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28-10-2011

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I classici • Dante Alighieri Sintesi svolta

VOLUME 1 Le origini e il Duecento

DANTE ALIGHIERI della Commedia. Nel 1310 forse si recò a Parigi. Riaccesesi, con l'incoronazione di Enrico VII nel 1313, le sue speranze di una pacificazione dell'Italia sotto l'egida imperiale, compose il De monarchia. Ospite, fra il 1313 e il 1319, degli Scaligeri a Verona, si dedicò alla terza cantica della Commedia e scrisse due egloghe latine e delle epistole: con una di queste rifiutò sdegnosamente di accettare le umilianti condizioni imposte da Firenze nel 1315 per concedere l'amnistia ai fuoriusciti. Trasferitosi a Ravenna nel 1320, svolse incarichi diplomatici per Guido Novello da Polenta; morì di ritorno da una missione a Venezia nel 1321, durante la quale contrasse la malaria.

PERCHÉ DANTE È UN CLASSICO? 1. Perché può essere considerato il padre della lingua italiana: sviluppò infatti le potenzialità espressive del volgare rivendicandone la dignità di lingua letteraria accanto al latino. 2. Perché, creando lo Stilnovo che influenzò Petrarca, ha condizionato la tradizione poetica moderna. 3. Perché con la Commedia ha offerto la sintesi più alta del medioevo e assieme inaugurato l'età moderna. 4. Dante rappresenta un caso, in apparenza paradossale, di autore assieme canonico e inimitabile, in particolare in virtù del suo sperimentalismo linguistico. Il suo influsso sulla tradizione letteraria successiva non si coglie, pertanto, a livello di riprese esteriori, ma nelle reminiscenze profonde che segnano ancora i massimi autori del Novecento.

LE COSTANTI LETTERARIE Lo sperimentalismo 1: i temi e le forme L'opera di Dante mostra un inesauribile sperimentalismo, che investe stile, contenuti, lingua e metro. Egli passa negli anni dallo Stilnovo alla tenzone con Forese Donati, dalle "rime petrose" alle egloghe latine, dalle epistole ai trattati in latino e in volgare su argomenti filosofici, linguistici e politici. La sola Commedia, nell'articolazione delle tre cantiche, mostra compiutamente la sua capacità di padroneggiare perfettamente i registri elegiaco, comico e tragico.

LA VITA [1265-1321] L’infanzia, la giovinezza e gli studi Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265 da famiglia guelfa di piccola nobiltà e modeste condizioni economiche. All'età di nove anni sarebbe avvenuto il primo incontro con Beatrice. A vent'anni sposò Gemma Donati, da cui ebbe almeno tre figli. Dopo un soggiorno a Bologna, partecipò alle vittoriose campagne militari dei guelfi fiorentini contro i ghibellini di Pisa e Arezzo. La morte di Beatrice, nel 1290, lo stimolò a cercare conforto negli studi, in particolare filosofici e teologici.

Lo sperimentalismo 2: il plurilinguismo Dante spesso unisce nel medesimo testo lingue differenti a scopo espressivo; oltre al caso spettacolare della canzone Aï faus ris, pour quoi traï aves, dove si alternano francese, latino e italiano, si ricordi l'impiego, nella Commedia, del latino, del provenzale, dei volgari locali, nonché il ricorso sempre più frequente ai neologismi.

La maturità a Firenze Dopo avere composto, fra 1293 e 1295, la Vita nova, Dante intraprese la carriera politica, che culminò nel 1300 con l'elezione a priore. Fu un quinquennio intenso sia poeticamente – compose, infatti, le “rime petrose” – sia politicamente, funestato dalle lotte intestine fra guelfi bianchi e guelfi neri. Come priore condannò all'esilio gli esponenti più facinorosi delle due fazioni, fra cui l'amico Guido Cavalcanti. Nel 1301 guidò a Roma un'ambasceria presso papa Bonifacio VIII, ma venne sorpreso dal colpo di stato che portò i neri al governo di Firenze; nel 1302 fu processato e condannato in contumacia prima a una multa, poi a morte.

Lo sperimentalismo 3: la metrica Oltre a introdurre in Italia la sestina provenzale, Dante probabilmente inventò la terzina impiegata nella Commedia. La difesa del volgare Dante si battè, in sede teorica e con la sua produzione artistica, per la creazione di un volgare unitario e per sostenerne la dignità di lingua letteraria accanto al latino. La passione politica Dante affronta spesso temi politici e le sue riflessioni sono disseminate in molte opere: oltre al De monarchia, si pensi al canto VI di ogni cantica della Commedia e alle innumerevoli altre occasioni in cui affronta con forza i problemi relativi a Firenze, all'Italia e all'impero.

Gli anni dell'esilio Dapprima rimase in Toscana, nella speranza di poter rientrare a Firenze, poi frequentò varie corti dell'Italia settentrionale, tra cui Treviso, Venezia e Padova (dove conobbe Giotto), e fu ospite dei Malaspina in Lunigiana. Risalgono a questi anni il Convivio e il De vulgari eloquentia, nonché l'inizio della composizione G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Dante Alighieri Sintesi svolta

VOLUME 1 Le origini e il Duecento

philosophiae di Boezio per il prosimetro; le razos provenzali per l'autocommento ai testi.

LE OPERE

La vicenda Dante incontra Beatrice a nove anni, e poi ancora nove anni dopo, quando ne riceve il saluto. Fedele alle regole dell'amor cortese, cela il proprio amore rivolgendo le proprie attenzioni a due successive "donne dello schermo", ma così facendo offende Beatrice, che prima gli toglie il saluto e poi lo schernisce. Dalla prostrazione in cui è caduto, Dante si riscatta inaugurando la "poetica della lode": ora egli appaga il proprio amore unicamente lodando l'amata. Prima la morte del padre di Beatrice, poi di Beatrice stessa, gettano di nuovo nella disperazione il poeta, che accetta il conforto di una «gentile donna»; ma l'apparizione di Beatrice in sogno lo spinge a consacrare la propria vita alla sua esaltazione.

Il Fiore e il Detto d'Amore [1286-1287?] Non c'è unanimità fra i critici sulla paternità dantesca di questi due poemetti, entrambi traduzioni-rifacimenti del francese Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun. Esempio di poesia "comica", le due operette potrebbero risalire forse al periodo del soggiorno bolognese di Dante e rappresentare la fase del suo apprendistato poetico giovanile.

Le Rime [1282-1307] È la raccolta, non organizzata da Dante (ecco perché non si parla di un "canzoniere"), delle liriche composte dalla giovinezza all'inizio della Commedia, non riutilizzate in altre opere. Tradizionalmente vengono suddivise in rime della giovinezza, rime della maturità e rime dell'esilio.

I temi Con la Vita nova Dante inventa lo Stilnovo e una nuova concezione dell'amore, inscindibile da ragione e virtù. Si tratta di un'autobiografia dell'anima, in cui la vicenda amorosa è del tutto spiritualizzata; lo si comprende bene dall'insistenza su alcuni elementi simbolici, come il nome di Beatrice ("colei che dispensa beatitudine"), il numero nove, il colore rosso dell'abito della donna. La "poetica del saluto", di ascendenza guinizzelliana (la donna appare come creatura angelica, tramite della "salute", cioè salvezza, divina che ella dispensa attraverso il saluto), viene superata dalla "poetica della lode": l'amore del poeta non cerca più ricompensa o contraccambio, ma si appaga pienamente nel lodare la donna con le parole della poesia, rivolte non più alla donna stessa, ma a un lettore che conosce la vera natura dell'amore; un amore che prescinde dalla presenza fisica della donna e per questo è inattaccabile dalla morte.

Le rime della giovinezza Nelle prime, all'iniziale influenza cortese e guittoniana si sostituiscono prima suggestioni cavalcantiane (la cultura filosofica di matrice aristotelica, l'interpretazione tragico-dolorosa dell'amore, la personificazione dei sentimenti) e poi guinizzelliane (l'intimo legame fra vero amore e nobilità d'animo e la natura angelica della donna). Le rime della maturità Un forte sperimentalismo tematico e metrico caratterizza le rime della maturità, fra cui spiccano quelle legate alla tenzone con Forese Donati, dove è ripreso il linguaggio della tradizione comico-giocosa, e le "rime petrose", dallo stile duro e aspro, agli antipodi di quelle «dolci e leggiadre» della stagione stilnovistica.

Il linguaggio Alla novità dei temi corrisponde la dolcezza dello stile: Dante ricorre a una sintassi semplice e piana, mentre il lessico è selezionato allo scopo di produrre un effetto di avvolgente musicalità.

Le rime dell'esilio Nel terzo gruppo abbiamo innanzitutto le rime allegoriche e dottrinali che rimasero escluse dall'incompiuto Convivio; prevalgono i temi civili e morali, ma non mancano riferimenti autobiografici come il dramma dell'esilio o la nostalgia per la patria perduta.

La Vita nova [1293-1295]

Il Convivio [due datazioni possibili: 13031304; 1303-8]

La struttura Si tratta di un'autobiografia assieme amorosa e poetica, in forma di prosimetro; raccoglie trentuno liriche, alcune risalenti agli anni precedenti, alcune composte per l'occasione, inframmezzate da brevi prose con il compito di connettere le liriche, contestualizzarne la composizione, commentarne il contenuto.

La struttura L'opera, rimasta incompiuta, è ancora un prosimetro che, secondo il progetto originario, doveva comprendere quindici trattati di argomento filosofico; il primo fa da proemio, nei restanti (ma ne ne furono composti solo tre) dovevano essere commentate in prosa altrettante canzoni dello stesso Dante.

Le fonti I poeti siciliani, Guittone, Cavalcanti e Guinizzelli per l'ispirazione poetica; le Confessioni di Sant'Agostino per l'impostazione autobiografica; il De consolatione

I temi Nel primo trattato viene enunciato l'argomento dell'opera e spiegato il titolo. Dante invita il lettore a un banchetto in cui le canzoni fungono da vivande, acco-

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VOLUME 1 Le origini e il Duecento

pagnate dal pane delle prose, che del testo poetico forniscono una spiegazione prima letterale e poi allegorica. Il secondo trattato è il commento alla canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. La passione per la filosofia consola Dante della morte di Beatrice. Nel trattato Dante si sofferma sull'ordinamento dell'universo, le gerarchie angeliche e l'immortalità dell'anima; vengono illustrati i quattro sensi delle scritture: letterale, morale, allegorico e anagogico. Il terzo trattato è il commento alla canzone Amor che nella mente mi ragiona; la filosofia è amore per la sapienza, vero cibo per l'uomo, il quale tuttavia non è in grado di comprendere la causa ultima della realtà, fino a che non è Dio a rivelarsi. Il quarto trattato è il commento alla canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia. Riprendendo un tema guinizzelliano, Dante confuta un'affermazione attribuita a Federico II asserendo il primato della nobiltà di spirito su quella di sangue; il riferimento all'imperatore offre l'occasone per riflettere sul significato e sullo scopo dell'autorità politica.

Il secondo libro è un trattato di retorica e stilistica. I principi basilari seguiti da Dante sono: 1) deve sussistere una precisa corrispondenza fra lingua, stile e contenuto di un'opera; 2) esiste una precisa gerarchia degli stili, che va dal più alto, o "tragico", al più basso, o "elegiaco", passando per quello intermedio, o "comico". Al primo stile si addice il volgare illustre come lingua, la canzone come forma metrica e l'endecasillabo come verso, e come temi quelli morali, politici, amorosi. Grazie a quest'opera Dante può essere considerato il "padre della lingua italiana"; con notevole acume intuisce che le lingue si evolvono in funzione del tempo e dello spazio, e che in particolare quelle parlate in Spagna, Francia e Italia hanno un'origine comune, anche se non la individua nel latino, che erroneamente considera una lingua artificiale, costruita a tavolino.

Il De monarchia [tre datazioni possibili: 1308; 1310-1313; 1313-1318] La struttura e l'argomento È un trattato politico in latino destinato a un pubblico internazionale di dotti, suddiviso in tre libri. L'argomento è il problema dei rapporti fra papato e impero, due autorità all'epoca in forte crisi.

Il linguaggio La scelta del volgare per trattare di filosofia dipende dal pubblico a cui Dante si rivolge, composto da «nobile gente» (nobiltà e alta borghesia, non escluse le donne) amante della cultura ma impedita ad accedervi dagli impegni militari e civili, dalla lontananza rispetto ai grandi centri di cultura, e soprattutto dall'ignoranza del latino. La prosa dantesca appare caratterizzata da estrema lucidità argomentativa, chiarezza e coerenza nella struttura sintattica, rigore e precisione nelle scelte lessicali.

I temi Nel primo libro si defiscono natura e finalità della monarchia universale, voluta da Dio per garantire il benessere temporale e affidata all'imperatore, massimo garante di pace e giustizia. Nel secondo Dante difende la legittimità dell'impero romano, pienamente inserito nel piano provvidenziale di Dio. Nel terzo libro, affrontando il rapporto tra papato e impero, Dante sviluppa la teoria dei due soli: autorità spirituale e autorità temporale derivano entrambe da Dio, che investe della prima il papa e la Chiesa al fine di provvedere alla felicità eterna dell'uomo, della seconda l'imperatore perché provveda alla sua felicità terrena. Fra papa e imperatore non esiste rapporto di subordinazione gerarchica, anche se il secondo deve al primo il rispetto di un figlio nei confronti del padre.

Il De vulgari eloquentia [1303-1305] La struttura e le finalità Il trattato in latino avrebbe dovuto articolarsi in quattro libri, ma Dante si fermò al XIV capitolo del libro secondo. L'opera fu poco divulgata e venne riscoperta solo nel XVI secolo. Scopo dell'opera, indirizzata ai dotti avvezzi al latino, è dimostrare la dignità del volgare come lingua poetica. I temi Il primo libro è dedicato alla storia della lingua. La lingua universale originaria, l'ebraico, si frammentò in una miriade di linguaggi a causa dell'orgoglio umano (episodio della Torre di Babele). In Europa si sono affermati tre ceppi linguistici: il greco, il germanico e il romanzo. Quest'ultimo comprende la lingua d'oc (provenzale), la lingua d'oïl (francese) e la lingua del sì (italiano); quest'ultima, a sua volta, si suddivide in quattordici volgari locali principali; nessuno di questi però possiede i caratteri di un vulgaris illustris, ossia di una lingua nazionale, che secondo Dante deve essere cardinale, aulica e curiale. Esempi di questo volgare illustre sovraregionale sono, per Dante, la lingua poetica dei siciliani e degli stilnovisti. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Le Epistole Redatte in latino, le Epistole sono tredici e trattano per lo più argomenti politici. Diverse sono legate alla discesa di Enrico VII di Lussemburgo in Italia, come la V («ai Signori d'Italia»), la VI («ai fiorentini») e la VII («ad Arrigo»). Altre affrontano temi autobiografici, come la XII ("a un amico fiorentino"), in cui spiega le ragioni del suo rifiuto dell'amnistia offerta da Firenze nel 1315 ai fuoriusciti, e la XIII (indirizzata a Cangrande della Scala, ma per alcuni si tratta di un apocrifo), in cui vengono analizzati argomento, finalità, titolo, genere letterario e polisemia della Commedia.

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VOLUME 1 Le origini e il Duecento

Legenda aurea di Iacopo da Varazze. Fra i testi in volgare vanno ricordati: il Roman de la rose, il Libro de' Vizî e delle Virtudi di Bono Giamboni, La Gerusalemme celeste e la Babilonia infernale di Giacomino da Verona, il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva e il Tesoretto di Brunetto Latini.

La Commedia [1304-1321] La genesi L'inizio della composizione potrebbe risalire all'indomani della disfatta dei fuoriusciti bianchi fiorentini alla Lastra (1304), quando Dante si ritirò in esilio forse a Treviso presso Gherardo da Camino. Le probabili date di composizione dovrebbero essere: fra il 1304 e il 1308 l'Inferno, fra il 1308 e il 1312 il Purgatorio, fra il 1316 e il 1321 il Paradiso. Per quanto invece riguarda la pubblicazione delle singole cantiche in forma integrale, le date più probabili sono il 1314 per l'Inferno e il 1315 per il Purgatorio; il Paradiso venne pubblicato integralmente solo dopo la morte del poeta.

La cosmologia dantesca Riprendendo gli studi di Tolomeo, per il tramite di san Tommaso e della filosofia Scolastica, Dante considera la Terra come un corpo sferico collocato al centro dell'universo; attorno a essa ruotano nove cieli: sette corrispondono ai sette pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno), uno è il cielo delle stelle fisse e uno il primo mobile. La Terra è suddivisa in due emisferi: quello settentrionale, occupato dalle terre emerse e con Gerusalemme al polo, e quello meridionale, occupato dalle acque, con al polo la montagna del purgatorio, formatasi a seguito della caduta di Lucifero.

Il titolo Dante intitolò il poema Comedìa in relazione alla materia trattata e allo stile; per quanto concerne la materia, in base ai dettami della trattatistica medievale si definisce "tragedia" l'opera "meravigliosa" nel suo inizio e "paurosa" nella conclusione, mentre l'opposto avviene nella "commedia"; quest'ultimo è evidentemente il caso del poema dantesco, che muove dall'inferno al paradiso. Per quanto riguarda lo stile, può esser definito "comico" in quanto dimesso e umile; l'opera infatti non utilizza il latino, ma il volgare parlato «dalle donnette», come Dante stesso afferma nell'Epistola a Cangrande. L'aggettivo divina compare per la prima volta nel frontespizio dell'edizione veneziana del 1555 curata da Ludovico Dolce; in precedenza era già stato usato da Boccaccio, non però come parte del titolo.

L'inferno Al di sotto di Gerusalemme si apre la voragine infernale, a forma di cono rovesciato, suddivisa in nove cerchi; il primo ospita il limbo; quelli dal secondo al quinto i peccatori di incontinenza (suddivisi in lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi); il sesto, intermedio, è occupato dagli eretici; gli ultimi tre cerchi sono occupati dai maliziosi, suddivisi in violenti (ospitati nel cerchio settimo, a sua volta diviso in tre gironi), fraudolenti verso chi non si fida (accolti nel cerchio VIII, diviso in dieci bolge) e fraudolenti verso chi si fida, o traditori (si trovano nel cerchio nono, diviso in quattro zone). Al centro della Terra è conficcato Lucifero. Le pene sono regolate dalla legge del contrappasso che si basa o sull'opposizione o sulla corrispondenza tra pena e peccato commesso in vita.

La struttura e l'argomento La Commedia è un poema suddiviso in tre parti dette cantiche, per un totale di 100 canti (1+33+33+33). Il verso utilizzato è l'endecasillabo, organizzato in terzine a rima incatenata. La lunghezza dei singoli canti varia da un minimo di 115 a un massimo di 160 versi. L'argomento è il resoconto, narrato in prima persona, del viaggio compiuto da Dante nell'aldilà in occasione della Pasqua del 1300, all'età di trentacinque anni, fra il 7 e il 13 aprile (o fra il 25 e il 31 marzo, secondo altri studiosi). Tre personaggi si affiancano al "poeta pellegrino" in qualità di guide: Virgilio, autore dell'Eneide, simbolo della ragione poetica, fino al paradiso terrestre; nel paradiso Beatrice, la donna amata in gioventù dal poeta e simbolo della teologia e della grazia; infine, nell'empireo, san Bernardo di Chiaravalle, mistico e devoto mariano.

Il purgatorio Dante immagina il purgatorio come un monte tripartito: alla base c'è l'antipurgatorio, seguito dal purgatorio vero e proprio, suddiviso in sette cornici in ognuna delle quali si espia uno dei sette vizi capitali che in successione sono: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria. Sulla cima della montagna si trova infine il paradiso terrestre. Al contrario dell'inferno, nel purgatorio si procede dal peccato più grave a quello meno grave da espiare: le anime non sostano in un solo girone ma attraversano le cornici seguendo un percorso di purificazione. Il paradiso Le anime dei beati risiedono nell'empireo, il cielo infinito che si estende oltre le nove sfere celesti; Dante però immagina che, in occasione del suo viaggio, esse si distribuiscano momentaneamente nei vari cieli in relazione al corpo celeste di cui hanno subito l'influsso in vita. Così il cielo della Luna ospita le anime di quanti mancarono ai voti, il cielo di Mercurio le anime che operarono per conseguire fama e onore, quello del Sole gli spiriti sapienti. Gli ultimi due cieli, quello

Le fonti Fra gli autori classici, Dante ha contratto i debiti maggiori nei confronti di Virgilio, Ovidio, Lucano, Cicerone. Per quanto riguarda testi e autori cristiani, oltre alla Bibbia vanno ricordati in primo luogo san Tommaso e Alberto Magno, grazie ai quali Dante conosce Aristotele e Platone; poi l'apocrifo Vangelo di Nicodemo, la Navigazione di san Brandano, il Purgatorio di san Patrizio, la Visione di Tundalo e la G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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delle stelle fisse e il primo mobile, non ospitano anime, ma Dante in essi contempla il trionfi di Cristo, della Vergine Maria e degli Angeli. Infine nell'empireo Dante contemplerà tutte le anime beate riunite a formare la «candida rosa», prima di essere ammesso alla mistica visione di Dio.

retoriche della similitudine e della metafora, nonché agli artifici della ripetizione (anafora, anadiplosi), della perifrasi, della sineddoche, dell'allitterazione. In ogni caso, scelte retoriche, linguistiche e lessicali non sono mai fini a se stesse, ma sempre funzionali a precisi intenti espressivi.

I quattro sensi Come Dante stesso ebbe a precisare, la Commedia è un'opera polisemica, organizzata in particolare attorno a quattro livelli di significato: quello letterale, chiave di lettura prima e immediata, e in questo senso il poema è una cronaca di viaggio; quello allegorico, nel senso dell'allegoria dei teologi, precisa Dante, ossia la chiave di lettura con cui abitualmente si accostavano i testi biblici; quello morale, e allora la Commedia è un manuale di comportamento per la vita di ciascun uomo; quello anagogico, e allora ogni evento "reale" va inteso come segno di realtà eterne e spirituali.

Dante personaggio e Dante autore Nell'opera, narrata in prima persona, Dante è assieme personaggio (agens) e narratore (auctor); pur coincidendo in un solo individuo, le due funzioni sono distinte: lo si comprende dal diverso uso dei tempi verbali (dal passato al presente/futuro), nonché dai diversi atteggiamenti; Dante-auctor a posteriori giustifica, rimprovera, spiega reazioni e stati d'animo del se stesso agens; oppure si rivolge al lettore assumendo un ruolo di guida, attraverso richiami e commenti, che non possono che appartenere al suo ruolo di autore. Nel corso dell'opera, inoltre, verrà giustificata la composizione stessa del poema, assieme adempimento di una precisa missione affidatagli da Dio e mezzo per mantenere le promesse fatte a tante anime incontrate nel corso del viaggio.

L'interpretazione figurale Un'altra chiave di lettura della Commedia è quella fondata sull'"intepretazione figurale", sulla quale si è soffermato in particolare Erich Auerbach. Essa ruota attorno al concetto di "figura": gli avvenimenti e i personaggi storici, secondo la lettura medievale della realtà, non esauriscono la loro funzione nel mondo terreno ma trovano il loro compimento nell'oltretomba, sono quindi "figura", prefigurazione di verità trascendenti.

Profezie e invettive Dante fa spesso ricorso al tono dell'invettiva e a un linguaggio profetico, in particolare allorché si scaglia contro la degenerazione della Chiesa e dell'impero. Frequenti sono le cosiddette "profezie post eventum": il viaggio è infatti ambientato nella primavera nel 1300, mentre il poema venne composto nel ventennio successivo, tutti i fatti accaduti fra il 1300 e il 1321 possono perciò essere inseriti nella Commedia solamente sotto forma di profezie di eventi futuri.

La lingua e lo stile La Commedia è un esempio evidente di plurilinguismo: alla base lessicale costituita dal fiorentino del suo tempo, Dante mescola forme toscane non fiorentine, forme settentrionali, oltre a francesismi, provenzalismi e latinismi; ricchissima infine è la serie dei neologismi, in particolare nella terza cantica. Anche a livello stilistico il poema è assai variegato; lo stile medio, o comico (secondo la classificazione medievale) che lo caratterizza, è infatti autorizzato a continue escursioni verso l'alto (cioè verso lo stile tragico o sublime) e verso il basso (cioè verso lo stile elegiaco o basso), a seconda delle circostanze, del personaggio in scena, nonché della "lettura" che Dante vuol dare del singolo episodio. Dante nella Commedia ricorre largamente alle figure

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La Commedia dei poeti La Commedia è anche un'opera metaletteraria: Dante infatti approfitta spesso di incontri ed episodi per offrire al lettore spunti di storia letteraria nonché riflessioni circa il significato e lo scopo del proprio essere poeta e del proprio fare letteratura; esemplare in questo senso è l'incontro con il poeta Bonagiunta Orbicciani (Purgatorio XXIV, vv. 49 ss.), in cui sono definiti nome e caratteri dello Stilnovo, ma altrettanto importanti sono gli incontri con Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (Purgatorio XXVI), e quelli con i grandi poeti della classicità, fra i quali Virgilio, Omero (Inferno IV) e Stazio (Purgatorio XXI).

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I classici • Francesco Petrarca Sintesi svolta

VOLUME 1 Il Trecento

FRANCESCO PETRARCA glio, evento che segnò la sua consacrazione a livello europeo. Trasferitosi a Parma, si dedicò alla composizione di un poema epico (Africa) e di un trattato in prosa (De viris illustribus), entrambi in latino. Rientrato nel 1342 ad Avignone, iniziò lo studio del greco ed elaborò la prima versione del Canzoniere; attraversò anche una profonda crisi interiore, che lo spinse a rivedere i valori della propria esistenza.

PERCHÉ PETRARCA È UN CLASSICO? 1. Perché è riconosciuto universalmente come padre della cultura europea moderna, sia in lingua latina sia in volgare. 2. Perché con il suo Canzoniere ha influenzato la lirica occidentale fino ai giorni nostri. 3. Perché, rispetto a quella dantesca, ancora decisamente medievale, ha incarnato una religiosità più vicina al nostro comune sentire, più intima e tormentata. 4. Perché incarna alla perfezione l’intellettuale contemporaneo, «inquieto pellegrino del mondo», caratterizzato dall’incertezza e dal dubbio, perennemente insoddisfatto dei risultati artistici ottenuti, sempre alla ricerca di una verità sfuggente che si cela nell’intimo dell’anima, più portato a porsi ossessivamente domande che a dispensare risposte.

Il soggiorno in Italia Dopo la nascita della figlia naturale Francesca, fra il 1343 e il 1345 soggiornò in Italia, prima a Napoli, poi a Parma, Bologna e Verona, sempre più scandalizzato di fronte alle lotte fratricide fra i signori italiani. Dopo la riscoperta, a Verona, delle lettere di Cicerone, decise di realizzare a sua volta un epistolario latino. Nel 1327 diede la propria adesione al tentativo dell’umanista Cola di Rienzo volto a instaurare a Roma un governo popolare, rimanendone però fortemente deluso. Nel frattempo era entrato in conflitto con il cardinale Colonna; sopraggiunta la rottura fra i due, Petrarca si trasferì a Parma, dove visse il dramma della peste del 1348, che uccise molti suoi amici e la stessa Laura. L’esperienza lo segnò, facendogli maturare un sentimento profondo della precarietà della vita umana, come traspare da opere in volgare, come i Trionfi, e in latino, come il De remediis utriusque fortunae. Sulla strada per Roma, in occasione del giubileo del 1350, fu ospitato a Firenze da Boccaccio, di cui divenne amico.

LA VITA [1304-1374] L’infanzia, la giovinezza e gli studi Franscesco Petrarca nacque il 20 luglio 1304 ad Arezzo, dove si era rifugiato il padre notaio, esule da Firenze. Dopo diversi spostamenti, nel 1312 la famiglia si trasferì ad Avignone, nuova sede della curia papale, e prese alloggio nella vicina Carpentras: qui Francesco compì gli studi di grammatica, retorica e dialettica. Avviato dal padre agli studi di diritto, fra il 1316 e il 1319 frequentò l’università di Montpellier, quindi si trasferì a Bologna con il fratello Gherardo, dove si avvicinò alla poesia toscana del tempo e approfondì la conoscenza dei classici latini, in particolare Cicerone e Virgilio.

Gli ultimi anni Tra il 1351 e il 1353 fu per l’ultima volta a Valchiusa, dove lavorò alle lettere Familiari. Nel 1353 si trasferì definitivamente in Italia, prima a Milano, presso i Visconti, per i quali svolse alcuni incarichi diplomatici; qui ospitò Boccaccio e diede forma pressoché definitiva a molte sue opere in latino e in volgare. Fra il 1362 e il 1368 visse a Venezia, dove lavorò alla versione definitiva del Canzoniere e compose il De sui ipsius et multorum ignorantia, replica polemica contro quanti lo accusavano di scarsa cultura per via della sua avversione al mondo universitario. Nel 1368, infine, lasciò anche Venezia per ritirarsi ad Arquà, presso Padova, in una casetta immersa nel verde che fu il sereno ritiro dei suoi ultimi anni; qui infatti morì il 19 luglio del 1374.

Al servizio di Giovanni Colonna Rientrato ad Avignone nel 1326 a seguito della morte del padre, si dedicò alla vita mondana e fece incontri fondamentali per la sua maturazione umana e artistica; in particolare il 6 aprile 1327 conobbe Laura. Presi gli ordini minori, nel 1330 entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Nel 1333, durante un viaggio nel Nord Europa, riscoprì l’orazione Pro Archia di Cicerone, che contiene fra l’altro un elogio degli studi letterari. Recatosi a Roma nel 1336, fu molto colpito dalle rovine archeologiche, ma denunciò anche le drammatiche condizioni politiche e sociali della sua patria italiana.

LE COSTANTI LETTERARIE

Il ritiro a Valchiusa e l’incoronazione poetica Nel 1337, l’anno della nascita del figlio naturale Giovanni, lasciò Avignone per la vicina Valchiusa, che fu per anni il suo rifugio intellettuale. Nella primavera del 1341, dopo essere stato esaminato a Napoli da re Roberto d’Angiò, venne incoronato poeta a Roma, in CampidoG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Un intellettuale inquieto Petrarca fu uomo e intellettuale segnato da una profonda inquietudine e da una perenne insoddisfazione; lo si comprende dai suoi continui trasferimenti alla ricerca di un asilo definitivo, dallo stato di incompiutezza di mol-

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te sue opere, dalle sue frequenti crisi interiori, dalla ricerca costante e difficile di un equilibrio con i potenti che salvaguardasse la sua autonomia artistica e la sua indipendenza di pensiero.

LE OPERE Il Canzoniere [1342-1374] La genesi e la struttura La composizione del Canzoniere durò trent’anni e attraversò almeno nove redazioni, dalla prima del 1342, realizzata a Valchiusa, fino all’ultima, che risale all’anno della morte del poeta. Nella redazione definitiva, l’opera comprende 366 poesie in volgare: il numero rappresenta i giorni di un anno bisestile e quindi simbolicamente la durata di una vita umana, i cui singoli momenti, diversi l’uno dall’altro, fanno però parte di un’unità più ampia e complessa, dalla quale ricevono significato e coerenza.

La letteratura come centro di gravità L’amore per la letteratura rappresentò l’unica vera costante nella sua vita, amore che egli visse come una consacrazione totalizzante e che per lui fu assieme ricerca della perfezione formale, dell’erudizione, ma anche e soprattutto della saggezza; la letteratura gli appariva come unica vera fonte di appagamento e di serenità interiore in mezzo alle tempeste della vita e della storia. Il confronto con i classici Lo studio dei classici fu per Petrarca l’unica guida sicura per il pensiero e l’azione; solo attraverso il confronto – che è emulazione, mai passiva imitazione – con i grandi maestri l’uomo matura e cresce, scoprendo la propria identità e il senso della propria esistenza.

Il titolo Il titolo scelto da Petrarca per l’opera è in latino: Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose in volgare”); il poeta sottolinea dunque da un lato l’appartenenza dell’opera alla sua produzione in lingua volgare, e dall’altro il carattere “frammentario” di queste rime, lontanissime dalla compattezza di un poema epico come l’Africa, anzi simili alle tessere di un mosaico, di cui solo a lettura ultimata si potrà cogliere l’unità d’insieme; ancora una volta, dunque, la scrittura si intreccia alla vita, fotografandone i singoli momenti e rivelandone l’unità più profonda.

Il rapporto con la tradizione Il rapporto con la tradizione è imprescindibile per chiunque voglia fare cultura; nulla di autentico può nascere qualora si recidano le radici classiche e cristiane che hanno plasmato l’identità europea. Lo scrittore non crea dal nulla, ma rielabora instancabilmente la tradizione, producendo il nuovo dal vecchio e assieme riconducendo, in modo originale, il molteplice a unità.

I tre livelli di lettura Opera polisemica, il Canzoniere può essere letto, a un primo livello, come la cronistoria dell’amore del poeta per Laura, dal primo incontro avvenuto ad Avignone il venerdì santo del 1327, alla morte prematura della donna, durante la peste nera del 1348, e anche oltre. A un secondo e più profondo livello, si tratta della testimonianza di un lungo esercizio di autoanalisi da parte di Petrarca, che confessa la propria vicenda interiore dall’arrendevolezza giovanile di fronte alle lusinghe dell’amore e della fama, passando attraverso la ricerca di equilibrio interiore caratteristica della maturità, fino alle sempre più pressanti istanze ascetiche e contemplative degli ultimi anni. Infine, a un terzo livello di lettura, l’opera rivela il proprio carattere metaletterario: la parola poetica giustifica se stessa e il proprio significato, come unico mezzo concesso all’uomo per fissare, nello scorrere inarrestabile e confuso del divenire, degli istanti in cui la vita si rivela nei suoi contenuti più autentici e segreti.

Petrarca bibliofilo Petrarca fu uno dei primi “collezionisti” di libri, inaugurando un uso tipicamente umanistico. Durante i suoi viaggi, o attraverso una vasta rete di contatti con intellettuali di tutta Europa, mise insieme centinaia di manoscritti, che egli considerò sempre come i suoi più intimi compagni di viaggio e di vita, in un intreccio fra esistenza e letteratura che costituisce uno dei tratti più significativi della sua personalità. Il pensiero politico Petrarca sentiva una profonda affinità con gli autori classici, ma non dimenticò mai di vivere nel presente del suo tempo; dai suoi studi egli elaborò un preciso progetto politico, incentrato sulla riunificazione dell’Italia e sulla sua ricostruzione politica, morale e civile attorno all’unica capitale possibile, Roma.

La struttura simbolica Petrarca lavorò a lungo all’“indice” dell’opera, alla ricerca della più efficace successione dei singoli componimenti; i quali hanno sì valore individuale, ma il loro senso complessivo può emergere solo dall’ordine in cui vengono collocati. Il criterio generale è tematico più che cronologico: le poesie da cui emergono le passioni giovanili di norma precedono quelle in cui si dà voce ai sentimenti della maturità e della vecchiaia, e ciò prescindendo dalla data di composizione. Introdotto da un sonetto proemiale destinato a selezio-

Tradizione classica e fede cristiana Passione mondana e prospettiva ascetica, cultura classica e fede cristiana, furono conciliate da Petrarca in una sintesi originalissima che scaturiva dall’indagine instancabile della propria anima e delle sue contraddizioni; in questo senso il Canzoniere, in modo particolare, rappresenta il resoconto del cammino interiore di ogni uomo che si interroga sul proprio destino, combattuto fra le seduzioni del mondo e una profonda aspirazione al divino. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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nare il pubblico – quanti abbiano sperimentato la forza dell’amore – e a delimitare l’argomento – l’evoluzione da una gioventù nutrita di passioni, speranze e illusioni, a una vecchiaia che riconosce la vanità delle cose terrene –, il Canzoniere appare strutturalmente bipartito: i testi dal numero II al numero CCLXIII sono dedicati alle “passioni del corpo”, che vanno dall’amore per Laura all’amicizia, alla politica, alla natura; le liriche dal numero CCLXIV al numero CCCLXVI sono invece segnate dal pentimento e dedicate alle “passioni dell’anima”: dopo la morte di Laura il poeta comprende la vanità del mondo e aspira a più alti oggetti d’amore, come la verità, la poesia, Dio. La canzone alla Vergine che conclude il Canzoniere rappresenta l’approdo finale della lunga avventura esistenziale di Petrarca uomo e poeta, che si affida con totale fiducia alla misericordia di Maria. Riprendendo le suggestioni rappresentate dalle Confessioni di Agostino e dalla Vita nova di Dante, Petrarca costruisce un romanzo autobiografico in versi abbandonando l’uso tradizionale, che prediligeva l’ordinamento delle liriche in base a un criterio cronologico o metrico, e realizzando un’operazione letteraria estremamente raffinata, allo scopo di consentire al lettore, messo a parte e invitato a meditare sulla parabola esistenziale del poeta, di comprendere più profondamente il senso della propria vicenda terrena.

cabolario circoscritto ed essenziale, un lessico dolce e melodioso, una sintassi armoniosa ed elegante. La straordinaria capacità del poeta di dire con facilità le cose più difficili ha fatto del Canzoniere, anche sotto il profilo stilistico, un classico ammirato e imitato ancora nel XX secolo. Anche nelle soluzioni metriche Petrarca evita la dispersione: 317 poesie su 366 sono sonetti, la forma privilegiata che evidentemente, per la sua brevità, meglio si presta a esprimere il carattere frammentario dell’opera. Le fonti e i modelli Petrarca è un autore “onnivoro”, che nella propria produzione ha sintetizzato in modo originale tutte le sue sterminate letture. Fra i classici, l’influenza più evidente è quella esercitata da Orazio, Proprezio, Tibullo e Ovidio; fra i moderni, si segnalano Guido Cavalcanti, Arnaut Daniel, Cino da Pistoia e Dante (con il quale ebbe un rapporto profondo quanto complesso); fra i testi della tradizione ecclesiastica, oltre alla Bibbia, in particolare le opere dei padri della Chiesa occidentale, cioè san Girolamo, sant’Ambrogio e sant’Agostino. La fortuna Il Canzoniere ha rappresentato per secoli un paradigma assoluto per quanto concerne i contenuti, la struttura e lo stile. Ciò si deve, tra l’altro, a due ragioni: la prima è l’equilibrio perfetto tra le parti e l’insieme, per cui il singolo testo (come la singola esperienza interiore) è assieme momento totalizzante e tassello che continuamente rimanda a un disegno più ampio. La seconda è che con i suoi frammenti in volgare Petrarca ha fissato quella che è ancora per noi la definizione stessa di poesia lirica, caratterizzata da autobiografismo e introspezione, aspetti per i quali il tema dell’amore contrastato o sofferto funge da occasione privilegiata.

Laura: dalla terra al cielo Laura incarna simbolicamente la parabola esistenziale di Petrarca: in un primo tempo in lei trovano sintesi tutte le seduzioni terrene, fino a farne uno strumento demoniaco, tanto da costringere il poeta a vivere un continuo stato di dissociazione interiore fra esaltazione e pentimento – sa che l’amore per Laura lo allontana dall’amore per Dio; sa bene, agostinianamente, di amare ciò che dovrebbe odiare come il proprio male, ma non può rinunciare ad amare, con vergogna, colei che vede come la sua sola ragione di vita –; poi, dopo la morte, assurge a donna-angelo, a guida illuminante che lo riconduce sulla via del paradiso.

I Trionfi [1350/55-1374] Si tratta di un poemetto allegorico in terzine di endecasillabi, suddiviso in sei visioni che lo stesso poeta avrebbe avuto addormentandosi il 6 aprile a Valchiusa; Petrarca passa in rassegna i grandi valori umani e spirituali che hanno guidato la sua vita, in una progressione dinamica tesa sempre al superamento delle posizioni raggiunte. Così al Triumphus Cupidinis (Trionfo dell’Amore passionale) segue il Triumphus Pudicitiae (Trionfo della Castità che pone un freno alle passioni terrene), quindi si avvicendano il Triumphus Mortis (Trionfo della Morte, la cui contemplazione fa riconoscere al poeta la vanità dei beni di questo mondo), il Triumphus Famae (Trionfo della Fama che l’uomo si illude possa sottrarlo alla morte), il Triumphus Temporis (Trionfo del Tempo che erode la gloria umana), il Triumphus Aeternitatis (Trionfo dell’Eternità, riconosciuta infine come autentico traguardo delle speranze umane). Il ripiegamento introspettivo caratterizza anche quest’opera, che tuttavia rispetto al Canzoniere ci appare più fredda per via della complessa simbologia erudita elaborata dal poeta.

L’autore e il destinatario Petrarca nel Canzoniere è assieme protagonista e autore; ma fra i due non vi è coincidenza perfetta: il Petrarca-soggetto dell’opera è personaggio costruito sulla base delle esperienze biografiche dell’autore, sottoposte però a un processo di sublimazione, così che il lettore possa immedesimarsi in lui e la sua storia diventare la storia di ciascun uomo. Il poeta scrive al contempo per se stesso, allo scopo di comprendere il senso della propria vicenda terrena, per i contemporanei, per invitarli alla ricerca interiore, e per i posteri, per offrire loro un modello di vita interiore. La lingua e lo stile Nel Canzoniere, modello di unilinguismo, Petrarca rinuncia a sperimentare soluzioni espressive diversificate, ma tende al contrario a fare della limitazione un pregio, affidandosi a una scrittura estremamente equilibrata, caratterizzata da uno stile lineare e piano, un voG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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cartaginese Annibale e Scipione l’Africano), cui il poeta lavorò a più riprese fra il 1338/1339 e il 1366.

Gli epistolari Ispirandosi al modello ciceroniano, Petrarca riunì e adattò per la pubblicazione le lettere scritte in latino nell’arco della sua esistenza, suddividendole in diverse raccolte.

Il De viris illustribus È una raccolta di biografie di grandi personalità dall’età antica (a partire da Adamo) a quella contemporanea, composte a più riprese a partire dal 1338.

Le Familiari, le Senili e le Epistole metriche La prima raccolta riunisce 350 lettere suddivise in ventiquattro libri, la seconda 130 lettere in diciotto libri, la terza sessantaquattro lettere in versi (esametri) suddivise in tre libri. Ne emerge un ritratto della società del tempo e dello stesso Petrarca, anche se non si tratta mai di testi strettamente confidenziali, in cui il poeta si confessi in modo sincero e spontaneo; piuttosto quello che egli ci offre è un autoritratto idealizzato, racchiuso in forme retoricamente studiate e sempre teso a offrire al lettore un alto insegnamento morale. I temi più ricorrenti sono l’amore per i classici, accostati come presenze vive (l’ultimo libro delle Familiari contiene lettere indirizzate direttamente a Omero, Virgilio, Cicerone, Orazio, Seneca...), lo sdegno per la meschinità dei tempi moderni, la celebrazione dell’amicizia, l’angoscia per il passare del tempo, la ricerca costante di libertà e indipendenza, l’autodifesa contro le critiche, la conciliazione fra letteratura e teologia, ma soprattutto l’incrollabile passione per la lettura e la scrittura.

Il Rerum memorandarum libri Si tratta di una raccolta di aneddoti che illustrano le virtù degli antichi greci e romani.

Le opere latine di argomento filosofico-morale Hanno come argomento comune la ricerca della vera felicità, che si concretizza in una condotta di vita serena e saggia, sottratta al tumulto della storia, protesa al raggiungimento di un equilibrio interiore. Tra le opere più significative si segnalano: Il De remediis utriusque fortunae Composto fra il 1354 e il 1367, comprende 254 brevi dialoghi, divisi in due parti, i cui interlocutori sono concetti astratti (Ragione di fronte a Gioia, Speranza, Paura, Dolore). Sulla scorta di Seneca, Petrarca mostra come vizio e virtù siano rispettivamente il vero male e il vero bene per l’uomo: infelicità e felicità hanno dunque dentro di noi le loro radici, e il saggio non dovrebbe mai lasciarsi condizionare dagli eventi esterni.

Le Variae e le Sine nomine Nel primo epistolario sono raccolte le lettere non revisionate per la pubblicazione, nel secondo si trovano diciannove lettere composte fra il 1342 e il 1359, riunite e organizzate durante il soggiorno milanese; non contengono l’indicazione del destinatario per ragioni di opportunità: in esse infatti, con tono aggressivo e polemico, Petrarca prende di mira la corruzione della curia avignonese e manifesta il proprio sostegno all’impresa di Cola di Rienzo.

Il Secretum Composto fra il 1345 e il 1353, è un dialogo in tre libri fra Francesco e sant’Agostino alla presenza della Verità. Petrarca confessa e analizza con spietata lucidità le proprie debolezze: la mancanza di una volontà forte e ferma, il desiderio di gloria mondana, il prevalere delle passioni sulla ragione, e soprattutto l’accidia, cioè la propensione all’apatia e all’inerzia.

Le opere latine di argomento erudito

Il De vita solitaria e il De otio religioso L’esame di coscienza di Petrarca prosegue nel De vita solitaria, composto fra il 1346 e il 1371, e nel De otio religioso, composto fra il 1347 e il 1357: l’autore si confessa profondamente scontento di sé, preda di un’inquietudine profonda di fronte all’inconciliabilità fra ideali e realtà, fra volontà e azione, fra pensiero e vita. Unica via verso la pace e l’equilibrio interiore è quella che passa attraverso la rinuncia alle ambizioni mondane e il ritiro nella solitudine, nel silenzio, nell’ascesi.

Petrarca era persuaso che la civiltà greco-latina fosse eticamente superiore a quella contemporanea, e quindi si sforzò di riproporre agli uomini del suo tempo il modello rappresentato dai grandi uomini del passato e il loro insegnamento morale e civile. Tra le opere più significative, rimaste tuttavia incompiute, vanno segnalate: L’Africa Si tratta di un poema epico in esametri dedicato alla seconda guerra punica (che ebbe come protagonisti il

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GIOVANNI BOCCACCIO l’esperienza della peste; quindi, anche in seguito all’incontro con Petrarca, iniziò a comporre in latino opere di varia erudizione, come le Genealogie deorum gentilium, il De casibus virorum illustrium e il De mulieribus claris. In volgare scrisse invece il Corbaccio e il Trattatello in laude di Dante.

PERCHÉ BOCCACCIO È UN CLASSICO? 1. Perché si colloca tra Medioevo e Umanesimo, tra le istanze dell’aristocrazia cortese e quelle del ceto mercantile emergente, tra un profondo sentimento religioso che proietta l’esistenza verso un destino ultraterreno e una curiosità insaziabile verso tutti gli aspetti della realtà terrena. 2. Perché il suo Decameron appare come una summa della società trecentesca, con i suoi stili di vita e il suo sistema di valori e disvalori, in parte legati alla tradizione, in parte di estrema e rivoluzionaria modernità. 3. Perché ha segnato una tappa fondamentale nello sviluppo del genere novellistico, con il quale ha saputo offrire una visione realistica e disincantata della realtà, senza rinunciare a una precisa istanza conoscitiva e morale.

Gli ultimi anni Dal 1360 ospitò il maestro calabrese Leonzio Pilato, chiamato a Firenze per insegnare il greco antico e tradurre in latino le opere di Omero e Platone. Sempre nel 1360 prese gli ordini ecclesiastici minori, confidando che gli annessi benefici gli avrebbero permesso di continuare serenamente i propri studi. Dopo un breve allontanamento da Firenze, riprese l’attività diplomatica come ambasciatore ad Avignone, Roma e Napoli. Dal 1371 si trasferì a Certaldo, dedicandosi agli studi e alla meditazione. Nel 1373, su incarico del comune di Firenze, iniziò a tenere pubbliche letture commentate della Commedia di Dante, ma giunto al canto XVII dell’Inferno dovette interrompere per le cattive condizioni di salute. Morì a Certaldo il 21 dicembre del 1375.

LA VITA [1313-1375] L’infanzia Giovanni Boccaccio nacque a Firenze o a Certaldo tra giugno e luglio del 1313, figlio di Boccaccio di Chellino, ricco uomo d’affari; l’identità della madre rimane sconosciuta. Nel 1327 si trasferì a Napoli con il padre, eletto consigliere e ciambellano del re Roberto d’Angiò.

LE COSTANTI LETTERARIE Una personalità poliedrica Formatosi sostanzialmente da autodidatta, Boccaccio si sentiva a proprio agio nel mondo della finanza così come nei circoli universitari e nell’aristocratica società di corte; profondamente legato alla tradizione medievale, conoscitore esperto del mondo mercantile, era assieme aperto alle istanze preumanistiche, ammiratore appassionato di Dante e amico fraterno di Petrarca; la sua fu dunque una personalità decisamente poliedrica e a tratti apparentemente contraddittoria.

Il periodo napoletano A Napoli Giovanni fu introdotto nel mondo della finanza dal padre, che lo spinse agli studi di giurisprudenza; visse un’appassionata storia d’amore con una donna la cui identità venne celata sotto lo pseudonimo di Fiammetta, fece il suo ingresso a corte e frequentò assiduamente la biblioteca reale e l’università, entrando in contatto con gli intellettuali del tempo e scoprendo nel mondo delle lettere la propria vocazione. Compose le sue prime opere: Caccia di Diana (1334), Filocolo (13361338), Filostrato (1335 o 1339), Teseida (1339-1340).

La «nobile poesia» La creazione letteraria fu il grande amore di Boccaccio e la sua ragione di vita; con una consapevolezza maturata nel corso degli anni, anche grazie all’amicizia con Petrarca, egli giunse ad affidare alla «nobile poesia» una valenza assieme estetica, consolatoria ed educativa. Spesso nelle sue opere il valore della letteratura appare metaforicamente illustrato nella rappresentazione simbolica di un gruppo di giovani riuniti a dialogare amabilmente nello spazio circoscritto di un giardino. Specialmente negli ultimi anni la letteratura divenne per lui, in quanto dono di Dio, una forma di conoscenza equiparabile alla teologia.

Il rientro a Firenze Rientrato a Firenze nell’inverno del 1340 a seguito delle difficoltà finanziarie della famiglia, si ritrovò in una città dilaniata dai confitti politici e sociali, inaspriti dalla crisi economica. Ai primi anni quaranta risalgono le opere: Comedia delle ninfe fiorentine (1341-1342), Amorosa visione (1342-1343), Elegia di Madonna Fiammetta (13431344), Ninfale fiesolano (1344-1346). Gli anni della maturità Nel 1348 Firenze fu colpita dalla peste: Giovanni perse il padre e altri familiari; divenuto capofamiglia, si impegnò nella vita civile e politica, svolgendo missioni diplomatiche in Romagna, a Napoli, in Tirolo e ad Avignone. Intorno al 1353 concluse il Decameron, iniziato dopo G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Una scrittura polisemica Le opere di Boccaccio, fin dagli esordi, si propongono di offrire insegnamenti ricchi di verità filosofiche e morali, per lo più nascosti sotto una scrittura leggera e brillante, o persino volgare e oscena, che a una lettura su-

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l’amore fra Troilo, figlio del re di Troia Priamo, e Criseida; il protagonista ha un temperamento introspettivo e sentimentale, la fanciulla appare, invece, molto più spigliata e disinvolta; così, quando lei lo tradisce con il greco Diomede, Troilo (è lui il “vinto da amore”, secondo un’altra etimologia errata) si getta in battaglia cercando vendetta e muore per mano di Achille. Boccaccio vuol mostrare come la lontananza e il distacco possano incrinare anche l’amore più felice, che ha bisogno del contatto fisico e non può sopravvivere in una dimensione puramente spirituale. In quest’opera venne introdotta forse per la prima volta l’ottava, strofa composta da otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, soluzione metrica che nel Quattro e Cinquecento diverrà canonica nel poema cavalleresco.

perficiale può apparire al servizio unicamente di un divertimento giocoso. Il lettore è chiamato dunque a una raffinata operazione di decodifica dei messaggi profondi, celati sotto la superficie del testo. Lo sperimentalismo La curiosità intellettuale e lo straordinario eclettismo che caratterizzano la personalità di Boccaccio si traducono in un continuo sperimentalismo, che contamina liberamente fonti e modelli. In particolare la sua mentalità mercantile lo portava a guardare gli uomini con analitico e spietato realismo, mentre la sua cultura letteraria gli impediva di fermarsi alla superficie delle cose, al mondo delle apparenze, per spingersi alla ricerca del significato più profondo della realtà. Di qui la sua frequentazione di svariati generi letterari, che spesso rinnovò profondamente: è il caso del romanzo, del poema epico, della satira, del genere pastorale e, naturalmente, della novellistica.

Il Teseida [1339-1340] Il Teseida è un poema epico in dodici libri, in ottave. Dedicato a Fiammetta, l’opera narra la vicenda di due amici, Arcita e Palemone, che nella città di Atene governata dal mitico re Teseo (da cui il titolo dell’opera) si contendono la mano della giovane Emilia, sorella della regina delle Amazzoni. Sfidatisi a duello, la vittoria arride ad Arcita il quale, mortalmente ferito, sposa Emilia con la clausola che ella, alla sua morte, accetti di risposarsi con Palemone. Al tema della passione amorosa che travolge ogni altro sentimento, anche quello dell’amicizia più sincera, si intreccia il motivo della magnanimità e della generosità, valori cavallereschi che Boccaccio intende celebrare.

LE OPERE Le opere in volgare La Caccia di Diana [1334] La Caccia di Diana è un poema allegorico in diciotto canti, in terzine dantesche; argomento è una battuta di caccia che coinvolge alcune nobildonne napoletane; ribellatesi a Diana, divinità vergine, per seguire Venere, dea dell’amore, le donne sono ricompensate con la trasformazione degli animali catturati in giovani amanti.

La Comedia delle ninfe fiorentine [1341-1342]

Il Filocolo [1336-1338] Il Filocolo è un romanzo in prosa in cinque libri. Nella cornice Fiammetta (Maria d’Aquino, figlia di re Roberto d’Angiò) prega Boccaccio di narrare la vicenda di Florio, principe di stirpe regale, e Biancifiore, un’orfana. La storia, di origine orientale, era già da tempo diffusa in Francia e in Italia in numerose versioni: l’amore tra i due giovani è ostacolato per ragioni sociali dai genitori del ragazzo; quando Biancifiore viene venduta a dei mercanti, Florio cambia il proprio nome in Filocolo (“fatica d’amore”, secondo un’errata etimologia dell’autore) e si mette alla sua ricerca; dopo averla ritrovata, scopre che anche lei è di nobili natali, e può dunque sposarla. Tre sono i messaggi principali dell’opera: l’amore nasce dalla nobilità dell’animo e non conosce vincoli economici o sociali; sostanza del vero amore è la fedeltà coniugale, mentre la concupiscenza, soprattutto se viola la sacralità del matrimonio, è da condannare; il vero amore supera ogni ostacolo, anzi nelle prove e nelle difficoltà cresce e si rafforza.

La Comedia delle ninfe fiorentine è un prosimetro, noto anche con il titolo di Ninfale d’Ameto. Ambientata in un paesaggio agreste, l’opera racconta del rozzo pastore Ameto il quale, in seguito all’incontro con sette bellissime ninfe, si libera dei tratti selvatici e attraverso un cammino di raffinamento interiore giunge alla gioia suprema che consiste nella contemplazione della divinità. Riprendendo temi stilnovistici, Boccaccio celebra la bellezza femminile che ispirando nell’uomo l’amore, inteso come passione sublimante, lo guida a distaccarsi dalle passioni terrene per elevarsi alle realtà trascendenti.

L’Amorosa visione [1342-1343] L’Amorosa visione è un poema enciclopedico-allegorico in cinquanta canti, in terzine dantesche. Una donna bella e gentile appare in sogno al poeta e gli propone un viaggio alla ricerca della vera felicità; giunti a un castello, ella gli mostra due porte: quella piccola e stretta che conduce ai beni eterni e quella ampia e agevole che conduce ai beni mondani. Attratto da quest’ultima, il poeta è condotto in due sale splendidamente affrescate, in cui sono illustrati i beni terreni e la loro precarietà, do-

Il Filostrato [1335 o 1339] Poema epico in nove canti, in ottave, il Filostrato è ispirato a un episodio della guerra di Troia. Racconta delG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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no come sono della volubilità della sorte; condotto infine alla contemplazione dei beni spirituali, il poeta comprende come solo questi, conquistati a prezzo di sacrifici e fatiche, possano donare la vera felicità.

Il titolo Alla lettera il titolo grecizzante significa Dieci giornate, con allusione alla struttura narrativa del testo; ma come l’antico Exameron di sant’Ambrogio era dedicato alle “sei giornate” della creazione divina per mezzo della Parola, così i protagonisti dell’opera di Boccaccio intendono, tramite la parola e il racconto, ricreare artisticamente il mondo guastato dal male.

L’Elegia di madonna Fiammetta [1343-1344] L’Elegia di madonna Fiammetta è un romanzo in prosa composto da un prologo e nove capitoli. In una lunga confessione in prima persona Fiammetta, fanciulla napoletana, racconta d’essersi innamorata di un mercante fiorentino, Panfilo; la storia d’amore è interrotta dal ritorno dell’uomo a Firenze. Fiammetta soffre per il distacco e la lontananza, poi è assalita dal tormento e dalla gelosia alla notizia del tradimento da parte dell’amato, innamoratosi di un’altra donna; infine si riapre alla speranza nell’attesa del prossimo ritorno di Panfilo a Napoli. Il lungo monologo sembra anticipare il moderno romanzo psicologico: nonostante l’alto profilo letterario e la forte componente retorica, Boccaccio analizza con finezza di introspezione i moti dell’animo di un’amante abbandonata e tradita, con la significativa novità che la protagonista è una donna, non più solo oggetto d’amore, ma personalità emotivamente ricca e attiva.

La struttura Durante la peste che nel 1348 sconvolge Firenze, un’«onesta brigata» composta da sette ragazze e tre ragazzi si rifugia in una villa presso Fiesole. Qui tra gli altri passatempi i giovani raccontano per dieci giorni una novella a testa, a tema libero nella prima e nella penultima giornata, mentre nelle altre il tema è stabilito dal “re” o dalla “regina” eletto di volta in volta. Ecco i temi: II giornata, raggiungimento dell’obiettivo desiderato contro ogni speranza; III giornata, raggiungimento dell’obiettivo desiderato dopo varie peripezie; IV giornata, amori dall’esito infelice; V giornata, amori dall’esito felice; VI giornata, battute argute e risposte pronte che risolvono situazioni pericolose; VII giornata, beffe e inganni orditi dalle donne ai danni dei mariti; VIII giornata, beffe e inganni orditi tra uomini e donne; X giornata, esempi di grandezza d’animo e di generosità. Come Petrarca aveva raccolto e orchestrato le sue liriche in un “canzoniere”, così Boccaccio realizza un “novelliere” strutturalmente coerente. In particolare la prima e l’ultima novella sembrano racchiudere la molteplice umanità oggetto del narrare fra due poli opposti, negativo il primo (ser Ciappelletto) e positivo l’ultimo (Griselda), realizzando così un percorso ascensionale. Diversi episodi e novelle hanno spiccato carattere metaletterario: a essi Boccaccio affida le sue riflessioni sui fini, l’arte e i modi del novellare.

Il Ninfale fiesolano [1344-1346] Il Ninfale fiesolano è un poemetto in ottave di ambientazione agreste. Nelle campagne di Fiesole il pastore Africo si innamora della ninfa Mensola, devota a Diana e perciò obbligata alla castità; l’insistenza di Africo supera le resistenze della ninfa e alla fine i due divengono amanti, ma Mensola, temendo l’ira di Diana, abbandona il pastore che si uccide. Scopertasi incinta, la ninfa si rifugia in una grotta dove dà alla luce il bellissimo Pruneo, ma scoperta da Diana è tramutata in fiume, mentre il bimbo è affidato alla madre di Africo. Il protagonista maschile incarna la virilità anche nei suoi aspetti più irruenti e aggressivi, mentre nel personaggio di Mensola l’autore analizza il graduale passaggio dalla ritrosia al contraccambio e all’estasi sensuale, per poi passare al dubbio, al timore, e ancora alla gioia della maternità. Il significato simbolico della vicenda è racchiuso nello scontro tra Diana, che incarna la repressione della naturale passione d’amore, e Venere, in cui l’amore stesso si riduce a istinto e appetito sessuale. La felicità per l’uomo consiste in una legge morale che non reprima l’amore, ma tenga a freno la concupiscenza incanalandola nell’alveo del matrimonio.

Le fonti Se la misura complessiva dell’opera (cento novelle) sembra suggerita dalla Commedia dantesca, il motivo dell’«onesta brigata» che si rifugia nel mondo dei racconti per sfuggire a un pericolo deriva da tradizioni orientali (Le mille e una notte, Il libro dei sette savi); vero è che l’immagine del gruppo di giovani che si dà convegno in un giardino compare già in altre opere dello stesso Boccaccio e probabilmente risente di esperienze autobiografiche maturate negli anni napoletani. Per i temi delle singole novelle Boccaccio si ispirò a fonti classiche (come Seneca e Apuleio) e medievali (come il Novellino, la Legenda aurea di Jacopo da Varazze e i lais di Maria di Francia), nonché alla tradizione orale. I nuclei tematici Nelle novelle Boccaccio passa in rassegna l’intera gamma delle esperienze umane, alternando vari toni, temi e personaggi; a prevalere sono comunque i nuclei tematici della fortuna, dell’intelligenza, dell’amore e della comicità. 1. Nelle novelle l’uomo si confronta continuamente con la fortuna, intesa come sorte capricciosa, che determi-

Il Decameron [1348-1353] Il Decameron è una raccolta di cento novelle inquadrate in una cornice narrativa. Iniziata dopo la peste del 1348, l’opera venne ultimata probabilmente attorno al 1353, anche se Boccaccio continuò a rivederla fino al 1370 circa, epoca cui risale la stesura definitiva autografa. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME 1 Il Trecento

na il successo o il fallimento di ogni iniziativa; all’uomo non rimane che prenderne atto e mettere a frutto ogni risorsa per ottenere i propri scopi, sapendo comunque che abbandonarsi irrazionalmente alle passioni comporta sempre esiti negativi. 2. Intelligenza, audacia e spirito di iniziativa sono le virtù operative cui l’uomo si deve affidare nel tentativo di interagire positivamente con la sorte, che rimane comunque arbitra ultima di ogni esito. Boccaccio rinuncia a offrire un modello normativo dell’agire umano, limitandosi a catalogarne le molteplici e contraddittorie sfaccettature. 3. L’uomo per sua natura aspira alla felicità, che si identifica per lo più con il possesso della persona amata. Questa aspirazione, a volte favorita e a volte ostacolata dalla sorte, può avere esito fortunato o tragico, ma è sempre stimolo fondamentale per accendere nell’uomo e nella donna la sagacia e lo spirito di iniziativa. L’autore sottolinea a più riprese come la sessualità sia solo un aspetto, e il più basso e rozzo, della passione amorosa, mentre nella sua forma più alta l’amore è forza che conduce l’uomo a raffinarsi e a innalzarsi al di sopra di se stesso. 4. Il riso è per Boccaccio ingrediente altrettanto indispensabile, accanto all’amore, per una vita felice. In particolare le giornate VI, VII e VIII ci offrono un campionario delle infinite sfaccettature del comico, che assume spesso i tratti della beffa, ordita ora per ottenere un vantaggio concreto, ora solo per mettere alla prova l’ingegno del beffatore di fronte all’ingenuità del beffato.

gare) a seconda delle situazioni narrative sulle quali sono plasmati il lessico e la sintassi, in ossequio al principio della verosimiglianza. In questo senso Boccaccio sembra aver ben compreso la lezione dello sperimentalismo dantesco della Commedia, che nasceva dalla contaminazione di modelli espressivi eterogenei.

Il Trattatello in laude di Dante [1355] Prima biografia dantesca, il Trattatello in laude di Dante è scritto con un intento celebrativo più che documentario, come si evince dall’uso poco scrupoloso delle fonti storiche e dal largo spazio concesso all’aneddottica, anche di sapore leggendario.

Il Corbaccio [1365-1367] Il Corbaccio è un’opera satirica in prosa contro le donne. Boccaccio è innamorato di una bella vedova che però lo respinge; in sogno si ritrova in una selva dove l’anima del defunto marito di lei gli elenca i difetti delle donne e lo invita a cercare negli studi la vera felicità. Incerto è il significato del titolo: dallo spagnolo corbacho, “frusta”, dall’italiano “corvo” o dal latino corbacium, “cesta di letame”. Il carattere autobiografico dell’opera fa supporre che Boccaccio, ormai avanti negli anni, voglia prendere le distanze dagli appetiti sessuali propri della gioventù e assieme dalla cultura cortese che nell’amore aveva indicato il culmine dell’esperienza esistenziale e artistica.

Il contesto sociale Il Decameron mette in scena la società del tempo in tutte le sue contraddittorie componenti economiche e sociali; dei vari ceti, e in particolare di quelli nobiliare e mercantile, Boccaccio analizza pregi e difetti senza pregiudizi, proponendo un nuovo modello di ordine civile frutto di un equilibrio armonico fra lo spirito pratico, scaltro e calcolatore della borghesia e quello della nobiltà, caratterizzato da liberalità e magnanimità, dignità e decoro.

Le opere latine Le Genealogie deorum gentilium [circa 1360] Sono una compilazione antiquaria in quindici libri dedicata alla mitologia classica e basata su fonti greche, latine, medievali e contemporanee. Boccaccio dà prova della sua straordinaria ed eclettica cultura e assieme coglie l’occasione per difendere la letteratura, il cui compito è trasmettere verità (come fanno la filosofia e la teologia) in belle forme.

Gli scopi dell’opera Fin dal proemio dell’opera Boccaccio segnala come sia suo intendimento offrire al lettore assieme «diletto di sollazzevoli cose e utile consiglio su ciò che sia da fuggire e da seguitare». Già l’«onesta brigata» assume il valore esemplare di un’umanità tollerante e capace di apprezzare posizioni diverse, all’insegna di un blando edonismo perseguito con equilibrio e misura. Dalle novelle emerge un vero e proprio progetto educativo che rinuncia a proporre rigide regole di comportamento per fare leva invece, di fronte a un mondo contraddittorio e mutevole, sulla capacità di analisi e sullo spirito critico.

Il De casibus virorum illustrium [circa 1355-1370] L’opera è una compilazione antiquaria in nove libri che raccoglie le storie esemplari di personaggi famosi, da Adamo ai contemporanei, caduti nella sventura per i loro vizi.

Lo stile Di fronte alla complessità del reale Boccaccio adotta uno sguardo disponibile, libero da pregiudizi, censure o semplificazioni; in questo consiste il suo realismo. Stilisticamente la sua prosa è studiata per adattarsi a registri molto diversi (solenne, elementare, cortese, volG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Il De mulieribus claris [1361-1362] Si tratta di 104 biografie di donne celebri, da Eva alle contemporanee, composte allo scopo di esaltare e celebrare le virtù femminili.

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I classici • Niccolò Machiavelli Sintesi svolta

VOLUME 1 L’Umanesimo e il Rinascimento

NICCOLÒ MACHIAVELLI PERCHÉ MACHIAVELLI È UN CLASSICO?

Gli anni della scrittura Coinvolto nella congiura antimedicea del 1513, venne arrestato e torturato. Liberato in seguito all’amnistia concessa in occasione dell’elezione di papa Leone X, si ritirò a vita privata dedicandosi alla composizione delle sue opere maggiori: Il principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Falliti i tentativi di riconciliarsi con i Medici e di ritornare alla politica attiva, Machiavelli approfondì i suoi studi umanistici frequentando gli Orti Oricellari e gli intellettuali che vi si riunivano; qui ambientò il dialogo dedicato all’Arte della guerra (1519-1520). Si dedicò anche al teatro, traducendo dal latino l’Andria (1517) di Terenzio e componendo la Mandragola, rappresentata con grande successo durante il carnevale del 1518. Finalmente nel 1520 il cardinale Giulio de’ Medici gli fece commissionare pubblicamente la stesura delle Istorie fiorentine; seguì una missione diplomatica a Lucca, da cui nacque la Vita di Castruccio Castracani.

1. Perché dalle sue opere emerge l’intelligenza di un uomo politico che meglio di ogni altro sapeva leggere dietro le maschere del potere. 2. Perché il suo Principe è un autentico monumento di sagacia politica e psicologica, che fa discutere ancora ai giorni nostri. 3. Perché la categoria del “machiavellismo”, sinonimo di astuzia, spregiudicatezza e opportunismo, è ancora oggi estremamente attuale e controversa.

LA VITA [1469-1527] La giovinezza Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469 da Bernardo, giurisperito, appartenente alla fazione antimedicea e per questo ridotto in povertà. Niccolò non poté frequentare l’università e venne educato nella ricca biblioteca paterna. La situazione mutò con la caduta dei Medici (1494) e l’avvento di Savonarola.

Gli ultimi anni La stima di Giulio de’ Medici, eletto papa nel 1525 con il nome di Clemente VII, permise a Machiavelli di riassumere importanti incarichi militari e diplomatici, tuttavia il sacco di Roma del maggio 1527, evento che costrinse i Medici alla fuga, spinse il nuovo governo repubblicano ad allontanare nuovamente Machiavelli da tutti gli uffici, questa volta considerandolo compromesso con i Medici. Malato e amareggiato, morì il 21 giugno del 1527.

Gli anni del cancellierato Dopo la scomunica e l’esecuzione di Savonarola, nel 1498, Machiavelli, pur privo di esperienza diplomatica, venne nominato segretario della seconda cancelleria della repubblica nonché dei Dieci di libertà e di pace. Negli anni successivi viaggiò spesso per le incombenze legate alla guerra contro Pisa e nel 1500 risiedette per sei mesi in Francia con incarichi diplomatici. Nacquero da queste esperienze i suoi primi scritti: Discorso sopra Pisa (1499) e De natura gallorum (1503). Nel 1502 Piero Soderini, eletto gonfaloniere a vita, fece di Machiavelli il proprio braccio destro, affidandogli gli incarichi diplomatici più delicati; Niccolò conobbe Cesare Borgia e seguì a Roma il conclave che elesse papa Giulio II. Inviato nel 1507 in Germania presso la corte imperiale, dedicò a questa esperienza tre scritti: Rapporto di cose della Magna (1507-1508), Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’imperatore (1509), Ritratto delle cose della Magna (1512). Convinto Soderini della necessità di reclutare fanterie cittadine di leva da affiancare alle truppe mercenarie, si occupò del loro addestramento e approvvigionamento. La vittoria di Firenze sulla città di Pisa nel 1509 fu un grande successo personale per Machiavelli, il cui prestigio raggiunse il culmine. La sconfitta dei francesi a Ravenna nel 1512 a opera delle forze della Lega santa costrinse però Soderini alla fuga e consentì ai Medici di riprendere il potere: Machiavelli offrì i propri servigi ma venne rimosso da ogni incarico e condannato al confino e a pagare una forte ammenda. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

LE COSTANTI LETTERARIE La politica come guerra Le esperienze diplomatiche in Germania e in Francia mostrarono a Machiavelli il divario fra le grandi monarchie europee e i deboli stati italiani; dagli eventi di cui fu testimone ricavò la lezione che la politica si risolve in una prova di forza, e che per sopravvivere uno stato deve disporre di istituzioni solide, truppe affidabili e notevoli risorse finanziarie. Mancando la forza militare ed economica, unite alla scaltrezza e all’astuzia, ogni altra virtù, morale come politica, risulta inefficace. Il metodo induttivo Per Machiavelli le regole di comportamento in campo politico vanno desunte dall’esperienza della realtà presente e dallo studio della storia antica, la speculazione astratta non giova a nulla. Il ragionamento induttivo caratterizza già lo stile degli scritti del periodo del cancellierato con il caratteristico andamento apodittico, che non ammette obiezioni o perplessità. Politica e morale Potere centralizzato, fiscalità efficiente ed esercito temibile erano per Machiavelli le basi della solidità di uno

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VOLUME 1 L’Umanesimo e il Rinascimento

modello di stato solidamente centralizzato, e il Ritratto delle cose della Magna (1512), dove Machiavelli analizza virtù (sobrietà, moralità, amore per la libertà) e difetti (campanilismo e disunione) dei popoli tedeschi.

stato, di contro la trascuratezza di questi fattori era all’origine della debolezza degli stati italiani di fronte alle potenze straniere. In un principe come Cesare Borgia Machiavelli vedeva l’uomo politico capace di risollevare l’Italia, se interprete di una volontà condivisa. A ogni modo il bene dello stato, che consiste nel soffocare le lotte intestine e nel respingere le aggressioni esterne, a suo parere legittimava l’impiego di mezzi “immorali”, come ferocia, menzogna, tradimento. Lo spietato cinismo di Machiavelli derivava da un radicale pessimismo antropologico: gli uomini sono tutti egoisti e malvagi, e per governarli efficacemente il principe deve essere, o imparare a essere, più spietato e malvagio di loro. L’intelligenza politica è insieme scaltrezza, spregiudicatezza e capacità di fronteggiare i capricci della sorte, sfruttando quella favorevole e predisponendo per tempo ripari efficaci contro quella avversa.

Gli esperimenti poetici [1504-1512] Machiavelli scrisse in terzine dantesche due cronache degli eventi contemporanei. Il primo Decennale, relativo agli anni 1494-1504, mira a difendere l’operato del gonfaloniere Piero Soderini e a sostenere la riforma dell’esercito fiorentino: vi predomina la propaganda politica. Il secondo Decennale doveva essere dedicato agli anni 1504-1514, ma Machiavelli, estromesso dagli incarichi pubblici dopo il ritorno dei Medici, lo lasciò incompiuto. Machiavelli scrisse inoltre tre capitoli in terzine di argomento morale: Di fortuna, Dell’ingratitudine e Dell’ambizione. Il primo risale al 1506 e teorizza l’impossibilità per l’uomo di adattarsi ai capricci della sorte; il secondo, composto dopo il 1507, è autobiografico: Machiavelli vi si raffigura perseguitato dall’invidia; il terzo risale al 1509 e riflette sul cattivo esito delle aspirazioni eccessive.

LE OPERE Gli scritti del cancelliere [1499-1512] Come segretario della seconda cancelleria della repubblica e dei Dieci di libertà e di pace, compito principale di Machiavelli era la redazione di lettere ufficiali su argomenti di politica estera e militare; gli incarichi diplomatici gli imponevano inoltre di scrivere frequenti dispacci al governo. Questo lungo tirocinio gli consentì di accumulare esperienze e conoscenze, di maturare una lucida analisi critica degli eventi contemporanei, di sviluppare uno stile rapido ed efficace. Da queste esperienze nacquero inoltre diciassette testi di maggiore impegno politico e ideologico, composti prima del 1512 e divisibili in tre gruppi: scritti riguardanti Firenze e la Toscana; scritti di argomento militare; scritti di politica estera.

Il principe [1513-1514/18] La genesi Costretto al ritiro forzato dalla vita politica e al confino a San Casciano, Machiavelli decise di offrire ai Medici e ai principi italiani le proprie idee sui segreti dell’arte dello stato, maturate in quindici anni di vita politica. Ne nacque il De principatibus, che secondo alcuni critici fu composto di getto fra il 1513 e il 1514, secondo altri venne rivisto fino al 1518 e non ricevette mai una sistemazione defintiva. La prima edizione a stampa avvenne postuma nel 1532 e fu profondamente rimaneggiata dagli editori fin dal titolo, divenuto Il principe.

Gli scritti riguardanti Firenze e la Toscana In questo gruppo si segnalano il Discorso sopra Pisa (1499) e Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503). Machiavelli elabora il suo caratteristico stile asciutto e aggressivo, dal periodare epigrammatico e ricco di antitesi, nonché la tendenza a presentare gli eventi come conseguenza necessaria di premesse teoriche razionali. La storia dell’antica Roma viene per la prima volta presentata come modello per la prassi contemporanea, in virtù della sostanziale identità nel tempo delle dinamiche che regolano la vita politica e militare.

La struttura e i contenuti L’opera, introdotta da una lettera dedicatoria a Lorenzo de’ Medici, appare divisa in due parti. Nei primi undici capitoli Machiavelli analizza le dinamiche che, in ogni epoca, portano il principe a conquistare e conservare lo stato; in particolare l’autore distingue fra i vari tipi di principato: ereditario (capitolo II), misto (capitoli III-V), nuovo (capitoli VI-VIII), civile (capitolo IX), ecclesiastico (capitolo XI). Il taglio è prevalentemente teorico. Si segnalano in particolare il capitolo VII, in cui Cesare Borgia è preso a modello di principe nuovo che, arrivato al potere per fortuna e appoggio altrui, ha saputo conservarlo con coraggio, ingegno e virtù; e il capitolo VIII, in cui crudeltà e scelleratezza, se «bene usate», sono indicate come strumenti utili al bene dello stato, stabilendo un’autonomia reciproca fra politica e moralità. I capitoli dal XII al XXVI, di taglio più “militante” e più le-

Gli scritti di argomento militare Ruotano tutti attorno alla necessità di affiancare, alle inaffidabili truppe mercenarie, milizie cittadine bene armate, bene addestrate, motivate e fedeli. Gli scritti di politica estera Dalle missioni diplomatiche in Francia e in Germania nacquero il Ritratto di cose di Francia (1512), elogio del G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME 1 L’Umanesimo e il Rinascimento

gati all’attualità politica, sono organizzati in tre nuclei principali: il primo (capitoli XII-XIV) è dedicato al tema delle armi e consente all’autore di sottolineare nuovamente l’inaffidabilità delle truppe mercenarie e la necessità che il principe si circondi di «armi proprie». Il secondo (capitoli XV-XXIII) analizza le qualità dell’uomo di governo; Machiavelli distingue fra “etica ideale” e “etica effettuale” e, rigettando le teorizzazioni classiche e umanistiche, conferma sulla base dell’esperienza come un comportamento immorale sia spesso garanzia di successo politico, stante la natura degli uomini, egoisti e inaffidabili, e i loro reciproci rapporti, per lo più basati su violenza e prevaricazione. Il “buon” principe dovrà dunque essere risoluto e spietato, pronto a usare la forza e la frode, mirando a farsi temere più che amare dai sudditi. Il terzo nucleo affronta la situazione storico-politica dell’Italia contemporanea (capitoli XXIV-XXVI): in particolare il capitolo XXV è dedicato ai rapporti tra virtù e fortuna, mentre il XXVI contiene un’esortazione ai Medici a guidare la liberazione dell’Italia dagli stranieri.

do (trentatré capitoli) è dedicato alla politica estera e all’organizzazione militare. Il terzo (quarantanove capitoli) illustra il contributo delle singole personalità alla grandezza della comunità statale. L’opera appare sostanzialmente disomogenea: Machiavelli vi mette a frutto l’esperienza maturata in tanti anni, affrontando una grande molteplicità di questioni particolari, non senza contraddizioni. I contenuti Convinto che la storia umana abbia un andamento ciclico e che la natura dell’uomo non muti nel tempo, Machiavelli ritiene fondamentale lo studio del passato e in particolare della civiltà romana come guida nella prassi quotidiana. La lezione fondamentale è che un sistema istituzionale solido e credibile è indispensabile per ordinare e regolare il conflitto sociale, in sé ineliminabile; arginare la tendenza alla sopraffazione, propria di chi detiene il potere; educare all’obbedienza civile e al primato dell’interesse collettivo i cittadini, naturalmente portati al perseguimento di interessi egoistici. Fondamentale appare il ruolo della religione, che dovrà essere adeguatamente utilizzata allo scopo di suscitare la coesione sociale.

La lingua e lo stile Rinunciando agli ornamenti retorici, Machiavelli ricorre a una scrittura concentrata e a uno stile rapido e incisivo. La compressione delle argomentazioni si traduce sul piano sintattico nel procedere dilemmatico del discorso; sul piano lessicale, nel ricorso a vocaboli ed espressioni ora di gusto latineggiante, ora più icastiche e colloquiali, nonché a immagini e paragoni di notevole suggestione (celebre fra tutte è l’accostamento del principe assieme alla «volpe» e al «lione»).

L’Arte della guerra [1519/1520-1521] La genesi e la struttura Si tratta di un trattato in sette libri, iniziato nel 1519 e pubblicato nel 1521, in forma di dialogo tra l’anziano condottiero Fabrizio Colonna e i giovani intellettuali riuniti negli Orti Oricellari.

Le fonti Machiavelli attinge dall’esperienza diretta della storia contemporanea e in misura minima da fonti classiche (Livio, Plutarco, Svetonio, Erodoto). Con la tradizione si confronta per lo più polemicamente, sottolineando la novità radicale rispetto al passato dei criteri utilizzati nella sua analisi politica.

I contenuti Machiavelli sviluppa in modo sistematico un tema già affrontato in precedenza: l’arte della guerra. Dall’analisi della struttura militare dell’antica Roma emergono le ragioni dell’attuale decadenza militare degli stati italiani. Viene ribadito come la sicurezza dello stato dipenda dalla sua capacità militare e come la preparazione della guerra debba essere preoccupazione principale dell’uomo di governo. All’inaffidabilità degli eserciti mercenari viene contrapposta la superiorità delle armi proprie, con connessa discussione su forme e modi dell’arruolamento e dell’addestramento. Non mancano punti deboli, come la netta sottostima della crescente importanza delle armi da fuoco.

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio [1512/13-1523/24] La composizione Iniziata forse anteriormente al 1512, la composizione fu ripresa nel 1513, interrotta per la composizione del Principe, riavviata negli anni della frequentazione degli Orti Oricellari (1515-1516) e conclusa intorno al 1524. Anche i Discorsi furono pubblicati postumi, nel 1531.

La Vita di Castruccio Castracani [1520]

La struttura Machiavelli espone le proprie idee sui caratteri del governo repubblicano, presentandole come discussione su alcuni passi dello storico latino Tito Livio. L’opera è divisa in tre libri: nel primo (sessanta capitoli) è contenuta una trattazione sistematica su peculiarità costituzionali, ragioni genetiche e fattori di decadenza dello stato repubblicano, di cui vengono analizzati in modo particolare i meccanismi della politica interna. Il seconG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

La Vita di Castruccio Castracani è una biografia romanzesca del condottiero che fu signore di Lucca fra 1316 e 1328, nonché uno dei capi del partito ghibellino in Italia. Di scarso valore storiografico, la Vita, che contiene inesattezze e spregiudicate alterazioni della realtà, si pone a metà strada fra l’esercizio di stile e l’opera a tesi: la vicenda di Castruccio è proposta come emblema del ruolo della sorte nella vita politica e militare.

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VOLUME 1 L’Umanesimo e il Rinascimento

mezzo in nome del gretto tornaconto personale. La commedia è caratterizzata da un’estrema concentrazione e rapidità dell’azione drammatica, mentre dal punto di vista linguistico notevole è la capacità dell’autore di adattare al carattere di ogni personaggio un preciso registro linguistico.

Le Istorie fiorentine [1520-1525] Commissionata ufficialmente dal cardinale Giulio de’ Medici, l’opera fu composta tra il 1520 e il 1525. Il testo è diviso in otto libri: dopo una sintesi della storia d’Italia dalla caduta dell’impero romano (476), Machiavelli ricostruisce la storia di Firenze dal 1215 al 1492 (anno della morte di Lorenzo il Magnifico). Ancora una volta l’autore usa le fonti in modo sbrigativo o spregiudicato, e ancora una volta l’opera è a tesi: più che ricostruire il passato a Machiavelli preme dimostrare come il principato sia l’unica istituzione capace di garantire a Firenze pace e stabilità dopo secoli di discordie, divisioni e lotte civili.

Le lettere Delle migliaia di lettere scritte da Machiavelli durante la sua vita ce ne sono pervenute all’incirca 110: circa venti risalgono al periodo antecedente il 1512 e sono per lo più documenti ufficiali che rientrano a pieno titolo fra gli scritti politici; le circa novanta di epoca successiva sono invece di carattere privato e familiare e i temi vanno dalla sfogo autobiografico, alla meditazione morale e politica, all’evasione lirica o giocosa. Particolare importanza assumono due carteggi, caratterizzati da grande confidenza e assieme dall’incondizionata ammirazione da parte degli interlocutori: quello con Francesco Vettori e quello con Francesco Guicciardini. Nelle lettere a Francesco Vettori (anni 1513-1514) Machiavelli alterna discussioni impegnate sulla situazione diplomatica e militare del tempo a momenti burleschi e ridanciani; in quelle indirizzate a Francesco Guicciardini, risalenti agli anni venti, prevalgono la lucida analisi della realtà contemporanea e le pessimistiche previsioni sul futuro dell’Italia.

Le opere teatrali Machiavelli esordì come traduttore: al 1517-18 risale l’Andria, traduzione in prosa di una commedia del latino Terenzio; al 1525 la Clizia, rielaborazione della Casina del latino Plauto; sono andate perdute Le maschere (dalle Nuvole del greco Aristofane) e La sporta (dall’Aulularia di Plauto). Originale è invece la Mandragola: il tema dell’opera è l’inganno ordito dallo scaltro Ligurio per consentire a Callimaco di sedurre la bella e onesta moglie dell’anziano e sciocco Nicia. Machiavelli mette in scena un’umanità dominata dall’egoismo e disposta a usare qualunque

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I classici • Ludovico Ariosto Sintesi svolta

VOLUME 1 L’Umanesimo e il Rinascimento

LUDOVICO ARIOSTO l’esercito imperiale, gli offrì una pensione. Nel 1532 venne pubblicata la terza e definitiva edizione dell’Orlando furioso. Malato da tempo, si spense a Ferrara il 6 luglio del 1533.

PERCHÉ ARIOSTO È UN CLASSICO? 1. Perché fu il più dotato poeta del Rinascimento italiano ed europeo. 2. Perché l’equilibrio e l’armonia dello stile fanno del suo Orlando furioso un “classico” a tutti gli effetti. 3. Perché il poema cela, sotto una superficie levigata, ansie e inquietudini che ne fanno un’opera straordinariamente moderna. 4. Perché nell’era dei cervelli elettronici ci ricorda, come sottolineò Italo Calvino, come «l’intelligenza viva anche, e soprattutto, d’immaginazione e d’ironia».

LE COSTANTI LETTERARIE L’intreccio tra arte e vita Centrale nell’opera ariostesca è il rapporto dialettico tra vita e invenzione letteraria: la poesia può essere uno spazio fantastico di fuga dalla realtà, oppure un’occasione per un’ironica denuncia delle menzogne e delle false certezze degli uomini, oppure ancora uno specchio in cui si riflettono i lati più solari e insieme i più oscuri del reale.

LA VITA [1474-1533] La nascita e la giovinezza Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia l’8 settembre 1474 da Niccolò, capitano della cittadella di Reggio per conto di Ercole I d’Este, duca di Ferrara. A Ferrara compì i primi studi e all’università, per volere del padre, seguì i corsi di diritto, abbandonandoli però nel 1479 per dedicarsi agli studi letterari. Divenuto capofamiglia in seguito alla morte del padre nel 1500, per mantenere i numerosi fratelli accettò l’incarico di capitano della rocca di Canossa per conto della famiglia d’Este.

Lo sperimentalismo Lo stile poetico di Ariosto è sperimentale e polifonico, nel senso che accoglie e armonizza personaggi, vicende, modelli, forme, parole che provengono dall’esperienza della vita come dalle più disparate tradizioni letterarie. L’inafferrabilità della vita L’Orlando furioso incarna la visione ariostesca di una vita inafferrabile, che sfugge a ogni possibilità di comprensione e definizione: la saggezza consiste nell’accettare serenamente questo stato di cose.

Al servizio del cardinale Ippolito Nel 1503 entrò al servizio del cardinale Ippolito d’Este, vescovo di Ferrara. Alle sue dipendenze fu ambasciatore, diplomatico, cameriere e accompagnatore. Visse una vita senza colpi di scena, divisa tra gli obblighi di corte e l’impegno letterario. Nel 1508 compose la commedia La cassaria, rappresentata a corte, seguita da I suppositi (1509) e Il negromante (1520). Nel 1513 conobbe a Firenze Alessandra Benucci, cui si legò segretamente allorché rimase vedova. Nel 1516 pubblicò la prima edizione dell’Orlando furioso. Quando nel 1517 Ippolito si trasferì in Ungheria, Ludovico si rifiutò di seguirlo, perdendo temporaneamente l’impiego a corte.

La vera felicità Nell’Orlando furioso, Angelica è allegoria della vana ricerca umana della felicità nelle illusioni di fama, ricchezza e potere. L’uomo dovrebbe invece cercare la felicità dentro di sé, nel mondo degli affetti domestici e delle relazioni quotidiane, ma spesso è troppo accecato dalle illusioni per riuscire a scorgerla.

LE OPERE

Al servizio del duca Alfonso Nel 1518 passò al servizio del duca Alfonso d’Este, svolgendo ancora missioni diplomatiche e incarichi di rappresentanza e iniziando la revisione dell’Orlando furioso, di cui pubblicò nel 1521 la seconda edizione. Dal 1522 al 1525 fu governatore e commissario della difficile regione della Garfagnana, incarico che portò a termine rivelando doti di equilibrio e fermezza.

La produzione lirica [1502-1532]

Gli ultimi anni Diminuite le incombenze di corte, negli ultimi anni vide consacrata la propria fama di poeta e si dedicò principalmente al teatro. Nel 1528 venne rappresentata a corte La Lena, l’anno seguente una nuova versione della Cassaria. Nel 1531 Alfonso di Avalos, comandante del-

Le poesie in volgare Sono versi d’occasione dedicati per lo più all’amore per Alessandra Benucci e, in rari casi, a tematiche politiche o celebrative, e si segnalano per una dipendenza non esclusiva dal modello petrarchesco, integrato con la lezione dei classici. Ariosto non riunì mai questi ma-

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Le poesie in latino Sono componimenti per lo più epigrammatici di argomento vario, in particolare autobiografico e amoroso. Hanno valore documentario più che artistico, come testimonianza degli studi, dei gusti e dell’apprendistato poetico dell’autore.

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teriali poetici in un canzoniere, selezionando e ordinando le liriche secondo un disegno tematico. L’autore pensò di stampare alcuni componimenti, ma il progetto non fu mai portato a termine.

l’autore lamenta dalla Garfagnana la lontananza da Ferrara e dalla donna amata, nonché la gravezza dell’incarico che non gli lascia spazio per la poesia. Satira quinta [1519-1521], al cugino Annibale Malaguzzi: Ariosto espone le sue scettiche riflessioni sul matrimonio e, in generale, sulla natura femminile. Satira sesta [1524-1525], a Pietro Bembo: l’autore riflette sull’importanza delle qualità morali di un maestro; la scienza e l’erudizione infatti troppo spesso stimolano al vizio più che alla virtù. Satira settima [1524], a Bonaventura Pistofilo, segretario del duca Alfonso: fedele alla sua città e alla sua donna, nonché ormai lontano da ogni illusione di carriera, l’autore rinuncia a un prestigioso incarico diplomatico.

La produzione teatrale [1493-1529] Ariosto esordì come autore di teatro nel 1493 con la perduta Tragedia di Tisbe. Successivamente mise in scena per la corte volgarizzamenti di commedie di Plauto e Terenzio; fu anche attore, scenografo e regista. Per il carnevale del 1508 fece rappresentare una commedia originale, La cassaria, e l’anno seguente I suppositi, ambientati a Ferrara. Seguirono, tra il 1520 e il 1532, Il negromante, I studenti (incompiuta) e La Lena, composte in endecasillabi sdruccioli, e la riscrittura in versi delle commedie precedenti. L’autore rinuncia alle celebrazioni encomiastiche per mettere in scena un mondo subalterno di servi, prostitute e furfanti. L’ultima commedia, in particolare, offre un impietoso ritratto della società ferrarese del tempo, tesa al profitto e affetta da diffidenza ed egoismo. Con queste opere Ariosto dettò il canone della drammaturgia rinascimentale: struttura regolare del testo suddiviso in cinque atti, apparato scenografico spettacolare e sfarzoso, caratterizzato dal concorso di tutte le arti (letteratura, pittura, scultura, musica, danza), contaminazione e rielaborazione di testi della tradizione classica.

L’Orlando furioso [1507-1533] La genesi L’inizio della scrittura del Furioso risale al 1502, al 1505 il disegno generale dell’opera e al 1507 la prima notizia sicura relativa alla sua avanzata composizione. In quei medesimi anni molti altri autori si stavano cimentando con la prosecuzione dell’Orlando innamorato di Boiardo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore e pubblicato postumo in edizione definitiva nel 1495. L’opera, pubblicata infine in quaranta canti nel 1516 e dedicata al cardinale Ippolito, ebbe un immediato e vasto successo. Negli anni successivi Ariosto ebbe diversi contatti con Pietro Bembo e iniziò a riflettere sul problema della lingua. La seconda edizione del 1521 fu il frutto di una revisione sostanzialmente stilistica, finalizzata a eliminare i tratti più scopertamente dialettali e “padani” per accogliere un modello linguistico “italiano” di matrice toscaneggiante. La terza edizione del 1532, in quarantasei canti, evidenzia una dilatazione della materia narrativa, una revisione storica e ideologica (in relazione alla mutata situazione contemporanea) e un’ulteriore revisione stilistica per adeguare la lingua del poema al canone petrarchesco, secondo il modello proposto da Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La morte di Ariosto nel 1533 vanificò il progetto di una quarta edizione e lasciò come opera a sé stante i Cinque canti, lungo episodio connesso con la materia narrativa del Furioso ma da esso autonomo e distinto, anche per il tono cupo e amaro.

L’epistolario [1498-1532] Di Ariosto ci rimangono 214 lettere di carattere professionale e dettate per lo più da urgenze pratiche. Si tratta di preziosi documenti biografici, da cui emerge non tanto il letterato, quanto piuttosto il funzionario di corte.

Le Satire [1517-1525] Si tratta di sette epistole in versi (terzine di endecasillabi) indirizzate a interlocutori reali. Ariosto prende spunto dal modello offerto dalle Satire e dalle Epistole del poeta latino Orazio per creare un prodotto nuovo. Ariosto trae inoltre ispirazione da eventi autobiografici per mettere progressivamente a fuoco la propria visione del mondo. Satira prima [1517], al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno: l’attaccamento a Ferrara e a una vita sobria, dedita agli affetti, ha spinto l’autore, molto polemico contro l’adulazione cortigiana, ad abbandonare il servizio del cardinale Ippolito. Satira seconda [1517], al fratello Galasso: l’autore preferisce la sobria vita ferrarese ai vantaggi di un eventuale trasferimento a Roma. Satira terza [1518], al cugino Annibale Malaguzzi: l’autore difende la propria scelta di una vita serena e tranquilla, ricca di esperienze interiori più che esteriori. Satira quarta [1523], al cugino Sigismondo Malaguzzi: G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

L’argomento I personaggi e le vicende sono attinti dall’Orlando innamorato di Boiardo. Al motivo amoroso si intreccia quello guerresco, l’autore contamina così tradizione carolingia e tradizione arturiana. Innamorato di Angelica, il paladino Orlando ha abbandonato la guerra; respinto e tradito, finisce per impazzire. Parallelamente viene sviluppata la storia d’amore tra Ruggiero e Bradamante, all’origine della famiglia degli Este. Al blocco narrativo principale si intrecciano altre vicende ispirate a fonti diverse: romanzi francesi, cantari, tradizione novellistica, autori classici. Questo ete-

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storie che si svolgono parallelamente. Ariosto riprende dalla tradizione arturiana, canterina e boiardesca la tecnica dell’intrecciamento – entrelacement – che consiste nel legare armonicamente fra loro episodi tematicamente e stilisticamente diversi, passando con leggerezza ed eleganza dall’uno all’altro, così da mantenere sempre desta l’attenzione del lettore, ma assieme esercitando un costante controllo sui vari intrecci, per evitare che il tutto appaia come un coacervo disordinato. Dall’impiego sistematico di questa tecnica deriva la struttura labirintica dell’opera, in cui i personaggi si perdono e si ritrovano inaspettatamente, gli episodi si interrompono sul più bello per essere ripresi successivamente da un punto di vista diverso e sorprendente.

rogeneo repertorio viene organizzato in un’opera organica e coerente, in cui l’invenzione è sempre attentamente sorvegliata. La trama Angelica fugge da Parigi inseguita dai suoi spasimanti (cristiani e saraceni); dopo diverse avventure è catturata dai pirati che la offrono in pasto a un’orca marina. Nel frattempo la guerriera cristiana Bradamante, con l’aiuto della maga Melissa, ha sottratto l’amato Ruggiero, cavaliere saraceno, agli incanti del mago Atlante, che lo fa però rapire dall’ippogrifo; trasportato sull’isola della maga Alcina, è sedotto dai suoi sortilegi, e solo un nuovo intervento di Melissa gli permette di fuggire. In groppa al cavallo alato Ruggiero giunge appena in tempo per salvare Angelica. Successivamente Ruggiero, Bradamante e Orlando, che a sua volta ha dimenticato la guerra e i suoi doveri verso il re per cercare Angelica, vengono fatti prigionieri da Atlante in una dimora incantata [canti I-XIII]. Agramante guida l’esercito saraceno all’assalto di Parigi, approfittando dell’assenza dei paladini di Carlo Magno. Angelica, giunta sul campo di battaglia, salva la vita al giovane guerriero saraceno Medoro e se ne innamora; dopo averlo sposato nella casa di un pastore, intraprende con lui il viaggio di ritorno verso la sua terra, il Catai. Quando Orlando viene a saperlo, impazzisce dal dolore. Nel frattempo la gelosia inquina la storia d’amore fra Ruggiero e Bradamante, che sospetta un tradimento con la bella guerriera Marfisa; dopo avere affrontato e vinto molteplici duelli, Bradamante scopre però che Marfisa è in realtà la sorella di Ruggiero [canti XIV-XXX]. Astolfo in groppa all’ippogrifo sale sulla Luna guidato da san Giovanni Evangelista; qui finisce infatti tutto ciò che si perde sulla Terra, e in particolare il senno di Orlando. Rinsavito, il paladino attacca il regno di Agramante costringendolo ad abbandonare l’assedio di Parigi. L’esito della guerra è affidato a un duello fra tre campioni saraceni e tre campioni cristiani: la vittoria va a questi ultimi, ma la gioia è funestata dalla morte di Brandimarte, amico fraterno di Orlando. Nel frattempo Ruggiero si è convertito al cristianesimo e ha conquistato il regno di Bulgaria; può così sposare Bradamante: dalla loro unione avrà origine la casata degli Este. Anche in questo caso però la festa è funestata dal sopraggiungere del guerriero saraceno Rodomonte, che sfida Ruggiero a duello e viene ucciso. Con la sua morte si conlcude il poema [canti XXXI-XLVI].

L’ideologia L’intrattenimento del pubblico è uno ma non l’unico scopo del poema. Ariosto attraverso i suoi personaggi costruisce una brillante allegoria dell’uomo che si ostina a riporre il senso della vita e la realizzazione di sé nel perpetuo inseguimento dei propri desideri. Il dramma dell’esistenza sta tutto nell’incapacità dell’uomo di rinunciare ai propri sogni, per i quali è pronto anche alla sopraffazione e all’inganno, e insieme nella perenne insoddisfazione di chi è destinato a non raggiungere mai la felicità cui disperatamente aspira, perché agli sforzi dell’individuo si oppone la sorte, capricciosa e imprevedibile. Sete di gloria, amore, denaro, potere non sono altro che le maschere della follia che domina il mondo. A questa follia si oppone la saggezza, che consiste nella rinuncia e nell’autocontrollo. Il dissimulato pessimismo che caratterizza l’opera, al di là della superficie giocosa e brillante, appare come una messa in guardia contro la forza, attraente quanto devastante, delle illusioni, prima fra tutte l’amore. Il punto di vista del narratore Leggendo la vita e la realtà attraverso il filtro dell’ironia, Ariosto intende smascherare le false certezze e denunciare gli inganni e le ipocrisie dell’umanità. Mantenendo un atteggiamento distaccato e dissacrante nei confronti dei propri personaggi, il poeta mette a nudo i limiti e le contraddizioni del pensare e dell’agire umano. In particolare negli esordi dei vari canti, Ariosto si riserva uno spazio per esplicite e personali riflessioni e giudizi in campo morale, storico e antropologico. Così pure la voce dell’autore interviene sovente nel corso della narrazione con osservazioni e commenti che ricollegano la materia romanzesca alla realtà contemporanea, sollecitando la riflessione del lettore.

La struttura e l’impianto narrativo Dai tre filoni narrativi principali – la guerra tra franchi e saraceni, la pazzia di Orlando, l’amore fra Ruggiero e Bradamante – si genera una serie di storie secondarie, digressioni accidentali ma dotate di una propria autonomia e compiutezza. Il poema appare così policentrico: Ariosto offre al lettore una molteplicità di azioni che avvengono contemporaneamente in spazi diversi. Uno dei caratteri strutturali del testo è dunque la simultaneità: il racconto è continuamente interrotto per consentire all’autore di passare dall’una all’altra delle G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

La lingua e lo stile Il distacco nei confronti dei personaggi e delle vicende consente uno stile narrativo estremamente oggettivo. Immediatezza, naturalezza e trasparenza, le peculiarità dello stile ariostesco individuate da Francesco De Sanctis, fanno del poema un’opera decisamente “visiva”, i cui episodi sembrano svilupparsi quasi cinematograficamente davanti ai nostri occhi. Tutto ciò è il risultato di una complessa e raffinata elaborazione

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stilistica, riconoscibile a più livelli: linguisticamente, nella progressiva rinuncia a una connotazione idiomatica, dialettale e locale, a vantaggio di un respiro nazionale e “classico”; stilisticamente, nella ricerca sistematica di forme espressive fluide, armoniose e musicali, per quanto riguarda in particolare la sintassi e le soluzioni metriche; per quanto concerne i re-

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gistri espressivi, nella tendenza a “giocare” sull’armonizzazione degli opposti, variando continuamente il tono (realistico, fiabesco, comico, tragico, lirico, grottesco, sentimentale, macabro ecc). Questo registro in apparenza caotico, in realtà polifonico e bilanciato, vuole essere specchio fedele della varietà inesauribile della vita.

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VOLUME 1 Il Manierismo

TORQUATO TASSO le di Sant’Anna, dove rimase fino al 1586, componendo molte rime, gran parte dei Dialoghi e alcuni scritti in difesa del Goffredo, ripubblicato a Ferrara nel 1581 con il nuovo titolo Gerusalemme liberata.

PERCHÉ TASSO È UN CLASSICO? 1. Perché il suo linguaggio poetico, armonicamente disarmonico, appare come la fedele rappresentazione della temperie culturale del Manierismo e dei nuovi problemi che essa suscitava nell’uomo. 2. Perché ha saputo fare della poesia non solo lo specchio del proprio tempo e della propria vita, ma anche uno strumento per indagare la realtà. Il suo progetto poetico si fondava infatti sul tentativo di restituire alla poesia un’alta dignità conoscitiva, alla pari della filosofia, della teologia e della scienza. 3. Perché, specialmente in età romantica, è stato visto come il prototipo del poeta sfortunato e perseguitato, in lotta con le istituzioni del proprio tempo.

Gli ultimi anni Liberato infine per intercessione del duca Vincenzo Gonzaga di Mantova, si trasferì nella città riprendendo la tragedia Galealto e portandola a termine con il nuovo titolo di Re Torrismondo. Ma era sempre in preda a una profonda inquietudine, che lo spinse a fuggire a Macerata, Roma, Napoli (dove compose il poemetto Monte Oliveto per i monaci olivetani che lo ospitarono), Firenze e ancora Roma. Nel 1591 fece ritorno a Mantova dove pubblicò la Prima parte delle Rime (la seconda fu pubblicata due anni dopo a Brescia). Negli ultimi anni Tasso si divise fra Napoli (dove iniziò il poema Le sette giornate del mondo creato e dove pubblicò i Discorsi del poema eroico) e Roma: qui diede alle stampe l’ennesimo rifacimento del suo poema, con il titolo di Gerusalemme conquistata (1593). Papa Clemente VIII gli concesse una pensione e gli promise l’incoronazione poetica, tuttavia Tasso non fece in tempo a ottenerla: si ammalò infatti gravemente e morì il 25 aprile del 1595.

LA VITA [1544-1595] I primi anni Nato a Sorrento l’11 marzo del 1544, Torquato a dieci anni abbandonò la città, la madre e la sorella per raggiungere a Roma il padre Bernardo, che aveva voluto seguire nell’esilio il principe Sanseverino. Padre e figlio vagarono per anni fra Urbino, Venezia, Padova, Bologna, Mantova, prima di stabilirsi a Ferrara. Nonostante la giovinezza errabonda, Torquato ebbe modo di studiare (filosofia ed eloquenza a Padova, letteratura a Bologna), di frequentare letterati e di realizzare i primi esperimenti poetici (il poema epico Gierusalemme e il romanzo cavalleresco Rinaldo).

LE COSTANTI LETTERARIE Il primo poeta “italiano” Figlio di padre bergamasco e madre pistoiese, vissuto in molte città diverse, da Napoli a Venezia, a Tasso mancò il radicamento in una particolare realtà territoriale; ciò segnò il suo temperamento irrequieto e nevrotico, ma ne fece anche il primo letterato veramente “italiano”, punto di passaggio fra l’età umanistico-rinascimentale e l’età moderna.

Al servizio degli Estensi Stabilitosi a Ferrara nel 1565, Torquato dapprima entrò al servizio del cardinale Luigi d’Este e successivamente fu assunto come cortigiano stipendiato dal duca Alfonso II. Nonostante la morte del padre, nel 1569, Torquato visse anni felici, apprezzato e stimato dalla corte; iniziò la stesura della tragedia Galealto, rappresentò a corte la favola pastorale Aminta (1573) e completò il poema epico Goffredo (1575).

Il rapporto con la cultura ufficiale Al mancato radicamento territoriale fa riscontro un mancato radicamento sociale; Tasso mantenne sempre un rapporto di amore-odio nei confronti delle corti, delle accademie e della società colta del suo tempo. In particolare nei confronti dell’ambiente delle corti manifestò un atteggiamento di disagio, se non di conflitto. Così pure fu iscritto a numerose accademie ma al tempo stesso ne subì gli attacchi – in particolare dall’Accademia della Crusca –, che molto lo addolorarono e assieme stimolarono in lui la riflessione sulla poetica.

La prigionia Seguì un periodo difficile: preda di scrupoli religiosi ed estetici, Tasso sottopose il Goffredo al giudizio di letterati e teologi e giunse ad autoaccusarsi di eresia presso l’Inquisizione di Ferrara (che lo assolse). Sempre più affetto dall’«umor melanconico» e da manie di persecuzione, arrivò ad aggredire un servo credendosi spiato; il duca lo fece imprigionare nel convento di San Francesco, da dove Tasso fuggì nel 1577. Dopo avere peregrinato fra Sorrento, Mantova, Urbino e Torino, tornò improvvisamente a Ferrara nel 1579 in occasione delle nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga; per avere dato in escandescenze e inveito contro il duca fu internato come «furioso» nell’ospedaG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

La composizione poetica e la riflessione Altra costante è la capacità di Tasso di sviluppare in parallelo la creazione poetica e la riflessione teorica. In questo egli fu un caso unico nel suo tempo: Tasso giunse ad assegnare alla poesia un ruolo conoscitivo fondamentale e ad attribuirle la dignità di una disciplina finalizzata alla verità.

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LE OPERE

colate edizioni “pirata” del Goffredo, che avevano preceduto quella del letterato Angelo Ingegneri (1581) intitolata, su iniziativa dell’editore, Gerusalemme liberata.

L’Aminta [1573]

La trama Nell’ultimo anno della prima crociata Dio invia l’arcangelo Gabriele da Goffredo di Buglione per esortarlo ad assumere il comando dell’armata cristiana. Nel frattempo a Gerusalemme il sultano Aladino, fallito il tentativo di rubare in una chiesa un’immagine della Vergine che renderebbe Gerusalemme inespugnabile, minaccia i cristiani; la bella Sofronia si immola e con lei Olindo, che ne è innamorato. I due stanno per essere arsi sul rogo, ma all’ultimo istante vengono salvati dalla guerriera pagana Clorinda. Intanto l’esercito cristiano giunge sotto le mura di Gerusalemme; durante uno scontro Clorinda affronta il guerriero cristiano Tancredi, che se ne innamora e le salva la vita, mentre il pagano Argante fa strage di cristiani. A questo punto i diavoli intervengono nel conflitto; su loro ispirazione al campo cristiano viene inviata la bellissima maga Armida, che seduce molti crociati per allontanarli da Gerusalemme. Rinaldo, il più forte guerriero cristiano, uccide in duello un compagno d’armi e, per evitare la punizione, fugge dal campo crociato [libri I-V]. Argante e Tancredi si sfidano a duello. Calata la notte e sospeso lo scontro, la pagana Erminia, segretamente innamorata di Tancredi, esce da Gerusalemme indossando l’armatura di Clorinda per far visita all’amato ferito, ma viene sorpresa dalle sentinelle e costretta alla fuga. Ospitata nell’umile dimora di un pastore, decide di abbandonare per sempre la vita di corte e le pene d’amore. Tancredi intanto, che ha inseguito Erminia scambiandola per l’amata Clorinda, è fatto prigioniero nel castello incantato di Armida. Fra cristiani e pagani la tregua d’armi è rotta e questi ultimi, sostenuti dai diavoli, hanno momentaneamente la meglio. La disperazione si impadronisce dei cristiani: gli attesi rinforzi cadono in una trappola e vengono massacrati, Rinaldo è creduto morto e contro Goffredo scoppia una rivolta sedata a fatica. Rinnovatasi la battaglia sotto le mura di Gerusalemme, i cristiani stanno per avere la peggio e vengono salvati dall’inatteso sopraggiungere di un manipolo di valorosi guerrieri: si tratta dei cavalieri fuggiti con Armida e da lei stregati; Rinaldo li ha liberati sulla strada per Antiochia [canti VI-X]. I cristiani assalgono con impeto Gerusalemme e riescono ad aprire una breccia nelle mura, anche grazie a una torre di legno. Clorinda e Argante evitano il peggio, e la battaglia è interrotta dal sopraggiungere della notte. Con il favore delle tenebre i due campioni pagani distruggono la torre, ma Clorinda non riesce a rientrare in città e si scontra con Tancredi, che non l’ha riconosciuta e al termine di un feroce duello la uccide; in punto di morte Clorinda ottiene da Tancredi il battesimo. Il mago pagano Ismeno lancia un incantesimo sulla selva che circonda Gerusalemme, impedendo ai cristiani di procurarsi legna per ricostruire la torre d’assedio. L’incantesimo potrà essere spezzato solo da Rinaldo, che però è cadu-

Si tratta di una favola (cioè una commedia) pastorale suddivisa in un prologo e cinque atti, in endecasillabi e settenari, composta nella primavera del 1573 e rappresentata nel luglio dello stesso anno dalla Compagnia dei Gelosi di fronte alla corte estense. Dietro alcuni personaggi si possono intravedere i membri della corte ferrarese. La trama Aminta ama Silvia, che rifiuta l’amore. Anche quando il giovane pastore la salva dal tentativo di violenza da parte di un satiro, la ninfa non gli dimostra alcuna riconoscenza. Quando però Silvia viene creduta morta durante una battuta di caccia, Aminta per la disperazione si getta in un dirupo; all’amaro pentimento della fanciulla fa seguito il ritrovamento del giovane, rimasto miracolosamente illeso: la vicenda può così concludersi con un lieto fine. I significati Tasso tentò di elevare la favola pastorale alla dignità della tragedia, introducendo i cori e sviluppando argomenti di sostanza filosofica, in particolare il problema del libero arbitrio e il rapporto natura-civiltà. I protagonisti vivono un amore sfasato: Aminta infatti ama Silvia, che non lo ricambia; il libero arbitrio deve misurarsi con le leggi dell’amore nei due protagonisti, che vivono ciascuno un diverso ma parallelo processo di formazione, dall’adolescenza all’età adulta, confrontandosi anche con l’esperienza della morte e giungendo faticosamente ad annullare la parte negativa di se stessi: Aminta il desiderio sessuale fine a se stesso e Silvia il pudore asociale e contro natura. Un coro è dedicato in particolare alla riflessione sul contrasto tra civiltà e natura. Se in un primo momento l’amore e la libertà (valori perduti nella società moderna e rintracciabili solo nel semplice mondo dei pastori) appaiono in netta antitesi rispetto all’onore e alla legge, il percorso di formazione compiuto dai due protagonisti mostra come in realtà questi elementi siano tra loro in rapporto dialettico: solo misurandosi con la legge morale la libertà dell’individuo può creare relazioni interpersonali autentiche, superando lo sterile egoismo.

La Gerusalemme liberata [1559-1593] La storia del testo La vicenda editoriale del poema fu lunga e complessa; al 1559 risale il primo canto del Gierusalemme, cui seguì, nel 1562, la pubblicazione del Rinaldo. Tasso riprese quindi il Gierusalemme, terminato nel 1575 con il titolo provvisorio di Goffredo; ebbe quindi inizio un profondo processo di revisione che si concluse solo nel 1593 con la pubblicazione della Gerusalemme conquistata, edizione che Tasso considerò definitiva. Nel frattempo però, mentre il poeta era detenuto a Sant’Anna, erano cirG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME 1 Il Manierismo

to vittima delle seduzioni di Armida. Con l’aiuto di un “mago naturale” (cioè uno scienziato) due cavalieri cristiani lo raggiungono e spezzano l’incantesimo; Rinaldo parte con loro, mentre Armida giura di vendicarsi [canti XI-XV]. Giunto al campo cristiano con nuove armi, su cui è istoriata la storia della casata degli Este, di cui è il capostipite, Rinaldo ottiene il perdono e spezza l’incantesimo della selva. Costruite nuove macchine d’assedio, i crociati rinnovano l’assalto ed espugnano Gerusalemme. Tancredi e Argante riprendono il duello interrotto; il campione cristiano ha la meglio, ma sviene per le ferite ed è curato da Erminia. Nel frattempo sopraggiunge l’esercito egiziano, battuto grazie alle gesta eroiche di Tancredi e Rinaldo, il quale persuade Armida a convertirsi alla fede cristiana. Il duello finale tra il comandante egiziano Emireno e Goffredo di Buglione si conclude con la vittoria di quest’ultimo, che può infine sciogliere il suo voto al Santo Sepolcro offrendo a Dio le sue armi [canti XVI-XX].

se del lettore, e garantendosi al tempo stesso la massima libertà nella narrazione dei particolari. Oggetto della poesia del resto non è il vero ma il verosimile, e ciò che conta è che quanto i personaggi dicono o fanno risulti sempre appropriato e plausibile. Nei miracoli e nelle magie, che rendono interessante l’opera, per Tasso il verosimile sposa il meraviglioso “cristiano”, in quanto si tratta di azioni operate da Dio o dal demonio. Unire insegnamento e divertimento, utile e piacevole, è l’obiettivo fondamentale di Tasso, convinto che il compito della letteratura sia la ricerca della verità. I temi Opera-mondo, la Gerusalemme liberata sviluppa moltissime tematiche, tra cui prevalgono quelle della religiosità, della natura e dell’amore. Il tema religioso è inquadrato nel cosmico conflitto fra bene e male, che coinvolge la sfera umana e quella soprannaturale; connessi a questo tema sono quelli della guerra e della magia, distinta in bianca e nera; l’esito finale non deve ingannare, perché il fatto che ai tempi di Tasso Gerusalemme fosse nuovamente in mano ai musulmani dimostra quanto la vittoria del bene su questa terra sia fragile e mai definitiva. Quanto al tema della natura, nel poema il paesaggio diviene per la prima volta elemento strutturale: non solo infatti visualizza gli stati d’animo dei protagonisti, ma si carica di valori simbolici funzionali al racconto (è il caso per esempio del contrasto luce-ombra). Il tema amoroso appare infine declinato in forme problematiche: gli amori nel poema appaiono sempre sfasati e sembrano potersi realizzare solo attraverso il sacrificio di sé. Il fatto poi che quasi tutte le vicende amorose coinvolgano personaggi appartenenenti ai due opposti schieramenti, dimostra che l’amore è l’unica forza capace di conciliare i contrasti.

Dalla Liberata alla Conquistata Negli ultimi anni Tasso lavorò alla definitiva revisione del poema, allo scopo di renderlo più coerente con le regole di Aristotele e con la morale cristiana. Rispetto alla Liberata, la Conquistata evidenzia: un aumento delle dimensioni dell’opera, da venti a ventiquattro canti; un maggiore rispetto del vero storico e un’ispirazione più “realistica”; diversi mutamenti di nome dei protagonisti (per esempio Rinaldo diventa Riccardo, Armida diventa Nicea ecc.); l’eliminazione di diversi episodi secondari in omaggio all’unità d’azione; una riduzione dell’importanza del tema amoroso a vantaggio di quello guerresco; un approfondimento del lato umano di alcuni protagonisti, come Argante. Paradossalmente, critica e pubblico decretarono il successo della Gerusalemme liberata, contro le aspettative e la volontà dello stesso autore.

I personaggi I personaggi del poema sono assai diversi rispetto a quelli della tradizione cavalleresca; Tasso ne fa delle autentiche persone, con una profondità psicologica e un mondo interiore individuale, fatto di problematicità e contraddizioni. Esemplare è in questo senso il personaggio di Tancredi, che anticipa aspetti della sensibilità romantica.

Dal romanzo cavalleresco al poema eroico I modelli con cui Tasso dovette confrontarsi furono l’Orlando furioso di Ariosto, che ignorava le regole aristoteliche ma riscuoteva un enorme successo, e l’Italia liberata dai goti di Trissino, che seguiva rigorosamente le norme di Aristotele ma che nessuno leggeva e pochissimi apprezzavano. Tasso si pose pertanto il problema di aderire ai precetti della Poetica, in particolare alle tre unità di tempo, luogo e azione, che soli potevano garantire all’opera lo status di poema eroico conferendogli la stessa dignità della tragedia, evitando al tempo stesso la monotonia e assicurandosi il successo del pubblico. La soluzione di Tasso fu la varietà nell’unità: un’unica vicenda principale arricchita da azioni accessorie che all’avvenimento principale continuamente rimandano. Il poema epico si fa così specchio del mondo, che è assieme uno e molteplice.

Lo stile Tasso cercò di elevare il poema eroico alla dignità della tragedia, perseguendo l’obiettivo di una classicità moderna attraverso uno stile “magnifico” e “sublime”. L’obiettivo fu conseguito ricorrendo a frequenti citazioni classiche, a una musicalità prima sconosciuta, all’uso intenso delle figure retoriche e a una particolare attenzione alla dispositio; rispetto all’armonioso canone petrarchesco, Tasso scelse una disarmonia armonica.

La produzione lirica

Il vero storico, il verosimile e il meraviglioso Tasso racconta un evento storico, la prima crociata, lontano nel tempo, convinto che la verità attiri l’interesG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Tasso compose circa duemila poesie, più di qualunque altro poeta italiano. Ciò si deve sia al fatto che egli era un

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I classici • Torquato Tasso Sintesi svolta

VOLUME 1 Il Manierismo

tolo di Re Torrismondo. Ambientata in un tempo imprecisato e in un paesaggio nordico tempestoso e barbarico, mette in scena la vicenda di Torrismondo che, innamoratosi della bella Alvida, promessa sposa dell’amico Germondo, e da lei ricambiato, cade in preda ai sensi di colpa e a un profondo turbamento psicologico, che si conclude con il suicidio della coppia allorché i due scoprono di essere fratello e sorella. Tasso recupera il tema dell’incesto inconsapevole dall’Edipo re di Sofocle, e insieme le indicazioni di Aristotele per il quale solo un personaggio in parte colpevole e in parte innocente può innescare nel pubblico la catarsi tragica.

poeta cortigiano, quindi un professionista delle lettere, sia al fatto che fu il primo a estendere l’ambito del poetabile ben al di là del petrarchismo. Tasso curò solo tre stampe delle sue poesie, in particolare l’edizione in due parti delle Rime (nel 1591 le rime amorose e nel 1593 le lodi e gli encomi), sviluppando una grande varietà di argomenti, molti dei quali anticipano la lirica barocca, e introducendo richiami continui alla propria tormentata autobiografia. Lo stile è sempre nobile, più vicino al sublime tragico che al medio lirico, innovativo soprattutto nel linguaggio; su un fondo petrarchesco Tasso introduce latinismi, dantismi e lombardismi, perseguendo l’obiettivo di una lingua chiara e musicale. Frequente è anche il ricorso all’arguzia, cioè all’accostamento inedito e ardito di concetti, altra anticipazione della sensibilità barocca. Dal punto di vista metrico Tasso privilegiò tre metri: la canzone, il sonetto e il madrigale, rinnovandoli dall’interno. Nel sonetto, in particolare, fece entrare in conflitto lo schema metrico e la sintassi per mezzo di enjambements e forti cesure interne. Tasso rinnovò inoltre profondamente il madrigale, rendendolo uno schema metrico molto più libero rispetto alla tradizione petrarchesca. I madrigali tassiani sono organismi complessi dal punto di vista fonico e rigorosi sotto il profilo logico: sovente sviluppano un’argomentazione tripartita in dichiarazione, sviluppo e riflessione conclusiva.

I Dialoghi [1575-1595] Tra il 1575 e il 1595 Tasso compose ventotto dialoghi dedicati ad argomenti vari: l’amore, la nobilità, la virtù, la corte ecc. La forma dialogica, risalente a Platone ma che aveva conosciuto una nuova fortuna nei secoli XV e XVI, permette di mettere in scena una «civil conversazione» cui partecipano amici o ospiti del poeta, confrontando idee e posizioni anche molto differenti, espresse in un linguaggio sempre estremamente curato.

Le ultime opere Negli ultimi anni Tasso compose diverse opere di ispirazione cortigiana o religiosa, come i poemetti in ottave La genealogia di Casa Gonzaga (1591), Monte Oliveto (1588, incompiuto, dedicato alla descrizione del monastero napoletano dove Tasso fu ospitato dai frati olivetani), Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo (1593). La più importante è però il poema in endecasillabi sciolti Le sette giornate del mondo creato, composto fra il 1592 e il 1594 e pubblicato postumo nel 1607. Contrapponendosi alla filosofia materialista e razionalista di Epicuro (predicata dal poeta latino Lucrezio nel poema De rerum natura), Tasso qui si fa decisamente poeta-teologo nel tentativo di costruire un sistema filosofico e poetico cristiano.

Gli scritti teorici Dai Discorsi dell’arte poetica ai Discorsi del poema eroico [1562-1594] Iniziati intorno al 1562, quando Tasso frequentava a Padova le lezioni sulla Poetica di Aristotele, e pubblicati nel 1587, i Discorsi dell’arte poetica sono suddivisi in tre libri, dedicati rispettivamente alla materia, alla forma e allo stile più adatti al poema eroico. Parallelamente al rifacimento della Liberata in Conquistata Tasso rivide completamente il trattato, ripubblicandolo in sei libri nel 1594 con il nuovo titolo di Discorsi del poema eroico, avvicinandosi maggiormente alle indicazioni aristoteliche in particolare per quanto riguarda la storicità dei fatti narrati e il carattere educativo e morale del poema.

Le lettere Tasso indirizzò durante la sua vita numerosissime lettere a svariati personaggi, destinate sovente già nelle intenzioni dell’autore a essere lette in pubblico. Ne pubblicò egli stesso alcune, in particolare le Lettere familiari (1588), in cui Tasso contribuisce alla creazione del proprio mito di intellettuale malinconico e solitario, dolorosamente consapevole della propria genialità, in conflitto con la sua epoca, con il mondo delle corti e, in generale, con le istituzioni religiose e civili. Non sempre attendibili sotto il profilo autobiografico, queste lettere vanno considerate a tutti gli effetti come un’opera letteraria.

Il Giudizio sovra la sua «Gerusalemme» da lui medesimo riformata [1593-1595] Composto fra il 1593 e il 1595, rimase inedito e fu pubblicato postumo solo nel 1666. Tasso mette a confronto la Liberata e la Conquistata a tutto vantaggio della seconda; in particolare nel primo libro il poeta parifica poesia e filosofia, nel secondo accosta il poeta al teologo. Il Re Torrismondo [1573-1587] Iniziata nel 1573 con il titolo provvisorio di Galealto, la tragedia fu rielaborata e pubblicata nel 1587 con il ti-

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I classici • Giovan Battista Marino Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Barocco

GIOVAN BATTISTA MARINO cando alcuni suoi capolavori, come la Galeria (1619), la Sampogna (1620) e soprattutto l’Adone (1623). Rientrato a Roma e accolto con grandi onori dal mondo letterario, ricchezza e protezioni illustri non gli evitarono tuttavia gli strali dell’Inquisizione, che lo processò condannandolo a correggere l’Adone; cosa che Marino non ebbe il tempo di fare, poiché morì a Napoli nel 1625. Due anni dopo il suo poema fu inserito nell’Indice dei libri proibiti.

PERCHÉ MARINO È UN CLASSICO? 1. Perchè la sua poesia, rivalutata a partire dal secolo scorso, condivide i progressi scientifici del XVII secolo, restituendoci la stessa conoscenza che ci viene dalle scoperte di Galilei. 2. Perché il suo continuo ricorso alla sperimentazione verbale altro non è che un analogo della sperimentazione scientifica: essa infatti dischiude nuove verità sul linguaggio e sulle cose. 3. Perché i principi della sua poetica, ovvero novità, arguzia e meraviglia, possiedono un eccezionale spessore conoscitivo.

LE COSTANTI LETTERARIE La novità In Marino fu sempre molto viva l’idea di offrire al pubblico una nuova «foggia di poetare», diversa dal passato e che tutti avrebbero imitato in futuro. Concretamente questa voglia di novità, che investe tanto le forme che i contenuti, si traduce nei seguenti aspetti: la rappresentazione dell’amore come sensualità e non più come strada per giugere a Dio o indagare la propria anima; la predicazione multipla della donna, colta in atteggiamenti molteplici e attraverso diverse tipologie di bellezza; la scelta del tema della pace e dell’amore per un poema eroico; una diversa concezione dell’imitazione, rivolta non più alla natura ma alla tradizione letteraria.

LA VITA [1569-1625] Da Napoli a Roma: gli anni dell’ascesa Figlio di un giureconsulto, Giovan Battista fu avviato agli studi giuridici, benché fin dalla giovinezza l’amore e la poesia costituissero le sue autentiche passioni. Diseredato e cacciato di casa, visse anni difficili: iniziò a farsi apprezzare come poeta, ma conobbe anche l’umiliazione del carcere e solo grazie ai suoi illustri protettori poté fuggire da Napoli per Roma. Qui divenne protagonista della vita culturale continuando a comporre poesie, che confluirono nelle Rime, pubblicate nel 1602 a Venezia. Il successo dell’opera decretò la rapida ascesa sociale di Marino, preso a servizio dal cardinale Aldobrandini.

L’argutezza La ricerca esasperata del concetto, che attraverso brevità e novità produce meraviglia, è l’altro carattere distintivo della poesia di Marino, che ne fa un maestro indiscusso del Barocco. Il concetto, o argutezza, può riguardare il contenuto o più frequentemente la forma: in questo caso si ha quando il poeta opera un accostamento senza precedenti fra elementi della realtà assai distanti fra loro, ricorrendo tecnicamente all’antitesi e alla metafora.

Da Ravenna a Torino: gli anni della maturità Quando il cardinale dovette raggiungere la sua sede episcopale a Ravenna, Marino lo accompagnò; seguirono anni di studi e di intensi contatti con i centri culturali di Bologna, Parma e Ravenna. Nel 1608 però Marino fu costretto nuovamente alla fuga, questa volta per evitare l’arresto da parte della Santa Inquisizione. Riparò a Torino, dove si presentò componendo un panegirico del duca Carlo Emanuele I e dove la sua rapida ascesa gli attirò l’odio del poeta di corte, Gaspare Murtola, che nel 1609 arrivò ad attentare alla sua vita. Due anni dopo Marino conobbe nuovamente il carcere, accusato di maldicenza. Liberato ancora una volta a seguito dell’intervento di illustri protettori, negli ultimi anni di permanenza a Torino pubblicò un’edizione accresciuta delle Rime con il nuovo titolo di Lira.

LE OPERE Dalle Rime alla Lira [1602-1614] Le Rime Nel 1602 a Venezia Marino pubblica la prima raccolta di poesie, intitolata Rime e divisa in due parti: la prima comprendente 454 sonetti, la seconda 205 madrigali e 18 tra canzoni e canzonette. Nella prima inoltre le liriche sono raggruppate per temi: rime amorose, marittime, boscherecce, eroiche, lugubri, morali e sacre, varie. La struttura, assieme alla ricca proposta di metri, temi e modelli stilistici, rivela in Marino la volontà di ricapitolare tutta la tradizione e sottoline-

Da Parigi a Napoli: gli anni della consacrazione Lasciata Torino con l’intento di fuggire in Inghilterra, entrò nelle grazie di Maria de’ Medici, regina madre di Francia, che lo invitò a fermarsi a Parigi. Qui Marino rimase dal 1615 al 1623, ultimando e pubbliG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Giovan Battista Marino Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Barocco

Marte e Falsirena approfittano della sua assenza per aizzare contro il giovane un cinghiale durante una battuta di caccia; Adone rimane ucciso. Dopo la sua morte Venere trasforma il suo cuore in anemone e indice tre giorni di giochi funebri: al termine celebra il matrimonio tra Austria e Fiammadoro, simboli di Spagna e Francia.

are il proprio distacco dal canone petrarchesco per proporsi come l’alfiere del rinnovamento del genere lirico. La Lira Nel 1614 Marino ripubblicò l’opera con il titolo Lira, accantonando alcuni componimenti delle prime due parti e aggiungendone una terza comprendente 408 tra sonetti e madrigali, raggruppati tematicamente: Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci. Marino estende l’oggetto della poesia ai molteplici aspetti della realtà, anche se lo sperimentalismo linguistico rimane prioritario rispetto alla descrizione realistica. La lingua è assieme popolare e antifiorentina; lo stile appare, come scrisse un ammiratore, «dolce e fiorito, leggiadro e piccante»: predomina la ricerca del concetto e dell’arguzia attraverso la metafora e l’antitesi.

Una struttura bifocale La duplicazione di molte funzioni narrative all’interno dell’opera (ampie sequenze narrative si ripetono quasi identiche a distanza) ha fatto ipotizzare al critico Giovanni Pozzi una struttura bifocale dell’Adone, riconducibile alla figura geometrica dell’ellisse, per effetto della quale il lettore è costretto ad una doppia lettura: una lineare, in progressione, l’altra caratterizzata da continue anticipazioni del futuro e richiami al passato. Tale struttura costituirebbe l’analogo poetico della «irresoluzione dell’uomo secentesco di fronte ai due modelli cosmici contraddittori, tolemaico e copernicano».

L’Adone [1596-1623] Il trionfo della digressione e la crisi dell’epica Marino tentò un primo approccio al genere epico sotto l’influsso di Tasso iniziando una Gerusalemme distrutta interrotta al settimo canto e pubblicata postuma. L’Adone invece, cui lavorò per oltre vent’anni, vide la luce nel 1623: suddiviso in 20 canti (ognuno con un titolo specifico), con le sue oltre 5000 ottave per un totale di più di 40 000 versi è il poema più lungo della letteratura italiana; a questo risultato Marino è giunto muovendo da un mito dalla struttura assai semplice (Venere, innamoratasi di Adone per opera del figlio Amore, suscita la gelosia di Marte che fa uccidere il giovane da un cinghiale) e arricchendo la trama con un numero enorme di digressioni narrative e descrittive. Con l’Adone Marino offrì ai contemporanei un’opera originale (si tratta di un poema epico «di pace») e sostanzialmente irriducibile nell’ambito dei generi tradizionali.

Lo stile Ancora una volta Marino rigetta il modello linguistico proposto a suo tempo dal Bembo e strenuamente difeso dall’Accademia della Crusca, in nome di una lingua comune italiana aperta a tecnicismi, forestierismi, dialettalismi, latinismi.

Le altre opere La Galeria [1619] Marino condivise con i suoi nobili protettori la passione per le opere d’arte e dedicò molto impegno e molte spese a realizzare una sua “galleria”, ovvero una collezione privata di sculture, dipinti, stampe, disegni ecc. Nel 1609 pubblicò quello che nelle intenzioni doveva essere un libro illustrato: una raccolta di oltre seicento liriche, suddivise in due sezioni (Pitture e Sculture), dedicate però non tanto alla descrizione dell’opera d’arte da cui prendono spunto, ma a trattare attarverso infinite variazioni il tema del primato dell’arte sulla natura.

La trama Canti I-V: Adone giunge a Cipro dove, per effetto di una vendetta di Amore, si innamora ricambiato della dea Venere. Digressioni principali: l’elogio della vita rustica; i miti del giudizio di Paride, di Amore e Psiche e di Atteone. Canti VI-XI: guidati da Mercurio, che celebra le loro nozze, Adone e Venere visitano i giardini dei sensi, l’isola della poesia e i nove cieli. Digressioni principali: rassegna di mecenati e poeti e di donne celebri; l’elogio di Galileo Galilei; narrazione delle guerre moderne. Canti XII-XVI: Marte scopre il tradimento di Venere e costringe alla fuga Adone; questi, imprigionato da Falsirena, fugge trasformato in pappagallo e, riacquistata la forma umana, è coinvolto nella lotta fra due bande di briganti. Scampato fortunosamente, si riunisce a Venere. Per due volte ottiene il regno di Cipro, vincendo al gioco degli scacchi e in una gara di bellezza, ma rinuncia al potere. Canti XVII-XX: Venere deve allontanarsi da Cipro; G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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La Sampogna [1620] L’opera raccoglie testi composti in anni precedenti, e segnatamente 11 idilli (8 favolosi e 3 pastorali) più un poemetto in ottave. Marino riprende celebri miti della classicità (Orfeo, Arianna, Dafne, Piramo e Tisbe) donando loro nuova vita attraverso una poesia arguta e musicale. L’epistolario [dal 1627] Dopo la morte di Marino i suoi amici e ammiratori pubblicarono a più riprese raccolte delle sue lettere, interessanti come documenti storico-biografici, ma anche letterariamente notevoli per la qualità dello stile, sempre teso all’arguzia e al concetto.

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I classici • Galileo Galilei Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Barocco

GALILEO GALILEI della correttezza delle ipotesi astronomiche copernicane, Galilei cominciò a intravedere il rischio di un contrasto con l’ortodossia cattolica, contrasto che, da profondo conoscitore delle sacre scritture e uomo dalla fede sincera, era intenzionato a evitare. Nel tentativo di conciliare scienza e fede scrisse fra il 1613 e il 1615 le quattro lettere dette copernicane, che non gli evitarono però problemi con il Sant’Uffizio, che dichiarò assurda ed eretica l’ipotesi eliocentrica; il cardinale Bellarmino convocò personalmente Galilei ammonendolo ad abbandonarla.

PERCHÉ GALILEI È UN CLASSICO? 1. Perché le sue opere sono testimonianza di una fase storica in cui ancora non è avvenuta la separazione fra le due culture, umanistica e scientifica. 2. Perché le sue opere dimostrano che esiste un aspetto estetico anche nel discorso scientifico, e contibuiscono assieme ad allargare l’ambito della letteratura. 3. Perché in alternativa al latino Galilei utilizza la lingua italiana, anticipando la tradizione della divulgazione scientifica in forme caratterizzate da grande chiarezza ed efficacia descrittiva.

Dal Saggiatore al Dialogo Rientrato a Firenze, Galilei iniziò a lavorare al Saggiatore, pubblicato nel 1623 con dedica a papa Urbano VIII; la polemica con il gesuita Orazio Grassi in merito all’origine delle comete (tema sul quale le ipotesi di Galilei si riveleranno completamente errate) offre il pretesto per una brillante esposizione del proprio metodo, basato sull’osservazione e l’esperimento, contro la tradizione accademica basata sul principio di autorità (ipse dixit). Incoraggiato dalla buona accoglienza riservatagli dal papa, Galilei iniziò a comporre il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pubblicato nel 1632. L’opera fu però sequestrata e l’autore processato davanti al Sant’Uffizio, che lo condannò al carcere e all’abiura. Costretto agli arresti domiciliari a Siena, nella villa di Arcetri messagli a disposizione dal cardinale Piccolomini, proseguì nei suoi studi (le ultime opere vennero pubblicate in Olanda nel 1638) fino alla morte, nel 1642. La sua riabilitazione iniziò con l’esclusione della sua opera dall’Indice dei libri proibiti (1822) e si concluse con la revisione del processo (sotto papa Paolo VI) e con il riconoscimento del torto commesso dalla chiesa (sotto Giovanni Paolo II, nel 1992).

LA VITA (1564-1642) Giovinezza e studi Nato a Pisa da famiglia fiorentina, Galilei crebbe in un ambiente di forte impronta umanistica. Nel 1581 si iscrisse inizialmente a medicina, scoprendo però presto la propria vocazione per la matematica. Proseguì gli studi a Firenze, accostando lo studio teorico all’osservazione dei fenomeni naturali; la Bilancetta evidenzia le sue capacità speculative e assieme la sua attenzione per le applicazioni tecnologiche. Si dedicò anche alla critica letteraria, con studi su Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Professore e scienziato La stima del celebre matematico Guidubaldo del Monte gli assicurò nel 1589 la nomina a lettore di matematiche presso l’università di Pisa, dove però l’insegnamento era decisamente tradizionalista. La morte del padre, l’esiguo stipendo e le inesistenti prospettive di carriera lo convinsero nel 1591 a lasciare Pisa per Padova, dove ottenne la cattedra di matematica. Anche all’università di Padova vigeva il più intransigente aristotelismo, ma il clima culturale della città, come quello della vicina Venezia, era molto vivace e aperto alle novità. In questi anni Galileo costruì e perfezionò diversi strumenti scientifici, fra cui il cannocchiale, con cui effettuò osservazioni astronomiche dagli esiti rivoluzionari, sintetizzate nel Sidereus nuncius (1610). Nel 1616 fece ritorno in Toscana come “matematico e filosofo” di corte e “matematico primario” all’università di Pisa.

LE COSTANTI LETTERARIE Un contesto favorevole al sapere scientifico Pur rimanendo profondamente interconnessa con la filosofia e la teologia, la cultura scientifica nel Seicento conobbe un grande sviluppo, favorito da diversi fattori: il mutato rapporto con gli antichi, visti non più come modelli insuperabili ma come competitori da emulare e superare; lo sviluppo della tecnologia, che produsse un gran numero di invenzioni e scoperte; il passaggio da una cultura enciclopedica a una caratterizzata da una sempre maggiore specializzazione settoriale; la dimensione europea del sapere scientifico; il diffondersi delle accademie scientifiche, come quella romana dei Lincei; l’impulso dato alla formazione scientifica dai collegi dei Gesuiti e in particolare dal Collegio Romano.

Il difficile rapporto tra scienza e fede Nel 1611 Galilei aveva esposto a Roma le proprie osservazioni astronomiche, ottenenendo il plauso di intellettuali laici ed ecclesiastici, tanto da essere accolto nella neonata Accademia dei Lincei. Proseguendo nei suoi studi e convincendosi sempre più G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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ti scientifici. Nel 1619 uscì anomima a Roma una Disputatio astronomica scritta dal gesuita padre Orazio Grassi, professore di matematica del Collegio Romano, il quale aveva compreso la vera natura delle comete come corpi celesti, ma basandosi sulle ipotesi dell’astronomo Tycho Brahe, che aveva tentato un’impossibile conciliazione fra teocentrismo ed eliocentrismo, e soprattutto su un metodo incoerente e contraddittorio, basato in parte sull’osservazione e in parte sul principio di autorità. Galilei, pur non avendo potuto osservare il fenomeno, replicò sostenendo che le comete fossero invece fenomeni atmosferici, dovuti alla riflessione della luce solare negli strati più alti dell’atmosfera terrestre.

Il metodo galileiano Contraddizione tra vecchio e nuovo, ansia di sperimentazione, ricerca della novità, amore per la meraviglia, sono alcuni degli elementi che caratterizzano gli studi di Galilei facendone pienamente un figlio del suo tempo. E tuttavia le sue ricerche lo portarono a scuotere le fondamenta epistemologiche dell’epoca, in particolare: distinguendo tra verità di fede e verità di ragione e arrivando a concludere che le sacre scritture insegnano non come vadia il cielo, ma come si vadia in cielo; individuando l’essenza del metodo scientifico nelle sensate esperienze e nelle necessarie dimostrazioni, con ciò intendendo un’integrazione fra induzione e deduzione per cui l’osservazione del fenomeno naturale porta alla formulazione di un’ipotesi che deve essere verificata attraverso prove sperimentali; concentrando l’attenzione unicamente agli aspetti quantitativi dei fenomeni naturali, nella convinzione che il “libro della natura” sia scritto in caratteri matematici.

La replica di Galileo Alla controreplica di padre Grassi, affidata alla Libra astronomica ac philosophica, pubblicata nel 1619 con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, Galilei rispose nel 1623 con Il Saggiatore, pubblicato a spese dell’Accademia dei Lincei e dedicato a papa Urbano VIII. Formalmente si tratta di una lettera in cui, riprendendo ampi stralci dell’opera di padre Grassi, Galilei ne contesta punto per punto osservazioni e conclusioni, con argomentazioni rigorose e, soprattutto, in italiano, dando al lettore l’impressione di voler fare uscire la scienza dalle aule universitare per conferirle un respiro nuovo e più aperto nonché una maggiore condivisibilità.

LE OPERE Le lettere copernicane [1613-1615] Un efficace strumento di comunicazione All’interno del ricchissimo epistolario di Galilei, testimonianza della rete di relazioni che legava intellettuali e scienziati del tempo, vengono distinte quattro lettere scritte fra il 1613 e il 1615 e indirizzate: al discepolo padre Benedetto Castelli, frate domenicano (la prima); a monsignor Pietro Dini, suo amico e teologo (la seconda e la terza); alla granduchessa madre Cristina di Lorena (la quarta, dall’ampiezza di un vero e proprio saggio). Galilei desiderava che queste lettere avessero la massima diffusione possibile, e in effetti ebbero una vastissima circolazione manoscritta, evitando il controllo ecclesiastico.

Le ragioni di un successo L’opera conobbe un grande successo: è infatti uno straordinario documento del metodo galileiano, basato su sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, e assieme una testimonianza esemplare di prosa di divulgazione scientifica, caratterizzata da chiarezza e rigore e vivificata da una eccezionale vis polemica.

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [1624-1632]

Scienza e fede Il tema centrale è la necessità di distinguere tra le verità naturali e le verità di fede; le prime ci vengono rivelate da Dio nel “libro della natura”, le seconde nelle sacre scritture. Dei due libri, il primo si serve del linguaggio della matematica, mentre il secondo del linguaggio del simbolo e dell’allegoria. Sulla base di questi principi dovrebbe essere spiegato ogni apparente contrasto fra le osservazioni scientifiche e le rivelazioni contenute nella Bibbia. Le osservazioni di Galilei, che di fatto invadeva un campo riservato ai teologi e agli esegeti, non incontrarono però favore unanime e anzi irritarono alcuni ambienti ecclesiastici.

La composizione L’autorevolezza raggiunta negli ambienti scientifici, l’appoggio di influenti protettori, nonché la favorevole accoglienza del Saggiatore spinsero Galilei alla ricerca di una argomento decisivo in favore dell’ipotesi copernicana e alla composione di una nuova opera per illustrarlo; nacquero così i Dialoghi del flusso e riflusso del mare, dove il fenomeno delle maree era spiegato come effetto della combinazione dei due moti, diurno e annuale, della Terra (ipotesi che ricerce successive riveleranno errata). Molte difficoltà ritardarono però il completamento dell’opera che, iniziata nel 1624, fu pubblicata solo nel 1632. Per ottenere l’imprimatur Galilei dovette accettare alcuni compromessi: modificare l’impostazione generale dell’opera e il titolo stesso, che divenne Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo; presentare la teoria copernicana come null’altro che un’ipotesi;

Il Saggiatore [1623] Le comete e l’ipotesi di padre Grassi Nel 1618 vennero osservate nel cielo tre comete, che destarono grande curiosità e interesse negli ambienG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Galileo Galilei Sintesi svolta

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introdurre l’“argomento del fine”, suggerito da papa Urbano VIII, secondo il quale la nostra intelligenza del nesso tra cause ed effetti, nell’ambito dei fenomeni naturali, deve fare i conti con l’onnipotenza di Dio.

deve però solo a studi recenti il riconoscimento dello stretto legame che unisce il contenuto concettuale dell’opera alle scelte stilistiche dell’autore, in particolare: a livello lessicale, l’abbandono di larga parte della terminologia precedente per ricavare una nuova e rigorosa terminologia attraverso un processo di tecnicizzazione del linguaggio comune (nacquero in questo modo termini tutt’ora in uso come “cannocchiale” e “macchie solari”); a livello sintattico, la rinuncia a iperbati e inversioni, nonché la netta riduzione del ruolo del verbo a favore del sostantivo; il ricorso a una prosa fortemente ipotattica ma al contempo chiara, evidente, elegante: ciò grazie a una coesione linguistica e a una coerenza logica saldissime, frutto di una straordinaria «capacità di programmazione sintattica del periodo» (M.L. Altieri Biagi).

Il contenuto A Venezia, nel palazzo del nobile Giovan Francesco Sagredo, amico di Galilei, si svolge un dialogo immaginario, articolato in quattro giornate, tra il patrizio fiorentino Filippo Salviati, accademico dei Lincei, sostenitore del sistema copernicano, e Simplicio, convinto seguace di Aristotele e Tolomeo. La scelta del dialogo si presta a conferire all’opera una struttura aperta, funzionale a un’idea di scienza come ricerca senza preconcetti, oltre che a “nascondere” alcuni punti deboli nell’argomentazione; inoltre frequenti digressioni consentono all’autore di rendere conto di molte altre sue osservazioni e scoperte, anche non direttamente connesse con l’argomento generale.

Altri scritti Scritti di critica letteraria Alla critica letteraria sono dedicati alcuni scritti non pubblicati e non sempre facilmente databili; si tratta delle Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante (1588), delle Postille al Petrarca, delle Postille all’Ariosto e infine delle Considerazioni sul Tasso. In queste ultime, in particolare, Galilei rifiuta la poesia tassiana in nome dei principi aristotelici di verosimiglianza, ordine e decoro, senza comprendere la profonda affinità che lo legava all’autore della Gerusalemme liberata: entrambi infatti, in campi differenti, hanno contribuito a mettere in crisi la vecchia struttura del mondo e a sostituirla con una nuova, molto più problematica.

La trama I giornata: Salviati dimostra l’identità tra i moti della terra e quelli degli altri corpi celesti, e quindi l’identità della loro natura. II giornata: Salviati propone l’ipotesi del moto diurno della Terra, mostrandone l’economicità e confutando le obiezioni. III giornata: Salviati propone l’ipotesi del moto annuo della Terra intorno al Sole e mostra come, accettandola, trovino spiegazione fenomeni astronomici altrimenti ingiustificabili. L’ipotesi eliocentrica trasforma l’universo in un insieme ordinato e strutturato di fenomeni semplici e razionali, quindi da apparente caos a cosmos. IV giornata: Salviati interpreta il fenomeno delle maree come provocato dalla combinazione del moto diurno e del moto annuo della Terra.

L’ultimo grande scienziato umanista Queste opere mostrano chiaramente come la cultura umanistica e quella scientifica in Galilei siano ancora strettamente legate; successivamente le due culture prenderanno strade differenti, ciascuna con un proprio metodo, un proprio linguaggio e una propria epistemologia.

Lo stile Salutato come un capolavoro, sia dal punto di vista scientifico (nonostante l’erroneità dell’ipotesi sull’origine delle maree) sia dal punto di vista artistico, il Dialogo entrò presto nel canone letterario come esempio di prosa di altissimo livello divulgativo. Si

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VOLUME 2 Il Settecento

CARLO GOLDONI Per tacitare le critiche Goldoni lanciò una sfida, impegnandosi a comporre ben 16 commedie nuove per la stagione 1750-1751; l’impegno fu onorato e nacquero capolavori come La bottega del caffè. Sempre nel 1750 fu pubblicato il primo volume delle sue commedie, che gli ottenne un nuovo e più vantaggioso contratto presso il teatro San Luca dei fratelli Vendramin. Nel 1753 Goldoni si accommiatò dal pubblico del Sant’Angelo componendo, fra le altre commedie, il capolavoro della Locandiera.

PERCHÉ GOLDONI È UN CLASSICO? 1. Perché i personaggi delle sue commedie nascondono, sotto un’apparente semplicità, una gamma molto complessa di atteggiamenti e mostrano i risvolti più profondi e imprevedibili dei caratteri umani e la conflittualità latente che ne regola i rapporti. 2. Perché le sue opere, lette con attenzione, rivelano quanto sia instabile e sempre minacciato l’equilibrio che sembrano celebrare. 3. Perché la struttura scenica delle sue commedie possiede una capacità di tenuta notevolissima, come dimostrano i nuovi allestimenti ancora oggi realizzati in tutto il mondo.

Gli ultimi anni veneziani Il passaggio al San Luca non fu indolore: Goldoni si trovò a lavorare in un teatro molto più grande e con una compagnia ancora legata all’improvvisazione, sicché le sue nuove commedie ebbero un’accoglienza assai tiepida. In più la polemica fra “goldoniani” e “chiaristi” si era andata facendo sempre più aspra (al Chiari si affiancò anche Carlo Gozzi fra i suoi più accesi detrattori) e di ciò Goldoni risentì anche fisicamente, cominciando a manifestare i sintomi di una malattia nervosa. Diversi viaggi (a Modena, Milano e Roma) e l’apprezzamento di intellettuali come Pietro Verri e Voltaire gli restituirono infine la serenità necessaria per comporre altri capolavori, come Il campiello, I rusteghi, la trilogia della Villeggiatura, Sior Todero brontolon e Le baruffe chiozzotte.

LA VITA [1707-1793] La giovinezza e gli studi Nato a Venezia nel 1707, Goldoni seguì fin da piccolo gli spostamenti del padre medico, uomo di carattere irrequieto; fu con lui a Perugia, a Rimini, a Chioggia, a Milano, a Pavia. Qui frequentò gli studi di giurisprudenza, ma nel 1725 venne espulso a seguito della composizione di una satira contro alcune giovani della città. Quando nel 1731 il padre morì dovette prendersi cura della famiglia: si laureò in legge a Padova e dal 1733 esercitò la professione di avvocato. Intanto aveva incominciato le prime esperienze come attore e autore di teatro.

L’avventura francese Nel 1762, stanco delle continue polemiche e dei capricci di un pubblico assai volubile, nonché attirato dalla ribalta internazionale di Parigi e dalla prospettiva di una lusinghiera sistemazione economica, Goldoni lasciò l’amata Venezia per trasferirsi in Francia. Qui ricominciarono le difficoltà, legate alle mediocri capacità degli attori della Comédie italienne e ai gusti del pubblico, che ancora identificava il teatro comico italiano con la Commedia dell’arte; Goldoni dovette ricominciare a scrivere soggetti e canovacci. L’unico successo teatrale di Goldoni in terra francese fu Le bourru bienfaisant (“Il burbero benefico”) andato in scena nel 1771. Intanto a partire dal 1765 era iniziato il suo servizio a corte: re Luigi XV gli affidò infatti l’educazione delle sue figlie; in questi anni Goldoni ebbe anche modo di stringere rapporti di amicizia con molti degli intellettuali illuministi, tra cui Diderot. Iniziò anche a stendere in francese le sue Memorie, pubblicate nel 1787. Lo scoppio della Rivoluzione francese gettò Goldoni sul lastrico allorché gli venne revocata la pensione concessagli da Luigi XV, sua unica entrata. Malato e oberato dai debiti morì il 6 febbraio 1793 a Parigi, quattro giorni prima che la pensione gli venisse riconfermata.

La svolta teatrale Nel 1734 il capocomico Giuseppe Imer gli propose un contratto come poeta e librettista presso il teatro San Samuele di Venezia; Goldoni accettò e con la tragicommedia Belisario ottenne il primo grande successo di pubblico. Durante un viaggio a Genova conobbe Nicoletta Connio, che nel 1736 divenne sua moglie. Nel 1738 fece rappresentare il Momolo cortesan, primo passo della sua riforma del teatro: infatti la parte del protagonista compare scritta per intero e non più affidata all’improvvisazione dell’attore; seguì nel 1743 La donna di garbo, prima commedia con tutte le parti scritte. Una serie di disavventure finanziarie lo costrinsero nel 1744 a lasciare Venezia per Pisa, dove compose Il servitore di due padroni e si dedicò con successo all’avvocatura. L’impiego al teatro Sant’Angelo Nel 1747 incontrò il capocomico Girolamo Medebach che lo ingaggiò come autore per il teatro Sant’Angelo di Venezia. Qui Goldoni consacrò la propria fama, ma conobbe anche le prime rivalità, in particolare con Pietro Chiari che lo aveva sostituito al San Samuele. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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LE COSTANTI LETTERARIE

intermezzi e drammi per musica. A questa fase appartiene La donna di garbo (1743), prima commedia interamente scritta. Poi però una serie di difficoltà personali imposero un’interruzione alla riforma, anche se Goldoni non abbandonò del tutto il teatro: del 1745 è infatti Il servitore di due padroni.

Il contesto Ai tempi di Goldoni il teatro comico era monopolizzato dalla Commedia dell’arte, basata sull’improvvisazione a partire da un semplice canovaccio che aveva portato alla fissità delle parti e dei ruoli e alla ripetitività delle battute, cui si ovviava ricorrendo a volgarità e oscenità. Goldoni considerava questo teatro corrotto e «cattivo», perché le opere erano scritte male, costruite male e recitate male, e soprattutto la commedia aveva perduto la sua fondamentale funzione pedagogica ed etica: fomentava infatti il vizio anziché correggerlo.

Seconda fase [1748-1753] Passato al teatro Sant’Angelo, Goldoni si specializzò nella composizione di commedie per la compagnia di Medebach; a questi anni risalgono i primi esempi compiuti di commedia di carattere e diversi capolavori, come La bottega del caffé (1750) e La locandiera (1753). Protagonista è la borghesia veneziana, di cui si criticano i vizi e si esaltano le virtù, prime fra tutte la laboriosità, la prudenza e il buon senso.

La riforma del teatro comico Da queste premesse mosse la riforma goldoniana, con l’obiettivo di rinnovare temi, intrecci e linguaggi. L’attore doveva restituire il primo posto all’autore, mediatore tra il Mondo e il Teatro: a questi due “libri” Goldoni diceva di ispirarsi, traendo dal primo la ricca varietà di situazioni, vicende e personaggi che caratterizzano la vita quotidiana, e dal secondo gli strumenti per mettere in scena tutto questo in modo naturale e coinvolgente. Ciò comportava l’abbandono del canovaccio per il testo scritto e il passaggio dalla maschera, artificiale e convenzionale, al «carattere», naturale e realistico. Goldoni attuò con gradualità la sua riforma, che andava contro le abitudini degli attori e del pubblico, coinvolgendo i primi scrivendo, per esempio, parti costruite su misura su di loro, e abituando il secondo ad apprezzare la rappresentazione della propria vita quotidiana, nonstante le aspre critiche di detrattori come Chiari e Gozzi.

Terza fase [1753-1759] Il nuovo trasferimento al teatro San Luca dei fratelli Vendramin diede inizio a un periodo difficile: Goldoni visse una crisi creativa legata anche alle difficoltà incontrate con la nuova compagnia, gelosamente legata all’improvvisazione, e alle critiche dei rivali. Goldoni finì per seguirli sul loro terreno, abbandonando momentaneamente i soggetti realistici e borghesi per commedie di ambientazione esotica e di contenuto fantasioso. Quarta fase [1760-1762] Goldoni superò infine la crisi passando dalla commedia di carattere alla commedia d’ambiente e scrivendo nuovi capolavori come I rusteghi (1760), dove è efficacemente messo in scena il contrasto tra generazioni, e soprattutto le Baruffe chiozzotte (1762), vera commedia di popolo basata sulla dimensione corale più che individuale e resa ancora più naturale dalla mescolanza di dialetto veneziano e chioggiotto. Parallelamente alla crescente importanza concessa al popolo, Goldoni sviluppava una sempre più amara critica nei confronti della borghesia, accusata in particolare di scimmiottare in modo ridicolo vizi e vezzi dell’aristocrazia: ne è un esempio la trilogia della Villeggiatura (1761).

Il problema del linguaggio Il Mondo che Goldoni aveva sotto gli occhi era la società veneziana; di qui la scelta iniziale di comporre in dialetto veneziano; l’esigenza di naturalezza lo portò però a sfruttarne tutte le risorse e tutti i registri espressivi, contribuendo alla caratterizzazione dei personaggi. L’esigenza di ampliare il proprio pubblico e di restituire piena dignità alla commedia riformata anche a livello nazionale e internazionale lo convinsero ad adottare anche l’italiano, per lui comunque una seconda lingua; in diverse commedie (come in Il servitore di due padroni, del 1745) appare stridente il contrasto fra i dialoghi in veneziano, più freschi e vivaci, e quelli in italiano, di sapore più ingessato e libresco. A Goldoni servì un lungo apprendistato per raggiungere anche in italiano significativi livelli di naturalezza ed efficacia comunicativa, di cui è esempio La locandiera (1753).

Quinta fase [1762-1765] Quando si trasferì a Parigi, Goldoni certamente sperava di far conoscere la propria riforma a tutta l’Europa, ma le cose andarono diversamente; costretto a ricominciare da capo, ingaggiò l’ennesima battaglia contro le abitudini degli attori e i gusti del pubblico, abbandonando la commedia di carattere e creandone un nuovo tipo, basato sul puro gioco scenico e dove quindi l’azione prende il sopravvento sulle parole. E tuttavia anche così non conobbe più il successo delle scene veneziane.

LE OPERE Le fasi della riforma

UN’OPERA ESEMPLARE: LA LOCANDIERA

Prima fase [1734-1743] All’inizio della sua esperienza al teatro San Samuele Goldoni compose per lo più tragicommedie in versi,

La trama Mirandolina gestisce, dopo la morte del padre, una locanda a Firenze; ha dei clienti fissi, il nobile ma

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VOLUME 2 Il Settecento

spiantato marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita, ricchissimo ma di nobiltà recente, che le fanno la corte, cosa che le riesce estremamente gradita. Quando alla locanda prende alloggio il misogino cavaliere di Ripafratta, Mirandolina si fa un punto d’onore di farlo innamorare; riuscita nell’impresa, per mettere al sicuro il proprio buon nome e i propri affari decide di sposare il servitore Fabrizio e di allontanare per sempre tutti i suoi spasimanti.

quello che è in realtà un desiderio di dominio su quanti al circondano. La commedia può essere letta anche in chiave metaletteraria: i personaggi di Ortensia e Deianira (due attrici che, giunte all’improvviso alla locanda, si fingono dame per ottenere un trattamento migliore, ma vengono subito smascherate dalla padrona) danno vita a una vera scena di teatro nel teatro, in cui emerge la naturalezza di Mirandolina, capace di fingere dentro e fuori scena; inoltre il suo rifiuto dei vari pretendenti e la scelta di Fabrizio si può intendere come allegoria del teatro goldoniano che, rifiutato il denaro dei mecenati e la protezione dei nobili, si affida esclusivamente, per sopravvivere, all’abilità degli attori e all’accoglienza da parte del pubblico.

Una parte su misura Rappresentata nel carnevale del 1753, La locandiera mostra l’abilità di Goldoni nel costruire i personaggi ritagliandoli su misura sugli attori; poiché infatti all’epoca la prima attrice, Teodora Medebach, era indisposta, egli costruì il personaggio di Mirandolina sulla servetta, Maddalena Marliani, i cui talenti di attrice si sposavano perfettamente con la parte: cosa che dette un contributo importante allo straordinario successo dell’opera. Il trionfo di Maddalena suscitò la gelosia della Medebach, che impose l’interruzione delle rappresentazioni, ma nonostante questo la fortuna dell’opera non è mai venuta meno; La locandiera è stata portata sulle scene da registi come Visconti e Strehler, con attrici come Eleonora Duse e Pamela Villoresi nei panni di Mirandolina.

Linguaggio La locandiera è un capolavoro anche dal punto di vista linguistico: alla parola Mirandolina affida la propria strategia seduttiva e all’interno della commedia nessun altro appare capace come lei di dominare il linguaggio. Goldoni ha inoltre costruito dialoghi non fondati su battute autosufficienti, ma basati sull’interazione comunicativa, proprio come avviene nei dialoghi reali.

Le Memorie [1783-1786]

Le ragioni di un successo Tra i fattori che hanno determinato tanto successo possiamo sottolineare: l’efficace struttura drammaturgica, che fa emergere assieme la contrapposizione tra le classi e i sessi e l’individualità dei personaggi, in modo realistico e naturale; la vivacità della vicenda, costruita in modo da mantenere sempre desta l’attenzione dello spettatore; l’efficace brevità dei dialoghi e delle battute; la quotidianità degli ambienti, assieme realistici e allusivi.

Durante gli anni parigini Goldoni compose la propria autobiografia, pubblicata dapprima in francese nel 1786 (per conquistare il pubblico continentale) e immediatamente tradotta in italiano con il titolo di Memorie del signor Goldoni per servire alla storia della sua vita. L’opera è divisa in tre parti: nella prima è narrata la vita a partire dalla nascita e la riforma del teatro fino alla partenza per la Francia; la seconda è dedicata alla storia del suo teatro, con l’ideazione delle commedie, il loro esito e tutto quanto avvenuto dietro le quinte; la terza infine è dedicata agli anni del soggiorno parigino. Come testo autobiografico le Memorie sono un documento eccezionale, ma non sempre del tutto attendibile, perché l’autore amava «far teatro di se stesso» e «riaggiustare il personaggio Carlo Goldoni» (Ginette Herry); e perché negli ultimi anni, amareggiato e stanco, egli volle accentuare la linearità, la nettezza e il successo della sua riforma teatrale ben oltre la realtà. Stilisticamente l’opera risente molto del linguaggio teatrale, caratterizzata com’è da continui imprevisti e colpi di scena, da frasi brevi, per lo più paratattiche e accostate per asindeto, nonché da frequenti dialoghi.

Valori letterari Rivisitazione del mito del giudizio di Paride (e di don Giovanni), la vicenda ne rovescia i contenuti: la donna da oggetto della scelta maschile diviene protagonista (serve i clienti ma di fatto ne è la dominatrice) e soggetto che sceglie, e lo fa ridicolizzando nobilità, ricchezza e passione per seguire il principio borghese dell’utile e del tornaconto. Nella prefazione all’opera stampata Goldoni insiste sulle finalità morali dell’opera, che intenderebbe smascherare gli inganni e le seduzioni femminili; in realtà sul piano etico Mirandolina è personaggio ambiguo: è scaltra, fredda e calcolatrice fino al cinismo; inoltre ha dei tratti di narcisismo, nascondendo dietro la vanità femminile

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GIUSEPPE PARINI iconografici per la decorazione del Teatro alla Scala e degli attuali Palazzo Reale e Villa Reale. A questi incarichi fecero seguito riconoscimenti culturali ed economici: venne accolto nella Società Patriottica di Milano, nell’Accademia dell’Arcadia di Roma, ottenne la cattedra di eloquenza anche presso la neonata Accademia di Belle Arti di Brera e gli venne concessa da papa Pio VI una pensione annua.

PERCHÉ PARINI È UN CLASSICO? 1. Perché ha rinnovato la poesia scegliendo contenuti nuovi legati al vero e restituendole una funzione sociale. 2. Perché alle novità tematiche ha affiancato sul piano formale un recupero della tradizione classica, unendo il bello e il vero, due termini che nella cultura illuminista sembravano in contrasto. 3. Perché ci insegna che poeta non è chi fabbrica versi in quantità, ma chi, animato da una vocazione autentica, dedica la propria vita a un’attività di grande valore artistico, sociale e politico. 4. Perché ha offerto un esempio di coerenza, ispirando tutta la propria vita ai medesimi valori proclamati nei suoi versi, cosa che gli procurò la stima anche di intellettuali assai lontani dalla sua fede e dalle sue idee.

Gli ultimi anni La morte del conte Firmian e dell’imperatrice Maria Teresa e l’avvento al trono di Giuseppe II impressero un nuovo corso alla politica austriaca, spingendo Parini e molti altri intellettuali milanesi a un progressivo ritiro dalla vita pubblica. All’arrivo dei francesi a Milano nel 1796 venne chiamato a far parte della nuova municipalità, da cui presto si dimise non condividendone le scelte e la faziosità ideologica. La turbolenta situazione politica e la cattiva salute (alle difficoltà di deambulazione si erano aggiunti problemi agli occhi) lo indussero a dedicarsi pressoché esclusivamente agli studi, affidando ad alcuni allievi la pubblicazione definitiva delle Odi e lavorando alla revisione e completamento del Giorno, che tuttavia verrà pubblicato postumo. Morì nel 1799 e il suo corpo, inizialmente sepolto nel cimitero di Porta Comasina, andò in seguito disperso, come lamenterà Foscolo nei suoi Sepolcri.

LA VITA [1729-1799] Giovinezza e studi; precettore in casa Serbelloni Nato a Bosisio, presso Lecco, nel 1729, da famiglia di piccoli commercianti, studiò a Milano presso i padri barnabiti. Avendogli una prozia lasciato in eredità una piccola rendita a patto che fosse ordinato sacerdote, abbracciò lo stato ecclesiastico e divenne abate. A vent’anni cominciò a manifestarsi l’artrite alle gambe che lo tormentò per tutta la vita. Nel 1752, completati gli studi, pubblicò il primo volume di poesie: Alcune poesie di Ripano Eupilino; l’anno successivo fu accolto nell’Accademia dei Trasformati ed entrò in contatto con la cultura illuminista europea. Per diversi anni fu precettore presso la nobile famiglia milanese dei duchi Serbelloni, incarico che lasciò nel 1762 a seguito di un diverbio con la duchessa.

LE COSTANTI LETTERARIE L’impegno civile della letteratura Parini si impegnò a restituire dignità sociale alla poesia, guidato dall’idea che la letteratura fosse chiamata a contribuire al miglioramento della società. Cardini di questa impostazione civile erano l’alta considerazione della poesia, valore prezioso che va utilizzato con parsimonia e mai sprecato, e la rivendicazione della sua autonomia rispetto alla scienza, alla filosofia e all’economia.

Gli anni della consacrazione Passato al servizio del conte Imbonati, iniziò a comporre le opere della sua fase matura, scegliendo argomenti ispirati ai problemi della società e proponendosi come consigliere delle istituzioni; pubblicò in particolare le prime Odi, Il Mattino (1763) e Il Mezzogiorno (1765). La sua fama di poeta impegnato gli valse i primi incarichi pubblici: nel 1769 diresse la “Gazzetta di Milano” e ottenne dal conte Firmian, plenipotenziario dell’imperatrice a Milano, la cattedra di eloquenza alle Scuole Palatine (poi Regio Ginnasio di Brera). Quando, nel 1771, l’arciduca d’Austria si stabilì a Milano come governatore e capitano generale di Lombardia, Parini fu tra i protagonisti dei festeggiamenti e del rinnovamento urbanistico e culturale della città: fece parte della commissione incaricata della riforma delle scuole, compose la cantata Ascanio in Alba musicata da Mozart, suggerì i soggetti G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Dire bene cose buone La poesia di Parini si fonda su una costante assieme etica e stilistica: etica nel senso che affronta temi socialmente rilevanti e utili; estetica nel senso che per farlo si serve di un linguaggio alto e arduo, ripreso dalla tradizione dei classici, che obbliga il lettore a una lettura attenta e ponderata.

LE OPERE I primi esperimenti poetici: Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752) Pubblicata nel 1752, la raccolta comprende 94 testi (per lo più sonetti, ma anche capitoli, egloghe e un’e-

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pistola in versi sciolti) suddivisi in due sezioni. I modelli sono vari, dai classici Anacreonte, Catullo e Orazio, a Petrarca, ai poeti del Cinquecento, in particolare Francesco Berni; vari sono anche i temi, giocosi, bucolici, amorosi e religiosi.

ci; la sintassi è caratterizzata dal ricorso frequente alle inversioni (iperbati, anastrofi); dal punto di vista della metrica si hanno nuove soluzioni strutturali e ritmiche (l’uso accorto di parole piane, tronche e sdrucciole).

Le Odi [1758-1795]

Il Giorno [1763-1799]

Utilità e bellezza Unendo un’idea di matrice classica (il miscere utile dulci del poeta latino Orazio) con le istanze illuministe dell’Accademia dei Trasformati, Parini volle realizzare una poesia che affrontasse i problemi della società contemporanea senza rinunciare alle istanze estetiche, cioè ad accrescere la bellezza del mondo. Con questo intento vennero composte le 25 Odi, le prime 22 pubblicate nel 1791 da un allievo, cui se ne aggiunsero altre tre composte dopo tale data.

La composizione Il progetto iniziale prevedeva tre poemetti indipendenti in endecasillabi sciolti, Il Mattino, Il Mezzogiorno e La Sera; i primi due furono pubblicati anonimi rispettivamente nel 1763 (1083 versi) e nel 1765 (1376 versi). A partire dal 1780 il progetto mutò e Parini pensò a un poemetto unitario dal titolo Il Giorno, suddiviso in quattro parti, Il Mattino, Il Meriggio, Il Vespro e La Notte. L’opera rimase però incompiuta: Parini portò a termine solo le prime due parti (Il Mattino indicato come Il Mattino II, rifacimento del Mattino del 1763, e Il Meriggio, rifacimento del Mezzogiorno del 1765); Il Vespro risulta interrotto al verso 349, mentre della Notte abbiamo diverse redazioni, la più ampia delle quali (673 versi) sembra rispettare le ultime volontà dell’autore.

Le Odi illuministe Tra il 1758 e il 1769 vennero composte le prime 7 Odi, più legate al proposito di trattare temi di utilità sociale: La vita rustica, La salubrità dell’aria (sui problemi dell’inquinamento a Milano), L’impostura, L’educazione (per una pedagogia fondata sulla concordia fra cuore e ragione e sulla fedeltà al giusto e al vero), L’innesto del vaiolo (a sostegno della vaccinazione contro il vaiolo), Il bisogno (sulla necessità di prevenire il crimine, anziché limitarsi a punirlo), La musica (contro la pratica di castrare i ragazzini per mantenere le voci bianche, molto apprezzate in teatro). Parini appare ancora alla ricerca di un equilibrio fra il bello poetico e l’utile illuminista. Le Odi della maturità Più legate a piccole occasioni autobiografiche sono le Odi della fase matura, in particolare La recita dei versi (il poeta rifiuta l’invito a comporre una poesia per un’occasione mondana), La caduta (malfermo sulle gambe, il poeta cade per strada e viene soccorso da un sedicente ammiratore), Il pericolo (l’anziano poeta alle prese con il desiderio amoroso), Il dono (ringraziamento a un’ammiratrice per il dono di un volume di Alfieri), Il messaggio (ringraziamento ad un’altra ammiratrice che si era informata sulle condizioni di salute dell’anziano poeta), Alla Musa (in occasione della nascita del primogenito di un discepolo). Dall’occasione contingente la poesia si eleva a verità e valori universali, mentre a livello stilistico viene finalmente raggiunto un perfetto equilibrio fra bello e utile. Le Odi di questa stagione influenzeranno profondamente i grandi poeti dell’età successiva, tra cui Foscolo, Manzoni e Leopardi.

La trama Il poeta, assunta l’identità di un precettore, intende educare un «giovin signore» e guidarlo attraverso le diverse attività della giornata (in realtà a partire dal Meriggio si trasformerà in semplice osservatore); attraverso la maschera dell’ironia, la finzione nasconde una feroce critica di una vita oziosa, scandita da occupazioni frivole e del tutto priva di senso morale. Il Mattino II: svegliatosi a tarda ora, il giovin signore si dedica alla colazione, alla toilette e alla vestizione; riceve i maestri di ballo, musica e francese, il merciaio e il miniaturista, il parrucchiere e il barbiere; legge gli autori alla moda, tra cui Voltaire, scrive un biglietto alla dama di cui è cavalier servente, si sottopone alla cerimonia dell’incipriatura. Il Meriggio: toilette e vestizione della dama; arrivo del giovin signore, conversazione e preparativi per il pranzo; il pranzo e i riti del caffè e del gioco. Il Vespro: descrizione del tramonto e preparativi per l’uscita serale; sfilata dei cocchi lungo il corso; il giovin signore e la dama si recano in visita ad alcuni amici. La Notte: confronto fra la notte medievale, lugubre e cupa, e quella moderna, sfavillante di luci; il giovin signore e la dama si godono il fresco della sera, quindi si recano in un fastoso palazzo dove sono raggiunti da altri del loro ceto (descritti nel celebre brano della «sfilata degli imbecilli»); seguono le scene del ballo e del gioco, dove il manoscritto si interrompe.

Un nuovo stile Ai nuovi contenuti (la dignità dell’uomo, la libertà, l’uguaglianza, il valore della poesia) si accompagna un nuovo stile: il lessico è caratterizzato dalla mescolanza di latinismi, arcaismi e termini crudi e realisti-

Un’opera incompiuta I primi due poemetti, pubblicati nel 1763 e nel 1765, furono accolti con favore dal governo austriaco, dagli intellettuali illuministi e dalla stessa nobiltà milanese, tanto che si creò una grande attesa per il

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completamento dell’opera. L’attesa andò delusa per diverse ragioni: l’intensa attività pubblica di Parini fra il 1768 e il 1782; il suo perfezionismo, che lo portava a rivedere in continuazione anche quanto già pubblicato; la difficoltà, forse, di sviluppare le ultime due parti in modo da dare al poema una struttura equilibrata; la consapevolezza che la storia stessa, dopo la Rivoluzione del 1789, aveva fatto piazza pulita della nobiltà vanificando il progetto riformatore del poeta; il prevalere progressivo delle forze «centrifughe» rispetto a quelle «centripete» (Isella) nell’ispirazione di Parini, che minacciava l’unità dell’opera.

Lo stile In un’epoca in cui le idee illuministiche propugnavano una letteratura tutta idee e cose, la poesia del Giorno si segnala per una forte impronta aulica. La lingua del poema è molto distante da quella della comunicazione, allo scopo di generare, attraverso il contrasto con l’insulsaggine e il vuoto morale della vita del giovin signore, una violenta distorsione ironica. L’aulicità dello stile è ottenuta in particolare con il ricorso a latinismi e termini ricercati, con le figure di inversione (iperbati, anastrofi), con il ricorso a perifrasi, similitudini, confronti mitologici. L’effetto ironico è ottenuto inoltre mediante il ricorso sistematico all’antifrasi: a livello macrostrutturale, attraverso il confronto continuo fra la vita preziosa e inutile degli aristocratici e quella dura e operosa dei contadini (con la seconda che, naturalmente, rende possibile la prima); a livello microstrutturale, attraverso l’impiego frequente di parole ed espressioni bivoche, che cioè hanno due significati tra loro opposti. Il ricorso all’ironia come fondamento strutturale dell’opera non andò esente da critiche: Pietro Verri, in un articolo pubblicato sul “Caffè” nel 1765, intitolato Sul ridicolo, prese le distanze dal Giorno, convinto che compito della letteratura fosse quello di far riflettere e non di far ridere.

Genere e fonti L’opera rientra nella tradizione del poema didascalico di ascendenza classica (ne sono esempio le Georgiche di Virgilio), che aveva goduto di una certa fortuna fino al Rinascimento (del 1546 è la Coltivazione dei campi di Luigi Alamanni) ed era stato riscoperto nel Settecento (per esempio con La coltivazione del riso, pubblicato nel 1758 da Gian Battista Spolverini). Intento reale del Giorno, tuttavia, non è insegnare quel che va fatto, ma denunciare quel che si fa, proponendo quindi, antifrasticamente, un insegnamento alla rovescia. La poesia didascalica si trasforma così in poesia satirica, richiamandosi alla tradizione del poema eroicomico: il «giovin signore» è di fatto un eroe alla rovescia.

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VITTORIO ALFIERI un periodo di grande creatività: compose ben 14 tragedie, tra cui capolavori come Filippo, Antigone, Saul; dieci di esse vennero date alle stampe nel 1783. Tra il 1783 e il 1787 compì nuovi viaggi in Italia e all’estero, compose nuove tragedie, tra cui la Mirra, e i trattati in prosa Del principe e delle lettere e Della virtù sconosciuta, mentre continuava a lavorare alle Rime.

PERCHÉ ALFIERI È UN CLASSICO? 1. Perché nelle sue opere esalta l’individuo eccezionale, dotato di volontà e forza d’animo fuori del comune. 2. Perché sottopone i suoi personaggi a uno scavo interiore che penetra nelle ragioni più nascoste della psiche, mostrando la fragilità dell’uomo e la labilità del confine che separa ragione e follia. 3. Perché affida alla scrittura il compito di esplorare le sfaccettature della grandezza e della miseria dell’uomo, in uno stile sempre energico e incalzante che scaturisce da un’urgenza assieme esistenziale e stilistica.

Gli ultimi anni Alla fine del 1787 Alfieri si stabilì con la Stolberg a Parigi, dove fra il 1787 e il 1798 diede alle stampe l’edizione definitiva del suo teatro. Inizialmente entusiasta della Rivoluzione, mutò opinione di fronte al giacobinismo dilagante, giungendo nel Misogallo a esprimere un vero odio contro i francesi. Fuggito avventurosamente da Parigi con la Stolberg nel 1792, si stabilì definitivamente a Firenze, dedicandosi agli studi (del greco e dell’ebraico), alle traduzioni, al completamento della Vita (stampata postuma nel 1806) e alla redazione definitiva delle Rime (la prima parte era stata pubblicata nel 1789, mentre la seconda uscirà postuma nel 1804). Morì nel 1803 dopo una breve malattia. Gli ultimi anni fiorentini di Alfieri verranno immortalati da Ugo Foscolo nei Sepolcri, dando vita al mito preromantico di Alfieri maestro di libertà, uomo e poeta in conflitto con il proprio tempo.

LA VITA [1749-1803] Una giovinezza irrequieta Nacque ad Asti nel 1749 da famiglia di antica nobiltà; rimasto orfano di padre, si trasferì con la madre a Torino, dove compì gli studi all’Accademia Reale. Entrato nell’esercito, compì numerosi viaggi in Italia (a Milano, Firenze, Napoli, Roma, Venezia) e in Europa (in Francia, Inghilterra, Olanda, Austria, Germania, Scandinavia, Russia, Spagna e Portogallo). Caratterizzati da grande irrequietezza e smania di novità, questi viaggi arricchirono il suo bagaglio culturale e umano, facendogli conoscere la cultura illuminista e confermandolo nella sua avversione per le corti. Il giovane Alfieri sperimentò in questi anni anche le prime passioni d’amore, che lo portarono a battersi in duello e a tentare il suicidio.

LE COSTANTI LETTERARIE Letteratura e vita Poesia e biografia sono inscindibilmente intrecciate in Alfieri: la fortissima personalità dell’autore si proietta in ogni pagina, mentre la vocazione letteraria fornisce all’esistenza la sua ragion d’essere e il suo scopo.

La «conversione» alla letteratura Rientrato a Torino nel 1772, fondò la Société des Sansguignons per la quale compose in francese i suoi primi esperimenti letterari, mentre cresceva in lui il disagio per gli obblighi che la condizione nobiliare gli imponeva. Nel 1775 fece rappresentare al Teatro Carignano la sua prima tragedia, Cleopatra, che ebbe notevole successo e lo convinse ad abbracciare la strada delle lettere. Riconoscendosi a disagio con la lingua italiana letteraria, nonché del tutto digiuno di studi classici, per prima cosa si impegnò con straordinaria forza di volontà a recuperare il tempo perduto. Nel 1778, allo scopo di sottrarsi agli obblighi vassallatici e di «spiemontizzarsi» una volta per tutte, donò tutti i suoi beni alla sorella in cambio di una pensione annua e si trasferì a Firenze, dove aveva intrecciato con Louise Stolberg, contessa d’Albany, una relazione destinata a durare per tutta la vita. Libero finalmente da ogni servitù e spronato da un «degno amore», Alfieri fra il 1775 e il 1782 conobbe G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Una visione agonistica Il conflitto (fra tiranno e «liber’uomo», fra ragione e sentimento, fra volontà e passione) è alla base delle opere più significative di Alfieri. Si tratta di un conflitto insanabile, che non ammette compromessi o soluzioni dialettiche, ma si conclude inevitabilmente con il soffocamento di uno dei due poli dello scontro; di norma è la violenza ad avere la meglio, quella esterna del tiranno o quella interiore che conduce l’uomo al suicidio, soluzione che certifica l’impossibilità di risolvere i conflitti. Questi aspetti si riscontrano anche a livello formale: gli scritti di Alfieri sono sempre caratterizzati stilisticamente da una violenta energia, che rende tormentatissimi i suoi endecasillabi e trasforma i dialoghi delle sue tragedie in veri e propri duelli verbali.

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LE OPERE

(Atto I); accusato dal ministro Abner e difeso da Micol e Gionata, David si presenta al cospetto di Saul per giustificarsi, dichiarandosi pronto ad accettare qualunque punizione; Saul e David si riconciliano (Atto II). Riesplodono a più riprese la gelosia, la collera e la mania di persecuzione di Saul attacca anche i sacerdoti e a stento viene placato da David (Atto III). Invano Saul cerca un alleato nel figlio Gionata, che rimane fedele all’amicizia con David; nell’ennesimo accesso di furore Saul condanna a morte David e i sacerdoti accusati di favorirlo (Atto IV). Avvisato dall’amico e dalla moglie, David fugge, mentre Saul cade in delirio. Alla notizia della sconfitta contro i filistei, il re torna in sé, rifiuta di fuggire e si uccide (Atto V).

Le tragedie [1775-1787] Tradizione e novità Nell’arco di tredici anni Alfieri compose 19 tragedie; una prima edizione, stampata a Siena nel 1783, ne comprendeva dieci, mentre quella definitiva risale agli anni parigini (1787-1789). Gli argomenti sono tratti dal mito classico (Antigone, Agamennone, Mirra), dalla storia romana (Ottavia, Bruto primo, Bruto secondo), dalla Bibbia (Saul), dalla storia moderna (La congiura de’ Pazzi, Filippo, Maria Stuarda). Rispetto alla tradizione, Alfieri innova favorendo al massimo la concentrazione della vicenda: sono eliminati prologo ed epilogo, coro e personaggi secondari (come i confidenti); vengono ridotti i monologhi; sono rispettate fedelmente le unità di tempo, luogo e azione; la tragedia alfieriana si affida tutta ai dialoghi, per lo più fitti di battute brevi o brevissime. Anche la struttura è concentrata: primo e quinto (ultimo) atto sono di solito molto brevi; il protagonista di norma compare nel secondo. Il tutto allo scopo di esprimere con la massima efficacia le passioni (furore, vendetta, gelosia, amore, libertà). Completamente assente risulta la sfera del soprannaturale; Alfieri bandisce dalle sue tragedie sia il fato classico sia la provvidenza del Dio cristiano. Il verso è l’endecasillabo sciolto, antimelodico e frantumato per esprimere al meglio i conflitti fra i personaggi. Proprio il conflitto è l’anima delle tragedie alfieriane: quello fra il tiranno e l’eroe della libertà (destinato alla sconfitta), oppure quello tutto interiore come in Saul e in Mirra.

I significati In apparenza la tragedia ripropone il conflitto, tipicamente alfieriano, fra tiranno (Saul) e uomo libero (David). In realtà, il vero conflitto è quello combattuto all’interno del personaggio di Saul, dilaniato da opposte passioni; i suoi avversari, David e Dio, sono in effetti proiezioni del suo io diviso: egli infatti al tempo stesso ama David, in cui vede se stesso da giovane, e lo odia, spinto dall’invidia e dalla gelosia. Più in profondità, il conflitto nell’anima di Saul è combattuto fra il delirio di onnipotenza del re e i limiti della sua condizione umana, in particolare la vecchiaia e la morte. Il suicidio finale esprime le contraddizioni irrisolte del personaggio: infatti è assieme vittoria, in quanto estrema affermazione della volontà del sovrano, e sconfitta, in quanto resa dell’uomo ai propri limiti.

Mirra [1786] La trama Ideata nel 1784, stesa nel 1785 e verseggiata nel 1786, la tragedia mette in scena un mito classico: la giovane Mirra, promessa in sposa a Pereo, all’avvicinarsi delle nozze appare sempre più angosciata; i familiari (il padre Ciniro, la madre Cecri, la nutrice Euriclea) cercano di scoprirne il motivo (Atto I). Sollecitato da Ciniro, Pereo accetta di rinunciare a Mirra; è infatti sinceramente innamorato e non vuole renderla infelice. Un colloquio fra i due fidanzati non sblocca la situazione e anzi Mirra appare disperata al punto di supplicare Euriclea di ucciderla (Atto II). Mirra, a colloquio con i genitori, cerca di tranquillizzarli e accetta di sposare Pereo. Cecri confessa al marito di avere offeso la dea Venere e di temerne la possibile vendetta (Atto III). Durante le nozze, Mirra cade in preda al delirio e respinge Pereo. Nelle concitate scene che seguono, Mirra implora inutilmente prima il padre e poi la madre di darle la morte (Atto IV). Ciniro annuncia a Mirra il suicidio di Pereo; segue un drammatico dialogo fra padre e figlia, al termine del quale Mirra rivela di essere innamorata proprio del padre e di provare gelosia per la madre, quindi si uccide, fra l’orrore dei genitori (Atto V).

La prassi compositiva Nella composizione, Alfieri seguiva un metodo scandito in tre fasi: ideazione (stesura in prosa del soggetto in sintesi, individuazione dei personaggi e distribuzione della vicenda in atti e scene); stesura (composizione integrale dei dialoghi in prosa, seguendo l’ispirazione di getto e senza alcuna selezione); verseggiatura (stesura del testo definitivo in versi, selezionando e asciugando i materiali della seconda fase), seguita dalle inevitabili limature. Fra le varie fasi (specie fra la seconda e la terza) potevano passare anni e il poeta, venuta meno l’ispirazione, poteva anche eliminare il tutto.

Saul [1782] La trama Ideata, stesa e verseggiata in soli sei mesi, la tragedia è ispirata al racconto biblico del Primo libro dei Re (oggi Primo libro di Samuele): Saul, re d’Israele, perseguita il giovane David che, incurante dei moniti del principe Gionata e della moglie Micol, torna nell’accampamento per aiutare i suoi contro i filistei G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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sua esistenza. Per Alfieri dedicarsi alla composizione letteraria non significa svolgere un mestiere, ma servire una passione. Altro aspetto costantemente sottolineato nell’opera è la perfetta coerenza fra vita e arte; per Alfieri non è l’eccellenza artistica a nobilitare la vita dello scrittore, ma al contrario è la sua tempra morale a caratterizzare in modo inconfondibile le esperienze da lui vissute, oltre che le sue creazioni artistiche. Nell’opera si avverte anche una sorta di controcanto ironico, particolarmente evidente in alcune pagine (come quando Alfieri riflette sull’identità numerica fra le tragedie composte e i cavalli acquistati in Inghilterra) e nello stile: l’autore infatti adotta uno stile naturale e spontaneo, caratterizzato dal predominio della paratassi e da una grande inventiva a livello lessicale.

I significati Alfieri ricavò il soggetto dalle Metamorfosi di Ovidio, modificandolo in modo sostanziale: il poeta latino si dilunga sui sotterfugi messi in atto da Mirra per soddisfare la propria passione e consumare l’incesto, mentre in Alfieri la giovane rifiuta di cedere a una passione che sa abominevole, anzi rifiuta persino di nominarla. Mentre Saul aveva attorno a sé figure esterne su cui proiettare il proprio dissidio interiore, inventandosi dei nemici (David, Dio), Mirra è nell’impossibilità di farlo, circondata com’è da persone che le vogliono bene e hanno a cuore solo la sua felicità. Il suo conflitto perciò è tutto interiore e drammaturgicamente si rivela nella contrapposizione insanabile fra il mondo della parola (rappresentato dai genitori, dalla nutrice, dal fidanzato che cercano di sapere da lei la verità) e il mondo del silenzio (rappresentato da Mirra stessa, che rifiutando di accettare la verità rifiuta anche solo di nominarla). Pur tentando di razionalizzare la vicenda (la passione di Mirra sarebbe conseguenza della vendetta di Venere, offesa da Cecri), Alfieri riconosce la forza devastante di una passione del tutto inspiegabile e irriducibile all’ambito della ragione. Così pure il suicidio della protagonista rappresenta una sconfitta della volontà: invano Mirra ha supplicato tutti di ucciderla, così da morire innocente; invece finisce per provocare la morte dell’innocente e innamorato Pereo, e quando si getta infine sulla spada del padre, lo fa solo dopo avere rivelato la propria colpa, cedendo da ultimo alla passione e provocando la condanna inorridita dei genitori.

Le Rime [1776-1798] Un’autobiografia in versi Le Rime di Alfieri furono raccolte e stampate in due parti: la prima nel 1789 a cura del poeta stesso, la seconda postuma nel 1804. Vi sono raccolte poesie composte nell’arco di circa vent’anni, fra il 1776 e il 1798, e nate come sfoghi autobiografici, vere pagine di diario in versi, in uno stile antimelodico e aspro, specchio dei conflitti interiori dell’autore. Particolarmente originali (e anticipatrici) le poesie dedicate alla natura solitaria e selvaggia in cui si rispecchiano le passioni del poeta.

Le altre opere La Vita [1806] Opere politiche Vanno segnalate in particolare tre opere in prosa: Della tirannide (trattato scritto nel 1777 e stampato nel 1789), in cui Alfieri sostiene l’inevitabilità del conflitto fra tiranno e uomo libero, entrambi individui eccezionali; Del principe e delle lettere (trattato iniziato nel 1778 e stampato nel 1789), in cui l’autore sostiene l’assoluta incompatibilità tra il potere e le lettere, che fioriscono solo in regime di libertà. Ne consegue la necessità per il letterato di vivere in solitudine, evitando ogni compromesso con gli uomini di potere; Della virtù sconosciuta (dialogo composto nel 1786 e pubblicato nel 1788), in cui Alfieri si confronta con l’anima di un caro amico morto sui temi della libertà, mettendo a confronto due scelte di vita: l’aperta ribellione e la dissimulazione onesta.

La struttura Al 1790 va datata la prima redazione dell’autobiografia di Alfieri, il cui titolo completo è Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso; fra il 1798 e il 1803 fu realizzata una significariva revisione del testo, oltre al suo aggiornamento; l’opera venne pubblicata però solo postuma nel 1806, per opera della contessa d’Albany. La Vita appare divisa in quattro epoche: la Puerizia, dedicata ai primi nove anni di vita; l’Adolescenza, che abbraccia gli otto anni di non-studio presso l’Accademia Reale di Torino; la Giovinezza, che comprende anni di viaggi e dissolutezze; la Virilità, che abbraccia circa trent’anni dedicati agli studi e alla composizione letteraria. Un racconto idealizzato L’autobiografia di Alfieri non è sempre pienamente attendibile come documento storico; l’autore tende a fornire di se stesso un ritratto idealizzato, quello cioè di un uomo che, grazie a una straordinaria forza di volontà, ha saputo realizzarsi superando ogni ostacolo; in particolare viene messa in risalto la «conversione» alla letteratura, che ha dato senso a tutta la G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Opere satiriche Negli ultimi anni di vita Alfieri compose diciassette Satire in terzine di endecasillabi (pubblicate postume nel 1806), prendendo di mira la nobiltà cortigiana, i costumi sociali e le istituzioni. Il Misogallo (l’“odiatore dei francesi”) è invece una raccolta di versi e prose in cui Alfieri sfoga il proprio odio contro la Francia.

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VOLUME 2 Il Settecento

Commedie e «tramelogedia» Sempre negli ultimi anni Alfieri scrisse anche sei commedie in versi (pubblicate postume nel 1806). Quattro in particolare formano un corpo unico di argomento politico: L’uno, I pochi, I troppi e L’antidoto. In esse, il governo misto, modellato sulla costituzione inglese, è visto come appunto un antidoto con-

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tro i veleni rappresentati dalle altre forme di governo: la monarchia (il potere di uno), l’oligarchia (il potere di pochi) e la democrazia (il potere di troppi). Infine con l’Abele, ispirato al biblico fratricidio, Alfieri volle tentare il genere nuovo della «tramelogedia», parola inventata dallo stesso Alfieri, a indicare un misto di tragedia e melodramma.

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I classici • Ugo Foscolo Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Neoclassicismo e il Romanticismo

UGO FOSCOLO familiari (nel 1801 morì suo fratello Gian Dionigi), grandi passioni amorose (con Antonietta Fagnani Arese, con Fanny Hamilton, che gli diede una figlia) e un’intensa produzione letteraria (nel 1802 pubblicò le Ultime lettere di Jacopo Ortis, nel 1803 La chioma di Berenice e le Poesie, nel 1807 il carme Dei sepolcri e l’Esperimento di traduzione dell’Iliade) che gli valse la nomina a professore di eloquenza italiana e latina all’università di Pavia: in occasione della lezione inaugurale pronunciò un memoriabile discorso ispirato a una concezione altamente morale e politica del ruolo della letteratura all’interno della società civile. Col tempo tuttavia i suoi rapporti con gli intellettuali milanesi e con il governo si guastarono; la sua tragedia Ajace, andata in scena nel 1811, fu proibita dalla censura per sospette allusioni antifrancesi, e Foscolo venne invitato a lasciare Milano. Fra il 1812 e il 1813 risiedette a Firenze, dove compose la tragedia Ricciarda, lavorò alle Grazie e tradusse dall’inglese il Viaggio sentimentale di Yorick in Francia e in Italia di Laurence Sterne. Quando, nel 1813, Napoleone fu costretto ad abdicare ed esiliato sull’isola d’Elba, Foscolo riprese servizio nell’esercito, nel tentativo di salvare l’indipendenza del Regno d’Italia. Gli austriaci, in virtù delle sue posizioni antinapoleoniche, tentarono di coinvolgerlo nella politica culturale del nuovo stato, lasciandogli ampia libertà d’azione, ma dopo molte esitazioni Foscolo scelse l’esilio e nel 1815 lasciò l’Italia.

PERCHÉ FOSCOLO È UN CLASSICO? 1. Perché i suoi scritti, come tutti i classici, riescono a tenere insieme il bello e il vero. 2. Perché le sue opere parlano all’uomo dei grandi temi che lo riguardano: l’amore per la libertà, la dialettica tra vita e morte, il rapporto conflittuale con il tempo, i dolore dell’amore non corrisposto, la bellezza della poesia. 3. Perché le sue opere hanno una struttura dualistica, che pone sullo stesso piano i due termini del confronto (per esempio la vita e la morte) rendendo impossibile la scelta.

LA VITA [1778-1827] Gli anni veneziani Niccolò Foscolo (assumerà il nome Ugo a 16 anni) nacque nel 1778 a Zante (Zacinto), possedimento della Repubblica di Venezia, da padre veneziano e madre greca che, rimasta vedova, si trasferì a Venezia dove il figlio la raggiunse nel 1792. Seguirono anni tumultuosi; a seguito della discesa in Italia di Napoleone, nel 1797 abdicò l’ultimo doge dell’antica Repubblica e venne instaurato un governo democratico filofrancese; Foscolo si impegnò nell’attività politica aderendo alle idee giacobine e intraprese la carriera militare arruolandosi nel corpo dei cacciatori a cavallo. La sua ammirazione nei confronti di Napoleone subì un duro colpo a seguito del trattato di Campoformio (ottobre 1797) con cui Bonaparte cedeva Venezia all’Austria in cambio di Milano e del Belgio, gettando così la maschera di liberatore in nome della ragion di stato.

Gli anni dell’esilio Dopo un anno trascorso in Svizzera, dove pubblicò tra l’altro una nuova edizione dell’Ortis, Foscolo si trasferì definitivamente a Londra, dove si riunì alla figlia Fanny e venne accolto dall’ammirazione degli intellettuali inglesi. Qui pubblicò l’edizione definitiva dell’Ortis, riprese a lavorare alle Grazie e alla traduzione dell’Iliade, ma si dedicò in particolare agli studi critici, pubblicando articoli e saggi su Dante e Petrarca e sulla letteratura italiana contemporanea. Un tenore di vita al di sopra dei suoi mezzi lo mise ben presto nei guai con i creditori, costringendolo a trovare rifugio nei quartieri più degradati della capitale inglese; qui la morte lo colse nel 1827, malato di idropisia. Nel 1871 le sue ossa vennero traslate a Firenze, nella chiesa di Santa Croce, fra le tombe dei grandi da lui cantate nei Sepolcri.

Il periodo milanese Trasferitosi a Milano, capitale della Repubblica cisalpina, Foscolo conobbe e frequentò i letterati più in vista, come Giuseppe Parini e Vincenzo Monti; a Bologna collaborò con diversi giornali e lavorò alla prima stesura delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Rientrato nei ranghi dell’esercito, combattè (rimanendo ferito due volte) a Cento, alla Trebbia, a Genova (durante l’assedio della città da parte degli austrorussi compose l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e iniziò la riscrittura dell’Ortis), a Marengo. Estremista libertario e spesso critico nei confronti di Napoleone, i suoi rapporti con il governo filofrancese della Repubblica cisalpina (trasformata nel 1805 in viceregno) furono sempre problematici; tuttavia Foscolo collaborò con il Ministero della Guerra e fece parte, con il grado di capitano, dell’armata riunita in vista della progettata (e mai attuata) invasione dell’Inghilterra. Fu un periodo contrassegnato da lutti G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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LE COSTANTI LETTERARIE La preponderanza dell’io Nelle opere di Foscolo domina un “io” prepotente, quasi sempre identificabile con quello dell’autore,

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I classici • Ugo Foscolo Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Neoclassicismo e il Romanticismo

Ortis, pubblica le lettere che l’amico gli ha inviato fra l’11 ottobre 1797 (all’indomani del trattato di Campoformio) e il 25 marzo 1799, subito prima della morte. Lasciata Venezia per sfuggire alle persecuzioni politiche, Jacopo incontra sui colli Euganei la bella Teresa, di cui si innamora, ricambiato, benché la fanciulla sia già promessa al meschino Odoardo per ragioni d’interesse. Dopo un lungo viaggio per l’Italia, che lo porta fra l’altro a Firenze (dove visita la chiesa di Santa Croce) e a Milano (dove incontra Parini), appresa la notizia del matrimonio fra Teresa e Odoardo, ritorna infine sui colli Euganei dove, vistasi negata ogni possibilità di azione sia in campo politico sia in campo sentimentale, si toglie la vita pugnalandosi al cuore.

modellato su posizioni alfieriane, innamorato della libertà e sostenitore appassionato della missione civile e politica del letterato. La storia della poesia foscoliana può essere letta come un’evoluzione di questo soggettivismo, da un grado massimo (l’Ortis) a un grado minimo (le Grazie), passando per il perfetto equilibrio dei Sepolcri. L’intreccio tra arte e vita Foscolo porta all’esasperazione l’intreccio fra arte e vita, carattere già alfieriano e poi tipico del Romanticismo: per esempio diverse lettere contenute nell’Ortis riprendono da vicino lettere realmente scritte a persone reali; tutto ciò crea talvolta difficoltà a livello di analisi critica (come distinguere, per esempio, Foscolo da Ortis?), ma assieme costituisce la fonte della straordinaria ricchezza di valori e forme della sua opera.

La storia del testo Ispirato a modelli molteplici (dagli autori classici, ai contemporanei inglesi e francesi, ai Dolori del giovane Werther di Goethe, senza dimenticare la Bibbia, come ha cercato di dimostrare la critica più recente) l’Ortis ebbe una gestazione e una vicenda editoriale lunghissime. Iniziato a Bologna nel 1798, fu affidato per la stampa al tipografo Marsigli che, partito Foscolo, affidò il completamento dell’opera ad Angelo Sassoli (che lavorò su materiali foscoliani) e pubblicò il testo nel 1800. Foscolo però rinnegò l’edizione bolognese e ne curò una nuova a Milano, stampata nel 1802 a cura del Genio tipografico. Altre due edizioni vennero realizzate dopo la fuga dell’autore dall’Italia: la prima in Svizzera nel 1816, presso l’editore Füssli di Zurigo, la seconda – e definitiva – in Inghilterra nel 1817, in due volumi, presso l’editore Murray di Londra. Le differenze fra le due ultime edizioni sono irrilevanti: l’unica significativa è la divisione del romanzo in due parti nell’edizione inglese; più interessanti sono quelle tra le edizioni di Bologna, Milano e Zurigo/Londra. Nell’edizione bolognese il tema politico rimane sullo sfondo e a dominare è la passione amorosa di Ortis per Teresa che, vedova con un figlio, non solo non ricambia ma neppure si accorge dell’amore di Jacopo e ama invece Odoardo, buon amico del protagonista. Particolarmente marcate appaiono le somiglianze con I dolori del giovane Werther, pubblicato da Goethe in prima edizione nel 1774 e uscito in traduzione italiana proprio a Venezia nel 1796. Nell’edizione milanese la trama appare ormai quella definitiva: Teresa è diventata la fanciulla sensibile promessa dal padre al gretto Odoardo per motivi di interesse e a determinare il suicidio finale di Jacopo concorrono, ora profondamente intrecciate, le ragioni amorose, politiche ed esistenziali. Infine, l’edizione definitiva lascia sostanzialmente immutata la vicenda (pochi i ritocchi, come l’aggiunta della lettera datata 17 marzo 1798, violentemente antinapoleonica), mentre appare caratterizzata da numerose correzioni linguistiche e stilistiche, nel tentativo di “toscanizzare” la lingua e conferirle un tono medio (come farà in seguito Manzoni).

La frammentarietà L’ispirazione di Foscolo è contrassegnata dalla frammentarietà; le sue opere nascono tutte, in un modo o nell’altro, per frammenti, riuniti solo a posteriori in un’opera unitaria; ciò vale per le Ultime lettere di Jacopo Ortis, per le Poesie, per le Grazie (un poema unitario, nelle intenzioni, ma mai portato a termine), persino per i Sepolcri, costruiti per quadri staccati collegati da “transizioni” arditissime di ispirazione musicale. Il dualismo Le opere foscoliane appaiono sempre caratterizzate da un irriducibile dualismo fra istanze contraddittorie (cuore e ragione, caos e armonia, vita e morte) mai ricomposte in unità e fra le quali, pertanto, risulta impossibile operare una scelta definitiva.

LE OPERE Gli anni dell’apprendistato Come nel caso di Alfieri, l’apprendistato poetico di Foscolo fu tutt’altro che semplice: sue lingue materne furono il noegreco e il dialetto veneziano, mentre l’italiano letterario dovette impararlo sui libri. I primi esperimenti poetici risentono di moduli arcadici, di cui però Foscolo si liberò presto per ispirarsi a nuovi maestri, in particolare Parini e Alfieri. Una sensibilità nuova e originale cominciò a manifestarsi dalla fine degli anni Novanta, in particolare nelle composizioni di sapore autobiografico e, soprattutto, in quelle di argomento politico, come nell’Ode a Bonaparte liberatore, del 1797.

Le ultime lettere di Jacopo Ortis [1817] La trama Si tratta di un romanzo epistolare: nella finzione letteraria, Lorenzo Alderani, dopo il suicidio di Jacopo G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME 2 Il Neoclassicismo e il Romanticismo

all’esigenza di creare uno “stile della passione”; l’espediente letterario della lettera, scritta nell’immediatezza dell’evento e nell’urgenza della passione, obbedisce allo scopo di trasferire direttamente sulla pagina le forti passioni dell’“io” esasperato e lacerato del protagonista, “io” che fa da lente deformante attraverso cui viene filtrato ogni evento, incontro, sentimento.

Ortis e Foscolo L’intreccio fra arte e vita, tratto costante in Foscolo, rende difficile, se non impossibile, distinguere fra la personalità dell’autore e quella del personaggio: Foscolo da un lato trasfonde in Ortis la propria esprienza biografica, mentre dall’altro tende a modellare la propria vita sul suo esempio. Una delle ragioni del fascino (e del successo) dell’opera sta proprio in questa confusione o sovrapposizione di ruoli. E tuttavia diversi elementi ci ricordano il carattere letterario dell’Ortis, uno su tutti il fatto che il personaggio si suicidi, l’autore invece no.

Le Poesie [1803] L’edizione delle Poesie stampata a Milano nel 1803 comprendeva due odi e dodici sonetti.

I temi Tre sono le tematiche fondamentali del romanzo: politica, amorosa ed esistenziale, articolate secondo un itinerario che va dall’illusione alla delusione e destinate a trovare il comune punto d’arrivo nel suicidio finale del protagonista. La delusione politica è legata al fallimento dell’esprienza rivoluzionaria e al naufragio delle speranze di libertà e indipendenza dell’Italia, speranze suscitate e in seguito calpestate da Napoleone. La delusione amorosa nasce dall’impossibilità di concretizzare il rapporto con Teresa e dalla constatazione che le leggi dell’interesse e delle convenienze sociali hanno la meglio sulla passione e sul sentimento. Questi due aspetti contribuiscono ad esasperare, a livello esistenziale, il radicale pessimismo del protagonista: amore e politica, in effetti, non fanno altro che contribuire a trasformare in gesto concreto una predisposizione ben precedente dell’animo di Jacopo, suicida «per indole d’anima» oltre che «per sistema di mente».

Le odi Le due odi sono: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1800) e All’amica risanata (1802-1803). Entrambe muovono da occasioni reali (la seconda dalla guarigione di Antonietta Fagnani Arese, sua amante) per trasfigurarle allegoricamente in una celebrazione della bellezza, rasserenatrice dell’esistenza, e della poesia, che rende la bellezza immortale. Il tutto immerso in uno sfondo mitologico di gusto neoclassico, con un linguaggio aulico fitto di latinismi e figure retoriche, finalizzato a ricreare un mondo, alternativo a quello reale, caratterizzato dall’armonia. Le due odi formano una microsequenza narrativa: nella prima la bellezza femminile appartiene al passato, mentre il presente è contraddistinto dalla sua perdita e il futuro dalla speranza del suo ritorno; nella seconda la speranza si realizza con il ritorno della salute: la perdita retrocede al passato, mentre il presente è dominato dal ritorno della bellezza e il futuro dalla promessa della sua eternità.

Il suicidio I viaggi, gli incontri e le esperienze di Jacopo nel corso del romanzo servono solo a trasformare in scelta matura una pulsione originariamente velleitaria, attraverso la piena presa di coscienza della negatività del reale. Resosi conto che gli uomini si dividono in oppressori e oppressi, e da una parte c’è chi commette violenza, dall’altra chi la subisce, Ortis rifiuta di schierarsi e sceglie il suicidio come unico modo (apparente) per non commettere violenza e non subirla. In realtà, all’inflessibile legge universale della sopraffazione neppure lui può sfuggire, perché le sue scelte e i suoi comportamenti lo pongono di fatto dalla parte di quanti commettono violenza: Jacopo infatti usa violenza a Teresa, turbandone la serenità, al prossimo (fondamentale in questo senso è la lettera del 14 marzo 1799, in cui confessa di avere provocato la morte di un povero contadino innocente) e infine a se stesso, con il suicidio.

I sonetti I dodici sonetti compongono una sorta di autoritratto in versi dell’autore, che si dipinge come un individuo eccezionale, dotato cioè di sentimenti e capace di passioni più forti del comune, avversato dai tempi e dalla sorte e costretto, pertanto, alla vita errabonda e infelice dell’esule, consolata solo in parte dalla poesia e dall’amore (per le donnne, per i familiari, per gli amici, per la madre). I sonetti formano un vero e proprio canzoniere, dotato di una struttura coerente, anche se costruita a posteriori, e pertanto immodificabile. Il primo (Alla sera) fa da proemio; spiccatamente autobiografici sono il II (Non son chi fui), il VII (Autoritratto) e il XII (Che stai?). In essi, l’io poetico appare assieme statico (costante rimane per esempio il rapporto conflittuale con se stesso e con il mondo) e dinamico (emerge il progressivo esaurirsi della vena poetica in favore degli studi eruditi; inoltre fra io biografico e soggetto del discorso viene progressivamente a crearsi una completa frattura): ancora una volta Foscolo propone una visione dualistica, in cui gli opposti coesistono antiteticamente senza possibilità di conciliazione o di scelta.

Lingua e stile Con Le ultime lettere di Jacopo Ortis Foscolo tentò di creare la lingua del romanzo italiano, modellandola assieme sulla tradizione letteraria e sull’uso vivo. La scelta del romanzo epistolare risponde anche G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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/ poca gioja ha dell’urna) e per le anime grandi a realizzare grandi imprese (A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti). Così pure alla poesia viene affidata una funzione civile, che è quella di eternare il ricordo dei grandi uomini affinché possano continuare a spronare gli uomini del futuro anche quando il sepolcro, oggetto fisico soggetto all’usura del tempo, avrà cessato di esistere.

A una concezione insanabilmente dualistica dell’ispirazione poetica si deve verosimilmente anche la scelta di riunire in un unico libro odi e sonetti: le prime costituiscono un esempio di poesia oggettiva, sono espressione di una poetica mitica e neoclassica e anticipano le Grazie; nei secondi l’impostazione è decisamente soggettiva, rimandano a una matrice eroica e romantica, fanno da “ponte” tra l’Ortis e i Sepolcri.

Lo stile Molti contemporanei accusarono di oscurità lo stile dell’opera, soprattutto per via delle ardite transizioni che formano la struttura del testo, basata non tanto sulla coerenza logica dell’argomentazione, quanto sulla capacità di coinvolgere «fantasia» e «cuore» del lettore. Con i Sepolcri Foscolo ha offerto un esempio di stile sublime: come predicavano gli antichi (primo fra tutti l’anonimo autore del trattato greco Sul sublime) esso induce chi legge a pensare e sentire fortemente, e per ottenere questo scopo si serve di un lessico elevato, di una strordinaria concentrazione semantica e del ricorso frequente a figure retoriche come l’antitesi. Ciò che rende straordinaria l’opera di Foscolo è proprio il fatto che la ricca tessitura retorica non solo non appesantisce il testo, ma finisce per apparire come conseguenza del tutto naturale e inevitabile della tensione immaginativa dell’autore e dell’elevatezza dell’argomento.

Dei sepolcri [1807] L’occasione e la struttura L’editto napoleonico di Saint-Cloud, del 1806, aveva imposto la dislocazione dei cimiteri al di fuori dei centri urbani e sollecitava l’anonimato delle tombe; la possibilità di una sua estensione all’Italia generò vivaci polemiche, di cui furono protagonisti, fra gli altri, anche Foscolo e l’amico Ippolito Pindemonte, cattolico, che progettò un poemetto (I cimiteri) per dare voce al proprio dissenso. Il tema era molto sentito da Foscolo, denso com’era di richiami classici e contemporanei (si pensi alla poesia sepolcrale di tradizione inglese), nonché profondamente radicato nella sua sensibilità; scrisse perciò, in risposta a Pindemonte e in tempi assai brevi, una lettera in versi, costituita da 295 endecasillabi sciolti, pubblicata a Brescia nel 1807 con il titolo Dei sepolcri. Il testo si presenta come una palinodia: posta un’affermazione come indiscutibile (per chi è morto la tomba non ha valore alcuno), il poeta stesso se ne mostra insoddisfatto e si autocorregge (tuttavia onorare le tombe serve ai vivi, perché...). Ancora una volta siamo di fronte a una visione irrimediabilmente dualistica, che pone a confronto istanze materialistiche e aspirazioni di tipo spiritualistico, tanto logicamente inconciliabili quanto sentimentalmente ammissibili: onorare le tombe e venerare i morti è «pietosa insania», cioè indubbiamente atto di follia, ma di follia da anime grandi e generose; si tratta insomma di una di quelle illusioni che, pur riconosciute come tali dalla ragione, agli occhi del cuore rendono la vita degna di essere vissuta.

Le Grazie [1803-1822] Un’opera incompiuta La vicenda compositiva delle Grazie è assai complessa: fra il 1803 e il 1822 Foscolo ne pubblicò diversi frammenti, attribuendoli prima ad antichi autori greci, poi a un poeta italiano, ma l’opera rimase incompiuta. Progettate all’inizio come un singolo inno, quindi suddivise in tre inni dedicati a Venere, Vesta e Pallade, Le Grazie avrebbero dovuto formare un poema didascalico di impostazione allegoricomorale, in cui, attraverso la narrazione in forma mitica della storia del genere umano e della funzione civilizzatrice svolta dalle arti (alle tre Grazie Venere assegna il compito di portare l’uomo dalla ferocia primitiva alla civiltà), Foscolo intendeva proporre i miti fondatori di una nuova civiltà neopagana, basata sui valori della bellezza, della compassione, dell’ospitalità. Alla frammentarietà dell’ispirazione, costante foscoliana, venne a mancare in questo caso la volontà di ricomporre i frammenti in un quadro unitario: questo per ragioni esterne (le vicende legate all’esilio) e interne (la rinuncia alla preponderanza dell’io e il tentativo di costruire una poesia del tutto oggettiva). Sta di fatto che lo stato dell’opera rende impossibile ricostruire un disegno complessivo coerente e i singoli frammenti finiscono per lasciarsi apprezzare proprio in quanto tali.

Il genere Foscolo usò per i Sepolcri la denominazione sia di «carme» sia di «epistola», ma soprattutto li considerò un esempio di poesia «lirica», sulla base di una personalissima distinzione: «elegiaca» doveva essere definita la poesia di argomento amoroso, mentre «lirica» è quella che «canta con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi», concezione di fatto contaminata con quella dell’epica antica (non a caso modello assoluto era per lui Omero). Il poeta considerava i Sepolcri un esempio di poesia politica: il culto delle tombe non doveva per lui avere connotazione religiosa, ma civile, in quanto stimolo per i viventi a condurre una vita ricca di affetti (sol chi non lascia eredità d’affetti G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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brato e riservato, riflessivo e disincantato, profondamente ironico.

Altri scritti Le tragedie Foscolo compose tre tragedie, tutte di stampo alfieriano: due di argomento mitologico (Tieste, rappresentata nel 1797, e Ajace, andata in scena alla Scala di Milano nel 1811) e una di argomento medievale (Ricciarda, scritta fra il 1812 e il 1813). In particolare nell’Ajace, in cui i contemporanei lessero allusioni politiche in chiave antifrancese, viene messo in scena il conflitto tra il personaggio eponimo e Ulisse per il possesso delle armi di Achille; il prevalere di Ulisse, personaggio scaltro e senza scrupoli che gode del favore dell’odioso tiranno Agamennone, spinge al suicidio Ajace, eroe in conflitto con il proprio tempo.

I saggi critici e le lettere Anche l’attività critica accompagnò tutta la vita di Foscolo, pur assumendo veste professionale solo in particolari circostanze (la nomina a professore a Pavia nel 1808, l’attività di saggista durante gli anni londinesi). Di questa attività possiamo notare alcune costanti: 1. la fiducia nel potere della parola; 2. l’idea della funzione civilizzatrice della poesia; 3. l’idea della poesia come espressione naturale delle passioni dell’individuo, e la conseguente subordinazione della retorica al “genio”; 4. la coscienza del legame che unisce ogni scrittore al suo contesto storico; 5. la convinzione della superiorità della poesia primitiva (in senso vichiano, per cui “primitivi” sarebbero anche autori come Dante e Shakespeare), espressione di tutti i bisogni del proprio tempo. Imponente infine per dimensioni è l’epistolario di Foscolo, che raccoglie lettere a innumerevoli destinatari, fra loro diversissime nei toni e negli argomenti. Queste numerose lettere – alcune delle quali vennero poi travasate negli scritti letterari – sono testimonianza del forte bisogno di relazione proprio di una personalità eccezionale, e assieme rispondono alla volontà dell’autore di offrire un ritratto di sé ai contemporanei e ai posteri.

Le traduzioni Dagli anni veneziani a quelli londinesi, l’attività di traduzione fu una costante per Foscolo, che si cimentò con il greco, il latino, il francese e l’inglese. Vanno segnalate in particolare le traduzioni dal greco dell’Iliade (ispirata a fedeltà filologica, rimase incompiuta ma arricchì enormemente il linguaggio poetico foscoliano) e dall’inglese del Sentimental Journey through France and Italy di Laurence Sterne, pubblicato a Pisa nel 1813 con lo pseudonimo di Didimo Chierico. Questi rappresenta un alter-ego dell’autore opposto rispetto a Jacopo Ortis: è infatti personaggio equili-

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ALESSANDRO MANZONI a Milano, dove Alessandro intraprese l’ambizioso progetto degli Inni sacri (rimasto incompiuto), nel tentativo di ricondurre alla loro autentica matrice cristiana i grandi valori civili dell’epoca (come libertà, uguaglianza e fraternità). Con l’avvio della Restaurazione e il rientro degli austriaci a Milano Manzoni visse, in particolare nel 1817, una profonda crisi assieme politica, religiosa, esistenziale e psicofisica, da cui lentamente uscì per gettarsi in un periodo di straordinario fervore creativo; nel giro di 10 anni compose o avviò La Pentecoste, Marzo 1821, Il cinque maggio; le Osservazioni sulla morale cattolica, la lettera Sul Romanticismo, la Lettre à M. Chauvet; Il conte di Carmagnola e l’Adelchi; infine il Fermo e Lucia, corretto poi nei Promessi sposi del 1827. Con queste opere, lodate da Goethe e tradotte in tutta Europa, Manzoni divenne una celebrità a livello internazionale e un punto di riferimento del movimento romantico italiano. Non mancarono però momenti difficili, come la morte della figlia Clara, la cagionevole salute sua e della moglie, le delusioni politiche (in particolare in seguito alla violenta repressione dei moti del 1821).

PERCHÉ MANZONI È UN CLASSICO? 1. Perché è stato, in Italia, l’iniziatore del romanzo, genere destinato a dominare la letteratura occidentale. 2. Perché con forza ha contestato i postulati su cui si reggeva la società dell’ancien régime (e in fondo anche la nostra): l’oppressione esercitata dal ricco sul povero, dal potente sull’umile; l’inefficacia delle leggi, punitive solo nei confronti della povera gente; la connivenza dei pavidi, che consente di perpetuare un sistema di potere profondamente ingiusto. 3. Perché, di fronte alle ingiustizie della storia, ci offre esempi straordinari di sacrificio e di solidarietà. 4. Perché, in sostanza, affronta temi e problemi attuali in quanto connaturati all’uomo, sollecitando il lettore a giudicare fatti e personaggi e a prendere posizione, riconoscendo e combattendo l’ingiustizia.

LA VITA [1785-1873] Gli anni della giovinezza Nacque a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria, figlia di Cesare (l’autore del Dei delitti e delle pene) e dal conte Pietro Manzoni: in realtà già allora si malignava che il vero padre fosse Giacomo Verri (fratello di Pietro e Alessandro), con cui Giulia aveva una relazione. Fra il 1791 e il 1801 Alessandro frequentò diversi collegi, prima di rientrare nella casa paterna; nel frattempo la madre, separatasi dal marito, si era trasferita a Parigi con il conte Carlo Imbonati. Il giovane Alessandro fu un adolescente difficile; fra primi amori e prime esperienze poetiche conduceva una vita dissipata, frequentando anche amicizie moralmente pericolose, dalle quali il padre cercò di allontanarlo mandandolo a Venezia.

Gli ultimi anni Dopo il 1827 Manzoni si dedicò in modo particolare agli studi linguistici, filosofici, storici e letterari. Insoddisfatto del linguaggio dei Promessi sposi e alla ricerca dell’unità linguistica italiana, prefigurazione dell’unità politica, provvide al rifacimento del romanzo, uscito in edizione definitiva nel 1840-42. Intanto portava a compimento le Osservazioni sulla morale cattolica, la Storia della colonna infame, il dialogo Dell’invenzione, il trattato Del romanzo storico e il saggio comparativo La rivoluzione francese del 1798 e la rivoluzione italiana del 1859, destinato a rimanere incompiuto. Gli ultimi anni furono funestati da lutti (la morte della moglie Enrichetta, della primogenita Giulia e di Antonio Rosmini, con cui aveva stretto una profonda amicizia) e assieme confortati da significativi riconoscimenti: considerato uno dei padri dell’Unità d’Italia, nel 1861 fu nominato senatore dal re Vittorio Emanuele II e negli anni ricevette la visita di personalità come lo stesso sovrano, Garibaldi, Cavour, Verdi (tutti, tra l’altro, noti anticlericali); quest’ultimo, in occasione del primo anniversario della sua morte, avvenuta nel 1783 a seguito di una caduta, fece eseguire a Milano la Messa da requiem composta in suo onore.

Il trasferimento a Parigi Su invito della madre nel 1795 si trasferì a Parigi, dove non potè incontrare Imbonati, morto prematuramente: a lui dedicò il poemetto Versi in morte di Carlo Imbonati, il suo debutto pubblico come poeta. Venne introdotto dalla madre nella cerchia degli idéologues, un ambiente culturalmente vivace e all’avanguardia che stimolò il ventenne Alessandro aprendogli la mente. Da Parigi tornò diverse volte in Italia con la madre. Nel 1807 conobbe Enrichetta Blondel, di fede calvinista, che sposò andando a vivere con lei e la madre a Parigi, dove nacque la primogenita Giulia. Andava intanto maturando in Manzoni la conversione alla fede cattolica, che abbracciò nel 1810 assieme alla moglie e alla madre.

LE COSTANTI LETTERARIE Libertà e verità Le prime due costanti ravvisabili nell’opera di Manzoni sono l’amore per la libertà e l’amore per la verità:

Il ritorno a Milano Nel 1813 la famiglia Manzoni rientrò definitivamente G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Maria, Il Natale e La Passione, pubblicati nel 1815, e La Pentecoste, di cui esistono ben tre redazioni (1817, 1819 e 1822). Entrambi incompiuti sono poi Il Natale del 1833 (composto nel 1835 a seguito della morte della moglie Enrichetta) e Ognissanti (1847).

il primo declinato in forme diverse (libertà politica, libertà religiosa, libertà di giudizio, libertà stilistica), ma riconducibili tutte alla fondamentale libertà dal peccato insegnata da Cristo; il secondo vissuto innanzitutto come fedeltà al vero della storia, ancora una volta nella convinzione che tutti i veri rimandino a una verità ultima, quella di Cristo.

Le novità tematiche e formali Radicalmente nuovi rispetto alla tradizione poetica italiana precedente, gli Inni mettono al centro non la soggettività dell’autore ma i grandi misteri della religione cattolica, nella dimensione corale della preghiera. In particolare l’“io” del poeta e il “noi” della comunità dei fedeli trovano un perfetto equilibrio nella Pentecoste. Abbandonati i tradizionali moduli stilistici (Petrarca, Parini, Monti, Foscolo), Manzoni, alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico, si rivolge alla Bibbia, contaminandola con Dante, Virgilio e l’oratoria sacra francese del Seicento. Stilemi di derivazione biblica sono in particolare il ricorso al parallelismo e all’iterazione. Altri stilemi ricorrenti sono le ampie similitudini, le interrogative retoriche, le opposizioni e le frasi imperative, tutti elementi finalizzati a esprimere la saldezza della rivelazione cristiana. Le scelte lessicali, criticate dai contemporanei come troppo basse, attingono alla prosa nel tentativo, non sempre riuscito, di creare una poesia popolare, comprensibile e cantabile da parte di tutti. Sempre a una ricerca di cantabilità e popolarità risponde il ricorso alla forma metrica chiusa dell’ode o canzonetta, che rimanda al tempo stesso agli inni latini dei primi secoli della Chiesa.

L’originalità Terza costante è la ricerca di originalità, nella scrittura (sperimentando forme e argomenti nuovi) e nel giudizio (combattendo una strenua battaglia contro i luoghi comuni e mettendo in discussione convinzioni storiografiche considerate inappellabili).

LE OPERE Le poesie giovanili Tre sono gli elementi comuni nella produzione del giovane Manzoni: 1. la padronanza degli strumenti linguistici e retorici e la conoscenza approfondita della tradizione latina e italiana; 2. lo sperimentalismo, conseguenza di una continua ricerca di originalità; 3. il tentativo di conciliare la bellezza delle forme e la verità dei contenuti.

Del trionfo della libertà [1801] Poemetto in quattro canti in terzine dantesche, largamente debitore nei confronti di Dante, Petrarca e Monti, è un testo imbevuto di ideologia giacobina e ferocemente polemico contro il repressivo potere politico-religioso, cui è contrapposto lo spirito della Roma repubblicana e della Rivoluzione francese.

Le Osservazioni sulla morale cattolica [1819, 1855]

In morte di Carlo Imbonati [1806] Poemetto in endecasillabi sciolti, in cui il dedicatario, conciliando gli insegnamenti di Alfieri, Foscolo e Parini, è celebrato come esempio di virtù solitaria, opposta al vizio imperante nella società e tenacemente impegnata a migliorarla. Di fondamentale importanza il “decalogo” morale che dall’Imbonati si fa dettare il giovane Manzoni: «non ti far mai servo [...]; il santo vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida».

Concepita come replica alle affermazioni dello storico calvinista Charles de Sismondi, che nell’ultimo volume della sua Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo (Parigi 1818) aveva individuato nella Chiesa cattolica una delle cause della decadenza morale degli italiani, l’opera rimase incompiuta: ne fu pubblicata solo la prima parte (nel 1819 e poi, rivista, nel 1855). Le riflessioni di Manzoni sull’insegnamento del Vangelo e la natura e l’opera della Chiesa diedero sostanza alle opere successive, in particolare le tragedie e i Promessi sposi.

Gli Inni sacri Il progetto Gli Inni sacri sono la prima opera progettata da Manzoni dopo la conversione; l’intento era quello di coniugare il bello della poesia con la verità della preghiera, celebrando in versi le dodici principali festività del calendario liturgico: Il Natale, L’Epifania, La Passione, La Resurrezione, L’Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo del Signore, La Cattedra di San Pietro, L’Assunzione, Il nome di Maria, Ognissanti, I morti. Il progetto non venne mai portato a termine; Manzoni compose solo La Resurrezione, Il nome di G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Le tragedie Almeno due ragioni indussero Manzoni a dedicarsi al teatro: 1. la riconosciuta supremazia del genere tragico, da sempre considerato la forma più alta dell’arte letteraria; 2. il rinnovato interesse romantico per il teatro, genere che instaura un rapporto diretto con il pubblico e costituisce pertanto un formidabile laboratorio linguistico. La necessità di chiarire alcuni dubbi teorici e la con-

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temporanea stesura delle Osservazioni rallentò la composizione del Conte di Carmagnola, durata quasi quattro anni (dal 1816 al 1820); molto più veloce fu la composizione dell’Adelchi, durata meno di un anno, fra il 1820 e il 1821.

La riflessione teorica La produzione teatrale fu affiancata da un’intensa riflessione teorica, affidata in particolare alla Prefazione al Carmagnola e all’incompiuta Lettre à M. Chauvet. In particolare Manzoni si sofferma sul problema delle tre unità (di tempo, luogo e azione) e su quello della moralità delle opere tragiche. Il poeta sostiene la necessità di abbandonare le unità di tempo e di luogo in nome della verità storica; scopo del teatro non deve essere quello di incantare lo spettatore, ma al contrario quello di stimolare in lui le facoltà critiche, sollecitandolo a prendere posizione di fronte agli eventi rappresentati e a formulare su di essi un giudizio morale. A questo scopo obbedisce anche l’inserimento dei cori.

Il conte di Carmagnola [1816-1820] Ispirato a un fatto storico e preceduto da una Prefazione, Il conte di Carmagnola mette in scena la vicenda di Francesco Carmagnola, capitano di ventura al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti; la gelosia di quest’ultimo per i successi del condottiero lo costringono a riparare a Venezia, dove sfugge a un attentato; in conseguenza di ciò caldeggia la guerra contro Filippo e ne ottiene il comando (Atto I). Nella battaglia di Maclodio il Carmagnola sbaraglia i milanesi. Il coro riflette sulla follia delle guerre fratricide (Atto II). La clemenza usata dal Carmagnola nei confronti dei milanesi sconfitti suscita i primi sospetti a Venezia (Atto III). Convinto del tradimento del Carmagnola, il senato veneziano induce Marco, suo amico, a richiamarlo a Venezia, dove il conte fa ritorno senza sospettare nulla, forte della propria buona fede (Atto IV). Convocato di fronte al senato, il Carmagnola è processato per tradimento e condannato a morte; prima dell’esecuzione ha luogo il suo ultimo colloquio con la moglie e la figlia, che il conte invita a perdonare i suoi uccisori (Atto V).

Dalla tragedia classica alla tragedia cristiana Se Aristotele aveva raccomandato ai tragediografi di rappresentare eroi né del tutto colpevoli né del tutto innocenti, Manzoni supera questa impostazione tradizionale guardando a Cristo, vittima innocente, morta per redimere l’umanità. Così i protagonisti delle tragedie sono di fatto individui innocenti (Carmagnola, Adelchi, Ermengarda) la cui sventura terrena acquista un nuovo significato in prospettiva ultraterrena. Tratto classicamente tragico rimane però, per esempio, la vana lotta del Carmagnola contro il destino: tutte le sue azioni mirano a evitare la taccia di tradimento e la vergogna della morte sul patibolo, a cui invece finiranno fatalmente per condurlo. Quel che lo rende un eroe incompiuto è l’incapacità di riconoscere e accettare nella propria vita e nel proprio destino la volontà di Dio. Questo è invece il passaggio che riescono a compiere, nella seconda tragedia, Adelchi ed Ermengarda; in particolare la vittoria di Adelchi sulla tentazione del suicidio (troppo facile espediente, secondo Manzoni, tanto diffuso nelle opere tragiche del tempo) rappresenta la compiuta trasformazione del fato in Provvidenza.

Adelchi [1820-1821] Anch’esso ispirato a vicende storiche, Adelchi (preceduta dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) mette in scena la fine del dominio longobardo in Lombardia; Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio, è stata ripudiata da Carlo, re dei franchi; ai propositi di vendetta del padre e del fratello Adelchi replica chiedendo di potersi ritirare in convento. Respinto un ultimatum di Carlo, tra franchi e longobardi scoppia la guerra (Atto I). Carlo è bloccato in val di Susa e medita di rinunciare all’invasione dell’Italia, ma il diacono Martino gli mostra un sentiero segreto per aggirare il nemico (Atto II). Adelchi confida il proprio disagio: l’obbedienza al padre e i suoi obblighi di principe lo costringono alla guerra contro il papa, impresa che ritiene sbagliata e senza onore. All’improvviso compare l’esercito dei franchi e i longobardi, colti di sopresa, fuggono, mentre Desiderio e Adelchi proseguono la lotta, il primo a Pavia, il secondo a Verona. Il coro osserva quanto sia ingenuo, per un popolo, sperare di recuperare la libertà grazie agli stranieri (Atto III). Ermengarda giace malata in un monastero di Brescia; ancora innamorata di Carlo, quando apprende che il re si è risposato cade in delirio e muore. Il coro riassume la sua vicenda come un esempio di «provvida sventura». Intanto Pavia cade per opera di traditori e Adelchi, che ha rinunciato al suicidio, è condotto ferito alla presenza di Carlo, ormai vincitore, gli offre il proprio perdono e, dopo avergli raccomandato il vecchio padre, muore (Atto IV). G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Le odi civili [1821] Marzo 1821 La passione politica e civile è una costante nell’opera di Manzoni, che sull’onda dei moti indipendentisti del 1821 compose l’ode Marzo 1821, auspicando l’intervento di Carlo Alberto, re di Sardegna, in aiuto dei patrioti lombardi, dando voce agli ideali di libertà, unità e indipendenza e applicando la dottrina della guerra giusta a quella combattuta per la libertà della patria. Il fallimento delle speranze e la repressione austriaca impedirono la pubblicazione dell’opera, data alle stampe solo nel 1848. Il cinque maggio La notizia della morte di Napoleone a Sant’Elena, il 5 maggio 1821, colpì profondamente Manzoni che, in preda a un furore compositivo per lui assolutamente inusuale, compose in pochi giorni l’ode Il

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VOLUME 2 Il Neoclassicismo e il Romanticismo

cinque maggio. La vicenda storica di Napoleone è riletta come ennesima incarnazione della superbia umana che vuole fare a meno di Dio o sostituirsi a lui, nonché come compiuto esempio di «provvida sventura»: accecato dal successo mondano e dalla gloria mentre dominava fra gli oppressori, solo una volta relegato tra gli oppressi nell’infelicità dell’esilio il grande uomo può – forse – avere accolto la mano tesa di Dio, abbandonando la propria «superba altezza» per inchinarsi davanti al «disonor del Golgota» e comprendere così, ancora una volta in prospettiva ultraterrena, il senso autentico della propria vicenda terrena.

1840/42, è la seguente: l’autore finge di aver trovato un manoscritto anonimo del XVII secolo contenente una storia molto interessante; inizia a ricopiarla ma si accorge che lo stile è «insopportabile»: decide pertanto di riscriverla in linguaggio moderno (Introduzione). È il novembre del 1628; in un paesino del lecchese il matrimonio fra Renzo e Lucia è impedito dal capriccio del signorotto locale, don Rodrigo, complice il pavido curato don Abbondio; vano risulta il ricorso alla legge (l’avvocato Azzeccagarbugli è uomo di don Rodrigo), l’intervento di padre Cristoforo (cappuccino dal passato burrascoso, ora paladino della povera gente) e il tentativo di forzare la mano al curato; sfuggita Lucia a un rapimento, i due fidanzati trovano rifugio presso il convento di padre Cristoforo (capitoli I-VIII). Il frate invia Lucia e la madre Agnese a Monza, nel monastero di Gertrude (di cui è narrata la storia), e Renzo a Milano dove, coinvolto in una sollevazione popolare, sfugge all’arresto e ripara presso il cugino Bortolo in territorio veneto. Intanto don Rodrigo fa allontanare padre Cristoforo e chiede aiuto all’Innominato, che fa rapire Lucia; rinchiusa nel suo castello, la poveretta fa voto di castità alla Madonna in cambio della liberazione; la sua presenza però turba l’Innominato che, già da tempo in preda a crisi di coscienza, decide di rivolgersi al cardinale Federigo Borromeo: durante l’incontro con il cardinale si compie la sua conversione. Lucia è liberata e affidata a don Ferrante e donna Prassede, che la portano a Milano. Il cardinale chiede anche conto a don Abbondio delle sue azioni, ma invano (capitoli IX-XXVI). Guerra, carestia e peste devastano Milano, nel cui lazzaretto, all’insaputa gli uni degli altri, si ritrovano tutti i protagonisti: padre Cristoforo (per assistere i malati), Renzo e Lucia (che hanno contratto la peste ma ne sono guariti) e don Rodrigo (colpito dal male e agonizzante). Solo dopo aver perdonato, non senza difficoltà e resistenze, il suo “nemico”, Renzo ritrova Lucia; sciolto da padre Cristoforo il voto di castità della ragazza, i due possono finalmente sposarsi. Trasferitisi in un altro paese, avranno dei figli e vivranno serenamente, ripensando alle vicende passate per trarre «il sugo di tutta la storia», cioè la morale: quando vengono i guai, «per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore» (capitoli XXVII-XXXVIII).

I promessi sposi Il genere del romanzo storico Manzoni ebbe a disposizione solo modelli stranieri, come le opere di Voltaire, Denis Diderot, Ann Radcliff, Daniel Defoe e, soprattutto, Walter Scott: quest’ultimo aveva però narrato vicende poco rispettose della verità storica, cui invece Manzoni intende essere fedele evitando di scadere nel romanzesco (colpi di scena emozionanti quanto inverosimili). Inoltre Scott aveva scelto per lo più come ambientazione il Medioevo; la scelta di Manzoni cadde invece sul Seicento perché, di fronte al dominio dell’irrazionalità e dell’oppressione e di fronte a eventi devastanti come la peste, gli uomini reagirono abbandonandosi ai peggiori delitti e manifestato le più grandi virtù; insomma era il secolo giusto per dimostrare come il contesto storico possa condizionare, ma mai deteminare il comportamento umano. La composizione La composizione fu lunga e laboriosa: iniziò il 24 aprile 1821 (è la data posta da Manzoni all’inizio del primo manoscritto) e terminò nel 1842 con la conclusione della stampa dell’edizione definitiva. I passaggi redazionali furono tre: 1. fra il 1821 e il 1823 venne composta la prima redazione, in quattro tomi, che l’amico Ermes Visconti lesse e battezzò Fermo e Lucia. 2. Dopo una profonda revisione, il primo tomo del romanzo venne pubblicato nel 1824 con il titolo Gli sposi promessi; nel 1825 uscì il secondo tomo, con il nuovo titolo di Promessi sposi; il terzo e ultimo tomo fu stampato nel 1827. 3. Manzoni cominciò a questo punto il lavoro di revisione linguistica, prendendo a modello la lingua parlata dai fiorentini colti. Si arrivò così all’edizione definitiva, pubblicata a dispense fra il 1840 e il 1842, accompagnata da numerose illustrazioni e seguita dalla Storia della colonna infame. Molti tuttavia continuarono a preferire l’edizione del 1827, tanto che Manzoni dovette infine intentare una causa per farla ritirare dal commercio e imporre quella del 1840 come l’unica approvata dall’autore.

Dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi Fra l’edizione del 1827 e quella del 1840 il lavoro di revisione fu quasi esclusivamente linguistico; invece fra il Fermo e Lucia e i Promessi sposi del 1827 intervenne una rielaborazione più profonda. 1. Nei quattro tomi del Fermo e Lucia la narrazione risulta suddivisa in modo schematico in quattro blocchi: le vicende nel paesello (I tomo); le vicende di Lucia (II-III tomo); le vicende di Renzo (III tomo); il ricongiungimento dei fidanzati e la conclusione (IV tomo). Nei Promessi sposi invece le vicende dei due giovani dopo la fuga dal paese risultano strettamente intrecciate fra loro. Inoltre sono molto ridotte le

La trama La trama del romanzo, nell’edizione definitiva del G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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digressioni (la storia di Gertrude passa da 6 capitoli a 2) e viene sensibilmente modificato il tono troppo storico-saggistico di molte pagine. 2. Molti personaggi cambiano nome (Fermo diventa Renzo; il Conte del Sagrato diventa l’Innominato, ecc.) e soprattutto carattere: nella prima versione, Fermo è decisamente più violento di Renzo, Lucia è una ragazza ciarliera e loquace, don Abbondio è quasi una caricatura e l’Innominato viene descritto come un vero e proprio boss mafioso.

vicenda è il perdono: l’opposizione fra Renzo e don Rodrigo ha come esito iniziale quello di far diventare l’eroe simile all’antagonista; solo quando Renzo, nel lazzaretto, perdona don Rodrigo e prega per lui la macchina narrativa può finalmente avviarsi verso la conclusione. I punti di vista Nei Promessi sposi si incrociano diversi punti di vista (il che crea la dialogicità del romanzo e l’effetto di polifonia): 1. quello del narratore onnisciente, alternato con quello di un narratore che chiama invece in causa il lettore, trasformandolo in “coautore”; 2. quello dell’anonimo seicentesco; 3. quello dei diversi personaggi.

Il problema della lingua Manzoni era alla ricerca di una lingua comprensibile da parte di tutti gli alfabetizzati; il carattere profondamente cristiano e democratico del romanzo (in cui per la prima volta assurgono al ruolo di protagonisti due umili operai-contadini semianalfabeti, che sventano tutte le trame dei potenti e in funzione dei quali persino le vicende della macrostoria trovano giustificazione e validità) non poteva trovare espressione nell’italiano letterario della tradizione, assolutamente aristocratico e antidemocratico. La ricerca linguistica manzoniana attraverò tre fasi: 1. la lingua europeizzante del Fermo e Lucia, composita e modellata su milanese, francese, toscano e latino; 2. la lingua toscano-milanese dell’edizione 1827, modellata però su un toscano eccessivamente libresco; 3. la lingua parlata dai fiorentini colti dell’edizione del 1840. La scelta finale fece dei Promessi sposi (la cui lettura venne resa obbligatoria nei licei da Francesco De Sanctis, divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel 1879) il primo veicolo dell’unità linguistica nazionale.

L’ironia L’ironia è figura retorica che consiste nell’affermare una cosa lasciando intendere l’opposto: richiede perciò un lettore complice e attento, disposto a partecipare alla costruzione di un’“opera aperta”. L’ironia agisce a più livelli: coinvolge i personaggi, specialmente i potenti, senza risparmiare il narratore stesso (autoironia); si manifesta a livello narrativo e strutturale: tutti i piani dei “buoni” per aiutare Renzo e Lucia sono destinati al fallimento; a salvarli sarà invece il “principe dal male”, l’Innominato; come a dire che il bene non è prerogativa esclusiva dei buoni (né il male dei malvagi). Scopo dell’ironia non è quello di negare l’agire dell’uomo, ma quello di relativizzarlo: l’agire umano è indispensabile perché Dio, con la sua provvidenza, possa orientarlo al bene. Movimento romanzesco e inquietudine morale I personaggi appaiono caratterizzati da una frenesia di movimento: Renzo è uno che, per carattere, non sa star fermo; persino la placida Lucia è trascinata in un vortice di viaggi e spostamenti; e neppure alla fine i due sembrano trovar pace: lasciano il paesello, cambiano addirittura stato, e la loro meta ultima e definitiva rimane di fatto al di fuori del romanzo. Tutto questo al fine di mostrare che per l’uomo è impossibile vivere in stato di “riposo morale”; il suo bisogno di felicità, che non può essere soddisfatto appieno da questa vita, lo mantiene in uno stato di sana inquietudine, come dice sant’Agonstino nelle Confessioni: «Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te, Dio». La conclusione stessa della vicenda non è affatto un consolatorio “vissero felici e contenti”: Renzo e Lucia sanno che altri guai verranno a turbare la loro felicità, che si potrà realizzare compiutamente solo nella dimensione ultraterrena.

Il sistema dei personaggi e la macchina narrativa I personaggi principali sono otto: Renzo, Lucia, don Abbondio, padre Cristoforo, don Rodrigo, il cardinale Federigo Borromeo, l’Innominato e Gertrude, tutti legati da una fitta rete di relazioni fondate sulla bipartizione: quattro sono storici (padre Cristoforo, Federigo, l’Innominato, Gertrude) e quattro d’invenzione (Renzo, don Rodrigo, don Abbondio, Lucia); quattro sono ecclesiastici (Federico, don Abbondio, padre Cristoforo, Gertrude) e quattro laici (Renzo, Rodrigo, l’Innominato, Lucia); quattro sono “buoni” (Renzo, Federigo, padre Cristoforo, Lucia) e quattro “cattivi” (don Rodrigo, don Abbondio, l’Innominato, Gertrude); ciascun gruppo è costituito da 3 uomini + 1 donna. In termini narratologici osserviamo invece una dissimmetria: Renzo nella sua ricerca di Lucia è assistito da due aiutanti (padre Cristoforo e Federigo) e ostacolato da un antagonista (Rodrigo) assistito invece da tre aiutanti (don Abbondio, Innominato, Gertrude). La conversione dell’Innominato ribalta però lo schema, rovesciando la dissimmetria a vantaggio di Renzo: ciò conferisce movimento alla macchina narrativa, che proprio nella conversione ha il suo centro propulsore. Altro elemento dinamico all’interno della G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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La Storia della colonna infame (1823-1842) Il lato oscuro dei Promessi sposi Nato come ampia digressione all’interno del Fermo e Lucia, il racconto del processo agli «untori» e della

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loro orribile fine nella Milano sconvolta dalla peste fu trasformato in un’appendice e infine pubblicata, nell’edizione definitiva del 1840, come seguito dei Promessi sposi: come alcuni critici hanno infatti di recente sottolineato, la parola “fine” venne posta da Manzoni proprio al termine della Storia, non già al termine del romanzo; dal che si evince che l’autore riteneva fondamentale che i lettori leggessero le due opere una di seguito all’altra. In effetti, la vicenda del povero Guglielmo Piazza, processato e giustiziato come «untore» in spregio alla giustizia, al buonsenso e alla ragione, oltre che alla pietà cristiana, sembra rappresentare un inquietante destino alternativo cui avrebbe potuto andare incontro lo stesso Renzo Tramaglino allorché, nel romanzo, è a sua volta preso per un untore e solo saltando sul provvidenziale carro dei monatti riesce a sfuggire alla folla inferocita. Come a ribadire che un romanzo non è la storia, perché nella storia il male e la follia degli uomini spesso prevalgono: compito di tutti è allora quello di vigilare affinché simili atrocità non debbano più accadere.

negativamente alla luce delle ignobili passioni che l’avrebbero ispirata: sete di potere, invidia, desiderio di vendetta, crudeltà, cupidigia. Gli Scritti linguistici La riflessione linguistica accompagnò tutta la produzione creativa di Manzoni, senza però approdare mai al trattato sistematico che pure egli progettava. Nei brevi scritti da lui pubblicati, e ancora più da quelli rimasti inediti, emerge la sua idea di lingua nazionale, identificata con il fiorentino parlato dalle persone colte.

Dell’invenzione [1850] Si tratta di un dialogo fra due interlocutori ispirato alla filosofia di Antonio Rosmini; la tesi centrale è che quando lo scrittore “inventa” non crea ma “trova” (che è l’esatto significato del verbo latino invenire) idee che preesistono nella mente di Dio. Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione [1850] È il frutto delle riflessioni maturate per più di vent’anni e avviate a seguito di alcune critiche ai Promessi sposi avanzate da Goethe il quale, pur ammirando l’opera, aveva giudicato alcune digressioni storiche strutturalmente troppo ampie per un romanzo; il saggio chiarisce qual è l’essenza della storia e quale quella della letteratura, distinguendo nettamente fra i loro due ambiti e in particolare fra il «vero reale» della storia e il «vero ideale» dell’arte. Un tempo intesa come una sorta di rinnegamento, da parte di Manzoni, del proprio capolavoro, oggi l’opera viene piuttosto interpretata come un tributo all’importante ruolo conoscitivo svolto dalla letteratura.

Scritti storici, linguistici e teorici La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 [1861-1872] Spesso nei suoi scritti Manzoni istituisce un processo alla storia, formulando giudizi controcorrente: così avviene nel Discorso sopra alcuni punti della dominazione longobardica in Italia, nella Storia della colonna infame e in La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, un saggio comparativo, rimasto incompiuto, in cui la rivoluzione francese, sfociata nel Terrore, nel dispotismo napoleonico e in vent’anni di guerre sanguinose, è riletta

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GIACOMO LEOPARDI si così ogni speranza di felicità. È questa la fase del pensiero leopardiano convenzionalmente denominata del «pessimismo storico»: il male del mondo è imputabile all’uomo e alla civiltà, non alla natura.

PERCHÉ LEOPARDI È UN CLASSICO? 1. Perché ha rinnovato il codice poetico petrarchesco, estenuato dopo secoli di riscritture. 2. Perché ha dato vita a una poesia moderna e vitale, facendone strumento di indagine conoscitiva; nella sua opera, infatti, le riflessioni sull’infinito, sulla felicità impossibile, sul piacere del ricordo, sono accompagnate da domande sul senso dell’esistenza di tutti gli esseri viventi. 3. Perché, nella sua riflessione, la presa di coscienza della supremazia dell’«arido vero» non porta mai alla distruzione dei «cari inganni» del mondo affettivo e della bellezza; la fragilità delle illusioni le rende al contrario ancora più preziose. 4. Perché oggetto ultimo della sua ricerca poetica sono il bello e il vero, che egli riesce a far convivere in una simbiosi difficile ma affascinante. 5. Perché nella propria opera ha concretizzato l’idea che la poesia è capace di consolare l’esistenza dell’uomo, anche quando ne esprime tutta l’infelicità.

La «conversione filosofica» Leopardi, che dal 1817 aveva iniziato la stesura dello Zibaldone, visse in questi anni esperienze fondamentali; il primo amore, le prime prese di distanza dalle idee reazionarie del padre (con le canzoni politicocivili pubblicate con dedica a Vincenzo Monti), il tentativo (fallito) di fuga da Recanati. Nel 1819 un grave indebolimento della vista lo privò temporaneamente del piacere della lettura costringendolo a rinchiudersi nelle sue meditazioni; iniziò così il processo di passaggio «dal bello alla ragione e al vero», che ebbe tra i primi esiti l’abbandono della religione cattolica e il passaggio a una posizione atea e materialistica. Inizialmente la scoperta dell’«arido vero» non esaurì la vena poetica di Leopardi, che continuò a comporre idilli (è questa l’epoca dell’Infinito), ossia poesie del sentimento e degli affetti, e canzoni, caratterizzate invece da un atteggiamento ragionativo e riflessivo. Tra il 1822 e il 1823 poté finalmente lasciare Recanati per Roma; qui Leopardi tentò di trovare un impiego per non essere costretto a fare ritorno nel «natio borgo selvaggio», ma inutilmente. Il rientro coincise con l’inizio del passaggio al «pessimismo cosmico» (il dolore dell’uomo è senza rimedio e responsabile ne è la natura, non madre amorevole ma matrigna indifferente) che si concretizzò nell’abbandono temporaneo della poesia in favore della prosa di meditazione filosofica delle Operette morali, pubblicate nel 1827: una riflessione disincantata sulla pena di vivere.

LA VITA [1798-1837] I primi anni e la conversione letteraria Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici. La sua educazione, avviata sotto diversi precettori, proseguì a partire dal 1812 da autodidatta nella ricca biblioteca paterna e in un rapporto di venerazione-competizione con il padre, scrittore non privo di finezza anche se uomo di mentalità reazionaria. Furono anni di «studio matto e disperatissimo» che gettarono le basi della ricca e varia cultura di Giacomo, ma ne minarono anche la salute. Intorno al 1816 iniziò la conversione letteraria, ovvero il «passaggio dall’erudizione al bello»: Leopardi ridusse gradualmente gli studi eruditi e filologici a favore della poesia, concepita come unico strumento espressivo adatto a dar forma a sentimenti e passioni individuali. Nacquero i primi esperimenti poetici e le prime riflessioni teoriche, che si concretizzarono in due interventi, rimasti inediti, sulla polemica fra classicisti e romantici: la Lettera ai signori compilatori della “Biblioteca italiana” (1816) e il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818); Leopardi si schierava con i classicisti, suggerendo non di imitarli, ma di riviverne il rapporto diretto con la natura e di riscoprirne il modo immediato e «ingenuo» di sentire e di esprimere i sentimenti; impresa peraltro impossibile nel mondo moderno, che in nome della ragione aveva ormai corrrotto la natura precludendoG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Lontano da Recanati Fra il 1825 e il 1830 Leopardi, nonostante le precarie condizioni di salute, colse ogni possibile occasione per vivere lontano da Recanati, trasferendosi prima a Milano, quindi a Bologna, Firenze e Pisa. Riscoprì anche il «cuore di una volta» e l’ispirazione poetica, che non lo abbandonò più, neppure durante i forzati e dolorosi rientri a Recanati (dove compose Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Grazie alla generosità degli amici fiorentini nel 1830 potè tornare nella città toscana, accolto con grandi onori ma anche forti critiche, come nemico del progresso sociale, a suo parere null’altro che uno dei falsi miti elaborati per consolare e nascondere l’irrimediabile infelicità dell’uomo. Gli anni fiorentini furono contrassegnati da un’intensa vita culturale e sociale, dall’amicizia con Antonio Ranieri, dall’amore (non ri-

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cambiato) per Fanny Targioni Tozzetti, che gli ispirò le poesie del «ciclo di Aspasia»; curò inoltre la prima edizione dei Canti, nel 1831, compose le ultime operette morali, fra cui il Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un passeggere e scrisse le ultime pagine dello Zibaldone, che datano al 1832.

dite. Ne emerge un’eccezionale vastità di interessi, con particolare attenzione alla poesia, alla filosofia e alla filologia. Agli anni della «conversione letteraria», fra il 1816 e il 1819, risalgono le traduzioni da Virgilio, Omero ed Esiodo e alcune composizioni poetiche autonome destinate a far parte dei Canti: in particolare Il primo amore (dedicato ai temi del dolore del cuore e della bellezza femminile) e le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (elogio della virtù italiana in linguaggio alto ed eroico).

Gli ultimi anni a Napoli Nel 1833 si trasferì con l’amico Ranieri a Napoli, dove trovò, almeno inizialmente, un clima più congeniale alla sua salute malferma e poté dedicarsi a un’intensa attività compositiva: fra l’altro scrisse i Pensieri e progettò l’edizione completa delle proprie opere; uscito però il primo volume, quello dei Canti, la censura borbonica interruppe la pubblicazione delle Operette morali e dispose il sequestro dell’opera. Nel 1837 Leopardi morì nella sua ultima residenza, una villa alle pendici del Vesuvio dove aveva ambientato l’ultima sua grande opera poetica, La ginestra.

I Canti [1817-1836] La composizione dell’opera accompagnò tutta la vita del poeta; le poesie coprono infatti un arco cronologico che va dal 1817 al 1836 ed ebbero ben cinque edizioni, dalle Canzoni del 1824 a quella definitiva stampata postuma nel 1845. Il titolo, che si impose a partire dalla terza edizione (1831), indica una poesia lirica non legata a una forma metrica precisa, ma che costituisce libera espressione dei più vivi affetti dell’uomo. L’edizione definitiva comprende 34 testi, ordinati secondo criteri diversi (metrico, cronologico, tematico) e suddivisi in cinque blocchi.

LE COSTANTI LETTERARIE Una prima costante nell’opera di Leopardi è la ricerca di formule espressive sempre diverse per esprimere sentimenti e pensieri; egli sperimentò infatti sia la prosa che la poesia, adottando di volta in volta forme linguistiche, stilistiche, retoriche e metriche molto differenti. Una seconda costante è l’attenzione alle ragioni dell’io; tutte le poesie di Leopardi partono da una ricerca personale, eppure, nonostante questo forte radicamento nell’io autobiografico, acquistano validità universale. Altra costante è la continua tensione dialogica, che conferisce alle sue opere una forte spinta comunicativa: lo Zibaldone è un continuo dialogo di Leopardi con se stesso e con i testi letti, molte delle Operette morali sono scritte in forma di dialogo, e struttura dialogica hanno anche celebri poesie come Il passero solitario, A Silvia, Il canto notturno, fino alla Ginestra. Ciò rivela da un lato l’urgenza, da parte dell’io poetico, di comunicare fuori di sé qualcosa di importante; dall’altro il bisogno primario di felicità e di bellezza che caratterizza l’essere umano. Leopardi intende insomma comunicare il vero ma salvando il bello: la poesia infatti, generando un breve intervallo di felicità, può ripagare in qualche modo il dolore della vita.

1. Le canzoni Le canzoni (componimenti 1-10; esempi: All’Italia, Alla primavera o delle favole antiche, Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano, Ultimo canto di Saffo), piuttosto lontane, al di là del nome, dal modello pertrarchesco, sono caratterizzate da struttura ritmica complessa, lessico raro e anticheggiante, figure retoriche (come ellissi e iperbati) che rendono complessa la lettura, erudizione antiquaria (allusioni dotte, richiamo a miti classici poco noti); ai temi civili (la riscossa culturale e politica dell’Italia) si affiancano quelli filosofici, con le prime compiute riflessioni sull’infelicità dell’uomo moderno: la fine dello stretto rapporto con la natura, tipico degli antichi, e la caduta delle illusioni portano alla progressiva rivelazione dell’«arido vero». 2. Gli idilli Gli idilli (componimenti 11-19; esempi: L’infinito, Il passero solitario) costituiscono una novità sul piano metrico (Leopardi utilizza gli endecasillabi senza una struttura ritmica fissa), stilistico (sintassi semplice e periodare breve, lessico e figure retoriche che puntano sul vago e l’indefinito) e tematico (dominano i temi esistenziali, come l’infinito, il tempo, il ricordo). Con gli idilli l’io diventa protagonista assoluto: la poesia ha il compito di registrarne i sentimenti e i moti interiori. Si fa sempre più urgente in Leopardi la necessità di «investigare l’acerbo vero» dell’infelicità umana.

LE OPERE Le opere giovanili e la prima produzione poetica Nei sette anni di «studio matto e disperatissimo», fra il 1809 e il 1816, Leopardi scrisse moltissimo: traduzioni dal latino e dal greco; composizioni poetiche in metro e stile vari, per lo più di ispirazione arcadica; tragedie; dissertazioni filosofiche; opere storico-eruG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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3. I canti pisano-recanatesi I canti pisano-recanatesi (componimenti 20-25; esempi: A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un

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pastore errante dell’Asia, Il sabato del villaggio) segnano il ritorno di Leopardi alla poesia dopo la stagione delle Operette morali; un tempo detti “grandi idilli”, costituiscono una meditazione sull’esistenza contrassegnata dal passaggio al cosiddetto «pessimismo cosmico». Dal punto di vista metrico fa la sua comparsa la canzone libera, formata da endecasillabi e settenari uniti senza più vincoli strutturali. Dal punto di vista tematico l’io poetico, ormai adulto, guarda alla fanciullezza attraverso la lente deformante della memoria. Notiamo una fusione fra la poesia del “noi” delle canzoni e quella dell’“io” degli idilli: l’io poetico si radica nelle esperienze autobiografiche facendosi portavoce del comune destino di sofferenza dell’umanità. Anche tra pensiero e poesia si ha una riuscita simbiosi: osserviamo strutture argomentative anche ampie e sintatticamente articolate, che però mantengono sempre una dimensione affettiva.

storia e della mitologia), lo stile elevato e venato di ironia. Questi scritti, nati dalla «conversione filosofica» del 1819 e dalla «teoria del piacere» (1820-21), esprimono il disincanto di Leopardi, la caduta di ogni speranza, e si concretizzano in una filosofia negativa. Fra i temi fondamentali: la critica ai falsi miti dell’età contemporanea (dalla religione al progresso scientifico) e alla concezione finalistica e antropocentrica dell’universo; la visione della natura non più come madre benefica degli uomini, bensì come matrigna indifferente e prima causa della loro infelicità; l’emergere, accanto alla critica e al sarcasmo, di sentimenti di pietà e solidarietà nei confronti degli uomini, in nome dei quali, per esempio, viene respinta la facile via di fuga del suicidio. Lingua e stile sono assai innovativi: dominano l’ironia, il paradosso e lo straniamento; linguisticamente Leopardi rifiuta il modello cinquecentesco come quello illuministico per rifarsi a Galileo, maestro della divulgazione scientifica. La chiarezza espositiva si sposa perfettamente con la commozione del sentimento.

4. Il ciclo di Aspasia Il ciclo di Aspasia (componimenti 26-29; esempi: Amore e morte, A se stesso) comprende i canti ispirati all’amore (non ricambiato) per Fanny Targioni Tozzetti. La caduta dell’ultima illusione pone definitivamente il poeta di fronte alla disperazione assoluta, che egli assume consapevolmente raffigurando la propria eroica resistenza contro la malvagità del destino. Il linguaggio si fa più teso e aspro, al lessico del vago e dell’indefinito si sostituisce quello del mistero e della terribilità.

Lo Zibaldone di pensieri [1817-1832] Lo stesso Leopardi così denominò nel 1827 il manoscritto in cui andava raccogliendo alla rinfusa materiali vari e disparati, sottolineandone il carattere personale e privato (non si tratta di un testo scritto per la pubblicazione, che avvenne solo postuma, tra il 1898 e il 1900) assieme alla preminenza della riflessione filosofica. Si tratta di una cospicua raccolta di appunti, osservazioni, ricordi, note di lettura, discussioni, su temi politici, filosofici, letterari, sull’uomo, sull’universo, scritti fra il luglio 1817 e il 4 dicembre 1832. Di fatto, uno strumento per chiarirsi con se stesso, un serbatoio di materiali per le opere da comporre e un laboratorio per esperimenti stilistici. Per noi, una particolare testimonianza della scrittura privata di Leopardi e, soprattutto, un documento fondamentale per seguire l’evoluzione del suo pensiero, di cui possiamo ricostruire quattro fasi principali: 1. l’elaborazione della «teoria del piacere» (1820-21): per natura l’uomo cerca il piacere, ossia la felicità; il desiderio di felicità innato in lui è però illimitato, quindi destinato a non trovare alcun oggetto capace di appagarlo; la radice dell’infelicità umana è perciò nella sua stessa natura. 2. la scoperta (1822) del pessimismo degli antichi: l’infelicità non è causata dal distacco dalla natura, e quindi non è limitata ai moderni, ma è connaturata all’uomo di ogni tempo e luogo. 3. la scoperta (1825) dei filosofi sensisti, che spinge Leopardi verso il materialismo e il meccanicismo e gli fa maturare la sfiducia nei confronti del progresso (unico vero progresso per l’uomo sarebbe la conquista della felicità, meta irraggiungibile). 4. la definitiva rinuncia alle speranze religiose e l’adesione a un ateismo dichiarato.

5. I canti napoletani I canti napoletani (componimenti 30-34; esempi: La ginestra, Il tramonto della luna) vedono l’eliminazione dell’io poetico a vantaggio di una riflessione impersonale su una verità universale che prescinde dall’esperienza del singolo; in particolare la Ginestra denuncia la precarietà dell’esistenza umana all’interno di una macchina cosmica che la trascende e la ignora, rivendicando però la dignità della sofferenza che sfocia nella solidarietà fra gli uomini. Lo stile si fa severo e oggettivo, la descrizione convive con l’argomentazione e il linguaggio vago e indefinito con la precisione del ragionamento filosofico.

Le Operette morali [1824-1832] L’edizione definitiva (1845, postuma) riunisce 24 prose, composte nel 1824 (19), 1825 (1), 1827 (2) e 1832 (2). Il titolo dell’opera ne indica l’argomento (la filosofia morale, che studia i comportamenti dell’uomo) e ne sottolinea l’apparente leggerezza, assieme alla rinuncia dell’autore a costruire un trattato sistematico. Leopardi si ispira ai Dialoghi dello scrittore greco Luciano (II secolo d.C.) e al romanzo filosofico illuminista; da questi modelli riprende: la varietà delle forme (dialoghi, narrazioni, brevi trattati); la capacità di invenzione fantastica (fra i protagonisti compaiono gnomi e folletti, concetti astratti, personaggi della G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Giacomo Leopardi Sintesi svolta

VOLUME 2 Il Neoclassicismo e il Romanticismo

Risale al critico Bonaventura Zambini (1902) la distinzione del pensiero leopardiano in due fasi: «pessimismo storico» (l’infelicità umana è frutto della decadenza dell’uomo moderno, che ha perso il contatto con la natura; essa appagava gli antichi grazie alle illusioni e alle fantasie) e «pessimismo cosmico» (la natura da madre diviene matrigna, indifferente se non crudele nei confronti degli uomini).

ellenistica) dedicato alla “Guerra fra le rane e i topi”, tradotto a più riprese da Leopardi, è una satira nei confronti delle vicende storiche contemporanee, che coinvolge tanto i liberali (i topi) quanto i reazionari (le rane) e gli austriaci (i granchi), tutti accomunati dalla medesima, ingenua fiducia nei falsi miti del progresso civile e della libertà politica; 2. i Pensieri, scritti probabilmente fra 1832 e 1836 e pubblicati postumi nel 1845; si tratta di 111 brevi riflessioni in prosa, spesso in forma aforistica, che hanno per argomento «i caratteri degli uomini e il loro comportamento in società». I temi sono i medesimi sviluppati nello Zibaldone e nelle Operette; la vera novità è una sdegnata denuncia del male che gli uomini si provocano l’un l’altro, ostinandosi a trattarsi vicendevolmente come nemici anziché unirsi in solidarietà contro il vero nemico comune, la natura.

Le altre opere Meritano in particolare di essere ricordate due opere: 1. i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto in otto canti in ottave composto fra il 1831 e il 1837 e pubblicato postumo nel 1842. Nato come continuazione del poemetto pseudo-omerico (in realtà di età

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VOLUME  3a Il secondo Ottocento

I classici • Giovanni Verga Sintesi svolta

giovanni verga PERCHÉ VERGA È UN CLASSICO?

Verismo con il bozzetto siciliano Nedda (1874), seguito nello stesso anno dal Padron ‘Ntoni, primo nucleo dei futuri Malavoglia e, nel 1878, dalla novella Rosso Malpelo e dalla prima idea di un ciclo di romanzi dal titolo provvisorio La Marea. Siamo nella terza stagione della narrativa verghiana; nel 1880 vennero pubblicate le novelle di Vita dei campi, nel 1881 I Malavoglia, nel 1883 le raccolte di bozzetti Novelle rusticane e Per le vie. Nel frattempo (1882) aveva fatto visita a Zola a Parigi e pubblicato l’ultimo dei “romanzi mondani”, Il marito di Elena. Una burrascosa vicenda sentimentale (Verga ebbe fama di grande seduttore), conclusasi con un clamososo scandalo, contribuì a ispirargli la trasposizione teatrale della novella Cavalleria rusticana: l’esordio teatrale di Verga, nel 1884 a Torino (con Eleonora Duse nella parte della protagonista Santuzza), fu un trionfo; qualche anno dopo (1890) Cavalleria rusticana divenne anche opera lirica, con le musiche di Pietro Mascagni.

1. Perché, pur essendo scrittore “regionale” quanto al mondo rappresentato, è stato autore di respiro euro­ peo per consapevolezza letteraria e lucidità di visione, più coerente e geniale degli stessi maestri del Naturalismo francese nell’applicare il canone realista dell’“impersonalità”. 2. Perché ha saputo ricondurre il mito positivista del progresso all’antica idea di hybris, coniugando l’epica dello sviluppo alla visione tragica del teatro greco. 3. Perché ha saputo interpretare meglio di altri il passaggio traumatico dal mondo arcaico e immutabile delle passioni primitive a quello moderno della ragione calcolatrice e dei grandi mutamenti sociali. 4. Perché nelle sue opere ha saputo compiutamente raffigurare la “religione della famiglia” e la “religione della roba” come principi ispiratori dell’agire umano.

Il rientro a Catania Seguirono anni di scoraggiamento e difficoltà economiche, durante i quali vennero pubblicate diverse raccolte di novelle (Drammi intimi nel 1884, Vagabondaggio nel 1887, I ricordi del Capitano d’Arce nel 1891 e Don Candeloro e C.i nel 1894) e, soprattutto, il romanzo Mastro-don Gesualdo (nel 1888 a puntate sulla “Nuova Antologia”, l’anno seguente in volume). Raggiunta la tranquillità economica a seguito di una causa vittoriosa intentata contro l’editore Sonzogno, potè ritirarsi a Catania, dove si dedicò ancora al tea­ tro (nel 1896 con una versione teatrale della Lupa, nel 1901 con gli atti unici La caccia al lupo e La caccia alla volpe, nel 1903 con Dal tuo al mio) e lavorò al terzo romanzo del ciclo dei Vinti, La duchessa de Leyra, senza tuttavia portarlo a termine. Si dedicò anche all’amministrazione delle sue terre assumendo sempre più la mentalità conservatrice del gentiluomo di campagna: si oppose ai fasci siciliani (1894) come alle proteste scoppiate a Milano (1898), approvò le guerre coloniali, si iscrisse al Partito nazionalista, appoggiò l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 e l’impresa fiumana di D’Annunzio nel 1919. Nominato senatore del Regno nel 1920, negli ultimi anni lavorò, con l’amico e discepolo Federico De Roberto, alla sceneggiatura cinematografica dei suoi bozzetti teatrali. Morì nel 1922.

LA VITA [1840-1922] Infanzia e prima giovinezza Nacque nel 1840 a Catania da famiglia agiata di ascendenze nobiliari e di sentimenti liberali. L’insegnamento e l’esempio di Antonio Abate, fervente patriota, gli ispirarono le prime prove narrative: i romanzi Amore e patria, I carbonari della montagna (pubblicato a sue spese nel 1861-1862) e Sulle lagune (pubblicato a puntate sulla rivista filogaribaldina “La nuova Europa”). Nel 1858 si iscrisse a giurisprudenza a Catania (non arrivò mai alla laurea); fra il 1860 e il 1864 militò nella Guardia nazionale e fondò e diresse una rivista vicina al radicalismo garibaldino, “Roma degli Italiani”. Gli anni fiorentini Dal 1865 risiedette per lunghi periodi a Firenze (capitale del Regno d’Italia), dove strinse amicizia con Luigi Capuana e Francesco dall’Ongaro; quest’ultimo lo introdusse negli ambienti dell’alta società che gli ispirarono i romanzi mondani della seconda stagione narrativa (a cominciare da Una peccatrice, stampato nel 1866) e lo aiutò a raggiungere il successo con la pubblicazione di Storia di una capinera (1871). Gli anni milanesi Nel 1872 si trasferì a Milano, capitale letteraria d’Italia. Strinse amicizia con esponenti della Scapigliatura, come Emilio Praga e Arrigo Boito, e con editori come Emilio Treves. Proseguendo con l’apprezzato filone dei romanzi mondani pubblicò Eva (1873), Tigre reale ed Eros (1875), mentre maturava la sua “conversione” al G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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LE COSTANTI LETTERARIE Verga ha attraversato diverse stagioni narrative cambiando ogni volta ambienti, tecniche e linguaggi. Possiamo tuttavia notare, nelle narrazioni patriottiche,

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I classici • Giovanni Verga Sintesi svolta

mondane e veriste, alcune costanti a livello di “filosofia di vita”. La sorte dei personaggi verghiani appare sempre segnata da un destino avverso contro cui ogni ribellione risulta inutile; la saggezza consiste nel sapersi piegare e rassegnare, mentre chi si crede arbitro del proprio destino è condannato inesorabilmente alla sconfitta. Questa lotta impari contro il fato avverso costituisce il nucleo drammatico di tutti i suoi libri; in questa lotta, inoltre, l’eroe è abbandonato a se stesso, perché la società descritta da Verga non conosce pietà o solidarietà, ma è mossa solo da uno spietato e cinico egoismo; i deboli sono condannati a essere schiacciati dai più forti, come anche dalla storia e dalla natura.

ritratta nei panni della femme fatale, conosce solo la dedizione fino allo struggimento o, al contrario, l’abbandono a una sfrenatezza che infrange ogni pudore e ogni legge sociale; nell’uomo si configura invece come passione travolgente ma superficiale, limitata alla sfera dei sensi, che anzi lo distoglie da altri interessi e ambizioni, come l’affermarsi in società e il farsi una posizione. Da questa pregiudiziale misogina di matrice positivista nascono i contrasti che concludono drammaticamente tutte queste storie d’amore, ambientate nei salotti mondani di Firenze e Milano che Verga ben conosceva. L’autore stesso ammetteva che le complicazioni sentimentali raccontate nei romanzi non esistono nello stato di natura, ma sono frutto del benessere e dell’artificio della società moderna.

LE OPERE

La poetica verista La svolta verista Pur continuando a scrivere romanzi mondani, già nel 1874 Verga pubblicò Nedda, novella ambientata tra i poveri contadini siciliani. Il successo che essa riscosse, assieme all’affermarsi della narrativa naturalista francese (del 1877 è l’Ammazzatoio di Zola) e allo scalpore suscitato dall’inchiesta FranchettiSonnino sulla realtà sociale ed economica siciliana, determinarono in Verga la svolta verista. Affrontando nuovi ambienti e nuovi temi, lo scrittore volle sviluppare una nuova tecnica narrativa, i cui principi egli espose solo in parte in dichiarazioni teoriche e vanno quindi desunti dalle opere stesse o dalle sue lettere.

I romanzi patriottici Le prime prove narrative di Verga seguono schemi romantico-risorgimentali, legando gli ideali patriottici della lotta per l’indipendenza nazionale a vicende sentimentali che ruotano attorno ad amori puri e smi­ surati. Amore e patria (1856-1857, rimasto inedito) è ambientato sullo sfondo della guerra di indipendenza americana. I carbonari della montagna (1861-1862), ambientato negli anni napoleonici, narra di una banda di brigantipatrioti che sui monti della Calabria lottano contro le truppe di Gioacchino Murat; l’opera, nata all’indomani dell’armistizio di Villafranca (1859), è caratterizzara da un forte sentimento antifrancese. Sulle lagune (1862-1863), ambientato in Veneto e ispirato da un fatto di cronaca, narra dell’amore infelice fra un cadetto dell’esercito asburgico di occupazione e una bella ragazza di Oderzo; il conflitto fra amore e patria porterà entrambi al suicidio.

 a rinuncia al “ritratto” e al “narratore L onnisciente” Il primo aspetto caratteristico è la rinuncia a tratteggiare il “ritratto” dei personaggi; Verga prende le distanze dal “narratore onnisciente” per trasportare il lettore direttamente “dentro” la vicenda narrata, dandogli l’illusione di trovarsi realmente immerso nella realtà vissuta dai personaggi. Il racconto perde così il suo carattere di finzione per diventare “docu­ mento umano”, fatto realmente accaduto. La rinuncia al narratore onnisciente in nome dell’impersonalità del racconto era uno dei postulati della scuola naturalista, anche se nessuno, neppure Zola, l’aveva spinto fino alle sue estreme consegnenze, come invece fece Verga: che non si limitò ad adottare il ruolo impassibile del narratore-scienziato, ma trasferì la voce narrante all’interno del mondo rappresentato, adottando il punto di vista di un narratore popolare “omodiegetico”, cioè solidale al racconto, in quanto attore o spettatore dei fatti narrati. Questi principi (la mano dell’artista deve rimanere «assolutamente invisibile» e l’opera d’arte deve sembrare essersi «fatta da sé») furono esposti da Verga nella Prefazione alla novella L’amante di Gramigna (1880, poi compresa in Vita dei campi).

I romanzi mondani Dopo l’Unità d’Italia l’interesse del pubblico per la narrativa storico-patriottica scemò rapidamente e si diffuse l’interesse per vicende sentimentali di ambientazione borghese; Verga fra il 1871 e il 1875 scrisse cinque romanzi di questo genere, da lui stesso più tardi raggruppati sotto il titolo comune di Bozzetti del cuore: Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre reale, Eros. In generale l’impostazione non è realista, ma romantica; l’autore rifiuta la “scienza” del cuore e si rassegna piuttosto al suo insondabile “mistero”. La passione d’amore La passione d’amore assume connotati diversi nei personaggi maschili e femminili. La donna, spesso G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I l “discorso indiretto libero” e la rappresentazione del sentimento Per conferire al racconto l’immediatezza della testi­ monianza orale Verga tratta la sintassi con grande libertà, ricorrendo frequentemente al “discorso indi­ retto libero”, che permette di innestare, nel corpo della narrazione indiretta, inserti di discorso diretto che rinviano appunto al narratore omodiegetico. Altro espediente tecnico è la rinuncia alla descrizione “interna” dei moti dell’animo (tipica del narratore onnisciente); pensieri, sentimenti ed emozioni vengono descritti solo nella misura in cui si traducono in atteggiamenti esteriori, osservabili dallo sguardo del testimone-osservatore che è, ancora una volta, il narratore omodiegetico.

servato concentrando l’attenzione sui desini individuali, appare a Verga nient’altro che una brutale macina da cui nessuno, a nessun livello sociale, può salvarsi: il vincitore che oggi si impone schiacciando il vinto sarà schiacciato a sua volta dai vincitori di domani. Un ciclo incompiuto La rivoluzionaria tecnica narrativa adottata, e in particolare la rinuncia al narratore onnisciente, è probabilmente la causa dell’incompiutezza del ciclo. Se infatti era possibile rappresentare la psicologia elementare delle classi più umili attraverso la mera descrizione del comportamento esteriore, la cosa si rivelava irrealizzabile affrontando i più alti livelli sociali, dove le convenzioni, l’educazione, la cultura, oltre a rendere estremamente complesso il mondo interiore dei personaggi, alimentano la dissimulazione e impongono una “maschera”.

Il ciclo dei Vinti Dopo il successo di Nedda, incoraggiato dall’editore Treves, Verga iniziò un altro bozzetto siciliano, Padron ‘Ntoni, che da semplice novella divenne poi romanzo, e addirittura primo di un ciclo di cinque romanzi (l’idea venne probabilmente dal ciclo dei Rougon-Macquart di Zola) intitolato dapprima La Marea e successivamente I vinti.

I Malavoglia [1881] La vicenda Nel paesino di Aci Trezza, alle pendici dell’Etna, vive la famiglia Toscano, soprannominata Malavoglia, composta dal patriarca padron ‘Ntoni, dal figlio Bastianazzo sposato con Maruzza la Longa, e dai loro cinque figli: il giovane ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Proprietari della casa del nespolo e di una barca, la Provvidenza, i Malavoglia vivono onestamente di pesca fino a quando la partenza del giovane ‘Ntoni per il servizio militare (siamo all’indomani dell’Unità d’Italia) li spinge a improvvisarsi commercianti, acquistando a credito una partita di lupini dallo zio Crocifisso, l’usuraio del paese. Il naufragio della barca e del carico e la morte di Bastianazzo avviano la famiglia alla catastrofe, anche perché ‘Ntoni, rientrato dalla leva, non sa più adattarsi alla vita di prima. A partire da questo momento, disgrazie si sommano a disgrazie: perdute la barca e la casa, i Malavoglia si riducono a lavorare a giornata; Luca muore nella battaglia navale di Lissa; Maruzza muore di colera; Lia, disonorata, fugge in città e finisce in un postribolo; ‘Ntoni frequenta cattive compagnie e finisce in carcere; padron ‘Ntoni, spezzato da tante sventure, muore miseramente in ospedale. Ma alla fine Alessi, riscattata la casa del nespolo, sembra avviare la rinascita della famiglia.

Le linee-guida Possiamo ritrovare le linee-guida di questo ciclo in alcune lettere e poi, soprattutto, nella Prefazione ai Malavoglia (1881). I cinque romanzi (I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni e L’uomo di lusso) dovevano rappresentare complessivamente «una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione alla avidità del guadagno», adattando stile e tecniche narrative ai diversi ambienti rappresentati. Il progetto rimase incompiuto: Verga non andò oltre l’abbozzo dei primi capitoli della Duchessa de Leyra. Una visione fatalista della vita umana Nella Prefazione ai Malavoglia Verga appare convinto dell’esistenza di una legge universale che governa tutti i destini umani, legge di cui i romanzi dovevano fornire la conferma e che consiste in questo: la vita umana a ogni livello è agitata da una lotta di tutti con­ tro tutti senza pietà e senza quartiere, lotta governata dal più sfernato egoismo e in cui il calcolo e l’interesse sono gli unici criteri di scelta. In un simile contesto i deboli sono destinati a scoccombere e i forti a prevalere e non ha più senso parlarte di “vizi” e “virtù”, perché essi presuppongono la libera scelta dell’uomo (il libero arbitrio), mentre invece per Verga il comportamento umano è determinato senza scampo dalle leggi brutali della lotta per la sopravvivenza e l’autoaffermazione. Questa lotta provocata dalla «ricerca del meglio» è motore della società e della storia umana. Il “progresso infinito” (idea di matrice positivista), se osG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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La legge dell’interesse L’interesse economico è il motore principale dell’intreccio romanzesco; esso non solo motiva e guida le azioni, ma stabilisce anche il sistema dei valori e le gerarchie sociali: solo chi ha «delle barche sull’acqua e delle tegole al sole» gode di stima e considerazione, la perdita della casa del nespolo e della Provvidenza getta i Malavoglia da un giorno all’altro nella categoria dei reietti; sulla base dell’interesse (e non certo dell’amore) vengono combinati i matrimoni; sulla base dell’interesse agisce lo zio Crocifisso, non

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tribuiscono inoltre: la gestualità “teatrale” dei perso­ naggi, che ne crea efficaci ritratti dal vivo e aggira la rinuncia all’introspezione; l’impiego frequentissmo di similitudini e proverbi tutti legati all’esperienza e alla cultura dei parlanti; i soprannomi, non di rado ispirati a una lettura ironico-grottesca del personaggio (si pensi allo zio Crocifisso, alla Santuzza, agli stessi Malavoglia).

a caso detto «campana di legno» perché sordo a qualunque altro argomento. Badare ai propri interessi è la legge fondamentale degli abitanti di Aci Trezza, che li chiude in un gretto egoismo rendendoli ciechi alle disgrazie altrui e sordi ai richiami della pietà e della solidarietà. Il mito del benessere e «l’ideale dell’ostrica» Il romanzo iniziale del ciclo dei Vinti vuole mostrare che cosa accade a chi sente «le prime irrequietudini pel benessere» e prende coscienza «che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio». In questo senso personaggio emblematico è il giovane ‘Ntoni che, abbaglia­ to dalle sirene del progresso quando si è allontanato da Aci Trezza per il servizio militare, non accetta più di spezzarsi la schiena con rassegnazione e pazienza, ma vuole andarsene a fare fortuna, per mangiare «pasta e carne tutti i giorni». La sua è dunque una vi­ cenda di formazione, o meglio di de-formazione, perché va incontro a un completo fallimento: tornato di notte al paese ridotto come un pezzente, si dà al bere e al contrabbando, riducendosi a livello quasi animale. La sua colpa consiste nella violazione della legge del destino che impone a ciascuno di accontentarsi di ciò che possiede, senza aspirare a cambiamenti: legge che nel romanzo è incarnata dal vecchio padron ‘Ntoni e che nella novella Fantasticheria Verga stesso chiamò «ideale dell’ostrica»: l’uomo può essere felice solo nella «rassegnazione coraggiosa» che lo fa rimanere tenacemente attaccato allo scoglio sul quale la fortuna lo ha lasciato cadere. ‘Ntoni comprende tutto questo, ma troppo tardi: nel mondo di Verga l’ammissione delle proprie colpe e il ravvedimento non bastano, per il colpevole non esiste redenzione. In questo senso l’orizzonte ideologico verghiano richiama quello della tragedia greca: il desiderio di migliorare la propria condizione è la versione moderna della hybris antica, cioè della tracotanza dell’uomo che si ribella al fato credendosi arbitro del proprio destino: una colpa che può essere espiata solo con l’annientamento. Verga appare quindi lontanissimo sia dalla visione religiosa e provvidenzialistica di Manzoni, sia dalla mentalità moderna tutta fiduciosamente protesa al progresso tecnico, sociale, economico.

Il problema della lingua Per conciliare la ricerca del colore locale con l’esigenza della comprensibilità, che comportava la rinuncia al dialetto, Verga adottò una lingua molto vicina al parlato e ricca di locuzioni idiomatiche; ricorse a particolari accorgimenti sintattici al limite della sgrammaticatura, come il “che” polivalente, il pronome pleonastico («la gente gli rideva sul muso allo zio Crocifisso»), le “frasi foderate” («ci vuole la terra al sole, ci vuole!»); a livello lessicale, impiegò termini («sciara», «fariglioni», «malabestia», «Giufà») o modi di dire («da pagarsi col violino», «aceto dei sette ladri») che rinviano al dialetto, arricchendo in questo modo da un lato la lingua italiana di nuovi lemmi e dall’altro nobilitando il dialetto che acquisisce dignità scritta e dimensione sovraregionale. Da notare anche l’abnorme frequenza dei verbi all’im­ perfetto, tempo della durata e della ripetizione, espediente che esprime la visione immobilistica del destino tipica di Verga.

Mastro-don Gesualdo [1889] La vicenda La vicenda è ambientata a Vizzini fra il 1820 e il 1848. Gesualdo Motta è un self-made man che è riuscito laddove il giovane ‘Ntoni aveva fallito: grazie al suo fiuto per gli affari e a una vita di sacrifici e rinunce in nome del valore supremo della «roba», da modesto muratore è diventato il “re” del mattone e ora vuole arrivare a controllare l’intera produzione agricola della zona e dettare i prezzi al mercato. Allo scopo di ottenere il sostegno o almeno la neutralità dei nobili locali sposa l’aristocratica Bianca Trao, pur sapendola sul lastrico e incinta di un altro. Ma anche per lui, proprio quando si crede al vertice, comincia la caduta: logorato dalla continua guerra contro la cupidigia di parenti e compaesani e dai bocconi amari inghiottiti in famiglia (della moglie e della figlia Isabella non solo non ha ottenuto l’affetto, ma neppure il rispetto), muore di cancro abbandonato a se stesso tra l’indifferenza generale, mentre la sua «roba» viene dilapidata con noncuranza dal genero, il duca de Leyra.

Caratteri narrativi Il rifiuto del narratore onnisciente in favore del nar­ ratore omodiegetico ha come prima conseguenza il fatto che l’orizzonte degli eventi narrati sia limitato ad Aci Trezza: come un personaggio se ne allontana, esce dall’orizzonte narrativo e di quel che gli capita siamo aggiornati limitatamente a quanto egli stesso riferisce (o a quanto possono riferire eventuali testimoni occasionali). Così avviene per ‘Ntoni: nulla sappiamo delle esperienze da lui vissute dopo la “fuga” dal paese, quel che possiamo conoscere sono semmai i segni, fisici e psicologici, che esse hanno lasciato in lui. A creare sapienti effetti di realtà e di colore locale conG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I temi: aristocrazia e borghesia; essere e avere Nel romanzo va in scena il conflitto fra due mondi e due mentalità, quella aristocratica, incarnata dai Trao, immobilistica e fondata sul privilegio del sangue, e quella borghese e imprenditoriale, dinamica e

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moglie e dalla figliastra.

spericolata, incarnata da Gesualdo, che ne rappresenta la dimensione epica ed eroica: un uomo dedito alla “religione della roba”, lungimirante e infallibile, pronto ad affrontare rischi, disagi, sacrifici e dotato di una volontà incrollabile. Verga stigmatizza entrambe queste mentalità, queste concezioni del mondo; se all’inizio il fiuto per gli affari di Gesualdo sembra avere la meglio, in realtà alla fine emerge ancora una volta la visione immobilistica verghiana: infatti la «roba» accumulata dal nostro rampante e aggressivo imprenditore finisce dissipata nelle mani dell’aristocratico, parassitario e nullafacente duca de Leyra: lo scontro fra nobilità e borghesia si conclude senza vincitori. E le “virtù” imprenditoriali, che fanno di Gesualdo un vincente nel campo degli affari, si trasformano in “vizi” sul piano esistenziale, facendo del protagonista un vinto nel campo degli affetti e della piena realizzazione di sé, come a ribadire che “religione della roba” e ricerca della felicità sono fra loro incompatibili. Tra tutte le persone più vicine a Gesualdo, padre, fratelli, moglie, figlia, non ce n’è una di cui egli possa fidarsi, con cui possa confidarsi e sfogarsi: tutte sono per lui unicamente fonte di dispiaceri, rabbia e amarezza, al punto di avvelenargli la vita.

Ereditarietà e libertà Sulla scorta delle idee di Hippolyte Taine anche nel Mastro-don Gesualdo Verga mostra come i comportamenti vengano determinati dall’ambiente sociale e dal momento storico; rispetto ai Malavoglia acquista maggior peso l’elemento della razza, e lo si vede dall’importanza che assumono le tare ereditarie dei Trao e la fisionomia dei personaggi; la razza determina anche aspetti caratteriali (l’ostinazione dei Motta, la reticenza dei Trao) e inclinazioni (Isabella, come la madre, ha una relazione clandestina). Però a Gesualdo Verga assegna anche caratteri che nulla hanno di ereditario; e così pure l’influsso esercitato dal contesto sociale e storico non produce affatto lo stesso effetto nei vari personaggi: nel comportamento individuale rimane sempre un elemento imprevedibile e incalcolabile, una zona d’ombra dove si gioca il libero arbitrio dell’uomo. Piuttosto, l’antagonista con cui la libertà si scontra è ancora una volta il destino, la nemesi che colpisce chiunque voglia sovvertire l’ordine costituito: anche Gesualdo è un vinto perché ha osato violare «l’ideale dell’ostrica».

L’emblema della malattia Il cancro allo stomaco che uccide Gesualdo al termine del romanzo somatizza emblematicamente la sua religione di vita fondata sull’attaccamento ossessivo alla «roba»; il suo rifiuto a sottoporsi all’operazione per rimuovere la massa tumorale è significativo: Gesualdo non sa e non vuole staccarsi dalla «roba», che finisce per divorarlo dall’interno; l’avere, cui è stato dato il primo posto, finisce per annientare l’essere. Interessante è la lettura del personaggio in chiave prometeica: Prometeo, benefattore dell’umanità e garante del progresso, è uno dei grandi miti di fine Ottocento, e significativamente il titano venne condannato da Zeus ad avere il fegato dilaniato da un’aquila, come Gesualdo ha questo «cane arrabbiato» che gli divora le viscere. Altrettanto emblematiche sono le malattie che colpiscono i Trao (demenza, tisi), segni di un sangue malato, di una nobiltà ormai estenuata e consunta, destinata a essere cancellata dalla storia.

Le novelle Verga pubblicò otto raccolte di novelle: Primavera e altri racconti, Vita dei campi, Novelle rusticane, Per le vie, Drammi intimi, Vagabondaggio, I ricordi del capitano d’Arce, Don Candeloro e C.i. Scritte spesso per motivazioni economiche, alcune sono tra le più belle della narrativa italiana moderna e spesso costituiscono il primo abbozzo di successivi romanzi: Vita dei campi è anticipazione dei Malavoglia, Novelle rusticane del Mastro-don Gesualdo, Drammi intimi e I ricordi del capitano d’Arce della Duchessa de Leyra. Nedda [1874] Momento di svolta dalla narrativa mondana ai sog­ getti rusticani, la novella narra la dolorosa vicenda di una povera raccoglitrice di olive emarginata perché “disonorata” e costretta a vivere di stenti in una società moralista e perbenista. Siamo ancora lontani dalla poetica dell’impersonalità e la protagonista conserva alcuni tratti dell’eroina romantica in lotta contro le avversità del destino e i pregiudizi sociali; scopo dichiarato è muovere a compassione le lettrici borghesi di fronte a una sorte tanto dolorosa e ingiusta.

Matrimonio e amore L’avere distrugge l’essere anche nell’ambito dei rapporti familiari: passione amorosa e istituzione matrimoniale appaiono totalmente dissociati, in quanto la seconda rientra interamente nella logica dell’interes­ se economico. Non è un caso se i rapporti coniugali, nel romanzo, sono infelici e infecondi, mentre le relazioni passionali avvengono al di fuori del matrimonio e sono feconde; così pure il matrimonio riparatore (fra Bianca e Gesualdo) non consacra l’unione fra i due amanti (Bianca e il baronello Rubiera), ma riconduce la vicenda nell’ordine economico dell’esistenza attraverso la scelta del partito più vantaggioso: l’esito è il muro di incomunicabilità che separa Gesualdo dalla G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Vita dei campi [1880] La raccolta comprende otto novelle (si segnalano Fantasticheria, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La lupa e L’amante di Gramigna) in cui per la prima volta si assiste all’eclissi del narratore onnisciente, sostituito da un narratore popolare che esprime un punto di vista radicalmente ostile al protagonista: in un mondo dominato dall’egoismo, dal calcolo e dalla

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I ricordi del capitano d’Arce [1891] La raccolta comprende sette novelle che si costituiscono come i capitoli di un romanzo, tenuti insieme dalla ripresa dei medesimi personaggi e dal medesimo filtro narrativo (il capitano d’Arce rievoca gli amori di donna Ginevra Silverio), cui si aggiungono, per affinità tematica, altre tre novelle tratte dalla raccolta Drammi intimi. Verga torna al mondo frivolo e brillante dei salotti che era stato al centro dei romanzi mondani; l’asse tematico si sposta dalla “religione della roba” alla sfera sentimentale, ma il gioco della seduzione appare ormai disperatamente frivolo e vuoto.

violenza, chiunque non segua la mentalità corrente e agisca per motivi diversi dal proprio tornaconto deve essere messo al bando, emarginato, soppresso; letto attraverso il giudizio ostile del narratore che incarna la mentalità dominante, il protagonista perde però ogni tratto eroico assumendo caratteri criminali o ferini. La campagna perde ogni connotazione idilliaca e bucolica e appare come un luogo ostile dove impera, come dappertutto, la lotta per la sopravvivenza con le sue regole spietate. Novelle rusticane [1883] La raccolta comprende dodici novelle (si segnalano La roba e Libertà) i cui personaggi appartengono per lo più alla moderna borghesia intellettuale o imprenditoriale e rappresentano un’umanità perfettamente integrata nella cinica morale dell’interesse. Il narratore popolare questa volta condivide la mentalità del personaggio e ne approva l’astuzia senza scrupoli, specie se usata a danno dei deboli e degli sprovveduti; la cultura appare come strumento di inganno e veicolo di sopraffazione. Solo la natura fa da argine alla dominante mentalità rapace ed egoistica: con la sua forza devastante e distruttrice; con le malattie; con la vecchiaia e la morte, cui nessuno può sfuggire.

Don Candeloro e C.i [1894] Don Candeloro e C.i. costituisce l’ultima raccolta verghiana e comprende dodici novelle. Protagonista è una folla di attori da strapazzo in un grottesco sovrapporsi del piano della finzione scenica a quello della realtà che ne fa degli alienati, dei «tristi commedianti della vita». Per Verga tutto il mondo è un teatrino in cui gli uomini sono ridotti a marionette e nulla esiste al di sotto delle apparenze.

Il teatro Verga trascrisse per il teatro tre delle sue novelle: Cavalleria rusticana (1884: è l’atto di nascita del teatro verista), Il canarino del n. 15 (che sulle scene divenne In portineria, 1885) e La lupa (1896). L’esito delle rappresentazioni fu alterno, ma in generale il passaggio dalla forma narrativa a quella teatrale conferisce a questi testi un aspetto convenzionale e patetico, lon­ tano dall’efficacia espressiva dell’originale.

Per le vie [1883] La raccolta comprende dodici novelle (si segnalano Il canarino del n. 15, Via crucis e L’ultima giornata) in cui Verga trasporta nell’ambiente milanese la sua visione disincantata e immobile del mondo. Sono storie di de­ grado e miseria i cui protagonisti, per lo più di estrazione popolare, si agitano in un mondo in cui può solo accadere di sprofondare più in basso e dove, rispetto alla già spietata mancanza di solidarietà delle campagne, si sperimenta la dimensione ancora più alienante dell’assoluta indifferenza.

Dal tuo al mio [1903-1906] L’opera ebbe un percorso inverso: nata per le scene nel 1903, tre anni dopo fu pubblicata come romanzo. Il tema è politico: contro la volontà del padre, la figlia di un nobile siciliano sposa un rappresentante dei minatori portandogli in dote una zolfara; il risultato è che il marito, divenuto possidente, abbandona le idee socialiste e non esita ad affrontare con il fucile spianato i suoi ex compagni di lavoro per difendere la «roba». Arroccato su posizioni conservatrici, Verga intende dimostrare che ogni uomo in fondo al cuore è un borghese teso al possesso e che quindi, al di là delle ideologie, quanti lottano per l’abolizione della proprietà privata in realtà mirano unicamente ad acquisirla per sé.

Vagabondaggio [1887] La raccolta comprende dodici novelle (si segnalano Vagabondaggio, ... e chi vive si dà pace e Quelli del colèra) il cui filo rosso è nel tema evocato dal titolo: protagonista è un’umanità in perenne cammino, perché in fuga o in cerca di lavoro o spinta dalla «vaga bramosia dell’ignoto», destinata comunque a girare a vuoto per ritornare, il più delle volte, al punto di partenza senza aver combinato nulla.

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giovanni pascoli PERCHÉ PASCOLI È UN CLASSICO?

quindi a Massa e infine a Livorno. Nel 1892 vinse per la prima volta il prestigioso premio internazionale di composizione poetica in lingua latina indetto dalla Regia accademia di Amsterdam; passato alla carriera accademica, insegnò prima a Bologna, poi a Messina, quindi a Pisa. Nel 1905 fu infine chiamato dall’università di Bologna a succedere a Giosue Carducci nella cattedra di letteratura italiana. L’ossessione di ricostituire il nucleo familiare lo spinse a riunire attorno a sé le sorelle Ida e Maria (detta Mariù) rinunciando a sposarsi; visse pertanto il matrimonio di Ida come un tradimento. Nel 1895 a Castelvecchio di Barga (Lucca) prese in affitto una casa che in seguito acquistò, facendone il suo nido definitivo assieme alla sorella Mariù. In questi anni travagliati nacquero le raccolte poetiche più celebri: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio, Poemi conviviali.

1. Perché è il maggiore rappresentante italiano della poesia simbolista. 2. Perché come nessun altro ha saputo cogliere e far percepire il mistero della vita. 3. Perché la sua ispirazione poetica è stata sorretta da una sensibilità sottile, capace di leggere le voci della natura come un libro segreto, dove sono riposte le grandi verità dell’esistenza umana. 4. Perché, poeta evocativo e visionario, ha saputo guardare al di là della superficie del mondo fisico per afferrare l’essenza delle cose. 5. Perché il suo occhio penetrante, guardando gli oggetti più umili con lo stupore incantato di un fanciullo, raggiunge sempre verità eterne e universali.

Gli ultimi anni Assunto il ruolo di poeta ufficiale impegnato a celebrare la patria, pubblicò le raccolte Odi e inni, Poemi italici, Poemi del Risorgimento, Canzoni di Re Enzio. Nel 1911 tenne un discorso pubblico (La grande proletaria s’è mossa) celebrando la guerra coloniale di Libia. Morì di cancro nel 1912, dopo avere vinto per la tredicesima volta il premio dell’Accademia olandese.

LA VITA [1855-1912] Infanzia e giovinezza Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna (Forlì), quarto di dieci figli. Il padre amministrava una tenuta agricola e Giovanni crebbe in campagna, in una famiglia patriarcale e agiata. A otto anni entrò nel collegio dei padri scolopi a Urbino, dove frequentava la prima liceo quando, nel 1867, il padre venne assassinato in circostanze misteriose; fu un delitto destinato a rimanere impunito e che sconvolse il sereno nido familiare: la madre morì l’anno seguente e il fratello maggiore Giacomo si trasferì con il resto della famiglia a Rimini. Giovanni riuscì a terminare il liceo e, grazie a una borsa di studio, a iscriversi a Bologna alla facoltà di lettere. Partecipò alla vita culturale bolognese e venne a contatto con i circoli socialisti, sposando la causa della giustizia sociale; la partecipazione a una manifestazione di protesta lo privò della borsa di studio e Pascoli dovette abbandonare gli studi. Intensificò il suo attivismo politico dopo aver conosciuto l’anarchico Andrea Costa; si impegnò nella propaganda in favore della Prima internazionale e conobbe la prigione. Scarcerato, abbandonò la politica attiva temperando i suoi ideali in un umanitarismo interclassista di stampo contadino, contrario allo scontro sociale e venato di sensibilità evangelica. Ripresi gli studi, nel 1882 si laureò con una tesi sul poeta greco Alceo.

LE COSTANTI LETTERARIE Pascoli fu uomo dai molteplici interessi e poeta assai versatile, eppure tutti i suoi testi hanno un’impronta inconfondibilmente unitaria. La morte del padre La morte del padre è l’episodio che ha segnato la vita di Pascoli e sta alla base della sua vocazione poetica. L’elaborazione del lutto conferisce una nota dominante a tutta la sua produzione. L’evento traumatico, spezzando la sua vita in un “prima” spensierato e in un “poi” drammatico, ha generato in lui un meccanismo regressivo che attira il suo immaginario poetico verso quel “prima” rivissuto come un tempo edenico. La regressione Tale regressione, che si manifesta nel simbolo ricorrente del «nido» (luogo al riparo dalle insidie del mondo sotto la protezione degli affetti familiari), prende tre diverse direzioni: 1. una regressione anagrafica (la fanciullezza, stagione dell’innocenza, della fantasia e della spontaneità, come alternativa al mondo adulto dominato dal calcolo, dall’egoismo, dall’insensibilità); 2. una regressione sociale (il mondo arcaico e armo-

Gli anni della maturità Dedicatosi all’insegnamento del latino e del greco nelle scuole superiori, fu assegnato prima a Matera, G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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nico della campagna, regolato dalle eterne leggi di natura, come alternativa all’universo alienante della modernità tecnologica e cittadina); 3. una regressione storico-culturale (il mondo classico, ai primordi della civiltà occidentale, come alternativa alla cultura borghese contemporanea).

strutture mentali, ma le elegge a maestre, osservandole con la meraviglia di chi vede per la prima volta; il nuovo, infatti, non si inventa (si inventa ciò che non esiste), ma si scopre. Per conoscere il fanciullino sfoglia il libro aperto della natura, di cui bisogna saper decifrare l’alfabeto: nel libro della natura è infatti già scritta la verità.

LE OPERE

Il linguaggio: onomatopea e fonosimbolismo La natura, oltre che una foresta di simboli, è per Pascoli un’orchestra di suoni; la natura ci parla, ma solo il fanciullino è in grado di comprenderne la lingua. Tradotte in parole, le voci della natura diventano onomatopee, il cui scopo tuttavia non è una resa realistica: a Pascoli interessa decrittare il messaggio in esse implicito, rendere comprensibili le verità che esse oscuramente affermano; si tratta di un «linguaggio pre-grammaticale» (Contini). Oltre all’onomatopea Pascoli utilizza molte figure di suono (allitterazioni, assonanze) e mediante un uso peculiare di metro e rima costruisce un linguaggio fonosimbolico.

Il fanciullino [1897-1903] Un autore sincronico Pascoli fu autore sincronico: portava cioè avanti più opere contemporaneamente, sicché la sua produzione può essere ricondotta a una medesima poetica, che egli stesso ha illustrato nella prosa del Fanciullino. L’opera ebbe una lunga gestazione: uscita in anteprima parziale nel 1897 (con il titolo Pensieri sull’arte poetica), solo nel 1903 fu pubblicata in forma integrale (in 20 capitoli), anche se non definitiva (Pascoli pensava a ulteriori ampliamenti).

Il fanciullino come nuovo Adamo Pascoli definisce il fanciullino come «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»; dare un nome alle cose significa dare un nome alle verità in esse celate; ma l’atto poetico del nominare è un atto di conoscenza, in quanto dare un nome significa riconoscere un senso. Le verità scoperte dalla poesia simbolista sono di ordine ontologico, riguardano cioè l’essere in sé; esistono dunque indipendentemente dall’uomo (e dal fanciullino che le scopre). Come non si può modificare il senso ontologico delle cose, così l’atto di chiamarle per nome – cioè di dichiarare la verità riguardo al loro essere – non ammette arbitri. Perciò Pascoli quando deve designare un oggetto sceglie di usare non un nome generico ma il nome proprio (Contini parla di «linguaggio post-grammaticale» in relazione ai numerosi termini tecnici anche derivati dal dialetto o dal lessico contadino presenti nella poesia pascoliana): questo non in ossequio a uno scrupolo scientifico di classificazione, ma per religioso rispetto della verità della cosa, di cui il nome proprio è garante. Al nuovo Adamo spetta dunque il compito di introdurre per la prima volta in poesia quei termini, anche tecnici, sovente poco diffusi anche nella lingua comune.

Il fanciullino e il poeta La riflessione di Pascoli ruota tutta attorno alla figura cardine del «fanciullo eterno», la parte infantile dell’uomo che ha un approccio conoscitivo con la realtà basato sull’intuizione e la spontaneità. Il fanciullino riassume la nostra essenza in un tratto della nostra esistenza, ma il formarsi in noi di un io adulto non comporta la sua scomparsa: pur messo a tacere, il fanciullino rimane parte integrante della nostra personalità, quella che ci consente di stupirci e di sognare. Pur albergando nel cuore di ciascuno, chi lo ascolta più volentieri è il poeta, simile in questo a Omero, il poeta cieco che si fa guidare per mano proprio da un fanciullo. Il fanciullino è dunque l’anima poetica dell’uomo. Riprendendo la celebre definzione dantesca, Pascoli considera poeta chi accetta di scrivere ciò che il fanciullino gli «detta dentro». La visione poetica del mondo Il fanciullino per Pascoli designa la sfera irrazionale, dominata da fantasie ed emozioni: la visione poetica del mondo è diversa da quella elaborata dalla ragione o dalla scienza. Il poeta è un «veggente» il cui sguardo non considera l’utilità pratica o l’impatto sociale di oggetti e fenomeni, ma «ci trasporta nell’abisso della verità» celato spesso nelle cose più umili. La conoscenza poetica è dunque una conoscenza metafisica che avviene per via immediata e intuitiva; il poeta possiede una facoltà divinatoria grazie alla quale può vedere la rete di somiglianze e relazioni fra le cose che sfugge all’approccio analitico della ragione e della scienza. Siamo, evidentemente, in pieno Simbolismo: conoscere infatti è riconoscere, è “illuminazione”. Il fanciullino non impone alle cose le proprie sovraG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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L’analogia Lo sguardo del fanciullino non si ferma però mai alla singola cosa: ogni oggetto è parte di un tutto ed egli sa scoprire «le somiglianze e relazioni più ingegnose». A esprimere queste relazioni è deputata l’analogia, figura che mette in relazione gli aspetti comuni fra le cose, in particolare nella forma della sineddoche: nella poesia simbolista l’analogia non collega due elementi di pari grado, ma sempre una parte con il tutto. Ma allora le grandi verità non devono essere cercate

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nelle grandi, ma nelle piccole cose; anzi il genio del poeta si riconosce proprio nella sproporzione fra la piccolezza dell’oggetto e la verità che egli sa cogliervi. Pascoli riesce a nobilitare la materia più umile conferendole un respiro metafisico (è il cosiddetto «sublime dal basso»). Questa concezione poetica ha anche un risvolto esistenziale: per Pascoli la ricetta della felicità sta nel saper gioire del poco; questa è la miglior medicina contro il dolore e l’invidia: a chi sa accontentarsi non manca nulla. A livello sociale ciò si traduce in un socialismo “addomesticato” che rinuncia alla lotta di classe per vagheggiare una società di piccoli proprietari terrieri, liberi e contenti di ciò che hanno. Una visione cui non sono estranei echi classici (in particolare della poesia di Orazio e di Virgilio).

boleggiano il mondo umile delle piccole cose legate alla terra; inoltre rappresentano un legame con il luogo natale perché particolarmente abbondanti proprio nei paraggi di San Mauro di Romagna. La scelta del termine latino è assieme un omaggio a Virgilio, una specificazione di genere (poesia bucolica) e una dichiarazione di poetica (fondata su semplicità di materia e stile). Temi: la morte, il nido Fin dalla Prefazione Pascoli suggerisce la chiave di lettura del libro, dominato dal tema funebre della rievocazione dei lutti di famiglia: la morte, nel giro di dieci anni, del padre, della madre e di tre fratelli. Ma la dimensione privata assurge a visione del mondo, in cui al bene assicurato da madre natura si mescola il male provocato dalla malvagità dell’uomo. Il nido è il grande archetipo attorno al quale ruota il mondo poetico pascoliano. Esso è il luogo degli affetti e il rifugio contro la cattiveria degli uomini; ogni distacco dal nido è un trauma, così come ogni ritorno è una regressione alla beatitudine della prima infanzia (al nido il fanciullino guarda come al grembo materno). Il nido è anche simbolo del riparo offerto dalla natura contro la violenza della storia: pertanto è legato al polo positivo della campagna (ricco di risvolti ideologici, come la celebrazione della piccola proprietà terriera e della serena semplicità della vita contadina), contrapposto alla città (dove gli uomini si riuniscono solo per farsi del male). La tensione drammatica che anima la raccolta è data dal fatto che anche nel nido la violenza si abbatte comunque, trasformando lo spazio edenico nel teatro di un dramma. Il tema della morte si innesta quindi nell’idillio bucolico spezzandolo; il nido appare alla fine come il campo in cui il bene, la natura e la vita danno battaglia contro il male, la storia e la morte.

«Poesia pura» e «poesia applicata» Per Pascoli la poesia ha una suprema utilità morale e sociale, ma solo in quanto nasce da una spontanea inclinazione al bello e al buono: «il poeta è poeta, non oratore o predicatore»; egli può dunque insegnare, in quanto ci aiuta a riscoprire le verità sepolte nelle piccole cose, ma non deve atteggiarsi a maestro o a filosofo, altrimenti la poesia diventa vuota retorica. Poeta coltissimo, Pascoli considerava la tradizione poetica italiana ammalata di troppa cultura: i nostri poeti avrebbero sempre preferito l’imitazione (rifarsi a questo o a quel modello) rinunciando a restituire al lettore la naturale freschezza della natura; la cultura dovrebbe in realtà avere lo scopo ultimo di restituire l’uomo alla sua ingenuità originaria.

Myricae [1891-1911] Composizione e struttura La gestazione di questa raccolta fu lunghissima. I primi testi risalgono agli anni settanta; il titolo comparve per la prima volta nel 1890 a raggruppare nove poesie pubblicate sulla rivista “Vita Nuova”, e quindi l’anno successivo in un piccolo volume a stampa, offerto come dono di nozze a un amico, comprendente 22 poe­ sie. Seguirono altre edizioni: nel 1892 (72 poesie); nel 1894 (116 poesie); nel 1897 (152 poesie); nel 1900 (156 poesie), in cui venne definitivamente fissato l’indice. Pascoli intervenne ancora negli anni successivi con diverse varianti d’autore: l’ultima edizione è del 1911. Evolutasi di edizione in edizione, in quella definitiva del 1900 la struttura della raccolta è articolata in 15 sezioni di ampiezza variabile intercalate da testi isolati. Prevale il criterio della varietà e i temi appaiono legati a distanza da un sottile intreccio circolare.

Le forme: sperimentalismo metrico Pascoli adopera versi e versicoli di varia lunghezza, dal trisillabo all’endecasillabo, e in particolare il novenario, raro nella tradizione precedente. Per quanto riguarda gli schemi strofici passa dal sonetto al madrigale, dall’ottava alla strofe saffica, dalla quartina alla ballata, raggruppati in sezioni metricamente omogenee. Simbolismo e frammentismo Pascoli ha introdotto il Simbolismo in Italia. Non gli interessa dare della campagna una visione realistica o pittoresca, ma cogliere nella natura (e nel lavoro dell’uomo a contatto con essa) il senso metafisico del mondo e della vita. Gli oggetti non sono mai solo quello che sembrano, ma simboli che rimandano ad altro. Pascoli è poeta ellittico, che non descrive ma evoca, non spiega ma suggerisce; l’espediente più usato a tal fine è l’onomatopea, carattere distintivo del suo linguaggio poetico.

Titolo e genere Myricae è termine latino (preso a prestito dalla IV Bucolica di Virgilio) per indicare le tamerici, umili arbusti comuni in area mediterranea, impiegati dai contadini per far ramazze o accendere il fuoco. Per Pascoli simG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Folclore e vernacolo Tra le maggiori novità rispetto a Myricae osserviamo nei Canti una componente folclorica legata a mestieri e abitudini della gente di Garfagnana (dove si trova Castelvecchio), nonché a detti e credenze romagnole; il poeta infatti va ora cercando nella cultura popolare di zone periferiche, custodi di una sapienza naturale, le stesse verità esistenziali che nella precedente raccolta il fanciullino aveva colto solo nelle voci della natura. Compito ulteriore del poeta diviene quello di preservare le antiche tradizioni, prima che vengano cancellate dal progresso e dalla modernizzazione. Per le medesime ragioni il «linguaggio post-grammaticale» di Pascoli si arricchisce ora di inflessioni vernacolari e di termini tecnici ascrivibili all’ambito delle arti e dei mestieri della tradizione romagnola e garfagnina.

Tale matrice simbolista spiega anche il carattere frammentario di molte poesie, brevi e concentrate su un’immagine, secondo il principio rimbaudiano dell’illuminazione che improvvisamente svela la verità nascosta. Altri elementi significativi sono: la «frantumazione paratattica del verso» e gli «e abrupti d’apertura» (Mengaldo): questi ultimi, postulando l’esistenza di un retropensiero non verbalizzato, sottolineano il carattere frammentario della lirica, trascrizione solo parziale di un motivo poetico. La poesia essenziale di Myricae, rinunciando allo sviluppo poematico del tema come alla complessa sintassi della tradizione, ha aperto la strada alle grandi sperimentazioni poetiche di primo Novecento in Italia.

Canti di Castelvecchio [1903-1914]

Poemetti [1897-1909]

 omposizione e struttura C Comparsi singolarmente su giornali e riviste a partire dal 1897, i Canti di Castelvecchio furono riuniti in volume nel 1903; altri testi furono aggiunti nelle edizioni successive: l’ultima, postuma ma controllata dall’autore, è del 1912. Altre due liriche inedite furono inserite, per volontà della sorella Maria, nella settima edizione del 1914, portando il totale a 59 (cui segue una sezione a parte di nove poesie: Ritorno a San Mauro). I testi formano un coerente percorso stagionale da un autunno all’altro, con richiami espliciti a Myricae: in apertura di raccolta è nuovamente citato l’incipit della IV Bucolica virgiliana, mentre nella Prefazione, alle precedenti tamerici primaverili sono contrapposte le presenti, autunnali. Un autunno anche biografico, che coincide con il trasferimento nella casa di Castelvecchio di Barga e la ricostituzione del nido; sicché, se Myricae è il libro del passato e del nido infranto, Canti di Castelvecchio è il libro del presente e del nido ritrovato.

Composizione, struttura e novità Uscita in prima edizione nel 1897 e in seconda nel 1900, la raccolta dei Poemetti venne quindi sdoppiata in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909), costituenti comunque un dittico unito sin dall’epigrafe comune, paulo maiora, ancora una citazione dalla IV Bucolica virgiliana, che lascia intendere questa volta un innalzarsi della materia. Ritornano temi e scenari consueti: il mondo della campagna, il motivo funebre, il sogno di un’umanità più buona, affrontati però in modo nuovo, con tono più solenne, più scoperta intenzione ideologica, taglio meno lirico-simbolico e più narrativo-descrittivo. Di conseguenza il linguaggio si fa più aulico e la struttura metrica dominante è ora la terzina dantesca. Un «romanzo georgico» Diversi componimenti appaiono concepiti e disposti in sequenza, come singoli episodi del «romanzo georgico» (Bàrberi Squarotti) che ha come protagonista una famiglia di contadini della Garfagnana osservata nella sua vita quotidiana, dall’autunno alla successiva estate. Nei Primi poemetti abbiamo due sezioni dedicate alla semina e all’inverno; nei Nuovi altre due, dedicate alla fioritura primaverile e alla mietitura; compaiono inoltre quattro lunghi componimenti isolati (2+2), fra cui merita un richiamo il secondo, Le armi, dedicato in realtà ai pacifici strumenti impiegati nei lavori agresti. Veniamo così introdotti in una società semplice e laboriosa, radicata nei ritmi e nelle leggi di natura, una società di cui Pascoli rappresenta le modeste occupazioni come riti e opere d’arte. Siamo di fronte a una celebrazione, ideale e politica, della civiltà contadina: un mondo armonico, semplice e solidale, arcaico e patriarcale, sobrio e immobile nella sua circolarità stagionale. Del tutto assenti sono invece gli aspetti negativi (attaccamento alla roba, mancanza di solidarietà, sfruttamento, miseria, ingiustizia) denunciati dagli scrittori veristi; Pascoli imma-

I temi: la poesia come risarcimento Dominante è ancora il tema funerario. La poesia trova giustificazione in quanto risarcimento contro il destino crudele che ha infierito sulla famiglia del poeta; scrivere dei familiari defunti equivale a richiamarli in vita: «il figlio ridona al padre attraverso la poesia ciò che l’assassino impunito gli ha tolto» (Nava). Le forme: dal frammento al canto Il titolo evoca una discontinuità rispetto al breve respiro delle Myricae, richiamando la tradizione lirica, più che bucolica, e architetture più distese e compiute. In effetti lo sperimentalismo metrico pascoliano affronta strutture più complesse: il novenario è concatenato con ottonari, settenari e quinari; il decasillabo con l’endecasillabo; compaiono anche distici di endecasillabi a rima baciata, un componimento ispirato alla forma metrica popolare chiamata “rispetto”, nonché frequenti rime ipermetre. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Giovanni Pascoli Sintesi svolta

dell’eroe, che compie grandi gesta, da quella del poeta, chiamato a celebrarle). Scopo di Pascoli è istituire un confronto fra antichità e modernità per stabilire che cosa, dell’antico, rimanga vivo ancora oggi. L’immagine del mondo antico che emerge da queste poesie non è però idilliaca, ma velata di pessimismo; su tutti gli eroi evocati incombe lo spettro della morte: solo la poesia, dando sfogo al dolore dell’esistenza, può riconciliare l’uomo con il suo destino, consolandolo di essere nato.

gina piuttosto una società di piccoli possidenti terrieri come antidoto alla fame e all’emigrazione. All’intento celebrativo dell’opera contribuisce il linguaggio, caratterizzato da registro sublime e patina classica e letteraria, che conferiscono a persone e azioni un profilo epico. Pascoli metafisico Accanto alle istanze ideologiche Pascoli sviluppa riflessioni di più ampio respiro, che investono l’intera sua visione del mondo e sono collocate in apposite sezioni, ancora una volta due per libro. Nei Primi poemetti abbiamo Il bordone-L’aquilone (dedicata al tema della morte, comune destino di tutto il creato) e I due fanciulli-I due orfani (dove è evocato il senso del mistero che ci sovrasta generando inquietudine e smarrimento, contro i quali unica arma efficace è la solidarietà). Nei Nuovi poemetti abbiamo Il naufragoIl prigioniero (che promuove una filosofia della bontà e della sopportazione di fronte ai “naufragi” della vita, lasciando emergere l’ispirazione più cosmica e religiosa di Pascoli) e infine Le due aquile-I due alberi (in cui emerge netta l’alternativa fra l’egosimo di chi si innalza a danno degli altri e la carità fraterna di chi soccorre il bisognoso; fra l’avidità senza fine e la semplicità che si accontenta del poco e nulla spreca).

L’ultimo rapsodo e il «poeta degli iloti» Quella dei Poemi conviviali è una poesia di “secondo grado”, che nasce cioè da altri testi ed è intessuta di riprese, allusioni, citazioni. Pascoli si propone come «l’ultimo dei rapsodi» (Elli), gli antichi cantori greci che rielaboravano e variavano i materiali della tradizione. Non manca però un messaggio umano e civile; in particolare nel componimento dedicato a Esiodo l’antico cantore è definito «poeta degli iloti», cioè degli schiavi, dei reietti, degli ultimi: è l’emblema di una poesia che rinuncia alla celebrazione delle gesta eroiche per consacrarsi alle fatiche quotidiane, ugualmente degne di canto, di tanti uomini umili e ignoti.

Pascoli latino

Poemi conviviali [1904-1905]

I Carmina [1914] Pubblicata postuma (1914) in due volumi a cura della sorella Maria, l’opera raccoglie più di cento liriche in lingua latina, comprese quelle vincitrici del concorso indetto annualmente dalla Regia accademia di Amsterdam. Pur trattando vicende e personaggi dell’antica Roma (con particolare attenzione a figure umili ed episodi marginali rispetto alla grande storia), i componimenti sono del tutto assimilabili, per stile e tematiche, a quelli in lingua italiana.

Composizione, struttura, titolo Il progetto risale all’inizio degli anni novanta, ma si concretizzò solo nel 1904 (prima edizione, 19 componimenti) e nel 1905 (seconda edizione definitiva, 20 componimenti). Il titolo richiama la tradizione classica, greca e latina, dei carmina convivalia, poesie composte per allietare i banchetti; recuperare tale tradizione per Pascoli significa ritornare ai primordi della poesia, recuperarne l’essenza originaria: la poesia ha infatti avuto origine proprio nei banchetti.

Il “poeta vate” Succeduto a Carducci all’università di Bologna, Pascoli tentò di raccoglierne l’eredità di vate nazionale e poeta della storia patria, in competizione con D’Annunzio. Capitoli di questa epopea nazionale dovevano essere le raccolte degli ultimi anni: Odi e inni (1906), le Canzoni di Re Enzio (1908-1909), i Poemi italici e i due inni A Roma e A Torino (1911, in occasione del cinquantenario dell’unificazione) e gli incompiuti Poemi del Risorgimento.

I temi: la rivisitazione del mondo antico Siamo ancora di fronte a un procedimento regressivo, questa volta di tipo storico-culturale, dal moderno all’antico. Il poeta riprende miti, leggende, episodi storici del mondo greco e romano, a volte in funzione metapoetica (nel Cieco di Chio Omero è simbolo del dono della poesia ottenuto a prezzo di drammatiche rinunce; nella Cetra di Achille è distinta la funzione

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I classici • Gabriele D’Annunzio Sintesi svolta

gabriele d’annunzio PERCHÉ D’ANNUNZIO È UN CLASSICO?

Duse, alla quale sono ispirati il romanzo Il fuoco (1900) e la tragedia Francesca da Rimini (1901). Intrapresa la carriera politica, D’Annunzio, eletto nel 1897 tra le file dei conservatori, passò clamorosamente all’estrema sinistra nel 1900, per protestare contro alcune deci­ sioni del governo. Nel 1911, indebitatosi ancora una volta pesantemente, fuggì in Francia, dove compose Le Martyre de Saint Sébastien, un mistero medievale (rappresentazione teatrale a soggetto religioso) de­ dicato alla danzatrice Ida Rubinstein e musicato dal compositore Claude Debussy, e le autobiografiche Faville del maglio, pubblicate a puntate sul “Corriere della sera”; sempre sul quotidiano milanese appar­ vero, in occasione della guerra di Libia, le Canzoni delle gesta d’oltremare, espressione di un acceso nazionalismo. D’Annunzio si dedicò anche al cinema, scrivendo alcune sceneggiature, tra cui quella del film Cabiria (1914).

1. Perché seppe esprimere i miti e le contraddizioni della moderna società di massa. 2. Perché, ponendosi alla testa di un moto di reazio­ ne aristocratica alla nascente società borghese, diede voce al sogno collettivo di un “vivere inimitabile”. 3. Perché fu grande interprete del sentimento della decadenza, dell’ossessione della vita che fugge e del tempo che devasta ogni cosa.

LA VITA [1863-1938] Gli anni giovanili e i primi successi Nato a Pescara nel 1863, esordì sedicenne come po­ eta con Primo vere. Nel 1881 si trasferì a Roma, dove iniziò a collaborare con importanti riviste e a frequen­ tare i salotti mondani; smanioso di successo, pubblicò nel 1882 i versi di Canto novo e i racconti di Terra ver­ gine ispirandosi ai due autori più rappresentativi del tempo, Carducci e Verga. Nel 1883 sposò la duchessina Maria Hardouin di Gallese, che gli diede tre figli e da cui si separò nel 1890); dopo una fuga da Roma per sfuggire ai credi­ tori, pubblicò Intermezzo di rime, che destò scandalo per la licenziosità degli argomenti. Assunto nel 1884 dal quotidiano “La tribuna” come cronista mondano, fu colpito due anni dopo da un’accusa di plagio a se­ guito della pubblicazione della raccolta di novelle San Pantaleone; a questa seguì, nel 1889, la pubblicazione del romanzo Il piacere, manifesto dell’estetica d’an­ nunziana. Allontanatosi nuovamente da Roma per sfuggire ai creditori, trascorse lunghi periodi ospite del cenaco­ lo artistico fondato dall’amico pittore Paolo Michetti a Francavilla; qui compose il romanzo Trionfo della morte e la tragedia La figlia di Iorio (pubblicate ri­ spettivamente nel 1894 e nel 1904); nel 1892, ispi­ randosi questa volta alla narrativa russa e in parti­ colare a Dostoevskij, pubblicò il romanzo Giovanni Episcopo.

Dalle imprese di guerra al Vittoriale Rientrato in Italia alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale, D’Annunzio partecipò con infiam­ mati discorsi alla campagna interventista e, arruolatosi come volontario, prese parte a diverse azioni in prima linea. Nonostante la perdita di un occhio a causa di una ferita nel 1916 (evento traumatico che gli ispirò le prose del Notturno), nel 1918 partecipò alla cosiddetta “beffa” di Buccari (un’incursione militare nel porto autriaco del Quarnaro) e volò su Vienna lan­ ciando dall’aereo volantini di propaganda patriottica. Terminato il conflitto, sostenne con forza l’annessione all’Italia dell’Istria e della Dalmazia e nel 1919, denun­ ciando la “vittoria mutilata”, alla testa di un gruppo di legionari occupò Fiume, dalla quale fu cacciato l’anno successivo dall’esercito italiano in ottemperanza al trattato di Rapallo. Dopo l’impresa fiumana si ritirò in un dorato esilio sul lago di Garda, dove trasformò villa Cargnacco nel “Vittoriale degli Italiani”, assieme monumento agli eroi della patria e proprio mausoleo personale. Uscirono in questi anni le sue ultime opere: l’edizione in volume del Notturno (1921) e delle Faville del maglio (1924 e 1928), i Canti della guerra latina (1933) e il Libro se­ greto (1935). Al 1926 risale infine l’edizione nazionale delle sue opere, cui egli attese personalmente. Al Vit­ toriale D’Annunzio morì nel 1938, a 75 anni.

Gli anni della consacrazione Gli anni Novanta sancirono per D’Annunzio la consacrazione come scrittore sia a livello italiano, con la pubblicazione dei romanzi L’innocente (1892) e Le vergini delle rocce (1895), manifesto ideologico del superomismo dannunziano, e dei versi del Poema paradisiaco e delle Odi navali (1893), sia a livello inter­ nazionale (con la traduzione francese dell’Innocente). Nel 1898 si trasferì in Toscana con l’attrice Eleonora G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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LE COSTANTI LETTERARIE Un autore trasformista Fedele all’affermazione «rinnovarsi o morire», D’An­ nunzio si cimentò con ogni genere, poetica e forma

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Poema paradisiaco [1893] È la prima raccolta importante di D’Annunzio, che uni­ sce qui la poetica simbolista del sogno e del mistero a un linguaggio dimesso, che si avvicina al parlato. Il titolo allude al “giardino” autunnale, umido e abban­ donato, in cui sono ambientate le prime due sezioni, e assieme al percorso di purificazione e redenzione del protagonista, che, liberatosi dal giardino decadente e dalle vampiresche larve femminili che lo abitano, si converte, nella terza sezione, a un ideale di vita casto e frugale, ritornando all’orticello di casa, amorevolmen­ te curato dalla madre e dalla sorella.

della letteratura italiana ed europea del suo tempo. Questa inclinazione a stupire il pubblico con continue metamorfosi, che espone a volte l’autore al rischio di un certo dilettantismo, si spiega anche con il fatto che D’Annunzio cerca ispirazione non nella vita, ma nell’arte, lavorando di seconda mano e ricamando sul già fatto, partendo da una suggestione, anche a costo di essere accusato di plagio. In una produzione tanto cangiante emergono comun­ que alcuni tratti dominanti che rivelano le ragioni pro­ fonde della sua arte: in primo luogo la componente volontaristica nella caratterizzazione dei personaggi; gli eroi dannunziani tendono a «un’ideal forma di esi­ stenza», ma dalla presa di coscienza della loro inadeguatezza nasce la necessità della capitolazione e un inevitabile senso di sconforto.

Le raccolte di novelle Dopo l’esordio “verghiano” di Terra vergine (1882), raccolta ispirata a Vita dei campi ma con un’enfatiz­ zazione dei tratti ferini dei personaggi e un linguag­ gio denso di seduzioni esotiche, D’Annunzio proseguì dapprima con questo verismo sovraccarico nel Libro delle vergini (1884), per poi passare con San Pantale­ one (1886) a imitare i naturalisti francesi e Maupas­ sant, attirandosi l’accusa di plagio.

D’Annunzio edonista ed esteta Al fallimento concorre la natura edonistica di questi personaggi, collezionisti di sensazioni brevi e intensa­ mente assaporate; da questa celebrazione dell’attimo fuggente derivano il carattere frammentario della produzione dannunziana e l’ossessione del decadimento fisico e della perdita dello slancio vitale, effetti rovinosi del trascorrere del tempo. Da perfetto esteta D’Annunzio coltivò un culto fanatico per la bellezza, nella vita e nell’arte; raffinato artigiano della parola, egli ama ostentare il proprio virtuosismo, facendo dell’arte uno strumento di seduzione.

Il piacere [1889] Pubblicato nel 1889, è il primo romanzo di D’Annunzio e anche il suo primo vero grande successo. La trama Andrea Sperelli, aristocratico esteta, ama la sensuale Elena, incarnazione della femme fatale. Abbandonato dalla donna e ferito in un duello, trascorre la conva­ lescenza in campagna, dove si innamora della pura e spirituale Maria (peraltro già moglie e madre). La nuova relazione ha termine allorché Andrea, che ha morbosa­ mente sovrapposto le identità delle due amanti, nell’im­ peto della passione chiama Maria con il nome di Elena.

LE OPERE Gli esordi poetici Primo vere [1879] È la raccolta poetica con cui D’Annunzio, sedicenne, esordì; comprende poesie in metri barbari di imitazio­ ne carducciana, ed è arricchita da esercizi di traduzio­ ne da Orazio.

I temi: la vita come opera d’arte Alter ego dell’autore, Andrea Sperelli è un tipico esteta: artista dilettante, frequentatore della Roma monu­ mentale, barocca e salottiera, collezionista di ogget­ ti rari e preziosi e, soprattutto, di sensazioni; la sua asprirazione è «fare la propria vita come si fa un’opera d’arte», anche se gli manca la forza di volontà per perseguire il suo ideale e tende a disperdersi nella soddisfazione momentanea dei desideri. Insomma un velleitario, che finisce per non realizzare nulla di si­ gnificativo né nell’arte né nella vita.

Canto novo [1882] Canzoniere erotico fortememente autobiografico, in metri barbari, è caratterizzato da una sensualità mor­ bosa e da un vocabolario esotico e prezioso. Intermezzo di rime [1883] In questa raccolta il poeta abbandona la metrica bar­ bara per il sonetto e l’ottava; la raccolta destò scanda­ lo per i contenuti scopertamente pornografici (un’au­ tentica «porcheria» fu il commento di Carducci).

I temi: l’eros malato L’allucinato scambio di identità fra Maria ed Elena, che porta Andrea a possedere di fatto l’una attraverso il corpo dell’altra, è sintomo di quanto il culto della bellezza, in ambito decadente, si sia allontanato dal canone classico dell’armonia e dell’equilibrio; siamo di fronte a un eros malato e perverso: la bellezza attira solo per le sensazioni forti generate dall’atto di posse­ derela e profanarla.

Isaotta Guttadauro [1886] Si tratta di un libro illustrato in cui la parola gareggia con l’immagine; in sintonia con il gusto preraffaellita degli illustratori, il poeta recupera metri medievali e lessico arcaico, sposando con grande virtuosismo la letteratura stilnovistica e la pittura simbolista. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Gabriele D’Annunzio Sintesi svolta

Le forme: una creazione di secondo grado Persuaso (come Huysmans e Wilde) che debba essere la vita a imitare l’arte, e non il contrario, D’Annunzio costruisce il romanzo come una biblioteca di citazioni e un museo di calchi: l’opera è infatti intessuta di ri­ ferimenti, espliciti o nascosti, a opere letterarie, figu­ rative o musicali; alcune pagine del Piacere sono veri e propri “quadri viventi”, cioè trasposizioni letterarie di dipinti o sculture. In tutto questo è però insito il pe­ ricolo dell’artificio: con la sua «anima camaleontica» Andrea è di fatto un personaggio del tutto inautentico.

talità. Egoista e sensuale, dopo anni di vita dissoluta e libertina Tullio decide di riavvicinarsi alla moglie Giu­ liana; quando scopre che anche lei ha avuto una rela­ zione, la perdona, ma non accetta il “figlio della colpa” e ne procura la morte esponendolo al gelo della notte invernale. Trionfo della morte [1889-1894] Avviato con il titolo provvisorio L’invincibile e pubblica­ to cinque anni dopo da Treves con il titolo definitivo, il romanzo racconta la vicenda di Giorgio Aurispa che, incapace di affermarsi nell’arte come nella vita, fini­ sce per attribuire la colpa della propria incapacità a Ippolita Sanzio, la donna che lo tiene incatenato nel­ la lussuria spegnendo in lui ogni ispirazione creativa. L’opera è fitta di echi nietzschiani (Giorgio proclama infatti le verità di Zarathustra) e wagneriani (in parti­ colare dal Tristano e Isotta), fino all’epilogo: la passio­ ne distruttiva che si è impossessata del protagonista lo porta a gettarsi assieme alla donna in un precipizio.

Le forme: una struttura debole Ridotta al minimo la trama narrativa, nel romanzo predominano la descrizione minuziosa degli scenari e l’introspezione psicologica. Il racconto, estrema­ mente soggettivizzato, tende a comporsi come un susseguirsi discontinuo di momenti staccati, inten­ samente vissuti ma effimeri, proprio come la vita del protagonista. A fungere da collante sono alcuni ele­ menti simbolici che ritornano insistentemente (frasi, sequenze, inquadrature) ricordando la tecnica musi­ cale del leitmotiv.

Le vergini delle rocce [1895] Dopo i romanzi della rosa D’Annunzio concepì il trit­ tico dei romanzi del giglio (Le vergini delle rocce, La grazia, L’annunciazione), di cui solo il primo fu realiz­ zato. Il giglio era inteso come simbolo non tanto della purezza, quanto dell’autorità monarchica, della vitalità riproduttiva e della decadenza (per via del profumo eccessivamente dolce).

La trilogia degli assassini I romanzi della rosa Riordinando a posteriori la propria produzione, D’An­ nunzio unì sotto il simbolo della rosa, immagine della voluttà, tre romanzi: Il piacere, L’innocente e il Trionfo della morte. Un precedente progetto prevedeva invece un diverso accorpamento: Giovanni Episcopo, L’inno­ cente, Trionfo della morte, accomunati dal fatto che i rispettivi protagonisti si macchiano di un delitto. Pur nella diversità delle situazioni e dei moventi, evidente è il richiamo a Delitto e castigo di Dostoevskij; D’An­ nunzio adotta la forma narrativa della confessione in prima persona per proporre dei casi clinici attingendo alla psichiatria criminale.

La trama Disgustato dai suoi tempi ignoranti, corrotti e volgari, Claudio Cantelmo si pone alla testa di una riscossa dell’aristocrazia del sangue e dello spirito. In un im­ maginario dialogo con l’avo Alessandro, amico di Leo­ nardo da Vinci, si attribuisce un triplice compito: fare di sé l’esemplare perfetto del «tipo latino», realizzare un’opera d’arte in cui trasfondere la propria visione del mondo, e generare un figlio, futuro re di Roma e protagonista di un nuovo Rinascimento. Ritiratosi a Rebursa, frequenta i nobili Capece Mon­ taga, in un ambiente in piena decadenza, e decide di chiedere la mano di una delle tre figlie del barone: la scelta è fra la claustrale Massimilla, che incarna la purezza mistica, la seducente e languida Violante, incarnazione della femme fatale, e la vitale Anatolia, «la datrice di forza, la vergine benefica e possente, l’anima ricca e prodiga». La scelta di Claudio cade su quest’ultima che però, pur lusingata, declina la pro­ posta di matrimonio per consacrarsi interamente alla propria famiglia.

Giovanni Episcopo [1891-1892] In un convulso monolgo, il protagonista ripercorre la propria penosa vicenda: modesto impiegato, ha spo­ sato la bella Ginevra di cui è succube e che presto rivela il proprio disprezzo nei suoi confronti. Perdu­ to il lavoro e divenuto schiavo dell’alcool, non sa ini­ zialmente opporsi alla prepotente personalità di un collega, Giulio, che si stabilisce in casa sua e diviene l’amante di sua moglie; alla fine però lo uccide in un impeto di rabbia. L’innocente [1892] Rifiutata dall’editore Treves e pubblicata a Napoli presso Bideri, l’opera fu accolta con molte riserve in Italia, mentre piacque all’estero, decretando l’inizio della fortuna europea dell’autore. Il romanzo è la lu­ cida confessione del ricco possidente Tullio Hermil in merito alle reali circostanze della morte del figlio, il piccolo Raimondo, da tutti attribuita a una tragica fa­ G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Il romanzo del superuomo Manifesto del superomismo dannunziano, il roman­ zo contiene un vero proclama ideologico: la massa è amorfo gregge la cui sottomissione è funzionale alla piena realizzazione dei pochi spiriti eletti.

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ta l’eterna bellezza dell’arte, che sola ha il potere di sottrarsi alla morte.

Peraltro «O tu, sii quale devi essere» è l’imperativo ricorrente dell’avo Alessandro a Claudio Cantelmo; il superomismo dannunziamo evidenzia questa com­ ponente ascetica, per cui il protagonista è teso a su­ perarsi, a incarnare il modello ideale di riferimento. Claudio non è dunque ancora un superuomo: il suo è un ideale solo vagheggiato; inoltre l’interruzione del progettato ciclo del giglio finisce per farlo apparire an­ che come un mero velleitario, di fatto un superuomo mancato.

Il teatro I drammi politici D’Annunzio concepiva il teatro come lo strumento più potente offerto all’artista superuomo per soggiogare le folle, e il drammaturgo come un vate dominatore teso a celebrare i valori della stirpe. Nascono da queste idee drammi come La Gloria (1899: Ruggero Fiamma combatte per strappare la signoria di Roma a un vecchio dittatore) e La nave (1908: Marco Gratico compie un’eroica impresa navale, primo trionfo della futura Repubblica di Venezia).

Titolo e genere Richiamando un celebre dipinto di Leonardo, il titolo del romanzo allude al ruolo centrale della vergine pre­ scelta per diventare la madre del Redentore; al tempo stesso la presenza nel quadro di Giovanni il Battista accanto al Cristo richiama il rapporto di successione fra Alessandro, Claudio e il futuro re di Roma. L’ope­ ra è assieme un romanzo a tesi, cui D’Annunzio affida l’enunciazione della propria ideologia, e un romanzo lirico, ricco di suggestioni simboliste e decadenti.

I drammi della passione incestuosa Ispirati alla tragedia greca (riletta attarverso Nietzsche e Wagner) sono i drammi che hanno al cen­ tro passioni incestuose, come La città morta (1898: un archeologo riporta alla luce i tesori degli Atridi e, assieme, le loro colpe abominevoli; legato alla sorella da un’inconfessata passione, spinto dalla gelosia la uccide) e Fedra (1909: innamorata del figliastro e da lui respinta, la matrigna ne provoca la morte).

Il fuoco [1900] Anche questo romanzo inaugura una trilogia, i roman­ zi del melograno (Il fuoco, La vittoria, Il Trionfo della vita, quest’ultimo rovesciamento positivo del Trionfo della morte), progettata ma mai portata a termine; il melograno voleva simboleggiare la gloria del trionfo, ma all’interno di una dimensione religiosa neopagana. Le tre trilogie (romanzi della rosa, del giglio e del melograno) avrebbero dovuto formare una visione totale dell’universo dannunziano, rimandando alle tre cantiche della Commedia dantesca.

La figlia di Iorio [1904] Ambientata in un Abruzzo arcaico e barbarico, ripren­ de dalla tragedia greca i temi della passione insana e catastrofica e del destino ineluttabile. Mila di Codro è una prostituta su cui pende il tragico destino di provo­ care lutti nelle famiglie. Di lei si innamorano Lazaro e Aligi, padre e figlio, e l’amore sfocia in parricidio. Per salvare l’amato Aligi, Mila si autoaccusa di stregoneria e finisce bruciata sul rogo. La tragedia è composta in versi e in una suggestiva lingua artificiale, che mesco­ la aulico e plebeo, arcaico e dialettale.

La trama Ambientato a Venezia, il romanzo ha come protagoni­ sti Stelio Effrena, poeta e musicista, vitale e narcisista, e la matura attrice Foscarina Perdita, che assiste allo sfiorire della propria bellezza consacrandosi al trionfo dell’amato, tutto preso dal suo sogno artistico.

Le Laudi D’Annunzio progettò di rappresentare la propria visione superomistica del mondo anche in un ciclo poe­ tico suddiviso in sette libri, ciascuno intitolato a una delle stelle che formano la costellazione delle Pleiadi, allo scopo di esprimere il sentimento della divinità del mondo naturale; a ciò concorre il titolo, ispirato a Francesco d’Assisi, in chiave però dionisiaca (secon­ do Nietzsche al culto di Dioniso va ricondotto il sen­ timento della divinità della natura e l’euforia di chi sa vivere la vita della natura stessa). Anche questo progetto fu realizzato solo in parte: D’Annunzio pubblicò nel 1903 i primi tre libri, Maia, Elettra e Alcyone; nel 1912 uscì Merope, che racco­ glie le Canzoni delle gesta d’oltremare (dedicate alla guerra di Libia); nel 1933 uscì il quinto libro, che ini­ zialmente doveva intitolarsi Asterope, ma che uscì con il nuovo titolo di Canti della guerra latina (dedicato alla Grande guerra).

L’opera d’arte totale Il romanzo è ispirato alla relazione che D’Annunzio strinse con Eleonora Duse, che lo avvicinò al teatro. Stelio coltiva infatti il sogno wagneriano di fondare un teatro nazionale destinato a diventare il centro pro­ pulsore della rinascita della civiltà classica e pagana in Italia. Facendo propria l’aspirazione a un’opera d’arte totale e concependo la rappresentazione come una cerimonia solenne, Effrena/D’Annunzio si candida a erede latino dell’arte wagneriana. Il sentimento del tempo Alcune tra le pagine più suggestive del Fuoco nascono dal sentimento decadente del tempo che trionfa su tutto, anche sulla bellezza. Prima vittima della fuga del tempo è Foscarina, costretta ad assistere al pro­ prio inarrestabile appassire, mentre Stelio rappresen­ G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Maia [1903] Il libro è quasi interamente occupato dal poema in ver­ si liberi Laus vitae, diviso in 21 canti composti da strofe di 21 versi (per un totale di oltre ottomila). D’Annunzio abbraccia la vita in tutte le sue manifestazioni, celebra la stirpe eletta dei superuomini tra i quali reclama un posto per se stesso, esalta assieme la Grecia antica (dominata dal culto della bellezza e dall’ebbrezza dio­ nisiaca), l’Italia del Rinascimento e l’avvento della moderna città industriale, con le sue città brulicanti di vita e le onnipresenti macchine, emblema aggiornato della volontà di potenza. Il poema è caratterizzato da un tono esaltato ed epico, ispirato da un delirio di onnipotenza che conferisce al superomismo dannunzia­ no una connotazione aggressiva, bellicosa e razzista.

gica, mediante sequenze di similitudini a cascata, e sugli effetti musicali.

L’ultima stagione Forse che sì forse che no [1910] Protagonista del romanzo è Paolo Tarsis, automobili­ sta spericolato e pilota d’aereo, impegnato in imprese come l’epica trasvolata del Tirreno; in lui le pulsioni superomistiche si sfogano nell’agonismo sportivo e nell’affrontare prove temerarie. Isabella Inghirami af­ fianca Paolo nel ruolo di femme fatale, eroina torbida e tragica (intrattiene una relazione incestuosa con il fratello, evidenzia tendenze sadomasochiste e finisce per impazzire).

Elettra [1903] Il secondo libro ha carattere patriottico e celebrativo. D’Annunzio esalta, raccogliendoli in un pantheon ideale, i padri della patria; chiama infine l’Italia alla riscossa, profetizzando il futuro riscatto della nazione dal presente letargo.

La Leda senza cigno [1913-1916] Ultimo romanzo di D’Annunzio, pubblicato prima a puntate sul “Corriere della sera” e poi in volume. La protagonista è un’avventuriera cinica e disperata che seduce gli uomini per trarne profitto; alla fine, disgu­ stata da tutto e da tutti, si suicida. L’opera è dominata da un’atmosfera plumbea e da un intenso desiderio di morte. Lo stile oscilla fra pagine di straordinario virtuosismo e autentica prosa d’arte, e altre in cui D’Annunzio sperimenta un registro linguistico quoti­ diano per lui abbastanza insolito.

Alcyone [1903] Il terzo libro è considerato il capolavoro poetico di D’Annunzio. Si tratta del diario lirico di un’estate vis­ suta in compagnia di Ermione (Eleonora Duse) tra Fi­ renze, Fiesole e la Versilia, trasfigurata nella mistica esperienza di un uomo superiore che aspira a «un’i­ deal forma di esistenza», ovvero a farsi dio. Tutto ciò in quattro fasi: 1) dionisiaca (in un’esplosione di vitalità l’uomo si abbandona all’istinto, alla danza sfrenata, al tripudio dei sensi; la tensione al divino si realizza in un rapporto viscerale con la natura); 2) panica (l’uo­ mo si immerge totalmente nella natura smarrendosi in essa e perdendo coscienza della propria individua­ lità); 3) mitica (simboleggiata da Glauco e caratteriz­ zata dall’angoscia derivante dalla consapevolezza che non si può fermare il tempo o evitare la morte; il de­ siderio di superare i limiti umani può realizzarsi solo nel sogno dell’arte); 4) eroica (simboleggiata da Ica­ ro, emblema del superuomo che affida alla gloria le proprie residue speranze di immortalità, lanciandosi in una sfida gratuita, pura affermaziona di una volontà indomabile). Nell’ultima parte dell’opera predomina il sentimento del passare del tempo e dell’inarrestabile declinare della vita, da cui nasce un clima di disillusione. In Alcyone D’Annunzio sperimenta con successo la strofa lunga, ampia sequenza di versi liberi brevi (L’onda ne conta 102, la cui misura va dal trisillabo al settenario); inoltre fa leva sull’immaginazione analo­

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Le faville del maglio [1924-1928] Nate in occasione di una collaborazione con il “Cor­ riere della sera”, sono brevi prose memoriali in cui D’Annunzio rievoca le circostanze in cui nacquero alcune sue celebri opere; il poeta conduce il lettore nella propria officina di scrittore dando a queste prose l’aspetto fittizio di pagine di diario. La prosa memoriale Opere come Contemplazione della morte (1912) e Il libro segreto (1935) hanno struttura episodica e frammentaria; intuendo come, nel secolo delle avanguar­ die, il romanzo tradizionale fosse ormai entrato in crisi, D’Annunzio scelse una prosa fatta di divagazioni apparentemente senza un piano prestabilito, abban­ donandosi ai capricci della memoria e della fantasia. Il notturno (1921) nacque invece a seguito di un brutto incidente aereo che, nel 1916, gli compromise mo­ mentaneamente la vista e lo costrinse all’immobilità. D’Annunzio quindi si adattò a scrivere brevi pensieri su striscioline di carta appositamente preparate; tutto questo materiale venne poi rielaborato e ampliato per la pubblicazione nel 1921.

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VOLUME  3a Il Novecento. Il primo periodo (1900-1918)

I classici • Guido Gozzano Sintesi svolta

guido gozzano PERCHÉ GOZZANO È UN CLASSICO?

LE COSTANTI LETTERARIE Il poeta dell’obsolescenza Testimone della rapida modernizzazione del paese e della nascita della società di massa, Gozzano rifiutò l’idolatria del moderno come pure lo sterile rimpianto del passato; abbandonato l’estetismo dannunziano, le sue poesie ignorano il culto dell’oggetto raffinato e prezioso e accumulano invece cianfrusaglie fuori moda e chincaglieria un poco kitsch, campionario di un mondo provinciale ormai superato dalla storia. Attraverso questo tenace e ironico attaccamento a oggetti, ambienti e atmosfere obsolete il poeta esprime il sentimento non tanto del passare del tempo (come invece D’Annunzio), quanto piuttosto della fine irreversibile di un mondo.

1. Perché ha saputo cogliere ed esprimere la crisi della cultura umanistica all’interno della nascente società di massa. 2. Perché, consapevole dell’inattualità dei miti del passato, ha scelto di collocarsi ai margini della vita, in una reclusione volontaria nello spazio privato delle «piccole cose di pessimo gusto». 3. Perché, immune all’idolatria del progresso, si è rivolto al passato, al “vecchio”, pur senza celarne il carattere anacronistico e provinciale. 4. Perché ha saputo temperare il rimpianto per il mondo di ieri, polveroso e fuori moda, con una pacata e smagata ironia.

Il distacco dal mondo e l’arma dell’ironia Condannato a morte dalla tisi, Gozzano adotta uno sguardo disincantato sulla vita e sugli affanni che essa porta con sé; questo distacco gli consente di cogliere in modo lucido la precarietà dei sogni e delle vanità umane. Da questo atteggiamento nasce l’ironia: di fronte alla malattia Gozzano non si ribella né si dispera, ma riconduce alla pietra di paragone della morte inevitabile, demistificandoli, tutti gli idoli della belle époque: velocità, bellezza, azione, patria, denaro, gloria, amore.

LA VITA [1883-1916] La giovinezza e gli esordi poetici Guido Gozzano nacque a Torino nel 1883 da famiglia benestante; studente svogliato, frequentò faticosamente il liceo e solo nel 1904 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, senza mai arrivare alla laurea. Affascinato dall’esteta dannunziano e decadente, ispirò a quel modello le sue prime poesie e il suo stile di vita; svanita l’infatuazione, si convertì a un romanticismo esausto e autoironico, stringendo amicizia con i futuri protagonisti del movimento crepuscolare e assumendo il profilo del piccolo borghese di provincia. Pur cercando di dare di sé un’immagine appartata, fu abile promotore della propria fama, come dimostrano le sue numerose collaborazioni editoriali. Pubblicò a Torino nel 1907 la sua prima raccolta poetica, La via del rifugio, mentre la seconda, I colloqui, uscì nel 1911 a Milano presso Treves, il maggiore editore del tempo.

L’abbassamento stilistico Poeta dell’ironia e del distacco, a livello stilistico Gozzano rifiuta sia l’effusione lirica sia l’alta eloquenza; adotta piuttosto il tono del colloquio dimesso e quotidiano, condotto a bassa voce, quasi a voler egli per primo sottrarre importanza ai temi trattati. Questo abbassamento stilistico è tuttavia frutto di una tecnica raffinatissima; il virtuosisimo gozzaniano arriva a volte a costruire autentici centoni riutilizzando materiali altrui, sempre però raggiungendo risultati originalissimi e curiosi effetti parodistici.

La malattia e la morte Nel 1907 Gozzano intrecciò una travagliata storia d’amore con Amalia Guglielminetti, colta e affascinante femme fatale torinese, con cui tuttavia rifiutò di impegnarsi perché proprio allora gli venne diagnosticata la tubercolosi, malattia contro la quale lottò per dieci anni prima di soccombere, nel 1916, appena trentaduenne. L’esperienza della malattia maturò in lui il sentimento di esclusione dalla vita che fu il suo tratto caratteristico; al tempo stesso i viaggi intrapresi a scopo terapeutico, come quello in India, ispirarono alcune delle sue prose migliori (Verso la cuna del mondo). G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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LE OPERE La via del rifugio [1907] Frutto di una rigorosa selezione, il primo libro poetico di Gozzano, uscito a Torino nel 1907, raccoglie 30 liriche, in parte già pubblicate su rivista. Qui Gozzano abbandona il modello dannunziano e si richiama invece a due poeti di impronta decisamente antidannunziana, Arturo Graf e il francese Francis Jammes, da cui deriva il linguaggio prosaico e l’attitudine filosofica. Alla

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VOLUME  3a Il Novecento. Il primo periodo (1900-1918)

I classici • Guido Gozzano Sintesi svolta

Nelle liriche dei Colloqui Gozzano ama operare una distinzione fra sé e il proprio «fratello muto», cioè il suo alter ego, la sua controfigura esistenziale. Ciò dipende dalla sua tendenza a contrapporre vita e arte, dimensioni percepite come inconciliabili, e a costruire immagini di sé, maschere atteggiate a «borghese onesto» oppure a «poeta inaridito», come nel caso di Totò Merùmeni. In Gozzano meditazione e poesia si alimentano l’una dell’altra; la forma, sempre estremamente curata, e lo splendore rasserenante della bellezza costituiscono la finale consolazione del poeta anche di fronte all’incombere della morte.

domanda fondamentale sul senso della vita Gozzano risponde aderendo a una concezione materialistica (fino a citare Lavoisier: «in natura nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma»), fra echi leopardiani (provvidenza e destino sono illusioni, l’uomo è solo un «incidente di percorso») e suggestioni nietzschiane (il comune destino va accettato con dionisiaca gaiezza). Dalla coscienza della morte nasce il bisogno di evadere imboccando la «via del rifugio». Questa conduce il poeta da una parte ad allontanarsi dalle miserabili cupidigie e dai penosi tumulti della vita cittadina per trovare pace nel raccoglimento della campagna; dall’altra ad abbandonarsi alla consolazione del sogno, della fantasia e del ricordo; infine a stemperare nella poesia stessa la malinconia dell’imminente addio alla vita.

Opere incompiute, postume, minori Poesie sparse Si tratta di un corpus consistente di liriche, alcune rifiutate dal poeta stesso o mai pubblicate, altre mai raccolte in volume.

I colloqui [1911] La seconda raccolta poetica di Gozzano riunisce ventiquattro liriche; mentre il titolo iniziale, Canti dell’attesa, poneva l’accento sull’attesa della morte, quello definitivo sottolinea invece il registro intimo dei versi, assimilabile a quello di una conversazione fra amici. La raccolta, che ha i caratteri unitari e organici di un poema, è divisa in tre sezioni che tratteggiano la parabola biografica e psicologica del poeta. La prima (Il giovenile errore, 9 poesie) è dominata dal vano inseguimento di un grande amore, dai tratti romantici e romanzeschi; in realtà il poeta deve riconoscere di non essere mai stato veramente innamorato, e che le sue passeggere relazioni sono sempre state caratterizzate dalla ricerca di una «sana voluttà» e dal rifiuto di profonde complicazioni affettive. Nella seconda sezione (Alle soglie, 7 poesie) il tema dominante è la morte: quella romanzesca e melodrammatica, tutta letteraria, contrapposta a quella diagnosticatagli come imminente dai medici, del tutto priva di fascino; il poeta cerca di combattere l’angoscia della morte imminente con l’accettazione del suo carattere naturale e con il distacco dalla vanità dei desideri umani. Infine, nella terza sezione (Il reduce, 8 poesie) si assiste alla faticosa conquista della serenità interiore fatta di distacco, ironia e rassegnazione velata di scetticismo.

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Le farfalle Gozzano lavorò a lungo al progetto di un poema didascalico in forma di epistola in versi (endecasillabi sciolti) di gusto settecentesco dedicato alle farfalle; ne furono realizzati solo frammenti, significativi per l’inusuale lessico tecnico-scientifico.

Verso la cuna del mondo [1917] Uscito postumo, il libro raccoglie le esperienze maturate nel corso del viaggio in India intrapreso nel 1912 per motivi di salute e rivissuto simbolicamente come un allontanamento dal mondo occidentale, luogo della decadenza e della malattia, verso la riscoperta dell’Oriente come culla («cuna») dell’umanità, luogo della naturalezza e della salute. Opere varie Gozzano pubblicò anche due libri di fiabe, I tre talismani (1914) e La principessa si sposa (1917); postume invece uscirono, a cura del fratello, le prose torinesi dell’Altare del passato (1918) e le novelle dell’Ultima traccia (1919)

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VOLUME  3a Il Novecento. Il primo periodo (1900-1918)

I classici • Umberto Saba Sintesi svolta

umberto saba PERCHÉ SABA È UN CLASSICO?

e, dopo l’8 settembre 1943, dovette fuggire da Trieste e nascondersi per evitare la deportazione.

1. Per l’ingenuità con cui cercò di obbedire alla propria ispirazione, senza complicazioni intellettuali. 2. Per il candore senza reticenze con cui ha saputo raccontarsi, dando voce ai propri sentimenti e indagando i propri traumi infantili. 3. Per essere rimasto, paradossalmente, estraneo alle poetiche dominanti del Novecento, tanto da essere preso a maestro dagli esponenti del cosiddetto “Antinovecento”. 4. Per aver saputo conservare, in pieno XX secolo, gli schemi metrici della tradizione, inseguendo l’ideale di un verso musicale e orecchiabile.

Il secondo dopoguerra e gli ultimi anni Nel 1945 lo troviamo prima a Roma, poi a Milano, dove visse di collaborazioni editoriali; intanto presso Einaudi usciva la nuova edizione del Canzoniere. Tornato a Trieste nel 1947, cadde di nuovo in preda alla nevrosi; riuscì comunque a lavorare alla terza edizione del Canzoniere e al saggio autobiografico Storia e cronistoria del Canzoniere, pubblicati nel 1948. Gli ultimi anni furono bui e dolorosi. Saba ricorse all’oppio, affrontò una faticosa disintossicazione, meditò in più occasioni il suicidio; infine si spense in una clinica di Gorizia nel 1957. Postumi uscirono l’edizione definitiva del Canzoniere (1961) e il romanzo Ernesto (1975).

LA VITA [1883-1957] Infanzia e giovinezza Nacque a Trieste nel 1883 da Felicita Rachele Coen, ebrea, e Ugo Edoardo Poli, che abbandonò la famiglia ancor prima della nascita del figlio; fu affidato a una balia (“Peppa”), cui si legò tanto profondamente da vivere come un trauma il ritorno presso la madre. Saba (il nome d’arte comparve per la prima volta nel 1910 e fu poi regolarizzato all’anagrafe) non portò a termine nessun regolare corso di studi: la sua fu una formazione da autodidatta. Il trasferimento a Firenze nel 1905 fu deludente: Saba rimase estraneo ai circoli letterari del tempo e riuscì a pubblicare le prime poesie solo pagando di tasca propria.

LE COSTANTI LETTERARIE «La poesia onesta» Saba adottò un modo di far poesia semplice e (apparentemente) banale, partendo sempre dalla propria personale esperienza e rimanendo sempre nel solco della quotidianità. Il suo linguaggio si colloca al di qua della crisi novecentesca della parola: Saba rifiuta la lezione del Simbolismo e dell’Estetismo decadente per mescolare la lingua della tradizione letteraria con la lingua d’uso, in un plurilinguismo che non ha nulla di ironico. Ne risulta un singolare impasto di poetico e impoetico, poesia e prosa, innalzamento del quotidiano e abbassamento del solenne, caratteri che costituiscono la sua cifra più originale e immediatamente riconoscibile. In un’epoca di sperimentalismo e di trionfo del verso libero, Saba riamase fedele alle forme metriche della tradizione lirica sette-ottocentesca, in particolare il sonetto, la canzone, la terza rima.

La maturità Dopo il servizio militare, nel corso del quale fu più volte tormentato da malattie nervose, sposò Carolina Wölfler (“Lina”) da cui ebbe una figlia. Per mantenere la famiglia aprì a Trieste un negozio di articoli elettrici. Trasferitosi a Bologna e poi a Milano a seguito di una crisi coniugale, diresse con successo un caffé concerto, la Taverna Rossa. Allo scoppio della Grande guerra servì di nuovo sotto le armi, e fu costretto ancora una volta al ricovero per un’ennesima crisi nervosa. Dopo la guerra tornò a Trieste dove aprì la Libreria Antica e Moderna, col marchio della quale pubblicò nel 1921 la prima edizione del Canzoniere. Arrivavano intanto i primi riconoscimenti, grazie all’incontro con il critico Giacomo Debenedetti e all’interessamento della rivista “Solaria”. Nel 1929 iniziò la terapia psicanalitica con Edoardo Weiss, allievo di Freud. Dopo il varo delle leggi razziali, nel 1938, fu costretto a cedere – nominalmente – la proprietà della libreria G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Autobiografismo Nel Canzoniere Saba di fatto racconta la propria vita, le cui stagioni si susseguono scandite nelle sezioni dell’opera, dalle Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900-1907) alle Sei poesie della vecchiaia (19531954). Saba mette a nudo tutto se stesso, in particolare le sue esperienze più traumatiche, tentando anche, specialmente dopo la “scoperta” della psicanalisi, di regredire con la memoria al tempo dell’infanzia, alla ricerca delle origini della sua malattia nervosa (la sezione Il piccolo Berto è al riguardo emblematica).

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VOLUME  3a Il Novecento. Il primo periodo (1900-1918)

I classici • Umberto Saba Sintesi svolta

LE OPERE

pulsione narrativa si affievolisce a favore di un’ispirazione decisamente epigrammatica. Da psicologo divenuto filosofo, Saba si interroga sul dolore universale e sul comune destino dell’umanità, mentre la sua poesia assume un’aria sentenziosa e pedagogica.

Due articoli importanti Quello che resta da fare ai poeti [1911] Si tratta di un articolo programmatico, scritto nel 1911 per “La voce”, che lo rifiutò, e pubblicato postumo. Saba introduce una preoccupazione etica in campo estetico, affermando che ai poeti resta da fare la «poesia onesta», capace cioè di rispecchiare con esattezza il mondo interiore dell’autore e proccupata unicamente di essere autentica; egli antepone pertanto Manzoni a D’Annunzio, convinto dell’immoralità di ogni artificio, nell’arte come nella vita.

Gli aspetti formali Opera che si è venuta stratificando nell’arco di mezzo secolo, il Canzoniere evidenzia una grande eterogeneità di forme e di stili, sulla base delle esigenze della materia, delle evoluzioni del gusto, dell’inevitabile influsso delle poetiche dominanti. Saba sperimenta generi diversi, dalla favola alla lettera, all’autobiografia, all’idillio, all’aforisma, al melodramma, e diverse tonalità espressive: allegoriche, realistiche, ermetiche, liriche, ironiche.

Poesia, filosofia e psicanalisi [1946] L’articolo, pubblicato sulla “Fiera letteraria” nel 1946, attribuisce alla poesia il merito di aver portato alla luce l’inconscio, del quale è manifestazione, così come il sogno. Dall’inconscio scaturiscono al contempo l’impulso artistico e le nevrosi: curare le seconde significherebbe annullare il primo. La poesia si configura come surrogato della terapia psicanalitica.

Saba prosatore Scorciatoie e raccontini [1946] Il volume comprende 165 Scorciatoie, brevi prose a carattere aforistico, e 13 Raccontini, poco più ampi e a carattere aneddotico: questi scritti denunciano in primo luogo gli orrori dell’olocausto e le ingiustizie del regime fascista, ma non mancano la polemica letteraria e la critica di costume.

Il canzoniere [1921-1961] Temi e struttura Nell’edizione definitiva, uscita postuma nel 1961, il Canzoniere appare suddiviso in 26 sezioni riunite in tre volumi, secondo un criterio sostanzialmente cronologico. L’opera può essere considerata un’autobiografia in versi, ove però non vengono documentati gli eventi esteriori, ma i moti dell’animo, i pensieri dominanti, insomma la vita della coscienza e dell’inconscio dell’autore: storia di un’anima e specchio di un malessere esistenziale. Il Volume primo (1900-1920) raccoglie 125 liriche in 9 sezioni e di fatto coincide con la prima edizione del Canzoniere del 1921, asciugata e ristrutturata. Saba rivive questo suo tempo dell’esperienza come un romanzo di formazione, all’insegna in particolare delle “armi” e degli “amori”: la vita militare e il difficile rapporto con le donne, in particolare con la moglie Lina. Il Volume secondo (1921-1932), il più breve, riunisce 105 testi in otto sezioni e si conclude con le poesie di ispirazione psicanalitica del Piccolo Berto. Entrato in una nuova stagione della vita, il tempo della conoscenza, Saba rilegge il proprio passato alla ricerca delle cause del proprio malessere e delle leggi universali della vita umana; il “romanzo familiare”, dominato dalle figure del padre, della madre e della balia, si alterna con sezioni in cui lo sguardo del poeta si allarga fino ad abbracciare l’umanità intera. Infine il Volume terzo (1933-1954) raccoglie 165 liriche in 9 sezioni e si conclude con le Sei poesie della vecchiaia. Giunto nel senile tempo della sapienza, Saba tende a sostituire alla materia autobiografica il repertorio della tradizione mitologica e letteraria, mentre la G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Storia e cronistoria del Canzoniere [1948] Ossessionato dall’idea di essere frainteso dalla critica, Saba si fece critico di se stesso pubblicando nel 1948 questo saggio con lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei; in esso spiega la genesi e il significato delle sue poesie, spesso polemizzando con l’ottusità dei critici. Ricordi-Racconti [1956] Questa raccolta di prose, pubblicata nel 1956, è suddivisa in tre sezioni: Gli ebrei, Sette novelle e Tre ricordi del mondo meraviglioso. La prima riunisce storielle curiose, aneddoti e ritratti relativi alla comunità ebraica triestina, raccontati con bonaria ironia e risalenti agli anni giovanili. Ernesto [1975] Lasciato incompiuto e pubblicato solo postumo, è un romanzo di formazione il cui adolescente protagonista è evidente proiezione dell’autore stesso; alla ricerca delle origini del suo malessere, Saba si concentra in particolare sulla inconfessata iniziazione sessuale del protagonista, con un uomo adulto suo compagno di lavoro. La scabrosità dell’argomento spinse l’autore a chiedere alla figlia la distruzione del manoscritto, che fu invece conservato.

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Italo Svevo Sintesi svolta

italo svevo PERCHÉ SVEVO È UN CLASSICO?

lotta (1888) e L’assassino di via Belpoggio (1890). A sue spese fece stampare i romanzi Una vita (1892) e Senilità (1898), accolte dalla più totale indifferenza di pubblico e critica. L’insuccesso lo umiliò a tal punto che giurò a se stesso di smettere di scrivere. Solo dopo la Grande guerra si decise a violare il giuramento, pubblicando (nel 1923) con l’editore Cappelli di Bologna il romanzo La coscienza di Zeno. Inizialmente fu un nuovo fiasco, finché, su interessamento di Joyce, la critica francese lanciò l’opera nel 1926; seguì un rapido successo internazionale, con traduzioni in francese, tedesco e inglese. Infine il “caso Svevo” esplose anche in Italia, grazie a Eugenio Montale; il successo ridiede fiato alla vena creativa di Svevo, che scrisse tra l’altro alcuni importanti racconti e abbozzò un quarto romanzo, Il vegliardo, rimasto incompiuto a seguito della morte improvvisa causata da un incidente stradale, nel 1928.

1. Perché ha saputo imprimere al romanzo una svolta decisiva, svincolandosi dalla tradizione ottocentesca per tratteggiare la figura dell’«inetto», emblematica dell’uomo del Novecento. 2. Perché è stato un grande maestro dell’introspezione, dando origine al “romanzo dell’esistenza”, in cui contano non i fatti in sé ma i vissuti, le risonanze che la realtà esterna produce nel soggetto. 3. Perché ha intuito, anticipando le teorie freudiane, l’esistenza dell’inconscio e del suo ambiguo e condensato linguaggio.

LA VITA [1861-1928] Infanzia e giovinezza Aronne Ettore Schmitz nacque nel 1861 a Trieste, porto dell’Impero asburgico, fiorente centro commerciale e città cosmopolita. Lo pseudonimo di Italo Svevo, con cui firmerà i suoi romanzi, richiama la sua duplice matrice culturale, italiana e tedesca, lasciando in ombra la terza, quella ebraica. Svevo non fu un ebreo praticante: in occasione del matrimonio con una ragazza cattolica non esitò a farsi battezzare, eppure il suo esordio letterario, nel 1880, fu un articolo in difesa di Shylock, l’ebreo protagonista del Mercante di Venezia di Shakespeare.

LE COSTANTI LETTERARIE Uno sguardo disincantato Anche all’ambiente triestino, dominato dalla ragion pratica del successo economico e, quindi, da una visione degli uomini e delle cose concreta e spregiudicata, Svevo deve il carattere antiletterario della sua opera e lo sguardo acuto e disincantato con cui la vita viene ricondotta alle sue leve essenziali: salute, affari, amore.

L’attività professionale Avviato dal padre al commercio, studiò per quattro anni in un collegio in Germania; coinvolto nel 1880 nel fallimento dell’impresa paterna, dovette guadagnarsi da vivere abbandonando momentaneamente le ambizioni letterarie. Per vent’anni, fino al 1899, lavorò in banca, dedicandosi contemporaneamente a collaborazioni editoriali e all’insegnamento. A seguito del matrimonio, celebrato nel 1896, con Livia Veneziani, Svevo nel 1899 entrò nella ditta del suocero, che aveva fatto fortuna brevettando una speciale vernice sottomarina. Seguirono anni di intenso lavoro e viaggi frequenti all’estero, in particolare in Inghilterra. La necessità di imparare l’inglese gli diede l’occasione di conoscere James Joyce, che risiedeva allora a Trieste e di cui divenne amico.

Il disagio esistenziale Il conflitto tra attività economica e vocazione letteraria si riflette nell’opera sveviana assumendo la forma dialettica del contrasto tra due modelli di vita opposti, fondati l’uno sulla lotta per il successo e l’altro sulla ricerca della serenità interiore. Il personaggio sveviano è sempre uno “straniero”, un “diverso”, incapace di adattarsi a un ambiente sociale ostile o indifferente, diviso fra il bisogno di integrazione e la salvaguardia della propria irrinunciabile individualità. L’analisi interiore Svevo si rivela soprattutto maestro nell’introspezione psicologia del personaggio, di cui sa indagare in modo particolare i meccanismi di difesa e le strategie di autoinganno messi in atto per far fronte alle frustrazioni dell’esistenza. Il personaggio sveviano più che agire riflette, ma questo riflettere non lo conduce all’elaborazione di una sapienza, bensì si rivela uno strumento deviante: un argine al rimorso o una valvola di sfogo per i desideri insoddisfatti e inconfessati.

La vocazione letteraria Svevo, lettore voracissimo, coltivò la letteratura come una passione segreta, esordendo come commediografo, anche se quasi tutti i suoi lavori erano destinati a rimanere nel cassetto. Le prime opere pubblicate furono due novelle uscite sull’“Indipendente”: Una G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Italo Svevo Sintesi svolta

Caratteri dello stile sveviano L’italiano era lingua poco familiare a Svevo, cresciuto in una città in cui si parlava il dialetto e più a suo agio con il tedesco, studiato a scuola. La sua cultura letteraria è perciò quella di un autodidatta e il suo linguaggio narrativo appare incolore e generico o ragionieristico: una lingua artificiale che sembra trovata a tavolino o frutto di una traduzione. Di qui l’accusa di “scriver male” formulata da diversi critici. Nonostante ciò, per il suo sguardo analitico, le sue capacità introspettive e l’originalità dei suoi personaggi Svevo resta uno dei maggiori scrittori europei del Novecento.

tarsi all’alienante lavoro in banca e al modo di fare dei colleghi. Sua unica consolazione è lo studio cui si dedica la sera, frequentando la biblioteca. Conosce la figlia del principale, Annetta, corteggiata dal brillante cugino Macario, e comincia a frequentarla allorché la ragazza decide di scrivere un romanzo. Tra i due nasce un’attrazione e lei infine gli si concede. Disgustato dall’accaduto, Alfonso si allontana da Trieste; al ritorno trova Annetta fidanzata con Macario e, sul lavoro, si vede relegato a un incarico umiliante. Le sue proteste provocano una sfida a duello, cui Alfonso si sottrae con il suicidio. La figura dell’inetto Svevo pubblicò il romanzo a proprie spese dopo il rifiuto dell’editore Treves, che aveva intuito l’insuccesso: il protagonista, figura di antieroe assolutamente incapace di cogliere le occasioni per affermarsi (Un inetto era il titolo iniziale), non poteva incontrare i gusti del pubblico del tempo. L’eroe romantico era figura affascinante anche e soprattutto nella sconfitta, che sapeva affrontare con coraggio e grandezza. L’inetto sveviano è invece un individuo negato per la lotta, goffo e ridicolo, incapace di dominare la vita, perennemente frustrato e scontento; non ha alcuna dote fuori del comune, è anzi individuo marginale e disadattato, inerme e remissivo, oggetto di scherno e dileggio. Alfonso è spesso distratto sul lavoro, lento, disordinato, è il ritratto dell’inefficienza; impacciato e subalterno nei rapporti interpersonali, non sa cogliere le occasioni che gli si presentano e si lascia così sfuggire la possibilità di sposare Annetta e di promuovere la propria posizione sociale. In un mondo darwinianamente concepito, Alfonso è nato perdente.

LE OPERE I primi racconti Svevo esordisce pubblicando sul giornale triestino “L’indipendente” due racconti con lo pseudonimo di «E. Samigli», ricalcato sul termine yiddish schlemihl, che significa “perseguitato dalla cattiva sorte”. Ammiratore di Darwin, nelle cui teorie cercava risposte in merito a ciò che spinge gli uomini a rivaleggiare fra loro e ai fattori che in questa lotta determinano successi e fallimenti, Svevo concentra però l’attenzione non sul vincitore ma sul perdente nell’ambito della selezione naturale. Una lotta (1888) vuole esemplicare le affermazioni darwiniane intorno alle rivalità che si accendono tra i maschi per la conquista della femmina. I due protagonisti, Arturo e Ariodante, corteggiano entrambi la bella Rosina: Arturo è tutto cervello, ha la parola facile, è personaggio sognatore e contemplativo; Ariodante incarna invece la «maschia bellezza», è aitante e sportivo, tipico uomo d’azione. A quest’ultimo andrà il favore di Rosina, appena la contesa scenderà sul piano fisico: il “bruto” allo stato di natura vince alla fine sulla civiltà del sentimento. L’assassinio di via Belpoggio (1890) esemplifica invece l’idea darwiniana secondo cui nell’uomo confliggono l’istinto egoistico e gli istinti sociali, che fungono da deterrente: per Darwin il comportamento degli individui oscilla costantemente fra lotta per la vita e leggi del branco, impulsi di autoaffermazione e divieti morali. Protagonista del racconto è Giorgio, un fallito che vive di lavori saltuari e che, in un raptus omicida uccide Antonio. All’atto impulsivo e incontrollato non segue alcun rimorso in Giorgio, semmai una punta di compiacimento; a tormentarlo sarà il timore del giudizio della folla, che si trasforma ben presto in angosciosa ossessione. Giorgio finisce così per tradirsi e, arrestato, confessa immediatamente per non impazzire.

L’inganno della coscienza Svevo è soprattutto un grande indagatore degli strati profondi dell’uomo; la vicenda si snoda senza grandi colpi di scena, perché al centro del racconto sono le risonanze intense che gli eventi, anche banali, suscitano nell’animo del protagonista: al romanzo d’azione subentra così il romanzo dell’esistenza. A dilagare sulle pagine è la sfera della coscienza, che però nell’inetto non si rivela strumento di conoscenza, ma strategia di autoinganno per contraffare la realtà. Incapace di imporsi o anche solo di difendersi nel mondo reale, Alfonso si rifugia nel sogno a occhi aperti, immaginando scenari in cui rifarsi delle frustrazioni subite. Il male di vivere Ma l’inetto non è uomo migliore degli altri: anch’egli compie il male, e il ragionamento sofistico diviene in lui strumento per crearsi un alibi a prova di rimorso, operando non un esame, ma uno scarico di coscienza. Al di sotto della coscienza si rivela tuttavia l’anima del personaggio, che consiste in una cieca volontà di

Una vita [1892] La trama Alfonso Nitti, giunto a Trieste dalla campagna e con alle spalle una formazione umanistica, stenta ad adatG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Italo Svevo Sintesi svolta

vita e affermazione, destinata a rimanere inappagata; di qui il “male di vivere” del protagonista. Svevo stesso confesserà l’ispirazione schopenhaueriana alla base del romanzo: la vita umana scorre fra desiderio, che è dolore, e soddisfazione, che è sazietà; con il possesso svanisce ogni attrattiva e il desiderio rinasce in forma nuova, pertanto la delusione è inestirpabile.

l’amore, tardivo quanto totalizzante. Il tempo e lo spazio si contraggono all’oscurità serale in cui vive l’ombroso Emilio e all’appartamento dove Amalia conduce la sua claustrale esistenza. La senilità La senilità cui allude il titolo non ha nulla a che fare con l’età anagrafica (Emilio ha 35 anni e Amalia è ancora più giovane), ma è una condizione interiore: come Alfonso Nitti, Emilio Brentani è un inetto, un personaggio debole e passivo; Emilio e la sorella sono entrambi persone irrealizzate, avviate al declino senza aver mai raggiunto la maturazione; la vita li ha solo sfiorati ed essi, con la loro insoddisfatta brama di piacere e di amore, si sono lasciati vincere dal torpore e come rinchiusi in un bozzolo, al cui interno sono diventati vecchi prima del tempo.

La scelta del suicidio Dalla constatazione di essere «incapace alla vita», o meglio di non aver saputo estrirpare da sé l’impulso naturale alla lotta, nasce in Alfonso la scelta finale del suicidio; Schopenhauer, peraltro condannando il suicidio, aveva affermato: «Il suicida vorrebbe la vita: e soltanto non è soddisfatto delle condizioni in cui gli si offre [...]. Il suicida cessa di vivere, appunto perché non può cessar di volere; la volontà si afferma in lui con la soppressione del fenomeno [...]».

L’irruzione dell’amore L’amore irrompe in queste vite grigie e apatiche sconvolgendole. Per queste due anime disoccupate che mai si sono aperte alla vita, l’esperienza dell’amore significa vivere all’improvviso una giovinezza mai conosciuta; e così i due “vasi vuoti” si colmano fino a traboccare. Significativamente i due partner, Stefano e Angiolina, rappresentano tutto ciò che ai protagonisti manca e, in più, possiedono la noncuranza propria degli individui destinati a trionfare nella lotta per la vita.

I nflussi naturalisti Nato in pieno clima naturalista, il romanzo ne deriva l’abbondanza di dettagli descrittivi, l’attenzione allo status sociale dei personaggi, lo scrupolo scientifico nel cogliere gli aspetti clinici della malattia. Alfonso, in particolare, viene osservato all’interno di quattro fondamentali milieux: la banca, la famiglia presso cui vive a pensione, casa Maller, il villaggio natio. Non mancano tuttavia episodi che esulano dalla temperie realista e si pongono come prefigurazioni del destino del protagonista: come la scena cui Alfonso assiste tornando dal paese a Trieste, allorché un povero diavolo senza biglietto viene scaraventato giù dal treno e catapultato, solo e senza radici, in un mondo sconosciuto e ostile.

Il carnevale La vicenda è ambientata nel periodo del carnevale (Il carnevale di Emilio era il titolo iniziale), che rappresenta il sovvertimento della vita ordinaria; l’esistenza quaresimale dei due protagonisti all’improvviso è capovolta dalle pulsioni vitali e dall’arbitrio personale, in un vortice che, dice lo stesso Svevo, dalla noia condurrà, attraverso il dolore, a una noia ancora più greve.

Senilità [1898] La trama Emilio Brentani conduce una vita anonima e ritirata con la sorella nubile Amalia. Il grigiore di questa esistenza viene sconvolto dall’irrompere dell’amore: Amalia si innamora senza speranza dello scultore Stefano Balli, mentre Emilio si invaghisce della disinibita popolana Angiolina, che lo tradisce e lo inganna senza pudore. Alla fine Amalia cerca la pace negli stupefacenti che la portano alla morte, mentre Emilio, stanco di giustificare sempre e comunque l’amante infedele, trova il coraggio di lasciarla.

La coscienza di Zeno [1923] La trama Il romanzo è scandito in otto capitoli. Nel primo (Prefazione) il Dottor S. annuncia di avere deciso di pubblicare per vendetta i quaderni del suo paziente Zeno Cosini, “reo” di avere interrotto la terapia psicanalitica. Nel secondo (Preambolo) Zeno dichiara la valenza terapeutica dei propri quaderni autobiografici. Nel terzo (Il fumo) Zeno illustra i numerosi e vani tentativi di smettere di fumare. Nel quarto (La morte di mio padre) descrive il rapporto conflittuale con il padre. Nel quinto (La storia del mio matrimonio) racconta le bizzarre circostanze che lo hanno portato a sposare Augusta Malfenti. Nel sesto (La moglie e l’amante) narra della relazione con Carla, che procede parallela al matrimonio, in perfetta integrazione. Nel settimo (Storia di un’associazione commerciale) racconta la società stretta con il rivale Guido, marito di Ada Malfenti, e le paradossali circostanze della sua morte.

Il distacco dagli schemi naturalisti Ormai emancipato dai condizionamenti del romanzo naturalista, Svevo riduce il numero dei personaggi e si concentra sull’esplorazione del loro mondo interiore, rinunciando alla descrizione del milieu. Anche la prospettiva oggettiva del narratore esterno è abbandonata e Svevo adotta il campo visivo dei due protagonisti, Emilio e la sorella Amalia; il mondo esterno è una realtà lontana e nel romanzo c’è posto solo per G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Nell’ottavo (Psico-analisi) condanna la tearapia psicanalitica come fallimentare e proclama la propria autoguarigione.

costruisce intenzionalemnete il proprio racconto autobiografico come un caso clinico da manuale. La riscrittura mancata Giunto infine alla conclusione di non essere affatto malato, Zeno vorrebbe riavere i suoi quaderni per poter riscrivere la propria autobiografia da un diverso punto di vista, abbandonando cioè la chiave interpretativa edipica, rivelatasi fuorviante. Negatagli questa possibilità, spetterebbe al lettore operare una rilettura del testo rintracciando, nei diversi capitoli, segnali di sanità laddove erroneamente erano stati individuati sintomi di malattia.

 a struttura narrativa L Nella finzione narrativa la genesi del testo è ricondotta alla prescrizione di un medico come preludio alla terapia psicanalitica. Diligentemente Zeno prende a redigere dei quaderni a tema recuperando retrospettivamente i capitoli più importanti della propria esistenza. Se gli eventi sono sostanzialmente disposti in ordine cronologico, non mancano però sovrapposzioni, ripetizioni o anticipazioni; inoltre ogni evento passato è sempre ricondotto al presente di Zeno, che si descrive nell’atto di ripensare il proprio passato, sottolineando l’intenzionalità della scrittura da parte dell’io narrate. Ne deriva, in generale, la percezione di un tempo fluttuante.

Il trionfo di Zeno Di fatto, pur muovendo da pronostici sistematicamente infausti, Zeno chiude in attivo il bilancio della propria esistenza (lasciandosi tra l’altro alle spalle personaggi che sembravano ben più di lui avviati al successo), in particolare nei fondamentali capitoli dell’amore, del lavoro e della salute. Per quanto riguarda l’amore, Zeno, pur non riuscendo a sposare la donna che crede di amare, trova senza volerlo una moglie adorabile; anche la relazione con Carla procede liscia e senza alcun incidente di percorso, intregrandosi perfettamente con la vita matrimoniale. Nell’ambito del lavoro, fin dall’inizio, pur godendo di ridottissimi spazi di manovra, Zeno ottiene incoraggianti successi finanziari. Con lo scoppio della Grande guerra, poi, rimasto a operare in totale autonomia, sa addirittura dar prova di una superiore intelligenza delle leggi economiche, mostrando la stoffa di un vero capitalista. Per quanto riguarda la salute, Zeno non perde occasione di raffigurarsi come bisognoso di cure, anche se il suo male, in definitiva, è la vita stessa. Nonostante lo zelo maniacale con cui si intestardisce a curare i propri “disturbi”, Zeno gode di una salute di ferro; condizione invidiabile specialmente se messa a confronto con le patologie devastanti che, senza pietà, colpiscono tutti gli altri personaggi. Il trionfo finale di Zeno, che alla fine si impone sulle altre figure maschili dell’opera (dall’amministratore Olivi al suocero, fino al grande rivale, il cognato Guido Speier), è significativamente sancito da Ada in persona, la donna amata dal protagonista e infelicemente sposata a Guido, che riconosce in Zeno «il migliore uomo della nostra famiglia». Quanto al rapporto con il padre, lo schema del conflitto edipico viene addirittura rovesciato: è il padre la figura debole, ossessionato dall’idea della morte, emotivamente bloccato e incapace di compiere l’ufficio di genitore.

Un romanzo anti-psicanalitico La psicanalisi costituisce l’innesco narrativo e il quadro scientifico di riferimento del romanzo, anche se, nella finzione narrativa, la redazione dei quaderni precede le sedute, di cui Zeno offre un sommario ragguaglio a posteriori solo nell’ultimo capitolo. La coscienza di Zeno si risolve di fatto in una completa liquidazione della terapia psicanalitica, sulla quale Svevo nutriva forti dubbi suffragati dall’esperienza del cognato che, dopo due anni di sedute a Vienna con Freud in persona, fece ritorno a Trieste in condizioni ancora peggiori, congedato addirittuta come “incurabile” dal padre della psicanalisi. Tutti i riferimenti alle teorie e alla prassi clinica freudiana all’interno dell’opera sono sempre accompagnati da un’ironia che svela le posizioni diffidenti e critiche dell’autore. Lo stesso Dottor S., che apre il romanzo con il suo atteggiamento assolutamente non professionale, viene liquidato al termine come un isterico vendicativo. Alla psicanalisi viene negato ogni valore conoscitivo e non le sono risparmiate critiche sul piano della dottrina, della terapia e del metodo; la confutazione radicale delle scoperte freudiane è condotta inizialmente con sottile malizia, mentre nell’ultimo capitolo la psicanalisi viene esplicitamente liquidata come una colossale «ciarlataneria». Il complesso di Edipo Nella prima parte del romanzo l’io narrante rilegge il proprio passato alla luce del complesso di Edipo in cui crede di riconoscere la matrice della propria malattia. Svevo è molto abile nel “depistare” il lettore sul conto del protagonista: le qualità positive di Zeno vengono sistematicamente intese come sintomi della malattia e i suoi successi come capricci della fortuna. Del resto nel Preambolo è Zeno in persona a rivelare di aver letto «un trattato di psico-analisi» prima di cominciare a redigere le proprie memorie: ciò significa che il protagonista rilegge la propria storia personale attraverso il filtro (deformante) dell’antropologia freudiana e G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Gli ultimi anni: i racconti e una commedia Anche grazie al successo finalmente raggiunto Svevo visse negli ultimi anni una straordinaria stagione creativa: scrisse racconti, una commedia e abbozzò un quarto romanzo, tutte opere il cui nucleo gene-

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ratore è una lucida riflessione sulla psicologia della vecchiaia.

perato la soglia dei settant’anni. In un primo momento Svevo ripropose la forma diaristica; entrato nel «tempo ultimo» della vita, escluso da ogni attività e dominato dall’attesa della morte, il protagonista torna alla scrittura come pratica igienica per sfogare il proprio malumore, realizzando una sorta di ironico album di famiglia. Successivamente l’autore giudicò insoddisfacente il disegno iniziale e mutò strategia, scegliendo di narrare episodi cruciali del passato recente di Zeno, gli anni cioè del primo dopoguerra: in particolare l’esautorazione dagli affari, la condanna a una forzata inattività (nel capitolo intitolato Un contratto), e la relazione venale con una tabaccaia, iniziata con la speranza di rinverdire la propria virilità e conclusa con l’amara constatazione che l’unica attrattiva in un vecchio è il portafogli (Mio ozio).

I racconti Vino generoso (pubblicato nel 1926), è un apologo il cui scopo è esortare le persone anziane alla sobrietà e all’osservanza scrupolosa delle prescrizioni mediche. La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1926) è un invito alla castità senile: chi ha raggiunto una certa età deve rassegnarsi alla quiescenza e vincere gli improbabili richiami dei sensi. In Una burla riuscita (1926) si racconta di un oscuro scrittore, invecchiato senza mai raggiungere il successo sperato (evidente proiezione dell’autore), ai cui danni viene ordita una burla, solleticandone le velleità di riconoscimento e di fama. Svevo fa i conti con il successo letterario, atteso per tanti anni e giunto insperato, tentando di esorcizzare la propria megalomania. Corto viaggio sentimentale (1922) è un esperimento di narrazione modellata sull’Ulisse di Joyce; Svevo esplora la vita interiore del protagonista durante un viaggio in treno dal tramonto all’alba, operando una dilatazione del tempo interno che aderisce ai vissuti del personaggio, riprodotti nel loro fluire senza ordine.

«Tempo misto» e tecnica del raccoglimento Nei capitoli realizzati Svevo sperimenta il «tempo misto» della narrazione, cioè il corto circuito dialettico che si viene a creare fra il presente dello Zeno narratore e il passato dello Zeno personaggio. Il protagonista ha scelto di consacrare i suoi ultimi giorni alla meditazione e di adottare la tecnica del raccoglimento: non vuole semplicemente ricordare, ma rivivere il passato, in particolare le “fratture” nella continuità dell’esistenza, nella speranza di «intendere meglio» cioè, sostanzialmente, di imparare a rassegnarsi e a prendere congedo dalla vita. A questo fine la coscienza deve contemplare a debita distanza i propri vissuti, che poi sta alla scrittura fissare cristallizzandoli.

Una commedia: La rigenerazione In questa commedia, scritta tra il 1926 e il 1927, il settantaseienne Giovanni Chierici si sottopone a un intervento chirurgico nella vana speranza di poter ringiovanire e riaffermare il proprio ruolo all’interno della famiglia; conta in particolare di riguadagnare un’immagine di affidabilità e poter così riprendere a condurre a passeggio il nipotino. La commedia riflette, oltre che sulle promesse della scienza, sulla perdita di ruolo e considerazione da parte dell’antico patriarca nell’ambito della società moderna.

Dalla protesta alla rassegnazione Il protagonista del Vegliardo vive il passaggio cruciale dalla società patriarcale a quella moderna, da un mondo che onora e rispetta i vecchi a uno che li relega in un angolo considerandoli buoni a nulla inaffidabili e inutili. Ferito nella dignità, Zeno prova un moto di ribellione, consapevole però che «la protesta è la via più breve alla rassegnazione»; infine il vecchio non può che riconciliarsi con la propria sorte, piegandosi alle ineludibili leggi biologiche.

Gli ultimi anni: Il vegliardo Due diversi approcci Negli ultimi mesi di vita Svevo si dedicò a un quarto romanzo, destinato a rimanere incompiuto; il protagonista è ancora Zeno Cosini, che però ha ormai su-

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I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

luigi pirandello PERCHÉ PIRANDELLO È UN CLASSICO?

vette essere ricoverata in una clinica. Luigi fu costretto a un lavoro febbrile per provvedere al sostentamento della famiglia: nel giro di pochi anni pubblicò diversi romanzi (nel 1904 Il fu Mattia Pascal, nel 1911 Suo marito, nel 1913 I vecchi e i giovani, nel 1916 Si gira..., nel 1926 Uno, nessuno e centomila) e molte raccolte di novelle (l’ultima, Una giornata, fu pubblicata postuma). Pubblicò inoltre, nel 1908, i due saggi Arte e scienza e L’umorismo, mentre dall’anno seguente iniziò a collaborare con il “Corriere della sera”.

1. Perché, spietato indagatore dei costumi borghesi e della coscienza moderna, è stato un lucidissimo interprete della crisi epocale che ha investito l’uomo contemporaneo. 2. Perché in lui convivono la passione del poeta e la freddezza del filosofo: alla base delle sue opere c’è infatti sempre un’idea, una tesi da dimostrare. 3. Perché si è accanito in modo particolare contro le convenzioni sociali, il perbenismo borghese, le continue finzioni e le “maschere” che celano il volto dell’uomo. 4. Perché davanti alla miseria morale dell’uomo e alle maschere sotto le quali tutti cerchiamo di nasconderla, è stato capace di provare assieme dispetto e pietà: di qui il suo riso amaro e l’umorismo, cardine della sua poetica, punto di incrocio fra l’atteggiamento del filosofo che demolisce e del poeta che solidarizza, fra ragionamento e passione, fra commedia e tragedia.

Il successo teatrale La fama internazionale di Pirandello, che gli valse nel 1934 il premio Nobel, è legata però principalmente al successo del suo teatro. Dopo i primi esperimenti, che risalgono agli ultimi anni dell’Ottocento, Pirandello si dedicò a tempo pieno al teatro a partire dal 1916, mettendo in scena capolavori come Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli (nel 1917), Sei personaggi in cerca d’autore (nel 1921 a Milano e a Roma, quindi, con enorme successo, a Londra e a New York nel 1922), e poi ancora Enrico IV (1922), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930), fino ai Giganti della montagna (1936). Al 1924 datano sia l’adesione al fascismo sia la costituzione della compagnia del Teatro dell’Arte (prima attrice fu Marta Abba, interprete e ispiratrice della sua ultima stagione teatrale), che Pirandello diresse fra il 1925 e il 1928 affrontando diverse tournées all’estero per curare personalmente l’allestimento dei propri lavori. Morì infine nel 1936, lasciando irrealizzato l’ambizioso progetto di creare e dirigere un teatro di stato.

LA VITA [1867-1936] L’infanzia, la giovinezza, gli studi Pirandello nacque nel 1867 nelle campagne di Girgenti (Agrigento), dove la famiglia si era trasferita per sfuggire a un’epidemia di colera, in località Càvusu (Caos): circostanza che Luigi avrebbe in seguito interpretato come un segno del destino. L’agiatezza economica della famiglia (il padre, ex garibaldino, amministrava alcune zolfare) gli consentì di studiare a Palermo, a Roma e a Bonn, dove si laureò nel 1891. Andava intanto pubblicando i primi volumi di versi: Mal giocondo (1889) e Pasqua di Gea (1891).

LE COSTANTI LETTERARIE Il relativismo Per Pirandello la realtà è caos: trasformazione continua, flusso vitale, perenne movimento. Ogni tentativo di fissarla, darle una forma e un senso, è destinato a rivelarsi illusorio. Qualunque conoscenza assoluta e oggettiva su di sé e sul mondo è preclusa all’uomo, che deve accontentarsi di opinioni soggettive, mutevoli, anch’esse in perenne divenire. Tutto questo coinvolge anche e soprattutto il concetto di identità personale: attribuirsene una o attribuirla agli altri, presumere di conoscersi o di conoscere gli altri, è atto puramente arbitrario. La personalità di ciascuno è sfuggente, in perpetua metamorfosi, proprio come il corpo. Ogni tentativo di mettere ordine nella vita significa soffocarla, rinchiuderla nella prigione di una forma.

Gli anni romani A Roma conobbe Luigi Capuana, che ne incoraggiò le ambizioni letterarie, prese a frequentare gli ambienti artistici e iniziò a pubblicare articoli e recensioni. Nel 1898 fondò con alcuni amici la rivista “Ariel”, dove comparve il suo primo dramma, L’epilogo; in questi anni pubblicò inoltre alcune novelle, raccolte nel 1894 nel volume Amori senza amore, e due raccolte di poesie, Elegie renane (1895) e Zampogna (1901). Dal 1897 si dedicò all’insegnamento di lingua e letteratura italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero. Nel frattempo (1894) aveva preso in moglie Maria Antonietta Portulano, da cui avrebbe avuto tre figli. Nel 1903 l’allagamento di una zolfara provocò la rovina economica della famiglia; la moglie fu colpita da un esaurimento nervoso che degenerò in paranoia e doG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

Le Novelle per un anno [1894-1937]

Una missione demistificatrice Pirandello sembra essersi assunto in primo luogo il compito di liberare l’umanità dagli inganni del Positivismo, sottoponendo a critica serrata i metodi dell’indagine scientifica e gli istituti sociali, i valori e le ideologie che guidano la vita degli uomini. Ciò conferisce alle sue opere una caratteristica impronta dialettica. Di norma Pirandello elegge a proprio portavoce un personaggio cui affida la missione di demolire convenzioni e convinzioni, pregiudizi e luoghi comuni; questo personaggio, scoperto l’inganno, si chiama fuori dal gioco e dal teatro della vita, convinto che per vivere davvero si debba uscire dalla pagliacciata collettiva dell’esistenza e imparare a guardare il mondo con distacco.

Fra il 1894 e il 1919 Pirandello pubblicò 15 volumi di novelle, successivamente ristampati, con varianti e modifiche, con il titolo complessivo di Novelle per un anno, nell’ambito di un progetto, rimasto incompiuto, che prevedeva di raggiungere il numero totale di 365. Le novelle appaiono semplicemente giustapposte, senza alcun filo logico a collegarle, offrendoci la vita nel suo multiforme e caotico disordine. Molte novelle fornirono la materia prima per successive rielaborazioni romanzesche o teatrali: per esempio il celebre dramma Così è (se vi pare) deriva dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero. In piena coerenza con la sua filosofia della vita come flusso incessante, Pirandello rifiuta di cristallizzare vicende e personaggi in una forma definitiva. Ambientate in una Sicilia arcaica e sottratta alla storia o in una Roma grigia e per nulla monumentale, le novelle ruotano per lo più attorno al tema dell’effetto paralizzante dei ruoli sociali che mortificano e rendono insopportabile la vita, ritratta soprattutto nelle dimensioni della famiglia (luogo del dovere e della responsabilità, delle convenzioni e della finzione) e del lavoro (più che mai mortificante e alienante). I protagonisti sono per lo più figure di inetti che subiscono la vita facendo di necessità virtù, oppure cercando qualche innocente e segreta valvola di sfogo, o ancora immergendosi nella natura o abbandonandosi alla fantasia. Se la fuga non riesce o si rivela impossibile, il motivo più futile è allora sufficiente per far esplodere nel personaggio la tensione accumulatasi e per farlo sprofondare nell’abisso della pazzia. Al contempo, la crisi assume valore di epifania, aprendo gli occhi al personaggio e mostrandogli lo stato di alienazione in cui vive.

Il gusto del paradosso A sostegno delle proprie argomentazioni, Pirandello propone nelle sue opere situazioni ed eventi dal valore esemplificativo; si tratta tuttavia sempre di eventi paradossali, al limite dell’inversomile, a dimostrazione del fatto che la vita è piena di sorprese e rifiuta di essere rinchiusa in una norma. Il personaggio pirandelliano appare sempre in lotta per sfuggire alla prigione della forma, alle maschere impostegli dal sistema alienante delle relazioni sociali, e per conquistare la libertà è pronto alle azioni più stravaganti e inconsulte.

LE OPERE L’umorismo [1908] Questo saggio è diviso in due parti: nella prima si delimita l’oggetto, nella seconda si passano in rassegna esempi tratti da diversi autori e opere. L’umorismo ha a che fare unicamente con l’uomo e presuppone un’azione intenzionale, una volontà in atto; l’azione istintiva obbedisce a una legge di natura, pertanto non è mai umoristica. L’umorismo inoltre è distinto dal comico: quest’ultimo ha come solo scopo suscitare il riso, che è un «avvertimento del contrario» e nasce quando, per esempio, un individuo indossa volutamente, ma in modo maldestro e grottesco, una maschera diametralmente opposta alla propria vera realtà. Per passare dal comico all’umoristico, alla semplice constatazione deve subentrare la riflessione, nel tentativo di intuire le ragioni che stanno alla base del comportamento ridicolo; si raggiunge così un «sentimento del contrario», che rende amaro il riso a cui si mescolano la commozione e la compassione. In contrasto con l’estetica di Croce, Pirandello assegna alla riflessione una parte essenziale nella creazione di un’opera d’arte umoristica: è solo grazie a essa, infatti, che dall’«avvertimento del contrario» si passa al «sentimento del contrario». Il ruolo centrale della riflessione comporta uno sdoppiamento nell’atto della concezione artistica, per cui il vero umorista è al tempo stesso poeta e critico. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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I primi romanzi I primi romanzi di Pirandello muovono da istanze veriste, per superarle. Nell’Esclusa (pubblicato nel 1901, ma scritto nel 1893 con il titolo Marta Ajala) la protagonista appare al centro di una vicenda paradossale: cacciata di casa in seguito a un’ingiusta accusa di adulterio, viene riaccolta con tutti gli onori dopo aver consumato realmente il tradimento. Ne Il turno (pubblicato nel 1902, ma scritto nel 1985) il protagonista Pepè, uomo assolutamente “normale”, si mette in coda e attende pazientemente il proprio turno per sposare l’amata Stellina, riuscendo alla fine ad avere la meglio sul nobile e ricco don Diego e sul giovane e brillante avvocato Ciro Coppa. I due romanzi intendono dimostrare due fondamentali assunti pirandelliani: che le convenzioni sociali condizionano gli individui arrivando a stravolgere la verità dei fatti, e che la vita si fa continuamente beffe di noi, vanificando tutti i nostri sforzi per darle un ordine e un senso.

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

Il fu Mattia Pascal [1904]

Nessuna provvidenza, o destino, o deterministica concatenazione di cause ed effetti, secondo Pirandello, guida la storia degli uomini, ma solo e unicamente il caso, che devia e intreccia i casi della vita in modi sempre singolari e imprevedibili. In questo senso il casinò, grande tempio eretto alla Fortuna, assurge a metafora della vita stessa.

La trama Bibliotecario in un paesino della liguria, Miragno, Mattia Pascal conduce un’esistenza grigia e vuota; per sfuggirla, decide di emigrare segretamente in America ma, facendo tappa a Montecarlo, tenta la sorte e incredibilmente vince una somma ingente al casinò. Sulla via del ritorno, legge per caso sul giornale la notizia della propria morte: il cadavere di un uomo è stato riconosciuto da sua moglie come Mattia Pascal. Deciso a cogliere l’occasione per cambiare vita, il protagonista assume il nome di Adriano Meis, viaggia in Italia e all’estero e infine si stabilisce a Roma, in casa dello stravagante Anselmo Paleari, appassionato di occultismo, e si innamora, ricambiato, di sua figlia. Tuttavia, privo com’è di un passato e di un’identità anagrafica, Adriano Meis purtroppo deve prendere atto di essere persona fittizia, inconsistente, e decide pertanto di “suicidarsi”, inscenando il proprio annegamento nel Tevere. Tornato a Miragno, non può però riprendere la vita di prima: sua moglie si è risposata e il posto di bibliotecario è ormai occupato da un altro. Non gli rimane così che scrivere le proprie memorie e fare visita alla propria tomba, rassegnandosi a non esistere più se non come il fu Mattia Pascal.

I vecchi e i giovani [1913] Il tentativo di fare un bilancio del Risorgimento si coglie nel secondo romanzo di Pirandello, caratterizzato dall’impianto storico e dal largo spazio dedicato al tema politico. Fra autobiografismo e cronaca, l’autore costruisce attorno alla nobile famiglia dei Laurentano un vasto affresco segnato da episodi di attualità come i Fasci siciliani e lo scandalo della Banca Romana. La tesi, questa volta, è riassunta nelle parole di don Cosmo Laurentano: la storia «non conclude», nel senso che non approda a nulla, riducendosi a rassegna delle passioni deluse, delle grandi opere lasciate a metà, delle buone intenzioni rimaste irrealizzate. E tuttavia gli ideali, benché illusori, sono il motore della storia; come tutte le costruzioni fittizie della società (e della coscienza), appaiono al tempo stesso ingannevoli eppure inevitabili: al di fuori di esse la vita umana non sarebbe nemmeno concepibile. Nel romanzo coesistono tre generazioni, ciascuna delle quali ha vissuto un passaggio cruciale della recente storia d’Italia lottando in nome di un proprio ideale politico: la generazione del Quarantotto per la libertà dai Borboni, la generazione dei Mille per l’unificazione nazionale, la generazione dei Fasci siciliani per la giustizia sociale. In definitiva, in ogni epoca i giovani appaiono pronti a dare la vita per un grande ideale; poi però, tramontata la giovinezza ed esauritosi un ciclo storico, le uniche prospettive sembrano essere quelle di scivolare lentamente nella degradazione del compromesso, fino a tradire le antiche aspirazioni di un tempo, oppure di mantenersi fedeli a esse smarrendo però il senso della storia e il contatto con la realtà.

Un romanzo a tesi Don Eligio, nuovo bibliotecario, sintetizza così la “morale della favola” al termine del romanzo: «fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, [...] non è possibile vivere». Quello della libertà assoluta, non soggetta a condizionamenti, si rivela dunque un miraggio: ufficialmente morto come Mattia Pascal e inesistente come Adriano Meis, il protagonista scopre che non gli è possibile acquistare una casa, denunciare un furto, sfidare a duello chi l’ha offeso, coltivare relazioni di amicizia o di amore. In fuga da un’esistenza opprimente e soffocante, si illude di poter ricominciare a vivere in modo più genuino, spontaneo, vero: in realtà tutta la sua nuova pseudoesistenza viene a essere fondata sulla menzogna, e Adriano è costretto a recitare una parte senza mai potere essere davvero se stesso. Alla fine, tagliato fuori dalla vecchia identità come dalla nuova, dovrà accontentarsi di vivere come «l’ombra di un morto». Narrando un fatto «strano e diverso», Pirandello prende le distanze dal canone naturalista della verosimiglianza; anzi, ai critici che accusarono la vicenda di essere palesemente inverosimile, Pirandello rispose riportando un caso analogo comparso sul “Corriere della sera” e sostenendo che l’opera d’arte, se davvero deve rispecchiare la vita, deve poterne raffigurare tutta l’assurdità. Tanto bizzarri e inverosimili sono i «casi della vita [...] che tacciare d’assurdità e d’inverosimiglianza, in nome della vita, un’opera d’arte è balordaggine». G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Suo marito [1911] Ispirato, sembra, alla biografia di Grazia Deledda, il romanzo racconta la vicenda di Silvia, scrittrice di talento, e del marito Giustino, individuo mediocre che nell’amministrare il talento della moglie trova il modo di riaffermare il proprio ruolo di capofamiglia; almeno fino alla progressiva emancipazione di lei, che giungerà ad abbandonare il tetto coniugale per una vita da single. In questo romanzo Pirandello tratteggia un quadro sarcastico degli ambienti letterari romani, dominati da vanità, gelosie e meschinità; inoltre fa della protagonista un personaggio, letterariamente parlando, fortemente autobiografico (fino a prestarle la paternità di alcune sue opere): scrittrice istinti-

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

La distruzione dell’io L’ultimo romanzo di Pirandello è ancora una narrazione a tesi sviluppata in prima persona, in cui predomina però la componente argomentativa: l’io-narrante si rivolge di continuo al lettore, assunto come interlocutore dei suoi ragionamenti. Il punto centrale è che quello che chiamiamo “io” è qualcosa di soggettivo e di relativo, dal momento che ciascuno possiede tante identità quante sono le persone con cui viene in contatto e la stessa coscienza, proprio come il corpo, è in continuo mutamento. Ne consegue che ogni rapporto tra individui si basa su un equivoco di fondo, perché non entriamo realmente in relazione con le persone ma solo con le immagini che ce ne siamo fatti; inoltre le parole stesse altro non sono che contenitori sonori che ognuno riempie di significato a suo modo, e dunque ogni tentativo di comunicazione non può che dare origine a fraintendimenti e malintesi.

va, estranea a correnti e movimenti, Silvia incarna la spontaneità naturale della creazione artistica, che è mistero e miracolo, in ciò assimilabile al concepimento e alla gestazione di un bimbo.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore [1916-1925] Pubblicato per la prima volta in volume nel 1916 con il titolo Si gira e poi nuovamente nel 1925 con il titolo definitivo, il romanzo è tra i primi dedicati al mondo del cinema. Protagonista e io narrante è un operatore cinematografico, che riprende le scene sul set e consegna ai propri diari la propria distaccata visione del mondo. Serafino conosce bene l’alienazione del lavoro meccanico: egli altro non è che «una mano che gira una manovella», un prolungamento della macchina da presa, asservito al suo funzionamento; ragione e sentimento sono elementi superflui, anzi la massima efficienza verrebbe raggiunta solo nel momento in cui l’uomo stesso si facesse macchina, “cosa muta”. Di qui il messaggio centrale dell’opera: nella nascente civiltà delle macchine, queste, da strumenti, si vanno trasformando in idoli tirannici che sottomettono l’uomo; le macchine dettano ormai il ritmo alla vita umana, un ritmo fragoroso e alienante che può portare solo alla follia, al delitto e alla stupidità. Divoratrici della vita e dell’anima dell’uomo, le macchine uccidono anche l’arte, negandone l’essenza che è il linguaggio; Pirandello nega dunque lo statuto di arte al cinema (ancora muto all’epoca), relegandolo nel settore dell’industria dello svago. Uomo di teatro, Pirandello al cinema rimprovera la totale sottomissione alle leggi del mercato e l’alienazione dell’attore, costretto a recitare davanti a una macchina anziché a un pubblico.

La prigione della forma Tuttavia l’identità che gli altri attribuiscono a una persona, per quanto arbitraria e deformante, finisce per condizionarne la vita: crea infatti un pregiudizio da cui non ci si può liberare, e se qualcuno cerca di comportarsi diversamente da come gli altri si aspettano, ottiene solo di passare per pazzo. Vitangelo in realtà è un filosofo pervenuto alla «coscienza della pazzia»: ha infatti compreso il «gioco», ossia che la pazzia non è una malattia ma parte integrante della natura umana. Gli uomini non si dividono in pazzi e sani, ma in pazzi inconsapevoli, che non sanno o non vogliono comprendere il gioco della vita, e pazzi consapevoli, che cioè si rendono conto di recitare una parte, giacché l’identità che l’uomo crede di possedere altro non è che un goffo tentativo di costringere in una forma il flusso inarrestabile della vita. Nell’uomo, causa di tutti i mali è la coscienza, che pretende di dare un nome e un significato alle cose, uccidendo così la vita che è flusso incessante, disponibilità infinita di significati; e tuttavia l’uomo non ha altro modo per rapportarsi a sé e al mondo: «Possiamo conoscere solo quello a cui riusciamo a dar forma [...] io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io [...] eppure non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose». Unica via d’uscita è dunque rinunciare alla coscienza, esistere senza sapere di esistere, immergendosi nella natura, perdendosi in essa: è questa la scelta finale cui approda Vitangelo Moscarda.

Uno, nessuno e centomila [1926] La trama Una banale osservazione della moglie sulla forma del suo naso scatena in Vitangelo Moscarda una serie di riflessioni che mettono radicalmente in crisi il concetto di identità. Resosi conto che gli altri non lo vedono come lui si vede, il protagonista decide di sfatare la propria nomea di usuraio, ottenendo però il risultato di essere creduto anche pazzo. La situazione precipita quando Anna Rosa, un’amica della moglie, svela a Moscarda il piano dei parenti teso a farlo interdire per impedirgli di dilapidare il patrimonio; allorché l’amica, in preda a una crisi isterica a seguito dei ragionamenti di Vitangelo, gli spara ferendolo, egli per difenderla lascia intendere di averla aggredita, guadagnandosi anche la fama di maniaco sessuale. Lo scandalo viene infine messo a tacere dal vescovo, che convince Vitangelo a devolvere tutti i propri beni alla costruzione di un ospizio per i poveri e a ritirarvisi lui stesso. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Il teatro: Maschere nude [1918-1938] Come per le novelle, così anche per il teatro Pirandello volle raccogliere i suoi lavori in un’edizione complessiva, con il titolo di Maschere nude; il progetto fu avviato nel 1918 con l’editore Treves, proseguì con Bemporad, fra il 1920 e il 1929, e quindi con Mondado-

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

ri. Un’edizione completa delle Maschere nude in dieci volumi uscì per Mondadori fra il 1933 e il 1938. Il titolo generale esprime in forma di ossimoro l’idea secondo cui la finzione drammaturgica svela l’altra finzione, di cui ognuno è protagonista nella vita in quanto interprete di un personaggio che si è assegnato o è costretto a ricoprire. Pirandello fu incoraggiato a dedicarsi al teatro da due conterranei: l’impresario Nino Martoglio e il capocomico Angelo Musco, per il quale compose diversi lavori in dialetto siciliano, ripresi in seguito in lingua italiana, tra cui ‘A birrita cu ‘i ciancianeddi e ‘U cuccu, che diverranno rispettivamente Il berretto a sonagli e La patente.

per evitare l’accusa di omicidio volontario a seguito dell’uccisione di un rivale in amore. La «trilogia del teatro nel teatro» È questa la definizione sotto la quale Pirandello riunì tre drammi che hanno tutti come oggetto il mondo del teatro: Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930). In tutti, l’autore, autocitandosi in chiave ironico-pubblicitaria, mette a tema il rapporto fra vita e teatro e l’inevitabile travisamento dell’idea originaria dell’autore operato da attori e regista durante la rappresentazione di un’opera teatrale. Nei Sei personaggi in cerca d’autore i protagonisti sono appunto dei personaggi rifiutati dal loro creatore i quali, per non svanire nel nulla, convincono un capocomico e la sua compagnia (impegnati nelle prove del Giuoco delle parti di Luigi Pirandello) a mettere in scena la loro vicenda. L’esito è drammaticamente deludente, perché la verità della tragedia vissuta dai personaggi viene completamente travisata dagli attori e dal regista, a dimostrazione del fatto che la vita, quando si trasforma in teatro, assume una forma che la falsa, degradandosi nella caricatura di se stessa. In Ciascuno a suo modo Pirandello finge di mettere in scena un fatto di cronaca in modo tanto fedele da provocare le reazioni sdegnate dei reali protagonisti della vicenda, che impongono la sospensione dello spettacolo. In realtà la rappresentazione, più che sul palcoscenico, avviene all’esterno del teatro, al botteghino e nei corridoi, dove attori mescolati al pubblico danno vita ad animate discussioni con ingiurie e schiamazzi, trasformando per la prima volta il pubblico da spettatore in attore. Infine in Questa sera si recita a soggetto Pirandello riflette sul ruolo del regista, che spesso si appropria dell’opera di un autore per creare arbitrariamente qualcosa di originale e personale. In questo caso il protagonista, Hinkfuss, convince una compagnia di attori a recitare una novella (di Pirandello stesso) “a soggetto”, improvvisando nei modi dell’antica Commedia dell’arte sulla base di un canovaccio. In preda a una sorta di delirio di onnipotenza, Hinkfuss pretende di controllare ogni aspetto della messa in scena e, anche dopo essere stato cacciato dal palcoscenico dalla reazione insofferente degli attori, continua a guidare la rappresentazione da dietro le quinte.

Il teatro grottesco I primi lavori importanti, come Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare), entrambi del 1917, rientrano nel cosiddetto “teatro grottesco”, che si affermò durante la Grande guerra e decretò la fine, attraverso la sua deformazione caricaturale, del teatro borghese ottocentesco, in particolare denunciando la doppiezza della classe borghese e la finzione che domina le relazioni sociali. Nel Berretto a sonagli il protagonista è Ciampa, un marito disposto ad accettare la relazione della moglie con il suo principale, a patto che rimanga segreta e che la sua immagine non sia compromessa agli occhi della gente; quando però la moglie del principale minaccia di rendere la relazione di pubblico dominio, Ciampa si vede costretto a interpretare il ruolo del marito tradito e a minacciare di uccidere gli amanti, a meno che la signora non accetti di farsi passare per pazza, così da troncare ogni pettegolezzo. Due temi emergono con chiarezza: il ruolo del pregiudizio sociale, che imprigiona l’uomo in un ruolo obbligandolo a recitare una parte anche suo malgrado, e la pazzia, vera o presunta, vista come un mezzo di straniamento dalla realtà. Ciampa afferma infatti che ciascuno ha nella testa come tre «corde d’orologio»: la «civile», quella della finzione sociale e dell’ipocrisia dei rapporti quotidiani; la «seria», quella del ragionamento cui si ricorre per chiarire le situazioni problematiche; la «pazza», che si scatena allorché i rapporti tra le persone raggiungono il punto di rottura e non esistono altre valvole di sfogo. I drammi della pazzia Il tema della pazzia è ricorrente nel teatro di Pirandello, che indaga in particolare l’ambiguo rapporto tra questa e la cosiddetta “normalità”. In Così è (se vi pare) i due protagonisti, la signora Frola e il signor Ponza, suo genero, sostengono ciascuno in modo estremamente lucido e persuasivo la pazzia dell’altro, rendendo impossibile al pubblico comprendere da che parte stia la “verità”. Nell’Enrico IV (1922) il protagonista, a seguito di una caduta da cavallo durante una sfilata in costume, impazzisce credendo di essere davvero l’imperatore dell’XI secolo; una volta rinsavito continua però nella finzione, dapprima «per ridersi entro di sé degli altri che lo credono pazzo», e alla fine G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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La stagione dei «miti» Nelle sue ultime opere Pirandello sentì il bisogno di andare oltre la denuncia e la demistificazione dei principi fondanti della società borghese per avanzare, in chiave utopistica, proposte di salvezza collettiva. Lo stesso autore definì «miti», nel senso di grandi allegorie di una possibile rinascita del genere umano, tre drammi: La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (rimasto incompiuto). La nuova colonia pone a tema un’utopia di carattere politico-sociale: un gruppo di contrabbandieri e una

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Luigi Pirandello Sintesi svolta

prostituta sbarcano su un’isola dove tentano di creare un nuovo modello di società, basato su libertà, pace e giustizia; il progetto è però vanificato dal riaffiorare degli antichi egosimi che condannano la comunità all’autodistruzione. Al terremoto finale che inghiotte l’isola scampano solo la prostituta e suo figlio, simbolo del futuro dell’umanità: una conclusione che lascia aperto uno spiraglio di speranza. Lazzaro pone invece a tema un’utopia di carattere religioso; il dramma ruota intorno a due “miracoli”: il miracolo della scienza, che mediante un’iniezione restituisce la vita a Diego privandolo però al contempo degli scrupoli morali, e il miracolo della fede, che consente a Lucio, figlio di Diego, di superare una crisi vocazionale e addirittura di guarire la sorella paralitica. Pirandello qui prende le distanze dalla religione confessionale, fatta di dogmi, riti e precetti, per volgersi con interesse a una religione dell’operosità quotidiana, fatta di gesti di misericordia e di amore. Nei Giganti della montagna Pirandello esplora infine la possibilità di una redenzione dell’umanità per mez-

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zo dell’arte, interrogandosi sul destino dell’arte stessa nella moderna società del profitto. Uno di fronte all’altro stanno il mago Cotrone con i suoi Scalognati, incarnazione dell’idea che la purezza dell’arte vada preservata nell’isolamento, e Ilse con la sua compagnia di attori girovaghi, i quali invece pensano che l’arte possa essere strumento di cambiamento dell’umanità. Convinti di avere una missione sociale da compiere, Ilse e i suoi attori decidono di rappresentare in tutti i teatri del mondo La favola del figlio cambiato (ancora una precedente opera di Pirandello, la cui paternità viene però attribuita a un poeta morto suicida per amore). Ma Ilse viene sbranata dal popolo che vive sulla montagna sotto il governo dei giganti, simbolo di un mondo brutale e imbarbarito. Nelle figure dei giganti e dei loro servi si è voluta vedere un’allusione al regime fascista, basato sulla violenza e la forza; inoltre nel rifiuto della Favola che avrebbe portato alla salvezza, si è voluto riconoscere un riflesso del fallimento del progetto di un teatro di stato, accarezzato da Pirandello nei suoi ultimi anni di vita.

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I classici • Giuseppe Ungaretti Sintesi svolta

GIUSEPPE UNGARETTI PERCHÉ UNGARETTI È UN CLASSICO?

diso perduto” al di fuori del tempo e della storia di cui l’uomo conserva nostalgicamente una memoria profonda e ancestrale. Il poeta vive in prima persona gli orrori della storia, si fa carico delle tragedie e del dolore del mondo, ma sempre guardando oltre, sempre mirando a calarsi negli abissi dell’anima alla ricerca del senso ultimo della vita. La poesia è per lui un’esperienza interiore, che consiste nel ritrovare il ricordo dell’innocenza della creazione sepolto nel cuore dell’uomo.

1. Perché occupa un fondamentale ruolo storico: i movimenti del primo Novecento (crepuscolari, futuristi, vociani) hanno chiuso con il passato, Ungaretti ha aperto vie nuove. 2. Per l’essenzialità e la purezza cui ha saputo ricondurre la parola poetica, avvolta dal silenzio e caratterizzata da un’estrema densità semantica. 3. Per avere dato espressione ai drammi storici e alle ansie esistenziali dell’uomo contemporaneo, privo di certezze ma assetato di assoluto.

La forza evocativa della parola e del silenzio Essendo quella poetica un’esperienza di tipo mistico, risulta ineffabile: il poeta può solo suggerirla attraverso frammenti evocativi, e attraverso il silenzio più ancora che la parola. Le poesie di Ungaretti procedono per lampi, illuminazioni folgoranti, le parole che egli riesce, a fatica, a strappare al silenzio non formano quasi mai un discorso filato, ma appaiono isolate da lunghe pause. La brevità di queste poesie è frutto di un faticoso scavo, lo stile appare laconico, perché il linguaggio, di fronte all’ineffabilità dell’esperienza poetica, è impotente. Ma in questo modo il poeta restituisce alle parole una straordinaria densità semantica, una forza evocativa fuori del comune, come fossero pronunciate per la prima volta. Ungaretti ricorre inoltre al linguaggio dei simbolisti, attraverso un sistema analogico fondato dapprima sulla similitudine, ma che poi evolverà verso accostamenti più ellittici. Ciò che non si può dire esplicitamente viene suggerito in maniera figurata, attraverso l’allusione simbolica.

LA VITA [1888-1970] Le molte patrie Ungaretti ebbe molte “patrie”: Lucca, città natale dei suoi genitori; Alessandria d’Egitto, dove nacque, nel 1888, e visse fino a 24 anni; Parigi, dove si trasferì per completare gli studi; il Friuli, dove combatté durante la Prima guerra mondiale; Roma, dove si trasferì nel dopoguerra; San Paolo del Brasile, dove insegnò dal 1937 al 1942. Nelle sue liriche volle riassumere questa esistenza “girovaga” associando a dei fiumi le tappe della sua vita: il Serchio, il Nilo, la Senna, l’Isonzo, il Tevere, il Rio Tietê. L’esperienza del dolore La lunga vita di Ungaretti fu funestata da drammatici eventi storici e personali: all’età di due anni perse il padre, visse gli orrori della guerra di trincea, durante gli anni brasiliani perse il fratello e il figlio, conobbe infine la tragedia della Seconda guerra mondiale.

LE OPERE

I riconoscimenti e la fama Ungaretti vide riconosciuti i suoi meriti in Italia a partire dagli anni quaranta, quando, a guerra ancora in corso, ottenne la cattedra di letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma e fu nominato Accademico d’Italia. Nel secondo dopoguerra divenne addirittura una celebrità: ottenne riconoscimenti in tutto il mondo e nel 1962 venne eletto all’unanimità presidente della Comunità europea degli scrittori.

Il porto sepolto [1916] Genesi e struttura Comprende liriche composte per lo più in zona di operazioni belliche, disposte in ordine cronologico, con l’indicazione del luogo e del giorno di stesura. La raccolta ha dunque la forma di un diario, particolarmente adatta a esprimere l’esperienza maturata in trincea dal poeta come soldato e l’idea dell’estrema precarietà della vita che nasce dall’esperienza della guerra. Il soldato è in contatto continuo con la morte, non è padrone del proprio destino, non può realisticamente fare progetti, si limita a vivere momento per momento e a godere intensamente i rari istanti di pace e di riposo, come fossero l’ultimo desiderio accordato a un condannato a morte.

LE COSTANTI LETTERARIE Alla ricerca del “paradiso perduto” Nucleo centrale della poesia di Ungaretti è il bisogno di risalire a un originario stato di purezza, un “paraG. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Giuseppe Ungaretti Sintesi svolta

Sentimento del tempo [1943]

I testi della raccolta sono incastonati in una cornice, formata da due coppie di liriche cui Ungaretti assegna funzioni di dedica e di enunciazione della propria poetica.

I temi La raccolta riunisce liriche composte fra il 1919 e il 1935; ebbe due edizioni negli anni trenta (1933 e 1936), ma assunse la forma definitiva solo nella terza, del 1943. Genesi della raccolta è il trasferimento del poeta a Roma, avvenuto nel 1921. Ungaretti, che pochi anni dopo quel trasferimento si convertì al cattolicesimo, ammise che anche il suo ritorno alla fede fu dovuto all’immersione nel clima della Roma barocca, dominata dal senso della fugacità del tempo e della precarietà della vita terrena; la sua tormentata religiosità oscilla sempre fra il timore del giudizio divino e un bisogno di redenzione che può nascere solo dalla misericordia e dal perdono di Dio. Temi dominanti sono il confronto fra l’effimero e l’eterno, il senso della caducità che introduce all’orrore della morte, ma anche al mistero della risurrezione e della gloria eterna. Per il poeta, la storia dell’umanità si riduce a un instancabile tentativo di vincere l’orrore per il vuoto, generato dalla percezione dell’annullarsi di ogni cosa nella morte. Dio, concepito come «Plenitudine», gli appare come l’unico a poter colmare questo vuoto. Il clima romano suggerisce anche al poeta un ritorno ai miti e alle divinità della tradizione classica: in essi egli rappresenta i propri stati d’animo, avvolgendoli in un alone favoloso che alimenta la “poetica della lontananza” caratteristica di questa raccolta.

I temi Ungaretti chiarisce la propria concezione della poesia evocando l’antico porto di Alessandria d’Egitto, da secoli inghiottito dalle acque. Come l’archeologo, per raggiungerlo, si deve immergere in fondo al mare, così il poeta deve scendere nelle profondità della propria anima, dove è rimasta l’eco della creazione, risalendo ai primordi del mondo, alla condizione originaria di innocenza. Il tema della guerra lascia spazio a domande sull’anima, su Dio, sulla morte, sul destino. Nel poeta l’esperienza della guerra non fa che raddoppiare il desiderio di rinascita, il bisogno di innocenza. Il linguaggio La sintassi è caratterizzata da frasi brevi e giustapposte, in rapporto analogico, da abbondanza di frasi nominali, dalla soppressione della punteggiatura. La metrica, dal verso libero e di misura breve, spesso ridotto a una sola parola. Il lessico, da parole quotidiane ma evocative, potenziate dalla coincidenza con il verso e dalla collocazione nello spazio vuoto. In seguito Ungaretti ricondusse il linguaggio di queste poesie alle condizioni di estrema precarietà in cui erano nate. In realtà egli subì anche l’influsso di precedenti esperienze letterarie: dal verso libero di Lucini al verso breve di D’Annunzio, dalla lezione dei simbolisti francesi a quella delle avanguardie del primo Novecento, fino agli haiku giapponesi. Obiettivo del poeta è isolare la singola parola, addirittura la singola sillaba, per lasciarla risuonare come fosse pronunciata per la prima volta, eco di una lingua primigenia e incontaminata. Il poeta si configura come un nuovo Adamo, capace di rigenerare la lingua logorata dall’uso, rendendo alle parole la loro originaria purezza.

Il linguaggio Il “ritorno all’ordine”, proprio della letteratura del primo dopoguerra, si realizza in un’amplificazione della sintassi, in un lessico più ricercato e raro, in una metrica che recupera le misure tradizionali del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, in generale in una poesia che si fa più “canto”. Tutto ciò non è però mai ricerca formale fine a se stessa; compito del poeta rimane quello di «trovare nelle parole un’eco dell’essere».

L’allegria [1931]

L’ultima stagione

Nel 1919 Ungaretti decise di pubblicare in un’unica raccolta e in una versione accresciuta tutte le poesie composte fino a quel momento: uscì quindi la raccolta Allegria di naufragi, riedita successivamente (1931, 1936, 1942) con il titolo L’allegria. Il titolo originario della raccolta, Allegria di naufragi, è un ossimoro con cui Ungaretti voleva sottolineare l’istintiva reazione di attaccamento alla vita scaturita dalla costante esperienza dell’annientamento che caratterizza la guerra. La vita si fa più preziosa e viene più intensamente goduta nella misura in cui se ne prova per esperienza diretta la precarietà. Il termine «naufragio» assume inoltre una valenza polisemica, alludendo ora ai frangenti drammatici dell’esistenza, ora a una redenzione dopo la morte e al ritorno all’originaria innocenza perduta. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Il dolore [1947] La raccolta comprende tre sezioni dedicate ai drammi personali del poeta (in modo particolare la morte del fratello e del figlio) e tre dedicate al dramma collettivo della Seconda guerra mondiale. Le poesie oscillano fra il disperato tormento per le perdite subite e la certezza cristiana della risurrezione e della vita eterna. Gli eventi bellici sono letti come conseguenza dell’allontanamento dell’uomo dalla legge divina; permane tuttavia la speranza cristiana della misericordia di Dio, unita a un profondo bisogno di redenzione. Le poesie dedicate ai lutti familiari riprendono il lessico immediato e l’andamento diaristico della prima produzione; più criptici appaiono i testi in cui il poeta

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Giuseppe Ungaretti Sintesi svolta

medita in termini metafisici sulla morte. Nelle poesie dedicate alla guerra il poeta adotta un insolito registro di alta eloquenza per richiamare i propri simili.

che Ungaretti vede come dolorosamente vuota a causa delle perdite subite, ma anche come tempo di una raggiunta saggezza che gli permette di prepararsi alla morte come a una liberazione.

La terra promessa [1950] Il tema dominante dell’opera, rimasta frammentaria; doveva essere ancora quello della vanità dei beni terreni. I personaggi, ripresi dal mito di Enea, dopo essersi lasciati sviare da mete ingannevoli, comprendono infine che la vera «terra promessa» è quella che attende l’uomo alla fine dei tempi.

Il taccuino del vecchio [1960] La parte più cospicua della raccolta sono gli Ultimi cori per la terra promessa. Ungaretti abbandona il mito di Enea per rifarsi alla tradizione biblica, ritrovando la propria storia nelle dolorose vicende del popolo ebraico e avviandosi con serenità alla «terra promessa» del paradiso. Molti versi hanno il carattere di un vero e proprio testamento, proiettati oltre la soglia della morte.

Un grido e paesaggi [1952] La raccolta inaugura le poesie della vecchiaia, età

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VOLUME  3b Il Novecento. Il secondo periodo (1919-1943)

I classici • Eugenio Montale Sintesi svolta

eugenio montale PERCHÉ MONTALE È UN CLASSICO?

Irma Brandeis, cui si legò e che gli ispirò molte liriche della nuova raccolta Le occasioni (1939). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale fu dapprima costretto a lavori saltuari (collaborazioni editoriali, traduzioni), poi, nel 1940, richiamato alle armi e infine congedato nel 1942. Nel 1943 uscì la raccolta Finisterre, stampata in Svizzera per aggirare la censura stante il carattere polemico di diverse liriche. Furono anni dolorosi sotto il profilo personale: perse la madre e la sorella, e anche Irma, che tornò in America per evitare le persecuzioni razziali. Montale fu tentato di seguirla, poi preferì rimanere a Firenze accanto a Drusilla, che aveva minacciato il suicidio.

1. Perché offre al lettore una testimonianza acuta delle paure, dei desideri e delle attese dell’uomo contemporaneo. 2. Perché, da osservatore critico e attento, ha fornito un bilancio degli eventi più drammatici del XX secolo, di cui è stato testimone diretto. 3. Perché, rielaborando liricamente i contenuti del suo vissuto, ha illustrato i tratti salienti della condizione umana di ogni tempo. 4. Perché dai suoi testi si ricava una sommessa ma preziosa lezione di libertà e di dignità.

Il secondo dopoguerra Dopo un breve impegno politico, fra il 1944 e il 1946, tra le file del Partito d’azione, nel 1948 si trasferì a Milano prendendo le distanze da ogni idelogia e preferendo una vita appartata. A Milano collaborò con il “Corriere della sera”, conobbe la poetessa Maria Luisa Spaziani, pubblicò la raccolta di poesie La bufera e altro e le prose della Farfalla di Dinard (1956) e sposò Drusilla Tanzi (1962), che morì pochi mesi dopo. Furono anni di prestigiosi riconoscimenti: la laurea in lettere honoris causa (1961), il premio internazionale Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1962), la nomina a senatore a vita (1967), infine il premio Nobel (1975). Nel frattempo andava pubblicando le ultime raccolte di prose – Auto da fé (1966) e Fuori di casa (1969) – e di poesia – Satura (1971), Diario del ‘71 e del ‘72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977), Altri versi (1980) –. Morì nel 1981 a Milano ed ebbe l’onore dei funerali di stato in duomo.

LA VITA [1896-1981] Formazione culturale ed esordio poetico Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 da famiglia borghese. Diplomatosi in ragioneria nel 1915, rinunciò ad affiancare il padre nella ditta di famiglia e proseguì la sua formazione da autodidatta, approfondendo in particolare i poeti simbolisti francesi, i romanzi di Svevo e i filosofi Nietzsche e Schopenhauer. Chiamato alle armi nel 1917, dopo la guerra frequentò i principali letterati di Genova e iniziò a pubblicare (1922-23) le prime poesie, in cui prevale un senso di smarrimento di fronte ai misteriosi meccanismi che governano l’esistenza umana. Nel 1925 pubblicò la raccolta Ossi di seppia e il saggio Stile e tradizione, in cui prospetta un rinnovamento dall’interno della tradizione letteraria europea, in sintonia con le riflessioni dell’inglese Thomas Stearns Eliot.

LE COSTANTI LETTERARIE

 all’avvento del fascismo alla Seconda guerra D mondiale Sempre nel 1925 prese le distanze dal fascismo firmando il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Trasferitosi nel 1927 a Firenze, trovò lavoro presso l’editore Bemporad, conobbe Drusilla Tanzi, cui si legò sentimentalmente, e strinse rapporti con Gadda, Vittorini, Palazzeschi, Gatto e Quasimodo, entrando a far parte del gruppo di “Solaria”. Approfondì in questo periodo la lettura di Pound, Proust, Valéry, Kafka e, soprattutto, Eliot, riflettendo sul rapporto fra linguaggio quotidiano e linguaggio poetico e fra ispirazione poetica e riflessione filosofica. Nel 1929 ottenne la direzione del Gabinetto Vieusseux, una delle più prestigiose istituzioni culturali fiorentine, da cui fu allontanato dieci anni dopo e sottoposto a regime di sorveglianza speciale dalle autorità fasciste. Aveva intanto conosciuto la studiosa americana, di origini ebraiche, G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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La funzione della poesia Già nel saggio Stile e tradizione (1925) Montale, in polemica con l’estetismo dannunziano e con lo sperimentalismo delle avanguardie italiane e francesi, sosteneva la valenza morale e conoscitiva della letteratura, sull’esempio di Dante e Leopardi: il poeta è uomo «disincantato, savio e avveduto», chiamato a capire e a interpretare il presente. Il “classicismo” montaliano Montale stesso dichiarò nel 1946 di considerare il classicismo una sorta di antidoto contro ogni eccesso di soggettivismo ed esagerazione sentimentale, per assicurare alla poesia obiettività e resistenza al tempo e alle mode; solo le forme della tradizione possono assicurare alla scrittura la tenacia e la solidità ne-

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cessaria per potersi far carico dei drammi dell’uomo contemporaneo.

LE OPERE

Il “correlativo oggettivo” Il “correlativo oggettivo” è la tecnica espressiva che Montale utilizzò a partire dalle poesie inserite nella seconda edizione di Ossi di seppia (1928), per la quale gli oggetti veicolano un senso ulteriore al di là del loro significato elementare; gli oggetti quotidiani divengono epifanie che alludono a ciò che la sensibilità del poeta non riesce a esprimere altrimenti. Di questa tecnica Montale è debitore in particolare a Eliot, ma anche a Proust, a Joyce e alla Woolf. Il linguaggio poetico montaliano è, in generale, estremamente ricco e articolato: il poeta ha fra i suoi modelli Dante e gli stilnovisti, Petrarca, Leopardi, fra gli italiani; Shakespeare, Donne, Browning, Baudelaire, fra gli stranieri.

Ossi di seppia [1925-1948] La struttura Formata da testi composti prevelentemente dopo il 1920, la raccolta ebbe quattro edizioni: nel 1925, 1928 (con l’aggiunta di sei nuove liriche), 1931 e 1948. Le poesie sono riunite in quattro sezioni: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre, precedute e seguite da due liriche isolate, In limine e Riviere. I temi Gli «ossi di seppia» del titolo, gettati sulla spiaggia, alludono all’essenziale che si rivela una volta consumato il superfluo. Scegliendo una poesia antiretorica, che aderisce alla realtà quotidiana e cerca una verità sommessa nascosta dietro le apparenze, Montale rifiuta il prototipo dannunziano del poeta vate; nessuna pretesa ideologica, quindi, ma al contrario la registrazione del negativo («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»; da Non chiederci la parola). La raccolta è pervasa da un disagio esistenziale, un «male di vivere», condizione di chi nella realtà non trova nulla in cui riporre fiducia; chiuso nella prigione dell’isolamento e dell’incomunicabilità, al poeta non resta che sperare nell’aprirsi miracoloso di un «varco» che gli schiuda una via di fuga. La volontà di partecipare comunque alla vita, di aprirsi alla relazione con il prossimo, emerge dal continuo riferirsi del poeta a un “tu”, spesso femminile, figura impalpabile e legata alla memoria più che alla realtà. Riconoscendosi debole e fragile, il poeta affida a lei speranze, ideali e aspirazioni che si sente incapace di realizzare di persona.

Temi e motivi L’ispirazione montaliana ruota attorno a tre poli: il rapporto con la natura, l’esperienza dell’amore e il miracolo, ossia il desiderio di libertà. La ricerca della verità muove in Montale dal rifiuto assieme della visione materialistico-positivistica della realtà e di quella derivante dalla religione cattolica o dalle ideologie ottocentesche. L’interrogativo centrale è se l’uomo sia libero oppure costretto a obbedire a forze superiori; la risposta non è univoca: Montale oscilla fra l’angoscia soffocante del prigioniero (il «male di vivere»), la speranza di trovare un varco, una via di fuga, e l’attesa del «miracolo». La scrittura montaliana persegue tutto questo senza farsi mai astratta, ma rimanendo sempre all’interno di un orizzonte concreto segnato dal paesaggio, dalla natura, dalla storia civile. Il “fantasma salvifico” Il «male di vivere», tema dominante in Ossi di seppia, è per Montale malattia individuale ma, soprattutto, indica il disorientamento della cultura europea fra le due guerre, da cui nasce insicurezza, isolamento, incomunicabilità; per sfuggire a tutto questo Montale si pone in attesa di un “liberatore”. In Ossi di seppia tuttavia questa attesa è destinata ad andare delusa; invece nelle Occasioni la rottura dell’ordine negativo è affidata all’avvento di un personaggio esterno, un “fantasma salvifico”, capace di comprendere e dominare la realtà. Questo “fantasma” assume progressivamente tratti femminili; è la donna che sa condividere la sofferenza umana per il male del mondo, rimanendone però incontaminata, sorta di nuova Beatrice dantesca. Con questa figura Montale intreccia un rapporto ambiguo, oscillante fra speranze di salvezza e timori di dimenticanza e abbandono. Infine in Satura alle figure femminili mitizzate, angelicate e miracolose si sostituisce il “fantasma” più vicino e consolatore della moglie morta; accantonata l’attesa di una rivelazione metafisica, Montale sceglie l’accettazione del mistero, forse insolubile, della vita. G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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Le forme Montale adotta uno stile duro e asciutto, che rifugge da ogni facile musicalità e costituisce il corrispettivo formale del contenuto, in quanto specchio della disarmonia del mondo. La sintassi è prevalentemente ipotattica e la frequenza di condizionali e ipotetiche testimonia le incertezze esistenziali del poeta. Lo sperimentalismo lessicale è bilanciato dalla solidità delle soluzioni metriche: Montale preferisce il recupero della tradizione e rifiuta la strada ungarettiana della dissoluzione delle forme.

Le occasioni [1939] La struttura La raccolta comprende circa cinquanta liriche composte fra il 1926 e il 1939, suddivise ancora in quattro sezioni e introdotte da una lirica proemiale, Il balcone, che enuncia il tema fondamentale: l’attesa di una presenza d’amore capace di salvare l’uomo dal nulla. Il titolo sottolinea come ogni testo sia legato a una particolare occasione, da intendersi come un istante fatale

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luogo alla guerra, ma diviene anche emblema di tutte le forme che il dolore può assumere nella vita dell’uomo; così anche il nazifascismo appare una manifestazione del male assoluto e metafisico.

dell’esistenza in cui appare all’improvviso possibile intravedere una realtà diversa e afferrare un senso. Rispetto a Ossi di seppia muta il paesaggio (dalla Liguria alla Toscana) e la riflessione del poeta acquista una maggiore dimensione politica e sociale.

I temi La violenza e la follia della guerra e le speranze, presto deluse, della ricostruzione costituiscono lo sfondo storico della raccolta; in questo quadro, la donna (Clizia) rappresenta la speranza e la consolazione. Non si tratta più però di una creatura pura e intatta, subisce anch’essa, ora, la negatività della vita e della storia, ma a questa negatività si ribella, incarnando il coraggio, oltre alla fermezza e alla generosità: solo la tenacia dell’amore può ribaltare il segno negativo della storia. A volte questa figura femminile sembra acquisire un valore religioso, di mediatore fra l’uomo e Dio: la sua luce nel buio dell’esistenza umana appare come il sigillo di Dio creatore. A questa figura femminile se ne contrappongono altre, come Volpe, dai caratteri antitetici (corporeità, sensualità, animalità).

I temi La prima sezione contiene riflessioni sulla precarietà del destino dell’uomo. Nella seconda sezione, Mottetti, costituita da brevi poesie di squisita eleganza e intensa musicalità, domina il personaggio di Clizia, pseudonimo di Irma Brandeis, e il tema della lacerazione, dell’umana richiesta d’amore forse destinata a rimanere inappagata. Nella terza sezione, la collina fiorentina di Bellosguardo stimola il poeta alla contemplazione, ma il turbamento predomina sulla serenità. L’ultima sezione, infine, è pervasa dalla percezione dell’incombente tragedia della guerra. La raccolta appare come un canzoniere d’amore ambientato in tempi minacciosi, un dialogo a distanza con la donna amata che si svolge negli anni oscuri dell’affermazione del nazifascismo. Il poeta appare diviso fra la dolorosa constatazione dell’involuzione politica e civile della società e il sentimento di amore verso una donna (figura dietro la quale si celano diverse donne reali conosciute da Montale) percepita ora come ricordo, ora come figura angelica, simbolo di una bellezza e una purezza ideali non raggiungibili, ma capaci di dare un senso alla vita, di preservare l’uomo dalla follia e di consentirgli di sopravvivere all’inferno.

Le forme Ancora una volta le scelte formali nascono da un’esigenza di aderenza al contenuto; a una realtà tragica e lacerata corrisponde un linguaggio poetico in cui registri diversi si alternano e si scontrano continuamente, creando una studiata disarmonia. Interessato non ai fatti in sé, ma al loro significato profondo, Montale rinuncia alla cronaca e alla descrizione, evocando la guerra solo per via metaforica; essa infatti è in realtà il segno di un principio infernale, di un Assoluto che è istanza cattiva e perversa.

Le forme Montale ha ormai raggiunto la piena maturità espressiva; sulla scorta di Hölderlin, Leopardi e Valéry, il suo stile poetico appare caratterizzato da nitidezza formale, raffinata musicalità e rigore logico-argomentativo. Da Eliot Montale riprende l’uso del «correlativo oggettivo», cercando di oggettivare i propri sentimenti e di tradurre il proprio mondo interiore in oggetti e immagini di forte valenza allegorica. Ne risulta un linguaggio difficile, allusivo e a volte oscuro, che ha fatto accostare le poesie di Montale a quelle dei poeti ermetici. Il lessico in particolare è ricco, spesso ricercato e colto, la rima predilige soluzioni foneticamente intense, la sintassi evidenzia strutture di straordinaria densità e complessità.

L’ultima stagione poetica Dopo diversi anni di silenzio, Montale pubblicò le sue ultime cinque raccolte di versi in dieci anni: Satura (1971), Diario del ‘71 e del ‘72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977), Altri versi e Poesie disperse (1980). Lo stile è radicalmente mutato, per adattarsi al nuovo orizzonte culturale dominato dall’avvento della società di massa. Dai toni sublimi e tragici Montale passò a toni umili e comici («I primi tre libri sono scritti in frac, gli altri in pigiama [...]: ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta»). Satura [1971] Il titolo rimanda a un genere letterario della poesia latina dedicato alla rappresentazione mordace dei vizi e dei desideri umani. Montale adotta un linguaggio semplice e quotidiano per parlare, con tono sarcastico e amaro, dei piccoli accadimenti della vita quotidiana. Estraneo a un mondo che non riesce a capire e che lo disgusta, il poeta sembra abbandonarsi al pessimismo: nulla di angelico o di miracoloso può trovare spazio in un mondo segnato dalla banalità e dalla volgarità («non può nascere l’aquila /

La bufera e altro [1956] La struttura La raccolta comprende cinquantotto liriche, composte fra il 1940 e il 1954 e suddivise in sette sezioni: Finisterre (pubblicata inizialmente in forma autonoma nel 1943 e poi nel 1945), Dopo, Intermezzo, “Flashes” e dediche, Silvae, Madrigali privati, Conclusioni provvisorie; domina la figura di Clizia, ma anche un personaggio femminile a lei antitetico come Volpe (Maria Luisa Spaziani). La «bufera» del titolo allude in primo G. Langella, P. Frare, P. Gresti, U. Motta letteratura it Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

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dal topo»). Anche la presenza femminile perde i suoi tratti angelicati per farsi figura quotidiana e concreta, come nelle poesie dedicate alla moglie morta, in cui vengono rievocate le piccole avventure di un’esistenza normale.

grande rilievo: il boom economico, la crisi della fede religiosa, la cultura di massa, l’invadente diffusione della tecnologia, il tramonto della cultura classica. Solo chi rifiuta i condizionamenti delle mode, secondo Montale, può leggere una realtà tanto complessa e in così rapida trasformazione. Assumendo il ruolo del moralista, negli scritti giornalistici condanna lacune, vizi e crimini del suo tempo, dominato da meschinità e squallore, presunzioni ideologiche, rifiuto del pensiero, egoistica indifferenza per la sofferenza altrui. Di fronte a questo stato di cose bisogna accettare l’esistenza in tutta la sua complessità e le sue contraddizioni, e sforzarsi di leggere a fondo la realtà senza perdere mai di vista i valori supremi della verità e della giustizia.

Diario del ‘71 e del ‘72 [1973] Continua la nuova ispirazione autobiografica e diaristica di Satura: Montale consegna a queste liriche il proprio autoritratto, denunciando al tempo stesso un mondo dominato dalla legge del profitto e invitando il lettore a non arrendersi e a ostinarsi nella ricerca del senso autentico della vita. Quaderno di quattro anni [1977] La tensione critica e polemica lascia il posto al ricordo e alla riflessione: il vecchio poeta oscilla tra bilanci del passato e progetti per il futuro, affrontando la vita con disincanto e distacco e accettando il proprio destino di uomo nella sua misteriosa incomprensibilità.

Altre raccolte – Farfalla di Dinard (1956): raccolta di racconti autobiografici ed elzeviri già usciti sulle pagine del “Corriere della sera”; Montale riporta aneddoti che nascono spesso dalla memoria ed episodi d’infanzia con un linguaggio deformante e grottesco. – Auto da fé (1966): raccolta di testi saggistici. – Fuori di casa (1969): raccolta di prose di viaggio scritte durante le missioni all’estero come inviato del “Corriere”.

Montale prosatore Gli scritti giornalistici Assunto nel 1948 come redattore del “Corriere della sera”, Montale scrisse numerosi articoli su temi di

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