ma la vittoria di quest’ultimo e la nuova cacciata dei Medici segnano per lui la fine di ogni attività politica. Muore a Firenze nel 1527.
25 Ludovico Ariosto. Nell’universo dell’Orlando furioso, il poema cavalleresco per il quale Ludovico Ariosto è universalmente celebre, si proietta il mondo del Rinascimento con i suoi valori: l’esaltazione dell’uomo e della sua capacità di reagire al caso, al destino avverso; la celebrazione dell’amore come l’elemento che muove tutte le cose; la gioia di vivere, sia pure con la consapevolezza che tutto ciò che è più bello è destinato presto a finire. Ed è proprio questa concezione della vita che caratterizza la poesia narrativa dell’Ariosto: essa non si propone gli scopi che, circa duecento anni prima, si era prefisso Dante: non vuole insegnare valori morali o educare alla religiosità. Si tratta invece di una poesia che, attraverso l’immaginazione, mira a creare un mondo fantastico di felicità e bellezza, nel quale trovano equilibrio e armonia anche le numerose vicende a cui l’autore dà vita. L’Orlando furioso comprende quarantasei canti, ciascuno diviso in una serie di ottave, cioè strofe (o stanze) di otto versi endecasillabi (ovvero di undici sillabe). L’ottava, già presente nella poesia narrativa tradizionale, diventa qui uno strumento prezioso mediante cui l’autore riesce a dare ordine alle vicende raccontate: nel poema ariostesco contenuto e forma si fondono, cioè, in modo tale da assicurare un andamento ordinato alla materia estremamente varia e al complesso intrecciarsi dei vari “fili” narrativi. Si tratta di un aspetto molto importante, in quanto il fine dell’Ariosto consiste proprio nel piacere della narrazione, dell’immaginazione fantastica, della creazione di un mondo equilibrato e armonico. Sebbene la sua poesia non sia volta a insegnare né a educare con precetti morali, nelle avventure che egli racconta e nei personaggi che ne sono protagonisti è comunque possibile cogliere aspetti della vita reale, leggere, come in uno specchio, i sogni, le illusioni, le delusioni, gli inganni, le passioni che fanno parte della esistenza dell’uomo. I personaggi dell’Orlando furioso sono sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcosa: il caso li fa incontrare, li fa scontrare, li fa ritrovare, proprio come accade nella vita quotidiana, dove ciascuno di noi è sempre, giorno dopo giorno, in movimento alla ricerca di qualcosa che dovrebbe soddisfarlo pienamente. Ma anche se riusciamo a raggiungere la nostra mèta, un’altra, subito dopo, se ne presenta, e così via, fino alla fine della nostra esistenza. E su questa corsa degli uomini verso l’oggetto del loro desiderio cala l’ironia del poeta che, se da una parte esalta la natura umana, dall’altra ne mette in luce le debolezze e sa accettarne i limiti con sorridente consapevolezza. Le avventure narrate nel poema ariostesco traggono occasione da quelle narrate dal poema Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e interrotte dalla morte dell’autore. La conoscenza di queste avventure è quindi necessaria per la comprensione di quelle narrate dall’Ariosto. Il poema di Matteo Maria Boiardo, che fin dal titolo dichiara di voler fondere l’elemento eroico del ciclo carolingio (Orlando) con quello amoroso del ciclo bretone (innamorato), si sviluppa in un intreccio complesso di trame, di cui la principale è la seguente. La bellissima Angelica, figlia del re del Catai, giunge a Parigi, presso la corte di Carlo Magno dove migliaia di cavalieri cristiani e pagani sono riuniti per un torneo. Essa è accompagnata dal fratello Aralia e si promette al cavaliere che riuscirà a sconfiggere quest’ultimo. Quando però Ferraguto uccide Aralia, Angelica non tiene fede al patto e fugge verso l’Oriente, inseguita da tutti i paladini, che nel frattempo si sono innamorati di lei, in primo luogo Orlando e Ranaldo. Nella foresta delle Ardenne la fanciulla beve alla magica fonte dell’amore e si innamora di Ranaldo, il quale, invece, ha bevuto a quella dell’odio e la sfugge, mentre il fido Orlando la protegge. Dopo varie peripezie, l’inseguimento d’amore riporta i personaggi nella foresta delle Ardenne, dove Ranaldo e Angelica devono nuovamente alle due fonti magiche, ma scambiando l’incanto: ora è il paladino innamorato a inseguire la fanciulla che fugge. Per amore di lei, Orlando e Ranaldo, a Parigi, si azzuffano e il re Carlo Magno è costretto a separarli, affidando Angelica alla custodia del duca Namo e promettendola a colui che più valorosamente combatterà i Saraceni. Qui termina il poema interrotto, come si è detto, dalla morte dell’autore. Ma la sua storia sarà ripresa e proseguita da questo punto nell’Orlando furioso dell’Ariosto.
26 L’argomento generale dell’Orlando furioso. Proponiamo qui alcune tra le numerosissime vicende narrate nell’Orlando furioso, precisando che però l’Ariosto non svolge mai un episodio dall’inizio allo scioglimento, ma intreccia continuamente i casi dei vari personaggi, per cui un’avventura dà sempre origine ad un’altra avventura. Abbiamo scelto tra le varie storie le due più importanti, che rappresentano i due filoni principali dell’intreccio dell’opera: quella di Angelica e Orlando e quella di Bradamante e Ruggiero. La fuga di Angelica. Angelica, principessa del Catai, portata presso i Franchi dal paladino Orlando, durante la confusione della battaglia contro i Saraceni fugge dalla tenda dove re Carlo l’aveva confinata, decisa a tornare a casa, in Oriente. Durante la fuga, deve affrontare diversi cavalieri, saraceni e cristiani, tutti innamorati di lei, che la giovane tuttavia riesce sempre a tenere a bada. L’amore fra Angelica e Medoro. Durante la sua fuga verso il Catai, Angelica giunge in un campo dove giace ferito un bellissimo giovane dell’esercito saraceno. E’ Medoro, di cui la fanciulla si innamora: lo cura, lo guarisce, lo sposa e con lui esce di scena: tuttavia i segni del loro amore rimangono scolpiti sulle pietre e sui tronchi degli alberi, testimoni della loro passione. La pazzia di Orlando. Orlando, che è innamorato di Angelica, passando più tardi per quei luoghi, vede le scritte, viene a sapere per certo dell’amore dei due giovani e impazzisce. Tutto il suo cervello va a finire sulla Luna ed egli rimane in preda ad una grande follia. Astolfo recupera il senno di Orlando, che ritorna saggio. Ma il cugino inglese Astolfo decide di aiutare il povero paladino e, montato sull’ippogrifo, un cavallo alato, vola sulla Luna a recuperare il senno di Orlando, raccolto in una ampolla. Basterà aspirarne il contenuto e il cervello tornerà al suo posto. Così Orlando, guarito dalla sua pazzia, tornerà a combattere a fianco di Carlo Magno. Il contrastato amore fra Bradamante e Ruggiero. Il mago Atlante, per tenere lontano il suo pupillo Ruggiero dal campo di battaglia, dove lo aspetta un destino di morte, costruisce prima un castello incantato fornito di ogni bene, una sorta di prigione dorata, dove cerca di imprigionare Ruggiero; in seguito, con le sue arti magiche guida l’ippogrifo, montato dal giovane cavaliere, verso un’isola felice, abitata dalla bellissima maga Alcina, che ammalia Ruggiero facendogli dimenticare la fidanzata Bradamante. Ma questa non cede di fronte a nessun ostacolo: libererà Ruggiero da tutti gli incantesimi creati dal mago Atlante e potrà sposare il suo amato. Dal loro matrimonio avrà inizio la dinastia degli Estensi, i signori di Ferrara presso i quali è impiegato lo stesso Ariosto.
L’autore. Quando Ludovico Ariosto, nel 1516, pubblica la prima edizione dell’Orlando furioso ha 42 anni. Nato infatti, a Reggio Emilia, nel 1474, è entrato nel 1504 al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso, signore di Ferrara. A quest’epoca ha già scritto due commedie e dei carmi in latino, ma il suo interesse è rivolto ai poemi cavallereschi e, in particolare, all’Orlando innamorato che l’autore, il Boiardo, non ha potuto completare. Perché non continuare questa bella storia che narra, fra l’altro, anche l’amore contrastato di due giovani, Bradamante e Ruggiero, indicati nel poema del Boiardo come i progenitori degli Estensi?. Potrà in tal modo celebrare la gloria della famiglia d’Este, presso la quale è impiegato come poeta di corte. Nasce così il grande poema che canta le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese dell’antico mondo cavalleresco.
27 Come poeta di corte l’Ariosto accompagna i suoi signori, prima il cardinale Ippolito, poi il duca Alfonso, in varie missioni politiche ed ha svariati incarichi amministrativi, che svolge con grande capacità. Trascorre gli ultimi anni della vita a Ferrara, dove muore nel 1533. Oltre che del poema che rappresenta il suo capolavoro, Ariosto è autore di Rime petrarchesche di argomento amoroso, di sette Satire in versi e di cinque commedie – importanti in quanto sono le prime scritte in lingua italiana – tra le quali si ricordano particolarmente La Lena e Il Negromante.
Torquato Tasso. Già dalla scelta dell’argomento, i fatti della Prima crociata, e dallo sfondo religioso sul quale si colloca la trama del suo capolavoro, il poema eroico Gerusalemme liberata, Torquato Tasso dimostra di esprimere lo spirito dei tempi nuovi. Siamo, infatti, ancora nel Cinquecento, ma il Rinascimento ha ormai ceduto il passo all’età della Controriforma e anche l’arte non può non tenerne conto. L’immaginazione creativa dell’artista deve ora essere temperata dalla religiosità; le sue narrazioni devono tendere all’elevazione morale del lettore; sentimenti e passioni umane devono risultare alla fine meno importanti del dovere morale e dei precetti divini. In questa nuova prospettiva, è ovvio che l’elemento fantastico fine a se stesso, che ha caratterizzato la letteratura cavalleresca e lo stesso Orlando furioso, non sia più gradito; magie e incantesimi, che pure esistono e hanno importanza nel poema del Tasso, trovano così una spiegazione accettabile per il buon cristiano: altro non sono che i mezzi usati dal Maligno per ingannare gli uomini. Con la Gerusalemme liberata, poema in ottave diviso in venti canti, il poema cavalleresco diviene poema eroico. Il Tasso cerca infatti di conciliare la libera creazione della fantasia e il fine morale e religioso, che l’arte deve avere secondo i valori imposti dalla Chiesa cattolica della Controriforma. E’ per questo che il poema è caratterizzato dall’elemento eroico-drammatico: nelle vicende narrate, che hanno esiti talvolta tragici, ma anche nel modo stesso in cui i personaggi le vivono. L’amore, ad esempio fra Clorinda saracena e Tancredi cristiano, non solo non si può realizzare, ma nemmeno manifestarsi e su tutti i protagonisti incombe un oscuro destino di fronte al quale ogni sforzo umano risulta vano. La sofferenza deve sollecitare l’uomo a guardare oltre la vita terrena: questo è l’insegnamento morale del Tasso. Attraverso il dolore ogni uomo può correggersi, migliorarsi in vista della futura vita ultraterrena. Ma la grandezza dell’opera sta anche nella piacevolezza di un racconto che, pur avendo le sue radici nella storia (la prima crociata), offre al poeta la possibilità di arricchire la vicenda con prodigi e fatti soprannaturali e fantastici. Foreste incantate, apparizioni di demoni e di angeli, maghe bellissime possono benissimo essere materia di un poema cristiano, solo se, però, questo mondo meraviglioso è finalizzato al rinnovamento morale e religioso del lettore.
L’argomento generale della Gerusalemme liberata. Erminia ama Tancredi che a sua volta ama Clorinda. I crociati, guidati da Goffredo di Buglione, giungono in vista di Gerusalemme, la Città Santa, difesa dal re Aladino. Alla sua corte si trova Erminia, principessa di Antiochia, segretamente innamorata del principe cristiano Tancredi. Per raggiungerlo, indossa l’armatura della guerriera saracena Clorinda e esce da Gerusalemme. Inseguita dai Cristiani, è costretta a rifugiarsi in campagna fra i pastori. Tancredi da parte sua ama Clorinda, una guerriera musulmana di grande bellezza, coraggio e valore.
28 Armida al campo cristiano. Armida, inviata dalle potenze dell’Inferno nel campo cristiano, riesce col suo fascino ad allontanare i più forti guerrieri. Privo di essi, l’esercito crociato ha la peggio; ma le potenze celesti intervengono a favore dei Cristiani, che attaccano Gerusalemme. La morte di Clorinda. È in questa occasione che Clorinda esce di notte da Gerusalemme, indossando un’armatura scura, per incendiare la torre dei nemici. Assalita dai Cristiani, è costretta a ritirarsi velocemente verso la porta della città, che però viene chiusa prima che la guerriera possa rientrare. Inseguita da Tancredi, che ne ignora l’identità, essa combatte fieramente e a lungo con lui. Ferita mortalmente chiede al suo avversario di essere battezzata. Togliendole l’elmo Tancredi la riconosce e disperato le dispensa il battesimo assistendola negli ultimi momenti della sua vita. La battaglia si conclude a favore dei Cristiani, che entrano esultanti a Gerusalemme liberando il Santo Sepolcro. L’autore. Torquato Tasso vive nella seconda metà del Cinquecento, periodo in cui la grande stagione del Rinascimento entra in crisi: alla Riforma di Martin Lutero la Chiesa risponde con la Controriforma; sono fissate le prescrizioni religiose e le terribili punizioni per chi trasgredisce. E’ questo clima, che naturalmente coinvolge anche la cultura, ad alimentare la poesia del Tasso. Nato a Sorrento nel 1544, egli dimostra fin da giovane un grande amore per la lirica, tanto da comporre a soli quindici anni un primo abbozzo del suo futuro capolavoro, la Gerusalemme liberata, che vedrà la luce nel 1580. Tasso è intanto stato assunto come poeta di corte presso gli Estensi, al servizio del duca Alfonso II. Il timore di aver composto opere che non siano corrispondenti al dettato della Controriforma turba però profondamente l’equilibrio mentale del poeta, che comincia a manifestare una sorta di fissazione religiosa, tanto da venir rinchiuso in manicomio, per ben sette anni, fino al 1586. Gli ultimi nove anni della vita il Tasso li trascorre peregrinando per l’Italia, finché non si ferma a Roma, dove godrà della protezione di papa Clemente VIII fino alla morte, avvenuta nel 1595. Fra le altre opere lasciate dall’autore della Gerusalemme liberata, si ricordano particolarmente le circa 2000 Rime, il romanzo cavalleresco Rinaldo, l’Aminta, una favola pastorale in versi adatta alla rappresentazione teatrale, e il rifacimento in toni assai più cupi e severi del suo poema, con il titolo di Gerusalemme conquistata.
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IL SEICENTO E IL SETTECENTO
Il Seicento fu il secolo della fisica e dell’astronomia, i cui studi, rivoluzionando la mentalità scientifica caratteristica dei secoli precedenti, crearono le basi della scienza e della tecnologia moderna. L’atteggiamento della Chiesa era decisamente ostile alle scoperte scientifiche, a partire da quelle di Niccolò Copernico, Johannes Keplero, Galileo Galilei, Isaac Newton, e costrinse gli scienziati dell’epoca a rinunciare, il più delle volte, alla divulgazione delle loro teorie e di quei sistemi che erano fondati sulle nuove scoperte. Tuttavia la scienza continuò il suo cammino e sviluppò le sue ricerche, non solo nel campo dell’astronomia e della fisica ma anche in quelli relativi alla nascente biologia e agli studi sulle piante, sulla formazione dei ghiacci, e altro ancora. Questo progresso scientifico, da cui nel Settecento ebbe poi origine la “rivoluzione industriale”, determinò conseguenze importanti sul piano sociale ed economico e su quello culturale. La cultura, che nel Seicento si era manifestata con l’arte barocca, si esprimeva ora in un movimento, l’Illuminismo, così chiamato per la sua fede nei “lumi” della ragione umana. Emerse in questo periodo una nuova classe, la borghesia, che pose le premesse di nuovi rapporti sociali, destinati ad affermarsi nei secoli successivi. Il quadro storico-politico. Nei grandi Paesi europei si affermò nel Seicento l’assolutismo, cioè quel regime in cui il regnante ha potere assoluto, illimitato. Simbolo di questo potere fu Luigi XIV, re di Francia, chiamato “Re Sole”. Contemporaneamente l’Italia era ormai soggetta al predominio della Spagna che mostrava già i segni della sua decadenza politica ed economica, dovuta soprattutto al ridursi dell’afflusso di metalli preziosi dalle colonie americane e alle ingenti spese militari richieste dalle guerre nelle quali era coinvolta. Il Seicento fu infatti un secolo di grandi conflitti fra le potenze europee e all’interno degli stessi Stati nazionali (la guerra dei Trent’anni, le guerre di successione, le guerre di religione). Alla conclusione di tali conflitti, importanti furono i mutamenti per l’Italia. I possedimenti spagnoli passarono infatti all’Austria, il ducato di Savoia s’ingrandì con l’acquisto della Sardegna e i duchi di Savoia assunsero il titolo di re di Sardegna. Nella seconda metà del Settecento fino alle guerre rivoluzionarie di fine secolo, l’Italia poté godere di un lungo periodo di pace, durante il quale fu realizzato un vasto programma di riforme. Fu in questo periodo, infatti, che in tutta Europa i sovrani assoluti promossero una serie di riforme, allo scopo di rendere lo Stato più efficiente e più moderno. Ma questo “dispotismo illuminato”, così viene definita tale particolare forma di assolutismo riformatore, non sfiorò la Francia, sebbene proprio là fosse nata la spinta al rinnovamento. Un generale malcontento iniziò allora a serpeggiare fra le file della borghesia francese contro la nobiltà oziosa e parassitaria e contro l’alto clero, che accresceva ogni giorno il suo potere.
Il quadro culturale del Seicento. Il XVII secolo fu caratterizzato da due eventi culturali di grande rilievo, che condizionarono la mentalità di quel tempo: la rivoluzione scientifica, che sostituiva alla teoria tolemaica (la Terra al centro dell’universo, come stabilivano le Sacre Scritture) la teoria eliocentrica formulata dallo scienziato polacco Niccolò Copernico. Seguendo tale teoria, Galileo Galilei affermava che l’universo è infinito, che la Terra è solo una parte di esso e che il Sole sta al centro dei pianeti, che gli ruotano attorno con un ritmo armonioso e simmetrico. Nonostante la reazione negativa della
30 Chiesa, la nuova visione dell’universo e il metodo scientifico basato sull’osservazione sperimentale e sull’uso di strumenti efficienti, si affermarono rapidamente, superando le resistenze di carattere religioso. Il Barocco. Parallelamente, anche nelle arti si affermarono, con il Barocco, una nuova visione della realtà e nuove forme espressive. Il Barocco (termine derivante da una parola spagnola che significa “irregolare, bizzarro”) mirava a cogliere nella natura la continua trasformazione, il divenire, il nuovo per trasferirli nella rappresentazione artistica: al posto della misura e dell’equilibrio rinascimentali, il Barocco ricercava l’effetto dello stupore e della meraviglia; contemporaneamente, l’arte non si proponeva il fine di educare, bensì quello di suscitare il piacere e il diletto. L’attività letteraria nell’Italia del Seicento. Nel corso del Seicento, l’Italia si distinse soprattutto nel campo teatrale, con la Commedia dell’arte. Si trattava di una forma di teatro semplice e immediato, rappresentato da attori, essenzialmente comici, che avevano fatto della recitazione il loro mestiere, cioè la loro “arte”; essi si riunivano in compagnie, guidate da un “capocomico”, e giravano per il Paese rappresentando le loro commedie. La caratteristica principale di questa forma di spettacolo era la mancanza di un testo scritto, di quello che oggi si chiama “copione”; esisteva cioè solo una traccia sommaria, una trama di poche righe: il “canovaccio”. Tutto il resto, cioè lo spettacolo vero e proprio, veniva lasciato all’improvvisazione degli attori (buffoni, giullari, saltimbanchi), che così ne erano sostanzialmente anche gli autori. Nella stessa epoca nacque a Firenze un nuovo genere teatrale, il melodramma, che univa un testo letterario alla musica. Il più celebre rappresentante in questo settore fu Claudio Monteverdi, autore dell’Orfeo e Euridice. Nel campo delle lettere, invece, il nome più prestigioso di questo secolo è quello del napoletano Giambattista Marino che con le sue ricercate, preziose e stravaganti immagini, trovò largo consenso fra i letterati e i poeti del tempo. Il quadro culturale del Settecento. Nel Settecento la fede nella guida della ragione fu considerata l’unica forza che potesse illuminare l’uomo, rendendolo protagonista della storia e della società. Nel corso del secolo il progresso scientifico si tradusse sul piano tecnologico in una serie di scoperte e invenzioni – la macchina a vapore, la filatrice e il telaio meccanico – dalle quali ebbe origine la rivoluzione industriale, inizialmente in Gran Bretagna e poi nelle altre aree del Nord Europa, con le sue importanti conseguenze. Dal desiderio di varcare i propri limiti e conquistare lo spazio scaturì poi la prima “macchina volante”, il pallone aerostatico, detto anche “mongolfiera” dal nome dei suoi inventori, i francesi fratelli Montgolfier. L’Illuminismo. In conseguenza di quanto sopra accennato, la cultura e il pensiero del Settecento sono dominati dall’Illuminismo, un movimento di idee vasto e complesso, fondato sulla fiducia nelle capacità razionali dell’uomo e sulla coscienza della sua dignità. Il suo nome deriva appunto dai “lumi” della ragione, chiamata a squarciare le “tenebre” della superstizione e dell’ignoranza, per trasformare e migliorare la società. L’Illuminismo fu pertanto un movimento progressista e riformatore, animato da una grande fiducia nel progresso e nella possibilità di rendere la società sempre più rispondente ad un ideale di
31 razionalità e di giustizia. Questo progetto è realizzabile, secondo gli illuministi, attraverso una diffusione sempre più ampia del sapere, sia fra le classi più elevate che fra quelle più umili. Le nuove idee penetrarono anche nelle corti dei sovrani europei, che, come si è visto, realizzarono una serie di riforme nei loro Paesi. L’aspirazione alle riforme trovò un efficace canale di diffusione nei club, nei caffè, nei salotti ma soprattutto attraverso la stampa periodica: giornali e riviste si trasformarono in efficaci strumenti per la formazione di una opinione pubblica, stimolando vivaci dibattiti su argomenti di varia natura ma sempre legati all’attualità. L’attività letteraria nell’Italia del Settecento. L’Illuminismo, che si espresse in letteratura attraverso vari generi, principalmente in prosa (dal saggio filosofico al romanzo), si sviluppò principalmente in Francia, da dove si diffuse in tutta Europa. L’Illuminismo diviene operante in Italia nella seconda metà del Settecento, attraverso un proliferare di movimenti culturali. A Milano si pubblica fra il 1764 e il 1766 il periodico “Il Caffè”, organo di diffusione dei “lumi” che vede impegnati i fratelli Pietro e Alessandro Verri; nello stesso periodo Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, un’opera di lucida contestazione delle pratiche disumane della tortura e della condanna a morte. In genere nella città lombarda gli illuministi italiani si impegnano particolarmente nel campo delle scienze politiche, economiche e sociali, collaborando anche con l’amministrazione austriaca. Nell’Italia meridionale prevalsero invece gli studi di filosofia, di diritto e di scienza della legislazione attraverso le opere di Antonio Genovesi e Gaetano Filangeri. In campo letterario, furono Carlo Goldoni e Giuseppe Parini i maggiori interpreti delle istanze di rinnovamento della cultura illuministica. Mentre Carlo Goldoni riformò la commedia, attingendo alla realtà umana e sociale del suo tempo, Giuseppe Parini portò nella satira Il Giorno e nelle altre sue opere un impegno morale del tutto nuovo.
Nuove forme espressive nel Seicento e nel Settecento italiano. La Commedia dell’arte. La Commedia dell’arte, chiamata anche “Commedia di maschere” o “Commedia all’improvviso” (nel senso di “improvvisata”), sorge e si sviluppa, nel corso del Seicento, al di fuori del mondo letterario, dal momento che non utilizza un testo scritto. Il teatro è puro spettacolo, frutto di improvvisazione, all’aperto, per le strade e nelle piazze. Gli attori, protagonisti delle vicende narrate, sono liberi di dare sfogo alla propria creatività e alle proprie interpretazioni mimiche e acrobatiche. Con questo tipo di spettacolo vengono proposti dei personaggi comici, derivati dal teatro latino (come il furbo, lo sciocco, il dotto pedante, il vecchio babbeo, i giovani innamorati, la servetta, il servo intrigante o ruffiano), che sono emblematicamente raffigurati con le maschere di Arlecchino, Colombina, Pulcinella, Pantalone, e così via. Le maschere della Commedia dell’arte. L’uso delle maschere a teatro non era una novità assoluta: il teatro greco, e in misura maggiore quello latino, ne avevano fatto largo uso, sia per le possibilità espressive (comiche e satiriche soprattutto) che esse offrivano, sia perché sembra avessero la funzione pratica di amplificare la voce dell’attore. Ma le maschere che tutti noi conosciamo appartengono alla tradizione della Commedia dell’arte: Arlecchino e Pantalone, Tartaglia e Colombina, Pulcinella e Capitan Fracassa rappresentavano per eccellenza quei “tipi fissi” che, meglio di ogni altro trucco, si addicevano alla semplice struttura degli spettacoli dei comici dell’arte. Bastava infatti vedere un attore vestito con un costume di mille colori perché chiunque vi riconoscesse la figura di Arlecchino e automaticamente gli attribuisse tutta una gamma di valori, quali la simpatia, l’allegria e la furbizia, che gli appartenevano e lo contraddistinguevano tra tutte le altre.
32 Qui di seguito ti offriamo un panorama delle principali maschere e dei ruoli che esse svolgevano negli spettacoli improvvisati della Commedia dell’arte. PANTALONE. E’ un vecchio avaro, brontolone, gretto, nemico dei giovani se non delle giovani, alle volte innamorato, ridicolo, ma naturalmente beffato e scornacchiato. Quando si affaccia sul palcoscenico la sua figura tutta spigoli – naso adunco, barba aguzza, scarpe a punta rialzata – ecco subito borbottii cavernosi, piagnistei e maledizioni. LE SERVETTE. Di solito intriganti, favoreggiatrici, spesso coinvolte in prima persona in vicende amorose, sanno con abilità trarsi facilmente d’impaccio e aiutare a uscire dai guai la propria padroncina, cui restano sempre incrollabilmente fedeli. Tra i nomi più ricorrenti: Fraschina, Smeraldina, Pasquetta, Turchetta, Ricciolina, Diamantina, Corallina, Colombina. IL SERVO INTRIGANTE: BRIGHELLA. Ricopre di solito la parte del servo furbo; è un maestro di intrighi, architettati con sottile malizia allo scopo di farsi beffa di Pantalone o per aiutare l’amore contrastato di una giovane coppia. E’ sempre vestito di bianco, con una sorta di livrea, talvolta ornata di fregi verdi. IL SERVO SCANSAFATICHE: ARLECCHINO. E’ furbo, sempre affamato, scansafatiche, e spesso bastonato. L’abito bianco del povero Arlecchino, una volta che ebbe perduto il mantello, subì la più strana delle sorti: a furia d’esser rattoppato con toppe di colori più che vistosi e moltiplicate in numero sempre più grande, un bel giorno si trovò ad essere sparito sotto le toppe, anzi ad esser fatto unicamente di toppe: ad Arlecchino non rimase che disporle in gradevoli combinazioni simmetriche, a quadri, a rombi, a triangoli, a losanghe; e ne nacque la varietà dei suoi nuovi costumi. IL CAPITANO. Un’altra maschera tipica è quella del Capitano, il cavaliere, di solito ridicolo e dai nomi più stravaganti: Capitan Spaventa da Villinferna, Rodomonte, Matamoros, Coccodrillo, Bombardone, Scaricabombardone, Spezzaferro, Spaccamonti, Fracassa, Bellavista, Zerbino. E’ uno smargiasso, coraggioso a parole, vigliacco e pauroso nel momento del pericolo. PULCINELLA. Pulcinella, nome antico che significa “piccolo pulcino”, è la tipica maschera napoletana. L’ideale di Pulcinella è il dolce far niente, i suoi sospiri sono per i maccheroni; Pulcinella si adatta a tutte le parti, compresa quella del ladro, truffatore, mezzano; s’ubriaca, si lascia bastonare, alle volte gli capita anche di peggio. Pulcinella ha tuttavia, per tirare avanti, un doppio segreto: cantare e prendere il mondo con filosofia. GLI “ZANNI”, I SERVI. I personaggi più comici della commedia dell’arte sono gli “Zanni” (“Gianni” nei dialetti settentrionali), i buffoni: essi interpretano il personaggio del servo e compaiono sempre in coppia.
33 BALANZONE. Esperto in giurisprudenza, talvolta medico, indossa sempre una lunga toga nera. Il suo cognome nasce probabilmente dalla parola “baldanza” che significa bilancia, oggetto che è il simbolo della giustizia; oppure dalle “balle”, dalle frottole cha va spacciando. Giuseppe Parini. Con Giuseppe Parini si comincia ad affermare la moderna figura dell’intellettuale protagonista di una funzione sociale. L’interesse per la “pubblica utilità” pone infatti il poeta milanese nel clima dell’Illuminismo, del quale egli accetta con convinzione l’impegno per il trionfo dell’uguaglianza, della giustizia, della libertà dai soprusi e dall’ignoranza. Traguardi da raggiungere attraverso riforme, senza ricorrere alla violenza rivoluzionaria. Anche la poesia, dunque, può dare il proprio contributo, denunciando gli aspetti negativi della società, in particolare del mondo vuoto, fatuo e ostile della nobiltà, che Parini colpisce con la sua satira, ora leggera e ironica, ora più feroce e sarcastica. Egli, infatti, crede in una poesia che, pur procurando piacere con la bellezza e l’eleganza dei versi, non deve essere puro divertimento o fantasticheria, bensì impegnarsi come strumento di diffusione delle idee, di formazione morale dei cittadini-lettori per il bene pubblico. Precettore del Giovin Signore nella finzione narrativa del Giorno, il Parini fu realmente precettore in una casa aristocratica per molti anni. Ebbe così una posizione privilegiata per osservare i comportamenti del “bel mondo”, dei quali è esempio caratteristico quello della nobile dama nel brano La vergine cuccia. Si tratta di un comportamento così palesemente sciocco e ridicolo, da indurre immediatamente il lettore a un giudizio negativo sulla nobile società settecentesca. La dama che venera la propria cagnetta e, per il preteso affronto recato ad essa, rovina un uomo e la sua famiglia non è solo sciocca e ridicola, ma anche malvagia, incapace di giudicare con equilibrio e pronta a sfruttare la sua posizione per colpire i più deboli. A questo punto il sorriso cede il posto all’amarezza e alla giusta ribellione nei confronti di un mondo corrotto, ormai intollerabile. Ed è proprio questa reazione che l’autore vuole suscitare. Il protagonista del poemetto è il Giovin Signore (al quale, nel testo, il Parini, precettore-narratore, si rivolge come interlocutore col “tu”): prototipo del nobile settecentesco fatuo e ignorante, immerso nel suo mondo di lusso, ozioso e noncurante della realtà che lo circonda. L’opera ha inizio con Il Mattino: all’alba, mentre i contadini e gli operai iniziano la loro giornata di duro lavoro, il Giovin Signore si è appena addormentato del giusto sonno di chi è da poco rientrato da una notte di faticosi svaghi mondani. Più tardi egli si alzerà e sarà subito impegnato in una complessa serie di operazioni: far colazione; ricevere i maestri di canto, di ballo, di francese; pettinarsi, incipriarsi, vestirsi e agghindarsi per poi precipitarsi alla dimora dell’aristocratica dama della quale è il “cavalier servente”. Al Mezzogiorno, la stanza da pranzo della dama apre le sue porte ad un gruppo di invitati, tra i quali il Giovin Signore eccelle per la sua eleganza e per lo sfoggio della sua apparente cultura. Alla fine del pasto, una folla di miserabili si accalca all’esterno del palazzo per raccogliere gli avanzi della mensa. Intanto, per la nobile compagnia, il tempo passa tra un gioco e l’altro: arriva il momento della passeggiata in carrozza e poi, al Vespro, quello della visita agli amici per amabili chiacchiere e lievi pettegolezzi. La Notte è infine dedicata al gioco: si preparano i tavoli ed è a questo punto che il poemetto si interrompe. L’autore. Nato nel 1729 a Bosisio, in Brianza, da una famiglia modesta, Giuseppe Parini studia a Milano, dove nel 1754 diviene sacerdote. Entrato come precettore nel palazzo dei duchi Serbelloni, partecipa attivamente alla vita intellettuale della Milano illuminista. Durante la permanenza in casa Serbelloni, durata dieci anni, Parini compone le prime odi di argomento civile, tra cui si ricorda La salubrità dell’aria. In esse, ispirandosi ai nuovi principi dell’illuminismo, esalta il ruolo della ragione e i giusti diritti dell’uomo di fronte ai vizi e agli
34 ingiusti privilegi della nobiltà del tempo. Egli è infatti sostenitore di una poesia capace, insieme, di dilettare e insegnare contenuti morali (Discorso sulla poesia). Licenziatosi da casa Serbelloni, nel 1763 Parini dà alle stampe le prime due parti del poemetto Il Giorno: Il Mattino e Il Mezzogiorno. Alla terza, Il Vespro, lavora dal 1767 fino al 1780, anno in cui comincia l’ultima, La Notte, che non riuscirà però a terminare. Sempre a questi anni risalgono nuove odi, fra le quali L’innesto del vaiuolo, Il bisogno, La musica. La fama ottenuta attraverso Il Mattino, Il Mezzogiorno e le Odi gli procura, nel 1769, l’incarico da parte del governo austriaco di dirigere il giornale la “Gazzetta di Milano”. Sempre in questo periodo ottiene incarichi importanti nel campo dell’educazione. Del 1785 è la sua ode forse più famosa, La caduta. Quando, nel 1796, i Francesi occupano Milano, cacciandone gli Austriaci, Parini, fedele al suo antico impegno civile, entra a far parte della Municipalità, tentando di opporsi agli abusi dei conquistatori. Proprio l’anno del ritorno degli Austriaci (1799) il poeta muore, lasciando incompiuta la sua opera più importante, Il Giorno.
Carlo Goldoni. Prima di Goldoni il teatro italiano era dominato dalla Commedia dell’arte, che, come sappiamo, non si basava su testi scritti ma utilizzava una semplice trama, il canovaccio, affidando al capocomico e agli altri attori la scelta delle scene, dei dialoghi, del linguaggio da usare. Le prime commedie di Goldoni presentano ancora parecchi elementi della Commedia dell’arte. La sua “riforma”, che aveva come scopo finale la scrittura dell’intera commedia, fu infatti graduale, in modo che il pubblico si abituasse a poco a poco alla nuova maniera di fare teatro. Con la riforma goldoniana è affidato all’autore il messaggio che anche questa particolare forma di comunicazione intende rivolgere al pubblico: un messaggio che non si esaurisce nel far ridere e divertire, ma mira a cogliere e mostrare i vari aspetti della società e a far riflettere il pubblico sui vizi e le virtù degli uomini. La locandiera, protagonista dell’omonima commedia, è una donna indipendente, che domina la propria vita: nel lavoro e negli affetti sa, infatti, come muoversi e come scegliere. Non è né un’intellettuale saccente, né una nobile presuntuosa; le sue virtù principali sono la concretezza e il senso della misura. Anche nella “battaglia” con il cavaliere essa si impone con l’intelligenza di chi sa ben utilizzare le arti della civetteria, della cortesia, del garbo malizioso; di chi sa raggiungere il proprio scopo senza umiliare l’antagonista, pur coprendolo di ridicolo agli occhi del pubblico. Mirandolina rappresenta dunque uno dei “caratteri” meglio riusciti di Goldoni, che rinnova il teatro portando sul palcoscenico la realtà settecentesca. Le sue commedie, infatti, si possono dividere in commedie “di carattere” e commedie “di ambiente”: La locandiera è senza dubbio un perfetto esempio di commedia”di carattere”; sono invece commedie “di ambiente” quelle che, oltre all’analisi dei caratteri dei singoli personaggi, colgono gli aspetti di una intera collettività vista nel proprio particolare ambiente: i piccoli artigiani e commercianti del Campiello o i pescatori delle Baruffe chiozzotte, quest’ultima scritta, per maggior realismo, in dialetto chioggiano. L’opera del commediografo veneziano nasce infatti dallo stretto rapporto fra la realtà umana e sociale del suo tempo e la finzione teatrale. “Il mondo – scrive lo stesso Goldoni – mi offre con straordinaria ricchezza i caratteri di persone che sembrano fatte apposta per essere rappresentate in commedie istruttive e gradevoli. Il teatro, d’altra parte, mi offre l’occasione e i modi per rappresentare quei caratteri in modo tale da dare loro il maggior rilievo possibile, coinvolgendo i personaggi in vicende che risultano gradite al pubblico”. L’autore. Nato a Venezia nel 1707, Carlo Goldoni è il più noto e importante autore di commedie del Settecento italiano. Appassionato ammiratore del teatro e delle compagnie di comici (tanto che,
35 giovanissimo, fugge di casa per seguirne una), egli inizia collaborando con i comici della Commedia dell’arte. Nonostante che il pubblico sembri gradire questo tipo di teatro, Goldoni sente l’esigenza di un rinnovamento, non solo nella forma, ma anche nei contenuti delle rappresentazioni. Commedia dopo commedia, egli realizza così la riforma del teatro comico italiano: la recitazione si basa ora su un testo scritto, che deve essere imparato a memoria; i personaggi sono sempre meno legati alle maschere tradizionali; le trame si fanno via via più vicine alla realtà; il dialetto veneziano giunge a sostituire la lingua italiana, nella quale sono però scritti alcuni suoi capolavori. Tra le opere più famose si ricordano La bottega del caffè, La locandiera, Il campiello, I rusteghi, Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte. Il teatro goldoniano riscuote grande successo presso i contemporanei, ma suscita anche molte critiche soprattutto dagli autori ancora legati alla Commedia dell’arte. Così, irritato dai contrasti, egli decide di abbandonare l’Italia e di recarsi in Francia, alla corte del re Luigi XVI presso cui sarà precettore dei principino. A Parigi, dove scrive in francese le sue Memorie, Goldoni viene colto dalla Rivoluzione del 1789 e quattro anni dopo muore, povero e dimenticato.
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L’OTTOCENTO
La prima metà del secolo è caratterizzata dalle grandi lotte per la libertà e l’indipendenza di quei Paesi, come l’Italia e la Germania, che erano divisi in tanti Stati e spesso soggetti al controllo di potenze straniere. Culturalmente, si sviluppa in questo periodo la corrente letteraria e artistica del Romanticismo, in seno alla quale fioriscono straordinarie personalità italiane. In seguito, il progresso economico, derivato dalla rapida industrializzazione, determina, a livello europeo, un contrasto sempre più stridente fra l’emergente borghesia, con la sua forza economica e i suoi privilegi, e il proletariato, sfruttato nel lavoro e costretto a vivere in condizioni di miseria. In questa fase diventa soggetto di studio e oggetto della produzione artistica la “società” nei suoi aspetti di divisione in classi e di struttura economica: nasce così una nuova corrente culturale, il Realismo. Il quadro storico-politico. Le invasioni napoleoniche. All’indomani della Rivoluzione francese, emerse per le sue capacità militari e politiche la figura di Napoleone Bonaparte; convinto assertore degli ideali di uguaglianza, fratellanza e libertà, Napoleone rappresentava agli occhi di molti una grande speranza: l’ideologia rivoluzionaria si sarebbe certo diffusa e propagata in tutta Europa, provocando una generale ondata di trasformazioni e capovolgimenti. Ma le cose andarono diversamente: Napoleone ben presto rivelò la natura dell’espansione francese in Europa. La Francia, infatti, mirava a rafforzare la propria potenza e il proprio dominio sul resto dell’Europa piuttosto che ad aiutare i popoli a migliorare le loro condizioni politiche ed economiche. Tuttavia, la presenza delle truppe napoleoniche ebbe, sia pure indirettamente, effetti storicamente positivi: infatti, da una parte permise il diffondersi degli ideali rivoluzionari e dall’altra sollecitò nei vari popoli, in genere ostili agli eserciti stranieri, il sentimento dell’amor patrio. In seguito alla caduta di Napoleone, i rappresentanti delle potenze vincitrici, riuniti in congresso a Vienna nel 1814-1815, ripristinarono le antiche dinastie sui loro troni: ma gli intellettuali e molti fra gli appartenenti al ceto borghese, non accettando questo ritorno al passato, all’Ancien Régime, dettero vita alle cosiddette “Società segrete”. Eredi dello spirito rivoluzionario, queste società prevedevano in tutta Europa un programma articolato di moti, insurrezioni e ribellioni che miravano ad ottenere una Costituzione. Questa avrebbe assicurato i diritti politici e civili ai cittadini e, nei Paesi soggetti ad una potenza straniera, avrebbe aperto la strada all’indipendenza. Le lotte per l’indipendenza. Inizialmente, le lotte per il raggiungimento di una Costituzione e per la conquista dell’indipendenza non ebbero, nella maggior parte dei casi, esito favorevole. Ma gli insuccessi non soffocarono l’anelito alla libertà e all’indipendenza nazionale, che si manifestò con movimenti rivoluzionari intorno alla seconda metà del secolo. L’Italia raggiunse la piena indipendenza e l’Unità tra il 1861 e il 1870. Ugualmente nel 1870, anche i vari Stati della Germania si unificarono sotto la guida della Prussica. L’espansione coloniale e le sue conseguenze. Gli Stati europei, che avevano ormai raggiunto un notevole grado di industrializzazione, vennero ben presto a trovarsi di fronte a due problemi di fondamentale importanza: quello di reperire grandi quantità di materie prime per incrementare lo sviluppo delle loro industrie e quello di trovare nuovi sbocchi commerciali per le merci prodotte. Le grandi potenze europee si resero conto che i due
37 problemi potevano essere risolti solo attraverso l’occupazione di vasto territori nei vari continenti extraeuropei. Si realizzò così la colonizzazione di intere regioni dell’Asia e dell’Africa, per il cui controllo si scontrarono gli interessi della Francia, dell’Inghilterra e della Germania. L’espansione coloniale dilatò il potere economico degli Stati che ne erano stati promotori. Si ampliarono le industrie, se ne svilupparono di nuove che si dotarono di macchinari sempre più efficienti e veloci e di una manodopera ben organizzata, sempre più numerosa e valida. Ma questa potenza economica evidenziò il grande divario fra due classi sociali: da una parte la classe, potente ma poco numerosa, dei grandi industriali proprietari delle fabbriche, dei macchinari, delle materie prime e delle merci; dall’altra la massa degli operai, forti solo del proprio numero e della propria miseria, che nient’altro possedevano se non la prole (da qui deriva appunto il termine “proletario”). Questi, per un misero compenso, senza alcun tipo di assicurazione in caso di malattie, vecchiaia, morte, con il loro pesante lavoro, che arrivava anche alle dodici ore giornaliere, assicuravano che tutte le fasi della produzione previste dalla fabbrica funzionassero a dovere, garantendo così anche un ottimo guadagno ai loro datori di lavoro. Le lotte sociali. Il desiderio di migliorare le condizioni di lavoro e di vita della classe operaia provocò la nascita della lotta di classe, promossa anche da numerosi intellettuali del tempo. Fra questi, Karl Marx espresse le sue nuove teorie economico-sociali nel Manifesto del partito comunista del 1848. Il proletariato doveva battersi per eliminare le contraddizioni della società contemporanea, dominata dalla classe borghese, e doveva impegnarsi a conquistare il potere. Questo programma improntò di sé gli ultimi decenni dell’Ottocento e gran parte del secolo successivo.
Il quadro culturale. Il Romanticismo. Contemporaneo al risveglio dei popoli nel clima risorgimentale europeo, si sviluppò nei primi decenni dell’Ottocento un nuovo orientamento culturale, che prese il nome di Romanticismo. Il poeta, lo scrittore, l’artista in genere celebravano un mondo costruito su nobili ideali: la libertà della patria, il valore degli affetti, il culto della famiglia, l’amore e l’ammirazione per la natura. Ma alla realizzazione di questi ideali si opponevano le forze negative che operano da sempre nel mondo: l’egoismo, la prepotente passione per il denaro, la sopraffazione, il sopruso. L’artista si leva contro di esse e anche se è cosciente dell’inutilità della sua lotta continua a combattere come un “titano” contro queste forze negative fino alla propria drammatica fine. Solo chi scopre la fede religiosa troverà un profondo conforto ai mali della vita, nella certezza che la Provvidenza divina non abbandona mai i suoi figli. I TEMI DEL ROMANTICISMO. La storia. Il tema sul quale maggiormente si concentrò il pensiero romantico fu quello della storia: essa fu concepita come un processo continuo attraverso il quale lo spirito dell’umanità si sviluppa per fasi successive. Ciascuna di esse esprime una cultura che è espressione del proprio tempo e contemporaneamente momento di partenza per la fase successiva. Questa nuova visione della storia favorì lo sviluppo dell’idea di nazione: anche i popoli, così come i singoli uomini che li compongono, possiedono una propria individualità, che si è formata con il passare del tempo. Per questo gli intellettuali si dedicarono alla ricerca delle radici della propria nazione e studiarono con passione tutto quanto proveniva dal passato: riemersero così non solo le vicende storiche ma anche i miti, le fiabe, le tradizioni di un lontano passato. E’ questo uno dei volti del Romanticismo da cui emerge l’impegno civile e politico di molti artisti romantici e che si manifesta soprattutto con il “romanzo storico”.
38 L’amore. In un clima nel quale veniva esaltata la forza del sentimento, un ruolo privilegiato ricoprì la passione amorosa: l’uomo romantico, dotato di particolare sensibilità, vive l’amore come passione travolgente e nell’amore sembra quasi annullarsi; la donna, che è l’oggetto di questa passione, può essere per l’uomo fonte di gioia, di felicità sovrumana quando egli riesce a conquistarne l’amore. Ma più spesso l’amore si presenta come un desiderio che non può essere realizzato: e allora colui che ama, ma non è corrisposto, è tormentato da una straziante inquietudine, da una infelicità profonda che induce alla morte. Amore e morte sono per l’uomo romantico esperienze estreme che appaiono spesso congiunte. La natura. Anche la natura assume un significato particolare nella cultura romantica. Sulla natura, infatti, si proiettano frequentemente le profonde inquietudini dell’uomo. Insofferente di ogni limite e costrizione, egli trova infatti un riflesso di se stesso negli spettacoli “sublimi” della natura: mari in furiose tempeste, sconfinate distese ghiacciate, catastrofiche esplosioni vulcaniche, la grandezza e la forza terribile della natura. Il sublime turba e allo stesso tempo affascina l’uomo, allontanandolo dalle realtà quotidiane che non lo soddisfano più. La sua ansia, il suo tormento, che nascono dal contrasto fra illusioni e delusioni, fra ideale e reale, possono finalmente trovare pace solo quando l’anima riesce a cogliere il senso dell’infinito (sia esso la morte, sia esso Dio) a cui anela l’uomo romantico. L’infinito è infatti uno dei temi ricorrenti della cultura romantica, dalla letteratura, alla musica, alla pittura. I DUE VOLTI DEL ROMANTICISMO. Contraddittorio in molte sue manifestazioni, il Romanticismo presenta due volti diversi. Da una parte, emerge una tendenza lirica e soggettiva, tutta tesa all’indagine dell’io, fondamentalmente pessimistica, lacerata dal contrasto fra illusioni e delusioni, fra ideale e reale. L’eroe romantico cercherà, come gli antichi titani (i mitici figli della Terra che cercarono invano di scalare l’Olimpo), di superare questo contrasto, anche se è cosciente della propria sconfitta finale. Dall’altra parte, emerge invece una tendenza storico-realistica, che è caratterizzata dall’impegno civile e politico, da un evidente fine educativo, da una tendenza alla fiducia nell’uomo e nella storia. La letteratura romantica in Italia. Il Romanticismo italiano sviluppò essenzialmente una letteratura patriottico-nazionale che ebbe i suoi esponenti in Giovanni Berchet (autore di poesie ispirate all’amor patrio, raccolte in Romanze e Fantasie), Silvio Pellico (che rievoca la sua prigionia nel carcere austriaco dello Spielberg in Le mie prigioni), Massimo D’Azeglio (uomo politico e letterato che nei Ricordi dà il quadro dell’intero Risorgimento). Ma gli autori maggiori di questo periodo sono Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, nelle cui opere sono presenti i motivi tipicamente romantici. Per Ugo Foscolo, costretto dalle varie vicende politiche ad essere esule in una terra straniera, assume grande valore l’amor di patria e, ad esso collegato, l’interesse per la tradizione storica. Il passato diventa per il poeta fonte perenne alla quale attingere gli ideali che devono sorreggere l’uomo nel corso della sua storia; un passato che deve dunque essere vivificato, attualizzato secondo le esigenze della realtà del tempo. Amara la visione del mondo cantata da Giacomo Leopardi, la cui lirica, personalissima e caratterizzata da una grande musicalità, ha esercitato un profondo influsso sulla poesia italiana fino ai nostri giorni. Attraverso le sue opere, infine, Alessandro Manzoni afferma quei valori morali che gli stanno particolarmente a cuore, con lo scopo di volgere l’animo del lettore ad una riflessione profonda che lo guidi nella sua vita quotidiana.
39 Il Positivismo. Nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppa, ad opera di numerosi letterati e pensatori, un nuovo atteggiamento culturale. La fiducia nel progresso che aveva assicurato il successo dell’industrializzazione si riflette anche nell’indagine sui comportamenti dell’individuo. Si pensa che, attraverso uno studio accurato simile a quello utilizzato nelle scienze naturali, si potrà trovare anche il mezzo di liberare l’uomo dai suoi vizi, avviandolo verso il benessere e la felicità. Questo nuovo modo di concepire la realtà prende il nome di Positivismo per la sua caratteristica di basarsi sui fatti, cioè sul dato “positivo” e non sulle creazioni della fantasia o del sentimento come accadeva nel Romanticismo. IL RUOLO DELLO SCRITTORE. Alla rigorosa indagine dei fenomeni concreti che caratterizza la cultura positivistica si affianca, sul piano letterario, la rappresentazione oggettiva della realtà: lo scrittore non assume più il ruolo dell’interprete commosso di una vicenda, ma tende a divenire un osservatore guidato non dall’immaginazione e dal sentimento, ma dall’analisi oggettiva della realtà. L’intreccio non si presenta più come un susseguirsi di avvenimenti creati dalla fantasia e dall’immaginazione dell’autore, ma come il fatale concatenarsi di cause ed effetti, mentre il tempo si concentra in un periodo breve, una tranche de vie (uno spaccato di vita) dicevano i francesi, che consente un’analisi assai minuziosa. Scomparsi gli eroi delle avventure e dei sogni romantici, i protagonisti appartengono alla borghesia con la sua sete di lusso e le sue smodate ambizioni, o alla classe dei diseredati, per rappresentare la degradazione in cui essi sono immersi, a causa della loro miseria fisica e morale, ma anche per mettere in evidenza le ingiustizie commesse nei loro confronti. Nasce così e si afferma come aspetto essenziale della letteratura di questo periodo, la tendenza al Realismo, del resto già presente nella produzione letteraria e che trova i suoi esiti maggiori nella narrativa e nel teatro dell’Ottocento, ma in modo specifico nella forma del romanzo; essa si riflette anche nelle arti figurative, particolarmente nella pittura. IL ROMANZO NATURALISTA. Il primo scrittore che applicò il Positivismo alla letteratura, e in particolare al romanzo, fu il francese Emile Zola (1840-1902), che dette vita alla corrente del Naturalismo. Egli infatti affermava che si dovevano applicare al romanzo quegli stessi procedimenti scientifici che venivano applicati alla medicina. La medicina infatti era ritenuta una scienza basata sulla formulazione di ipotesi da “sperimentare” cioè da mettere alla prova per ricavarne delle leggi valide universalmente. Anche il romanzo doveva essere sperimentale, cioè seguire dei precisi procedimenti: doveva infatti essere realizzato cominciando dall’analisi dell’ambiente materiale, morale, sociale da cui è influenzato l’uomo. In sostanza, con il Naturalismo, il romanzo diventava un “documento umano”, in cui lo scienziatoscrittore indagava scientificamente tutte le leggi che regolano i pensieri, i sentimenti e le azioni degli individui. In fondo le vicende spirituali non erano altro che un “dato di natura”: come affermava uno dei più noti pensatori del Positivismo, Hyppolite Taine, “il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero”. Il Verismo italiano. Nella seconda metà dell’Ottocento il Naturalismo, penetrando dalla Francia in Italia, cambia nome e si chiama Verismo. Il termine deriva dalla preferenza che gli scrittori accordano al “vero”, cioè dall’attenzione che rivolgono al fatto accaduto, al cosiddetto “documento umano”, che viene rappresentato secondo i metodi delle scienze sperimentali. Gli autori più rappresentativi della corrente verista sono i siciliani Luigi Capuana e Giovanni Verga, cui si affiancano Federico De Roberto e Grazia Deledda, che ambienta le sue storie nella natia Sardegna. Essi rivolgono il
40 proprio interesse al mondo umile ma dignitoso dei contadini, dei pastori, dei pescatori delle loro regioni, che esprimono nei loro romanzi e nelle loro novelle. La forma della prosa si prestava infatti, assai più dei versi, a rappresentare i “casi” umani con il rigore e l’impassibilità di uno scienziato, a descrivere, cioè, ambienti, eventi e personaggi nella loro realtà. Se di poesia realista si vuole parlare, la si dovrà dunque intendere nel senso che il poeta trova lo spunto in fatti e situazioni della realtà contemporanea e tende ad esprimerli con un linguaggio chiaro e facilmente comprensibile; caratteristica, questa, che mantiene anche quando affronta temi personali e intimi, o il rapporto con la natura, la memoria del proprio passato, la storia della patria. La poesia realista ha il suo maggior rappresentante in Giosue Carducci. I protagonisti del Romanticismo italiano: Foscolo, Leopardi, Manzoni.
Ugo Foscolo. Primo nel tempo fra i protagonisti del Romanticismo italiano è Ugo Foscolo. Nella sua opera, sia in prosa (il romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis) sia in poesia (i 12 Sonetti, il carme Dei Sepolcri, le Odi, il poemetto Le Grazie) egli esprime la sua partecipazione alla nuova corrente letteraria, non escludendo però i temi cari ai classici, che celebravano la poesia come canto della bellezza e dell’armonia delle cose. Per questo egli viene considerato non solo un romantico, ma anche un “neoclassico”, cioè un nuovo classico. Nel complesso dell’opera foscoliana si possono distinguere infatti le due tendenze, quella neoclassica e quella romantica. Alla prima appartengono le Odi e Le Grazie, celebrazione della bellezza e dell’armonia che riescono ad acquietare le tormentose angosce dell’animo umano. Alla seconda fanno capo le Ultime lettere di Jacopo Ortis, i Sonetti e il carme Dei Sepolcri. Il romanzo ha come tema centrale quello dell’infelicità e della disperazione, sia sul piano politico, sia su quello personale: Jacopo, giovane e passionale rivoluzionario veneziano, in cui si riflette la natura dello stesso Foscolo, è infatti spinto al suicidio dalla terribile delusione procuratagli da Napoleone con la cessione del Veneto all’Austria e dall’angoscia per un amore che non può essere corrisposto. Nei Sonetti dominano invece il tema dell’amore e degli affetti familiari, la nostalgia dell’isola natale, Zacinto, e il presentimento dell’esilio. Il carme Dei Sepolcri, infine, si ispira all’esigenza di salvare ciò che è grande e bello dalla morte, dal nulla eterno a cui tutte le cose e gli uomini stessi sono destinati. Foscolo infatti, non ha la fede in un Dio creatore e in una Provvidenza che anima tutto l’universo e da tale consapevolezza deriva il suo amaro sconforto, la sua pena profonda per l’esistenza. L’unica forma di eternità possibile per le cose umane che siano degne di essere ricordate è quella offerta dalla poesia, che le affiderà alla fama e le farà vivere per sempre. L’autore. Ugo Foscolo nasce nel 1778 a Zacinto, nelle isole Ionie; ben presto però si trasferisce con la famiglia a Venezia dove partecipa attivamente alla vita politica del suo tempo, subendo le persecuzioni del governo austriaco. Arruolatosi nell’esercito napoleonico, rimane però deluso dalla politica francese e abbandona Venezia in volontario esilio. A soli venti anni scrive il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, più volte poi modificato nel corso del tempo. Gli anni successivi lo vedono a Milano, a Genova, a Firenze, impegnato in missioni militari, in travolgenti passioni amorose e nella stesura di dodici Sonetti e due Odi. Al 1806 risale la composizione del carme Dei Sepolcri e al 1812-1814 quella del poemetto Le Grazie, rimasto però incompiuto.
41 Con il ritorno degli Austriaci a Milano in seguito alla caduta di Napoleone, Foscolo, ripara prima in Svizzera poi presso Londra, a Turnham Green, dove muore nel 1827. Nel 1871 le sue ossa vengono trasferite a Firenze e accolte fra i grandi di Santa Croce che egli aveva cantato nella sua opera Dei Sepolcri.
Giacomo Leopardi. Come Foscolo, anche Giacomo Leopardi esprime il suo pensiero sul dolore umano attraverso opere in poesia ( i Canti) e in prosa (le Operette morali e alcune raccolte di Pensieri). La sua poesia si nutre infatti di una trama di riflessioni dalle quali derivano un profondo pessimismo e una dolorosa visione della vita. I concetti fondamentali della meditazione leopardiana sull’uomo e sulla sofferenza possono essere indicati in quattro momenti che riguardano la natura, la ragione, il vero, le illusioni. La natura. Quando si è giovani, essa appare come una buona madre, che fa sognare e sperare in un mondo felice. Ma, una volta passata la giovinezza, crollano le speranze e le illusioni di poter raggiungere la felicità: non rimane che il nulla, la morte dopo un’esistenza di affanni. La natura si mostra allora per quello che è veramente: non una madre, ma una matrigna, che inganna i suoi figli e li tradisce, prima promettendo loro la felicità, poi negandogliela senza alcuna pietà. La ragione. La ragione è senza dubbio la luce che illumina il pensiero dell’uomo, dandogli la possibilità di prendere coscienza della realtà delle cose. Ma è proprio attraverso la ragione che l’uomo giunge a una dolorosa scoperta: quella dell’arido vero, dell’inutilità della vita, che rende ancora più dura la sua angoscia. Il vero. Che cos’è dunque la realtà? Essa è solo materia; tutte le creature sono solo materia, destinate a nascere, riprodursi, morire mosse da un meccanismo cieco e crudele. L’uomo può solo, coraggiosamente, prendere atto della legge malvagia che guida la natura; non vale ribellarsi, vale piuttosto creare un rapporto di solidarietà e di fraternità con i propri simili, tutti soggetti allo stesso destino di infelicità. Le illusioni. Esse nascono dall’immaginazione che rende varia, ricca, bella la vita. Ma quando all’immaginazione subentra la ragione, le illusioni allora appaiono per come realmente sono: di breve durata, vane e causa di false opinioni e di errori. Su questi temi si fonda la poesia di Leopardi, che supera comunque l’aspetto arido e freddo del pensiero per levarsi come un canto sul dolore umano. Essa si esprime attraverso i Canti, 41 componimenti così scanditi: canzoni civili e patriottiche; primi “idilli” fra cui L’infinito, e canzoni “filosofiche” (Bruto Minore, Ultimo canto di Saffo); “grandi idilli” fra cui A Silvia, Il passero solitario; poesie ispirate da un amore infelice (Amore e morte, A se stesso, ecc.); La ginestra, l’ultimo canto leopardiano in cui il poeta esprime le sue definitive riflessioni sulla comune sventura dell’uomo che deve però dignitosamente affrontare la propria sorte. L’”idillio” leopardiano. A Silvia appartiene alla raccolta dei Canti leopardiani ed è una di quel gruppo di poesie che il poeta definisce “idilli” (per la precisione, si tratta di uno dei “grandi idilli”). Col termine idillio egli, secondo le sue stesse parole, intendeva quegli stati d’animo e quelle memorie che, nel momento dell’ispirazione poetica, si andavano precisando in immagini e suoni. Queste composizioni, infatti, sono per lo più legate a temi del ricordo: passata la gioventù, cadute le speranze e le illusioni, il passato ritorna, non come è stato nella realtà, per il poeta sempre penosa, ma illuminato dai sogni e
42 dalle speranze di allora. Questo è ciò che avviene in A Silvia: tutta la lirica è infatti un colloquio con la fanciulla, con la quale il poeta sente una profonda rispondenza di sogni e speranze, troncati però dalla morte. Protagonista della prima parte, Silvia rappresenta la dolcezza del ricordo e il fascino delle illusioni giovanili. Nella seconda parte, dove più forte è la presenza del poeta stesso, si leva dolorosa l’amara coscienza del presente. I sogni di un tempo sono rivissuti da Leopardi alla luce della sofferenza del presente: diversamente dall’ingenua fanciulla, egli è sopravvissuto alle proprie speranze e la malinconia delle sue riflessioni è ancora più amara della prematura morte di lei. L’autore. Giacomo Leopardi nasce a Recanati, nelle Marche, nel 1798. Benché trascorra la giovinezza in una regione lontana dalle grandi correnti culturali internazionali, con gli studi si crea una vasta cultura, che unisce la tradizione del passato agli stimoli nuovi del presente, interpretando con alcune i principi dell’Illuminismo e del Romanticismo. La sua natura, portata alla solitudine e alla meditazione, rende più acuto il suo senso di infelicità e più approfondite le sue riflessioni: egli canta, così, il contrasto fra le illusioni del cuore e l’amara realtà della vita, la solitudine umana, il mistero dell’infinito, l’assurdità del vivere. Leopardi è anche un profondo pensatore che medita, lungo il corso dell’intera vita, sulla natura, sull’universo, sull’uomo. Queste meditazioni trovano ampio spazio non solo nei suoi “appunti” di carattere filosofico (raccolti nello Zibaldone e nei Pensieri), ma anche nei suoi scritti letterari in prosa (le Operette morali) e in versi (Canti), che si alimentano della sua sensibilità, ma anche del suo pensiero per così dire “filosofico”. Gli ultimi anni della vita, che lo aveva visto prima a Roma, poi a Firenze e a Pisa, li trascorre a Napoli, dove è tormentato da lunghe e dolorose infermità, alleviate solo dalla presenza di un caro e sincero amico, Antonio Ranieri. In questo periodo la sua poesia riflette il presagio della morte imminente, che avviene a Napoli nel 1837.
Alessandro Manzoni. Tra le caratteristiche del Romanticismo, come abbiamo già detto, grande è l’interesse per la storia, cioè per quella realtà in cui si realizza lo spirito umano. Indagare gli eventi storici equivale dunque a ricercare il “vero”. Alessandro Manzoni condivide questa prospettiva in tutta la sua produzione in prosa (il romanzo I Promessi Sposi) e in poesia (le Odi), nelle due opere teatrali (Adelchi e Il Conte di Carmagnola), negli scritti storici (Storia della colonna infame) e quelli etico-religiosi (Osservazioni sulla morale cattolica): in questo senso egli è un autore romantico. Lo scrittore milanese arricchisce tuttavia questa adesione al Romanticismo con motivi e valori personali. Nel romanzo I Promessi Sposi l’oggetto di studio è infatti una vicenda storica, quella del Seicento milanese; ma nella rappresentazione della società seicentesca Manzoni trova l’occasione di esprimere la propria visione religiosa della vita. Il male, il peccato esistono, ma la fede in Dio e nella sua Provvidenza dà all’uomo la forza di affrontarli e lo illumina nelle sue scelte interiori, rendendolo capace di trarre, anche dalle sofferenze, una lezione positiva. Questo è il “vero” che Manzoni vuole mostrare. Egli pensa infatti che uno scrittore debba contribuire all’educazione e alla formazione morale del suo pubblico, sollecitandolo a prendere coscienza del bene e del male, dei vizi e delle virtù, di quello che siamo e di quello che invece dovremmo essere. Ritiene, inoltre, di poter ottenere questo risultato solo se la lettura sarà un piacere, se, cioè, l’autore sarà stato capace di interessare e divertire il pubblico stesso. Per dirla con le sue parole, per Manzoni l’arte deve avere “l’utile per scopo, il vero per oggetto, l’interessante per mezzo”.
43 IL PROBLEMA MORALE DELLE AZIONI UMANE. Il cinque maggio è un’ode, cioè un componimento che, presente nella poesia greca e in quella latina, in Italia viene riscoperto con il Rinascimento e da allora è utilizzato dai poeti specialmente per celebrare temi di argomento morale e civile. Nel luglio 1821, appresa la notizia che Napoleone Bonaparte è morto cristianamente a Sant’Elena il giorno 5 del mese di maggio, Manzoni è turbato e sente la necessità di celebrare questo evento di portata storica: dato l’alto valore morale e civile che attribuisce al tema, sceglie appunto la forma lirica dell’ode. Essa viene composta con insolita rapidità (dal 17 al 20 dello stesso mese) e, nonostante la censura austriaca, si diffonde velocemente in Lombardia e anche oltralpe, grazie alla traduzione in tedesco di Wolfgang Goethe. La poesia non si limita alla celebrazione di un grande protagonista della storia; essa in realtà nasce dalle lunghissime meditazioni dello scrittore, che da tempo si è posto il problema morale delle azioni umane, chiedendosi quale sia il limite fra il coraggio che sfocia nel valore e quello che sfocia nella crudele violenza. La domanda non approda ad una risposta chiarificatrice, ma il dubbio del poeta si acquieta nella fede nella Providenza che placa ogni sofferenza, che risolve ogni turbamento. I Promessi Sposi. L’opera appartiene al genere del romanzo storico anche se, per la varietà dei temi trattati, contiene elementi che potrebbero qualificarla come romanzo d’avventura (le avventure di Renzo e Lucia), come romanzo “di formazione” (il processo di maturazione di Renzo in seguito alle sue dolorose esperienze), come romanzo d’amore (il legame che unisce, al di là di ogni ostacolo, i due giovani “promessi sposi”). Dal punto di vista del romanzo storico, assume particolare importanza la scelta del tempo in cui Manzoni ambienta l’intreccio, cioè il Seicento milanese, un’età “sudicia e sfarzosa” nella quale, dietro gli apparati pomposi della nobiltà cui sono affidate le redini del governo, si celano l’inefficienza delle leggi, l’intolleranza e la superstizione. A questi mali si aggiungono tre calamità: la carestia, la guerra e la peste, che infierirono dal 1628 al 1630 e nelle quali si trovano coinvolti tutti i personaggi dei Promessi Sposi. Tutto ciò costituisce un imponente quadro di riferimento, che permette all’autore di evidenziare da una parte il comportamento degli uomini di fronte ai casi più o meno drammatici della vita e dall’altra di richiamarsi alla storia contemporanea, che con il Seicento ha in comune la divisione dell’Italia e la soggezione alle potenze straniere. Don Rodrigo, invaghitosi di Lucia, ne ostacola il matrimonio con Renzo, costringendo il pauroso parroco don Abbondio a non celebrare le nozze. Fra Cristoforo, confessore di Lucia, saputa la cosa, cerca invano di convincere don Rodrigo a lasciare in pace i due giovani: questi non gli dà ascolto e anzi organizza il rapimento di Lucia. La fanciulla però sfugge ai rapimento perché nel frattempo si è recata con Renzo in casa del curato nel vano tentativo di concludere il matrimonio segretamente. I due giovani, saputo del tentativo di rapimento, fuggono: Lucia va nel convento di Monza sotto la protezione di Gertrude, una suora molto potente ma anche corrotta. Renzo si reca a Milano e arriva proprio quando la città è sconvolta da una sommossa popolare, nella quale egli rimane coinvolto. Renzo fugge da Milano, dove, avendo preso parte alla rivolta, ha rischiato la galera e la forca, e si rifugia presso il cugino Bortolo a Bergamo, territorio della Repubblica veneta. Don Rodrigo, fortemente irritato per la fuga di Lucia, cerca l’intervento di un potente signore, l’innominato, per riuscire a ottenere la giovane. L’innominato, con l’aiuto di Gertrude, fa rapire Lucia. L’innominato, tuttavia, di fronte al pianto e alle preghiere di Lucia la libera e si converte. Quando una violenta epidemia di peste si diffonde a Milano, Lucia, che dopo la liberazione è stata accolta da una famiglia nobile in quella città, viene colpita dalla malattia e condotta al lazzaretto, l’ospedale in cui si trovano gli appestati. Anche Renzo a Bergamo viene infettato dalla peste, ma guarisce e si reca a Milano in cerca di Lucia.
44 Renzo giunge al lazzaretto dove incontra padre Cristoforo con i segni della malattia sul volto. Il frate induce il giovane a perdonare don Rodrigo, ora morente su un pagliericcio. Renzo, dopo qualche esitazione, lo perdona e riprende la ricerca di Lucia. Renzo ritrova Lucia ormai guarita dalla peste che, sebbene lieta di rivederlo sano e salvo, è decisa a non sposarlo per il voto di castità che durante la prigionia nel castello dell’innominato aveva fatto alla Madonna. Fra Cristoforo però scioglie dal voto la giovane. I due “promessi” possono finalmente sposarsi. IL ROMANZO STORICO. I Promessi Sposi è il primo vero romanzo della letteratura italiana. Per romanzo si intende un’opera letteraria in cui viene narrata una storia (o anche più storie), cioè una successione di avvenimenti, collegati fra loro nel tempo in vario modo, da un principio a una fine. In genere, nel caso di un romanzo storico, com’è quello manzoniano, l’autore ha come base una vicenda storica, che però ricostruisce con la propria immaginazione. Ambienti, vicende, personaggi prendono vita in modo da ricreare un aspetto verosimile di quella realtà che l’autore intende prendere in esame. Manzoni rifiuta qualsiasi elemento fantastico: per questo sceglie la forma del romanzo storico, che realizza la fusione fra la realtà storicamente verificabile e l’invenzione di fatti e personaggi “verosimili”. L’autore. Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785. Nel 1800 segue la madre Giulia Beccarla (figlia di Cesare, importante intellettuale illuminista) a Parigi, il centro più vivo e stimolante della nuova cultura europea, dove frequenta i maggiori letterati e pensatori dell’epoca e si dedica allo studio della letteratura. Nel 1810 Manzoni, che nel frattempo si è sposato, ritorna al cattolicesimo, da cui si era allontanato nella fanciullezza e, negli anni seguenti, compone cinque Inni Sacri, che celebrano le principali feste liturgiche: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione e infine quella più celebre, La Pentecoste. La conversione ha una straordinaria influenza sulla sua produzione letteraria e in particolare sulla sua opera maggiore, I Promessi Sposi, alla cui stesura si dedica fin dal 1821 con il titolo di Fermo e Lucia; essa non allontana però lo scrittore dall’impegno civile, frutto del quale sono, nello stesso periodo, le due odi di argomento storico: Il cinque maggio, in cui medita sulla vita e la morte di Napoleone, e Marzo 1821, che celebra i moti rivoluzionari del Piemonte. Anche le due tragedie, Adelchi e Il Conte di Carmagnola, che egli ha composto nel frattempo, sono di contenuto storico e ugualmente ispirate alla riflessione sui valori etico-religiosi che, del resto, caratterizza tutta l’opera manzoniana. Nel 1827 Manzoni pubblica il suo romanzo, che ha profondamente modificato e che ha definitivamente intitolato I Promessi Sposi; tuttavia non è soddisfatto della lingua in cui l’ha scritto e quindi si dedica ad un’opera di correzione e revisione che si protrae per tredici anni e che dà luogo alla seconda edizione del testo (1840-1842), nella forma in cui lo leggiamo oggi. Nei decenni successivi, lo scrittore milanese coltiva la propria riflessione sull’intreccio fra storia e morale, la letteratura, la lingua, pubblicando scritti di grande importanza critica e di profondo significato religioso. La sua fama di letterato è ormai grande, ma, in conseguenza di una serie di tragici lutti familiari, sceglie di isolarsi dal mondo. Muore a Milano nel 1873.
45 Narrativa e poesia di fine Ottocento: Capuana, Verga, Carducci. La narrativa del Verismo. I veristi italiani sono spesso autori di novelle (o racconti) perché questa forma narrativa si presta bene alla rappresentazione di quello “spaccato di vita” che è al centro del loro interesse. Quasi sempre la narrativa verista ha come soggetto l’ambiente della povera gente delle regioni meridionali, condizionata dalla miseria, con una durezza nei rapporti umani che talvolta diviene vera e propria disumanità. La tecnica narrativa verista è simile al metodo dell’osservazione scientifica, ovvero quanto più possibile “distaccata” e “obiettiva”; non basta, infatti, che ciò che viene raccontato sia reale: deve essere raccontato in modo tale da porre il lettore faccia a faccia con gli avvenimenti senza che qualcuno lo metta al corrente degli antefatti e delle caratteristiche dei personaggi. L’autore verista punta all’impersonalità e pertanto:
la voce narrante si trova all’interno del mondo rappresentato, allo stesso livello dei personaggi; la visione è quella della collettività popolare, che ragiona in modo elementare e quindi non coglie le motivazioni psicologiche dei comportamenti, ma solo quelle più rozzamente concrete; il linguaggio è quello spoglio e povero dell’ambiente rappresentato; c’è una forte presenza del discorso indiretto libero. Si tratta di caratteristiche che si ritrovano anche nei romanzi di questi narratori, tra i quali si annoverano alcuni dei capolavori della nostra letteratura. Luigi Capuana. Nato a Catania, Luigi Capuana (1839-1915) fu il primo scrittore verista e il teorico del movimento. Si interessò di letteratura, poesia popolare e folklore e ben presto si aprì alle esperienze del Naturalismo francese, del quale accolse e praticò l’approccio “scientifico”. Instancabile sperimentatore, lasciò una vasta produzione narrativa, di cui si ricordano particolarmente le novelle (poi riunite in varie raccolte) e i romanzi Giacinta, Profumo e Il marchese di Roccaverdina. Giovanni Verga: la trama e il significato dei “Malavoglia”. La storia dei Malavoglia si svolge nel piccolo paese siciliano di Aci Trezza, vicino a Catania. Il vecchio padron ‘Ntoni è il patriarca della famiglia, su cui esercita un’autorità indiscussa. A lui obbediscono infatti il figlio Bastianazzo, con la moglie Maruzza, e i cinque nipoti ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Il destino si accanisce contro la povera famiglia di pescatori, che ha osato tentare un’impresa superiore alle proprie forze: il commercio di un carico di lupini. Una tempesta abbatte la “Provvidenza”, la barca che per i Malavoglia è fonte di lavoro, e provoca la morte di Bastianazzo. Da qui si sussegue una serie di tragedie: i debiti, la morte di Luca in guerra, la cattiva strada presa dalla Lia, il contrabbando e la galera di ‘Ntoni, la vendita della “casa del nespolo”, simbolo dell’unità della famiglia. Tuttavia, alla fine, dopo la morte del vecchio padron ‘Ntoni, Alessi riscatta la casa e cerca di ricostruire l’antico nucleo familiare. Il giovane ‘Ntoni, invece, uscito di galera e tornato al paese, capisce che non c’è più posto per lui in quel mondo che ha rifiutato e si allontana da Aci Trezza per sempre.
46 Nel romanzo si riflette dunque tutto il pessimismo di Verga. L’ordine sociale, come la natura, è e resta immutabile: l’”umile” che lo mette in discussione, che cerca di emergere è destinato ad essere un “vinto”, come avviene ai Malavoglia. Questo ordine sociale offre però una serie di valori, rappresentati dalla dignità del lavoro, dal sentimento del dovere, dall’unità familiare, dalla solidarietà: la perdita della “Provvidenza” e la morte di Bastianazzo non colpiscono solo la famiglia di padron ‘Ntoni, ma l’intero paese, che è partecipe prima dell’attesa e dell’ansia, poi del dolore e dello strazio dei Malavoglia. La Longa che si reca lungo la riva del mare per vedere sia pur da lontano la barca in difficoltà, non è mai sola: le sono vicini i suoi figli stretti alle sue gonne, che, col loro pianto, la richiamano alla realtà della vita di tutti i giorni; e le sono vicini i compaesani che, con la loro presenza, danno alla povera donna la consapevolezza della tragedia. Chi tradisce questi valori, come ha fatto ‘Ntoni, sarà allora doppiamente “vinto”, condannato a vivere emarginato, senza più alcuna radice. L’autore. Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia benestante di antica origine nobiliare, e vi muore nel 1922: la sua sembrerebbe, a prima vista, una vita interamente legata all’isola natale, ma non è così. Se da una lato è vero che la Sicilia e la sua gente costituiscono la principale fonte di ispirazione degli scritti di Verga, dall’altro è pure vero che egli trascorre diversi anni della sua esistenza in città “continentali”, Firenze e Milano. E proprio in queste città entra in contatto con le esperienze culturali più vivaci, in particolare con gli scrittori naturalisti francesi, riuscendo a mettere a fuoco in modo nuovo la sua esigenza di riportare nelle proprie opere personaggi, ambienti, situazioni che si ispirino alla realtà. A Milano vedono la luce i primi romanzi di Verga, legati ancora ai temi del Romanticismo. Nel 1874 Verga pubblica una novella di ambiente siciliano, Nedda, con cui inizia la sua produzione verista. Negli anni successivi, lo scrittore pubblica una prima raccolta di novelle, Vita dei campi, nelle quali sono protagonisti umili personaggi della sua terra, rassegnati ad una vita di stenti, tenacemente attaccati alla propria famiglia, al proprio paese come l’ostrica si attacca allo scoglio. Contemporaneamente egli idea un ciclo di cinque romanzi, il “ciclo dei vinti”, nel quale avrebbe voluto evidenziare la vana lotta degli uomini per raggiungere la ricchezza o il successo. Tutti cadono vinti. Di questo ciclo però Verga compose solo I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. In seguito pubblica la seconda raccolta di racconti, Novelle rusticane, nella quale il suo pessimismo, già espresso nei Malavoglia, diviene ancora più assoluto. Nel 1884 inizia la produzione teatrale, contribuendo al sorgere del teatro verista, con Cavalleria rusticana, che sarà in seguito musicata dal livornese Pietro Ma scagni. La sua opera per il teatro prosegue fino all’ultimo periodo della vita, con La lupa e Dal tuo al mio.
Giosue Carducci. L’opera di Giosue Carducci è caratterizzata per lo più dai temi autobiografici legati agli affetti e alle memorie familiari ed alla nostalgia per il paesaggio maremmano, anche se vi sono presenti componimenti che rievocano grandi momenti della storia patria. Ci sono infatti, nella sua poesia, due diverse ispirazioni: una ancora legata al Romanticismo (in particolare al concetto della missione che il poeta ha nella società, di difendere e diffondere valori e ideali); l’altra più moderna, rispondente a quanto egli stesso dichiara: “Il poeta deve esprimere se stesso nel modo più sincero e schietto: il resto non è affar suo”.
47 Il ricordo è il motivo dominante di molte delle sue liriche, tra le quali Traversando la Maremma toscana. In essa il poeta sviluppa il rapporto tra passato, presente e futuro. Tornare nella Maremma toscana, rivedere i suoi più noti aspetti è l’occasione che gli rende possibile confrontare l’io di ora con quello di un tempo e, così, rimeditare l’intera propria vita. All’inizio del sonetto egli si sente partecipe di quel paesaggio: la fierezza selvaggia dei luoghi è la stessa della sua natura di uomo. Ma, subito dopo, al sentimento di gioia si unisce quello di una struggente nostalgia, tanto che non si può dire se il pianto che brilla nei suoi occhi sia di felicità o di dolore. Egli ha la certezza di aver vissuto senza raggiungere la mèta, ma non per questo si abbandona alla disperazione. In altre liriche, come in Alla stazione in una mattina d’autunno, pur ritornando gli stessi motivi della memoria, l’autore si esprime in maniera più realistica, usando i simboli della modernità (come, appunto, il treno) per trattare queste tematiche senza sentimentalismo, oggi diremmo in modo “sperimentale”. L’autore. Giosue Carducci nasce nel 1835 a Val di Castello, nella Versilia toscana. A causa del trasferimento del padre, medico condotto, trascorre la giovinezza in Maremma, proseguendo poi gli studi prima a Firenze, poi a Pisa dove si laurea in lettere. Dopo un breve periodo di insegnamento nelle scuole, è chiamato alla cattedra di Letteratura italiana presso l’Università di Bologna, dove rimane fino alla morte, avvenuta nel 1906, dopo che egli ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura. Le sue poesie sono riunite in varie raccolte: Iuvenilia, cioè “poesie giovanili”; Levia gravia, cioè “poesie un po’ più serie”; Giambi ed epodi, che richiamano nel titolo i versi greci e latini che il poeta vuole imitare; Rime nuove e Odi barbare, così chiamate perché riprendono la metrica dell’ode classica in una lingua dalle caratteristiche completamente diverse e quindi suonerebbero “barbare” all’orecchio degli antichi Greci e Romani; Rime e ritmi.
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IL PRIMO NOVECENTO
Nella prima metà del Novecento il sistema economico basato sulla libera concorrenza viene sostituito da un nuovo capitalismo, nel quale un ristretto numero di grandi industrie si divide il mercato mondiale. Contro questi nuovi gruppi di potere, il proletariato potenzia le proprie organizzazioni sindacali e politiche, rivendicando il diritto a migliori e più democratiche condizioni di vita. La repressione dei governi, affiancati al grande capitale, è violentissima, mentre i ceti medi perdono il ruolo conquistato nell’Ottocento e divengono spettatori passivi. Si affermano governi autoritari che, oltre a soffocare qualsiasi movimento rivoluzionario interno, mirano a rafforzare la propria potenza con l’occupazione di territori, anche europei, che ritengono di loro spettanza. Scoppiano così, nell’arco di tempo di tre soli decenni, le due guerre mondiali. Per quanto riguarda la cultura, se agli albori del secolo lo scrittore, superando il ruolo di guida ideale avuto nel Romanticismo e quello di testimone oggettivo nel Realismo, diviene protagonista di esperienze eccezionali, che ne fanno ora un privilegiato per la raffinatezza del suo sentire, ora una vittima per la sua incapacità di impegnarsi nell’azione. Nei decenni fra i due conflitti mondiali, l’artista approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie: o esalta la nuova civiltà, le macchine, la guerra, il dominio sugli altri, emergendo come un superuomo dalla massa amorfa dell’umanità; oppure si sente incapace di agire, di operare in qualche modo nella società e ripiega su una dolente, amara impotenza. Il quadro storico-politico. Il passaggio al nuovo secolo. Alla fine dell’Ottocento si registrò in Europa un intensificarsi di quei mutamenti che avevano cominciato a caratterizzare il continente nei decenni precedenti: un enorme sviluppo dell’industrializzazione e l’infittirsi delle guerre imperialistiche e coloniali, soprattutto in Africa e in Asia, che trovavano da parte degli Stati promotori anche una giustificazione ideologica. Si andava infatti sempre più diffondendo il concetto della superiorità della “razza” bianca europea, incaricata di una missione civilizzatrice sui popoli “primitivi” e “barbari” e destinata alla guida del mondo. Anche la rivalità tra gli Stati europei andava però aumentando e si faceva conflittuale: il delicato equilibrio si sarebbe presto rotto, dando luogo alla immane tragedia della Prima guerra mondiale. All’interno degli Stati più avanzati si stava verificando, inoltre, una ulteriore profonda trasformazione del sistema produttivo, sempre più dominato dalle grandi industrie e dal capitale finanziario ad esse legato e concentrato nelle mani dei ricchi affaristi. In conseguenza di ciò si veniva modificando anche il sistema sociale, con la crescente contrapposizione fra capitale e lavoro. In questo ambito si andavano espandendo e consolidando le organizzazioni dei lavoratori, per lo più legate alle teorie economiche-sociali di Karl Marx (Manifesto del Partito Comunista, 1848): il proletariato, unica e vera forza produttiva di ogni Paese, doveva battersi per eliminare le contraddizioni della società contemporanea, dominata dalla classe borghese capitalista, e impegnarsi a conquistare il potere. La situazione europea all’inizio del Novecento. Il sistema industriale aveva raggiunto la piena maturità con la seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento, caratterizzata da una serie di innovazioni scientifiche e tecnologiche e da un ulteriore sviluppo dei mezzi di comunicazione. Le grandi industrie, investendo i loro capitali, erano ormai in grado di influenzare e determinare la politica dei governi e di controllare i mercati internazionali e l’economia mondiale. L’aumento della produzione necessitava, come sappiamo, di vasti mercati: se il vecchio capitalismo aveva esportato prodotti finiti nelle proprie colonie per ottenere in cambio materie prime, il nuovo capitalismo
49 esportava e investiva soprattutto capitali negli Stati sottosviluppati, per poterne meglio sfruttare le materie prime e ricavarne quindi altissimi profitti. In questo clima di grande espansione economica si acuirono i conflitti tra le classi sociali nelle grandi metropoli industriali, dove ricchezza e benessere non erano equamente distribuiti. D’altra parte, l’aspirazione delle grandi industrie ad ottenere un ruolo di prestigio in tutti i Paesi del mondo era all’origine di sorde rivalità fra le potenze europee. Al passaggio del secolo, il continente era ormai divenuto una enorme polveriera. Ancora per circa un decennio fu possibile mantenere, seppur con grandi difficoltà, il precario equilibrio politico, ma nel 1914 fu sufficiente una piccola scintilla a provocare la grande conflagrazione della Prima guerra mondiale: l’uccisione dell’arciduca d’Austria, avvenuta a Sarajevo, innescò infatti un meccanismo di interventi armati in cui furono via via coinvolte tutte le potenze europee e in seguito anche gli Stati Uniti. L’intensità del conflitto, la sua durata, la vastità dei fronti obbligarono i vari Stati a mobilitare tutte le risorse naturali e umane di cui disponevano e milioni di uomini furono scagliati nell’inferno delle trincee, mentre tutte le industrie si indirizzavano alla produzione bellica. Le conseguenze della Prima guerra mondiale. L’Europa uscì dalla “guerra totale” del 1914-’18 sconvolta nei suoi equilibri. A Oriente, già dal 1917 la Russia era squassata dalla rivoluzione bolscevica; ad Occidente molti imperi politicofinanziari crollarono in seguito alla disfatta militare e i trattati di pace stabilirono condizioni che umiliarono molte nazioni, in particolare la Germania, ma anche l’Italia, generando una pericolosa volontà di rivincita e ponendo le premesse per una nuova terribile tragedia. In Italia la guerra era stata combattuta con la speranza di risolvere i grandi problemi sociali all’interno del Paese, di ottenere cioè per i contadini la distribuzione delle terre dei latifondisti, per gli operai un lavoro sicuro in fabbrica, per tutti nuove ricchezze ottenute attraverso conquiste coloniali. Niente di tutto questo si realizzò, e l’inquietudine generale era alimentata dal continuo rincaro del costo della vita. In Germania, il crollo della potenza economica, che da un’economia di guerra non riusciva a far decollare una economia di pace, e le pesanti riparazioni pretese dai vincitori crearono un forte risentimento. Tutto ciò favorì la nascita di forme dittatoriali: in Italia la dittatura fascista, in Germania la dittatura nazista, che avrebbero portato l’Europa alla Seconda guerra mondiale.
Il quadro culturale. La crisi di inizio secolo. Nella complessa situazione sociale che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, entrano in crisi sia la cultura romantica, sia quella positivista. Lo scrittore, che durante il Romanticismo aveva assunto la funzione di guida verso il mondo degli ideali e nell’età del Realismo aveva creduto di poter risolvere i mali della società attraverso una accurata indagine della società stessa, vede ora fallire miseramente i propri obiettivi. Egli, infatti, si sente emarginato, in quanto elemento estraneo al mondo della produzione, e reagisce con un atteggiamento di rifiuto della società del momento e di opposizione ai suoi miti. Si ripiega in se stesso e diviene protagonista di una serie di esperienze eccezionali, che ne fanno ora un privilegiato, un “superuomo”, per la raffinatezza del suo sentire, ora una vittima, per la sua incapacità di impegnarsi nell’azione: in ogni caso, sempre un “diverso”. La perdita di fiducia nella ragione, il senso di smarrimento, il sentimento inquieto del mistero che circonda l’uomo, l’esasperata solitudine ispirano dunque la letteratura del periodo precedente la prima guerra mondiale. A questa produzione artistica viene dato il nome di Decadentismo.
50 Il Decadentismo. Il termine “decadente” nasce in Francia per indicare quegli artisti anticonformisti, la cui vita e la cui opera provocavano scandalo nel pubblico borghese. Dal termine “decadente” deriva poi anche il nome di Decadentismo, con cui viene indicata quella complessa corrente culturale di dimensioni europee che, pur nella varietà delle sue manifestazioni, presenta alcuni denominatori comuni, fra i quali un diffuso senso di sconfitta e l’assenza di fede nella ragione. Per i decadenti una realtà vera, indecifrabile e misteriosa, sta dietro la realtà sensibile; i fenomeni sono la manifestazione di qualcosa di più profondo e, al di là della loro diversità apparente, risultano uniti da una rete di segrete corrispondenze che solo l’artista può decifrare. Egli, infatti, come un “veggente”, è capace di spingere lo sguardo là dove l’occhio umano comunemente non arriva, trascurando di conseguenza gli aspetti della realtà e della società contemporanea. Il Simbolismo. Per rappresentare questo mondo misterioso, i decadenti utilizzano lo strumento del simbolo, sia in letteratura che nelle arti figurative. Il Simbolismo è l’orientamento letterario e artistico che più efficacemente sviluppa i motivi del Decadentismo, rinnovando profondamente le forme espressive. La parola poetica, infatti, perde il suo valore razionale per diventare soprattutto “parola-musica”, adatta ad evocare suggestioni e sensazioni singolari. Valori nuovi e nuove idee. Ai mutamenti delle strutture economiche e sociali in atto nei primi decenni del Novecento si aggiungono poi le radicali trasformazioni di carattere scientifico, filosofico, letterario, che si allargano anche agli altri campi della cultura, come la musica e le arti figurative, e che si andranno via via consolidando nel corso del secolo. Questo radicale mutamento nel modo di “percepire” la realtà coinvolge infatti, contemporaneamente, i campi del sapere più diversi; ad esempio, nella scienza, la teoria della relatività do Albert Einstein sancisce la fine dello spazio e del tempo come concetti assoluti. Negli stessi anni, grazie agli studi di Sigmund Freud sull’inconscio, nasce la psicanalisi; di conseguenza l’io e l’identità personale cominciano ad imporsi come realtà mutevole, in cui convivono paure, pensieri, desideri, che possono anche sfuggire al controllo cosciente della ragione. Anche nella musica si scoprono e sperimentano nuove direzioni: alla musica tonale, fondata cioè sulle sette note musicali disposte in un ben preciso rapporto gerarchico, comincia a subentrare anche la musica atonale (o dodecafonica), in cui tutti i dodici suoni della scala cromatica sono posti su un piano di assoluta parità. Le Avanguardie. Nel periodo fra le due guerre, la creazione letteraria risente naturalmente di tutte queste grandi innovazioni culturali e ne assimila completamente i tratti salienti. Le “Avanguardie”, così chiamate proprio perché rappresentano uno slancio verso il nuovo, sono la prima manifestazione di quest’ansia di rottura con il passato e del desiderio di aprirsi a nuove modalità espressive; esse creano così in ogni campo (dalle arti visive alla letteratura, alla musica) forme artistiche che meglio possano corrispondere al nuovo mondo che viene via via maturando. Una eccezionale carica rivoluzionaria caratterizza questi artisti, che scelgono la via della provocazione, della demolizione di tutto ciò che è vecchio e tradizionale, per sostituirvi un’arte ispirata agli elementi e ai prodotti della modernità: l’industria, la macchina, la pubblicità, la città. Ma gli entusiasmi di questo nuovo clima culturale hanno breve vita: lo scoppio del nuovo conflitto mondiale apre ben presto una fase di incertezza e ripensamento, che investirà il panorama culturale fino agli anni Sessanta.
51 L’attività letteraria in Italia. La lirica del primo Novecento. La poesia italiana del primo Novecento, in cui si avvertono legami con le esperienze del Decadentismo e del Simbolismo, trova i maggiori rappresentanti in Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Giovanni Pascoli ritrae soprattutto il mondo della campagna e delle “piccole cose”, in cui sente esprimersi il mistero dell’infinito. La sua poesia ha un accento dimesso, raccolto, un’interiorità profonda. Nei momenti più alti egli percepisce la solitudine sia dell’uomo, sia della terra perduta tra l’immensità degli spazi. Gabriele D’Annunzio, spesso con versi sonori e retorici, esalta invece la bellezza, la guerra, la violenza, l’amore-passione, giungendo alla vera arte soprattutto nei momenti in cui, ripiegando su se stesso quasi vinto dalla nostalgia e oppresso dal dolore, abbandona il proprio personaggio di “superuomo” per avvicinarsi alla bellezza della natura o per ricordare con rimpianto la terra d’origine. Nel campo della prosa, D’Annunzio lascia, soprattutto con il romanzo Il piacere, uno degli esempi più significativi dell’esteta decadente, che si isola con aristocratico distacco dal “gregge” degli uomini comuni, per vivere solo con se stesso e facendo della propria vita un’opera d’arte. Alla retorica e alle complicate immagini dannunziane, si oppone il Crepuscolarismo, così chiamato perché, secondo alcuni critici, allude al tramonto di una grande stagione letteraria. I crepuscolari, che privilegiano le piccole cose, i sentimenti tenui, rappresentano non una “scuola”, ma un indirizzo letterario, il cui principale rappresentante è Guido Gozzano, seguito da molti altri autori, fra cui Sergio Corazzino, Marino Moretti e, nelle sue prime esperienze poetiche, Aldo Palazzeschi, che in seguito percorrerà altre strade. Successivamente, nelle Avanguardie italiane si pone in primo piano il Futurismo, che considera ormai decisamente superata la tradizione classica e abolisce la sintassi fino all’approdo delle “parole in libertà”, accostate in ordine casuale. Numerosi i poeti che aderiscono, magari per un breve periodo, a questa corrente. Tra di essi, Filippo Tommaso Marinetti, Aldo Palazzeschi, Corrado Covoni, Luciano Folgore. Un’altra via verso il rinnovamento culturale e letterario offrono i poeti che aderiscono alla rivista fiorentina “La Voce”. I “vociani” tentano, come Camillo Sbarbaro, di esprimere il disagio dell’esistenza attraverso le piccole cose della realtà quotidiana; o danno vita a liriche visionarie e arditamente simboliche, come Dino Campana; oppure, come Clemente Rebora, trovano una risposta agli interrogativi e alle inquietudini dell’uomo contemporaneo nella dimensione religiosa. Altri autori, come Vincenzo Cardarelli, direttore della rivista romana “La Ronda”, cercano invece un’espressione poetica che nella sua semplicità si riallacci alla grande tradizione ottocentesca; oppure, come Giuseppe Ungaretti, operano un appassionato lavoro intellettuale che tende a ridurre all’essenziale la frase poetica, eliminando dal verso tutto ciò che considerano in sovrappiù, per isolare la parola nel suo valore più significativo. La narrativa e il teatro del primo Novecento. La tragica solitudine dell’uomo diviene il filo conduttore attorno a cui si snoda anche l’avventura intellettuale della narrativa del primo Novecento. Italo Svevo, Luigi Pirandello e Federigo Tozzi danno vita a personaggi disorientati, alle prese con un mondo in cui appare sempre più difficile riconoscersi e realizzare le proprie aspirazioni; dubbi, angosce, paure lacerano l’individuo e rendono inutili tutti i tentativi di azione e di intervento sulla realtà. Così i personaggi di Italo Svevo, incapaci di una scelta di vita stabile e definitiva, raggiungono tuttavia la coscienza che il disagio di vivere è la dimensione più autentica nella quale è inserito l’uomo moderno. Allo stesso modo, nei romanzi e nei racconti di Luigi Pirandello, ma più ancora nella sua opera teatrale, il personaggio vive in continuo contrasto fra l’essere e l’apparire, fra la ricerca di una propria autenticità e la maschera impostagli dalle convenzioni sociali. La vita normale appare a
52 questi nuovi “eroi” assurda, paradossale e soprattutto come un instabile gioco di parvenze, di ipocrite finzioni. Infine, nella narrativa di Federigo Tozzi la meschinità dei personaggi e delle situazioni appare rappresentata dall’autore con impietosa lucidità. Anche la rappresentazione teatrale in questi anni propone gli stessi interrogativi sull’uomo, la sua identità e il suo rapporto con la realtà del mondo. Se, come si è detto, il punto più alto di questa ricerca è rappresentato dall’opera di Luigi Pirandello, che sviluppa i motivi centrali della sua narrativa, altri autori affrontano con successo queste problematiche. E’ il caso del “teatro grottesco” di Massimo Bontempelli, le cui commedie portano alla luce gli elementi di irrazionalità presenti nelle situazioni quotidiane; è il caso del “teatro dei processi morali” di Ugo Betti, che propone con nuova forza l’antico conflitto tra bene e male, tra innocenza e corruzione, delineando la necessità per l’uomo di un profondo rinnovamento morale.
Due protagonisti del Decadentismo italiano: Pascoli e D’Annunzio. Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Benché appartengano alla stessa corrente letteraria, quella del Decadentismo, e siano simili per l’uso originale della parola poetica, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio sono due poeti profondamente diversi, in quanto ben diversa è la loro poetica, cioè la concezione che ciascuno dei due ha della poesia, e diverse sono anche le tematiche rappresentate nelle loro liriche. Scrive il Pascoli che all’interno di ogni uomo vive un fanciullino, i cui occhi osservano con serena meraviglia la realtà che lo circonda e il cui udito è in grado di cogliere voci arcane, capaci di dare strane sensazioni di gioia e di felicità. Col tempo, crescendo, l’uomo, tutto preso da altri interessi, soffoca la voce del fanciullino, che solo il poeta è capace di ascoltare e di riproporre nei suoi versi. E’ la voce che canta la bellezza delle piccole cose che hanno lo stesso valore di quelle grandi e importanti: un filo d’erba, le stelle del cielo, il canto di una rana, lo scoppio di un fulmine. Per quanto riguarda la scelta dei temi, prevale nella poesia pascoliana la rappresentazione del dolore e della morte, che talvolta tende ad assumere sfumature e toni languidi o addirittura patetici. Per D’Annunzio, il poeta è invece l’individuo eccezionale, il “superuomo”, che con le sue straordinarie qualità si staglia sulla massa informe degli altri uomini, capace di provare, soprattutto di fronte alla natura, sensazioni particolari, che gli consentono di scoprire aspetti della realtà ignoti agli altri. D’Annunzio si avvale della parola come di un materiale prezioso da plasmare: sa infatti creare associazioni inconsuete, come un musico che compone una straordinaria quantità di variazioni su una stessa melodia. Il verso diventa musica che suggerisce sensazioni ora dolcissime e morbide, ora impetuose e prepotenti. I temi della sua poesia, infine, affermano la gioia della vita e quella “volontà di potenza” che consente di riuscire vincenti nelle più diverse situazioni. IL “SIMBOLISMO” PASCOLIANO. Myricae (che nel titolo rievoca un verso di Virgilio: mi piacciono gli arbusti e le umili mirice, cioè le tamerici) contiene le poesie giovanili. In esse il motivo dominante è quello delle “piccole cose”: queste, pur nella loro semplice quotidianità, diventano per il poeta simboli di “altre cose”, che egli solo riesce a intuire e decifrare, poiché, come un “fanciullino”, sa osservare e ascoltare la realtà con serena meraviglia. Nasce così il simbolismo pascoliano per cui ogni oggetto, ogni essere vivente, addirittura il paesaggio richiamano qualche altra cosa: ne è un esempio, in Lavandaie, l’aratro abbandonato in mezzo al campo, che è simbolo di uno stato d’animo pervaso da tristezza e malinconia.
53 I Primi poemetti proseguono il discorso poetico iniziato con le Myricae ma sono, secondo quanto dice il Pascoli stesso, di genere più elevato. Si tratta di poesie spesso più narrative che liriche, in molti casi legate, piuttosto che alla quotidianità (come I due fanciulli), a riflessioni di carattere simbolico sull’uomo, il dolore, il mistero stesso della vita: ne è chiaro esempio Il libro. I Canti di Castelvecchio, ambientati nel mondo rustico della campagna lucchese raccolgono anch’essi liriche che cantano le umili cose quotidiane, con un linguaggio semplice e simile al parlato: quasi una riflessione rivolta a se stesso. In La mia sera ritorna un motivo caro al poeta, il tema della memoria: dal passato emergono un luogo, una data, un suono, un profumo che fanno riaffiorare eventi in apparenza dimenticati, presenti però nelle profondità della coscienza. La memoria reca quindi con sé una componente di dolcezza: infatti, recuperando gli affetti perduti, intenerisce l’animo e porta un senso profondo di pace. In questa lirica è esplicito il rapporto fra il succedersi degli eventi naturali e la vicenda biografica dell’autore. La tempesta, con tuoni e lampi, ha infuriato per tutto il giorno. Ma ora, a sera, si è placata: di tanti suoni paurosi resta solo il canto delle rane; di tanta pioggia, solo il gorgogliare di un piccolo corso d’acqua. Secondo il simbolismo pascoliano, la tempesta corrisponde alla vita, la sera alla morte, il suono delle campane diviene la voce della tomba, cioè dei cari scomparsi, che rivivono nel ricordo. L’immagine del volo di rondini nell’aria tornata serena riconduce al nido, il nido riporta alla casa della fanciullezza, al suono delle campane e questo si confonde e sfuma nel canto della madre, che induceva al sonno il fanciullo di allora. Di suggestione in suggestione il tempo si è annullato: perciò indefinito e non doloroso resta anche l’implicito accenno alla morte, sentito come un dolce abbandono nelle braccia della madre. Il “simbolo”. Nel suo significato originario il simbolo (dal greco sumballo: “metto insieme”) è il mezzo di riconoscimento che si otteneva spezzando un oggetto in due parti irregolari, in modo che i possessori di ciascuna di esse, facendole combaciare, potessero reciprocamente riconoscersi. Il simbolo è quindi un elemento rivelatore, qualcosa che permette di capire, ma solo a una condizione: che sussista l’altra metà. Questa originaria duplicità si ritrova anche nel significato più comune della parola. Infatti oggi per “simbolo” si intende una cosa che ne rappresenta un’altra, con la quale è in qualche modo collegata da un rapporto più o meno evidente di somiglianza o di richiamo. Il simbolo quindi rivela, ma al tempo stesso nasconde, lasciando sempre un margine di incertezza, un alone inafferrabile, un’ombra di mistero. L’autore. È la Romagna la terra dove Giovanni Pascoli nasce (a San Mauro) nel 1855 e dove trascorre una fanciullezza serena e lieta finché, nel 1867, la morte del padre, assassinato da ignoti, e poi quella della madre e di tre fratelli non rompono la tranquilla felicità. I lutti familiari incidono profondamente sul carattere del poeta e condizionano in senso pessimistico la sua visione del mondo: l’intero universo, dove egli non riesce a vedere nessun disegno provvidenziale, gli appare avvolto in un profondo mistero. Sulla terra l’uomo si muove smarrito, fragile preda del male e del dolore. Come reagire a questa condizione, comune a tutti gli uomini? Solo tornando alle cose buone, a un rapporto dolce e amichevole con la natura si potrà trovare un po’ di pace e vivete in fraternità con gli altri uomini. Queste opinioni sono alla base della poesia di Pascoli, per il quale il poeta deve essere come un “fanciullino”, che sa trarre gioia dalle piccole cose. Le sue liriche sono raccolte nelle Myricae; nei Poemetti, che tra l’altro sviluppano la vicenda di un’umile famiglia contadina di Barga, in provincia di Lucca; nei Canti di Castelvecchio, il paese presso Barga dove il poeta dapprima soggiorna in vacanza, durante il periodo di insegnamento all’università di Messina, e dove poi si trasferisce con l’amata sorella Mariù; nei Poemi conviviali, che si ispirano al mondo greco e orientale; in Odi e Inni, che celebrano il lavoro e il progresso umano. Autore anche di importanti saggi danteschi, Pascoli muore nel 1912 a Bologna, dove era stato chiamato nel 1907 a succedere a Carducci nella cattedra universitaria di Letteratura italiana.
54 D’ANNUNZIO E IL DECADENTISMO. La sera fiesolana e La pioggia nel pineto appartengono entrambe alla raccolta Alcione, che contiene alcune delle più belle liriche dannunziane. Esse testimoniano l’adesione del poeta al gusto decadente per le immagini preziose, splendide, raffinate che le parole, così accuratamente scelte e accostate, riescono a creare: immagini che coinvolgono non solo il senso della vista, ma anche l’udito e, addirittura, l’olfatto. La prima delle due poesie è anche la prima composta da D’Annunzio per Alcione. Come si nota, essa è impostata in forma di lauda, tanto da ricordare nel “ritornello” (Caudata sii…) il Cantico delle creature di San Francesco, che hai letto lo scorso anno. Nella lirica non c’è una trama narrativa, ma la ricerca di suggestioni visive e uditive complesse, in grado di restituirci le emozioni provate dal poeta una precisa sera all’inizio dell’estate 1919 quando si era trovato nella sua villa presso Fiesole, vicino a Firenze, al levare della luna, di fronte allo splendido panorama che si apre sul paesaggio dei colli circostanti, nel quale l’anima vorrebbe annullarsi. Una trama narrativa non c’è neppure nella seconda poesia; ci sono infatti solo sensazioni, suggerite dalla musicalità dei versi. Il poeta e la sua donna vagano all’interno di un bosco solitario, dove la pioggia porta un refrigerio alla calura estiva, quasi rigenerasse la vita. Avvertiamo, attraverso vari richiami, che esiste nella natura un’armonica corrispondenza di voci: quella della pioggia, quella delle foglie che ad essa rispondono ciascuna con un suono diverso, quella della cicala e della rana. A mano a mano che la musica cresce (sia il pianto della pioggia, che il canto delle creature), l’armonia della natura si comunica agli esseri umani. Si avverte un totale distacco dal tempo e dallo spazio reali: il bosco pare infinito, la pioggia sembra durare da sempre e per sempre. Il poeta, senza che ci sia un passaggio logico, si rende conto di provare sensazioni nuove, quali solo creature vegetali (volti silvani) possono sperimentare: egli ed Ermione sentono, come se fossero foglie, il refrigerio della pioggia e si muovono nel bosco con un ritmo di danza, in sintonia con la musica che si diffonde nella natura e con i profumi che questa dispiega nell’aria dopo la pioggia. L’autore. Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863, da un’agiata famiglia. Studia nel collegio Cicognini di Prato, rivelando precoci attitudini letterarie; si iscrive alla facoltà di Lettere di Roma, dove frequenta gli ambienti mondani diventando ben presto celebre non solo per i duelli, gli scandali, gli amori, la vita dispendiosa, ma soprattutto per i suoi romanzi e i suoi versi. Angustiato dai debiti, nel 1910 va in volontario esilio in Francia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale è tra i sostenitori dell’intervento italiano contro l’Austria e, tornato in Italia, partecipa egli stesso alla guerra, ricevendo una grave lesione all’occhio destro. Nell’immediato dopoguerra, si lega al nascente movimento fascista ed ha contatti con lo stesso Mussolini. Ritiratosi nella sua villa sul lago di Garda, vi muore nel 1938. La sua produzione spazia nel campo della poesia, della prosa, del teatro. Le poesie sono raggruppate in tre raccolte: Canto novo, Poema paradisiaco, Laudi; queste ultime sono divise in libri, fra i quali Alcione, che contiene le liriche più belle. I romanzi più noti sono Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco. Per il teatro scrive un gran numero di testi, che segnano il gusto di un’intera epoca: La città morta, Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, interpretate da una delle più grandi attrici del tempo, Eleonora Duse, con la quale D’Annunzio ebbe un’appassionata relazione amorosa.
55 Esperienze poetiche del primo Novecento. Il mondo dei crepuscolari. Si deve al critico-scrittore Giuseppe Antonio Borgese l’origine del fortunato termine di “Crepuscolarismo”, intendendo egli con ciò definire il tramonto storico di “una gloriosa poesia che si spegne in un mite e lunghissimo crepuscolo”. In realtà, anche se non è una scuola con manifesti, proclami, dichiarazioni di una poetica comune, il Crepuscolarismo rappresenta un movimento innovativo. Esso è un clima culturale, un modo di atteggiarsi di fronte alla realtà e alla letteratura di un gruppo di poeti che, usciti dal clima carducciano, dannunziano e pascoliano, non si riconoscono più nel mito eroico del poeta-vate di Carducci, né in quello superomistico di D’Annunzio e del costume letterario da essi diffuso. La poesia crepuscolare, dunque, canta sentimenti lievi come la tenerezza e la malinconia, atmosfere domestiche, oggetti quasi banali, spesso considerati con una certa affettuosa ironia. A questo clima culturale appartengono Sergio Corazzini, che può essere considerato l’iniziatore della tendenza, Guido Gozzano, che ne è il maggiore esponente, Marino Moretti e Aldo Palazzeschi, che vi aderisce nella sua prima fase poetica. Sergio Corazzini. Sergio Corazzini nasce a Roma nel 1886 e vi muore, poco più che ventenne, nel 1907. Costretto ad abbandonare gli studi ginnasiali in seguito ad un grande dissesto finanziario che colpisce la famiglia, conduce una vita scialba e grama, consolato solo dall’amore per la poesia. Fin dal 1902 comincia a pubblicare liriche in lingua e in dialetto romanesco. Nel 1904 escono le raccolte Dolcezze e L’amaro calice; l’anno successivo Le aureole e in seguito Piccolo libro inutile, Elegie e Libro per la sera della domenica. Tutte queste opere saranno raccolte, assieme ad altre poesie non pubblicate, nel volume postumo delle Liriche. I suoi versi esprimono una malinconia temperata da un certo ironico distacco, che fa della sua poesia un originale punto di avvio del Crepuscolarismo. Guido Gozzano. Guido Gozzano nasce a Torino, nel 1883, in una famiglia dell’alta borghesia, che gli consente di trascurare gli studi di giurisprudenza per coltivare le relazioni sociali, le amicizie con molti intellettuali e la precoce passione per la poesia. Appena ventenne, inizia infatti a pubblicare con successo le proprie composizioni su varie riviste e nel 1907 esce la prima raccolta, La via del rifugio, che sarà seguita dalla più celebre, I colloqui. Gozzano è ormai un poeta di successo, l’esponente di maggior spicco del Crepuscolarismo, con un brillante futuro, quando viene colpito dalla tubercolosi, una malattia polmonare all’epoca praticamente incurabile. Nonostante ciò, nel 1912 affronta un viaggio in India, del quale narra nell’opera in prosa Verso la cuna del mondo, che sarà pubblicata postuma: il poeta muore infatti, poco più che trentenne, nel 1916. Marino Moretti. Marino Moretti nasce a Cesenatico (Forlì-Cesena) nel 1885 e si avvicina giovanissimo alla letteratura, nel clima culturale del Crepuscolarismo, pubblicando appena ventenne la prima raccolta di versi, Fraternità, e successivamente le più famose Poesie scritte col lapis, Poesie di tutti i giorni e Il giardino dei frutti. Pure di stampo crepuscolare, per la scelta di argomenti dimessi e quotidiani sullo sfondo di ambienti provinciali, ma caratterizzata da un più vivace realismo e da una vena di sottile ironia, è la sua produzione in prosa: romanzi e racconti tra cui si ricordano particolarmente I puri di cuore, La vedova Fioravanti, La camera degli sposi. Tornato alla poesia negli ultimi anni della vita, pubblica tre raccolte di liriche che sviluppano in senso moderno il suo originale crepuscolarismo. Muore a Cesenatico nel 1979.
56 Aldo Palazzeschi. Nato a Firenze nel 1885 e morto a Roma nel 1974, Aldo Palazzeschi ha attraversato quasi un intero secolo della letteratura italiana, interpretando nelle sue opere tendenze culturali diverse. Avvicinatosi giovanissimo alla poesia, agli inizi del Novecento, nel clima del Crepuscolarismo, si orienta verso forme espressive nuove e compone versi caratterizzati da una sottile vena ironica. E’ autore di raccolte poetiche (I cavalli bianchi, Poemi, L’incendiario, Poesie, Cuor mio) e di romanzi (Il codice di Perelà, Sorelle Materassi, Stefanino). La novità del verso libero. La poesia Chi sono? È composta in versi liberi, che non hanno cioè un numero fisso di sillabe, né una collocazione degli accenti obbligata. E’ una scelta innovativa rispetto alla tradizione, e sembra a Palazzeschi più adeguata ad esprimere l’inquietudine e il desiderio di novità che caratterizzano la sua epoca. Da ora in poi, molti altri poeti si serviranno di questa forma, tanto che essa caratterizzerà l’intera poesia del Novecento. Un variegato panorama di sperimentazioni. I primi decenni del Novecento offrono un panorama di movimenti che propongono una profonda frattura con la tradizione, bollata col termine di “passatismo”, e avviano un notevole rinnovamento culturale e letterario. I loro programmi trovano spazio nelle varie riviste culturali dell’epoca o sulle colonne dei giornali. La poesia futurista, ad esempio, nasce ufficialmente sulle colonne del “Figaro”, noto quotidiano parigino, dove appare il Manifesto del Futurismo, firmato da Filippo Tommaso Marinetti, che del movimento è fondatore ed esponente di spicco. Scrive appunto Marinetti: “Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo… glorificare la guerra, sola igiene del mondo… distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie”. A questa tendenza, che esalta la civiltà delle macchine, la modernità e il caos, e si esprime attraverso la poesia, la prosa e le arti figurative, aderiranno in una prima fase anche molti poeti che in seguito se ne distaccheranno per percorrere diverse e originali strade. Altri autori, invece, esprimono il loro desiderio di rinnovamento culturale sulle pagine della rivista fiorentina “La Voce”. Il mondo appare a questi “vociani” in preda a un disordine del quale essi si sentono incapaci di dare una organica rappresentazione artistica. Appartengono a questo gruppo Camillo Sbarbaro, Dino Campana e Clemente Rebora. Altri, invece, non si inseriscono in nessuna precisa corrente e si richiamano ai valori classici, sostenuti in particolare da Vincenzo Cardarelli, direttore della rivista culturale romana “La Ronda”. Altri, ancora, esprimono nella rivista fiorentina “Solaria” una grande apertura verso le esperienze straniere, in specie europee: vedono infatti la luce, sulle pagine della rivista, traduzioni di poesie dell’angloamericano Thomas Stearns Eliot e di racconti dell’irlandese James Joyce, così come tempestive recensioni delle opere di scrittori come lo statunitense Ernest Hemingway. Esordisce infine, in questi anni, anche quella che sarà una delle voci più alte della poesia italiana del Novecento: Giuseppe Ungaretti. Richiamandosi, per i temi, alla propria esperienza di soldato nella Prima guerra mondiale, egli esprime i più profondi valori dell’uomo attraverso una forma lirica “frammentaria”, di cui parleremo in seguito, nella quale la scarna parola acquista peso e significato mediante accostamenti personali e originali.
57 Filippo Tommaso Marinetti. Filippo Tommaso Marinetti nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1876 e trascorre la giovinezza a Parigi, dove pubblica le prime opere, tra cui Distruzione. Fondatore e teorico del Futurismo, è autore di numerosi “manifesti”, nei quali si scaglia contro i valori della tradizione, esaltando il dinamismo della modernità e delle macchine, la guerra, la violenza come affermazione “superomistica” di individualità. Esempi letterari più importanti di questa sua “poetica” sono il romanzo Mafarka il futurista e alcune poesie (Zang Tumb Tumb e Adrianopoli, ottobre 1912). Legatosi al fascismo, nel 1929 viene nominato accademico d’Italia. Muore nel 1944 a Bellagio, presso Como. Camillo Sbarbaro. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1888, morto a Spotorno nel 1967, Camillo Sbarbaro ha vissuto un’esistenza appartata e solitaria. E’ autore di versi (raccolti in Resine, Pianissimo, Rimanenze, Primizie) e di prose poetiche (Trucioli, Liquidazione, Gocce). Nelle sue opere, con una forma semplice ed essenziale egli esprime la propria solitudine, l’incapacità di provare sofferenza e gioia, la convinzione che il mondo in cui l’uomo vive è privo di speranza e incomprensibile nella sua essenza più profonda. POESIA E “DISAGIO ESISTENZIALE”. Nel primo Novecento si sviluppa una poesia delle piccole cose, che in esse coglie la tristezza, la malinconia, il disagio del vivere quotidiano. Le voci dei poeti comunicano dubbi e incertezze sulla vita, sui suoi valori, sul suo stesso significato: questo “disagio esistenziale” è dovuto alla coscienza che non si può far altro che contemplare il vuoto che ci avvolge e ci separa inevitabilmente dalla realtà. Un esempio di questa impostazione è la lirica di Sbarbaro Talor, mentre cammino solo al sole. Essa esprime la condizione desolata in cui il poeta si muove come un sonnambulo: lo spettacolo della vita ha perso i suoi colori, ed egli, troncato ogni rapporto con la realtà, prende coscienza della negatività della propria esistenza. I versi iniziali sembrano creare un’atmosfera di serena, fiduciosa corrispondenza nei confronti di tutti gli aspetti, anche i più umili, della vita. Ma l’armonia con il mondo è solo apparente e il poeta si scopre cieco, incapace di illusioni, immerso nell’incubo di non poter approdare alla verità. Addirittura sogno e realtà si confondono fino a procurare uno stato di smarrimento. La sola momentanea salvezza può venire dal contatto con le più umili cose della natura, quasi che ciò possa ridurre il senso di vuoto che rischia di sommergerlo.
Dino Campana. Nato a Marrani (Firenze) nel 1855, morto a Castel Pulci (Firenze) nel 1932, Dino Campana vive un’esistenza travagliata, segnata dalla malattia mentale, che si manifesta fin dall’adolescenza, impedendogli studi regolari e condannandolo alla morte in manicomio. Nella sua vita la poesia rappresenta dunque l’unica consolazione. La sua è una voce originalissima e solitaria, in cui l’espressione è ricca di simboli e di immagini legate al sogno o addirittura al delirio, con rari momenti di serenità. Le sue liriche più importanti sono raccolte nei Canti orfici. Clemente Rebora. Clemente Rebora nasce a Milano nel 1885. Dopo la laurea in lettere, collabora con la rivista “La Voce” e pubblica liriche di grande novità, sia per i contenuti che per il linguaggio. Tornato dalla guerra, in cui ha combattuto come ufficiale, matura una profonda crisi spirituale e in seguito diviene
58 sacerdote. La sua poesia – raccolta tra l’altro in Frammenti lirici, Canti anonimi e Canti dell’infermità – si distingue per la coscienza del lacerante conflitto tra il bene e il male che pervade l’esistenza umana e per l’intensità dell’anelito umano e religioso. Muore a Stresa (Novara) nel 1957. Vincenzo Cardarelli. Nato nel 1887 presso Orvieto, in una famiglia modesta, Vincenzo Cardarelli deve interrompere gli studi dopo le elementari e si forma culturalmente attraverso le letture. Diciassettenne, si trasferisce a Roma dove svolge lavori umili e infine diviene giornalista. Tra il 1919 e il 1923 dirige la rivista letteraria “La Ronda”. E’ esponente di quella tendenza culturale che, nel periodo fra le due guerre, si impegna in un tentativo di rinnovare il linguaggio poetico stabilendo una continuità con la grande tradizione del passato. Ispirandosi quindi alla sobria eleganza dei classici, come Leopardi, e modernizzandola, Cardarelli compone liriche (Poesie, Poesie nuove) nelle quali convivono immagini intense e attenzione alle più sottili sfumature. Muore a Roma nel 1959. Giuseppe Ungaretti: la poesia e l’esperienza della guerra. Le liriche Veglia, Fratelli, San Martino del Carso, Soldati e Natale, tratte da L’Allegria, sono ispirate dalla partecipazione del poeta alla Prima guerra mondiale, esperienza fondamentale per la sua vita e la sua opera. All’inizio del conflitto molti intellettuali erano “interventisti”, cioè favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia, ma poi, di fronte alla morte e alla distruzione, la maggior parte cambiò prospettiva, mostrando attraverso varie forme d’arte gli aspetti più tragici della guerra e le conseguenze terribili che essa aveva portato agli uomini. Anche per Ungaretti la guerra significa solitudine atroce, freddo, fame, morte. Da questa dolorosa consapevolezza trova la forza di reagire, riscoprendo la propria dignità interiore e il senso di partecipazione al destino comune dell’umanità. Ungaretti scrive dunque una specie di “diario di guerra” in versi (molte liriche portano l’indicazione del luogo e della data) – cui appartengono le liriche sopra citate e tante altre famose poesie – ricreando immagini e momenti drammatici di morte, di attesa attonita della fine, ma anche di intensa solidarietà fra le creature. Il tema del dolore e dell’angoscia non è forse mai stato reso, in tutta la storia della nostra poesia, con note più crude e desolate. Per quanto riguarda la forma espressiva, Ungaretti utilizza la parola caricandola di un intenso significato. Essa viene arricchita e resa più “forte” con accostamenti nuovi e imprevisti. La rapidità e l’essenzialità del verso, talvolta concentrato in una sola parola, è stata chiamata poetica del frammento, poiché richiama la forma frammentaria in cui spesso la poesia dell’antichità classica è giunta fino a noi. La madre: un canto d’amore e di fede. Nell’immaginare il suo futuro incontro con la madre nella dimensione dell’eternità, Ungaretti trae spunto per rievocare la figura di questa donna semplice, ricca di una fede profonda, di un amore fedele. Il passato torna ripetutamente (come una volta…come già ti vedevo…come quando). Si stabilisce, quindi, una continuità tra passato e futuro e nella forza del sentimento il tempo si annulla. Come ha saputo proteggerlo quando era un bambino, la madre anche di fronte a Dio saprà guidarlo, saprà intercedere per lui, ottenergli il perdono delle sue colpe. Essa vivrà ancora una volta per il figlio e solo quando lo saprà salvo si scioglierà in un sospiro affettuoso, espressione della sua gioia interiore. La lirica è fra le più note di Ungaretti, in parte per il tema che essa affronta, il quale trova, naturalmente, un’ampia risonanza nei lettori, in parte per la forza comunicativa di questi versi, più apertamente distesi nel canto, in confronto a quelli di altre poesie dello stesso autore.
59 L’autore. Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto. Nel 1912 torna in Europa: visita l’Italia, si stabilisce a Parigi e quindi combatte volontario nella Prima guerra mondiale, vivendo in prima persona la traumatica esperienza di soldato al fronte, che segna profondamente le poesie scritte in quegli anni. Finita la guerra, aderisce al fascismo e trascorre alcuni anni in Italia come funzionario ministeriale; nel 1936 si trasferisce in Brasile, dove insegna Letteratura italiana presso l’Università di San Paolo. Rientrato in Italia, dal 1942 vive a Roma, dove tiene una cattedra universitaria di Letteratura italiana e dove muore nel 1970. Protagonista tra i maggiori della poesia del nostro Novecento, ha pubblicato le sue liriche in numerose raccolte, le più importanti delle quali sono Il porto sepolto; L’Allegria, che contiene le liriche scritte negli anni di guerra (l’”allegria” è quella del marinaio che è riuscito a sopravvivere al naufragio); Sentimento del tempo; Il dolore; Il taccuino del vecchio. Ungaretti è autore anche di numerose traduzioni poetiche, di prose e saggi.
Il romanzo di analisi nelle voci di tre narratori: Svevo, Pirandello e Tozzi. La narrativa e la crisi del Novecento. La crisi dei valori che segna la fine del secolo XIX porta notevoli conseguenze anche nel settore del romanzo, che, accanto alla poesia lirica, è il genere più diffuso in Europa in questo momento culturale. Dal romanzo dei fatti, che aveva caratterizzato l’epoca del Realismo, si passa infatti al romanzo di “analisi”, in cui cambiano tutti gli elementi essenziali: la struttura dei personaggi, il modo di costruire l’intreccio, la prospettiva nei confronti del tempo e dello spazio e, in parallelo, le tecniche espressive. Tra queste ultime spicca in particolare quella del “monologo interiore”, con la quale il narratore riesce ad esprimere pienamente il fluire dei pensieri e della coscienza dei suoi personaggi, così da rappresentarne con precisione la psicologia. Nella pur grande varietà che il romanzo di questo periodo presenta è possibile, volendo schematizzare, distinguere due linee di tendenza relativamente alle caratteristiche del protagonista: sulla prima si colloca il “mito” dell’uomo che isola il valore della bellezza, e costruisce la sua vita come un’opera d’arte. Di questa corrente è rappresentante in Italia Gabriele D’Annunzio, con il suo romanzo Il Piacere; sull’altra troviamo il protagonista che si scopre “inetto” a inserirsi nel frenetico ritmo della società moderna, ma che sfida la propria debolezza sottoponendola a una lucida analisi, che lo fa sentire vivo e autentico. Di questo secondo indirizzo sono rappresentanti Italo Svevo, particolarmente con La coscienza di Zeno, e Luigi Pirandello, con le Novelle per un anno e il romanzo Il fu Mattia Pascal. Sono essi i due grandi autori che hanno dato vita in Italia al romanzo di analisi. Una singolare interpretazione della figura dell’inetto è infine quella che scaturisce dalla narrativa di Federigo Tozzi. Lo scrittore, infatti, applica un’analisi psicologica lucida e rigorosa a personaggi e ambienti che sembrano riprendere quelli del Verismo italiano di fine Ottocento. La coscienza di Zeno di Italo Svevo. La coscienza di Zeno è un romanzo importante perché offre la più esemplare rappresentazione dell’inetto, una figura di eroe negativo, di “malato”, espressione di una società in crisi profonda che si sta avviando all’affermazione delle ideologie nazi-fasciste. L’inetto è un individuo abulico (cioè inerte, privo di volontà), incapace di affrontare la realtà e di intervenire su di essa, destinato pertanto a soccombere di fronte agli ostacoli. Egli inutilmente tenta di nascondere a se stesso la
60 propria condizione di eterno sconfitto e continua a sognare possibili evasioni e vie d’uscita dal suo stesso modo di essere, che lo imprigiona. Un inetto è dunque Zeno Cosini, che, su consiglio del suo psicanalista (la nascente prospettiva psicanalitica ha grande importanza nella struttura del romanzo), scrive il diario della propria vita ripercorrendone gli eventi più significativi. Libero da ogni impegno di lavoro, Zeno si dedica interamente a studiare gli innumerevoli sintomi dei suoi mali. Si delinea così la sua figura di uomo “inetto” (totalmente incapace) a vivere, insidiato non tanto da una malattia fisica, quanto piuttosto da una malattia morale, che smorza ogni impulso all’azione. Ma di questa malattia morale Zeno raggiunge la “coscienza” che, se non gli consente di guarire, gli consente però di affrontare la vita con lucida ironia. Ad esempio, nel brano La triplice dichiarazione d’amore, Zeno è ospite della famiglia Malfenti, deciso a dichiararsi alla bella Ada di cui è innamorato e della quale è innamorato anche un giovane molto più brillante di lui, Guido Speier, che poi la sposerà. Con Ada sono presenti anche le sue sorelle, Augusta, Alberta e Anna; Zeno di fronte al momento decisivo della dichiarazione d’amore è afflitto da mille ripensamenti: il terrore di sbagliare a scegliere la donna della sua vita lo porterà alla paralisi totale e infine a prendere una decisione che non aveva assolutamente previsto. L’inetto, infatti, per l’abulia che lo contraddistingue, non riesce mai a prendere delle decisioni e si trova sempre a subire ogni evento: anche in questo episodio si ha la prova che è il caso a decidere per Zeno e non certo la sua volontà. L’autore. Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861. Problemi economici della famiglia lo costringono, neppure ventenne, ad abbandonare gli studi per impiegarsi in banca. Contemporaneamente egli inizia a scrivere racconti e novelle, e nel 1892 pubblica il primo romanzo, Una vita, mentre il secondo, Senilità, esce sei anni dopo. Entrambe le opere non riscuotono successo e Svevo abbandona la letteratura per dedicarsi all’attività commerciale, della quale diviene esperto dirigente. Seguono anni di tranquilla vita borghese, di viaggi e lunghe permanenze all’estero, durante i quali vede la luce La coscienza di Zeno, romanzo pubblicato nel 1923, che è considerato il suo capolavoro e uno dei testi fondamentali del Novecento europeo. Esso viene accolto con favore da importanti critici e Svevo comincia ad essere conosciuto come scrittore, ma nel 1928 muore in un incidente automobilistico. Le altre sue opere, di narrativa (novelle) e di teatro, saranno pubblicate postume. Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Il fu Mattia Pascal, uno dei più celebri romanzi del Novecento italiano, si colloca nell’ambito del moderno romanzo di analisi, che affronta la crisi di identità dell’individuo caratteristica del periodo, in quanto propone il dramma esistenziale di un uomo che, appunto, non riesce a fissare la propria identità. Mattia crede di potersi liberare dalle finzioni e dai legami sociali diventando un altro, ma questa nuova condizione, che lo dovrebbe portare finalmente a vivere in modo “autentico”, si rivela ancora peggiore; la nuova vita poggia infatti su un’altra finzione, che lo costringe a una continua recitazione. Riaffiorano allora la pena di vivere, la sofferenza e la coscienza di essere solo una maschera, un’apparenza, un’ombra; dopo questo tormentato percorso, Mattia si rende finalmente conto di non poter possedere alcuna identità reale: quello che gli resta è solo un nome. Tutta la vita è una finzione, e l’uomo si sente una marionetta che partecipa ad una messa in scena, rappresentata dal vivere convenzionale, dalla maschera che gli altri gli impongono. La maschera che Mattia ha assunto durante il romanzo non gli ha comunque impedito di agire, di vivere coscientemente il proprio dramma, di analizzare la propria condizione, tanto da rendersi conto di essere costretto a ricoprire un ruolo che non gli corrisponde: questa consapevolezza ha dapprima un effetto comico, che suscita il riso, ma in un secondo momento si trasforma in pena e in angoscia verso se stessi. Dal riso nasce, quindi, un sentimento contrario: la dolorosa consapevolezza del male di vivere.
61 Del resto Pirandello sostiene che la sola forma d’arte possibile nel mondo moderno è l’umorismo, che permette di cogliere gli aspetti anormali del comportamento umano. L’artista, infatti, non deve suggerire sogni ed evasioni dalla realtà, ma sottolineare gli atteggiamenti che l’uomo assume nella vita quotidiana: da essi possono emergere elementi in apparenza ridicoli, ma in realtà drammatici. Così, ad esempio, la vista di una vecchia signora piena di rughe, tutta dipinta e imbellettata, può provocare il riso; ma quando interviene la riflessione, il riso si trasforma in pena, se si pensa alle ragioni che hanno determinato quel modo di agire e che si riassumono nell’illusione drammatica di poter ritrovare la giovinezza attraverso rossetti, ciprie, tinture per capelli. Quando crea un personaggio tratto dalla realtà quotidiana lo scrittore deve quindi riflettere su di esso, metterne a nudo l’anima, liberandolo da quella maschera in cui le opinioni proprie o altrui lo hanno imprigionato. In un certo senso, dunque, tutte le opere di Pirandello, le sue novelle, i suoi romanzi, i suoi drammi, sono testi umoristici. In essi il tragico si mescola al comico, la serietà al riso: ne emerge un mondo di sentimenti e di comportamenti nel quale non esiste alcuna armonia e la vita mostra così tutta la sua assurdità. L’autore. Luigi Pirandello nasce nel 1867 ad Agrigento (allora chiamata Girgenti) da una famiglia agiata, che gli consente di avere un’istruzione superiore. Dapprima inizia gli studi tecnici, poi sceglie quelli letterari, che prosegue a livello universitario, prima a Palermo, quindi a Roma e infine a Bonn, in Germania. Nel 1894 rientra in Italia e si stabilisce a Roma, insegnando per 25 anni Letteratura italiana alla facoltà di Magistero. Nel frattempo si è sposato e il matrimonio lo influenza profondamente anche come scrittore: la moglie, infatti, soffre di una malattia mentale e il contatto con questa problematica porta Pirandello a interessarsi della follia, che sarà un tema centrale della sua opera. Entrato in rapporto con alcuni protagonisti del Verismo, e in particolare con Luigi Capuana, negli anni che seguono scrive e pubblica i suoi romanzi (Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, Si gira), le Novelle per una anno, un saggio intitolato L’umorismo. Dal 1916 in poi scrive e rappresenta le sue numerose opere teatrali fra cui ricordiamo Pensaci Giacomino, Il berretto a sonagli, Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare), Questa sera si recita a soggetto, Enrico IV. Dal 1929 collabora con la nascente industria del cinema, cercando di adattare i propri testi alle esigenze del nuovo mezzo di comunicazione. Ormai la sua fama si è diffusa a livello mondiale e nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore a Roma nel 1936 e, secondo le sue ultime volontà, le ceneri sono conservate in un’urna greca posta sotto un grande pino nella pianura vicino ad Agrigento. L’opera narrativa di Federigo Tozzi. Come si è precedentemente accennato, la narrativa di Federigo Tozzi sembra avvicinarsi all’esperienza del Verismo tardo ottocentesco, per la ripresa di elementi che quella corrente aveva particolarmente sviluppato: l’ambientazione delle vicende nel mondo contadino e i motivi verghiani della “roba” e dell’egoismo sopraffattore. Ma Tozzi rielabora questa materia in modo del tutto diverso e originale. Egli pensa, infatti, che non sia possibile individuare uno scopo per l’agire degli uomini, né una spiegazione logica per gli avvenimenti: quello che lo scrittore può fare, dunque, è solo indagare nell’animo umano, rappresentandone i lati più oscuri e lasciando comprendere al lettore quanto questo animo resti, alla fine, misterioso. Per Tozzi, la realtà dei rapporti fra gli uomini è fatta sempre e solo di violenza: ci sono coloro che subiscono, senza interrogarsi e senza ribellarsi, praticamente autodistruggendosi. Questi sono, per lo scrittore senese, gli “inetti”: individui che non vogliono vedere la realtà, che vivono con gli occhi chiusi, come il protagonista del suo primo romanzo importante, che si intitola proprio così. È questo insieme di tematiche psicologiche a formare il nucleo della narrativa di Tozzi, che, in linea con il romanzo d’analisi del Novecento, sposta l’interesse dall’esterno all’interno. Egli quindi non
62 crea trame e intrecci complessi, ma racconta eventi e situazioni quotidiani, la cui drammaticità deriva unicamente dagli impulsi, dalle emozioni, dalle reazioni psicologiche dei personaggi. Uno dei temi centrali, come si può vedere anche dal racconto Il padre, è quello del rapporto tra padre e figlio, che ha profonde radici nella sua biografia. In base all’esperienza da lui vissuta, dopo la morte della madre, di un’infanzia e un’adolescenza lacerate dal continuo conflitto con il padre, Tozzi matura infatti la convinzione che questo rapporto si basi sempre e ovunque sulla schiacciante e umiliante supremazia paterna nei confronti del figlio, il quale risulta impotente e incapace di reagire e ribellarsi. In tal modo il “figlio”, nella narrativa di Tozzi, rappresenta un’altra figura di inetto, che si aggiunge a quelle create da Svevo e Pirandello: un individuo problematico e sostanzialmente inadeguato alla vita. L’autore. Federigo Tozzi nasce a Siena nel 1883, figlio di un contadino arricchito, proprietario e gestore di una trattoria. Dopo un’infanzia infelice – determinata dalla morte prematura della madre e dai difficili rapporti con il padre – e studi discontinui, si avvicina alla letteratura, collaborando ad alcune riviste. Nel 1914 si trasferisce a Roma, dove completa negli anni la stesura delle opere di narrativa che ne fanno uno dei maggiori scrittori del Novecento italiano: i romanzi Con gli occhi chiusi, Il podere, Tre croci e le novelle. E’ autore anche di testi teatrali, versi e memorie autobiografiche. Muore a Roma nel 1920.
Esperienze teatrali del primo Novecento. La presenza di grandi autori. Nel teatro italiano della prima metà del Novecento non sono presenti correnti vere e proprie, quanto piuttosto esperienze di autori di particolare prestigio, fra i quali si distinguono Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello. Di fronte alla produzione teatrale più diffusa, che tende al successo di pubblico e non alla qualità artistica, D’Annunzio è fautore di un “teatro di poesia”, che si ispiri all’antica tragedia classica. I suoi protagonisti sono personaggi d’eccezione, animati da passioni travolgenti (Francesca da Rimini), o creature mosse da istinti primitivi (La figlia di Iorio). Come nella sua lirica, largo spazio egli lascia anche nel teatro alla fantasia, alla suggestione della parola e del verso. L’autore che nel teatro del Novecento italiano lascia l’impronta decisiva è tuttavia Luigi Pirandello, che porta sulla scena le problematiche esistenziali e il “taglio” grottesco che abbiamo già evidenziato nella sua narrativa. Anche sul palcoscenico, i personaggi pirandelliani non hanno un’identità precisa, ma vivono scissi fra la maschera artificiale che gli altri impongono loro e un’interiore, tormentosa ricerca di autenticità. La contraddizione è tale che la coscienza del protagonista si frammenta ed egli rimette in discussione tutte le verità, tutte le certezze, fino a dubitare che la realtà concreta valga meno di quella immaginata. Un’ulteriore novità importante introdotta da Pirandello nel teatro italiano, collegata all’esperienza europea del “dramma borghese”, è la scelta che egli fa di collocare i suoi drammi individuali nell’ambiente della borghesia. Dopo di lui, questa sarà la “linea” seguita dalla maggior parte dei drammaturghi. Meno determinanti ma dotate di una certa rilevanza per il rinnovamento teatrale sono anche le opere del cosiddetto “teatro grottesco”. Secondo gli autori che fanno riferimento a questo genere, i pensieri, le azioni, i sentimenti umani non possono essere spiegati secondo ragione e sono, quindi, “grotteschi”. Ne sono esempio La maschera e il volto di Luigi Chiarelli, Nostra Dea e Minnie la candida di Massimo Bontempelli. Il maggior drammaturgo italiano del Novecento, dopo Pirandello, può comunque considerarsi Ugo Betti, che, Attraverso l’originale tecnica del “processo”, esplora tematiche morali collegate al
63 rapporto dell’individuo con la società (Corruzione al palazzo di giustizia). Sulla sua linea si disporranno in seguito vari altri autori, fra i quali ricordiamo Diego Fabbri, la cui problematica è particolarmente legata ad una visione religiosa del mondo, e Ignazio Silone.
La verità non esiste: Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello. Protagonisti del dramma sono il signor Ponza e sua suocera, la signora Frola. Essi hanno uno strano comportamento, che suscita la curiosità e fa mormorare tutto il paese (al quale appartengono gli altri personaggi che compaiono nel dramma): la moglie del signor Ponza, infatti, comunica con la madre solo per scritto, con dei biglietti che vengono calati in un panierino dalla finestra. La signora Frola e il signor Ponza, prima l’una e poi l’altro, si presentano dunque alla ribalta, davanti ai vicini riuniti, per dare una spiegazione di questo strano fatto. La signora Frola, sostiene che la figlia è costretta a servirsi di questo bizzarro sistema di comunicazione perché il marito la tiene chiusa in casa, impedendole di vedere la madre e parlarle normalmente. Esce di scena la signora Frola e entra il signor Ponza, che implora gli interlocutori di non crederle: la povera donna è impazzita dopo la morte della figlia nel terremoto; egli si è risposato ed è la seconda moglie, che la suocera crede la propria figliola ancora viva, a scrivere i biglietti per mantenerla in quella confortante illusione. Ma la signora Frola torna in un secondo momento, insistendo che il problema è lui ed è alla sua gelosia che lei stessa e la figlia debbono conformarsi nel comportamento, fingendo l’una di essere pazza, la seconda di essere un’altra donna, la nuova moglie, appunto. Ambedue le versioni sono possibili, sono verosimili: qual è dunque la verità? Non rimane che interrogare la signora Ponza, l’unica che può dirlo: ella si presenta in scena col volto velato e spiega che entrambi, tanto la madre quanto il marito, hanno raccontato la verità, in quanto lei è “nessuno”. “Io sono colei che mi si crede”, afferma la donna, e con ciò esprime un concetto centrale nella visione del mondo di Pirandello: la verità assoluta e oggettiva non esiste, ciascuno interpreta la realtà e gli altri secondo una propria verità, che per lui è quella “vera”. Il sipario cala su un’amara risata, carica di sconsolatezza e rassegnazione. Come tutte le opere di Pirandello, anche Così è (se vi pare) è un dramma “borghese”. La borghesia presenta infatti, per lo scrittore siciliano, tutti quegli elementi dai quali si origina la crisi dell’individuo. L’ipocrisia dei rapporti, la mediocrità dei valori, la grande importanza attribuita ai beni materiali in contrapposizione al disinteresse per le questioni morali fanno dell’ambiente borghese lo sfondo più adatto per l’analisi e la rappresentazione delle profonde contraddizioni dell’uomo e del suo “disagio” esistenziale. L’ANGOSCIOSA RICERCA DELLA VERITÀ. Così è (se vi pare) esprime chiaramente, fino dal titolo, quel duplice aspetto della realtà che è il motivo dominante della commedia. Questa duplicità emerge, da un lato, attraverso i piccoli provinciali curiosi, assetati di saper tutto, convinti che tutto debba essere capito per assicurare una vita tranquilla; dall’altro, attraverso i due protagonisti, immersi in un dolore misterioso, che li rende incerti nel parlare, finché non dichiarano ciascuno la follia dell’altro. Ma è proprio la natura di questa follia la sostanza del dramma: entrambi sono convinti di possedere l’unica verità circa l’identità della persona da loro amata. E insieme ciascuno ha pena dell’altro nel quale vede riflessa e duplicata la propria angoscia. Di solito in palcoscenico il contrasto fra due antagonisti si chiude con la vittoria dell’uno sull’altro; con il ritrovamento della chiave dell’enigma. Ma Pirandello “non conclude”: idolo o fantasma, chiusa nel suo velo, la signora Ponza, cioè la verità, non ha volto. Questo perché nessuna verità valida per sempre e per tutti è concepibile per chi, come l’autore, pensa che la realtà sia perennemente mutevole e che l’individuo non possa nemmeno affermare di conoscere se Stesso. Ognuno crede di essere in un certo modo e può apparire agli altri in vari modi
64 diversi. Di qui la solitudine dell’uomo, la sua impossibilità di comunicare e di essere compreso. Di qui la follia di chi si afferra ad una verità ritenendola l’unica valida per tutti. Tra “magia” e ironia: Nostra Dea di Massimo Bontempelli. L’opera teatrale di Massimo Bontempelli, esponente del teatro cosiddetto “grottesco”, presenta una forte carica innovativa: sulla scena compaiono personaggi che, in un’atmosfera quasi magica, evidenziano con ironia quanto di irreale, di irrazionale esista nella vita quotidiana. Quanto all’ambientazione, Bontempelli segue la linea tracciata da Pirandello e colloca le sue vicende all’interno del tipico “salotto borghese”. Nel brano L’abito fa il monaco?, tratto dalla commedia forse più conosciuta di questo autore, Nostra Dea, emerge dal dialogo fra l’uomo d’affari Vulcano ed Anna, la cameriera della signora Dea, una nota inquietante: Dea non ha alcuna personalità, e via via assume le caratteristiche che l’abito che indossa le suggerisce. Così è aggressiva se vestita di rosso, timida e remissiva se vestita in color tortora. UN TEMA PIRANDELLIANO. Nostra Dea di Massimo Bontempelli rappresenta una variante del tema pirandelliano della mancanza di identità e, insieme, delle innumerevoli identità che sono possibili. Pirandello stesso apprezzò l’opera, che aveva seguito durante l’elaborazione con consigli e incoraggiamenti. Certo si tratta di un testo assai diverso, sul piano stilistico, da quelli pirandelliani. In esso sono infatti molto evidenti gli elementi del paradosso o addirittura dell’assurdo: quel senso di irrazionalità che caratterizza per Bontempelli la realtà quotidiana dell’uomo. Per questo egli era molto attento anche alla messa in scena e alla regia: nelle Avvertenze per la rappresentazione da lui scritte, si legge infatti che la sua commedia “non va ridotta né a dramma filosofico né a balletto…In questo genere d’espressione artistica è necessario saper dire le cose più sorprendenti e inattuali con piglio semplice e ingenuo. Sarebbe grave errore darle, con scenari morbosi o con una direzione allucinata, colori di mistero o di inverosimile fiaba”. L’autore. Massimo Bontempelli nasce a Como nel 1878. Dopo aver insegnato italiano in varie città del Nord, si stabilisce a Firenze e poi a Roma, dedicandosi al giornalismo e alla letteratura. Tra il 1915 e il 1919 aderisce al Futurismo, per la sua carica di rottura con la tradizione, ma in seguito abbandona il movimento e si indirizza verso una produzione letteraria in cui è forte la presenza dell’elemento irrazionale che pervade la realtà: “realismo magico”, la definisce egli stesso. Tra le sue maggiori opere di narrativa si ricordano La scacchiera davanti allo specchio, Gente nel tempo, La donna dei miei sogni e altre avventure moderne, L’amante fedele. Legatosi d’amicizia a Pirandello, si interessa di teatro, trasferendo la propria visione del mondo in commedie quali Nostra Dea, Eva ultima e Minnie, la candida. E’ inoltre autore di importanti saggi critici. Muore a Roma nel 1960. Corruzione al Palazzo di giustizia: il teatro di Ugo Betti. Dopo l’opera di Pirandello e l’esperienza di Bontempelli, una forma teatrale nuova è quella rappresentata dal cosiddetto “teatro dei processi morali” di Ugo Betti. Esso prende nome dalla particolare forma drammaturgia utilizzata dall’autore, che è appunto quella del “processo”. Non si tratta però del processo che conosciamo, celebrato nelle aule dei tribunali, bensì di un processo ufficioso, condotto da uno dei personaggi, il quale, dopo aver sollevato sospetti e accuse, scompare, lasciando gli altri personaggi a un’aggressiva battaglia reciproca, mentre nel pubblico si apre una tensione moralizzatrice. Il problema che a Betti interessa rappresentare è infatti quello della sofferenza umana che deriva dall’incapacità di realizzare concretamente le leggi della giustizia e dell’amore. Se Pirandello e Bontempelli avevano sviluppato il tema dell’impossibilità di giungere
65 ad una conoscenza oggettiva della realtà, Betti introduce l’impossibilità di dare, su questa realtà, giudizi di valore assoluti. La visione che Betti ha dell’uomo è sconsolata, ma anche venata di pietà; come ad esempio nella conclusione di Corruzione al Palazzo di giustizia, il suo dramma più famoso, in cui diviene emblematico luogo di corruzione proprio quello in cui la giustizia dovrebbe trovare concreta attuazione. Questa la trama dell’opera. Nel Palazzo di giustizia di una città imprecisata è stato ucciso un uomo potente, coinvolto in trame oscure, il quale stava per essere processato: evidentemente qualcuno ha avuto paura di ciò che egli avrebbe potuto rivelare e lo ha fatto eliminare. Si apre un’inchiesta, che coinvolge tutti i funzionari, e i sospetti cadono sul magistrato più anziano, il Presidente Vanan. In questo clima di tensione, in cui tutti accusano tutti, la figlia di Vanan, Elena, chiede un incontro al giudice Cust, sicura di trovare in lui un sostegno al proprio turbamento. Profondamente convinta dell’assoluta innocenza del padre, Elena è infatti disorientata dal comportamento di lui, che le appare diverso, chiuso in se stesso e sfuggente alla consueta confidenza. Ma proprio questo colloquio con Cust, che è il vero colpevole, sarà fatale alla giovane donna, in quanto il giudice approfitta della circostanza per scuotere la fiducia di lei, non solo nel padre, ma negli stessi valori morali in cui ella crede. E poco dopo Elena si uccide.
L’autore. Nato a Camerino (Macerata) nel 1892, Ugo Betti combatte nella Prima guerra mondiale e poi entra nella Magistratura. Esordisce come poeta (Il re pensieroso, Uomo e donna) e pubblica opere di narrativa (Caino, Una strana serata, La pietra alta), prima di dedicarsi al teatro, dove raccoglie i maggiori successi e consegue i più alti risultati. Come drammaturgo è autore di molti testi, fra cui si ricordano in particolare La padrona, Il giocatore, La fuggitiva e Corruzione al Palazzo di giustizia, che di essi è certamente il più noto. Muore a Roma nel 1953.
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IL SECONDO NOVECENTO
L’epoca dei conflitti “totali” si conclude con il 1945. Le generazioni di questo periodo sono segnate indelebilmente da tale esperienza. Nei cinquanta anni che seguono, si assiste a grandissime trasformazioni sociali, economiche e politiche e, insieme, all’affermarsi di contraddizioni che oggi, nel terzo millennio, paiono ormai insanabili: ne sono esempio significativo, la costruzione di una società “planetaria”, da una parte, e il radicale imporsi dell’individualismo nella maggior parte delle società civili, dall’altra. Contraddittorietà e molteplicità di aspetti segnano anche la cultura della seconda metà del secolo, che offre fenomeni difficili da classificare e da interpretare, poiché rispecchiano la complessità stessa dei tempi. Se per i primi decenni del secondo dopoguerra si possono tracciare delle linee di tendenza nel panorama letterario italiano ed internazionale, questa possibilità viene poi a mancare: oggi infatti le testimonianze letterarie si frantumano in un’incredibile varietà di esperienze, accomunate solo dal tentativo di trovare forme e temi nuovi in un’era che sembra aver sperimentato ormai tutto lo “sperimentabile”, anche dal punto di vista letterario. Il quadro storico-politico. Gli anni della “guerra fredda”. I successi militari ottenuti con la fine della Seconda guerra mondiale consentirono all’Unione Sovietica di stabilire l’egemonia sui Paesi dell’Europa dell’Est, dove si costituirono regimi autoritari controllati dai partiti comunisti locali. Il timore di un’ulteriore espansione dell’influenza sovietica indusse gli Stati Uniti a promuovere una politica di decisa contrapposizione all’URSS, considerata il principale pericolo per la sicurezza dell’Occidente. Nel 1949 venne firmato il “Patto Atlantico”, l’alleanza politico-militare tra i Paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti, in contrapposizione all’alleanza dell’Est, il “Patto di Varsavia”. Ebbe così inizio la “guerra fredda”, un periodo di netta contrapposizione fra i due “blocchi”, che sembrò preludere a un catastrofico conflitto. Tuttavia, pur nella reciproca diffidenza e attraverso gravi crisi, Unione Sovietica e Stati Uniti accettarono il principio della “coesistenza pacifica”, garantita dall’equilibrio degli armamenti. Ma, mentre l’Occidente si avviava a una crescente prosperità, i Paesi comunisti maturavano pesanti contraddizioni, legate a un’economia inefficiente e al soffocamento della libertà. L’Italia dal dopoguerra alla fine del secolo. Le piaghe dell’Italia postbellica erano numerose e profonde: distruzioni e miseria, disoccupazione e tensioni sociali. S’imponeva, oltre tutto, l’esigenza di definire la nuova fisionomia dello Stato democratico. Il 2 giugno del 1946, con le elezioni politiche generali per l’Assemblea Costituente, si tenne anche il referendum istituzionale, in seguito al quale nacque la Repubblica italiana. Governi di centro e poi, dagli anni Sessanta, di centro-sinistra guidarono il Paese nel difficile compito della ricostruzione, dando avvio ad un rapido sviluppo industriale. Sul finire degli anni Sessanta e per i due decenni successivi la storia italiana fu caratterizzata dall’inasprirsi delle lotte sindacali, dalle contestazioni giovanili, dalla cosiddetta “strategia della tensione” e dal terrorismo: fatti sanguinosi e vere e proprie stragi sconvolsero il nostro Paese, colpendo semplici cittadini, personaggi pubblici – ad esempio giornalisti e dirigenti industriali – e rappresentanti dello Stato, come magistrati, forze dell’ordine, politici. Negli anni Novanta scandali e corruzioni misero in crisi la “Prima Repubblica”, che imboccava, così, il viale del tramonto.
67 I mutamenti internazionali di fine millennio. Tra il 1989 e i primi anni Novanta il sistema dei blocchi contrapposti (Patto Atlantico e Patto di Varsavia) ha praticamente cessato di esistere. Già scossa alla fine degli anni Ottanta dalla perestrojka, la ristrutturazione dell’economia e della società promossa dal leader Michail Gorbaciov, l’Unione Sovietica si è dissolta come entità politica sopranazionale e come superpotenza “comunista”. Sono così riemerse all’interno dell’immenso Paese le singole componenti etniche, che hanno dato vita, in molti casi, a repubbliche indipendenti, in seguito entrate spesso in conflitto tra loro. La crisi del comunismo internazionale ha investito anche i paesi dell’Est europeo. Nel novembre del 1989 è stato abbattuto lo storico Muro di Berlino, eretto nel lontano 1961 a sancire la divisione tra le due Germanie (quella dell’Est filosovietica e quella dell’Ovest filoccidentale) e il Paese si è riunificato in una sola nazione. Nella dissoluzione del blocco orientale si sono riaperte antiche divisioni etniche e si sono risvegliati vecchi nazionalismi sopiti, i cui effetti sono stati particolarmente tragici e sanguinosi nei Paesi della ex Iugoslavia. Ma è agli inizi del terzo millennio, nel corso del 2001, che scoppia una gravissima crisi mondiale. Si contrappongono ora due mondi diversi: quello occidentale, rappresentato dal capitalismo americano, e quello del fondamentalismo islamico, fomentato dai conservatori estremisti della religione musulmana. Una contrapposizione che ha provocato la morte di circa seimila persone nell’attacco alle torri gemelle del World Trade Center di New York da parte di due aerei guidati da terroristi votati al suicidio. La risposta militare degli Stati Uniti con i bombardamenti in Afghanistan, centro del fondamentalismo islamico, è stata immediata. Il mondo è attualmente angosciato di fronte a questi rigurgiti di violenza, anche per il panico scatenato dalla possibile diffusione di armi batteriologiche, in grado di diffondere terribili epidemie fra le persone. Il quadro culturale. La cultura verso il terzo millennio. Sulle “ceneri” delle distruzioni e degli orribili crimini perpetrati durante il secondo conflitto mondiale (1939-1945) si aprì una muova epoca, quella che ci ha condotti, oggi, al nuovo millennio. Il dramma bellico scosse, in tutta Europa, le coscienze degli intellettuali, mise in movimento le loro energie, spingendoli a porre la propria esperienza culturale al servizio della comune utilità. Il mondo della cultura si sentiva infatti coinvolto nel clima di rinnovamento sociale, politico e morale del dopoguerra e scelse l’”impegno”, rifiutando il modello dell’artista chiuso nella sua “torre d’avorio”, distaccato dalla comunità civile. Molti autori fecero delle loro opere un mezzo per testimoniare il recente passato: gli orrori della guerra, l’Olocausto (lo sterminio degli Ebrei da parte dei nazisti), la violenza dei regimi totalitari. Ma già dalla fine degli anni Cinquanta iniziarono a profilarsi le grandi contraddizioni che segnano l’epoca in cui viviamo: la crescita economica smisurata di una parte del mondo, a cui si contrappone la miseria di un’altra parte, ancora più grande; l’affermarsi di una “civiltà del benessere” e di una pace apparente, dietro la quale si nascondono tensioni pronte ad esplodere violentemente. Agli inizi degli anni Sessanta, si assisté dunque all’avvento di nuove forme e nuovi progetti letterari in opposizione alla letteratura dell’impegno; nacque lo sperimentalismo che, proponendosi di illuminare gli aspetti contraddittori della società contemporanea, cercava di confrontarsi con la nuova realtà industriale e con la “modernità”; gli artisti tentarono di usare nuovi linguaggi per esprimere il senso di vuoto e di alienazione innescato nell’uomo moderno: è il caso ad esempio del teatro, in cui usarono tecniche e forme rivoluzionarie per esprimere proprio l’assurdità e la vacuità dell’esistenza umana. Negli ultimi decenni del secolo scorso gli uomini, e gli intellettuali con loro, hanno assistito a fenomeni destabilizzanti: dapprima la disgregazione del mondo politico tradizionale e il tramonto delle vecchie ideologie (il crollo dei regimi comunisti); poi il progressivo allargarsi del divario
68 economico fra Nord e Sud del mondo, l’esplodere dei conflitti etnici e degli integralismi religiosi; infine l’affermarsi preponderante dei mezzi di comunicazione di massa, che hanno stravolto i rapporti sociali, e l’irrompere della crisi ecologica come fenomeno globale. Di fronte a questa situazione, l’intellettuale sembra oggi aver perso qualsiasi punto di riferimento ed è alla ricerca di “nuovi itinerari” che possano guidare la società verso un futuro più vivibile. L’attività letteraria in Italia. Nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale prende corpo la figura dell’intellettuale “impegnato” nella società e nella politica, inserito in un partito e, sul piano creativo, teso a rappresentare la realtà, specialmente quella umile e popolare. In questo ambito si sviluppa, in Italia, la corrente del Neorealismo che, pur avendo un carattere eterogeneo, ha come comune denominatore l’intento di denuncia sociale e il dichiarato impegno politico: i maggiori rappresentanti sono Vasco Pratolini, Alberto Moravia, e, a suo modo, anche Pier Paolo Pisolini. Arricchisce, invece, di motivi psicologici il realismo e l’impegno politico Cesare Pavese, narratore e poeta; mentre la continuità con il grande romanzo realista di tradizione ottocentesca è testimoniata da una figura quale quella di Ignazio Silone, già in tal senso impegnato da decenni. La poesia del secondo Novecento è particolarmente rappresentata da tre figure, Eugenio Montale, Umberto Saba e Salvatore Quasimodo, che dalla terribile lezione degli avvenimenti storici traggono ispirazione da una parte per cantare il dolore umano, la sofferenza universale, ma anche la solidarietà fra gli uomini, dall’altra per interrogarsi sulla funzione stessa della poesia. Verso la metà degli anni Cinquanta, anche per effetto del mutato quadro della società italiana, la corrente neorealista entra decisamente in crisi. Ricompare la figura del letterato incline a rappresentare situazioni esistenziali, aperto a recuperare i modelli degli scrittori del romanzo di analisi del primo Novecento. Contemporaneamente si apre, in poesia, una ricerca che si basa spesso sul rifiuto della lingua come comunicazione, sostituita da ogni mezzo espressivo capace di cogliere il contraddittorio caos del reale. Le soluzioni più radicali giungono al rifiuto totale del significato, all’adozione di parole accostate solo per il loro suono. Esperienze originali e di alto valore poetico sono quelle di Sandro Penna, Mario Luzi e Giorgio Caproni, che però alla parola conservano tutto il suo potere di creatrice di immagini. In questi anni la narrativa italiana vede emergere con grande rilievo la personalità di Italo Calvino, che, attraverso i più diversi generi e storie spesso fantastiche, sa parlare della più vera realtà umana. Dagli anni Settanta, infine, il clima letterario cambia nuovamente. Nella lirica, se continuano a scrivere autori come Montale, Luzi, Caproni, che in stile diverso riaffermano il potere della parola come esplorazione della realtà esistente, altri autori, come Giovanni Giudici, presentano una grande varietà di temi e di mezzi espressivi che rispecchiano la complessità del nuovo linguaggio globale. Così, anche i narratori non fanno ormai più capo a scuole o correnti, ma analizzano le grandi problematiche dell’uomo e i sentimenti attraverso scelte tematiche ed espressive molto personali, come testimoniano figure quali Elsa Morante, Antonio Tabucchi e Umberto Eco.
69 La nuova poesia. Il clima poetico del dopoguerra. La Seconda guerra mondiale, con le sue lacerazioni in tutta Europa, occupa il panorama politico, sociale e culturale dei primi decenni della seconda metà del Novecento. E’ naturale, quindi, che anche il mondo degli intellettuali ne sia profondamente toccato e tragga ispirazione dalle drammatiche situazioni nelle quali è stato coinvolto. Per molti poeti l’impatto con la realtà della guerra, con i suoi messaggi e i suoi orrori porta alla consapevolezza delle contraddizioni del vivere umano, alla coscienza dell’impossibilità di qualsiasi intervento, ad un senso di grande fragilità, di profonda pena, riassunti nell’espressione “il male di vivere”, coniata da Eugenio Montale. Se alcuni fanno diretto riferimento all’esperienza del conflitto e dell’occupazione straniera, portando nei loro versi quella tendenza all’impegno politico-sociale che caratterizza il periodo, altri ne interpretano il dolore e le lacerazioni come il sintomo di un male più profondo, che investe tutta la condizione umana, e altri ancora cercano una spiegazione all’infelicità attraverso la memoria oppure trovano una sorta di consolazione nella semplicità e bellezza della natura o negli affetti personali. Sul piano stilistico, pur nella grande diversità delle esperienze e dei singoli autori, la maggior parte della poesia di questi anni presenta versi scarni, che recuperano la “poetica del frammento” inaugurata da Ungaretti nel primo dopoguerra. La frase, quindi, viene ridotta all’essenziale, talvolta a una sola parola che si carica di significati per esprimere la pena di vivere. La poesia non deve più descrivere, deve evocare, cioè suscitare nel lettore una particolare impressione, uno stimolo all’immaginazione, una singolare intuizione. Tra i numerosissimi autori che animano la variegata scena poetica del secondo Novecento, abbiamo scelto alcuni nomi, che ci sembrano essere protagonisti delle differenti tendenze di questo clima poetico: essi sono Eugenio Montale, Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Sandro Penna, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici. Eugenio Montale: la poetica del “negativo”. Eugenio Montale è il maggiore rappresentante di quella tendenza della poesia italiana che esprime il sentimento del vuoto e del male implicito nella vita umana, la crisi morale di un’intera epoca, l’impossibilità di entrare davvero in rapporto con la realtà e gli altri uomini. Nata in Italia nel periodo tra le due guerre mondiali, negli anni della dittatura, questa poetica del “negativo” raggiunge i più alti risultati nel secondo dopoguerra. Per Montale, il male e il dolore sono connaturati alla vita stessa. Questa profonda sofferenza, che investe l’esistenza umana, trova corrispondenza nella natura; il male di vivere è un’esperienza universale che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere, riconosce e coglie in ogni elemento, in ogni manifestazione naturale. Al Male si contrappone il Bene, che però non costituisce un valore positivo, ma è rappresentato solo dalla conquista della divina Indifferenza, cioè del più completo distacco. Il Male e il Bene sono messi in contrapposizione da Montale con precisa simmetria attraverso una struttura molto semplice, costituita da due brevi quartine. Si tratta però di una contrapposizione solo apparente, poiché l’identificazione del Bene con l’indifferenza, il distacco non fa che confermare la sua visione pessimistica dell’esistenza. Manifestando il profondo senso del “negativo” implicito nella realtà, Montale esprime dunque la profonda coscienza della tragica condizione di ciascun individuo, condannato a vivere solo, con la sua angoscia. L’INSUPERABILE MURO DELLA SOLITUDINE. Nella lirica Meriggiare pallido e assorto, il poeta descrive un caldo, afoso pomeriggio d’estate. Immobile presso il muro dell’orto, ascolta il verso dei merli e il fruscio delle serpi, contempla le file delle formiche e guarda il mare lontano. Tutto il paesaggio appare desolato, arso, muto. Ed egli si rende conto che quello che sta contemplando è la vita stessa: forse non è altro, il vivere, che camminare lungo una muraglia che non si potrà mai superare. Sente, infatti, che ogni uomo è solo,
70 ogni vita è come chiusa in un ambiente ristretto, da cui non si può uscire, simile a quell’orto nel quale si trova. L’uomo non può comunicare con i suoi simili, né rivelare i propri sentimenti: lo divide dagli altri quel muro insuperabile (i cocci aguzzi di bottiglia esprimono proprio l’impossibilità di andare oltre, di saltare al di là). Non resta così che contemplare un mondo, simboleggiato dall’orto, che non si comprende più e camminare illuminati da un sole nemico, che non conforta, procedendo senza nessuna ragione, né meta alcuna da raggiungere. FELICITÀ RAGGIUNTA: SOLO UN BARLUME DI FELICITÀ. L’uomo può talvolta raggiungere una condizione di felicità, ma solo per un attimo: questo è il significato della poesia. La felicità è infatti precaria come una debole fiammella (barlume), che rischia di spengersi ogni momento, e fragilissima, come una sottile lastra di ghiaccio. La felicità è dunque un sentimento positivo e negativo allo stesso tempo: se da una parte rischiara gli animi tristi e cupi, come l’alba dopo il buio della notte, dall’altra, quando scompare, lascia un’amarezza ancora più profonda e un senso di sconforto inconsolabile; quello stesso sconforto che assale il bambino che vede sfuggire il palloncino con cui giocava felice. Questa lirica rappresenta una nuova testimonianza della poetica del “negativo”. La felicità, anche quando viene raggiunta dall’uomo, non è per lui una consolazione: la coscienza della sua precarietà, la paura di perderla gli fa sentire ancor più l’angoscia della condizione umana, tra la speranza di una gioia che già in anticipo si sa breve e la disperazione della sua inevitabile perdita. L’autore. Nato a Genova nel 1896, Eugenio Montale passa l’infanzia e la prima giovinezza in Liguria, a contatto con quel mare e quel paesaggio che saranno fonte di ispirazione per le sue prime prove poetiche. Partecipa come ufficiale alla Prima guerra mondiale. Nel 1927 si trasferisce a Firenze, dove lavora per una casa editrice e diviene direttore di una importante istituzione culturale ma, nel 1938, perde questo incarico per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista. E’ quindi costretto a guadagnarsi da vivere attraverso traduzioni e collaborazioni giornalistiche, mentre continua a comporre versi. Nel 1948 lascia Firenze per Milano, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1981, divenendo uno dei protagonisti della cultura italiana; nel 1975 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. Montale, famoso a livello mondiale come poeta ma anche come autore di prose poetiche, di traduzioni, di saggi e interventi culturali, ha pubblicato molte raccolte. Le più importanti fra quelle poetiche sono Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, Satura. Fra le sue opere di altro genere si ricordano in particolare Farfalla di Dinard, Auto da fé e Fuori di casa.
Umberto Saba: un comune destino di dolore. Attraverso le poesie del Canzoniere, Saba “racconta” la storia di una vita, come una sorta di “romanzo psicologico”, in cui l’autore è più attento ad esprimere l’autenticità dei sentimenti che la bellezza, preferendo – come dice egli stesso – “versi brutti ma veri a versi belli ma falsi”. Per il suo scopo, si serve di una lingua parlata e usuale, nella quale le parole sono usate per il loro normale significato: Saba infatti non aderisce né al Simbolismo, né all’Ermetismo, elaborando una scelta espressiva originale. Uno dei temi centrali della sua poesia è l’amore per la vita quotidiana degli esseri viventi, dei quali condivide le gioie e il dolore, come testimonia la lirica La capra, che appartiene alla sezione del Canzoniere dedicata alla “campagna”. In essa il poeta triestino esprime la propria profonda partecipazione alla vita della natura. Tutti gli esseri viventi, infatti, sono accomunati e resi fratelli da un comune destino di dolore, siano essi uomini o animali.
71 Il Canzoniere di Saba. Saba comincia a progettare il Canzoniere già nel lontano 1913 (molte importanti poesie risalgono infatti a quell’epoca), ma l’edizione definitiva di esso, quella che oggi leggiamo, avviene – dopo molti e molti ripensamenti, interventi e risistemazioni – addirittura nel 1961, cioè quattro anni dopo la morte del suo autore, realizzata secondo le precise indicazioni da lui lasciate. Il Canzoniere, che nel titolo riprende quello della somma opera del Petrarca, raccoglie l’insieme delle liriche del poeta triestino, organizzate in sezioni e tutte rigorosamente “autobiografiche”. L’intreccio fra vita e poesia costituisce infatti uno dei motivi di fondo della poesia di Saba, che lo porta alla scelta di uno stile “realista”, “semplice” e “comprensibile”. In un certo qual modo, il Canzoniere, per la continuità e l’omogeneità dei contenuti, rappresenta il “romanzo” in versi della vita del suo autore: vita vissuta realmente e vita interiore. Per questo, ma anche e soprattutto per la modernità e originalità della sua poesia, possiamo considerare Saba come un autore appartenente a pieno titolo alla seconda metà del Novecento. Le sezioni più importanti del Canzoniere sono Casa e campagna, Trieste e una donna, Cose leggere e vaganti, Autobiografia, Cuor morituro, Mediterranee, Quasi un racconto. L’autore. Nato a Trieste nel 1883, Umberto Saba cresce senza il padre, che ha abbandonato la moglie ancor prima che egli nascesse e del quale più tardi rifiuterà il cognome (Poli) per assumere quello di Saba (che in ebraico significa “pane”), in omaggio alla madre, che era ebrea. Egli vive l’infanzia in una estrema povertà, tanto da dover abbandonare prestissimo gli studi, prima per imbarcarsi come mozzo, poi per impiegarsi in una ditta della sua città. Nel frattempo ha cominciato a scrivere versi, ma la sua prima raccolta, il Canzoniere, viene pubblicata solo nel 1921. Nel 1938, con l’inizio delle persecuzioni razziali, Saba, ebreo per parte materna, è costretto a lasciare Trieste dove potrà tornare solo nel dopoguerra. Nel 1948 esce la seconda edizione del Canzoniere, che incontra notevole successo. Saba è finalmente un poeta riconosciuto e affianca ai propri versi un volume nel quale parla della propria poesia e ne spiega i motivi: Storia e cronistoria del Canzoniere. Seguono via via altre edizioni rinnovate della raccolta (nelle quali confluisce la sua intera produzione lirica), i Ricordi-Racconti, e il romanzo incompiuto Ernesto. Il poeta muore a Gorizia nel 1957.
La poesia di Quasimodo e l’ermetismo. La lirica Ed è subito sera è espressione dell’Ermetismo, una corrente poetica sviluppatasi tra le due guerre mondiali ma presente anche nel secondo dopoguerra. Essa è così chiamata per il valore spesso oscuro dato alla parola: Quasimodo ne è uno dei maggiori esponenti. Il poeta siciliano si serve infatti di parole apparentemente semplici, ma capaci di creare una musicalità armonica attraverso cui suggerire stati d’animo ed evocare immagini fugaci. Nella lirica sopracitata, ad esempio, le parole sono ridotte all’essenziale, ma cariche di significato: così, in soli tre versi, il poeta riesce a comunicare il senso profondo della solitudine dell’uomo, la precarietà e la brevità della vita. Nel primo verso rivive tutta la solitudine dell’uomo, nel secondo la gioia effimera dell’esistenza, nel terzo il sopraggiungere immediato e impietoso della morte. Nel deserto che è il mondo, il significato della vita resta nascosto e sconosciuto. IL SILENZIO DELLA POESIA. L’esperienza della Seconda guerra mondiale incide profondamente sulla poesia di Quasimodo, che quando si avvicina ai temi della storia e dell’impegno politico e civile, si fa meno “ermetica”. Attraverso la sua arte egli si propone così di comunicare parole di verità a tutti gli uomini, di contribuire a tutelare la pace.
72 Nella lirica Alle fronde dei salici, il poeta rievoca gli anni del conflitto e dell’occupazione nazista; nell’orrore di un mondo che ha rinunciato alla sua umanità, in un clima di schiavitù e di dolore, egli ha appeso la sua cetra, cioè la sua arte, scegliendo il silenzio in rispetto alla tragedia collettiva. La poesia si ispira a un Salmo biblico dedicato alla prigionia babilonese degli Ebrei (Ai salici lungo le rive avevamo appeso le nostre cetre… Come cantare i canti del Signore in terra straniera?) ed è articolata in soli due periodi: il primo, più lungo, è costituito da un ansioso interrogativo, mentre la risposta è concentrata negli ultimi versi. L’autore. Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Siracusa) nel 1901, in una famiglia modesta. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza nell’isola, a cui rimarrà sempre profondamente legato, e appena diciottenne si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Le condizioni economiche, però, lo costringono a interrompere gli studi e a impiegarsi. Tuttavia legge, studia, impara da sé il greco e il latino (bellissime sono le sue traduzioni di brani dell’Iliade e dell’Odissea di Omero) e comincia a scrivere versi. Fra il 1930 e il 1936 escono le sue prime raccolte: Acque e terre, Oboe sommerso, Erato e Apollion. Nel frattempo si è trasferito a Milano, dove pubblica le sue traduzioni dei Lirici greci e la nuova raccolta Ed è subito sera. Sono gli anni terribili della guerra e dell’occupazione nazista, ed anche la poesia di Quasimodo ne resta profondamente influenzata. Escono nel dopoguerra altre opere importanti: Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La terra impareggiabile. Nel 1959 egli viene insignito del premio Nobel per la letteratura. Muore a Napoli nel 1968.
Sandro Penna: una poesia di grande “semplicità”. Sandro Penna è una voce di grande originalità nel panorama italiano del Novecento. Le caratteristiche maggiori della sua opera sono il distacco, l’estraneità sia riguardo al contesto storico che alla propria vicenda personale (non parla, cioè, di grandi avvenimenti, né di se stesso), e uno stile spontaneo e naturale con il quale tratta temi quali l’amore, il senso della vita, il bene e il male, la natura e il paesaggio. Nella poesia Sul molo il vento soffia forte, ad esempio, egli riesce con parole semplici, a ricreare l’atmosfera di una giornata sul mare, luminosa e ventosa. Al centro, l’immagine di un berretto fatto volare dal vento in acqua e della testa nuda di un ragazzo, i cui capelli il vento arruffa e solleva rendendoli simili a fiamme. L’autore. Nato a Perugina nel 1906 in una famiglia borghese, Sandro Penna termina gli studi superiori, condotti in maniera irregolare, con il diploma di ragioniere. Nel 1929 si trasferisce a Roma, dove vivrà sino alla morte, avvenuta nel 1977, senza un’occupazione stabile ma facendo mille mestieri e collaborando a varie riviste. Conduce quindi un’esistenza modesta, riservata e solitaria, interamente dedicata alla poesia. Le sue liriche sono raccolte in Poesie, Tutte le poesie, Stranezze e Il viaggiatore insonne.
Giorgio Caproni. Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912 ma presto si trasferisce con la famiglia a Genova. Completati gli studi liceali, si impiega come maestro elementare, quindi combatte nella Seconda guerra mondiale e partecipa alla Resistenza. In seguito si sposta a Roma, dove unisce l’attività di insegnante a quella di traduttore e critico. I suoi versi sono raccolti principalmente in Come
73 un’allegoria, Il passaggio di Enea, Il seme del piangere, Congedo del viaggiatore cerimonioso, Il franco cacciatore. Muore a Roma nel 1990.
Mario Luzi: il tempo e l’eternità. Nelle sue liriche Mario Luzi esprime un tema molto caro ai poeti del secondo Novecento: la contrapposizione fra tempo ed eternità, tra il fluire tumultuoso della vita e l’immobilità della morte. In tutte le sue composizioni egli evidenzia l’inquietudine e l’affanno creati all’uomo dalla ricerca di un punto di riferimento in un universo che sembra in continua trasformazione e in continuo “disfacimento”, ma che resta invece sempre uguale a se stesso. L’inizio della lirica Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, ad esempio, potrebbe sembrare di tono realistico, con il richiamo alla violenza delle burrasche caratteristiche del paese appenninico, pieno di fiori e minacciato dalle frane, dove egli si trova. Si tratta, invece, solo del riferimento ad una manifestazione vitale di movimento, di fragore che ha la funzione, per contrasto, di mostrare come nella natura niente cambia né si riscuote. Il fremere della natura colpisce dunque, per un momento, l’animo del poeta, che, non più giovane, si sente estraneo al turbinio dell’esistenza. Ritorna presente il volto della donna forse amata in un tempo lontano, ma quella presenza non vale a suscitare reazioni forti, sentimenti precisi (n’esci illesa). In questa età e situazione, l’uomo non si sente spinto a nessuna scelta, a nessuna azione e, anzi, anche le emozioni del passato appaiono vane. Come le vicende della natura sono sempre diverse, pur ripetendosi nel corso delle stagioni, anche la vita appare priva di eventi che incidano profondamente nell’uomo e lo facciano sentire libero protagonista del suo destino. L’autore. Mario Luzi nasce a Firenze nel 1914 e in questa città trascorre l’intera vita, partecipando con importanti contributi alla cultura del Novecento. La sua raccolta Avvento notturno, ad esempio, rappresenta uno dei testi fondamentali dell’Ermetismo. Per molti anni ha insegnato Letteratura francese all’Università, pubblicando saggi critici su quell’argomento e studi su Dante. Dopo la conclusione dell’esperienza ermetica, la sua poesia si apre a temi religiosi e ad una sofferta riflessione sul mistero della vita, il tempo, l’eternità. Oltre alle opere citate, è autore di molte raccolte poetiche, tra le quali La barca, Primizie del deserto, Per il battesimo dei nostri frammenti e di alcune opere per il teatro.
Giovanni Giudici: un esempio di realismo poetico. Con i suoi versi Giovanni Giudici racconta situazioni quotidiane, piccole storie, scambi di battute, scorci di conversazione: il protagonista è lui stesso in prima persona, che diventa poi la voce di un uomo qualunque, con le sue frustrazioni, le sofferenze, le battaglie per la sopravvivenza. E’ per questo che la sua produzione è considerata un riuscito esempio di realismo poetico. La maggior parte delle liriche sono inoltre autobiografiche, cioè ispirate alle vicende della sua vita, in particolare al periodo dell’infanzia, di cui il poeta conserva un amaro ricordo, come si può notare nella poesia Il rivale. Giudici parla spesso di gelosie, di sconfitte, di ferite antiche che porta con sé dall’infanzia e delle quali non riesce a liberarsi: fa rivivere il suo passato come fosse un “teatro” di delusioni, di dolori, di inquietudini, vissute senza consolazione. L’autore. Nato presso La Spezia nel 1924, Giovanni Giudici studia a Roma e si laurea in Letteratura francese. Dopo alcuni anni vissuti nella capitale, si trasferisce in Piemonte e poi a Milano, dove lavora come pubblicitario presso una grande azienda e collabora alle pagine culturali di alcuni
74 quotidiani. Dagli anni Cinquanta comincia a pubblicare i propri versi, in varie raccolte uscite nel corso degli anni. Tra di esse si ricordano particolarmente La vita in versi, Autobiologia e Il ristorante dei morti. E’ anche saggista e traduttore di poesia angloamericana e russa. Narrativa del secondo Novecento. Dal Realismo al Neorealismo. La tragedia del Secondo conflitto mondiale e la stagione della Resistenza scuotono gli uomini di cultura: arte, letteratura, cinema non possono più, ora, essere sentiti e intesi come prima. Finita la guerra, in un clima di grande speranza, di radicali rinnovamenti, di redenzione umana per le masse lavoratrici, gli intellettuali avvertono cioè l’esigenza di farsi interpreti della realtà sociale e politica, si sentono coinvolti nel clima di rinnovamento politico e morale, rifiutano polemicamente la cultura decadente e la concezione dell’artista neutrale o disinteressato. In realtà, già nei decenni precedenti, alcuni scrittori si erano dimostrati eredi della grande tradizione del Realismo ottocentesco, dando vita a una narrativa attenta a cogliere i diversi aspetti della realtà sociale o i problemi delle classi popolari. Nel 1929, infatti, Alberto Moravia aveva scritto Gli indifferenti; Ignazio Silone pubblicava nel 1930 Fontamara e nel 1936 Pane e vino; nel 1934 Aldo Palazzeschi presentava Sorelle Materassi e Carlo Ternari Tre fratelli. Ma, adesso, è il clima generale della cultura a riflettere ciò che finora era stato l’interesse individuale di alcuni e dunque fiorisce, in ambito specificamente italiano, l’esperienza del Neorealismo, destinata a dare i suoi frutti in letteratura e nelle arti figurative, ma soprattutto nel cinema. Essa comprende voci differenti, accomunate da una tendenza di fondo: l’impegno nel cogliere i più diversi aspetti attraverso i quali si manifesta la “questione sociale”, i problemi della ricostruzione economica e democratica del Paese finalmente uscito dalla dittatura e dalla guerra, le lotte per il riscatto del Sud. A questo clima diffuso danno il proprio personale e specifico contributo molti scrittori, anche se non tutti vi aderiscono totalmente. Tra di essi vanno ricordati Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Carlo Levi, Beppe Fenoglio, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Carlo Cassola, Corrado Alvaro. Ignazio Silone: un’anticipazione del neorealismo. Ignazio Silone è uno degli autori più rappresentativi del filone narrativo erede del realismo manzoniano e verghiano, col quale tornano in scena gli umili, i semplici con le loro ingenuità e, nello stesso tempo, con la volontà di difendere la propria dignità di uomini. Lo scrittore, che ben conosce la miseria dei poveri contadini dell’Italia meridionale, visto che è nato in un piccolo paese dell’Abruzzo, rappresenta infatti, in Fontamara, la loro dura realtà. Egli affida il racconto della vicenda a tre contadini della Marsica, i cafoni e, attraverso la loro voce, denuncia le ingiustizie da questi subite e la loro dura lotta contro ogni genere di avversità. Il romanzo è ambientato negli anni del fascismo, verso il quale l’autore manifesta la propria ostilità, denunziando, come nel brano L’amico del popolo, gli abusi, le sopraffazioni e le violenze dei potenti, che si presentano come “amici del popolo” per meglio ingannarlo. La narrativa realista, dunque, assume con Fontamara una prospettiva politica e sociale, che anticipa quella del Neorealismo che caratterizzerà il secondo dopoguerra. L’autore. Ignazio Silone nasce nel 1900 in un piccolo paese della Marsica, presso L’Aquila, in una famiglia poverissima e sfortunata. Per completare gli studi, si trasferisce a Roma, dove ben presto si occupa di politica e, in quanto antifascista, nel 1927 è costretto a fuggire all’estero. Rientra in Italia nel 1945 e vive facendo il giornalista; viene anche eletto deputato al Parlamento. Muore a Ginevra nel 1978.
75 Tra i suoi romanzi si ricordano in particolare Fontamara, Pane e vino, Una manciata di more, Il segreto di Luca e L’avventura di un povero cristiano, poi adattato per il teatro. Silone è autore anche di saggi e di testi teatrali. Vasco Pratolini: il primo esempio di narrativa neorealista. Nel secondo dopoguerra si sviluppa nella cultura italiana – prima nel cinema e poi nella narrativa – il movimento del Neorealismo, che porta al centro dell’attenzione personaggi comuni, uomini “della strada” colti nella loro quotidianità: con la rinascita della democrazia nel nostro Paese, sono essi, infatti, per gli intellettuali, i veri protagonisti della Storia. In letteratura il Neorealismo non è una vera e propria “scuola”, ma una tendenza, uno stato d’animo dal quale sono coinvolti molti autori, ciascuno a suo modo, condividendo l’impegno sociale e politico, le tematiche (gli anni della dittatura, la guerra, la resistenza, l’olocausto, la ricostruzione e il crescente divario fra il Nord e il Sud del Paese, la lotta della povera gente per la sopravvivenza quotidiana e il mondo dei loro semplici affetti) e l’uso di un linguaggio semplice e dimesso, spesso con la presenza di influssi dialettali. Cronache di poveri amanti, il romanzo più famoso di Pratolini, rappresenta il primo esempio di narrativa neorealista, per l’attenzione verso gli aspetti politici e sociali della realtà, in specie delle classi più umili, e il linguaggio facilmente comprensibile anche per i lettori meno colti. Come si può notare nel brano Il risveglio di via del Corno, materia della narrazione sono non la grande “Storia”, bensì le piccole vicende quotidiane di povera gente – operai, artigiani, piccoli commercianti, ma anche ladruncoli – che negli eventi della Storia si trova coinvolta, diventandone spesso vittima. Nessuno dei personaggi, poi, appare più importante degli altri, ma trova il proprio posto nella “coralità” della strada – via del Corno – nella quale tutti vivono e che, in realtà, fino dall’inizio appare la vera protagonista. L’autore. Vasco Pratolini è nato a Firenze nel 1913. Di famiglia modesta, in gioventù ha svolto molti mestieri, a contatto con l’ambiente più popolare della sua città, che costituirà poi lo sfondo dei suoi romanzi (tra cui si ricordano Cronache di poveri amanti, Le ragazze di San Frediano, Metello, Lo scialo, La costanza della ragione). Dal 1951 lo scrittore ha vissuto a Roma, dove ha collaborato con il cinema come sceneggiatore e dove è morto nel 1991. Dalle sue opere sono stati tratti diversi film e uno sceneggiato televisivo. Cesare Pavese, tra realismo e romanzo di analisi. In conseguenza del suo interesse per le classi popolari e contadine e del suo impegno politico, Pavese è stato spesso accostato ai neorealisti. E, in effetti, la sua è una narrativa all’insegna del realismo, legata alla cultura del “popolo”. Si tratta però di un realismo molto particolare, con una forte presenza di analisi psicologica. Nella Casa in collina, ad esempio, lo svolgimento della trama appare determinato tanto dagli eventi storici quanto dal carattere del protagonista-narratore, le cui riflessioni, come si può notare nel brano Non facevo proprio nulla per cambiare, occupano ampia parte della pagina. Corrado è un uomo intelligente, ma abulico, incapace di decisioni, sempre in difficoltà di fronte alla vita; egli dunque sembra, almeno in parte, erede di quell’”inetto” che aveva occupato la scena narrativa del primo Novecento. Diversa e più “moderna”, aderente cioè al mutato clima storico, è però la risposta che il personaggio dà infine a se stesso. Alla conclusione del conflitto, infatti, si farà strada in lui il dubbio di non aver saputo prendere la strada giusta quando era necessario: non ha deciso, non ha agito, ha rinunciato alla propria responsabilità di uomo. Il dolore, il rimorso, le contraddizioni di
76 Corrado sono quelle di Pavese stesso, il quale si rende conto che fuggire davanti alle responsabilità che la storia e la vita ci impongono significa fallire come esseri umani. L’autore. Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908. Originario delle Langhe, la regione collinare piemontese che si stende a sud di Alba, a questo paesaggio lo scrittore resta legato per tutta la vita e ne fa lo sfondo di quasi tutta la propria narrativa. Dopo gli studi, compiuti a Torino, e la laurea in Lettere, Pavese diviene antifascista e pertanto è costretto a rinunciare all’insegnamento; nel 1935 viene addirittura mandato al confino in Calabria. Nel frattempo ha iniziato a scrivere. Rientrato a Torino prima della guerra, si impiega in una casa editrice e continua a scrivere; ma nel 1950, nonostante i successi letterari, un’ultima serie di delusioni affettive e personali lo spinge a togliersi la vita. Tra le sue opere narrative si ricordano i romanzi Paesi tuoi, Feria d’agosto, Il compagno, La casa in collina, La luna e i falò e alcuni racconti; le poesie sono raccolte in Lavorare stanca e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; di rilievo è anche il diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo. Tra i primi intellettuali ad aver apprezzato e introdotto in Italia la letteratura nordamericana, Pavese si distingue, inoltre, per l’impegno come traduttore. Alberto Moravia: l’”urgenza della fame”. I Racconti romani di Moravia sono legati al clima culturale neorealista, ed offrono scorci significativi della vita quotidiana del dopoguerra nella capitale, spesso della sua miseria. Nel brano Romolo e Remo, protagonisti sono due poveri diavoli, dal nome significativo. La vita di entrambi è minacciata dallo spettro della fame: un’urgenza, questa, che vince qualsiasi vincolo affettivo o di umana solidarietà; e così Remo non esita a imbrogliare il povero Romolo, che ha conosciuto sotto le armi. Il tema centrale del racconto (l’urgenza della fame) è dichiarato fin dalle battute iniziali, prima ancora della presentazione del protagonista. Remo è infatti alle prese con la fame ed è in cerca di un modo per soddisfarla. Egli non manca di sentimenti positivi, lo testimoniano il suo soliloquio (Purtroppo, quando si ha fretta non si pensa nulla di buono), e il rimorso (sentivo che facevo una gran cattiva azione) che per un attimo lo coglie quando scopre che la “vittima” vive in una miseria quasi peggiore della sua. Ma la fame rende crudeli, cancella ogni rimorso, ogni senso di compassione. E Remo porta fino in fondo il proprio imbroglio. L’autore. Alberto Moravia, nato nel 1907 a Roma, dove morirà nel 1990, esordisce poco più che ventenne con il romanzo Gli indifferenti, seguito da molti altri – tra cui si ricordano particolarmente Agostino, La romana, Il conformista, La ciociara, La noia – e da diverse raccolte di racconti (Racconti romani, Nuovi racconti romani, Il paradiso). E’ anche autore di saggi e di testi teatrali ed ha inoltre collaborato a quotidiani e periodici con interventi di costume, critiche cinematografiche, reportage di viaggi. Personalità di forte impegno civile e culturale, Moravia ha sperimentato tipi diversi di letteratura, ma sempre nell’ambito di un fondamentale realismo. Dalle sue opere narrative sono stati tratti diversi film famosi e alcuni lavori televisivi. Il rapporto di Pasolini con il neorealismo. Pier Paolo Pasolini rientra nella corrente neorealista solo per certi aspetti e con uno stile del tutto personale. Particolarmente realista, come si può notare nel brano Nella borgata, è la lingua che egli usa, un gergo dialettale dai toni molto forti e crudi, con cui rappresenta il mondo popolare suburbano, colto nella sua violenza quasi “primitiva”.
77 Critica sociale, denuncia morale e forte realismo narrativo sono comunque le caratteristiche fondamentali dei suoi due romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Entrambi hanno come sfondo le squallide borgate romane negli anni del dopoguerra, segnate dalla fame, dalla miseria e dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana. I personaggi sono adolescenti o giovani emarginati che trascinano le giornate in avventure miserabili, alle prese con un ambiente degradato e degradante, duro e violento, talvolta addirittura feroce. In lontananza, con terribile contrasto, si intravedono le bellezze monumentali della città e i verdi quartieri della borghesia: come se fossero un altro pianeta, essi fanno balenare gli scintillanti richiami di una società che si avvia al “benessere” e dalla quale i giovani della borgata resteranno sempre esclusi. In un mondo nel quale non sembra esistere la possibilità di salire onestamente la scala sociale, l’unica via aperta a questi ragazzi per emergere in qualche modo è quella della violenza, della sopraffazione, della corruzione morale: risse, furti, prostituzione divengono così le attività quotidiane. Il loro destino è ormai segnato. Una vita violenta, dal quale è tratto il brano Nella borgata, narra la storia di Tommaso, un piccolo teppista di borgata che, attraverso terribili esperienze, tra cui anche il carcere, inizia a maturare una coscienza politica. Il suo “percorso di formazione” è però tutt’altro che a lieto fine: avvicinatosi all’impegno politico, Tommaso partecipa con i compagni al tentativo di salvare alcuni baraccati minacciati dal Tevere in piena e in conseguenza di questo atto morirà, per l’aggravarsi della tubercolosi della quale è già ammalato. Per dare voce pienamente a questa realtà, Pasolini elabora, come si è detto, uno stile espressivo che colpisce per il suo realismo: egli cerca infatti di riprodurre nella pagina non solo la lingua parlata dalla gente delle borgate, ma anche i gesti, i comportamenti, i modi espressivi. Come se lo scrittore volesse essere semplicemente il tramite attraverso il quale un mondo intero può finalmente raccontare se stesso. L’autore. Pier Paolo Pasolini nasce nel 1922 a Bologna, dove compie gli studi fino alla laurea in Lettere. Durante il periodo della guerra è a Casarsa, in Friuli, terra cui resterà sempre molto legato e alla quale dedicherà poesie composte in dialetto friulano (La meglio gioventù). In questi anni si dà all’insegnamento, al giornalismo e all’impegno politico. Nel 1950 si trasferisce con la madre a Roma, dove viene a contatto con i giovani che vivono l’esistenza dura e violenta delle borgate e proprio con l’interesse per questo ambiente inizia la sua attività di scrittore. Comincia anche a collaborare al cinema e a tale forma di comunicazione si appassiona in maniera crescente, tanto che in seguito vi si dedicherà a “tempo pieno”, diventando uno dei più importanti registi italiani. Autore di versi (Le ceneri di Gramsci, Poesia in forma di rosa), di romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Petrolio), di saggi, articoli e interventi di attualità (Scritti corsari), lo scrittore diviene, negli anni Sessanta, una delle maggiori e più discusse personalità intellettuali del Paese: spesso, infatti, egli assume posizioni critiche “scomode” nei confronti tanto della società borghese quanto della cultura della “contestazione” giovanile. Dal 1960 fino alla morte – che avviene a Roma nel 1975 in seguito a un atto di violenza e in circostanze mai del tutto chiarite – Pasolini si impegna prevalentemente nel cinema, realizzando film importanti, tra cui si ricordano in particolare Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Il Decameron.
L’ultima narrativa. Verso gli anni Sessanta, esauritasi l’esperienza neorealista anche per il mutare della situazione storica e sociale nel Paese, si assiste a una trasformazione, a una “individualizzazione” della letteratura. Questa, infatti, non cessa di presentare figure grandi o comunque interessanti, ma ciascuna di esse ha ormai caratteristiche tutte proprie, non fa più riferimento a “scuole” o
78 “movimenti”. Un altro elemento di diversità con il passato, che non va trascurato di osservare, è il crescente numero di presenze femminili che da ora in poi animerà la scena letteraria. Nei decenni fino alla conclusione del secolo, se da un lato continuano a operare alcuni dei precedenti protagonisti, come Pasolini, Moravia e Italo Calvino (per citare solo i maggiori), nascono dall’altro, nel nostro Paese, figure di narratori dalle più diverse caratteristiche tematiche e stilistiche. Da ciò emerge un panorama complesso e di enorme varietà, che sfugge a ogni classificazione. Carlo Emilio Gadda dà vita a romanzi e racconti del più avanzato sperimentalismo linguistico (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, L’Adalgisa, La cognizione del dolore). Giorgio Bassani porta nella letteratura la sua sottile analisi sulla crudeltà della storia e sulla solitudine umana (Il giardino dei Finzi Contini, Gli occhiali d’oro). Giuseppe Tomasi di Lampedusa recupera la grande tradizione del romanzo storico per dare, con Il Gattopardo, un quadro lucido e impietoso della società italiana. Leonardo Sciascia utilizza spesso il genere del “giallo” per esprimere il proprio pessimismo sui conflitti, le contraddizioni e le piaghe che inquinano la vita democratica (A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo). Elsa Morante, con La storia, riprende il filo del romanzo realista di grande tradizione. Antonio Tabucchi nei suoi romanzi e racconti intreccia realtà e assurdo, verità e finzione. Umberto Eco, con Il nome della rosa, rappresenta i conflitti ideologici e sociali del presente proiettandoli in una vicenda del tardo Medioevo.
Italo Calvino: la ribellione di Cosimo. Il barone rampante appartiene alla trilogia I nostri antenati (gli altri due che la compongono sono Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente). Come altre opere di Calvino, il romanzo è legato al genere fantastico, fatto di racconti favolosi e intrecci inverosimili, ma contiene un significato più profondo e impegnato. La vicenda di Cosimo Piovasco di Rondò si può infatti leggere su piani diversi: quello “superficiale” della strana vita di Cosimo sugli alberi; quello “simbolico” dell’uomo che, libero da condizionamenti ideologici, riesce meglio ad osservare e comprendere la realtà e a costruire consapevolmente un mondo più civile. La bizzarra scelta di Cosimo è il frutto di una grande, profonda ribellione o, come diremmo oggi, di una vera e propria contestazione. Stanco di una vita forse priva di significato, qual è quella condotta presso la nobile famiglia paterna, egli si rifugia in un luogo strano, ma tutto suo: l’albero, o meglio gli alberi, tra i cui rami, tra le cui fronde si muove libero come un uccello. Cosimo sceglie per condurre la propria esistenza uno spazio privilegiato, più alto, dal quale può vedere meglio il mondo e meglio comprenderlo. Così può scoprire la natura e le sue piccole creature, l’esistenza e il lavoro dei contadini che sudano e faticano per suo padre; può agire sulla storia, scongiurare invasioni di pirati, combattere contro eserciti nemici; può scoprire con maggior consapevolezza le gioie e i dolori dell’amore. Da lassù può, cioè, conoscere la vita, quella vita vera che forse, chiuso nella soffocante gabbia di un’esistenza aristocratica, non sarebbe mai stato in grado di affrontare. L’autore. Italo Calvino nasce nel 1923 nell’isola di Cuba, ma trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Liguria fino a quando, nel 1943, entra nella Resistenza, esperienza importante che sarà materia del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, e di alcuni racconti, che fanno capo alla corrente neorealista tipica di quel periodo. In seguito cura una raccolta di Fiabe italiane trascritte dai dialetti di tutte le regioni e pubblica opere (Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Marcovaldo) nelle quali gli interessi umani e sociali si uniscono a un forte elemento fiabesco. Successivamente, le molteplici curiosità di Calvino lo portano a cimentarsi in generi diversi: raffinati esperimenti di “fantascienza” sono ad esempio Le cosmicomiche e Ti con zero, mentre Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore si basano su
79 intrecci di grande complessità e Palomar dimostra come in questo scrittore il senso del fantastico non sia mai disgiunto dalla logica e dalla razionalità. Nell’insieme la sua opera lo rende uno degli autori più originali e complessi del nostro Novecento. Intellettuale lucido e ironico, Calvino ha partecipato al dibattito politico e culturale con interventi su quotidiani e periodici e ha rappresentato un importante punto di riferimento per la cultura italiana, tanto come scrittore quanto come critico e saggista. È morto a Siena nel 1985. Elsa Morante: il magico mondo dell’infanzia. Con il romanzo La storia, Elsa Morante fa rivivere quegli “umili” che erano stati i protagonisti della narrativa ottocentesca, da Manzoni a Verga. Di questi umili la scrittrice racconta le tragiche vicende, segnate dal dolore e dal desiderio di giustizia: alla Storia ufficiale si contrappone ancora una volta una storia con la “s” minuscola. I protagonisti non sono infatti degli eroi, né delle persone “importanti”, ma l’umanità più indifesa, coloro che sin dalla nascita sono vittime di un destino avverso e crudele. La storia di Ida è un susseguirsi di sventure e di difficoltà di ogni genere, prima fra tutte la dolorosa vita del piccolo Giuseppe, malato di epilessia. Dopo aver perso il primogenito in un tragico incidente, Ida perde, per un’ultima crisi epilettica, anche il secondo figlio. Rimasta sola, la sventurata donna impazzisce di dolore: dopo nove anni troverà finalmente la sua pace nella morte. Nel brano Il mondo si apre a Useppe, il piccolo Giuseppe (“Useppe”) è ancora nel momento privilegiato della prima infanzia: si avvia alla conquista dello spazio, del linguaggio, del suo piccolo mondo e tutto ciò che lo circonda gli appare pieno d’incanto. Egli trascorre le giornate invernali in casa, attratto dai semplici oggetti in cui si imbatte quotidianamente; le lampadine, il mobilio, l’acquaio, o solo una famiglia di scarafaggi che spunta all’improvviso dal muro della cucina. Unica visione del mondo esterno è quella offertagli dalla finestra: un magico schermo su cui può ammirare estasiato la pioggia, le rondini o un raggio di sole che, filtrando dai vetri, crea ombre bizzarre. Ma un bel giorno quello spazio gli si rivela in tutta la sua straordinaria varietà, durante una passeggiata con il fratello Nino. Persone, animali, oggetti animano quell’universo sconosciuto: Giuseppe lo divora con gli occhi incantati e innocenti di chi si affaccia per la prima volta sul mondo reale, le cui insidie ed i cui tristi agguati, gli sono, in questo momento felice, ancora ignoti. Non conosce ancora la tristezza e la disillusione: il suo animo di bambino è indenne dalla sofferenza e dal dolore che lo accompagneranno durante la sua breve e sfortunata vita. L’autore. Nata nel 1912 a Roma, Elsa Morante esordisce giovanissima come autrice di favole e poesie per bambini e poi diviene collaboratrice di giornali e riviste. In seguito ha pubblicato romanzi di successo (Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La storia), racconti (Lo scialle Andaluso) e opere di poesia (Il mondo salvato dai ragazzini). La scrittrice è morta a Roma nel 1985, in estrema povertà e solitudine. Antonio Tabucchi: il lento risveglio di una coscienza. Nella narrativa di Tabucchi il caso sembra avere un ruolo centrale. Anche in Sostiene Pereira è dall’incontro casuale con il giovane rivoluzionario Monteiro Rossi che inizia la lenta presa di coscienza del protagonista. Quando poi il suo giovane amico viene torturato e ucciso, in casa sua, da sicari del regime, il vecchio giornalista sembra improvvisamente risvegliarsi dall’apatia e capisce che è giunto il momento di condividere la sorte di un intero popolo, che soffre sotto la dittatura. Decide così di “vendicare” Monteiro Rossi, riscattandosi da anni e anni di “non-vita”, trascorsi nell’accettazione passiva della insopportabile situazione del suo Paese. L’impegno, la lotta costeranno sacrificio e comporteranno pericoli, ma restituiranno al protagonista una ragione per
80 vivere. Con Sostiene Pereira, Antonio Tabucchi lascia una preziosa testimonianza di impegno civile alle giovani generazioni, spesso accusate di non porsi in un confronto costruttivo e critico con il passato e di non avere, quindi, coscienza del loro tempo. Nel brano Bentornato, Monteiro Rossi, Pereira rivede quest’ultimo. Il giovane rivoluzionario suona alla porta del vecchio giornalista, che già l’ha aiutato, sicuro di poter nuovamente contare su di lui. E così è: senza capire fino in fondo perché, Pereira prova un grande affetto per il ragazzo e spontaneamente lo assiste, anche con la consapevolezza di andare incontro a gravi rischi. Forse lo fa solo perché sente di avere finalmente un motivo per vivere. Pereira è un personaggio malinconico, sofferente e problematico. La sua vita è fatta di abitudini, la pacatezza con cui si muove e parla rivela quell’atteggiamento di rassegnazione che fino all’incontro con Monteiro Rossi ha dominato il suo modo di essere. Ma già in queste pagine egli ha compiuto la sua scelta. Ha deciso di agire. La frattura con il passato emerge anche nel rapporto con la memoria della moglie, verso la quale sembra progressivamente assumere un atteggiamento di distacco. Pereira si lascia il passato alle spalle e capisce che il presente richiede il suo impegno; perché attraverso l’impegno civile può vivere coscientemente il proprio tempo e realizzare le sue più alte aspirazioni di uomo. L’autore. Antonio Tabucchi, nato presso Pisa nel 1943, è un importante studioso della letteratura portoghese e vive tra l’Italia e il Portogallo. Docente universitario, narratore, traduttore, critico e saggista, tra le sue opere di narrativa si ricordano alcune raccolte di racconti (Il gioco del rovescio, Piccoli equivoci senza importanza, Sogni di sogni) e i romanzi Piazza d’Italia, Notturno indiano, Sostiene Pereira, La testa perduta di Damasceno Monteiro, Si sta facendo sempre più tardi.