Dimmi chi sono  
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Zitiervorschau

Julia Navarro

DIMMI CHI SONO Traduzione di Elena Rolla

ISBN 978-88-04-61132-5

© 2010, Julia Navarro Fernández © 2010, Random House Mondadori, S.A. ©2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale Dime quién soy I edizione giugno 2011 PiBiBooks

MONDADORI

Quando Guillermo, giovane giornalista di Madrid, riceve da una ricca zia l'incarico di indagare sulla vita della bisnonna Amelia Garayoa, della quale non si sa più nulla da molti anni, non immagina quanto straordinaria sia l'esistenza di questa donna misteriosa e affascinante. Per riscattarla dall'oblio in cui è caduta, Guillermo ricostruisce la sua storia pezzo per pezzo, come un immenso e straordinario puzzle. Amelia, nata nel 1917 da un'ottima famiglia madrilena, dopo essersi infatuata di un rivoluzionario franco-spagnolo alla vigilia della Guerra civile, non esita ad abbandonare marito e figlio - il padre di Guillermo facendo perdere le sue tracce e diventando un tabù per l'intera famiglia. Come ben presto Guillermo scoprirà, questo è solo l'inizio di un percorso estremamente avventuroso che la porterà in tutto il mondo: da Madrid a Barcellona, da Parigi a Mosca, attraverso Berlino, Londra, Varsavia, Buenos Aires e il Messico. Borghese e rivoluzionaria, sposa e amante, spia e assassina, Amelia è una donna fuori dal comune, un'antieroina per eccellenza, che attraversa da protagonista alcuni tra i maggiori eventi del Novecento, come la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda, la caduta del Muro di Berlino. Sempre al fianco degli uomini della sua vita e sempre fedele ai suoi principi, Amelia non smetterà di pagare in prima persona per le proprie contraddizioni e i propri errori. Ben costruito, dal tono vibrante e appassionato, Dimmi chi sono è un romanzo di spionaggio e intrigo allo stato puro, di amori tragici, di avventura e storia, l'opera più ambiziosa e personale di Julia Navarro, che regala al lettore pagine emozionanti e coinvolgenti.

A mia madre, senza di lei non sarei arrivata fin qui. Ai miei nonni Teresa e Jerónimo, per l'affetto e la generosità, e per tutto quello che mi hanno insegnato. E alla mia cara amica Susana Olmo, per tutte le risate condivise.

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare Riccardo Cavaliere per il sostegno e la fiducia nei miei romanzi. Ha il talento di rendere facili le cose difficili. E, come sempre, la squadra di Random House Mondadori, che ha reso possibile questo romanzo. Grazie a tutti per l'aiuto e a Cristina Jones per la pazienza. Grazie anche a Fermin e ad Alex, che mi stanno sempre vicino.

GUILLERMO

1

«Sei un fallito.» «Sono una persona perbene.» Mia zia alzò gli occhi dal foglio che teneva in mano. L'aveva letto come se il contenuto fosse per lei una novità, ma non lo era. In quel curriculum era riassunta la mia breve e disastrosa vita professionale. Mi osservò incuriosita e continuò a leggere, però io sapevo che non c'era molto altro da scoprire. Mi aveva dato del fallito non con l'intenzione di offendermi, ma come se stesse constatando un dato di fatto. L'ufficio di mia zia era opprimente. In realtà, a mettermi a disagio era il suo atteggiamento altezzoso e distaccato: sembrava che il successo nella vita le desse il diritto di guardare il resto della famiglia dall'alto in basso. Mi era antipatica, ma nemmeno io ero mai stato il suo nipote preferito, per questo mi ero stupito quando mia madre mi aveva detto che sua sorella voleva vedermi urgentemente. La zia Marta era diventata la matriarca della famiglia e dominava persino gli altri due fratelli, lo zio Gaspar e lo zio Fabián. Veniva consultata per qualunque cosa, e nessuno prendeva mai una decisione senza il suo consenso. A dire il vero, io ero l'unico che la evitava e che, al contrario dei miei cugini, non cercava la sua approvazione. Ma lei era lì, orgogliosa di aver salvato e triplicato il

patrimonio familiare, una ditta di compravendita e riparazione di macchinari, grazie, tra l'altro, al suo provvidenziale matrimonio con quel brav'uomo di suo marito, lo zio Miguel, per il quale provavo una segreta simpatia. Lo zio Miguel aveva ereditato alcuni stabili nel centro di Madrid che, attraverso gli affitti, gli garantivano un'ottima rendita mensile. A parte le riunioni periodiche con l'amministratore delle sue proprietà, non aveva mai lavorato. Le sue uniche preoccupazioni consistevano nel collezionare libri rari, giocare a golf e sfuggire con ogni minimo pretesto allo sguardo vigile della zia Marta, a cui era stato ben felice di delegare gli incontri mensili con l'amministratore, sapendo che lei possedeva l'intelligenza e la passione necessarie ad avere successo in qualunque cosa facesse. «E così il tuo fallimento lo chiami essere una persona perbene. Allora credi che tutti quelli che hanno successo non siano perbene?» Stavo per dire di sì, ma se l'avessi fatto avrei avuto dei problemi con mia madre, perciò decisi di sfumare la mia risposta. «Vedi, nella mia professione la gente perbene di solito resta senza lavoro. Non hai idea di come si sia ridotto il giornalismo in questo paese. O ti schieri a destra, oppure a sinistra. Non sei altro che un burattino nelle mani degli uni o degli altri. Cercare semplicemente di raccontare quello che succede ed esprimere opinioni sincere porta all'emarginazione e alla disoccupazione.» «Ti ho sempre considerato di sinistra» disse mia zia, con una punta di sarcasmo. «E adesso sono loro al potere...» «Già, ma il governo vuole che i giornalisti allineati chiudano gli occhi e la bocca davanti ai loro errori. Criticarli implica la proscrizione. Smettono di considerarti uno di loro e, ovviamente, visto che non stai nemmeno dalla parte degli altri, ti ritrovi in una terra di nessuno, cioè disoccupato, come me.» «Nel curriculum c'è scritto che adesso lavori per un giornale on line. Quanti anni hai?»

Quella domanda mi infastidì. Sapeva perfettamente che ero sulla trentina, il più anziano dei cugini, ma era il suo modo di esprimere il disinteresse che nutriva nei miei confronti. Perciò decisi di non dirle la mia età, visto che la conosceva. «Sì, faccio il critico letterario per un giornale su internet. Non ho trovato nient'altro, ma almeno non devo chiedere a mia madre i soldi per comprarmi le sigarette.» La zia Marta mi fissò a lungo, come se mi vedesse per la prima volta, e sembrò esitare prima di decidersi a farmi la sua proposta. «Bene, voglio darti un lavoro, per di più ben pagato. Confido che tu sia all'altezza di quel che ci aspettiamo da te.» «Non so cosa intendi offrirmi, ma la mia risposta è no: detesto gli uffici stampa aziendali. Se sono venuto a trovarti, è perché me l'ha chiesto mia madre.» «Non voglio offrirti un posto nell'azienda» rispose, come se quella fosse l'idea più folle del mondo. «Allora...» «Allora voglio affidarti un incarico per la famiglia, una cosa più personale. Una faccenda privata, a dire il vero.» La zia continuava a guardarmi, ancora dubbiosa sul fatto che darmi quel compito fosse una buona idea. «Dovresti indagare su una vecchia storia familiare: una storia che riguarda la tua bisnonna, mia nonna.» Non sapevo cosa dire. La bisnonna era un argomento tabù in famiglia. Non si parlava mai di lei, e io e i miei cugini non eravamo riusciti a scoprire quasi nulla su quel misterioso personaggio, riguardo al quale era vietato fare domande e di cui non esisteva nemmeno una fotografia. «La bisnonna? E su cosa bisogna indagare?» «Sai che sono io ad avere quasi tutte le foto di famiglia, e avevo pensato di fare un regalo ai miei fratelli, per il prossimo Natale. Perciò mi sono messa a riguardare le vecchie fotografie per farne delle copie. Ho rovistato anche fra le carte e i documenti di mio padre, perché ricordavo di averne viste altre

fra le sue cose, e in effetti ne ho trovata qualcuna e... Be', in mezzo alle scartoffie c'era una busta chiusa, l'ho aperta e dentro ho trovato questa...» Si voltò verso lo scrittoio e prese una busta da cui estrasse una fotografia. Me la porse con un po' di esitazione, come se mi considerasse maldestro e temesse che quell'immagine non fosse al sicuro nelle mie mani. Il ritratto aveva i bordi strappati e si era ingiallito col passare del tempo, ma la fanciulla che vi era ritratta sorridente, vestita da sposa e con il bouquet in mano, non aveva perso il suo fascino. «Chi è?» «Non lo so. Be', pensiamo che possa essere nostra nonna, la tua bisnonna... L'ho fatta vedere a tua madre e ai miei fratelli e siamo tutti d'accordo che nostro padre le somigliava. Insomma, abbiamo deciso che sia giunta l'ora di scoprire cos'è successo a nostra nonna.» «Così, all'improvviso? Non avete mai voluto dirci niente su di lei, e adesso trovi una foto che pensi possa essere della nostra antenata e decidi che bisogna scoprire quel che è successo.» «Tua madre ti avrà raccontato qualcosa su di lei...» «Mia madre mi ha raccontato le stesse cose che tu hai raccontato ai tuoi figli: praticamente niente.» «Ma nemmeno noi ne sappiamo molto. Nostro padre non ci parlava mai di lei. Il passare del tempo non ha lenito il dolore della sua perdita.» «A quanto ne so, non l'ha mai conosciuta. Non lo abbandonò quand'era appena nato?» La zia Marta non sapeva se raccontarmi tutto quello che sapeva o mandarmi via all'istante. Probabilmente pensava che non fossi la persona adatta ad affrontare la faccenda. «Quello che sappiamo» rispose «è che nostro nonno, cioè il tuo bisnonno, si occupava di importazione e vendita di macchinari, soprattutto provenienti dalla Germania. Viaggiava molto e di solito non diceva quando partiva né tanto meno quando pensava di tornare. Come puoi immaginare, sua moglie

non ne era contenta.» «È impossibile che lei non fosse informata. Se lui preparava la valigia, suppongo che gli chiedesse dove andava. Almeno, di solito si fa così.» «No, lui non faceva così. Il tuo bisnonno diceva di avere la valigia nel portafoglio, cioè gli bastavano i soldi che portava con sé, quindi non aveva bisogno di preparare nulla: di volta in volta comprava quel che gli serviva. Non so perché si comportasse così, ma immagino che fosse fonte di conflitti nella coppia. Come ti dicevo, il tuo bisnonno era molto intraprendente e ingrandì l'azienda, non solo con la vendita di macchinari industriali, ma anche con le riparazioni, e in quel momento in Spagna c'era bisogno di tutto. Un giorno partì per uno dei suoi viaggi. Durante le sue assenze, la moglie conduceva la vita che a quei tempi ci si aspettava da una ragazza nella sua posizione. A quanto sappiamo, si recò a casa di amici. All'epoca le visite erano un divertimento innocente e soprattutto a basso costo. Si andavano a trovare gli amici o i familiari, di pomeriggio, e loro ricambiavano la visita qualche giorno dopo, e in questo modo i salotti delle case si trasformavano in luoghi di incontro. In una di quelle occasioni lei conobbe un uomo. Ignoriamo chi fosse e di cosa si occupasse. Una volta sentimmo dire che era un marinaio dell'esercito argentino. Sembra che lei se ne sia innamorata e sia fuggita con lui.» «Ma il nonno era già nato... Aveva un figlio.» «Sì, e molto piccolo. Lo affidò alle cure della balia, Águeda, la donna che tuo nonno credeva fosse sua madre finché, da grande, venne a sapere la verità. Il tuo bisnonno conviveva con Águeda e da lei ebbe una figlia, la zia Paloma, sorellastra di tuo nonno: conosci quel ramo della famiglia.» «In realtà no, non vi è mai interessato molto che ci conoscessimo. Li ho visti solo a qualche funerale» risposi con una certa insolenza, per provocarla. Ma la zia Marta non cedeva alle provocazioni se non aveva interesse a farlo, quindi mi guardò con un lampo di stizza e

proseguì nel racconto come se nulla fosse. «Tuo nonno decise di cambiare il cognome della madre, per questo il suo secondo cognome è Fernández. Quando si cambia cognome, bisogna sceglierne uno comune.» «Non ho mai saputo come si chiamasse davvero» risposi, stufo di quella conversazione. «Non lo abbiamo mai saputo neanche noi.» Il tono di voce della zia Marta sembrava sincero. «E come mai, adesso, avete tutto questo interesse per la storia di vostra nonna?» «La foto che ti ho mostrato ci ha convinti a prendere la decisione. Ne ho fatto delle copie; te ne darò una, potrebbe servirti per le indagini. Crediamo si tratti di lei, ma se non lo è fa lo stesso: è arrivata l'ora di sapere.» «Sapere cosa?» Mi divertiva cercare di innervosirla. «Chi siamo» rispose la zia. «A me non importa un accidente di cosa ne è stato della bisnonna. Io so chi sono e questo non potrà certo cambiare, qualunque cosa abbia fatto quella donna tanti anni fa.» «E a me non importa che non t'importi. Se ti affido questo lavoro è perché non si sa cosa scoprirai, e preferisco che i panni sporchi, se ce ne sono, si lavino in famiglia. Per questo non assumo un detective. Non ti sto chiedendo un favore, ti sto offrendo un lavoro. Sei un giornalista: saprai come investigare. Ti pagherò tremila euro al mese, spese escluse.» Ammutolii. la zia mi aveva fatto un'offerta che non potevo rifiutare. Non avevo mai guadagnato tremila euro, neppure quando facevo il reporter per la televisione. E adesso che la mia situazione lavorativa era pessima, e tiravo avanti grazie alla collaborazione con un giornale in rete che mi pagava a stento cinquecento euro al mese, saltava fuori lei come il serpente che aveva tentato Eva. Avrei voluto dirle di no, che poteva tenersi i suoi soldi, ma pensai a mia madre, che ogni mese doveva prestarmi il denaro per permettermi di pagare il mutuo dell'appartamento che avevo comprato. Mi consolai dicendomi

che in fondo non c'era niente di disonorevole nell'indagare sul passato della mia bisnonna. Sarebbe stato peggio accettare un lavoro in cambio di qualche ruffianata al politico di turno. «Credo che un paio di mesi dovrebbero bastarti, no?» si informò la zia Marta. «Non preoccuparti, non penso che ci metterò tanto a scoprire qualcosa su quella brava signora. Per mia sfortuna, magari tra qualche giorno avrò già finito le indagini.» «Io voglio di più» disse mia zia in tono minaccioso. «Cosa?» chiesi guardingo, come se di colpo mi fossi svegliato da un sogno: nessuno paga tremila euro al mese per sapere che fine ha fatto la nonnina. «Dovrai scrivere la storia di mia nonna. Puoi farlo sotto forma di romanzo, o come vuoi tu, ma scrivila. La rilegheremo e sarà il mio regalo di Natale per la famiglia.» Sottoposi mia madre a un interrogatorio approfondito per cercare di farle ricordare il più possibile di suo padre, cioè mio nonno. Lei si premurò di attribuirgli ogni virtù, tentando di rinfrescarmi la memoria. Io me lo ricordavo alto, magro, molto impettito e di poche parole. Un giorno mi dissero che il nonno aveva avuto un incidente d'auto: rimase paralizzato e fu costretto su una sedia a rotelle fino alla morte. Da bambino, tutte le domeniche andavo con mia madre a casa del nonno per il pranzo di famiglia, dove mi toccava assistere a interminabili chiacchierate che mi annoiavano a morte. Il nonno mangiava in silenzio, osservandoci tutti, e interveniva solo ogni tanto. La zia Marta era la minore dei figli. A quell'epoca era nubile e viveva con lui, per questo aveva assunto il controllo dell'azienda del nonno, così come di quella casa enorme e buia. Insomma, non serbavo alcun ricordo che potesse darmi un indizio sulla madre del nonno, la misteriosa signora che un bel giorno era scomparsa abbandonandolo alle cure della balia.

Devo confessare che cominciai le ricerche di malavoglia, forse perché ero davvero poco interessato a scoprire cosa avesse combinato la mia antenata. Iniziai l'indagine nel posto più ovvio: mi recai negli uffici dell'anagrafe per richiedere una copia dell'atto di nascita di mio nonno. In genere sull'atto di nascita compare sempre il nome dei genitori, quindi era il modo migliore per sapere come si chiamasse la madre di mio nonno. Mi chiedevo perché non lo avesse fatto anche la zia Marta, invece di dare tremila euro a me perché andassi all'anagrafe. Una solerte impiegata frustrò il mio ottimismo informandomi che non si poteva avere l'atto di nascita di una persona morta. «E perché desidera vedere il documento del signor Javier Carranza Fernández?» «È mio nonno, insomma... era mio nonno, le ho già detto che è morto quindici anni fa.» «Sì, è per questo che le chiedo perché vuole il suo atto di nascita.» «Sto ricostruendo l'albero genealogico della famiglia, ma c'è un problema: mio nonno aveva cambiato il cognome materno per motivi familiari. In realtà non si chiamava Fernández, e sto cercando di scoprire quale fosse il suo vero cognome.» «Be', non può farlo!» «E perché no?» «Se, come lei dice, suo nonno ha cambiato cognome, allora la sua pratica sarà archiviata presso un altro registro, e la può consultare solo il diretto interessato. Oppure ci vuole un mandato giudiziario.» «È chiaro che l'interessato non può richiedere un bel niente» risposi scocciato. «Già.» «Senta, era mio nonno, si chiamava Fernández e non so perché. Non crede che abbia il diritto di sapere qual era il nome

della mia bisnonna?» «Guardi, non ho idea di quali siano i suoi problemi familiari e nemmeno mi interessa. Mi limito a fare il mio mestiere e non sono autorizzata a darle l'atto di nascita originale di suo nonno. E adesso, se non le dispiace, ho molto lavoro...» Quando lo raccontai a mia madre, mi accorsi che non era affatto sorpresa di come erano andate le cose con l'impiegata, ma almeno mi diede una pista utile per cominciare. «Il nonno, proprio come noi e anche voi, i suoi nipoti, è stato battezzato nella chiesa di San Giovanni Battista. Ed è lì che si è sposato, e ci siamo sposati noi, e spero che un giorno ti sposerai anche tu.» Non le dissi che, per il momento, il mio unico impegno serio era con la banca che mi aveva concesso il prestito per comprarmi l'appartamento. Avevo acceso un mutuo da pagare per i successivi trent'anni. La chiesa di San Giovanni Battista aveva urgente bisogno di riparazioni alla cupola: me lo disse don Antonio, il vecchio parroco, che si lamentava del disinteresse dei fedeli per le condizioni dell'edificio. «La gente fa sempre meno elemosina. Una volta si trovava con grande facilità un benefattore che si accollasse questi problemi, ma adesso... adesso i ricchi preferiscono creare fondazioni per poter scaricare le donazioni dalle tasse frodando il fisco e non danno più un centesimo per queste cose.» Lo ascoltai pazientemente, perché quel povero vecchio mi era simpatico. Mi aveva battezzato, dato la prima comunione e, se fosse stato per mia madre, mi avrebbe pure sposato, ma non credevo che avrebbe retto un'attesa così lunga. Don Antonio si lamentò per un bel po' prima di chiedermi cosa volessi. «Ho bisogno di visionare il certificato di battesimo di mio

nonno Javier.» «Tuo nonno è stato generoso con questa parrocchia» ricordò don Antonio. «Ma a cosa ti serve il suo certificato di battesimo?» «Mia zia Marta vuole che scriva la storia della famiglia e ho bisogno di sapere alcune cose» decisi di rispondere dicendo quasi tutta la verità. «Temo che non sarà facile.» «Perché?» «Tutti i vecchi documenti si trovano negli archivi in cantina; durante la guerra i registri parrocchiali sono stati messi a soqquadro. Bisognerebbe fare un po' d'ordine nella roba che c'è là sotto, ma il vescovo non vuole mandarmi un prete giovane esperto di archivi e io non ho più l'età per occuparmi di tanti documenti e scartoffie. E poi, naturalmente, non intendo lasciarti curiosare a tuo piacimento.» «Non le prometto niente, ma posso parlare con mia zia Marta. Magari può aiutare la parrocchia assumendo una bibliotecaria o un'archivista che la aiuti a riordinare le carte...» «Sarebbe bello, ma non credo che a tua zia importi molto dello stato dei documenti di questa parrocchia, tanto più che non la si vede spesso da queste parti.» «Glielo chiederò comunque. Tentare non costa nulla.» Don Antonio mi rivolse uno sguardo pieno di gratitudine. Era buono come il pane, uno di quei preti la cui umanità giustifica l'esistenza della Chiesa cattolica. «Che Dio ti benedica!» esclamò. «Ma nel frattempo le sarei grato se mi lasciasse cercare il certificato di battesimo di mio nonno. Le prometto che non andrò a ficcare il naso nei documenti che non riguardano quello che mi interessa.» Il vecchio sacerdote mi osservò a lungo, per saggiare l'onestà delle mie intenzioni. Sostenni il suo sguardo sfoggiando il mio sorriso migliore. «D'accordo, ti lascerò entrare in cantina, ma devi darmi la

tua parola che cercherai solo il certificato di battesimo di tuo nonno e non ti metterai a curiosare... mi fido di te.» «Grazie. Lei è un prete fantastico, il migliore che abbia mai conosciuto!» esclamai, pieno di riconoscenza. «Non credo che tu conosca molti preti, visto che non frequenti spesso la chiesa, perciò direi che non è una statistica attendibile» replicò don Antonio con ironia. Prese le chiavi della cantina e mi guidò lungo una scala nascosta sotto una botola nella sacrestia. Una lampadina che dondolava appesa a un filo era l'unica luce in quel luogo pieno di umidità che, proprio come la cupola della chiesa, avrebbe avuto bisogno di un bel restauro. C'era puzza di chiuso e faceva freddo. «Dovrà dirmi dove devo cercare.» «C'è un po' di disordine... In che anno è nato tuo nonno?» «Mi pare nel 1935...» «Poveretto! Alla vigilia della guerra civile. Brutto momento per venire al mondo.» «E quando mai ce n'è uno buono?» ribattei tanto per dire qualcosa, ma subito mi resi conto che era una stupidaggine, perché don Antonio mi guardò severamente. «Non dire così! Proprio tu! Voi giovani d'oggi non siete consapevoli dei privilegi di cui godete, vi sembra naturale avere tutto... per questo non apprezzate nulla» borbottò. «Ha ragione... Ho detto una sciocchezza.» «Ebbene sì, figliolo, hai detto una sciocchezza.» Don Antonio controllava archivi, ispezionava scatole allineate contro la parete, apriva bauli... Io lo lasciavo rovistare, in attesa che mi dicesse cosa fare. Infine, mi indicò tre schedari. «Credo che lì dentro ci sia il registro dei battesimi di quegli anni. Sai, alcuni bambini furono battezzati molto tempo dopo la nascita, non so se fu anche il caso di tuo nonno. Se non lo trovi lì, dovremo cercare nelle scatole.» «Spero di avere fortuna...»

«Quando cominci?» «Adesso, se non le dispiace.» «Bene, devo prepararmi per la messa di mezzogiorno. Quando ho finito, scendo a vedere come va.» Rimasi solo, in quel lugubre sotterraneo, pensando che i tremila euro della zia Marta me li sarei abbondantemente guadagnati. Passai tutto il mattino e parte del pomeriggio a rovinarmi gli occhi sul registro dei battesimi, scolorito dal passare del tempo, ma non riuscii a trovare nulla su mio nonno Javier. Alle cinque del pomeriggio il bruciore agli occhi si era fatto insopportabile e la fame mi attanagliava lo stomaco con tanta insistenza che non riuscii più a ignorarla. Tornai in sacrestia e chiesi di don Antonio alla perpetua che stava piegando i paramenti della messa. «È andato in canonica a riposare, fino alle otto non c'è messa. Mi ha chiesto di dirglielo, se l'avessi vista. Se vuole andare da lui, segua il corridoio e bussi alla prima porta che trova. Mette in comunicazione la chiesa con l'abitazione di don Antonio.» La ringraziai per le indicazioni, anche se conoscevo perfettamente la strada. Trovai il sacerdote con un libro in mano, ma sembrava dormisse. Lo chiamai per metterlo al corrente del fallimento delle mie ricerche e gli chiesi il permesso di tornare il giorno dopo, di buon'ora. Don Antonio mi diede appuntamento alle sette e mezzo, prima della messa mattutina. Quella sera telefonai alla zia Marta per chiederle di fare una donazione alla chiesa di San Giovanni Battista. Quella richiesta la fece infuriare e mi rinfacciò una scarsa considerazione per i soldi di famiglia. Le mentii, dicendole che don Antonio era indispensabile per le indagini che stavo svolgendo e che a mio parere dovevamo dargli un contentino affinché collaborasse. Pensai che il povero prete ci sarebbe rimasto male a sentirmi parlare così di lui, ma non sarei riuscito a convincere altrimenti

la zia Marta. A lei importava poco della bontà di don Antonio e delle sue difficoltà nel mandare avanti la chiesa. Perciò la persuasi a fare una donazione per far riparare la cupola. Impiegai ben quattro giorni a trovare il tanto agognato certificato di battesimo di mio nonno. Mi innervosii, perché all'inizio non ero sicuro che fosse quello che cercavo. Considerato che mio nonno aveva cambiato il cognome di sua madre con uno più comune, cioè Fernández, ci misi un po' prima di capire che quel Javier Carranza era la persona che stavo cercando. È vero che i cognomi Carranza e Garayoa non sono molto diffusi, soprattutto a Madrid, ma inizialmente non mi ci ero soffermato a causa del Garayoa. Adesso però sapevo che la madre di mio nonno si chiamava Amelia Garayoa Cuní. Mi stupì che avesse un cognome basco e un altro catalano. Strano connubio, pensai. Estrassi dalla busta la foto che mi aveva dato la zia Marta, come se l'immagine della fanciulla potesse confermarmi che era davvero lei quell'Amelia Garayoa Cuní che nel certificato di battesimo di mio nonno era indicata come sua madre. La ragazza della fotografia doveva essere stata davvero molto attraente, o almeno così sembrava a me, visto che ormai avevo deciso che si trattava della mia bisnonna. Lessi il registro dei battesimi diverse volte, fino a convincermi che era quello che stavo cercando. "Javier Carranza Garayoa, figlio di Santiago Carranza Velarde e di Amelia Garayoa Cuní. Battezzato il 18 novembre 1935 a Madrid." Sì, non c'era alcun dubbio, era mio nonno, e Amelia Garayoa era sua madre, che aveva abbandonato il marito e il figlio per fuggire, a quanto si diceva, con un marinaio. Mi sentii soddisfatto di me stesso e pensai di essermi meritato i primi tremila euro promessi da mia zia. Adesso dovevo decidere se renderla partecipe della mia scoperta o se continuare le ricerche prima di rivelarle il nome

della nostra antenata. Chiesi a don Antonio se mi lasciava fotocopiare la pagina su cui era annotato il battesimo di mio nonno e, dopo aver giurato solennemente che gli avrei restituito il registro intatto e al più presto, me ne andai. Ne feci diverse copie, poi fui io a insistere affinché don Antonio tenesse il registro originale sotto chiave, ma a portata di mano in caso ne avessi avuto ancora bisogno. Ormai sapevo come si chiamava la mia bisnonna. Adesso dovevo trovare qualche indizio su di lei e pensai che per prima cosa avrei potuto cercare altri membri della sua famiglia. Avrà avuto dei fratelli? Dei cugini? Dei nipoti? Non avevo proprio idea se il cognome Garayoa fosse molto comune nei Paesi Baschi, ma mi conveniva fare al più presto un viaggetto da quelle parti. Avrei chiamato tutti i Garayoa sull'elenco, anche se non avevo ancora deciso che cosa dire ai miei interlocutori... ammesso che avessero risposto. Prima di partire, pensai di dare un'occhiata all'elenco telefonico di Madrid. In fin dei conti, la mia bisnonna aveva vissuto qui e aveva sposato un madrileno. Forse c'era qualche parente... Non mi aspettavo che saltasse fuori qualcosa, ma con mia sorpresa trovai due famiglie Garayoa. Mi appuntai i numeri di telefono e gli indirizzi mentre pensavo a come procedere. Potevo telefonare, oppure potevo presentarmi direttamente per vedere cosa succedeva. Optai per la seconda ipotesi e decisi che il giorno dopo avrei provato al primo indirizzo.

2

Il palazzo era situato nel quartiere di Salamanca, la zona ricca di Madrid. Passeggiai un po' lì davanti, cercando di appuntarmi ogni dettaglio dell'edificio e soprattutto chi entrava e usciva, ma alla fine ottenni solo di farmi notare dal portinaio. «Aspetta qualcuno?» mi chiese seccato. «In realtà no... o meglio, sì. Ecco, il fatto è che non so se in questo palazzo abita la famiglia Garayoa.» «E lei chi è?» ribatté, e a quel punto capii che lì viveva davvero qualcuno di nome Garayoa. «Un lontano parente. Potrebbe dirmi chi dei Garayoa abita qui?» Il portinaio mi squadrò da capo a piedi, cercando di convincersi che ero una persona a cui si poteva dare una simile informazione, ma non riuscì a fugare tutti i dubbi, così gli mostrai la mia carta d'identità. L'uomo la guardò e me la restituì immediatamente. «Ma lei non si chiama Garayoa...» «Garayoa era la mia bisnonna, Amelia Garayoa... Senta, facciamo così: lei parla con i Garayoa che abitano in questa casa e, se mi consentono di salire a trovarli, lo faccio, in caso contrario me ne vado.» «Aspetti qui» mi ordinò, e dal suo tono di voce dedussi che non voleva che entrassi nel portone. Impaziente, aspettai in strada chiedendomi chi vivesse in quella casa, se una vecchia nipote della mia bisnonna, o dei cugini, o semplicemente dei Garayoa che non avevano niente a che vedere con la mia famiglia. Forse, mi dissi, il cognome Garayoa nei Paesi Baschi era comune come Fernández lo era nel

resto della Spagna. Finalmente il portinaio venne a chiamarmi. «La signora dice di salire» mi annunciò, senza però mostrarsi ancora convinto. «Adesso?» chiesi sbalordito. In realtà non mi aspettavo di essere ricevuto, ma piuttosto che il portinaio mi intimasse di sparire. «Sì, adesso. Salga al terzo.» «Terzo piano a destra o a sinistra?» «La casa delle signore occupa tutto il piano.» Decisi di usare le scale, invece di prendere l'ascensore, per avere il tempo di pensare a cosa dire a chi viveva in quella casa, ma il mio comportamento accrebbe la diffidenza del portinaio. «Perché non prende l'ascensore?» «Mi piace fare esercizio» risposi sparendo dal raggio del suo sguardo inquisitore. Una donna di mezza età, vestita di grigio e con i capelli corti, aspettava davanti alla porta aperta. Notai che mi guardava con maggiore diffidenza del portinaio. «Le signore la riceveranno subito. Prego, si accomodi.» «E lei chi è?» indagai, incuriosito. La donna mi osservò disgustata prima di rispondere, come se la mia domanda avesse violato la sua intimità. «Sono la domestica, mi occupo di tutto quello che riguarda la casa e mi prendo cura delle signore. Aspetti in biblioteca.» Proprio come il portinaio, parlava di "signore", il che mi faceva supporre che lì abitassero due o più donne. Mi condusse in una sala spaziosa, con vecchi mobili di mogano e le pareti ricoperte di libri. Un divano in pelle marrone scuro e due poltrone occupavano un'estremità della stanza. «Si sieda, avvertirò le signore che lei è qui.» Non mi sedetti, ma andai a curiosare tra i libri rilegati in pelle. Notai che, a parte quelli, in biblioteca non c'erano altri

oggetti, nemmeno un soprammobile o un quadro. Niente. «Le interessano i libri?» Mi voltai imbarazzato, come un bambino sorpreso con le dita nel vaso della marmellata. Balbettai un "sì" osservando la donna che mi aveva parlato. Il suo aspetto non ne rivelava chiaramente l'età: poteva avere cinquanta come sessantanni. Alta, magra e con i capelli castani, indossava un elegante completo giacca e pantaloni e, come unici ornamenti, un paio di orecchini e un anello di brillanti. «Mi scusi se la disturbo, mi chiamo Guillermo Albi.» «Sì, così ha detto il portinaio. So che gli ha fatto vedere la carta d'identità.» «Era perché si fidasse, insomma, per dimostrargli che non sono un pazzo.» «Be', certo è un po' strano che lei si presenti in questa casa chiedendo se qui vive qualcuno della famiglia Garayoa e affermando che la sua bisnonna era Amelia Garayoa...» «Anche se può sembrare strano, è la verità. Sono il bisnipote, o almeno credo, di Amelia Garayoa. Lei sa chi è?» La donna fece un largo sorriso e mi guardò divertita. «Sì, so chi è Amelia Garayoa» rispose. «In realtà sono io, ed è evidente che non posso essere la sua bisnonna.» Rimasi senza parole. Quindi quella donna, che d'improvviso mi parve somigliante a mia zia Marta, era Amelia Garayoa, e in effetti, vista la sua età, era impossibile che fosse la mia bisnonna. «Lei si chiama Amelia Garayoa?» «Sì, qualcosa in contrario?» mi chiese in tono ironico. «No, no, niente affatto. Mi scusi, ma... insomma, è un casino.» «Tanto per cominciare, mi piacerebbe sapere a cosa si riferisce dicendo "è un casino" e, in secondo luogo, lei chi è? Cosa vuole?» La domestica entrò in biblioteca prima che potessi rispondere. «Le signore la aspettano in salotto» annunciò solennemente.

Amelia Garayoa mi guardò, indecisa se condurmi nell'altra stanza dove evidentemente altre donne attendevano. «Le mie zie sono molto anziane, hanno entrambe superato i novant'anni, e non vorrei che turbasse la loro tranquillità...» «No, non è mia intenzione, io... vorrei spiegarvi perché mi trovo qui.» «Sì, sarebbe proprio il caso che lo facesse» ribatté seccamente. Uscì dalla biblioteca e io la seguii, imbarazzato. Mi sentivo un intruso che stava per fare una figuraccia. Il salotto era spazioso, con due grandi vetrate, ma l'attenzione era catalizzata da un imponente camino di marmo in cui crepitava la legna. Ai lati c'erano due poltrone bergère e davanti al fuoco un divano di pelle nera. Sedute nelle poltrone c'erano due anziane signore che sembravano gemelle. Avevano entrambe i capelli bianchi, raccolti a crocchia. Indossavano gonne nere identiche, a cui una aveva abbinato un golfino bianco e l'altra uno grigio. Tutte e due mi guardavano incuriosite, in silenzio. «Le presento le mie prozie» disse Amelia. «Questo giovanotto si chiama Guillermo Albi.» «Buon pomeriggio, scusate l'irruzione, vi ringrazio per avermi ricevuto.» «Si sieda» mi ordinò la più anziana, quella con il golfino bianco. «L'abbiamo ricevuta perché le mie zie hanno deciso così: io non ero favorevole all'idea di parlare con un estraneo» tagliò corto Amelia, mettendo bene in chiaro che, se fosse stato per lei, mi avrebbe spedito via subito. «Lo capisco. So che è insolito presentarsi a casa di qualcuno dicendo di aver avuto una bisnonna che di cognome faceva Garayoa e chiedendo sue notizie. Vi domando scusa e spero di non recarvi troppo disturbo.» «Che cosa vuole?» mi chiese la signora con il golfino grigio. «Innanzitutto, forse è meglio che vi dica chi sono... La mia famiglia possiede una piccola fabbrica, Máquinas Carranza,

diretta da mia zia Marta. Vi do l'indirizzo e il numero di telefono, così potrete indagare su di me, e tornerò quando saprete che sono una persona perbene e che la ragione della mia visita è del tutto rispettabile...» «Sì» disse Amelia «mi lasci tutti i suoi dati, è meglio. Il numero di telefono e...» «Non essere impaziente, Amelia» la interruppe la signora che indossava il golfino grigio «e lei, giovanotto, ci dica una buona volta che cosa vuole, chi sta cercando e come è riuscito a trovare questa casa.» «Sono Guillermo Albi e a quanto pare la mia bisnonna si chiamava Amelia Garayoa. Dico "a quanto pare", perché la mia bisnonna è un mistero, sappiamo poco o nulla di lei. In realtà, ho scoperto come si chiamava soltanto ieri, quando ho trovato il certificato di battesimo di mio nonno, su cui era indicato il nome di sua madre.» Estrassi dalla tasca della giacca una fotocopia del certificato e la porsi all'anziana con il golfino bianco. Lei inforcò gli occhiali che erano appoggiati sul tavolo e lesse attentamente il documento, poi mi fulminò con uno sguardo penetrante ed ebbi l'impressione che leggesse anche i miei pensieri più reconditi. Non riuscii a sostenere il suo sguardo, perciò mi misi a fissare il camino. Lei passò il documento alla signora con il golfino grigio, che a sua volta lo lesse scrupolosamente. «E così lei è nipote di Javier» esordì la signora col golfino grigio. «Sì. Lei lo conosceva?» chiesi. «E come si chiama la moglie di Javier?» continuò la donna, senza rispondere alla mia domanda. «La mia nonna materna si chiamava Jimena.» «Continui la sua storia» intervenne la signora col golfino bianco. «Vedete, mia zia Marta, che è la sorella di mia madre, poco tempo fa ha trovato una fotografia e ha pensato che potesse trattarsi della sua misteriosa nonna scomparsa. Poiché sono un

giornalista e adesso sto passando un brutto periodo, sono praticamente disoccupato, lei ha avuto l'idea di affidarmi le indagini sul conto di Amelia Garayoa. In realtà, né mia madre né i miei zii fino a ieri sapevano come si chiamasse la nonna. Il loro padre aveva cambiato cognome, sostituendo Garayoa con Fernández, e sembra che non parlasse mai di sua madre: in famiglia era un argomento tabù. Per un certo periodo Javier ha creduto che sua madre fosse Águeda, la balia, con cui il mio bisnonno aveva avuto un'altra figlia. Suppongo che sia stato molto duro scoprire che la sua vera madre l'aveva abbandonato. Nessuno dei suoi figli ha mai osato chiedergli cosa fosse successo, quindi in famiglia non abbiamo alcuna informazione.» «E perché sua zia Marta vuole sapere che fine ha fatto la madre di suo padre?» chiese Amelia Garayoa, la pronipote delle due anziane signore. «Perché, come vi ho detto, ha trovato una foto e ha pensato che io avrei potuto scrivere una storia, la storia di quella donna. Mia zia vuole regalarla ai suoi fratelli per il prossimo Natale. Sarà una sorpresa. E non voglio ingannarvi: a me importa poco di quello che ha fatto la mia bisnonna e dei motivi che l'hanno spinta ad abbandonare la sua famiglia, ma sto attraversando un brutto momento professionale e mia zia mi ricompenserà generosamente per questa storia. Ho un mutuo da pagare e, in effetti, mi vergogno di continuare a chiedere soldi a mia madre.» Le tre donne mi osservavano in silenzio. Mi resi conto che ormai ero in quella casa da più di mezz'ora e non avevo mai smesso di parlare, di spiegare chi fossi, mentre non sapevo ancora niente di loro. Che stupido! Mi ero confidato esponendomi al ridicolo, come un adolescente colto in fallo. «Ha con sé la foto che ha trovato sua zia?» si informò con voce tremante la signora con il golfino bianco. «Sì, ne ho con me una copia» risposi estraendola dalla tasca della giacca. La vecchia signora fece un largo sorriso osservando

l'immagine di quella ragazza vestita da sposa. Le altre due donne si avvicinarono per guardare la foto. Nessuna parlò, e il loro silenzio mi metteva a disagio. «La conoscete? Conoscete la ragazza del ritratto?» «Giovanotto, adesso vorremmo restare sole. Lei vuole sapere se conosciamo quell'Amelia Garayoa, che a quanto sembra era una sua parente... Può darsi, anche se il cognome Garayoa non è poi così raro nei Paesi Baschi. Se ci lascia la fotocopia del certificato di battesimo e la foto... ci sarà di grande aiuto» disse la signora in grigio. «Certo, non c'è problema. Credete che possa essere una vostra parente?» «Che ne dice di lasciarci il suo numero di telefono? Ci metteremo noi in contatto con lei» continuò l'anziana signora, senza rispondere alla mia domanda. Acconsentii. Non potevo fare altro. Amelia Garayoa si alzò dal divano per congedarmi. Chinai il capo davanti alle due vecchie signore, mormorai un "grazie" e seguii la donna elegante che mi aveva guidato fino in salotto. «È una bella coincidenza che lei si chiami come la mia bisnonna» osai dirle, a mo' di saluto. «Non creda. Nella mia famiglia ci sono molte Amelia: ho zie, cugine e nipoti con questo nome. Anche mia figlia si chiama Amelia Maria, come me.» «Amelia Maria?» «Sì, per distinguere un'Amelia dall'altra alcune si chiamano solo Amelia e altre Amelia Maria.» «E ha detto che quelle due signore sono le sue prozie?» Amelia esitò a rispondere. Alla fine parlò. «Sì. Questa è la casa di famiglia. Quando sono rimasta vedova, mi sono trasferita qui da loro... sono molto anziane. Mia figlia vive negli Stati Uniti. Siamo una famiglia molto unita: zie, cugine, nipoti... Insomma, ci vogliamo bene e ci prendiamo cura gli uni degli altri.» «È bello» replicai, tanto per dire qualcosa.

«Sono molto anziane» ripeté. «Hanno superato i novant'anni, anche se sono in buona salute» insisté. «Le telefoneremo» disse poi, chiudendo la porta. Quando fui in strada, ebbi la sensazione che mi avessero messo al tappeto. Mi sembrava di aver appena vissuto una situazione surreale, ma, del resto, surreali erano anche l'incarico di zia Marta e la mia sfacciataggine nel presentarmi in casa altrui a chiedere a delle sconosciute se sapevano qualcosa della mia bisnonna. Decisi di non informare mia zia: volevo almeno aspettare di capire se le signore mi avrebbero chiamato davvero oppure se mi avrebbero chiuso la porta in faccia per sempre. Per diversi giorni rimasi in attesa della telefonata, e più pensavo a quelle donne, più ero certo di avere trovato la pista giusta. Quello che non sapevo era dove mi avrebbe portato. «Guillermo Albi? Buongiorno, sono Amelia Maria Garayoa.» Non mi ero ancora alzato, erano le otto del mattino e il suono del telefono mi svegliò di soprassalto, ma ancora più grande fu la sorpresa di sentire la voce di Amelia Garayoa. «Buongiorno» balbettai, non sapendo cosa aggiungere. «L'ho svegliata?» «No, no... be', in realtà sì, ieri sera ho letto fino a tardi...» «Ah, va bene, va bene, non importa. Le mie zie vogliono vederla, hanno deciso di parlare con lei. Può venire oggi pomeriggio, per favore?» «Sì, certo!» «Perfetto. Se per lei va bene, l'aspettiamo alle cinque.» «Ci sarò.» Non riattaccò. Sembrò esitare prima di aggiungere qualcos'altro. Riuscivo a sentire il suo respiro. Quando infine parlò, la sua voce aveva cambiato tono. «Se fosse per me, lei non metterebbe più piede in casa nostra: credo che non farà che crearci problemi, ma le mie zie hanno deciso così e devo rispettare il loro volere. Sia chiaro,

però: se cerca di danneggiarci, la faccio fuori.» «Come ha detto?» chiesi, sconcertato da quella minaccia. «So che tipo è lei, un giornalista fallito, un individuo in difficoltà che ha avuto problemi con chiunque abbia lavorato. E le assicuro che, se il suo comportamento supererà i limiti che ritengo ragionevoli, farò l'impossibile affinché lei non trovi mai più un impiego per il resto della sua vita.» Riattaccò senza darmi il tempo di replicare. Per il momento, sapevo che Amelia Maria Garayoa aveva fatto delle indagini su di me, mentre io avevo commesso l'imprudenza di restarmene seduto in attesa di una telefonata, anziché cercare informazioni su quelle strane donne. Mi dissi che come giornalista investigativo non valevo un granché, ma, siccome ero sempre indulgente verso i miei difetti, mi dissi anche che non ero portato per l'investigazione, bensì per la cronaca politica. Andai a pranzo a casa di mia madre e finimmo per discutere del mio immediato futuro. Mia madre era contenta che avessi accettato la proposta della zia Marta, dal momento che significava guadagnare tremila euro al mese, ma mi ricordò che era un incarico a termine perché, appena avessi scoperto quattro cose sulla bisnonna e avessi scritto la sua storia, sarei dovuto tornare alla mia vita, e secondo lei non mi stavo dando abbastanza da fare per trovare un lavoro migliore di quello di critico letterario su un giornale on line. Mia madre pensava che pubblicazioni del genere non valessero niente, visto che a lei non sarebbe mai venuto in mente di accendere il computer per leggere un quotidiano, quindi il mio lavoro le sembrava inutile. In un certo senso aveva ragione, ma ero troppo nervoso per ascoltare le sue lamentele, e non volevo neppure parlarle della visita pomeridiana alle due vecchie signore. Ero sicuro che non avrebbe mantenuto il segreto e sarebbe andata a raccontarlo alla zia Marta. Mancava qualche minuto alle cinque quando varcai il portone

della casa delle Garayoa. Questa volta il portiere non fece storie. Mi venne ad aprire la domestica, che, con un rapido "buon pomeriggio" seguito da un "prego, si accomodi, le signore la aspettano", mi condusse nella sala del caminetto, dove ero già stato la volta precedente. Le due anziane donne mi accolsero con aria seria. Mi stupii di non vedere la nipote, Amelia Maria, e chiesi di lei. «È al lavoro, di solito finisce tardi. È un broker finanziario e a quest'ora segue le quotazioni della Borsa di New York» mi spiegò una delle due. Questa volta quella che sembrava la più vecchia era vestita di nero, mentre l'altra indossava un golfino grigio, leggermente più scuro di quello sfoggiato nella precedente occasione, con una collana di perle. «Le spieghiamo perché abbiamo deciso di parlare con lei» esordì la signora in nero. «Ve ne sono grato.» «Amelia Garayoa è... o, meglio, era una nostra parente. Ha sofferto molto quando ha dovuto separarsi da suo figlio Javier. Non se l'è mai perdonato. Non si può tornare indietro nel tempo per cambiare il passato, ma lei si è sempre sentita in difetto. Non ha mai potuto rimediare alla situazione, non sapeva come fare. Possiamo assicurarle che in tutta la sua vita non ha mai smesso nemmeno per un attimo di pensare a Javier.» Esitò un momento prima di proseguire. «La aiuteremo.» Le parole dell'anziana signora mi stupirono. Le pronunciò lentamente, come se le costassero una tremenda fatica, e, non so perché, sentii che rivangare il passato le avrebbe causato un immenso dolore. La signora in nero taceva e mi osservava, come se stesse cercando di raccogliere le forze per andare avanti. «Vi sono molto grato per l'aiuto...» dissi, non sapendo cos'altro aggiungere. «No, non ci ringrazi: lei è il nipote di Javier, e inoltre le

porremo delle condizioni» replicò la signora in grigio. Mi resi conto che la nipote, Amelia Maria Garayoa, non mi aveva detto i loro nomi. In effetti non me le aveva presentate, per questo mentalmente le identificavo con il colore dei vestiti. Non osavo chiedere come si chiamassero, vista la gravità del momento. «Inoltre, non sarà affatto facile venire a conoscenza della storia della sua bisnonna» intervenne di nuovo la signora vestita di nero. Rimasi perplesso per quest'ultima affermazione. Prima mi promettevano di raccontarmi la storia della mia antenata e poi mi annunciavano che sarebbe stato un percorso non privo di difficoltà: perché? «Noi non possiamo raccontarle ciò che non sappiamo, ma la aiuteremo a orientarsi. È meglio che sia lei stesso a scavare nel passato Amelia Garayoa, seguendo tutti i suoi passi, andando a trovare le persone che l'hanno conosciuta, sempre che siano ancora vive, per ricostruire la sua vita dall'inizio. Solo così potrà scrivere la sua storia.» A parlare era stata l'anziana signora in grigio. Avevo l'impressione di essere una marionetta nelle mani di quelle due donne: erano loro a muovere i fili, a dettare le condizioni che mi avrebbero permesso di affacciarmi nella vita della mia antenata, e a me non restava che piegarmi ai loro desideri. «D'accordo» dissi di malavoglia. «Cosa devo fare?» «Un passo alla volta, procederemo un passo alla volta» rispose la signora in grigio. «Prima di cominciare, deve darci la sua parola su alcune cose.» «Cosa devo promettervi?» «Innanzitutto deve impegnarsi a seguire le nostre indicazioni senza fiatare. Siamo molto anziane e non abbiamo voglia né tempo di convincerla di nulla, quindi si attenga alle nostre istruzioni e verrà a conoscenza di quanto è accaduto. In secondo luogo deve accettare che ci riserviamo il diritto di decidere cosa potrà fare del testo che scriverà.»

«Questo non ha senso! Perché aiutarmi a ricostruire la storia di Amelia Garayoa se poi non avrò la libertà di far vedere quello che scrivo alla mia famiglia?» «Lei non era certo una santa, ma nemmeno un mostro» mormorò la signora in nero. «Non ho alcuna intenzione di giudicarla. Può darsi che per voi sia una cosa tremenda che oltre settantanni fa una donna abbia lasciato la sua casa abbandonando il figlio e il marito, ma al giorno d'oggi non è un fatto così anomalo. Non credo che una donna possa venire accusata di essere un mostro perché si è allontanata dalla famiglia» protestai. «Sono le nostre condizioni» insisté la signora in grigio. «Non mi lasciate molta scelta...» «Non chiediamo una cosa poi tanto difficile...» «D'accordo, accetto, ma adesso vorrei che rispondeste voi a qualche domanda. In che rapporti eravate con Amelia Garayoa? L'avete conosciuta? E poi chi siete? Non so nemmeno i vostri nomi...» dissi in tono di protesta. «Vede, giovanotto, noi apparteniamo a un'epoca in cui la parola data aveva il valore di legge, quindi ci promette che accetta le nostre condizioni?» ripeté la signora in grigio. «Vi ho già detto di sì.» «Quanto a chi siamo, come lei avrà già intuito, siamo parenti in linea diretta di Amelia Garayoa e, pertanto, indirettamente sue parenti. In passato abbiamo condiviso con Amelia le sue inquietudini, le sue decisioni, i suoi errori, i suoi dolori... Si potrebbe dire che siamo le esecutrici testamentarie della sua memoria. La sua vita si è svolta in parallelo alla nostra. Non è importante chi siamo noi, ma chi era lei, e la aiuteremo a scoprirlo» affermò in tono deciso la signora in nero. «Quanto ai nostri nomi... Chiami me signora Laura e lei» la donna in grigio indicò l'altra «signora Amelia.» «Amelia?» ripetei sconcertato. «Mia nipote le ha già spiegato che nella nostra famiglia ci sono molte Amelia...» precisò la signora Laura.

«Posso sapere il perché di un attaccamento tanto grande a questo nome?» «Una volta era normale dare alle figlie il nome della madre, o della nonna, o della madrina, perciò nella nostra famiglia troverà parecchie Amelia e Amelia Maria. Infatti mia sorella si chiama Amelia Maria, anche se l'abbiamo sempre chiamata Melita per distinguerla da mia cugina Amelia, vero?» disse la signora Laura guardando l'altra anziana. Almeno adesso sapevo come si chiamavano le due vecchiette, che a quanto pareva erano sorelle. «Scusate se insisto, ma vorrei sapere esattamente quale legame di parentela avevate con la mia bisnonna. Ne deduco che foste le sue cugine...» «Sì, ed eravamo molto unite, ne può stare certo» rispose la signora Laura. «Bene, adesso che siamo giunti a un accordo, è meglio che si metta al lavoro. Le daremo un diario, che le servirà per cominciare a conoscere la sua bisnonna» annunciò la signora in nero. «Un diario? Di Amelia?» dissi, stupito. «Sì, di Amelia. Aveva cominciato a scriverlo da adolescente. Sua madre glielo aveva regalato quando aveva compiuto quattordici anni, e lei ne era felice, perché, tra le altre cose, sognava di diventare scrittrice.» La signora in nero sorrise a quel ricordo. «Scrittrice? A quell'epoca?» chiesi sorpreso. «Giovanotto, ovviamente saprà che ci sono sempre state donne che scrivevano, e quando si riferisce a "quell'epoca" non lo faccia come se si trattasse della preistoria» intervenne la signora Laura in tono irritato. «Allora, Amelia, la mia bisnonna, voleva diventare scrittrice...» «E attrice, e pittrice, e cantante... Aveva un'immensa voglia di vivere e un certo talento per l'arte. Il diario fu il regalo più bello tra quelli che ricevette per quel compleanno» continuò la

signora Melita «ma, come le abbiamo già detto, deve conoscerla a poco a poco. Quindi legga il diario e, quando l'avrà finito, torni trovarci. Le indicheremo il passo successivo.» «Sì, ma prima che lo legga, dovremmo spiegargli un po' com'era la famiglia, come vivevano...» suggerì la signora Laura. «Scusate, fatemi capire: lei è la signora Laura, e lei, invece? Devo chiamarla Amelia Maria come sua nipote, oppure Melita?» chiesi interrompendo la signora Laura. «Come preferisce, non ha importanza. Vogliamo che legga il diario» ribadì la signora Melita. «Comunque, giovanotto, la nostra era una famiglia benestante di imprenditori e industriali. Gente educata e colta.» «È necessario che riesca a contestualizzare gli avvenimenti» insisté la signora Laura, irritata. «Non preoccupatevi, ci riuscirò...» «Amelia era nata nel 1917, un periodo tormentato della storia, l'anno in cui in Russia trionfò la rivoluzione, in cui ancora non si erano concluse le ostilità della Grande Guerra. In Spagna c'era un governo di unità nazionale e regnava Alfonso XIII.» «Sì, so cos'è successo nel 1917...» Temevo che la signora Laura avesse intenzione di farmi una lezione di storia. «Giovanotto, non sia impaziente. La vita delle persone ha senso se inserita nel contesto, altrimenti è difficile che lei ci capisca qualcosa. Come le dicevo, Amelia e io siamo cresciute negli anni della dittatura di Primo de Rivera, abbiamo assistito alla vittoria repubblicana alle elezioni municipali del 1931 con la proclamazione della repubblica e l'esilio di Alfonso XIII. Poi arrivarono i governi di centrosinistra, e nel 1932 l'approvazione dello Statuto della Catalogna, il tentativo di colpo di Stato di Sanjurjo, nel 1933 il trionfo delle destre raggruppate nella CEDA, lo sciopero generale rivoluzionario del 1934...» «Mi rendo conto che avete vissuto momenti difficili» dissi, cercando di troncare il discorso della vecchia signora. In quel momento entrò Amelia Maria, la nipote delle due

donne anziane. A dire il vero, facevo un po' di confusione con tutte quelle Amelia. Lei non mi degnò quasi di uno sguardo, baciò le zie e si informò su come avessero trascorso la giornata. Dopo uno scambio di convenevoli a cui assistei in rispettoso silenzio, Amelia Maria mi rivolse finalmente la parola. «E lei, come sta?» «Bene, sono molto grato alle sue zie per avere deciso di aiutarmi. Ho accettato tutte le loro condizioni» risposi, con una certa ironia. «Ottimo, ma adesso, se non le dispiace, le zie dovrebbero riposare. La domestica mi ha detto che lei è qui da più di due ore.» Fui irritato dal modo sbrigativo in cui mi stava mettendo alla porta, ma non osai contraddirla. Mi alzai e chinai la testa davanti alle due anziane. Fu allora che la signora Melita mi porse due quaderni rilegati color ciliegia, consunti dal tempo. «Questi sono due dei diari di Amelia» mi spiegò mentre me li consegnava. «Li tratti con molta cura, e appena li avrà letti torni a trovarci.» «Senz'altro, e ancora molte grazie.» Uscii da quella casa esausto, senza sapere bene il perché. Quelle vecchie signore, nonostante l'apparente imperturbabilità, mi trasmettevano una strana tensione, e la nipote Amelia Maria non faceva nulla per nascondere l'avversione che nutriva nei miei confronti, probabilmente convinta che stessi turbando la tranquillità delle sue zie. Quanto rientrai nel mio appartamento, spensi il cellulare per non dover rispondere a nessuna telefonata. Ero ansioso di immergermi nella lettura dei diari della mia bisnonna.

3

Sono felice! La festa del mio compleanno è stata un successo! Mamma è bravissima a organizzare ricevimenti, e poi mi ha fatto il dono più bello: questo diario. Papà mi ha regalato una penna e mia sorella un paio di guanti. Ma ho ricevuto tanti altri doni, dai nonni, dagli zii... anche le mie amiche sono state molto generose. Nonna Margot ha chiesto a papà di mandare me e Antonietta a trascorrere l'estate a Biarritz. Mi piacerebbe molto! Soprattutto perché mi ha detto che ha invitato anche Laura, la mia cugina preferita. Non che non vada d'accordo con mia sorella, ma ho una tale confidenza con Laura.... Laura dice che siamo molto fortunate ad avere una nonna francese, perché anche lei adora passare l'estate a Biarritz. Io penso che la vera fortuna sia avere una famiglia come la nostra. Tremo al solo pensiero che sarei potuta nascere in un'altra famiglia. Papà ha detto alla nonna che trascorreremo parte delle vacanze con lei. Ora sono stanca, oggi è stata una giornata piena di emozioni, continuerò domani...

Il diario di Amelia era quello di un'adolescente di famiglia benestante. A quanto pareva, il papà di Amelia, cioè il mio trisavolo, era basco da parte di padre e basco francese da parte di madre. Lavorava nel commercio e viaggiava in tutta Europa e nel Nordamerica. Aveva un fratello avvocato, Armando, padre di Melita, Laura e Jesús, cugini della mia bisnonna. Amelia e sua sorella Antonietta erano affidate alle cure di una bambinaia inglese, anche se il loro angelo custode era la

balia, Amaya, una donna originaria di Guipuzcoa alla quale erano molto legate, e che era rimasta al servizio della famiglia svolgendo altri incarichi. La mia bisnonna era stata una studentessa diligente. Sembrava che le piacessero molto la pittura e il pianoforte; sognava di diventare un'artista famosa in una delle due discipline e aveva un talento innato per le lingue. La sua confidente e migliore amica era la cugina Laura. La sorella Antonietta aveva solo due anni meno di lei, ma per Amelia erano un'eternità. A quanto pare, il padre di Amelia insisteva affinché le due figlie studiassero e ricevessero una buona formazione. Entrambe frequentavano la scuola delle carmelitane e prendevano lezioni di francese e di pianoforte. Il mio trisavolo doveva essere un personaggio un po' singolare, perché ogni tanto portava la famiglia con sé nei suoi viaggi fuori della Spagna. Nel diario, Amelia riportava le sue impressioni su Monaco, Berlino, Roma, Parigi... Racconti di una ragazzina piena di voglia di vivere. In realtà, quel diario mi annoiava. Non mi interessava affatto la vita quotidiana di Amelia e, a parte la scoperta che la sua cugina preferita si chiamava Laura e che una delle nonne era francese, il resto era una cronaca sdolcinata che alla lunga risultava pesante. Così decisi di riaccendere il cellulare per telefonare a un'amica e uscire a bere qualcosa per distrarmi. Rimandai al giorno seguente la lettura del secondo diario. Ho la tubercolosi. Da giorni sono costretta a letto e il medico non mi permette di ricevere visite. Laura è passata stamattina, approfittando che papà è in viaggio in Germania e mamma alle nove va sempre a messa. Mi ha regalato un diario come quello che ebbi in dono dalla mamma quando compii quattordici anni. Non l'ho lasciata avvicinarsi al letto, ma la sua visita mi ha fatto un grande piacere. Per me Laura è più di una cugina: è come una sorella, mi capisce meglio di chiunque altro, molto più di Antonietta. E il suo regalo mi ha commosso: questo diario. Mi ha

detto che cosi mi annoierò di meno e il tempo passerà più in fretta. Ma cosa racconto se non posso muovermi? È venuto il medico, e devo dire che mi dà fastidio che mi tratti come se fossi ancora una bambina. Ha detto che devo stare a riposo, anche se mi farebbe bene respirare aria pura. Mamma ha deciso di mandarmi in montagna, a casa della balia Amaya. Avevano pensato di farmi andare da nonna Margot a Biarritz, ma la nonna in questo periodo soffre di frequenti raffreddori da cui non riesce a guarire completamente, quindi non è in grado di prendersi cura di un'ammalata di tubercolosi. Inoltre, il dottor Gabriel ha detto che sarebbe meglio che respirassi l'aria pulita di montagna. Mamma sta preparando il necessario per la mia partenza. Sarà Amaya a occuparsi di me, perché mamma deve restare con Antonietta e aspettare che papà torni dalla Germania, ma verrà a trovarmi ogni tanto. Preferisco andarmene piuttosto che restare chiusa in questa stanza. Se non fosse per le visite di Laura, impazzirei, anche se c'è il rischio che la contagi. Nessuno sa che viene a trovarmi, solo la balia, ma lei non dice niente. La balia Amaya lascia che mi alzi. Non mi obbliga a stare a letto. Dice che, se me la sento, è meglio che esca a respirare aria pura come ha prescritto il dottor Gabriel. Qui in montagna di aria pura ce n'è fin troppa. I genitori della balia sono anziani e fatico a capirli, perché parlano sempre in basco, ma il figlio maggiore di Amaya, Aitor, me lo sta insegnando. Papà dice che sono molto portata per le lingue, ed è vero, imparo in fretta. Vado d'accordo con Aitor e mi è simpatica anche Edurne, l'altra figlia della balia che ha la mia stessa età... be', qualche mese in più. Aitor e Edume sono molto diversi, proprio come me e Antonietta. La balia vorrebbe che Edume tornasse con noi a Madrid, per entrare a servizio in casa nostra. Le ho promesso che convincerò mamma. Edume è molto taciturna, ma sempre sorridente, ed è attenta a ogni mio più piccolo desiderio. Papà ha raccomandato Aitor presso una sede del Partito nazionalista basco a San Sebastián. Lavora lì durante la settimana.

Lui dice di essere molto contento: sbriga le commissioni, accoglie i visitatori e a volte gli affidano qualche mansione d'ufficio, come scrivere le buste. Aitor ha tre anni più di me, ma non mi tratta come una bimba. La balia è molto legata a lui, e ne è orgogliosa. Quella poveretta non ha quasi mai vissuto con i suoi figli, è venuta a casa nostra quando sono nata io, e adesso mi rendo conto che dev'essere stato molto duro per lei allevare noi e non loro. Le saranno mancati così tanto! Siamo andati a San Sebastián per telefonare a norma Margot; sta un po' meglio e ha promesso di venire a trovarmi. Aitor si stupisce che io comunichi in francese con mia nonna, ma l'abbiamo sempre fatto in questa lingua. Nonna Margot si esprime in francese anche con papà. Parla spagnolo soltanto con mamma, che non è molto portata per le lingue e, anche se sa il francese, lo parla solo quando andiamo a Biarritz. Sono andata con Aitor a passeggiare in montagna. La balia mi ha raccomandato di non stancarmi, ma mi sento meglio e ho insistito perché ci arrampicassimo un po' verso la cima, da dove avremmo potuto scorgere la Francia. Penso a nonna Margot. Mi farebbe piacere vederla, ma sono ancora convalescente. Appena starò meglio andrò a trovarla a Biarritz. Aitor conosce una strada per entrare in Francia senza bisogno di superare il controllo della dogana. Mi ha detto che esistono molti sentieri che portano in Francia e la gente di qui li conosce, soprattutto i pastori. Glieli ha mostrati suo nonno. A quanto pare, suo nonno e altri pastori ogni tanto hanno guadagnato qualche soldo con il contrabbando. Aitor mi ha fatto promettere di non raccontarlo a nessuno, e non lo farò: non voglio nemmeno pensare a cosa direbbe mio padre. Aitor mi ha confidato che non vuole restare per sempre alla cascina. Di notte studia, quando torna dal lavoro. Ha solo tre anni più di me. E poi adesso sta imparando il francese: glielo insegno io in cambio delle sue lezioni di basco. Aitor dice che anch'io sono basca, e lo dice come se significasse essere speciale. Ma io non mi sento speciale: per me essere basca o di qualunque altro posto è la stessa cosa. Non riesco a sentirmi

come lui, ma dice che è perché non vivo in questa terra. Non lo so. Sono orgogliosa di chiamarmi Garayoa, ma perché è il cognome di papà, non perché è un cognome basco. No, per quanto dica Aitor, non riesco a provare niente di speciale per il fatto di essere per metà basca. Adesso parlo basco con Aitor e anche con la balia Amaya e con i suoi genitori. Mi diverto. La gente delle cascine parla basco e si stupisce a sentirmi parlare. Mi riesce abbastanza bene. Aitor ha fatto molti progressi con il francese. Sua madre dice che non gli servirà a niente, che sarebbe meglio che imparasse bene a mungere, ma Aitor non resterà qui, l'ha già deciso. Di solito, quando torna da San Sebastián porta il giornale. Ci racconta che la situazione politica è peggiorata. Mamma dice sempre che da quando il re se n'è andato le cose vanno di male in peggio, ma papà non la pensa così. Lui è simpatizzante dell'Acción Republicana, il partito di Manuel Azaňa. Nemmeno Aitor nutre simpatia nei confronti di Alfonso XIII. Ovviamente Aitor sogna una patria basca. Io gli ho chiesto cosa ne farebbe di quelli che non sono baschi e lui mi ha risposto di non preoccuparmi, perché tanto sono una Garayoa. All'ora di cena ci ha raccontato che si è formata una coalizione di destra che si chiama CEDA e si è presentata alle elezioni. In realtà non so se è un bene o un male, lo chiederò ai miei genitori quando verranno a trovarmi, tra qualche giorno. Mi mancano così tanto! Antonietta non verrà perché non sono ancora del tutto guarita. È stata dura separarmi di nuovo dai miei. Quando l'automobile è partita sono scoppiata a piangere come una neonata. Il dottor Gabriel ha detto che non sono del tutto guarita e che dovrò restare a casa della balia ancora per un po'. Ma quanto? Non me lo dicono, e questo mi angoscia. Ho convinto mamma a far venire Edurne con noi a Madrid. Le ho detto che potrebbe diventare un'ottima cameriera e che siamo in debito con la balia Amaya per essersi presa cura così bene di me e di Antonietta. All'inizio ha fatto resistenza, ma poi ha accettato, e sono molto contenta perché ha detto che Edurne potrà occuparsi di me e di Antonietta. Papà è tornato dalla Germania molto preoccupato. Ci ha parlato

del nuovo cancelliere, si chiama Adolf Hitler. Secondo papà, Hitler fa certi discorsi che infiammano gli animi della gente, ma a mio padre non piace, non si fida di lui. Sono sicura che è perché Hitler non ama gli ebrei e il socio di papà, Herr Itzhak Wassermann, è ebreo. A quanto pare, gli ebrei cominciano ad avere dei problemi. Papà ha proposto a Herr Itzhak di trasferirsi in Spagna, ma lui gli ha assicurato di essere un buon cittadino tedesco e pertanto di non avere nulla da temere. Herr Itzhak è sposato e ha tre figlie, sono molto simpatiche; Yla ha la mia età. Hanno trascorso diverse estati con noi, nella casa di Biarritz, e anche io e Antonietta siamo state invitate a casa loro a Berlino. Spero che a quell'Hitler passi l'avversione per gli ebrei. Dopo Laura, Yla è la mia migliore amica. Sono tornati i miei genitori e siamo andati a San Sebastián. Eravamo invitati a merenda a casa di un amico di papà, un dirigente del Partito nazionalista basco, e lui e papà hanno passato il pomeriggio a parlare di politica. Mio padre ha detto che, se la situazione continua a essere così burrascosa, il presidente Alcalá Zamora finirà per indire elezioni anticipate. Ci ha spiegato che la destra è preoccupata per le decisioni prese dal governo, mentre la sinistra è convinta che non si stiano attuando le trasformazioni sociali che ci si aspettava. Non mi sono mossa per tutto il pomeriggio per ascoltare mio padre, anche se mamma e la nostra ospite insistevano che andassi nell'altro salone a chiacchierare con loro; mi interessava di più quello di cui parlavano lui e il suo amico. Non ci capisco granché, ma la politica mi piace. Amaya ha un'amica d'infanzia sposata con un pescatore. È una fortuna, perché ogni tanto il sabato ci invitano a uscire in barca. È piccola, ma il marito dell'amica di Amaya è bravo a manovrarla. Ci portiamo i panini e mangiamo in mare aperto. Ridiamo molto perché finiamo sempre per entrare in acque francesi, ma in mare non ci sono frontiere. Il pescatore ha insegnato a me e ad Aitor a governare la barca. Suo figlio Patxi, che ha l'età di Aitor, è un pescatore come lui e lo accompagna al lavoro tutte le mattine all'alba. Se non studiassi, credo che mi piacerebbe diventare un pescatore. Mi sento così bene in mare!

Avevo passato tutta la mattina a leggere il secondo diario della mia bisnonna e mi ritrovai ad ammettere che era molto più interessante del primo. Scoprii che Amelia aveva vissuto nella cascina della sua balia per circa sei mesi prima che la dichiarassero guarita e che, per quanto avesse molta voglia di tornare a casa, per lei era stato difficile dire addio ad Aitor. Il ragazzo le parlava di politica, cercava di contagiarla con il suo amore per la "patria basca", le raccontava di un passato idilliaco e di un futuro in cui i baschi avrebbero avuto il proprio Stato. La mia bisnonna, però, se ne infischiava dei Paesi Baschi. A lei interessava solo la compagnia di Aitor. Non è stato facile salutarci. Aitor si è preso un giorno libero e l'abbiamo passato insieme, a camminare in montagna. Ormai ho imparato quattro diversi sentieri per entrare in Francia; alcuni sono usati dai contrabbandieri. Ma qui si conoscono tutti e nessuno denuncia i vicini, qualunque cosa facciano. Mi chiedo se ritornerò presto e, soprattutto, cosa farà Aitor quando me ne sarò andata. Immagino che incontrerà una ragazza e si sposerà, come sperano i suoi genitori. L'hanno educato perché si prenda cura della casa di famiglia. Anche se lui non lo dice, so che quello che gli piacerebbe davvero è occuparsi di politica: ogni giorno che passa, è sempre più coinvolto nell'attività del suo partito e i capi hanno fiducia in lui. Qualche giorno fa ho accompagnato Amaya e Edurne a San Sebastián. Siamo andate a fare spese e poi siamo passate dalla sede del partito in cui lavora Aitor. Amaya era molto orgogliosa di vedere la considerazione che tutti hanno per suo figlio. I capi lo elogiano molto e dicono che avrà un grande futuro. Sono contenta per lui, ma... be', lo confesso: so che io non ci sarò nel suo futuro, e questo mi fa male. Parto domattina presto. Aitor ci accompagnerà alla stazione di San Sebastián.

Amaya è triste. Se fosse per lei, resterebbe alla cascina, ma dice che deve continuare a lavorare per aiutare i suoi genitori e i suoi figli. Sogna che Aitor diventi un politico e che Edurne si trovi bene nella nostra famiglia e rimanga con noi a fare la cameriera. Ma allora chi si occuperà della cascina? Credo che Amaya desideri che Edume prenda il suo posto, per poter tornare dai genitori. I nonni di Aitor non si sono mai allontanati da queste montagne: il posto più lontano in cui sono stati è San Sebastián. Dicono di non essere interessati a conoscere nient'altro, tutto il loro mondo è qui, ed è il migliore dei mondi. Papà dice sempre che ci sono due tipi di baschi: quelli che vanno alla conquista del mondo e quelli che credono che non esista alcun mondo al di là delle montagne. Lui fa parte della prima categoria, i nonni di Aitor della seconda. Ma sono brave persone. All'inizio mi sembravano severi e riservati, ma il fatto è che diffidano di chi viene da fuori. Tuttavia, quando vincono la timidezza, ti rendi conto che sono molto sensibili. A volte, la sera dopo cena, ci sedevamo davanti al camino e il nonno cantava canzoni che all'inizio non capivo, ma che immaginavo nostalgiche. Adesso le so cantare anch'io, e papà sarà sorpreso quando mi sentirà parlare basco. Stanno finendo le pagine del diario e non so se ne scriverò un altro. L'ho già detto: domani torno a casa, ma durante il mio soggiorno qui credo di essere diventata grande. Mi sembra di avere mille anni.

Come promesso, telefonai alle due anziane signore per avvisarle che avevo letto i due diari e chiedere quando potevo tornare a trovarle. Non immaginavo cosa avessero in mente per continuare a guidarmi nei meandri della vita della mia bisnonna. Non riuscii a parlare con loro direttamente, ma la domestica mi diede appuntamento di lì a tre giorni. Decisi di dedicare il tempo che avevo a disposizione per iniziare ad abbozzare il racconto della vita di Amelia, anche se fino a quel momento non avevo trovato niente di straordinario.

La signora Melita e la signora Laura sembravano due statue. Sempre sedute sulle stesse poltrone, impeccabilmente vestite di nero e di grigio, con i capelli raccolti, perle o brillanti alle orecchie e un'apparente fragilità che non corrispondeva al vigore con cui mi manipolavano. Quel giorno erano in compagnia di un'altra donna, altrettanto anziana. Pensai che si trattasse di un'amica o di una parente. Non me la presentarono, ma mi avvicinai per stringerle la mano e sentii che tremava. La donna, anche lei vestita di nero, ma con il viso maggiormente segnato dalle rughe e senza gioielli, sembrava nervosa. Pensai che fosse più vecchia delle altre due, sempre che si possa diventare ancora più anziani dopo aver compiuto i novant'anni. Notai che la signora Melita le prendeva la mano con affetto o gliela stringeva come per infonderle coraggio. Mi chiesero i diari, che riconsegnai subito, e vollero sapere cosa ne pensassi di Amelia. «In realtà, non mi è sembrata niente di speciale. Suppongo che fosse la tipica ragazza di buona famiglia di quell'epoca.» «Nient'altro?» indagò la signora Melita. «Nient'altro» risposi, pensando a cosa potesse essermi sfuggito, di tanto importante, in quei resoconti giovanili. «Bene, ora che si è fatto un'idea di com'era Amelia nell'adolescenza, è giunto il momento che sappia come e perché si è sposata» spiegò la signora Laura guardando di sottecchi Melita. «E la cosa migliore è che glielo racconti qualcuno che ha vissuto con lei, senza mai abbandonarla, negli anni cruciali della sua vita. Qualcuno che l'ha conosciuta molto bene» proseguì spostando lo sguardo sull'anziana donna che non mi era stata presentata e che non aveva ancora aperto bocca. «Edurne, lui è il bisnipote di Amelia e Santiago» concluse Laura rivolgendosi alla vecchia signora.

Sobbalzai. Edurne? Era forse la figlia della balia, di Amaya? Mi dissi che non potevo essere così fortunato. La vecchia che avevano chiamato Edurne mi fissò con occhi stanchi, in cui scorsi un certo timore. Sembrava a disagio. Aveva un'aria smunta, come se, oltre a essere gravata dall'età, fosse anche ammalata. «Lei è la figlia della balia, di Amaya?» le chiesi, ansioso di sentire la risposta. «Sì» mormorò. «È un piacere conoscerla!» esclamai con sincerità. «Sappia che Edurne farà un grosso sforzo per parlare con lei. I suoi ricordi sono vividi, come se tutto fosse successo ieri, ma.... insomma, è ammalata... Alla nostra età abbiamo un mucchio di acciacchi. Quindi la ascolti e non la faccia stancare troppo» ordinò la signora Laura. «Posso farle delle domande?» «Sì, ma non perda tempo: l'importante è quello che Edurne può raccontarle» rispose la signora Laura. «E adesso, per favore, andate in biblioteca. Lì starete più tranquilli.» Annuii. Edurne guardò le due vecchie signore, che fecero un gesto quasi impercettibile, come se la esortassero a non avere paura di me. La donna camminava con difficoltà, appoggiandosi a un bastone. Passo dopo passo, la seguii fino in biblioteca. Edurne cominciò a sciorinare i suoi ricordi...

SANTIAGO

1

Quando arrivammo a Madrid, la signora Teresa mi spiegò che da quel momento avrei dovuto occuparmi delle sue due figlie, la signorina Amelia e la signorina Antonietta. Il mio lavoro consisteva nel tenere in ordine i loro abiti, rassettare la stanza, aiutarle a vestirsi, accompagnarle quando andavano a fare visite... Mia madre mi insegnò come prendermi cura di loro. All'inizio mi trovavo male, nonostante l'immensa fortuna di vivere sotto il loro stesso tetto. La signora Teresa fece mettere un altro letto per me nella stanza di mia madre. Anche se la casa era grande, eravamo le uniche a vivere con la famiglia; il resto della servitù stava nelle soffitte. Suppongo che godessimo di quel privilegio perché mia madre una volta era stata la balia delle bambine e doveva trovarsi sempre vicino a loro per allattarle. Poi, dopo che erano state svezzate, lei aveva mantenuto la stessa camera ed era diventata domestica. Faceva un po' di tutto: si occupava delle pulizie e aiutava in cucina, insomma, qualunque cosa le chiedessero. Mia madre voleva che imparassi il mestiere di cameriera, voleva vedermi ben sistemata in quella casa, in modo da potersene tornare alla cascina a passare i suoi ultimi anni vicino ai genitori. Non avevo mai visto una casa come quella, con tanti saloni e camere da letto, e tanti oggetti di valore. Temevo di rompere qualcosa, e di solito tenevo sollevati la gonna e il grembiule per non sfiorare i mobili passandoci accanto. Il fatto di conoscere la signorina Amelia mi rendeva il lavoro meno difficile. Ma la situazione era cambiata, perché alla

cascina lei era una di noi, mentre in quella casa non osavo chiamarla per nome, anche se lei insisteva perché lasciassi perdere il "signorina". Adorava parlare con me in basco. Voleva far arrabbiare la sorella, anche se a me diceva che lo faceva per non dimenticarlo. Il signor Juan non voleva che parlassimo basco e la sgridava; le diceva che era una lingua da contadini, ma lei non obbediva. Al mattino accompagnavo la signorina Antonietta a scuola. La signorina Amelia invece faceva scuola a casa, perché era ancora convalescente. Di pomeriggio, al rientro della signorina Antonietta, mi permettevano di stare seduta in un angolo della sala studio mentre una professoressa aiutava le ragazze con i compiti, le faceva parlare in francese e suonare il pianoforte. Mi piaceva assistere alle lezioni, perché avevo l'occasione di imparare. Quando fu guarita, la signorina Amelia cominciò a studiare per diventare maestra, come la signorina Laura. Il 1934 non fu un bell'anno. Al signor Juan cominciarono ad andare male gli affari. Herr Itzhak Wassermann, il suo socio in Germania, subiva la persecuzione di Hitler contro gli ebrei, compito affidato agli uomini delle SA, le squadre d'assalto. Il lavoro andava di male in peggio, e in diverse occasioni si erano ritrovati con i vetri del negozio rotti da quegli energumeni. Viaggiare in Germania diventò sempre più complicato, soprattutto per chi, come il signore, detestava Hitler e non temeva di dirlo ad alta voce. Il signor Juan cominciò a dimagrire, e la signora Teresa era sempre più preoccupata per lui. «Credo che papà stia andando in rovina» mi confidò un giorno la signorina Amelia. «Perché lo dice?» chiesi, spaventata dal pensiero di dovermene ritornare alla cascina. «Ha molti debiti in Germania, e qui le cose non vanno tanto bene. Mia madre dice che è per colpa della sinistra...»

La signora Teresa era una donna molto cattolica, monarchica, che amava la disciplina ed era spaventata dai disordini provocati da alcuni partiti e sindacati di sinistra. Era una brava persona e trattava con affetto e rispetto tutti quelli che erano a servizio in casa sua, ma non riusciva a capire che la gente era in difficoltà e che la destra al governo non sapeva come affrontare i problemi della Spagna di allora. Nonostante fosse una donna caritatevole, ignorava cosa fosse la giustizia sociale, reclamata da operai e contadini. «E cosa faremo io e mia madre?» chiesi. «Niente, resterete con noi. Non voglio che ve ne andiate.» Amelia si scambiava lettere con Aitor. Ogni volta che mio fratello scriveva a me e a mia madre, allegava una busta chiusa per Amelia. Lei gli rispondeva nello stesso modo, dando a noi una busta chiusa che infilavamo in quella che avremmo poi spedito a lui. Sapevo che mio fratello era innamorato di Amelia, ma che non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo, e sapevo che anche a lei Aitor non era indifferente. Un lunedì pomeriggio il signor Juan rientrò a casa prima del solito e andò a chiudersi nello studio con la signora Teresa. Rimasero a parlare fino a tarda notte, senza permettere alle signorine di interromperli. Quella sera Amelia e Antonietta cenarono da sole nella sala studio, chiedendosi cosa stesse succedendo. Il mattino dopo la signora Teresa convocò tutto il personale di servizio e ordinò di pulire la casa da cima a fondo. Nel fine settimana la famiglia avrebbe dato un ricevimento, con invitati importanti, e voleva che la casa brillasse. Le signorine erano entusiaste. Andarono a fare spese con la madre e tornarono cariche di pacchetti. Avrebbero indossato vestiti nuovi. Il sabato la signora Teresa sembrava nervosa. Voleva che

tutto fosse perfetto e se qualcosa non era di suo gusto diventava scontrosa, lei, di solito così affabile. Una parrucchiera venne a casa a pettinare la madre e le figlie, e nel pomeriggio le aiutai a vestirsi. Amelia indossava un abito rosso e Antonietta uno blu. Erano bellissime. «Era da così tanto tempo che non davamo una festa!» esclamò Amelia mentre la parrucchiera le raccoglieva i boccoli sulla nuca con un fermaglio. «Non esagerare, abbiamo visite ogni settimana» ribatté Antonietta. «Sì, a merenda, non per una cena.» «Ma prima non ci lasciavano partecipare perché eravamo piccole. Mamma dice che verranno alcuni amici di papà con i figli.» «E non li conosciamo! Sono nuovi amici di papà... Che emozione!» «Non capisco come possa piacerti conoscere gente nuova. Sarà una noia, e mamma ci terrà d'occhio perché ci comportiamo come si deve. La cena è molto importante per papà, ha bisogno di nuovi soci per la ditta...» «Adoro conoscere gente nuova! Forse tra loro ci sarà qualche bel giovanotto... Magari trovi un fidanzato, Antonietta.» «Magari lo trovi tu, che sei più grande e devi sposarti prima di me. Se non ti sbrighi, finirai per restare zitella.» «Mi sposerò quando voglio e con chi voglio!» «Sì, ma fallo in fretta.» Nessuna delle due poteva immaginare ciò che sarebbe successo quella sera. Alle otto arrivarono gli invitati. Tre coppie con figli. In totale quattordici persone che si sarebbero sedute al tavolo ovale, raffinatamente addobbato con fiori e candelabri d'argento. I signori García, con il figlio Hermenegildo. I signori López-Agudo, Francisco e Carmen, con le figlie Elena e Pilar. E i

signori Carranza, Manuel e Bianca, con il figlio Santiago. Antonietta fu la prima a notare Santiago. Era il più bello tra gli invitati. Alto, magro, con i capelli castano chiaro, quasi biondi, e gli occhi verdi, vestito in modo molto elegante: era impossibile non notarlo. Anch'io lo ammiravo, nascosta dietro le tende. A quell'epoca doveva avere una trentina d'anni ed era molto sicuro di sé. Intorno a lui svolazzavano le altre signorine invitate. Io conoscevo bene Amelia e sapevo quali erano le sue tattiche per farsi notare. Salutò gentilmente gli invitati dei suoi genitori e andò a mettersi accanto alla madre, ascoltando le chiacchiere delle dame invitate come se fosse realmente interessata a ciò che dicevano. Era l'unica tra le ragazze presenti a non sembrare colpita dal magnetismo di Santiago e non lo degnava di uno sguardo. La signorina Antonietta, insieme alle signorine Elena e Pilar López-Agudo, cercavano di attirare l'attenzione del giovane, che era al centro della conversazione degli invitati. Non solo perché era il più grande, ma anche per la sua simpatia. Da dove mi trovavo, non riuscivo a sentire quel che dicevano, ma le ragazze pendevano tutte dalle sue labbra. Le cameriere servirono gli aperitivi e io fui mandata in cucina per aiutare mia madre e le cuoche, ma appena potevo sgattaiolavo nel mio nascondiglio, da dove riuscivo a spiare la festa, inebriandomi degli effluvi di profumo e di sigaretta che emanavano le dame e i loro cavalieri. Mi chiedevo quale sarebbe stato il passo successivo di Amelia per attirare l'attenzione di Santiago. Lui si era reso conto che l'unica a non partecipare alla conversazione dei giovani a tavola era la figlia maggiore dei padroni di casa e cominciò a guardarla di sottecchi. La signora Teresa aveva messo sul tavolo dei cartoncini segnaposto con il nome di ogni invitato, e Amelia doveva

sedersi accanto a Santiago. Era così bella... All'inizio lei non prestava attenzione a Santiago, ma conversava con il giovane Hermenegildo, alla sua sinistra. A metà della cena Santiago non ne poté più dell'evidente indifferenza di Amelia e si sforzò di avviare con lei un discorso, ricevendo però in cambio risposte svogliate. Finita la cena, per me era chiaro che Amelia aveva raggiunto il suo scopo: mettere un guinzaglio al collo di Santiago. Quando gli invitati se ne furono andati, i signori rimasero nel salone con le figlie, per commentare l'esito della serata. La signora Teresa era esausta a causa della tensione che aveva accumulato durante la settimana per assicurarsi che tutto fosse perfetto. Mia madre diceva di non averla mai vista tanto nervosa e ne era sorpresa, perché la signora Teresa era abituata a ricevere ospiti. Il signor Juan sembrava più rilassato; la serata era servita ai suoi scopi, come venimmo a sapere in seguito: stava cercando di mettersi in società con il signor Carranza, per salvare la ditta. In realtà, a risollevare le sorti della famiglia fu Amelia. Li sentii parlare, anche se la signora Teresa li esortava ad abbassare la voce. «Se Manuel Carranza è interessato, come sembra, all'affare, saremo salvi...» «Ma, papà, le cose vanno così male?» si informò Amelia. «Sì, figlia mia, ormai siete grandi e dovete sapere la verità. Gli affari in Germania non vanno bene e temo per l'incolumità del mio buon amico e socio Herr Itzhak. Il magazzino in cui tenevamo la merce, i macchinari acquistati da portare in Spagna, è stato chiuso dai nazisti, che vi hanno apposto i sigilli e non mi permettono di accedervi. E là dentro, investiti in quei macchinari, c'erano i nostri soldi. Ci hanno anche confiscato il denaro depositato in banca. L'impiegato che era alle nostre dipendenze, quel brav'uomo di Helmut Keller, è preoccupato. Aver lavorato per un ebreo lo rende una persona sospetta, ma

lui è un uomo coraggioso e mi consiglia di aspettare; mi ha assicurato che farà tutto il possibile per salvare la ditta. Gli ho dato tutti i soldi che sono riuscito a racimolare, che non sono molti, viste le circostanze, ma non potevo abbandonarlo al suo destino...» «E Herr Itzhak e Yla?» chiese Amelia, allarmata. «Sto cercando di farli venire qui, ma non riesco a convincerli; non vogliono lasciare la loro patria. Mi sono messo in contatto con la Casa universale dei sefarditi, un'organizzazione incaricata di stabilire contatti fra gli ebrei sefarditi.» «Ma Herr Itzhak non è sefardita!» esclamò la signora Teresa. «Lo so, ma ho chiesto loro consiglio. Ci sono molti spagnoli influenti che li appoggiano» spiegò il signor Juan. «Molti? Vorrei che avessi ragione» replicò la signora Teresa in tono aspro. «Mi sono anche messo in contatto con un'organizzazione chiamata Ezra, che significa "Aiuto"; cerca di dare una mano agli ebrei, soprattutto a quelli che scappano dalla Germania.» «Riuscirai a fare qualcosa, papà?» chiese Amelia contrita. «Non dipende da tuo padre, Amelia» disse la signora Teresa. «Manuel Azaňa ha in simpatia gli ebrei» rispose il signor Juan. «Insomma, sembra che il mondo sia impazzito... Hitler ha dichiarato che il suo partito è l'unico legale in Germania. E, come se non bastasse, la Germania ha abbandonato la Conferenza per il disarmo. Quel pazzo si sta preparando alla guerra, ne sono sicuro...» «La guerra? Contro chi?» chiese Amelia. Ma il signor Juan non riuscì a rispondere, perché la signora Teresa si intromise. «E qui cosa succederà? Ho paura, Juan... La sinistra vuole la rivoluzione...» «E la destra è contraria al regime repubblicano e sta facendo l'impossibile perché la repubblica diventi ingestibile» ribatté un po' infastidito il signor Juan.

Marito e moglie avevano idee diverse, visto che la signora Teresa proveniva da una famiglia di tradizione monarchica e il signor Juan era invece un repubblicano convinto. Ma, naturalmente, a quell'epoca le opinioni delle donne nelle questioni politiche non contavano molto e imperava la posizione del padrone di casa. «E cosa farai con il signor Carranza?» La domanda di Antonietta stupì i genitori. Antonietta era la più piccola, alquanto silenziosa e riflessiva, molto più di Amelia. «Cercherò di comprare i macchinari in Nordamerica. I costi saranno più alti, dal momento che c'è di mezzo l'oceano, ma vista la situazione in Germania non credo di avere altra scelta. Ho sottoposto a Carranza uno studio dettagliato, ed è interessato. Adesso il mio problema è trovare un prestito per poter creare la società... Credo che lui possa aiutarmi. Ha contatti molto importanti.» «Con chi?» si informò Amelia. «Con banchieri e politici.» «Politici di destra?» insisté lei. «Sì, figliola, ma è in buoni rapporti anche con il Partito repubblicano radicale di Lerroux.» «Per questo era così importante questa cena, vero, papà?» continuò Amelia. «Volevi fargli buona impressione, fargli vedere che hai una casa stupenda e una meravigliosa famiglia... Mamma è così bella ed elegante...» «Su, Amelia, non dire queste cose!» intervenne la signora Teresa. «Ma è la verità. Chiunque ti conosca non può far altro che ammirarti. La signora Carranza non è elegante come te» insisté Amelia. «La signora Carranza è di ottima famiglia. Stasera, parlando, abbiamo scoperto di avere dei conoscenti in comune» affermò la signora Teresa. «Suo figlio Santiago è il più difficile da convincere» mormorò il signor Juan.

«Santiago? Di cosa dovresti convincerlo?» «Lavora con suo padre, e lui lo tiene in grande considerazione. A quanto pare, Santiago è un bravo economista, molto accorto, e dà ottimi consigli al padre. Ha dei dubbi sulla sostenibilità del progetto; dice che è un investimento troppo impegnativo, che preferisce continuare a comprare macchinari in Belgio, Francia, Inghilterra e perfino in Germania; dice che è più sicuro» spiegò il signor Juan. Non riuscivo a vederla in faccia, ma potei facilmente immaginare che in quel momento Amelia stesse prendendo una decisione: sarebbe stata lei a vincere le resistenze di Santiago per salvare la famiglia dalle difficoltà economiche che la assillavano. Amelia era appassionata di romanzi, si identificava nelle eroine dei libri che leggeva, e i suoi genitori, senza saperlo, le stavano dando l'occasione di dimostrare di esserlo lei stessa. Due settimane dopo i signori Carranza invitarono il signor Juan e la sua famiglia al pranzo domenicale nella loro tenuta fuori città. Ormai il signor Juan non riusciva più a nascondere il nervosismo che gli provocavano le risposte evasive di Manuel Carranza riguardo al suo invito a entrare in società per importare macchinari dall'America. Inoltre, la situazione politica si stava complicando e la Spagna sembrava ingovernabile. Amelia impiegò diversi giorni a decidere che cosa indossare per l'evento. Quel pranzo domenicale costituiva la sua grande occasione per stringere il guinzaglio che aveva messo al collo di Santiago, e sapeva che l'invito dei Carranza era in parte dovuto all'interesse che lei aveva risvegliato in lui. Il signor Juan aveva commentato che, nonostante le reticenze di Santiago, era stata proprio una sua idea quella di invitarlo a pranzo la domenica, insistendo che portasse con sé la sua incantevole famiglia.

So, perché Amelia me lo raccontò, che quel giorno fu decisivo per quello che lei chiamava "il mio piano di salvataggio". A pranzo non era stato invitato nessun altro oltre alla famiglia Garayoa, cioè il signor Juan, la signora Teresa e le due signorine, e fin dal primo momento fu evidente che Santiago era stregato da Amelia. Lei sfoderò tutta la sua malizia: indifferenza, gentilezza, sorrisi... E chissà cos'altro! Era una grande seduttrice. Quella domenica Santiago si innamorò di lei, e credo che lei lo ricambiasse. Erano giovani, belli, distinti... Lui, che pareva uno scapolo incallito, senza mai una fidanzata ufficiale, si era lasciato accalappiare da una ragazzina che esprimeva le proprie idee politiche con grande disinvoltura: sosteneva che le donne dovessero lottare per ottenere i diritti che venivano loro negati e confessava, con orrore di sua madre, di non avere intenzione di diventare una semplice donna di casa. Se si fosse sposata, avrebbe aiutato in tutto il marito, oltre a lavorare come maestra; diceva che insegnare era la sua vocazione. Amelia sciorinò tutti questi discorsi, e altri ancora, con la grazia e la simpatia che le erano innate. E, a quanto mi riferì Antonietta, più Amelia parlava, più Santiago ne era affascinato. Cominciarono a frequentarsi come si usava a quei tempi. Santiago chiese al signor Juan il permesso di "parlare" con Amelia, e lui glielo concesse entusiasta. Santiago veniva quasi tutti i pomeriggi a trovare Amelia, e la domenica uscivano insieme, sempre accompagnati da Antonietta e da me. Amelia gli permetteva di prenderla per mano e gli sorrideva appoggiando la testa sulla sua spalla. Santiago si scioglieva quando la guardava. Lei aveva dei bellissimi capelli, di un castano così chiaro che tendeva al biondo, e gli occhi grandi, a mandorla. Era magra, non molto alta, ma a quei tempi noi donne eravamo tutte bassine, non come adesso. Lui sì che era alto: la superava di tutta la testa.

Accanto a Santiago, Amelia sembrava una bambola. Santiago finì per soccombere ad Amelia, e questo fatto rappresentò la salvezza del signor Juan. I Carranza gli fornirono la garanzia per poter ottenere un prestito e si misero in società con lui - seppure come soci minoritari - nella nuova ditta costituita per comprare e importare macchinari dall'America. Il signor Juan e Santiago finirono per simpatizzare, visto che il ragazzo era iscritto al partito di Azaňa ed era un repubblicano convinto come il mio padrone. «Mi sposo! Santiago mi ha chiesto di sposarlo!» Lo ricordo come se fosse oggi, quando Amelia entrò nel salotto dove si trovavano i suoi genitori. Quella domenica non avevo potuto accompagnarla perché ero raffreddata, così la sola Antonietta aveva fatto da chaperon. Il signor Juan guardò stupito sua figlia, non si aspettava che Santiago decidesse di chiederla in moglie così presto. Erano trascorsi appena sei mesi da quando avevano cominciato a uscire insieme; inoltre, la settimana seguente lui aveva in programma di recarsi a New York per ispezionare alcune fabbriche di macchinari. Amelia abbracciò sua madre, che, a giudicare dall'espressione, non sembrava affatto contenta di quella notizia. «Ma, tesoro, che pazzia è mai questa?» esclamò infastidita la signora Teresa. «Santiago mi ha detto che non vuole più aspettare, ormai ha l'età giusta per sposarsi ed è sicuro che io sia la donna che stava aspettando. Mi ha chiesto se lo amo e se sono certa dei miei sentimenti per lui. Gli ho risposto di sì, così abbiamo deciso di sposarci al più presto. Questa sera lo dirà ai suoi genitori, e il signor Carranza ti telefonerà per chiederti la mia mano. Possiamo sposarci a fine anno, perché prima non avremmo tempo di organizzare tutto quanto. Non vedo l'ora!» Amelia non la smetteva di parlare, mentre i suoi genitori cercavano di calmarla per riuscire ad affrontare la questione

con serenità. «Ma insomma, Amelia, sei ancora una bambina» protestò il signor Juan. «Non sono una bambina! Sai che la maggior parte delle mie amiche è già sposata o sta per farlo. Cosa c'è, papà? Credevo che fossi contento del mio fidanzamento con Santiago...» «Ma certo, non posso lamentarmi della famiglia Carranza, e Santiago mi sembra un bravo ragazzo, ma vi conoscete soltanto da pochi mesi e parlare di matrimonio mi sembra un po' precipitoso. Non sapete ancora abbastanza l'uno dell'altra.» «Io e tuo padre siamo stati fidanzati per quattro anni prima di sposarci» aggiunse la signora Teresa. «Non essere antiquata, mamma... Siamo nel ventesimo secolo! Capisco che ai tuoi tempi le cose fossero diverse, ma oggi sono cambiate. Le donne lavorano, vanno in giro da sole, alcune decidono di vivere la propria vita con chi vogliono... A proposito, ormai non ha più senso che mi porti dietro uno chaperon quando esco con Santiago.» «Amelia!» «Mamma, è ridicolo! Non ti fidi di me? Forse pensate male di Santiago?» I genitori di Amelia si sentivano travolti dallo slancio impetuoso della figlia. Ormai non c'era più niente da fare: lei era decisa a sposarsi e l'avrebbe fatto, con o senza il loro permesso. La data delle nozze fu fissata subito dopo il rientro del signor Juan dall'America; nel frattempo, la signora Teresa, insieme ai genitori di Santiago, avrebbe organizzato la cerimonia fin nei dettagli. Amelia, forse era per l'influenza di Santiago - anche se a dire la verità aveva sempre dimostrato interesse per la politica -, in quei mesi sembrava più preoccupata per quello che stava succedendo in Spagna. «Edurne, il presidente Alcalá Zamora ha chiesto ad Alejandro Lerroux di formare un nuovo governo, in cui inserirà tre

ministri della CEDA. Non credo che sia la soluzione migliore, ma esiste forse un'altra via d'uscita?» Ovviamente non si aspettava una mia risposta. A quell'epoca Amelia parlava soprattutto con se stessa; io ero semplicemente la cassa di risonanza delle sue idee, niente di più, anche se mi rendevo conto di quanto fosse influenzabile. Molte cose che diceva uscivano pari pari dalla bocca di Santiago. Un giorno, all'inizio di ottobre del 1934, Santiago si presentò a casa Garayoa molto agitato. Il signor Juan era in America e la signora Teresa stava discutendo con le figlie a proposito della pretesa di Antonietta di uscire da sola. «Il sindacato generale ha indetto uno sciopero! Il giorno 5 si fermerà l'intera Spagna!» gridò Santiago. «Mio Dio! Ma perché?» La signora Teresa era spaventata dalla notizia. «Signora, la sinistra non si fida, e a ragione, della CEDA. Gil Robles non crede nella repubblica.» «Questo lo dice la gente di sinistra per giustificare tutto quello che fa!» protestò energicamente la signora Teresa. «Sono loro a non credere nella repubblica; in questa repubblica vogliono una rivoluzione come quella russa. Che Dio ce ne scampi!» Mentre servivamo uno spuntino, io e un'altra cameriera ascoltammo la conversazione. Santiago non era affatto un rivoluzionario, ma credeva fermamente nella repubblica e diffidava di chi la oltraggiava pur approfittandone. «Non vorrai che succeda come in Germania» intervenne Amelia. «Zitta, ragazzina! Cosa c'entra Hitler con la nostra destra? Non lasciarti abbindolare dalla propaganda della sinistra, che non porterà niente di buono alla Spagna» si lamentò la signora Teresa. Amelia e Santiago rimasero in soggiorno, mentre la signora

Teresa e Antonietta si ritirarono con la scusa di un impegno immaginario. La signora non aveva voglia di discutere con Santiago, e a quel punto aveva ormai accettato che i due ragazzi si vedessero senza accompagnatori. «Cosa succederà, Santiago?» chiese con aria inquieta Amelia appena rimase da sola col fidanzato. «Non lo so, ma qualcosa di grosso bolle in pentola.» «Potremo sposarci?» «Ma certo! Non temere, niente potrà impedircelo.» «Mancano soltanto tre settimane alle nozze.» «Non preoccuparti...» «E papà non è ancora tornato...» «La sua nave attraccherà tra qualche giorno.» «Mi manca così tanto... soprattutto adesso che le cose si mettono male. Senza di lui mi sento insicura.» «Amelia, non dire così! Ci sono io! Non permetterei mai che ti capitasse qualcosa!» «Hai ragione, scusa...» I giorni seguenti furono pieni d'angoscia. Non avevamo idea di cosa potesse succedere. Il governo rispose all'annuncio dello sciopero generale dichiarando lo stato di guerra, ma lo sciopero non fu un successo, almeno non dappertutto. Quella sera mia madre mi disse che i nazionalisti non l'avrebbero appoggiato, e nemmeno gli anarchici. A peggiorare le cose, in Catalogna, il presidente della regione Luís Companys proclamò lo Stato catalano nella Repubblica Federale Spagnola. Amelia era sempre più preoccupata per le sue nozze, visto che i Carranza facevano affari in Catalogna e uno dei soci del signor Manuel era catalano. Anche la signora Teresa era coinvolta: era per metà catalana e aveva dei familiari a Barcellona. «Ho parlato con la zia Montse ed è molto spaventata. Hanno

fermato tanta gente fra i suoi conoscenti e lei stessa ha assistito dal balcone ai combattimenti nelle ramblas. Non sa quanti morti ci siano stati, ma crede molti. Ringrazio Dio che ai miei genitori sia stato risparmiato di vedere tutto questo.» I genitori della signora Teresa erano morti, e le era rimasta solo la sorella Montse, oltre a un gran numero di zie, cugini e altri familiari sparsi per tutta la Catalogna, e in parte a Madrid. Amelia mi chiese di telefonare a mio fratello Aitor nei Paesi Baschi, per cercare di capire cosa stesse succedendo. Lo feci e lei, impaziente, mi strappò la cornetta di mano. Aitor ci spiegò che il suo partito si era mantenuto ai margini dello sciopero. Invece nelle Asturie la rivoluzione si era davvero infuocata. I minatori avevano attaccato le postazioni della Guardia Civil prendendo il controllo del Principato. Nel frattempo, a Madrid, il governo incaricò i generali Goded e Franco di porre fine alla rivolta, e loro suggerirono di inviare le truppe dei Regulares del Marocco alla testa degli eserciti della repressione. Furono giorni di incertezza, finché il governo non soffocò la rivolta. Ma era soltanto un assaggio di quanto stava per succedere... Fu proprio in quei giorni che Amelia conobbe Lola. Quella ragazza senza dubbio la segnò per sempre. Un pomeriggio, nonostante le proteste della signora Teresa, Amelia decise di uscire. Voleva vedere con i propri occhi lo scempio per le strade. La scusa era quella di una visita alla cugina Laura, che da qualche giorno non si sentiva bene. La signora Teresa le ordinò di non uscire e mia madre la supplicò di restare a casa. Perfino Antonietta cercò di convincerla, ma Amelia borbottò qualcosa sul suo dovere di fare visita alla cugina preferita che era ammalata e, disobbedendo alla madre, uscì di casa, con me dietro. Non ci andai di mia volontà, ma perché mia madre mi ordinò di accompagnarla. Madrid sembrava una città in guerra. C'erano soldati

dappertutto. La seguii malvolentieri fino a casa di sua cugina, che è questa in cui ci troviamo adesso, a pochi isolati da quella di Amelia. Eravamo quasi arrivate quando scorgemmo una ragazza che correva disperata. Ci passò davanti come un'apparizione e si infilò nel portone dell'edificio verso il quale anche noi eravamo dirette. Ci voltammo a guardare indietro, pensando che qualcuno la inseguisse, ma non c'era nessuno. Un paio di minuti dopo due uomini svoltarono l'angolo gridando: «Alt, alt!». Ci fermammo spaventate, in attesa che loro ci raggiungessero. «Avete visto passare una ragazza di corsa?» Stavo per rispondere di sì, che era appena entrata nel portone, ma Amelia mi precedette. «No, non abbiamo visto nessuno, stiamo andando a trovare una cugina ammalata» spiegò. «Davvero nessuno è passato di qua, magari infilandosi in un portone?» «No, signore. Se avessimo visto qualcuno, ve lo diremmo» rispose Amelia in un tono da signorina sdegnosa che non le avevo mai udito prima. I due uomini, certamente poliziotti, sembravano dubbiosi, ma si lasciarono convincere dall'aspetto di Amelia. Era la perfetta incarnazione della ragazza borghese, di buona famiglia. Ripresero a correre, discutendo nel frattempo su come avevano potuto lasciarsi sfuggire la ragazza, mentre noi entrammo nel portone della casa in cui abitava la signorina Laura. Il portiere non c'era, e Amelia sorrise soddisfatta. Probabilmente l'uomo era stato chiamato da uno degli inquilini o stava sbrigando qualche commissione. Con passo deciso, Amelia si diresse in fondo all'atrio e aprì la porta che dava sul cortile. La seguii spaventata, immaginando chi stesse cercando. E infatti, fra i bidoni della spazzatura e gli attrezzi, si nascondeva la ragazza sfuggita alla polizia. «Se ne sono andati, non preoccuparti.»

«Grazie, non so perché non mi hai denunciato, ma grazie.» «Avrei dovuto farlo? Sei una pericolosa delinquente?» domandò Amelia con un sorriso, come se trovasse la situazione divertente. «Delinquente no, ma pericolosa... suppongo di esserlo, per loro, visto che lotto contro l'ingiustizia.» Amelia fu subito incuriosita da quella risposta e, anche se la tiravo per un braccio esortandola a salire in casa della signorina Laura, non mi diede retta. «Sei una rivoluzionaria?» «Sono... sì, potremmo dire così.» «E cosa fai?» «Cucio in una sartoria.» «No, volevo dire, che tipo di rivoluzionaria sei.» La ragazza la guardò diffidente. Era chiaro che non sapeva se rispondere oppure no, ma alla fine si confidò con Amelia, che in fin dei conti era una sconosciuta. «Collaboro con alcuni compagni del comitato dello sciopero: porto i messaggi.» «Che coraggio! Io mi chiamo Amelia Garayoa, e tu?» «Lola, Lola García.» «Edurne, vai a controllare la strada, con cautela, e se vedi qualcosa di sospetto vieni a riferircelo.» Non osai protestare e mi diressi verso il portone, tremando di paura. Pensavo che, se i poliziotti mi avessero vista, avrebbero potuto insospettirsi e farci arrestare tutte e tre. Mi tranquillizzai quando mi accorsi che il portiere non era ancora rientrato e sporsi appena la testa per guardare in giro. Non c'era traccia dei due uomini. «Non c'è nessuno» le informai. «Non importa, credo sia meglio che Lola non esca ancora. Verrà con noi a casa di mia cugina. Ti presenterò come un'amica di Edurne che abbiamo incontrato per strada. Farete merenda in cucina mentre io starò con Laura e, quando sarà ora di andare, quei due uomini avranno ormai smesso di cercarti da

queste parti. Inoltre, mio zio Armando è un avvocato e, se si presentasse la polizia, suppongo che saprebbe cosa fare.» Lola accettò sollevata la proposta di Amelia. Non capiva il motivo per cui quella ragazza borghese la aiutasse, ma era l'unica possibilità che aveva e ne approfittò. Laura era a letto, annoiata, mentre sua sorella Melita prendeva lezioni di pianoforte e sua madre riceveva visite. Quanto al padre, il signor Armando, fratello del papà di Amelia, non era ancora rientrato dall'ufficio. Una cameriera accompagnò me e Lola in cucina e ci offrì un bicchiere di latte con i biscotti. Amelia rimase al capezzale della cugina per raccontarle la sua ultima avventura. Ci fermammo due ore in casa del signor Armando e della signora Elena, per far visita a Laura; due ore che mi sembrarono eterne, perché temevo che, da un momento all'altro, la polizia suonasse alla porta in cerca di Lola. Quando finalmente Amelia decise che era ora di tornare a casa, il signor Armando era appena rientrato e si offrì di accompagnarci, preoccupato di saperci in giro da sole per le strade di una Madrid in preda al caos. Le due case distavano solo quattro isolati, ma il signor Armando insisté comunque per scortare la nipote. Il brav'uomo non si stupì quando Amelia gli disse che sarebbe venuta con noi anche Lola, che presentò come una mia cara amica. Io abbassai gli occhi, perché il signor Armando non notasse il mio nervosismo. «Tuo padre si arrabbierebbe con me se ti lasciassi andare in giro da sola. Non capisco nemmeno come abbiano potuto darti il permesso di uscire. Non è il momento adatto per andarsene a spasso allegramente, Amelia; forse non lo sai, ma nelle Asturie è scoppiata una vera e propria rivoluzione, e qui, anche se lo sciopero è fallito, la sinistra non si rassegna a lasciare le cose come stavano. È pieno di esaltati...» Amelia osservava Lola di sottecchi, ma lei era rimasta impassibile, con gli occhi bassi, come me.

Quando arrivammo a casa, la signora Teresa ringraziò sinceramente il cognato per averci accompagnate. «Non so più cosa fare con questa ragazza, e da quando sta per sposarsi sembra che sia diventata ancora più sconsiderata. Non vedo l'ora che torni suo padre. Juan è l'unico che riesce a domarla.» Quando il signor Armando se ne fu andato, la signora Teresa rivolse la sua attenzione a Lola. «Edurne, non sapevo che avessi delle amiche a Madrid» disse guardandomi incuriosita. «Si sono conosciute tempo fa, mentre Edurne era fuori a svolgere delle commissioni» intervenne Amelia, e meno male, perché io non sarei riuscita a mentire con tanta disinvoltura. «Bene, credo che sia ora di andare a cena. Se questa ragazza vuole scusarci, tua sorella Antonietta ci sta aspettando» concluse la signora Teresa. «Prego, devo proprio andare, sono già in ritardo. Vi ringrazio molto, signorina Amelia, signora Teresa... Edurne, ci vediamo presto, d'accordo?» Annuii col capo, desiderando che se ne andasse e non si facesse mai più vedere; ma i miei desideri non furono esauditi, perché Lola García si sarebbe presto ripresentata sulla mia strada e su quella di Amelia.

2

Come se le emozioni del giorno prima non fossero bastate, il mattino ci riservò delle sorprese. Santiago, che doveva venire a trovare Amelia, non si fece vedere per tutto il giorno. Sulle prime Amelia si era preoccupata, poi si infuriò e chiese alla madre di telefonare ai genitori del fidanzato, con la scusa di definire alcuni dettagli del matrimonio con la madre del suo promesso sposo. La signora Teresa era contraria, ma alla fine cedette alla minaccia di Amelia di presentarsi personalmente a casa di Santiago. Quel pomeriggio Amelia scoprì un aspetto della personalità del suo futuro marito che non poteva nemmeno immaginare. La madre di Santiago informò la signora Teresa che suo figlio non c'era, non era rientrato per pranzo né aveva telefonato, e non sapeva se si sarebbe fatto vedere all'ora di cena. La signora Teresa si stupì che la futura consuocera non fosse preoccupata, ma lei le spiegò che era abituata alle assenze di suo figlio, che non diceva mai dove andava. «Non va in posti in cui non dovrebbe; al contrario, è sempre in giro per lavoro. Mio marito gli ha affidato gli acquisti per la ditta, ed è Santiago che viaggia in Francia, in Germania, a Barcellona... insomma, ovunque debba andare. Ogni volta parte senza dirci nulla; all'inizio la cosa mi preoccupava, ma ora so che non c'è niente da temere» spiegò la signora Bianca. «Ma si accorgerà che parte perché esce di casa con la valigia» rispose, un po' scandalizzata, la signora Teresa. «Mio figlio non porta mai con sé la valigia.» «Ma come? Per viaggi così lunghi... di tanti giorni!» esclamò la signora Teresa.

«Santiago dice che i bagagli li ha nel portafoglio.» «Cosa?» «Sì, prende il treno e, quando arriva a destinazione, compra quel che gli serve; ha sempre fatto così. Come le ho detto, all'inizio mi preoccupavo, perfino suo padre lo rimproverava, ma poi ci siamo abituati. Tranquillizzi Amelia: Santiago tornerà in tempo per le nozze. È così innamorato!» La signora Teresa, senza nascondere le sue perplessità sul comportamento di Santiago, riferì alla figlia la conversazione con la signora Bianca. Anziché tranquillizzarsi, Amelia si innervosì ancora di più. «Che scusa sciocca! Come possiamo credere che viaggi senza valigia e senza dirlo ai genitori? E a me? Perché non mi ha avvisato? Sono la sua fidanzata! Mamma, credo che Santiago si sia pentito... e non voglia più sposarmi. Ah, Dio mio! Cosa tacciamo?!» Amelia scoppiò in pianto e né la signora Teresa né Antonietta riuscirono a consolarla. Io le osservavo nascosta dietro la porta della sala, finché mia madre mi scoprì e mi mandò in cucina. Quella notte Amelia non dormì, o almeno tenne la luce accesa fino all'alba. Il giorno dopo mi svegliò alle sette; voleva che mi vestissi in fretta e andassi a casa Carranza per consegnare una lettera. L'aveva scritta durante la notte. «Quando Santiago tornerà dal viaggio, sempre che sia davvero così e non mi stia invece tradendo, saprà che a me non si fanno cose simili. E se intende lasciarmi, preferisco essere io a fare il primo passo: mi vergognerei moltissimo se i nostri amici sapessero che mi ha abbandonata. Vai subito, prima che mia madre si svegli. Si arrabbierà quando le dirò che ho mandato una lettera a Santiago per annunciargli la rottura del nostro fidanzamento, ma non posso permettergli di umiliarmi.» Mi alzai in tutta fretta, e Amelia fu così incalzante che ebbi appena il tempo di lavarmi. Quando arrivai a casa dei Carranza,

il portone era chiuso e dovetti aspettare che il portiere lo aprisse, alle otto. L'uomo si stupì che volessi salire a quell'ora dai Carranza, ma visto che ero in uniforme da cameriera mi lasciò passare. Una domestica assonnata quanto me venne ad aprire la porta. Le consegnai la busta e le dissi di darla a Santiago, ma lei mi rispose che il signorino Santiago era partito per un viaggio, il signor Manuel stava facendo colazione e la signora Bianca stava ancora riposando. Rientrata a casa, trovai Amelia che mi aspettava con un nuovo incarico: dovevo tornare dai Carranza per restituire le lettere di Santiago, quelle che si scambiano gli innamorati, insieme all'anello di fidanzamento, che avrei dovuto consegnare alla signora Bianca in persona. Tremavo all'idea di quello che avrebbe detto la signora Teresa quando fosse venuta a saperlo e, prima di uscire, andai a cercare mia madre per raccontarle cosa stava succedendo. Lei, con molto buon senso, mi consigliò di aspettare finché non avesse parlato con la signora Teresa e con la stessa Amelia. Visto che la signora non era ancora uscita dalla sua stanza, andò a cercare Amelia. «So che non ho alcun diritto di dirti niente, ma non credi che dovresti riflettere prima di fare un passo del genere? E se Santiago avesse una spiegazione per quel che è successo e tu rompessi il fidanzamento senza averlo prima ascoltato... Non devi essere precipitosa...» «Ma, Amaya, tu dovresti stare dalla mia parte!» «Infatti è così, come potrebbe essere altrimenti? Ma non credo che Santiago voglia rompere il fidanzamento con te. Deve esserci una spiegazione oltre a quella che ci ha dato sua madre. Aspetta che torni, aspetta di sapere da lui...» «Quello che mi ha fatto è imperdonabile! Come posso fidarmi di lui? No, no e no. Voglio che tua figlia Edurne vada a restituirgli le lettere e l'anello in modo da chiarire che tra noi è

tutto finito. E oggi pomeriggio andrò a casa di Victoria, dove incontrerò altre amiche, e sarò io ad annunciare di avere rotto il fidanzamento con Santiago perché non sono sicura dei miei sentimenti per lui. Non permetterò che sia lui a lasciarmi, umiliandomi...» «Amelia, per favore, pensaci su! Parla con tua madre, lei saprà consigliarti meglio di me...» «Cosa succede?» La signora Teresa entrò nella camera di Amelia, richiamata dal tono isterico della figlia. «Mamma, voglio rompere con Santiago!» «Tesoro, ma cosa dici?» «Signora Teresa, io... mi scuso per essermi intromessa in una faccenda di famiglia, ma Amelia vuole che Edurne vada a restituire ai signori Carranza l'anello di fidanzamento...» «L'anello! Ma, Amelia, che intenzioni hai? Tesoro, calmati, non fare niente di cui potresti pentirti.» «Le ho detto la stessa cosa» intervenne mia madre. «No! Rompo con Santiago, è lui a volerlo. Non gli permetterò di mettermi in ridicolo.» «Mio Dio, Amelia, almeno aspetta che torni tuo padre!» «No, perché quando arriverà papà sarò già lo zimbello di tutta Madrid. Oggi andrò da Victoria, e lì annuncerò a tutte le mie amiche che ho rotto con Santiago. E tu, Amaya, di' a Edurne che vada subito dai Carranza. Se non ci andrà, lo farò io.» Anche Antonietta entrò nella stanza della sorella, richiamata dalle voci, e si unì alla supplica di sua madre e della mia, nella speranza di far ragionare Amelia. Fu Antonietta a trovare la soluzione: la signora Teresa avrebbe telefonato di nuovo alla signora Bianca per raccontarle il dispiacere di Amelia e la sua decisione di rompere con Santiago se non si fosse presentato immediatamente a darle una spiegazione. Controvoglia e in preda al nervosismo, la signora Teresa chiamò la signora Bianca. Lei promise di avvisare subito il marito affinché cercasse il figlio, ovunque si trovasse - giurò di non sapere dove fosse -, ma, fino a quel momento, chiedeva ad

Amelia di avere un po' di pazienza e soprattutto di fiducia in Santiago. Amelia accettò di malavoglia, ma andò comunque a fare merenda a casa della sua amica Victoria, insieme ad altre ragazze della sua età. E così, tra risate e confidenze, buttò lì che temeva di essere stata troppo precipitosa a fidanzarsi con Santiago ed espresse i suoi dubbi sull'opportunità di sposarsi. Lei e le sue amiche passarono il pomeriggio ad analizzare i prò e i contro del matrimonio. Quando uscì dalla casa di Victoria, Amelia si sentiva soddisfatta: se Santiago l'avesse lasciata, avrebbe sempre potuto dire di essere stata lei la prima a voler rompere con lui. Non avremmo mai immaginato che quella piccola burrasca, un giorno, si sarebbe trasformata in un tornado che avrebbe travolto chiunque al suo passaggio. Infatti, due giorni più tardi, quando Santiago, che si trovava ad Anversa, telefonò a suo padre per metterlo al corrente di come andava il viaggio d'affari, lui lo esortò a tornare subito a Madrid, perché Amelia se l'era presa per la sua scomparsa e minacciava addirittura di rompere il fidanzamento. Lei lo ricevette in salotto, scortata dalla madre e dalla sorella. «Amelia... mi dispiace di averti fatta arrabbiare, ma non potevo immaginare che la mia assenza per motivi di lavoro ti avrebbe indotta a rompere il nostro fidanzamento.» «Sì, sono arrabbiata. Andartene senza dirmi nulla mi sembra una mancanza di considerazione, da parte tua. Tua madre ci ha spiegato che sei abituato a fare così, ma ammetterai che un simile comportamento è strano, tanto più alla vigilia delle nozze. Non voglio che tu ti senta obbligato perché hai dato la tua parola, perciò ti libero dall'impegno che hai preso con me.» Santiago la fissò a lungo, a disagio. Amelia aveva recitato il copione che stava provando da quando il fidanzato aveva telefonato annunciando la sua visita. La presenza della signora

Teresa e di Antonietta, entrambe nervose, certo non facilitava un chiarimento fra i due. «Se è tuo desiderio rompere il fidanzamento, non mi resta che accettarlo, ma, Dio mi è testimone, i miei sentimenti per te sono rimasti invariati, e non desidero altro che... che mi perdoni se ti ho offesa in qualche modo.» La signora Teresa sospirò sollevata e Antonietta si lasciò scappare una risatina nervosa. Amelia non sapeva cosa fare; da una parte voleva continuare a interpretare il ruolo della dama offesa, perché ci aveva preso gusto, e dall'altra avrebbe voluto chiudere lì la faccenda e sposarsi con Santiago. Fu Antonietta ad aiutare i due fidanzati a risolvere le cose. «Credo che dovremmo lasciarli soli. Non ti sembra, mamma?» «Sì, sì... Insomma, figliolo, se sei sempre deciso a sposare Amelia, noi possiamo solo dirti che hai la nostra benedizione...» Quando li ebbero lasciati soli, i due rimasero per qualche minuto in silenzio, guardandosi di sottecchi, senza sapere cosa dire; poi Amelia scoppiò a ridere davanti a uno sconcertato Santiago. Due minuti dopo chiacchieravano come se niente fosse. Entrambe le famiglie tirarono un sospiro di sollievo. Temevano il peggio: uno scandalo a poche settimane dalle nozze, quando ormai erano già esposte le pubblicazioni, a casa dei Garayoa stavano cominciando ad arrivare i primi regali e il rinfresco, che avrebbe avuto luogo al Ritz, era stato già prenotato e pagato in parti uguali dai genitori degli sposi. Con la scusa del ritorno dall'America del signor Juan, le due famiglie si riunirono a cena a casa dei Garayoa; e così poterono appurare che Amelia e Santiago sembravano innamorati come prima dell'incidente. Forse di più, se era possibile. Il signor Juan era vivamente impressionato da ciò che aveva visto in America. Ammirava gli sforzi di quel popolo per uscire dalla Depressione e paragonava la società statunitense a quella

spagnola. Durante la cena si parlò molto di politica, nonostante la signora Teresa avesse bandito l'argomento a tavola. «Gli americani sanno molto bene quello che vogliono e in quale direzione devono procedere tutti insieme per superare la crisi, e ormai ne stanno uscendo. Il crack del 1929 presto non sarà che un brutto ricordo.» «Caro amico, qui passiamo molto tempo ad accapigliarci gli uni con gli altri; il biennio sociale-azaňista ne è un esempio» disse il signor Manuel. «Non capisco la sua diffidenza nei confronti di Manuel Azaňa» ribatté il signor Juan. «È un politico che sa quello che fa e difende l'idea che lo Stato dev'essere forte per poter attuare le riforme democratiche di cui abbiamo bisogno.» «Be', ha visto anche lei dove ci ha portati la sua politica. Non riuscirà a convincermi che sia stata una buona idea, nel 1932, concedere l'autonomia alla Catalogna, e anche i baschi con il loro Partito nazionalista stanno andando nella stessa direzione. Meno male che adesso, dopo i moti rivoluzionari di ottobre, l'autonomia catalana è stata sospesa.» «Papà, bisogna avere rispetto per i sentimenti della gente, e in Catalogna hanno un fortissimo senso di identità nazionale. La cosa migliore è cercare di incanalare questo sentimento. Manuel Azaňa ha sempre difeso l'unità della Spagna, all'interno della quale bisogna però trovare il modo di sentirci tutti a nostro agio.» Santiago cercava di essere conciliante perché non voleva che suo padre si arrabbiasse per questioni politiche. «Tutti? Chi sono tutti?» chiese irritato il signor Manuel. «La Spagna è un'unità culturale e soprattutto storica, ma con questa storia delle autonomie smetterà di esserlo, vedrete. Sarà il tempo a rivelarcelo.» La signora Teresa e la signora Bianca provarono a cambiare argomento. «Credo che mettano in scena una nuova versione di Nozze di sangue a Madrid» intervenne con voce melliflua la signora

Bianca. «García Lorca è molto audace, ma è un grande drammaturgo.» Tuttavia il tentativo delle due donne fallì. Né il signor Juan né il signor Manuel erano disposti a cambiare argomento. «Ma lei sarà d'accordo con me che il trionfo della destra nel 1933 non ha recato alcun vantaggio alla Spagna. Stanno distruggendo tutto quello che hanno fatto i governi precedenti» intervenne il signor Juan. «Non mi dirà che le sembrava una bella cosa che si potessero espropriare le terre a chiunque solo perché era nobile...» «A chiunque, no. Lei sa bene che il governo del 1931 intendeva farla finita con la Spagna feudale» replicò il signor Juan. «E cosa mi dice della riforma militare del suo tanto ammirato Azaňa? C'è mancato poco che ci lasciasse senza esercito. Ha ritirato più di seimilacinquecento ufficiali, e non faceva altro che parlare di modernizzare l'esercito, per poi ridurre le spese per la difesa» ribatté il signor Manuel. «Hanno anche fatto cose positive, per esempio la riforma religiosa e scolastica...» intervenne Santiago. «Ma cosa dici, Santiago! Mio Dio, figliolo, se non ti conoscessi penserei che sei uno di quei socialisti rivoluzionari!» «Papà, non si tratta di essere rivoluzionari, ma di guardare in faccia la realtà. Quando viaggio per l'Europa, mi rendo conto con dispiacere di quanto siamo arretrati...» «E per questo se la prendono con i poveri preti e le suore che offrono aiuto disinteressato alla società. Tu, figlio mio, che hai la presunzione di essere democratico, vorresti dirmi che è un atto democratico proibire l'insegnamento agli ordini religiosi? Ed espellere un cardinale dalla Spagna perché non piace quello che dice...? È democrazia questa?» «Papà, il cardinale Segura è un uomo pericoloso, ci sentiamo tutti più tranquilli da quando ha lasciato la Spagna.» «Sono stati gli eccessi della sinistra a far vincere la destra da voi tanto vituperata!» esclamò arrabbiato il signor Manuel.

«Credo che ci sia motivo di preoccuparsi per quello che sta facendo la destra, non solo in Spagna. Pensi alla Germania: quell'Hitler è un demente. Non mi stupisce che la gente di sinistra sia allarmata» replicò il signor Juan. «Io stesso sono una vittima indiretta del fanatismo di Hitler. La sua politica antiebraica ha portato alla soppressione dei diritti legali e civili degli ebrei, precludendo loro qualunque attività economica. Il mio socio Herr Itzhak Wassermann è ebreo. Abbiamo dovuto chiudere l'attività. Sapete che ci hanno rotto i vetri del magazzino almeno quattro volte?» «Hitler intende espellere gli ebrei dalla Germania» sentenziò Santiago. «Sì, ma gli ebrei tedeschi sono tedeschi come tutti gli altri, non potranno privarli di quello che sono» intervenne la signora Teresa. «Non essere ingenua, tesoro. Hitler è capace di tutto» intervenne il signor Juan. «E il povero Helmut, il nostro impiegato, deve stare attento solo per il fatto di aver lavorato con un ebreo.» «Sì, quello che sta succedendo in Germania è terribile, ma non ha niente a che vedere con quanto accade qui, mio caro amico. Là c'è una brutta situazione, ma non può fare paragoni... Noi dobbiamo preoccuparci delle minacce di certi socialisti che parlano di mettere fine alla democrazia borghese. Perfino uomini moderati come Prieto hanno finito per parlare di rivoluzione.» «Be', è un modo di frenare la destra, i suoi piani più controversi. Non possono distruggere tutto quello che è stato fatto prima. Prieto sta dando loro un avvertimento, affinché ci pensino meglio prima di agire» argomentò Santiago. «Figliolo, quello che è successo nelle Asturie è stato un moto rivoluzionario, e se si estende nel resto della Spagna sarà una catastrofe!» «Il nostro problema» replicò Santiago «è che sia la destra sia la sinistra stanno danneggiando la repubblica. Né gli uni né gli

altri ci credono per davvero e non vogliono affatto trovare una soluzione.» Santiago aveva una visione diversa della politica, forse perché viaggiava molto fuori dalla Spagna. Pur simpatizzando per la sinistra, non le risparmiava le critiche. Era azaňista, nutriva grande ammirazione per Manuel Azaňa. Le nozze si celebrarono il 18 dicembre. Faceva molto freddo e pioveva, ma Amelia era radiosa con il vestito bianco di taffettà e seta. Alle cinque in punto del pomeriggio, nella chiesa di San Ginés, Amelia e Santiago si sposarono. Il loro fu uno di quei matrimoni che trovavano eco nelle cronache mondane dei giornali madrileni: tra gli invitati c'era gente che arrivava da ogni parte, visto che Manuel Carranza e Juan Garayoa facevano affari in molte province spagnole. La signora Teresa era più nervosa di Amelia, e come lei anche Melita e Laura, che, insieme ad Antonietta, erano le damigelle d'onore. La cerimonia venne celebrata da tre sacerdoti amici di famiglia. E più tardi, durante il ricevimento al Ritz, Amelia e Santiago aprirono le danze. Fu un matrimonio meraviglioso, sì... Amelia diceva che erano state le nozze che aveva sempre sognato, che non avrebbe potuto immaginarle in modo diverso. Quando, verso mezzanotte, salutarono gli invitati, Amelia abbracciò Laura piangendo. Erano sempre molto legate, ma sapevano che da quella notte in poi la loro vita sarebbe cambiata: Amelia non era più la ragazzina a cui sarebbe stata permessa qualunque marachella, ormai era diventata una donna. Edurne rimase in silenzio. Aveva parlato a lungo, e io non mi ero mosso, affascinato dal racconto. Cominciavo ad avere una vaga idea di com'era la mia

bisnonna e devo riconoscere che in lei c'era qualcosa che mi intrigava. Forse era il modo in cui Edurne l'aveva descritta, oppure semplicemente era riuscita a risvegliare la mia curiosità. L'anziana cameriera della mia bisnonna sembrava esausta. Le chiesi se volesse un bicchier d'acqua, ma lei fece segno di no col capo. Si trovava lì, a parlare con me, perché le signore Garayoa glielo avevano ordinato. Fra loro si era mantenuto un legame in cui ognuna aveva un ruolo prestabilito: le signore comandavano, Edurne obbediva. Così era stato in passato, così continuava a essere nel presente; ormai nessuna di loro poteva più aspirare ad avere un futuro. «E poi cos'è successo?» chiesi, deciso a non farle perdere il filo. «Partirono per Parigi in viaggio di nozze, in treno. Amelia aveva tre valigie. Attraversarono anche la Manica, per andare a Londra. La traversata, a quanto so, fu terribile e lei patì il mal di mare. Rientrarono solo a fine gennaio. Santiago ne approfittò per incontrare alcuni soci d'affari.» «E poi?» insistei, perché non volevo pensare che la storia finisse così. «Tornati dalla luna di miele si trasferirono nella casa che il signor Manuel aveva regalato a suo figlio per le nozze, qui vicino, all'inizio di calle Serrano. Il signor Juan e la signora Teresa avevano pensato ad arredarla, premurandosi di farla trovare pronta, in ogni dettaglio, al ritorno degli sposi da Parigi. Io andai a servizio a casa di Amelia. Non pensi che non mi sia costato separarmi da mia madre, ma Amelia aveva insistito che la seguissi. Non mi trattava come una serva, ma come un'amica; suppongo che i mesi passati alla cascina avessero consolidato il nostro rapporto rendendolo speciale. Santiago si stupiva per la familiarità che c'era tra noi, e anche lui finì per esserne coinvolto. Sa? Era una bella persona... Amelia gli chiese il permesso di finire gli studi magistrali e lui accettò di buon grado; la conosceva e sapeva che difficilmente si sarebbe

accontentata del ruolo di padrona di casa. Quanto a me, lei voleva che studiassi, che avessi delle ambizioni. Ormai ha capito com'era fatta. Ma, senza dubbio, su Amelia aveva molta influenza anche Lola García, che la convinse a mandarmi a studiare in un locale gestito dalla Gioventù socialista spagnola. Lì insegnavano di tutto: a leggere, a scrivere a macchina, a ballare, a cucire...» «Lola García? Quella che fuggiva dalla polizia?» «Sì, proprio lei. È stata un personaggio determinante nella vita di Amelia... e nella mia.» Edurne era molto affaticata, ma non volevo che smettesse ili parlare. Intuivo che la parte più interessante era quella che ancora doveva raccontarmi. Perciò insistei per farle bere un po' d'acqua. «Mi perdoni la domanda, Edurne, ma quanti anni ha?» «Due meno di Amelia, novantatré.» «Quindi la mia bisnonna adesso avrebbe novantacinque anni...» «Proprio così. Vuole che continui?» Annuii, pieno di gratitudine, e provai il desiderio di accendermi una sigaretta. Ma temendo che da un momento all'altro comparisse la domestica o la nipote delle due anziane padrone di casa, decisi di non sfidare la sorte. Amelia era appena tornata dalla luna di miele a Parigi quando rivide Lola García. Accadde per caso. Lola andava, tre pomeriggi alla settimana, a fare il bucato, a cucire e a stirare da certi marchesi che vivevano nel quartiere di Salamanca, vicino alla casa di suo zio Armando. Un pomeriggio, mentre Amelia stava rientrando dopo aver fatto visita a Melita e Laura, incontrò Lola. Amelia ne fu davvero molto felice, e Lola, pur riluttante, alla fine accettò di accompagnarla fino alla sua nuova casa da sposina. Amelia trattava Lola come se fossero amiche da sempre: si interessava alla sua vita, soprattutto alle vicende politiche. Lola

rispondeva alle domande con aria diffidente; non capiva quella ragazza borghese, che viveva in una lussuosa casa nel quartiere Salamanca, ed era ansiosa di saperne di più sulle richieste degli operai e sui motivi dello scontento sociale. Servii il caffè in salotto, e Amelia mi invitò a sedermi con loro. Mi sentivo a disagio, proprio come Lola, ma Amelia non sembrava rendersene conto. Lola le spiegò che studiava in una Casa del Popolo, dove le avevano insegnato a leggere e a scrivere, le impartivano lezioni di storia, di teatro e persino di ballo. Amelia sembrava entusiasta e chiese se mi avrebbero ammessa o se avrei dovuto iscrivermi alla Gioventù socialista. Lola non ne era sicura, ma promise di informarsi. «Penso che la ammetteranno. In fin dei conti, Edurne è una lavoratrice... anche se... Non ti piacerebbe iscriverti?» «Io... insomma, non mi sono mai interessata molto di politica, non sono come mio fratello» risposi. «Hai un fratello? In quale partito milita?» volle sapere Lola. «Nel Partito nazionalista basco, e poi lavora in una delle sedi del partito...» «Quindi collabora con i borghesi nazionalisti.» «Be', ha un lavoro, e inoltre è convinto che noi baschi siamo diversi» spiegai, imbarazzata. «Ah, sì? Diversi? E perché? Dovremmo essere tutti uguali, avere gli stessi diritti, non importa da dove veniamo. No, non siete diversi, tu sei un'operaia come me. Che cos'hai di diverso? Il fatto che sei nata in una cascina e io a Madrid? Nessuno ci regala niente, conta solo quello che saremo in grado di fare per noi stesse.» Lola era una fervente socialista e parlava di diritti e di uguaglianza con una passione che contagiò Amelia. Sarei andata a studiare nella Casa del Popolo: mi ci avrebbe accompagnata Lola. Quello stesso pomeriggio si decise il mio destino, ma, soprattutto, quello di Amelia.

3

Le visite di Lola a casa di Amelia si fecero piuttosto frequenti. Finché un giorno Amelia chiese a Lola di portarla a una riunione politica del Partito socialista o dell'Unione generale dei lavoratori. «Ma cosa ci vieni a fare tu a una delle nostre riunioni? Noi vogliamo sopprimere l'ordine borghese e tu... be', tu sei una borghese, tuo marito è un imprenditore, e anche tuo padre...Mi sono affezionata a te perché sei una brava persona, però, Amelia, tu non sei dei nostri.» Amelia si sentì ferita dalle parole di Lola. Non capiva perché la rifiutasse in quel modo, perché non la considerasse una di loro. Io non sapevo cosa dire. Da ormai due mesi frequentavo le lezioni alla Casa del Popolo ed ero soddisfatta dei miei progressi. Stavo imparando a scrivere a macchina e temevo che, se Amelia avesse litigato con Lola, avrei dovuto smettere di andarci. Ma Amelia non si arrabbiò; le chiese semplicemente cosa doveva fare per diventare socialista, per essere accettata da chi aveva poco e soffriva tanto. Lola le promise che avrebbe parlato con i suoi capi e le avrebbe dato una risposta. Santiago sapeva dell'amicizia tra Amelia e Lola e non fece obiezioni, ma ci fu una discussione quando Amelia gli annunciò che, se l'avessero ammessa, sarebbe diventata socialista. «Non ti considereranno mai una di loro, non illuderti» le spiegò Santiago. «Non condivido le ingiustizie, e sai bene cosa penso dei governi radicali-cedisti. Questa destra non è all'altezza della situazione, ma non credo che la rivoluzione possa essere la soluzione giusta. Se vuoi, un giorno ti porterò a un'assemblea della Sinistra repubblicana: sono loro i migliori per rappresentarci, Amelia, non Largo Caballero né Prieto.

Pensaci, non voglio che ti usino o che ti facciano del male.» Nell'anno 1935 la destra aveva lanciato una campagna denigratoria contro Manuel Azaňa. Santiago sosteneva che lo facessero perché lo temevano, perché sapevano che era l'unico politico spagnolo in grado di trovare una via d'uscita alla situazione di stallo in cui si trovava la repubblica. Amelia non riuscì a fare richiesta per essere ammessa tra i socialisti, ma aiutava Lola come poteva e soprattutto era d'accordo con lei che quelle continue crisi ministeriali e di governo fossero la chiara dimostrazione che nemmeno i radicali di Lerroux e tanto meno la CEDA di Gil Robles avevano la soluzione ai problemi della Spagna. Lola faceva parte della sezione più rivoluzionaria del Partito socialista, la Largo Caballero, ed era una fervente ammiratrice della rivoluzione sovietica. Finalmente un giorno esaudì le insistenti richieste di Amelia e la portò a una riunione a cui partecipavano alcuni importanti dirigenti socialisti. Amelia tornò a casa emozionata, ma anche un po' spaventata. Quegli uomini avevano una forza magnetica, parlavano al cuore di chi non possedeva nulla, ma al contempo non offrivano altre soluzioni che la rivoluzione. Pertanto Amelia nutriva un sentimento contraddittorio nei confronti dei socialisti. Santiago, preoccupato dall'influenza che Lola esercitava su sua moglie, cominciò a portarla ai comizi di Manuel Azaňa. E Amelia era combattuta fra l'ammirazione profonda e lo sconcerto che le suscitavano politici tanto diversi, molto distanti, ma altrettanto convinti della bontà delle proprie idee. Amelia frequentava sia operai socialisti amici di Lola, sia giovani comunisti, sia azaňisti convinti come la maggior parte degli amici di Santiago. Cominciò a vivere in due mondi: il suo, che le apparteneva per nascita e matrimonio, cioè quello di una ragazza borghese, e quello di Lola, una sartina che voleva

abolire il regime borghese costituito e, in definitiva, i privilegi di cui godeva Amelia. Spesso la accompagnavo alle riunioni politiche insieme a Lola, ma non sempre, perché Amelia non voleva che trascurassi di perfezionare la mia istruzione alla Casa del Popolo. Ai primi di marzo Amelia cominciò a sentirsi indisposta. Nausea e vomito annunciarono la gravidanza. Santiago era felice: avrebbe avuto un figlio e inoltre sperava che la maternità potesse attenuare la passione politica di sua moglie. Ma in questo si sbagliava. Il fatto di essere incinta non impedì ad Amelia di continuare ad accompagnare Lola alle riunioni, nonostante le proteste del marito e dei genitori. Il signor Juan e la signora Teresa supplicarono infatti la figlia di lasciar perdere la politica almeno durante quel periodo tanto delicato per lei. Però fu tutto inutile: nemmeno sua cugina Laura riuscì a farla ragionare, e lei aveva sempre esercitato un grande ascendente su Amelia. E un giorno accadde di nuovo. Santiago scomparve. Credo che fosse il mese di aprile del 1935. Amelia era uscita per andare alle sue lezioni mattutine e nel pomeriggio era passata a casa delle cugine, che continuava a vedere spesso. Laura era sempre la sua migliore amica. Anche lei si appassionava alla politica quanto Amelia, ma le sue idee, come quelle di Santiago, erano piuttosto di matrice azaňista. Quando, a sera, Amelia rientrò a casa, attese Santiago per cena, ma alle undici non era ancora tornato e in ufficio non rispondeva nessuno. Amelia era preoccupata. In quei giorni i disordini a Madrid erano frequenti, soprattutto i regolamenti di conti fra partiti, perché c'erano elementi di estrema destra che cercavano il confronto con la gente di sinistra, che a sua volta rispondeva agli attacchi. Aspettammo tutta la notte e il mattino seguente Amelia telefonò al padre di Santiago. Il signor Manuel le disse di non sapere dove fosse suo figlio,

ma che poteva essere partito, dal momento che aveva in programma un viaggio a Londra per incontrare un fornitore. Amelia ebbe un attacco di rabbia. Si buttò sul letto in lacrime, gridando e giurando che non avrebbe mai perdonato al marito un simile affronto. Poi sembrò calmarsi pensando che magari aveva avuto un incidente e lo stava giudicando male. Dovetti chiamare la signora Teresa, che accorse immediatamente con Antonietta per gestire la situazione. Anche Laura, che conosceva bene le reazioni della cugina, giunse non appena apprese la notizia. Santiago ricomparve quindici giorni dopo, e in quelle due settimane Amelia cambiò per sempre. Ricordo ancora la conversazione che ebbe con sua madre, la sorella Antonietta e le cugine Laura e Melita. «Se è stato capace di abbandonarmi incinta, di cosa non sarebbe capace? Non posso fidarmi di lui.» «Tesoro, non dire così, ormai conosci Santiago; la signora Bianca te l'ha spiegato: come madre anche lei soffriva quando suo figlio spariva, ma lui è fatto così, non lo fa con cattive intenzioni.» «No, non lo fa con cattive intenzioni, ma dovrebbe rendersi conto di tutto il male che causa. Amelia è incinta e darle questo dispiacere...» commentò Laura. «Ma Santiago la ama» insisté Antonietta, che venerava il cognato. «Bel modo di dimostrarlo! Per poco non mi ammazza dal dolore!» esclamò Amelia. «Su, cara cugina, non esagerare» intervenne Melita. «Gli uomini non hanno la nostra sensibilità.» «Ma non per questo possono fare tutto quello che vogliono» disse Laura. «Agli uomini bisogna perdonare molte cose» spiegò conciliante la signora Teresa. «Dubito che papà ti abbia mai fatto quello che Santiago ha fatto a me. No, mamma, non intendo perdonarlo. Chi ha

stabilito che gli uomini hanno il diritto di fare tutto quel che vogliono con noi? Non glielo permetterò!» A partire da quel momento l'interesse di Amelia per la politica o, meglio, per il socialismo raddoppiò. Non partecipò più alle riunioni né ai comizi del partito di Azaňa e, nonostante le suppliche di Santiago, preoccupato per la gravidanza, diventò una collaboratrice disinteressata di Lola in tutte le sue attività politiche, pur avendo scoperto che l'amica non la ricambiava con la stessa devozione. Un pomeriggio di maggio accompagnai Amelia e la madre dal medico. Quando uscimmo dall'ambulatorio, la signora Teresa ci invitò a passare da Viena Capellanes, la miglior pasticceria di Madrid. Dovevamo festeggiare il fatto che il medico aveva assicurato che la gravidanza di Amelia procedeva bene. Stavamo per entrare nel negozio quando, sul marciapiede di fronte, vedemmo Lola. Andava di fretta e teneva per mano un ragazzino sui dieci o dodici anni. Sembrava che lo stesse sgridando, perché il bambino la ascoltava mogio. Amelia lasciò il braccio della madre per invitare Lola a unirsi a noi. Lola non nascose il suo disagio appena ci vide. Ma le più sorprese fummo noi quando sentimmo il bambino che diceva: «Mamma, chi sono queste signore?». Malvolentieri, Lola ci presentò suo figlio. «Si chiama Pablo, come Pablo Iglesias, il fondatore del Partito socialista.» «Non sapevo che avessi un figlio» disse Amelia, addolorata dall'evidenza che la sua amica avesse dei segreti con lei. «E perché avrei dovuto dirtelo?» ribatté Lola, infastidita. «Be', mi avrebbe fatto piacere conoscerlo prima. Volete fare merenda con noi da Viena?» propose Amelia. Pablo rispose immediatamente di sì - non era mai entrato in vita sua in una pasticceria così elegante -, tuttavia Lola sembrò esitare. Anche la signora Teresa era a disagio a causa della situazione e io ero preoccupata per le conseguenze che poteva

avere quella inattesa rivelazione. Alla fine Lola accettò di concedere a suo figlio l'occasione di far merenda in un posto tanto rinomato. «Non sapevo che fossi sposata...» disse la signora Teresa per avviare la conversazione. «Non lo sono» ribatté Lola lasciandola attonita. «Non hai marito? Ma allora...?» intervenne Amelia. «Non serve un marito per avere figli, e io non ho voluto sposarmi. Pablo è arrivato senza che lo cercassimo, ed eccolo qui.» «Ma avrà pure un padre...» insisté Amelia. «Certo che ce l'ho!» esclamò Pablo seccato. «E si chiama Josep! Sono mezzo catalano perché mio padre è catalano. Adesso non è qui, ma viene a trovarci appena può.» Lola squadrò suo figlio furibonda e, dal suo sguardo, intuimmo che non gli avrebbe risparmiato una bella ramanzina quando fossero stati soli. Ma Pablo decise di ignorare sua madre e di continuare a parlare. «Mio padre è comunista. Voi cosa siete?» Senza che potessimo fare niente per evitarlo, Lola gli diede uno schiaffo, intimandogli di tacere. La signora Teresa dovette intervenire per placare il pianto del bambino e le ire della madre. «Su, su! Bevi la cioccolata che hai ordinato... E tu, Lola, non picchiare il bambino, è piccolo e non ha fatto altro che raccontare che ha un padre di cui si sente orgoglioso, non è certo un motivo per sgridarlo.» La buona signora Teresa cercava di calmare Lola. «Gli dico sempre di tenere la bocca chiusa, di non raccontare niente su di me né su suo padre; c'è gente che ha paura dei comunisti e dei socialisti e che potrebbe metterci in pericolo.» «Ma noi no! Io sono tua amica» affermò Amelia, addolorata. «Certo, certo... ma comunque... Pablo, finisci la cioccolata e la brioche, che dobbiamo andare.»

Il giorno dopo, mentre io e Amelia stavamo cucendo, Lola si presentò a casa. Stavo per uscire dalla stanza, ma visto che Amelia non mi chiese di andarmene preferii restare per scoprire quello che Lola aveva da raccontare. «Non ti avevo detto che ho un figlio perché non mi piace mettere in piazza la mia vita con il primo che passa» si giustificò Lola. «Ma io non sono il primo che passa! Pensavo che ormai ti fidassi di me, insomma, ti consideravo un'amica.» Lola si morse il labbro. Era evidente che aveva rimuginato molto su quanto stava per dire e non voleva lasciarsi trascinare dal suo temperamento. «Sei una brava persona, ma noi non siamo amiche... Devi capirlo, io e te non siamo uguali...» «E invece sì che siamo uguali, siamo due donne che provano simpatia reciproca; tu mi hai convinta su diverse cose, mi hai fatto vedere quello che c'è fuori da queste quattro mura, mi hai fatta sentire una privilegiata e in colpa per esserlo. Cerco di sostenere la tua causa perché credo che sia giusta, perché non mi sembra bello avere tutto quando altri non hanno niente. Ma a quanto pare a te non basta, e sai una cosa, Lola? Non intendo chiedere scusa. No, non chiederò scusa perché ho dei genitori stupendi, un marito affettuoso e una famiglia che mi protegge. E quanto al denaro... Mio padre ha lavorato per tutta la vita, proprio come i miei nonni e i miei bisnonni... E Santiago, tu hai visto quanto sgobba: passa le giornate in fabbrica, si preoccupa del benessere di chi lavora per lui. Nonostante questo, ammetto che abbiamo più di quanto ci serva, e non è giusto che noi abbiamo tanto mentre altri non hanno niente. Ma tu sai, Lola, che non sfruttiamo nessuno e aiutiamo gli altri per quanto possiamo: evidentemente questo non ti basta, ecco perché non avrai mai fiducia in me.» Litigarono, ma alla fine si riconciliarono, benché Amelia si rendesse conto che tra lei e Lola c'era una barriera - quella dei

pregiudizi della stessa Lola - che sarebbe stato difficile abbattere. Nonostante questo, Amelia si dedicò ancora di più, se possibile, all'attività politica: si offrì volontaria per insegnare in una Casa del Popolo. Faceva lavori d'ufficio per il gruppo in cui militava Lola e svolgeva diligentemente gli incarichi che le venivano affidati. La militanza politica di Amelia procedeva in parallelo a quella di Santiago. Infatti, tra maggio e ottobre del 1935, Manuel Azaňa partecipò a una serie di comizi, ottenendo l'appoggio di vasti settori della società, e Santiago assisté a molti di quegli incontri della Sinistra repubblicana. Era convinto che la soluzione dei problemi della Spagna fosse rappresentata dall'ascesa di Manuel Azaňa al governo del paese, immerso in una crisi istituzionale ed economica sempre più profonda. Nel resto del mondo le cose non andavano meglio. Hitler preoccupava tutta l'Europa. Una sera di aprile, in cui i genitori di Amelia erano ospiti a cena dalla figlia e dal genero, il signor Juan commentò con soddisfazione il fatto che la Società delle Nazioni avesse condannato il riarmo della Germania. «Sembra che finalmente si cominci a fare qualcosa contro quel pazzo...» disse il signor Juan a Santiago. «Non sarei così ottimista. In Europa c'è molta preoccupazione per quanto è accaduto in Russia; temono il contagio della rivoluzione dei soviet» replicò il genero. «Sì, potresti avere ragione. Sembra che il mondo sia impazzito, non fanno altro che giungere notizie di quanto sia implacabile Stalin con i dissidenti» osservò il signor Juan. Amelia intervenne con furia, sorprendendo suo padre e suo marito. «Non dobbiamo credere alla propaganda dei fascisti! Il fatto è che qualcuno ha paura di perdere i propri privilegi, ma i russi per la prima volta conoscono la dignità, stanno costruendo una repubblica di lavoratori, di uomini e donne uguali, liberi...»

«Ma, figlia mia, cosa dici?» «Amelia, non agitarti, ricorda che sei incinta.» La signora Teresa soffriva per la figlia. «Sai, Amelia, mi preoccupa sentirti dire queste cose. Ti lasci influenzare dalla propaganda dei comunisti.» Santiago sembrava arrabbiato. «Su, su, non litigate, non fa bene al bambino...» La signora Teresa detestava le discussioni politiche, e adesso vi partecipava anche Amelia. «Ma non stiamo litigando, mamma. Il fatto è che non mi piace che papà dica che in Russia le cose non vanno bene. E tu, Santiago, dovresti desiderare che nel resto dell'Europa arrivi un po' della rivoluzione sovietica: la gente non può aspettare in eterno per essere trattata con giustizia.» Quella sera Amelia e Santiago litigarono. Appena il signor Juan e la signora Teresa se ne furono andati, la coppia iniziò una discussione che si udì in tutta la casa. «Amelia, devi smettere di vedere Lola! Ti sta mettendo certe idee in testa...» «Che cosa mi sta mettendo? Credi che io sia stupida, che non sia capace di pensare con la mia testa, che non mi renda conto di quanto succede intorno a me? La destra ci sta portando al disastro... Anche tu ti lamenti della situazione, e mio padre...sai bene quante difficoltà sta affrontando la mia famiglia...» «La soluzione non è certo la rivoluzione. In suo nome si commettono molte ingiustizie. Credi che la tua amica Lola avrebbe pietà di te se qui scoppiasse una rivoluzione?» «Pietà? E perché dovrebbe avere pietà? Io sosterrei la rivoluzione!» «Sei pazza!» «Come osi darmi della pazza?» «Mi dispiace, non volevo offenderti, ma mi preoccupa quello che dici. Non hai idea di quanto sta succedendo in Russia...» «Sei tu che non ne hai idea! Ecco cosa sta succedendo in Russia: la gente mangia; sì, per la prima volta c'è da mangiare

per tutti. Non ci sono più poveri, hanno fatto fuori i capitalisti che si comportavano come sanguisughe, e...» «Ma, tesoro, non essere ingenua!» «Ingenua io?» Amelia uscì dalla stanza in lacrime sbattendo la porta. Santiago la seguì fino in camera da letto, preoccupato che la lite potesse nuocere al figlio che aspettavano. Amelia era sempre più influenzata dalle idee di Lola o, meglio, di Josep, suo compagno e padre di Pablo. Perché Amelia alla fine l'aveva conosciuto. Un pomeriggio in cui ci eravamo recate a casa di Lola, c'era anche lui, appena arrivato da Barcellona. Josep era un bell'uomo. Alto, aitante, con gli occhi neri e l'aria fiera, aveva un modo di fare gentile e al contempo cauto, senza sembrare diffidente come Lola. «Lola mi ha parlato di te, so che l'hai aiutata. Se l'avessero presa, di certo sarebbe ancora in carcere. Quegli schifosi fascisti non sanno come ci si comporta con le donne. È un peccato che non siamo riusciti a fare la rivoluzione. La prossima volta ci prepareremo meglio.» «Sì, è un peccato che le cose non siano andate bene» replicò Amelia. Per due ore Josep monopolizzò la conversazione, e sarebbe stato così tutte le volte che l'avremmo visto. Ci raccontava come stavano cambiando le cose in Russia, dove le persone non erano più servi ma cittadini, dove Stalin stava consolidando la rivoluzione, mettendo in pratica le promesse dei bolscevichi: erano state soppresse le classi sociali e il popolo mangiava. Si stavano avviando piani di sviluppo e i contadini ne erano entusiasti. Josep ci descriveva il paradiso, e Amelia lo ascoltava affascinata, bevendosi ogni sua parola. Anch'io ero entusiasta di quei racconti e mi ripromettevo di scrivere a mio fratello Aitor, per convincerlo a riflettere e ad aprire la mente alle nuove idee

che arrivavano dalla Russia. Noi non eravamo signori, ma contadini; la nostra gente era come Josep. Naturalmente sapevo che Aitor non mi avrebbe dato retta; lui continuava a lavorare e a militare nel Partito nazionalista basco e sognava una patria basca, anche se evitava di dirlo apertamente. In quel momento, non capii perché, mi accorsi che Josep sembrava interessato ad Amelia, e durante il suo soggiorno a Madrid mandò più volte Lola a chiamarci. Amelia era entusiasta che un uomo come Josep la prendesse sul serio. In effetti, a Barcellona, Josep era un leader comunista. Faceva l'autista per una famiglia della borghesia catalana. Ogni giorno portava il suo padrone alla fabbrica di tessuti a Mataró, accompagnava la signora quando effettuava il suo giro di visite di cortesia e portava i bambini a scuola. Prima aveva lavorato come autista di autobus. Aveva conosciuto Lola durante un viaggio dei suoi padroni a Madrid, e avevano avuto Pablo senza che nessuno dei due intendesse sposarsi, o almeno così dicevano; io però avevo il sospetto che Josep fosse stato sposato prima di conoscere Lola. Avevano uno strano rapporto, perché si vedevano solo quando Josep veniva a Madrid per accompagnare il suo principale, il che succedeva ogni mese e mezzo, visto che il padrone vendeva stoffe in tutta la Spagna e aveva un socio nella capitale. Nonostante quella relazione saltuaria, Lola e Josep sembravano molto affiatati e, ovviamente, Pablo adorava suo padre. A quanto diceva, Josep era in ottimi rapporti con i dirigenti comunisti catalani. Amelia si sentiva onorata che un militante comunista di quel calibro fosse interessato a conoscere le sue opinioni e la ascoltasse. Ma Josep dedicava buona parte del tempo che passava con noi a indottrinarci, a portare acqua al suo mulino, a convincerci che il futuro sarebbe stato dei comunisti e la rivoluzione sovietica solo l'inizio di un grande sconvolgimento mondiale a cui nessuna forza umana poteva opporsi. «Sapete perché la rivoluzione trionferà? Perché noi siamo di

più. Sì, noi che non abbiamo niente siamo più numerosi, ma al contempo possediamo un grande tesoro: la nostra forza lavoro. Il mondo non potrebbe andare avanti senza di noi. Siamo il progresso. Chi muoverà le macchine? Forse i signori ricchi? Se sapeste come si vive nell'Unione Sovietica, i progressi ottenuti in meno di vent'anni... A Mosca, da aprile, ci sono i treni sotterranei, una rete metropolitana di ottantadue chilometri di lunghezza. È un fatto importantissimo, ma la cosa più importante è che le stazioni sono decorate da opere d'arte, lampadari di cristallo, quadri e affreschi alle pareti... e tutto questo per gli operai, per chi non ha mai avuto la possibilità di ammirare un quadro né di essere illuminato da lampade di cristallo pregiato... Ecco lo spirito della rivoluzione...» Amelia non ebbe il coraggio di compiere un simile passo, ma io chiesi a Josep di farmi da garante per entrare nel Partito comunista. Cos'altro poteva diventare una ragazza come me, nata sulle montagne, che lavorava da quando aveva memoria? Un giorno Lola ci lasciò un messaggio a casa Con cui ci invitava quella sera stessa a raggiungere lei, Josep e alcuni compagni comunisti. Amelia non sapeva come dire a Santiago che sarebbe uscita di sera, soprattutto perché in quei giorni, nelle strade, c'erano continui scontri fra sinistra e destra, che finivano sempre con qualche ferito, se non addirittura qualche morto. «Non avrei dovuto sposarmi» si lamentava Amelia «perché adesso non posso fare nemmeno un passo senza consultare Santiago.» In realtà, non era vero che rendeva partecipe suo marito di ogni sua attività politica, ma uscire di sera da sola andava al di là delle sue possibilità. Amelia, però, era sempre stata molto ostinata, perciò, appena Santiago entrò in casa, gli comunicò apertamente la sua decisione di uscire per andare da Lola e Josep a conoscere alcuni amici comunisti della coppia. Ebbero una discussione che si risolse a favore di Santiago. «Ma cosa pretendi? Credi che con quello che sta succedendo

permetterò che tu vada oltre Ventas, fino a casa di Lola, insieme a gente che non abbiamo idea di chi sia? Se non ti importa di me, se non ti importa nemmeno di te, almeno pensa a nostro figlio. Non hai alcun diritto di metterlo in pericolo. Begli amici quella Lola e quel Josep, che chiedono a una donna incinta di andare in giro di notte per Madrid!» Santiago non cedette, per quanto Amelia avesse cercato di convincerlo con moine e smancerie, poi con le lacrime e addirittura con le grida. Alla fine, comunque, non si azzardò a uscire di casa senza il suo consenso. La situazione politica era sempre più compromessa e, per quanto si sforzasse, il presidente della repubblica Niceto Alcalá Zamora era impotente e non riusciva a ottenere il minimo consenso dalla sinistra e dalla CEDA. Joaquín Chapaprieta, che era stato ministro del Tesoro, ricevette da Alcalá Zamora l'incarico di formare il governo, ma il tentativo fallì. Ricordo che una domenica andammo a pranzo a casa dei Carranza. Credo fosse ottobre, perché Amelia era alla fine della gravidanza e non sopportava di vedersi grassa e impacciata. Il signor Manuel e la signora Bianca avevano invitato tutti i Garayoa, non solo i genitori di Amelia, ma anche il signor Armando e la signora Elena, perciò erano presenti anche le cugine, Melita e Laura, e il piccolo Jesús. Ricordo quel pranzo, perché per poco Amelia non partorì prima del previsto. Il signor Juan era più preoccupato del solito, perché aveva ricevuto una lettera da colui che fino ad allora era stato un suo impiegato, Herr Helmut Keller, in cui si spiegava nei dettagli in cosa consistessero le leggi di Norimberga, promulgate nel settembre di quell'anno. Helmut era allarmato perché, secondo il nuovo ordinamento, solo chi aveva sangue "puro" poteva essere considerato tedesco; tutti gli altri diventavano cittadini di seconda classe. Erano inoltre vietati i matrimoni tra ebrei e

ariani. Il signor Keller credeva che per Itzhak Wassermann e la sua famiglia fosse giunto il momento di lasciare la Germania, ma si lamentava perché non era ancora riuscito a convincerli a farlo; parecchie famiglie ebree erano già emigrate, per paura di quello che stava succedendo. Il signor Keller chiedeva al signor Juan di cercare di convincere Herr Itzhak. «Penso che andrò in Germania. Devo portare via di lì quel brav'uomo di Itzhak e la sua famiglia. Temo per la loro vita» si lamentò il signor Juan. «Ma potrebbe essere pericoloso!» esclamò la signora Teresa. «Pericoloso? Perché? Io non sono ebreo.» «Ma Herr Itzhak sì, e guarda cos'è successo alla ditta: vi hanno rovinato, è da molti mesi che nessuna azienda tedesca vi compra e vi vende materiali, vi hanno perfino accusati di frode.» La signora Teresa era davvero spaventata. «Lo so, cara, lo so, ma non sono riusciti a provare niente.» «Ma vi hanno comunque chiuso il magazzino.» «Cerca di capire, devo andare.» «Se mi permette, credo che sua moglie abbia ragione.» La voce stentorea del signor Manuel si intromise nella discussione tra il signor Juan e la signora Teresa. «Amico mio, dovrebbe rassegnarsi alla perdita dei suoi affari in Germania: lei sta patendo le conseguenze dell'avere scelto un socio inviso al nuovo regime. Non credo che risolverà nulla andando laggiù; sarebbe meglio che fossero loro a cercare di lasciare la Germania.» Iniziarono una discussione alla quale intervenne anche Amelia, che appoggiò suo padre con enfasi assicurandogli che l'avrebbe accompagnato lei stessa pur di salvare la vita a Herr Itzhak e alla sua famiglia e sostenendo che era da codardi abbandonarli al loro destino. Si alterò a tal punto che finì per sentirsi male e tutti tememmo che, nel suo stato, potesse essere pericoloso. All'inizio di novembre nacque Javier. Amelia entrò in travaglio

all'alba del giorno 2, ma il bimbo venne al mondo soltanto l'indomani. Come piangeva! La poveretta aveva sofferto indicibilmente, anche se aveva potuto contare sull'assistenza costante di due medici e di una levatrice. Santiago aveva sofferto con lei. Pieno di rabbia, prendeva a pugni la parete per scaricare il senso di impotenza che provava per il fatto di non sapere come aiutare sua moglie. Alla fine il bambino era stato estratto con il forcipe, rischiando di morire. Javier era bellissimo, un bambino sano, lungo e magro, che venne al mondo affamato, mordendosi disperatamente i pugni. Amelia aveva perso molto sangue durante il parto e ci mise più di un mese a riprendersi, per quanto tutti la coccolassimo, soprattutto Santiago. Niente gli sembrava abbastanza per sua moglie, ma Amelia aveva l'aria triste e pareva indifferente a quello che accadeva intorno a lei. Si rallegrava soltanto quando veniva a trovarla sua cugina Laura oppure Lola. Allora gli occhi tornavano a brillarle e si interessava alla conversazione. In quei giorni Laura si era fidanzata con un giovane avvocato figlio di amici dei suoi genitori e tutto faceva pensare che sarebbero convolati a nozze. Quanto a Lola, ogni volta che arrivava, Amelia ci chiedeva di lasciarle sole, e Santiago acconsentiva per non contrariarla. Lola le dava notizie di Josep e degli altri compagni che anche lei aveva conosciuto. E Amelia le chiedeva come andavano i preparativi della rivoluzione, di quella grande rivoluzione mondiale di cui parlava Josep e a cui lei avrebbe voluto partecipare. Con il passare del tempo Lola sembrava fidarsi sempre più di Amelia e la rendeva partecipe di piccole confidenze su Josep e sulla sua importanza tra i comunisti catalani. «E tu, perché sei socialista e non comunista?» le chiese una volta Amelia, che non capiva per quale motivo la sua amica non condividesse la militanza politica di Josep. «Non c'è bisogno di essere comunisti per riconoscere i

risultati della rivoluzione sovietica; e poi sono socialista per tradizione. Anche mio padre lo era, ha conosciuto Pablo Iglesias... e sono sostenitrice di Largo Caballero, che pure ammira i bolscevichi. Il fatto è che Prieto e altri leader socialisti si oppongono a Largo Caballero; non essendo operai come lui, non capiscono quello che vogliamo...» Erano frammenti di conversazione che mi capitava di ascoltare mentre servivo la merenda. Ero l'unica che poteva interromperle, nemmeno Águeda aveva il permesso di entrare nel salotto di Amelia. Ah, Águeda! Era la balia di Javier. L'avevano fatta venire dalle Asturie, perché Amaya, mia madre, non aveva trovato nessuna bambinaia basca come sarebbe piaciuto alla signora Teresa e alla stessa Amelia. Águeda era una donna dalla corporatura robusta, alta, con i capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Non era sposata, ma un ragazzo che lavorava in miniera l'aveva messa incinta e purtroppo lei aveva perso il bambino appena nato. Alcuni amici del signor Juan l'avevano raccomandata come balia per Javier ed era arrivata una settimana dopo aver sepolto il proprio figlio. Era una brava donna, affettuosa e gentile, che trattava Javier come se fosse figlio suo. Silenziosa e obbediente, Águeda sembrava un'ombra benefica in quella casa, e ci affezionammo tutti a lei. Santiago si sentiva sollevato nel vedere che il bambino era così ben accudito, considerata l'apatia di Amelia, da cui nemmeno suo figlio riusciva a scuoterla. Visto il suo stato di debolezza, il Natale di quell'anno fu festeggiato a casa del signor Juan e della signora Teresa. La famiglia di Santiago comprendeva che era la cosa migliore per Amelia, non ancora in grado di svolgere il suo compito di padrona di casa in occasione di una festività tanto importante. In realtà, la casa di Amelia e Santiago si trovava a tre isolati da quella dei Garayoa, perciò per Amelia non fu un grosso

sforzo recarsi dai genitori. Facevano invidia. Sì, facevano invidia tutti i Garayoa, anche il fratello del signor Juan, il signor Armando, e sua moglie Elena, con i figli Melita, Laura e Jesús, insieme alla famiglia Carranza, i genitori di Santiago. Con l'aiuto di mia madre, la signora Teresa si mise d'impegno nel preparare la cena. Anche per me quel Natale fu speciale, l'ultimo che trascorsi con mia madre. Era ormai deciso: dopo l'Epifania sarebbe tornata alla cascina, e la sua partenza significava che sarei rimasta sola a Madrid. Il lavoro di mio fratello Aitor andava bene e lui insisteva affinché nostra madre smettesse di servire gli altri per occuparsi dei nostri nonni e del nostro piccolo appezzamento di terra. Per mia madre la terra era importante tanto quanto lo era per Aitor. Io a quell'epoca mi sentivo abbastanza comunista per vedere il mondo con uno sguardo più ampio, dove tutto era di tutti e per tutti, e la terra apparteneva al popolo. Non importava dove si era nati, perché non c'era altra patria che il mondo intero, né altri fratelli che tutti gli operai. Ma per tornare a quella cena... Intonarono canti natalizi, mangiarono e bevvero prelibatezze che non si servivano alla mensa dei poveri, anche se chi lavorava in quella casa non poteva certo lamentarsi: mangiavamo e bevevamo sempre le stesse cose dei signori. Ricordo ancora che c'era il tacchino con le castagne... E, come succedeva ogni volta che le due famiglie si riunivano, si discusse di politica. «Sembra che il presidente Alcalá Zamora sia disposto a dare a Manuel Portela Valladares l'incarico di formare un nuovo governo» commentò il signor Juan. «Non deve fare altro che indire una volta per tutte le elezioni» replicò Santiago. «Come siete impazienti voi giovani!» esclamò Armando Garayoa. «Niceto Alcalá Zamora non vuole dare potere alla CEDA, non si fida di Gil Robles.»

«E ha ragione!» intervenne il signor Juan. «Be', non vedo via d'uscita a questa situazione... Non credo che le elezioni risolveranno qualcosa, perché se vince la sinistra, che Dio ci aiuti!» si lamentò Manuel Carranza, il padre di Santiago. «Ma cosa pretende? Che a governare sia questa destra incapace di risolvere i problemi della Spagna?» Amelia guardò suo suocero con ira. «Amelia, figlia mia, non alterarti!» mediò sua madre. «Mi fa arrabbiare che qualcuno continui a credere che la CEDA possa combinare qualcosa di buono. La gente non sopporterà questa situazione ancora per molto» proseguì Amelia. «Be', io temo un governo di sinistra» insisté il signor Manuel. «E io uno di destra» ribatté Amelia. «Ci vuole autorità. Credi che un paese possa andare avanti a forza di scioperi?» chiese il signor Manuel alla nuora. «Credo che la gente abbia il diritto di mangiare e di non vivere male, come accade qui» rispose Amelia. Santiago appoggiava sempre sua moglie, anche se cercava di attenuarne gli estremismi. Come le ho già detto prima, lui era azaňista, non credeva nella rivoluzione, ma nemmeno difendeva la destra. Tranne Amelia, che disse di essere stanca e rimase col figlio Javier, placidamente addormentato in braccio ad Águeda, a mezzanotte la famiglia si recò in chiesa per assistere alla messa di Natale.

4

Il presidente Alcalá Zamora non riusciva a gestire la situazione conflittuale che si era creata tra la destra e la sinistra, e in tutta la Spagna aumentava il malcontento; pertanto non ebbe altra scelta che indire le elezioni generali per il 16 febbraio 1936. Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto in seguito... Nel Partito socialista, Prieto sosteneva la necessità di ricreare una grande coalizione di sinistra, mentre Largo Caballero lottava per un fronte unico con i comunisti, ma non seppe imporsi; inoltre, non so se lo sa, da Mosca suggerirono al Partito comunista di allearsi con la borghesia di sinistra contro la destra e il fascismo. Senza dubbio era una posizione più realista. E così nacque il Fronte popolare. «Amelia! Amelia! Oggi è nato il Fronte popolare!» Santiago era euforico quando rientrò a casa il 15 gennaio 1936, sapendo che sua moglie sarebbe stata molto contenta della notizia. Inoltre era convinto che la partecipazione della Sinistra repubblicana al patto con i socialisti e i comunisti l'avrebbe aiutato a riavvicinarsi ad Amelia, sempre più stregata dall'ideologia della sua amica Lola e di Josep. «Meno male! È una buona notizia. E cosa credi che faranno se vincono le elezioni?» «Da alcuni amici della Sinistra repubblicana ho sentito dire che cercheranno di rilanciare quello che è stato fatto nella legislatura dal 1931 al 1933.» «Non basta!»

«Ma, Amelia, cosa dici? La cosa più ragionevole è proseguire su quella strada. Senti, non mi piace contraddirti, ma sono preoccupato per le idee che Lola e quel Josep ti mettono in testa. Davvero credi che i problemi della Spagna si risolverebbero con una rivoluzione? Vuoi che ci ammazziamo tra noi? Non posso credere che tu sia così incosciente...» «Senti, Santiago, so che ti dà fastidio che io non condivida le tue idee, ma almeno rispetta le mie. Mi dispiace, non mi sembra giusto che noi abbiamo tutto e invece altri... A volte penso a Pablo, il figlio di Lola. Che futuro lo aspetta? Al nostro Javier non mancherà mai nulla, e questo mi consola, ma non è giusto.» La discussione fu interrotta da Águeda, allarmata dai continui pianti di Javier. «Non so cos'abbia il bambino, ma non vuole mangiare e non la smette di piangere» spiegò la balia. «Da quanto fa così?» volle sapere Santiago. «Ha passato una brutta nottata, ma da stamattina non ha smesso di piangere e adesso credo che abbia la febbre.» Santiago e Amelia andarono subito nella stanza del figlio. Il bambino piangeva disperato nella culla e, in effetti, aveva la fronte che scottava. «Amelia, chiama il dottor Martínez, Javier non sta bene. O forse è meglio andare in ospedale, lì sapranno dargli cure migliori.» Amelia avvolse Javier in uno scialle e, stringendo il bambino tra le braccia, andò con Santiago in ospedale. Lo spavento era stato grosso, ma per fortuna non era niente di grave. Javier aveva l'otite e piangeva per il mal d'orecchie. La cosa, però, ebbe un grosso impatto su Amelia, che fino ad allora non si era mai preoccupata di Javier, visto che Águeda lo accudiva a tempo pieno, dal bagnetto alla pappa. «Edurne, non sono una buona madre» mi confessò Amelia quella sera, singhiozzando, mentre guardava il figlio nella culla. «Non dire così...» «È vero. Mi rendo conto che a volte sono più preoccupata di

quello che succede a Pablo, il figlio di Lola, piuttosto che di Javier.» «È normale, sai che a tuo figlio non manca niente, mentre a Pablo, poverino, manca tutto.» «Ma ha una cosa più importante: l'amore e l'attenzione continua di sua madre.» Era la voce di Santiago. Ci fece trasalire. Era entrato nella stanza così silenziosamente che nessuna delle due se n'era accorta. Amelia guardò Santiago con aria afflitta. Quello che suo marito aveva appena detto l'aveva ferita profondamente, soprattutto perché sapeva che aveva ragione. Lei uscì dalla stanza in lacrime. Santiago andò a sedersi accanto alla culla di suo figlio, deciso a passare la notte a vegliarlo. Mi offrii di restare con Águeda ad accudire Javier, ma Santiago rifiutò e ci mandò entrambe a dormire. «Un figlio ammalato ha bisogno dei genitori; inoltre non mi sentirei tranquillo, non potrei dormire pensando che il bambino piange perché ha mal d'orecchie.» Io andai a dormire, ma il giorno dopo venni a sapere che a mezzanotte Águeda si era alzata per stare accanto a Javier. Lei e Santiago avevano vegliato il piccino, in silenzio, attenti al suo respiro. Amelia si svegliò con gli occhi arrossati e gonfi a causa del pianto e si disperò ancora di più quando venne a sapere che suo marito e Águeda avevano passato la notte al capezzale del bambino. «Ti rendi conto, Edurne? Sono una pessima madre.» «Su, non fartene una colpa...» «Santiago ha passato la notte con nostro figlio, e anche Águeda, e non è neanche suo. Lei è solo... solo...» Sapevo che stava per dire che Águeda era solo una cameriera, ma si trattenne, consapevole che avrebbe tradito le sue idee rivoluzionarie se l'avesse fatto.

«Águeda è la balia» la consolai «ed è suo dovere prendersi cura di Javier.» «No, Edurne, non è obbligata a vegliare il bambino quando sta male; per quello c'è sua madre. Cosa mi succede? Perché non sono capace di dare il meglio di me a mio figlio e a mio marito?» Amelia aveva ragione. Si comportava in modo eccezionale con gli estranei, per i quali si prodigava fino all'inverosimile, e invece riservava sempre meno attenzioni a Santiago e a suo figlio, anche se Javier aveva soltanto pochi mesi di vita. Non osai chiederle se amasse ancora Santiago, ma in quel momento pensai che Amelia piangeva proprio per quello, perché non si sentiva in grado di amare suo marito né di provare la tenerezza che una madre dovrebbe avere verso i suoi figli. Ma non la giudicai, perché in quel periodo, proprio come lei, anch'io ero influenzata dalle idee rivoluzionarie e credevo che quello che stava accadendo a me o a lei fosse un'inezia in confronto a quello che succedeva al resto dell'umanità, e che l'importante fosse costruire un mondo nuovo, come l'Unione Sovietica, di cui Josep non faceva che parlarci. «Signora, il bambino sta meglio. Stamattina l'ho allattato e non ha rifiutato il latte. Ha smesso di vomitare e ora è più tranquillo.» Amelia osservava Águeda che cullava Javier. Era evidente che quella donna amava il bambino, che riempiva il vuoto lasciato dal figlio morto. Il 16 febbraio il Fronte popolare vinse le elezioni, anche se con un margine più ridotto del previsto rispetto alla CEDA e alle altre forze di destra. Il Partito nazionalista basco, il Partito di centro del presidente Alcalá Zamora e la Lega catalana si divisero il resto dei voti. Con simili risultati, Manuel Azaňa avrebbe faticato a restituire al paese la calma di cui aveva bisogno.

La gente era stufa di passarsela male, di essere sfruttata, e in Andalusia e in Estremadura i contadini cominciarono a occupare le fattorie; poi ci furono alcuni scioperi che misero a dura prova il nuovo governo e, come se non bastasse, i rappresentanti della Falange, appena nata, fecero di tutto per destabilizzare il Fronte popolare. Azaňa ripristinò l'autonomia della Catalogna e Lluís Companys tornò alla presidenza della regione. Poi ci fu un braccio di ferro per cacciare il presidente Alcalá Zamora... E i socialisti, o, meglio, il settore di Largo Caballero, si opposero alla partecipazione di Prieto al governo... Fu un errore... Non fecero le cose per bene, ma questo lo possiamo dire adesso che è passato del tempo; noi quel momento lo stavamo vivendo e non avevamo neanche un attimo per riflettere su quello che facevamo, tanto meno sulle conseguenze. E sa una cosa, giovanotto? Non abbiamo agito bene, noi che avevamo i migliori ideali, che rappresentavamo il progresso, che stavamo dalla parte della ragione: nemmeno noi abbiamo agito bene. «Credo che dovresti andare per un po' a casa di tua nonna con il bambino» propose Santiago ad Amelia. «Non mi piace come si stanno mettendo le cose, e a Biarritz sarete più tranquilli. Perché non chiedi a tua sorella Antonietta di accompagnarti?» «Preferisco restare qui. Di cos'hai paura?» «Non ho paura, Amelia, ma non mi piacciono le cose che sento e preferirei che tu e Javier andaste via per un po'. Mi avevi detto che da piccola non vedevi l'ora che arrivassero le vacanze per poter andare a casa di tua nonna Margot.» «È vero, ma adesso è diverso. Preferisco restare qui, non voglio perdermi quello che sta succedendo.» «Si tratta di anticipare un po' le vacanze, nient'altro, io vi raggiungerò appena possibile. Sono preoccupato, le cose non si mettono bene, e a tuo padre gli affari non vanno come sperava. Le importazioni dagli Stati Uniti sono svantaggiose: non possiamo più permetterci di far arrivare da laggiù i macchinari

e i pezzi di ricambio; le spese sono troppo alte.» «Smetterete di fare affari con papà?» chiese Amelia spaventata. «Non si tratta di smettere di fare affari, ma di lasciar perdere quella linea di importazione. Non è redditizia.» «Qui c'è sotto lo zampino di tuo padre! Sai benissimo che mio papà ha dovuto chiudere la ditta in Germania e che i nazisti gli hanno espropriato ogni cosa, anche se ha fatto di tutto per impedirlo... E, nonostante questo, a tuo padre interessano solo gli affari.» «Basta, Amelia! Smettila di accusare mio padre di tutti i mali di questo mondo. La mia famiglia ti vuole bene e abbiamo ampiamente dimostrato il nostro affetto verso la tua, ma non possiamo continuare a perdere soldi, perché neanche a noi le cose vanno tanto bene.» «Proprio adesso che il Fronte popolare è al governo e sono certa che le cose miglioreranno, voi avete deciso di abbandonare mio padre...» «No, Amelia, temo che sfortunatamente il Fronte popolare non sia in grado di affrontare quello che sta succedendo. Conosci la mia ammirazione per Manuel Azaňa; se dipendesse da lui... Ma le cose non sono mai come vorremmo, e Azaňa ha molte difficoltà da affrontare. Gli scioperi ci stanno dissanguando...» «Gli operai hanno ragione!» protestò Amelia. «Su alcune cose hanno ragione, ma su altre... In ogni caso, non si può sistemare in pochi mesi quello che non si è riusciti a risolvere per secoli, ed è proprio quello che sta succedendo: l'impazienza degli uni e il boicottaggio degli altri al Fronte popolare ci stanno portando a una situazione impossibile.» «Sempre così equanime, tu!» ribatté Amelia con ira. «Cerco di vedere le cose come sono, in modo realistico.» Il tono di Santiago tradiva la stanchezza per le continue discussioni con la moglie. «Il mio posto è qui, Santiago, con la mia famiglia.»

«Davvero vuoi rimanere per noi?» «Cosa vorresti insinuare?» «Che passi più tempo con i tuoi amici comunisti che in casa... Da quando hai conosciuto Josep sei cambiata. Se davvero ti importasse di noi, se pensassi anche solo a Javier, allora acconsentiresti a passare un po' di tempo da tua nonna Margot.» «Come osi dire che non m'importa di mio figlio?» «Oso perché Águeda passa più tempo di te con lui.» «È la sua balia! Credi che lo ami di meno perché partecipo alle riunioni politiche? Voglio aiutare a costruire un mondo nuovo in cui Javier non debba patire nessuna ingiustizia. Ti sembra una cosa tanto brutta da rinfacciarmela?» Quelle discussioni sfinivano sia Amelia sia Santiago e li stavano separando. Devo ammettere che a Santiago toccava la parte più difficile, perché soffriva per la situazione in cui si trovavano; mentre Amelia, attraverso la politica, stava vivendo la sua storia, il marito faceva l'impossibile per salvare il loro matrimonio. Le liti diventavano sempre più frequenti, e tanto i Garayoa quanto i Carranza erano consapevoli del logorarsi del rapporto fra i loro figli. La signora Teresa rimproverava Amelia, dicendole che non si stava comportando come una buona moglie, ma lei considerava sua madre "antiquata" e la accusava di non capire che il mondo stava cambiando e che le donne non avevano più motivo di sottomettersi ai mariti. I Carranza cercavano di non immischiarsi nelle divergenze della coppia, ma soffrivano nel vedere il figlio così preoccupato. Una delle ormai rare occasioni in cui le due famiglie si riunirono a cena fu il 7 marzo. Me lo ricordo perché il signor Juan era in ritardo e Amelia era irritata all'idea di posticipare l'inizio della cena. Quando infine arrivò, comunicò una notizia che sembrava

averlo colpito in modo particolare. «La Germania ha rioccupato la Renania» annunciò con voce stanca. «Sì, l'abbiamo sentito alla radio» replicò il signor Manuel. «Ho cercato di parlare con Helmut Keller per tutto il giorno e alla fine ci sono riuscito... Il pover'uomo è disperato e si vergogna per quello che sta succedendo. Voi sapete che Helmut è uno di buon senso, una brava persona...» Il signor Juan parlava in maniera concitata. Dal momento che la sua fortuna era finita il giorno in cui Hitler aveva preso il potere, da allora seguiva le vicende della Germania con grande passione, come se si trattasse del suo paese. Continuava a cercare in ogni modo di portare fuori dalla Germania il signor Itzhak, ma quest'ultimo insisteva che per niente al mondo avrebbe lasciato la sua patria. «Hitler ha violato il Trattato di Versailles» affermò Santiago. «E quello di Locarno» aggiunse il signor Manuel. «Ma cosa volete che gli importi se viola i trattati internazionali? Un giorno le potenze europee si pentiranno di non averlo fermato in tempo» si lamentò il signor Juan. Il giorno seguente, l'8 marzo, Santiago partì di nuovo per un viaggio senza avvisare e tornò diversi giorni dopo. A quanto pareva, era andato a Barcellona a incontrare i soci catalani. Amelia andò su tutte le furie e il secondo giorno di assenza del marito decise che ormai non era più tenuta a rispettare alcuna convenzione sociale. «Se lui può andare e venire come gli pare, io farò lo stesso. Perciò preparati, Edurne, perché stasera andiamo a casa di Lola, dove c'è una riunione a cui partecipano alcuni amici di Josep.» Ero tentata di dirle che non avremmo dovuto, che Santiago si sarebbe arrabbiato, ma tacqui. Santiago non c'era e non l'avrebbe scoperto se non qualche giorno dopo. Amelia andò in camera di Javier a dargli un bacio prima di

uscire. «Abbi cura di lui, Águeda, è il mio tesoro più grande.» «Stia tranquilla, signora, sa che con me sta bene.» «Sì, lo so, te ne prendi cura meglio di me.» «Non dica così! Cerco solamente di dargli tutto ciò di cui ha bisogno.» Águeda aveva ragione: dava a Javier tutto ciò di cui aveva bisogno, soprattutto l'affetto e la presenza che Amelia gli lesinava. Non pensi che la stia giudicando, lei faceva quello che credeva giusto. Eravamo convinte di dover contribuire con il nostro granello di sabbia alla costruzione di un mondo migliore. Eravamo tanto giovani, tanto inesperte, ed eravamo convinte della bontà delle nostre idee. Quella sera c'era più gente del solito a casa di Lola. E c'era anche lui, Pierre. Eravamo convinte che Josep non ci fosse, perché era partito quindici giorni prima, ma il suo capo aveva dovuto recarsi con urgenza a Madrid. «Entrate... Vieni, Amelia, voglio presentarti Pierre» disse Josep, che trattava Amelia sempre con particolare deferenza. All'epoca Pierre avrà avuto circa trentacinque anni. Non era molto alto e aveva i capelli color oro antico e grandi occhi grigi come l'acciaio, che quando ti fissavano sembravano riuscire a carpirti perfino i pensieri più nascosti. Josep ce lo presentò come un compagno per metà francese, di professione libraio, in visita a Madrid per motivi di lavoro. Mentirei se non ammettessi che Pierre e Amelia provarono immediatamente attrazione l'uno per l'altra. Quella sera Pierre era stato invitato per spiegare la situazione dell'Unione Sovietica e, soprattutto, il motivo per cui gli intellettuali europei appoggiavano sempre più numerosi la Rivoluzione d'ottobre. Ma, mentre parlava, non riusciva a fare a meno di cercare lo sguardo di Amelia, che lo ascoltava in silenzio, affascinata. «Perché non vieni con me a Parigi?» le propose prendendola

da parte. «A Parigi? Perché?» rispose Amelia, con una certa ingenuità. «La rivoluzione ha bisogno di donne come te: c'è molto da fare. Credo che potresti aiutarmi, lavorare con me. Lola mi ha detto che parli francese e anche un po' di inglese e di tedesco, vero?» «Sì... la mia nonna paterna è francese e mio padre faceva affari in Germania; la mia migliore amica è tedesca. L'inglese l'ho imparato con la bambinaia, ma non lo parlo molto bene...» «Ti rinnovo l'invito, anche se in realtà è un'offerta di lavoro. Potresti essermi di grande aiuto.» «Io... io non saprei in cosa.» Pierre la guardò fisso, e quello sguardo era carico di parole che solo lei poteva interpretare. «Mi piacerebbe che venissi con me, non solo per lavoro, pensaci.» Amelia arrossì e abbassò lo sguardo. Nessun uomo le aveva mai fatto una proposta così diretta. Io mi trovavo poco distante, nel caso in cui avesse avuto bisogno di me, e avendo sentito l'invito di Pierre mi avvicinai immediatamente. «È tardi, Amelia, dovremmo andarcene.» «Sì, hai ragione, si è fatto molto tardi.» «Devi già andare?» volle sapere Pierre. «Sì» mormorò lei, ma non si mosse. Era evidente che non aveva alcuna voglia di lasciarlo. «Penserai a quel che ti ho detto?» insisté Pierre. «Venire a Parigi con te?» «Sì. Mi fermo a Madrid per qualche giorno, ma non a lungo, e non so quando potrò tornare.» «No. Non posso venire a Parigi, ci vedremo in un'altra occasione» disse Amelia sospirando. «Cosa ti impedisce di venire con me?» «Ha un marito e un figlio» risposi io, e me ne pentii immediatamente, soprattutto perché Amelia mi rivolse un'occhiataccia piena di rabbia.

«Sì, lo so che è sposata e ha un figlio. Chi non lo è?» replicò Pierre senza scomporsi. «No, non posso venire. Grazie per l'invito.» Lasciammo la casa di Lola in silenzio. Amelia era arrabbiata per la mia intromissione, ma non era tanto la sua collera che temevo, quanto l'eventualità che potesse perdere la fiducia in me. Non parlammo fino a casa. Mentre stavo per ritirarmi nella mia stanza, mi afferrò per un braccio e mormorò: «Se qualcuno deve sapere qualcosa di me, sarò io a dirglielo. Sappilo, per la prossima volta». «Scusa, io... non avevo intenzione di intromettermi...» «Ma l'hai fatto.» Si voltò e mi lasciò lì, nell'ingresso, in un mare di lacrime. Era la prima volta che si arrabbiava con me da quando ci conoscevamo, la prima volta che la sentivo non un'amica, ma un'estranea. Il mattino dopo Amelia si alzò tardi. La cameriera ci disse che aveva chiesto di non essere disturbata e, anche se io avevo il privilegio di poter entrare nella sua camera, non mi azzardai a farlo dopo l'incidente della sera prima. Non vidi Amelia fino a mezzogiorno; sembrava febbricitante e diceva di avere mal di testa. Sua madre, che era venuta per pranzare con lei e vedere il nipote, attribuì l'indisposizione al dispiacere per l'assenza di Santiago; ma io intuivo che la causa della febbre non era il marito, bensì l'irruzione di Pierre nella sua vita; nelle nostre vite, perché cambiò l'esistenza a entrambe. Antonietta arrivò verso le sei a prendere sua madre, e Amelia fu sollevata che se ne andassero, perché quel pomeriggio sembrava che nessuno riuscisse a distrarla. Verso le sette si presentò Lola. Appena la vidi seppi che era stata mandata da Pierre, perché mi chiese di incontrare Amelia da sola. Non so di cosa parlarono, ma è facile immaginarlo, perché mezz'ora dopo Amelia mi chiamò per dirmi che stava

per andare a una riunione politica con Lola, ma non voleva che la accompagnassi. Protestai. Era contro le istruzioni di Santiago che uscisse senza di me, ma soprattutto mi addolorava sentirmi esclusa. Amelia andò nella stanza di Javier. Il piccino era in braccio ad Águeda, che gli stava cantando una canzone. Sorrideva e tendeva le manine verso il volto della balia. Amelia baciò suo figlio e uscì rapidamente, seguita da Lola. Rimasi seduta nell'ingresso, ad aspettare che tornasse. Lei arrivò sudata dopo mezzanotte, con il volto arrossato, e mi sembrò che tremasse. Si irritò vedendomi lì e mi ordinò di andare a letto. «Amelia, voglio parlarti» la supplicai. «A quest'ora? No, vai a riposare. Io non sto bene e ho bisogno di dormire.» «Ma, Amelia, sono preoccupata, per tutto il giorno ho sentito come un peso sul petto... Vorrei che mi perdonassi per la faccenda dell'altra sera... Io... io non volevo offenderti, né immischiarmi nelle tue cose... Sai che... insomma, ho solo te e se non ne vuoi più sapere di me non so che cosa farò.» «Ma, Edurne, che dici! Cosa vuol dire che hai solo me? E tua madre, e Aitor, e i tuoi nonni? Su, non dire sciocchezze e vai a riposare.» «Ma mi perdoni?» Amelia mi abbracciò, dandomi qualche pacca affettuosa; era sempre stata molto generosa e non sopportava di vedere qualcuno soffrire. «Non c'è niente da perdonare: la storia dell'altra sera è una stupidaggine. Ho avuto un attacco di malumore, non dargli importanza.» «Ma stasera sei uscita senza di me... e... insomma... è la prima volta che non ti accompagno. Sai che puoi fidarti di me, non dirò né farò mai niente che possa nuocerti.» «E cosa potresti dire?» ribatté, irritata. «Niente, niente, di te posso dire solo cose belle.» Scoppiai a

piangere temendo di aver fatto un'altra gaffe. «Su, non piangere! Siamo tutte e due molto nervose, dev'essere a causa dei tempi e della tensione politica; le cose non vanno bene, temo, per il governo del Fronte popolare.» «Tua madre è molto preoccupata perché i contadini occupano le terre in Andalusia e in Estremadura» replicai, tanto per dire qualcosa. «Mia madre è molto buona e, visto che si comporta bene con tutti, si aspetta che gli altri facciano lo stesso, ma la gente vive in condizioni terribili... Inoltre non si tratta di carità ma di giustizia.» «Te ne andrai?» Non so perché le feci quella domanda, ancora oggi continuo a chiedermelo. Amelia divenne seria e notai il tremito delle sue mani e come cercava di non perdere il controllo. «Ma dove credi che vada?» «Non lo so... Ieri Pierre ti ha chiesto di accompagnarlo a Parigi... Magari hai deciso di andare a lavorare lì...» «E se lo facessi, cosa penseresti?» «Potrei venire con te?» «No, non potresti. Se me ne andrò, dovrò farlo da sola.» «Allora non voglio che tu te ne vada.» «Che egoista!» Sì, aveva ragione, ero egoista; pensavo a me stessa, a cosa ne sarebbe stato di me se lei se ne fosse andata. Abbassai il capo, mortificata. «Se vogliamo che la rivoluzione trionfi in tutto il mondo, non possiamo pensare a noi stessi, dobbiamo sacrificarci.» «Ma tu non sei comunista» riuscii a balbettare. «Si può essere qualcos'altro?» «Hai sempre simpatizzato con i socialisti...» «Edurne, anch'io ero ignorante come te, ma ho aperto gli occhi, mi sono resa conto di come stanno le cose e ammiro la rivoluzione. Credo che Stalin sia una benedizione per la Russia e

voglio la stessa cosa per la Spagna, per il resto del mondo. Sappiamo che è possibile riuscirci, in Russia ci sono riusciti, ma sono in gioco molti interessi, quelli di chi non vuole cedere nulla, quelli di chi difende i vecchi privilegi... Non sarà facile, ma dobbiamo farcela. Adesso, grazie alla sinistra, noi donne siamo considerate, prima non valevamo niente. Ma ancora non basta, dobbiamo lottare per ottenere la vera uguaglianza. In Russia non ci sono più differenze tra uomini e donne, sono tutti uguali.» Le brillavano gli occhi. Sembrava in estasi mentre mi parlava di Stalin e della rivoluzione, e mi resi conto che era solo questione di tempo, di giorni, di ore, prima che Amelia se ne andasse. Al contempo cercavo di convincermi che non era possibile, che non avrebbe avuto il coraggio di lasciare Santiago e di abbandonare suo figlio.

5

Per diversi giorni Amelia continuò a incontrare Pierre a casa di Lola. Mi permetteva di accompagnarla, ma a volte, appena arrivate, mi mandava a fare commissioni per rimanere da sola con lui. Un pomeriggio i genitori di Santiago andarono a trovare il nipotino e decisero di aspettare che Amelia rientrasse. Attesero fin oltre le dieci di sera, e a quel punto Águeda e le altre cameriere non ebbero altra scelta che confessare che a volte tornavamo dopo la mezzanotte. Il signor Manuel e la signora Bianca se ne andarono scandalizzati, e Águeda ci raccontò di aver sentito la signora Bianca dire al marito che dovevano parlarne con Santiago quando tornava, prima che il suo matrimonio naufragasse. Nel frattempo, il signor Manuel decise di parlare con il padre di Amelia, esortandolo a mettere in riga sua figlia. Il signor Juan e la signora Teresa mandarono un messaggio ad Amelia, avvisandola di non uscire di casa perché sarebbero passati a trovarla. «Perché si intromettono nella mia vita?» si lamentava Amelia. «Non sono una bambina!» «Ma sono i tuoi genitori e vogliono il tuo bene» cercai di calmarla. «Allora che mi lascino in pace! La colpa è dei miei suoceri, che complicano tutto. Perché vengono a trovare Javier senza avvisare?» «La signora Bianca ti aveva telefonato» le ricordai. «Be', fa lo stesso, sono dei ficcanaso. Non solo non aiutano

mio padre, ma gli chiedono persino di parlarmi. Ma chi credono di essere?» I signori Garayoa vennero per merenda e, mentre la signora Teresa si coccolava il nipotino, il signor Juan ne approfittò per parlare con Amelia. «Tesoro, i genitori di Santiago sono preoccupati e... insomma, anche noi. Non voglio intromettermi nella tua vita, ma capirai che non sta bene che tu vada e venga come se non avessi alcun dovere. Sei una madre di famiglia, Amelia, il che significa che non puoi fare tutto quello che vuoi, ma devi pensare a tuo marito e a tuo figlio. Devi renderti conto che con le tue uscite notturne metti in ridicolo Santiago.» «E come la mettiamo con le sparizioni di Santiago? Se n'è andato da dieci giorni e non so nemmeno dove sia. Forse lui non ha doveri verso di me e verso suo figlio? Gli è tutto permesso per il fatto che è un uomo?» «Amelia, sai bene che Santiago ha l'abitudine di partire per i suoi viaggi all'improvviso, anche sua madre glielo rimprovera. Ma, figlia mia, che ti piaccia o no, non è la stessa cosa; lui è un uomo e non mette in gioco la sua reputazione né la tua.» «Papà, so che non puoi capirlo, ma il mondo sta cambiando e le donne riusciranno a conquistare gli stessi diritti degli uomini. Non è giusto che voi possiate andare e venire senza dare spiegazioni, mentre noi siamo oggetto di maldicenze.» «Anche se non è giusto, è così, e finché le cose non cambieranno dovrai essere prudente, per rispetto verso tuo marito, tuo figlio e noi.» «Dimmi in che modo posso danneggiarvi andando a una riunione politica?» «Credo che tu sia troppo coinvolta e, per di più, con i comunisti. Noi abbiamo sempre difeso la giustizia, ma non condividiamo le idee dei comunisti, e tu, figlia mia, non sai in che guaio ti stai cacciando.» «Non sono una bambina!»

«Sì invece che lo sei, Amelia. Anche se sei sposata e hai un figlio, non hai ancora compiuto diciannove anni. Non credere di sapere tutto e non fidarti troppo degli altri. Sei un po' ingenua, è normale alla tua età, e credo che quella Lola ti stia usando.» «È la mia migliore amica!» «Sì, non dubito che tu sia sua amica, ma davvero credi che lei ti consideri allo stesso modo? Cos'è successo con tua cugina Laura? Prima eravate inseparabili, e adesso trovi a malapena il tempo di vederla. Perché?» «Laura è fidanzata.» «Lo so, ma non è un buon motivo per smettere di andare a casa degli zii a visitare le tue cugine come hai sempre fatto; non vieni nemmeno più da noi a trovare tua sorella Antonietta, e quando lei viene a casa tua non ti trova mai. Mi dispiace doverti dire queste cose, ma credo che tu non ti stia comportando come una buona madre: anteponi la politica a tuo figlio, e questo, Amelia, non lo fa nessuna donna perbene.» Amelia scoppiò in lacrime. Le ultime parole di suo padre l'avevano ferita profondamente. Si sentiva colpevole di non essere in grado di dare a suo figlio quello che invece profondeva nell'attività politica. «Su, non piangere! So che vuoi bene a Javier, ma tuo figlio passa più tempo con Águeda che con te, e questo non va bene.» Amelia era squassata dai singhiozzi perché sapeva meglio di chiunque altro di non essere una buona madre e se ne dispiaceva, anche se non pensava di poter cambiare. A volte entrava nella stanza di Javier e lo prendeva dalla culla per baciarlo e stringerselo al petto come se volesse trasmettergli tutto il suo amore, ma non faceva che spaventare il piccino, che la sentiva estranea e scoppiava a piangere, alzando le manine in cerca di Águeda. Anche la signora Teresa prese da parte sua figlia per ribadirle gli argomenti del marito, tuttavia non ottenne molto di più che di acuire il senso di colpa di Amelia, che non smetteva di piangere. Mentre se ne andavano, sentii la signora

Teresa dire al marito: «Credo che Amelia sia malata. Sembra che l'abbiano stregata... Quella Lola è una brutta bestia, ci ha portato via nostra figlia». Due giorni dopo Amelia invitò sua cugina ad andare a trovarla; Laura non si fece pregare e si presentò subito da lei. Le due cugine continuavano a volersi bene e a confidare l'una nell'altra. Io stavo cucendo, seduta vicino alla finestra, e, visto che non mi chiesero di andarmene, assistei alla conversazione. «Come stai, cara cugina?» chiese Laura. «Sono disperata e non so cosa fare... Ho bisogno del tuo consiglio, sei l'unica che può capirmi.» «Ma cosa succede?» Laura era preoccupata, soprattutto vedendo Amelia dimagrita e in quello stato febbrile. «Mi sono innamorata di un altro uomo. Sono così infelice!» «Mio Dio! Ma com'è possibile... Santiago ti adora e tu... be', credevo che lo ricambiassi.» «Pensavo di amarlo, ma non è così. È solo il primo uomo che ho conosciuto, che non mi ha trattata come una bambina, e poi...Insomma, lo sai perché te l'ho confessato: Santiago mi piaceva, ma volevo anche aiutare papà, poverino, che era in difficoltà a causa della perdita dell'attività in Germania.» «Lo so, lo so... ma mi avevi detto che lo amavi, che sposavi Santiago per aiutare tuo padre, ma comunque lo amavi.» Laura era davvero addolorata dalla scoperta improvvisa che sua cugina non amava il marito; a lei Santiago era simpatico, e in realtà era molto difficile non affezionarsi a lui. Santiago era un vero gentiluomo, sempre attento e galante, beneducato, e poi era così bello... «Non so cosa fare, ma devo prendere una decisione.» «Una decisione?» «Sì, Laura, l'uomo che amo mi ha chiesto di andare via con lui. Non sa che sono innamorata, vuole solo che lo aiuti per la

nostra causa, per far trionfare il comunismo, e credo di poterci riuscire... Io, che non sono nessuno... ma lui crede in me...» «E lui ti ama?» «Non me lo ha detto, ma... so benissimo che è così... me ne accorgo da come mi guarda, perché trema come me quando ci sfioriamo, glielo leggo negli occhi... Ma è un gentiluomo, non pensare che abbia cercato di prendersi delle libertà con me, al contrario.» «Se fosse un gentiluomo, non ti chiederebbe di lasciare la tua famiglia per andare a fare la rivoluzione» obiettò Laura. «Tu non capisci, cara cugina. Essere comunisti è... è come una religione... Non si può raggiungere il paradiso senza sacrifici, e chi ci crede non ha il diritto di porre i propri interessi personali davanti a quelli dell'umanità.» «Dio mio, Amelia, cosa dici? La carità comincia da se stessi...» «Ma non si tratta di carità, bensì di giustizia! Non ci saranno mai abbastanza mani per sostenere la rivoluzione. Dobbiamo riuscire a rendere il mondo la patria dei lavoratori, seguire l'esempio dell'Unione Sovietica.» «Sai che a casa nostra non amiamo la destra e i miei genitori, come i tuoi, sono sostenitori di Azaňa, che lavora per migliorare il paese, ma il comunismo... Ho chiesto a papà di spiegarmi bene tutto quello che sa sui comunisti e in realtà, Amelia, non sono affatto sicura che la rivoluzione sia una buona cosa.» «È solo perché non vedete tutti i cambiamenti positivi che può portare il comunismo. Guarda cosa sta succedendo in Germania con Hitler.» «Da un estremo all'altro! Tu sei sempre stata un po' esagerata! Ma su, raccontami chi è lui.» «Si chiama Pierre, è francese, i suoi genitori hanno una libreria vicino a Saint-Germain e lui li aiuta; inoltre scrive su alcune pubblicazioni di sinistra. È molto attivo in politica, nel comunismo, e a volte viene a Madrid a trovare i suoi compagni, per capire come stanno le cose, per valutare la situazione. Viaggia anche in altri posti e ne approfitta per comprare libri

per la libreria di suo padre, edizioni speciali, qualche rarità bibliografica... Ma soprattutto è comunista.» «Sì, questo me l'hai già detto. E cosa vuole da te?» «Che lo aiuti, che lo accompagni nei suoi viaggi presso i compagni di altri paesi, per conoscere le loro difficoltà, i loro bisogni, per stilare i resoconti per l'Internazionale comunista e lavorare per portare la rivoluzione ovunque...» «E per questo devi lasciare tuo marito e tuo figlio?» «Non metterla in questo modo! Non sopporterei che anche tu me lo rinfacciassi, che non mi capissi. Sono innamorata, non sai quanto. Non vedo l'ora di stare insieme a Pierre.» «Amelia, non puoi abbandonare tuo figlio!» Ogni volta che le parlavano di Javier, Amelia scoppiava a piangere. Ma quel pomeriggio avevo ascoltato quanto bastava per rendermi conto che, nonostante le lacrime, lei aveva già deciso di abbandonare la sua casa, Santiago e il bambino, per seguire Pierre. La febbre che sembrava non darle tregua non aveva niente a che vedere con l'influenza, ma era causata dalla passione che provava per quell'uomo. Il suo destino era ormai deciso, e anche il mio. Pur chiedendole di ripensarci, Laura promise a sua cugina che, qualunque cosa avesse fatto, avrebbe sempre potuto contare su di lei. Amelia si sentiva più tranquilla sapendo che Laura non le avrebbe voltato le spalle. «È sposato?» volle sapere Laura. Amelia trasalì. Non aveva considerato quella possibilità. Lei non gliel'aveva chiesto e lui non le aveva detto niente in proposito. «Non lo so» rispose Amelia articolando le parole in un mormorio impercettibile. «Dovresti chiederglielo. Per il tuo bene, spero che non lo sia. Sai? Ho sempre temuto che finissi per innamorarti di Josep, distruggendo la tua amicizia con Lola.» Amelia chinò la testa, imbarazzata. Laura la conosceva bene

e capì di aver fatto centro: probabilmente, a un certo punto, doveva essersi sentita attratta anche da Josep. «Ammiro Josep, ma non mi sono innamorata di lui.» «Direi che hai un debole per i comunisti. Non so cosa ti raccontano, ma non c'è dubbio che tu ne sia affascinata.» «Non ti ingannerei mai, e hai ragione, mi sento attratta da quegli uomini. Li vedo così forti, così sicuri, così convinti sul da farsi, disposti a qualunque sacrificio... Non so come fai a non provare le stesse cose...» «Be', non ne ho conosciuto nessuno che mi abbia impressionato... Insomma... in realtà non mi ci vedo a innamorarmi del meccanico che aggiusta l'automobile di papà. Cos'ha a che vedere con me?» «Ti credi migliore degli operai?» chiese Amelia. «Né migliore né peggiore, soltanto non abbiamo alcun interesse in comune. Non mi illudo, Amelia. Anch'io voglio un mondo più giusto, ma questo non significa che debba sposarmi con il meccanico. Naturalmente voglio che viva bene, che non gli manchi niente, ma...» «Ma lui a casa sua e tu a casa tua, vero?» «Sì, più o meno.» «Un giorno spariranno le classi sociali, saremo tutti uguali, nessuno guadagnerà di più per il fatto di avere studiato o di provenire da una famiglia borghese. Tutto ciò che ci differenzia un giorno svanirà.» «Tu sei borghese come me.» «Ma mi sono resa conto che le classi sociali sono inique e voglio rinunciare a tutti i nostri privilegi; non mi sembra giusto che qualcuno abbia maggiori opportunità di altri, che non siamo tutti uguali.» «Mi dispiace, Amelia, non posso condividere le tue idee. Certo, penso che tutti meritiamo le stesse possibilità, ma sai una cosa? Sfortunatamente gli uomini non saranno mai uguali.» «È stato così fino a ora. Ma Stalin ha dimostrato che è possibile una società uguale per tutti.»

«Va bene, va bene, non discutiamo di politica e portami nella stanza di Javier. Voglio dargli un bacio prima di andarmene.» Quella sera Amelia andò a casa di Lola, o così mi disse, perché non volle essere accompagnata. Mi assicurò che Pierre sarebbe venuto ad aspettarla all'angolo sotto casa e promise di non andarsene in giro da sola per strada. Tornò all'alba. Non so cosa accadde quella notte, ma quando rientrò a casa Amelia non era più la stessa. Trascorse una mattinata agitata e si innervosì quando sua madre avvisò che sarebbe venuta a pranzo con Antonietta, per passare un po' di tempo con Javier. Durante il pranzo sembrava distratta e verso le cinque pregò sua madre e sua sorella di andarsene, con la scusa di dover fare una visita. Mi stupii che le abbracciasse con trasporto, trattenendo le lacrime. Quando la signora Teresa e Antonietta se ne furono andate, Amelia si chiuse in camera per mezz'ora. Poi uscì e si diresse nella stanza di Javier. Il piccino dormiva e, accanto a lui, Águeda lavorava all'uncinetto. Amelia prese in braccio il bambino, svegliandolo, e scoppiò in lacrime mentre lo baciava sussurrandogli: «Tesoro, amore mio, perdonami, figlio mio, perdonami». Io e Águeda la guardavamo in silenzio, sconcertate. «Abbi cura di Javier, è il mio più grande tesoro» disse Amelia rivolta ad Águeda. «Sì, signora, sa che gli voglio bene come se fosse mio figlio.» «Non fargli mancare nulla, coccolalo.» Lasciò la stanza e io la seguii, consapevole che stava per succedere qualcosa. Amelia tornò in camera sua e ne uscì con una valigia che faticava a sollevare. «Dove vai?» le chiesi tremante, pur conoscendo la risposta. «Vado via con Pierre.» «Amelia, non farlo!» la supplicai scoppiando a piangere. «Zitta! O verrà a saperlo tutta la casa. Sei comunista come

me e puoi capire il passo che sto per fare... Vado dove posso essere di aiuto.» «Lascia che ti accompagni!» «No, Pierre non vuole, devo andarci da sola.» «E cosa ne sarà di me?» «Mio marito è buono e ti permetterà di restare. Ecco, prendi... avevo messo da parte dei soldi per te.» Amelia mi mise in mano un fascio di banconote che cercai di rifiutare. «Edurne, non preoccuparti, non ti accadrà nulla, Santiago si prenderà cura di te. E poi puoi sempre contare su mia cugina Laura. Voglio che le consegni questa lettera. Le spiego dove vado, cosa mi appresto a fare, e le chiedo di pensare a te. Non darla a nessun altro se non a lei, promettimelo.» «E cosa risponderò quando vedranno che non torni? Chiederanno a me...» «Di' che sono uscita a fare una visita e ti ho detto che sarei rientrata tardi.» «Ma tuo marito vorrà sapere la verità...» «Santiago è ancora in viaggio. Quando tornerà, digli di parlare con mia cugina Laura, lei gli spiegherà. Nella lettera che ti ho dato le chiedo di annunciare alla famiglia che me ne sono andata per sempre.» Ci abbracciammo piangendo, finché Amelia non si scostò e, senza darmi il tempo di dire niente, aprì la porta e uscì. Non l'avrei più vista per molto, molto tempo. Edurne sospirò. Era affaticata. Per tre lunghe ore aveva parlato senza riprendere fiato. Io ero rimasto immobile, affascinato da una storia che, a mano a mano che andava avanti, mi interessava sempre di più. Ero sorpreso: molto di quello che avevo ascoltato mi sembrava inaudito. Ma lì c'era quella anziana signora, con lo sguardo perso nel luogo in cui vivevano i suoi ricordi e con una smorfia di dolore sul volto.

Sì, Edurne soffriva a descrivere i giorni nei quali la sua vita era cambiata, anche se non mi aveva spiegato cosa le era successo dopo. Mi resi conto che non potevo forzarla a parlare ancora; era troppo stanca, fisicamente ed emotivamente. «Vuole che la accompagni da qualche parte?» chiesi, tanto per dire qualcosa. «No, non ce n'è bisogno.» «Mi piacerebbe rendermi utile...» Mi fissò con occhi stanchi, scuotendo la testa. Voleva solo essere lasciata in pace, non obbligata a spremere la memoria popolata dai fantasmi della sua giovinezza. «Direi che abbiamo finito. Non sa quanto le sono grato per tutto quello che mi ha raccontato. Mi è stata di grande aiuto. Adesso ne so un po' di più sul conto della mia bisnonna.» «Davvero?» La domanda di Edurne mi stupì, ma non risposi, limitandomi ad abbozzare un sorriso. Era molto anziana; mi resi conto che aveva il pallore ceruleo di chi sta per intraprendere l'ultimo viaggio e fui percorso da un brivido. «Avverto le signore.» «La accompagno.» La aiutai ad alzarsi e attesi che si appoggiasse saldamente al bastone che impugnava con la mano destra. Non immaginavo come fosse Edurne in passato, ma adesso era una vecchina estremamente magra e fragile. Con le zie c'era Amelia Maria Garayoa. Sembrava inquieta e appena ci vide entrare balzò su dal divano. «Era ora, non si è accorto che Edurne è molto anziana? Se fosse stato per me non le avrei permesso di restare tanto tempo.» «Lo so, lo so...» «Le è stata utile la chiacchierata?» chiese la signora Laura. «Sì, sono davvero molto sorpreso. Ho bisogno di pensarci su, di mettere in ordine tutto quello che Edurne mi ha raccontato...

Non potevo immaginare che la mia bisnonna fosse comunista.» Rimasero in silenzio, mettendomi a disagio, il che cominciava a diventare un'abitudine. Amelia Maria aiutò Edurne a sedersi, mentre la signora Laura mi guardava come se si aspettasse che dicessi qualcosa. L'altra vecchia signora, Melita, pareva assorta nei suoi pensieri. A volte sembrava distaccata da quello che succedeva intorno a sé, come se non fosse interessata a quanto stava vivendo. Anch'io ero stanco, ma sapevo che per proseguire le mie ricerche avrei dovuto parlare con loro. «Bene, mi avete detto che avreste guidato i miei passi. Qual è il prossimo? A pensarci bene, avrei bisogno di parlare con lei, signora Laura, per farmi spiegare cos'è successo quando...» «No, adesso no» mi interruppe la donna anziana. «È tardi. Ci faremo sentire per dirle come continuare.» Non protestai, sapevo che sarebbe stato inutile, soprattutto perché lo sguardo di Amelia Maria mi stava chiaramente indicando che, se avessi insistito, mi avrebbe cacciato via in malo modo. Quando arrivai a casa, fui combattuto fra la tentazione di telefonare a mia madre per raccontarle tutto quello che avevo scoperto sulla bisnonna e il desiderio opposto, di non dire neppure una parola finché non avessi avuto la storia completa. Alla fine decisi di andare a dormire e di rimandare la decisione al giorno dopo. Mi sentivo confuso: la storia della mia bisnonna si stava rivelando più complicata del previsto. Non sapevo se avrebbe finito per diventare un romanzo d'appendice o se invece mi avrebbe riservato altre sorprese. Mi addormentai pensando che Amelia Garayoa, la mia misteriosa antenata, era stata una romantica passionale, una donna avida di esperienze, insofferente alle imposizioni sociali della sua epoca, un po' incauta e con una chiara tendenza a lasciarsi affascinare dall'abisso. Il mattino dopo telefonai a mia madre, mentre sorseggiavo il primo caffè della giornata.

«Bella telenovela quella della bisnonna!» esordii a mo' di saluto. «E così hai scoperto quello che è successo...» «Tutto no, ma almeno in parte, e per quegli anni era davvero una donna particolare. Insomma, se ne infischiava di quello che pensavano gli altri.» «Racconta...» «No, non ti dico niente. Preferisco portare a termine le ricerche e scrivere la storia come mi ha chiesto la zia Marta.» «Mi sta bene che non lo racconti alla zia Marta, ma io sono tua madre e ti ricordo che sono stata io a darti il primo indizio suggerendoti di andare a parlare con don Antonio.» «So che sei mia madre e, siccome ti conosco, sono sicuro che non resisteresti alla tentazione di raccontarlo ai tuoi fratelli, perciò non intendo dirti nulla.» «Non ti fidi di me!» «Certo che mi fido di te. Sei l'unica persona di cui mi fido, ma per le cose importanti e, visto che questa non lo è, preferisco non dirti nemmeno una parola, almeno per ora. Ma ti prometto che sarai la prima a conoscere tutta la storia.» Discutemmo un po', ma non le rimase altra scelta che accettare la mia decisione. Poi telefonai alla zia Marta, più che altro perché non credesse che stavo spendendo i suoi soldi senza lavorare. «Devi venire in ufficio a ragguagliarmi sui progressi delle ricerche.» «Non ti racconterò niente finché non ti avrò consegnato la storia per iscritto, come mi hai chiesto. Sono riuscito a trovare le tracce della bisnonna... di tua nonna, insomma, e finalmente la famiglia scoprirà cos'è successo, ma ho bisogno di lavorare a modo mio, senza pressioni.» «Non ti faccio alcuna pressione, ti pago per indagare su una storia e quindi devi rendere conto a me di come stai spendendo i miei soldi.»

«Ti assicuro che non li spreco e ti darò perfino le ricevute dei taxi, ma per ora, qualunque cosa tu dica, non intendo rivelarti nulla. Ho appena iniziato le indagini e volevo solo comunicarti che ho raccolto i primi frutti; insomma, sono sulle tracce di Amelia Garayoa. Non penso di metterci molto per portare a termine le ricerche; a quel punto scriverò il racconto e te lo consegnerò.» Non dissi a mia zia dell'accordo che avevo stretto con le cugine della bisnonna: in cambio del loro aiuto avrebbero potuto leggere il manoscritto e dare il consenso prima che lo consegnassi alla mia famiglia. Avrei affrontato il problema in seguito. Avevo anche promesso a mia madre che sarebbe stata la prima a conoscere tutta la storia della nostra antenata; fino ad allora, volevo solo essere lasciato in pace. La zia Marta, controvoglia, accettò. Poi telefonai di nuovo a mia madre, perché ero sicuro che la zia l'avrebbe chiamata per esporle una lista di lagnanze nei miei confronti.

PIERRE

1

Nei giorni che seguirono cercai di mettere nero su bianco, in modo ordinato, tutto quello che mi aveva raccontato Edurne. Aspettavo che le signore Garayoa mi telefonassero, visto che senza di loro difficilmente sarei riuscito a portare a termine le ricerche. Pensavo che avrei dovuto cercare Lola, ma la poveretta probabilmente era già all'altro mondo; quanto a Pierre, mi incuriosiva moltissimo. "Bel furbacchione!" pensai. "Bisogna avere una gran faccia tosta per soffiare la donna a un altro in nome della rivoluzione." Era difficile che Pierre fosse ancora vivo, visto che dal racconto di Edurne mi era sembrato di capire che, quando aveva conosciuto Amelia, lui fosse più vecchio di lei di parecchi anni. Lei ne aveva diciotto e lui aveva passato la trentina. Quando finalmente Amelia Maria Garayoa mi telefonò, tirai un sospiro di sollievo; in realtà temevo che le due anziane signore si fossero pentite della proposta e avessero deciso di impedirmi di continuare le ricerche. «Mia zia vuole vederla» esordì a mo' di saluto. «Quale delle due?» «Laura.» «E sua zia Melita?» «È molto raffreddata e non si sente bene.» «Mi tolga una curiosità: la signora Amelia e la signora Laura sono sorelle? A quanto ho letto nel diario della mia bisnonna e a quanto mi ha raccontato Edurne, la migliore amica di Amelia era sua cugina Laura. Sono un po' disorientato» dissi cercando di rendermi simpatico. «Forse è troppo per lei» ribatté lei, esprimendo la scarsa

fiducia che nutriva in me. «Ammetterà che l'esistenza di così tante Amelia confonderebbe chiunque» mi difesi io. «In realtà, no. Una bisnonna delle mie prozie si chiamava Amelia e sembra che fosse una donna molto bella e molto amata da tutta la famiglia, al punto che i nipoti decisero di dare alle loro figlie il nome della nonna. E così fecero Juan e Armando Garayoa, chiamando le primogenite Amelia.» «Che casino!» «Sarà un casino per lei, ma per la nostra famiglia le cose sono chiarissime.» «Veramente anch'io sono imparentato con la sua famiglia...» «Questo è ancora da dimostrare.» «Ma le ho fatto vedere il certificato di battesimo di mio nonno Javier!» «Senta, su di lei ho dei dubbi, e se anche fosse il nipote del figlio di Amelia Garayoa, come mai salta fuori proprio adesso con questa stupida storia di volere scrivere un libro sulla sua bisnonna?» «Non ho detto che scriverò un libro, ma una cronaca che mia zia Marta farà rilegare come regalo di Natale per tutta la famiglia.» «Commovente!» Il sarcasmo insito in quella risposta mi infastidì. «Ascolti, capisco le sue perplessità, ma sono stato sincero fin dal primo momento e, inoltre, che le piaccia o no, siamo parenti.» «Ah, no! Su questo si sbaglia. Io e lei non siamo niente, per quanti legami si sforzi di trovare. Non pretenderà che adesso, di punto in bianco, i Garayoa si incontrino con i Carranza come se si trattasse di un romanzo d'appendice?» «Guardi, su questo ha ragione, perché in effetti la storia della mia bisnonna ha tutta l'aria di essere una saga d'amore... Ma non ho la minima intenzione di proporle di passare insieme il Natale.»

«E non le venga neanche in mente di far conoscere le due famiglie.» «Non ci penso nemmeno. Ho già problemi a sopportare la mia, di famiglia, senza aggiungere anche la vostra.» «Lei è un villano!» «No, non è vero, voglio semplicemente dire che sono d'accordo sul fatto che il passato è passato.» «Chiudiamo qui questa inutile conversazione. Mia zia la aspetta domani a mezzogiorno. Non faccia tardi.» Amelia Maria Garayoa riattaccò senza salutare. Le ero davvero antipatico. Il giorno dopo mi presentai puntuale all'appuntamento con un mazzo di rose rosa. La domestica mi accompagnò in biblioteca, dove mi aspettava la signora Laura. Era seduta, con un libro sulle ginocchia. «È già arrivato... si sieda» mi ordinò indicando la poltrona vicino alla sua. «Come sta sua sorella?» mi informai in tono preoccupato porgendole il mazzo di rose. «Le ho portato questi fiori...» «Mia sorella?» domandò con aria stupita. «Sua nipote Amelia Maria ieri mi ha detto che la signora Melita era raffreddata...» «Ah, sì! Certo, è raffreddata, ma sta già meglio, da ieri non ha più febbre. Siamo molto anziane, sa? Qualunque cosa ci debilita... e l'influenza di quest'anno è molto pesante. Ma sta meglio. Le dirò che ha chiesto di lei.» Fece un gesto alla domestica per sistemare i fiori e le chiese di servire il caffè per entrambi. «Bene, cosa ne pensa di quello che le ha raccontato Edurne?» mi domandò senza altri preamboli. «In realtà, mi sembra che sua cugina fosse una ragazza un po' sventata, ansiosa di diventare un'eroina» risposi tirando le somme. «Sì, in un certo senso è così, ma non solo. Mia cugina Amelia

è sempre stata una ragazza intelligente e inquieta, però era nata nel secolo sbagliato; oggi sarebbe diventata una donna importante, avrebbe potuto sviluppare tutto il suo talento, ma a quell'epoca...» «Il fatto di scappare con quel Pierre, convinta di doversi sacrificare per la rivoluzione... insomma, mi è sembrata una scusa puerile. È andata via con lui perché si era innamorata e avrebbe fatto lo stesso, con o senza rivoluzione» conclusi sotto lo sguardo inorridito della signora Laura. «Giovanotto, mi sembra che lei non abbia capito niente. Sta giudicando Amelia con troppa leggerezza. Forse non è la persona giusta per scrivere la sua storia...» Era chiaro che avevo commesso una gaffe. Come mi era venuto in mente di spiattellare così di botto la mia opinione sulla bisnonna! Cercai di rimediare. «Per favore, non mi fraintenda! A volte noi giornalisti siamo impulsivi, diciamo le cose in modo brutale, dimenticandoci le sfumature, ma le assicuro che quando scriverò la storia lo farò con affetto. In fin dei conti era la mia bisnonna.» Temevo che mi intimasse di andarmene, ma non disse nulla. Attese che la domestica, appena entrata nella stanza, ci servisse il caffè. «Bene, ha detto che aveva delle domande. Cos'altro vuole sapere?» «In realtà siete voi che dovete dirmi quale pista seguire. Ammetto che, senza il vostro aiuto, sarebbe molto difficile ricostruire la storia di Amelia. Mi piacerebbe anche che mi raccontasse cosa accadde al ritorno di Santiago, il mio bisnonno.» «Non deve compatirlo. Santiago era un uomo tutto d'un pezzo, che soffrì, certo, per la perdita di Amelia, ma riuscì a superarla con grande dignità.» «Proprio di questo vorrei che mi parlasse. In fin dei conti voi eravate i suoi familiari più prossimi.» «Bene, le racconterò qualche dettaglio, ma non ci faccia

l'abitudine. Non siamo noi a doverle dare informazioni, non è questo l'accordo. Inoltre, ci sono cose che, anche volendo, non potremmo raccontarle, perché non le conosciamo. Però, come dice lei, sappiamo quale pista seguire. Le ho organizzato altri incontri.» Mi accomodai in poltrona, impaziente di ascoltare la signora Laura, che era rimasta in silenzio, come se stesse pensando da dove cominciare... Il giorno dopo la fuga di Amelia, Edurne mi consegnò la lettera scritta da mia cugina. Era una domenica di fine marzo del 1936 ed eravamo tutti in casa. Ce l'ho qui per mostrargliela. Amelia diceva di essersi innamorata di Pierre, di non sopportare l'idea che lui se ne andasse e di non rivederlo, e che preferiva morire piuttosto che perderlo. Poi mi supplicava di spiegare ai suoi genitori e a Santiago la sua scomparsa; insisteva che la vera causa non fosse Pierre, ma gli ideali rivoluzionari. Chiedeva perdono a tutti e mi pregava di fare il possibile per evitare che suo figlio la odiasse, ma assicurava che un giorno o l'altro sarebbe tornata a prendere Javier. E mi chiedeva anche di occuparmi di Edurne, temendo che Santiago la licenziasse. Si può immaginare la mia commozione quando lessi quella lettera. Mi sentivo affranta, perduta e persino tradita, perché Amelia, oltre che mia cugina, era la mia migliore amica. Fin da piccole avevamo condiviso anche le confidenze più insignificanti, eravamo più unite che con le nostre sorelle. Edurne era letteralmente terrorizzata. Pensava, e non a torto, che sarebbe rimasta senza lavoro, che sarebbe stata costretta a tornare alla cascina. In lacrime, mi supplicava di aiutarla. Io mi sentivo sopraffatta da quella situazione: a diciott'anni, e in quei tempi, può ben immaginare quanto poco sapessimo del mondo, e Amelia era fuggita delegando a me una responsabilità per cui non ero affatto pronta. Per prima cosa, cercai di tranquillizzare Edurne, promettendole che non le sarebbe successo niente; le dissi di tornare a casa, e se qualcuno

le avesse chiesto di Amelia avrebbe dovuto rispondere che non sapeva dove fosse. Poi andai da mia madre, che in quel momento stava impartendo alla cuoca le istruzioni per la cena di quella sera, perché avremmo avuto ospiti. «Ho bisogno di parlarti.» «Non puoi aspettare? Non credere che sia facile organizzare una cena per dodici commensali.» «Mamma, è molto urgente, devo parlarti» insistei. «Come siete impazienti voi ragazze di oggi! Noi adulti dobbiamo fare qualunque cosa per compiacervi. Insomma, vai nel salottino, ti raggiungo subito.» Mia madre ci mise un bel po' e quando arrivò mi ero già rosicchiata tutte le unghie. «Cosa succede, Laura? Spero che non si tratti di una delle tue solite sciocchezze.» «Mamma, Amelia se n'è andata.» «Tua sorella? Certo che se n'è andata, è uscita per far visita alla sua amica Elisa.» «Non mi riferisco a Melita, ma a mia cugina.» «Se non l'hai trovata, vuol dire che sarà a casa dei genitori o a trovare qualcuno, magari è con quella Lola...» «Se n'è andata per sempre.» Mia madre rimase in silenzio cercando di assimilare quanto aveva appena sentito. «Ma cosa ti viene in mente! So che è arrabbiata con Santiago per il suo ultimo viaggio... in effetti Santiago dovrebbe essere più riguardoso e non andarsene così all'improvviso... ma Amelia ormai sa com'è fatto suo marito...» «Mamma, Amelia ha lasciato Santiago.» «Ma che cosa stai dicendo, figlia mia? Smettila con queste sciocchezze!» Mia madre era diventata paonazza per l'agitazione. Stentava a credere a quello che le stavo dicendo. «Se n'è andata perché... perché crede nella rivoluzione e vuole sacrificarsi per costruire un mondo migliore.»

«Mio Dio! Non posso credere che Lola abbia fatto un tale lavaggio del cervello a tua cugina! Su, dimmi dov'è, avvertirò suo padre. Dobbiamo subito andare a riprenderla... immagino che stia da Lola.» «È andata in Francia.» «In Francia? Cosa stai dicendo? Spiegami cos'è successo. Come fai a sapere che Amelia è andata in Francia?» Mio padre entrò nella stanza richiamato dalle grida di mia madre e si spaventò nel vederla andare su e giù per il salotto in preda all'agitazione. «Cosa sta succedendo? Elena, che c'è? Stai male? Laura, spero proprio che tu non abbia dato un dispiacere a tua madre, tanto meno oggi, che abbiamo ospiti a cena...» «Papà, Amelia è scappata in Francia. Ha lasciato Santiago e la sua famiglia, ma un giorno tornerà a prendere Javier.» Parlai tutto d'un fiato, senza preamboli. Mio padre rimase muto, a fissarmi, come se non capisse quel che stavo dicendo. Mia madre piangeva sconsolata. Raccontai la fuga di Amelia con parecchie omissioni, cercando di non tradirla, senza mai nominare Pierre. Mio padre non voleva credere che sua nipote, per quanto scapestrata, fosse davvero andata in Francia a fare la rivoluzione. «Ma quale rivoluzione?» insisté mio padre. «La rivoluzione. Sai che i comunisti vogliono portare la rivoluzione ovunque...» risposi, senza troppa convinzione. Per più di un'ora mio padre continuò a farmi domande, senza darmi tregua, mentre mia madre non la smetteva di parlare dell'influenza di Lola. «Dobbiamo avvertire Juan e Teresa. Che dolore gli daremo! E tu, Laura, fammi vedere la lettera che ti ha scritto Amelia» ordinò mio padre. Gli mentii. Dissi che, per colpa della tensione, l'avevo strappata senza rendermene conto. Non potevo dargliela, perché in quella lettera Amelia raccontava tutta la verità, cioè

che si era innamorata di Pierre. «Non ti credo!» disse mio padre reclamando la lettera. «Ti giuro che l'ho strappata senza rendermene conto» insistei piangendo. I miei zii Juan e Teresa arrivarono a casa nostra mezz'ora dopo. Mio padre li aveva avvertiti che si trattava di una cosa urgente. Per lui era una grossa sofferenza dover dire a suo fratello che sua figlia era fuggita. Mi chiese di raccontare ciò che sapevo, e io, tra le lacrime, dissi quanto potevo. Mia zia Teresa svenne e mia madre dovette soccorrerla, il che permise a mio padre, allo zio Juan e a me di rifugiarci nello studio, dove entrambi insisterono affinché raccontassi di più. Non mi lasciai convincere e continuai a sostenere che Amelia fosse fuggita a causa della rivoluzione. «Bene» concluse lo zio Juan «allora andremo a trovare Lola, visto che è stata lei a mettere in testa ad Amelia quelle idee estremiste. Lei saprà dove si trova: non credo sia già arrivata in Francia. In ogni caso, potrà darci qualche indizio. Ma prima andremo a casa di Amelia: dobbiamo evitare di allarmare la servitù. Spero che Edurne non abbia detto nemmeno una parola.» Mentre mia madre assisteva la zia Teresa, andai con mio padre e mio zio a casa di Amelia. Ma non era il nostro giorno fortunato, perché, quando arrivammo, scoprimmo che Santiago era rientrato dal viaggio quella mattina stessa. Santiago stava parlando con Edurne; o, meglio, Santiago parlava e Edurne piangeva. Fu stupito di vederci e io cominciai a tremare. Affrontare i miei genitori e i miei zii era una cosa, ma affrontare Santiago... Anche mio zio Juan era nervoso. Non doveva essere facile per lui comunicare a suo genero una notizia del genere. «Cos'è successo?» chiese Santiago in tono gelido. «Possiamo parlare in privato?» propose lo zio Juan. «Sì, certo. Seguitemi nello studio, e con te, Edurne... ne

parlerò dopo.» Mentre ci avviavamo dietro di lui, dentro di me pregavo Dio che facesse un miracolo e che Amelia ricomparisse all'improvviso. Però quel giorno Dio non mi ascoltò. Santiago ci invitò a sederci, ma lo zio Juan era così nervoso che rimase in piedi. «Mi dispiace per quello che sto per dirti... sono desolato... e ti assicuro che non lo capisco, ma...» «Signor Juan, prima mi spiega il motivo della sua visita meglio è» tagliò corto Santiago. «Sì... certo... mi dispiace per quanto è successo... ma, insomma, non ho altra scelta che informarti che Amelia è fuggita.» Mi aggrappai alla mano di mio padre come se fosse un'ancora di salvezza, perché il volto di Santiago espresse una collera senza limiti. «È fuggita? Dove? Perché?» Cercava di controllarsi, ma era evidente che stava per esplodere. «Non lo sappiamo... o, meglio... a quanto pare, è andata in Francia.» «In Francia? Che follia è mai questa?» disse con voce alterata. «Amelia ha scritto a Laura per spiegarglielo» riuscì a replicare mio padre. «Ah, sì? Bene, leggiamo questa lettera, allora» e mi fissò negli occhi tendendo la mano, per farsi consegnare la missiva di Amelia. «Non ce l'ho» mormorai. «Nell'agitazione l'ho strappata...» «Certo! E pretendi che ci creda?» «È la verità!» Mi resi conto che non dovevo essere molto convincente. In realtà non sono mai stata brava a mentire. «E cos'è che Amelia ti ha autorizzata a dirci?» Santiago continuava a fare sforzi per trattenersi.

«Che è andata in Francia per contribuire alla rivoluzione. Pare che lì siano meglio preparati per diffondere in tutto il mondo i valori comunisti.» Lo dissi tutto d'un fiato: avevo imparato bene la lezione. «Laura, con chi è andata Amelia?» Nella voce di Santiago si poteva percepire una sfumatura dura e tagliente. Mi morsi le labbra fino a farmele sanguinare e gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Rispondi, figlia mia» mi esortò mio padre. «Non lo so...» «Sì che lo sai. Tu e Edurne sapete esattamente quello che è successo, quando e con chi se n'è andata» affermò Santiago. Il signor Juan e mio padre si guardarono sconvolti, mentre Santiago mi fissò negli occhi fino a farmi abbassare la testa, imbarazzata. «Laura, non stai facendo un favore ad Amelia se ci nascondi la verità. Tua cugina, mal consigliata, ha commesso un errore, ma se ci riveli tutto quello che sai possiamo ancora rimediare» insisté mio padre. «So solo che è andata a fare la rivoluzione...» risposi, quasi singhiozzando. «Non dire sciocchezze!» mi interruppe Santiago. «Non prenderci per stupidi. La colpa è stata mia, perché ho permesso ad Amelia di partecipare a quelle riunioni della Gioventù socialista spagnola insieme a Lola. E mi sembrava divertente che persino Edurne prendesse la militanza così sul serio. Amelia una rivoluzionaria? Sì, una rivoluzionaria accompagnata dalla cameriera, perché la signorina non si disturbava nemmeno a rifarsi il letto, naturalmente.» «Amelia non si è portata dietro Edurne» protestai ritrovando un po' di coraggio. «No, non l'ha portata, perché non gliel'hanno permesso. Edurne mi ha raccontato che voleva accompagnarla, ma che Amelia le ha detto che non era autorizzata a portare nessun altro. Bene, siete venuti a raccontarmi quello che già sapevo,

che Amelia se n'è andata. Quando sono tornato a casa, stamattina, ho chiesto di lei e nessuno ha saputo darmi notizie, ma Edurne è scoppiata a piangere. È riuscita a dirmi soltanto le stesse sciocchezze che mi hai propinato tu, Laura, che Amelia se n'è andata in Francia a fare la rivoluzione.» D'improvviso, Santiago sembrava stanco, come se tutta la rabbia che stava cercando di contenere si stesse trasformando in rassegnazione. «Santiago, ti siamo vicini, siamo disposti ad aiutarti per qualunque cosa, ma vorrei pregarti di perdonare mia nipote. Non è che una ragazzina senza cattive intenzioni.» Le parole di mio padre sembrarono riaccendere la collera di Santiago. «Aiutarmi? Come potete aiutarmi? Non si illuda, signor Armando, se Amelia se n'è andata è perché... c'è un altro uomo.» «No, non è possibile!» Mio zio Juan, offeso, andò a piazzarsi davanti a suo genero. «Non ti permetterò di mancare di rispetto a mia figlia. Amelia è una bambina, certo, ha commesso un errore, ma andare con un altro uomo, mai! Non voglio rimproverarti nulla, ma i tuoi viaggi senza preavviso non sono stati certo un bel modo di prenderti cura del tuo matrimonio.» Santiago strinse i pugni. Credo che, se non fosse stato per la sua ottima educazione e perché sapeva controllarsi, avrebbe picchiato mio zio Juan. «Voglio sperare che Amelia abbia lasciato me e suo figlio per inseguire un grande amore. Abbandonare Javier soltanto per la rivoluzione? No, lei non la conosce. È vero che non si è mai comportata come una madre premurosa con Javier, ma so che gli vuole bene; quanto a me... credevo ne volesse anche a me.» «Pensavamo di andare a casa di Lola» intervenne mio padre. «Spero che ci accompagnerai.» «No, signor Armando, non intendo accompagnarvi. Non voglio cercarla. Se se n'è andata, lei saprà il perché e dovrà accettarne le conseguenze.» «Ma è tua moglie!» protestò lo zio Juan.

«Una moglie che mi ha abbandonato.» «Ma tu sei appena tornato da un viaggio per il quale sei partito senza nemmeno salutarla...!» Santiago fece spallucce. Per lui era perfettamente normale andare e venire senza dare spiegazioni, come se fosse un comportamento di cui non doveva scusarsi. «Preferiremmo che ci accompagnassi a casa di Lola» insisté mio padre. «Le ho già detto di no, signor Armando. E tu, Laura...» Non disse una parola di più, ma mi fece sentire un'infame. Quando lasciammo la casa di Santiago, eravamo distrutti. Non c'era stato modo di parlare con Edurne, ma ne fui contenta, perché non sapevo per quanto saremmo riuscite a sostenere la nostra versione se avessero fatto pressione su entrambe. Li portai a casa di Lola. Ci dirigemmo in fretta in calle Toledo, fino all'appartamento nel quale lei viveva con il figlio Pablo. Era una mansarda a cui si accedeva attraverso una scala buia. Io ero stata in quella casa soltanto poche volte, per accompagnare mia cugina. In realtà, a me Lola non era simpatica, né io lo ero a lei, perciò di solito ci trattavamo con una freddezza che dispiaceva ad Amelia. Avrebbe voluto che fossimo amiche e, soprattutto, che potessimo condividere tutte insieme le sue avventure. Il campanello non funzionava, perciò mio zio Juan bussò alla porta. Venne ad aprirci Pablo. Il bambino era raffreddato e sembrava avere la febbre. «Cosa volete?» «Pablo, stiamo cercando Amelia» riuscii a dire prima che mio zio o mio padre potessero intervenire. «Ma Amelia è andata via con Pierre. Sono partiti stanotte in treno» rispose. A quelle parole, mio zio Juan impallidì. «Possiamo entrare?» chiese mentre lo scansava ed entrava. Pablo fece spallucce guardandomi stupito. «Mia madre non

c'è, e nemmeno Josep.» «Chi è Josep?» si informò mio zio Juan. «Mio padre.» «E lo chiami Josep?» chiese, stupito, ma il bambino non era altrettanto sorpreso. «Sì, tutti lo chiamano Josep, anche se a volte lo chiamo papà, dipende come mi viene.» A quel punto della conversazione ci trovavamo già nella piccola stanza che serviva da salotto e da camera da letto di Pablo. La mansarda aveva solamente due camere - quella in cui ci trovavamo e una, ancora più piccola, dove dormivano Lola e Pablo quando non c'era Josep - oltre a una minuscola cucina illuminata da un piccolo abbaino. Non c'era il bagno; come gli altri inquilini, dovevano usare un gabinetto situato sul pianerottolo. Mio zio Juan cercò con lo sguardo qualcosa su cui potersi sedere. Io e mio padre restammo in piedi, mentre Pablo si accomodò su una sedia, in attesa di sentire cosa volevamo. «Bene, dicci esattamente dov'è Amelia» ordinò mio zio. «Ve l'ho già detto: in Francia, con Pierre.» «E chi è Pierre?» insisté mio zio. «Il fidanzato di Amelia... be', non so se è il suo fidanzato, perché Amelia è sposata, ma, se non lo è, è qualcosa di simile. Si amano e Amelia lo aiuta.» Mio zio Juan cominciò a sudare, mentre mio padre, attonito davanti a quelle rivelazioni, decise di sedersi. «Pablo, non dire queste cose... Amelia e Pierre sono solo amici...Amelia lo aiuta a fare la rivoluzione» intervenni io guardando angosciata il ragazzino e cercando di suggerirgli con gli occhi di non lasciarsi scappare una parola di più. «Zitta!» Mio padre mi interruppe di botto. «E tu, ragazzino» aggiunse «adesso ci dirai tutto quello che sai.» D'improvviso Pablo sembrò spaventato. Doveva essersi reso conto di avere detto più del dovuto.

«Io non so niente!» riuscì a replicare. «Certo che lo sai! E ce lo dirai.» Mio padre si era alzato ed era andato a piazzarsi davanti al bambino, che lo guardava terrorizzato. «Prima ci racconterai quello che sai, prima ce ne andremo» lo incalzò lo zio Juan. «Ma non so niente! Per favore, Laura, digli di lasciarmi in pace!» Abbassai lo sguardo, imbarazzata. Non riuscivo a fare né a dire nulla, e comunque mio padre e mio zio mi avrebbero impedito di intervenire a favore del bambino. «Mia madre dice che non sono uno schiavo, che non devo umiliarmi davanti ai capitalisti di merda» disse Pablo cercando di farsi coraggio. «Se non ci racconti quello che sai, ti porteremo in commissariato. La polizia cercherà tua madre e poi vedremo cosa succede» minacciò mio padre. Pablo, che aveva gli occhi sempre più lucidi per la febbre e la paura, si mise a piagnucolare. «Mia madre è una rivoluzionaria, e adesso non governano i fascisti.» Fu l'ultimo tentativo di Pablo per evitare di parlare. «Bene, andiamo al commissariato; a quanto ne so, tua madre ha diverse faccende in sospeso con la polizia; per quanto sia una rivoluzionaria, la legge è uguale per tutti» affermò mio padre. Pablo cercò di nuovo il mio sguardo, chiedendo aiuto, ma non potevo dire niente, anche se pregavo che il bambino non desse altri indizi che potessero pregiudicare la fuga di Amelia. «Amelia ieri sera è venuta qui, dove la stava aspettando Pierre. Hanno detto che andavano a prendere il treno, che prima sarebbero passati da Barcellona e poi sarebbero andati in Francia.» «Barcellona?» chiese mio zio Juan. «Pierre deve incontrare alcuni amici di mio padre» riuscì a dire Pablo.

«Dove abita tuo padre?» si informò mio zio. «In una strada dell'Ensanche.» «Come fa di cognome?» insisté mio zio. «Soler.» «Dimmi, chi è Pierre?» Adesso mio padre usava un tono dolce, cercando di rassicurare Pablo. «È un amico dei miei genitori, un compagno di Parigi. Lavora per diffondere dappertutto la rivoluzione e ci sta aiutando.» «È il fidanzato di Amelia?» Mio padre fece la domanda senza guardare né me né lo zio Juan. «Sì» borbottò Pablo. «Ieri, quando Amelia è arrivata, si sono baciati. Lei piangeva tanto, ma lui le ha promesso che non si sarebbe mai pentita di essere andata via con lui. Continuavano a baciarsi, come si baciano i miei genitori... e Amelia gli ha detto che l'avrebbe seguito fino alla morte.» Cominciai a tossire. Era una tosse nervosa; l'unica cosa che volevo era che Pablo smettesse di parlare, che non dicesse una parola di più, e che mio padre e il povero zio Juan non continuassero ad ascoltare quelle cose. Lo zio era pallido e con il corpo così rigido da sembrare un cadavere. Ascoltava Pablo sgranando gli occhi, in cui non c'era soltanto sofferenza, ma anche vergogna e stupore. Come poteva Amelia baciare un uomo che non fosse suo marito? Era davvero possibile che lei si fosse impegnata con un altro uomo fino alla morte? Non riusciva a credere a quanto stava sentendo; sembrava che si stesse parlando di un'estranea, non di sua figlia. D'improvviso si rese conto di non conoscerla: quella donna non aveva niente a che vedere con la sua primogenita, la sua bambina adorata. Mio padre si avvicinò al fratello per esortarlo ad andarsene. A stento mio zio riuscì ad alzarsi in piedi. Sembrava un automa. Mio padre lo prese per un braccio aiutandolo a dirigersi verso la porta. Uscirono senza rivolgere la parola a Pablo. «Domani vado a Barcellona» mi disse il bambino a mo' di

saluto. «A Barcellona? E vedrai Amelia?» chiesi sottovoce. «Non lo so, ma mia madre dice che andiamo a vivere con mio padre. È molto contenta. A me dispiace lasciare Madrid, anche se qui non abbiamo nessuno. Be', mia nonna, però mamma con lei non va d'accordo.» «Se vedi Amelia, dille... dille che sia felice e che le voglio molto bene.» Pablo annuì senza dire una parola, e io uscii in fretta, per raggiungere mio padre e mio zio. Quando rientrammo a casa, la zia Teresa stava ancora piangendo. Mia madre le aveva dato due tisane e un bicchierino di calmante, che però non avevano sortito alcun effetto. Poi aveva chiamato mia cugina Antonietta, che se ne stava seduta, molto seria, senza aprir bocca. «L'avete trovata?» domandò impaziente mia madre. Mio padre le raccontò, senza perdersi in dettagli, che eravamo stati da Santiago e poi a casa di Lola, e che sembrava che Amelia fosse andata a Barcellona, anche se la sua meta finale era la Francia. Mia zia Teresa piangeva con maggiore intensità, in preda allo sconforto, ascoltando il resoconto delle ultime ore, e riusciva soltanto a chiedere che le restituissero sua figlia. Non sapevamo cosa fare né cosa dire; fu il giorno più lungo della mia vita. A metà pomeriggio mio padre, Melita e io accompagnammo a casa i miei zii e mia cugina. Eravamo in lutto, ma mia madre aveva deciso che non poteva rimandare la cena di quella sera, perché tra gli invitati c'era una coppia con due figli, uno dei quali era il pretendente di mia sorella Melita, e sapevamo che quella sera avrebbe chiesto ufficialmente il permesso di corteggiarla. Io sarei rimasta volentieri con i miei zii e con Antonietta, tuttavia loro preferivano rimanere soli.

La cena fu un autentico incubo. Mio padre era distratto, mia madre nervosa e mia sorella, sconvolta, prestava ben poca attenzione al suo pretendente. Tuttavia il ragazzo non si fece affatto scoraggiare da quell'atmosfera così poco invitante e, sostenuto dal padre, chiese al nostro il permesso di iniziare a frequentare mia sorella. Lui glielo concesse senza dimostrare alcun entusiasmo. Anche se non c'entra con questa storia, le dirò che, poco dopo l'inizio della guerra civile, Rodrigo sposò mia sorella Melita e, anni dopo, riuscimmo a spiegargli cos'era successo quel giorno. Il mattino seguente Edurne si presentò a casa mia con la valigia. Santiago le aveva dato una generosa somma di denaro perché se ne tornasse alla cascina da sua madre e dai nonni. «Non posso andarci, signorina Laura. Mia madre mi ammazza se viene a sapere che il signor Santiago mi ha licenziata.» «Ma tu non hai colpa di quanto è successo, tua madre capirà» le dissi io, poco convinta. «A casa hanno bisogno dei miei guadagni, la cascina dà a malapena di che vivere, e poi mia madre mi sta preparando il corredo nel caso che un giorno mi sposi.» «Il corredo può aspettare» intervenne mia madre «e tu là potrai sempre dare una mano. Inoltre tuo fratello Aitor ha raggiunto una buona posizione all'interno del Partito nazionalista basco; mia cognata Teresa mi ha detto che lo tengono in grande considerazione.» «Ah, signora Elena, lei non conosce mia madre! Non sa quanto si arrabbierà. Mi aveva chiesto di comportarmi con la famiglia Garayoa come ha sempre fatto lei, e guardi cos'ho combinato.» Edurne piangeva sconsolata e mi afferrava la mano, supplicandomi di non abbandonarla. Io ero combattuta tra quello che mi aveva chiesto mia cugina Amelia, cioè di prendermi cura di Edurne, e il peso della responsabilità di cui

mi caricavo. La lealtà verso mia cugina ebbe la meglio. «Mamma, posso parlarti un attimo da sola?» Mia madre mi guardò con aria diffidente; mi conosceva molto bene e sapeva cosa le avrei chiesto, così cercò di svicolare. «Senti, Laura, non ho tempo da perdere, abbiamo troppi problemi...» «Ma solo un momento!» supplicai. Uscimmo dalla stanza e andammo in camera mia. A quel punto, mia madre era ormai di pessimo umore. «Laura, cerca di essere ragionevole» esordì, ma la interruppi. «Hai qualcosa di cui lamentarti riguardo a me? Ti ho mai delusa?» «Certo che no, tesoro, ma devi capire che non possiamo farci carico di Edurne, che è proprio quello che stai per chiedermi.» «Ma, mamma, non può tornare alla cascina! Sai che Amaya ha un caratteraccio...» «Amaya è sempre stata una cameriera leale. Magari Edurne le somigliasse... non si sarebbe cacciata nei guai e non avrebbe tanti grilli per la testa, con la storia della rivoluzione.» «Te lo chiedo per favore, parlane con papà!» «Non siamo ricchi, non possiamo accollarci una bocca in più da sfamare. Non ti rendi conto di quello che sta accadendo? La situazione politica sta degenerando: ci sono scioperi, disordini, dei pazzi assaltano i conventi; non so cosa succederà... E tuo padre è un ingenuo, sostiene Manuel Azaňa come suo fratello, ma sono convinta che Azaňa non abbia la situazione sotto controllo...» «Non mi interessa la politica! Io voglio aiutare Edume! E non mi dire che non possiamo trovarle un posto in casa. Potrebbe dormire nella stanza della tua cameriera, a Remedios non importerà. E poi Remedios ormai è anziana, le farà comodo un aiuto.» «No! Non voglio una cameriera comunista, non voglio problemi a casa mia. Grazie ad Amelia, ne abbiamo già avuti

abbastanza.» Mio padre bussò piano alla porta. Aveva sentito la voce alterata di mia madre. «Vado in ufficio, tornerò per pranzo. Cosa succede?» «Santiago ha licenziato Edurne e tua figlia vuole portarla a casa.» «Per favore, papà!» «Senti, quello che possiamo fare è parlare con i tuoi zii. Andrò io stessa a trovare Teresa per spiegarle la situazione. Dovrebbero essere loro a farsi carico di Edurne. In fin dei conti, Edurne è la figlia di Amaya, che è stata al loro servizio per molti anni. Loro sapranno cosa fare.» Mia madre era ostinata come una mula. «Non credo che sia una buona idea» disse mio padre, con grande stupore mio e di mia madre. «Perché no? Dimmelo, Armando. Edurne non è un nostro problema.» «Amelia è mia nipote e quello che ha fatto avrà delle conseguenze anche per noi. Non possiamo lavarcene le mani. Senti, Elena, per mio fratello e per Teresa sarebbe doloroso dover accogliere Edurne. Lo farebbero, certo, per senso di responsabilità, ma la sua presenza non farebbe che ricordare loro di continuo il dramma che devono affrontare. No, non voglio causare altro dolore a mio fratello e a mia cognata. Laura ha ragione, non possiamo abbandonare quella ragazza, anche se è una scriteriata.» «È una comunista» ribatté mia madre con rabbia. «Credi davvero che Edurne sappia cos'è il comunismo? E, anche se così fosse, perché non dovrebbe essere comunista? La vita le ha forse dato occasione di essere qualcos'altro?» «Dovrebbe essere grata alla tua famiglia per tutto quello che ha fatto per lei. L'hanno trattata come una di loro, proprio come sua madre...» «Grata? No, Elena, le cose non stanno così. L'hanno trattata come un essere umano e nessuno dovrebbe ringraziare di

venire trattato per quello che è. Edurne ha svolto bene il suo lavoro, come faceva Amaya; non ci devono niente.» «Come puoi parlare così? A volte anche tu sembri comunista!» «Su, Elena, non esagerare! Non confondere il comunismo con la giustizia. Ecco cosa manca al nostro paese, per questo succede quel che succede. Qui la gente è stata tenuta in schiavitù, e adesso molti si stupiscono che il popolo stia reclamando quel che gli spetta.» «E per questo devono bruciare le chiese? Giustifichi il fatto che i contadini occupino le fattorie? Non gli appartengono!» «Senti, smettiamola di discutere, devo andare in ufficio e voglio passare a trovare mio fratello Juan. Lui e Teresa stanno vivendo una tragedia con la fuga di Amelia e abbiamo il dovere di dare loro una mano.» La fermezza di mio padre ebbe la meglio. «E cosa vuoi che facciamo?» «Almeno per il momento, Edurne resterà da noi. Sistemala dove meglio credi e dalle un lavoro.» «Non voglio che influenzi le mie figlie con le sue idee...» «Elena, non insistere, fa' come ho detto» tagliò corto mio padre, perentorio. «E tu, Laura, spero che sarai giudiziosa. So quanto eri legata a tua cugina, ma devi ammettere che si è comportata male, molto male, con tutti: con suo marito, con suo figlio e anche con te. Non voglio che tu esca con Edurne senza l'autorizzazione di tua madre. In questa famiglia abbiamo avuto già abbastanza guai con la politica.» «Ti prometto, papà, che non ti darò motivo di lamentarti di me.» La discussione si risolse con l'arrivo di Edurne a casa nostra. Il suo soggiorno, che doveva essere temporaneo, finì con il diventare permanente. Da allora e fino a oggi, Edurne è sempre rimasta con me. La signora Laura fece un lungo sospiro. I ricordi sembravano

angosciarla e si passava la mano sulla fronte, come per cercare di allontanarli. «Forse lei sarà in grado di ricostruire, grazie alla sua famiglia, cosa ne è stato di Santiago a partire da allora. In fin dei conti è il suo bisnonno. Da quel momento, lui ruppe per sempre con i Garayoa.» «Non l'avete mai più visto?» domandai, sconcertato. «Non ne voleva più sapere di noi. Suppongo che vederci gli avrebbe ricordato continuamente l'umiliazione di essere stato abbandonato da Amelia. Non ci ha mai permesso di andare a trovare Javier, neanche ai miei zii, che in fin dei conti erano i nonni del bambino.» «Sconvolgente! E il signor Juan e la signora Teresa l'hanno accettato?» «Non avevano scelta. Erano imbarazzati e si sentivano in colpa per il comportamento di Amelia. Non volevano acuire il dolore di Santiago con la loro presenza. In realtà non ebbero il coraggio di imporgliela. Santiago troncò ogni rapporto commerciale con mio zio Juan, e le assicuro che questo per lui comportò un grave tracollo finanziario. I miei zii erano praticamente in rovina, dopo la chiusura dell'attività in Germania, dunque perdere l'appoggio dei Carranza rappresentò un colpo da cui mio zio Juan non si riprese mai più. Poi venne la guerra e le cose andarono di male in peggio. Furono tempi difficili per tutti... Allora, le ho fissato un appuntamento in modo che possa continuare le ricerche.» «Ah, sì? Con chi?» chiesi, senza nascondere il mio interesse. «Con Pablo Soler.» «Il figlio di Lola?» «Esattamente. Ma, visto che lei è un giornalista, saprà chi è Pablo Soler.» «Io? Non ne ho idea. Perché dovrei saperlo?» «Perché è uno storico, ha scritto diversi libri sulla guerra civile, e negli ultimi anni ha partecipato a dibattiti in televisione e pubblicato alcuni articoli sui giornali.»

«Il nome non mi è nuovo, ma in realtà non mi sono mai interessato granché ai retroscena della guerra. In questi anni sono stati pubblicati tanti libri, sono nate tante polemiche... È stata un'atrocità, e io, in effetti, cerco di stare alla larga dalle atrocità.» «Che atteggiamento stupido.» «Caspita, signora Laura! Lei non ha peli sulla lingua.» «Ignorare la storia la fa sentire meglio? Pensa che se non la conosce non sia esistita?» «Almeno sto alla larga dalle polemiche.» «Un atteggiamento incomprensibile per un giornalista.» «Non ho mai detto di essere un bravo giornalista» mi difesi. «Bene, lasciamo perdere questa discussione. Ecco, qui le ho segnato il numero di telefono di Pablo Soler; gli ho parlato ed è disposto a riceverla. Dovrà andare a Barcellona.» «Lo chiamo subito per prendere un appuntamento.» «Bene, allora pare che non abbiamo più niente da dirci, almeno per ora.» La signora Laura si alzò a fatica. Sembrava invecchiare un po' ogni giorno, ma non osai offrirle il mio aiuto. Sapevo che l'avrebbe rifiutato. Mi rendevo conto che, nonostante l'età, alle Garayoa piaceva sentirsi autonome, indipendenti.

2

Quando arrivai a casa appuntai tutto quello che mi aveva raccontato la signora Laura. Era ancora fresco nella memoria e non volevo scordare alcun dettaglio. Scrissi per ore, in compagnia di una bottiglia di ottimo whisky. Stava albeggiando quando andai a letto, e dormii come un bambino finché la suoneria del cellulare, che avevo lasciato sul comodino, non mi riportò alla realtà. «Ciao, tesoro, come stai?» «Uffa, mamma, ti sembra l'ora di telefonare?» «Ma sono le due. Non stavi mica dormendo?» «Be', sì, in effetti stavo dormendo, ho lavorato fino a tardi. Ieri mi hanno raccontato un sacco di cose sulla bisnonna e non volevo dimenticare niente.» «Proprio di questo volevo parlarti. Senti, Guillermo, sono preoccupata per te. Mi sembra che tu stia prendendo troppo sul serio questo incarico della zia Marta, trascurando la tua professione. So che la zia ti ha offerto una paga generosa, ma scrivere sulla bisnonna può andar bene come passatempo, non deve distrarti e impedirti di cercare lavoro nel tuo campo, come giornalista.» Mi sentivo la testa ovattata, ma sapevo che, se mia madre aveva deciso di farmi la predica, niente poteva fermarla, quindi preferii arrendermi subito. «Piacerebbe anche a me trovare un buon lavoro. Cosa credi, che non mi stia muovendo in tutte le direzioni? Ma non mi offrono niente, mamma. La destra non si fida di me perché mi considera un "rosso" e la sinistra mi taglia fuori perché non

faccio il leccapiedi, quindi non ho molte possibilità.» «Ma dài, Guillermo, non può essere così brutta come la dipingi. Sei un bravo giornalista, e poi parli perfettamente inglese e francese, e te la cavi con il tedesco... è impossibile che con quel che vali non ti offrano nessun lavoro.» «Mamma, valgo moltissimo per te, non per loro.» «Ma i giornali non sono di proprietà dei politici.» «È come lo fossero; sono in gioco molti interessi. Non senti la radio? Non guardi la televisione?» «Guillermo, non essere testardo e ascoltami!» «Ti sto ascoltando! So che per te non è facile capire come funziona il mondo del giornalismo, ma credimi, è così che vanno le cose.» «Promettimi che continuerai a cercare lavoro.» «Te lo prometto.» «Bene. Quando vieni a trovarmi?» «Non lo so, lascia che mi alzi e mi organizzi, poi ti chiamo, d'accordo?» Superato lo scoglio della conversazione con mia madre, mi infilai nella doccia per scuotermi dal torpore. Le tempie mi pulsavano all'impazzata e avevo un nodo alla bocca dello stomaco. Effetto del whisky. Diedi un'occhiata in frigo e trovai del succo di frutta e uno yogurt, sufficienti a recuperare le energie prima di telefonare a Pablo Soler. Naturalmente feci prima qualche ricerca su di lui in internet e con sorpresa scoprii che il professor Soler era uno stimato storico, che aveva insegnato all'Università di Princeton e che nel 1982 era tornato in Spagna con tutti gli onori. Aveva pubblicato oltre una ventina di libri ed era considerato un'autorità nel campo della guerra civile spagnola. Cercai il numero di telefono che mi aveva dato la signora Laura. «Pablo Soler?» «Sì, sono io.» «Buongiorno, mi chiamo Guillermo Albi Carranza. Ho avuto

il suo numero dalla signora Laura Garayoa, credo che abbia parlato con lei in merito alle ricerche che sto svolgendo.» «È così.» L'uomo non sembrava molto loquace, perciò continuai a parlare io. «Se non è troppo disturbo, mi piacerebbe incontrarla per farle qualche domanda su Amelia Garayoa. Non so se la signora Laura gliel'ha detto, ma era la mia bisnonna.» «Sì, me l'ha detto.» «Bene, allora, quando posso venire a trovarla?» «Domani, alle otto.» «Di sera?» «No, del mattino.» «Ah! Sì, be'... allora, se mi dà l'indirizzo, ci sarò.» Era una vera sfortuna. Avrei preferito avere un po' di tempo per riprendermi, ma non avevo altra scelta che infilare quattro cose in valigia e imbarcarmi sul primo aereo per Barcellona. Meno male che la zia Marta non lesinava sui fondi, perché avrei dovuto dormire là e, considerato il mio stato, non ero disposto ad andare in un albergo che avesse meno di quattro stelle. Pablo Soler era un anziano signore alto e magro, molto impettito e ancora sorprendentemente agile per la sua età, visto che aveva superato gli ottanta. Venne lui ad aprirmi la porta di casa, un attico in una zona residenziale di Barcellona. "Alla faccia del comunismo!" pensai entrando nell'appartamento ampio ed elegante. Alle pareti riconobbi un Mompó, due disegni di Alberti, un Miró... insomma, un patrimonio speso per l'arredamento. «Le interessa la pittura?» mi domandò vedendo che ero attratto dai quadri. «Sì, sono un giornalista, ma ero in dubbio se studiare Belle Arti.» «E perché non l'ha fatto?» «Per non morire di fame. So che mi manca il talento

necessario per fare qualcosa di grande... anche se nemmeno come giornalista le cose mi vanno poi tanto bene.» Pablo Soler mi condusse nel suo studio, le cui pareti erano completamente rivestite di scaffali zeppi di volumi. Il ritratto di una ragazza occupava l'unico spazio libero della parete in cui non c'erano libri. Mi soffermai a guardare il quadro, perché la modella sembrava mulatta. «È mia moglie» disse lui. «Ah!» mi limitai a replicare. «Bene, veniamo subito al punto. Mi dica.» «La signora Laura le avrà raccontato che...» «Sì, sì» tagliò corto lui «lo so, sta cercando informazioni sulla vita di Amelia.» «Proprio così. Era la mia bisnonna, ma in famiglia non sappiamo niente di lei, è sempre stato un argomento tabù. Guardi, ho una copia di una vecchia foto. La riconosce?» Pablo Soler osservò attentamente la fotografia. «Era una donna molto bella» mormorò. Poi suonò una campanella e immediatamente si presentò una cameriera filippina, impeccabile nella sua uniforme. Io ero sempre più stupito, perché ero convinto che fosse un rivoluzionario. Le chiese di servire il caffè, cosa di cui gli fui grato, visto che di solito alle otto del mattino non sono al massimo della forma. «Da dove vuole che cominci?» mi domandò senza tanti preamboli. «Pensavo che potesse dirmi se ha visto Amelia qui a Barcellona, dopo che era scappata con Pierre. A quanto mi ha raccontato la signora Laura, proprio in quei giorni lei si era trasferito qui con sua madre. Insomma, se potesse dirmi chi era davvero Pierre...» «Pierre Comte era un agente dell'INO.» «E che cos'è?» chiesi stupito, visto che non avevo mai sentito quella sigla. «Il dipartimento estero di intelligence, una sezione

dell'NKVD, che a sua volta derivava dalla Čeka creata nel 1917 da Feliks Dzeržinskij. Sa di cosa sto parlando?» Pablo Soler mi guardava incuriosito, dal momento che ero rimasto scioccato dalla sua rivelazione. Avevo appena scoperto che la mia bisnonna era fuggita con un agente segreto sovietico come se fosse andata a passeggio. «So chi era Feliks Dzeržinskij: un polacco incaricato del servizio di sicurezza di Lenin. Fu lui a dar vita alla Čeka, un corpo di polizia che aveva come scopo la persecuzione dei controrivoluzionari.» «Se vuole metterla così... Quando il potere e le funzioni della Čeka aumentarono, si trasformò prima nel GPU, ovvero il Direttorato politico di Stato, e poi nell' OGPU, la Direzione politica di Stato generale. Finché, nel 1934, entrò a far parte dell'NKVD . Ma le sarà più familiare la sigla KGB, che è il nome che assunse a partire dal 1954. A quell'epoca, l' NKVD era organizzato come un ministero, da cui dipendeva tutto: la polizia politica, le guardie di frontiera, lo spionaggio estero, i gulag. All'interno dell'NKVD c'era l'INO, un vero e proprio esercito nell'ombra, che agiva in ogni parte del mondo. I suoi agenti erano terribili.» «Però, la bisnonna!» «Quando Amelia fuggì con il compagno Pierre, non aveva idea di cosa si occupasse. Josep e Lola non le avevano detto niente su di lui, tranne che era un libraio di Parigi e un compagno comunista; neanche loro sapevano che fosse un agente sovietico. E sia Josep sia Lola erano comunisti convinti, disposti a fare qualunque cosa venisse loro richiesta.» «Credevo che sua madre fosse socialista.» «All'inizio lo era, ma finì per militare con i comunisti; non le piacevano le cose fatte a metà. Lola aveva un bel caratterino.» «Mi stupisce che chiami i suoi genitori con il nome di battesimo...» «È meglio mantenere le distanze quando si tratta di analizzare i fatti storici, ma nel mio caso ho cominciato a

pensare a loro come a Josep e Lola durante l'adolescenza. Erano comunisti convinti, niente e nessuno sarebbe riuscito a far vacillare le loro convinzioni. Erano tremendi. Lo sa? Non ho mai smesso di ammirarli per la loro fede in una causa, per la loro onestà, per il senso della lealtà e del sacrificio, ma non ho nemmeno mai smesso di rinfacciare loro quanto fossero ciechi.» «Mi scusi, professore, vorrei farle una domanda che forse potrà sembrarle impertinente: lei è comunista?» «Crede che avrei potuto insegnare a Princeton se lo fossi stato? Mi sono bastati i miei genitori... No, non sono comunista, e non ho mai condiviso la loro puerile idea del paradiso. Mi sono ribellato ai miei genitori come fanno tutti i giovani; nel mio caso, per motivi personali, soprattutto con mia madre, ma a quell'epoca ero un bambino e per di più adoravo mio padre, nutrivo per lui un'ammirazione sconfinata. Se vuole sapere cosa penso, detesto tutti gli "ismi": comunismo, socialismo, nazionalismo, fascismo... In definitiva, tutto quello che ha in sé il germe del totalitarismo.» «Ma avrà qualche ideologia...» «Sono un democratico che crede nella gente, nell'iniziativa e nella capacità di cavarsela senza tutele politiche né religiose.» «Quindi lei è stato un "pacco" per i suoi genitori...» «Come dice?» «È un'espressione colloquiale. Suppongo che tutti i figli finiscano per deludere i propri genitori: non siamo mai come nei loro sogni.» «Nel mio caso posso assicurarle che è proprio così.» «Mi scusi se sono stato indiscreto, cercherò di non interromperla più.» Pablo cominciò a raccontare. Josep ammirava Pierre. Credo che, pur non sapendo che fosse un agente sovietico, ne intuisse l'importanza a causa dei suoi spostamenti e della collaborazione con l'Internazionale comunista, soprattutto perché era chiaro che Pierre raccoglieva

informazioni. Gli interessava tutto, da come si organizzavano i comunisti spagnoli ai movimenti dei trockisti, alle forze della gente della CNT, dei socialisti, o del governo di Azaňa. A volte, in una conversazione affermava con disinvoltura di aver parlato con un certo politico di sinistra, o di aver cenato con qualche giornalista famoso. Pierre aveva un alibi perfetto: libraio specializzato in testi rari e antichi. La sua bottega a Parigi era un punto di riferimento per chiunque cercasse edizioni rare, incunaboli o libri proibiti. Il che gli permetteva di viaggiare in tutto il mondo e di stabilire rapporti con parecchi intellettuali, gente sempre inquieta e aperta alle novità, comprese quelle ideologiche. Perciò nessuno si stupiva che ogni tanto quel libraio si trovasse in Spagna e passasse del tempo tra Madrid e Barcellona, oppure visitasse altre città spagnole. Ero un bambino quando lo conobbi. Trovavo buffo il suo accento francese, ma oltre allo spagnolo parlava anche l'inglese e il russo. Sua madre era russa e aveva sposato un francese. Il padre di Pierre condivideva la stessa ideologia del figlio, ma la madre ringraziava Dio di essere scampata alla rivoluzione, poiché molti suoi familiari erano scomparsi senza lasciare traccia, vittime della politica repressiva di Stalin. Nessuna donna riusciva a resistere a Pierre, perché era un uomo galante ma soprattutto perché ascoltava, una cosa assai rara in un'epoca in cui gli uomini, persino i rivoluzionari, non andavano tanto per il sottile come al giorno d'oggi. Invece, Pierre conosceva l'arte dell'ascolto; non c'era nulla che non gli interessasse, niente che considerasse un aneddoto insignificante. Sembrava che tutto quello che gli raccontavano gli servisse e lo immagazzinasse nel cervello in attesa che potesse tornargli utile. A volte mia madre rimproverava Josep di non saperla ascoltare come faceva Pierre; e dire che anche mio padre era portato per l'ascolto, tanto è vero che era riuscito a convincere Amelia della bontà della rivoluzione. Amelia si innamorò di Pierre senza volerlo. Lui era bellissimo

e diverso; pur non curando l'abbigliamento, era sempre elegante, sprizzava simpatia e buon umore ed era estremamente colto, senza mai essere pedante. È vero, incontrai Amelia e Pierre a Barcellona all'inizio di aprile del 1936. Io e mia madre arrivammo due giorni dopo di loro. Mio padre aveva deciso che fosse ora che andassimo a vivere con lui. Aveva trovato un lavoro per mia madre come sarta nella casa del suo capo. La mansarda in cui abitava mio padre era più spaziosa di quella in cui vivevamo a Madrid. Oltre alle tre camere e alla cucina, c'era anche un piccolo gabinetto col lavandino, che all'epoca era un lusso. Si trovava all'ultimo piano della casa del principale di mio padre, che lo ospitava per averlo sempre a disposizione, giorno e notte, in caso dovesse uscire all'improvviso o accompagnare la signora da qualche parte. Prima che gli mettessero a disposizione uno spazio tanto grande, mio padre condivideva una camera con il maggiordomo, in un'altra mansarda, ma aveva detto al capo che voleva vivere con la famiglia e che aveva bisogno di un alloggio dove sistemarla, altrimenti avrebbe dovuto lasciare il lavoro e cercarne un altro. Il principale gli aveva messo a disposizione la mansarda, chiedendo però a mio padre di non dire a sua moglie che non era sposato e che mia madre, Lola, non era la sua legittima consorte, altrimenti avrebbero avuto entrambi dei problemi. A lui non importava lo stato civile dei miei genitori; era un commerciante pragmatico, soddisfatto di avere un autista a sua disposizione ventiquattr'ore su ventiquattro, e soprattutto discreto, visto che tutti i giovedì pomeriggio si faceva accompagnare in una certa casa, dove ad aspettarlo c'era la sua giovane amante; a volte, addirittura, quando andavano a Madrid per affari, lei lo accompagnava. E così avevano raggiunto un accordo: la mansarda grande, ma con una riduzione di stipendio.

Pochi giorni dopo il nostro arrivo a Barcellona, andai insieme a Lola a casa della signora Anita. Lì trovai Amelia. La signora Anita era la vedova di un libraio e aveva ereditato dal marito l'attività e le convinzioni comuniste, o forse era lui a essere stato contagiato da lei. La signora Anita, prima di essere trattata da "signora", faceva la stiratrice e tra i suoi clienti c'era la famiglia del libraio. A quanto pare, all'epoca lei militava già tra i comunisti. Era una ragazza sveglia e aveva finito per ammaliare il figlio, sposandolo, ma lui era cagionevole di salute ed era morto giovane a causa di un attacco cardiaco. Lei aveva difeso con le unghie e con i denti il suo diritto di gestire la libreria del marito, opponendosi ai suoceri, ed era riuscita ad averla finalmente vinta. Si era messa a organizzare quelli che chiamava i "pomeriggi letterari", riuscendo ad attirare molti intellettuali, aspiranti scrittori, giornalisti e politici di sinistra. Proprio in uno dei miei libri, quello su Aleksandr Orlov e sulla presenza di agenti sovietici durante gli anni precedenti alla guerra civile, faccio riferimento alla libreria della signora Anita: era un posto in cui si lasciavano messaggi, ci si scambiava informazioni e avvenivano discreti incontri fra gli agenti e i loro supervisori. La libreria della signora Anita comunicava per mezzo di una scala interna con il suo appartamento, al primo piano di un edificio nei pressi di plaza de San Jaime. Fu lì che ritrovammo Amelia. «Lola, Pablo, che gioia!» Amelia sembrava contenta di vederci. «Come stai? Va tutto bene?» si interessò Lola. «Sì, sì, sono felice, anche se non riesco a smettere di pensare a mio figlio e a...» «Zitta! Zitta! Hai preso la decisione giusta. Tu e Pierre avete una missione da compiere, e poi... vi amate. Amelia, hai deciso di diventare una rivoluzionaria e per farlo dovevi abbandonare la tua vita di frivola borghesuccia.» Lola non usava molti riguardi nel rivolgersi ad Amelia. Col

tempo ho capito che segretamente la invidiava. Amelia era bella, elegante, affabile, abbastanza colta e soprattutto aveva quel non so che di chi è cresciuto circondato da cose belle: libri, quadri, mobili... Lola era stata dapprima cameriera, poi stiratrice e sarta, ma in fin dei conti era sempre una proletaria piena di illusioni, convinta che fosse arrivata l'ora del riscatto per chi, come lei, non aveva mai avuto niente. «Non posso fare a meno di pensare a mio figlio. Voglio tanto bene a Javier! Spero che il mio piccino un giorno capisca quello che ho fatto... Comunque Pierre mi ha promesso che potrò rivederlo, che è solo una separazione temporanea...» Amelia voleva illudersi, ma Lola non glielo permetteva. «A tuo figlio non mancherà mai niente, proprio come a tuo cugino Jesús, che ha la stessa età di mio figlio Pablo... Ma ci sono milioni di bambini che non avranno mai nemmeno un quarto di quello che ha il tuo; è per quei bambini che devi sacrificarti. Devi dimenticare te stessa e abbandonare il tuo egoismo piccoloborghese. » Quel pomeriggio non c'era molta gente a casa della signora Anita, che, tra l'altro, si incupì appena mi vide. Anche se figlio di Lola e Josep, ero pur sempre un moccioso e lei li detestava, come disse senza tanti giri di parole. «Quel bambino è di troppo.» «Non so dove lasciarlo e Josep mi ha detto di venire qui per incontrarmi con lui» replicò mia madre facendo spallucce. Lola riconosceva nella signora Anita la proletaria che era stata, nonostante la gonna di ottimo taglio, la camicetta di seta, gli orecchini di perle e i capelli ben acconciati. Non si faceva impressionare da una donna come lei. «Oggi pomeriggio viene gente importante a trovare Pierre e non voglio che siano disturbati» insisté la signora Anita. «Pablo non disturba. Mio figlio è comunista dal giorno in cui l'ho partorito ed è abituato alle riunioni politiche. E poi conosce bene Pierre. Diglielo tu, Amelia.»

«Non si preoccupi, signora Anita, è un bambino molto giudizioso e non darà fastidio.» Josep rivestiva un ruolo importante fra i comunisti catalani; non era un dirigente di primo livello, ma un uomo di fiducia dei capi. Faceva il "postino", grazie al suo lavoro di autista e ai frequenti viaggi a Madrid. Per un bambino, quello non fu un pomeriggio divertente. Seduto su una sedia, senza il permesso di muovermi, non potevo fare altro che guardare. Quando arrivò Pierre, Amelia gli andò incontro agitata. «Sei molto in ritardo» si lamentò. «Non sono riuscito a venire prima, dovevo vedere alcuni compagni.» «E non potevi incontrarli qui?» «No, loro no. E adesso lasciami parlare con i signori che sono appena arrivati, poi te li presento. Uno di loro è il segretario di un membro del comitato esecutivo della Catalogna.» «Ed è comunista?» «Sì, ma il suo capo non lo sa. Ora taci e ascolta. Devi imparare come muoverti a queste riunioni. Devi prestare attenzione, e poi mi racconterai tutto. Voglio che ricordi ogni cosa, anche se ti sembra insignificante. Guarda, cerca di parlare con quel gruppo: i due a destra sono giornalisti molto influenti in Catalogna e l'uomo con cui stanno discutendo è un dirigente socialista. Sono certo che diranno cose che possono interessarci. Chiedi alla signora Anita di presentarteli e fai come ti ho detto: parla poco e ascolta molto. Sei bellissima e molto dolce, si fideranno di te.» Pierre la stava addestrando a diventare un'agente. Un'agente che lavorasse per lui. Amelia era una giovane distinta, beneducata, che sapeva come muoversi negli ambienti più esclusivi senza dare nell'occhio. Pierre si era reso conto del suo potenziale e pensava di usarlo a proprio vantaggio. Ma, ovviamente, non aveva la minima intenzione di confidarsi con

lei, rivelandole di essere un agente dell'INO. Le aveva detto qualche mezza verità: che faceva parte dell'Internazionale comunista, che a volte la rappresentava in uno dei suoi viaggi, portando messaggi ai compagni di altri paesi... e sapeva presentarle come attività del tutto innocenti, tanto più agli occhi di una donna inesperta come lei. Amelia si avvicinò alla signora Anita e le sussurrò che Pierre voleva che la presentasse agli uomini che discutevano animatamente in fondo alla sala. La signora Anita annuì, la prese sottobraccio e, chiacchierando del più e del meno, la condusse verso i giornalisti e il dirigente socialista catalano. «Miei cari, vi ho presentato Amelia Garayoa? È un'amica di Madrid in visita a Barcellona. Mi stava raccontando quanta agitazione c'è nella capitale, vero, Amelia?» «Sì, in effetti molta gente vorrebbe che il governo desse una prova di forza per fermare i disordini e le provocazioni dell'estrema destra.» «Sì, bisognerebbe mettere loro i bastoni fra le ruote» convenne il politico socialista. «E cosa si dice del futuro del presidente Alcalá Zamora?» chiese uno dei giornalisti. «In realtà tutta l'attenzione è focalizzata su Manuel Azaňa.» I tre uomini si guardarono, pensando che Amelia sapesse più di quanto diceva, ma lei aveva cercato semplicemente di dire qualcosa per togliersi d'impaccio. Non poteva certo immaginare che due giorni dopo Alcalá Zamora sarebbe stato destituito dall'incarico di presidente della repubblica. Infatti, era in atto un'operazione politica per portare alla presidenza Manuel Azaňa, e i tre uomini ne erano al corrente. All'inizio, davanti ad Amelia parlavano con cautela, ma poi si lasciarono andare. Lei si limitava ad ascoltare, annuendo e sorridendo, e prestava grande attenzione a ogni singola parola dei tre uomini, il che li faceva sentire al centro del mondo. Quella fu una delle qualità che Amelia coltivò con grande

successo nel corso della sua vita, una qualità che Pierre aveva saputo intuire, stimolare e plasmare. Josep arrivò tardi, in compagnia di due dirigenti sindacali che Pierre voleva conoscere. Perciò la serata si protrasse fin oltre le dieci. Fummo gli ultimi ad andarcene, e ricordo che Amelia mi diede un bacio, abbracciandomi con affetto. Lei e Pierre erano ospiti a casa della signora Anita. Pierre aveva preferito non andare in albergo, per non attirare l'attenzione su Amelia, condividendo con lei la stanza. Sapeva che doveva essere cauto affinché lei non si pentisse della decisione presa, e per niente al mondo voleva esporla a un'umiliazione. L'appartamento della signora Anita era abbastanza spazioso da accoglierli senza dare fastidio alla padrona di casa, e avrebbero trascorso lì quei primi giorni e molti altri nelle visite successive. Proprio in quella casa avrebbero vissuto l'inizio della guerra civile. Non è difficile immaginare di cosa parlarono quella notte Amelia Garayoa e Pierre Comte. «E allora» chiese Pierre «cosa ti hanno raccontato i giornalisti?» «Criticavano Alcalá Zamora perché ha sciolto il parlamento due volte, e non è permesso dalla costituzione. E il socialista diceva che non è escluso che l'incarico di formare il governo finisca per essere affidato a Prieto. Poi si sono avvicinati Josep e i sindacalisti, e uno di loro ha assicurato che Largo Caballero non permetterà a Prieto di ottenere quel che vuole.» «Largo Caballero non riesce a capire che non è ancora il momento per un governo di sinistra: bisogna trovare un accordo con la borghesia che non è fascista.» «Ma sembra una contraddizione...» «Non lo è, si tratta di agire tenendo presenti le circostanze del momento. Non si può assestare il colpo fatale alla borghesia prima del tempo, senza correre il rischio di perdere tutto. I non fascisti non possono fare un passo senza di noi.» «E noi senza di loro?»

«Sì, potremmo, ma il prezzo sarebbe più alto. Lasciamo che il governo di Azaňa vada avanti, almeno per un po'...» Rividi Amelia il giorno dopo, quando venne nella nostra mansarda per parlare con Lola. Sempre affettuosa con me, mi portò un pacchetto di caramelle al gusto di caffellatte, davvero squisite. Sembrava felice, perché, come raccontò a mia madre, Pierre le stava insegnando il russo. «Sono portata per le lingue» disse. Amelia e Lola passarono gran parte del pomeriggio a parlare dei massimi sistemi; io le ascoltavo con attenzione, affascinato dalle conversazioni degli adulti. E poi ero abituato a starmene in silenzio, senza disturbare, durante le riunioni dei miei genitori e dei loro compagni. «Josep mi ha convinta a lasciare la Gioventù socialista. E non sai quanto mi rincresce, perché mi piace quello che dice Largo Caballero. Ma ha ragione, non possiamo starcene ognuno per conto proprio, dobbiamo condividere tutto, ed è un momento molto delicato. Ci sono cose che non potrebbe raccontarmi se io fossi di un altro partito.» «Fai bene, Lola. Mi sembra bellissimo poter condividere tutto con l'uomo che ami! In fin dei conti, Largo Caballero non è poi così lontano dal comunismo, vero?» «Sì, ci sono delle differenze, anche se non tante come quelle di Prieto con il Partito comunista. Prieto è troppo compiacente con i borghesi.» «Santiago era un simpatizzante di Prieto... Diceva che era un politico onesto e si lamentava del potere di Largo Caballero.» «Dimentica tuo marito! È acqua passata, adesso hai un'altra vita; vivila senza guardarti indietro.» «Vorrei che fosse così facile... Quello che provo per Pierre è così intenso che mi brucia dentro, ma non riesco a smettere di pensare a Santiago e al mio piccolo Javier... Gli voglio bene, anche se a modo mio. Da quando me ne sono andata ho gli incubi, non riesco a dormire. Appena chiudo gli occhi mi appare

il volto di Santiago, e se mi addormento mi sveglio di soprassalto perché mi sembra di sentire il pianto di mio figlio. Non posso farci niente, mi pesa sulla coscienza...» «La coscienza è un'invenzione della Chiesa! È un modo facile per dominare la gente. Se dominano la tua coscienza, dominano anche te, perché non sei più libero. Da quando nasciamo, i preti ci dicono quello che è giusto e quello che è sbagliato, convincendoci che se non facciamo quello che vogliono andremo dritti all'inferno. Ma l'inferno non esiste, è una favola per gli stupidi, per tenere sotto controllo la povera gente. Vogliono che soffriamo in terra per poi goderci il paradiso in cielo, ma nessuno è mai tornato dall'aldilà per dirci cosa c'è. E sai perché? Perché non c'è un bel niente, dopo la morte. I ricchi hanno inventato Dio per dominare noi poveri.» «Che cosa dici, Lola?» «Dico la verità! Pensaci, pensa a dove vedi Dio. Forse Dio fa qualcosa per i poveri? Se può tutto, perché permette tante ingiustizie? Perché permette la sofferenza di tanti innocenti?» «Non vorrai giudicare Dio o cercare di capirlo! Lui sa perché ci obbliga a superare prove dolorose, e dobbiamo accettarlo.» «Be', Dio potrà anche esistere, ma ti assicuro che non intendo accettare che mio figlio sia inferiore al tuo, né che gli sia negata l'educazione che avrà tuo figlio, oppure lo stesso cibo o le stesse possibilità. Perché tuo figlio Javier e tuo cugino Jesús devono avere dei vantaggi rispetto a Pablo? Su, dimmi perché.» Lola aveva alzato la voce e guardava Amelia con aria di sfida. Il sorriso di Amelia si era trasformato in una smorfia di dolore: soffriva nel vedere quanto odio nutriva Lola, in parte rivolto nei suoi confronti. «Ho rinunciato a tutto per lottare per i più deboli. Ho abbandonato mio figlio e mio marito, la mia casa, i miei genitori, mia sorella, la mia famiglia, i miei amici, e l'ho fatto perché credo che il mondo non sia giusto e nessuno abbia il diritto di avere più di altri esseri umani. La mia rinuncia ti

sembra poco?» «E credi che dobbiamo esserti grati per la decisione che hai preso? L'avresti fatto se non ti fossi innamorata di Pierre?» Amelia si alzò di scatto con gli occhi pieni di lacrime. Lola le aveva appena inferto un colpo basso; in realtà aveva espresso a voce alta quello che tutti sapevano, lei compresa: se non fosse arrivato Pierre, si sarebbe limitata a flirtare con le idee rivoluzionarie. Mi spaventai vedendo Amelia e Lola guardarsi in silenzio. Dal volto dell'una traspariva la rabbia, da quello dell'altra lo stupore. Alla fine Amelia deglutì, fece un profondo respiro e recuperò la calma che aveva perso. «Credo sia meglio che me ne vada. La signora Anita ha invitato alcuni amici a cena e devo essere lì prima per aiutarla.» «Sì, da qui a casa sua c'è un bel pezzo di strada.» Amelia mi baciò e mi passò una mano sul viso con tenerezza. Poi se ne andò senza dire nulla. Lola sospirò. Josep si sarebbe arrabbiato se avesse saputo che aveva litigato con Amelia. Se Pierre l'aveva scelta, voleva dire che lei era importante per la causa sacra del comunismo, ed era meglio non contrariarla, per evitare che si pentisse di aver abbandonato marito e figlio. Ma Lola era infastidita da Amelia, non aveva mai provato alcun affetto per lei. Anche se non fu il primo scontro fra loro, fu senz'altro quello che scosse di più Amelia; al punto che non la rivedemmo nei giorni seguenti, e fu Josep, rientrando a casa una sera, ad annunciare che Pierre Comte e Amelia erano partiti per Parigi. «È ancora offesa con me?» domandò Lola. «Non lo so, non so nemmeno se ha riferito a Pierre la vostra discussione. Lui non mi ha detto niente; quanto a lei, è stata gentile come sempre. Sai che ti sei comportata male» disse Josep. «Io? Questo lo dici tu! Sono stufa di quella gattamorta, vi ha

abbindolati tutti... te compreso. Se non avesse incontrato Pierre, avrebbe finito per farsela con te. Credi che non mi accorgessi di come ti guardava imbambolata? E tu a indottrinarla come se ne andasse della tua vita.» «Su, Lola, non essere gelosa! Non mi piaci quando fai così.» «Ah, no? Allora il signore mi dirà come gli piaccio e cercherò di accontentarlo. Il signore vuole che abbassi gli occhi e arrossisca quando mi guarda?» «Smettila di dire idiozie!» Si misero a urlare, senza accorgersi della mia presenza. Non era la prima volta che litigavano, ma mai era andata in quel modo. Lola era in preda alla rabbia. Era logico che lo fosse. Era una donna coraggiosa, capace di grossi sacrifici per le sue idee, però non sapeva sfruttare le sue doti femminili nel rapporto con gli uomini. Li trattava alla pari, e in quella società, a quel tempo, nonostante la gente di sinistra si riempisse la bocca con il concetto di uguaglianza tra i sessi, gli uomini erano abituati al fatto che le donne si sacrificassero. Lola aveva lottato per guadagnarsi il rispetto e la considerazione dei compagni, si era comportata con integrità e coraggio durante i disordini seguiti allo sciopero generale dell'ottobre del 1934. Era un'autentica rivoluzionaria, per convinzione, per origini e perché la ragione le diceva che quella era la via della liberazione per le donne come lei. La irritavano, e intimamente li disprezzava, gli uomini che rimanevano indifferenti al valore di ragazze come lei, mentre non sapevano resistere alle donne come Amelia. Lola difendeva l'uguaglianza, si era guadagnata il diritto di essere trattata alla pari, ma in cuor suo la infastidiva che gli uomini si dimenticassero che anche lei era una donna, non solo una compagna.

3

Amelia non fu molto fortunata con la sua nuova famiglia a Parigi. Come faccio a saperlo? Come le ho detto, ho svolto un'accurata ricerca sulle spie nel periodo della guerra civile spagnola per scrivere quello che considero il mio libro migliore. E Pierre era un agente molto speciale; apparentemente collaborava con l'Internazionale comunista, il che gli permetteva di entrare in contatto con i compagni di tutto il mondo, ma in realtà, come le ho detto, faceva parte dell'INO. È stato parecchio complicato ricostruire la sua vita per poter contestualizzare l'importanza che Pierre ebbe all'interno del movimento rivoluzionario e la sua presenza nella guerra civile. Ho trascorso parecchi mesi a Parigi, parlando con gente che aveva informazioni precise su di lui; alcuni l'avevano conosciuto, altri avevano notizie di seconda o di terza mano. A quanto pare, la sua liaison con Amelia non era un segreto, e ci sono documenti che confermano la presenza a Parigi in quei giorni della "bella spagnola". La madre di Pierre, Olga, la accolse di malavoglia. Non approvava che il figlio si legasse a una donna sposata. Il padre, Guy, da buon francese, tollerava la situazione. Inoltre, conosceva bene suo figlio e sapeva che non avrebbe mai trascurato i suoi doveri di rivoluzionario, nemmeno per la "bella spagnola". Guy Comte era al corrente della collaborazione del figlio con l'Internazionale comunista: in fin dei conti, se Pierre era comunista lo doveva a lui. Però ignorava che fosse diventato un agente sovietico. «E così hai abbandonato la tua famiglia per mio figlio» le domandò Olga a bruciapelo, quando Pierre la ebbe informata della situazione.

Amelia arrossì. Aveva percepito l'antipatia di Olga appena varcata la soglia dell'appartamento che Pierre condivideva con i genitori. «Per favore, mamma, tratta più cortesemente la nostra ospite!» «La nostra ospite? Faresti meglio a dire "la mia amante". Non si chiamano forse così le donne sposate che perdono la testa per un uomo e abbandonano il focolare per vivere un'avventura senza futuro?» «Tesoro, non dire cose simili! Se Pierre ama Amelia, che sia la benvenuta in famiglia, sarà dei nostri. E tu, figliola, non lasciarti intimorire da mia moglie. Lei è fatta così, dice quello che le passa per la testa senza pensarci, ma è una brava persona. Vedrai, finirà per affezionarsi a te.» E, rivolto a Olga, aggiunse: «È stato il nostro Pierre a sceglierla e dobbiamo rispettare le sue decisioni». «Amo Pierre, altrimenti... altrimenti non sarei stata capace di fare quello che ho fatto... e poi... credo nella rivoluzione, voglio aiutare...» balbettò Amelia con gli occhi pieni di lacrime. Si sentiva umiliata e forse per la prima volta si era resa conto che, agli occhi del mondo, la sua decisione la faceva apparire una reietta. «Mamma, Amelia è la mia donna: se non la accetti, ce ne andremo seduta stante. Decidi tu. Ma se vuoi che restiamo, la tratterai con la considerazione che merita una donna che ha dimostrato coraggio e ha rinunciato a una vita comoda e agiata per combattere per la rivoluzione mondiale. Non ha solo il mio amore, ma anche il mio più profondo rispetto.» Pierre guardava sua madre con ira e Olga si rese conto che, se non voleva perdere suo figlio, avrebbe dovuto accettare quella spagnola scriteriata. Avrebbe dovuto rassegnarsi ancora una volta, come quando si era piegata al fatto che suo marito e suo figlio fossero comunisti fanatici. Olga aveva conosciuto Guy Comte quando faceva la dama di

compagnia di un'anziana aristocratica russa, una duchessa, che passava dei periodi a Parigi. La vecchia signora era un'accanita lettrice e amava comprare personalmente i libri, così era diventata un'assidua cliente della libreria Rousseau, situata in boulevard Saint-Germain, sulla sponda sinistra della Senna, e di proprietà di monsieur Guy Comte. Olga e Guy all'inizio si erano guardati di sottecchi. Poi Guy si era messo a parlare con lei mentre la duchessa curiosava tra gli scaffali, cercando libri. Più tardi Guy, con il permesso della duchessa, aveva ottenuto un appuntamento con Olga. Se fosse stato per lui, la relazione con Olga non sarebbe andata al di là di una banale seduzione, ma la duchessa non era disposta a vedere rovinata la reputazione della sua dama di compagnia, così quando aveva scoperto che Olga era rimasta incinta li aveva costretti a sposarsi. Lei stessa aveva fatto da madrina alla sposa, dandole in dote una bella somma di denaro. Forse per gli anni passati in mezzo all'aristocrazia, oppure perché non le piacevano i rivoluzionari che rappresentavano una minaccia per l'esistenza borghese del marito, Olga non si era mai lasciata abbindolare da idee che, come diceva lei, non sapeva dove potessero portare. Dunque, per Olga, Amelia non era altro che una stupida ragazzina infatuatasi del suo attraente figliolo, il quale l'avrebbe mollata non appena si fosse stancato di lei. Finivano così tutte le storie di amori proibiti. Lei, che come modelli di riferimento aveva Tolstoj, Dostoevskij, Gogol' e i grandi classici russi, lo sapeva bene. Pierre aveva a disposizione due stanze nella casa paterna; l'una la usava come camera da letto e l'altra come studio. Amelia passava più tempo nello studio di Pierre che nel salotto di casa per non incontrare Olga. Le due donne si trattavano con freddezza e cercavano di evitarsi. Amelia si rendeva conto di quanto Pierre fosse legato ai genitori e di come, nonostante le continue liti fra madre e figlio, i due fossero uniti da un profondo affetto. Amelia conobbe una Parigi diversa da quella che aveva

visitato con i genitori. Questa volta non passava le giornate andando a trovare la sua prozia Lily, sorella di sua nonna Margot, né visitando musei, come aveva fatto con la guida paterna, insieme alla madre e alla sorella Antonietta. Le sarebbe piaciuto andare a trovare la prozia, ma come poteva dirle che aveva abbandonato la famiglia? La zia Lily non avrebbe capito, di certo avrebbe disapprovato la sua decisione. Pierre sembrava avere fretta di farle conoscere i suoi amici e, soprattutto, di introdurla nell'attività politica di quella città così affascinante, dove sembrava ci fossero rivoluzionari dietro ogni angolo. Comunque, trovava sempre il tempo di portare avanti le lezioni di russo che ad Amelia piacevano tanto. Pochi giorni dopo il loro arrivo a Parigi Pierre perorò la sua ammissione al Partito comunista, nonostante le perplessità di alcuni compagni, che ritenevano una mossa troppo affrettata accogliere tra loro una spagnola che conoscevano appena. Fu Jean Deuville, un poeta, amico e compagno di partito di Pierre, a opporsi con maggior fermezza all'ingresso di Amelia nel Partito comunista francese. «Non sappiamo chi è» argomentò davanti al comitato parigino «per quanto il compagno Comte garantisca per lei.» «Non è sufficiente il mio avallo? Ti ricordo che è bastato perché tu diventassi uno di noi» contrattaccò Pierre. Forse grazie al discreto intervento dell'ambasciata sovietica, o perché Deuville alla fine aveva deciso di cedere per non perdere l'amicizia di Pierre, Amelia Garayoa diventò una militante del Partito comunista francese. Lei, una straniera, senza altre credenziali che il ruolo di amante di un uomo prezioso per i sovietici, convinto che la spagnola potesse rivelarsi di grande utilità. Quello che Amelia non sapeva era che, qualche settimana prima, il supervisore di Pierre gli aveva trasmesso gli ultimi ordini giunti da Mosca da parte del capo delle operazioni dell'INO: avrebbe dovuto trasferirsi in Sudamerica per consolidare e ampliare le reti di agenti locali che da poco erano state avviate laggiù.

Pierre era stato avvisato del carattere a volte focoso dei sudamericani e aveva ricevuto l'ordine di scegliere con cura i suoi collaboratori. Continuava a pensare alla missione che si avvicinava e alla necessità di disporre di una copertura più credibile rispetto a quella di un libraio in cerca di gioielli bibliografici, che aveva senso in Europa, ma non in quella parte del mondo, tanto lontana quanto ignota. Quando aveva conosciuto Amelia, aveva pensato che la ragazza avrebbe potuto essergli utile. Non solo era dotata di una bellezza delicata e di modi raffinati, ma era anche del tutto ingenua, completamente malleabile, incapace di vedere al di là delle proprie emozioni. Fuggire con lei in Messico o in Argentina per sottrarsi alle ire di un marito abbandonato sarebbe stata un'ottima copertura che giustificava la loro presenza nel continente. E il fatto che lei fosse spagnola rendeva il tutto ancora più credibile. Consideri che Pierre era un agente sovietico, un uomo che viveva unicamente per la rivoluzione, così accecato dalla sua fede che gli esseri umani che incontrava sul suo cammino erano per lui soltanto pedine da usare e sacrificare sull'altare dei supremi ideali comunisti. E Amelia non faceva eccezione. Da quando aveva deciso di coinvolgerla nel suo piano sudamericano, Pierre cercava di non fare passi falsi con lei, e recitava la parte del seduttore caduto nella rete dell'amore. Per rafforzare la dipendenza di Amelia da sé, non esitava a farsi accompagnare da lei a tutte le riunioni di amici in cui potessero incontrare qualcuna delle amanti che l'avevano preceduta, con le quali Pierre scambiava sguardi complici che impensierivano la spagnola. E così, fin dal giorno del suo arrivo, Amelia si vide trascinata in un vortice di riunioni politiche, inframmezzate a cene con gli amici di Pierre, alcuni dei quali commentavano alle sue spalle che non capivano perché un uomo con le sue convinzioni e il suo valore si fosse infatuato di una donna tanto bella quanto

inconsistente nella sua ingenuità. In quei giorni le conversazioni giravano intorno a Léon Blum e alle conseguenze dello scioglimento di Action Française, a causa dell'aggressione che, nel febbraio del 1936, alcuni giovani militanti avevano compiuto ai danni di Blum in occasione del corteo funebre dell'accademico Bainville. E fu proprio durante una cena alla Coupole per festeggiare il compleanno di Pierre che avvenne il primo incontro tra Amelia e Albert James. Albert James era un giornalista statunitense di origine irlandese che lavorava come freelance per diversi giornali e riviste del suo paese. Alto, con i capelli castani e gli occhi azzurri, era attraente e aveva grande successo con le donne. Gli piaceva comportarsi da bon vivant, era un antifascista convinto, ma non si era lasciato conquistare dal marxismo. Non era un amico di Pierre, ma di Jean Deuville, perciò si avvicinò al gruppo per salutare, attratto soprattutto dalla presenza di Amelia. Bevve con loro una coppa di champagne e fece di tutto per mettersi accanto ad Amelia, che sembrava fuori posto. «Cosa ci fa qui una ragazza come lei?» le chiese senza tanti preamboli, approfittando del fatto che Pierre era impegnato a dare il benvenuto a un altro amico che si era appena unito all'allegra comitiva. «E perché non dovrei essere qui?» «Si vede che questo non è il suo ambiente. La immagino dietro il vetro di una finestra, a ricamare, in attesa che il principe azzurro arrivi a salvarla.» Amelia scoppiò a ridere alla battuta di Albert James, che le fu subito simpatico. «Non sono una principessa, quindi sarà difficile che aspetti ricamando l'arrivo del principe azzurro.» «Francese?» «No, spagnola.» «Ma parla francese perfettamente.»

«Mia nonna è francese, del Sud; con lei parlavo sempre francese; e poi passavamo l'estate a Biarritz.» «Lo dice con nostalgia.» «Nostalgia?» «Sì, come se fosse una vecchietta che ricorda i tempi passati.» «Non lasciarti abbindolare da Albert» intervenne Jean Deuville. «Anche se è statunitense, suo padre era irlandese e da noi francesi ha imparato l'arte della seduzione. Come spesso accade, l'allievo ha superato i maestri.» «Oh, ma non parlavamo di niente di speciale!» si giustificò Amelia. «E poi, anche se non sembra, Pierre è geloso, e non mi piacerebbe fare da padrino a un duello tra due cari amici» continuò a scherzare Deuville. Amelia arrossì. Non era abituata a battute così disinvolte. Faticava ad abituarsi al ruolo di amante che le attribuivano quegli uomini e quelle donne apparentemente senza pregiudizi, che però la scrutavano e bisbigliavano alle sue spalle. «È la fidanzata di Pierre?» domandò Albert James incuriosito. «Più che la sua fidanzata, è la donna che gli ha rubato il cuore. Vivono insieme» commentò Jean Deuville, perché non ci fossero dubbi, per l'americano, che non doveva andare oltre con Amelia. Lei si sentì a disagio. Non capiva perché Jean fosse stato tanto esplicito, mettendola in una situazione che la faceva sentire in imbarazzo. «Capisco. Lei è una donna emancipata, il che mi stupisce visto che è spagnola... Ma mi hanno raccontato che certe cose sono cambiate in Spagna e che, grazie alla sinistra, le donne cominciano a ricoprire ruoli importanti in tutti gli strati della società. Anche lei è una rivoluzionaria?» domandò Albert James con ironia. «Non si prenda gioco di me» riuscì a dire Amelia, sollevata

nel vedere Pierre che si avvicinava. «Cosa ti stanno raccontando queste due canaglie?» chiese divertito, indicando Albert e Jean. «A proposito, Albert, complimenti per quell'articolo uscito sul "New York Times" relativo ai pericoli del nazismo in Europa. L'ho letto al mio ritorno dalla Spagna e, francamente, mi ha sorpreso la tua lucidità. Secondo te, Hitler non se ne starà buono entro le sue frontiere, ma il suo obiettivo è l'espansione, e indichi come primo bersaglio l'Austria, mentre pensi che Mussolini non farà nulla per impedirlo, non solo perché anche lui è fascista, ma perché sa che perderebbe contro la Germania.» «Sì, ne sono convinto. Ho passato un mese in giro per la Germania, per l'Austria e per l'Italia e le cose stanno proprio così. Gli ebrei sono le principali vittime di Hitler, ma prima o poi lo diventerà il mondo intero.» «La questione non è combattere il nazismo perché perseguita gli ebrei, ma perché è una piaga per l'umanità» replicò Pierre. «Però non si può trascurare quello che succede agli ebrei.» «Io sono comunista e il mio unico fine è la rivoluzione, per liberare tutti gli uomini dal peso del capitalismo che li schiaccia e li sfrutta privandoli della libertà. E mi è indifferente che siano ebrei o buddisti. La religione è un cancro, qualunque essa sia. Dovresti saperlo.» «Anche per non credere in Dio bisogna avere un'idea di Dio» affermò Albert stringendosi nelle spalle. «Se credi in Dio, non sarai mai un uomo libero: lascerai che la tua vita sia dominata dalla superstizione.» «E se sono comunista credi che sarò più libero? Non dovrò piegarmi alle direttive di Mosca? In fin dei conti, Mosca vuole salvare gli uomini dal male del capitalismo e molti di voi finiscono per considerare il comunismo una nuova religione. La vostra fede è più grande di quella dei nostri padri che recitano la Bibbia. Non so se ti piacerà tanto il mio prossimo reportage sull'Unione Sovietica, dove spero di andare presto. Come ben

sai, il ministero della Cultura sovietico ha preparato un tour per mostrare ai giornalisti e agli scrittori europei i risultati della rivoluzione; ma mi conosci, ho il difetto di analizzare e criticare tutto quello che vedo.» «Per questo non sei simpatico a nessuno.» L'affermazione di Pierre tradiva quanto Albert lo infastidisse. «Non ho mai pensato che i giornalisti debbano essere simpatici, anzi, tutto il contrario.» «Ti posso assicurare che ci riesci perfettamente.» «Su, su, ragazzi!» li interruppe a quel punto Jean Deuville. «Non ne vale la pena. Non farci caso, Amelia, questi due sono fatti così: ogni volta che si incontrano si mettono a discutere e non c'è modo di fermarli. Sono entrambi un po' polemici. Ma oggi è il tuo compleanno, Pierre, e noi siamo qui per festeggiare, vero?» Albert si accomiatò, lasciando Pierre di malumore e Amelia stupita. Aveva assistito in silenzio alla discussione, senza osare intervenire. I due uomini sembravano impegnati in una disputa che aveva origini lontane. «È un povero diavolo, e rimarrà sempre un capitalista come la maggior parte degli americani» commentò Pierre. «Non essere ingiusto. Albert è una brava persona, solo che non è stato folgorato sulla via di Damasco come san Paolo; e la colpa è solo nostra, che non siamo stati in grado di convincerlo a sostenere la nostra causa. Ma non ci è contrario, anzi, è vicino a noi, perché odia i fascisti» replicò Jean Deuville. «Non mi fido di lui. E poi ha parecchi amici trockisti.» «E chi non conosce un trockista a Parigi?» lo giustificò Jean Deuville. «Non diventiamo paranoici.» «Caspita, come lo difendi!» «Lo difendo dalla tua arbitrarietà. Siete entrambi insopportabili quando volete avere ragione.» «Non mi paragonare a lui!» La voce di Pierre aveva un tono feroce, e Jean non replicò.

Sapeva che, se avesse continuato a parlare, avrebbero finito per litigare, e ultimamente avevano già discusso a causa di Amelia, per la quale adesso Jean nutriva una sincera simpatia, essendosi reso conto che era del tutto inoffensiva. «Su, Amelia, non c'è niente a cui non si possa rimediare con una coppa di champagne» disse Pierre prendendo Amelia sottobraccio e dirigendosi verso il tavolo a cui era seduto il resto del gruppo. Pierre organizzò con gran cura il viaggio in Sudamerica ordinatogli da Mosca. La prima tappa sarebbe stata Buenos Aires, dove il Partito comunista locale sembrava godere di una grande credibilità presso i circoli culturali. Dal punto di vista strategico, non si trattava di una zona fondamentale per gli interessi sovietici, ma il capo dell' INO voleva avere occhi e orecchie dappertutto. Nel corso del suo addestramento a Mosca, gli istruttori dell'INO avevano insistito con Pierre sull'importanza di saper ascoltare e di raccogliere qualunque tipo di informazioni, per quanto insignificanti potessero sembrare; a volte, si apprendevano notizie chiave a migliaia di chilometri dal luogo in cui stavano per accadere determinati eventi. Gli avevano anche spiegato quanto fosse importante avvalersi di agenti che si muovessero nei settori strategici del paese in cui bisognava operare. Non servivano a niente i militanti entusiasti che lavoravano lontano dai centri di potere. Mosca poteva contare già su un "residente" a Buenos Aires, ma servivano agenti ben piazzati, in grado di trasferire informazioni rilevanti. Amelia non voleva lasciare Parigi e insisteva con Pierre per restare ancora un po', perché faticava ad abituarsi all'idea di essere tanto lontana da suo figlio. Non che avesse in mente di tornare in Spagna, ma temeva che, andando a Buenos Aires, la distanza sarebbe stata incolmabile. Con molto tatto e molta pazienza, Pierre cercava di convincerla che era meglio iniziare una nuova vita in un posto

in cui nessuno li conoscesse. «Dobbiamo sapere se la nostra relazione è veramente forte. Voglio stare da solo con te, senza nessuno che ci conosca intorno. Sono convinto che niente e nessuno riusciranno a separarci, ma dobbiamo mettere alla prova il nostro amore, senza interferenze, senza famiglia, senza amici.» Lei gli chiedeva tempo per abituarsi all'idea che iniziare una nuova vita dall'altra parte dell'oceano fosse la cosa migliore. Pierre non voleva forzarla, temendo che lei, in preda all'angoscia, decidesse di tornare in Spagna. A volte lo esasperava l'atteggiamento di Amelia, che in pochi secondi passava dall'euforia allo scoramento. Spesso la trovava in lacrime, che si lamentava di essere una pessima madre e di aver abbandonato suo figlio. In altri momenti, invece, sembrava felice e contenta e gli chiedeva di andare a divertirsi, a passeggiare per le strade di Parigi, a perdersi come innamorati nei meandri della città. Sua madre, Olga, non contribuiva certo a rendergli più facili le cose, convinta com'era di stare perdendo il figlio per colpa di quella spagnola. «Stai buttando alle ortiche la tua vita per quella donna! E non se lo merita! Cosa ne faremo della libreria se non torni? Tuo padre sta soffrendo, anche se non te lo dice» lo rimproverava. In realtà, Guy Comte si era rassegnato alla decisione di Pierre di trasferirsi in Sudamerica. Nutriva una fiducia cieca in suo figlio ed era convinto che, se Pierre aveva preso una simile decisione, dovesse essere la migliore. Ciò nonostante, in cuor suo si chiedeva come fosse possibile che il figlio sacrificasse così tanto per una donna come Amelia, che trovava bella ma insulsa. Il 4 giugno 1936 Léon Blum diventò il presidente del governo del Fronte popolare in Francia. A quell'epoca Manuel Azaňa

aveva già assunto la presidenza della repubblica spagnola in seguito a elezioni nelle quali la destra si era astenuta. Indalecio Prieto non era riuscito ad andare al governo a causa del veto posto da parte del Partito socialista fedele a Largo Caballero. Amelia seguiva con inquietudine le notizie sulla Spagna pubblicate dai giornali francesi e sapeva che la situazione era ancora più burrascosa di quando aveva lasciato il paese. Gli amici di Pierre sostenevano che in Spagna poteva succedere qualunque cosa, considerato che i gruppi di estrema destra non desistevano dalla loro politica fatta di violenza, intimidazioni e provocazioni. Pierre aveva previsto di partire per Buenos Aires alla fine del mese di luglio. Avrebbero viaggiato in una cabina di prima classe su una lussuosa nave che salpava da Le Havre. «Sarà la nostra luna di miele» assicurava ad Amelia, cercando di vincere le sue ultime resistenze. Ai primi di luglio Pierre ebbe un incontro a Parigi con il suo "supervisore", Igor Krisov. A vederlo, sembrava un tranquillo ebreo britannico di origine russa, che si occupava di antichità; non si sarebbe mai detto che Igor Krisov era in realtà il supervisore di diversi agenti nel Regno Unito, in Francia, in Belgio e in Olanda. Krisov entrò al Café de la Paix e cercò con lo sguardo Pierre. Lo vide, apparentemente assorto, che stava leggendo un giornale e bevendo caffè. Si sedette al tavolo accanto al suo e ordinò un tè al cameriere. «Vedo che ha ricevuto il mio messaggio in tempo.» «Sì» rispose Pierre. «Bene, compagno, ho nuove istruzioni per lei. Mosca vuole che si rechi in Spagna prima di intraprendere il suo lungo viaggio.» «In Spagna, di nuovo?» «Sì, laggiù la situazione peggiora giorno dopo giorno e vogliamo che parli con alcune persone. In questa busta ci sono le istruzioni. Preferiamo che sia lei a svolgere questa missione,

si tratta di pochi giorni.» «Mi crea qualche problema. Sa che mi sono trovato, come copertura, una giovane spagnola: ebbene, lei non è molto convinta del viaggio che stiamo per intraprendere e se la lasciassi sola per qualche giorno potrebbe tirarsi indietro...» «La credevo più persuasivo con le donne» rispose Krisov con ironia. «È una ragazzina. Ho avuto molta pazienza, fatto parecchi sforzi con lei, e credo che diventerà una brava agente, inconsapevole ma efficiente.» «Non commetta l'errore di rivelarle di cosa si occupa» lo avvertì Krisov. «Per questo le dico che sarà un'agente "cieca", lavorerà per noi senza sapere quello che fa. È un'inguaribile romantica ed è convinta che il mio unico desiderio sia riuscire a diffondere il comunismo nel mondo intero.» «E non è così?» Lo sguardo ironico di Krisov mise Pierre a disagio. «Naturalmente, compagno.» «Abbiamo approvato la sua idea di usare la signorina Garayoa. Come lei, siamo convinti che, date le sue caratteristiche, possa esserle utile, ma non si fidi troppo.» «Non lo farò, compagno.» «Bene, ci rivediamo quando torna dalla Spagna.» Il 10 luglio Pierre e Amelia arrivarono a Barcellona e alloggiarono di nuovo a casa della signora Anita. Pierre si sentiva più tranquillo sapendo di poter contare sull'ospitalità della vedova, dal momento che lei si prendeva cura di Amelia durante le riunioni a cui lui doveva partecipare nel corso della giornata. All'inizio aveva pensato di lasciare Amelia a Parigi, affidandola ai suoi genitori, ma poi aveva scartato l'idea: suo padre non avrebbe potuto fare nulla se Olga e Amelia avessero litigato. Inoltre, Pierre cominciava a preoccuparsi, perché giorno dopo giorno Amelia sembrava più pentita della decisione

presa, perciò era costretto a non perderla di vista. Amelia aveva accolto con gioia la notizia del ritorno in Spagna. Gli aveva chiesto di andare a Madrid per cercare di rivedere suo figlio e Pierre non le aveva detto un no tassativo, ma non aveva la minima intenzione di accontentarla. «Bene, bene, ecco di nuovo qui la coppia felice!» esclamò la signora Anita a mo' di benvenuto. «E questa volta per quanti giorni potrò godere della vostra presenza?» «Tre o quattro. Devo vedere un cliente che mi dice di aver trovato un libro che cerco da anni. Se le cose vanno per il verso giusto, magari riusciamo anche a fare un salto a Madrid» rispose Pierre. «E lei, Amelia, andrà a trovare la sua amica Lola García? Qualche giorno fa è stato qui Josep; è un brav'uomo e dovrebbe vedere com'è orgoglioso di quel moccioso di suo figlio.» Amelia annuì, a disagio. Dopo la discussione che avevano avuto, non moriva certo dalla voglia di vedere Lola. Anzi, cominciava a nutrire una certa avversione nei confronti della sua vecchia amica, che riteneva colpevole per la piega che aveva preso la sua vita. Il giorno dopo, appena Pierre la ebbe salutata per recarsi ai suoi appuntamenti, Amelia comunicò alla signora Anita che sarebbe andata a fare alcuni acquisti che le erano necessari per il viaggio a Buenos Aires. La vedova non sapeva se lasciarla andare da sola, visto che Pierre l'aveva pregata di controllarla, ma quella mattina stava aspettando una spedizione di libri e, anche se c'era un garzone che la aiutava, preferiva non lasciare la libreria, perciò permise ad Amelia di uscire non accompagnata. «Però non faccia tardi o mi preoccupo» la avvertì. «Non si preoccupi, signora Anita, non mi perderò. Sono certa che troverò la stoffa che mi serve qui nei dintorni.» «Sì, a due isolati da qui c'è la Sedería Inglesa, hanno un assortimento molto ampio di stoffe.»

In realtà, Amelia aveva altri progetti: andare alla centrale dei telefoni per chiamare la cugina Laura. Era ansiosa di avere notizie della sua famiglia, del suo piccolo Javier. Da quando era fuggita non si era mai messa in contatto con Laura, e ai suoi genitori non osava nemmeno mandare una lettera per chiedere perdono. Da Parigi non aveva avuto il coraggio di telefonare a sua cugina, temendo che Pierre cercasse di dissuaderla. Si rendeva conto che, per la prima volta dalla sua fuga, avrebbe avuto del tempo per stare sola. Uscì dalla libreria della signora Anita e si mise in cammino, pensando che stava per tradire la fiducia che Pierre riponeva in lei. Poi si disse che, come lui, anche lei poteva avere qualche segreto. Amelia non poteva immaginare che la fortuna non sarebbe stata dalla sua. Quando, alla centrale dei telefoni, si avvicinò a un'impiegata per chiederle di metterla in contatto con il numero della casa dei suoi zii a Madrid, non si accorse dell'uomo accanto all'impiegata che la guardava fisso, con aria stupita. Lei non se ne ricordava, lui invece sì. Nel suo precedente soggiorno a Barcellona, Amelia aveva accompagnato Pierre a una riunione con alcuni compagni, tra cui quell'uomo, un militante locale del partito, piazzato in un posto strategico. Lui fu sorpreso di vederla lì da sola e, soprattutto, tanto nervosa. Amelia si torceva le mani mentre aspettava ansiosamente che le passassero la linea. Nel frattempo, l'uomo convinse la collega a prendersi un attimo di pausa, visto che il collegamento tardava. «Non preoccuparti, me ne occupo io.» «Grazie, è da un'ora che devo andare in bagno.» L'uomo era deciso a non perdersi nemmeno una parola della conversazione di Amelia, quindi intercettò la linea dal suo telefono. Quando la centralinista di Madrid lo avvisò che dal telefono

richiesto avevano risposto, fece cenno ad Amelia, che era distratta, di entrare in una cabina dove prendere la comunicazione. «Potete parlare» disse la centralinista di Madrid. «Laura? Vorrei parlare con Laura» bisbigliò Amelia. «Chi la desidera?» si informò la cameriera che aveva risposto al telefono. «Amelia.» «La signorina Amelia?» chiese allarmata la cameriera. «Per favore, faccia presto! Avvisi mia cugina, non ho molto tempo.» Qualche minuto dopo Amelia sentì la voce di sua zia Elena. «Amelia, grazie a Dio ti sei fatta viva! Dove ti trovi?» «Zia, non ho molto tempo per spiegarti... Dov'è Laura?» «A quest'ora è a lezione, lo sai bene. E tu? Dove sei? Pensi di tornare?» «Zia, io... io non posso spiegare... mi dispiace molto per quello che è successo... Come sta il mio piccino? E i miei genitori?» «Tuo figlio sta bene. Águeda si prende cura di lui come una madre, anche se non l'abbiamo più visto. Santiago... be', Santiago ha preferito tagliare i ponti con la famiglia. I tuoi genitori telefonano ad Águeda per avere notizie del bambino.» «E mio padre? Come sta? Si sa qualcosa di Herr Itzhak?» «Tuo padre... ecco, ha avuto un attacco di cuore quando te ne sei andata. Ma non spaventarti, non è stato niente di grave, il medico ha detto che era per la tensione. Si è già ripreso.» Amelia scoppiò a piangere. D'improvviso si rese conto delle conseguenze provocate dalla sua fuga. Non aveva voluto pensare a ciò che si era lasciata alle spalle, aveva preferito credere che tutto sarebbe rimasto uguale, che niente sarebbe cambiato. Invece scopriva che Santiago impediva ai suoi genitori di vedere Javier e che suo padre aveva avuto un attacco di cuore... e tutto per colpa sua.

«Dio mio, cos'ho fatto! Non potrò mai perdonarmi!» disse, tra le lacrime. «Perché non torni a casa? Se lo fai, tutto si aggiusterà... Sono sicura che Santiago ti ama ancora, e se gli chiedi perdono... avete un figlio... non può negare il perdono alla madre di suo figlio. Torna a casa, Amelia, torna... I tuoi genitori ne sarebbero felici, non c'è giorno che non si affliggano per la tua assenza, proprio come noi. Anche Laura si è ammalata per il dispiacere... Sono sicura che, se torni, nessuno si arrabbierà con te. Ti ricordi la parabola del figliol prodigo?» «E Edurne?» provò a chiedere Amelia. «Sta da noi. Tua cugina Laura ha insistito per tenerla qui... Santiago non la voleva più...» «Cos'ho fatto! Cos'ho fatto!» «Tesoro, è colpa delle cattive compagnie! Quella Lola, quei comunisti... Lasciali perdere, Amelia, lasciali perdere e torna a casa.» L'uomo decise di interrompere la comunicazione. Aveva intuito che la giovane amante del compagno Pierre stava per cedere alle suppliche della zia perciò era meglio che non continuassero a parlare. Inoltre pensò di telefonare subito alla signora Anita; lei avrebbe saputo cosa fare. «Senta, senta! È caduta la linea!» gridava Amelia cercando di attirare la sua attenzione. «Un momento, signorina, vedo se riesco a ripassargliela, aspetti in cabina.» Invece chiamò la signora Anita spiegandole rapidamente quello che aveva sentito. «Trattienila, sarò lì tra meno di un minuto. Queste borghesucce credono che la vita sia un gioco.» Amelia aspettava impaziente nella cabina, sperando di riuscire a riavere la linea con la casa degli zii. Avrebbe preferito parlare con Laura, ma sua zia si era dimostrata affettuosa e comprensiva. Se fosse tornata a casa... forse tutti l'avrebbero perdonata.

D'improvviso si sentì trafitta da un paio d'occhi freddi. La signora Anita si stava dirigendo verso la cabina. «Amelia, cara, che coincidenza! Sono dovuta uscire per una commissione e mi era sembrato di vederla dalla strada. Vuole che le faccia compagnia? Con chi aspetta di parlare, figliola?» Amelia provò il desiderio di correre via, di scappare, ma la signora Anita le aveva già afferrato un braccio. «Volevo parlare con la mia famiglia» ammise tra le lacrime «Certo, certo! Aspetterò finché non le passano la linea.» «Non si preoccupi, ci sono dei problemi, richiamerò.» «Ma non c'è bisogno di venire qui. Può usare il telefono della libreria, è uno dei pochi lussi che mi concedo.» «Non volevo disturbare...» si giustificò Amelia. «Disturbare, lei? Niente affatto! Lei e Pierre siete i benvenuti a casa mia. Abbiamo un ideale comune. Cara, lei non sa com'è fortunata che Pierre si sia innamorato di lei. Quante donne vorrebbero essere al suo posto! Ed è così attento e galante con lei... Si goda la vita e non rinunci a un amore così grande, glielo dico io che ho esperienza.» Amelia pagò il costo della chiamata e uscì dalla centrale telefonica insieme alla signora Anita, che non le lasciava il braccio. «Bene, adesso la accompagno a comprare la stoffa, d'accordo? E smetta di piangere, il naso le è diventato rosso come un peperone e ha gli occhi gonfi per tutte quelle lacrime. Come si rattristerebbe Pierre se la vedesse così! Su, andiamo. Nel pomeriggio passeremo a trovare la sua amica Lola, sono sicura che saprà come tirarla su di morale.» La signora Anita non la lasciò più sola nemmeno per un minuto. Dissimulando l'irritazione che provava all'idea di fare la "guardiana" della "borghesuccia", come definiva Amelia, passò il resto della giornata ad accompagnarla in giro senza meta per la città. Quando, nel pomeriggio, si ritrovarono con Pierre, la

signora Anita ormai faticava a nascondere il malumore e nemmeno Amelia faceva alcuno sforzo per tenere a bada la tristezza che l'aveva assalita dopo la conversazione con la zia. Pierre era già stato informato dall'uomo della centrale telefonica della conversazione tra Amelia e la signora Elena. «Come avete passato la giornata?» domandò, facendo finta di niente. «Bene, molto bene, abbiamo fatto acquisti. Amelia aveva bisogno di alcune cose per il vostro viaggio a Buenos Aires» rispose la signora Anita. «Ottimo. Se siete d'accordo, vi porto fuori a cena. Ho incontrato Josep e si uniscono a noi anche Lola e Pablo. Cenare con gli amici è la cosa migliore dopo una giornata di lavoro. Su, Amelia, fammi un sorriso e vai a prepararti; nel frattempo devo parlare con la signora Anita del libro che sono venuto a cercare; ho bisogno dei consigli di un occhio esperto.» Amelia, obbediente, andò a chiudersi nella camera che condivideva con Pierre. Le pesava l'idea di incontrare Lola, soprattutto in un momento in cui aveva il morale sotto i piedi. Ma non osava contrariare Pierre, quindi aprì l'armadio per cercare un abito da mettersi. Nel frattempo, Pierre e la signora Anita erano scesi in libreria, per parlare lontani dalle orecchie di Amelia. «So cos'è successo, mi ha avvisato il compagno López quando ha avvertito te. A quanto mi ha raccontato, la chiacchierata con sua zia è stata irrilevante» affermò Pierre. «A me non ha detto di cos'hanno parlato, ma la ragazza ha passato tutta la giornata a piagnucolare e a lamentarsi per suo figlio. Non lo so, temo che avrai problemi con lei. È molto giovane e secondo me è pentita di aver abbandonato la famiglia» replicò la signora Anita. «Se diventasse un problema, la rispedirò io stesso a Madrid.» «Caspita, ti credevo innamorato di lei!» Pierre non rispose. Lo irritava perdere il controllo su Amelia. Era stufo di comportarsi come un innamorato, stanco di fingere

ogni giorno di essere un seduttore, irritato di dover controllare qualunque minimo gesto. Quasi desiderava che lei gli dicesse che tornava a Madrid. Se non fosse stato per il viaggio a Buenos Aires, per affrontare il quale aveva bisogno di una copertura, l'avrebbe mollata seduta stante, lì a Barcellona, e che si arrangiasse come poteva per tornare a Madrid. Amelia scese a cercarli e tutto in lei lasciava trasparire la sua svogliatezza: l'atteggiamento, il modo di camminare, l'aria assente. Si diressero a piedi verso un piccolo ristorante di proprietà di un compagno, nei pressi del Barrio Gótico, dove ad aspettarli c'eravamo noi, io e i miei genitori. «Siete in ritardo» si lamentò Lola. «Siamo qui da più di mezz'ora. Pablo è affamato.» Ci sedemmo a un tavolo appartato e durante la cena Pierre si sforzò di rendere allegra l'atmosfera. Ma né Amelia né Lola erano dell'umore giusto, e la signora Anita aveva i nervi a fior di pelle dopo aver perso un'intera giornata dietro ad Amelia. Josep cercò di dare una mano a Pierre, facendo il possibile per animare la serata. Alla fine, i due uomini decisero di arrendersi all'atteggiamento delle donne, immergendosi in una conversazione sugli ultimi avvenimenti politici che sembravano dimostrare la volontà di un settore dell'esercito di porre fine all'esperienza repubblicana. Il nome del generale Mola era sulla bocca di tutti. Amelia non toccò cibo, al contrario della signora Anita e di Lola, che avevano sempre un grande appetito. Al termine della cena, Josep si offrì di accompagnarli per un tratto verso la casa della signora Anita. Pierre e Amelia camminavano davanti e, anche se parlavano a bassa voce, mi arrivavano frammenti della loro conversazione. «Che ti succede, Amelia? Perché sei triste?» «Niente, niente.» «Su, non mentirmi. Ti conosco bene, so che c'è qualcosa che ti addolora!»

Lei scoppiò in lacrime, coprendosi il volto con le mani, mentre Pierre le metteva un braccio sulla spalla, con fare protettivo. «Io ti amo, ma... credo di essere stata molto egoista. Ho pensato solo a me, alla mia voglia di stare con te, e non mi sono comportata bene. So di non essermi comportata bene» ripeté. «Perché fai così, Amelia? Ne abbiamo già parlato altre volte. Tu stessa mi hai detto che non si può fare una frittata senza rompere le uova. So che non è facile tagliare i rapporti con la famiglia, credi che non lo capisca? Per esempio, tu non vai d'accordo con mia madre. Lei è mia madre e le voglio bene, però sono convinto che dobbiamo darci l'opportunità di cominciare una nuova vita e, come tu hai lasciato la tua famiglia, io ho lasciato la mia, il mio negozio, il mio futuro.» «Ma tu non hai un figlio!» «No, non ce l'ho, ma spero che ne avremo quando la nostra relazione sarà solida e definitiva. Niente mi darebbe una gioia più grande. Il mio unico rammarico è che tu non possa portare Javier con te, almeno per ora, ma non scartiamo la possibilità di riuscire ad averlo con noi in futuro.» «Non succederà mai! Santiago non lo permetterà, non lascia nemmeno che i miei genitori vedano il bambino.» «E come lo sai? Hai parlato con loro?» Amelia arrossì. Senza volerlo si era tradita, ma poi pensò che di certo la signora Anita avrebbe finito per dirglielo. «Ho parlato con mia zia Elena. Avevo telefonato a mia cugina Laura, ma non c'era, e ha risposto mia zia.» «Hai fatto bene, non devi perdere il contatto con la tua famiglia. So che starai più tranquilla se hai loro notizie» affermò Pierre pensando esattamente l'opposto. «Dimmi di cosa avete parlato.» «Sa che Javier sta bene grazie ad Águeda, la balia. Santiago non intende più avere contatti con la mia famiglia e non permette loro di vedere il bambino. Mio padre si è ammalato quando me ne sono andata, di cuore... per colpa mia... sarebbe

anche potuto morire.» «Questo non posso accettarlo! Non permetterò che tu ti assuma la responsabilità della malattia di tuo padre. Cerca di essere razionale, andiamo, nessuno si ammala di cuore per un dispiacere; se a tuo padre è venuto un attacco cardiaco, non ne sei tu la causa. Quanto al fatto che tuo marito non gli permetta di vedere il nipote, la trovo una crudeltà. Non gli fa onore, e non mi sembra giusto che se la prenda con i nonni impedendogli di vedere il bambino. No, Amelia, tuo marito non si sta comportando bene.» Le parole di Pierre aumentarono il piagnucolio di Amelia, che invece cercava di giustificare il marito. «Lui è molto buono e non è ingiusto, solo che vedere i miei genitori gli ricorda me, e ha tutti i motivi per volermi dimenticare. Mi sono comportata così male con lui! Santiago non si meritava quel che gli ho fatto!» Pierre passò la notte a consolare Amelia, cercando di lenire la ferita aperta nella sua coscienza. Il giorno dopo era il 13 luglio, una data che si sarebbe rivelata cruciale per la storia della Spagna: quel giorno fu assassinato José Calvo Sotelo, leader della destra monarchica. Pierre decise di andare a Madrid, pur non avendo ricevuto ordini specifici in proposito; si trattava di un avvenimento abbastanza grave da giustificare un viaggio nella capitale per prendere contatto con i compagni che puntualmente gli passavano informazioni sul governo Azaňa. Anche se a Madrid c'erano agenti che dipendevano dall'ambasciata sovietica, adesso era Pierre che voleva valutare la situazione e mandare un rapporto preciso a Mosca. Amelia accolse con gioia la notizia del viaggio a Madrid. Pierre le mentì, dicendole di aver preso quella decisione pensando alla sofferenza che lei provava. In realtà non si fidava a lasciarla da sola con la signora Anita, e Lola e Amelia sembravano molto distanti, cosa su cui prima o poi avrebbe

dovuto indagare. Il viaggio in treno sembrava non finire mai. Quando finalmente arrivarono a Madrid, trovarono la capitale nel caos. Pierre decise di alloggiare in una pensione che si chiamava La Carmela, in calle Calderón de la Barca, nei pressi del parlamento. I proprietari della pensione erano molto attenti alla pulizia e all'identità dei loro ospiti. Erano orgogliosi di avere come clienti anche alcuni deputati. C'erano soltanto quattro stanze e furono fortunati a trovarne una libera. «Ieri è partito il signor José, sa, il commesso viaggiatore di Valencia che viene a trovarci una volta al mese. Credo che l'abbia incontrato, qualche volta» disse la proprietaria, la signora Carmela. «Sì, credo di sì» rispose Pierre, che non aveva molta voglia di chiacchierare. «Non sapevo che fosse sposato» azzardò la signora Carmela, incuriosita. «Come vede...» replicò Pierre, senza dire né sì né no. Pierre si preoccupava di cosa avrebbe fatto Amelia durante il soggiorno a Madrid. Non poteva portarla con sé ovunque, perché doveva incontrare agenti, avere conversazioni confidenziali, il che sarebbe stato impossibile in sua presenza. Ma, se la lasciava sola, era sicuro che avrebbe finito per cedere all'impulso di andare a trovare la sua famiglia, con conseguenze imprevedibili. Pertanto decise di prendere l'iniziativa: organizzare l'incontro personalmente ed essere presente. «Forse ora dovrebbe parlare con la signora Laura. Lei potrà dirle meglio di me cos'è successo in quei giorni a Madrid. Poi torni qui e continueremo la nostra chiacchierata» concluse Pablo Soler con un sorriso compiaciuto. Aveva parlato per più di quattro ore e io non avevo aperto bocca. Stentavo ancora a crederci: la mia bisnonna era fuggita con un agente francese dell'intelligence sovietica e si era iscritta al Partito comunista francese. Un attimo prima era una

ragazzina scapestrata e l'attimo dopo si era trasformata in una Mata Hari in erba. «Ha mai rivisto Amelia?» «Sì, certo, quando ripassarono da Barcellona. Le ho già detto che uno dei miei libri migliori ha come oggetto gli agenti sovietici in quegli anni, e Pierre era uno di loro. Perciò ho dovuto indagare a fondo su di lui e sulla sua sorte. Era un uomo molto interessante, un fanatico, anche se non lo dava a vedere. Credo che dovrebbe leggere il mio libro, le sarebbe senz'altro molto utile.» «Parla della mia bisnonna?» «No, non parla di lei.» Pablo si alzò e prese da uno scaffale un libro piuttosto voluminoso. Lo ringraziai per il regalo e gli promisi di richiamarlo. «Mi raccomando, in questi giorni non ho molto da fare, ho appena mandato un libro in stampa, perciò adesso sono quasi in vacanza.» Mentre mi accompagnava alla porta, ci venne incontro sua moglie. «Non rimane a pranzo con noi?» propose sorridendo. «Ah, Charlotte, non ti ho presentato il signor Albi.» «Piacere di conoscerla, signora. Sono Guillermo Albi.» «Signor Albi, devo ringraziarla per aver tenuto compagnia a mio marito. Quando non scrive non sa cosa fare del suo tempo e, visto che ha appena finito un libro, non ha altra scelta che prendersi un attimo di respiro. Quindi lei è il benvenuto.» «Grazie mille, spero di non dovervi disturbare troppo spesso, anche se il signor Pablo mi ha invitato a tornare a trovarlo presto.» Pur con qualche anno in più, era evidente che Charlotte era la stessa donna del quadro che aveva attirato la mia attenzione. Sembrava americana, anche se parlava un ottimo spagnolo, con un lieve accento del Sud, ed era simpatica; a giudicare dal quadro, doveva essere stata molto bella e conservava ancora

qualche traccia dell'avvenenza di un tempo. Tornai in albergo per telefonare in tutta tranquillità alla signora Laura. Il compito che mi aveva assegnato la zia Marta cominciava a divertirmi. Era una continua sorpresa, e già mi immaginavo la scena del prossimo Natale, quando la mia famiglia avrebbe letto la storia della bisnonna. Alla zia Marta, che era di destra, sarebbe venuto un colpo nello scoprire che sua nonna era stata l'amante di un agente sovietico. Mentre mi dirigevo in albergo, riaccesi il cellulare. C'era un messaggio urgente del caporedattore della cultura del giornale on line con cui collaboravo. Gli telefonai subito. «Guillermo, dov'eri finito? Avresti dovuto consegnare ieri la recensione del libro di Pamuk. Così ci metti nei guai, perché dalla casa editrice, quella che si fa pubblicità sul nostro sito, ci hanno chiamato stamattina per sapere cosa sta succedendo.» «Mi dispiace, Pepe, ho avuto da fare, te la mando subito. Dammi un'ora.» «Un'ora? Senti, questo è un giornale on line e devo pubblicare la recensione adesso. Dove cavolo sei?» «Sono a Barcellona per conoscere uno storico, Pablo Soler.» «Caspita! Soler è uno degli storici più autorevoli, i suoi libri sulla guerra civile sono tra i più seri e imparziali. Lui è un'autorità nell'ambiente universitario americano.» «Sì, lo so che è una grande personalità. Sai, ho avuto l'occasione di conoscerlo e... be', mi è passata di mente la recensione, ma ho letto il libro e non ci metto niente a scrivere l'articolo e a mandartelo. Dammi il tempo di arrivare in albergo, sono per strada.» «Per questa volta, passi. Ah, senti, visto che conosci Pablo Soler, chiedigli un'intervista; sarebbe un colpaccio, perché non ama i giornalisti e non ne concede mai.» «Va bene, ci proverò, sentiamo cosa mi dice.» «Sì, provaci, se non altro al direttore passerà l'incazzatura che gli hai fatto venire. Ah, e non metterci più di mezz'ora a

consegnarmi quel maledetto articolo.» Alla fine aveva ragione mia madre: la storia della bisnonna mi stava coinvolgendo ai punto di allontanarmi dalla realtà, che poi non era altro che un misero impiego per un giornale on line che mi pagava cento euro al pezzo. Da mesi non superavo i quattrocento euro, che mi bastavano a malapena per comprare le sigarette, l'abbonamento dell'autobus e poco altro. Se Pablo Soler mi avesse concesso un'intervista, forse il direttore del giornale si sarebbe finalmente convinto che poteva affidarmi qualcosa di più della critica letteraria. Le interviste erano pagate meglio. Ovviamente mi metteva in imbarazzo tornare a casa del professor Soler per chiedergli un'intervista; una cosa era che avesse acconsentito a parlarmi della mia bisnonna, un'altra era rilasciare dichiarazioni alla stampa. Ma ci avrei provato. La mia situazione economica non mi permetteva di andare tanto per il sottile, anche se, finché conducevo le ricerche su Amelia Garayoa, potevo contare sullo stipendio della zia Marta.

4

Non avevo finito di leggere il libro di Pamuk, ma avevo abbastanza esperienza da riuscire a scrivere una recensione all'impronta, e così feci. Telefonai a Pepe per chiedergli se aveva ricevuto l'articolo, così da stare tranquillo. Insisté sull'intervista al professor Soler e promisi che ci avrei provato Poi telefonai a mia madre. «Tesoro, dove sei? È tutta la mattina che provo a chiamarti, ma il cellulare era sempre spento.» «Sono a Barcellona, per incontrare una persona che ha conosciuto la bisnonna.» «La bisnonna? Sarà una cariatide... Se la tua bisnonna fosse viva, adesso avrebbe più di novant'anni.» «Sì, è anziano in effetti, ma era un bambino quando l'ha conosciuta.» «E chi è?» «Non te lo dico, mamma, non mi lascerò scappare niente finché non avrò finito le ricerche. Però posso anticiparti che tua nonna ha avuto una vita piuttosto movimentata. Vi sorprenderà.» «La zia Marta mi ha chiamata per lamentarsi. Dice che non vuoi metterla al corrente dei progressi delle ricerche e non sa se stai davvero lavorando o se ti dai alla bella vita a sue spese.» «Hai una sorella adorabile.» «Guillermo, è tua zia e ti è molto affezionata!» «Davvero? Be', lo nasconde bene, perché non me ne sono mai accorto.» «Guillermo, non esagerare.» «Va bene, mamma, non me la prenderò più del necessario

con la zia Marta. Allora, ti chiamavo per sapere come stai e se mi inviti a cena stasera.» «Certo, tesoro, non vedo l'ora che tu sia qui.» «Bene, verrò alle dieci, puntuale come un orologio.» Riattaccai pensando che mia madre aveva una pazienza infinita con me. Poi telefonai alla signora Laura; volevo farmi raccontare cos'era successo ad Amelia nei giorni precedenti alla guerra civile. Se non con lei, doveva dirmi con chi parlare, perché era chiaro che non sapevo dove sbattere la testa. La domestica esitò quando le dissi chi ero e che volevo parlare con la signora Laura o con la signora Melita. Mi lasciò in attesa e dopo qualche minuto sentii la voce della signora Laura, che mi parve più spenta della volta precedente. «Non mi sento tanto bene, ho avuto un calo di zuccheri» mormorò. «Mi dispiace disturbarla, ma il professor Soler mi ha raccontato che Amelia era venuta a Madrid due o tre giorni prima che scoppiasse la guerra civile e aveva intenzione di mettersi in contatto con la famiglia. Prima di proseguire, mi ha suggerito di parlare con lei, per sapere quello che è successo in quei giorni. Ma se non sta bene... insomma, posso aspettare. Oppure può indicarmi qualcun altro a cui possa rivolgermi.» La signora Laura ribadì che non si sentiva molto bene e che il medico le aveva raccomandato di stare a letto. Anche la signora Melita era indisposta, quindi la cosa migliore era che parlassi con Edurne. «In realtà fu lei a vedere Amelia in quei giorni. Con me ha passato sì e no un'ora. Venga domattina, ma cerchi di non stancarla troppo, è molto anziana e ricordare è un grosso sforzo.» «Le prometto che mi tratterrò il minimo indispensabile.» Mi rendevo conto che le mie "fonti" erano persone anziane, ormai agli sgoccioli della vita. Dovevo lavorare in fretta, oppure

rischiavo che una di loro scomparisse dall'oggi al domani. Decisi di concentrarmi sulle ricerche e, per non perdere il lavoro al giornale on line, di privarmi di qualche ora di sonno. Quando arrivai in aeroporto, per Madrid erano rimasti solo posti in business class. Pensai di aspettare il volo successivo, ma decisi che la zia Marta non sarebbe certo andata in rovina per un biglietto un po' più caro. Atterrato a Madrid, presi un taxi. Ero sulla strada di casa quando lo squillo del cellulare mi riscosse dai miei pensieri. «Guillermo, tesoro, dove sei finito? Sono più di due settimane che non mi chiami.» «Ciao, Ruth, sono atterrato ora a Madrid, vengo da Barcellona.» «Volevo invitarti a cena a casa mia, ho un meraviglioso foie gras che ho comprato ieri a Parigi.» Non ebbi neanche un attimo di esitazione. Avrei telefonato a mia madre per disdire l'impegno con lei: una serata con Ruth mi sembrava molto più emozionante, soprattutto se ci fossimo guardati negli occhi al di sopra di un buon foie gras. Ruth faceva la hostess per una compagnia aerea last minute e di solito era assegnata al volo per Parigi, quindi ero sicuro che avremmo gustato anche un ottimo vino di Borgogna. La notte si prospettava molto piacevole. Mia madre brontolò, ma non si arrabbiò. E quando mi illustrò il menu che mi aveva preparato, fui felice di aver accettato l'invito di Ruth. Mia madre era convinta che mangiassi malissimo e così, ogni volta che pranzavo o cenavo da lei, si ostinava a propinarmi verdura e pesce alla piastra senza neanche un pizzico di sale. Trascorsi una serata memorabile. Non mi ero reso conto di quanto mi mancasse Ruth finché non la rividi. A dire la verità, lei aveva una pazienza infinita con me e non faceva pressioni perché ci sposassimo. Mi lasciava la mia libertà, non so se perché mi considerava il suo uomo-oggetto da vedere solo ogni tanto o perché davvero intuiva che non ero pronto per

impegnarmi. In ogni caso, era la relazione ideale. Alle undici del mattino mi presentai a casa Garayoa. La domestica mi informò che la signora Laura era ancora a letto e la signora Melita era dal medico, per fare delle analisi. L'aveva accompagnata la pronipote, Amelia Maria. Edurne mi aspettava seduta in biblioteca. Non sembrava contenta di vedermi. «Non le è bastato quello che le ho raccontato?» «Prometto di non arrecarle troppo disturbo, ma mi piacerebbe sapere cos'è successo quando Amelia tornò a Madrid con Pierre. Doveva essere il 14 o il 15 luglio del 1936. La signora Laura mi ha detto che lei la vide.» «Sì, la incontrai» rispose Edurne con un filo di voce. «Come dimenticarlo...» Amelia e Pierre erano a Madrid da un paio di giorni. Lui aveva chiesto a una coppia di amici di occuparsi di lei e di non lasciarla sola. Amelia cercò di opporsi all'idea di stare con la coppia, ma non ebbe altra scelta; però si sentiva così oppressa dalla mancanza di libertà e dalla sfiducia che Pierre nutriva nei suoi confronti che cominciò a pensare di abbandonarlo. A quell'epoca, comunque, Amelia era così confusa che avrebbe potuto decidere di mettere fine alla sua storia con Pierre e poi cambiare idea vedendolo arrivare sorridente con una rosa in mano. A un certo punto lui si rese conto che non poteva rimandare oltre l'incontro con la famiglia di lei. La mattina del 17, in presenza di Pierre, Amelia telefonò a Laura. Non era in casa, era uscita con i fratelli, Melita e Jesús, e con la madre, la signora Elena. Non c'era nemmeno il signor Armando. Amelia, angosciata, chiese di me. Voleva vedere i suoi genitori, ma non osava presentarsi a casa loro senza prima sapere cosa l'aspettava, soprattutto se con sé avesse portato anche Pierre.

Impazzii di gioia sentendo la sua voce, e lei mi chiese di raggiungerla alla pensione La Carmela, dove alloggiava. Può ben immaginare che ci andai di corsa: dopo qualche minuto ero lì. Appena ci incontrammo, entrambe scoppiammo a piangere per l'emozione. Restammo abbracciate a lungo, e Pierre non riusciva a separarci. «Su, su, smettete di piangere! Non avevate tanta voglia di vedervi? Ecco, finalmente...» Amelia mi chiese di raccontarle nei dettagli come stavano i suoi. «Il signor Juan sta meglio, si è ripreso bene dall'attacco di cuore; la signora Teresa lo segue come un'ombra. Tua madre si è presa un bello spavento, perché il signor Juan era con lei quando ha avuto il malore. Meno male che ha avuto la prontezza di spirito di chiamare l'autista che ha portato subito il signor Juan all'ospedale. Gli ha salvato la vita. Ma tuo padre è triste, non è più lo stesso da quando te ne sei andata. La signora Teresa è invecchiata tutto d'un colpo, però non si perde d'animo: è lei il sostegno morale della casa. Anche tua sorella Antonietta ha sofferto, non ha smesso di piangere per settimane.» «Tu pensi che, se vado a casa, i miei genitori mi perdoneranno?» «Ma certo! Li renderai felici.» «E cosa diranno di Pierre?» «Lui verrà con te?» «Certo. Pierre è... è... insomma, è come se fosse mio marito.» «Ma non lo è!» «Lo so, non ancora. Ho intenzione di divorziare da Santiago per sposarmi con lui, è solo questione di tempo.» «I tuoi genitori sono molto addolorati per l'accaduto... Non potresti andare da sola a trovarli?» Amelia lo avrebbe preferito, ma Pierre non era disposto a lasciarle vedere la famiglia in sua assenza. Aveva paura di perderla. In realtà, ci mancava poco.

«E mio figlio? Come sta Javier?» «Abbiamo sue notizie da Águeda. Il signor Santiago non vuole più saperne della tua famiglia. Ha detto che preferisce tenere le distanze e in futuro deciderà se permettere loro di vedere il bambino. Ma è una brava persona, perché lascia che i tuoi genitori telefonino ad Águeda quando lui non c'è per essere informati del nipote.» «Tu non lo hai più visto?» «No, non ne ho avuto il coraggio. Ma puoi stare tranquilla, Águeda si prende molta cura di lui, lo ama come se fosse suo figlio, lo sai.» Amelia scoppiò a piangere: si sentiva in debito con Águeda perché si prendeva cura di Javier, ma al contempo la addolorava sapere che lei avesse preso il suo posto. «Ma è mio figlio! È mio!» «Sì, certo che è tuo figlio, però tu non ci sei.» Quelle parole furono peggio di uno schiaffo. Mi guardò in preda alla rabbia e al dolore. «Voglio mio figlio!» gridò. Pierre la abbracciò temendo che avesse una crisi isterica. Non era proprio il caso, visto che alla pensione La Carmela pensavano che fossero marito e moglie. «Calmati, Amelia, nessuno mette in dubbio che Javier sia tuo figlio, e riusciremo a riprenderlo, vedrai, ma a tempo debito. A Buenos Aires avvieremo le pratiche per il divorzio, e poi verrai a prendere Javier.» «Vai a Buenos Aires?» domandai. «Non lo so! Non voglio andare da nessuna parte!» Mi accorsi che Pierre era stanco di quella situazione e credo che fosse sul punto di dirmi di portare via Amelia. «Non devi venire, se non vuoi. In realtà ho proposto di andarcene per iniziare una nuova vita, lontani dal nostro passato, ma se non mi ami...» «Sì, sì, ti amo! Ma mi sembra di impazzire!» «È meglio che ora vada, Edurne. Adesso sa dove trovarci. Lo

dica agli zii di Amelia e, se lo ritengono opportuno, andremo a casa loro o dai genitori di Amelia. Voglio chiedere umilmente scusa al signor Juan e alla signora Teresa per il dolore che ho causato e voglio che sappiano che amo Amelia più della mia vita e desidero solo renderla felice.» Tornai a casa vivamente impressionata. Ammiravo Pierre dal momento in cui l'avevo visto a casa di Lola. Era così convincente, sembrava così sicuro... E non avevo alcun dubbio che fosse perdutamente innamorato di Amelia. Al tempo stesso mi rendevo conto che lei non era felice, che era pentita della decisione presa e che, se fosse potuta tornare indietro, l'avrebbe fatto senza esitazioni. Ma non sapevo in che modo aiutarla, mi sentivo persa come lei. La signora Elena e le sue figlie non arrivarono fino a mezzogiorno, e appena dissi loro che Amelia si trovava a Madrid, che era molto infelice e che voleva vederli, la signorina Laura non esitò un secondo. «Andiamo subito da lei!» «Ma, tesoro, non possiamo presentarci in quella pensione, dove lei è con quell'uomo!» «E perché no? Non capisci che non ha il coraggio di venire qui?» «Qui è la benvenuta, ma senza di lui. È questo che Edurne deve riferirle. Vogliamo vederla e la accompagneremo a casa dei suoi genitori, ma deve venire da sola. Sarebbe una vergogna che si presentasse con quell'uomo. Tuo zio Juan morirebbe dal dispiacere. Amelia deve capirlo.» «Mamma, non fare così!» protestò la signorina Laura. «Non intendo ricevere quell'uomo a casa mia! Mai! È uno svergognato, ha approfittato dell'innocenza di Amelia, e non voglio avere a che fare con gentaglia come lui.» «Mamma, Amelia è innamorata di Pierre!» «Ah, allora adesso è innamorata, non è scappata per fare la rivoluzione... Santiago aveva ragione.»

«Però, mamma...» «Basta, faremo come dico io. Edurne, vai da Amelia e dille che la aspettiamo. Quanto a quell'uomo, deve capire che una famiglia perbene non può riceverlo. Tuo padre sta per arrivare e sarà d'accordo con me.» Tornai di corsa alla pensione La Carmela senza accorgermi che la signorina Laura mi stava seguendo a breve distanza. Aveva deciso di disobbedire a sua madre pur di incontrare Amelia; temeva infatti che lei avrebbe rifiutato di vederli se non poteva farsi accompagnare da Pierre. Mi raggiunse quando stavo per entrare nel portone. Salimmo insieme alla pensione, che si trovava al primo piano. Amelia e Pierre stavano mangiando in una piccola sala da pranzo. Ricordo ancora che la proprietaria della pensione aveva servito loro uova al tegamino con peperoni. Se Amelia aveva pianto vedendo me, quando scorse la signorina Laura versò fiumi di lacrime. Le due cugine si strinsero in un abbraccio interminabile. Pierre era a disagio per la situazione, e inoltre la signora Carmela entrava in sala da pranzo con qualunque pretesto, pur di non perdersi nemmeno un dettaglio di quanto succedeva. Lui propose di uscire, di cercare un posto dove potessimo parlare senza testimoni. Ci portò in un caffè di plaza Santa Ana, dove ci sedemmo tutti e quattro. «Amelia, devi venire da noi. Mamma chiamerà i tuoi genitori e ti accompagneremo da loro, ma devi essere da sola. Lei deve capire che in questo momento non è il benvenuto, magari più avanti...» disse Laura rivolgendosi a Pierre. Amelia sembrava disposta a lasciarsi convincere da sua cugina, ma la reazione di Pierre le fece cambiare idea. «Farò quello che vuole Amelia, ma devo dirle, signorina, che neanche per la mia famiglia è stato facile accettare la mia relazione con una donna sposata. Per quanto bene voglia a mia madre, le ho imposto questa situazione, mettendo bene in

chiaro che se dovessi scegliere tra lei e Amelia, non avrei dubbi, sceglierei Amelia.» A quelle parole, Amelia si sentì in dovere di schierarsi dalla sua parte. «Se lui non può accompagnarmi, non verrò nemmeno io» rispose, in lacrime. «Amelia, cerca di capire! Tuo padre ha avuto un attacco di cuore. Se ti presenti con Pierre, non so cosa potrebbe succedergli. Per non parlare di tua madre... è meglio andarci piano. Prima vieni tu, poi, insieme, li convinciamo a ricevere Pierre. Non puoi chiedere ai tuoi genitori, di punto in bianco, di accettare un uomo che non sia tuo marito. Sai quanto tuo padre apprezzi Santiago...» Pierre abbracciò Amelia accarezzandole i capelli. «Ce la faremo!» le disse con voce appassionata. «Non preoccuparti, tutto si aggiusterà, ma dobbiamo dimostrare a tutti che il nostro è vero amore.» Amelia si sciolse dall'abbraccio e si asciugò le lacrime col fazzoletto di Pierre. «Di' ai tuoi genitori che io non andrò da nessuna parte senza di lui. Intendo divorziare da Santiago e diventare la moglie di Pierre. Se potete aiutarmi a fare in modo che i miei genitori mi ricevano, sarò la donna più felice del mondo, altrimenti... mi ritengo già soddisfatta di averti potuto abbracciare. Spero che riuscirai a convincerli, ma se così non fosse... almeno promettimi che non mi dimenticherai mai e che farai l'impossibile perché un giorno mi perdonino. Adesso ti prego di tornare a casa con Edurne e di provare con tutte le tue forze a ottenere quello che ti ho chiesto.» Si abbracciarono di nuovo, piangendo calde lacrime, e la signorina Laura le promise che avrebbe cercato di convincere i suoi genitori. «Spero che almeno papà ci dia una mano. Magari sarà più comprensivo di mamma. Né lei né tua madre sono favorevoli al

divorzio, ma se sapranno che avete intenzione di sposarvi forse cederanno.» Con estrema sorpresa, al nostro rientro a casa trovammo il signor Armando in stato di grande agitazione a causa delle notizie che arrivavano dal Nordafrica, dove si diceva che un gruppo di militari fosse in rivolta. In quelle prime ore le informazioni erano confuse e si parlava di una possibile sedizione capitanata dai generali Mola, Queipo de Llano, Sanjurio e Franco. «Papà, devo parlarti» disse Laura al signor Armando. «Tesoro, adesso non posso, devo andare in parlamento per incontrare un mio cliente, un deputato; voglio sapere cosa sta succedendo.» «Amelia è a Madrid.» «Amelia? Tua cugina?» «Sì, Armando, tua nipote si trova qui, e Laura è scappata per andare a trovarla. Stavo per dirtelo, ma non ne ho avuto il tempo. Sei così in agitazione per questa rivolta...» aggiunse la signora Elena. La novità diede il colpo di grazia al signor Armando. Di tutti i giorni possibili, quello era il meno adatto per affrontare un dramma familiare. Il paese stava andando in pezzi e loro dovevano preoccuparsi della situazione di Amelia. «Bisogna avvisare i suoi genitori. Preparati, Elena, dobbiamo andare a casa di mio fratello. Dov'è quella pazza?» chiese a sua figlia. «Alla pensione La Carmela, ed è insieme a Pierre.» «Con quel disgraziato! Non importa, andremo a prenderla. Dio mio! Doveva farsi viva proprio oggi!» «Maledizione, papà, l'importante è che nostra cugina sia qui!» lo rimproverò Melita, la figlia maggiore. «No, la cosa davvero importante è che non sappiamo se è in atto un colpo di Stato, il che, come potete immaginare, avrebbe conseguenze terribili. Bene, facciamo quello che dobbiamo fare,

andiamo a prenderla.» «No, papà, non possiamo farlo, a meno che non siate disposti ad accettare Pierre» dichiarò Laura. «Cosa? Accettare quello svergognato? Mai!» «Papà, Amelia dice che verrà qui o andrà a casa dei suoi genitori soltanto se Pierre potrà accompagnarla, altrimenti...» «Come osa proporre una simile assurdità? Non riceveremo quell'uomo. No, non intendo aprirgli le porte di casa mia» intervenne la signora Elena. «Spiegati, Laura» pretese il signor Armando, molto serio. «O riceviamo tutti e due, oppure Amelia non metterà piede in questa casa né in quella dei suoi genitori; lo ha detto molto chiaramente. Papà, ti supplico di accettare anche Pierre. Edurne mi ha riferito che lui intende portarla a Buenos Aires. Credo che, se andiamo da lei e fingiamo di accettare anche lui, riusciremo a convincerla a rimanere; altrimenti penso che la perderemo per sempre.» Il signor Armando era sopraffatto dagli avvenimenti, sia politici sia familiari. «Figlia mia, dopo quello che ha fatto, Amelia non può imporre condizioni. Le porte di questa casa saranno sempre aperte per lei, e non ho dubbi che anche mio fratello dirà la stessa cosa se la figlia busserà alla sua porta. Ma lei non può pretendere che accettiamo un uomo che ha portato una simile disgrazia nella nostra famiglia. E non ho il coraggio di andare da tuo zio a dargli un dispiacere comunicandogli che, se vuole rivedere Amelia, deve accogliere quel Pierre in casa sua. Sarebbe una crudeltà nei suoi confronti.» «Lo so, papà. Ho cercato di far ragionare Amelia, ma è impossibile. È... è come se avesse perso la volontà. Si è fatta plagiare da Pierre.» «E cosa facciamo?» volle sapere la signora Elena. «Edurne tornerà alla pensione e spiegherà ad Amelia che deve venire qui senza quell'uomo. Poi la accompagneremo a

casa dei suoi genitori» sentenziò il signor Armando. «E se si rifiuta?» disse Laura con un filo di voce. «Ci metterà in una situazione molto difficile. Dovrò spiegare a mio fratello cosa succede, e temo che questo dispiacere avrà ripercussioni sulla sua salute.» «Papà, perché non vai tu a parlare con Amelia?» supplicò Laura. «Io? No, tesoro, mi sembra alquanto sconveniente incontrare quell'uomo, che non si meriterebbe altro che una sfida a duello per il modo in cui si è comportato.» Come mi fu ordinato, tornai alla pensione La Carmela, ma non trovai né Amelia né Pierre. La proprietaria mi informò che erano usciti in tutta fretta, dopo che un giovanotto era passato alla pensione per avvisare Pierre di una rivolta militare nel Nordafrica. La signora Carmela mi disse di essere spaventata, ma non ebbe comunque remore a chiedermi cosa succedeva tra Pierre e Amelia, e perché lei non smetteva di piangere. Non le risposi e mi limitai a chiederle se sapeva dove fossero andati o quando sarebbero tornati, ma non ne aveva idea, perciò rientrai a casa. Quella sera Amelia telefonò a Laura. Il signor Armando e la signora Elena erano andati a casa del signor Juan e non erano ancora tornati. Laura cercò di convincere sua cugina a incontrare la famiglia da sola, ma fu tutto inutile. Amelia le annunciò che il giorno dopo sarebbe ripartita per Barcellona e da lì per la Francia. Non sapeva se si sarebbero mai riviste. Edurne rimase in silenzio, con lo sguardo assente, come quando avevamo parlato la volta precedente. Sembrava che quei ricordi la colpissero profondamente e non sapesse come controllarli. «Questo è tutto?» domandai. «Sì, è tutto. Amelia partì. La signora Teresa, il giorno dopo, andò a cercarla alla pensione La Carmela, insieme ad Antonietta, ma lei era già andata via. Non era stata una

decisione facile per la signora Teresa presentarsi lì, ma aveva deciso che doveva strappare Amelia dalle grinfie di Pierre: l'amore per sua figlia era più forte delle convenzioni sociali e familiari. Non lo aveva detto al signor Juan, aveva semplicemente preso una decisione e chiesto ad Antonietta di accompagnarla, ma erano arrivate troppo tardi. Pianse moltissimo, rammaricandosi di non aver agito con maggior sollecitudine, uscendo al mattino presto o addirittura la sera precedente. Immagino che Pierre avesse pensato che fosse meglio andarsene prima che la famiglia decidesse di presentarsi per riprendersela. Salutai Edurne, ringraziandola sinceramente per quello che mi aveva raccontato e dicendole che speravo di non doverla più disturbare. Ero piuttosto emozionato dalla piega che avevano preso gli eventi e mi chiedevo che cosa era successo in seguito. Era chiaro che avrei dovuto assolutamente parlare di nuovo con Pablo Soler. Nell'androne incontrai Amelia Maria con sua zia Melita. Che confusione con tutte quelle Amelia! «Sto andando via» dissi, prima che mi guardasse storto. «Sì, sapevo che sarebbe venuto oggi.» «Lei come sta?» domandai all'anziana signora, che camminava lentissima, accompagnata, oltre che dalla sua pronipote, anche da un'infermiera. «Sono alla fine, figliolo, ma aspetterò di leggere il suo racconto» mi rispose sorridendo. «Oggi mi sembra di stare un pochino meglio, e i medici dicono che non ho nulla; come se l'età non fosse una malattia... ma lo è, caro Guillermo, lo è. E il peggio è che ti priva dei ricordi.» «Su, zia, devi riposare. Accompagni mia zia all'ascensore» disse all'infermiera. Amelia Maria rimase per qualche secondo in silenzio a guardare la zia che entrava in ascensore appoggiandosi all'infermiera.

«Bene, Guillermo, come va la sua storia?» «Una sorpresa dietro l'altra. La bisnonna ha avuto una vita piuttosto movimentata.» «Sì, non ho dubbi, ma c'è dell'altro?» «Niente di speciale, sua zia Laura mi sta aiutando molto, mi procura un sacco di contatti. Cos'ha detto il medico alla signora Melita?» «Che sta bene; tutto sommato gode di buona salute, ed è un miracolo alla sua età. Da qualche giorno ho assunto un'infermiera che stia in casa a prendersi cura delle mie zie. Se succede qualcosa, lei sa come comportarsi.» «Ha fatto bene. Allora, è stato un piacere vederla, zia.» «Come dice?» «Anche se la cosa non l'aggrada, siamo parenti, e per me lei dovrebbe essere una lontana zia, giusto?» «Lo sa, Guillermo? Lei non è affatto divertente.» «Non è questa la mia intenzione, glielo assicuro.» Mi divertiva infastidirla, perché mi ricordava molto mia zia Marta. Andai a casa di mia madre a mangiare le verdurine a cui sapevo di non poter sfuggire, poi passai dalla redazione del giornale a prendere il mio esiguo assegno e, da lì, mi recai direttamente all'aeroporto. Il giorno dopo dovevo incontrare Pablo Soler. Un tipo proprio mattiniero: mi aveva di nuovo dato appuntamento alle otto in punto.

5

Charlotte mi aprì la porta e mi accompagnò nello studio di suo marito. «Preparo subito il caffè» disse in tono materno. Qualche minuto dopo la cameriera entrò portando un vassoio con una caffettiera, un bricco di latte e un piatto di pane tostato. Pablo versò il caffè per entrambi, ma non toccò il pane tostato, e io dovetti seguire il suo esempio, anche se ne avrei volentieri gustato una fetta ben spalmata di burro e marmellata. «Allora, cosa le ha raccontato la signora Laura?» mi domandò. «Non sono riuscito a vederla, è un po' indisposta, ma ho parlato con Edurne. Lei sa chi è.» «La cara Edurne, certamente. La signora Laura le è molto affezionata. A proposito, ieri sera l'ho sentita e mi ha assicurato che si sente meglio. Quanto a Edurne... è stata una testimone privilegiata di quello che è successo. Lola la apprezzava molto più di quanto non apprezzasse Amelia; la riconosceva come sua pari, una lavoratrice. Lola diceva spesso che i Garayoa facevano la carità a trattare bene Edurne, mentre lei difendeva la giustizia sociale.» «Be', aveva ragione» risposi. «Sì, in questo sì, ma Lola era alquanto arbitraria nei suoi giudizi.» «Non aveva avuto una vita facile» la giustificai. «In effetti, no. Ma torniamo a noi.» Gli riferii quello che mi aveva raccontato Edurne e lui mi

ascoltò attentamente, prendendo persino appunti, con mia sorpresa. Poi, dopo aver bevuto l'ultimo sorso di caffè, Pablo Soler riprese il racconto da dove l'aveva interrotto durante il nostro primo incontro. Pierre prese la decisione di tornare a Barcellona, dove voleva mettersi in contatto con uno dei suoi informatori per poi ripartire per la Francia e incontrare Igor Krisov. La rivolta militare poteva mettere in crisi il governo della repubblica. In qualità di agente, Pierre viaggiava ovunque, ma aveva contatti preziosi in Spagna, quindi era possibile che i suoi capi di Mosca prendessero la decisione di annullare il viaggio in Sudamerica. La nave salpava a fine luglio e Pierre arrivò a Barcellona il 19, mentre la città stava vivendo il primo giorno di quella che sarebbe diventata una guerra civile. Ricordo come se fosse oggi la sera in cui Lola e Josep mi portarono a casa della signora Anita, che ospitava una riunione con diverse persone, tra cui alcuni leader comunisti di associazioni e corporazioni, giornalisti e dirigenti sindacali, una ventina in tutto. Amelia mi abbracciò affettuosamente. Mi colpirono il suo pallore e gli occhi arrossati. La signora Anita la rimproverava perché era dimagrita troppo in così pochi giorni. Josep cominciò a fare il punto della situazione. «La gente è preoccupata perché teme che anche qui l'esercito insorga. Sembra che la rivolta stia trionfando in Galizia, nella Vecchia Castiglia, in Navarra, in Aragona, in alcune città andaluse e nelle Asturie; e si dice anche nelle Baleari e nelle Canarie. Ma sono notizie non confermate, c'è troppa confusione al momento. E tutto sembra indicare che l'aviazione sia rimasta fedele alla repubblica.» «E Companys cosa fa?» volle sapere Pierre. A rispondere fu Marcial Lluch, un giornalista simpatizzante del PSUC, il Partito socialista della Catalogna, amico di Pierre. «Cerca di ingraziarsi i militari parlando con loro, ma a

quanto ne so non sa se può fidarsi di tutti quelli che gli assicurano di restare fedeli alla repubblica.» «E noi cosa stiamo facendo?» domandò Pierre a Josep. «I nostri sono andati nelle diverse sedi a chiedere istruzioni. Non c'è molto con cui approntare una difesa, ma qualcosa abbiamo. Quelli della CNT sono meglio organizzati e non sembrano avere problemi di armamenti. Ma fattelo raccontare da Lola, che è stata testimone di alcuni scontri.» Pierre guardò Lola con interesse. La vedeva dura come la pietra, proprio il tipo di comunista di cui la rivoluzione aveva bisogno. Lei era una che non esitava. Lola deglutì prima di iniziare a parlare. Preferiva l'azione ai discorsi. «All'alba è partita una compagnia di militari dalle caserme di Pedralbes e si è scatenato un pandemonio nella piazza dell'università. Per fortuna, le squadre d'assalto hanno tenuto loro testa con l'aiuto dei miliziani, ma non siamo riusciti a evitare che si impadronissero della compagnia dei telefoni, del circolo dell'esercito e dell'armata, e perfino dell'hotel Colón. Noi miliziani eravamo male armati.» «E tu eri lì?» domandò Pierre meravigliato. «Insieme a un gruppo di compagni.» «Il generale Llanos de la Encomienda era contrario alla rivolta» affermò Marcial Lluch. «Sì, però non ha alcuna autorità sui ribelli» commentò la signora Anita. «La sua presa di posizione è un monito per gli indecisi» insisté il giornalista. «Il bello è che a mezzogiorno i militari ribelli sono stati cacciati dall'edificio centrale dell'università; e sono stati mandati via anche da plaza de Cataluna, e la compagnia dei telefoni è stata riconquistata.» «Dicono che Buenaventura Durruti abbia diretto l'assalto» commentò la signora Anita. «Proprio così» confermò il giornalista Marcial Lluch. «E l'ha

fatto senza l'aiuto di nessuno, soltanto con i miliziani della CNT. Lui è davvero uno con gli attributi. E l'ultima notizia è che oggi pomeriggio, verso le sei, il comando militare ha alzato bandiera bianca. Credo che i miliziani volessero fucilare il generale Goded, ma qualcuno dall'alto gliel'ha impedito.» Parlarono per ore, analizzando la situazione e le decisioni adottate dai comandanti comunisti. Pierre era preoccupato, proprio come Josep; invece, Lola sembrava euforica, quasi fosse convinta che il solo scontro armato potesse annientare gli odiati fascisti. Lola ambiva al paradiso, popolato da angeli proletari come lei. Josep, invece, non aveva partecipato ad alcuna azione perché era arrivato a Barcellona soltanto un'ora prima, da Perpignan, dove aveva accompagnato il suo principale. Josep e Lola litigarono perché lei mi aveva lasciato da solo in casa per andare a combattere. Gli disse di averlo fatto affinché un giorno io potessi essere un uomo libero e lo avvertì che niente e nessuno le avrebbero impedito di combattere contro i fascisti. Arrivò persino a minacciare di lasciarlo se avesse cercato di ostacolarla. Credo che quel giorno Josep si fosse finalmente reso conto che l'unica passione di mia madre era il comunismo e il suo unico obiettivo sconfiggere il fascismo; tutto il resto non erano che dettagli secondari, compresi lui e io. Lola sembrava un'altra, sicura, rilassata, come se la lotta avesse fatto affiorare la sua vera natura. Parlava con disinvoltura e tutti notarono che in lei qualcosa era cambiato. Mentre aiutavano la signora Anita a servire uno spuntino, domandò ad Amelia se avesse visto la sua famiglia a Madrid. «Ho visto mia cugina Laura, ma la mia famiglia non vuole saperne di Pierre, perciò non ho potuto incontrare i miei genitori né i miei zii» rispose lei cercando di trattenere le lacrime. «Sono dei borghesi conformisti, c'era da aspettarselo. Una cosa è dire di credere nella libertà e un'altra dimostrarlo. La tua famiglia non vuole permetterti di comportarti come meglio

credi» replicò Lola. «Non si tratta di questo. Mio padre e mio zio sono sostenitori di Azaňa, ma credono che io abbia sbagliato ad abbandonare mio figlio e mio marito. Mio padre mi ha sempre parlato di libertà responsabile...» «Libertà responsabile! E che cos'è? Vuol dire che devi fare quello che conviene agli altri? Tu stai con un rivoluzionario e lui è convinto che potrai essere di grande aiuto alla nostra causa. Magari è vero. In ogni caso, sei una privilegiata perché puoi dimostrare che non sei come quella gentaglia di destra, quegli ipocriti che parlano dei diritti degli altri, ma rifiutano di perdere i propri privilegi.» «I miei genitori non sono così! Mi dispiace che tu abbia sofferto, che la vita ti abbia maltrattato, perché non riesci a vedere la realtà. Giudichi tutto con lo stesso criterio: dividi il mondo in buoni e cattivi e sei incapace di metterti nei panni degli altri. Chiunque possieda qualcosa per te è malvagio, ma quello che i miei genitori hanno se lo sono guadagnato con la fatica, con il lavoro, senza sfruttare nessuno.» «Capisco che tu difenda i tuoi, e ti fa onore, ma la realtà è quella che è. Nel mondo ci sono sfruttatori e sfruttati e io lotto per mettere fine a questa divisione, affinché tutti possiamo essere uguali e nessuno abbia dei vantaggi perché è nato in una determinata famiglia. Mia madre mi ha partorito da sola, con l'aiuto della mia sorella maggiore. Sai quanti anni aveva mia sorella? Otto. E il giorno stesso mia madre ha dovuto affidarmi a lei per andare a fare le pulizie a casa di una famiglia borghese che non aveva la minima considerazione per lei. Mio padre era morto di tubercolosi due mesi prima, lasciandola con due figlie. Vivevamo in una stanzetta, dormivamo sullo stesso materasso. Per lavarci, mia madre andava alla fontana a riempire due secchi; e lo faceva persino d'inverno, quando l'acqua era gelida. Sai quando ho iniziato a lavorare? Alla stessa età di mia sorella: a otto anni accompagnavo già mia madre a fare le pulizie. Lei andava ogni giorno a svolgere i lavori pesanti in una casa:

lavare i pavimenti, pulire i vetri, svuotare gli orinali... Non siamo mai potute andare a scuola, non avevamo nemmeno il tempo di frequentare il catechismo. Guardami le mani, Amelia, guardale e dimmi cosa vedi. Sono le mani di una sguattera. Sono cresciuta provando invidia, sì, invidia di quelle case in cui mia madre andava a fare le pulizie e dove le bambine della mia età giocavano tranquille e beate con bambole che io non avrei mai nemmeno potuto sognarmi. Una volta una signora mi regalò una bambola della figlia. Non la voleva più, le mancavano un braccio e un occhio, ma per me diventò un tesoro. Mi prendevo cura di lei e la coccolavo come se fosse una creatura in carne e ossa e le assicuravo che mai le avrei fatto del male come quella bambina ricca. Di notte abbracciavo la bambola per scaldarla e a volte arrivavo persino a cederle il mio posto sul materasso per farla stare comoda, anche se per me significava dormire per terra. Hai notato le mie ginocchia? Mi sono venuti i calli a forza di stare inginocchiata a terra per lavare i pavimenti; non sai quante ore ho passato a insaponare, a passare la cera, con la paura che non fossero abbastanza lucidi e le signore mi sgridassero o decidessero di pagarmi di meno. Una volta, a Natale, in una delle case in cui andavamo a fare le pulizie regalarono a mia madre la testa e le zampe del pollo che avevano appena ammazzato per la cena. Le zampe, Amelia, non le cosce. Le zampe rinsecchite con le unghie. Quelle e un filone di pane. Ti immagini che banchetto? Quando avevo tredici anni, il figlio maggiore del padrone si invaghì di me, e così dovetti sopportare i suoi palpeggiamenti temendo che, se mi fossi ribellata, avrebbero licenziato me e mia madre. A quell'epoca la mia sorella maggiore era già morta di tubercolosi, come mio padre. Mia madre era molto credente e mi diceva che dovevamo accettare quello che Dio ci mandava, ma io le chiedevo cos'avessimo fatto perché ci trattasse così. Per molto tempo mi sono sentita in colpa, ero sicura che dovevamo aver fatto qualcosa di davvero grave per essere condannate alla miseria, ma poi cominciai a ribellarmi. Il parroco telefonò a mia madre

per dirle che ero diventata presuntuosa, che quando andavo a confessarmi non facevo che rinfacciargli la nostra situazione, che doveva insegnarmi ad accettare di buon grado quello che ci mandava Dio. Dall'invidia passai alla rabbia. Smisi di invidiare le signorine della casa e cominciai a odiarle. Sì, a odiarle. Vivevano spensierate e protette, con l'unica preoccupazione di trovare un buon marito che garantisse loro lo stesso tenore di vita, le stesse comodità, la totale assenza di problemi. Mia madre aveva insistito con il parroco affinché le beghine che facevano la carità in parrocchia e insegnavano a cucire alle ragazzine povere aiutassero anche me. Così, quando finivo di pulire, andavo a imparare a cucire. La mia povera madre sognava che diventassi una sarta e non dovessi continuare a pulire. Sembrava che avessi un certo talento per il cucito, al contrario di mia sorella, che aveva dovuto accontentarsi di fare la sguattera. Sopportai quelle beghine finché ebbi imparato a cucire e poi dissi al parroco che non avrei mai più messo piede nella chiesa di quel Dio che mi puniva senza che gli avessi fatto niente. Puoi immaginare come si scandalizzò. Mia madre, in lacrime, mi supplicava di non cercare di capire Dio, perché lui sapeva quello che faceva, ma ormai avevo preso una decisione e non sarei più tornata indietro. Un giorno conobbi Josep; fu sincero con me e mi raccontò che era stato sposato, ma che lui e la moglie si erano allontanati. Lui mi ha insegnato cos'è il comunismo, come incanalare la mia rabbia in modo costruttivo, lottando per chi non ha niente, come me. Mi ha anche insegnato a leggere, mi ha dato dei libri, mi ha trattato come una sua pari. Ci siamo innamorati, è nato Pablo e siamo arrivati fin qui. Io lotto affinché mio figlio non sia da meno del tuo. Perché dovrebbe esserlo? Dimmi, perché?» Amelia rimase in silenzio, guardandomi. Non trovava alcuna risposta alle domande di Lola: perché io, Pablo Soler, dovevo avere meno di Javier Carranza, suo figlio? Perché lui aveva il futuro assicurato e io no? Amelia era una gran brava persona,

perciò, pur straziata dalle parole di Lola, le dava ragione, anche se ciò comportava prendere le distanze da chi più amava, la sua famiglia. «Quando partite?» domandò Lola cambiando bruscamente argomento. «Non lo so, Pierre non me l'ha detto. Ma la nostra nave salpa il 29 luglio da Le Havre, perciò non potremo fermarci molto, a meno che non cambi i suoi piani.» «E perché dovrebbe cambiarli?» «Non lo so, ma quello che sta succedendo qui è importante, non si conosce ancora la portata della rivolta.» «In realtà, non poteva succedere di meglio. Adesso saremo noi o loro, e noi abbiamo la ragione dalla nostra, quindi la faremo finita con il fascismo una volta per tutte e creeremo una repubblica di lavoratori. Sappiamo che è possibile, in Russia ci sono riusciti.» «E cosa ne farete di quelli che non sono comunisti?» Lola piantò i suoi occhi neri su Amelia e sembrò esitare un attimo prima di rispondere. «Non avranno altra scelta che accettare la realtà. Aboliremo le classi sociali: tuo figlio Javier non varrà più di Pablo.» Amelia mi guardò con affetto. Me ne stavo seduto su una sedia, vicino a loro, tranquillo. Ho passato l'infanzia in silenzio, per non disturbare, mentre i miei genitori sognavano di fare la rivoluzione. Il presidente Lluís Companys aveva costretto il generale Goded a parlare per radio alle truppe ribelli, incitandole a disertare la rivolta. Il generale, capo riconosciuto dei ribelli della città, non ebbe altra scelta che accettare, sebbene con poco entusiasmo. Alla fine venne giustiziato. Gli scontri armati continuarono per tutta l'intera nottata, e le notizie, che correvano veloci come il vento, assicuravano il trionfo delle forze fedeli alla repubblica. Sa, quelli della CNT

combatterono come leoni, e nei primi giorni il loro intervento fu fondamentale. Lunedì 20 luglio a Barcellona sembrò che fosse tornata la calma. Le milizie della CNT pattugliavano la città. Il giorno dopo la regione promulgò un decreto con cui creava il Corpo di milizie cittadine, che aveva il compito di contrastare i fascisti e difendere la repubblica. Da quel momento in poi le milizie avrebbero costituito un vero e proprio contropotere e le autorità non avrebbero potuto muovere nemmeno un passo senza il loro appoggio. Il Corpo delle milizie cittadine era diretto dal Comitato centrale delle milizie antifasciste, in cui erano rappresentati tutti i partiti e i sindacati. Lola entrò a far parte delle milizie, così come Josep, ma bisogna dire la verità: la persona d'azione era lei, mentre lui era più bravo come organizzatore, pertanto passò a collaborare con il Comitato centrale, nell'assegnazione del lavoro alle pattuglie. Lola invece diventò una combattente, con la pistola alla cintola, ed entrò nelle pattuglie di controllo, squadre che avevano lo scopo di mantenere l'ordine in città, di arrestare i sospetti e di perquisire locali e abitazioni, alla ricerca di qualunque indizio di insurrezione. Me la ricordo ancora, con i capelli neri pettinati all'indietro, tutti tirati, raccolti con le forcine in una crocchia improvvisata. Mi piacevano i capelli neri di Lola. Da piccolo, quando mi rifugiavo tra le sue braccia, respiravo il profumo di lavanda di mia madre. Per questo piansi quando se li tagliò. Un mattino, prima che uscisse in pattuglia, la vidi davanti allo specchio intenta a tagliarsi con le forbici la lunga chioma. «Ma cosa fai?» gridai. «Voglio stare comoda, non è tempo di preoccuparsi dei capelli. Mi danno fastidio, le forcine mi cadono; così starò meglio.» Stentavo a riconoscerla con i capelli tagliati alla bell'e meglio, che non arrivavano nemmeno a coprirle le orecchie. «Non mi piaci così, mamma!» le dissi con rabbia.

«Pablo, non sei più un bambino, quindi non farmi perdere tempo con queste sciocchezze. Tua madre sta combattendo per te» mi rispose baciandomi e abbracciandomi con forza. In realtà combatteva per se stessa, per l'infanzia che non era riuscita ad avere. La signora Anita ci invitò alla cena d'addio che aveva organizzato per Pierre e Amelia. C'eravamo soltanto noi, perché sia Pierre sia la signora Anita credevano che Lola e Amelia fossero legate da grande amicizia e che per lei noi fossimo quasi come una famiglia. Amelia sembrava rassegnata a partire, ma non nascondeva l'apatia e la mancanza di entusiasmo, e Pierre preferiva far finta di non accorgersene. Aveva organizzato ogni dettaglio del viaggio in Sudamerica e Amelia faceva parte della copertura. Non poteva rinunciare a lei. Ciò nonostante, pareva distaccato, come se fosse stanco della situazione. Amelia e Pierre arrivarono a Parigi il 24 luglio, dove avrebbero avuto un altro incontro con Igor Krisov, il quale aspettava di ricevere di prima mano le impressioni di Pierre sulla situazione in Spagna. Krisov gli chiese di portare anche Amelia e gli diede appuntamento due giorni dopo al Café de la Paix. Avrebbero finto di incontrarsi per caso e lui si sarebbe presentato come un antiquario naturalizzato inglese, una falsa identità con cui a volte frequentava la libreria Rousseau. Il pomeriggio del 26 luglio Pierre invitò Amelia a fare una passeggiata in città. «Domani partiremo per Le Havre, sarà il nostro addio a Parigi» disse. Amelia accettò, indolente. Nulla le importava; aveva la sensazione di essere diventata un oggetto in balia del destino, a cui si piegava. Camminarono con apparente noncuranza fino al Café de la Paix, dove Pierre propose di entrare a bere qualcosa. Erano lì da

dieci minuti quando arrivò Krisov. «Monsieur Comte! Come sta? Stavo appunto pensando di passare nella sua libreria uno di questi giorni.» «Che piacere vederla, signor Krisov! Mi permetta di presentarle la signorina Garayoa. Amelia, Igor Krisov è un vecchio cliente della libreria.» Igor strinse la mano di Amelia e provò un'immediata simpatia nei suoi confronti. Che fosse per la sua giovinezza, per la bellezza o per l'aria indifesa, il fatto è che quella spia navigata rimase affascinata da lei. «Mi permettete di offrirvi un caffè? È il primo momento della giornata in cui posso godermi una certa calma e la vostra compagnia mi sarebbe assai gradita.» «Ma certo, signor Krisov» accettò Pierre. «Lei è spagnola?» domandò il signor Krisov rivolto ad Amelia. «Sì» rispose lei. «Conosco poco il suo paese, ho visitato solo Madrid, Bilbao e Barcellona...» Fu Krisov a condurre la conversazione. All'inizio Amelia era fredda e distaccata, ma il russo riuscì a farle abbassare la guardia e a farla sorridere. Parlarono in francese finché Amelia gli raccontò di avere studiato inglese e tedesco. Krisov allora passò all'inglese e poi al tedesco in modo da verificare, in tono scherzoso, se la ragazza conoscesse davvero quelle lingue come diceva, e fu sorpreso di constatare che non solo le padroneggiava egregiamente, ma aveva una buona dizione in entrambe. «Mio padre ha insistito a farci studiare inglese e tedesco, e abbiamo trascorso alcune estati in Germania, a casa del suo socio, Herr Itzhak Wassermann.» Il russo le chiese di parlare di Herr Itzhak, e Amelia prese a raccontare episodi della sua infanzia a Berlino, con l'amica Yla.

«Purtroppo l'ascesa di Hitler al potere ha inferto un duro colpo all'attività di mio padre. Hanno tolto agli ebrei tutto ciò che possedevano. Mio padre ha insistito con Herr Itzhak affinché lasciasse la Germania, ma lui si è rifiutato, dice che è tedesco. Spero che alla fine dia retta a mio padre; non voglio immaginare Yla con una stella gialla cucita sulla giacca e trattata come se fosse una delinquente.» «Se c'è una cosa su cui sono d'accordo con il signor Comte, è il pericolo che Hitler rappresenta per tutta l'Europa. È il lato peggiore del fascismo» disse Krisov. «Oh! È peggio del fascismo, glielo posso assicurare» ribatté ingenuamente Amelia. Un'ora dopo Pierre mise fine all'incontro dicendo che i genitori li aspettavano per cena. «Spero che ci rivedremo» disse Krisov salutando Amelia. «Mio caro amico, sarà difficile, perché domani partiamo per Le Havre, dove ci aspetta una nave diretta a Buenos Aires» spiegò Pierre. Quella sera, finito di cenare, Pierre accampò la scusa di una riunione improrogabile con alcuni compagni. «Mia madre può aiutarti a preparare le valigie...» «No, preferisco farlo da sola. Tornerai molto tardi?» «Spero di no, ma visto che andiamo a Buenos Aires voglio sapere se posso essere utile alla nostra causa. Sai bene che collaboro con l'Internazionale comunista.» Amelia non sospettò che Pierre stesse mentendo; era quasi sollevata di restare sola. Pierre si incontrò con Igor Krisov, il suo supervisore, davanti alla chiesa di Saint-Germain. «Allora, cosa gliene pare?» domandò a Krisov. «Triste e incantevole» rispose lui. «Sì, non è facile starle accanto.» «Be', amico mio, la invidio, è molto bella. Le sarà utile ovunque vada: la sua innocenza è un'ottima garanzia. Ma faccia attenzione, non è stupida, e prima o poi potrebbe uscire dal

letargo della malinconia...» «Chi si occuperà dei miei contatti in Spagna?» volle sapere Pierre, inquieto per la rivolta militare «Non si preoccupi. A Mosca hanno già tutte le informazioni su quello che sta succedendo. Adesso si concentri sul compito che le è stato affidato.» «Non discuto gli ordini ma, vista la situazione, non sarei più utile in Spagna?» «Questo, amico mio, non spetta a me deciderlo. Il dipartimento ha deciso di ampliare la nostra rete di intelligence in Sudamerica, ed è quello che bisogna fare.» «Sì, ma, viste le circostanze, ritengo che potrei essere più necessario in Spagna.» «È Mosca a decidere dove lei è necessario. Non facciamo questo mestiere per la nostra soddisfazione, ma per far trionfare un'idea superiore. Ci sono cose a cui lei non deve pensare; riceve degli ordini e obbedisce, è questa la regola principale. Ah! Come già saprà, deve mettersi in contatto con l'ambasciata sovietica, ma si prenda il tempo che le serve; tutto deve sembrare casuale. Non può presentarsi all'ambasciata né telefonare. Non le dirò come deve farlo, lei è un professionista e troverà il modo.» «Con tutto il rispetto, compagno, continuo a non capire quale importanza abbia questa mia missione.» «Ce l'ha eccome, compagno Comte. Mosca ha bisogno di avere orecchie dappertutto. La sua missione consiste nel reclutare agenti ben introdotti nei centri di potere, preferibilmente al ministero degli Esteri. Persone con un lavoro sicuro, funzionari, che non dipendano dagli intrallazzi della politica. A Buenos Aires lavorerà in tutta tranquillità, dal momento che non è considerata un terreno di gioco per gli interessi delle grandi potenze. Tuttavia al ministero degli Esteri argentino arriveranno comunicazioni degli ambasciatori di tutto il mondo, che potrebbero rivelare piccoli segreti, conversazioni con gli alti dirigenti degli altri paesi, analisi della

situazione. Tutte queste informazioni rappresentano materiale importante per il nostro dipartimento. In questo momento né gli Stati Uniti, né la Francia, né la Gran Bretagna, né la Germania hanno alcun interesse strategico in zona, pertanto non le sarà difficile portare a termine la missione con successo. Le battaglie non si combattono solo al fronte.» Nei primi giorni Amelia si godette la traversata. Alloggiavano in un'elegante cabina di prima classe e passavano le serate in compagnia di commercianti, uomini d'affari, famiglie e persino una famosa cantante lirica, Carla Alessandrini, che fin dall'inizio del viaggio fu al centro dell'attenzione dei passeggeri e dell'equipaggio. Durante il terzo giorno di navigazione, mentre passeggiava in coperta, Amelia attaccò discorso con lei. La diva italiana era una donna di una quarantina d'anni, pienotta ma non grassa, alta, con i capelli biondi e gli occhi di un azzurro intenso. Era nata a Milano, da padre italiano e madre tedesca; doveva ringraziare quest'ultima se era diventata una cantante, perché si era imposta contro tutto e tutti, perfino contro il volere del marito, pur di aiutare la figlia a farsi strada e a diventare una stella dell'opera. Carla Alessandrini viaggiava insieme al suo agente, nonché marito, Vittorio Leonardi, un romano sveglio che si occupava a tempo pieno di far fruttare la voce di sua moglie. Amelia e Carla erano appoggiate al parapetto, l'una accanto all'altra, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perso in lontananza, quando Vittorio, il marito della diva, le riportò alla realtà. «Le due donne più belle della nave sono qui, da sole e in silenzio! Non è possibile!» Carla si voltò sorridendo verso suo marito e Amelia fissò incuriosita l'esuberante italiano. «Guardando il mare ci si sente così insignificanti...» disse Carla.

«Insignificante tu? Impossibile, cara. Persino il mare si è arreso davanti a te: siamo salpati da tre giorni e non si è vista nemmeno un'onda, sembra di navigare in un lago. Non è vero, signorina?» disse rivolto ad Amelia. «Sì, in effetti è calmo, ed è una fortuna, così non soffriamo il mal di mare» rispose lei. «Vittorio Leonardi, per servirla, signorina...» «Amelia Garayoa.» «Mia moglie, la divina Carla Alessandrini» disse Vittorio per presentarla. «Viaggio di piacere, per andare a trovare la famiglia, per affari?» «Su, Vittorio, non essere indiscreto! Lo perdoni, signorina, mio marito è solo curioso» intervenne Carla. «Non si preoccupi, le domande non mi infastidiscono. Direi che sono in viaggio verso una nuova vita.» «E come mai?» continuò a interessarsi Vittorio, senza alcun ritegno. Amelia non seppe cosa rispondere. Si vergognava a dire che era in fuga col suo amante e che in realtà non si aspettava proprio niente dal futuro. «Per favore, Vittorio, non mettere in imbarazzo la signorina! Vieni, andiamo in cabina, si sta alzando il vento e non voglio che mi danneggi le corde vocali. Lo scusi, signorina, e non pensi che tutti gli italiani siano invadenti come lui.» I due si allontanarono e Amelia riuscì a sentire la diva sgridare affettuosamente il marito, che la guardava con aria pentita. Quella sera il capitano offriva un cocktail di benvenuto ai passeggeri di prima classe e, con sorpresa di Pierre, Carla e Vittorio si avvicinarono ad Amelia. Lei glieli presentò e Pierre si dimostrò particolarmente simpatico, consapevole che la coppia avrebbe potuto rivelarsi molto utile. Chiacchierarono affabilmente e all'ora di cena Vittorio propose di sedersi allo stesso tavolo. Da quel giorno diventarono inseparabili. Vittorio, che era un

bon vivant, fece subito amicizia con Pierre, che sembrava condividere con lui il gusto per le cose belle della vita. Carla, che aveva una sensibilità melodrammatica, fu molto colpita dalla storia d'amore di Amelia e Pierre, che li costringeva a fuggire ad altre latitudini per ricominciare tutto da capo. La diva aveva previsto di passare un mese a Buenos Aires, per interpretare la Carmen al teatro Colón, cosa che senza dubbio poteva favorire i piani di Pierre, convinto che la coppia formata da Carla e Vittorio avrebbe potuto aprirgli molte porte. Arrivarono a Buenos Aires in pieno inverno. Gli ultimi giorni di navigazione non furono affatto piacevoli. Le onde sferzavano la coperta e la maggior parte dei passeggeri era rinchiusa in cabina a causa di un incoercibile mal di mare. Curiosamente, a differenza dei rispettivi consorti, né Carla né Amelia ebbero problemi. Vittorio si lamentava della sua sfortuna e giurava a Carla di sentirsi morire. Pierre si limitava a restarsene in cabina, senza quasi toccare cibo, nonostante l'insistenza di Amelia. Quelle circostanze fecero sì che le due donne rafforzassero la loro amicizia, e così, quando entrarono in porto, Amelia pensò di aver trovato in Carla una seconda madre e lei in Amelia la figlia che non aveva mai avuto. «Bene, Guillermo, posso chiamarla per nome? A questo punto, dovrebbe rivolgersi alla signora Veneziani e al professor Muiňos» concluse Pablo Soler. «E chi sono?» domandai, deluso. «Francesca Veneziani è la più grande esperta mondiale di opera. Ha scritto diversi libri su quel mondo e sui principali protagonisti. In una biografia di Carla Alessandrini cita Amelia Garayoa, per la sua amicizia con la diva. Il volume contiene anche alcune fotografie che le ritraggono insieme.» Probabilmente reagii con un'espressione idiota a quella sorprendente rivelazione. «Non si stupisca! Le ho parlato in un paio di occasioni, per cercare di scoprire se Carla sospettò mai che Pierre Comte fosse

un agente sovietico, ma lei dice di non avere trovato nulla nelle sue lettere né tanto meno nelle testimonianze di chi la conobbe. In ogni caso, se fossi in lei, andrei a Roma a parlare con la signora Veneziani, e poi a Buenos Aires, per incontrare il professor Muiňos.» «E chi è Muiňos?» «Dal cognome direi che è di origini galiziane. È professore presso l'Università di Buenos Aires; l'ho conosciuto a Princeton, dove insegnava storia del continente iberoamericano. Ha pubblicato vari libri, tra cui due particolarmente importanti per chiunque voglia documentarsi sull'esilio dei gerarchi nazisti in America Latina oppure sulla presenza delle spie sovietiche nella zona.» «È di destra o di sinistra?» «Mi sembra che lei si preoccupi troppo di cosa pensano gli altri...» «È per sapere con chi vado a parlare e fare la tara a quello che mi racconta.» «Lei ha molti pregiudizi, signor Albi.» «No, sono solo prudente. Vivendo in questo paese, il peso delle ideologie si sente. Qui, o stai con gli uni o stai con gli altri, se vuoi combinare qualcosa, e ovviamente la storia non la raccontano tutti allo stesso modo. Lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, visto che, oltre che uno storico, è stato un testimone privilegiato di quello che è successo nel corso della nostra guerra civile.» «Il professor Muiňos è un erudito: lo troverà interessante. La signora Laura è d'accordo con me sul fatto che sia indispensabile che parli con lui. Mi sono preso la briga di telefonargli ieri sera, dopo aver parlato con lei, e sarà felice di riceverla.» Pablo Soler mi diede un foglietto con l'indirizzo e il numero di telefono di Francesca Veneziani a Roma e del professor Muiňos a Buenos Aires.

«Con la signora Veneziani non ho ancora parlato, ma non si preoccupi, lo farò.» Nel frattempo, ero in dubbio se chiedergli o no l'intervista, come mi aveva suggerito il caporedattore del giornale on line, e anche se temevo che mi mandasse a quel paese trovai il coraggio di proporglielo. «Dovrei chiederle un favore, ma naturalmente non voglio che si senta obbligato...» «Giovanotto, a questo punto della mia vita, non mi sento obbligato da niente e da nessuno, perciò mi dica pure.» «Lei sa che sono un giornalista, e... be', sarebbe troppo azzardato se la intervistassi per parlare dei suoi libri, soprattutto di quello che sta per pubblicare?» «Ah, i giornalisti! Non mi fido molto di voi... e poi non concedo interviste.» «Lo so, ma dovevo provarci» dissi arrendendomi senza combattere. «È tanto importante per lei questa intervista?» «In effetti sì, mi farebbe guadagnare parecchi punti col mio capo e mi aiuterebbe a conservare il mio precario impiego. Ma mi rendo conto che non devo abusare della sua gentilezza, e lei mi sta già aiutando molto con la storia della mia bisnonna, che in fin dei conti è il motivo per cui sono qui.» «Mi mandi un questionario e risponderò a tutte le sue domande; cercherò di essere breve, ma la mia condizione è che non spostiate una virgola né tagliate nemmeno mezza riga per problemi di spazio. Se il suo capo accetta le mie condizioni, appena mi manderà il questionario le risponderò.» Non sapevo se abbracciarlo oltre a stringergli la mano, ma di una cosa ero assolutamente certo: gli sarei stato per sempre grato di quell'intervista. Quando uscii dalla casa di Pablo Soler, telefonai a Pepe in redazione per spiegargli che avrei ottenuto l'intervista solo se ci fossimo impegnati a non cambiare nemmeno una virgola.

Insistei affinché lo riferisse al direttore, dal momento che non volevo avere problemi con Soler. «Senti, Pepe, lo conosco per motivi di famiglia e non posso fare brutte figure con lui. Sai che non concede interviste e che per noi significa molto, ma o facciamo come vuole lui o preferisco non correre rischi.» Pepe mi passò il direttore, il quale mi garantì che non avrebbero tagliato nemmeno una parola dell'intervista. «Se davvero riesci a ottenerla, potremo discutere del tuo futuro qui» mi disse, per darmi un contentino. «Per prima cosa dobbiamo parlare di quanto mi paghi, perché non penserai di cavartela con cento euro.» «No, certo che no. Se davvero riesci ad avere l'intervista te la pagherò trecento euro.» «Scherzi? Qualunque supplemento culturale o domenicale mi darebbe più del doppio.» «Quanto vuoi?» «Non la faccio per meno di seicento euro.» «D'accordo, mandamela appena è pronta.» Mezz'ora dopo inviai il questionario a Soler via e-mail e lui mi promise che mi avrebbe risposto al più presto. Telefonai alla zia Marta per dirle che avevo bisogno di denaro, perché dovevo andare a Roma e poi a Buenos Aires. «Come sarebbe che vai a Roma e a Buenos Aires? Guarda che non è mica come prendere la metropolitana... Dovrai darmi una spiegazione.» «Tua nonna Amelia, cioè la mia bisnonna, ha avuto una vita alquanto movimentata e, se vuoi che scriva la sua storia, non ho alternative, devo andare dove mi portano gli indizi. Non credere che questa indagine sia una strada in discesa.» «Non so se è in discesa, ma di sicuro è una strada piuttosto dispendiosa.» «Senti, sei tu che vuoi sapere che fine ha fatto tua nonna; come potrai ben immaginare, a me non importa granché. Se

preferisci che lasci perdere, lo farò.» La zia Marta sembrò incerta se liquidarmi, e io incrociai le dita nella speranza che non lo facesse, perché mi stavo appassionando sempre più alla storia di Amelia Garayoa. «Va bene, ma dimmi perché devi andare a Roma e a Buenos Aires.» «Perché a Roma devo incontrare la massima esperta mondiale di opera e a Buenos Aires un professore che sa tutto sulle spie sovietiche e sui nazisti.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» «Dico che la nostra antenata non ha passato il tempo chiusa in casa a ricamare, ma è stata coinvolta in storie allucinanti.» «Non te le starai mica inventando per prenderci in giro?» «Certo che no, zia; posso assicurarti che la mia immaginazione non è all'altezza delle cose che ha fatto tua nonna. Proprio un bel tipino!» La zia Marta acconsentì a effettuare un altro bonifico sul mio conto, ma non prima di avermi minacciato di farmela pagare se l'avessi presa in giro. «Parlerò con Leonora per dirle che non intendo permetterti di scherzare sulla faccenda.» «Fai bene a parlare con mia madre, perché lei vuole che lasci perdere le ricerche; pensa che stia perdendo tempo.» Mia madre si preoccupò quando la informai della mia imminente partenza. «Tesoro, mi sembra un'enorme sciocchezza. Di' alla zia Marta che si tenga i suoi soldi e cercati un lavoro come si deve.» «Non sei curiosa di sapere la storia di tua nonna?» «Cosa vuoi che ti dica? Sì... ma non a costo di farti perdere delle occasioni.»

6

Arrivai a Roma quella sera stessa e presi una stanza all'hotel d'Inghilterra, nel centro della città, a pochi passi da piazza di Spagna e dall'ambasciata spagnola davanti al Vaticano. Era un albergo carissimo, ma me l'aveva consigliato Ruth. Non sapevo se lei vi soggiornasse spesso, dato che la sua compagnia low-cost non spiccava certo per la generosità nell'alloggiare il personale in alberghi di lusso. Pensai di telefonarle per sapere cosa stava facendo in quel momento, ma poi decisi di non farlo, perché sarebbe potuto sembrare un comportamento da fidanzato geloso e paranoico. Come si dice sempre in questi casi, occhio non vede, cuore non duole. Il mattino dopo chiamai Francesca Veneziani e lei mi concesse un appuntamento il pomeriggio stesso. Il professor Soler le aveva parlato di me. Ero preparato alle sorprese, eppure rimasi di stucco quando vidi Francesca: bellissima, alta, bruna, di circa trentacinque anni, indossava un tailleur Armani che probabilmente valeva un patrimonio. Mi ricevette a casa sua, uno stupendo attico in via Frattina, poco distante dal mio albergo. «E così lei sta indagando sulla vita di Amelia Garayoa...» «Era la mia bisnonna» replicai, come per scusarmi. «Interessante! Ma si tratta di una sua antenata, non conosce già la sua storia?» «Anche se può sembrarle strano, in famiglia non sappiamo niente di lei. Un bel giorno è scomparsa piantandoci tutti in asso, compreso il figlio di pochi mesi, mio nonno.» «Io le posso parlare di Amelia Garayoa in relazione con Carla

Alessandrini. In realtà, mi sono interessata alla sua bisnonna soltanto perché la grande Carla la trattava come una figlia.» «Se lei fosse così gentile da raccontarmi tutto quel che sa, gliene sarò grato.» «Farò di meglio, le regalerò il mio libro sulla Alessandrini. Lo legga e, se ha qualche dubbio, mi chiami.» «D'accordo, ma visto che sono venuto fin qui non vorrei andarmene senza niente...» «Se ne va con il mio libro. Le sembra poco?» «No, no, mi sembra meraviglioso, ma non potrebbe raccontarmi qualcosa del rapporto fra Carla e Amelia?» «Come le ho detto, è tutto nel mio libro. Ci sono persino delle foto di Carla insieme ad Amelia. Vede? Questa è stata scattata a Buenos Aires, quest'altra a Berlino, e queste a Parigi, a Londra, a Milano... E al funerale di Carla Amelia lesse una poesia di addio. Carla Alessandrini è stata una donna eccezionale, oltre che la più straordinaria cantante d'opera di tutti i tempi.» «Perché andava così d'accordo con Amelia?» «Perché l'unica cosa che Carla non aveva avuto era un figlio. Aveva sacrificato tutto per la carriera e, quando conobbe Amelia aveva quell'età, passati i quaranta, in cui le donne si chiedono cos'hanno combinato nella vita. Amelia aveva fatto affiorare in lei un forte senso di protezione; era la figlia che avrebbe potuto avere e la vedeva così indifesa che, emotivamente, la adottò. La protesse, l'aiutò in diversi momenti della sua vita, senza chiederle mai niente in cambio, tranne quello che Amelia già le dava, un immenso affetto, un attaccamento sincero. Carla le tendeva sempre la mano quando la vedeva sul punto di affogare. Diventò un rifugio sicuro per Amelia e, essendo una donna generosa, non le fece mai domande a cui lei non potesse rispondere. In fondo non voleva sapere altro al di fuori di quello che vedeva nella giovane spagnola.» «E il marito di Carla cosa pensava di questo rapporto?» «Vittorio aveva una gran faccia tosta, ma era una brava

persona; bello e simpatico, oltre che furbo. Era il manager di Carla, sapeva curare i suoi interessi, la coccolava all'inverosimile e la conosceva molto bene. Sapeva che in certi casi era inutile opporsi ai suoi desideri. Perciò accettò con naturalezza Amelia, proprio come aveva chiuso un occhio sulle avventure amorose di sua moglie. Prima di conoscere Carla, Vittorio non possedeva altro che quello che aveva addosso, era un giornalistucolo che non arrivava alla fine del mese, e da un giorno all'altro si era ritrovato a vivere circondato da tutti i lussi immaginabili, accanto a una donna adorata e desiderata da tutti. Aveva fatto un bel salto di qualità e non mise mai in pericolo la sua relazione con Carla; curiosamente, lui le fu sempre fedele.» «E cosa pensava Carla Alessandrini di Pierre Comte?» «È proprio quello che voleva sapere il professor Soler quando mi contattò, un paio d'anni fa; stava preparando una riedizione del suo libro sulle spie sovietiche in Spagna. Ero davvero lusingata che un'autorità accademica del calibro di Soler chiedesse il mio parere. Be', per rispondere alla sua domanda, a Carla non piaceva molto Pierre Comte e aiutò Amelia quando decise di rompere con lui. Credo che non si fidasse di quel francese, che, a quanto ho letto nei libri del professor Soler, era niente meno che una spia sovietica. Carla non lo seppe mai, o almeno non ci sono testimonianze né documenti che facciano pensare che ne fosse a conoscenza. In ogni caso non le era simpatico, e non perché fosse comunista, ma perché Amelia non era felice; e forse non sa che Carla Alessandrini fu una donna coraggiosa che prese posizione contro Mussolini. Una volta, dopo un suo spettacolo a Milano, il Duce andò nel suo camerino per complimentarsi con lei e Carla si rifiutò di riceverlo, con la scusa di un forte mal di testa. Come comprenderà, a quell'epoca nessuno si azzardava a contrariare Mussolini, seppur con un pretesto. Carla sapeva di cosa si sarebbe occupata Amelia anni dopo. E non perché lei glielo avesse detto, ma perché era una donna perspicace.»

«E di cosa si occupò Amelia anni dopo?» chiesi innervosito. «Ah! Questo dovrà scoprirlo da solo. Il professor Soler mi ha detto che deve procedere un passo alla volta, come le è stato ordinato. Non so di cosa si tratta, ma sembra che qualcuno voglia che sia lei a completare il puzzle della vita di Amelia Garayoa. Come le ho detto, per me ha un interesse relativo, visto che l'oggetto delle mie ricerche era Carla Alessandrini. A proposito, le piace l'opera?» «Non ne ho mai vista una in vita mia e non possiedo nemmeno un CD di musica operistica.» «Che peccato! Non sa cosa si perde.» «Come mai le interessa tanto?» «Volevo diventare cantante, sognavo di essere la nuova Carla Alessandrini, ma... in realtà non ho né la voce né il talento che avevano lei e le altre grandi interpreti. È stata dura accettarlo, ma ho deciso che, se non potevo essere la migliore, allora era meglio lasciar perdere. Ho studiato musicologia e nel frattempo prendevo lezioni di canto, e ho fatto parte del coro in tre o quattro opere, senza infamia e senza lode. La mia tesi di dottorato era incentrata sulla figura della Alessandrini, sugli aspetti poco conosciuti della sua vita. Il professore che mi ha seguita aveva buoni contatti con il mondo editoriale ed era convinto che la mia tesi sarebbe potuta diventare un libro interessante. E così è stato. Adesso scrivo di musica, soprattutto libri sull'opera, e collaboro con i giornali di mezzo mondo. Sono riuscita a diventare qualcuno, ed era quello che volevo. Bene, adesso che sa quasi tutto di me, mi racconti qualcosa di lei.» «Sono un giornalista senza lavoro per colpa degli intrallazzi della politica. Non so come vanno le cose in Italia, ma nel mio paese, se vuoi scrivere di politica, o stai con la destra o stai con la sinistra oppure sei un separatista, altrimenti sei disoccupato. Io faccio parte di quest'ultimo gruppo.» «Non sta con nessuno?» «Mi considero di sinistra, ma ho il difetto di pensare con la mia testa e di non seguire gli ordini di nessuno, il che mi rende

una persona poco affidabile.» «Non creda che in Italia sia molto diverso... Se fossi in lei mi metterei a scrivere di altre cose, lascerei stare la politica.» «Ci sto provando, ma purtroppo mi sono già fatto la fama dell'indisciplinato e non si fidano di me neppure per scrivere sulle pagine culturali.» «Allora è messo davvero male.» «Sì, è proprio così.» Francesca ebbe compassione di me e mi invitò a fermarmi a cena per continuare a parlare di Carla e Amelia. «Si conobbero durante una traversata verso Buenos Aires. Mi dica, cosa accadde quando arrivarono a destinazione?» «Può immaginare la baraonda che si scatenò sul molo quando la nave attraccò. Decine di giornalisti aspettavano impazienti Carla Alessandrini. Lei non deludeva mai il suo pubblico, quindi scese dalla nave avvolta in una pelliccia di zibellino, sottobraccio a suo marito, il bellissimo Vittorio. Presero una suite all'hotel Plaza, e nei quattro giorni seguenti lei si dedicò alle prove, concesse interviste e partecipò a qualche evento sociale. L'ambasciatore italiano offrì un cocktail in suo onore a cui furono invitate tutte le personalità influenti della città, i membri del corpo diplomatico di altri paesi e, su indicazione di Carla, anche Amelia e Pierre. Le ho già detto che Carla non simpatizzava con il regime di Mussolini, ma quando viaggiava all'estero di solito accettava gli omaggi che le venivano tributati da tutte le ambasciate italiane. Mi permetta di insistere nel consigliarle di leggere il mio libro. Credo che il professor Soler le abbia suggerito di andare a Buenos Aires a parlare con il professor Muiňos e, a mio parere, con quello che le racconterà Muiňos e quello che leggerà nel mio libro, riuscirà a scrivere la sua storia.» Accettai il consiglio di Francesca. Mia madre mi svegliò alle otto del mattino strappandomi a un

sonno profondo. «Mamma, ti sembra l'ora...» protestai. «Non riesco a dormire pensando alla tua situazione. Senti, tesoro, credo che tu la debba smettere con questa sciocchezza di indagare sul passato della nonna. Per quanto possa essere interessante, non puoi davvero permetterti di rovinarti la carriera.» «Quale carriera, mamma?» «Non scherzare! Sei molto orgoglioso e credi che debbano essere gli altri a venire a bussare alla tua porta, ma le cose non funzionano così. Sei tu che devi presentarti alla porta delle aziende per trovare lavoro.» «Sono le otto, mi trovo a Roma, sono andato a dormire tardi e ti ho già spiegato mille volte che mi fanno male le nocche a forza di bussare alla porta delle aziende!» «Ma tesoro...» «Senti, mamma, ne parleremo un'altra volta, ti richiamo.» Riattaccai, di pessimo umore. Mia madre non mi dava tregua con la storia del lavoro. Decisi di partire il giorno stesso per Buenos Aires; almeno lì mi avrebbe lasciato un po' in pace, visto il costo delle telefonate intercontinentali. Accesi il computer e mi collegai a internet per controllare la posta elettronica. Con mia sorpresa, trovai le risposte del professor Soler. Mi dissi che, nonostante mia madre, la giornata non era cominciata affatto male. Mi misi immediatamente al lavoro, scrissi un'introduzione all'intervista e un finale, scelsi un titolo e mandai tutto quanto a Pepe, il caporedattore della cultura del giornale on line, ricordandogli l'impegno preso con il professor Soler. Mi innamorai di Buenos Aires nel tragitto fra l'aeroporto e l'albergo. Che città! Sentivo di dover essere grato alla zia Marta per il compito che mi aveva affidato, perché, diciamo la verità, stavo vivendo un'esperienza interessantissima, conoscevo persone che altrimenti non avrei potuto incontrare e mi veniva

offerta l'opportunità di visitare una città come quella, in un magnifico e tiepido mattino. Mentre in Spagna si avvicinava l'estate, a Buenos Aires era appena iniziato l'autunno. L'agenzia di viaggi mi aveva prenotato un albergo nella zona centrale della città. Appena mi fui sistemato, telefonai al professor Muiňos, che era già stato contattato dal professor Soler. Mi diede appuntamento per il pomeriggio del giorno dopo, e gliene fui grato, perché così avrei avuto modo di superare il jet lag e visitare un po' la città. Con la piantina che mi diedero alla reception dell'albergo mi accinsi a scoprire gli angoli più suggestivi della capitale argentina. Innanzitutto mi diressi verso plaza de Mayo, che tante volte avevo visto in televisione, dove si erano svolte le dimostrazioni delle madri coraggio dei desaparecidos, vittime della dittatura militare. Rimasi per un bel po' nella piazza, senza perdermi nemmeno un dettaglio, riuscendo a percepire la forza di quelle donne con i fazzoletti bianchi in testa che avevano sfidato, in modo pacifico ma estremamente efficace, il branco di assassini che aveva fatto parte della giunta militare. Poi visitai la cattedrale e mi lasciai trasportare dalla fiumana di gente per le strade bonaerensi, finché verso le sei del pomeriggio la stanchezza mi impedì di proseguire. Fermai un taxi e rientrai in albergo, mi infilai a letto e non mi svegliai fino al giorno dopo. Per prima cosa telefonai a mia madre, temendo che avesse già chiamato l'Interpol per denunciare la scomparsa del suo tanto amato figlio. Sono gli inconvenienti dell'essere figlio unico, per di più cresciuto senza padre, visto che il mio morì quando ero piccolo. Il professor Muiňos abitava in una casa a due piani nell'elegante quartiere Palermo. Appena si aprì la porta, mi arrivò alle narici il profumo del legno incerato e dei libri che tappezzavano completamente le pareti, andando a formare un'enorme

biblioteca che occupava tutta la casa. Fui accolto da una cameriera boliviana, dall'aria timida, che mi condusse subito nell'ufficio del professore. Andrés Muiňos aveva il classico aspetto da vecchio accademico. Indossava un informale golf di lana, portava i capelli bianchi pettinati all'indietro, aveva l'aria distratta tipica degli intellettuali e la cortesia di chi ha già visto tutto e non si sorprende più di nulla. «E così lei è il giornalista spagnolo!» mi disse a mo' di saluto. «Ebbene sì... La ringrazio davvero molto per avermi ricevuto» replicai. «Me l'ha chiesto Pablo Soler, un caro amico e collega. Ci siamo incontrati a Princeton.» «Sì, me l'ha raccontato.» «A proposito di vite straordinarie, quella di Pablo lo è, ma so che l'oggetto delle sue ricerche è Amelia Garayoa, la sua bisnonna, se non ho capito male.» «Proprio così, era la mia bisnonna, ma in famiglia si sa pochissimo di lei, praticamente niente.» «Tuttavia è stata una donna importante, molto più di quanto lei possa immaginare; ha avuto una vita densa di avventure e di pericoli, degna di un romanzo di le Carré.» «In effetti finora mi ha sorpreso molto. Ma devo confessarle che quanto ho scoperto su di lei non la rende una donna interessante, ma piuttosto una persona che si lasciava dominare dagli eventi senza riuscire a controllarli.» «A quanto mi ha detto Pablo, lei conosce la storia di Amelia fino a quando è arrivata a Buenos Aires con Pierre Comte. A quell'epoca aveva circa una ventina d'anni e, non so lei, ma io non conosco nessuno che sia interessante a quell'età, e nemmeno all'età che ha lei adesso: poco più di trent'anni, giusto?» Però, il professore! Non aveva peli sulla lingua. Con un sorriso, mi stava dicendo che mai mi avrebbe scelto come compagno di

conversazione. Ma non era il momento di offendersi, così feci finta di niente. «Penso che abbia già parlato con la signora Francesca Veneziani, o mi sbaglio?» «Arrivo da Roma, dove l'ho incontrata e mi ha regalato il suo libro su Carla Alessandrini.» «Ho visto la signora Veneziani in un paio di occasioni. È una donna interessante e furba; consapevole che non sarebbe mai diventata una grande cantante, è riuscita comunque a farsi un nome raccontando la storia dei divi della lirica. E i suoi libri non sono affatto male, bisogna ammettere che sono ben documentati. Ha già letto quello sulla Alessandrini?» «L'ho cominciato in aereo, ma non l'ho ancora finito.» «Anche Carla Alessandrini è stata una donna eccezionale, al di là del suo talento come cantante. Era forte, coraggiosa, decisa e se ne infischiava dell'opinione degli altri, ma per sua scelta, non come la sua bisnonna, che si lasciò influenzare da Pierre Comte. Sa, giovanotto, ormai non ho più molti impegni, perciò le ho preparato un programma di visite nei posti che in qualche modo sono collegati con la sua bisnonna; così potrà capire meglio le sue avventure in questa città e ne approfitterà per conoscere Buenos Aires, dove i miei genitori sono emigrati dopo la fine della guerra civile. Mio padre era capitano dell'esercito repubblicano e riuscì a fuggire dopo la guerra. Meno male! Altrimenti l'avrebbero fucilato. All'epoca io avevo cinque anni. Per questo, pur essendo nato a Vigo, mi sento di qui. Ma torniamo al motivo della sua visita. Da dove vuole iniziare?» «Mi piacerebbe sapere cos'è successo quando Pierre e Amelia sono arrivati qui.» «D'accordo» disse Muiňos sorridendo, mentre mi guardava accendere il registratore. Scesero al Castelar, che si trova in avenida de Mayo. Andremo a visitarlo, perché è lì che alloggiò anche Federico García Lorca tra l'ottobre del 1933 e il marzo del 1934.

Era un albergo confortevole, che ospitava spesso artisti e scrittori di passaggio a Buenos Aires. Pierre Comte non aveva intenzione di fermarsi a lungo in hotel, voleva trovare una casa da dove poter svolgere la sua doppia attività di libraio e di spia. Forse lei non lo sa, ma all'inizio del ventesimo secolo Buenos Aires era una città alla moda, che aveva fatto il suo ingresso nella modernità ispirandosi alla Francia, alla Parigi del barone Haussmann. Non c'era artista di spicco che non si esibisse al teatro Colón. Fu un italiano ad avviare il progetto, che venne affidato a diversi architetti fino al termine dei lavori, nel 1908. Al Colón si sono esibite vere e proprie leggende, del calibro di Caruso, Toscanini, Menuhin, Maria Callas e, naturalmente, Carla Alessandrini. Nel mondo dell'opera sono in molti ad assicurare che, dopo la Scala di Milano, il Colón è il teatro con la migliore acustica del mondo. Pierre considerava un bel colpo di fortuna l'amicizia che stava sbocciando tra Amelia e Carla. La diva era un ottimo biglietto da visita in questa città, che letteralmente stravedeva per lei. Il nostro uomo non perse tempo e il giorno dopo lo sbarco stava già cercando un posto adatto in cui sistemarsi. Si era portato dietro diversi bauli pieni di libri rari ed edizioni speciali, che senza dubbio avrebbero risvegliato l'interesse dei bibliofili. Molti li aveva comprati in Spagna, quando aveva cominciato ad accarezzare l'idea di fare di Amelia il suo alibi per trasferirsi a Buenos Aires. Mosca non lesinava i finanziamenti alle sue spie, ma non permetteva che venissero sprecati; tutti dovevano rendere conto fino all'ultimo centesimo di quanto avevano speso e c'era molta diffidenza verso chi aveva le mani bucate. Non si poteva sperperare invano il denaro del popolo. Il secondo giorno dopo l'arrivo Carla li invitò al cocktail offerto in suo onore dall'ambasciata italiana. Pierre non poteva essere più soddisfatto di come stavano andando le cose e si diceva che era stata proprio una buona idea farsi accompagnare

da Amelia. Anche se Pierre aveva quindici anni più di lei, formavano una coppia ben assortita. Amelia aveva una figura fragile, quasi eterea, così magra e bionda. Lui aveva un portamento elegante ed era un uomo di mondo. Carla abbracciò Amelia appena la vide entrare all'ambasciata. «Ma perché non mi hai telefonato? Mi sei mancata, non ho nessuno con cui parlare.» Amelia si scusò, accampando il pretesto di aver passato i primi due giorni a cercare casa, visto che non era facile trovare quello di cui Pierre aveva bisogno. «Ma ci sono qua io! Vero, Vittorio? Conosciamo sicuramente qualcuno che vi possa aiutare nelle vostre necessità. Lascia fare a me.» Gli invitati al cocktail, l'alta società di Buenos Aires, osservavano attentamente le dimostrazioni di affetto di Carla nei confronti di Amelia. Se la grande Alessandrini teneva sotto la sua protezione quella coppia, voleva dire che erano persone importanti. Quella sera Pierre e Amelia ricevettero diversi inviti a pranzi, cene, serate musicali e alle corse dei cavalli. Pierre sfoderò tutto il suo charme francese, e più di una signora rimase stregata da quell'uomo galante dallo sguardo tanto seducente. Sia Pierre sia Amelia erano avidi di notizie sulla situazione in Spagna, e a fornire la risposta a quasi tutte le loro domande fu un chiassoso napoletano, Michelangelo Bagliodi, sposato con una segretaria dell'ambasciata italiana. «Franco non è ancora entrato a Madrid, ma lo farà da un momento all'altro. Tenete conto che i migliori generali spagnoli sono impegnati nella rivolta, niente meno che Sanjurjo, Mola e Queipo de Llano. Non ho il minimo dubbio che trionferanno per il bene della sua patria, signorina Garayoa.» Pierre stringeva con forza la mano di Amelia, per evitare che lei

replicasse in modo inappropriato. L'aveva istruita sul comportamento da tenere - guardare, ascoltare e parlare poco ma lei si sentiva troppo coinvolta per riuscire a mantenere la calma. «E lei crede, signor Bagliodi, che l'Italia e la Germania collaboreranno con i militari che si sono ribellati alla Repubblica?» si informò Pierre. «Amico mio, non c'è alcun dubbio che possano contare sulla simpatia del Duce e del Führer! E se è necessario... Be', sono certo che l'Italia e la Germania aiuteranno la grande nazione sorella che è la Spagna.» Michelangelo Bagliodi era felice di essere oggetto delle attenzioni della coppia che gli era stata presentata dalla divina Carla. Inoltre, i due davano l'impressione di apprezzare le sue opinioni, cosa che gli sembrava naturale, considerata la sua competenza nelle questioni di politica internazionale grazie al matrimonio con la segretaria dell'ambasciatore. Lui, emigrato molti anni prima dalla natia Napoli, aveva lavorato sodo per diventare un agiato commerciante, elevandosi anche nella scala sociale grazie alle nozze con Paola. Il lavoro della moglie gli procurava sempre nuovi contatti e soprattutto la possibilità di stare gomito a gomito con la crema della società bonaerense ne' cocktail o nelle cene dell'ambasciata. «E cosa fa il presidente Azaňa?» domandò Amelia. «Un disastro, signorina, un disastro. La repubblica sta permettendo ai civili di armarsi in sua difesa, perché oltre la metà dell'esercito è con i generali che si sono ribellati alla situazione. Gli esperti dicono che le forze sono praticamente alla pari, ma a mio parere, signorina, non si possono paragonare il genio e il valore militare degli uni con quelli degli altri. E poi come possono mettersi d'accordo repubblicani, socialisti, anarchici, comunisti e tutta la gente di sinistra? Vedrà che finiranno per litigare tra loro. Mi auguro che il conflitto finisca bene, con il trionfo di Franco, che è quanto di meglio possa succedere alla Spagna.»

Il napoletano, soddisfatto della sua conversazione con Amelia e Pierre, si offrì di aiutarli. «Siete appena arrivati e non conoscete bene la città, perciò non esitate a chiedermi qualunque cosa di cui abbiate bisogno. Mia moglie e io ci sentiremmo molto onorati se voleste venire a trovarci a casa, potremmo invitare qualche amico e organizzare una serata...» si azzardò a proporre Bagliodi. «Ne saremmo felici» assicurò Pierre. Bagliodi gli diede il suo biglietto da visita e si appuntò su un foglio l'indirizzo dell'albergo in cui alloggiava la coppia, promettendo di far giungere loro al più presto un invito per la serata. «È un imbecille!» disse Amelia appena si furono allontanati. «E non ho alcuna intenzione di andare a casa di quel fascista! Non capisco come hai potuto dirgli che lo faremo!» «Amelia, se appena arrivati proclamiamo subito le nostre idee ci renderemo vulnerabili. Non conosciamo nessuno in questa città e abbiamo assoluto bisogno di farci aprire delle porte. Ti ho già detto una volta che, per quanto posso, collaboro con l'Internazionale comunista, e torna sempre utile sapere cosa pensano i nemici.» «Neanche fossi una spia!» esclamò Amelia. «Che sciocchezze dici! Non si tratta di spiare, ma di ascoltare, perché quello che dicono ingenuamente i nemici ci serve per essere preparati, per stare un passo avanti a loro. Aspiro alla rivoluzione mondiale, a farla finita con i privilegi di coloro che hanno tutto, ma naturalmente nessuno accetterà di essere privato di ciò che possiede, perciò è necessario sapere come la pensano, come si muovono...» «Sì, me l'hai già detto. Comunque, non sono disposta a frequentare quell'uomo insopportabile e la sua insipida moglie.» «Faremo quello che bisogna fare» concluse Pierre, esasperato dal malumore di Amelia. «Inoltre, chi meglio di quell'uomo può informarci sulla situazione spagnola? Credevo

che fossi ansiosa di avere notizie attendibili sul tuo paese.» Il giorno dopo, Amelia ricevette una telefonata da Carla, che la invitava a bere qualcosa al Caffè Tortoni. «Ma vieni da sola, voglio parlare in tutta tranquillità. Finisco le prove verso le sei. Non ti sarà difficile trovare il caffè. È in avenida de Mayo e a Buenos Aires lo conoscono tutti.» Pierre non ebbe niente da dire sul suo appuntamento e passò la giornata continuando a cercare la sistemazione ideale che fino a quel momento esisteva solo nella sua immaginazione. Amelia trovò Carla nervosa; lo era sempre alla vigilia di una prima, perché non si lasciava lusingare dagli elogi. «Sono tutti gentilissimi, ma se poi prendo una stecca mi mettono in croce e mi voltano le spalle con la stessa disinvoltura con cui oggi si inchinano in mia presenza. Non posso permettermi un errore: mi vogliono sublime, e così devo essere.» La sera della prima, su invito di Carla, Amelia e Pierre si accomodarono in un palco. Amelia era bellissima, come avrebbero riferito le cronache mondane sui quotidiani del giorno dopo definendola "la migliore amica della divina Carla". Carla fu magnifica, stando alle stesse fonti. Gli spettatori, in piedi, le tributarono oltre mezz'ora di applausi e lei dovette uscire diverse volte a ringraziare. Dopo lo spettacolo Vittorio aveva organizzato una cena con gli uomini più influenti di Buenos Aires, alcune personalità del mondo della cultura e i direttori dei principali giornali, oltre naturalmente ad Amelia e Pierre. Quella sera la fortuna sorrise a Pierre quando un gentiluomo dal forte accento italiano gli chiese dove fossero alloggiati e lui gli spiegò che stavano cercando un posto da adibire ad abitazione e al contempo a negozio per i suoi tesori bibliografici. L'uomo si presentò come Luigi Masseti, proprietario di

diversi edifici e locali commerciali, e si offrì di aiutarlo a trovare il posto adatto. «Penso proprio di avere quello che fa per voi. Si trova al piano terra di un vecchio palazzo situato in un'ottima posizione, in calle Piedras. È molto luminoso perché ha una grande vetrata che dà sull'esterno. Non è grandissimo, ma credo che sia più che sufficiente a ospitare una coppia e il negozio di libri. Perché non passa domattina dal mio ufficio, così uno dei miei impiegati la accompagna a vederlo?» Pierre accettò, pieno di gratitudine. Amelia, da parte sua, aveva intorno a sé un buon numero di corteggiatori. A quel punto ormai si sapeva, perché Pierre si era premurato di divulgarlo, che erano fuggiti dalle rispettive famiglie, lei abbandonando il marito e il figlio e lui una fiorente attività, per vivere un'appassionata storia d'amore. Alcuni uomini si convinsero che la spagnola fosse una facile preda, che stuzzicava la loro abilità di seduttori, e cercarono di prendersi delle libertà che sorpresero e al tempo stesso ferirono Amelia. Carla Alessandrini, resasi conto della situazione, intervenne un paio di volte, dichiarando che chiunque molestasse la sua amica offendeva anche lei. Pierre invece preferiva fare finta di niente, dal momento che il suo obiettivo era quello di conoscere il maggior numero possibile di persone nella raffinata e chiusa società bonaerense. E lì ne era presente il fior fiore. Non avrebbe potuto essere più fortunato di così. Carla presentò loro una coppia a cui sembrava legata da un'amicizia di vecchia data. «Amelia, voglio farti conoscere Martin e Gloria Hertz. Sono i migliori amici che ho a Buenos Aires.» Martin Hertz era un ebreo tedesco giunto in città tre anni prima per sfuggire alle persecuzioni naziste. Era otorino e aveva conosciuto Carla a Berlino, quando la diva aveva avuto un

problema alla gola due giorni prima dell'esibizione al teatro dell'Opera. Martin l'aveva curata facendo il possibile perché potesse andare in scena e ricevere i meritati applausi. Da allora Carla stravedeva per quel giovane medico tedesco che, arrivato a Buenos Aires, si era innamorato di una ragazza di origine spagnola, Gloria Fernández, e l'aveva sposata. Amelia simpatizzò subito con i signori Hertz. Martin aveva un'espressione bonaria che ispirava fiducia e Gloria sprizzava simpatia e carattere. «Dovete venire a visitare la mia galleria d'arte» li invitò Gloria. «Adesso espone un giovane talento messicano a cui auguro un brillante futuro. Cerco di rendere la mia galleria un punto di riferimento per la nuova pittura, un posto in cui i giovani abbiano la possibilità di esporre.» Pierre promise di andare a visitare la galleria degli Hertz. E si congratulò con se stesso per essersi portato dietro Amelia, un prezioso talismano che gli stava aprendo le porte della società bonaerense. «Ho un'amica tedesca, di Berlino» commentò Amelia «anche se forse adesso si trova a New York. Spero proprio di sì! Yla è ebrea e suo padre, Herr Itzhak Wassermann, era socio del mio, ma ha subito così tante intimidazioni da parte dei nazisti che la ditta è fallita. Mio padre ha cercato a lungo di convincere Herr Itzhak a lasciare la Germania, e... be', prima che venissi qui, mi hanno detto che stavano pensando di emigrare a New York.» «I nazisti non ci lasciano molta scelta: ci stanno derubando, espropriano i nostri beni e gli uomini delle SS non ci danno tregua. Prima ci hanno privato di alcuni diritti civili, poi con le leggi di Norimberga ci hanno fatto diventare degli appestati. Io me ne sono andato nel 1934, ben sapendo che, nonostante quello che vogliono credere le comunità ebree in Germania, il nazismo non sarà un fenomeno passeggero. Nel maggio del 1933 sono stato testimone di quel gesto vergognoso e terribile che è stato il rogo pubblico di libri, opere scritte da ebrei, patrimonio dell'umanità... È stato dopo quell'episodio che ho deciso di

andarmene: sapevo che una simile barbarie sarebbe stata solo l'inizio, come purtroppo è successo. I miei genitori non hanno voluto seguirmi; ho un fratello maggiore, sposato e con due figli, e nemmeno lui ha voluto emigrare. Prego per i miei cari ogni giorno e mi fa ribollire il sangue il solo pensiero che siano tormentati dai loro stessi vicini.» «Su, Martin, siamo a una festa...» protestò Gloria cercando di tirare su il morale al marito. «Mi dispiace, è stata colpa mia... Non avrei dovuto...» «Non lo dica nemmeno! Mi fa piacere sapere che lei è una persona sensibile che si rattrista per la situazione di altri esseri umani» replicò Martin. «Ma Gloria ha ragione, non possiamo rabbuiarci proprio alla festa di Carla. Lei vuole vederci felici.» Mentre tornavano in albergo, Pierre si dimostrò affettuoso e sollecito con Amelia. A guardarli, si sarebbe detto che quell'uomo fosse perdutamente innamorato della fragile fanciulla che gli camminava accanto. Una settimana dopo Amelia e Pierre si trasferirono nell'appartamento al pianterreno che avevano affittato da Luigi Masseti. A Pierre era sembrato il posto perfetto: un enorme portone dava accesso alla casa; superato un piccolo vestibolo, si entrava in un salone di una cinquantina di metri, illuminato da una grande vetrata sulla strada. In fondo, due camere, una piccola cucina e un bagno costituivano quella che sarebbe stata la loro dimora. Le finestre di quella parte della casa davano su un cortile condominiale. Amelia pulì a fondo il suo nuovo focolare. Pierre dimostrò di essere un bravo falegname: comprò il legno e costruì una grande biblioteca che occupava praticamente tutte le pareti della sala. Quanto al resto della casa, non spesero molto per l'arredamento, acquistando lo stretto necessario. «Aspettiamo di vedere come vanno gli affari; ci sarà poi sicuramente tempo per procurarsi dei mobili appropriati» disse

Pierre ad Amelia. Non gli andò male. Buenos Aires era una città cosmopolita affascinata dagli europei che cercavano rifugio tra le sue vie. Pierre era francese, e Amelia una spagnola bella e delicata, perciò non avevano problemi a farsi aprire qualunque porta. L'unica cosa che sconcertava Amelia era la familiarità con cui Pierre trattava Michelangelo Bagliodi, il marito della segretaria dell'ambasciata italiana. I due sembravano diventati grandi amici e spesso pranzavano insieme; o passavano tutti e quattro la domenica in casa della coppia. Se Martin e Gloria Hertz li avevano introdotti nel mondo intellettuale della città, Bagliodi, attraverso la moglie Paola, era riuscito a farli invitare ad alcuni eventi dell'ambasciata italiana, durante i quali, con grande naturalezza, Pierre stabiliva contatti con ambasciatori e diplomatici di altri paesi. Amelia sembrava essersi abituata alla nuova situazione e non era del tutto infelice, anche se continuava a preoccuparsi per la guerra civile in Spagna. Il momento peggiore per lei fu la partenza di Carla Alessandrini. La diva aveva concluso i suoi impegni artistici a Buenos Aires e doveva tornare in Europa, dove a dicembre avrebbe inaugurato la stagione della Scala di Milano con il Falstaff, un'opera difficile e ambiziosa. Prima di partire si incontrò di nuovo a tu per tu con Amelia al Caffè Tortoni, che era diventato il loro posto preferito. Sedute ai tavolini di rovere e marmo verde si scambiavano confidenze. «Mi mancherai, cara Amelia... Perché non torni in Europa? Se vuoi posso aiutarti...» «E cosa potrei fare? No, Carla, ho preso una decisione di cui a volte mi pento, ma ormai è troppo tardi per ripensarci. Mio marito non mi perdonerà mai; quanto alla mia famiglia... li ho fatti molto soffrire: come si comporterebbero con me se mi ripresentassi? Chiedo solo a Dio che Franco perda la guerra e torni la tranquillità. Ho paura per loro, anche se Madrid resiste ancora...»

«E tuo figlio? Non ti rendi conto che, se non torni, lo perderai? È ancora piccolo, ma un giorno vorrà sapere che fine ha fatto sua madre, e cosa potranno dirgli? Amelia, torna con me in Europa...» Ma Amelia sembrava volersi convincere della decisione di cui tante volte si era pentita. Inoltre, in quel momento non avrebbe avuto il coraggio di affrontare Pierre. Tremava all'idea della sua reazione se gli avesse detto che lo abbandonava. «Mio figlio l'ho già perso e so che non mi perdonerà mai. Sono la peggiore madre del mondo, forse è un bene che io non sia con lui...» si rimproverò Amelia, senza riuscire a trattenere le lacrime. «Su, non piangere, a tutto c'è rimedio; basta volerlo. Hai il mio indirizzo e quello dell'ufficio di Vittorio dove puoi sempre mandarmi un messaggio; lì ti diranno dove sono e come trovarmi. Se hai bisogno di me, non esitare a scrivermi, sai che farò l'impossibile per aiutarti.» Pierre lavorava di buona lena, ma ogni tanto anche lui si lasciava prendere dalla malinconia. Entro la fine di ottobre aveva già stabilito regolari contatti con il suo supervisore, il segretario dell'ambasciatore dell'Unione Sovietica, a cui passava le informazioni raccolte nei circoli intellettuali, ma anche tra i commercianti e nella classe alta della città. Preparava rapporti minuziosi, in cui non ometteva alcun dettaglio, per quanto fosse insignificante. E sottoponeva Amelia a veri e propri interrogatori quando rientrava dagli incontri pomeridiani con le sue nuove amiche o scambiava quattro chiacchiere con qualche personaggio influente, durante un cocktail, un evento letterario o una cena. Era un agente disciplinato, con una missione da compiere, ma era convinto che il suo posto non fosse a Buenos Aires. Comunque, dopo sei mesi aveva già "ingaggiato" un agente addirittura al ministero degli Esteri, come gli avevano ordinato. Miguel López era un funzionario del ministero, dalle

convinzioni comuniste, anche se non era iscritto a nessun partito. Detestava l'alta società e si lamentava della situazione in cui versavano molti suoi compatrioti che vivevano lontano dalla capitale e che assistevano solo come spettatori all'ascesa glamour della città. Miguel López aveva trovato il suo lavoro da impiegato grazie a uno zio che faceva il portiere al ministero. Costui era un uomo affabile e un giorno aveva parlato bene del suo giovane nipote, che era esperto di meccanografia e di tachigrafia e aveva qualche rudimento di contabilità. Inoltre, era particolarmente portato per le lingue, perché, pur senza averne studiata nessuna a scuola, aveva imparato per conto suo il francese. Doveva essere stato convincente, perché a Miguel López era stato assegnato un posto da funzionario e, siccome era sveglio e discreto, dopo un anno era stato promosso al ruolo di segretario del capo del dipartimento Codici, dove si criptavano e decifravano i messaggi. Nel tempo libero, López studiava legge, perché sognava di diventare avvocato, una decisione che sembrava rafforzare la buona opinione che i suoi capi avevano di lui. Amelia nutriva molta simpatia nei confronti di Miguel López e non sospettava la natura del legame sempre più stretto fra lui e Pierre. Per lei l'amicizia di quel ragazzo era una benedizione, perché la aggiornava sulla situazione in Spagna, avvalendosi dei dossier criptati dell'ambasciatore argentino a Madrid. Una sera in cui Miguel era andato a cena a casa di Amelia e Pierre, raccontò che la situazione in Spagna si stava aggravando ora dopo ora. «A quanto sembra» disse «nella retroguardia i fascisti commettono ogni tipo di infamie: fucilano i militanti della sinistra e si accaniscono contro i repubblicani. Ma la cosa più importante è che i lavoratori spagnoli hanno organizzato una vera e propria Resistenza contro i fascisti e, oltre all'esercito della repubblica, si sono formate unità di milizie popolari. I miliziani del battaglione Abramo Lincoln stanno già

partecipando alla lotta, e da ogni parte giungono uomini per unirsi alle Brigate internazionali. A proposito» aggiunse «il viaggio della delegazione di donne antifasciste in Messico inizia a dare i suoi frutti. Il nostro ambasciatore laggiù dice che continueranno a raccogliere fondi per i miliziani e per aiutare la repubblica. Dal punto di vista della propaganda, il risultato non potrebbe essere migliore: la maggior parte dei giornali attacca i golpisti e sostiene il governo di Azaňa. E noi qui senza poter fare nulla! Mi vergogno per i nostri politici!» López nutriva un'intima soddisfazione per essere diventato un agente dell'Unione Sovietica e sognava il momento in cui, come ricompensa dei suoi servizi, l'avrebbero chiamato nella "patria dei lavoratori" per restare là per sempre Pierre gli aveva spiegato che non doveva attirare l'attenzione, che doveva diffidare di chiunque e, soprattutto, continuare a svolgere il suo grigio lavoro di funzionario. Anche se Miguel López gli aveva raccontato che una sua collega sembrava nutrire la stessa avversione verso il regime del suo paese, facendo anche commenti negativi sul fascismo, Pierre gli aveva proibito di fidarsi di lei. Nonostante il buon lavoro di Miguel López, Pierre aveva bisogno di un altro agente infiltrato nel ministero degli Esteri o addirittura alla presidenza, come gli aveva indicato il suo supervisore dell'ambasciata. La fortuna sembrava essere dalla sua parte fin da quando era arrivato a Buenos Aires; infatti, un giorno, Amelia gli disse che Gloria, in galleria, le aveva presentato un'amica che stava passando un brutto momento. «Non immagini cosa deve sopportare quella poveretta per colpa del suo lavoro presso la sede del governo, visto che è un'accanita antifascista. Secondo Gloria, la sua amica Natalia ha idee comuniste.» Pierre non sembrò mostrare un grande interesse ma, qualche giorno più tardi, insisté per invitare a cena Martin e

Gloria Hertz, e durante la serata accennò a ciò che gli aveva raccontato Amelia. «Oh, sì, povera Natalia! Per lei è molto difficile lavorare al governo. Non che occupi un posto importante, a diretto contatto con il presidente. È al dipartimento di traduzioni e passa la giornata a tradurre documenti e lettere dall'inglese. E se il presidente ha bisogno di un'interprete, si affida a lei. Natalia parla perfettamente inglese, visto che suo padre era un diplomatico e per un certo periodo è stato destinato in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e in seguito in Norvegia e in Germania. Lei aveva cinque anni quando fu inviato in Inghilterra ed è rimasta lì fino ai nove; successivamente il padre venne mandato a Washington, e così per lei l'inglese non ha segreti.» Pierre si sforzò di mostrare un sincero dispiacere verso la sorte di Natalia e suggerì di invitarla la prossima volta che si fossero visti. Ma ciò avvenne soltanto un mese più tardi, e per caso, all'inaugurazione di una mostra alla galleria di Gloria. Natalia Alvear era una cinquantenne di statura media, con i capelli castani e un portamento elegante, pur non essendo affatto una bellezza. Era zitella e annoiata, e frequentava ambienti intellettuali e artistici dove veniva a contatto con gente di sinistra. Trovava monotono il suo lavoro presso il governo, e la mancanza di prospettive e ambizioni la amareggiava. Pierre intuì che c'era del potenziale per farne un'agente e che quell'attività avrebbe potuto dare una scossa alla sua vita. Ma decise di procedere per gradi e di aspettare che quella zitellona fosse matura per affrontare il lavoro. Due giorni più tardi, passando davanti al palazzo del governo, fece finta di incontrarla per caso all'ora in cui lei gli aveva detto che di solito usciva a pranzo. «Cara Natalia, che sorpresa!»

«Signor Comte, è davvero una coincidenza...» «Credo che potremmo chiamarci per nome, non le sembra? Sono venuto a trovare un cliente che sta da queste parti e adesso volevo fare un pranzo leggero perché dopo ho un altro appuntamento in zona. E lei dove va?» «Come lei, a pranzo.» «Se non la considera una sfacciataggine da parte mia, sarei felice di invitarla.» «Oh, no! Non posso accettare.» «Ha un altro impegno?» «No, non è per questo, ma, insomma, non mi sembra il caso.» «A Buenos Aires non è normale che due persone che si conoscono pranzino insieme?» domandò Pierre facendo l'ingenuo. «Be', se sono amici, certamente sì.» «Lei è amica di Gloria e gli Hertz sono tra i nostri migliori amici, quindi non vedo il problema... Su, mi permetta di invitarla a pranzo. Amelia si arrabbierà se le dico che l'ho incontrata e sono stato così scortese da non farlo.» Entrarono in un ristorante lì vicino e Pierre sfoderò il suo savoir-faire da uomo di mondo. Riuscì a farla ridere e la corteggiò anche un po'. Natalia era troppo sola e stanca della sua grigia esistenza per resistere a un uomo come Pierre. Non fu l'unica occasione in cui fece finta di incontrarla per caso e lei si lasciò invitare a pranzo. A poco a poco tra loro si instaurò una relazione che agli occhi di un osservatore ingenuo sarebbe potuta sembrare un semplice amore platonico tra due persone che per senso del dovere non osano fare un passo in più. Pierre si faceva scudo della lealtà nei confronti di Amelia, che per lui aveva abbandonato il marito e il figlio. E Natalia lo ammirava ancora di più per questo, anche se in cuor suo desiderava che si comportasse in modo meno onorevole. Pierre confessò a Natalia di essere comunista e le disse che

soltanto lei poteva capire l'importanza della sua causa. Senza che lei se ne rendesse conto, la convinse di quanto fosse inopportuno restarsene con le mani in mano lasciando che i fascisti di tutto il mondo l'avessero vinta. E arrivò il giorno in cui le chiese di passargli qualunque informazione le sembrasse importante per la "causa", in modo che lui potesse farla arrivare alle persone giuste. All'inizio Natalia esitò; allora Pierre fece un passo in più e un pomeriggio diventò il suo amante. «Dio mio, cosa abbiamo fatto!» si lamentò Natalia. «Doveva succedere» la consolò lui. «E Amelia?» «Non voglio parlare di lei. Lasciami godere questo momento, il più felice degli ultimi tempi.» «Ci siamo comportati in modo orribile!» «Potevamo evitarlo? Dimmi, Natalia, non abbiamo forse cercato di resistere per tutto questo tempo? Non dirmi che sei pentita, perché non lo sopporterei.» Lei non era pentita, ma solo preoccupata per il futuro, sempre che per loro due potesse essercene uno. «Viviamo il presente, Natalia, quello che abbiamo; il futuro...chi può sapere quello che succederà? Non ci unisce la carne, ma un'idea, grande e liberatrice dell'umanità. E questa idea sacra è più forte di qualunque altra cosa. Non importa quel che sarà di noi, l'importante è che saremo sempre in sintonia perché lottiamo per la stessa causa.» Natalia non sapeva dell'esistenza di Miguel López, né lui della sua. Erano entrambi controllati da Pierre, che a sua volta faceva rapporto al suo supervisore, il segretario dell'ambasciatore.

7

A Mosca sembravano soddisfatti del lavoro di Pierre Comte. O almeno così gli aveva detto il suo supervisore. In poco più di sei mesi aveva ingaggiato due collaboratori inseriti in posizioni strategiche, ed entrambi si stavano dimostrando una miniera di informazioni. Amelia non sospettava nulla della relazione di Pierre con Natalia e continuava a esserle amica. Non era raro che fosse invitata a cena a casa della coppia, che li accompagnasse alle mostre della galleria di Gloria Hertz o che nei giorni di festa andassero tutti insieme in gita nei dintorni di Buenos Aires. Diventarono un trio inseparabile e Pierre era eccitato dalle scariche di adrenalina provocategli dall'idea di uscire con le sue due amanti, una per lato, in perfetta armonia. «Amelia mi fa pena» gli diceva sempre Natalia. «Quella poverina è così innocente. Come fa a non rendersi conto che ami me?» «Meglio così, cara, non ho il coraggio di abbandonarla. Siamo arrivati da poco a Buenos Aires e sono stato io a portarla fin qui... Devi capirlo, ho bisogno di tempo.» In realtà Pierre non poteva fare a meno di Amelia. La giovane spagnola aveva una naturale capacità di farsi accettare da tutti; grazie a lei Pierre si trovava spalancata ogni porta, e soprattutto non dimenticava che la maggior parte delle sue

nuove amicizie erano collegate a Carla Alessandrini. Se la diva avesse scoperto che voleva abbandonare Amelia o che la tradiva, era più che certo che avrebbe fatto pressioni sulle sue amicizie bonaerensi perché gli voltassero le spalle. Così Pierre aveva imposto a Natalia una rigorosa discrezione affinché non rivelasse a nessuno che erano amanti. Pierre non trascurava neppure la sua amicizia con Michelangelo Bagliodi e sua moglie Paola. Anche loro continuavano a essere un'ottima fonte di informazioni. Di solito Natalia si univa ai pranzi a casa degli italiani, che erano entusiasti di avere tra loro una donna che lavorava a stretto contatto con il presidente della repubblica. Inoltre, su consiglio di Paola, Natalia aveva cominciato a curare di più il suo aspetto, scegliendo abiti eleganti ma seducenti, cambiando pettinatura o depilandosi le sopracciglia. Durante uno di questi pranzi Bagliodi spiegò a Pierre il sostegno deciso di Hitler e del Duce nei confronti del generale Franco. «Deve considerare che, al di là delle affinità ideologiche, il Führer non può permettere l'esistenza di un regime filosovietico in Spagna. Ha già il Fronte popolare francese di cui preoccuparsi. Per questo, fin dal primo momento, Franco ha potuto contare sugli Junkers-52 che Hitler gli ha mandato a Tetuàn e sulla legione Condor. Con il supporto dei militari tedeschi, il generale ha la vittoria assicurata. Non c'è nessun altro esercito come quello tedesco.» «Ah, Pierre! Ho qui per lei l'Enciclica Divini Redemptoris di papa Pio XI in cui si condanna il comunismo ateo» intervenne Paola porgendogli una cartellina. «Come possono Azaňa e i comunisti del Fronte popolare vincere la guerra se non hanno Dio dalla loro parte?» esclamò Michelangelo Bagliodi, sotto lo sguardo infastidito di Amelia e quello sorridente di Natalia. «Lei crede che Dio stia con i fascisti?» domandò Amelia, incapace di trattenersi.

«Ma certo, mia cara! Non crederà che Dio possa proteggere chi lo insulta e brucia le chiese! Paola mi raccontava, qualche giorno fa, che i miliziani della sinistra fucilano i sacerdoti e le monache e profanano le chiese.» «Non solo, caro, ci sono anche gruppi di miliziani che vanno nei villaggi a uccidere le persone perbene, i cattolici e i militanti o i simpatizzanti dei partiti di destra.» «Però Franco non è ancora riuscito a conquistare Madrid» sottolineò Amelia cercando di reprimere la rabbia. «Ci riuscirà, mia cara, semplicemente non vuole affrontare battaglie inutili. È vero che l'hanno fermato al Jarama, ma per quanto tempo?» «Il generale Miaja ha molto prestigio» ribatté Amelia. «Ah! Colui che si reputa il grande difensore di Madrid» commentò Bagliodi. «Presiede la Giunta di difesa nazionale e dicono che sia un militare capace» intervenne Pierre. «Ma il governo è una gabbia di matti con Largo Caballero al comando, e i comunisti e gli anarchici... Lei crede che riusciranno a mettersi d'accordo? E addirittura Prieto è diventato ministro della Marina e dell'Aviazione. Ma cosa ne sa lui della guerra?» Per Amelia quei pranzi erano un incubo e se ne lamentava con Pierre. «Non capisco come fai a sopportarli. I loro commenti sul comunismo sono offensivi, ma tu non dici niente, come se non ti riguardasse e non fossimo comunisti. L'hai dimenticato?» «E cosa vuoi che faccia? Il dialogo con loro è inutile, ma sono una buona fonte di informazioni e ci tengono al corrente di quello che succede in Spagna.» «Per quello ci sono i giornali.» «Sì, ma loro sono più informati.» «E a cosa ci servono quelle informazioni? L'Unione Sovietica sta aiutando la repubblica, quindi conosce di sicuro la situazione. Non c'è niente che possiamo raccontare ai nostri

compagni che già non sappiano» concluse Amelia. Una sera d'aprile Miguel López si presentò a casa di Amelia e Pierre senza preavviso. Lei stava scrivendo sotto dettatura, perché Pierre continuava a darle ogni giorno lezioni di russo. Miguel sembrava agitato, ansioso di parlare, ma Pierre gli fece segno di non dire niente finché Amelia non li avesse lasciati soli. «Cara, perché non prepari qualcosa per cena? Nel frattempo, io e Miguel ci beviamo un bicchierino e facciamo quattro chiacchiere. Sono stanco di lavorare, perciò, amico mio, mi stai dando la scusa che mi serviva per smettere.» Amelia andò in cucina. Miguel le era simpatico, perciò non aveva niente in contrario che si fermasse a cena. «Cosa succede?» si informò Pierre. «Oggi pomeriggio è arrivata una comunicazione dalla nostra ambasciata a Madrid: la legione Condor ha bombardato Guernica; è stata rasa al suolo. Non è ancora ufficiale, non credo che i giornali ne parleranno domani.» «Guernica è la patria spirituale dei baschi» borbottò Pierre. «Lo so, e non hanno lasciato nemmeno una pietra intatta...» affermò Miguel. «Guernica diventerà un simbolo, e questo, amico mio, servirà da incoraggiamento a coloro che combattono per la repubblica.» «Il generale Miaja può contare su aerei e carri armati sovietici e, secondo il nostro ambasciatore, le due brigate formate dai miliziani delle Brigate internazionali stanno combattendo con successo.» «E cosa fanno l'Inghilterra e la Francia?» «Secondo la nostra ambasciata a Madrid, preferiscono non intervenire ufficialmente nella guerra di Spagna; non vogliono che il conflitto si espanda su scala internazionale. A loro poco importa che l'Italia e la Germania stiano appoggiando i golpisti fin dal primo momento. Inoltre, Franco gode del

riconoscimento diplomatico.» «Qual è il parere della vostra ambasciata sull'andamento della guerra?» «Dicono che Franco sia in vantaggio.» Miguel diede a Pierre una copia di alcuni dispacci ricevuti da altre ambasciate. Documenti preziosi che servivano all'avamposto sovietico di Buenos Aires per ottenere le congratulazioni dei superiori moscoviti. Amelia li chiamò a tavola, in cucina, dove mangiarono carne alla griglia, avanzata dal pranzo, e un'insalata annaffiata da una bottiglia di vino di Mendoza. Parlarono del più e del meno e, come sempre, Amelia domandò a Miguel se avesse notizie fresche dalla Spagna; lui guardò Pierre prima di rispondere. «Dal 31 marzo sono iniziati i bombardamenti sui Paesi Baschi; ad aver sofferto di più è stata Biscaglia, e... be', non è ufficiale, ma la legione Condor ha distrutto Guernica.» Miguel si rese conto dell'impatto che la notizia aveva avuto su Amelia, che impallidì e allontanò il piatto. «Amelia, siamo in guerra! Sai che queste cose succedono.» Pierre cercò di calmarla, perché stava tremando. «Io sono basca e... tu non sai cosa significa Guernica» replicò lei con un filo di voce. «Tu sei comunista, e la tua patria è il mondo; cosa importa se hai il cognome basco? Vogliamo costruire un mondo senza nazioni, l'hai dimenticato?» «No, non l'ho dimenticato, ma non voglio nemmeno rinnegare chi sono e da dove vengo. Quando ero piccola mio padre mi diceva che essere basca era un'emozione...» A luglio a Buenos Aires cominciò a fare un freddo intenso. Era ormai da un anno che Pierre e Amelia avevano lasciato la Spagna per raggiungere la capitale australe. A lei il tempo trascorso sembrava un'eternità, ma lui pareva soddisfatto e diceva di non provare nostalgia. I numerosi bauli pieni di libri con cui aveva viaggiato rappresentavano la base della sua

attività, che aveva poi ampliato comprando edizioni di volumi argentini e di altri paesi sudamericani. Suo padre, inoltre, gli spediva qualche libro da Parigi. Pierre non faceva grossi affari, ma la libreria gli permetteva di vivere agiatamente e di mantenere la copertura da lui stesso progettata. Amelia continuava a non nutrire alcun sospetto sulla relazione tra Pierre e Natalia finché, un pomeriggio in cui si era trovata con Gloria Hertz nella pasticceria Ideal, l'amica disse una frase che le fece venire mal di stomaco, senza sapere perché. «Non trovi troppo assillante la presenza di Natalia? Le ho già detto che vi dovrebbe lasciar respirare, è sempre in mezzo a voi due, come il terzo incomodo. Faresti bene a tenere un po' le distanze con lei. Io le voglio molto bene, ma non sopporterei che si intromettesse fra me e mio marito.» Amelia non sapeva cosa rispondere e si sfregò nervosamente le mani. «Scusami, non dare importanza a quello che ho detto» cercò di tranquillizzarla Gloria. «Sai che sono molto gelosa, sono troppo innamorata di Martin.» Da quel momento, Amelia cominciò a osservare più attentamente Natalia e soprattutto come Pierre si comportava con lei. Dopo qualche settimana giunse alla conclusione che non aveva niente di cui preoccuparsi. Natalia era una persona che soffriva di solitudine e in loro aveva trovato rifugio. Pierre non sembrava attratto da lei, che, pur essendo una donna elegante, non aveva un fisico molto avvenente. Ma Pierre e Natalia continuavano la loro relazione lontano da sguardi indiscreti e ormai erano diventati veri esperti nel fingere. A fine agosto Pierre ricevette una comunicazione da Mosca: si congratulavano con lui per il lavoro svolto e gli annunciavano che a breve avrebbe ricevuto nuove istruzioni. Un giorno, uscendo da casa di Natalia, Pierre incontrò

davanti al portone Igor Krisov. All'inizio non seppe come reagire, ma il sorriso sornione del russo lo incoraggiò ad abbracciarlo. «Sembra che lei abbia visto un fantasma!» gli disse Krisov. «Proprio così! La credevo a molte migliaia di chilometri da qui, dall'altra parte dell'oceano...» «E io la pensavo innamorato della dolce Amelia» replicò il russo dandogli una pacca sulla spalla. «Be', non è come crede...» cercò di discolparsi Pierre. «Sì, sì, è come credo. Ha un'altra amante, si chiama Natalia Alvear, lavora presso la sede del governo ed è una delle sue agenti. Si sta sacrificando per la causa» disse Krisov ridendo. «Sì, qualcosa del genere. Ma cosa ci fa qui?» «È una lunga storia.» «Una lunga storia? Cosa succede? Poco fa mi hanno fatto i complimenti da Mosca, sono soddisfatti delle informazioni che riesco a ottenere...» «Sì, le avranno detto così. C'è un posto dove possiamo parlare?» «Non so... Andiamo a casa mia, lì potremo stare tranquilli. A quest'ora Amelia sarà a trovare qualche amica.» «Continua a ignorare la verità?» volle sapere Krisov. «La verità? Ah! Ovviamente non sa nulla. Ma è preziosa, davvero preziosa, riesce a farsi aprire tutte le porte, e la gente più importante fa a gara per averla come ospite. Sapevo che era la mossa giusta venire qui con lei.» Arrivati a casa, con sorpresa di Pierre trovarono Amelia. «Ah, pensavo fossi con le tue amiche!» le disse in tono di rimprovero. «Dovevo uscire, ma tu hai scordato che oggi dovevano venire dei clienti a vedere l'edizione del Don Chisciotte del diciottesimo secolo.» «Hai ragione, me l'ero scordato!» si rammaricò Pierre. «Mi sembra di conoscerla» disse Amelia a Krisov con un

sorriso, porgendogli la mano. «In effetti, signorina Garayoa, ci siamo conosciuti a Parigi.» «Sì, il giorno prima di lasciare la Francia...» «Lo dice con nostalgia.» «Sì, ho nostalgia di tutto quello che ho lasciato. Buenos Aires è una città splendida, molto europea, non è difficile sentirsi a proprio agio, ma...» «Ma le mancano la Spagna e la sua famiglia, com'è naturale» concluse per lei Krisov. «Se non ti dispiace, Amelia, devo parlare di affari con il signor Krisov...» «Cercherò di non disturbarvi, ma preferisco restare. Non ho più voglia di uscire di casa.» Pierre fu infastidito dalla decisione di Amelia ma non disse niente, mentre Igor Krisov sembrava apprezzare la presenza di lei. I due uomini rimasero da soli nella sala che fungeva da libreria. «E allora, cosa succede?» volle sapere Pierre. «Ho disertato.» Nel fare questa affermazione, sul volto di Krisov si dipinse una smorfia di dolore. Pierre rimase colpito dalla notizia. Non sapeva cosa fare né cosa dire. «La sorprende, vero?» domandò Krisov. «Sì, in effetti è così. La credevo un comunista convinto» riuscì infine a dire Pierre. «E lo sono. Sono comunista e morirò comunista. Nessuno riuscirà a convincermi che esista un modo migliore di rendere questo mondo un posto abitabile dove tutti siamo uguali e la nostra sorte non dipenda dai capricci del destino. Non c'è una causa più giusta, non ne ho alcun dubbio.» La dichiarazione di Igor stupì ancor di più Pierre. «Allora... non capisco.»

«Due mesi fa sono stato convocato a Mosca. Abbiamo un nuovo capo, il compagno Nikolaj Ivanoviĉ Ežov. È l'uomo che ha sostituito il compagno Genrich Grigor'eviĉ Jagoda al comando dell'NKVD. Senza dubbio, il compagno Ežov non ha nulla da invidiare al compagno Jagoda, quanto a crudeltà.» «Il compagno Jagoda era un uomo capace, anche se credo che negli ultimi tempi si fosse lasciato prendere la mano...» riuscì a dire Pierre. «Sa, erano più di otto anni che non mettevo piede in Russia e, a quanto ho scoperto, Genrich Grigor'eviĉ Jagoda si è comportato peggio di quanto mi avessero raccontato.» «Il compagno Jagoda, in veste di capo dell' NKVD, godeva della totale fiducia del compagno Stalin...» si azzardò a ribattere Pierre. «E non c'è da stupirsi che sia arrivato tanto in alto, fino a ricevere ordini diretti da Stalin e a diventare il suo braccio esecutivo, ma ha finito per bere la sua stessa medicina. Non ha potuto sottrarsi al terrore che aveva creato. L'hanno arrestato, e le assicuro che finirà per confessare quello che Stalin desidera.» «Cosa vuol dire?» «Che è in prigione, sottoposto agli stessi interrogatori che conduceva lui personalmente, insieme ad altri personaggi invisi a Stalin e nemici dichiarati della rivoluzione. Non sarò certo io a dispiacermi per la sorte di Jagoda, dopo i crimini che ha commesso.» «I criminali devono essere giudicati e chi tradisce la rivoluzione è il peggiore di tutti» ribatté Pierre. «Su, Pierre, non faccia l'ingenuo, sa anche lei che nell'Unione Sovietica stanno epurando tutti coloro che Stalin dichiara controrivoluzionari. Ma il fatto è: chi è a tradire la rivoluzione? La risposta, amico mio, è proprio Stalin.» «Ma cosa sta dicendo?» «L'ho scandalizzata? Stalin ha ordinato di assassinare molti compagni della vecchia guardia, quelli che erano in prima linea

nella lotta per la rivoluzione. A un tratto, uomini irreprensibili sono diventati persone scomode a Stalin, che non accetta che nessuno metta in discussione il potere assoluto di cui gode. Qualunque critica o parere contrario ai suoi desideri viene punito con la morte. Avrà sentito parlare dei processi contro presunti controrivoluzionari...» «Sì, contro gente che ha tradito la rivoluzione, che rimpiange i vecchi tempi, borghesi che non si adattano alla nuova situazione, a perdere i loro privilegi.» «La credevo troppo intelligente, Pierre, per bersi tutta questa propaganda. All'inizio anch'io la pensavo così, mi era impossibile accettare che il mondo nuovo che stavamo costruendo si fosse trasformato in una dittatura feroce, dove la vita ha meno valore che ai tempi dello zar.» «Non dica così!» «Sono venuto a sapere di amici scomparsi, bravi bolscevichi che gli agenti dell'NKVD arrestavano all'alba nelle loro case, accusandoli di essere controrivoluzionari. Il compagno Jagoda ha svolto con particolare abilità l'incarico di commissario del popolo per gli Affari interni. Tutti coloro di cui Stalin voleva disfarsi ricevevano la visita degli uomini di Jagoda.» «Molti detenuti hanno confessato di aver cospirato contro l'Unione Sovietica.» «Non so cosa arriverebbe a confessare lei se la torturassero per giorni interi riducendola a uno straccio.» «Ma cosa vuole insinuare? Io non tradirò mai la rivoluzione!» «Nemmeno io tradirò mai i miei ideali, tutto ciò per cui ho combattuto. Sono molto più vecchio di lei, Pierre, potrei essere suo padre, e da ragazzo ero votato alla causa quando ho partecipato alla rivoluzione. Ho ucciso e ho rischiato la vita, perché credevo di contribuire alla creazione di un mondo migliore. È Stalin che ha tradito tutto quello per cui abbiamo combattuto.» «Stia zitto!»

«Se vuole, me ne vado, ma dovrebbe starmi a sentire.» Pierre ascoltava con i pugni chiusi, si sentiva dilaniato. Aveva tanto ammirato Igor Krisov... «Le epurazioni si estendono a tutti gli ambiti, nessuno è immune dal rischio di essere dichiarato sospetto, nemmeno i migliori ufficiali dell'Armata Rossa sono al sicuro. Nikolaj Ivanoviĉ Ežov è sanguinario quanto Jagoda e farà la sua stessa fine, perché Stalin non si fida di nessuno, nemmeno di coloro che ammazzano in suo nome. Ežov sta epurando tutti quelli che hanno lavorato con Jagoda. E sia io sia lei abbiamo lavorato per Jagoda.» «No! Io lavoro per l'NKVD . I nomi non importano, importa l'idea: io servo la rivoluzione.» «Sì, era proprio questo, servire un'idea superiore, ma le cose non stanno così, Pierre, e stiamo lavorando per degli psicopatici. Sa chi è stato fucilato recentemente? Il generale Berzin, un bravo militare assegnato alla Spagna come responsabile del GRU, il direttorato principale per l'informazione. Si chiederà qual è stato il suo delitto, e la risposta è nessuno, assolutamente nessuno. Molti suoi amici, compagni, sono stati fucilati, quelli meno fortunati sono passati prima dalla Lubjanka, altri sono stati deportati nei campi di lavoro forzato dove il grande Stalin vuole rieducarli... Mosca è una città in cui dilaga il terrore, dove nessuno si fida di nessuno, dove si parla a voce bassa, dove gli amici si tradiscono per guadagnare una settimana di vita. Gli intellettuali sono sospetti, e lo sa perché? Perché pensano e perché hanno creduto di potersi esprimere liberamente, che la rivoluzione sia stata fatta per questo. Gli artisti devono seguire le direttive di Stalin; la creatività può essere controrivoluzionaria se non si attiene ai suoi criteri. Lo sa, amico mio, che gli omosessuali sono considerati feccia, esseri perversi di cui la società deve liberarsi?» «Ed è questo che la tocca da vicino?» domandò in modo brutale Pierre.

«Sì, sono omosessuale. Non lo sbandiero ai quattro venti, ma nemmeno lo nascondo, non ne vedo il motivo. Nel mondo nuovo che volevamo costruire nessuno poteva essere discriminato per la razza, per le preferenze sessuali, né tanto meno per il credo...Quando ho combattuto, nel 1917, nessuno mi ha chiesto chi fossi, eravamo tutti compagni con lo stesso sogno e le stesse idee. Essere omosessuale non mi ha impedito di combattere, di patire la fame e il freddo, di uccidere e di rischiare la morte; in effetti sono vivo per miracolo, un proiettile mi ha attraversato una spalla, e mi è rimasta anche una cicatrice in ricordo della ferita di baionetta che mi ha trafitto una gamba.» Igor Krisov si accese una sigaretta senza chiedere il permesso. Non gli importava quello che poteva dirgli Pierre, che appariva sgomento, come se lo stessero picchiando, o come un bambino che d'improvviso scopre che Babbo Natale non esiste. Senza dargli tregua, Krisov continuò a parlare. «A Mosca si respira la paura, quella che impongono uomini come Jagoda e adesso Ežov, meri esecutori delle follie di Stalin. Sua madre è russa, e a quanto so non ha mai visto di buon occhio la rivoluzione, ma certo avrà dei familiari e dei conoscenti in Unione Sovietica. Ha chiesto se sono ancora vivi?» «Per mia madre tutti i rivoluzionari sono pazzi. Lei era una borghese e lavorava come dama di compagnia di un'aristocratica» replicò Pierre in tono vagamente sprezzante. «Quindi preferisce non sapere cosa ne è stato dei suoi familiari in Russia e dà per scontato che si meritino quanto può essere loro successo.. Non mi deluda, la credevo capace di pensare con la sua testa.» «Mi dica cosa vuole.» «Ho incontrato Ežov e mi ha trattato con disprezzo, con disgusto. Sa con quale nomignolo è conosciuto? Il Nano, sì, Ežov è un nano, ma non sarebbe un problema se fosse un altro tipo d'uomo. Mi ha chiesto di dargli la lista di tutti i miei agenti, di

chi collabora con me da tanti anni per l' NKVD . Voleva sapere nomi, indirizzi, coperture, chi sono i loro familiari e amici...Insomma, tutto, assolutamente tutto. E mi ha rimproverato perché i miei rapporti non erano abbastanza minuziosi in merito alla personalità dei miei agenti, perché avrei dovuto essere meno conciso nello spiegare chi sono i nostri collaboratori. In definitiva, pretendeva di conoscere anche i minimi dettagli di tutti coloro che nel corso di questi anni hanno collaborato con l' NKVD, perfino degli agenti "ciechi". Lei sa che controllavo un gruppo di agenti, come lei, ma anche collaboratori occasionali, persone che non avrebbero mai acconsentito a diventare agenti ma erano disposte ad aiutare occasionalmente la causa rivoluzionaria. Su questi ultimi e sugli agenti "ciechi", Mosca non ha ancora informazioni precise, ed era proprio quello che Ežov pretendeva. Si chieda perché. Mi ha annunciato che aveva pensato a una nuova destinazione per me, a Mosca. Gliel'ho letto negli occhi, nei gesti, nel sorriso crudele a malapena dissimulato, che io per lui ero il passato, e che appena avesse ottenuto quello che voleva mi avrebbe spedito in una cella della Lubjanka a subire torture finché non fossi morto. Dovevo guadagnare tempo, perciò gli ho detto che tenevo nella cassaforte di una banca londinese tutte le informazioni sui miei agenti, alcuni dei quali a Mosca sono noti solo con il soprannome e per il posto in cui sono infiltrati. Una banca capitalista è il luogo più sicuro per nascondere segreti comunisti, ho detto al compagno Ežov. Non mi ha creduto, ma nemmeno poteva rischiare, quindi ha cambiato tattica, sfoderando una gentilezza melensa. Mi ha invitato a pranzo, e, d'improvviso, mi ha chiesto di lei. Non ne sono rimasto sorpreso, perché lei ormai è un agente veterano nell' NKVD. In realtà lei ha cominciato a collaborare con noi nell' OGPU. Nemmeno Ežov mette in discussione che lei sia un agente prezioso. La sua copertura come libraio le ha permesso di viaggiare in tutta l'Europa e di stabilire contatti con le élite

intellettuali avvalendosi di collaborazioni importanti, ma soprattutto ottenendo informazioni affidabili. Pochi come lei conoscono la politica spagnola in modo tanto approfondito.» «Cosa voleva sapere il compagno Ežov su di me?» «Niente in particolare, ma il suo interesse per lei mi ha stupito e anche il fatto che chiedesse a me se le sue convinzioni comuniste fossero salde o se invece fosse solo uno dei soliti intellettuali dilettanti. Le dirò il mio parere: lei non piace a Ežov. Più tardi ho incontrato un vecchio compagno, Ivan Vasiliev, che è stato relegato in un dipartimento amministrativo dell'NKVD; era uno degli uomini di fiducia di Jagoda e l'hanno messo da parte, ma almeno è contento di non essere stato fucilato. Questo amico era stato fino a poco tempo prima l'incaricato alla ricezione dei suoi rapporti da Buenos Aires, e mi ha assicurato che lei godeva di enorme favore perché era riuscito a ingaggiare due agenti nel cuore dello Stato, quindi non si spiegava perché Ežov l'avesse presa di mira. Ma sarebbe inutile cercare di comprendere l'anima di un assassino.» «Credo che lei stia cercando di allarmarmi senza alcun fondamento. Mi sembra logico che il compagno Ežov chieda informazioni sui suoi agenti: lei ha il dovere di rendere conto a lui.» «Pierre, lei non è più uno dei miei agenti, ormai vive qui, a Buenos Aires, e ha un altro supervisore. Due giorni dopo l'amico di cui le parlavo mi ha confermato quello che immaginavo: Ežov voleva farmi fuori, mettere a capo della rete un uomo di sua fiducia ed epurare chiunque venisse giudicato "tiepido" dal mio sostituto. Il mio amico mi ha detto che a Ežov non piacciono i borghesi, per quanto siano rivoluzionari, e che anche lei poteva cadere in disgrazia, proprio come me. Ežov mi ha permesso di andare a Londra, ma al mio arrivo ho trovato ad aspettarmi un vecchio collega, un uomo con cui in passato avevo avuto da ridire. Aveva ordini precisi: dovevo consegnargli tutte le informazioni custodite in banca e poi rientrare a Mosca.

Quell'agente non doveva allontanarsi da me né di giorno né di notte, finché non mi avesse imbarcato sull'aereo e, fino a quel momento, si sarebbe installato a casa mia.» «Ma adesso lei è qui...» «Sì, faccio questo mestiere da troppi anni per non aver pensato più di una volta a cosa fare se un giorno avessi dovuto scappare, o perché i servizi segreti britannici avevano scoperto che sono un agente sovietico, o per aver perso la fiducia di Mosca, com'è successo ad altri colleghi. È libero di non credermi, ma le assicuro che molti compagni che hanno combattuto con me nella rivoluzione del 1917 sono morti, vittime del terrore di Stalin. Altri sono stati mandati nei campi di lavoro, e alcuni hanno così paura che non si sono azzardati a parlare con me e mi hanno chiuso la porta in faccia con le lacrime agli occhi, supplicandomi di andarmene per non comprometterli con la mia presenza. E così, ancora prima di lasciare Mosca, ho cominciato a pianificare la mia diserzione. Sono riuscito a liberarmi dell'uomo che Ežov mi aveva messo alle costole con del narcotico in un bicchiere di vino. Stavo per berlo io, visto che sembrava diffidare delle mie buone intenzioni quando gli ho proposto un brindisi per la gloriosa Unione Sovietica e per il compagno Stalin. Appena si è addormentato, l'ho legato al letto e l'ho imbavagliato. Ho passato il resto della notte a contattare i miei agenti e ad avvisarli di tenersi pronti a tutto. All'alba mi sono presentato in banca, ho chiesto la cassetta di sicurezza in cui tenevo i soldi, i passaporti falsi e i documenti e sono andato in Francia, dove, proprio come lei, mi sono imbarcato per questa città. Nella nostra cara Europa ero in pericolo, lì prima o poi sarebbero riusciti a rintracciarmi, ma il Nuovo Mondo è immenso e, come lei ben sa, non abbiamo ancora reti molto solide, perciò l'America Latina è il posto migliore per sparire.» «Dove andrà?» «Questo, amico mio, non glielo dico. Se sono qui è perché conservo ancora intatta parte della mia integrità di uomo e di

bolscevico, e mi sento in dovere di avvisarla che potrebbe essere in pericolo. Ho un debito di lealtà verso i compagni che hanno lavorato con me, che hanno dato il meglio di sé per promuovere la rivoluzione e diffondere l'idea del comunismo. Uomini che, come lei, si sono sacrificati e hanno rinunciato a esistenze agiate perché credono che tutti gli esseri umani siano uguali e meritino le stesse cose. Quando combatti in guerra, sai quanto è importante essere leali e poter contare sulla fedeltà dei compagni. Non sei niente senza di loro, né loro senza di te, perciò ho fatto il mio dovere. Siccome la conosco bene, so che se le avessi mandato una lettera non si sarebbe fidato di me. Le ho già detto che durante la lunga notte della mia partenza mi sono messo in contatto con gli agenti di Londra più impegnati, uomini che prima o poi so che finiranno sulla lista nera di Ežov. Li ho avvertiti della situazione, in modo che possano decidere cosa fare. Prima di imbarcarmi ho mandato un altro agente a casa mia a slegare l'uomo di Ežov. E ora sono qui. Credo che uno di questi giorni riceverà un invito a recarsi a Mosca; se fossi in lei non ci andrei, e tanto meno manderei Amelia Garayoa. A Mosca la conoscono come agente "cieca" ma, a quanto ne so, credono che Amelia sia solo un capriccio piccolo borghese, una scusa che le permette di mantenere una relazione adulterina con una donna. Amelia non vale niente per loro, perciò non la esporrei alle elucubrazioni mentali di Ežov.» «Mi sta dicendo che è venuto fino a Buenos Aires solo per consigliarmi di disertare?» «Io le sto esponendo la situazione, le ho dato informazioni e ora sta a lei decidere come comportarsi. Io ho fatto il mio dovere.» «Non vorrà farmi credere che ha disertato, ma si è sentito in obbligo di venire ad avvisarmi prima di sparire? È puerile» disse Pierre alzando la voce. «Avere una coscienza è un problema e io, amico mio, ne ho una di cui non sono mai riuscito a liberarmi. Sono ateo, ho cancellato dalla mia mente tutte le storie che i miei genitori mi

hanno raccontato da bambino e quelle che il pope si sforzava di farci accettare come unica verità. No, non credo in niente, ma in qualche angolo del mio cervello è rimasto un briciolo di coscienza; le assicuro che mi sarebbe piaciuto farne a meno, perché è la peggior compagna che un uomo possa avere.» Pierre andava avanti e indietro per la stanza. Era fuori di sé, spaventato e irritato al contempo. Non voleva credere a Igor Krisov, ma nemmeno aveva il coraggio di non farlo. D'improvviso i due uomini si accorsero che Amelia era sulla soglia, immobile, pallidissima, con gli occhi che le si andavano riempiendo di lacrime. «Cosa ci fai qui?» le gridò Pierre. «Sei un'impicciona! Stai sempre dove non dovresti!» Amelia non rispose e restò immobile. Igor si alzò e la abbracciò come si fa con i bambini, cercando di trasmetterle conforto e sicurezza. «Su, cara, non pianga! Non c'è niente a cui non si possa rimediare. Da quanto era lì ad ascoltare?» Amelia non riusciva a parlare. Igor la aiutò a sedersi e andò in cucina a prendere un bicchier d'acqua mentre Pierre la rimproverava per avere origliato la conversazione. Alla fine lei riuscì a balbettare che era venuta solo ad avvisarli che la cena era pronta e non era riuscita a evitare di ascoltare parte di quello che aveva detto Igor. «È orribile! Orribile!» ripeteva tra le lacrime. «Ora basta! Smettila di comportarti come una bambina. Non ti ho ingannato, sei stata tu che hai voluto farti ingannare» le diceva Pierre, che non riusciva a tenere a freno la rabbia scatenata dalle rivelazioni di Krisov. «Dovrebbe controllarsi. Vedo che non è preparato per affrontare una crisi; la credevo un uomo un po' più solido» lo redarguì Krisov. «Non mi faccia la predica!» continuò a gridare lui. «Non ne ho alcuna intenzione. Ho fatto il mio dovere, adesso

me ne vado. Faccia come crede... Mi dispiace per lei, Amelia, so che ha abbracciato sinceramente la causa del comunismo, ma non lasci che quell'idea venga svilita dal pessimo uso che ne hanno fatto alcuni uomini. È un'ideologia per cui vale la pena lottare e sacrificarsi. Abbia cura di sé e prenda in mano le redini della sua vita.» «Lei dove va?» chiese Amelia cercando di trattenere le lacrime. «Cerchi di capire, non posso dirglielo. Per la mia sicurezza e per la sua.» «Se ne vada, prima che la denunci!» minacciò Pierre. «So che lo farà; anzi, se rimarrà dalla loro parte, si metterà senz'altro in contatto con l'ambasciata. Se invece decide di pensare a quello che le ho detto, è meglio che non sappiano cosa le ho raccontato. Ma la decisione è sua.» Igor Krisov baciò la mano di Amelia e, senza aggiungere una parola, lasciò la casa, scomparendo tra le prime ombre della sera. Pierre avvertì Amelia. «Non voglio rimproveri.» Lei si strofinò gli occhi, cercando di asciugarsi le lacrime. Era annichilita da quello che aveva sentito. Non sapeva cosa fare né cosa dire, ma era pienamente consapevole che si stava svegliando da un sogno, e la realtà che aveva davanti la atterriva. Rimasero per un bel po' in silenzio, sforzandosi di recuperare la serenità necessaria ad affrontarsi. Fu Pierre a romperlo. «Non c'è motivo che cambi qualcosa, a te non deve importare il mio grado di collaborazione con l'Unione Sovietica. Adesso, però, poiché lo sai, sei esposta a maggiori pericoli. Per la tua stessa sicurezza devi dimenticare quello che hai sentito oggi; non potrai confidarlo a nessuno e non ne parleremo nemmeno tra noi. È meglio.» «È così facile?» domandò Amelia. «Possiamo renderlo facile, dipende da te.»

«Allora, mi dispiace informarti che non sarà possibile, perché non potrò dimenticare quel che ho sentito oggi. Pretendi che non dia importanza al fatto che mi hai ingannata, manipolata, al fatto che sei una spia e che la tua vita, e anche la mia, dipenda da uomini che stanno a Mosca. No, Pierre, mi stai chiedendo la luna.» «Ma deve essere così, altrimenti...» «Altrimenti, cosa? Cosa farai se non accetto quello che vuoi impormi? A chi lo racconterai? Cosa mi faranno?» «Basta, Amelia! Non rendere tutto più difficile di quanto già non sia.» «Non sono io la responsabile di questa situazione! Sei solo tu il colpevole. Mi hai ingannata, Pierre, e lo sai. Ti avrei seguito lo stesso, non mi importava chi fossi, avrei abbandonato mio figlio e mio marito per te anche se fossi stato il demonio in persona. Ti amavo tanto!» «Non mi ami più?» domandò Pierre in tono allarmato. «Be', non lo so, se devo essere sincera. Mi sento svuotata, incapace di provare emozioni. Non ti odio, ma...» A Pierre venne una sorta di attacco di panico. L'unica cosa che non aveva previsto era che Amelia smettesse di amarlo e di essere la ragazza bella e obbediente che gli dimostrava una devozione assoluta. Si era abituato al suo amore e la sola idea di perderla gli sembrava all'improvviso del tutto insopportabile. In quel momento si rese conto di amare quella ragazza che l'aveva seguito fino all'altro capo del mondo e di non poter immaginare il resto della sua vita senza di lei. Si avvicinò ad Amelia e l'abbracciò, ma sentì il corpo di lei irrigidirsi e ritrarsi. «Perdonami, Amelia! Ti supplico di perdonarmi. La mia unica preoccupazione era di non metterti in pericolo...» «No, Pierre, non ti importava. Non so perché mi hai trascinata fin qui, ma so che non è stato perché mi amavi come ti amavo io» replicò lei divincolandosi dal suo abbraccio. Pierre si rese conto che quella sera Amelia aveva smesso di essere una ragazza per diventare una donna, e quella che aveva

davanti era una sconosciuta. «Non dubitare del mio amore. Credi che ti avrei chiesto di abbandonare la famiglia e di venire con me se non ti amassi? Credi che non mi importi dell'opinione dei miei genitori? E nonostante tutto...» «Sono io che ti ho amato e ho creduto che anche tu mi amassi con la stessa passione. Stasera ho scoperto che la nostra relazione si basa su una menzogna e mi chiedo quante altre tu me ne abbia raccontate.» «Non mettere in dubbio quanto sei importante per me!» Amelia si strinse nelle spalle; sentiva che ormai più niente la legava a quell'uomo per cui aveva sacrificato tanto. «Ho bisogno di riflettere, Pierre. Devo decidere cosa fare della mia vita.» «Non ti lascerò mai!» esclamò lui cercando di nuovo di abbracciarla. «Non si tratta solo di quello che vuoi tu, ma anche dei miei desideri, ed è su questo che devo riflettere. Se non ti dispiace dormire sul divano, resterò qui, altrimenti chiederò a Gloria di ospitarmi a casa sua per qualche giorno.» Pierre fu tentato di rifiutarsi, consapevole però che in quel momento non avrebbe potuto vincere nessuna battaglia. «Mi dispiace di averti ferita e spero solo che potrai perdonarmi. Dormirò sul divano e cercherò di non disturbarti con la mia presenza. Ti chiedo solo di ricordarti che ti amo, che non riesco a immaginare la mia vita senza di te.» Amelia lasciò la sala e andò a chiudersi in camera da letto. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì. Con sua sorpresa, si addormentò all'istante. Da quella sera, tra loro si instaurò una routine carica di silenzi. Anche se Pierre si mostrava estremamente rispettoso, cercavano di evitarsi. Una delle rare conversazioni la ebbero quando Amelia gli chiese se avesse denunciato Krisov.

«Era mio dovere segnalare la sua presenza qui: Krisov è un disertore.» Lei lo guardò con un certo disprezzo e Pierre, di malumore, la aggredì. «Se non avessi detto nulla saremmo diventati dei sospetti, complici di un disertore! Non sarò mai un traditore!» «Krisov si è comportato in modo corretto con te» mormorò Amelia. Qualche giorno dopo, Natalia si presentò a casa loro. Era preoccupata perché Pierre aveva smesso di andarla a trovare, persino di telefonarle, e non poté fare a meno di rallegrarsi in cuor suo quando si rese conto della crisi che la coppia stava attraversando in quel momento. «Scusate se mi sono presentata senza avvisare, ma sentivo la vostra mancanza» disse a mo' di saluto quando Amelia aprì la porta. «Entra, Natalia, Pierre è in sala che lavora. Vuoi un tè?» «Con piacere, fa freddo. Come stai? Non sei venuta al pranzo a casa di Gloria e la tua assenza si è notata.» «Come ho detto a lei, sono un po' raffreddata.» Natalia osservò Amelia, che non presentava alcun sintomo, ma non disse nulla; invece, si preoccupò per il saluto glaciale di Pierre. «Oh, non ti aspettavamo! Come mai da queste parti?» «Be', mi mancavate, è da una settimana che non ho più vostre notizie e tutti mi chiedono cosa è successo al "trio inseparabile"...» Pierre non rispose e assunse un'aria infastidita quando Amelia disse che andava in cucina a preparare un po' di tè. «Io non voglio niente, devo lavorare» disse, senza celare il disappunto. «Non mi fermo molto» replicò Natalia, sempre manifestamente più a disagio. Appena Amelia fu uscita dal salotto, Natalia guardò Pierre,

per chiedergli una spiegazione. «Vuoi dirmi cosa succede?» «Niente.» «Come, niente? Ho informazioni importanti da trasmetterti e tu non ti sei messo in contatto con me. E poi... be'... mi manchi» sussurrò. «Stai zitta! Non voglio che tu dica niente qui dentro, ti telefono io.» «Ma quando?» «Appena posso.» Amelia entrò portando un vassoio con una teiera e tre tazze, oltre a una torta di mele che aveva comprato al Gato Negro, un negozio di proprietà di uno spagnolo in cui si poteva trovare di tutto. Nonostante i tentativi di Natalia per animare la conversazione, né Amelia né Pierre sembravano disposti a venirle incontro. La tensione tra loro era evidente, come il fatto che evitassero di parlarsi direttamente. Natalia decise che era meglio lasciarli soli. Prima di andarsene, però, mentre Amelia era andata a prenderle il cappotto, fece segno a Pierre che aveva urgente bisogno di vederlo. Lui annuì senza dire una parola. Quando Natalia fu uscita, Amelia andò a sedersi davanti alla scrivania di Pierre. «Ho preso una decisione e credo che, prima te la dirò, meglio sarà per entrambi. Gli amici chiamano e vogliono sapere perché non accettiamo i loro inviti. Come vedi, persino Natalia si è presentata a casa preoccupata.» «È un'impicciona» ribatté Pierre. «No, non lo è. Ha ragione, era sempre con noi, quindi non capisce cosa sta succedendo. Be', se non ti spiace, credo che sia arrivato il momento di parlare.» Pierre chiuse il registro di contabilità su cui stava lavorando, accingendosi ad ascoltare Amelia. Per niente al mondo avrebbe

voluto contrariarla. In quei giorni si diceva che senza di lei si sarebbe sentito perso. «Torno in Spagna. Il mio paese sta affrontando una terribile guerra civile e non voglio continuare a vivere ignorando quello che sta succedendo laggiù. Non ho più avuto notizie della mia famiglia da quando siamo arrivati e non sopporto l'idea che possa essere successo qualcosa a qualcuno dei miei cari. So che non perdoneranno mai il mio comportamento capriccioso ed egoista ma, anche se decidessero di non parlarmi mai più, mi accontenterò di stare vicino a loro. Dubito che mio marito mi permetterà di vedere mio figlio, ma almeno potrò guardarlo da lontano: ho bisogno di vederlo crescere, correre, ridere, piangere... e forse un giorno potrò avvicinarmi a lui e chiedergli perdono...» «Non puoi andartene» mormorò Pierre con la faccia tesa. «Se ti preoccupi per quello che so, puoi stare tranquillo, non dirò mai a nessuno che sei una spia sovietica. Manterrò il segreto. Non voglio nuocerti, voglio solo tornare a casa.» «Non posso permetterti di andartene...» «E cosa farai? Mi denuncerai all'ambasciata sovietica? Io non sono un'agente.» «Mi dispiace, Amelia, ma lo sei stata senza saperlo. Sei quella che chiamiamo un'agente "cieca", una persona che lavora per noi senza essere a conoscenza del fatto. Ti ho portata qui come copertura per sistemarmi senza destare sospetti. Era più facile che si aprissero le porte a una coppia che aveva abbandonato la famiglia per amore. Mosca ha approvato il mio piano e, di fatto, è stato un successo. Grazie alla tua amica Carla Alessandrini, e ai contatti che ci ha procurato, siamo riusciti a conoscere gente molto utile per la nostra causa. La mia missione era costruire una rete di agenti: di solito ci vuole tempo, ma grazie a te ci sono riuscito in pochi mesi. Hai sentito Igor Krisov, a Mosca apprezzavano i miei rapporti, grazie alle informazioni fornite dai miei agenti.» «Sei un miserabile!» esclamò Amelia.

«È vero. L'unica cosa che posso dirti è che ti amo e che mi dispiace di essermi servito di te. Devi sapere che tu significhi tutto per me. Ti amo, Amelia, molto più di quanto io stesso immaginassi. Non puoi andartene, siamo uniti da una causa, tu fai parte del piano di Mosca a Buenos Aires. Non ti lasceranno andare via così.» «Neanche Mosca riuscirà a impedirmi di andarmene, a meno che non decidano di ammazzarmi» ribatté Amelia alzandosi.

8

Amelia era decisa a lasciare Pierre, anche se non aveva soldi e dipendeva completamente da lui. Quella circostanza le permise di rendersi conto di quanto fosse importante disporre di mezzi propri per riorganizzarsi la vita. Era passata dalla tutela familiare a quella del marito, e poi a quella di Pierre. Non le era mai mancato niente, ma nemmeno aveva mai avuto qualcosa di davvero suo, e capì che per seguire il consiglio di Krisov e prendere in mano la propria vita non aveva altra scelta che mettersi a lavorare. Pierre non le avrebbe dato i soldi per comprare il biglietto di ritorno in Europa, e lei non se la sentiva di chiedere un prestito a qualcuno, perciò decise di cercarsi un impiego. Il giorno dopo la discussione Amelia si presentò alla galleria di Gloria Hertz. «Ho bisogno di lavorare. Puoi aiutarmi?» «Cosa succede? La libreria non va bene?» «Al contrario, va benissimo, meglio di quanto Pierre avesse previsto... Ma qui si tratta di me, voglio essere indipendente e disporre del mio denaro.» Gloria non ci mise molto a capire che quella richiesta era frutto di una crisi tra Amelia e Pierre. «Hai litigato con lui?» indagò Gloria. «Voglio lasciarlo e tornare in Spagna, e per farlo ho bisogno

di lavorare» rispose con semplicità. «Scusa se mi intrometto, ma non si tratterà solo di una burrasca passeggera? Dopo tutto quello che avete passato per stare insieme...» «Voglio tornare nel mio paese. Non riesco a non pensare alla guerra, a come sta mio figlio, a cosa ne è stato della mia famiglia.» «Non ami più Pierre?» «Non lo so... A dire il vero, se mi guardo indietro mi stupisco di aver preso la decisione di fuggire con lui e persino di averlo amato. Ma non posso lamentarmi di quello che ho fatto in passato, non ho il potere di cambiarlo, però posso essere padrona del mio futuro.» Gloria era sorpresa di sentir parlare Amelia in quel modo; d'improvviso le sembrò una donna matura e non la ragazzina ingenua e gentile di cui tutti cercavano la compagnia. «Cosa ne pensa Pierre?» insisté Gloria. «Non vuole che me ne vada, ma è una decisione che non dipende da lui. Ormai ho fatto la mia scelta e mi servono i soldi per tornare a casa.» «Lui... insomma... non vuole aiutarti?» «Pierre non mi renderà le cose facili, quindi devo farcela da sola. Mi serve un lavoro. Puoi aiutarmi a trovarne uno?» «Non è facile... ma forse possiamo prestarti noi i soldi.» «No, non voglio avere debiti. Preferisco lavorare.» «Ma cosa potresti fare?» «Qualunque cosa, non mi importa, voglio solo guadagnare il denaro per comprare il biglietto.» «Parlerò con Martin, magari gli viene in mente qualcosa... ma... ne sei sicura? Tutte le coppie litigano, anch'io a volte ho avuto voglia di separarmi, ma alla fine quello che conta è l'amore. Se in una coppia c'è l'amore, tutto il resto non ha importanza.» «L'hai appena detto, dev'esserci l'amore, e io non ne ho abbastanza per continuare a stare con Pierre. Voglio tornare in

Spagna» insisté Amelia. Trascorse il resto della mattina a girare per la città in cerca di qualche annuncio di lavoro. Quando ormai stava tornando a casa, notò un cartello sulla porta di una pasticceria: CERCASI COMMESSA.

Amelia non ci pensò su due volte ed entrò. Era un locale piccolo, arredato con semplicità e buon gusto, e i proprietari erano una coppia ormai in là con gli anni. Entrambi spagnoli, erano emigrati da un paesino nei dintorni di Lugo alla fine del diciannovesimo secolo e avevano lavorato molto per mettere su quel negozietto, di cui si sentivano orgogliosi. Non avevano figli e, anche se all'inizio la signora Sagrario se ne lamentava, alla fine si era rassegnata ad accettare quelli che chiamava "i disegni del Signore". Al signor José, invece, mancavano davvero, ma non l'aveva mai detto a sua moglie. Il signor José era ammalato, aveva avuto due attacchi di cuore, e l'ultimo aveva avuto conseguenze anche sul cervello lasciandolo paralizzato dal lato sinistro del corpo. La signora Sagrario non aveva abbastanza tempo per prendersi cura sia del marito sia del negozio che dava loro da mangiare, per questo aveva deciso di assumere qualcuno che si occupasse della pasticceria. Le due donne simpatizzarono subito e la signora Sagrario fu felice di sapere che Amelia era una brava cuoca e aveva qualche rudimento di pasticceria. «Potrai aiutarmi anche a preparare le torte e i pasticcini, oltre che a venderli» le disse la donna. Il salario non era molto alto, ma Amelia calcolò che in qualche mese sarebbe riuscita a risparmiare quanto bastava per comprare un biglietto su una qualunque nave diretta in Francia e di lì in Spagna. Questa volta non le importava viaggiare in terza classe, senza lussi né comodità. La signora Sagrario le propose di fermarsi il giorno stesso a lavorare e Amelia accettò di buon grado. Si mise dietro il bancone, e quando non c'erano clienti andava nella cucina

comunicante con il negozio per aiutare la signora Sagrario a impastare le torte. Il signor José le osservava senza dire una parola, ma la signora Sagrario aveva assicurato ad Amelia che era contento che l'avesse assunta. Si stava facendo buio quando Amelia rientrò a casa, dove Pierre, nervoso, la stava aspettando. «Ma dove ti eri cacciata? Mi hai fatto preoccupare! Gloria ha telefonato un attimo fa per dirmi che forse ha un lavoro per te. Vuoi spiegarmi cosa significa questa storia? Non mi hai nemmeno consultato, e fin d'ora ti dico che puoi anche scordartelo.» Ma Amelia non era più la dolce ragazza che Pierre aveva conosciuto. Gli rispose bruscamente, difendendo il cammino appena intrapreso verso l'indipendenza. «Non sono di tua proprietà! Del resto, che io sappia, è un concetto a cui sei contrario, e di certo non puoi possedere un essere umano. Ho deciso di lavorare, di guadagnare dei soldi e comprarmi un biglietto per una qualunque nave che mi porti in Francia. Avevo chiesto a Gloria se sapeva di qualche lavoro, ma ho avuto fortuna e ne ho trovato uno da sola. Ho cominciato oggi.» Pierre la ascoltò in silenzio e ogni parola gli fece l'effetto di un pugno nello stomaco. «Amelia, ti ho chiesto perdono... ti ho spiegato anche quello che, per la tua sicurezza, non dovresti sapere... cos'altro vuoi? Non ti basta che ti ami? Mi dicevi che era l'unica cosa che ti importava...» «La situazione è cambiata, Pierre, io sono cambiata. Non puoi pretendere che, dopo avermi ingannata in quel modo, non ci siano conseguenze. Mi stimi così poco? Certo... sicuramente hai motivi sufficienti per considerarmi un'idiota. Mi hai manipolata come un burattino, ti ho seguito ciecamente, senza riflettere, ma adesso mi sono svegliata. Il tuo amico Krisov mi ha riportata alla realtà, e non credere che incolpi te più di quanto non

incolpi me stessa. Mi disprezzo per tutto quello che ho fatto, perciò devi accettare che disprezzi anche te.» «E i nostri ideali? Non dovevamo cambiare il mondo?» «Erano i tuoi sogni e i tuoi ideali, Pierre, ma non sono più i miei; adesso l'unica cosa che voglio è tornare nel mio paese e stare con i miei. So che né mio padre né mio zio avranno assecondato chi si è ribellato alla repubblica e ho paura per loro, come per Santiago e per mio figlio.» «Non lasciarmi, Amelia» la supplicò Pierre. «Mi dispiace ma, appena possibile, me ne andrò.» Gloria e Martin insistevano per invitarli a cena. Erano preoccupati e convinti che i loro dissapori fossero passeggeri. Amelia non voleva, ma alla fine cedette e, una sera, dopo il lavoro alla pasticceria, raggiunse Pierre a casa degli Hertz. Ad Amelia piaceva parlare con Martin in tedesco. Lui aveva insistito a farla esercitare in quella lingua perché non la dimenticasse. «Hai davvero un ottimo accento» commentò Martin. «Me lo diceva anche la mia amica Yla, ma se non fosse per te avrei finito per dimenticarmelo.» «Sai, ho ricevuto una lettera da un mio zio che è riuscito a raggiungere New York. Se vuoi gli dico di rintracciare Yla e i suoi genitori, ma dovresti darmi qualche dato per capire da dove cominciare a cercarli.» «Non lo so, Martin, mia cugina Laura mi ha detto solo che Herr Itzhak si era arreso all'evidenza del pericolo che Hitler rappresenta per gli ebrei e che stava preparando il viaggio di Yla a New York. Spero tanto che ci sia riuscito!» Parlarono del più e del meno, ma nonostante gli sforzi degli Hertz né Amelia né Pierre erano di buon umore e non riuscivano a nascondere la grande freddezza che c'era tra loro. A poco a poco, Pierre si abituò alla nuova routine imposta da Amelia. Dormivano separati, lui sul divano e lei nella stanza che

avevano condiviso fino alla sera in cui era comparso Igor Krisov. Amelia si alzava all'alba, lasciava la colazione pronta per Pierre e si recava in pasticceria, dove la signora Sagrario le stava insegnando tutto ciò che sapeva sull'arte dolciaria. A volte doveva mandare avanti il negozio da sola, perché il signor José non stava bene o perché, com'era successo un paio di volte, era stato ricoverato in ospedale. Quando rientrava a casa, salutava Pierre, ma senza intrattenersi a chiacchierare con lui, senza nemmeno domandargli come era andata la giornata. In genere arrivava esausta e non vedeva l'ora di riposare. Pierre, dal canto suo, continuava la relazione amorosa con Natalia. Andava a trovarla più spesso da quando lui e Amelia dormivano separati. Raccontò a Natalia che il rapporto con Amelia non andava bene e la donna ne approfittò per riempire tutti gli spazi lasciati liberi dalla spagnola. Natalia rischiava sempre di più sottraendo i documenti dalla sede del governo per dimostrare a Pierre che per lui era disposta a qualunque follia. Miguel López continuava a essere una fonte di informazione privilegiata, perché riusciva a procurarsi i rapporti cifrati degli ambasciatori argentini in tutto il mondo. Il supervisore di Pierre, che lavorava come segretario per l'ambasciatore, si congratulava con lui, assicurandogli che a Mosca erano soddisfatti del suo lavoro. Anche se non gli aveva più detto che doveva recarsi laggiù, Pierre non riusciva a dominare l'ansia all'idea che glielo proponesse: le parole di Krisov avevano fatto presa sul suo animo, terrorizzandolo. Fu soltanto a Natale del 1937 che arrivò qualche novità nella vita di Amelia e di Pierre. Amelia manteneva una corrispondenza con Carla Alessandrini e conservava le sue lettere come un bene prezioso. La diva le raccontava i suoi successi o si dilungava sugli

inconvenienti di uno dei suoi movimentati viaggi, ma soprattutto le dava il suo parere sull'andamento della guerra civile in Spagna, dove Carla aveva alcuni amici. Nella sua ultima missiva, Amelia le aveva chiesto di cercare di mettersi in contatto con sua cugina Laura Garayoa, per avere notizie della sua famiglia. Pierre, senza che Amelia lo sapesse, leggeva quelle lettere quando lei era al lavoro. Temeva di perdere del tutto il controllo su di lei e si giustificava con se stesso dicendo che lo faceva per proteggere Amelia, in caso confidasse alla diva qualcosa che non doveva. Aspettava sempre che Amelia le avesse lette, prima di andare a frugare nel comò in cui le conservava. Gloria e Martin li invitarono a cena il 24 dicembre per festeggiare la vigilia di Natale. Pur essendo ebreo, Martin aveva accettato di buon grado le ricorrenze cattoliche e di solito scherzava con la moglie, dicendole che loro si godevano le feste più di tutti gli altri. Anche se Amelia non aveva alcuna voglia di festeggiare il Natale, non volle offendere gli amici e accettò di partecipare alla cena insieme a Pierre. Gli Hertz avevano invitato una dozzina di persone, tra cui c'era il dottor Max von Schumann, amico d'infanzia di Martin e medico come lui. «Amelia, voglio presentarti Max, il mio migliore amico» disse Martin rivolgendosi ad Amelia in tedesco. Lei rispose nella stessa lingua e i tre iniziarono una conversazione che irritò Pierre, visto che non capiva. «Chi è quel vostro amico?» domandò il francese a Gloria. «Il nostro caro Max... il barone von Schumann. Lui e Martin si conoscono fin da bambini e hanno studiato insieme medicina. Max è chirurgo, il migliore, secondo Martin.» «E così è un aristocratico...» «Sì, è barone e medico militare per tradizione di famiglia. Ma

soprattutto è una gran brava persona.» «E sua moglie?» «Non è ancora sposato, ma lo sarà tra poco. È fidanzato con la figlia di alcuni amici dei suoi genitori, la contessa Ludovica von Waldheim.» «E cosa ci fa a Buenos Aires?» «È venuto a trovare Martin. Max ha fatto l'impossibile per aiutarlo a lasciare la Germania e ha dato una mano alla sua famiglia e a molti altri suoi amici ebrei. Si vogliono bene come fratelli e siamo molto contenti che sia venuto a trovarci.» Pierre non toglieva gli occhi di dosso ad Amelia, che sembrava entusiasta di parlare con il barone von Schumann, e fu infastidito dalla proposta di Gloria di farli seder vicini, a tavola, con la scusa di permettergli di parlare nella sua lingua. Max von Schumann fu colpito da Amelia. Lo commuoveva la sua fragilità, la tristezza che emanava. Parlarono per tutta la sera e Gloria si rallegrò nel vedere la sua amica di buon umore, e soprattutto nel vederla ridere, ma si sentì in dovere di avvisare Amelia. «Era da molto tempo che non ti vedevo così contenta» le disse sottovoce in un momento in cui Max era impegnato con Martin. «Sai, non avevo voglia di venire, ma adesso sono felice di averlo fatto» le confessò Amelia. «Ti piace Max?» le chiese Gloria, sorridendo nel vedere che Amelia arrossiva. «Cosa vuoi insinuare? È molto gentile, simpatico, e... insomma, mi fa sentire bene.» «Sono contenta! Ma... ricordati che sta per sposarsi con la contessa Ludovica von Waldheim. Martin dice che è una ragazza molto affascinante e formano una bella coppia.» Gloria non voleva che Amelia si sentisse attratta da Max e subisse un'altra delusione, pertanto aveva preferito mettere subito la sua amica di fronte alla realtà.

«Grazie, Gloria» rispose Amelia, disturbata dall'avvertimento. «Volevo solo che lo sapessi... insomma... sembrate andare così d'accordo.» «Visto che mi avete fatta sedere accanto a lui perché parlo tedesco, ho cercato di essere gentile.» «Non voglio che tu soffra!» «Non vedo perché dovrei soffrire, dato che sto solo parlando con il tuo ospite» ribatté Amelia con voce tagliente. «Max appartiene a un'antica famiglia prussiana e ha un forte senso del dovere.» «Sì, l'ho capito dalla conversazione che abbiamo avuto durante la cena.» Martin e Max si avvicinarono alle due donne e subito iniziarono a parlare della difficile situazione che stava attraversando la Germania. «È Natale e dovremmo pensare a cose più allegre!» protestò Gloria. «Sono scomparsi tanti amici! A quanto mi ha raccontato Max, il paese si sta lasciando trascinare sempre di più dalla follia di Hitler...» si lamentò Martin. «E Chamberlain sta conducendo una politica di distensione con Hitler e Mussolini, il che fa sentire il Führer sempre più sicuro.» «Ma gli inglesi non possono appoggiare i nazisti» replicò Amelia. «Il fatto è che Chamberlain non vuole problemi, e questo lascia campo libero alle aspirazioni di Hitler» commentò Max. «Come può prestare servizio nell'esercito di Hitler?» domandò Amelia senza nascondere una certa animosità. «Io presto servizio nell'esercito tedesco, non in quello del Führer, come hanno fatto mio padre, mio nonno e il mio bisnonno... La mia è una famiglia di soldati, e il mio dovere è continuare la tradizione.» «Ma lei mi ha detto che odia Hitler!» si lamentò Amelia.

«Ed è così. Nutro un profondo disprezzo nei confronti di quel caporale austriaco e delle sue squinternate manie di grandezza, e temo per la mia patria.» «Allora lasci l'esercito!» lo spronò Amelia. «Sono stato educato a servire il mio paese a prescindere dalle circostanze. Non posso andarmene perché non mi piace Hitler.» «Lei stesso mi ha raccontato le persecuzioni di cui sono vittime gli ebrei...» Max era a disagio e Martin decise di cambiare argomento. «Amelia, a volte ci vediamo obbligati a fare cose che non ci piacciono e a cui, purtroppo, non siamo in grado di sfuggire, per quanto lo desideriamo. La vita di tutti gli uomini è piena di ombre... Lasciamo che il mio amico Max si goda il Natale o non vorrà mai più passarlo con me.» «Mi dispiace, ma provo un odio immenso per Hitler» confessò Amelia. «Il tempo è bellissimo e domani pensavamo di fare un'escursione fuori città; se tu e Pierre volete unirvi a noi, ci farebbe molto piacere...» intervenne Gloria. Amelia e Pierre non parteciparono alla gita organizzata da Gloria, perché, quando rientrarono a casa all'alba trovarono un biglietto sotto la porta. Il supervisore di Pierre gli ordinava di mettersi immediatamente in contatto con lui. Alle nove del mattino seguente Pierre uscì di casa e si diresse verso l'edificio Kavanagh, un grattacielo di trenta piani inaugurato nel 1936, di cui gli abitanti di Buenos Aires si sentivano particolarmente orgogliosi. Sul retro del palazzo, un vicolo dava su calle San Martin, all'altezza della chiesa del Santissimo Sacramento; era quello il luogo dell'appuntamento di Pierre con il suo supervisore. Il russo era seduto nell'ultima fila e sembrava intento a seguire su un breviario la messa che in quel momento un sacerdote stava officiando per una trentina di persone, i volti

delle quali riflettevano la stanchezza dovuta agli eccessi gastronomici della vigilia. Pierre si sedette accanto al supervisore e attese che gli parlasse. «Deve andare a Mosca» gli annunciò il russo. «Quando?» Dalla risposta di Pierre trapelava la paura. «Al più presto. Il ministero della Cultura sta organizzando un congresso di intellettuali europei e statunitensi per far conoscere la gloriosa realtà dell'Unione Sovietica. Lei farà parte del comitato organizzatore. Si tratta di un evento molto importante, sa bene che ci sono gruppi di fascisti che fanno di tutto per screditare la rivoluzione. I nostri migliori alleati sono gli intellettuali europei.» «E io cosa posso fare?» «Lei conosce molti intellettuali francesi, spagnoli e britannici, qualche tedesco... Insomma, si è sempre mosso in questi ambienti. Ci servono informazioni personali su di loro... Tutti hanno un punto debole...» «Punto debole? Non capisco...» «Glielo spiegheranno a Mosca. Si prepari per il viaggio.» «E cosa dirò alla gente di qui?» «I suoi collaboratori dovranno passare a me le informazioni. Quanto ai suoi amici... le verrà in mente qualcosa, in fin dei conti lei ha sempre viaggiato alla ricerca di edizioni speciali.» «E Amelia?» «Verrà con lei.» «Ma potrebbe non essere d'accordo... Ultimamente è molto preoccupata per l'andamento della guerra in Spagna. È in pensiero per la sua famiglia...» «Un comunista non pensa ai propri desideri personali, ma a quello che serve alla rivoluzione, alla nostra causa. Credevo che fosse una buona comunista...» «Lo è! Non ne dubiti!» «Allora non ci saranno problemi con la compagna Garayoa. Partirà anche lei. E sarà onorata di visitare Mosca.»

Quando Pierre tornò a casa, Amelia lo stava aspettando davanti a una tazza di caffè. Prima che dicesse qualcosa, lei riuscì a cogliere l'angoscia nel suo sguardo, il sorriso contratto con cui la salutò. «Cosa ti hanno detto?» domandò, senza aspettare che Pierre si fosse seduto. «Mi hanno ordinato di andare a Mosca. Devo partire tra quindici o venti giorni.» «Krisov ha detto...» «Lo so cos'ha detto quel traditore!» Dal tono di voce di Pierre trapelava la sua preoccupazione, mista a paura. «Perché vogliono che tu ci vada?» «Stanno preparando un congresso di intellettuali, a cui inviteranno scrittori, giornalisti e artisti di tutto il mondo. Gli intellettuali sono i migliori propagandisti della rivoluzione, grazie all'autorità morale di cui godono nel loro paese. A Mosca vogliono che collabori con il comitato che sta organizzando il congresso.» «Certo. Ti mandano via da Buenos Aires, dove hai messo su una rete di spionaggio, e ti spediscono a Mosca a far parte di un comitato... Non andarci, Pierre.» «Non posso rifiutarmi.» «Sì che puoi, digli che non ci andrai e... molla tutto, riprenditi la tua vita.» «La mia vita? A quale vita ti riferisci?» «Digli che non vuoi continuare a fare l'agente, che sei stanco, che hai già fatto fin troppo...» «Credi che sia così facile? No, Amelia, non si entra e si esce quando si vuole. Una volta dentro, devi andare fino in fondo.» «Hai il diritto di vivere un'altra vita.» Pierre la guardò con aria stanca: si sentiva vecchio e amareggiato. «Ho dedicato tutta la mia esistenza al comunismo. Non ho mai avuto altro scopo che servire la rivoluzione. Amelia, non

saprei fare altro.» «Krisov ti ha detto quello che potrebbe succederti se vai a Mosca.» Lui fece spallucce. Non poteva che affrontare il proprio destino. «Vogliono che tu venga con me» mormorò. «Sì, lo immaginavo. Non vogliono lasciare niente in sospeso.» «Ma tu non verrai. Ci ho pensato, farò credere loro che mi accompagnerai, ma il giorno della partenza ti ammalerai, diremo che hai avuto un attacco di appendicite e ti farò ricoverare in ospedale. Dirò che mi raggiungerai più avanti. Ti darò dei soldi per andare in Spagna o dove vuoi; forse saresti più al sicuro dalla tua amica Carla, almeno per un po' di tempo. Ai miei capi di Mosca non farà piacere e...» «E potrebbero decidere di farmi fuori, no?» «Non mi fido a saperti in Spagna, sai che là c'è un comando sovietico che aiuta la repubblica.» «Krisov mi ha dato un consiglio che ho seguito senza indugio fin dal pomeriggio in cui è venuto qui. Adesso sono io ad avere in mano le redini della mia vita.» «Non voglio che ti succeda niente. Ti amo, Amelia. So che non mi credi, che non vuoi perdonarmi, ma lascia che ti aiuti.» «Decido io per me, Pierre.» Nei giorni seguenti Pierre incontrò Natalia e Miguel per annunciare loro il suo viaggio a Mosca e per istruirli su come mettersi in contatto con il supervisore sovietico. Natalia ebbe una crisi di nervi quando Pierre le disse che sarebbe stato lontano per mesi. «Non puoi lasciarmi!» si lamentò «Voglio venire con te!» «Mi piacerebbe, ma non è possibile. Devi capirlo. Non starò via più di cinque o sei mesi...» «E io cosa farò?» «Le stesse cose che fai adesso. Non avrai problemi a passare al supervisore le informazioni che riuscirai a ottenere.» «Non mi fido di nessuno, soltanto di te. E se mi seguono?

Possono sospettare di me se mi vedono con un russo...» «Ti ho spiegato come fare per evitare che ti seguano e ti ho già detto che non è necessario che vi vediate, a meno che non succeda qualche evento straordinario. Quando hai qualcosa di importante da comunicargli, metti sul lato sinistro della finestra il vaso di gerani che ti ho portato. Non spostarlo da lì per tre giorni. Il terzo giorno infila il tuo rapporto tra le pagine di un qualunque giornale e all'ora di pranzo vai a fare una passeggiata al giardino zoologico. Lì, nella zona degli uccelli, siediti su una panchina a osservarli, e quando te ne vai lascia lì il giornale.» «E se lo prende qualcun altro?» «Non succederà.» Non fu facile per Pierre convincere Natalia a continuare a collaborare con i sovietici. L'interesse della donna per la rivoluzione era direttamente proporzionale al coinvolgimento con il suo amante. Mentre Pierre passava più tempo del solito con Natalia, Amelia continuava a lavorare e trascorreva i suoi rari momenti liberi con gli Hertz. Gloria e Martin erano consapevoli dell'attrazione tra Amelia e Max e temevano di incoraggiare una relazione che sapevano impossibile. Amelia era sposata, in Spagna; inoltre, viveva con l'amante. E il loro caro amico Max von Schumann era quel tipo d'uomo che avrebbe preferito morire piuttosto che non rispettare un impegno o macchiare quello che lui definiva l'"onore familiare". Per quanto potesse essere innamorato di Amelia, non avrebbe mai rotto il fidanzamento con la contessa Ludovica von Waldheim, pertanto il rapporto con la giovane spagnola non aveva futuro. Pierre giunse alla stessa conclusione, anche se all'inizio si era preoccupato per l'interesse che il medico tedesco e Amelia evidentemente provavano l'uno per l'altra. Nonostante questo, Pierre cercava di accompagnare Amelia

quando sapeva che doveva incontrare gli Hertz, anche se a volte lei non lo avvisava di quegli incontri. Una sera in cui Pierre era dovuto andare a casa di Natalia perché lei gli aveva telefonato piangendo disperata, Amelia ne approfittò per accettare l'invito di Max. "Parto tra qualche giorno e mi piacerebbe cenare da solo con te, una volta; non so se è corretto o se ti creo problemi con Pierre, ma se potessi..." le aveva chiesto Max. Quando ebbe finito la giornata di lavoro in pasticceria, Amelia salutò la signora Sagrario con premura maggiore del solito. La pasticciera si accorse che gli occhi le brillavano in modo particolare. «Vedo che oggi sei contenta. Forse festeggi qualcosa di speciale con Pierre?» Amelia sorrise, senza rispondere. Non voleva mentire a quella brava donna, che era stata tanto comprensiva quando aveva scoperto che Pierre non era legalmente suo marito, ma nemmeno voleva dirle che aveva un appuntamento con un altro uomo; chissà cosa avrebbe potuto pensare di lei. Max la aspettava al Caffè Tortoni per un aperitivo prima della cena in un ristorante. Se Amelia era nervosa, Max non era da meno. Entrambi sapevano che, con quell'incontro da soli, stavano superando ogni limite a loro consentito. «Sono contento che tu abbia accettato di cenare con me. Parto tra una settimana, non posso prolungare ancora il mio soggiorno a Buenos Aires.» «Lo so, Gloria mi ha detto che devi riprendere servizio nella tua unità.» «Sono un privilegiato, Amelia, ho potuto trascorrere questa lunga vacanza a casa dei miei migliori amici, ma neppure l'influenza della mia famiglia può prolungare la mia permanenza qui» replicò Max ridendo. «Perché sei venuto a Buenos Aires? Solo per vedere Martin?» «Ti sembra strano?»

«Be', in effetti, sì...» «Non andresti a New York se sapessi dove trovare Yla? Mi hai detto che è la migliore amica della tua infanzia, oltre a tua cugina Laura.» «Sì, certo che ci andrei!» «Ecco, io ho fatto la stessa cosa, sono venuto a trovare il mio migliore amico, che ha dovuto lasciare il nostro paese per colpa di quei pazzi. Volevo assicurarmi che stesse bene, che qui... insomma, volevo sapere se era felice. Non è facile abbandonare la propria patria, la casa, gli amici, smettere di respirare l'aria che hai sempre respirato... Tu lo puoi capire, perché sei nella stessa situazione.» Amelia si incupì. Negli ultimi mesi, ogni volta che pensava alla Spagna sentiva contrarsi la bocca dello stomaco e veniva sopraffatta dal dolore. «Ma non rattristiamoci! Non voglio che l'unica occasione che abbiamo di stare soli si trasformi in un mortorio.» «Non preoccuparti, non ho questa intenzione.» Andarono a cena ed entrambi si sforzarono di mantenere la conversazione su binari piacevoli; arrivati al dolce, però, Amelia non poté fare a meno di chiedergli del suo futuro nell'esercito. «Dimmi: come fai a sopportare di stare agli ordini di chi è convinto che ci siano esseri umani di diversa categoria, di chi perseguita gli ebrei e ruba loro tutto ciò che possiedono?» «Ne abbiamo già parlato...» «Sì, ma... fatico a immaginarti agli ordini di Hitler.» «Adesso è cancelliere, ma non lo sarà per sempre, mentre la Germania continuerà a essere la Germania. Io non servo Hitler, ma il mio paese.» «Però è Hitler a comandare in Germania!» «Purtroppo è così, ma cosa vuoi che faccia? Ha vinto le elezioni.» «Comunque...» «Sono un soldato, Amelia, non un politico. Adesso voglio

parlarti di un'altra cosa, so che non dovrei, ma lo farò.» «Per favore, preferirei che...» «Devo farlo, per correttezza. Mi sono innamorato di te e ti giuro che ho fatto l'impossibile perché non succedesse. Non volevo partire senza dirtelo.» «Credo che anche a me sia successa la stessa cosa. Ma non ne sono sicura... mi sento così confusa...» «Credo che tutti e due ci siamo innamorati, ed è la peggior cosa che potesse accadere, visto che per noi non c'è futuro.» «Lo so» mormorò Amelia. «Non posso rompere il fidanzamento con Ludovica... Insomma, le nozze saranno celebrate al mio ritorno. E tu hai sacrificato molto per stare con Pierre... e poi non voglio illuderti, anche se rompessi il fidanzamento con Ludovica, la mia famiglia non ti accetterebbe: per loro saresti sempre una donna sposata.» Amelia si sentì avvampare, come non le succedeva da quando aveva abbandonato la famiglia per scappare con Pierre. «Non intendevo offenderti... mi dispiace... Voglio essere sincero con te, anche a costo di sembrare brutale» si scusò Max. «Meglio parlare chiaro» replicò Amelia tirandosi giù la gonna con un gesto distratto, quasi a volersi coprire dalla vergogna che le provocavano le parole di Max. «Ho bisogno che tu mi capisca, che tu mi dica cosa pensi e se credi che per noi ci sia un'altra via d'uscita.» «No, Max, non c'è. La verità fa male, ma la preferisco alla menzogna. Non avrei potuto sopportare che incoraggiassi le mie illusioni e poi... So chi sono: una donna sposata che ha abbandonato il marito, il figlio e la famiglia, per fuggire con un altro uomo. Agli occhi degli altri questo mi rende una donna poco rispettabile, e mi rendo conto che i tuoi genitori non potrebbero mai accettarmi. E non ti chiederei nemmeno di rompere il fidanzamento con Ludovica, so che, con il tuo senso dell'onore, ne soffriresti al punto di non perdonarmi per averti

fatto mancare alla parola, anche se non me lo diresti mai. Lasciamo perdere. Abbiamo trascorso insieme giorni molto speciali, ma ho sempre saputo che dovevi partire e che non avremmo avuto alcun futuro. Solo che... be', mi hai fatto ritrovare la voglia di vivere. Non vedevo l'ora di uscire dal lavoro per andare dagli Hertz e incontrarti, o speravo che squillasse il telefono e la voce di Gloria mi invitasse a passare il fine settimana in campagna. lì sarò sempre grata per questi giorni, perché, sai, credevo di essere morta.» Lui l'accompagnò a casa. Camminarono l'uno accanto all'altra, senza osare sfiorarsi, in silenzio. «Ci vedremo ancora prima che io parta» le disse Max. «Ma certo, so che Gloria ti sta organizzando una festa d'addio.» Con grande sollievo di Martin e Gloria Hertz, non si rividero più. Amelia non andò alla festa d'addio per Max e si limitò a mandargli un biglietto in cui gli augurava buona fortuna. Quella breve e sfortunata relazione lasciò un segno profondo in Amelia, l'ennesimo. Perse l'allegria che sembrava aver recuperato accanto a Max, e i suoi amici la trovavano sempre più pensierosa e taciturna. Il 5 febbraio era la data prevista per la partenza di Pierre verso Mosca. A mano a mano che quel giorno si avvicinava, lui diventava sempre più nervoso: l'avvertimento di Krisov gli rodeva dentro con tanta forza da togliergli il sonno, perché sognava di essere imprigionato e torturato dai suoi compagni. A volte si svegliava da un incubo gridando, e Amelia accorreva, sollecita, a portargli un bicchiere d'acqua. Lui le afferrava la mano come un bambino che sa di essersi perso. La paura di Pierre risvegliò l'istinto di protezione di Amelia. Cominciò a preoccuparsi per lui come se fosse un figlio. Quando finiva di lavorare, rientrava a casa in fretta per stare con Pierre. Continuavano a non condividere il letto, ma lei si prendeva cura di lui con tenerezza. L'atteggiamento di Amelia era così

sollecito che gli amici di entrambi pensarono che si fossero riconciliati. Lui, un sofisticato uomo di mondo, si lasciava guidare da lei e la guardava pieno di gratitudine; inoltre, sembrava nervoso quando lei non gli era accanto. In quei giorni tra i due si creò un legame speciale. Anche se Pierre aveva ribadito ad Amelia che non sarebbe andata con lui, e insisteva sul piano iniziale di far finta che si ammalasse il giorno prima della partenza, entrambi avevano ufficialmente annunciato a tutti gli amici che avrebbero fatto un viaggio in Europa, durante il quale sarebbero certamente passati da Mosca. Nessuno fu sorpreso che Pierre volesse far visita ai suoi genitori a Parigi, approfittandone per procurarsi le edizioni speciali che poi vendeva così care. Il giorno prima della partenza, Pierre osservava Amelia che si affannava a preparare i bagagli. «Mi mancherai moltissimo» disse sottovoce pensando che lei non sentisse. «Non credo» ribatté Amelia fissandolo. «Certo che mi mancherai, fai parte di me, sei il meglio che mi è capitato nella vita, anche se me ne sono reso conto troppo tardi» si lamentò Pierre. «Non ti mancherò perché verrò con te.» «Ma cosa dici? Non puoi!» «Sì che posso. Non mi sembri in grado di affrontare quello che sta per succedere.» «Cosa vuoi dire?» «Che hai paura, e a ragione. Che le tue grida di notte spaventano anche me. Non sai cosa ti aspetta a Mosca e hai bisogno di avere qualcuno accanto.» «Sì, ho paura di quello che potrebbe succedere. Si raccontano cose terribili sul compagno Ežov.» «Come sul compagno Jagoda.» «Tu non devi correre rischi, ti sei sacrificata fin troppo per me. È la tua occasione per tornare in Spagna, per essere libera.» «Sì, ma non voglio lasciarti solo. Verrò con te, vedremo cosa

succede a Mosca; se Igor Krisov ci ha detto la verità, almeno sarò al tuo fianco. Se non è così, appena potrò farò ritorno in Spagna.» «No, Amelia, non posso chiederti questo.» «Non me lo stai chiedendo tu, l'ho deciso io. Sto solo posticipando di qualche mese i miei piani. Ti ho amato molto, Pierre, e, nonostante il male che mi hai fatto, non sopporto di vederti in questo stato. Domani partirò con te e voglia Dio che Krisov si sia sbagliato e possiamo tornare entrambi...» Il professor Muiňos tacque, assorto nei suoi pensieri. Quel silenzio mi riportò al presente. «Però, la bisnonna!» esclamai, sbalordito, accorgendomi che cominciava a diventare un intercalare. Avevo passato tre giorni in giro con il professor Muiňos, perché era deciso a mostrarmi tutti gli angoli della città frequentati dalla mia bisnonna: non mi aveva lasciato neanche un attimo di respiro. «Bene, siamo arrivati alla fine del percorso, adesso deve andare a Mosca» mi disse il professore con aria assente. «A Mosca?» «Sì, figliolo. Le ho raccontato tutto quello che sapevo sul soggiorno di Amelia Garayoa a Buenos Aires, ma se vuole saperne di più dovrà continuare a indagare, e la prossima tappa è Mosca.» «Pensavo che lei, insomma... potesse raccontarmi la fine della storia.» Il professore rise di gusto, come se avessi detto qualcosa di buffo. «Vedo che nemmeno il mio caro amico, il professor Soler, ha tutte le informazioni su Amelia Garayoa. Giovanotto, lei ha appena cominciato a grattare la superficie della sua storia. Le assicuro che la vita di quella donna è stata appassionante e difficile, soprattutto difficile. Dovrà recarsi a Mosca per proseguire le sue ricerche.»

«A Mosca?» «Esatto, come le ho detto, la sua bisnonna seguì Pierre Comte a Mosca. Non mi guardi con quella faccia. Le ho fissato un appuntamento con la professoressa Tania Kruvkoski. È una donna eccezionale e, a mio parere, una storica indipendente, una vera e propria autorità per quel che concerne la Čeka, il GPU, l'OGPU, l'NKVD e il KGB. La professoressa Kruvkoski è la persona più indicata per raccontarle tutto ciò che riguarda la permanenza di Amelia a Mosca. È una delle poche persone a cui è stato concesso, seppur entro certi limiti, di dare un'occhiata agli archivi del passato, dagli anni Trenta fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Il KGB è lo scheletro su cui è stato costruito il nuovo Stato, quindi neanche lei ha potuto indagare su quello che è successo dopo il 1945. Le ho telefonato proprio stamattina e, anche se non è esattamente entusiasta, ha acconsentito a riceverla, in nome della sua amicizia con il professor Soler e con me. Ma le consiglio di essere prudente nel trattare con lei: Tania Kruvkoski ha un carattere impossibile e, se non si conquista il suo rispetto, non ci penserà due volte a mandarla a quel paese.» Tornai in albergo pensando a cosa fare. Era chiaro che il professor Muiňos considerava conclusi gli incontri con me e inoltre mi aveva fissato un appuntamento a Mosca due giorni dopo. Decisi di telefonare a mia madre, al giornale e a mia zia Marta, in quest'ordine, per sapere se potevo prendere il volo per Mosca. Ero stanco: in meno di una settimana ero stato a Barcellona, a Roma e a Buenos Aires e, se la zia Marta mi dava il permesso, già mi vedevo in volo verso Mosca. Come mi aspettavo, mia madre mi rimproverò. Non la chiamavo da quattro giorni e mi disse che, a causa mia, le era venuto il mal di stomaco. Neppure la conversazione con Pepe, il caporedattore del

giornale, fu molto piacevole. «Guillermo, ma dove ti eri cacciato? Senti, va bene che l'intervista con il professor Soler è stata un colpaccio, ma da lì a credere che ti daranno il Nobel... Ti ho mandato a casa tre libri da recensire urgentemente e non hai dato segni di vita.» «Hai ragione, Pepe, ma non farmi la predica. Senti, i libri possono aspettare, perché ho qualcosa di meglio per il giornale. Ti ho detto che sarei venuto a Buenos Aires, e in questi giorni qui c'è la Fiera del Libro, che, insieme a quella di Guadalajara, in Messico, è una delle più importanti dell'America Latina.» «Ehi, che lusso! E così sei a Buenos Aires.» «Sì, ti manderò dei pezzi sulla fiera, e pure qualche intervista con gli autori, senza che tu debba accollarti la nota spese. Però voglio che me li paghiate meglio delle critiche letterarie, va bene?» Pepe borbottò per un po' ma poi accettò, intimandomi di mandargli il primo articolo entro un'ora. Non gli dissi né sì né no e telefonai alla zia Marta, che come al solito era di malumore. «Ti stai divertendo?» mi chiese con ironia. «Ebbene sì, parecchio. Buenos Aires è una città sconvolgente, dovresti venirci in vacanza.» «Piantala con le idiozie e dimmi cosa stai combinando!» Le feci un riassunto delle ricerche senza entrare troppo nei dettagli, il che la irritò ancora di più; quando le annunciai che dovevo recarmi a Mosca, la sua risposta fu lapidaria: mi attaccò il telefono in faccia. Decisi di prendermi una pausa per riflettere sul da farsi e, nel frattempo, andai a visitare la Fiera del Libro per scrivere gli articoli che avevo promesso. La cosa più difficile sarebbe stata convincere qualche scrittore a concedermi un'intervista. In fin dei conti non ero accreditato in fiera e nessuno mi aspettava. Di certo dovevo avere un angelo custode, perché, appena entrai nella sede espositiva in cui si svolgeva la manifestazione, incontrai due giovani scrittori spagnoli, invitati a partecipare a

una tavola rotonda predisposta dagli organizzatori. Mi appiccicai a loro come una patella, assistendo al dibattito sulle ultime tendenze letterarie, e dopo feci una dozzina di domande a testa, che avrei usato per le interviste; a costo di essere considerato uno scocciatore, non mi staccai da loro neanche per un attimo, e così conobbi quattro scrittori argentini, un editore, un paio di critici letterari e qualche giornalistucolo come me. Quando rientrai in albergo, avevo materiale sufficiente per fare bella figura con il giornale e guadagnare tempo, sempre che alla fine fossi riuscito a partire per Mosca. Ritelefonai a mia zia. «Sai che ore sono qui?» mi chiese urlando. «In realtà no...» Non me lo disse, si limitò a riattaccare. Perciò decisi di svegliare mia madre e chiederle un prestito per andare a Mosca per conto mio, ma neanche lei era disposta ad aiutarmi, visto che continuava a incolparmi per il suo mal di stomaco. "Fine della corsa" mi dissi. In realtà mi dispiaceva moltissimo, perché la vita di Amelia Garayoa stava diventando un'ossessione. Il fatto che fosse la mia bisnonna mi era indifferente, ma si stava rivelando una storia troppo appassionante. Lasciai passare qualche ora per non svegliare nessun altro in Spagna, dopodiché chiamai la signora Laura. La domestica mi fece aspettare quasi dieci minuti al telefono e tirai un sospiro di sollievo quando sentii la voce della signora. «Mi dica, Guillermo, dove si trova?» «A Buenos Aires, ma devo darle una brutta notizia: non posso continuare le ricerche.» «Come? Cos'è successo? Il professor Soler mi ha assicurato che le stanno indicando la strada da seguire e che ha un appuntamento a Mosca.» «È proprio questo il problema. Mia zia Marta non vuole più finanziare le ricerche, pertanto non posso andare a Mosca. Insomma, mi dispiace, volevo solo dirglielo. Domani o

dopodomani tornerò in Spagna e, se non le dispiace, passerò da casa sua per ringraziarla per l'aiuto che mi ha dato. In effetti, senza di lei non sarei riuscito a fare nemmeno un passo.» La signora Laura non sembrava ascoltarmi. Era rimasta in silenzio, anche se dall'altra parte della cornetta riuscivo a sentire il suo respiro agitato. «Signora Laura, mi sente?» «Ma certo. Guillermo, voglio che continui le ricerche.» «Lo desidero anch'io, ma non ho mezzi, perciò...» «Pagherò io le spese.» «Lei?» «Sì, insomma, noi. All'inizio ci era sembrato... Be', non ci aveva fatto una gran buona impressione, ma qualcuno doveva pur scrivere questa storia, e adesso siamo convinte che lei sia la persona adatta. Deve andare avanti. Mi dia un numero di conto e le verseremo il denaro per coprire le spese. A partire da questo momento, ovviamente, lavora per noi; il che significa che la storia che scriverà non la potrà dare né tanto meno far leggere a sua zia Marta e al resto della sua famiglia.» «Ma... io... non so proprio cosa dire... Non mi sembra giusto che paghiate voi le indagini. No, non mi sentirei a mio agio.» «Sciocchezze!» «Signora Laura, non posso accettare. Mi dispiace.» «Guillermo, è stato lei a presentarsi a casa nostra a chiedere aiuto per poter scrivere su Amelia. Ci è costato prendere una decisione, ma da quando ci siamo risolte a fidarci di lei non abbiamo mai smesso di sostenerla... Insomma, come ha detto bene lei, senza di noi non sarebbe riuscito a scoprire niente. Quello che non sa è che, be', ha messo in moto un meccanismo che non si può più fermare. Quindi accetti di lavorare per noi, scriva tutto ciò che apprenderà sulla vita di Amelia Garayoa e poi si dimentichi di lei per sempre.» «Ma perché questo improvviso interesse verso la vita di vostra cugina? Voi di certo saprete cos'è successo...»

«Non faccia domande e risponda: lavorerà per noi, sì o no?» Esitai per qualche secondo. In realtà sebbene non avessi voglia di interrompere le ricerche, non mi faceva piacere accettare i soldi delle Garayoa. «Non lo so, mi lasci riflettere.» «Voglio una risposta adesso» mi incalzò la signora Laura. «D'accordo, accetto.» Scrissi un'e-mail alla zia Marta, annunciandole che avrei continuato le ricerche con un altro "finanziatore" e, come prevedevo, poco dopo mi telefonò in preda alla rabbia. «Tu sei pazzo! Hai perso la testa! Credi che permetterò che uno sconosciuto ti paghi per indagare su mia nonna? Guillermo, facciamola finita con questa storia. La mia idea si è rivelata più complicata del previsto. Torna a Madrid, raccontami cosa hai scoperto e poi deciderò il da farsi, ma, come puoi capire, non posso certo finanziare i tuoi viaggi per il mondo.» «Mi dispiace, zia, ormai con queste persone mi sono impegnato a continuare e a consegnare loro i risultati delle ricerche.» «Ma chi sono queste persone? Non ti permetterò di lavare i panni sporchi della famiglia davanti a chissà chi.» «Su questo sono d'accordo con te, ma Amelia Garayoa, oltre a essere tua nonna, aveva altri parenti che sono interessati quanto te a sapere che fine ha fatto, quindi tutto resterà in famiglia.» Mia madre mi telefonò subito dopo per chiedermi se avevo intenzione di rovinarle l'esistenza. Aveva appena litigato con sua sorella, a causa mia. Ma ormai avevo preso una decisione e cominciavo a pensare che lavorare per la signora Laura e per la signora Melita fosse la cosa migliore. In fin dei conti, senza di loro non avrei fatto nemmeno una mossa giusta. Inoltre, ero stufo di dover mendicare dalla zia Marta ogni centesimo di cui avevo bisogno.

9

Non so che temperatura ci fosse a Mosca nella primavera del 1938, ma in quella del 2009 faceva un freddo glaciale. Ero felice di trovarmi in una città che si preannunciava interessante e misteriosa. La signora Laura mi aveva richiamato dicendomi di aver effettuato un bonifico sul mio conto corrente e di avermi prenotato una stanza all'hotel Metropol, perciò tutto sembrava andare a gonfie vele. "Che lusso!" pensai entrando nella hall dell'albergo. Senza dubbio, la città che avevo intravisto dal finestrino del taxi non aveva niente da invidiare a New York, Parigi o Madrid, anzi, in pochi minuti avevo visto più Maserati e Jaguar che in tutta la mia vita. "Caspita, questi ex comunisti non hanno perso tempo nel mettersi al passo con il capitalismo!" mi dissi. Quando mi fui sistemato in camera, mi misi al lavoro e telefonai alla professoressa Tania Kruvkoski. La professoressa, per fortuna, parlava inglese e ci capimmo subito, ma mi lasciò di stucco quando mi disse che, se preferivo, avremmo potuto parlare spagnolo. Fissammo un appuntamento per il giorno seguente, a casa sua; non era lontana dal Metropol, perciò avrei potuto andarci a piedi. Dedicai il resto della giornata al turismo: visitai la tomba di Lenin e la cattedrale di San Basilio, passeggiai nella piazza Rossa e vagai per le vie animate e piene di bar, ristoranti e negozi di abbigliamento delle marche più sofisticate. Non avevo idea di come fosse Mosca prima del crollo del

regime comunista, ma quello che vedevo davanti a me era la quintessenza del capitalismo. Non sembrava la città che mi aveva descritto mia madre: grigia, povera e triste. È pur vero che lei aveva fatto un tour in Unione Sovietica in piena era comunista e se avesse visitato Mosca ora le sarebbe sembrato di avere le traveggole. L'appartamento in cui viveva la professoressa Kruvkoski era piccolo ma confortevole: in sala le pareti erano tappezzate di scaffali di legno ricolmi di libri, c'erano tende di cretonne, un divano, due poltrone di velluto verde e un tavolo da pranzo ingombro di fogli. La professoressa era proprio come mi aspettavo: una donna avanti con gli anni, in carne, con i capelli bianchi raccolti a crocchia sulla nuca. Mi stupirono il vestito a fiori, quasi giovanile, e lo scialle di lana che portava sulle spalle. Ma dietro quell'aspetto da dolce nonnina si nascondeva una donna energica, decisa a non regalarmi nemmeno un secondo in più del suo tempo. A questo scopo, aveva preparato diversi dossier su Pierre e Amelia. «I miei colleghi, il professor Soler e il professor Muiňos, mi hanno chiesto di spiegarle cos'è successo a Pierre Comte e ad Amelia Garayoa quando sono arrivati a Mosca nel febbraio 1938. Bene, non so se prende appunti...» «Preferirei registrare la conversazione, visto che lei parla un ottimo spagnolo» le risposi, per lusingarla. «Faccia come vuole. Non ho molto tempo. Le dedicherò la mattinata, ma non un minuto di più» mi avvertì. Io annuii e avviai il registratore. «Come saprà, la perversione del compagno Stalin non aveva limiti. Nessuno era al sicuro, a quell'epoca, chiunque era sospetto, e le purghe erano all'ordine del giorno. A poco a poco Stalin aveva tolto di mezzo gli uomini che avevano combattuto in prima linea per la rivoluzione, bolscevichi leali e devoti che furono accusati di tradimento. Nessuno poteva considerarsi escluso. Per la sua politica criminale, Stalin poteva contare su

uomini senza scrupoli, disposti a strisciare e a commettere le peggiori atrocità solo per servirlo, credendo così di guadagnarsi il diritto di vivere, ma molti di quegli esseri immondi fecero una brutta fine, perché Stalin non era grato né riconoscente verso nessuno.» «A giudicare dalla sua età... insomma... pensavo che lei fosse una rivoluzionaria in gioventù.» «Sono una sopravvissuta. Quando cresci sotto un regime di terrore, l'unica cosa a cui aspiri è strappare un giorno di vita in più, e chini la testa; non vedi, non senti, quasi non provi sentimenti, per paura che si accorgano di te. Il terrore annulla ogni umanità e, pur di sopravvivere, si è disposti a lasciar scatenare i peggiori istinti. Ma non si tratta della mia vita, bensì di quella di Comte e Garayoa.» «Sì, scusi l'interruzione, pensavo che lei fosse una comunista convinta.» La professoressa si strinse nelle spalle e mi guardò con un'espressione poco amichevole, quindi decisi di tacere. «La mia famiglia aveva partecipato alla Rivoluzione d'ottobre, ma questo non ci garantì nulla; mio padre e alcuni zii e cugini morirono nei gulag perché a un certo punto osarono dire a voce alta quello che era evidente: il sistema non funzionava. Credevano ancora fermamente che il comunismo avesse le risorse adeguate per costruire un mondo migliore, ma pensavano che chi dirigeva il paese non lo facesse nel modo giusto. Stalin condannò migliaia di contadini a morire di fame... Ma questa è storia, e non è la storia che lei è venuto a cercare. Le ho già detto che, per sopravvivere, si finisce per adattarsi alle circostanze, e nella mia famiglia abbiamo imparato a chinare la testa e a tacere. Possiamo continuare?» «Certo, mi scusi.» Amelia e Pierre erano ospiti a casa della zia Irina, la sorella della madre di lui. Era sposata con un funzionario del ministero degli Esteri, Georgij, un uomo privo di incarichi o ruoli importanti.

Avevano un figlio, Mikhail, giornalista, più giovane di Pierre e sposato con Anushka, una bellezza che lavorava in teatro. La casa aveva due stanze e un piccolo salottino, che diventò la camera da letto di Pierre e Amelia. Il giorno dopo il suo arrivo, Pierre si presentò alla sede dell'NKVD in piazza Dzeržinskij, tristemente nota come la Lubjanka... Non venne accolto da nessun funzionario importante; al contrario, un funzionario di basso livello lo informò che a partire da quel momento era a totale disposizione dell' NKVD e che gli sarebbe stato assegnato un incarico. Nel frattempo, doveva scrivere una relazione dettagliata sulla rete di Krisov, di cui aveva fatto parte, specificando nomi e dati di tutti gli agenti "ciechi" che collaboravano in Europa con l'NKVD . Pierre protestò. Si trovava lì, disse, per aiutare a organizzare un congresso con intellettuali di tutto il mondo. Il funzionario non andò tanto per il sottile e lo minacciò: o eseguiva gli ordini oppure sarebbe stato considerato un traditore. Pierre non osò continuare a discutere e accettò controvoglia di seguire le istruzioni dell'uomo. «Lei lavorerà presso il dipartimento di Identificazione e Archivio, alle dipendenze del compagno Vasiliev.» In quel momento Pierre si ricordò che Igor Krisov gli aveva parlato di un amico caduto in disgrazia, un certo Ivan Vasiliev, e si chiese se fosse la stessa persona. Ivan Vasiliev aveva all'epoca trentacinque anni. Era un uomo alto, magro, molto robusto, e aveva lavorato per il dipartimento estero dell'NKVD fin dalla sua creazione. L'ufficio che ospitava il dipartimento di Identificazione e Archivio era ubicato in uno dei sotterranei della Lubjanka, e per accedervi bisognava scendere una rampa di scale dove non era raro incontrare detenuti che camminavano a testa bassa, consapevoli che da quel luogo raramente si usciva vivi. Vasiliev indicò a Pierre il tavolo dove avrebbe lavorato,

illuminato da una potente lampadina. C'era a malapena lo spazio per muoversi perché enormi archivi coprivano ogni centimetro delle pareti. «Lei era amico di Igor Krisov?» gli domandò Pierre appena si fu seduto. Ivan Vasiliev lo guardò con durezza, rimproverandolo con gli occhi per aver pronunciato quel nome. Poi deglutì e cercò con cura le parole per rispondergli. «So che lei era uno degli agenti del compagno Krisov, un traditore della peggior specie.» Pierre sobbalzò nel sentire la risposta e stava per ribattere, ma con lo sguardo Vasiliev gli intimò di tenere la bocca chiusa. Vasiliev si immerse nelle sue carte e di tanto in tanto si alzava per andare alla scrivania di altri colleghi che come lui lavoravano in silenzio. In una di quelle occasioni, passando accanto alla scrivania di Pierre, fece scivolare un foglietto. Lui, stupito, lo aprì. Non sia stupido e non faccia domande che potrebbero compromettere entrambi. Distrugga subito questo messaggio. Appena possibile le parlerò.

Quando Pierre tornò a casa della zia Irina, nel pomeriggio inoltrato, Amelia lo aspettava impaziente. «Cos'è successo? Perché non hai telefonato per dire che stavi bene?» lo rimproverò in preda all'angoscia, in francese, lingua in cui potevano capirsi anche con gli zii di Pierre. Lui raccontò ad Amelia e agli zii ogni dettaglio della sua giornata, senza tralasciare il suo senso di angoscia e delusione. Quella non era la "patria" a cui aveva dato il meglio di sé. Sua zia Irina lo esortò a parlare più piano. «Non alzare la voce o finiremo tutti alla Lubjanka!» lo rimproverò. «Ma perché? Non si può parlare liberamente?» domandò Amelia con una certa ingenuità. «No, non si può» sentenziò lo zio Georgij.

D'improvviso, Pierre e Amelia si resero conto che il mito per cui si erano tanto sacrificati era un mostro spietato che avrebbe potuto divorarli senza che nessuno riuscisse a muovere un dito per evitarlo. «Quindi ti hanno fatto venire qui con l'inganno» disse lo zio Georgij. «A quanto dice, è evidente» commentò la zia Irina. «Krisov ti aveva avvertito» gli ricordò Amelia. «Chi è Krisov?» volle sapere la zia Irina. «Un uomo per cui ho lavorato...» rispose Pierre. «Il suo supervisore» spiegò Amelia. «Non è il momento dei rimproveri, ma... insomma... fare la spia non è certo un bel lavoro.» La zia Irina non nascondeva il disgusto per quello che aveva fatto suo nipote. «Impicciarsi negli affari degli altri e denunciarli...» «Non ho mai denunciato nessuno!» protestò Pierre. «Il mio unico compito era quello di ottenere informazioni che potessero rivelarsi utili per l'Unione Sovietica e la rivoluzione.» «Pierre non ha fatto niente di male» lo difese Amelia. «Spiare è un atto disonorevole!» insisté la zia Irina. «Su, cara, non agitarti. Tuo nipote è uno dei tanti ingenui che hanno creduto nella rivoluzione; anche noi ci abbiamo creduto e abbiamo fatto del nostro meglio» intervenne lo zio Georgij. «Certo che l'abbiamo fatto, ma Stalin è...» «Zitta! Adesso sei tu l'imprudente. Sai che i muri hanno orecchie, vuoi farci arrestare tutti?» le ricordò lo zio Georgij. La zia Irina tacque e intrecciò le mani per nascondere l'irritazione. Avrebbe preferito non dover ospitare il nipote, ma Olga era la sua unica sorella e la sola speranza nel caso in cui un giorno fossero riusciti a evadere dall'immensa prigione nella quale si stava trasformando la loro patria. Poco dopo arrivò Mikhail e si unì alla conversazione. Il giovane sembrava infastidito dai commenti di Pierre. «State esagerando!» protestò Mikhail in russo. «Certo che ci

sono dei problemi! Stiamo costruendo un nuovo regime, una Russia in cui non ci siano più servi, ma uomini liberi, e dobbiamo imparare a diventare responsabili di noi stessi. Ovviamente si commettono degli errori, ma l'importante è aver intrapreso la strada giusta. Si viveva forse meglio ai tempi dello zar? No, e lo sapete bene.» «Io invece vivevo meglio sotto Nicola II» affermò Irina fissando il figlio con aria di sfida. «Adesso guardati intorno, e non vedrai altro che povertà. La gente muore di fame, non lo vedi? Nemmeno tu, che sei dei loro, hai qualcosa in più degli altri disgraziati di questo paese. Sì, figlio mio, io vivevo meglio ai tempi dello zar.» «Ma tu non rappresenti tutte le persone della Russia, tu eri una borghese privilegiata, mamma: adesso siamo tutti uguali, abbiamo le stesse possibilità.» «La gente muore di fame e scompare nelle carceri per aver protestato; Stalin è peggio dello zar» ribatté Irina. «Se non fossi mia madre...» «Mi denunceresti? Stalin è riuscito a far marcire l'anima della Russia, perché non saresti il primo figlio che denuncia i genitori. Stalin non è certo l'unico colpevole, lui è solo l'abile discepolo di Lenin, che voi considerate un dio. Con lui la dignità umana ha perso ogni valore.» «Basta, Irina! Non voglio sentire simili discussioni in questa casa. E tu, figliolo... un giorno vedrai la realtà per come è, al di là delle tue illusioni e dei tuoi sogni. Sono stato un bolscevico, ho combattuto per la rivoluzione, ma oggi non la riconosco. Me ne sto zitto, perché voglio vivere e non intendo danneggiarti, e perché sono un vigliacco.» «Papà!» «Sì, figlio mio, sono un vigliacco. Ho combattuto per la rivoluzione e non ho avuto paura nemmeno quando ho rischiato la vita. Ma adesso tremo al pensiero che possano portarmi alla Lubjanka per confessare un delitto inesistente com'è successo ad alcuni amici, o che mi mandino in uno di quei

campi di lavoro in Siberia da cui non si torna più.» «Io credo nella rivoluzione» ribadì Mikhail. «E io l'ho fatta, la rivoluzione, ma la Russia di oggi è solo un incubo architettato da Stalin.» «Stalin veglia affinché nessuno si distolga dagli obiettivi della rivoluzione!» gridò Mikhail. Rimasero in silenzio, esausti, senza guardarsi in faccia. Amelia e Pierre erano atterriti da quello che avevano appena sentito. Irina prese la mano di Amelia, cercando di tranquillizzarla. «Non temere, sono discussioni in famiglia. Mikhail ci vuole bene e non alzerebbe mai un dito contro di noi.» Tacquero sentendo il rumore della chiave nella serratura. Anushka tornava dal lavoro e, anche se era sposata con Mikhail, né Irina né Georgij parlavano liberamente in sua presenza. «Uffa! Dalle vostre facce direi che avete litigato di nuovo» disse lei entrando in sala. «I miei genitori sono troppo critici verso la rivoluzione» replicò Mikhail. «Sono anziani e non capiscono che, per non distoglierci dagli obiettivi della rivoluzione, bisogna estirpare i suoi nemici.» Amelia non disse nulla, ma non era sicura che Anushka avesse ragione. Quella notte, mentre tutti dormivano, Amelia si avvicinò a Pierre. Condividevano un materasso sistemato per terra. «Dobbiamo andarcene da qui» gli sussurrò all'orecchio. «Dalla casa dei miei zii?» «Dall'Unione Sovietica. Siamo in pericolo.» «È impossibile. Non ci lasceranno andare via.» «Ci faremo venire in mente qualcosa, ma dobbiamo scappare. Mi sento soffocare. Ho paura.» Pierre le strinse la mano. Lui ne aveva ancora di più. La zia Irina cominciò a dare lezioni di russo ad Amelia. Era

rimasta sorpresa scoprendo la padronanza con la quale la giovane spagnola si esprimeva in quella lingua. «In realtà non ho granché da insegnarti, te la cavi molto bene» le disse. «Pierre è stato un buon maestro» replicò la ragazza. Amelia dimostrò di essere una buona allieva, dotata di una notevole attitudine per le lingue, e inoltre le lezioni la aiutavano a sopportare la situazione. Irina si rivelò una donna piacevole, che vegliava sulla famiglia e si dedicava ai lavori di casa da quando, sei mesi prima, era sopravvissuta a un delicato intervento al cuore. All'inizio di marzo, lo zio Georgij annunciò ad Amelia che aveva trovato un lavoro per lei. «Al ministero c'è un dipartimento dove arrivano da tutto il mondo i giornali e le riviste in cui si parla dell'Unione Sovietica. Lì si leggono gli articoli, si classificano, e quelli che meritano di più vengono tradotti in russo per farli leggere al ministro Molotov.» «Ma io non padroneggio il russo» si schermì Amelia. «Non si tratta di tradurre, ma semplicemente di leggere la stampa spagnola, tedesca e francese, e, se c'è qualcosa che vale la pena, passarlo al capo del dipartimento, il quale lo farà tradurre, benché io sia convinto che potresti farlo anche tu. È un lavoro come un altro; non puoi restare a casa, non sta bene.» «Ma sono straniera...» «Sì, spagnola, e membro del Partito comunista francese. Una rivoluzionaria internazionale» rispose con ironia lo zio Georgij. Amelia non osò rifiutarsi e Pierre, da parte sua, la incoraggiò ad accettare la proposta. «È meglio che lavori. Qui se non fai qualcosa ti considerano subito un sospetto: potrebbero accusarti di essere una controrivoluzionaria. » Così Amelia cominciò a recarsi tutte le mattine al ministero degli Esteri, insieme allo zio Georgij, e rientrava a casa nel pomeriggio inoltrato. All'inizio non si trovò bene, pur

cavandosela egregiamente con la lingua, perché i colleghi di lavoro la guardavano con diffidenza. Il capo del dipartimento le spiegò che non poteva parlare con nessuno del contenuto degli articoli pubblicati sulla stampa straniera e, se ne compariva qualcuno critico verso l'Unione Sovietica, doveva consegnarlo a lui personalmente. Il 13 marzo lo zio Georgij arrivò a casa in preda a una grande agitazione. «Hitler ha annesso l'Austria alla Germania!» annunciò. «Lo so, papà» rispose Mikhail. «Quell'uomo rappresenta un pericolo e qualcuno dovrà fermarlo.» «E saremo noi a farlo?» si informò Anushka. «Può darsi» affermò lo zio Georgij «anche se per ora la nostra politica è quella di osservare senza intervenire.» Quella sera Pierre disse sottovoce ad Amelia di essere riuscito a parlare con Igor Vasiliev. «È successo all'uscita dall'ufficio, abbiamo finto di incontrarci per caso e fatto un pezzo di strada insieme.» «Perché non ne hai parlato a cena?» «Perché non mi fido di Mikhail. Nonostante sia mio cugino, è un fanatico, e Anushka non è molto meglio di lui. Sono membri del partito che possono contare sulla fiducia dei loro superiori.» «E cosa ti ha detto Ivan Vasiliev?» «Mi ha consigliato prudenza. A quanto pare, in questo momento mi stanno osservando e vogliono mettermi alla prova perché non si fidano di me, visto che ero uno degli agenti del compagno Igor Krisov. Vasiliev crede che per un paio di mesi mi terranno nel dipartimento e poi decideranno cosa fare; lui sostiene che la cosa migliore che potrebbe succedermi è che si dimentichino di me.» «Quando pensa che ti lasceranno tornare a Buenos Aires?» Pierre rimase in silenzio e strinse con forza la mano di Amelia prima di rispondere. «Non lo sa, forse mai più.»

«Ma i tuoi genitori possono reclamarti!» «Sanno che ho famiglia qui: la zia Irina, lo zio Georgij... Se i miei genitori protestassero, potrebbero prendersela con i miei zii, per rappresaglia, perciò si aspettano che non lo facciano.» «Pierre, sei un cittadino francese, andiamo all'ambasciata di Francia.» «Non ci lasceranno nemmeno avvicinare; secondo Vasiliev, mi seguono.» «Ma tu non fai niente di male... Cos'altro ti ha detto Vasiliev?» «Che forse mi sottoporranno a un interrogatorio e devo essere preparato; c'è chi non li supera.» «No, Pierre, non possono torturare un cittadino francese. Quanto a me... sono spagnola. Non possono trattenerci contro la nostra volontà. Voglio che ce ne andiamo. Sei venuto come ti hanno chiesto, se avessi cospirato contro l'Unione Sovietica non saremmo qui, dunque non hanno motivo di diffidare. Sono loro che ti hanno ingannato dicendo che avresti partecipato al congresso di intellettuali che avrà luogo in giugno.» «Parla più piano o Mikhail e Anushka ci sentiranno» la pregò Pierre. «Non devi aver paura di loro.» «Invece sì, e anche tu dovresti averne. Non credere che Anushka sia tua amica, lei cerca soltanto di estorcerti informazioni.» Ivan Vasiliev aveva ragione. Un pomeriggio, mentre Pierre stava uscendo dall'ufficio per tornare a casa, gli si avvicinarono due uomini. «Venga con noi, compagno» gli ordinò uno di loro. «Dove?» chiese Pierre tremando. «Le domande le facciamo noi, lei si limiti a obbedire.» Pierre passò tre giorni e tre notti in una cella della Lubjanka senza che nessuno gli dicesse perché si trovava lì. Poi, il quarto

giorno, due uomini lo portarono nella stanza degli interrogatori dove lo aspettava un uomo di bassa statura, ma di corporatura robusta, con i capelli radi e lo sguardo gelido. L'uomo gli indicò una sedia e, senza guardarlo, si mise a leggere alcune carte che erano sul tavolo. A Pierre quei minuti sembrarono eterni. «Compagno Comte, ha la possibilità di rendere le cose facili o difficili.» «Io... io non capisco cosa sta succedendo.» «Ah, no? Invece dovrebbe saperlo. Lei ha lavorato per un traditore.» «Io... io... non sapevo che il compagno Krisov fosse un traditore.» «Davvero? È strano, visto che lui la considerava uno dei suoi migliori agenti; lei era uno degli uomini in cui riponeva la massima fiducia.» «Sì, be', facevo quello che lui mi chiedeva, era il mio supervisore, nient'altro. Non siamo mai stati amici.» «E non le ha mai confidato che intendeva disertare?» «Mai! Come le ho detto, non eravamo amici; inoltre, quando ha disertato, io non lavoravo più ai suoi ordini, mi trovavo già a Buenos Aires.» «Sì, lo so, e so anche che il compagno Krisov è venuto a trovarla. Curioso, no?» «Ho informato il mio supervisore di Buenos Aires della visita di Krisov e di quel che mi aveva detto.» «So anche questo. Un modo per tutelarsi se qualcuno l'avesse vista con Krisov. Avete avuto modo di preparare quello che lei avrebbe detto al suo supervisore.» «Niente affatto! Krisov si è presentato all'improvviso e abbiamo avuto una discussione, l'ho anche chiamato traditore.» «Vogliamo sapere dove si trova il compagno Krisov.» «Non lo so, non me l'ha detto.» «E pretende che le creda? Vediamo: un agente veterano come Krisov scappa e si prende la briga di andare fino in

Argentina solo per dirle che aveva deciso di fuggire? Ci prende per scemi?» «Ma è andata così... lui... insomma, ha detto che si sentiva responsabile dei suoi agenti, di tutti quelli che avevano lavorato con lui. E poi... ha insinuato che il posto migliore per scomparire fosse l'America Latina.» «Il traditore Krisov aveva molti amici tra i seguaci del compagno Trockij.» «Non ne avevo idea, non abbiamo mai parlato di faccende personali, non so chi fossero i suoi amici...» «Compagno Comte, voglio che si rinfreschi la memoria e mi dica dove si trova il traditore Krisov. Sapremo ricompensarla per questa informazione... Altrimenti...» «Ma io non lo so!» «La aiuteremo a ricordarlo.» L'uomo si alzò e uscì dalla stanza, lasciando Pierre tremante. Un minuto dopo entrarono due uomini che lo riportarono nella cella in cui era rimasto rinchiuso nei tre giorni precedenti. Pierre cercò di protestare, ma un forte pugno nello stomaco lo lasciò senza fiato. Pianse accasciato sul freddo pavimento di quella buia cella della Lubjanka. La prima notte che Pierre non fece ritorno a casa degli zii, Amelia attese impaziente fino all'alba; quando non riuscì più a tollerare l'angoscia, andò a svegliare Mikhail. «Tuo cugino non è rientrato.» «E mi svegli per questo? Si starà ubriacando con qualche amico, o amica... i francesi sono fatti così» ribatté Mikhail in tono seccato. «Conosco Pierre e, se non è rientrato, vuol dire che gli è successo qualcosa.» «Non preoccuparti e torna a dormire. Vedrai che quando si farà vedere avrà una buona scusa.» Amelia tornò al materasso su cui dormiva e contò i minuti che passavano, finché sentì alzarsi lo zio Georgij.

«Zio, Pierre non è rientrato, sono preoccupata.» «Io e Irina non abbiamo chiuso occhio pensando a lui. Cercherò di scoprire cos'è successo.» Amelia non voleva andare a lavorare, minacciava di presentarsi alla Lubjanka a chiedere di Pierre, ma la zia Irina la convinse a lasciar perdere. «Non essere incosciente, la cosa migliore che possiamo fare è aspettare.» «Ma non è normale che non sia rientrato!» si lamentò Amelia. «No, non lo è, ma in Russia non c'è più niente di normale. Aspettiamo che Georgij ci dica qualcosa e... be', chiederò anche a Mikhail di cercare di scoprire cos'è successo.» Nel pomeriggio, tornando dal lavoro, Amelia pregava di trovare Pierre a casa degli zii. Ma Irina le disse che non sapeva ancora niente di lui, perciò le due donne si sedettero in silenzio ad aspettare che arrivasse Georgij, il quale però confessò di non essere riuscito a scoprire nulla. Aveva telefonato a un amico il cui cognato lavorava alla Lubjanka, ma appena gli aveva detto di cosa si trattava l'uomo aveva riattaccato intimandogli di non chiamarlo mai più. Mikhail e Anushka arrivarono poco dopo. Lui stupì Amelia dicendole che, a causa del troppo lavoro, non aveva avuto nemmeno il tempo di preoccuparsi per l'assenza di Pierre. «Ma come puoi comportarti in questo modo?» gli urlò Amelia. «Pierre è tuo cugino!» «E perché dovrei preoccuparmi per lui? Ormai è un uomo adulto. Se non è rientrato è perché non vuole. E se ha fatto qualcosa, allora deve accettarne le conseguenze.» Amelia uscì di casa sbattendo la porta. Era decisa a presentarsi alla Lubjanka e a chiedere di Pierre. Lo zio Georgij le andò dietro, cercando di convincerla a essere prudente, altrimenti avrebbe rischiato di mettere nei guai tutti loro. «Famiglie intere sono vittime di rappresaglie perché uno dei

membri è considerato un controrivoluzionario. Li mandano nei campi di lavoro, nelle miniere di sale, perfino in ospedali da cui escono completamente frastornati. Non metterci in pericolo, Amelia, ti prego.» Ma lei non gli diede ascolto e continuò per la sua strada. Camminava in fretta, in preda alla paura e alla rabbia, quando notò un uomo che le si avvicinava. «Per favore, svolti all'angolo e mi segua. Voglio aiutarla.» «Lei chi è?» domandò Amelia sobbalzando. «Ivan Vasiliev. È tutto il pomeriggio che aspetto nei pressi di casa sua, non osavo salire.» Amelia obbedì all'uomo, rammaricandosi di non aver pensato subito di andare da lui. Se c'era qualcuno che poteva dirle dove si trovava Pierre, era Vasiliev. Lo seguì per un buon tratto di strada, fino a un edificio tetro in cui l'uomo entrò. Salì rapidamente le scale che portavano al primo piano. Lì introdusse una chiave in una serratura ed entrò in un appartamento, seguito da Amelia. «Non possiamo stare qui per molto» la avvertì Ivan Vasiliev. «Non è casa sua?» domandò Amelia, stupita. «No, qui abita un amico che adesso è fuori Mosca. Potremo parlare tranquillamente.» «Dov'è Pierre?» «L'hanno arrestato, lo tengono in una cella della Lubjanka.» «Ma perché? Non ha fatto niente. Pierre è un buon comunista.» «Questo lo so, ma non c'è bisogno di essere un cattivo comunista per farsi arrestare. Vogliono Krisov e sono convinti che Pierre sappia dove si trova.» «Ma non lo sa! Non gliel'ha detto.» «Igor Krisov è stato uno dei miei migliori amici, abbiamo combattuto insieme e... be', avevamo un rapporto molto speciale.» Amelia guardò stupita Ivan Vasiliev. Krisov aveva confessato a

Pierre di essere omosessuale, e dalle parole di Vasiliev si deduceva che anche lui poteva esserlo. L'uomo sembrò leggerle nel pensiero. «Non mi fraintenda. Siamo stati buoni amici, nient'altro. Poi lui è partito per Londra. Aveva una copertura perfetta, perché sua nonna era irlandese. Parlava bene l'inglese, così come il francese e il tedesco, era molto portato per le lingue. Pierre mi ha detto che lo è anche lei. Insomma, nonostante la separazione, abbiamo sempre mantenuto vivi l'affetto e l'amicizia, anche se loro credono che ci odiassimo.» «Loro?» «Sì, i capi del dipartimento estero dell' NKVD. Igor diceva che il modo migliore per proteggerci era di farci passare per acerrimi nemici, e per anni abbiamo portato avanti quella farsa. Sono stato io ad avvisarlo che aveva perso la fiducia dei capi.» «Lo so, l'ha detto a Pierre. Perché Krisov è tanto importante?» «Era uno dei principali agenti in Europa e sa troppo: nomi, codici, conti correnti, modus operandi... Temono che venda tutte quelle informazioni a qualcuno.» «Perché?» «Perché sono degli schifosi assassini e loro lo farebbero, perciò pensano che anche gli altri siano capaci delle stesse infamie.» «E chi potrebbe comprare quelle informazioni?» «Chiunque, l'Unione Sovietica ha molti nemici. L'Inghilterra sarebbe disposta a pagare molto per conoscere i nomi degli agenti sovietici che operano sul territorio. Il governo britannico è preoccupato per il successo che il comunismo sta riscuotendo tra i giovani universitari del paese.» «Ma Krisov...» «Igor era disgustato da quello che succede qui, come tutti quelli che hanno un minimo di decenza. Dalla sera alla mattina chiunque può diventare un "nemico del popolo", basta una denuncia, un sospetto. Stanno ammazzando la gente senza

pietà.» «Chi?» «Lo fanno in nome della rivoluzione, per difenderla dai nemici. E non pensi che se la prendano solo con i borghesi; qui nessuno è immune dall'accusa di essere un controrivoluzionario, perseguitano perfino i contadini. Sa quanti mugik sono stati assassinati?» «Chi sono i mugik?» «Gliel'ho detto, contadini, piccoli proprietari che si tengono stretta la terra, rifiutandosi di abbandonarla o di attuare gli stupidi piani dei comitati di partito.» «Cosa faranno a Pierre?» «Lo interrogheranno finché non confesserà quello che vogliono. O magari si convinceranno che non sa niente di Krisov. Nessuno esce vivo dalla Lubjanka.» «Ma Pierre è francese!» «E russo da parte di madre.» «Molta gente è al corrente che siamo qui. A loro non conviene che il mondo sappia che a Mosca le persone scompaiono.» «E chi crederà a una cosa simile? Come può dimostrare che lo tengono alla Lubjanka?» «Lei...» «No, mia cara, assolutamente no! Io negherò di averle detto qualsiasi cosa, e se è necessario dirò che ci siamo trovati in questo appartamento per un incontro galante.» Amelia lo guardò inorridita e capì che Ivan Vasiliev era disposto a tutto pur di sopravvivere: non gli importava chi o cosa avrebbe dovuto sacrificare. «Cosa posso fare?» chiese Amelia in tono disperato. «Niente. Non può fare niente. Con un po' di fortuna, condanneranno Pierre ad andare in qualche campo di lavoro; se non si tratta di molti anni e se riesce a sopravvivere, sarà fortunato.» Rimasero in silenzio. Amelia avrebbe voluto mettersi a

piangere e a gridare, ma si trattenne. «Cosa ne sarà di me?» «Non lo so. Può darsi che si accontentino di Pierre. Nel suo dossier c'è scritto che lei è una comunista entusiasta e un'agente "cieca", quindi si suppone che non sappia niente.» «Non so cosa vogliono, ma di loro so quello che non avrei mai voluto sapere.» «Quando si è giovani, si ha l'arroganza di credere di poter cambiare il mondo e... guardi cosa abbiamo fatto qui: abbiamo trasformato il nostro paese nell'anticamera dell'inferno» cercò di consolarla Ivan Vasiliev. «Hanno tradito la rivoluzione» sentenziò Amelia. «Lo crede davvero? No, Amelia. Lenin e tutti coloro che, come me, l'hanno seguito ciecamente erano convinti che non si potesse fare una rivoluzione senza sangue, che fosse necessario il terrore. La nostra rivoluzione è partita da una premessa: che la vita umana non è niente di straordinario e santificarla è tipico delle religioni, mentre qui abbiamo decretato la morte di Dio.» «Mi arresteranno?» «Non lo so, spero di no. Ma segua il mio consiglio: quando parla con i suoi colleghi di lavoro, finga di essere una comunista fanatica, convinta che bisogna epurare chiunque non esegua alla lettera la volontà di Stalin. Non esprima dubbi, si dimostri convinta che il partito ha sempre ragione.» «Mi permetteranno di andarmene?» «Forse sì, forse no.» «Non mi sta dando una risposta.» «Non ce l'ho.» «Cosa posso fare per Pierre?» «Niente. Nessuno può fare niente per lui.» Si misero d'accordo per vedersi una settimana dopo nello stesso posto. Ivan promise che avrebbe cercato di ottenere qualche notizia su Pierre. Mentre si dirigeva verso casa, Amelia pensava a quello che

avrebbe detto agli zii di Pierre, ma soprattutto a Mikhail e ad Anushka. L'unica cosa certa era che, per nessun motivo, doveva rivelare di aver parlato con Ivan Vasiliev. Quando entrò in casa, la zia Irina stava preparando la cena e lo zio Georgij discuteva con il figlio Mikhail, mentre Anushka si smaltava le unghie fingendo indifferenza. «Dove sei stata?» le chiese Mikhail, senza nascondere l'irritazione. «A fare un giro. Avevo bisogno d'aria.» «Sei andata alla Lubjanka?» insisté lui. «No, ma lo farò domani, qualcuno deve pur cercare di scoprire qualcosa su Pierre.» «Può darsi che lui non sia come credi» replicò Mikhail facendo il misterioso. «Non so cosa vuoi dire...» rispose Amelia. «Magari mio cugino non è un buon comunista e ha tradito il partito.» «Sei pazzo! Non conosci Pierre, sacrificherebbe tutti noi piuttosto che tradire il comunismo.» «Non esserne tanto sicura, Amelia» insisté Mikhail. La zia Irina, sentendo le parole del figlio, si avvicinò indignata. «Mikhail, come osi accusare tuo cugino? Che cosa sai per dire una cosa simile?» domandò la donna. «Niente, non so niente. Era solo una supposizione. L'Unione Sovietica ha molti nemici, mamma, gente che non capisce la portata della nostra rivoluzione. Ma non preoccupiamoci, magari Pierre è dovuto partire per un viaggio e tornerà tra qualche giorno.» «Non è possibile, Mikhail, Pierre non sarebbe mai partito senza dirmelo» affermò Amelia. «Come sei ingenua» intervenne Anushka. «Può anche darsi, ma, sai, credo di conoscere l'uomo per cui ho abbandonato la mia famiglia e mio figlio, e ti assicuro che

Pierre non è un bevitore né tanto meno un uomo che se ne va via di casa se non vi è costretto.» «Magari è proprio così... ma non preoccupiamoci, tornerà» insisté Anushka. «E se così non fosse?» domandò Amelia. Mikhail fece spallucce e andò a sedersi accanto alla moglie. «Mikhail, dov'è Pierre?» domandò la zia Irina piazzandosi davanti al figlio. Lui rimase in silenzio, in dubbio se rispondere oppure no alla madre, e di nuovo si strinse nelle spalle. «Non lo so, mamma.» «È uscito per recarsi al lavoro come ogni giorno, ed è finito alla Lubjanka. Dobbiamo andare a chiedere là. Se è dovuto partire per un viaggio, come dici tu, là ce lo diranno.» Anushka si guardava le unghie, soddisfatta di come si era data lo smalto. Sembrava estranea alla conversazione, tranne nei momenti in cui scambiava un'occhiata con Mikhail; dal suo sguardo era evidente che lo incoraggiava a mantenere quella posizione. «Domani andrò alla Lubjanka. Voglio informazioni su Pierre, voglio vederlo» dichiarò Amelia. «Sarà una fatica inutile, cara Amelia. Non esporti compiendo gesti avventati che potrebbero compromettere il resto della famiglia» replicò Mikhail. «Compromettere? Perché? Per aver chiesto notizie di Pierre? Se vi comprometto per questo, allora lascerò la vostra casa domani stesso. Mi cercherò una stanza, così non dovrete più temere di essere compromessi dalla mia presenza qui.» «Su, Amelia, non essere melodrammatica!» la interruppe Anushka. «Ti ricordo che qui l'attrice sono io, e anche molto brava, tra l'altro. Mikhail ha ragione, se ti presenti alla Lubjanka e chiedi di Pierre puoi crearci dei problemi, in fin dei conti lui ti ha detto che non sa nulla. Cos'altro vuoi?» «Voglio sapere dov'è Pierre.» «Non pensi che possa avere un'altra donna?» insinuò

Mikhail ridendo. Amelia stava per gridargli tutto il suo disprezzo, ma si trattenne. Non poteva rivelare ciò che le aveva raccontato Ivan Vasiliev, perciò strinse i pugni fino a farsi male. Qualunque indiscrezione poteva costare cara a Vasiliev, ma anche a lei e a Pierre. Invece, era certa che Mikhail non avrebbe esitato ad accusarla di chissà cosa, facendola passare per una "nemica del popolo". Si stupiva che non avesse ancora denunciato Irina e Georgij, visto che in quei giorni era normale che i figli denunciassero le "deviazioni" dei genitori. Non di rado la polizia faceva irruzione in una fabbrica, in una casa, in qualunque posto, per arrestare qualcuno denunciato da un familiare, da un amico, dalla moglie, dal marito o dall'amante. In casa degli zii di Pierre si parlava ancora con insolita libertà, ma Amelia pensò che fosse solo questione di tempo prima che Mikhail o Anushka li denunciassero. Pertanto Amelia deglutì e in cuor suo si odiò per non aver detto quello che pensava. «Figliola, è meglio che resti qui, è quello che vorrebbe Pierre. E sta' tranquilla per noi, non ci dai alcun fastidio» ribadì la zia Irina. «La ringrazio e, viste le circostanze, considerato che sto lavorando, contribuirò alle spese della casa.» «Non preoccuparti per questo» disse lo zio Georgij. «Amelia ha ragione, deve contribuire, in fin dei conti lavora anche lei. Sai, mia cara, sembri più furba di quello che si direbbe a prima vista» concluse Anushka.

10

Con l'assenza di Pierre, le giornate cominciarono a sembrare eterne. Amelia imparò a nascondere i propri sentimenti, a fingere in presenza di Mikhail e Anushka. Non esprimeva mai il suo parere nelle discussioni che Irina e Georgij intavolavano con il figlio Mikhail. Restava in disparte, come se non le interessasse quanto succedeva intorno a lei. Cercava anche di non cedere alle provocazioni di Anushka, che non nutriva alcuna fiducia in lei. Una settimana dopo si recò all'incontro con Ivan Vasiliev. Lui sembrava più inquieto della volta precedente. «Sono venuto perché temevo che altrimenti avrebbe cercato di mettersi in contatto con me, ma devo dirle che non ci vedremo più. Credo che la sorveglino, e forse tengono d'occhio anche me.» «Come lo sa?» «Dimentica che lavoro alla Lubjanka? Ho degli amici, ascolto conversazioni, leggo documenti... Qualche giorno fa hanno chiesto il suo dossier, forse Pierre ha detto qualcosa su di lei.» «Non c'è niente da dire, io non sono mai stata al corrente delle sue attività, ho scoperto per caso che era un agente.» «Alla Lubjanka la gente è capace di confessare qualunque cosa.» «Mi dica, cosa sa di Pierre?» «Non molto di più di quello che le ho detto la settimana scorsa. Lo interrogano, lo riportano in cella, lo interrogano ancora... E continueranno così finché non confesserà quello che vogliono.» «Non può dire quello che non sa. Krisov non gli ha rivelato dove pensava di nascondersi.»

«La verità non ha alcuna importanza, continueranno a interrogarlo finché non si saranno stancati.» «Cosa succederebbe se mi presentassi alla Lubjanka a chiedere notizie di Pierre?» «Potrebbero arrestarla.» «Lei è riuscito a vederlo?» «No, e non ci ho nemmeno provato. So... insomma, immagino che lo stiano torturando e non dev'essere in buone condizioni. Adesso dobbiamo andarcene. Esca lei per prima, io resterò qui ancora un po'.» «Quando la rivedrò?» «Mai più.» «Ma...» «Ho già corso troppi rischi, non posso fare di più. Se le cose dovessero cambiare, so dove trovarla.» Pierre cercava di ripararsi la testa con le mani nel vano tentativo di evitare il manganello di gomma che il suo aguzzino usava con tanta precisione. Quanti colpi aveva già ricevuto quella mattina? L'uomo che lo interrogava sembrava particolarmente furioso. L'alito gli puzzava di vodka, e quell'odore si mescolava al fetore che emanavano le sue ascelle ogni volta che alzava il braccio per colpirlo. «Parla, cane, parla!» gli urlò. Ma Pierre non aveva niente da dire e non poteva fare altro che emettere urla di dolore che persino a lui sembravano disumane. Quando il torturatore si fu stancato di picchiarlo con il manganello di gomma, lo spinse a terra e gli infilò un lungo straccio tra i denti; poi ne afferrò le estremità e, facendogliele passare dietro la schiena, gliele legò alle caviglie. Non era la prima volta che lo sottoponevano a quella tortura che lo trasformava in una ruota, con la schiena inarcata all'indietro, mentre i suoi aguzzini lo prendevano

selvaggiamente a calci. Se avesse saputo dove si trovava Krisov lo avrebbe confessato; in effetti avrebbe detto qualunque cosa, ma niente di ciò che sapeva interessava a quegli uomini, a loro importava solo scoprire dove fosse Krisov. Il nome di lui gli martellava le tempie e malediceva il giorno in cui l'aveva incontrato. Malediceva anche se stesso per aver creduto nel comunismo. Da due giorni non beveva una goccia d'acqua e aveva la gola secca e la lingua gonfia. Non era la prima volta che lo punivano lasciandolo in quel modo. I carcerieri si divertivano particolarmente a far mangiare acciughe salate del mare di Azov alle vittime per poi negare loro l'acqua per diversi giorni. Non sapeva se era notte o giorno, né che giorno fosse, né da quanto tempo stava subendo quell'inferno, ma aveva capito l'eternità del tempo ora che desiderava con ansia la morte. Pregava, sì, pregava che uno dei colpi del suo torturatore gli facesse perdere conoscenza per non svegliarsi mai più. All'inizio pensava ad Amelia e si rammaricava di averla convinta ad abbracciare una causa che si era rivelata un incubo infernale. Ma ormai non gli importava più di Amelia, né dei suoi zii, né dei suoi genitori, né di nessun altro che conoscesse. L'unica cosa che desiderava era smettere di soffrire. Lo zio Georgij dava ad Amelia notizie sull'andamento della guerra in Spagna. Disponeva di informazioni di prima mano, visto che l'Unione Sovietica aiutava i repubblicani. E così, alla fine di aprile, Amelia venne a sapere che Franco aveva sferrato una grande offensiva nella valle dell'Ebro, fino al Mediterraneo, dividendo in due il territorio controllato dalle truppe della repubblica. Inoltre, lo zio Georgij le spiegò che, purtroppo, Franco era in netto vantaggio, potendo disporre di uno spiegamento di forze superiore a quello delle truppe repubblicane. Amelia si chiedeva che fine avessero fatto i suoi genitori, i

suoi zii e soprattutto suo figlio. Javier era il protagonista di tutti i suoi incubi, in cui lo vedeva morire schiacciato sotto i crolli delle case. Ogni tanto scriveva lunghe lettere a sua cugina Laura e le affidava allo zio Georgij, nella speranza che lui potesse farle arrivare nella Madrid assediata dalla guerra. Odiava con tutte le sue forze Franco e coloro che si erano ribellati alla repubblica, e al contempo nutriva un freddo disprezzo nei confronti del comunismo. Lei, che con tanto ardore e tanta innocenza aveva professato quella fede, che aveva abbandonato suo figlio, suo marito e la sua famiglia per Pierre, certo, ma anche perché era convinta di essere destinata a contribuire alla genesi di una nuova società, aveva scoperto la crudeltà di chi si diceva comunista. E lei non era come Krisov, non riusciva a separare gli uomini dalle idee, perché queste ultime le si erano presentate con una brutalità inimmaginabile attraverso fanatici come Mikhail o Anushka, o alcuni suoi colleghi di lavoro. Ma il peggio era stato vedere con i propri occhi che il paradiso promesso dalla rivoluzione non era altro che un incubo. Anche se era decisa ad andarsene, si sentiva trattenuta dalla situazione di Pierre. Non poteva fare niente per lui, ma lasciare Mosca le sembrava un tradimento imperdonabile verso un uomo che si trovava alla Lubjanka. A giugno fu convocata nell'ufficio del supervisore del suo dipartimento. Amelia, spaventata, si presentò chiedendosi quale errore potesse avere commesso. L'uomo non la invitò a sedersi, si limitò a darle un ordine. «Compagna Garayoa, come lei sa, era previsto un grande congresso di intellettuali a Mosca, che è stato rinviato a settembre. Arriveranno decine e decine di giornalisti, scrittori e artisti di tutto il mondo, e vogliamo che abbiano un'immagine reale dell'Unione Sovietica. Li porteremo a visitare le fabbriche, parleranno con i nostri artisti, viaggeranno per tutto il paese, in totale libertà, ma guidati da persone competenti che possano

spiegare e mostrare loro i risultati della rivoluzione. La compagna Anna Nikolaievna Kornilova ha parlato bene di lei. Come saprà, la compagna Kornilova fa parte del comitato organizzatore del congresso e ha chiesto che lei entri nel gruppo di compagni che collaboreranno con il comitato, di qualunque cosa ci sia bisogno: accompagnare i nostri ospiti, fornire loro le informazioni richieste, mostrare tutto ciò che vogliono vedere... naturalmente, previo consenso del comitato. Lei parla spagnolo, francese e tedesco, e il suo russo è accettabile, quindi è adatta per il lavoro. Sarà alle dipendenze della compagna Kornilova. Si presenti domani nel suo ufficio al ministero della Cultura.» Amelia annuiva con partecipazione alle parole dell'uomo, senza far trapelare lo stupore provocatole dalla notizia che Anushka era una persona influente al ministero della Cultura. Pensava che fosse un'attrice che godeva della totale fiducia del partito e niente di più, ma in realtà non la conosceva affatto. Inoltre, non avrebbe mai immaginato che potesse intercedere per lei. Perché l'aveva fatto? Quando tornò a casa, riferì alla zia Irina l'incarico che aveva ricevuto grazie ad Anushka. «È una persona molto particolare. Neanch'io so esattamente cosa faccia. Credo che una volta fosse un'attrice, ma adesso fa la regista teatrale o qualcosa del genere. Mi sembra che lavori presso un dipartimento che si occupa di decidere le opere che possiamo vedere. Sono contenta che abbia parlato in tuo favore, se l'ha fatto si è esposta per te.» Amelia pensò che forse Anushka non era una persona così cattiva come supponeva, ma comunque non riusciva a superare il senso di diffidenza. Quella sera, Mikhail e Anushka sembravano di buon umore, quasi contenti. Amelia ringraziò Anushka di essere intervenuta in suo favore, ma la giovane minimizzò il suo gesto. «Il congresso è molto importante, vogliamo che gli

intellettuali abbiano la migliore visione possibile dell'Unione Sovietica. Ci serve gente con cui si sentano a loro agio, che parli la loro lingua. Tu sarai bravissima. Domani in ufficio ti darò i dettagli, non mi piace parlare di lavoro a casa.» A metà settembre Amelia si trovava all'aeroporto insieme a un gruppo di funzionari in attesa che atterrassero i voli su cui viaggiavano i partecipanti al congresso. Era nervosa, non vedeva l'ora di incontrare quegli sconosciuti che per lei rappresentavano una porta aperta sul mondo che aveva abbandonato, ma in cui era ansiosa di tornare. Il congresso fu inaugurato il 20 settembre alla presenza di alcuni ministri e di vari membri del Comitato centrale. Era previsto che per quindici giorni gli intellettuali europei e russi dissertassero di musica, arte, teatro eccetera. Gli ospiti stranieri avrebbero assistito a rappresentazioni di teatro e di danza, e avrebbero visitato fabbriche e fattorie modello. Tra i partecipanti si vociferava che da un momento all'altro Stalin avrebbe potuto fare la sua comparsa. Ad Amelia fu affidato il compito di accompagnare un gruppo di giornalisti a un incontro con i colleghi russi, per discutere dei limiti della libertà di espressione. Mentre si dirigeva con loro alla sala dove avrebbe avuto luogo l'incontro, si sentì chiamare per nome. «Ma lei è... Amelia? Amelia Garayoa?» Lei si voltò e si trovò di fronte un uomo che all'inizio non riconobbe. Le parlava in francese e la guardava stupito. «Sono Albert James, ci siamo conosciuti a Parigi, alla Coupole. Ci ha presentati Jean Deuville, e lei era insieme a Pierre Comte. Si ricorda?» «Sì, adesso sì, mi scusi se non l'ho riconosciuta subito, ma lei è l'ultima persona che pensavo di incontrare qui» replicò Amelia. «Be', neanch'io avrei mai pensato di vederla a Mosca, tanto meno alle dipendenze dei sovietici. Ha già visto Jean Deuville?»

«No, non sapevo che fosse invitato al congresso.» «Be', è un poeta, per di più comunista, non poteva mancare. Ma mi dica: e Pierre? È qui con lei?» Amelia impallidì. Non sapeva cosa rispondere. Aveva notato gli sguardi di alcuni giornalisti, ma soprattutto quelli dei funzionari sovietici, molto attenti alla conversazione che stava intrattenendo con Albert James. «Sì, è qui.» «Stupendo, suppongo che lo incontreremo. Oltre a Jean, ci sono diversi amici di Pierre invitati al congresso.» Nel corso dell'incontro tra giornalisti russi ed europei, Albert James si dimostrò particolarmente combattivo. Al contrario dei suoi colleghi sovietici, favorevoli all'interventismo dello Stato in veste di garante degli interessi generali nell'ambito dei mezzi di comunicazione, Albert James difendeva la libertà di espressione senza limiti né tutele. Le sue posizioni erano scomode per i sovietici e a un certo punto il dibattito assunse toni accesi. Quando la seduta fu terminata, Albert James si avvicinò ad Amelia, che non gli aveva mai tolto gli occhi di dosso. «Con chi è d'accordo, con loro o con me?» le domandò lui, consapevole di metterla in difficoltà. «Preferisco l'assoluta libertà» rispose lei, pur sapendo che gli altri funzionari sovietici non si perdevano una parola di quello che stavano dicendo. «Meno male! Non l'hanno ancora rovinata del tutto.» «Andiamo, signor James, è ora di pranzo» lo incalzò lei «e dopo il dibattito continua.» «Uffa, per me è troppo! Preferirei farmi un giro per Mosca. Ho già parlato abbastanza oggi. Perché non mi accompagna?» «Perché adesso non è previsto che né lei né nessun altro se ne vada in giro per la città. Bisogna continuare il dibattito dopo pranzo e lei deve seguire il programma» rispose Amelia. «Non sia così rigida... capirà che venire a Mosca era

un'occasione che non potevo lasciarmi scappare, ma questo congresso mi annoia, ho già capito che non servirà a niente.» Quella sera Amelia rivide Albert James a teatro, durante la rappresentazione del Lago dei cigni. Albert era insieme a Jean Deuville e i due uomini la stavano cercando. Jean la abbracciò e la baciò. Era contento di vederla, ma soprattutto voleva notizie del suo amico. «Dov'è Pierre? Voglio vederlo al più presto. Appena finisce lo spettacolo possiamo accompagnarti a casa e fargli una sorpresa» propose Jean. «No, non è possibile. Lo vedrete in un altro momento» replicò Amelia, a disagio. «Voglio fargli una sorpresa» insisté Jean. «Oggi no, Jean, magari domani.» Alcuni funzionari avevano notato la familiarità con cui trattava i due uomini, perciò, a metà del balletto, Amelia sentì una mano sulla spalla, e quando si voltò vide Anushka che le sussurrò di seguirla fuori dal palco. «Chi sono quegli uomini?» le domandò. «Albert James è un giornalista e Jean Deuville un poeta, ma tu dovresti saperlo, li avete invitati voi.» «Perché li conosci?» «Sono amici di Pierre, li ho incontrati a Parigi. Insistono per vederlo. Ma non solo loro; tra i partecipanti al congresso ci sono altre persone che lo conoscono e, vedendomi, mi chiedono tutti di lui.» Anushka si rammaricò di aver scelto Amelia per quel lavoro, visto che la sua presenza si stava rivelando un problema. «Tu come hai risposto?» «Vogliono accompagnarmi a casa per fare una sorpresa a Pierre, ma gli ho detto che oggi non è possibile, che lo vedranno in un altro momento.» E, pronunciando quelle parole, Amelia si rese conto che la situazione poteva rivelarsi molto scomoda per i sovietici se gli

amici di Pierre avessero insistito a vederlo senza riuscirci. «Di' loro che è fuori Mosca, che è tornato a Buenos Aires» le ordinò Anushka. «Mi dispiace, ormai ho detto che era qui e che potranno vederlo in un altro momento, non mi è venuto in mente nient'altro» rispose Amelia, cercando di sembrare innocente. Quando tornò nel suo palco, Amelia fissò sfacciatamente Albert James cercando di attirare la sua attenzione. Lui si accorse del suo sguardo e le sorrise; poco prima che finisse lo spettacolo le si avvicinò. Anushka, che non li perdeva di vista, accorse immediatamente. Non sapeva perché, ma i rapporti di Amelia con quell'uomo la inquietavano. «Ha cambiato idea e mi farà vedere Mosca, anche se di notte?» «Impossibile, domattina i lavori iniziano presto.» «Noto qualcosa di strano in lei, Amelia, e non so di cosa si tratta...» Lei lo guardava cercando di comunicare senza parole, ma Albert James non riusciva a capire quello che voleva dirgli. «È felice?» le chiese in modo spontaneo. «No, non lo sono.» Lui rimase interdetto da quella risposta e non seppe cosa dire. Anushka li ascoltava, seccata. Come Amelia, parlava francese alla perfezione, quindi non si era persa nemmeno un dettaglio della conversazione e decise di intervenire. «Ma cosa dice la nostra cara Amelia! Certo che è felice, tutti noi le vogliamo bene.» Albert James si voltò a guardare chi li avesse interrotti e vide una donna giovane e attraente, bionda, alta e magra, con immensi occhi verdi. Subito capì che si trattava di una delle organizzatrici del convegno. «Ah! Lei è...» «Anna Nikolaievna Kornilova, direttrice del dipartimento delle Arti del ministero della Cultura.»

«Nonché attrice e regista teatrale» aggiunse Amelia. «Ho sentito parlare di lei! Credo che domani sera assisteremo a un'opera da lei diretta, o mi sbaglio?» si informò Albert James. «Proprio così, per me sarà un onore mostrarvi il mio lavoro.» «Čechov, mi sembra...» «Esatto. E adesso che lo spettacolo è finito, noi dobbiamo tornare al lavoro, dobbiamo riaccompagnarvi in albergo. Amelia, credo che il tuo gruppo stia già dirigendosi verso gli autobus.» «Anch'io faccio parte del suo gruppo» disse Albert James. «Bene, non fate tardi. Amelia, noi ci vediamo in albergo e poi torniamo insieme a casa. Ci accompagna Mikhail. Va bene?» Amelia annuì e insieme ad Albert James si avviò verso l'atrio dove li aspettavano gli altri giornalisti. «Una donna importante e molto bella. Lei ha ottime relazioni.» «È la moglie del cugino di Pierre. Viviamo tutti insieme.» «Ah, sì! La madre di Pierre è russa, vero?» «Sì, e sua sorella Irina ci ospita a Mosca.» «Scusi l'insistenza, ma lei mi sembra strana e la sua confessione di non essere felice... Davvero, mi ha stupito.» «Voglio lasciare l'Unione Sovietica ma non posso, forse lei potrebbe aiutarmi» sussurrò Amelia guardandosi intorno nel timore che qualcuno li ascoltasse. «Di cos'ha paura?» volle sapere lui. «Dovrei spiegarle così tante cose per farle capire. Pierre mi ha detto che lei non è comunista.» «No, non lo sono. Non si preoccupi, non sono nemmeno fascista. Amo troppo la libertà per lasciare che qualcuno diriga la mia vita. Credo negli individui al di sopra di ogni altra cosa. Ma le confesso che ero curioso di conoscere l'Unione Sovietica.» «Non se ne andrà deluso» sentenziò Amelia. «Ne è così sicura?» «Lei, come tutti gli altri, vedrà quello che vogliono loro. Ma

non può immaginare quello che succede qui.» Smisero di parlare appena salirono sull'autobus. Amelia andò a sedersi lontano da Albert James. Temeva che, se la vedevano passare troppo tempo insieme al giornalista, avrebbero potuto decidere di assegnarla a un altro gruppo di invitati e allora non avrebbe avuto la possibilità di portare avanti il piano che cominciava a maturare nella sua testa. Sulla strada verso casa, scortata da Mikhail e Anushka, Amelia cercava di dominare il nervosismo. «Chi è quel giornalista?» insisté Anushka. «Si chiama Albert James, è un antifascista statunitense amico di Pierre. A Parigi erano inseparabili» mentì Amelia «ed è deciso a incontrarlo.» «Sarà un problema» affermò Mikhail. «Lo so, ma né lui né gli altri invitati si accontenteranno della scusa che Pierre non vuole vederli per impegni di lavoro o perché è dovuto partire all'improvviso. Le cose non vanno così in Europa. Dovete fare qualcosa.» Anushka rimase in silenzio, consapevole del fatto che, effettivamente, il caso di Pierre poteva mandare a rotoli l'operazione di immagine orchestrata dai ministeri degli Esteri e della Cultura. Aveva intenzione di andare a parlare con i suoi superiori il mattino seguente, ma sapeva che si sarebbe compromessa, poiché Pierre era il cugino di Mikhail e, soprattutto, perché era stata lei a proporre Amelia per quel lavoro. Il mattino dopo, quando arrivò al convegno, Amelia scoprì che, come temeva, il suo superiore le aveva assegnato un altro gruppo, questa volta di pittori. Non protestò e accettò il cambio con apparente indifferenza, ma era decisa a cercare Albert James appena possibile. L'occasione si presentò all'ora di pranzo, quando i vari gruppi di lavoro si ritrovarono davanti a un ricco buffet.

Amelia pensò che se i cittadini sovietici avessero potuto vedere quel banchetto avrebbero fatto qualsiasi cosa per parteciparvi, visto che loro dovevano sopportare stoicamente la carestia e la fame. Stando a quel congresso, sembrava che nell'Unione Sovietica ci fosse cibo in abbondanza. «Ci ha abbandonato» la rimproverò Albert James quando la vide. «Mi hanno assegnato a un altro gruppo, sono preoccupati che parli con lei o con Jean Deuville. Può anche darsi che decidano di togliermi questo incarico, quindi non c'è molto tempo per le spiegazioni. So che lei e Pierre non eravate grandi amici, ma le chiedo di salvargli la vita.» «Come dice?» Albert James la guardava sbalordito. «È prigioniero alla Lubjanka e da lì si esce soltanto morti o per essere mandati in un campo di lavoro da cui di solito non si torna più.» «Ma cos'ha fatto?» chiese Albert James in tono incredulo e nervoso. «Le giuro che non ha fatto niente, la supplico di credermi. Vogliono un'informazione che Pierre non ha su... su una persona che ha conosciuto e che a quanto pare era un agente che ha disertato. L'hanno dichiarato nemico del popolo.» «Dio mio, Amelia, in che guaio è andata a cacciarsi!» «Per favore, abbassi la voce! Non credo che mi permetteranno ancora di parlare con lei. Solo se lei, Jean e altre persone insisterete per vedere Pierre, c'è qualche probabilità che lui si salvi. Insistete, per favore. Quanto a me, se le venisse in mente qualcosa per convincerli che devo partire con voi... Qui sto morendo.» «Quello che mi racconta è così strano...» «Non posso fornirle ulteriori dettagli, le chiedo solo di fidarsi di me. So che non mi conosce, ma le assicuro che non sono una cattiva persona...» Un funzionario del dipartimento di Amelia si avvicinò con aria

poco amichevole. «Compagna Garayoa, sta trascurando il suo lavoro» la ammonì. «Mi dispiace, compagno.» Amelia si allontanò a occhi bassi. Albert James non sapeva cosa fare. La confessione di Amelia lo aveva scioccato. Non capiva cosa stava succedendo e tanto meno il motivo per cui Pierre era stato arrestato. In realtà non sapeva perché lui e Amelia fossero venuti a vivere a Mosca. La loro cerchia di amici di Parigi li pensava a Buenos Aires. Nonostante tutte le domande a cui non trovava risposta, era rimasto impressionato dall'angoscia di Amelia, che lei sembrava dominare trasformandola in una gelida calma. Pensò di raccontare tutto a Jean Deuville, ma il suo amico poeta era innamorato della rivoluzione e per lui sarebbe stato un duro colpo scoprire che Pierre era stato arrestato e, soprattutto, che le autorità lo consideravano un "nemico del popolo". Si sentì le mani umide di sudore e cercò un posto dove sedersi a pensare. «Soddisfatto della giornata di lavoro?» Anushka era davanti a lui e gli sorrideva con calore. James pensò che quella bellezza bionda sembrava più una principessa delle fiabe che una funzionaria del Partito comunista. «Voglio vedere Pierre Comte» rispose lui e notò che il sorriso le si congelava sulle labbra, lasciando il posto a un'espressione sconcertata. «Pierre? Be', non è possibile, è in viaggio. Amelia non gliel'ha detto?» «No, Amelia ci ha detto che si trovava qui. Capirà che ci sembra molto strano che il nostro amico non sia venuto a salutarci. A questo congresso partecipano decine di persone che lo conoscono.» «Ah! E non capite che, per quanto sia un vostro caro amico, ha un lavoro? Purtroppo è dovuto partire per un viaggio. Se torna prima che finisca il congresso, vorrà vedervi senz'altro.» «Ma Amelia...»

«Dev'essersi confusa. Pierre è fuori casa da qualche giorno per motivi di lavoro.» «Sa, non so perché, ma non le credo.» «Come dice?» «Che non le credo, compagna Kornilova, né io né gli amici di Pierre che sono qui con me.» «Mi sta offendendo, ci sta insultando...» «Ah, sì? Perché?» «Mette in dubbio la mia parola.» «Temo che, se non riusciremo a vedere Pierre, i vostri sforzi per convincerci a lodare i risultati della rivoluzione saranno del tutto inutili...» Anushka girò i tacchi e se ne andò, furibonda. Era decisa a farla pagare cara ad Amelia per non aver detto su Pierre quello che le aveva ordinato. Cercò Amelia e, quando l'ebbe trovata, la prese in disparte. «Cosa stai cercando di fare?» gridò Anushka. «Io? A cosa ti riferisci?» «Ti avevo ordinato di dire che Pierre era via per lavoro.» «E io ti avevo detto chiaramente che non avevo nessuna intenzione di farlo. No, Anushka, non voglio mentire; non che mi importi farlo, è che se mento peggiorerò la situazione di Pierre.» «Non ho il potere di tirarlo fuori dalla Lubjanka.» Amelia fece spallucce e la guardò con una certa aria di sfida. «Qualcosa potrai fare. Voglio solo salvargli la vita e andarmene da qui.» «Con Pierre? Sei pazza! Non lo lasceranno mai andare via. Quanto a te... Sì, credo che sarà possibile sistemare le cose perché tu possa andartene.» «Non intendo trattare, Anushka, non sto chiedendo la mia libertà in cambio di quella di Pierre, voglio quella di entrambi. Sai cosa succederà se i suoi amici non lo vedranno? Immagina i titoli dei giornali: Noto intellettuale francese scompare a Mosca. E Parigi, Londra e New York non hanno niente a che vedere con

Mosca: là la libertà di stampa esiste. Non vi piacerà affatto quello che si dirà su questo congresso, te l'assicuro.» Il giorno dopo, alla segretaria del ministro degli Esteri Maxim Litvinov arrivò uno scritto firmato da una ventina di intellettuali invitati al congresso che chiedevano di incontrare immediatamente Pierre Comte. Il testo non lasciava dubbi: sapevano che il libraio parigino si trovava a Mosca e, alle loro reiterate richieste di incontrarlo, avevano ricevuto risposte evasive che facevano sospettare che fosse successo qualcosa di strano; pertanto chiedevano al ministro una spiegazione coerente, oltre alla possibilità di incontrare monsieur Comte. Albert James si era impegnato al massimo per convincere gli amici a firmare quella lettera. Aveva parlato con Jean Deuville e lui aveva definito Amelia una ragazza affascinante, ma squinternata, rifiutandosi di considerare la possibilità che Pierre fosse in stato di arresto e tanto meno che l'avessero dichiarato "nemico del popolo". Fu tale l'insistenza di James e, soprattutto, la velata minaccia della pubblicazione sui giornali statunitensi della "strana scomparsa di Pierre Comte", che Jean Deuville alla fine acconsentì a firmare la lettera e accettò di aiutarlo a convincere altri scettici. "Mi auguro che tu sappia cosa stai facendo, Albert, quello che ti ha detto Amelia mi sembra così strano... Spero che non ci stiano usando per una manovra di discredito dell'Unione Sovietica. Sai che sono comunista e ho delle responsabilità a Parigi." "Lo so, Jean, ma so anche che, nonostante la tua fede incrollabile, hai mantenuto una certa autonomia di pensiero. Se fosse una trappola, me ne assumo tutta la responsabilità." "I miei compagni non mi perdonerebbero mai se, anche involontariamente, facessi gli interessi dei fascisti." Al congresso partecipavano quasi duecento invitati, e fu un successo raccogliere le firme di venti di loro.

I responsabili furono costretti a trovare una soluzione e Anushka fu incaricata di metterla in pratica. Il torturatore entrò nella cella e Pierre si svegliò cercando di rannicchiarsi, scoppiando a piangere per la paura di un'altra di quelle interminabili sedute in cui desiderava con tutte le sue forze di morire. L'avevano appena riportato in cella e si era profondamente addormentato dopo quarantott'ore passate seduto su una sedia, legato mani e piedi; diversi individui si erano avvicendati nel corso delle ore, infliggendogli ogni tipo di crudeltà mentre gli chiedevano del compagno Krisov. Sentì che il torturatore lo alzava da terra e, a calci, lo obbligava a camminare. Pierre non poteva, voleva soltanto morire, e si mise a supplicare che lo ammazzassero. Invece lo portarono in un'infermeria dove una donna corpulenta vestita di bianco gli praticò un'iniezione che lo fece piombare in un sonno profondo. Quando si svegliò, credette di vedere il volto sfocato di un uomo che lo osservava. «Si sente meglio?» gli chiese. Pierre non riusciva a parlare, neanche a muovere la testa. Credeva di sognare; doveva davvero essere un sogno perché nessuno lo stava picchiando. «Adesso la aiuterò ad alzarsi, deve fare una bella doccia. Poi le sistemeranno i capelli e le daranno degli abiti puliti.» «Dove mi trovo?» chiese con un filo di voce. «All'ospedale. Sono il medico che l'ha in cura. Non si preoccupi, si riprenderà.» «All'ospedale?» «Sì, certo, all'ospedale. Lei ha avuto un incidente, ha perso la memoria, ma per fortuna si sta riprendendo. La sua famiglia verrà presto a trovarla, appena starà meglio.» «La mia famiglia?» Pierre pensò a sua madre, alle morbide mani di Olga quando, da piccolo, gli accarezzava la fronte prima di dargli il bacio della

buonanotte. Sua madre che lo abbracciava, gli sorrideva, gli stringeva la mano per attraversare ogni strada. Sarebbe venuta sua madre? Nel pomeriggio si sentiva più lucido, anche se non aveva sensibilità in alcune parti del corpo. Il dottore gli spiegò che, a causa dell'"incidente", aveva un braccio paralizzato e non sarebbe mai più riuscito a muoverlo. Aveva perso diverse dita e, purtroppo, anche l'occhio destro. E Pierre ricordò la notte in cui uno di quegli uomini gli aveva piantato un cacciavite nell'occhio e lui era svenuto dal dolore. Di quale incidente parlava il dottore? Ma non fece domande, non disse nulla, si sentiva esausto e felice tra quelle lenzuola pulite, che profumavano di disinfettante. Quanto ai testicoli, lo informò il dottore, il colpo subito nell'incidente era stato così forte da causarne la perdita. Pierre rivide ancora il suo torturatore che gli afferrava e gli schiacciava con le tenaglie prima un testicolo e poi l'altro. Ma il dottore gli stava dicendo che li aveva persi a causa dell'incidente", e lui annuì, confortato dalle parole dell'uomo vestito di bianco. Erano passati sei giorni da che Amelia aveva affrontato Anushka. Quando si vedevano a casa, si rivolgevano a malapena la parola. Neppure Mikhail le nascondeva la sua crescente ostilità; lo aveva perfino sentito discutere con la madre, alla quale aveva chiesto di mandarla via, ma la zia Irina si era opposta e gli aveva detto che lei sarebbe rimasta a casa loro finché Pierre non fosse tornato. Una sera Mikhail e Anushka rientrarono a casa poco dopo Amelia. Si erano visti durante il giorno al congresso, ma lei si era stupita che Anushka se ne fosse andata nel primo pomeriggio. Mikhail si schiarì la voce e chiese ai suoi genitori e ad Amelia di sedersi perché Anushka doveva fare un annuncio.

La zia Irina si asciugò le mani nel grembiule e lo zio Georgij mise via il giornale. Amelia cercò di nascondere il tremito che la scuoteva dalla testa ai piedi. Temeva il peggio. Anushka li guardò tutti in silenzio, abbassò la testa e poi la rialzò facendo oscillare la sua splendida chioma bionda. Quel gesto melodrammatico accrebbe l'attenzione su di lei. «Pierre è vivo e sta bene» disse. La zia Irina e Amelia chiesero all'unisono dove si trovasse e quando potevano vederlo. «Calme, calme. Sapete, per noi è stato molto doloroso nascondervi l'accaduto» disse prendendo la mano di Mikhail «dal momento che temevamo che non si sarebbe salvato.» «Ma cos'è successo?» gridò la zia Irina. «Pierre ha avuto un gravissimo incidente, in cui per poco non ha perso la vita. Il peggio è che fino a poco tempo fa ha sofferto di una grave amnesia ed era ricoverato in un ospedale, ma non riuscivamo a trovarlo perché nessuno sapeva chi fosse...» «Un incidente? Dove?» domandò Amelia sapendo che mentiva. «Mia cara Amelia, quello che sto per dire sarà particolarmente spiacevole per te, ma... ecco, è mio dovere farlo. Non credere che io e Mikhail non abbiamo cercato di scoprire dove si trovasse Pierre, ma, quando ci siamo riusciti, abbiamo temuto di darti un dispiacere. Pierre aveva un'altra amante; una sera sono usciti insieme, viaggiavano sull'auto di lei diretti alla sua dacia, nei dintorni di Mosca. Pierre pensava di telefonarti adducendo la scusa che aveva molto lavoro e sarebbe tornato tardi, ma purtroppo hanno avuto un incidente. A quanto pare, c'erano dei lavori in corso sulla strada, e una gru si è schiantata sulla macchina dell'amica di Pierre. Lei è morta sul colpo e lui... be', ha riportato ferite gravissime e inoltre ha perso la memoria. Per tutto questo tempo è stato ricoverato in ospedale e ti assicuro che è un miracolo che sia ancora vivo, anche se in uno stato...Insomma, puoi immaginare...»

«No, non posso, e voglio vederlo.» Il tono di voce di Amelia era glaciale. Avrebbe voluto dare della bugiarda ad Anushka e soprattutto schiaffeggiarla, ma sapeva di doversi trattenere, di dover accettare il ruolo dell'amante umiliata. «Come ti dicevo, è in uno stato terribile, potrebbe anche non riconoscerti» affermò Anushka. «Voglio vederlo» insisté la giovane spagnola. «D'accordo, domani ti accompagneremo all'ospedale» acconsentì Anushka. «Amelia, devi scusarci se non ti abbiamo detto dell'amante di Pierre, ma non volevamo offenderti e aumentare la tua sofferenza per la sua scomparsa» disse Mikhail guardandola impietosito. «Ma io non credo che Pierre avesse un'amante!» esclamò la zia Irina. «È impossibile! So quanto teneva ad Amelia. Dev'esserci un'altra spiegazione.» «No, mamma, non c'è. La cosa peggiore è che la donna che lo accompagnava era... È una vergogna scoprire che ancora oggi, nell'Unione Sovietica, esistono le prostitute. Nessuno ha reclamato il suo corpo, a quanto pare non aveva parenti, e visto che Pierre non sapeva dirci chi era...» «E come l'hanno trovato? Come fanno a sapere che è Pierre?» insisté la zia Irina. «Ma certo che è lui. Domani andremo tutti a trovarlo. Non preoccuparti per il lavoro, Amelia, ho già avvisato che farai tardi e, date le circostanze, sono stati comprensivi. Inoltre, domani porteranno i nostri ospiti a visitare alcune fabbriche modello.» Anushka e Mikhail faticavano a rispondere alle incessanti domande della zia Irina. Lo zio Georgij invece quasi non aprì bocca. Aveva capito che, per un motivo che gli sfuggiva, qualcuno aveva deciso di far ricomparire Pierre, e non aveva il coraggio di chiedere dove fosse stato né cosa gli avessero fatto. Andarono a letto presto. Anushka disse di avere mal di testa e Mikhail di essere stanco. In realtà, non sopportavano le

domande di Irina né le sue chiacchiere interminabili. Amelia non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte. Si rigirava sul materasso pensando al giorno dopo. "Credono davvero che ci berremo la scusa dell'incidente?" si chiese; ma al contempo era sollevata di saperlo vivo. Il medico li guidò attraverso un lungo corridoio e si fermò davanti a una porta, la aprì e li invitò a entrare. Prima li aveva istruiti su come dovevano comportarsi con il malato. Nessuna domanda. Pierre stava recuperando la memoria e la sua mente era in stato confusionale. All'inizio non lo riconobbero. Amelia si precipitò verso il letto pensando che li avessero ingannati, portandoli da un uomo che non era Pierre. Ma era lui, solo che sembrava invecchiato di decenni. Non aveva quasi più capelli in testa, e i pochi che gli erano rimasti erano completamente bianchi. Gli mancavano alcune dita delle mani e una parte del corpo sembrava paralizzata. Una benda gli copriva il buco che un tempo era riempito dal suo occhio destro. Amelia scoppiò a piangere, e anche la zia Irina non riuscì a trattenere le lacrime. Perfino Mikhail sembrava impressionato dall'aspetto del cugino. «È un miracolo che sia riuscito a sopravvivere all'incidente» disse il medico. «Meno male che non si ricorda quello che gli è successo.» «Non ricorda nulla?» chiese la zia Irina. «No, non ricorda. Inoltre, lo stiamo sottoponendo a un trattamento per aiutarlo a cancellare i pensieri negativi.» «Un trattamento? Cosa gli state facendo?» indagò Amelia, allarmata. «Cerchiamo di alleviare le sue sofferenze, nient'altro.» Il medico trovò inopportuna la domanda di Amelia. Lei prese la mano di Pierre e gli accarezzò una guancia. Lui aprì l'occhio sinistro, ma aveva lo sguardo assente, sembrò non riconoscerla.

«Pierre, sono io, Amelia» gli sussurrò lei all'orecchio, senza ottenere risposta. «Non la riconosce» dichiarò il medico cercando di allontanare Amelia dal francese. Ma lei sentì quella mano a cui erano rimaste solo tre dita aggrapparsi alla sua. Lo guardò di nuovo, benché il suo occhio sembrasse sempre assente. «Non importa se non mi riconosce, so che gli fa piacere avermi vicino.» «Non dobbiamo stancarlo» insisté il medico. «Su, Amelia, adesso l'hai visto, puoi tranquillizzarti, qui si prendono cura di lui» disse Anushka afferrandola per un braccio. «Voglio stare da sola con Pierre.» Amelia non lo stava chiedendo, dava per scontato che nessuno avrebbe potuto impedirglielo. «È impossibile» assicurò il medico. «No, non lo è. Pierre ha sofferto moltissimo, so che non mi riconosce, ma sono sicura che gli farà bene avere accanto una presenza amica.» Anushka guardò il medico. Entrambi uscirono dalla stanza e lei rientrò un minuto dopo. «Ho convinto il dottore a lasciarti rimanere con lui per un po', ma devi capire che Pierre ha bisogno di riposare. Promettimi che non lo forzerai a parlare.» «Non farò niente che possa nuocergli.» La zia Irina baciò dolcemente il nipote, lo zio Georgij non osò toccarlo. Mentre uscivano dalla stanza, Anushka le annunciò che sarebbe tornata a prenderla dopo qualche minuto. Amelia accarezzò la testa di Pierre e credette di vedere affiorare un sorriso sulle sue labbra. Ogni tanto lui apriva l'occhio sinistro, ma non la cercava con lo sguardo, sembrava incantato dal bianco della parete che aveva davanti. «Ho sofferto molto per la tua assenza, ma ora mi rendo conto che il mio dolore dev'essere stato un'inezia in confronto a

quello che hai dovuto passare tu... Dio mio, cosa ti hanno fatto! Ti porterò via di qui, torneremo a Parigi, là ti rimetterai, vedrai, fidati di me» gli diceva a voce bassissima temendo che qualcuno li ascoltasse. Ogni tanto un'infermiera entrava nella stanza e si avvicinava al letto guardando diffidente Amelia, come se lo stato in cui si trovava Pierre fosse colpa sua. Più tardi, Anushka si presentò insieme al dottore. «Cara Amelia, dobbiamo tornare al lavoro. Puoi venire stasera a trovarlo.» Lei lo baciò sulle labbra, che erano fredde come quelle di un cadavere. «Non preoccuparti, tornerò» gli disse, ma lui non sembrò averla sentita. Quando furono in corridoio, Anushka le disse che il dottore voleva parlare con loro. Andarono nel suo ufficio. Lui le invitò a sedersi e poi guardò Amelia con un'espressione diffidente. «Compagna Garayoa, mi dispiace doverle dire che il compagno Comte è molto grave» annunciò il medico. «Questo è evidente» ribatté Amelia sarcastica. «È un uomo forte, ma comunque... nell'incidente ha perso i testicoli» le comunicò fissandola negli occhi per farla sentire in imbarazzo. «Ah, sì? Bene, a quanto ne so, si può vivere senza.» «I colpi subiti... come sa, gli è caduta addosso una gru... insomma, gli hanno provocato lesioni irreversibili.» «Sono consapevole del suo stato, compagno.» «Anche il cervello è rimasto danneggiato, e le sue facoltà mentali... Non credo che potrà mai più tornare a essere una persona normale. Deve prepararsi al peggio, compagna» sentenziò il medico. «Davvero? Ci può essere qualcosa di peggio di quello che gli è già successo?» «Le assicuro che abbiamo fatto tutto il possibile» insiste il medico «ma deve tenere presente che... ecco, non era stato

curato a dovere.» «Voglio portarlo a Parigi, dai suoi genitori» annunciò Amelia in tono di sfida. «Impossibile!» esclamò Anushka. «Perché? Non ha senso che restiamo qui. Pierre ha bisogno di cure specialistiche, ha bisogno della sua famiglia.» «Anche noi siamo la sua famiglia, Amelia» la rimproverò Anushka. «I suoi genitori sono a Parigi, ed è lì che Pierre vuole e deve stare.» «Non so se, nelle sue condizioni, sarà possibile trasferirlo...» Il medico guardava preoccupato Anushka. «Le assicuro che migliorerà notevolmente appena lo porterò fuori di qui» replicò Amelia trattenendo a stento la rabbia. «Ho pensato che forse potrebbe venire a trovarlo quel giornalista, Albert James, e anche il poeta, Jean Deuville» suggerì Anushka. «Un gesto molto gentile da parte tua. Ma ti chiedo anche, compagna Anna Nikolaievna Kornilova, di procurarmi i permessi necessari per portare Pierre a Parigi. Ho intenzione di tornare laggiù con gli intellettuali che partecipano al congresso.» Anushka strinse i denti e l'espressione del volto si indurì. L'atteggiamento della spagnola la irritava, ma sapeva che non era il momento di discutere con lei. Nonostante le insistenze di Amelia a voler rimanere al capezzale di Pierre, il medico fu inflessibile. Non avrebbe potuto rivederlo fino al giorno dopo, perché dovevano fargli altre analisi. Poteva tornare l'indomani mattina presto, insieme agli amici di Pierre. Quella sera Amelia partecipò alla cena di chiusura che il Comitato centrale offriva agli intellettuali che avevano partecipato al congresso. L'atmosfera era tesa: il 30 settembre era giunta la conferma

dell'accordo siglato a Monaco da Hitler e Mussolini con Édouard Daladier, a nome della Francia, e Neville Chamberlain, a nome della Gran Bretagna. Le due potenze avevano ceduto di fronte alla determinazione di Hitler di impossessarsi del territorio dei Sudeti, in Cecoslovacchia. «È una vergogna!» affermava Albert James. «Francesi e inglesi pagheranno caro il loro errore. Permettono a Hitler di fare il bello e il cattivo tempo, senza rendersi conto che si stanno allevando una serpe in seno.» Gli anfitrioni sovietici ascoltavano le conversazioni degli ospiti, ma limitavano prudentemente i commenti. Preferivano farsi un'idea delle opinioni di quel gruppo di uomini che rappresentavano una parte del mondo intellettuale europeo. Amelia si avvicinò al gruppo in cui si trovava Albert James e gli fece segno di volergli parlare in privato. «Cosa succede?» si informò il giornalista. «Voglio ringraziarla per quello che avete fatto per Pierre. Oggi sono riuscita a vederlo; grazie a Dio è vivo, anche se in pessime condizioni.» «Dov'era? Cosa gli è successo?» «Lo vedrà domattina e... be', stenterà a riconoscerlo. L'hanno torturato, ma a lei diranno la stessa cosa che hanno detto a me, che ha avuto un incidente, che gli è caduta addosso una gru.» Gli raccontò la storia che i sovietici avevano inventato per giustificare lo stato di Pierre e lo pregò di non mancare all'appuntamento del giorno dopo per andare all'ospedale con Jean Deuville. «Io e Anushka passeremo a prendervi alle otto in punto. Adesso vorrei chiederle un altro favore.» «Caspita! E adesso di cosa si tratta?» «Voglio che dica ad Anushka che Pierre deve tornare a Parigi, e che lei e Jean Deuville mi aiuterete ad assisterlo durante il viaggio. Deve insistere sul fatto che dobbiamo venire

con voi.» «Possono opporsi.» «Ma se lei fa pressione... Si sono visti costretti a farlo ricomparire, dopo che avete richiesto di vederlo, e non hanno alcuna intenzione di far scoppiare uno scandalo durante questo congresso, grazie al quale si aspettano che tutti voi tessiate grandi elogi al sistema. D'altronde, vi hanno invitato per questo.» «Mi sembra incredibile che sia stato agli arresti per tanto tempo...» «Torturare e ammazzare in nome del popolo è una pratica normale. Se qualcuno viene dichiarato nemico della rivoluzione, si merita qualunque cosa possa accadergli. La gente ha paura, fa la fame, c'è la censura, i figli denunciano i padri, gli zii i nipoti e gli amici si guardano con diffidenza. Stalin ha instaurato un regime di terrore, anche se la colpa non è soltanto sua: il seme di tutta questa barbarie l'aveva piantato Lenin.» «Ha abbandonato la fede comunista?» «Ho vissuto qui il tempo sufficiente per capire di voler fuggire da quello che chiamano comunismo. Ma quello che penso io non ha importanza, adesso bisogna salvare Pierre.» Jean Deuville non riuscì a trattenere un'esclamazione inorridita quando entrò nella stanza di Pierre. Anche Albert James era impressionato, ma, con sollievo di Anushka, non disse nulla. Il medico li informò della gravità del suo stato, insistendo sul fatto che si trattava di un miracolo che fosse sopravvissuto all'incidente con la gru. «Pierre, amico mio, cosa ti è successo?» domandò Jean facendo uno sforzo per trattenere le lacrime. L'unico occhio sano di Pierre era rimasto aperto, ma non sembrava vederli. Amelia lo trovò più intontito del giorno precedente e, per quanto possibile, riuscì a percepire la paura che Pierre provava.

«Lo porteremo a Parigi» dichiarò Albert James. «Verrà con noi. Prima si riunirà con la sua famiglia, prima si riprenderà.» «Non credo che... insomma, può darsi che la sua salute mentale rimanga compromessa per sempre. Come potete vedere, è poco più di un vegetale» affermò il medico. «Verrà comunque con noi» replicò Jean Deuville in tono deciso. «Sua madre non mi perdonerebbe mai se lo lasciassi qui.» «In nessun altro posto potrà ricevere le cure che gli vengono prestate in un ospedale dedito alla salute del popolo» aggiunse Anushka. «Non sono d'accordo, compagna Kornilova, in nessun altro posto al mondo si sta meglio che a casa propria» affermò Jean. «L'Unione Sovietica è la patria di Pierre e di tutti i lavoratori. Inoltre, le ricordo che il compagno qui ha una famiglia» ribadì Anushka. «Anna Nikolaievna Kornilova, come amici di Pierre e rappresentanti dei suoi genitori, insistiamo per portarlo a Parigi. Non riusciamo a capire perché vi ostiniate tanto a impedire il suo ritorno...» disse Albert James. «Il compagno Comte non è in condizioni di viaggiare» assicurò il medico «non posso nemmeno essere sicuro che...» «Affronterà il viaggio» assicurò Jean Deuville. «So che può farcela.» Albert James e Jean Deuville non lasciarono scelta al medico e ad Anushka, i quali acconsentirono a preparare i documenti necessari, avvertendoli però che, se a Pierre fosse successo qualcosa durante il viaggio, sarebbe stato sotto la loro responsabilità. Amelia era rimasta in silenzio, consapevole che non spettava a lei combattere quella battaglia. Amelia era felice mentre preparava i bagagli. Anushka le aveva finalmente annunciato che poteva tornare a Parigi con il gruppo di Albert James e Jean Deuville e portare anche Pierre. La zia Irina l'aiutava a mettere i vestiti in valigia e intanto le

dava consigli su come trattare il malato durante il viaggio. «Mia sorella Olga non mi perdonerà mai quello che hanno fatto a suo figlio» si lamentava. «Non l'ho protetto come dovevo...» «Lei e lo zio Georgij vi siete comportati molto bene con Pierre e con me, non avete niente da rimproverarvi, è colpa di questo maledetto sistema...» «Non sono mai stata una rivoluzionaria» assicurò la zia Irina «ma Georgij lo era e, be', sono arrivata a credere che avesse ragione, che il popolo avrebbe vissuto meglio, che avrebbero costruito una società più libera, ma adesso regna molta più paura che ai tempi dello zar. Mikhail si arrabbia quando lo dico, ma è la verità.» «Si riguardi, zia Irina.» «Credi che mio figlio sarebbe capace di denunciarmi?» «Non ho detto questo.» «Però lo pensi, Amelia, so che lo pensi. Ma non lo farà. So che molti figli hanno denunciato i genitori e... Mikhail ha una fiducia incrollabile nel comunismo, ma è un bravo figlio. Non devi diffidare di lui.» Amelia non volle contraddire la donna. Inoltre, in quel momento le importava solo chiudere la valigia e andare all'hotel Metropol, dove la aspettavano Albert James e Jean Deuville. Anushka aveva promesso che una macchina li avrebbe portati in ospedale a prendere Pierre e da lì sarebbero andati in aeroporto. La zia Irina pianse mentre si salutavano. «Prenditi cura di Pierre e consegna la mia lettera a Olga.» «Lo farò, e lei stia attenta.» Jean Deuville era nervoso e Albert James sembrava di malumore. «Se qualcuno mi avesse detto che avrei vissuto tutto questo, gli avrei dato del pazzo» si lamentò Deuville. Anushka arrivò all'ora stabilita con una macchina grande,

così disse, per sistemare al meglio Pierre. Sembrava inquieta e non aveva voglia di parlare. Arrivati all'ospedale, Anushka chiese loro di aspettare mentre andava a cercare il direttore sanitario per farsi firmare la dimissione di Pierre. Amelia acconsentì nervosa. Sapeva che in Unione Sovietica le lungaggini burocratiche potevano essere eterne. Mezz'ora dopo Anushka tornò con il medico curante di Pierre. «Seguitemi, per favore» disse il medico. «Il compagno Comte è peggiorato. Questa mattina all'alba ha avuto una crisi cardiaca. Stiamo facendo tutto il possibile per salvargli la vita e, ovviamente, in questo momento gli è impossibile viaggiare.» Lo seguirono nervosi. Amelia si sentiva il cuore battere forte mentre Jean Deuville e Albert James si guardavano sorpresi. Il medico aprì la porta della stanza in cui si trovava Pierre; intorno al letto c'erano due infermiere e altri due medici. «Mi dispiace, compagni, il paziente ha appena avuto un arresto cardiaco» disse uno dei medici. «Purtroppo non c'è stato niente da fare. È morto.» Amelia si avvicinò al letto e li spinse via. Il volto di Pierre era teso, come se nei suoi ultimi istanti avesse provato una grande sofferenza. Scoppiò a piangere, all'inizio senza emettere alcun suono, poi lasciandosi sfuggire un grido acuto. Abbracciò il corpo inerte di Pierre. Il corpo di un anziano. Il corpo di un uomo torturato. Albert James si avvicinò al letto e cercò di separare Amelia da Pierre, ma lei non voleva, aveva bisogno di sentire quel corpo stretto al suo e di sussurrargli che non avrebbe amato nessuno come aveva amato lui. Con l'aiuto di Jean Deuville, Albert James riuscì a trascinare via Amelia. I due uomini erano impressionati dalla scena. «Mi dispiace» assicurò il medico. «Le dispiace? Voi l'avete...» Albert James impedì ad Amelia di continuare a parlare.

Sapeva che era sul punto di dire la stessa cosa che sospettava lui: che avevano ucciso Pierre. «Per favore, Amelia! Dobbiamo andare. Non possiamo fare più nulla per lui» le disse duramente. «Voglio che gli facciano l'autopsia! Voglio portare il suo cadavere a Parigi, e là fargli fare l'autopsia per sapere com'è morto!» gridava Amelia. «Amelia, non stai bene, forse dovresti rimanere qui per riprenderti dalla perdita di Pierre» affermò freddamente Anushka. Le sue parole avevano un tono minaccioso. «È comprensibile che si comporti così, si metta nei suoi panni» disse Albert con voce neutra. «Su, Amelia, non possiamo più fare niente qui» ripeté Jean Deuville passandole un braccio intorno alle spalle. «Dovete tener conto che era reduce da un terribile incidente» disse il dottore. «Sì, ne teniamo conto. È un miracolo che sia sopravvissuto fino a oggi» replicò Albert James in tono ironico. Amelia si rifiutò di salutare Anushka, e lei promise a Jean Deuville e ad Albert James di occuparsi del funerale. «Non dimentichi che Pierre qui ha una famiglia» insisté Anushka «e sarà sepolto come merita.» Per un attimo, Amelia si chiese se dovesse restare per il funerale, ma Albert James insisté affinché partisse con loro. «Venga con noi, non ha più senso che rimanga qui. Lui non avrebbe voluto che restasse.» Lei rifiutò di stringere la mano del medico che aveva curato Pierre. Abbracciata a Jean Deuville, non smetteva di ripetere "assassini" in spagnolo, una lingua che credeva che nessuno dei presenti conoscesse. Lasciarono l'ospedale per dirigersi direttamente all'aeroporto. Era il 2 ottobre 1938... La professoressa Kruvkoski tacque e mi fissò. «Questo è tutto quello che posso raccontarle.»

«Sono senza fiato.» «Come dice?» «Sono molto impressionato. I crimini dello stalinismo fanno venire i brividi. Deve essere stato un periodo terribile.» «Sì. Il sistema si reggeva sul terrore, così sono riusciti a dominare l'intero paese. È stato atroce, sono morti milioni di innocenti, assassinati per ordine di Stalin.» «Mi dica, come fa a sapere con tanta precisione quello che è successo? Non sarà stato facile scoprire cosa succedeva alla Lubjanka.» «Alcuni documenti e archivi sono stati resi accessibili a studiosi e ricercatori.» «Sembra incredibile che non vi siate ribellati a Stalin e soprattutto che al giorno d'oggi ci sia gente che lo rimpiange.» «Chieda ai suoi genitori perché non si sono ribellati a Franco» ribatté seccata la professoressa e questo fece scendere tra noi un silenzio imbarazzante. Poi la professoressa Kruvkoski sospirò e sembrò rilassarsi. «È difficile che possiate capire quello che è successo. Quanto al rimpiangere Stalin... Si sbaglia, il popolo russo non ha nostalgia di lui, quello che non sopporta è non essere più una potenza, non avere più il rispetto degli altri paesi. L'Unione Sovietica è stata grande, temuta da tutti, e questo era motivo d'orgoglio per i russi. La caduta del muro di Berlino ci ha lasciati sconcertati. Eravamo poveri, indeboliti, tutto crollava intorno a noi... L'Occidente ci considerava vinti e i russi si sentivano umiliati.» «Riconoscerà che è meglio la democrazia della dittatura.» «Certo, giovanotto, è fuor di dubbio, ma noi russi siamo orgogliosi e non sopportiamo di essere disprezzati. L'Occidente ha sbagliato con la Russia.» «Fate parte dell'Europa.» «È proprio questo l'errore. Facciamo parte dell'Europa, ma non del tutto. La Russia è di per sé un continente, con le sue peculiarità. Per questo non riuscite a capire perché Putin abbia

tanta credibilità qui. La ragione è che ha restituito ai russi l'orgoglio. Però adesso non voglio farle una lezione di geopolitica né spiegarle com'è fatto il mio popolo.» «La ringrazio per quello che mi ha raccontato sulla mia bisnonna.» «E stata una donna eccezionale e molto coraggiosa.» «Penso proprio di sì.» Non avevo scuse per restare a Mosca, anche se mi dispiaceva non poter prolungare il mio soggiorno di un paio di giorni. Mi sarebbe piaciuto molto andare a San Pietroburgo, ma visto che adesso erano le anziane signore Garayoa a finanziarmi non me la sentivo di abusare della loro fiducia. Approfittai del resto della giornata per visitare la città. Il mattino seguente, di buon'ora, dovevo ripartire per la Spagna. Ero impaziente, perché non riuscivo a immaginare quali strade avesse intrapreso la mia bisnonna una volta tornata a Parigi. E mi chiedevo chi avrebbe scelto adesso la signora Laura per guidare i miei passi.

ALBERT

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Mia madre mi fece una scenata e non ebbe pietà nemmeno quando le raccontai che in meno di quindici giorni ero stato a Roma, a Buenos Aires e a Mosca. «Lascia perdere le storie del passato e mettiti al lavoro!» «Ma se non faccio altro che lavorare.» Per mia madre, però, se un impiego non aveva un orario di entrata e uno di uscita non poteva considerarsi un lavoro. Per di più, mi intimò di abbandonare le ricerche sulla bisnonna. «Tua zia Marta è sempre stata un'eccentrica: ti ha coinvolto in questo pasticcio e adesso vuole tirarsene fuori, ma credo che sia meglio così. Non mi piace che tu continui con questa storia.» Mi raccontò che, per colpa mia, aveva litigato con sua sorella e non si parlavano da una settimana. Poi tornò a insistere che mettessi la testa a posto e mi cercassi un buon lavoro. «Guillermo, tesoro, non capisco perché altri che valgono meno di te vanno in televisione. Guarda Luis, che ha studiato con te ed è sempre stato uno smidollato, e invece presenta un telegiornale, ed Esther... be', quella ragazza non vale niente, e invece, è una star della televisione... e Roberto... era il più scemo di tutti i tuoi amici e l'hanno promosso direttore generale.» «Mi dispiace, mamma, ma ho un difetto: non so stare zitto, ed è una cosa che ai capi non piace.» «E perché i tuoi amici socialisti non ti danno una mano? In campagna elettorale dicevano che volevano giornalisti indipendenti.»

«E tu ci hai creduto? Dài, mamma, non essere ingenua! I politici detestano chi pensa con la propria testa e chiunque non serva ai loro interessi finisce per essere emarginato. E in questo la destra e la sinistra sono uguali. Siccome io me la prendo con tutti, ecco il risultato.» Trovo sempre inutili le discussioni con mia madre. Lei crede ciecamente a tutto quello che i politici dicono in televisione e non le entra in testa che poi fanno esattamente il contrario di quanto dichiarano. Senza dubbio, la migliore qualità di mia madre è la fiducia nell'essere umano. Telefonai alla signora Laura per informarla del mio ritorno a Madrid. Mi disse che mi avrebbe richiamato lei per indicarmi come proseguire, perciò approfittai del tempo libero per vedere Ruth, la mia ragazza, per andare alla redazione del giornale, per bere qualcosa con gli amici e per litigare ancora con mia madre. La signora Laura mi chiamò soltanto dopo una settimana. «Deve telefonare al professor Soler. Sarà lui a guidarla.» Quando sentii la sua voce dall'altra parte della cornetta, ebbi l'impressione di parlare con un vecchio conoscente. «La signora Laura mi ha chiesto di continuare a orientare le sue ricerche. Non sarà facile, ma, tra quello che so io e alcune cose che potrà raccontarmi lei, riuscirò a guidarla, pur non entrando nei dettagli. Adesso deve andare a Parigi. Parlerà con un vecchio amico, Victor Dupont; lui ha conosciuto Amelia quando era un adolescente poco più grande di me.» «Chi è?» «Il figlio di un attivista, un comunista. I nostri genitori erano amici, e per un periodo abbiamo vissuto a casa loro a Parigi, alla fine della guerra civile.» «Lei ha vissuto a Parigi?» «Sì, con mio padre.» «E sua madre?» «Non so che fine abbia fatto, forse l'hanno fucilata i

franchisti. Si era rifiutata di venire in Francia; era disposta a continuare a combattere anche dopo che Franco avesse vinto la guerra. Io fuggii con mio padre.» «E cosa può sapere il signor Dupont di Amelia Garayoa?» «Più di quanto immagini. Ha conosciuto lei e anche Jean Deuville e Albert James.» «E pensa che si ricordi quello che è successo allora?» «Ma certo. Inoltre, Victor è un documentarista e figlio di un giornalista che, quando è morto, gli ha lasciato tutte le sue carte. Ma non voglio anticiparle niente. Vada a Parigi, Victor Dupont la riceverà subito.» A Parigi pioveva, cosa che non mi stupì perché raramente sono andato nella capitale francese senza prendermi qualche acquazzone. Ma c'era nell'aria un profumo di primavera che mi rinvigorì. Avevo prenotato una stanza in un albergo sulla rive gauche, vicino all'abitazione di Victor Dupont. Fui sorpreso quando lo incontrai, perché, pur essendo molto avanti con gli anni, era un uomo ancora pieno di energia. Documentarista e archivista di professione, il signor Dupont era un erudito senza la tipica aria svampita. Dal suo aspetto fisico dedussi che in gioventù doveva essere stato un bell'uomo; alto, con gli occhi azzurri, adesso aveva i capelli bianchi e il portamento impettito da vecchio rubacuori. «E così sta facendo ricerche sulla storia della sua bisnonna... si è andato a cacciare in un bel ginepraio!» disse il signor Dupont mentre appoggiava sul tavolo due bicchieri di Bordeaux per accompagnare un piatto di formaggio. «Sì, lo dice anche mia madre.» «Figliolo, ci sono cose che è meglio non andare a rivangare, soprattutto le storie di famiglia. Ma, contento lei... Farò quello che posso per aiutarla, perché me l'ha chiesto il mio caro amico Pablo. Da dove vuole che cominci?» «Dunque, a quanto so, Amelia Garayoa tornò a Parigi

all'inizio di ottobre del 1938 insieme a Jean Deuville e ad Albert James, che rientravano da un congresso di intellettuali tenutosi a Mosca.» «Sì, un congresso organizzato a uso e consumo della propaganda sovietica, che però fu molto efficace in quel momento.» Non osai chiedergli se fosse comunista, visto che suo padre lo era stato e inoltre era amico del padre di Pablo Soler, anch'egli comunista, ma Dupont sembrò avermi letto nel pensiero. «Sono stato comunista, e non immagina con quale ardore. I comunisti hanno fatto cose riprovevoli, ma anche del bene. E tra le loro file c'era gente piena di abnegazione, credenti, persone buone che si impegnavano ad aiutare gli altri. Ho abbandonato la militanza ormai da anni e questo mi ha permesso di analizzare la mia vita con una prospettiva e una sincerità di cui non sarei stato capace se fossi ancora coinvolto. Ma non è di me che dobbiamo parlare. Sa che la sua bisnonna ha vissuto a casa mia?» Rimasi a bocca aperta, anche se, a pensarci bene, a questo punto non dovevo più stupirmi di niente. Dupont continuò il suo racconto... Jean Deuville era amico di André Dupont, mio padre. Gli telefonò per chiedergli se voleva affittare una stanza a una sua amica, perché sapeva che avevamo una camera libera in casa di mia nonna, dove vivevamo. Era una casa grande, e inoltre mia nonna era morta qualche mese prima. Fu mia madre, Danielle, a prendere la decisione di accogliere Amelia. Fino a qualche mese prima, mia madre aveva lavorato in una cartoleria, ma il proprietario era morto e i figli avevano chiuso il negozio, quindi i pochi franchi in più dell'affitto della stanza ci avrebbero fatto comodo. Anche per Amelia era una scelta conveniente, perché quando arrivò a Parigi aveva alloggiato per un paio di giorni in albergo, ma non voleva sprecare i pochi soldi che aveva e Jean pensò che

affittare una stanza per lei sarebbe stato meno gravoso. A quell'epoca avevo quindici anni e le confesso che mi innamorai di Amelia appena la vidi. Non sembrava una donna reale, era magrissima e aveva un aspetto etereo. Mia madre volle sapere per quanto tempo sarebbe rimasta, ma Amelia disse di non sapere ancora cosa avrebbe fatto. «Signora Dupont, voglio tornare in Spagna, ma non so se sarà possibile. Perciò credo che dovrò cercarmi un lavoro.» «Ma non può andare in Spagna!» esclamò mia madre. «Il legittimo governo della repubblica controlla ancora Madrid, la Catalogna, Valencia... ma non credo che si possa essere ottimisti. A luglio il generale Rojo è riuscito a fermare Franco all'Ebro, ma non ce l'ha fatta a mantenere la posizione. Non credo che tornare in Spagna sia una buona idea» intervenne mio padre. Amelia si strinse nelle spalle. Sembrava rassegnata a fare tutto il possibile, ma senza sfidare la sorte. Pur essendo riservata e parca nei sorrisi, aveva molta pazienza con me e aiutava mia madre nelle faccende di casa. Io ascoltavo le conversazioni dei miei genitori, quelle che intrattenevano con altri compagni come Jean Deuville. Jean aveva raccontato loro quello che era successo a Mosca. Per lui era stato uno shock enorme, che aveva intaccato la sua fede nel comunismo. Non aveva il coraggio di lasciare il partito, ma a Mosca aveva perso la verginità ideologica, oltre a Pierre, il suo migliore amico. Dire ai genitori di Pierre che il loro figlio era morto non fu facile né per Amelia né per Jean Deuville. Il giorno dopo il loro arrivo a Parigi, i due, insieme ad Albert James, si recarono a casa dei Comte. A quanto ne so, la scena andò più o meno così. Olga, la madre di Pierre, aprì la porta e vedendo Amelia lanciò un urlo e chiese dove fosse suo figlio. Jean cercò di abbracciare la donna per farle le condoglianze e spiegarle l'accaduto, ma Olga lo respinse. «Dov'è Pierre? Cosa gli hai fatto?» chiese ad Amelia.

Albert James dovette sorreggere Amelia, che aveva cominciato a tremare al punto di fargli temere che non avrebbe sopportato l'emozione. Fu proprio lui a prendere in mano la situazione, perché sia Amelia sia Jean erano troppo coinvolti. Il padre di Pierre accorse nell'ingresso, allarmato dalle grida della moglie. «Ma cosa succede? Cosa ci fate qui? E tu, Amelia...? Dov'è Pierre?» Amelia gli raccontò l'accaduto, senza nascondere nulla. Né il fatto che Pierre fosse un agente sovietico né i dettagli della sua vita a Buenos Aires, l'ordine di recarsi a Mosca, i mesi trascorsi nella capitale russa, la scomparsa di Pierre, la prigionia alla Lubjanka, le torture che gli avevano inflitto e la sua convinzione che l'avessero ucciso. L'unica cosa che non rivelò, e che non aveva detto nemmeno ad Albert James e a Jean Deuville, fu che era stata informata dell'arresto di Pierre da Ivan Vasiliev. Non voleva mettere in pericolo l'uomo che, se non altro, l'aveva aiutata a scoprire dov'era Pierre. Olga piangeva sconsolata mentre ascoltava il racconto di Amelia e il padre di Pierre sembrava invecchiare a mano a mano che scopriva gli orrori che il figlio aveva dovuto affrontare. «È colpa tua! Tu e le tue maledette idee sul comunismo che hai messo in testa a nostro figlio! Non hai voluto ascoltarmi e adesso Pierre è morto. Anche tu l'hai ucciso!» gridò Olga al marito. «Per favore, signora Comte, si calmi! » la pregò Albert James. Ma non c'era modo di controllare l'ira e il dolore di Olga né di trovare le parole per consolare il padre di Pierre. E nemmeno Jean Deuville era di grande aiuto, perché non era in grado di trattenere le lacrime. Olga li cacciò di casa maledicendo Amelia, dicendole che non voleva mai più vederla. Furono Jean Deuville e Albert James a prendersi cura di lei. Sembravano sentirsi responsabili nei suoi confronti. In quel

momento la Francia era governata da Édouard Daladier e gli stranieri, soprattutto gli spagnoli, cominciavano ad avere problemi a risiedere legalmente nel paese, a causa delle leggi antiprofughi promulgate dall'amministrazione francese, travolta dal massiccio esodo di persone in fuga dalla guerra civile. Perciò, sia Jean Deuville sia Albert James dovettero fare ricorso a tutte le loro conoscenze per ottenere un permesso di soggiorno per Amelia. Nessuno si stupì del fatto che Albert James l'avesse assunta come segretaria. Fino a quel momento non ne aveva avuto bisogno, ma era un modo di aiutarla senza offenderla. Quanto a Jean, in pratica diventò la sua ombra: passava a prenderla a casa e la obbligava ad andare a passeggio, a teatro, a sentire musica. Amelia si lasciava guidare, come un automa, come se niente di quello che succedeva intorno a lei le importasse davvero. I miei genitori si chiedevano perché un giornalista come Albert James avesse deciso di occuparsi di Amelia. Il caso di Jean Deuville era diverso, era stato il miglior amico di Pierre ed erano compagni nel Partito comunista, ma Albert James non era mai stato vicino a Pierre né ad Amelia. Eppure la aiutava come poteva. Albert James collaborava con alcuni giornali e riviste statunitensi, e anche con qualche quotidiano britannico. Per i gusti dei miei genitori era troppo indipendente, loro erano convinti che nell'epoca in cui gli era toccato vivere bisognasse prendere posizione. L'obiettività di James li irritava e discutevano apertamente con lui. In realtà Albert James si rifiutava di essere un "compagno di viaggio" del partito, il che faceva di lui un personaggio scomodo. Nonostante questo era rispettato, aveva un'enorme influenza e i suoi articoli erano tenuti in considerazione dai governi statunitense, britannico e francese. Quel che scrisse sul congresso di intellettuali a Mosca fu deludente per i suoi anfitrioni sovietici. James affermò che i

villaggi e le fabbriche che avevano visitato sembravano messe in scena realizzate apposta per convincere i forestieri che nell'Unione Sovietica era tutto rose e fiori; inoltre criticò l'impossibilità di viaggiare per conto proprio nel paese e di visitare qualsiasi cosa fuori programma. In uno dei suoi articoli scrisse che nel "paradiso comunista" non si respirava aria di libertà. Insomma, le sue critiche furono una doccia fredda per le autorità sovietiche, mentre naturalmente furono accolte con grande favore da altri intellettuali europei. Amelia si recava ogni mattina presto nell'ufficio di James, dove si occupava della corrispondenza, riordinava gli archivi, gli organizzava l'agenda, copiava in bella i suoi scritti e teneva la contabilità. Forse il momento di gioia più grande fu quando passò da Parigi Carla Alessandrini. La diva sarebbe rimasta per quindici giorni in città, per interpretare La Traviata all'Ópera Garnier. Il suo arrivo fu un grande evento. Jean Deuville promise di accompagnare Amelia all'opera ad ascoltare la sua amica. Ricordo ancora la sera della prima. Amelia era dotata di un'eleganza naturale e, anche se a quell'epoca non aveva a disposizione abiti adatti, sembrava una principessa nel suo vestito nero, senza fronzoli. Carla Alessandrini fu magnifica; gli spettatori si alzarono in piedi e la applaudirono per venti minuti. Come ci raccontò Jean, Amelia pianse dall'emozione e alla fine dello spettacolo andò nel camerino di Carla, convinta che le avrebbero permesso di vederla, ma i responsabili del teatro avevano dato disposizioni affinché potesse passare soltanto chi era stato espressamente invitato dalla cantante. «Le dica che c'è la sua amica Amelia Garayoa» disse a un ometto scettico che le impediva di passare. Comunque il messaggio fu recapitato e pochi minuti dopo le venne incontro Vittorio Leonardi, il marito della cantante.

Vittorio strinse Amelia tra le braccia, la sgridò per l'eccessiva magrezza, salutò Jean come se fossero amici da tutta la vita e li condusse nel camerino. Le due donne si abbracciarono per quella che sembrò un'eternità. A quanto mi hanno detto, Carla stimava davvero Amelia e la considerava come una figlia. «Ma perché non mi hai avvisata che eri a Parigi? Non sai quanto ero preoccupata. Gloria e Martin Hertz mi hanno detto che tu e Pierre eravate partiti per un viaggio di qualche mese, ma poi non siete più tornati né avete dato notizie. Lasciati guardare... sei troppo magra, bambina mia e... non so... mi sembri diversa. Dov'è Pierre?» «È morto.» «Morto? Non sapevo che fosse malato» disse Carla. «Non lo era. Lo hanno ucciso.» Carla e suo marito furono molto colpiti dall'annuncio di Amelia. La diva l'abbracciò come una madre abbraccerebbe sua figlia per proteggerla. «Devi raccontarmi tutto!» Amelia le presentò Jean Deuville, che era rimasto in silenzio a osservare la scena. Era impressionato dal fatto che le due donne fossero tanto amiche. Dopo tutto, Carla Alessandrini era un personaggio di fama mondiale, una delle donne più affermate dell'epoca. Durante la permanenza a Parigi non ci fu giorno in cui Carla non vedesse Amelia. Io e i miei genitori andammo per la prima volta all'opera su invito della Alessandrini, e per noi fu un vero e proprio evento stare in mezzo ai ricchi e ai borghesi che sembravano vivere al di fuori della realtà, ridendo e bevendo champagne come se nulla di quanto accadeva nella vita quotidiana li toccasse. Amelia andava a trovare Carla in albergo oppure, dietro suo invito, partecipava a pranzi e cene con gente importante; e un giorno fu Carla a venire a trovare Amelia a casa nostra. Rimasi dietro la porta del salotto a spiarle, non perché mi importasse

ciò che dicevano, ma perché ero molto affascinato da quella donna, che aveva sostituito Amelia nelle mie fantasie di adolescente. «Bambina mia, devi decidere cosa fare, e vorrei che pensassi alla possibilità di venire con noi. Non credo che in Francia ci sia un futuro per te, guarda come si stanno mettendo le cose per gli stranieri. Ho parlato con Vittorio ed è d'accordo con me che la cosa migliore sia che tu venga con noi.» «Voglio tornare in Spagna. So che adesso non posso a causa della guerra, ma prima o poi finirà. Voglio avere notizie della mia famiglia, voglio stare con mio figlio.» «Lo capisco, ma pensi che tuo marito te lo permetterà?» «Non lo so, ma devo chiedergli perdono e lo supplicherò di lasciarmi vedere Javier. Non potrà rifiutarsi, è pur sempre mio figlio.» Carla rimase in silenzio. Riteneva difficile che il marito spagnolo perdonasse la moglie fuggita con l'amante. Ma non voleva deludere le speranze di Amelia, particolarmente fragile dopo l'incubo vissuto a Mosca. «Mi rendo conto che tu voglia tornare in Spagna ma, come hai detto tu stessa, adesso non è possibile. Potresti venire a stare da noi e, quando sarà il momento, ti aiuteremo a tornare a Madrid.» «Tu e Vittorio siete molto generosi con me, ma qui ho un lavoro che mi permette di mantenermi, mentre se venissi con voi non so cosa potrei fare.» «Niente, non devi fare altro che stare con noi. Non hai bisogno di lavorare, devi solo farci compagnia.» Ma Amelia era orgogliosa e per niente al mondo avrebbe accettato di dipendere da qualcuno, senza guadagnarsi il pane. Cercò il modo di dirlo senza offendere Carla. «Non mi sentirei a mio agio a guardarvi lavorare senza fare niente.» «Va bene, allora puoi fare da segretaria a Vittorio.» «Ma non ha bisogno di un'altra segretaria!»

Parlarono per un bel po' e Carla le fece promettere almeno che sarebbe ricorsa a lei in caso di bisogno. Quando la Alessandrini partì da Parigi, lasciò un gran vuoto in tutti noi. Un giorno Amelia rientrò a casa in lacrime. Mia madre cercò di consolarla. «Io... io... avevo una prozia che viveva a Parigi, la zia Lily. Oggi mi sono fatta coraggio e sono andata a casa sua, nella speranza che mi ricevesse e mi desse notizie della mia famiglia, ma il portiere mi ha detto che è morta qualche mese fa.» Era ansiosa di avere notizie dei suoi e diceva a mia madre che pregava affinché la perdonassero. Aveva nostalgia dei genitori, di suo figlio, dei cugini, perfino del marito. «Sono stata così cattiva con lui! Santiago non si meritava quello che gli ho fatto» si rammaricava. Il 7 novembre il segretario dell'ambasciata tedesca a Parigi, Ernst von Rath, fu vittima di un attentato. Due giorni dopo, in Germania ebbe luogo la tristemente famosa Notte dei cristalli. Oltre trentamila ebrei furono arrestati, vennero distrutte 267 sinagoghe e saccheggiati più di 7500 negozi. Albert James diceva sempre che il peggio doveva ancora arrivare e aveva ragione. I governi europei non volevano ammettere di trovarsi di fronte a un mostro, e lo lasciarono fare... In quei giorni della fine del 1938 sembrava che il mondo intero fosse sul punto di crollare. A dicembre, Franco mise in atto una grande offensiva militare conto la Catalogna che in pratica avrebbe deciso la fine della guerra e il trionfo dei fascisti. Poco prima di Natale, Albert James partì per l'Irlanda. Anche se era statunitense, i suoi genitori erano irlandesi e visitavano spesso il paese natale, dove avevano ancora molti parenti. La famiglia si riunì a Dublino per trascorrere le feste natalizie. Non so se il mio caro amico Pablo Soler gliel'ha spiegato, ma Albert

James proveniva da una famiglia benestante e vantava antenati illustri. Il nonno di James era stato a servizio presso la corte della regina Vittoria. A quell'epoca, altri membri della sua famiglia occupavano posti di responsabilità nel governo britannico, credo che un cugino di sua madre ricoprisse un'alta carica al ministero degli Esteri e uno zio da parte di padre lavorasse presso l'Ammiragliato. Il viaggio di Albert James accrebbe ancor di più la nostalgia di Amelia e il giorno di Natale i miei genitori, Danielle e André Dupont, invitarono Jean Deuville a pranzo da noi per cercare di tirare su di morale la ragazza. Parlarono della Spagna. Il capo del governo Juan Negrin credeva ancora che fosse possibile resistere. Invece era soltanto una pia illusione. Inoltre, la Gran Bretagna e la Francia sembravano intenzionate a mostrarsi concilianti con Hitler; questi e Mussolini erano i principali sostenitori di Franco all'estero. Il 26 gennaio 1939 Barcellona cadde in mano alle truppe di Franco, ma ormai da giorni era iniziato un esodo di massa verso la Francia. Il governo francese cercò di evitare che centinaia di migliaia di rifugiati spagnoli passassero la frontiera, tuttavia fu sopraffatto dagli eventi e dovette aprirla. I giornali della destra più reazionaria pubblicarono articoli xenofobi contro gli esiliati spagnoli; gliene farò leggere qualcuno, così potrà farsi un'idea precisa dell'atmosfera che si respirava in Francia in quel momento. Albert James decise di recarsi alla frontiera per fare un reportage sull'arrivo degli esiliati e chiese ad Amelia di accompagnarlo in qualità di assistente. «Quattro occhi vedono meglio di due e poi mi aiuterai con la lingua. Fatico a capire lo spagnolo se parlano molto in fretta.» Amelia accettò senza esitazioni. Era un'occasione per avvicinarsi alla Spagna e credo che in cuor suo sperasse di incontrare qualcuno di famiglia.

Arrivarono il 28 gennaio e si trovarono davanti a uno spettacolo desolante. Donne, vecchi, bambini, ammalati, gente di ogni condizione in fuga dai franchisti. Persone disperate, che affrontavano l'esilio senza sapere se un giorno sarebbero riuscite a tornare indietro. Le autorità francesi, sopraffatte dalla massa di profughi, avevano improvvisato alcuni ricoveri nel dipartimento dei Pirenei orientali. Il primo venne creato a Rieucros, nei pressi di Mende (nel dipartimento di Lozère); poi ne sorsero altri, sulle spiagge di Argèles e Saint-Cyprien, ad Arles-sur-Tech... Albert James scrisse alcuni degli articoli più sentiti di tutta la sua carriera; ne conservo qualcuno di quelli pubblicati sulla stampa inglese. In quei giorni Amelia gli fece da interprete e intervistarono decine di rifugiati che descrissero nei dettagli le sofferenze patite e assicurarono che la guerra era ormai irrimediabilmente persa. La sera del 5 febbraio, il giorno dopo che le truppe franchiste avevano conquistato Girona, il governo francese si vide costretto a lasciare entrare una nuova ondata di persone, questa volta gruppi di militari, a cui però fu imposto di lasciare le armi. Fu un miracolo che, in mezzo a quel caos, Amelia fosse riuscita a incontrare Josep Soler e suo figlio Pablo. Sembra che lei e Albert James stessero parlando con alcuni rifugiati quando la donna si sentì toccare la spalla. Si voltò e vide Josep che teneva per mano Pablo. Per Amelia fu un duro colpo. «Mio Dio, siete vivi! Come sono felice! E Lola?» «Non è voluta venire, la conosci. Non c'è stato modo di convincerla» spiegò Josep. «Mia madre ha detto che nessun fascista la manderà via dalla Spagna» disse Pablo. Amelia li prese in disparte. Era impressionata dall'eccessiva magrezza di Pablo e dall'invecchiamento prematuro di Josep.

«Prima di tutto andiamo a mangiare qualcosa» propose. «Sarà difficile, i francesi non vogliono che ci sparpagliamo» disse Josep. Ma Amelia non era affatto disposta ad abbandonare Josep e Pablo al loro destino. I soldi hanno sempre fatto miracoli, e persino in quella disperazione disperata non tutti i rifugiati subivano la stessa sorte. Per chi aveva denaro, gioielli, oggetti di valore o amici, c'era qualche probabilità di evadere dai campi. Josep e Pablo non possedevano nulla, ma avevano incontrato Amelia, il miglior lasciapassare per sfuggire al caos... Victor Dupont si versò l'ultimo bicchiere di vino rimasto nella bottiglia. «Credo che per oggi possa bastare. Forse dovremmo telefonare al nostro amico Pablo Soler, così sarà lui a raccontarle quello che accadde dopo, in fin dei conti è stato protagonista di quegli eventi.» «Lo farò al mio ritorno in Spagna. Mi stupisce molto quel che mi ha detto, che il professor Soler abbia rivisto Amelia.» «Lo immagino. Glielo racconterà lui stesso. Le va bene domani?» «Domani?» «Sì, arriva domattina presto a Parigi, perciò, se lei non ha niente di meglio da fare, dopo pranzo possiamo trovarci tutti e tre.» Victor Dupont scoppiò a ridere vedendo la mia espressione incredula. Lo divertiva essere riuscito a sorprendermi. «Pablo e Charlotte ogni tanto vengono a Parigi e avevano programmato questa visita da tempo.» «Non mi ha detto niente...» «Lo so, ma non ce n'era motivo, non le sembra?» Non importava come la pensassi, pertanto seguii docilmente le istruzioni di Victor Dupont e il giorno dopo alle tre del pomeriggio mi incontrai con loro due. Anzi, con loro tre, perché quando arrivai a casa di Dupont c'era anche Charlotte.

«Non vi disturberò, ho intenzione di andare a fare shopping, quindi vi lascio. Sarò di ritorno verso le sette, va bene?» disse la donna a mo' di saluto. «Bene, Guillermo, il mio amico Victor mi ha aggiornato su quanto le ha raccontato.» «In effetti, questa storia si sta rivelando una continua sorpresa, professore» replicai con ironia. «È il bello delle ricerche» osservò con noncuranza. «Quindi lei ha rivisto la mia bisnonna...» «Le ho già detto che ho vissuto a casa di Victor Dupont.» «Sì, è vero.» «E come crede che ci sia arrivato?» «Suppongo che adesso me lo spiegherà.» «Infatti» disse il professor Soler. Amelia ci sistemò in una stanza dell'albergo in cui alloggiava perché pensava di convincere il prefetto che eravamo suoi parenti e che si sarebbe presa cura di noi, ma fu Albert James a vincere le resistenze delle autorità francesi. Era un giornalista importante e nessuno voleva venire citato in uno dei suoi articoli sulla stampa britannica o su quella statunitense. In ogni caso, non eravamo sicuri di poter scampare all'internamento. «Raccontami cosa sta succedendo, se davvero abbiamo perso la guerra» chiese Amelia a Josep. «Credi che sarei qui se non fosse così? È inutile continuare a combattere, abbiamo perso.» «Ma perché?» «Loro hanno ricevuto più aiuti.» «Ma noi potevamo contare sulle Brigate internazionali e sul sostegno di Mosca» insisté Amelia. «Ti sbagli, eravamo soli. L'Europa ci ha voltato le spalle e la Francia e la Gran Bretagna sono rimaste a guardare da lontano quel che succedeva, senza compromettersi. Certo, è venuta gente da tutto il mondo a sostenere la repubblica, hanno profuso sforzi e sacrifici, ma non è stato sufficiente. Franco

aveva dalla sua la Germania e l'Italia, ma soprattutto ha approfittato della passività dell'Europa. Non hai idea di cos'è stata la battaglia dell'Ebro... È lì che ci hanno dato il colpo di grazia. Sono morti a migliaia, da entrambe le parti, però loro hanno vinto.» «È un ottimo stratega» commentò Albert James. «Chi? Franco?» Amelia sembrava stupita da quell'affermazione. «Sai, Amelia? È impossibile sconfiggere il nemico se non riconosci le sue doti.» «Come puoi dire che Franco ha delle doti? È un traditore della repubblica, ha distrutto la Spagna» ribatté Amelia arrabbiata. «Visto l'esito della guerra, ha dimostrato di essere un ottimo stratega militare. Ma ammetterlo non cancella il fatto che sia un fascista e una disgrazia per la Spagna. Sei più tranquilla se faccio queste precisazioni?» «Non devi mica farmi un favore, ma dire come stanno le cose.» «Allora, ecco un aspetto della realtà che immagino non ti piacerà. Tutto quello che ha detto Josep è vero, ma ci sono stati altri problemi, come l'enorme spreco di energie da parte dei repubblicani nel combattere tra loro» sentenziò Albert James. Josep abbassò la testa. Sembrava non voler ascoltare le parole del giornalista. «Cosa intendi dire?» domandò Amelia con astio. «Voglio dire che, mentre l'esercito fascista aveva un chiaro e unico nemico, per i repubblicani non è stato così. Mi sbaglio, Josep, se affermo che voi comunisti avete sprecato molte energie perseguitando la gente del Partito operaio di unificazione marxista, il POUM, e che ci sono state continue liti tra socialisti, anarchici e comunisti? Chi ha ucciso Andreu Nin?» «Sì, ci sono stati dei problemi» ammise Josep. «Perciò, mentre Franco aveva un solo obiettivo, cioè farla finita con la repubblica per instaurare un regime fascista, la

sinistra combatteva contro di lui e al contempo era impegnata nelle lotte intestine. La guerra civile tira fuori il peggio dalle persone, Amelia.» «Tu non conosci bene il mio paese. Franco è un traditore, come tutti gli insorti.» «Sì, Franco è un traditore, ma ciò non toglie che io abbia ragione» replicò James. «Non abbiamo perso la guerra solo per le divergenze all'interno della sinistra» intervenne Josep. «Certo che no, sarebbe un'affermazione semplicistica. Ho solo detto che i difensori della repubblica hanno sprecato energie indispensabili per affrontare un nemico che doveva combattere soltanto loro e che poteva contare sull'aiuto della Germania e dell'Italia» precisò Albert James. «Cosa sta succedendo a Madrid?» domandò Amelia angosciata. «Madrid resiste, e una parte della Mancia e Valencia sono ancora in mano ai repubblicani, ma non so per quanto tempo...Credo che non riusciranno a resistere ancora per molto» rispose Josep. «Lo so che... è improbabile che tu sappia qualcosa, ma hai notizie della mia famiglia? Avete visto Edurne o mia cugina Laura?» «No, Amelia, non so niente di loro. Noi siamo rimasti a Barcellona per quasi tutta la durata della guerra.» «E adesso cosa pensa di fare?» domandò Albert James a Josep. «Non so, per ora vivere. Secondo lei, come si comporterà Franco con i comunisti?» Albert e Amelia rimasero in silenzio. Josep non aveva bisogno di una risposta; sapeva meglio di chiunque altro cosa sarebbe toccato ai suoi compagni. «Può darsi che mi arruoli nella Legione Straniera. Mi hanno detto che è l'unico modo per scampare a quei maledetti campi di internamento» confessò Josep.

«E Pablo? È un bambino... lui...» Amelia non mi toglieva gli occhi di dosso. Josep fece spallucce. «Dovrebbe stare con Lola, è sua madre. Ma dal momento che le cose stanno così, ci arrangeremo.» Amelia convinse Albert James ad aiutare me e Josep; voleva farci arrivare a Parigi, risparmiandoci così l'internamento nei campi. Non era facile, perché i prefetti della zona volevano appunto evitare che i rifugiati si spostassero altrove e soprattutto verso la capitale, ma Amelia ancora una volta diede prova del suo talento nell'affrontare situazioni impossibili. Aveva sfidato i sovietici a Mosca, ottenendo la liberazione di Pierre, e adesso era decisa a salvare i suoi amici. L'albergo in cui alloggiavano apparteneva a una coppia con due figli, il maggiore dei quali per lavoro trasportava frutta e verdura con un camioncino. Amelia gli chiese di nasconderci tra le cassette di ortaggi e di portarci a Parigi. Lei sarebbe venuta con noi, in caso ci fossero stati problemi. Naturalmente gli offrì una cospicua somma di denaro, tutti i suoi risparmi. Il ragazzo esitò, ma alla fine decise di accettare. Albert James non riuscì a dissuaderla dal mettere in atto quel piano folle, neppure ricordandole che, se ci avessero arrestato, nonostante lei avesse i documenti in regola, era pur sempre una straniera - spagnola, in quel momento il peggio che poteva capitarti in Francia - e sarebbe potuta finire in un campo di rifugiati. Ma andò tutto bene e arrivammo a Parigi senza contrattempi. Amelia ci portò a casa dei Dupont. Danielle non sapeva cosa fare quando, aprendo la porta, si ritrovò davanti Amelia con un bambino per mano e accanto a lei Albert James e uno sconosciuto. Invitò a entrare quello strano gruppetto guardandolo con apprensione. La famiglia in quel momento stava cenando, e la sorpresa di André Dupont e di Victor fu ancora più grande, se possibile. «Lasciate che vi spieghi» disse Amelia, decisa a risolvere la situazione. «Josep è un vecchio amico, un compagno, e lui è suo

figlio Pablo. Sono riusciti a fuggire dalla Spagna. Franco ha vinto la guerra e io... voglio aiutarli.» Albert James raccontò ad André Dupont i particolari del viaggio dal Sud della Francia a Parigi e gli chiese di accoglierci finché fossero riusciti a trovarci un posto in cui vivere. Lui stesso si impegnò a cercare di ottenere i documenti necessari a permetterci di restare nella capitale. André Dupont rimase in silenzio. Non sapeva cosa rispondere né come sottrarsi alla richiesta di Amelia e James. Infine prese una decisione. «D'accordo, possono stare qui per un po', ma non è una buona soluzione.» Amelia tirò un sospiro di sollievo e Albert James, con discrezione, fece un gesto a Danielle e le consegnò una busta. «È per contribuire al mantenimento degli amici di Amelia» le sussurrò all'orecchio. «Non... non ce n'è bisogno» replicò lei, un po' imbarazzata. «E invece sì, non potete prendervi un impegno simile» disse James, considerando chiuso l'argomento. Josep dovette dormire sul divano e Victor cedette parte della sua stanza a quello spagnolo, adolescente come lui, che aveva appena fatto irruzione in casa sua. Col passare dei giorni, Josep continuava a insistere che la sua sola via d'uscita fosse arruolarsi nella Legione Straniera. L'unico problema ero io; non sapeva cosa fare di me. Il 9 febbraio 1939 Franco promulgò la legge di Responsabilità politica, che preannunciava le epurazioni e le persecuzioni. Ma per tutti noi fu un colpo ben più duro il fatto che la Francia e la Gran Bretagna avessero deciso di riconoscere il governo di Franco insediato a Burgos. In quel periodo, fine febbraio, Albert James annunciò ad Amelia che sarebbe andato in Messico. Aveva chiesto da tempo un'intervista a Lev Trockij e finalmente il politico russo gliel'aveva concessa. A quell'epoca

viveva in Messico, l'ultima tappa di un lungo esilio che era iniziato in Kazakistan e, passando dalla Turchia, dalla Francia e dalla Norvegia, si era concluso laggiù. Io accompagnavo Amelia in ufficio da James e me ne stavo lì buono buono in un angolo a leggere per non disturbare. Mio padre usciva al mattino presto per andare a cercare un lavoro con cui mantenerci e grazie all'aiuto di alcuni compagni francesi ogni tanto riusciva a ottenere qualche impiego. Un giorno assistei a una discussione tra Amelia e Albert James. Lui era chiuso nel suo ufficio a scrivere quando ricevette una telefonata che gli comunicava la data in cui Trockij l'avrebbe ricevuto per l'intervista. Era prevista per dieci giorni dopo e lui avrebbe dovuto confermare subito se poteva recarsi in Messico. Ovviamente, non esitò. «Amelia, andiamo in Messico» annunciò uscendo dall'ufficio. «Cosa? E perché devi andare fin laggiù?» domandò Amelia. «Ho detto "andiamo", io e te. Mi hanno appena telefonato e Trockij ha accettato di ricevermi. Non sai quanto ho dovuto faticare per ottenere questa intervista. Dobbiamo essere là tra dieci giorni.» «Ma io non posso andarmene, e poi... be', non credo di poterti essere utile là.» «Ti sbagli, avrò molto bisogno di te. Sarai la mia interprete, come quando siamo andati alla frontiera con la Spagna.» «Ma Trockij parla francese...» «Sì, però io non parlo spagnolo e in Messico si parla spagnolo. Non voglio intervistare solo Trockij, ma anche la gente che gli ha dato asilo laggiù e persino i suoi nemici del Partito comunista.» Discussero per un bel po'. Amelia non voleva lasciare soli me e Josep, ma Albert James fu irremovibile e le ricordò che quel viaggio faceva parte del suo lavoro. Amelia disse a Danielle che doveva partire e che non sarebbe tornata prima di un mese. Sapeva di mettere i Dupont nei pasticci, affidandoci a loro, ma non aveva altra scelta, non

potendosi permettere di perdere il lavoro con James. Ad André Dupont la notizia non fece affatto piacere, ma neppure lui aveva alternative. Al suo ritorno, disse Amelia, ci avrebbe cercato una sistemazione o, meglio, si sarebbe presa cura di me con tutte le conseguenze, visto che Josep stava per arruolarsi nella Legione Straniera. Il professor Soler considerò concluso il racconto, così d'improvviso, e devo ammettere che la cosa mi infastidì. «Mio caro Guillermo, lei dovrà andare in Messico, io non so cosa sia successo laggiù» annunciò lasciandomi sconcertato. «Ma professore, che importanza ha? Mi racconti cosa avvenne quando Amelia e James tornarono dal Messico. Insomma: saranno andati, avranno fatto l'intervista e via.» «Ah, no! Così non va. Le signore Garayoa l'hanno assunta perché vogliono sapere nei minimi dettagli tutto ciò che riguarda la vita di Amelia. Come avrà capito, le ricerche storiche non sono un compito facile, tutt'altro.» «Ma...» «Niente "ma", Guillermo, lei deve colmare tutte le lacune. Non sappiamo cos'è successo davvero in Messico, ma sarà d'accordo con me che intervistare Trockij ha avuto la sua importanza.» «D'accordo, ci andrò, ma perché non mi racconta cos'è successo al ritorno di Amelia? Poi, quando comincerò a scrivere, metterò in ordine gli avvenimenti.» «No, lei deve procedere un passo alla volta, mi dia retta. La signora Laura mi ha chiesto di guidarla, ed è quello che sto facendo. E adesso le dico che deve andare in Messico.» Mi rassegnai a seguire i suoi consigli, anche se il viaggio si fosse rivelato una perdita di tempo. In realtà non avevo idea di come cercare le tracce di Amelia in Messico. Ma la fortuna era dalla mia parte, perché mi telefonò Pepe, il caporedattore del giornale, per annunciarmi che mi avrebbe mandato a casa dei libri da leggere e recensire al più presto.

«Senti, tu non sei stato trockista?» gli domandai. «Sì, e cosa c'entra adesso?» mi rispose stizzito. «Trockij ha vissuto in Messico, vero?» «Sì, è lì che l'hanno assassinato.» «Credi che ci sia ancora qualche trockista in Messico?» «Ma che scemenze! Cosa vuoi che me ne importi?» «Mi serve un contatto con qualche trockista messicano.» «Tu sei fuori di testa! Sono vent'anni che ho lasciato perdere quella roba.» «Va bene, ma sono sicuro che conoscerai qualcuno che mi può aiutare. Cerco un trockista in Messico, mica un marziano nel centro di Madrid.» «Puoi dirmi perché? Non so in quali guai ti sei cacciato, ma mi sto innervosendo...» «Ti chiedo un aiuto, non credo che ti costi molto.» Discutemmo per un bel po', ma alla fine lo convinsi a darmi una mano. Mentre organizzavo il viaggio oltre oceano, attendevo impaziente la telefonata di Pepe, che finalmente arrivò. «Ho perso tutto il pomeriggio per trovare qualcuno che conoscesse qualche compagno in Messico. Alla fine mi è venuto in mente un amico che ha lavorato per un certo periodo presso la segreteria per le relazioni internazionali della LIGA. Lui ha dato il numero di telefono di un giornalista messicano che dev'essere più vecchio di Matusalemme. Chiamalo, ma non coinvolgermi nei tuoi casini, non so nemmeno perché ti sto aiutando.» «Perché, pur essendo uno sfruttatore, pure tu hai un cuore.» «Guillermo, non prendermi in giro che non sono dell'umore!» «Il nostro caro direttore ti sfrutta, anche se non quanto fa con me, ma almeno ti paga meglio.» «Senti, niente pistolotti! Prima mi mandi le recensioni dei libri meglio è.» In effetti, fui fortunato, perché telefonai al giornalista

messicano e lui si dimostrò entusiasta di aiutarmi. Il vecchio collega si rivelò molto efficiente. Quando lo chiamai dall'albergo per dirgli che ero arrivato, mi aveva già fissato un appuntamento. «Domani la aspetta il signor Tomás.» «Ah, sì? Ottimo... e chi è il signor Tomás?» «Un uomo sorprendente. È molto anziano, più di me, quest'anno ne compie cento.» «Cento anni?» «Esatto, ma non si preoccupi, ha una memoria prodigiosa. Ha conosciuto Trockij, Diego Rivera, Frida Kahlo...»

2

Tomás Jiménez si rivelò davvero sorprendente. A quasi cent'anni, aveva ancora uno sguardo vivo e una memoria straordinaria. Viveva a Coyoacán, una delle sedici delegazioni amministrative di Città del Messico, con uno dei figli e la nuora, che mi sembrarono vecchi quanto lui. Mi assicurò di avere più di venti nipoti e una dozzina di bisnipoti. Aveva dedicato la vita alla pittura e frequentato alcuni artisti del gruppo di Diego Rivera e Frida Kahlo, anche se non aveva fatto parte della cerchia di amici intimi della coppia. La casa in cui abitava il signor Tomás era una vecchia dimora, con un cortile interno che profumava di gelsomino ombreggiato da diversi alberi da frutta. In realtà, rimasi affascinato da Coyoacán, un'oasi di bellezza in mezzo al caos della capitale messicana. La signora Raquel, nuora del signor Tomás, mi raccomandò di non stancarlo. «Mio suocero gode di buona salute, ma ormai non è più un ragazzino, perciò confido nel suo buon senso» mi avvertì. «E così lei è il bisnipote di Amelia Garayoa. Bella donna, sissignore, molto bella» mi disse il signor Tomás appena mi vide. «Lei l'ha conosciuta?» «Sì, per caso. Lei arrivò a Città del Messico nel marzo del 1939 con un giornalista gringo. A quell'epoca ero un trockista e cercavo di tenermi aggiornato su quel che succedeva intorno al

mio leader.» «Frequentava Trockij?» «Un po'. Aveva paura, Stalin aveva cercato di ammazzarlo diverse volte e non si fidava di nessuno. Arrivare a lui non era facile, anche se qui aveva molti sostenitori, tra cui io. Deve visitare la Casa Azul.» «La Casa Azul?» «Sì, dove Trockij viveva con la moglie Natalia. Era la casa di Frida Kahlo e adesso è un museo. Quando la sua bisnonna e il giornalista arrivarono a Città del Messico, le cose non andavano bene tra Trockij, Diego Rivera e Frida. Diego era un genio e aveva un caratteraccio. Agiva in modo impulsivo e, pur dichiarandosi trockista convinto, polemizzava apertamente con lui. Litigarono perché Diego non aveva appoggiato Lázaro Cárdenas, a cui, ovviamente, Trockij doveva molto. In realtà, Trockij non si fidava troppo di Diego, lo ammirava come artista, ma non lo considerava un politico. Dopo quello screzio, Trockij e Natalia lasciarono la Casa Azul, ma rimasero a Coyoacán, in una casa che oggi è diventata il Museo Lev Trockij.» «Come ha conosciuto Amelia Garayoa?» Il signor Tomás si prese il suo tempo prima di rispondere. Tirò fuori una sigaretta, la accese e aspirò il fumo, poi continuò il suo racconto. Nel marzo 1939 alcuni galleristi che conoscevo mi invitarono a partecipare a una mostra collettiva. Come può immaginare, per me era molto importante. All'inaugurazione vennero molti amici, soprattutto compagni trockisti, e uno di loro era in compagnia di Amelia Garayoa e del giornalista statunitense Albert James. Si chiamava Orlando, era anche lui un giornalista e un dirigente del partito; faceva parte della cerchia di Trockij e sembra che fosse l'intermediario di James per l'intervista. Vede, era impossibile non notare la sua bisnonna perché era bellissima. Sembrava molto fragile, quasi eterea; risvegliò subito la mia curiosità e quella dei miei compari, anche se in

questo paese non ci piacciono particolarmente le donne magre. Ma lei era speciale. Le confesserò che non l'ho dimenticata anche perché lei ebbe il coraggio di dire che nella mia pittura non c'era niente di geniale. Come può immaginare, quel giorno ricevetti solo congratulazioni ed elogi niente affatto sinceri, ma la sua bisnonna non si fece alcun problema a dirmi la verità. Il mio amico Orlando ci presentò, senza rivelare che ero io l'autore dei quadri che continuava a magnificare. A me sembrò che Amelia facesse una smorfia e guardasse i dipinti con indifferenza. «Non le piacciono i quadri?» le domandai. «Credo che il pittore padroneggi la tecnica del ritratto, ma gli manca l'"anima"; no, non credo che sia un genio.» Restammo tutti in silenzio, senza sapere cosa dire. Albert James guardò infastidito Amelia e il buon Orlando rimase sconcertato quanto me. «Ah, le donne! Adesso danno il loro parere su tutto. Be', signorina, anche se lei non se ne intende di pittura, lasci che le dica che Tomás è uno dei migliori» la riprese il mio amico. «Non sarò un'esperta, ma converrà con me che tutti siamo in grado di capire quando ci troviamo di fronte a un'opera d'arte geniale. E questi quadri, per quanto ben fatti, non sono niente di speciale» insisté Amelia, che sembrava continuare a non accorgersi che l'autore dei dipinti ero io. I suoi commenti mi infastidirono, così li piantai in asso e andai a sentire le lodi degli altri invitati. Era la mia giornata e lei me l'aveva appena rovinata! La rividi tre giorni dopo, a casa del mio amico Orlando, che aveva organizzato una cena a cui disse che avrebbe partecipato Trockij. Io avrei voluto parlargli, ma alla fine non venne. Come le ho già detto, era ossessionato dalla sicurezza, perché Stalin aveva cercato di ammazzarlo in più di un'occasione, e come sa, alla fine ci riuscì. Albert James era euforico. Aveva ottenuto l'intervista prima

del previsto. «Pensavo che mi avrebbe fatto aspettare per giorni, e invece me l'ha concessa appena arrivato. È un personaggio molto interessante, peccato che continui a difendere gli eccessi della rivoluzione» disse James. «Eccessi? Crede che sia possibile far crollare un regime senza spargere sangue? Vuole dirmi come hanno fatto gli statunitensi a liberarsi dalla tirannia britannica? E cos'ha dovuto affrontare il suo adorato Lincoln per mettere fine alla schiavitù? Mio caro amico, senza il sangue la storia non avanza» dissi io convinto, incitato dal mio amico Orlando. «In Russia non c'era alternativa che farla finita con gli zaristi e con tutti gli elementi controrivoluzionari, altrimenti sarebbe stato impossibile per i lavoratori impadronirsi del paese.» «Il problema non è la rivoluzione, ma il fatto che il compagno Stalin non voglia condividere il potere con nessun altro. Ha tolto di mezzo tutti i vecchi compagni bolscevichi» aggiunse Orlando. Oltre al gringo, Amelia era l'unica a conoscere bene l'Unione Sovietica. Ma lo sa che soltanto in seguito mi resi conto di quanto era stata prudente nei suoi commenti? Nonostante le nostre domande su come si viveva a Mosca, Amelia non mosse alcuna critica e non disse niente che potesse darci un indizio su come stessero realmente le cose. Ci descrisse Mosca come avrebbe fatto una guida turistica. Le domandai come le era sembrato Trockij, visto che aveva accompagnato Albert James per l'intervista. «Credo che stia soffrendo molto. Non dev'essere facile vivere in esilio sotto una costante minaccia di morte. Questo lo rende estremamente prudente, diffidente; ha tutti i motivi per esserlo. Mi ha impressionato di più Natalia.» «Davvero? A me non è sembrata niente di speciale» replicai, stupito che la moglie di Trockij avesse attirato la sua attenzione.

«Immagino che a prima vista Natalia non sembri una donna speciale, ma lo è; ha seguito il marito in esilio, si prende cura di lui, lo coccola, lo protegge e lo perdona» affermò Amelia. «Ah, le hanno già raccontato i pettegolezzi su Trockij!» esclamò Orlando. «Mi creda, può aver avuto qualche avventura, come qualunque uomo, ma non è un donnaiolo.» «Io credo che vivere con un uomo come lui e in simili circostanze sia un atto eroico» sentenziò Amelia. Come lei sa, si dice che Trockij e Frida Kahlo avessero una relazione. Una cosa senza importanza per entrambi, visto che per Frida non esisteva nessun altro oltre a Diego e di certo Trockij aveva bisogno di Natalia. Ma le donne non capiscono gli uomini e li giudicano superficialmente. Frida era molto speciale e... come avrebbe potuto Trockij resistere a una donna così? Amelia e Albert James rimasero ancora per qualche giorno a Città del Messico. Il giornalista voleva saperne di più sulla polizia messicana e ottenne perfino un'intervista con il presidente Lázaro Cárdenas; inoltre incontrò alcuni spagnoli arrivati qualche mese prima. Fui proprio io a metterlo in contatto con alcuni di quegli esiliati, tra cui il mio amico José María. José María Olazaga era basco ed era scappato attraversando la frontiera con la Francia poco dopo che le truppe di Franco avevano sconfitto le forze repubblicane e conquistato le Asturie, Santander e i Paesi Baschi. Era arrivato a Città del Messico insieme alla moglie, al figlio, e a un ragazzo che gli faceva da segretario. Facevano parte dei nazionalisti baschi e, pur non avendo rivestito ruoli importanti nel partito, erano entrambi molto noti. Proposi ad Albert James di incontrare José María, perché lui avrebbe potuto raccontargli come si stava organizzando l'esilio spagnolo in Messico. James accettò subito e lo accompagnai all'appuntamento con il mio amico che, come Trockij, si era stabilito a Coyoacán.

Oggi Coyoacán è uno dei tanti sobborghi di Città del Messico, ma all'epoca era un piccolo paesino distante dieci chilometri dal centro della capitale. Il mio amico aveva messo su una tipografia che andava piuttosto bene, dove gli esiliati stampavano la loro propaganda e i manifesti. José María ci aspettava ansioso perché gli avevano detto che il giornalista statunitense era in compagnia di una spagnola. Non immagina che spavento quando, appena entrati in casa del mio amico, sentimmo Amelia lanciare un urlo tremendo. Era di sorpresa, di gioia. Insieme a José María c'era un ragazzo, il suo segretario, che si chiamava Aitor. Lui e Amelia si conoscevano; come ci raccontarono in seguito, la sorella di Aitor era stata la cameriera di Amelia. «Mio Dio! Non può essere!» gridò Amelia. Si abbracciarono e Amelia scoppiò in lacrime, mentre Aitor tratteneva le sue. «Ma cosa ci fai qui? TI pensavo con tua madre alla cascina...» gli disse Amelia. «Sono scappato. Ho aiutato il signor José María e la sua famiglia a passare la frontiera. Ricordi quando ti insegnai i sentieri dei pastori che andavano in Francia? Siamo riusciti a percorrerli per miracolo. Passato il confine, pensavo di tornare indietro, ma...» «Ma io gli ho consigliato di non farlo» intervenne José María. «Era troppo rischioso. La gente sapeva che lavorava con noi ed era in pericolo. Sa cosa sta succedendo: i fascisti vanno nei villaggi e c'è sempre qualcuno disposto a denunciare il vicino. Stanno ammazzando molta gente, non pensi che tutte le perdite avvengano al fronte.» «E tu cosa ci fai in Messico? Edurne ci ha detto.... Be', so che sei andata in Francia» disse Aitor, un po' in imbarazzo. «Sì. Immagino che ti avranno raccontato tutto.» Aitor chinò il capo e mormorò un "sì" quasi impercettibile. Sia lui sia Amelia parevano molto a disagio. «Mia sorella è sempre da tua cugina Laura» spiegò Aitor.

«Credo che stiano bene, anche se ormai è da molto tempo che non ho più notizie di loro.» «E tua madre, i tuoi nonni?» si preoccupò Amelia. «So che sono sempre alla cascina. Li hanno portati alla caserma della Guardia Civil per interrogarli, ma poi li hanno rilasciati. Li conosci, sai che non si sono mai occupati di politica.» «Dimmi le ultime notizie che hai avuto a proposito della mia famiglia...» «Le cose per loro non vanno tanto bene. Tuo marito... be', si era arruolato con le truppe repubblicane e, a quanto ne so, era stato ferito, ma poi è guarito ed è tornato a combattere al fronte; adesso ignoro che fine abbia fatto. Anche tuo padre e tuo zio sono stati richiamati, mentre le donne sono rimaste a Madrid. Mia sorella è con tua cugina Laura e... sai che è diventata socialista o comunista?» «Lo so. Hai qualche notizia di mio figlio?» «L'ultima cosa che ci ha raccontato Edurne è che a volte accompagna tua cugina Laura a vederlo quando la balia, credo si chiami Águeda, lo porta a passeggio. Tuo marito non vuole più saperne della tua famiglia, ma sembra che quell'Águeda sia una brava donna e di nascosto permette ai tuoi genitori e ai tuoi zii di vedere Javier. Visto che il bambino ormai parla e Águeda teme che lo dica a suo padre, si sono messi d'accordo in modo che lo guardino da lontano quando lei lo porta fuori a passeggio, ma senza avvicinarsi, perché sanno che, se tuo marito venisse a saperlo, licenzierebbe la povera Águeda.» Amelia tratteneva a stento le lacrime. Non bisognava essere particolarmente perspicaci per capire che si sentiva umiliata. Le tremava il labbro inferiore e si tormentava le mani. «Tornerai in Spagna?» domandò Aitor. «E come? È impossibile, può darsi che mi abbiano schedata come comunista, non lo so.» «È iscritta al partito?» volle sapere José María. «Be', sono iscritta al Partito comunista francese, in Spagna

non mi sono mai tesserata.» «Allora non è schedata. Magari le permetteranno di rientrare» spiegò José María. Credo che proprio in quel momento la possibilità si fece strada nella testa di Amelia. «E tu? Resterai a vivere in Messico?» Aitor tacque, ma José María parlò per lui. «Suppongo che siate persone fidate, perciò possiamo essere sinceri. Per ora è meglio restare qui: a quanto sappiamo, il governo francese si sta comportando male con gli spagnoli, al contrario di quanto avviene in Messico. Dovremmo aiutare coloro che sono rimasti in patria e chi vuole scappare, ora che la Francia ha deciso di chiudere le frontiere. Proprio di questo stavamo parlando ieri: Aitor conosce i valichi e, anche se è molto rischioso, forse lui è più utile alla frontiera con la Spagna. Ma non abbiamo ancora deciso nulla. Prima dobbiamo capire cosa sta succedendo esattamente e se questa maledetta guerra finirà una volta per tutte.» «I fascisti stanno vincendo» assicurò Amelia. Guardammo tutti Albert James, in attesa che confermasse quello che diceva Amelia e ci informasse sulla situazione reale. «Amelia ha ragione, la repubblica ha perso la guerra. È questione di settimane perché finisca» disse il giornalista. «Cosa pensa che succederà?» domandò José María. «Non lo so, ma è difficile pensare che Franco possa perdonare quelli che hanno combattuto per la repubblica. I sopravvissuti di entrambe le fazioni dovranno ricostruire un paese distrutto e affrontare un'altra battaglia, questa volta contro la miseria e la fame.» «E le potenze europee?» domandò Aitor. «Non hanno mai considerato la guerra di Spagna come un loro problema. La Francia e la Gran Bretagna hanno ormai riconosciuto il governo di Burgos; la Germania e l'Italia sono alleate di Franco. No, non fatevi ingannare: la Spagna è sola, lo era durante la guerra e lo sarà a partire da adesso. Non è una

priorità per nessuno» disse James. «Allora forse dobbiamo cambiare programmi e Aitor deve rientrare quanto prima. Abbiamo degli amici dall'altra parte del confine, in Francia; là non avrà problemi e potrà aiutare la gente a passare o magari organizzare la Resistenza all'interno...» rifletté José María. Eravamo rimasti sconvolti dalla crudezza del racconto di Albert James. José María e Aitor non erano certo ingenui, ma probabilmente nutrivano ancora la segreta speranza di poter salvare la Spagna, e se stessi, da Franco. Nei giorni seguenti, Amelia e Aitor passarono insieme tutto il tempo che poterono. José María fu stupito di sentirli parlare in basco. Nessuno di noi li capiva, nemmeno lui. L'euskera di allora si parlava nelle campagne e non era certo una lingua che ai borghesi interessava conoscere, al contrario, perciò sembrava strano che Amelia l'avesse imparata. «Vedo che non hai dimenticato» le disse Aitor. «In realtà non sapevo di ricordarmelo, è da così tanto tempo che non lo parlo...» «Mia madre diceva che eri molto portata per le lingue.» «La mia cara Amaya! È sempre stata così buona e affettuosa con me...» Tomás Jiménez chiuse gli occhi e mi spaventai al pensiero che gli stesse succedendo qualcosa. Ma li riaprì subito. «Non si allarmi, Guillermo: se chiudo gli occhi ricordo meglio e posso vedere Amelia e i miei amici. Aitor e José María diedero ad Amelia vari numeri di telefono e indirizzi di compagni del Partito nazionalista basco che erano riusciti a rifugiarsi in Francia. Aitor disse ad Amelia che se fosse tornato l'avrebbe cercata. Suppongo che l'abbia fatto, perché due mesi dopo se ne andò. José María rimase in Messico e non fece mai più ritorno in Spagna. Purtroppo è morto prima di Franco.» La signora Raquel mi salutò raccomandandosi che tornassi a

trovarli prima di lasciare Città del Messico. Non mantenni la promessa, perché ero così coinvolto dalla storia della mia bisnonna che pensavo solo a scrivere il racconto e a trovare qualcuno che mi rivelasse il seguito. Telefonai a Victor Dupont: non sapevo se Pablo Soler e Charlotte si trovassero ancora nella capitale francese. Mi confermò che avevano fatto ritorno a Barcellona. Era chiaro che il filo conduttore della mia storia continuava a essere lo storico, perciò la mia prossima meta era la Spagna. «La invito domani a pranzo, così avremo tutto il pomeriggio per parlare» mi propose Soler quando gli telefonai. Arrivai puntuale all'appuntamento con il professore. Ammetto che mi stava diventando simpatico e ormai ogni volta che ci vedevamo mi stupiva con qualche rivelazione. Durante il pranzo gli descrissi la mia trasferta messicana e lui attese il dolce per raccontarmi quello che accadde quando Amelia e Albert James rientrarono a Parigi... Fummo contenti di riavere Amelia tra noi. Danielle Dupont diceva che si era abituata alla "piccola spagnola" e che la casa sembrava vuota senza di lei. Anche il signor Dupont era d'accordo sul fatto che bisognasse festeggiare. Credo che per Josep fu un sollievo che fosse tornata: lei era il suo angelo custode, la sua protettrice. Amelia volle essere messa al corrente della situazione in Spagna. «A Madrid, il generale Casado, appoggiato da Julián Besteiro, ha preso il controllo della situazione, esautorando il governo di Negrin. Sembra che stia negoziando con il governo di Burgos per mettere fine alla guerra e che sia ormai questione di giorni» riferì Josep con un filo di voce. La previsione si rivelò errata, perché appena il giorno dopo, il 28 marzo 1939, le truppe nazionaliste entrarono nella capitale. Per Amelia e Josep fu una mazzata. Pur aspettandosi la notizia, in realtà non erano pronti a riceverla. Il peggio accadde quando il 1° aprile Albert James si presentò

a casa con un foglio in mano. «Mi dispiace, l'ho appena ricevuto: è l'ultimo bollettino di guerra.» «Leggilo» lo pregò Amelia. «"Oggi, dopo aver catturato e disarmato l'esercito rosso, le truppe nazionaliste hanno raggiunto gli ultimi obiettivi militari. La guerra è finita." È firmato dal generale Francisco Franco.» Amelia scoppiò a piangere e neppure Josep riuscì a trattenere le lacrime. Anche la signora Dupont, Victor e io fummo contagiati. Solo mio padre e Albert James riuscirono a controllarsi. «Andrò in Spagna» disse James ad Amelia. «Chiederò i permessi necessari per recarmi a Madrid.» «Vengo con te» replicò Amelia asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Non mi sembra una buona idea, non sappiamo cosa può succedere» fece notare Albert James. «Allora ci andrò da sola! Voglio tornare a casa mia, voglio avere notizie dei miei. Ho un figlio, dei genitori, un marito...» disse singhiozzando. «Vedrò quello che posso fare.» Albert James se ne andò con la promessa di tornare più tardi con altre notizie e anche mio padre uscì per incontrare alcuni compagni e cercare di avere informazioni. Quella sera, dopo aver cenato tutti insieme, restammo a parlare fino all'alba. Josep disse che non aveva altra scelta che arruolarsi nella Legione Straniera; non voleva tornare in uno di quei campi di rifugiati dove si assiepavano migliaia di spagnoli in fuga dalla guerra. Chiese ad Amelia di riportarmi in Spagna e di provare a rintracciare Lola. «Con sua madre starà meglio.» «Ma potrebbero averla arrestata, o magari è scappata» ipotizzò Amelia. «Ci avrebbe trovati. Conosco Lola, so che è rimasta per

combattere fino alla fine. Vi ho già raccontato che le ho chiesto di passare la frontiera con noi, ma non ha voluto. Comunque, anche se non trovi Lola, sua madre può occuparsi di Pablo. Vive a Madrid, all'angolo di plaza de la Paja. È una brava donna e non si è mai cacciata nei guai, non credo che i fascisti se la prenderanno con lei.» Il tono di Josep non ammetteva repliche. Io dissi che non volevo separarmi da mio padre per andare a stare da mia nonna, e Danielle, che era un donna molto generosa, si offrì di badare a me finché la situazione in Spagna non si fosse chiarita, ma Josep fu inflessibile. Sapeva che, in quel momento, per noi non c'era futuro in Francia. Le notizie che ci arrivavano sui campi profughi erano terribili, i francesi erano sopraffatti dalla valanga di rifugiati. Nel campo di Bram avevano sistemato gli anziani; ad Agde e a Riversaltes c'erano i miliziani, soprattutto catalani; a Sepfonds e Le Vernet avevano concentrato operai e intellettuali, come a Gurs. Albert James ottenne il permesso per recarsi in Spagna. Era pericoloso perché, anche se la guerra era finita, i franchisti volevano farla pagare a chiunque avesse combattuto dalla parte dei repubblicani. James temeva per Amelia, ma lei diede prova di grande coraggio. Assicurò a Danielle che, se fosse tornata in patria con un giornalista statunitense, i franchisti non le avrebbero fatto niente, ma nemmeno Albert James ne era sicuro al cento per cento. Amelia, Albert e io raggiungemmo in auto la frontiera. Albert guidava una buona macchina per l'epoca, ma il viaggio da Parigi mi sembrò eterno. Alle otto del mattino del 10 maggio arrivammo a Irún. C'erano soldati e guardie dappertutto. Due guardie di frontiera ci ordinarono di scendere dall'auto. Albert James non se la cavava bene con lo spagnolo, perciò Amelia prese in mano la situazione. «Dove andate?» domandò la guardia. «A Madrid.» «E perché ci andate?» insisté la guardia mentre il suo collega

esaminava i nostri passaporti. «Il signor James è un giornalista americano e vuole scrivere un reportage sulla Spagna dopo la fine della guerra.» «E lei invece chi è?» «Sono l'assistente del signor James, la sua interprete. Come le ho detto, è americano, lo può vedere dal suo passaporto.» «E il ragazzino? Perché viaggia con voi?» «Sono amica dei suoi genitori e, siccome vivo a Parigi, l'hanno mandato a stare da me per evitargli i disastri della guerra; adesso lo riporto dai suoi, che spero siano vivi.» «I genitori sono dei nostri?» volle sapere la guardia. «Sono bravissime persone, onesti e lavoratori, e hanno combattuto strenuamente per la Spagna.» «E dove sono i documenti che attestano che il bambino è affidato a lei?» domandò la guardia. «Crede forse che durante la guerra qualcuno si sia preoccupato dei suoi documenti? È già tanto che siano riusciti a mandarlo a Parigi per metterlo al sicuro.» Le guardie parlarono tra loro per un bel po' e alla fine dovettero arrivare alla conclusione che un giornalista americano, una giovane donna e un ragazzino non potevano essere pericolosi, quindi ci lasciarono passare. Amelia, che da poco aveva iniziato a fumare, si accese una sigaretta appena risalimmo in macchina. «Sei molto abile a evitare le domande» le disse Albert James. «Come fai a saperlo se non capisci lo spagnolo?» «Lo capisco abbastanza, ma fatico a parlarlo. Hai un notevole autocontrollo! Naturalmente me ne ero già accorto a Mosca.» Impiegammo quasi dodici ore a raggiungere Madrid, non solo a causa del pessimo stato delle strade, ma perché c'erano truppe ovunque. Arrivati in città, Albert James ci portò in un albergo nei pressi della Gran Via, il Florida, raccomandatogli da un collega.

Il Florida era stato il luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri che facevano informazione dalla parte repubblicana. L'albergo aveva subito le devastazioni della guerra e non era in buono stato, perciò Albert James si ricordò di un altro indirizzo, quello di una pensione non lontana, dove un fotografo americano suo amico aveva alloggiato per buona parte del conflitto. La proprietaria era una donna minuta e così magra da sembrare denutrita. Ricordo che ci accolse piena di gratitudine. «Non ho nemmeno un ospite, perciò potete scegliere la stanza. Non vi garantisco di riuscire a darvi da mangiare, perché in giro non si trova nulla, a meno di non provare al mercato nero. Ah, mi chiamo Rosario.» Le camere erano pulite e i balconi si affacciavano proprio sulla Gran Via. Quando Albert James spiegò alla donna che eravamo andati da lei dietro segnalazione di un altro giornalista statunitense, la signora Rosario sembrò guardarci con più simpatia. «Bisogna stare attenti a chi ci si mette in casa, e soprattutto a quel che si dice, perché adesso si rischia di finire in carcere per il minimo commento.» La signora Rosario ci raccontò che suo marito era stato un funzionario del ministero delle Finanze e che, fino allo scoppio della guerra, non le era mai mancato niente. «Vivevamo bene, vedete com'è comodo questo appartamento, ma poi il mio povero marito è stato arruolato ed è morto al fronte, proprio sulla Sierra di Guadarrama. E in guerra di qualcosa bisognava pur vivere, così ho iniziato a prendere ospiti. Me l'ha consigliato una cugina che affittava due stanze ai giornalisti stranieri e che mi ha mandato alcuni amici dei suoi ospiti. Così, come potete vedere, sono sopravvissuta grazie a quest'attività.» «Lei è repubblicana?» le domandò Amelia. «Ah, figliola, ormai fa lo stesso! Adesso dobbiamo adeguarci alla situazione ed è meglio non fiatare. Prima della fine della guerra Franco ha approvato la legge di Responsabilità politica, e

molta gente finisce in carcere; insomma, chiunque sia anche solo sospettato di aver parteggiato per l'altra fazione viene arrestato. Non perdonano.» Erano quasi le dieci quando Amelia ci disse che sarebbe andata a casa dei suoi genitori. «Non posso aspettare fino a domani, non riuscirei a dormire.» «Ma è pericoloso uscire da sola a quest'ora» la ammonì Albert. «Non sappiamo ancora com'è la situazione là fuori, potrebbero arrestarti. Meglio se aspetti.» Faticò a convincerla, ma ci riuscì. Quella notte Amelia non chiuse occhio e all'alba ci svegliò. Albert James disse che per prima cosa doveva accreditarsi come giornalista presso le autorità franchiste. Voleva rendersi conto di come stavano le cose, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarsi vincolare dalla censura franchista. Il suo obiettivo era vedere e ascoltare per poi scrivere i suoi reportage sulla Spagna del dopoguerra. Propose ad Amelia di accompagnarlo, poi l'avrebbe portata a casa dei suoi genitori e più tardi a cercare Lola, ma lei rifiutò. Era nervosa e voleva andare subito a casa a chiedere notizie dei suoi. Alla fine lui cedette e decisero che io sarei andato con lei a casa dei genitori, mentre lui si organizzava per cominciare a lavorare sui reportage. Ricordo ancora l'impressione che mi causò la Madrid dell'epoca. La miseria e la disperazione erano palpabili, ma ugualmente evidente era l'euforia dei vincitori. A piedi percorremmo la Gran Via verso Cibeles e da lì ci inoltrammo nel quartiere di Salamanca, dove viveva tutta la sua famiglia. Ricordo come tremava mentre suonava il campanello della casa dei genitori. Nessuno rispose alle sue chiamate impazienti. Scendemmo le scale in cerca del portinaio, che non avevamo visto entrando, e invece lo trovammo proprio nella guardiola. «Signorina Amelia! Dio mio, che sorpresa!» L'uomo rimase a

bocca aperta quando la vide. «Salve, Antonio, come sta? E sua moglie e i suoi figli?» «Bene, tutti bene. Siamo sopravvissuti e ci riteniamo soddisfatti.» «A casa mia non c'è nessuno?» Il portinaio, nervoso, si tormentò le mani prima di rispondere. «Non lo sa?» «Cosa dovrei sapere?» «Be', nella sua famiglia sono successe certe cose...» rispose il portiere, a disagio. Amelia arrossì, umiliata di dover chiedere notizie della sua famiglia. «Si spieghi, Antonio.» «Senta, è meglio che vada a casa di suo zio. Lì le diranno tutto.» «Dove sono i miei genitori?» insisté Amelia. «Non ci sono più, signorina Amelia. Suo padre... be', non lo so con certezza, e sua madre... mi dispiace, ma la signora Teresa è morta. L'hanno sepolta qualche mese fa.» Il grido di Amelia fu lacerante. Si piegò su se stessa e temetti che stesse per cadere. Io e il portiere la sorreggemmo. Rimase inerte, in preda a un tremito convulso, e, anche se non faceva per niente freddo, batteva i denti. «Vede perché non volevo essere io a dirglielo...? Queste cose è meglio venirle a sapere dalla famiglia» si lamentò il portiere, spaventato di fronte a quella scena. Con gli occhi pieni di lacrime, Amelia chiese di sua sorella. «E Antonietta dov'è?» «E andata a stare dagli zii, aveva problemi di salute. Immagino che sia ancora lì.» L'uomo ci fece entrare nella guardiola e offrì un bicchiere d'acqua ad Amelia, che sembrava non riuscisse a riprendersi. Era così fredda, così pallida, aveva un'aria così indifesa... Andammo a piedi a casa dei suoi zii, a pochi isolati da lì. Amelia, che non smetteva di piangere, mi teneva per mano, e

ricordo ancora la forza con cui me la stringeva. Salimmo in fretta le scale. Amelia era ansiosa di sapere cos'era successo ai suoi. Questa volta ci aprirono la porta alla prima scampanellata e ci trovammo davanti Edurne, la figlia della balia Amaya, la donna che si era presa cura delle bambine Garayoa fin dalla più tenera età. L'incontro tra le due donne fu emozionante. Amelia abbracciò Edurne e lei, vedendola, scoppiò a piangere. «Amelia! Che gioia, che gioia! Meno male che sei tornata.» Le voci di Amelia e di Edurne fecero accorrere nell'ingresso la signora Elena. La zia di Amelia per poco non svenne vedendo la nipote. «Amelia! Sei qui! Dio mio! Laura, Antonietta, Jesús, venite!» La signora Elena prese Amelia per mano e la condusse in salotto. Io le seguii spaventato. Mi sentivo un intruso. Antonietta entrò nella sala seguita dai cugini Laura e Jesús. Amelia cercò di abbracciare sua sorella, ma lei si ritrasse. «No, non baciarmi, sono malata; ho avuto la tubercolosi e non sono ancora del tutto guarita.» Amelia la guardò sgomenta e d'improvviso si accorse dell'aspetto sciupato di sua sorella. Era magrissima e sul volto incredibilmente pallido spiccavano gli occhi grandi e luminosi. Ma, per come era fatta Amelia, ci sarebbe voluto ben più della tubercolosi per impedirle di abbracciare sua sorella. Per un bel po' non ci fu verso di separarla da Antonietta, che baciò accarezzandole i capelli senza smettere di piangere. Laura si avvicinò alle cugine unendosi al loro abbraccio. «Quanto sei cresciuto, Jesús! E hai sempre l'aria così seria» disse Amelia a suo cugino, che aveva all'incirca la mia età e sembrava molto timido. «Anche lui è stato male. Ha l'anemia. Abbiamo sofferto la fame! E continuiamo a patirla» spiegò la signora Elena. «E papà? Dov'è papà?» chiese con un filo di voce. «Tuo padre è stato fucilato una settimana fa» mormorò la

signora Elena «e tua madre... mi dispiace Amelia, ma tua madre è morta di tubercolosi prima della fine della guerra. Grazie a Dio, Antonietta sembra stia guarendo, anche se è ancora molto debole.» Amelia ebbe una crisi isterica. Si mise a gridare, chiamando "fascisti di merda" i nazionalisti, maledicendo Franco, giurando che avrebbe vendicato suo padre. Sua cugina Laura e Antonietta cercarono di calmarla. «Cara, se qualcuno ti sente fucileranno anche te!» le disse la signora Elena, angosciata, supplicandola di abbassare la voce. «Ma perché? Perché? Mio padre era l'uomo più buono del mondo!» «Abbiamo perso la guerra» replicò piangendo Antonietta. «Abbiamo fatto il possibile per ottenere un indulto» spiegò Laura «ma è stato tutto inutile. Non sai quante volte ho scritto implorando clemenza; abbiamo anche chiesto aiuto agli amici che abbiamo tra i nazionalisti, ma non sono riusciti a fare niente.» A quel punto Amelia crollò, si buttò a terra e rimase con le ginocchia strette al petto, piangendo sempre più forte. Laura e Jesús la sollevarono e la aiutarono a sedersi sul divano. La signora Elena si asciugò le lacrime con un fazzoletto e io mi aggrappai alla mano di Edurne, perché mi sentivo perso in quel dramma che sembrava non avere fine: come annunciò Laura a sua cugina, anche la nonna Margot era morta. «Aveva un problema di cuore, ma credo che si sia ammalata per il dolore. La sua cameriera Yvonne ci ha detto che se ne è andata nel sonno, l'ha trovata morta nel letto la mattina dopo.» Quando Amelia sembrò avere recuperato il controllo di sé, la signora Elena le spiegò cos'era successo. «Abbiamo passato un periodo terribile, senza cibo, quasi senza medicine... Antonietta si è ammalata e tua madre l'ha curata giorno e notte, contagiandosi. Aveva l'anemia, era molto

debole, e quando c'era qualcosa da mangiare se lo toglieva di bocca per darlo ad Antonietta. Non si è mai lamentata, è stata forte fino all'ultimo. Inoltre, ha dovuto affrontare l'arresto di tuo padre ed è stata la cosa peggiore. Ogni giorno andava alla prigione a portargli qualcosa da mangiare, ma non sempre riusciva a vederlo, purtroppo.» «Perché l'hanno arrestato?» domandò Amelia con voce roca. «Qualcuno l'ha denunciato; non sappiamo chi. Tuo padre è stato al fronte, come tuo zio Armando, ed entrambi sono rientrati a Madrid dopo essere stati feriti» spiegò la signora Elena. «Mio padre è in carcere» aggiunse Laura. «In carcere? Perché?» Amelia sembrò alterarsi di nuovo. «Per lo stesso motivo di tuo padre. È stato denunciato come "rosso"» spiegò Laura. «Ma né mio padre né lo zio sono mai stati rossi, erano della sinistra repubblicana» replicò Amelia, consapevole di dire un'ovvietà per tutti i presenti. «Per Franco fa lo stesso, in questo momento l'unica cosa che conta è da che parte stavi» disse Laura. «Sono degli assassini» dichiarò Amelia. «Assassini? Sicuramente, ma non sono stati soltanto i nazionalisti; anche gli altri hanno ammazzato molti innocenti» ribatté la signora Elena cercando un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. Amelia rimase in silenzio, interdetta da quanto aveva appena detto sua zia. «Io sono monarchica, come tutta la mia famiglia, lo sai, e come la tua povera madre. Vuoi sapere come è morto il mio fratello maggiore? Come sai, Luis era zoppo e non era stato chiamato alle armi. Un giorno è arrivato in paese un gruppo di miliziani chiedendo se c'erano fascisti ed è stata loro indicata la casa di mio fratello. Luis non era mai stato fascista, di destra e monarchico sì, ma non fascista. A loro non importava, sono andati a casa sua e, davanti alla moglie e al figlio, l'hanno

ammanettato e poi l'hanno portato via per sparargli un colpo in testa, poco lontano. Suo figlio Amancio ha sentito lo sparo, è uscito di corsa da casa e ha visto suo padre a terra, con un proiettile in testa. Sai cosa gli ha detto il capo dei miliziani? Che quella era la fine che avrebbero fatto tutti i nazionalisti e perciò che facesse attenzione. Sì, ha detto una cosa simile a un bambino di dodici anni.» La signora Elena sospirò e bevve un sorso d'acqua dal bicchiere che Edurne aveva messo sul tavolino del salotto. «Ma ti racconterò di più, Amelia, perché sono sicura che ti ricordi mia cugina Remedios, la suora. Quando eravate piccoli, una volta vi abbiamo portati a trovarla al convento, vicino a Toledo. Credi che mia cugina abbia mai fatto del male a qualcuno? Si trovava in convento da quando aveva diciott'anni... Una sera è arrivato un gruppo di miliziani, truppe irregolari... Hanno violentato le dodici suore e poi le hanno uccise. Solo perché erano suore.» «Non posso crederci» affermò Amelia. «È vero, è tutto vero» disse Laura. «Posso citarti altri casi, di qualcuno più vicino a te... per esempio, tua zia Montse.» Amelia sussultò e si irrigidì. La zia Montse era l'unica sorella di sua madre e lei e Antonietta le volevano molto bene. Non si era mai sposata e passava lunghi periodi a Madrid insieme a loro. Antonietta e Amelia adoravano le visite della zia, perché le coccolava e le viziava più dei genitori. «Si era rifugiata a Palamós, presso la masseria dei cugini. La poverina pensava che in campagna non avrebbe patito la fame. Non hai idea delle ristrettezze che abbiamo sofferto. La disgrazia della tua famiglia catalana era che non erano comunisti, né socialisti, né anarchici, né sostenitori di Companys... Quei poveracci erano di destra! Erano brave persone, onesti e lavoratori. Ma questo non importava a chi li ha fucilati. I miliziani si sono presentati al villaggio e hanno chiesto a quelli che stavano dalla loro parte se ci fossero dei

nazionalisti. Qualcuno gli ha indicato la masseria dei cugini di tua madre e di Montse. Li hanno uccisi sul posto, la coppia di anziani, i loro tre figli e tua zia. Dimmi, Amelia, non credi che anche questo sia stato un assassinio?» «Mamma, non dire queste cose!» Laura protestò per la durezza del tono della signora Elena. «Voglio solo che sappia che qui i nazionalisti hanno assassinato i rossi e i rossi i nazionalisti, anche fuori dal campo di battaglia, anche fuori dalla guerra. Chi devo odiare io, Amelia? Dimmelo. Mio marito è imprigionato dai nazionalisti, mio fratello è stato ucciso dai rossi. Chi devo odiare di più? Sai una cosa? Li odio tutti» sentenziò la signora Elena. «Dove si trova lo zio Armando?» domandò Amelia, impressionata da quanto aveva sentito. «Nel carcere di Ocaňa. L'hanno condannato a morte proprio come tuo padre e abbiamo chiesto un indulto, abbiamo rivolto ogni tipo di suppliche a Franco. Se è necessario, mi butterò ai suoi piedi e lo implorerò per mio marito, non mi importa; se è quello che vogliono, lo farò.» «Mamma, calmati!» disse Jesús prendendole la mano. «Mi dispiace, mi dispiace... io...» «Tu te ne sei andata e non hai idea di quello che è successo qui. Non so se sei stata felice o disperata, ma ti assicuro che niente di quello che hai passato può essere peggio di quello che abbiamo vissuto noi.» Amelia abbassò la testa, umiliata dai rimproveri della zia. Non era difficile intuire che si sentiva colpevole per aver vissuto al sicuro a Buenos Aires, dove arrivavano solo gli echi della guerra. «E mio figlio? Sapete qualcosa di Javier...?» domandò guardando Laura, perché non sopportava lo sguardo inquisitore della zia. «Javier sta bene. Águeda si prende cura di lui e lo adora. Adesso è a casa dei nonni con il signor Manuel e la signora Bianca. Loro... be', sai che erano di destra e adesso non corrono

alcun pericolo, ma Santiago...» Laura sembrava non avere il coraggio di continuare. Sapeva che sua cugina era allo stremo delle forze, che non avrebbe sopportato altre brutte notizie, e dirle che Santiago era in prigione sarebbe stato come darle il colpo di grazia. «Anche Santiago è in prigione» disse infine Laura. «Come vedi, questo paese è davvero impazzito. Santiago, così come tuo padre e tuo zio, non è mai stato un radicale, né un comunista, ma questo non l'ha salvato dalla prigione» aggiunse la zia Elena. «Anche lui si trova a Ocaňa?» si informò Amelia, sempre più pallida. «Sì, è là» rispose Laura. «E i suoi genitori non possono fare nulla?» domandò Amelia. «Hanno delle amicizie...» «Credi che non stiano muovendo mari e monti per Santiago? Stai certa di sì. Il signor Manuel era stato arrestato dalla polizia segreta sovietica e si è salvato per miracolo. Sembra che l'abbiano torturato. Sua moglie Bianca è riuscita a mandare un messaggio a Santiago per avvisarlo dell'arresto del padre. Santiago era al fronte, con il grado di comandante, e a quanto pare era un ufficiale molto apprezzato dai superiori, che si sono mobilitati per ottenere il rilascio del signor Manuel. Ma non è stato facile. Pensa come sono andate le cose: il figlio al fronte che combatte per la repubblica e il padre imprigionato da chi diceva di difenderla. Sappiamo tutto questo da fonti indirette, è stata Águeda a raccontarcele» spiegò la zia Elena. «Tuo figlio è bello e molto simpatico. Siamo riusciti a convincere Águeda a farcelo vedere quando lo porta a passeggio, e lei ha accettato; di solito lo accompagnava vicino a casa dei tuoi genitori, in modo che facessero finta di incontrarsi per caso. Ma adesso che il bambino è cresciuto ed è diventato un chiacchierone, lo guardiamo solo da lontano. Águeda ha paura che Javier dica ai nonni che vede altre persone. E noi non vogliamo compromettere quella brava donna. Javier le è molto

affezionato» spiegò Laura. «Voglio vederlo, potete aiutarmi?» supplicò Amelia. «Manderò Edurne ad aspettare nei dintorni della casa dei tuoi suoceri e quando vedrà Águeda le chiederà se puoi vedere tuo figlio» propose Laura. Era ora di pranzo quando la signora Elena considerò finita la conversazione. Fino a quel momento, io ero rimasto zitto accanto a Edurne, senza azzardarmi a dire nemmeno una parola. Pur essendo solo un adolescente, ero in grado di intuire l'enorme sofferenza di Amelia. Furono servite patate con un pezzo di lardo. Amelia non toccò cibo e la zia Elena dovette obbligare Antonietta a mangiare. «Bambina, devi nutrirti, altrimenti non guarisci.» Amelia spiegò che lavorava per un giornalista americano e che, grazie a lui, avevamo passato la frontiera senza problemi. Li informò anche che doveva rintracciare Lola per affidarmi a lei. «Quella donna è stata la fonte di tutte le tue disgrazie» proclamò senza mezzi termini la signora Elena. «Se non l'avessi conosciuta e non ti avesse messo in testa le sue idee rivoluzionarie, non te ne saresti mai andata.» «No, zia, la colpa non è di Lola; sono io l'unica responsabile delle mie azioni. So di essermi comportata male, di essere stata egoista, me ne sono infischiata di tutto, senza pensare ai miei e alle conseguenze. Nessuno mi ha obbligata a fare quel che ho fatto.» «Quella donna ti ha messo il diavolo in corpo, era piena di risentimento, invidiosa, ti ha sempre odiato. O credi forse che provasse simpatia per te, che rappresentavi tutto quello contro cui combatteva?» insisté la signora Elena. «Non gliene faccio una colpa» replicò Amelia. Laura mi guardò e chiese a sua madre di cambiare argomento. La signora Elena accettò controvoglia. «Non vi ho chiesto di Melita, dov'è?»

«Tua cugina si è sposata. Non eri qui, perciò non l'hai saputo.» «Con chi?» «Con Rodrigo, ti ricordi di lui? È un bravo ragazzo, in guerra si è ritrovato dalla parte dei nazionalisti.» «Ma quando si sono sposati?» «Poco dopo l'inizio della guerra. Sono andati a vivere a Burgos, lui è di quelle parti. Possiede dei terreni e una farmacia. Stanno bene.» «Scusa, non ricordo come si chiama lui...» «Rodrigo Losada.» «Hanno figli?» «Sì, una bambina.» «Non l'avranno chiamata Amelia, saremmo troppe...» «L'hanno chiamata Isabel, come la madre di suo marito. Non la conosciamo ancora, ha un anno» spiegò Laura. «Bene, e adesso cosa pensi di fare?» volle sapere la signora Elena. «Non lo so, quello che è successo è orribile... Non avrei potuto immaginare niente di quello che mi avete raccontato, la morte dei miei genitori...» «Abbiamo vissuto una guerra» ribatté la signora Elena, accigliata. «Lo so, zia, e capisco il tuo stato d'animo. Pensi che non mi senta colpevole di non essere rimasta qui a condividere con voi ogni disgrazia? Non mi perdonerò mai per la morte di mia madre e per non aver fatto nulla per evitare che mio padre fosse fucilato. Mi prenderò cura di Antonietta; torneremo a vivere a casa, immagino che ci appartenga ancora, no?» «Credi di poterti occupare di tua sorella? Antonietta ha bisogno di cure, di assistenza continua che non penso tu sia in grado di darle.» La signora Elena era dura come la pietra. «Lavorerò per aiutare mia sorella: è quello che avrebbero voluto i miei genitori.» «No, Amelia, tua madre, il giorno in cui è morta, mi ha fatto

giurare che mi sarei presa cura di Antonietta e che sarebbe rimasta a vivere con noi. Le ho chiesto cosa dovevo fare se prima o poi tu fossi tornata e lei mi ha detto che, anche in questo caso, Antonietta doveva restare con noi, con una famiglia che la proteggesse.» Amelia si alzò da tavola in lacrime. Non riusciva a sopportare le parole della zia, le sembravano coltelli che le laceravano la pelle. Laura e Antonietta la seguirono e io rimasi seduto e zitto, senza alzare gli occhi dal piatto. Temevo che in qualunque momento la signora Elena avrebbe potuto prendersela con me. Quando tornarono, Amelia continuava a piangere. «Zia, ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per noi. Capisco che mia madre non si fidasse di me e temesse per Antonietta, perciò resterà qui finché non riuscirò a dimostrare che sono in grado di prendermi cura di lei.» La signora Elena non rispose. Era affranta, perché si rendeva conto di aver ferito Amelia. Voleva bene a sua nipote, ma le sofferenze patite durante la guerra l'avevano privata della dolcezza che l'aveva caratterizzata in passato. «Mamma, Amelia ha bisogno del nostro aiuto, ha già abbastanza problemi» disse Laura. «Mi dispiace, avrei dovuto parlarti in un altro modo. Hai perso i genitori e sei sconvolta, e io... Sono davvero dispiaciuta, Amelia. Sai che ti vogliamo bene e puoi contare su di noi per qualunque cosa...» «Lo so, zia, lo so» replicò lei, in lacrime. «Domani andremo a trovare lo zio Armando» disse Antonietta per cambiare argomento. «In prigione?» domandò Amelia. «Sì, in prigione, e andrò anch'io. Finora non sono uscita di casa perché non mi sentivo bene, ma la zia Elena ha detto che domani mi permetterà di accompagnarle. Se vuoi unirti a noi...» suggerì Antonietta. «Ma certo!»

Poi la signora Elena si interessò a quelli che erano i progetti di Amelia. Voleva sapere se si sarebbe fermata a Madrid e dove, e le offrì generosamente una stanza. Amelia spiegò alla zia che lavorava per un giornalista statunitense che non parlava bene lo spagnolo e che non avrebbe gradito di essere lasciato solo alla pensione. Fu Laura che ebbe l'idea di ospitare in casa anche Albert James. «Possiamo affittargli una stanza allo stesso prezzo della pensione. Un po' di soldi ci farebbero comodo, adesso che riusciamo a stento a mantenerci» propose Laura. La signora Elena ci pensò su. Senza dubbio la infastidiva non poter accogliere il giornalista come ospite a casa sua, come avrebbe fatto prima della guerra, ma la necessità e le sofferenze subite l'avevano fatta diventare una donna pratica. «Potrebbe dormire nella camera di Melita, che è chiusa da quando si è sposata... E il bambino può stare nella stanza della cameriera, in fin dei conti non abbiamo più persone a servizio, a parte Edurne. Lo metterei insieme a Jesús, ma non sta ancora bene e ha bisogno di riposare. Sì, c'è spazio a sufficienza per ospitarvi tutti» acconsentì la signora Elena. Amelia promise di parlarne ad Albert James. Per lei era un sollievo stare con la sua famiglia, soprattutto in un momento in cui la disgrazia si era abbattuta su tutti loro. Laura ci accompagnò alla pensione della signora Rosario, per aiutarci con i bagagli. Lì trovammo Albert James piuttosto arrabbiato. «È da mezzogiorno che ti aspetto!» rimproverò Amelia non appena la vide. «Mi dispiace... mi sono successe tante cose in queste ore.» Amelia in lacrime gli raccontò l'accaduto: la morte dei genitori, la malattia della sorella, gli altri eventi infausti che la famiglia aveva affrontato. Lui sembrò calmarsi, ma non accolse di buon grado l'idea di trasferirsi a casa della signora Elena. «Vai tu, è normale che tu voglia stare con la tua famiglia, ma io preferisco avere una certa indipendenza e mi troverò bene

qui, oppure prenderò una stanza in albergo. Visto in che stato è il Florida, andrò al Ritz.» Fu Laura, superando la vergogna che provava, a spiegare a James che per loro sarebbe stato un aiuto affittargli una stanza, dove gli garantì che nessuno l'avrebbe disturbato e avrebbe potuto essere indipendente come se fosse stato in casa della signora Rosario. Lui esitò, ma alla fine si lasciò convincere. Non era difficile capire che perfino le famiglie a cui in passato non mancava niente adesso faticavano a mantenersi. Così prendemmo le nostre cose e raggiungemmo a piedi la casa degli zii di Amelia. Era ormai tardi quando ci fummo tutti sistemati, ma Albert James propose ad Amelia di andare a casa di Lola per affidarmi a lei. Non vedevo l'ora di rivedere mia madre. Lola era una donna forte, decisa, con cui ero sicuro non potesse succedermi niente di brutto. E poi volevo restare in Spagna: non volevo tornare in Francia dove, nonostante tutto, o meglio, grazie ad Amelia, io e mio padre eravamo sopravvissuti in modo dignitoso. Arrivati a casa di Lola, nessuno seppe darci delle notizie. Lei non si era più fatta vedere da quando, all'inizio della guerra, eravamo andati a Barcellona, quindi Amelia propose di provare all'indirizzo che Josep le aveva dato, in plaza de la Paja, dove abitava mia nonna, la madre di Lola. Cominciai a tremare: non osavo dirlo, ma preferivo restare con Amelia piuttosto che con mia nonna. Dolores, mia nonna si chiamava così, non andava d'accordo con mia madre e ricordavo che, tutte le volte che andavamo a trovarla, le due litigavano sempre per le sue idee politiche. Fu abbastanza facile trovare la casa di mia nonna. Suonammo il campanello, ma nessuno rispose e fu una vicina a darci notizie dell'anziana donna. «Dolores è all'ospedale. Soffre di asma e ha avuto una crisi che per poco non l'ha uccisa. Sta molto male, povera donna. E

ha subito tante privazioni...» Amelia le chiese se sapesse qualcosa di Lola, ma la vicina assicurò di non averla vista da prima della guerra. «Lola non si è mai preoccupata molto di sua madre, per lei veniva prima la rivoluzione. Del nipote di Dolores, Pepe, si dice che sia stato ammazzato dai comunisti perché era del POUM» mormorò, guardandosi intorno nel timore che qualcuno potesse sentirla. Andammo all'ospedale e una suora ci condusse nella stanza dove era ricoverata mia nonna. Me la ricordavo a malapena, e mi fece impressione sapere che quella vecchia con i capelli bianchi e lo sguardo assente era lei. La poverina non mi riconobbe e scoppiò a piangere quando Amelia le disse chi ero. «Lei è la signorina amica della mia Lola! E lui è mio nipote? Come si è fatto alto! Dov'è tua madre? Sono mesi ormai che non ho sue notizie, spero che non l'abbiano fucilata; i nazionalisti stanno ammazzando tutti quanti. Nemmeno i rivoluzionari sono stati da meno. L'avevo detto a Lola: non posso perdonarvi di aver ammazzato il mio Pepe solo perché era del POUM. I rivoluzionari che ammazzano altri rivoluzionari... dove si è mai vista una cosa simile? Lola odiava il POUM, diceva che erano traditori.» L'anziana donna promise di prendersi cura di me appena fosse uscita dall'ospedale. «Sono vecchia e ammalata, ma per mio nipote farò tutto il necessario.» La signora Elena sembrò rassegnarsi all'idea che stessi da loro finché mia nonna Dolores non fosse uscita dall'ospedale, soprattutto quando Albert James assicurò che avrebbe provveduto al mio mantenimento per tutto il tempo che sarei rimasto in quella casa. Il mattino dopo Albert accompagnò la signora Elena, Laura, Amelia e Jesús in carcere a far visita al signor Armando. James voleva vedere da vicino una prigione spagnola e

sperava che la sua presenza non causasse problemi. Dovette corrompere due funzionari per avere il permesso di entrare in un lungo corridoio in cui, separati da una grata, i detenuti e i loro familiari avevano a disposizione pochi minuti per parlarsi. Il signor Armando si emozionò vedendo Amelia. Zio e nipote non riuscirono a trattenere le lacrime rammaricandosi della perdita del padre di Amelia, il signor Juan, e di sua madre, la signora Teresa. «È orribile, zio! Papà, mamma, la nonna Margot, la zia Lily... e tutti gli altri membri della famiglia che abbiamo perso. Non so come farò a sopportarlo» disse Amelia piangendo. «Ce la faremo, tuo padre è stato forte fino all'ultimo momento e, mentre lo portavano via, mi ha chiesto di baciarvi da parte sua e di dire a te e ad Antonietta quanto vi voleva bene.» «Credi che mi avesse perdonato?» «Ma certo, tuo padre ti voleva molto bene e, anche se non ha mai capito il tuo comportamento, ti ha perdonato. La cosa che più gli dispiaceva era che avessi abbandonato tuo figlio, era un grande cruccio per lui. Si rammaricava tanto di non potersi godere il suo unico nipote...» Il signor Armando rivelò l'incertezza e la paura che attanagliavano tutti i detenuti. «Ogni giorno portano via qualcuno per fucilarlo... e a volte perdi la speranza che arrivi l'indulto. Quante lettere avete scritto chiedendo clemenza?» «Papà, non ci arrenderemo» assicurò Laura. «Non ci arrenderemo nemmeno quando saremo morti» replicò rassegnato il signor Armando. «Domani andiamo a trovare gli Herrera. Pedro Herrera era un tuo amico, sei stato il suo avvocato e hai vinto per lui un caso importante, ricordi? Adesso gode di molta influenza presso Franco, sembra che abbia un nipote colonnello al quartier generale dell'esercito e un cognato che ricopre un'alta carica nella Falange. Anche a lui le cose vanno bene, credo che stia

facendo affari con il nuovo governo. Sono stata a casa sua e ho parlato con la moglie, Marita, che mi ha promesso di intercedere presso il marito. È stata di parola, perché ieri mi ha mandato a dire che ci riceverà domani dopo le otto di sera, quando torna dal lavoro. Vedrai che riusciremo certamente a fare qualcosa» disse la signora Elena. Uscita dal carcere, affranta, Amelia accompagnò Albert James agli incontri che aveva fissato per il reportage. Rientrarono a casa della signora Elena soltanto a tarda sera. A quel punto, io avevo ormai trovato in Edurne la protezione che fino a quel momento mi aveva offerto Amelia. Edurne mi consolava, dicendomi che mia madre era una donna coraggiosa e che non avrei mai dovuto dimenticarla. Feci anche amicizia con Jesús; avevamo all'incirca la stessa età e, pur essendo lui un ragazzo molto timido, che cercava di passare inosservato, scoprii ben presto che aveva un gran senso dell'umorismo. Due giorni dopo che ci eravamo trasferiti dalla signora Elena Edurne rientrò a casa molto agitata. «Águeda mi ha detto di trovarci oggi pomeriggio verso le cinque all'ingresso principale del parco del Retiro. Lei si farà trovare lì a passeggio con Javier. Mi ha anche raccontato che rilasceranno Santiago, è questione di giorni. L'ha sentito dire dal signor Manuel, che a quanto pare ha amici molto vicini a Franco.» Amelia scoppiò a piangere quando seppe che avrebbe potuto rivedere suo figlio. La signora Elena decise che Laura, Antonietta, Jesús, Edurne e io l'avremmo accompagnata. Temeva che la nipote potesse avere una reazione inconsulta in presenza del bambino. Alle cinque in punto eravamo all'ingresso principale del parco del Retiro. Aspettammo impazienti finché, mezz'ora dopo, scorgemmo Águeda che teneva per mano Javier. Laura cercò di fermare Amelia, ma lei corse verso il bambino e lo abbracciò in lacrime. Non smetteva di baciarlo e il piccino si

spaventò e scoppiò a piangere. «Per favore, signora, lo lasci!» disse Águeda, temendo che qualche conoscente assistesse alla scena e soprattutto che Javier raccontasse ai nonni che una signora l'aveva abbracciato fino a farlo piangere. Ma Amelia non le diede retta e tenne stretto Javier riempiendolo di baci. «Il mio bambino! Il mio bambino! Ma come sei bello! lì ricordi della mamma? No, povero piccolo, come puoi ricordarti? Ma io ti voglio tanto bene, figlio mio...» Con l'aiuto di Antonietta, Laura riuscì a strappare Javier dalle braccia di sua madre e a restituirlo ad Águeda. «Ah, signora, cosa succederà se il signor Manuel e la signora Bianca verranno a saperlo?» si lamentò Águeda. «Ma io sono sua madre! Non potete negarmi di vedere mio figlio» rispose in lacrime Amelia. Javier, terrorizzato, non la finiva più di piangere. «È meglio che ve ne andiate. Lo rivedrete un altro giorno, adesso lo porto a passeggio, per tranquillizzarlo» aggiunse la donna, francamente spaventata. La cugina Laura e Antonietta riuscirono ad allontanare Amelia da Águeda e dal bambino, che corse via spaventato. Amelia era in lacrime e non riusciva ad ascoltare le parole di conforto di sua cugina e di sua sorella. Edurne, Jesús e io restammo in silenzio, senza sapere cosa fare né cosa dire. Di ritorno a casa della signora Elena, Antonietta obbligò la sorella a bere una tisana di tiglio, molto carica, ma neanche quella bastò a calmarla, tanto grande era il suo dolore. Solo Albert James riuscì a farla reagire. Di solito la trattava con un certo distacco, ricordandole che erano a Madrid per lavoro e che non doveva lasciarsi abbattere dalle circostanze. A quel tempo lo giudicavo un uomo duro, senza cuore; adesso capisco che quel suo comportamento risvegliava in Amelia la paura di restare senza lavoro, il che la stimolava a riprendersi perché

non se lo poteva permettere, né per se stessa, né per Antonietta, né per il resto della famiglia. Un esempio fu la decisione di Albert James di assistere alla parata che Franco aveva organizzato il 19 maggio, nonostante le proteste di Amelia. «Io mi trovo qui per lavorare, e anche tu» le ricordò. A quel punto Amelia tacque, consapevole di quanto fosse prezioso per lei, e per tutti noi, il denaro che guadagnava lavorando come interprete e segretaria del giornalista. Alla parata ci recammo tutti, come aveva deciso la signora Elena, timorosa che i vicini ci denunciassero per essere rimasti a casa invece di dimostrare il nostro sostegno al Caudillo, come ormai si faceva chiamare Franco. L'idea ci ripugnava; io, pur essendo ancora un adolescente, odiavo Franco con tutte le mie forze perché per colpa sua ero rimasto solo al mondo, e quindi, come Amelia, Laura e Edurne, protestai, finché la signora Elena, con l'aiuto di Albert James, non ci ordinò di tacere. Il Paseo de Recoletos, dove avrebbe avuto luogo la parata, non era lontano da casa, perciò ci andammo a piedi, in tempo per prendere i posti. In lontananza riuscimmo a distinguere Franco e Amelia mormorò che le sembrava un "nano", ma la signora Elena le diede un pizzicotto sul braccio intimandole di tacere. Quel giorno Franco venne insignito della Gran Cruz Laureada de San Fernando, che doveva essere l'unica decorazione che non aveva e la più apprezzata nell'ambiente militare. Albert James osservò ogni cosa con grande interesse e chiese ad Amelia di tradurgli i commenti della gente intorno a noi. Fu sorpreso dall'entusiasmo degli spettatori. Più tardi ci chiese come fosse possibile un simile fervore da parte di una città che era stata l'ultima a cedere a Franco. La signora Elena glielo spiegò. «Per paura, figliolo. Cosa vuole che faccia la gente? Abbiamo perso la guerra, anche se ormai non so più se l'abbiamo persa o l'abbiamo vinta. Nessuno vuole mettersi in mostra, ora, nessuno

è così spavaldo da osare criticare Franco. Non so se gliel'hanno spiegato, ma la legge di Responsabilità politica punisce chiunque abbia avuto qualcosa a che fare con i repubblicani e può immaginare che, chi più o chi meno, tutti abbiamo parenti da entrambe le parti.» Amelia era molto scossa. Si era commossa nel vedere suo figlio e non diede tregua a sua zia finché lei, seppur malvolentieri, non acconsentì a mandare di nuovo Edurne a parlare con Águeda per fissare un altro appuntamento. Edurne tornò con buone notizie. Non aveva dovuto aspettare molto che Águeda uscisse di casa e l'aveva seguita discretamente finché non si erano allontanate abbastanza da essere sicure che nessun conoscente le avvistasse. Águeda le aveva detto che Santiago era stato rilasciato il giorno prima e che era dimagrito e invecchiato, ma in fin dei conti era sano e libero. Javier non si separava dal padre e quella notte aveva dormito con lui. Santiago aveva deciso di tornare a casa e di non restare dai genitori. Quelle erano le buone notizie. Le cattive erano che Águeda non si fidava a organizzare un altro incontro con Amelia, per paura che Javier ne parlasse con suo padre. Non che il bambino potesse davvero spiegare chi fosse quella signora che lo abbracciava, ma Santiago poteva intuire che si trattava di Amelia e Águeda temeva la sua reazione. L'unica possibilità era che Amelia li guardasse da lontano, promettendo di non avvicinarsi. Ad Amelia le condizioni di Águeda parvero umilianti e prese una decisione che ci spaventò tutti. «Andrò a trovare Santiago. Gli chiederò perdono, anche se so che non me lo accorderà mai, e lo supplicherò di lasciarmi vedere mio figlio.» La signora Elena cercò di dissuaderla. Anche Albert James le suggerì di pensarci ancora un po', ma Amelia fu irremovibile e accettò soltanto di farsi accompagnare a casa del marito.

3

Credo che fosse il pomeriggio del 22 o del 23 maggio quando Amelia si presentò a casa del marito. Águeda trasalì quando si trovò davanti le tre signorine Garayoa. «Voglio vedere il signor Santiago» disse Amelia con un filo di voce. Águeda le lasciò nell'ingresso e andò di corsa a chiamare il padrone di casa. Nel frattempo arrivò Javier, che si fermò a osservare con curiosità le tre donne. Amelia cercò di prenderlo in braccio, ma il bambino scappò via ridendo. Lei lo seguì e si trovò faccia a faccia con Santiago. «Cosa ci fai qui?» le domandò, livido di rabbia. «Sono venuta a parlare con te...» rispose Amelia balbettando. «Fuori da casa mia! Io e te non abbiamo niente da dirci. Come osi presentarti qui? Non sai cos'è il rispetto? Vattene e non tornare mai più!» Amelia tremava. Cercava di trattenere le lacrime, conscia che suo figlio Javier la stava guardando. «Ti supplico di ascoltarmi. So di non meritare il tuo perdono, ma almeno permettimi di vedere mio figlio.» «Tuo figlio? Tu non hai figli. Vattene.» «Per favore, Santiago! Ti supplico! Lasciami vedere il mio bambino!» Santiago la afferrò per un braccio e la spinse verso la porta, dove Antonietta e Laura stavano aspettando nervose, dopo aver udito la conversazione. «Ah, sei venuta in compagnia! Fa lo stesso, nessuna è la benvenuta in questa casa!» «Non togliermi mio figlio!» supplicò piangendo Amelia.

«Hai pensato a tuo figlio quando sei scappata in Francia con il tuo amante? No, vero? E allora adesso non so di quale figlio mi parli. Vattene!» Le cacciò di casa senza un briciolo di compassione per Amelia. Santiago l'aveva amata con tutta l'anima; il suo dolore era tanto intenso quanto lo era stato il suo amore e gli impediva di perdonarla. Dopo quel traumatico incontro, Amelia ebbe le convulsioni e passò tre giorni a letto senza mangiare. Reagì solo quando la signora Elena entrò nella sua stanza in lacrime per dirle che i signori Herrera le avevano comunicato di non essere riusciti a ottenere l'indulto per Armando Garayoa. C'era soltanto una possibilità, le avevano detto in gran segreto, ed era parlare con un uomo molto influente presso il nuovo regime che, in cambio di denaro, procurava qualche indulto; purtroppo non sempre ci riusciva, e in ogni caso non restituiva i soldi. Albert James, che in quel momento era l'uomo di casa, promise che avrebbe parlato con le autorità per cercare di fare pressioni sfruttando il suo status di giornalista straniero, ma la signora Elena e sua figlia Laura decisero di provare a rivolgersi alla persona di cui avevano parlato gli Herrera, il cui nome era Agapito Gutiérrez. Costui aveva combattuto con i nazionalisti e aveva parenti nelle alte sfere del regime e della Falange. Prima della guerra era stato un trafficone senza arte né parte, ma sveglio, privo di scrupoli e abile a sopravvivere; così non aveva avuto alcun problema a farsi una posizione nell'esercito, intrallazzando con l'intendenza e chiedendo favori a destra e a manca in quegli anni di miseria e di ristrettezze. In apparenza, ad Agapito Gutiérrez non mancava niente. Si era sistemato in un ufficio di calle Velázquez, situato in un vecchio palazzo signorile. Si potrebbe dire che fosse una specie di "ufficio raccomandazioni", anche se formalmente si occupava delle condizioni di chi era in carcere. Una donna bruna, con una scollatura audace per l'epoca, che

disse di essere la segretaria (anche se sembrava piuttosto una soubrette) fece accomodare la signora Elena, Laura e Amelia in una sala dove aspettavano con impazienza altri postulanti, per la maggior parte donne. Rimasero lì per circa tre ore, in attesa del loro turno di incontrare Agapito Gutiérrez. Si trovarono davanti un ometto basso e grassoccio, con un completo a righe e la cravatta fermata da uno spillo, scarpe di vernice e un grosso anello d'oro alla mano destra. Agapito lanciò una rapida occhiata a tutte e tre e fermò il suo sguardo su Amelia. Anche se magra, era una bellezza bionda ed eterea, che in qualsiasi altra circostanza sarebbe stata irraggiungibile per un uomo come lui. Le ascoltò con aria annoiata, ma senza togliere gli occhi di dosso ad Amelia, con uno sguardo così bramoso da mettere a disagio le tre donne. «Bene, vedrò cosa posso fare, anche se, a quanto mi dite, quel rosso di suo marito è messo male e io miracoli non ne faccio. Le mie intercessioni costano molto, perciò valutate se siete in grado di pagare oppure no.» «Pagheremo qualunque cifra» rispose subito Laura. «Sono cinquantamila pesetas, sia che ottenga l'indulto sia in caso contrario. Tutti quelli che vengono da me mi supplicano per certa gentaglia, delinquenti che hanno arrecato molti danni alla nostra nazione. Se non fosse che ho il cuore tenero...» La signora Elena era livida. Non aveva cinquantamila pesetas né sapeva come procurarsele, ma non disse niente. «Se siete d'accordo, portatemi le cinquantamila pesetas, poi tornate tre giorni dopo e vi farò sapere. Non serve che veniate tutte; aspetto lei, signorina Garayoa» disse, rivolto ad Amelia. «Me?» si stupì lei. «Sì, in fin dei conti è la nipote e non è direttamente coinvolta. Non è la prima volta che quando comunico cattive notizie mi fanno certe scenate che non giovano alla mia reputazione.»

Amelia arrossì e la signora Elena fu sul punto di dirgli che non avrebbe mai mandato sua nipote, ma tacque. Era in gioco la vita di suo marito. Albert James si indignò quando fu messo al corrente dell'accaduto. Disse che sarebbe andato a prendere a pugni quel disgraziato, ma le tre donne lo supplicarono di non farlo. Non potevano permettersi di mandare a monte la loro unica possibilità di salvare lo zio Armando. Invece, la signora Elena, rossa di vergogna, chiese a James di aiutarla a trovare cinquantamila pesetas. «Non mi resta altro che quello che c'è in questa casa e alcuni terreni al paese; è tutto quello che posso offrirle in cambio, ma le assicuro che quando mio marito sarà libero e si rimetterà al lavoro le restituiremo fino all'ultima peseta.» Amelia propose di dargli la casa dei suoi genitori in cambio di quelle cinquantamila pesetas. Perfino per Albert James era una cifra troppo alta, ma promise che avrebbe fatto il possibile. Il giorno dopo, con l'aiuto di Edurne, le donne si misero in contatto con un ricettatore che diede loro mille pesetas per una coppia di candelabri d'argento, la cristalleria veneziana, alcune statuette di porcellana e due lampade di bronzo. Albert James non lo disse, ma dopo molti sforzi riuscì a mettersi in contatto con i suoi genitori, a cui chiese di depositare in banca un "pagherò" del valore di cinquantamila pesetas che potesse riscuotere in Spagna. Era una cifra così spropositata che suo padre all'inizio si rifiutò di prestargliela. «Te li restituirò, ma da qui non posso fare altro e ho bisogno urgente di quella somma per salvare una vita. Mettiti in contatto con una banca, con la nostra ambasciata, con chi vuoi, papà, ma fammi arrivare quei soldi o non te lo perdonerò mai» lo minacciò il giornalista. Qualche giorno dopo il previsto, Amelia si presentò con il denaro da Agapito Gutiérrez. Albert James la accompagnò fin

sulla porta dell'ufficio, temendo che la rapinassero per strada, vista la somma che aveva con sé. Agapito aveva una nuova segretaria: questa volta era una ragazza con i capelli tinti di rosso e una scollatura ancora più profonda di quella sfoggiata da colei che l'aveva preceduta. L'uomo indossava lo stesso completo a righe, ma con una cravatta diversa e una camicia su cui spiccavano i gemelli d'oro massiccio. «Però, non credevo che sareste riuscite a trovare cinquantamila pesetas! Molte persone vengono da me sperando che faccia loro la carità, ma nel campo degli affari sono molto serio e chi vuole qualcosa deve pagare.» Agapito la invitò a sedersi sul divano accanto a lui e, mentre le parlava, le mise una mano sul ginocchio. Amelia si spostò, a disagio. «Non sarai una gattamorta?» «Non so cosa vuol dire.» «Una di quelle signorine leziose che non vedono l'ora che l'uomo faccia quello che deve fare, ma lo nascondono dandosi arie da grandi dame.» «Sono venuta a portarle i soldi per l'indulto di mio zio.» «Ma come? Fai la frigida con me? E se mi rifiuto di intercedere per voi?» «Ma cosa vuole?» Nonostante le resistenze di Amelia, che lo graffiò, Agapito Gutiérrez le si avvicinò e la baciò. «Che gatta selvatica! Non fingere che non ti piaccia quanto piace a me, non me la dai a bere!» Amelia balzò in piedi e lo guardò con rabbia e disgusto, ma non osò andarsene, temendo che Agapito si rifiutasse di sbrigare le pratiche necessarie a ottenere l'indulto per suo zio Armando Garayoa. Il ruffiano si alzò e, guardandola negli occhi, sorrise, poi la abbracciò.

«Mi lasci! Come osa? Lei è un mascalzone!» «Non più di te. Ho preso informazioni su di voi e mi hanno detto che sei una puttana che ha lasciato il marito e il figlio per scappare con un francese. Quindi non fare la recita con me.» «Ecco i soldi» gli disse Amelia consegnandogli un grosso involto di carta da pacchi che conteneva le cinquantamila pesetas. «Mantenga la sua promessa.» «Io non ho promesso niente. Vedremo se concederanno l'indulto a tuo zio, che non se lo merita perché è rosso.» L'uomo prese la busta, la aprì e contò i soldi, una banconota dopo l'altra, mentre Amelia lo osservava cercando di trattenere le lacrime. Quando ebbe finito di contare, la guardò freddamente, sorridendo. «Il prezzo è aumentato.» «Ma lei aveva detto cinquantamila pesetas! Non abbiamo altro...» «Pagherai tu. Dovrai fare quello che ti chiedo o tuo zio non uscirà di galera e sarà fucilato. Mi occuperò io stesso di farlo giustiziare al più presto.» Amelia stava per crollare, voleva uscire da quell'ufficio che puzzava di sudore misto a colonia scadente. Ma non lo fece, sapeva che in quel caso suo zio Armando sarebbe stato condannato. Lui si rese conto di averla in pugno. «Vieni qui, adesso io e te facciamo delle cose...» «No, non facciamo un bel niente. Le lascio i soldi e, se mio zio esce di prigione, allora...» «Ma che puttana! Come osi pormi delle condizioni?» «Verrò il giorno in cui mio zio uscirà di prigione.» «Certo che verrai! Non credere che non mi pagherai!» Amelia uscì dall'ufficio e attraversò la stanza in cui la segretaria stava parlando al telefono limandosi le unghie. La rossa le fece l'occhiolino con aria complice. «Cosa ti è successo?» le chiese Albert James, preoccupato,

quando la vide uscire dal portone con le guance arrossate e gli occhi pieni di lacrime. «Niente, niente, quell'uomo è un mascalzone, non si accontenta delle cinquantamila pesetas e non dà garanzie sull'indulto di mio zio.» «Salgo a dirgli un paio di cose. Vediamo se ha il coraggio di dire a me che si tiene le cinquantamila pesetas per niente.» Ma lei non glielo permise. Non gli disse nemmeno ciò che quel miserabile pretendeva da lei. Sapeva che ormai il suo destino era segnato e che solo un miracolo avrebbe potuto salvarla dalle grinfie di quell'uomo. L'attesa fu eterna. Amelia e Albert James uscivano al mattino presto per andare a lavorare e a volte non rientravano fino al pomeriggio inoltrato, sempre con qualcosa da mangiare comprato alla borsa nera: una scatola di biscotti, una dozzina di uova, un pollo, dello zucchero... La signora Elena continuava a mandare avanti la casa con quel poco che aveva e io cercavo di passare inosservato insieme a Edurne, che seguivo ovunque. In un paio di occasioni, lei mi portò all'ospedale a trovare mia nonna, ma la donna non migliorava, perciò la mia permanenza a casa della signora Elena si protrasse. Edurne aveva di nuovo parlato con Águeda e l'aveva convinta a lasciare che Amelia vedesse da lontano il piccolo Javier. La donna accettò, nonostante la paura che aveva di Santiago, e Amelia rispettò l'impegno di non avvicinarsi al bambino. Lo osservava a distanza, dominando il desiderio di correre verso di lui e abbracciarlo. Un giorno, di buon mattino, la signora Elena ricevette una telefonata da Agapito Gutiérrez. L'uomo le annunciò che quella mattina avrebbero firmato l'indulto per il signor Armando e che il pomeriggio stesso sarebbe stato rilasciato, ma prima doveva mandare Amelia nel suo ufficio. La signora Elena domandò quale fosse il motivo, ma Agapito non diede spiegazioni, solo l'ordine categorico di far venire la nipote, altrimenti il foglio dell'indulto sarebbe andato perso.

La signora Elena scoppiò a piangere di gioia. La povera donna era esausta per l'incertezza e la sofferenza. Per festeggiare, ci permise di mettere un cucchiaio intero di zucchero nell'orzo. «Non capisco cosa vuole quell'uomo... insiste che tu vada nel suo ufficio da sola, perché deve parlarti di una cosa. E non vuole dirmi il motivo, magari pretende più soldi...» Albert James insisté per accompagnare Amelia all'appuntamento con Agapito Gutiérrez, ma lei rifiutò. «Hai un'intervista con l'ambasciatore britannico e non voglio che la rimandi per me.» «Ma non voglio lasciarti sola.» «Non preoccuparti, l'unica cosa che? conta adesso è che mio zio esca di prigione.» Anche se controvoglia, Albert James non ebbe altra scelta che accettare. Amelia era più nervosa di sua zia, e lui non voleva contribuire ad alterare il delicato equilibrio che lei dimostrava da quando era tornata in Spagna. La perdita dei genitori, quella di suo figlio, oltre alle condizioni in cui aveva trovato il suo paese, in preda alla miseria e, peggio ancora, all'odio, avevano lasciato un segno nella sua anima. Nel primo pomeriggio Amelia uscì per recarsi nell'ufficio di Agapito Gutiérrez, mentre la signora Elena ordinò a me e a Edurne di accompagnarla alla prigione, insieme a Laura, Jesús e Antonietta, visto che era giorno di visita ed era possibile che avessimo la sorpresa di tornare a casa con il signor Armando se l'indulto fosse arrivato al direttore del carcere. Prima che uscissimo, telefonò a Melita a Burgos per avvisarla che suo padre sarebbe stato rilasciato. Ciò che accadde quel pomeriggio nell'ufficio di Agapito Gutiérrez Amelia lo raccontò alla cugina Laura, ma io, che avevo l'udito fine e volevo tanto bene ad Amelia, non riuscii a resistere e origliai da dietro la porta. Amelia non dovette fare anticamera in quell'occasione. Quando arrivò, la segretaria, la stessa rossa della volta precedente, le

fece l'occhiolino e, mentre la accompagnava nell'ufficio del suo capo, le sussurrò all'orecchio: «Chiudi gli occhi e pensa che sia un altro, anche se la cosa peggiore è l'odore, sentirai quanto puzza di sudore». Agapito era seduto dietro la scrivania di mogano e non la degnò di uno sguardo. Continuò a leggere le sue carte senza invitarla a sedersi. Dopo un po' la fissò dritto negli occhi. «Sai per cosa sei venuta. O paghi o tuo zio non esce di galera.» «Le abbiamo già dato cinquantamila pesetas.» «Stanno aspettando che telefoni per recapitare il documento dell'indulto, vedi tu...» disse lui facendo spallucce. «Allora telefoni.» «No, prima devi pagare.» «Pagherò quando avrà telefonato, dopo che l'avrò sentita dire che recapitino l'indulto...» «Non sei in condizioni di pretendere niente!» «Adesso non ho niente, quindi non perderò niente; so quello che vuole e pagherò, ma dopo che avrà telefonato.» Agapito la guardò con disprezzo. Sollevò il ricevitore e fece una telefonata. Parlò con un uomo che gli confermò che l'indulto per Armando Garayoa era stato firmato e che sarebbe stato mandato subito alla prigione. Quando riappese, squadrò Amelia da capo a piedi. «Spogliati.» «Non è necessario...» balbettò lei. «Fa' quello che ti ho detto, zoccola!» Si avventò su di lei, schiaffeggiandola fino a farla cadere a terra, poi le strappò i vestiti e la issò sulla scrivania di mogano, dove la violentò. Amelia oppose resistenza alla brutalità dell'uomo, ma lui era un pazzo che si eccitava a farle del male. Quando ebbe finito, la scaraventò di nuovo a terra. Amelia si rannicchiò, cercando di nascondere il suo corpo a quel farabutto. «Non mi è piaciuto, non me la sono goduta con tutti quei

piagnistei. Non servi nemmeno come puttana, frigida che non sei altro.» Amelia si alzò e si rivestì in fretta, temendo che la picchiasse ancora. Nel frattempo, lui si riannodò la cravatta e la insultò. «Posso andarmene?» chiese Amelia, tremante. «Sì, vattene. Non so perché mi sono preso la briga di far uscire tuo zio di galera; i rossi stanno meglio al cimitero.» Quando Amelia tornò a casa, noi non eravamo ancora rientrati. Quando arrivammo, Laura la trovò nella vasca da bagno, in lacrime. Lei raccontò alla cugina le violenze subite, il disgusto nel sentire l'alito ripugnante di quell'uomo, le botte ricevute, le parole volgari che le aveva rivolto; a poco a poco, descrisse a sua cugina tutto quello che aveva passato, ma lei non sapeva come consolarla. Laura obbligò Amelia a mettersi a letto. La signora Elena non capiva quello che stava succedendo, o forse non voleva capirlo, perché il volto di Amelia in realtà era fin troppo eloquente. Nervosa, non la smetteva di parlare, annunciando che il giorno dopo suo marito sarebbe uscito di prigione, come le era stato confermato quel pomeriggio. Ordinò a Laura e ad Antonietta di aiutare Edurne a pulire la casa, affinché il signor Armando trovasse tutto com'era prima della guerra. Amelia non volle alzarsi per cena e quando Albert James insisté per vederla e per parlare con lei, Laura lo pregò di lasciarla riposare fino al giorno dopo. La signora Elena mandò tutti a letto per risparmiare sulla bolletta della luce, e James andò a bussare delicatamente con le nocche alla porta della stanza di Amelia. Io lo udii e saltai giù dal letto per sentire se Amelia gli raccontava l'accaduto. Mi giunsero i singhiozzi di lei e le parole di lui che cercava di consolarla. Amelia gli disse quello che aveva fatto per salvare suo zio e lui si rammaricò di non averla accompagnata per affrontare quel porco. Giurò che il giorno dopo sarebbe andato a vendicarsi di quel farabutto, ma Amelia lo supplicò di non

farlo, perché avrebbe potuto mettere in pericolo la sua famiglia. Poi smisi di origliare, ma credo che lui l'abbia abbracciata per confortarla e che quell'abbraccio fu il preludio a quanto accadde qualche giorno dopo, quando diventarono amanti. Il signor Armando uscì di prigione il mattino del 10 giugno. La signora Elena lo aspettava emozionata e quando se lo ritrovò davanti si strinsero all'ingresso del carcere. Lei piangeva, lui tratteneva le lacrime. Noi li aspettavamo a casa. Laura era nervosa e impaziente; Antonietta era allegra come sempre, anche se in quei giorni sembrava un po' più debole. Laura si gettò tra le braccia del padre, che la strinse a sé emozionato. Poi fu la volta di Jesús, di Antonietta, di Amelia e infine di Albert James, che ringraziò per avere procurato le cinquantamila pesetas. «Può considerarmi ben più di un amico, perché le devo la vita. Lei non mi conosceva affatto e ha pagato per la mia scarcerazione: non saprò mai come ringraziarla. Stia sicuro che le restituirò tutto; avrò bisogno di tempo, ma lo farò. Spero di poter tornare a esercitare come avvocato, altrimenti farò qualunque altro lavoro pur di mantenere la mia famiglia e pagare il mio debito.» I primi giorni dopo la scarcerazione furono pieni di euforia. Melita, la figlia maggiore del signor Armando e della signora Elena, venne da Burgos con il marito Rodrigo e la figlia Isabel per festeggiare il rilascio del padre. La famiglia era felice, e la piccola Isabel fu al centro delle attenzioni di tutti. Solo Amelia non riusciva a scuotersi dallo sconforto di cui era preda fin dal suo arrivo in Spagna. Il signor Armando si godeva ogni momento e, mentre assaporava le patate con il lardo o le lenticchie in umido, era entusiasta di mangiare di nuovo "come un essere umano". «In prigione mangiavamo fave con i vermi» ci raccontava ridendo. «Galleggiavano nel brodo, ed è meglio che non

sappiate che gusto hanno i vermi, fortunate voi.» Albert James aveva dato dei soldi a Edurne per comprare un po' di provviste per festeggiare la scarcerazione del signor Armando. Non che ci fosse granché ma, anche se a prezzi molto alti, sul mercato nero si trovava sempre qualcosa. Alla fine di giugno del 1939 James disse che tornava a Parigi. «Ho finito il mio lavoro qui, adesso devo rientrare e mettermi a scrivere. Amelia ha deciso di continuare a lavorare, perciò viene a Parigi con me.» La signora Elena protestò dicendo che il posto di Amelia era a Madrid, vicino ai suoi, ma la nipote le spiegò le ragioni per cui doveva partire. «Qui non posso fare nulla. Ho un lavoro come segretaria di Albert, uno stipendio adeguato e con quei soldi posso aiutare voi e mia sorella. Voglio che ad Antonietta non manchino le medicine di cui ha bisogno per curarsi e voglio che mangiate qualcos'altro, oltre alle patate.» «E tuo figlio?» osò domandare la signora Elena. «Santiago non mi permetterà mai di stare con lui. Me lo merito. Verrò ogni tanto a trovarvi e proverò ad avvicinarmi a Javier; magari un giorno riuscirò a chiedergli perdono e lui me lo concederà.» Il signor Armando ammise che la nipote aveva ragione. Che cosa avrebbe potuto fare Amelia a Madrid? Laura, che aveva studiato da maestra, non trovava lavoro perché era la figlia di un rosso e si era dovuta accontentare di un posto da bidella nel collegio di suore in cui aveva studiato, la cui madre superiora, in considerazione dell'affetto che nutriva per lei, l'aveva assunta per l'anno successivo. Avrebbe dovuto spazzare, pulire le aule, badare ai più piccoli nell'ora dell'intervallo e svolgere le commissioni, il tutto per poche pesetas. Quanto al signor Armando, le autorità gli dissero chiaramente che non poteva più esercitare la sua professione, almeno per il momento. Era meglio passare inosservato agli occhi dei regime. Il brav'uomo cercò un modo dignitoso per

guadagnarsi da vivere, ma non fu facile, e dovette subire l'umiliazione di accettare un impiego da praticante presso lo studio legale di un franchista, un uomo di fiducia dei vincitori che aveva bisogno di qualcuno che conoscesse le leggi e lavorasse molto guadagnando poco, senza lamentarsi. Amelia firmò una delega allo zio perché vendesse l'appartamento dei suoi genitori e pagasse il debito con Albert James, ricavando inoltre un po' di soldi per alleviare le ristrettezze della famiglia. All'inizio il signor Armando rifiutò l'idea della nipote, sostenendo che l'appartamento era l'eredità per lei e Antonietta, ma le due sorelle insisterono affinché trovasse un buon compratore, sicure che ci fosse gente che faceva affari e poteva permettersi un appartamento nel quartiere di Salamanca. Il giorno in cui Amelia e Albert James partirono andammo a salutarli alla stazione del Nord. Piangevamo tutti, soprattutto Antonietta, che dovemmo strappare dalle braccia della sorella, in modo che Amelia potesse salire sul treno. Per noi che restavamo era cominciata una nuova vita; per Amelia, anche. Il professor Soler finì il suo racconto, si alzò dalla poltrona e si sgranchì le gambe passeggiando un po' per la stanza. Era ormai scesa la sera e Charlotte, sua moglie, era già venuta una volta a socchiudere la porta per vedere se stessimo ancora parlando. «Professore, mi scusi, ma ho una curiosità: perché non scrive lei la storia di Amelia?» «Perché io ne conosco soltanto alcune parti; è lei che sta completando il puzzle.» Devo confessare che, più cose scoprivo sulla mia bisnonna, più rimanevo stupefatto. Dalla mia prima impressione su Amelia, che avevo giudicato una ragazza viziata e poco interessante, avevo ormai cambiato parere. Ora mi sembrava un personaggio tragico, destinato a soffrire e a causare sofferenza. «Bene, adesso deve continuare le ricerche» mi annunciò. Era

proprio quello che temevo. Come le altre volte, aveva già previsto la pista che dovevo seguire. «Da Madrid andarono a Parigi, ma non si fermarono per molti giorni. Albert James decise di partire per Londra e portò Amelia con sé, quindi dovrà recarsi laggiù. Ho parlato con la signora Laura ed è d'accordo, ma la chiami anche lei. Le ho trovato un contatto a Londra: il maggiore William Hurley, un militare in pensione che fa l'archivista.» «Lei lo conosce?» «Il maggiore? No, non lo conosco. In realtà è stato il mio amico Victor Dupont a suggerirmi il nome di Hurley, che ha incontrato a un congresso di documentaristi. Credo che potrà aiutarla a seguire le tracce di Albert James.» Prima di andare a Londra passai da Madrid per vedere come stava mia madre. Questa volta era arrabbiata sul serio, me ne accorsi appena aprì la porta. «Sei impazzito? Cosa diavolo credi di fare? Ho già detto a mia sorella che è tutta colpa sua. Ha avuto proprio una bella idea! A chi importa cos'ha fatto la tua bisnonna? Ci cambierà forse la vita?» «La zia Marta non ha più niente a che vedere con questa faccenda» risposi. «Ma è stata lei a metterti la pulce nell'orecchio. Senti, Guillermo, per quanto mi riguarda, non me ne importa un fico secco della vita di mia nonna. Ma ti dirò di più: o lasci perdere queste sciocchezze oppure non contare più su di me. Non sono disposta a stare a guardare mentre ti rovini la vita. Invece di cercarti un buon lavoro, indaghi sul passato di quell'Amelia Garayoa che... che... insomma, perfino da morta continua a dar fastidio alla famiglia.» Non riuscii a convincere mia madre che le mie indagini stavano cominciando ad avere un valore. Era inflessibile e me lo dimostrò avvertendomi di non chiederle nessun prestito,

perché non intendeva più aiutarmi finché non avessi rinunciato a quelle che definì "pazzie". Mi rimase la cena sullo stomaco e me ne andai di malumore, ma deciso a continuare le ricerche su Amelia. Curiosamente, non era una questione personale: l'interesse che aveva risvegliato in me non aveva niente a che vedere col fatto che fosse la mia bisnonna. La sua vita era più interessante di quella di tante altre persone che avevo conosciuto e su cui avevo scritto come giornalista. La signora Laura fu entusiasta dei miei progressi e non fece obiezioni al mio viaggio a Londra.

4

Arrivai nella capitale inglese una mattina in cui non pioveva, non c'era nebbia e non faceva freddo. Non splendeva certo il sole, ma almeno l'atmosfera mi parve migliore di altre volte. In realtà ero stato a Londra solo una volta, da adolescente, quando mia madre si era ostinata a farmi fare uno di quei soggiorni per imparare l'inglese. Il maggiore William Hurley mi sembrò un vecchio brontolone, almeno al telefono. «Venga a trovarmi domani alle otto e sia puntuale; voi spagnoli avete la sgradevole abitudine di arrivare in ritardo.» Quell'allusione mi irritò, così mi ripromisi di domandargli quanti spagnoli conoscesse e se tutti arrivassero tardi agli appuntamenti con lui. Alle otto in punto del mattino seguente suonai il campanello di una villa vittoriana a Kensington. Venne ad aprirmi una giovane cameriera in uniforme. Doveva essere caraibica; nonostante la rigidità che si respirava sulla soglia, mi fece un largo sorriso e mi disse che avrebbe annunciato subito il mio arrivo al maggiore. William Hurley mi aspettava seduto davanti al caminetto, in un'immensa biblioteca. Sembrava assorto nella contemplazione di un ciocco di legno che bruciava, ma saltò subito in piedi e mi chiuse la mano in una stretta forte come l'acciaio, che per poco non mi stritolò le dita.

«La ricevo su richiesta del signor Dupont» mi ricordò. «E gliene sono grato, maggiore Hurley.» «Mi è stato detto che vuole informazioni sulla famiglia James.» «Esatto. Mi interessa scoprire tutto ciò che riguarda un membro di quella famiglia, Albert James, che a quanto ho capito aveva parenti al ministero degli Esteri e all'Ammiragliato.» «È così, altrimenti non sarei qui.» «Come dice?» «Giovanotto, ho dedicato buona parte della mia vita a studiare gli archivi militari, soprattutto quelli relativi alla Seconda guerra mondiale, e in effetti un James era in servizio presso l'Ammiragliato, a quell'epoca. Lord Paul James era un ufficiale a capo di una delle sezioni di controspionaggio, e uno dei suoi nipoti ha sposato lady Victoria, una nipote di mia moglie; donna eccezionale, grande giocatrice di golf, oltre che storica. Ha riordinato tutti gli archivi della sua famiglia e anche quelli della famiglia del marito. Dunque» concluse «cosa sta cercando?» Gli spiegai chi ero e gli raccontai che un'amante di Albert James, Amelia Garayoa, era la mia bisnonna, e il mio unico interesse era ricostruire la sua storia per la mia famiglia. «Una donna singolare, la sua bisnonna.» «Ah! Sa qualcosa di lei?» «Io non ho tempo da perdere. Il signor Dupont mi ha telefonato chiedendomi di incontrarla e spiegandomi il motivo delle sue ricerche, perciò ho controllato negli archivi dell'Ammiragliato, quelli consultabili, perché naturalmente c'è ancora molto materiale top secret che non sarà mai reso pubblico. Durante la Seconda guerra mondiale c'era un'agente indipendente, una spagnola, Amelia Garayoa, che collaborava con i servizi segreti britannici. Il suo garante era Albert James, nipote di lord Paul James, anch'egli un agente, e tra i migliori, direi.» Rimasi a bocca aperta. La mia bisnonna era una continua

sorpresa. «Un'agente indipendente? Cosa significa?» domandai cercando di riprendermi dallo stupore. «Non era inglese, non apparteneva ad alcuna agenzia, ma come molte altre persone in tutta Europa ha collaborato con i servizi di intelligence per sconfiggere il nazismo. In guerra c'erano due fronti, e quello dello spionaggio è stato importante come quello militare.» Il maggiore Hurley mi impartì una lezione magistrale sul funzionamento dei servizi segreti durante la Seconda guerra mondiale. Quell'uomo sembrava contento di esibire il suo sterminato sapere e io lo ascoltai con grande interesse. Come giornalista, ho imparato che tutti apprezzano di essere ascoltati con attenzione, e se si ha la pazienza e l'umiltà di stare a sentire senza interrompere, si possono scoprire cose incredibili. Alle dieci in punto la cameriera caraibica bussò leggermente alla porta per annunciare al maggiore che c'era un'auto ad aspettarlo davanti alla porta. «Ah! Ho un appuntamento con un vecchio amico al club. Bene, giovanotto, chiederò a lady Victoria di riceverla, può darsi che lei sappia darle informazioni sugli aspetti più... diciamo personali del rapporto fra Albert James e Amelia. Da parte mia, la ragguaglierò sulla sua attività come agente. Le telefono in albergo.» Lasciai la casa del maggiore Hurley entusiasta. La storia di Amelia si stava arricchendo di particolari inaspettati. Lady Victoria mi ricevette due giorni dopo. Era una donna attraente, anche se, pensai, doveva avere più o meno l'età di mia madre. Alta, magra, con i capelli ramati, gli occhi azzurri e la pelle diafana punteggiata di lentiggini, lady Victoria sfoggiava l'eleganza tipica delle donne di classe privilegiata che hanno avuto tutto senza fare nulla, pur essendo stata una studentessa modello all'università di Oxford, dove si era laureata in storia.

«Che impegno lodevole indagare sul passato della sua bisnonna! Senza radici non siamo niente, è come se non avessimo i piedi saldamente ancorati alla terra. È terribile non sapere chi siamo, e ovviamente possiamo saperlo solo se conosciamo la storia dei nostri antenati.» Non ribattei a quelle affermazioni un po' semplicistiche, perché avevo bisogno di lei. «Deve sapere, giovanotto, che negli archivi di famiglia ho trovato un mucchio di cose sulla sua bisnonna. Lettere, accenni a lei nel diario della madre di Albert James; insomma, credo che quello che sto per raccontarle potrà esserle d'aiuto. Anche se, naturalmente, sarà lo zio William a rivelarle la parte più sostanziosa. La sua bisnonna era una spia e ha rischiato la vita combattendo i nazisti! Mio caro, deve sentirsi orgoglioso di avere avuto in famiglia una donna come lei.» Come avevo fatto con il maggiore William, lasciai che fosse l'aristocratica a prendere le redini della conversazione. La cosa migliore era stare ad ascoltare, e poi lady Victoria non sembrava abituata a essere interrotta. Si accese una sigaretta e cominciò. Albert James e la sua bisnonna arrivarono a Londra a metà del luglio del 1939. Proprio un mese prima era stata approvata l'istituzione dell'Ejército de Tierra feminile... ma non andiamo fuori tema. Andarono ad abitare nella casa che Albert possedeva a Kensington, un tipico appartamento da scapolo, ampio e comodo. I genitori di Albert avevano una casa poco distante da quella del figlio... in realtà, la casa esiste ancora e oggi ci vive un loro nipote. Non si sorprenda. Poi le parlerò del nipote, ma adesso non è importante. I genitori di Albert in quel momento si trovavano nella casa di famiglia in Irlanda, a Howth, vicino a Dublino, dove si recavano tutte le estati, pur vivendo negli Stati Uniti per il resto

dell'anno. Forse non lo sa, ma i James discendono da un'antica famiglia della nobiltà rurale. Paul James era il fratello maggiore e fu lui a ereditare la casa di famiglia; il padre di Albert, Ernest, decise di andare negli Stati Uniti per fare fortuna, e in effetti ci riuscì! Si arricchì come commerciante, ma non dimenticò mai le sue radici e quando, ormai anziano, si ammalò, tornò in Irlanda a morire. Ernest avrebbe voluto che suo figlio nascesse in Irlanda, ma lui era nato prematuro, quindi si era dovuto rassegnare al fatto che Albert fosse newyorkese. Be', non è poi così male nascere a New York, non crede? Albert scrisse a sua madre per annunciarle che sarebbe andato in Irlanda insieme ad Amelia Garayoa; ho trovato la lettera fra le carte di lady Eugenie, così si chiamava la madre di Albert. Nei giorni che trascorsero a Londra, però, non rimasero inattivi. Può immaginare la situazione politica in quel momento: Chamberlain aveva fatto tutto il possibile per andare incontro a Hitler, convinto che fosse la cosa migliore, ma si sbagliava, certo. Lo zio di Albert, Paul James, lavorava presso l'Ammiragliato; una sera invitò il nipote e la bellissima Amelia a cena a casa sua insieme ad altri amici e la conversazione fu quasi tutta incentrata sulle intenzioni di Hitler. Tra gli invitati c'era chi era convinto che la Germania avrebbe finito per far scoppiare una guerra in Europa e chi, ingenuamente, credeva fosse possibile fermarlo. L'evento più singolare di quella serata fu che Amelia Garayoa rivide un vecchio amico, Max von Schumann, che era in compagnia della moglie, la baronessa Ludovica von Waldheim. Non sono supposizioni: sono imparentata con i James e mia nonna ha partecipato a quella cena; a noi nipoti raccontava spesso degli anni della guerra. Albert presentò Amelia come sua assistente; non osò aggiungere altro visto che lei era sposata, ma fu chiaro a tutti che la relazione tra i due non era solo professionale. La sua bisnonna era una donna molto bella, lo so perché ho visto alcune sue foto conservate fra i documenti di famiglia, e

pare che tutti i presenti a quella cena fossero stati conquistati dal suo fascino. Bella, intelligente, poliglotta, non sembrava spagnola. Non si offenda, ma donne come la sua bisnonna, soprattutto se spagnole, a quei tempi erano rare. L'ultima cosa che si aspettavano, sia Max sia Amelia, era incontrarsi a quella cena discreta ed esclusiva a casa di Paul James. «Amelia, che gioia! Permettimi di presentarti mia moglie Ludovica, la baronessa von Waldheim. Ludovica, lei è Amelia, ti ho parlato di lei; ci siamo conosciuti a Buenos Aires a casa dei miei amici, gli Hertz.» Ludovica strinse la mano ad Amelia e a nessuno sfuggì il fatto che le due donne si stessero soppesando con lo sguardo. Entrambe bionde, magre, eleganti, con gli occhi chiari e bellissime... sembravano due valchirie. Se per Albert fu una sorpresa che Amelia conoscesse il tedesco, lo fu ancor di più per suo zio Paul James. Max von Schumann si trovava a Londra per una missione segreta: cercare di convincere il governo britannico a combattere le aspirazioni sempre più pericolose di Hitler. Von Schumann rappresentava un gruppo di oppositori del nazismo formato da intellettuali, attivisti cristiani e qualche militare, che da tempo cercava, senza successo, di convincere le potenze occidentali a smettere di scendere a patti con Hitler e a riconoscere che rappresentava una minaccia per la pace in Europa. Non era un gruppo numeroso, ma molto attivo, e in uno degli ultimi e disperati tentativi di attirare l'attenzione della Gran Bretagna aveva mandato von Schumann a Londra. Il barone era un militare e apparteneva al corpo medico dell'esercito, il che dava un valore aggiunto alla sua presenza lì. Amelia presentò Albert a Max e a sua moglie Ludovica, e per un po' i quattro chiacchierarono del più e del meno. Fu evidente a tutti che Schumann cercava l'occasione di parlare da solo con Amelia, ma Ludovica non era disposta a rendere le cose facili al

marito. Paul James si rese subito conto delle qualità di Amelia e, anche se sul momento non disse nulla, pensò che la spagnola poteva essere di grande aiuto in futuro, se alla fine fosse scoppiata la guerra, cosa di cui lui era convinto. «Albert, che programmi hai?» chiese lord Paul James a suo nipote. «Per il momento, scrivere alcuni reportage sulla Spagna, e poi andare a trovare i miei genitori in Irlanda. Voglio che conoscano Amelia.» «Posso chiederti se siete fidanzati?» Albert tossicchiò, ma decise di dire la verità a suo zio. «Amelia è separata dal marito e temo che per il momento non potremo rendere ufficiale la nostra relazione. Ma sono innamorato di lei. È una donna speciale: forte, intelligente, decisa... Ha dovuto affrontare situazioni terribili; se sapessi cosa è stata capace di fare in Unione Sovietica per salvare un uomo dalla morte... Suo padre è stato fucilato dai franchisti e lei ha perduto diversi familiari in guerra... Non ha avuto una vita facile.» «Tua madre ci rimarrà male, sai che vuole vederti sistemato... e, insomma, è meglio che te lo dica: ha invitato lady Mary e i suoi genitori a passare le vacanze in Irlanda. A quanto ne so, partono domani da Londra per andare a casa vostra.» Paul James non avrebbe potuto dare una notizia peggiore al nipote, ma in quel momento i suoi contrattempi sentimentali erano l'ultima preoccupazione. Convinto che la guerra fosse imminente, aveva dei progetti in cui sperava di coinvolgere Albert. «Dopo le vacanze, prevedi di andare da qualche altra parte?» si informò. «Forse in Germania... Vorrei vedere da vicino quello che sta facendo Hitler.» «Ah! È un'ottima cosa.» «Perché, zio?»

«Perché, sebbene il ministero si ostini a non guardare in faccia la realtà, in Europa sta per scoppiare una guerra. Lord Halifax sembra nutrire cieca fiducia nei rapporti che ci manda da Berlino il nostro ambasciatore, sir Neville Henderson, e non ti nascondo che sono eccessivamente compiacenti con Hitler. Chamberlain ha dedicato troppo tempo a rabbonire Hitler per ammettere che la guerra è inevitabile.» «E tutto questo cos'ha a che vedere con me?» domandò Albert diffidente. «Sei irlandese, ma sei nato negli Stati Uniti, e in questo periodo avere un passaporto statunitense può rivelarsi molto utile...» «Non so a cosa stai pensando, ma non contare su di me. Sono un giornalista e non mi lascerò mai coinvolgere nei tuoi intrighi di spionaggio.» «Non te l'avrei mai chiesto se le circostanze non fossero eccezionali. Tra poco tutti dovremo scegliere da che parte stare; non sarà possibile rimanere con le mani in mano e dichiararci neutrali. Non potrai farlo nemmeno tu, Albert, per quanto lo desideri. Anche gli Stati Uniti dovranno schierarsi, è solo questione di tempo.» «Zio Paul, sei molto pessimista.» «Nel mio lavoro le illusioni sono pericolose, meglio lasciarle ai politici.» «In ogni caso, non contare su di me, qualunque cosa tu abbia in mente. Io prendo sul serio il mio mestiere, tanto quanto te.» «Non ne dubito, caro Albert, ma purtroppo sono sicuro che ne riparleremo.» In un altro momento della serata, Max von Schumann trovò finalmente il modo di parlare in privato con Amelia. La moglie di Paul James, lady Anne, aveva coinvolto Ludovica in una conversazione con un'altra signora, e la baronessa non avrebbe potuto liberarsi dalle sue interlocutrici senza attirare l'attenzione.

«Ti trovo cambiata, Amelia.» «La vita lascia il segno.» «Albert James è il tuo...?» «Il mio amante? Sì.» «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo.» «Non preoccuparti, Max. In che altro modo si può descrivere la mia relazione con Albert? Sono una donna sposata, quindi se sto con un altro uomo vuol dire che è il mio amante.» «Perdonami, volevo solo sapere come stai. Non ti ho mai dimenticata da quando ci siamo conosciuti a Buenos Aires. Ho chiesto tue notizie a Martin e a Gloria Hertz, ma nelle loro lettere continuavano a ripetermi che eri andata con Pierre a un congresso di intellettuali a Mosca e non eri più tornata. Poi Gloria mi ha scritto per dirmi che il padre di Pierre era andato a Buenos Aires per chiudere la libreria e occuparsi delle cose del figlio, ma di te non ha voluto parlare. Non so se devo chiederti di Pierre...» «L'hanno ammazzato a Mosca.» Max non sapeva come reagire di fronte a quella rivelazione. La donna che aveva davanti non sembrava affatto la ragazzina indifesa che aveva conosciuto in Argentina. «Mi dispiace.» «Grazie.» Sembravano non sapere più cosa dirsi. Max era a disagio perché sentiva su di sé gli sguardi inquisitori di sua moglie; quanto ad Amelia, probabilmente era delusa, forse ferita per aver trovato Max sposato. Non aveva certo sperato che lui rimanesse fedele al suo ricordo, rompendo il fidanzamento con Ludovica, ma una cosa era saperlo e un'altra, ben diversa, vederlo con i propri occhi. «Ti fermi per molto tempo a Londra?» volle sapere lui. «Non lo so, siamo appena arrivati. È Albert a decidere. Oltre a essere la sua amante, lavoro per lui, sono la sua assistente, la sua segretaria, faccio un po' di tutto. È lui che mi ha salvato, a Mosca, a Parigi, a Madrid; mi è stato vicino quando ne avevo

bisogno e mi ha sempre teso la mano, senza che gli chiedessi niente.» «Lo invidio per questo.» «Davvero? Sai, Max, mi sei mancato molto dopo che sei partito e all'inizio sognavo di rivederti, un giorno. Poi a Mosca ho smesso per sempre di sognare. Ho imparato a pensare soltanto al momento che sto vivendo.» «Hai sofferto molto...» Amelia fece spallucce con un gesto che voleva trasmettere fatalismo e indifferenza. «Mi piacerebbe rivederti» disse lui. «Perché?» «Per parlare, per... Non farmi sentire come un adolescente, è così difficile capire che mi importa di te?» «Mio Dio, ma cosa dici?» «Puoi rimproverarmi molte cose ma, anche se non lo accetti, per me continui a essere importante.» «Se il caso non ci avesse fatto incontrare qui, oggi, non avremmo mai più saputo niente l'uno dell'altra...» «Ma il caso ha voluto il contrario e adesso eccoci qui. Posso invitarti a prendere un tè domani al Dorchester?» «Non lo so, non posso promettertelo. Dipende da Albert.» «Hai bisogno del suo permesso?» «Ho bisogno di lui.» «Alle cinque sarò all'hotel Dorchester, spero di trovarti lì.» La baronessa Ludovica von Waldheim si avvicinò decisa. «State ricordando i vecchi tempi?» chiese con ironia. «Ho invitato la signorina Garayoa a prendere il tè e spero che accetterà il mio invito. Chissà quando ci rivedremo!» «Oh, il destino è molto capriccioso! Non crede, mia cara?» disse la baronessa fulminando Amelia con lo sguardo. «Cerco di non fare mai affidamento sul destino » replicò lei. Albert James non fu sospettoso come Ludovica riguardo all'invito di von Schumann, visto che il giorno dopo fu lui ad

accompagnare Amelia al Dorchester. «Verrò a riprenderti fra un'ora» le disse dandole un bacio sulla guancia dopo aver salutato il barone. «Sono felice che tu sia venuta» disse Max quando furono rimasti soli. «Albert trova naturale che prendiamo il tè insieme, visto che ci siamo conosciuti a Buenos Aires e abbiamo amici in comune.» «Molto comprensivo, il signor James.» «È un uomo straordinario, il migliore che abbia mai conosciuto» replicò Amelia in tono irritato. Parlarono dei cambiamenti delle rispettive vite. Lui le raccontò il motivo per cui si trovava a Londra e come avesse fallito nell'intento di convincere i britannici a fermare Hitler. «Non sono riuscito a farmi ascoltare, ma continueremo a provarci. Un altro membro del nostro gruppo arriverà a Londra tra qualche giorno e farà un ulteriore tentativo con importanti membri del governo britannico.» «Ma l'altra sera lord Paul James ha pubblicamente manifestato la sua convinzione che Hitler provocherà una guerra in Europa. Come puoi dire di avere fallito?» «Lord Paul è un uomo intelligente, in grado di comprendere la realtà, senza ostinarsi a considerare le cose come vorrebbe che fossero. Purtroppo non dipende da lui che il governo britannico prenda in considerazione i nostri timori.» «Sai, mi stupisce che tu venga in Gran Bretagna a chiedere agli inglesi di fermare Hitler... Ti credevo un militare devoto alla patria, incapace di fare alcunché contro la Germania.» «È proprio perché sono un patriota che faccio quello che faccio. Non credere che sia stato facile ottenere il permesso di viaggiare in un momento simile, ma suppongo che la vecchia nobiltà conservi ancora certi privilegi, nonostante Hitler ci odi. Inoltre, avevo una scusa: Ludovica ha una cugina sposata con un conte inglese e, ufficialmente, siamo venuti al battesimo del loro primo figlio.» Poi Max le spiegò che aveva cercato di scoprire che fine

avesse fatto Herr Itzhak Wassermann, il socio del padre di Amelia, ma tutti i suoi sforzi erano stati vani. L'impiegato di Herr Itzhak, Helmut, giurava di non sapere dove si trovasse. «Quel brav'uomo aveva paura, non si fidava di me. Di questi tempi, tutti sono diventati diffidenti in Germania. Ti avevo scritto per dirtelo, ma immagino che già non ti trovassi più a Buenos Aires, perché non hai risposto alla mia lettera.» Un'ora dopo Albert James passò a prendere Amelia. Max lo invitò a fermarsi per un tè, perché voleva conoscere il suo parere su quello che stava succedendo in Europa, e si stupì nel sentire che il giornalista voleva recarsi in Germania. «Ludovica e io saremo felici di ospitarvi, e se possiamo esservi di qualche aiuto...» Amelia rimase in silenzio: anche per lei era una grossa sorpresa scoprire che Albert aveva intenzione di andare a Berlino, ma preferì non pronunciarsi. Più tardi lui le comunicò che, appena avesse finito di scrivere i reportage sulla Spagna, sarebbero andati in Irlanda a passare qualche giorno con i suoi genitori e poi sarebbero partiti per la Germania. «Molti giornali americani vogliono saperne di più su Hitler e se è vero che ha salvato il paese dalla crisi economica. Verrai con me?» «Ma certo, per niente al mondo mi perderei un viaggio a Berlino. Chissà, magari riuscirò a ottenere qualche notizia da Herr Helmut, l'impiegato di mio padre e di Herr Itzhak. Penso spesso a Yla!» Il soggiorno di Albert e Amelia in Irlanda non si poté definire un successo. Lady Eugenie, la madre di Albert, era una donna molto testarda e, anche se accolse Amelia con un sorriso, fece ben presto capire che non la considerava la persona adatta a suo figlio. Inoltre, come aveva annunciato Paul James, stava per arrivare la famiglia Brian, la cui figlia Mary, a giudizio di lady

Eugenie, aveva tutte le qualità per diventare la moglie di Albert. Alcuni passaggi del diario di lady Eugenie chiariscono quanto accadde in quei giorni. Amelia è affascinante, non posso negarlo, ma è sposata, pertanto Albert non avrà altra scelta che rompere con lei. Quanto a Mary, mi sembra perfetta per lui. È bella, beneducata, appartiene a un'ottima famiglia e con eccellenti relazioni. Mary è rimasta molto delusa nel vedere Albert tanto innamorato di Amelia, e anche i suoi genitori sono a disagio per la situazione, per questo ho deciso di intervenire. Domani parlerò con Albert e poi lo farò con i Brian; loro non sanno che Amelia è sposata e intendo dirglielo. Quanto a Ernest, non so se potrò contare su di lui; mi ha chiesto di non fare la ruffiana e di rispettare la decisione di nostro figlio, anche se nemmeno lui apprezza la sua relazione con Amelia. Ernest, però, sta diventando troppo americano e dimentica che ci sono valori e tradizioni che vanno rispettati. Un figlio deve capire che sposarsi non è una decisione esclusivamente sua, ma che coinvolge l'intera famiglia. E in questo caso non si tratta nemmeno di scegliere se sposare Mary o Amelia, perché la spagnola è già sposata. La conversazione con Albert non è stata facile. Credo che averlo cresciuto negli Stati Uniti l'abbia fatto diventare un uomo poco convenzionale. Gli ho detto che Amelia mi è simpatica, ma che la sua relazione non ha futuro. «Rinuncerai ad avere figli?» gli ho domandato. Albert è rimasto zitto: credo che non ci avesse mai pensato o che semplicemente non avesse voluto pensarci fino a ora. «Se avrai dei figli, farai di loro dei bastardi. È questo che vuoi?» Poi gli ho ricordato i suoi doveri verso la famiglia, essendo figlio unico. Purtroppo, non ho potuto avere altri figli, e spetterà a lui tramandare il cognome e gestire le nostre proprietà, anche se dice di essere statunitense e di non credere alle classi sociali. Che gli piaccia o no, è pur sempre un James. Nemmeno la conversazione con i Brian è stata facile. Ho spiegato loro che la relazione di Albert con Amelia non è altro che una sciocchezza da ragazzi. Credo si siano tranquillizzati sapendo che, anche se volesse, Albert non potrebbe sposare Amelia perché è già sposata e, con Franco

alla guida della Spagna, le possibilità di ottenere il divorzio sono nulle. Sono stati molto discreti a non fare commenti mordaci su Amelia. A Mary ho chiesto di avere un po' di pazienza e le ho detto che a volte gli uomini perdono momentaneamente la testa per una donna, ma le signore come noi devono accettare la situazione con eleganza. Meglio far finta di niente che fare una scenata o affrontare una conversazione diretta in cui si possono dire cose sconvenienti. E poi sono sicura che, per quanto gli costi e per quanto si senta americano, Albert farà il suo dovere con noi.

Albert si rese conto che era meglio non prolungare il soggiorno in Irlanda, per non arrivare a uno scontro diretto con sua madre, e decise di passare da Parigi prima del viaggio a Berlino. Il 22 agosto 1939 Hitler, in un discorso rivolto agli alti comandi tedeschi, mise bene in chiaro la sua intenzione di invadere la Polonia. Il giorno dopo Amelia e Albert erano a cena a casa di Jean Deuville. Amelia aveva mantenuto l'amicizia con il migliore amico di Pierre. Gli era grata, proprio come ad Albert, per l'aiuto che le aveva prestato a Mosca per cercare di salvare Pierre. La morte dell'amico aveva lasciato un segno in Jean, che era riuscito a superare a fatica l'esperienza moscovita, sconvolto dalla scoperta di un aspetto del comunismo che gli faceva orrore. Come se non bastasse, quello stesso giorno era giunto il duro colpo che la Germania e l'Unione Sovietica avevano firmato un patto di non aggressione. Come tanti altri comunisti si sentiva inerme, incapace di trovare argomenti per difendere il patto Ribbentrop-Molotov. Hitler perseguitava con accanimento i comunisti in Germania, e Jean non riusciva a capire perché Stalin, contravvenendo a qualunque principio, gli stesse dando corda. «Come fai a essere così ingenuo?» gli disse Amelia. «Non ti rendi conto che Stalin sta prendendo tempo?» «Tempo? Ma se non sta facendo altro che regalare tempo a Hitler» si lamentò Jean Deuville. «Finiranno per scontrarsi, non dubitare, è solo una mossa tattica» insisté Amelia.

«E i principi? Io non sono di quelli che credono che il fine giustifichi i mezzi.» «Sei sempre stato un romantico» intervenne Albert, che apprezzava sinceramente Deuville, dopo aver condiviso con lui tanti affanni a Mosca. «Non si possono compromettere le idee. Come faccio a spiegare quel patto ai miei amici, dopo averli convinti che il comunismo è l'unica idea in grado di costruire un mondo nuovo? Come posso chiedere loro di continuare a combattere contro il fascismo se Stalin scende a patti con Hitler?» Jean Deuville era avvilito e nessuno degli argomenti addotti da Amelia e Albert riuscirono a placare la sua angoscia. Era un uomo ideologicamente puro e gli sembrava del tutto incomprensibile che, quali che fossero i motivi, Stalin fosse sceso a patti con Hitler. Quando, a mezzanotte passata, lasciarono casa sua, Jean abbracciò Amelia per qualche minuto, come se volesse trattenerla, e mentre salutava Albert con una forte stretta di mano gli affidò un incarico. «Mi dai la tua parola d'onore che ti prenderai cura di lei, vero?» «È quello che penso di fare, prendermi cura di Amelia per il resto della mia vita» rispose Albert in tono solenne. «Mi sento più tranquillo.» Amelia era inquieta per l'angoscia di Jean Deuville e, soprattutto, per il modo in cui li aveva salutati. «Non dovremmo lasciarlo solo» disse ad Albert appena furono usciti dal suo appartamento. «Non preoccuparti. Non gli succederà niente, ma è un irreprensibile e non coglie le astuzie politiche. Per questo non può capire il patto Ribbentrop-Molotov. A proposito, sei stata generosa a cercare di giustificarlo, considerando cosa pensi di Stalin.» «Jean è buono e non volevo affondare il coltello nella piaga.»

Due giorni dopo Amelia e Albert arrivarono a Berlino e scesero all'hotel Adlon. Lei non riusciva a nascondere l'emozione che provava nel tornare nella città che aveva conosciuto da piccola, quando andava in Germania con i genitori. Non faticò molto a convincere Albert ad aiutarla a cercare i Wassermann. Sperava che qualcuno potesse darle notizie di Herr Itzhak e di sua moglie Judith o, almeno, della figlia Yla. Amelia lo portò nella Oranienburger Strasse, nei pressi della Neue Synagoge, la più grande sinagoga di tutta quanta la Germania. «È davvero impressionante!» commentò Albert contemplando l'edificio dall'aspetto moresco. «È vero, ricordo ancora quello che ci spiegò Herr Itzhak sulla sinagoga... È stata inaugurata nel 1866 ed è opera di Eduard Knoblauch, un allievo di Karl Friedrich Schinkel.» «Che memoria!» «Mi sono sempre interessate la storia e l'arte.» Nessun vicino seppe dar loro informazioni precise su Herr Itzhak e sulla sua famiglia. Amelia insisté per bussare a tutte le porte del palazzo in cui aveva vissuto la famiglia Wassermann, ma l'unica cosa che riuscirono a scoprire fu che erano scomparsi all'improvviso. Amelia percepiva la diffidenza dei pochi che avevano avuto il coraggio di aprire la porta. Quel palazzo, un tempo abitato da famiglie borghesi, sembrava ora trasandato e cupo. «Di certo i Wassermann hanno lasciato la Germania. Tu stessa mi hai raccontato che tuo padre aveva molto insistito.» «Sì, ma Herr Itzhak non voleva, diceva che questa era la sua patria.» «Ma visto come sono andate le cose, quel brav'uomo non avrà avuto altra scelta che andarsene. Se non ricordo male, mi hai detto che i nazisti gli hanno chiuso l'attività, mandando in rovina anche tuo padre.» «Infatti, ma nonostante tutto Herr Itzhak non voleva lasciare la Germania.»

Amelia non si diede per vinta, perciò insisté fino a convincere Albert che dovevano parlare con Helmut, il contabile del signor Wassermann. «Se lo troviamo, sono certa che saprà darci informazioni sui Wassermann.» «Non ti arrendi mai, vero?» disse ridendo Albert. Amelia non rispose e lo portò alla Stadthaus, dove chiese dello Zur Letzten, il ristorante più antico della città. Un uomo le spiegò che era lì vicino e gli indicò come arrivarci. «So che Herr Helmut viveva da queste parti, la sua casa non era lontana dal ristorante più antico di Berlino.» Dopo vari giri, identificarono il palazzo. Il portiere, dopo averli osservati con attenzione, li informò che Herr Helmut era in casa. Albert dovette correre dietro ad Amelia, che si era lanciata su per le scale veloce come il vento. Suonarono il campanello e attesero impazienti, finché venne ad aprire un uomo ormai anziano e con l'aria stanca. «Cosa volete?» chiese guardandoli con diffidenza. «Herr Helmut, sono Amelia Garayoa! Non mi riconosce?» «Fräulein Amelia, mio Dio! È diventata una donna!» Dopo la sorpresa iniziale, il tedesco li invitò a entrare in casa. «Prego, entrate, vi farò un po' di caffè. Purtroppo mia moglie è a letto con la febbre, ma ci penserò io.» «Non vogliamo disturbare... Desideravo solo sapere come sta e chiederle dei Wassermann» si scusò Amelia. Ma Herr Helmut sembrò non ascoltarla. Li condusse in salotto e li fece accomodare in attesa del caffè. «Sembra un brav'uomo» disse Albert. «Certo che lo è. Mio padre si fidava molto di lui.» Helmut tornò con un vassoio e non volle rispondere alle domande di Amelia finché non la vide sorseggiare il caffè che aveva preparato. «Mi racconti di suo padre, è da tanto che non ho sue notizie.

Ho saputo che ha combattuto contro Franco... Gli ho scritto, ma senza ottenere risposta.» «Mio padre è morto, è stato fucilato poco dopo la fine della guerra.» «Quanto mi dispiace! Suo padre, proprio come Herr Itzhak, era un buon principale, giusto e rispettoso... Faccia le mie più sentite condoglianze a sua madre e a sua sorella Antonietta, mi ricordo di voi due da piccole...» «Anche mia madre è morta e mia sorella Antonietta, sebbene ammalata, grazie a Dio è viva» rispose Amelia, cercando di controllare l'emozione e le lacrime. Herr Helmut rimase scioccato dal racconto delle disgrazie subite dalla famiglia Garayoa. Non sapeva quali parole usare per esprimere il suo dispiacere. Amelia gli chiese notizie dei Wassermann. «Le posso dire ben poco, proprio come spiegai a suo padre, il signor Juan. Da quando Hitler è salito al potere è stata avviata una politica antiebraica. Lei era troppo giovane per ricordarsene, ma nel 1933 è stato proclamato il primo boicottaggio contro gli ebrei tedeschi e centinaia di picchetti organizzati dai nazisti hanno chiuso i negozi e le imprese di proprietà dei cittadini ebrei. Poi hanno cominciato a privarli dei diritti legali e civili e, con le scuse più svariate, a rubare loro tutto ciò che possedevano. Li hanno espulsi dagli incarichi pubblici, dalla carriera giudiziaria, dagli ospedali, dalle università, dai teatri, dai giornali...Alcuni hanno preferito andarsene, ma la maggioranza, come Herr Itzhak, si è rifiutata. Erano tedeschi, perché dovevano lasciare il loro paese? Poi sono arrivate le leggi di Norimberga... All'inizio, il governo nazionalsocialista preferiva che gli ebrei se ne andassero per impossessarsi di tutti i loro beni; ma sa cos'è successo, molti paesi si sono rifiutati di accoglierli e così siamo arrivati alla situazione attuale: arresti in massa, distruzione delle sinagoghe, espropriazione dei beni, ritiro dei passaporti... A suo padre e a Herr Itzhak hanno espropriato l'attività. Non so se suo padre

gliel'ha raccontato, ma alla fine del 1935 hanno fatto un'ispezione nella ditta e hanno detto che c'erano degli errori contabili. Non era vero, ero io che tenevo la contabilità e le assicuro che i conti quadravano. Ma non c'è stato modo di difendersi dalle accuse e sia Herr Itzhak sia suo padre hanno perso tutto. So che per loro è stato un duro colpo.» «Ne sono al corrente, Herr Helmut, ma vorrei sapere cos'è successo ai Wassermann» insisté Amelia. «Ha sentito parlare della Notte dei cristalli?» «Certo.» «Non immagina quanti ebrei sono stati arrestati da allora. Li portano nei campi di lavoro e, una volta lì, non c'è modo di sapere più niente di loro.» «Per favore, mi dica dove sono i Wassermann!» «Non lo so. Herr Itzhak è riuscito a mandare Yla fuori dalla Germania, credo da certi parenti di Frau Judith negli Stati Uniti. Yla non voleva andarci, ma Herr Itzhak e Frau Judith sono stati irremovibili, non volevano che continuasse a subire le umiliazioni imposte a tutti gli ebrei tedeschi. Ma loro sono rimasti qui, convinti che il paese sarebbe rinsavito, che Hitler fosse solo un brutto sogno, che gli ebrei sarebbero stati di nuovo considerati bravi tedeschi... Cercavano di sopravvivere con il poco che era rimasto loro, e io facevo il possibile per aiutarli, ma un giorno... be', Herr Itzhak è scomparso; Frau Judith è quasi impazzita quando abbiamo scoperto che l'avevano mandato in un campo di lavoro.» «E lei dov'è?» «Hanno portato via anche lei.» Amelia scoppiò a piangere. Herr Helmut tacque, guardandola, senza sapere cosa fare. «Per favore, Amelia, calmati! Possiamo cercare di scoprire dove si trovano e magari fare qualcosa per loro» disse Albert per consolarla. «Almeno Fräulein Yla sta bene. So che ha scritto ai genitori quando è arrivata a New York.»

L'uomo disse di non conoscere l'indirizzo dei parenti di Frau Judith a New York ma, fra tante disgrazie, Amelia si tranquillizzò nel sapere che almeno la sua amica d'infanzia era sana e salva. «Cosa ne è stato della ditta?» volle sapere Amelia. «L'hanno confiscata; per un certo periodo mi hanno permesso di dirigerla, poi mi hanno detto che apparteneva allo Stato e adesso è in mano a un membro del Partito nazista. Ma sono riuscito a salvare parte dei macchinari, per questo avevo scritto a suo padre. Non sapevo cosa dovevo farne.» «Funzionano ancora?» si informò Amelia, stupita. «Erano ottime macchine, signorina, e ho pensato che, visto che non potevo venderle, almeno potevo affittarle; e così ho affittato un telaio a un piccolo fabbricante di maglie e le macchine da cucire a una famiglia che ha aperto un laboratorio per confezionare abiti per i negozi. I guadagni non sono alti, lo so perché tengo la contabilità, ma sono qui, in caso un giorno Herr Itzhak tornasse o... insomma, suo padre ormai è morto... Certo che... lei è sua figlia, ha diritto a una parte di quei soldi.» «E lei, adesso, che lavoro fa?» domandò Albert. «Mi guadagno la vita come posso. Tengo la contabilità della fabbrica di maglie e del laboratorio di confezioni; non guadagno molto, quanto basta per vivere con mia moglie. E mi occupo di tenere in buono stato i macchinari del signor Juan e di Herr Itzhak. Il mio figlio maggiore è sposato e da anni è entrato nell'esercito; non ha bisogno di niente.» Il signor Keller insisté perché Amelia accettasse parte dei proventi dell'affitto dei macchinari. All'inizio lei fece resistenza, poi capitolò. «Quei soldi sono di suo padre, perciò spetta a lei amministrarli come meglio crede. Le darò i libri contabili.»

5

Amelia fu di nuovo di grande aiuto ad Albert grazie alla sua conoscenza del tedesco. «È una fortuna che tu sia così portata per le lingue!» «Be', come sai, parlo francese perché la mia nonna paterna, la nonna Margot, era di Biarritz; quanto al tedesco, ti ho già raccontato che da piccola ho passato le vacanze qui, ospite dei Wassermann. La loro figlia Yla ha la mia stessa età. Mio padre ha sempre insistito affinché io e Antonietta imparassimo il tedesco e un po' di inglese che, come ben sai, è la lingua che parlo peggio.» «Niente affatto, con l'inglese te la cavi bene, ti manca solo un po' di vocabolario. Ecco cosa faremo: invece di continuare a parlare francese tra di noi, d'ora in poi passeremo all'inglese, così ti eserciterai.» E così fecero. Albert James era convinto che la Germania si preparasse alla guerra e che le minacce di Hitler alla Polonia non fossero soltanto un'altra delle sue spacconate. Berlino era vivace e animata, ma era un'allegria isterica, lo si capiva a prima vista. Nonostante le proteste di Amelia, Albert insisté per telefonare a Max von Schumann. Come giornalista gli interessava conoscere le opinioni di un militare. Albert non sembrava sospettare che in passato tra Amelia e Max fosse sbocciato un sentimento a cui le circostanze avevano impedito di germogliare.

Max von Schumann invitò la coppia a cena a casa sua, in centro città. Era una villa a due piani, circondata da un giardino rigoglioso. Un maggiordomo aprì loro la porta e li condusse nella biblioteca, dove Max e Ludovica li stavano aspettando. «Sono felice che siate venuti, anche se, viste le circostanze, forse non è il momento migliore per visitare la Germania...» «Su, caro, non spaventare i nostri invitati!» lo interruppe Ludovica. «In realtà, Berlino mi ha sorpreso» confessò Albert. «È impossibile non amare questa città» disse Ludovica. «Crede che Hitler metterà in atto la minaccia dell'invasione della Polonia?» volle sapere Albert. Max tossicchiò, a disagio, ed evitò di rispondere alla domanda, ma ad Albert non sfuggì lo sguardo che il barone rivolse alla moglie. Da quel fugace scambio di occhiate riuscì a capire che l'invasione si sarebbe presto concretizzata. Albert confessò di aver letto alcuni discorsi di Hitler e di non riuscire a capacitarsi del fatto che i tedeschi si lasciassero abbindolare dal Führer. «Ho l'impressione che tratti i tedeschi come dei bambini.» «Oh, lei non ha idea dello stato in cui si trovava la Germania prima dell'avvento del Führer! Non contavamo niente, per non parlare della mancanza di lavoro, di soldi, di futuro... Hitler ha restituito alla Germania la dignità; adesso in Europa ci rispettano e, come può vedere lei stesso, il nostro è diventato un paese fiorente. In Germania non c'è disoccupazione. Chieda, chieda per la strada: per le classi lavoratrici Hitler è una benedizione, e anche per noi, che eravamo sull'orlo della rovina» spiegò Ludovica. «A chi si riferisce quando dice "noi"?» domandò Albert. «Alle famiglie che per secoli hanno contribuito allo sviluppo della nostra patria. Gli industriali tedeschi stavano fallendo, e so di cosa parlo, visto che la mia famiglia possiede alcune

fabbriche nella Ruhr.» Max sembrava a disagio mentre sua moglie parlava. Amelia credette di scorgere una smorfia contrariata sul volto del suo amico mentre Ludovica esaltava la figura di Hitler e pensò che quella coppia dovesse avere profonde divergenze. «Molti tedeschi non la pensano come Ludovica» sentenziò Max, incapace di trattenersi oltre. «Ma, caro, sono solo i comunisti, i socialisti e tutta quella gentaglia a non ammettere che, grazie al Führer, la Germania è tornata a essere una grande nazione. Ma noi buoni tedeschi siamo molto riconoscenti a Adolf Hitler.» «Io sono un buon tedesco e non ho nulla di cui essergli grato» ribatté Max. «Dobbiamo ringraziarlo per aver sistemato gli ebrei nel posto che si meritano. Gli ebrei erano le sanguisughe della Germania.» «Basta, Ludovica! Non tollero che parli così in mia presenza. Sai che alcuni dei miei migliori amici sono ebrei.» «Mi dispiace, caro, ma, anche se sei mio marito, non posso condividere le tue opinioni sugli ebrei. Non sono come noi, appartengono a una razza inferiore.» «Ludovica!» «Max, cerca di essere coerente. Non sei tu che difendi la libertà? Allora lascia che mi esprima liberamente. Spero di non avere scandalizzato i nostri ospiti... Non è così, vero, Amelia?» Amelia abbozzò un sorriso. Non capiva come Max avesse potuto sposare quella donna. Non aveva niente in comune con la baronessa, tranne il fatto che entrambi provenivano da famiglie di antica nobiltà e che si conoscevano fin da bambini. Provava compassione per lui. Quattro giorni dopo, il 1° settembre 1939, la Germania invase la Polonia. Albert telefonò a Max per cercare di fissare un altro appuntamento, questa volta senza Ludovica.

«Oggi mi è impossibile incontrarla, cerchi di capire» si scusò Max. «Va bene, ma nei prossimi giorni?» «Senz'altro; per ora resterò a Berlino, troverò il tempo di vederla.» Due giorni dopo, il 3 settembre, la Gran Bretagna, la Francia, l'Australia e la Nuova Zelanda dichiararono guerra alla Germania. Così ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. Il 5 settembre gli Stati Uniti si dichiararono neutrali, il che permise ad Albert di rimanere a Berlino senza problemi; lo stesso fu per Amelia, che era di nazionalità spagnola. Max von Schumann fece ben più che incontrare di nuovo Albert James: gli presentò alcuni amici che erano contrari a Hitler. Era un gruppo formato da professori, avvocati, qualche piccolo commerciante, due pastori protestanti e persino un altro aristocratico cugino di Max. In definitiva, uomini della borghesia illuminata che disapprovavano quello che Hitler stava facendo alla Germania. Albert simpatizzò con Karl Schatzhauser, un vecchio professore di medicina che era stato insegnante di Max nel suo corso di studi. Schatzhauser abitava in un palazzo in Leipziger Strasse, pericolosamente vicino al quartier generale della Gestapo, il che comunque non sembrava intimorirlo quando si trattava di riunire gli amici del gruppo clandestino di opposizione a Hitler. «Perché non vi coordinate con i socialisti e i comunisti?» domandò Albert al professor Schatzhauser. «Dovremmo farlo, ma ci sono tante cose che ci separano... Non credo che si fiderebbero di noi, e la sfiducia è reciproca. No, non è il momento di agire insieme. I comunisti non sanno cosa fare dopo il patto con i russi firmato dal ministro Ribbentrop. Per loro questo patto è una tragedia: qui Hitler arresta e perseguita i comunisti e, da parte sua, Stalin ha fatto finta di niente e firmato con la Germania. Inoltre, quello che vogliono i

comunisti tedeschi è trasformare la nostra patria in un'altra Unione Sovietica, mentre noi vorremmo che la Germania tornasse alla normalità.» «Ma questo vi rende più deboli nell'opporvi a Hitler» insisté Albert. «Noi vogliamo una Germania cristiana, democratica, in cui tutti siamo soggetti alla legge e non ai capricci di quel caporale impazzito che abbiamo fatto diventare cancelliere. E non pensi che non conosca la parte di responsabilità che i partiti moderati hanno avuto nel permettere a Hitler di arrivare al potere. Non si può essere condiscendenti con personaggi come lui: l'errore non è stato commesso solo dai tedeschi, ma anche dalle altre nazioni europee. «Per poter essere incisivi dobbiamo passare inosservati. Per questo insisto con i nostri amici che dobbiamo essere come camaleonti» disse Schatzhauser. «Per esempio, Max voleva lasciare l'esercito, ma l'ho convinto a non farlo perché ci è molto più utile dall'interno, così sappiamo cosa pensano i capi militari, quanti possono simpatizzare per noi, quali sono i piani di Hitler... Tutti dobbiamo restare ai nostri posti; non c'è bisogno di dimostrare entusiasmo per il Führer, ma neppure possiamo esporci al punto di finire nelle galere della Gestapo. Laggiù non saremmo di alcuna utilità per il nostro paese.» Albert era impressionato dalla risolutezza e dalla lucidità del professor Schatzhauser, mentre Amelia pensava che Max, il professore e i suoi amici fossero troppo pusillanimi per affrontare con efficacia un mostro come Hitler. I berlinesi sembravano estranei alle sofferenze della guerra, e Berlino continuava a essere la città della musica e dei teatri. «Albert, qui dicono che Carla Alessandrini interpreterà il Tristano e Isotta alla Deutsches Opernhaus tra quindici giorni!» «La tua amica Carla viene a Berlino? Mi avevi detto che era un'antifascista convinta.»

«E lo è! Ma Carla, oltre a essere la miglior cantante d'opera del mondo, è italiana, quindi non mi stupisce che la chiamino da Berlino. Io e te siamo qui, no? I nazisti pensano che, visto che sei statunitense e il tuo paese si è dichiarato neutrale, non sei un elemento pericoloso, e io sono spagnola, perciò saranno convinti che sia franchista.» Albert non commentò. Sapeva quanto Amelia apprezzasse Carla Alessandrini e qualunque critica avrebbe provocato una discussione. «Ma è qui!» esclamò Amelia. «Come dici?» «Carla alloggia all'Adlon, lo dice il giornale. Chiedo al centralino di mettermi in contatto con lei.» Qualche minuto dopo, Amelia sentì la voce allegra di Vittorio Leonardi, il marito di Carla. «Amelia, cara! Come stai?» Amelia gli disse che anche lei era ospite dell'albergo e che non vedeva l'ora di incontrarli. Vittorio non si fece pregare. «Carla è impegnata nelle prove. Adesso vado a prenderla a teatro e poi possiamo vederci e cenare insieme.» Quando si trovarono nell'atrio dell'albergo, Carla Alessandrini abbracciò Amelia. Nel frattempo, Vittorio chiacchierava con Albert come se lo conoscesse da sempre, anche se in realtà l'aveva appena intravisto a Parigi. Ma Vittorio era un uomo di mondo e capì subito che l'accompagnatore di Amelia era qualcosa di più di un caro amico. Cenarono tutti e quattro nel ristorante dell'albergo e Carla si interessò molto delle ultime peripezie della vita di Amelia. «Cara! Sembra proprio che le tragedie ti perseguitino! E non lo capisco, perché sei talmente bella... Purtroppo, così è la vita, adesso l'importante è che tu stia bene e che Albert si prenda cura di te; ed è meglio che lo faccia, perché altrimenti dovrà vedersela con me» disse puntando un dito minaccioso verso Albert James.

La diva spiegò che, anche se odiava i nazisti, Vittorio aveva insistito che rifiutandosi di cantare a Berlino si sarebbero esposti troppo, visto che in Italia governavano i fascisti. Si rammaricò che molti amici ebrei, musicisti, direttori d'orchestra, gente di teatro, fossero stati costretti ad andare in esilio. «Non lasciarti ingannare dalle apparenze, questa città non è più quella di un tempo, i migliori sono dovuti fuggire. E non credere che qui mi senta a mio agio...» «Ma, Carla, amore! Non è prudente esprimere così apertamente le tue preferenze politiche. A Milano ha osato disdegnare il Duce quando ha cercato di salutarla dopo averla vista nella Traviata. Dopo lo spettacolo, Carla si è chiusa in camerino e mi ha ordinato di dirgli che aveva un mal di testa così forte che le impediva di parlare. Naturalmente il Duce non ci ha creduto e poi da alcuni amici abbiamo saputo che ha ordinato di tenerci sotto controllo. Se ci fossimo rifiutati di venire a Berlino, cosa credi che avrebbe pensato Mussolini? Non potevamo accampare alcuna scusa per annullare questo impegno.» «Odio i fascisti, e i nazisti ancor di più!» dichiarò Carla, senza badare agli sguardi stupiti dei commensali seduti agli altri tavoli. «Cara, ti prego, non gridare!» la redarguì Vittorio. «Anch'io provo le stesse cose» disse Amelia prendendo la mano dell'amica. «La pensiamo tutti allo stesso modo, ma Vittorio ha ragione, bisogna tenere un basso profilo» commentò Albert. «E, così facendo, la prudenza finisce per diventare collaborazionismo» disse Amelia. «No, hai torto. Penso che sia meglio poterci muovere per Berlino e parlare con la gente, per poi raccontare al mondo il pericolo rappresentato da Hitler. Se adesso mi alzo e comincio a inveire contro i nazisti, non otterrò altro che essere arrestato, e alla fine non potrò scrivere sui giornali quello che sta

succedendo qui» fu la conclusione di Albert. «E poi dicono che gli uomini non sono calcolatori e pratici» commentò Carla. Vittorio li informò che, due giorni dopo, i responsabili della Deutsches Opernhaus avrebbero offerto un cocktail seguito da una cena in onore di Carla e promise di chiedere di invitare anche loro. «Sarà meglio, perché altrimenti sarò io a non partecipare al cocktail» sentenziò Carla. Il patto tedesco-sovietico aveva una portata superiore a quella che molti avevano immaginato in un primo momento. I protocolli segreti cominciarono a diventare di pubblico dominio con il passaggio alle vie di fatto e il 17 settembre le truppe sovietiche entrarono in Polonia. Il giorno dopo Amelia e Albert parteciparono a una riunione a casa di Karl Schatzhauser. Il medico chiese agli altri membri del gruppo di mantenere la calma. «Si sono spartiti la Polonia» si lamentò Max «e il governo britannico non ha mosso un dito in sua difesa.» «La Gran Bretagna non sembra avere le idee chiare sulla strada da prendere» commentò Albert. «I polacchi dovrebbero essere loro alleati, ma in realtà li hanno abbandonati nelle grinfie di Hitler e di Stalin!» ribatté Amelia. Alla riunione partecipava anche un pastore protestante che cercava di arginare lo sconforto che sembrava dilagare nel gruppo, pronunciando parole di speranza. «Possiamo ancora fare qualcosa, non ci arrenderemo. C'è molta gente contraria a Hitler» assicurò il religioso, che si chiamava Ludwig Schmidt. Il pastore disse di conoscere una persona vicina all'ammiraglio Canaris, il capo del controspionaggio tedesco; secondo quell'uomo, l'ufficiale della marina non condivideva le idee del Partito nazista al potere; anzi, sembrava che

l'ammiraglio fosse disponibile ad aiutare come poteva l'opposizione a Hitler, purché non venisse coinvolto. Max von Schumann confermò l'informazione aggiungendo che il colonnello Hans Oster, capo dell'ufficio di controspionaggio degli Alti Comandi delle Forze Armate, insieme ad altri capi militari, era contrario a Hitler. «Dovreste unire le forze!» insisté Albert. «Non dobbiamo fare passi falsi, è meglio che ogni gruppo agisca come crede opportuno; poi, al momento giusto, decideremo le alleanze» ribatté Karl Schatzhauser. «Lei dirige il nostro gruppo, professore, e io accetto la sua strategia, ma credo che il nostro amico Albert James abbia ragione» intervenne Max. Il pastore Ludwig Schmidt illustrò ad Albert i fondamenti del nazismo. «Ci sono tre libri che lei dovrebbe leggere per capire su cosa si basa la sua follia: il Mein Kampf, dello stesso Adolf Hitler, Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg e Das Manifest zur Brechung den Zinsknechtschaft des Celdes di Gottfried Feder. Lei non immagina quello che Feder è arrivato a scrivere sul modo di risanare la nostra economia. Quanto al libro di Rosenberg, è una stupidaggine, con l'obiettivo di dimostrare la superiorità delle popolazioni nordiche. Attacca anche i fondamenti del cristianesimo, perché non dobbiamo dimenticare che i nazisti disprezzano Dio. Ma legga il Mein Kampf e vedrà chiaramente quello che si propone Hitler.» «Finora, le principali vittime sono state gli ebrei» disse Amelia. «Ha ragione, ma oltre a volere sterminare gli ebrei, l'obiettivo del nazionalsocialismo è cancellare le radici cristiane della Germania, creare un paese senza Dio né religione» precisò il pastore Schmidt. Amelia approfittò di un momento in cui Albert stava parlando con il professor Schatzhauser per cercare di convincere Max ad aiutarla a rintracciare i Wassermann.

«Un nostro amico ci ha informato che li hanno portati in un campo di lavoro. Ci sarà pure un registro dove figurino i loro nomi...» «Non sarà facile scoprirlo, ma farò quello che posso.» «Tu sei un ufficiale, a te lo diranno.» «Un ufficiale che diventerà sospetto agli occhi del partito se si interessa agli ebrei. La situazione non è semplice, vedrò se tramite un amico del servizio di controspionaggio riesco a scoprire qualcosa.» In un altro momento della riunione, Amelia chiese a Max di Ludovica. «Come puoi immaginare, non sa nulla di queste riunioni. Non esiterebbe a denunciarci.» «Ludovica è nazista, vero?» «L'hai sentita. Per mia sfortuna, ho una moglie nazionalsocialista convinta. Proviene da una famiglia di imprenditori e industriali della Ruhr che, come molti altri, hanno appoggiato Hitler. Volevano un governo forte, un dittatore. Molti di coloro che lo hanno sostenuto adesso dicono che pensavano di poter esercitare un'influenza su di lui, ma è solo una scusa accampata da gente che pensa solo ai propri interessi, alla quale non importa affatto il degrado morale in cui viene trascinata la Germania.» «Mi dispiace per quello che stai passando...» «Puoi immaginare quanto sia doloroso il fatto che Ludovica sia nazista. Ovviamente non mi fido di lei, e il nostro rapporto si è deteriorato. Ormai salviamo solo le apparenze.» «Perché non ti separi?» «Non posso, sono cattolico. In questo paese a maggioranza protestante ci sono anche dei cattolici, e io e Ludovica lo siamo. Siamo condannati a restare insieme.» «Ma è orribile!» «Non saremo né la prima né l'ultima coppia che si trova in questa situazione. E poi, anche se volessi separarmi, Ludovica non me lo permetterebbe, perciò entrambi ci siamo adattati alle

circostanze. Non pretendo di essere felice, ma sono ossessionato dall'idea di togliere di mezzo Hitler.» Karl Schatzhauser, insieme ad Albert, si avvicinò. «Mia cara Amelia, sto cercando di convincere Albert a riferire al governo britannico che la Germania non è impazzita del tutto, e che ci sono uomini e donne disposti a combattere contro Hitler, ma abbiamo bisogno di aiuto. I britannici, però, devono considerare che non tradiremo mai il nostro paese, vogliamo solo far cadere Hitler e impedire che la guerra si trasformi in una tragedia più grande di quella che si è verificata nel conflitto precedente.» Albert disse che li avrebbe aiutati, trasgredendo per la prima volta un principio a cui si era sempre mantenuto fedele: raccontare ai suoi lettori quello che come giornalista vedeva e sentiva, ma senza alcun coinvolgimento politico. A fine settembre, la Polonia si arrese alla Germania. Il paese venne diviso in zone: le province occidentali furono annesse alla Germania, mentre quelle orientali andarono all'Unione Sovietica. Milioni di polacchi pagarono le conseguenze del trovarsi sotto il dominio del Reich. Le prime vittime furono gli ebrei. La prima di Tristano e Isotta fu un successo. Il pubblico in visibilio applaudì Carla Alessandrini facendola uscire a salutare oltre dieci volte. Quella sera Joseph Goebbels assisté allo spettacolo, insieme ad altri gerarchi del Partito nazista. Alcuni di loro non esitarono a mandare mazzi di fiori alla diva italiana, chiedendole un appuntamento o invitandola direttamente a cena. Ma Carla non degnava di un'occhiata quegli omaggi e ordinava alla sua cameriera di lasciarli fuori dal camerino. «Persino i fiori, se sono nazisti, puzzano» osservava. Dopo lo spettacolo, Vittorio e Carla invitarono a cena in albergo un gruppo di amici, tra cui Amelia e Albert. Terminata la cena, Carla si congedò dai suoi ospiti, con il pretesto della

stanchezza, e chiese ad Amelia di accompagnarla nella sua suite. «Non abbiamo avuto occasione di stare da sole neanche un minuto e volevo chiederti se la storia con Albert James è una cosa seria.» Amelia meditò sulla risposta. Lei stessa si chiedeva quanto fosse importante la relazione con il giornalista. «Albert mi ha salvata in diverse occasioni. È l'uomo più generoso che abbia mai conosciuto e non mi ha mai chiesto niente in cambio.» «Ti ho chiesto se lo ami, nient'altro.» «Sì, penso di sì.» «Uff, che risposta! Vuol dire che non lo ami.» «Sì, lo amo. Ma non come ho amato Pierre... Credo che non amerò mai più nessuno a quel modo. Mi ha fatto davvero soffrire tanto!» «Dimentica Pierre! È morto, e quel che è fatto è fatto, non si può tornare indietro. Non fare come quelli che si crogiolano nell'autocommiserazione lamentandosi del passato. Devi guardare al futuro e cercare il più possibile di goderti il presente. Ti darò il mio parere: Albert è un brav'uomo, ti ama ed è disposto a fare qualunque cosa per te. Forse proprio per questo non lo apprezzi quanto dovresti.» «Ma so benissimo che è un uomo eccezionale!» «Che ti ama e si fida di te, senza condizioni. Vittorio è così e, come vedi, non saprei vivere senza di lui, ma per egoismo. È mio marito, certo, ma è anche colui che mi protegge le spalle. Credo che Albert sia come Vittorio: uomini del genere meritano qualcosa di più di quello che noi possiamo dare loro. È un peccato, ma così è la vita!» «Non mi piace che pensi che non apprezzo Albert.» «Ma certo che lo apprezzi! Solo che non sei innamorata di lui e potresti lasciarlo in qualunque momento. Cosa c'è invece fra te e il barone tedesco, Max von Schumann?» «Niente, io e Albert abbiamo cenato a casa sua e l'abbiamo

rivisto altre volte.» «Mi sembra di ricordare che mi avessi scritto quanto ti sentivi attratta da lui.» «È vero... però Max è sposato, ho conosciuto sua moglie, la baronessa Ludovica, bellissima ma terribile. È nazista. Max non è felice con lei.» «Guai in vista! Cadrai tra le sue braccia.» «No, non voglio, e lui nemmeno. Max è un uomo d'onore e il suo matrimonio con Ludovica è per sempre. Sono cattolici.» «Sciocchezze! Anch'io sono cattolica, e non penso affatto di lasciare Vittorio, ma... se incontrassi il grande amore? Cosa sarei disposta a fare? Finora gli uomini che ho conosciuto e amato non meritavano che lasciassi Vittorio, e più passano gli anni più mi sembra difficile che arrivi un principe su un cavallo bianco con cui voglia fuggire. Ma se arrivasse? L'unica cosa che non dobbiamo fare è mentire a noi stesse. Vedo che il barone ti attrae ancora. Insomma, spero solo che tu non soffra troppo. Non dimenticare che, se le cose ti andassero male, potrai sempre contare su di me, tanto più adesso che hai perso i tuoi genitori. A proposito, hai notizie della tua famiglia?» «Mia sorella Antonietta è sempre cagionevole.» «Quella ragazza ha bisogno di mangiare, perché non la porti in Italia? Potete venire a casa mia a Milano, o meglio, sai che ho una villa a Capri, lì guarirebbe respirando l'aria pura del mare.» «Sai che non posso, devo lavorare. Non voglio accettare altri soldi da Albert che non siano quelli per il mio lavoro. Con quel denaro riesco ad aiutare la mia famiglia, mio zio Armando guadagna il minimo indispensabile per mantenerli tutti. Inoltre, Pablo, il figlio di Lola, è sempre a casa dei miei zii. Sua nonna non si è ancora ristabilita ed è in ospedale. Hanno molte bocche da sfamare.» «E tu sei così orgogliosa che ti rifiuti di accettare il mio aiuto!» «Non è orgoglio, Carla, ti assicuro che se non fossi in grado di guadagnare i soldi per i miei con il mio lavoro, piuttosto che

farli vivere in miseria li chiederei a te, ma per ora riesco a mandare loro abbastanza denaro, e per me non spendo niente.» «Sì, me ne sono accorta. Andremo a fare acquisti, non puoi rifiutare un regalo, perché, lasciatelo dire, sembri Cenerentola.» Alcuni giorni dopo il professor Karl Schatzhauser telefonò ad Albert convocandolo urgentemente. Insisté perché si facesse accompagnare da Amelia. Si recarono a casa sua nel tardo pomeriggio e lì trovarono anche Max e un altro uomo. Karl Schatzhauser andò dritto al punto. «Mia cara Amelia, Max mi ha detto che lei è amica di Carla Alessandrini.» «È vero» rispose Amelia, perplessa. «Forse può aiutarci a salvare una ragazza.» «Non capisco...» «Mi permetta di presentarle padre Müller.» Il professor Schatzhauser si rivolse all'uomo che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Il sacerdote, che non dimostrava più di trent'anni, sembrava nervoso. «Padre Müller è un sacerdote cattolico, membro del nostro piccolo gruppo di opposizione a Hitler. Sta con noi a titolo personale, non come rappresentante della Chiesa cattolica.» Amelia e Albert osservarono con interesse il prete, il quale a sua volta li guardò con aria preoccupata. «Non c'è bisogno che vi spieghi la situazione degli ebrei tedeschi, sottoposti alle persecuzioni. Molti di loro sono scomparsi dalla sera alla mattina, mandati nei campi di lavoro, ma non si riesce a ottenere informazioni sulla fine che fanno in quei posti. Ebbene, una famiglia ebrea che conosce padre Müller ha un problema e io e Max abbiamo pensato che forse voi potete aiutarci. Ma è meglio che sia lui a spiegarvi la situazione.» Il sacerdote si schiarì la voce prima di cominciare a parlare e guardando fisso Amelia le spiegò cosa voleva da lei. «Sono orfano. Mio padre è morto quando ero piccolo e mia

madre mi ha tirato su insieme alla mia sorella maggiore. Mio padre aveva una legatoria che ci dava di che vivere agiatamente e aveva perfino un dipendente. Quando lui è morto, mia madre ha mandato avanti il negozio e mia sorella la aiutava come poteva, ma non devo certo ricordarvi le ristrettezze che ha patito la Germania, e alla disgrazia della morte di mio padre si è aggiunta la diminuzione del lavoro per la legatoria. Vicino al laboratorio, nei pressi di Chamissoplatz, vivevano degli amici dei miei genitori, i Weiss, che avevano un negozio di compravendita di libri. Il signor Weiss, oltre che un amico, era un cliente di mio padre e spesso gli portava vecchie edizioni da rilegare. Il signor Weiss non è ebreo, ma sua moglie, Batsheva, lo è. Avevano un'unica figlia, Rachel, della mia stessa età; si può dire che siamo cresciuti insieme e che per me sia come una sorella. Quando mio padre è morto, il signor Weiss ha aiutato mia madre come poteva e, nonostante le difficoltà che anche lui doveva affrontare, non ha mai smesso di proteggerci. Un anno fa il signor Weiss è morto di un attacco di cuore e due mesi dopo la Gestapo ha arrestato Batsheva con l'accusa di vendere libri proibiti. Non era vero, ma l'hanno portata via e l'unica cosa che siamo riusciti a sapere è che la povera donna si trova in un campo di lavoro. Fortunatamente, il giorno in cui la Gestapo si è presentata in libreria Rachel non c'era, perciò si è salvata, altrimenti avrebbero portato via anche lei. Da allora vive con mia madre, con mia sorella Hanna e con me; la nascondiamo ma abbiamo paura per lei. Non mi sentirò tranquillo finché non la saprò fuori dalla Germania, ma non è facile per gli ebrei ottenere i permessi per viaggiare. Un anno fa il governo ha ritirato loro i passaporti... Insomma, immagino che siate al corrente di quello che sta succedendo. Tramite alcuni amici, che mi hanno assicurato di conoscere un funzionario, forse riusciremo a procurarci un documento per Rachel, ma è necessario che qualcuno le faccia da garante e soprattutto che la porti via di qui. Max mi ha detto che Carla Alessandrini ha molta stima nei suoi confronti e ha pensato... Be', ci è venuto in

mente che se la signora Alessandrini si presentasse come garante di Rachel e dichiarasse che vuole assumerla come cameriera, assistente o quello che le sembri più opportuno, forse ci sarebbe più facile ottenere il permesso di viaggio. Ecco cosa volevo chiedervi: di salvare Rachel, per me è come una sorella e io... ve ne sarei eternamente grato.» «Supponiamo che Carla Alessandrini riesca a far ottenere il permesso a Rachel e a portarla fuori dalla Germania: cosa succede poi?» chiese Albert James. «Salvatela. Fate il possibile per farla arrivare negli Stati Uniti; là c'è una comunità ebraica in cui forse potrà trovare aiuto, magari riuscirà a rintracciare qualche parente di sua madre emigrato a New York anni fa.» «Non vi prometto niente, ma lo chiederò a Carla. È antifascista e odia i nazisti. Ma se lei non ci riuscisse, forse potrei provarci io; in fin dei conti sono spagnola e Franco è un alleato di Hitler. Una volta fuori dalla Germania, io posso aiutarla a entrare in Spagna e portarla fino in Portogallo» disse Amelia. Quando padre Müller se ne andò, Max e il professor Schatzhauser si scusarono con Amelia e Albert. «Sappiamo» disse Max «di avervi messo in una situazione compromettente e devo confessare che l'idea è stata mia, perciò vi chiedo perdono. Conosco da tempo padre Müller, è un brav'uomo e mi piacerebbe aiutarlo, anche se così ho messo voi nei pasticci. Soprattutto te, Amelia, visto che sei amica di Carla Alessandrini.» Rientrando in albergo, Amelia e Albert ebbero una discussione. Lui era preoccupato che Carla si sentisse usata da Amelia e che la cosa potesse incrinare l'amicizia tra le due donne, e lui sapeva quanto fosse importante Carla per Amelia. Ma Albert non sapeva che tipo di donna fosse la Alessandrini. Non appena Amelia le spiegò la situazione, la diva non esitò nemmeno per un istante ad accettare di aiutare Rachel, nonostante suo marito, Vittorio, le raccomandasse prudenza.

«Come puoi chiedermi di essere prudente quando ho l'occasione di aiutare una povera disgraziata? Lo farò, certo che lo farò, mi presenterò alla polizia per richiedere il permesso di viaggio per Rachel, dirò che non posso fare a meno dei suoi servizi, che è una cameriera straordinaria. Anche se dovrò telefonare a Goebbels in persona per ottenere quel documento... porteremo via di qui quella ragazza.» Amelia abbracciò la sua amica e, in lacrime, la ringraziò. Sapeva che Carla aveva un gran cuore e non dubitava che avrebbe accettato di fare quel favore così pericoloso. Accompagnata da padre Müller e da Rachel, Carla si presentò nell'ufficio preposto a rilasciare i permessi di viaggio per gli ebrei. Preventivamente, il funzionario da cui dipendeva la pratica aveva ricevuto una bustarella piena di contanti, messi a disposizione dallo stesso Max. Carla compilò una pila di fogli, rispose a una sfilza di domande assurde e soprattutto si comportò più che mai da diva, consapevole del fatto che avrebbe impressionato gli impiegati. Quando uno dei funzionari insisté che per rilasciare il permesso ci sarebbe voluto del tempo, Carla, arrabbiata, fece una scenata. «Cosa? Per quanto tempo crede che possa fermarmi a Berlino? Telefonerò al ministro Goebbels in persona perché si occupi di questo problema e vedremo se sarà contento di sapere che mi state contrariando. Gli dirò che, se la faccenda non si risolve, non tornerò mai più a cantare a Berlino!» Rachel ebbe il passaporto, su cui fu stampata la parola "Jude". Carla, Vittorio, Amelia e Albert, insieme a Rachel, lasciarono Berlino il 12 ottobre. Prima di abbandonare la città, Amelia insisté affinché Max la aiutasse a rintracciare i Wassermann. «È incredibile che tu non sia riuscito a scoprire dove si trovano» si lamentò Amelia. «Non posso essere troppo diretto, cerca di capire, ma ti

assicuro che sto facendo l'impossibile per scoprire che fine hanno fatto.» «Quando li avrai trovati, devi aiutarli. Giurami che li libererai, ovunque siano!» «Ti do la mia parola d'onore che farò tutto il possibile per aiutarli.» «Non basta! Devi portarli via dal campo di lavoro o da qualunque posto si trovino!» «Questo non posso promettertelo, Amelia.» Far uscire Rachel dalla Germania era solo la prima parte del piano che avevano elaborato nei giorni precedenti. Sarebbero andati in treno fino a Parigi e, da lì, Carla sarebbe rientrata in Italia, mentre Amelia e Albert avrebbero portato Rachel in Spagna, poi in Portogallo. Albert, inoltre, si sarebbe occupato dei permessi necessari affinché Rachel potesse raggiungere New York. Pensava di telefonare a suo zio Paul James e di usare la sua influenza per accelerare il rilascio, da parte dell'ambasciata britannica, dei documenti che servivano a Rachel Weiss per andare in America. La presenza di Carla era il miglior lasciapassare. Né i controllori, né la polizia, né la Gestapo ebbero il minimo dubbio sulla cantante, e infatti, nonostante i timori di Albert, di Amelia, di Vittorio e della stessa Rachel, il viaggio fino alla capitale francese si svolse senza incidenti. Rachel era una donna di aspetto gradevole, con i capelli castani e gli occhi dello stesso colore, timida, dolce e molto colta; tutti furono conquistati dalla sua semplicità. A Parigi, Carla e Vittorio scesero all'hotel Meurice, dove la cantante aveva deciso di trascorrere un paio di giorni prima di proseguire il viaggio verso Roma. Non era un capriccio, ma uno stratagemma per dare tempo ad Amelia e ad Albert di raggiungere la frontiera con la Spagna. Anche se fino a quel momento non avevano incontrato alcun ostacolo, Carla pensava

che fosse meglio restare nei paraggi in caso li avessero arrestati a causa di Rachel. In quei giorni la Francia era in preda allo sconforto. Il paese era ufficialmente in guerra contro la Germania e il primo ministro Édouard Daladier cominciava a essere sopraffatto dagli eventi. Amelia aveva escogitato un piano che consisteva nel recarsi a Biarritz e da lì continuare fino alla frontiera con la Spagna, che pensava di attraversare non passando dalla dogana, bensì dai sentieri che anni prima le aveva fatto conoscere Aitor. Erano ancora freschi i ricordi della sua convalescenza alla cascina della balia Amaya e dell'amicizia con i suoi figli Edurne e Aitor. Amelia si chiedeva se Aitor fosse tornato dal Messico e, in quel caso, se vivesse in esilio nei Paesi Baschi francesi. Se fosse stato così, era certa che lui li avrebbe aiutati. Albert guidò fino a Biarritz senza fermarsi e, una volta arrivati, Amelia li portò a casa di sua nonna Margot. L'anziana signora era morta tempo prima, ma Amelia sperava che Yvonne, la sua cameriera, avesse ancora le chiavi di casa o che vivesse lì. Quando arrivarono davanti alla dimora, situata su una scogliera a picco sul mare, Amelia notò che le persiane erano aperte. Chiese ad Albert e a Rachel di aspettare in macchina, visto che non sapeva cosa avrebbe trovato. Yvonne aprì la porta e all'inizio sembrò non riconoscerla, poi la abbracciò scoppiando a piangere. «Mademoiselle Amelia, che gioia vederla! Mio Dio, che sorpresa!» La fece entrare in casa e, tra le lacrime, le raccontò quello che Amelia già sapeva, che sua nonna Margot era morta. «Madame non ha sofferto, ma negli ultimi giorni era molto agitata, sembrava sapesse che stava per morire e si rammaricava di non poter dire addio ai figli e ai nipoti, specialmente lei e Mademoiselle Laura, che eravate le sue

preferite.» Yvonne le spiegò che la signora Margot le aveva dato il permesso di rimanere nella casa, certa che i suoi figli, quando fossero potuti andare a Biarritz, avrebbero continuato a tenerla al loro servizio. «La signora ha fatto testamento qualche mese prima di morire; qui c'è una busta che mi ha dato; è chiusa, ma mi ha detto che dentro c'è il nome del notaio a cui il signor Juan e il signor Armando avrebbero dovuto rivolgersi. La signora era molto previdente ed era preoccupata per la guerra in Spagna; mi ha dato una somma di denaro per non farmi mancare niente nella vecchiaia e... be', eccomi qui, in attesa che venisse qualcuno della famiglia Garayoa.» Amelia le spiegò che era in viaggio verso la Spagna, insieme ad alcuni amici, e che a tutti avrebbe fatto bene riposare e mangiare qualcosa di caldo. Anche per Albert e Rachel fu un sollievo trovarsi al sicuro in quella casa. Yvonne non ebbe bisogno che le spiegassero nulla per intuire che stava succedendo qualcosa di grave e che Amelia era in difficoltà. Così quella sera, quando Rachel si ritirò per riposare e Albert si addormentò, prese Amelia in disparte. «Mademoiselle» disse «mi sembra che abbiate dei problemi, e se posso aiutarvi... La signora Margot si fidava di me e sa quanto sono affezionata alla sua famiglia. L'ho conosciuta appena nata, come sua sorella. Sono entrata in questa casa quando mi ha assunta la vostra bisnonna, Madame Amélie, di cui lei porta il nome...» «Lo so, Yvonne... Certo che mi fido di te! Vedi, siamo diretti in Spagna, ma non attraverso la frontiera, bensì dai valichi di montagna. Ti ricordi di Aitor, il figlio della balia Amaya? Lui mi ha fatto conoscere i sentieri nascosti da cui passano solo le capre.» «Molti spagnoli sono venuti qui per sfuggire a Franco, se sapesse... poveretti! Non so niente di Aitor, ma conosco uno

spagnolo che si è rifugiato qui con la famiglia ed era del Partito nazionalista basco. Un brav'uomo, che lavorava molto per dare da mangiare ai suoi figli. Prima della guerra credo avesse un'attività, ma ha perso tutto andando in esilio. Per fortuna era sposato con una donna di qui e adesso lavora in un albergo. Se vuole... non so... forse sa qualcosa di Aitor...» «Quanto te ne sarei grata! Aitor potrebbe esserci di grande aiuto, l'ho incontrato qualche mese fa in Messico e sembrava intenzionato a tornare indietro per aiutare i rifugiati. Spero che ci sia riuscito!» «Domattina presto andrò a parlare con quell'uomo, alle sette è già alla reception dell'albergo.» Yvonne mantenne la promessa e disse ad Amelia che l'uomo sarebbe venuto a trovarli quel pomeriggio stesso, alla fine della giornata di lavoro. Albert aveva deciso di lasciar fare ad Amelia, anche se nutriva dei dubbi; pensava che non fosse prudente confidare in un estraneo. Alle sei e mezzo del pomeriggio Patxi Olarra si presentò a casa loro. Albert calcolò che doveva avere una cinquantina d'anni. Sembrava un uomo vigoroso e aveva i capelli completamente bianchi. Amelia gli chiese se conoscesse Aitor Garmendia, fornendogli dettagli su di lui e su dov'era situata la cascina di famiglia e dicendogli di averlo incontrato l'ultima volta in Messico, in veste di segretario di un dirigente del partito in esilio. Olarra ascoltò e si prese il suo tempo prima di rispondere. «Cosa volete?» domandò a bruciapelo. «Come dice? Noi non vogliamo nulla. Sono amica di Aitor fin dall'infanzia...» «Sì, ma cosa vuole da lui?» insisté Olarra. «Come le ho detto, mi piacerebbe sapere se si trova da queste parti e, se è così, vederlo. Suppongo che gli esiliati rimangano in contatto, sarete informati gli uni degli altri...» «Vedrò cosa posso fare per lei.»

Patxi Olarra si alzò dalla sedia e, con un cenno del capo, uscì dalla stanza senza dire altro. «Che tipo strano!» commentò Albert. «I baschi sono gente di poche parole, preferiscono i fatti» replicò Amelia. «Non so se ci è amico o se ci tradirà» disse Albert preoccupato. «Non sa niente di noi, non ha visto Rachel.» «Sì, però... non so... non mi convince.» «È un brav'uomo, glielo assicuro» intervenne Yvonne. Passarono due giorni senza che Olarra si facesse vivo e Amelia decise di non aspettare oltre, ma di provare a entrare in Spagna per conto proprio. «Sei sicura di ricordarti i valichi di cui ti ha parlato Aitor?» le chiese Albert, con aria preoccupata. «Ma certo» rispose Amelia ostentando una sicurezza che non aveva. Rachel, da parte sua, confidava a tal punto in Amelia da dipendere da lei come se fosse una bambina, pur essendo più grande di lei. Amelia aveva fissato la spedizione per il giorno dopo, quindi li invitò ad andare a letto presto. «I sentieri di montagna sono impegnativi ed è meglio essere riposati.» Non si erano ancora coricati quando suonò il campanello. Si irrigidirono, in allerta. Yvonne mandò Rachel al piano di sopra, mentre lei andava ad aprire la porta. Fuori, qualcuno chiese di Amelia e lei, riconoscendo la voce, lanciò un urlo di gioia. «Aitor, sei venuto!» «Non credere che sia facile andare in giro» replicò Aitor abbracciando l'amica. Rimasero a parlare per un bel po' di tempo. Aitor raccontò che il suo capo aveva deciso di rimandarlo in Europa per fare da tramite fra chi aveva intenzione di fuggire e chi invece era già

riuscito a organizzarsi in esilio. «Cerchiamo di essere discreti per non compromettere troppo le autorità francesi, perché la Francia, pur essendo in guerra contro la Germania, non ha rotto i rapporti con la Spagna, perciò dobbiamo muoverci con cautela. Non puoi immaginare quante centinaia di migliaia di rifugiati ci sono nei campi e in che condizioni... Noi cerchiamo di aiutare qualcuno dei nostri e di far passare la gente, ma è complicato.» «Noi vorremmo proprio entrare in Spagna attraverso uno dei valichi di cui mi hai parlato, dobbiamo salvare una persona...» Amelia raccontò ad Aitor la storia di Rachel e gli spiegò come pensavano di raggiungere Lisbona. «Non sarà facile, tanto meno in questo periodo dell'anno. Siamo quasi in inverno e c'è la neve. Inoltre, i soldati e la polizia di Franco sono ovunque.» «Ma voi usate i valichi, altrimenti come fate a portare la gente fuori dalla Spagna?» Aitor rimase in silenzio. Non voleva deludere Amelia, ma al contempo temeva di mettere in pericolo la sua organizzazione con un'impresa tanto rocambolesca come introdurre in territorio spagnolo un'ebrea che poi avrebbe attraversato tutto il paese per raggiungere il Portogallo. Se le donne fossero state arrestate e torturate, avrebbero confessato e rivelato dove, come e con chi avevano superato il confine, mettendo in pericolo i suoi. «Non ho l'autorità per prendere una simile decisione, devo consultare i miei superiori» concluse Aitor. «Non serve che li consulti... Se non vuoi aiutarmi non farlo. Noi partiamo domani, con o senza di te.» «Per favore, Amelia, non fare pazzie! Vi perderete in montagna, soprattutto in questo periodo dell'anno. Non è un gioco, né tanto meno una gita campestre.» «Non possiamo restare qui; ogni giorno che passa Rachel è sempre più in pericolo. La sua unica salvezza è arrivare in

Portogallo.» «Potrebbe ottenere un permesso di soggiorno in Francia... in fin dei conti, sono in guerra contro la Germania.» «Ti stai prendendo gioco di me? Devo ricordarti dove si trovano i rifugiati spagnoli? Vuoi che ti parli della politica nei confronti degli ebrei? Vattene, Aitor, non voglio comprometterti oltre. Tu combatti la tua guerra e Rachel non ne fa parte, non sei obbligato ad aiutarci.» «Se qualcosa va male, rischi la vita» la avvertì Aitor. «Lo sappiamo, ma non abbiamo altra scelta.» Aitor se ne andò di malumore. Non era riuscito a far ragionare Amelia né a convincerla che i valichi dei pastori sulle montagne erano molto pericolosi. Neppure Albert ebbe fortuna con lei. «Io parto domani con Rachel e ti assicuro che riuscirò ad arrivare dall'altra parte» dichiarò Amelia, stizzita. Alle tre del mattino, quando Amelia, Rachel e Albert stavano salutando Yvonne, sentirono dei colpi secchi alla porta. La vecchia cameriera andò ad aprire e fu stupita di vedere Aitor. «Sei testarda come una mula, quindi non mi resta che aiutarti, altrimenti rischi di far scoprire alla polizia i valichi per attraversare il confine» disse l'uomo. Amelia lo abbracciò, entusiasta. «Grazie! Mille grazie!» «Siete ben equipaggiati? Servono abiti pesanti, altrimenti morirete congelati.» «Direi che abbiamo tutto l'occorrente» assicurò Albert. La prima notte dormirono all'aria aperta; poi nei piccoli rifugi dei pastori. Aitor guidava la spedizione con passo sicuro, nonostante l'oscurità, e Albert chiudeva la fila. Amelia e Rachel camminavano in silenzio, senza lamentarsi della durezza del terreno né degli inquietanti rumori notturni. «Manca poco al confine con la Spagna, ed è meglio attraversarlo quando è buio» annunciò Aitor all'alba. «Quanto dista esattamente?» si informò Albert. «Poco più di quindici chilometri. Poi raggiungeremo la

cascina dei miei nonni. Ci stanno aspettando.» Amelia scorse la figura di Amaya sulla porta della cascina e corse verso di lei in lacrime. Abbracciò la sua balia e la donna la coprì di baci. «Cara Amelia, come sei bella! Come sei cambiata! Mio Dio, pensavo che non ti avrei mai più rivista!» Entrarono nella cascina, di cui Amelia aveva ricordi dolcissimi, e la ragazza si rattristò alla notizia che il nonno era morto e che la nonna era a letto ammalata. «Non parla quasi più» mormorò Amaya indicando la vecchina, che sembrava non riconoscerli. La balia fece da mangiare e si lasciò sfuggire una risata quando vide l'espressione di Albert che beveva un tazzone di latte. «Non ti piace? Allora vuol dire che non hai mai bevuto vero latte: questo è appena munto.» «Cosa sai della mia famiglia?» chiese Amelia. «Edurne mi scrive ogni tanto, ma con cautela; come sai, adesso aprono le lettere e la polizia sospetta di chiunque. Tua sorella Antonietta sembra migliorata; quanto al figlio di Lola, è sempre a casa dei tuoi zii perché sua nonna è ancora in ospedale. Il signor Armando ha un lavoro e tua cugina Laura sembra contenta della scuola. La mia Edurne li serve bene, non preoccuparti.» «Suppongo che non ti avrà detto nulla di mio figlio Javier né di Santiago...» «Tuo figlio lo vedono da lontano ed è un bel bambino a cui non manca niente. Águeda si prende cura di lui e lo sta tirando su bene. Hai bisogno di un telefono per chiamarli?» «Certo che no!» intervenne Aitor. «Più passa inosservata meglio è; la polizia controlla tutte le telefonate.» «Sì, hai ragione» ammise Amelia. «Adesso vi dirò come arrivare in Portogallo. Ho un amico che fa il ferrivecchi, se ne va in giro dappertutto con un piccolo furgone. Vi porterà lui, ma dovrete pagarlo. Il viaggio è lungo e possono fermarvi, quindi costerà caro. Avete dei soldi?»

Albert assicurò che avrebbero pagato la somma necessaria e Aitor lo guardò, rendendosi conto che era un uomo fuori dal comune. Si chiese se Amelia fosse innamorata di lui e giunse alla conclusione che non era così, anche se era evidente che formavano una bella coppia. Dopo neanche mezz'ora Jose Maria Eguía, il ferrivecchi, si presentò alla cascina. Aitor uscì a riceverlo appena udì il rumore del motore del furgone. Eguía chiese in anticipo il denaro per portarli in Portogallo. «Se mi metto nei guai» disse «almeno voglio guadagnarci qualche soldo, Dio sa quanto ne ho bisogno. Ho moglie, tre figli, mia suocera vive con noi, e non c'è molto da mettere in tavola. E poi il lavoro bisogna farselo pagare, no?» Non tirarono sul prezzo, così giunse presto il momento di salutare Aitor e Amaya. «Grazie, non dimenticherò mai quello che hai fatto per me» disse Amelia. «Siate prudenti, tu e Albert avete i passaporti in regola, ma la ragazza ebrea... Non so cosa potrebbero farle se vi fermasse la polizia.» «Staremo attenti, non preoccuparti.» «Potete fidarvi di Eguía. È una brava persona, anche se un po' rozzo. I suoi nonni avevano una cascina qui vicino e quando eravamo piccoli giocavamo insieme.» «È iscritto al partito come te?» volle sapere Amelia. «No, a lui la politica non interessa.» Nel furgone c'era a malapena spazio per tutti. Albert si sedette accanto a Eguía e Amelia e Rachel si accomodarono nella parte posteriore, in mezzo a un mucchio di ferraglia, ma nessuna delle due si lamentò. «Pensi che riusciremo a raggiungere il Portogallo?» chiese timidamente Rachel ad Amelia. «Vedrai che ce la faremo. Il viaggio è lungo e queste strade sono terribili... ma arriveremo, e Albert ti aiuterà ad andare

negli Stati Uniti.» Rachel le rivolse uno sguardo pieno di gratitudine per quelle parole incoraggianti. Il viaggio non fu facile e fu presto evidente che il furgone era in condizioni peggiori di quanto sembrasse. A Santander forarono ed Eguía, dopo aver tolto la ruota, annunciò loro che era ormai inservibile e che avrebbero dovuto comprarne una nuova. «Non ha una ruota di scorta?» domandò Albert in tono preoccupato. «Ma figuriamoci! Dove la prendo io una ruota di scorta?» Alla fine trovarono una vecchia officina dove acquistarono una ruota usata che, naturalmente, dovette pagare Albert. «Se la pagassi io, il viaggio sarebbe in perdita» spiegò Eguía per giustificarsi. Compravano pane e quello che trovavano e dormivano nel furgone. Albert si offrì di guidare e, anche se all'inizio Eguía non accettò, alla fine cedette per potersi riposare. «Che viaggetto! Se l'avessi saputo, vi avrei chiesto di più per accompagnarvi» si lamentò il ferrivecchi. Albert James avrebbe poi scritto alcuni articoli sulla Spagna del dopoguerra dove raccontava di aver visto un paese che mancava di tutto e in cui la paura aveva tappato la bocca alla gente. Spiegò che quando si fermavano a bere un caffè in un bar, o a fare benzina, o quando entravano in qualunque negozietto scadente per comprare del pane, si trovavano di fronte un muro se cercavano di ottenere informazioni sulla situazione politica. Era anche stupito dai discorsi esageratamente patriottici dei nuovi gerarchi, ma, soprattutto, era sbigottito dalla fame. In un articolo scrisse che in quegli anni gli spagnoli erano denutriti. Arrivati nelle Asturie, il furgone si fermò a metà di un valico di montagna. Dovettero scendere e mettersi tutti a spingerlo sul ciglio della strada, dove Eguía cercò di ripararlo. «Uff, è messo male!» esclamò dopo aver dato un'occhiata al

motore. «Ma riuscirà ad aggiustarlo?» si informò Amelia. «Non lo so. Forse sì, forse no.» Furono fortunati. Una colonna di camion dell'esercito passava da quelle parti ed Eguía fece loro cenno di fermarsi. Il capitano che guidava la colonna era un uomo affabile. «Io non ci capisco molto di motori, ma il sergente ha le mani d'oro e vedrà che glielo aggiusterà.» Amelia pregò che non chiedessero di vedere i loro documenti. Temeva soprattutto che facessero qualche domanda a Rachel, che parlava solo tedesco, o ad Albert, il cui spagnolo era traballante. All'inizio il capitano non mostrò un particolare interesse verso le due donne, ma si concentrò su Albert. «E lei di dov'è?» gli domandò. «Sono americano.» «Caspita! Non sarà di quelli che sono venuti con le Brigate internazionali?» disse ridendo. «No, certo che no.» «Si vede. Lei ha l'aria benestante, da americano a cui il denaro non manca.» «I soldi non sono mai troppi» replicò Albert, tanto per dire qualcosa. «E quelle ragazze?» «Mia moglie e sua sorella.» «Ha un bel coraggio a sopportare moglie e cognata.» «Sono brave persone» rispose Albert, che non capiva bene le battute del capitano. «Non si lasci ingannare, le donne sono uguali dappertutto.» «Ecco fatto, capitano!» li interruppe il sergente. «Il guasto non era poi così grave come sembrava.» Il capitano esitò, gli sembrava strano incontrare un americano nelle Asturie, ma si ricordò che la Spagna non aveva niente contro gli americani, perciò si limitò ad augurargli buon viaggio. «Andate piano!»

Tre giorni dopo arrivarono in Portogallo. Eguía disse che avrebbero passato la frontiera attraverso un paesino poco controllato. «Il villaggio è attaccato al confine: i suoi abitanti vedono il Portogallo dalle finestre e passano dall'altra parte per riacciuffare le galline che scappano.» «È sicuro che non ci siano guardie?» chiese Amelia diffidente. «Ne sono sicuro, e poi lì ho un amico che ci aiuterà.» L'amico di Eguía si chiamava Mouriňo; a quanto pare si erano conosciuti durante il servizio militare e avevano simpatizzato al punto di mettersi in società nel contrabbando, uno verso la Francia e l'altro verso il Portogallo. Dopo la fine della guerra avevano ripreso l'attività. Mouriňo invitò il gruppo a mangiare pane e formaggio e a bere un bicchiere di vino, mentre lui e il suo amico Eguía parlavano d'affari. Il basco scaricò i suoi rottami e Mouriňo lo condusse nel cortile dove, sotto un telone, nascondeva alcuni pacchi da mandare a San Sebastián. «È tabacco inglese» spiegò. «I francesi lo adorano.» Nessuno chiese loro nulla ed entrarono in Portogallo senza incontrare nemmeno una guardia. «È incredibile! Non credevo che avremmo attraversato la frontiera tanto facilmente» esclamò Albert. «Non è sempre così facile; questo paese è lontano dai posti di frontiera e con un po' di fortuna non si incontrano le guardie e si passa senza problemi. Da queste parti c'è molto contrabbando.» «Pensavo che vendesse rottami...» «E altre cose.» A Lisbona cercarono una pensione vicino al porto, che lo stesso Eguía aveva consigliato loro. "Non è un granché, ma le lenzuola sono pulite e, cosa ben più importante, non fanno domande."

Quella sera, finalmente, mangiarono un piatto caldo e dormirono tra le lenzuola, seppur meno pulite di quanto aveva detto Eguía. Il mattino dopo Albert telefonò a suo zio Paul. «Si può sapere dove sei?» «Adesso a Lisbona, ma per arrivare fin qui ho attraversato mezza Francia e mezza Spagna.» «Caspita, non sapevo che ti piacesse tanto viaggiare» replicò lo zio in tono ironico. «Nemmeno io. Senti, zio Paul, ho bisogno del tuo aiuto.» «Già, sapevo che c'era sotto qualcosa. Allora, cosa succede?» «Ho un'amica, una persona molto speciale...» «Amelia Garayoa?» «No, non si tratta di lei, anche se è qui con me. È una persona che ho conosciuto a Berlino, si chiama Rachel Weiss ed è ebrea.» «Capisco. E cosa vuoi?» «Che la nostra ambasciata le fornisca i documenti o i permessi per recarsi negli Stati Uniti.» «Vorrai dire in Gran Bretagna.» «No, intendo negli Stati Uniti, laggiù ha famiglia.» «Be', non posso fare nulla.» «Per favore, so che puoi! Non te lo chiederei se non fosse importante. Sai cosa sta succedendo agli ebrei in Germania?» «So che a Hitler non piacciono gli ebrei, ma non possiamo accogliere tutti quelli che cercano di fuggire dalla Germania.» «Non ti sto chiedendo l'impossibile, ma solo un lasciapassare per portarla fuori di qui.» «Non posso fare eccezioni.» «Certo che puoi! Voglio solo che Rachel raggiunga gli Stati Uniti.» «E come fai a sapere che lì la faranno entrare?» «Se tu mi procuri il lasciapassare, ci penso io a risolvere il problema con la dogana di New York.» «Vorrei aiutarti, ma non posso.» «Sai cosa significa? Abbiamo attraversato mezza Europa per

arrivare fin qui. Ti assicuro che non è stato facile, senza Amelia e Carla Alessandrini non ce l'avremmo fatta.» «Carla Alessandrini, cioè la cantante d'opera?» «Sì, una donna molto coraggiosa e determinata, una grande amica di Amelia.» «Ma senti! La tua Amelia è una continua sorpresa.» «Mi aiuterai oppure no?» «Vedrò se posso fare qualcosa, ma state attenti: a Lisbona ci sono agenti nazisti ovunque.» «E immagino anche britannici.» «È lusinghiera la fiducia che riponi in noi. Dammi un numero di telefono dove posso trovarti.» Paul James telefonò al nipote ventiquattr'ore più tardi, dopo aver affrontato una pesante discussione con i suoi superiori per cercare di ottenere un lasciapassare per Rachel Weiss. Era riuscito a convincerli soltanto dicendo loro che sperava di ricevere qualcosa in cambio dal nipote. Albert, in compagnia di Amelia e di Rachel, si presentò all'ambasciata britannica. Lì chiesero dell'uomo a cui li aveva indirizzati Paul James. Per Albert fu subito evidente che si trattava di un agente dell'intelligence. L'uomo ascoltò pazientemente la storia di Rachel, ma si dimostrò più interessato a conoscere i dettagli della fuga da Berlino, soprattutto i contatti che sembrava avere Amelia. Lei si sentì a disagio per le domande di quell'uomo, quasi un interrogatorio. «E se non riuscissimo a farle ottenere il lasciapassare, che cosa fareste?» chiese l'uomo, aspettandosi una risposta da Amelia. «Stia certo che faremmo di tutto pur di non abbandonare Rachel. Lei non è l'unica carta che possiamo giocare» rispose la donna con aria di sfida. L'uomo li congedò promettendo di far avere sue notizie entro un paio di giorni e raccomandando loro anche di non farsi notare troppo a Lisbona. «Siete un trio che non passa inosservato.»

Praticamente non uscirono dalla pensione. Albert pagava la proprietaria per farsi preparare da mangiare e la cosa più azzardata che osarono fare fu qualche passeggiata in riva al mare. Due giorni dopo l'uomo dell'ambasciata telefonò alla pensione dando loro appuntamento in un bar poco distante. «Bene, ecco i documenti della signorina Weiss, a farla entrare a New York deve pensarci lei.» «Grazie...» disse Albert tendendo la mano all'uomo dell'ambasciata. «Non ringrazi me, ma il suo potente zio. A proposito, mi ha pregato di dirle di chiamarlo quanto prima. Credo che speri di vederla presto a Londra.» Albert comprò un biglietto per Rachel su una nave che salpava il giorno dopo per New York. Era un mercantile che accettava passeggeri, perciò la traversata non sarebbe stata troppo scomoda per lei e avrebbe avuto maggiori probabilità di passare inosservata all'arrivo negli Stati Uniti. Pagò anche il capitano, affinché si prendesse cura di Rachel. Amelia, in lacrime, salutò Rachel. Si era davvero affezionata a quella ragazza timida e silenziosa. Prima di salire a bordo, Rachel si tolse un anello e lo diede ad Amelia. «Così non ti dimenticherai di me...» le disse infilandole l'anello. «Stai certa che non accadrà! Per favore, tieni l'anello, è d'oro e queste pietre... Deve valere molto e se le cose ti andassero male potresti averne bisogno.» «No, anche se morissi di fame non venderei mai questo anello. Era di mia nonna, la madre di mio padre. Me l'ha dato lui quando ho compiuto diciotto anni. Voglio che l'abbia tu.» «Ma non posso accettarlo!» «Se lo porterai sarà come se fossimo ancora insieme. Per favore, prendilo!» Si abbracciarono e Albert dovette separarle perché Rachel doveva imbarcarsi.

«Non preoccuparti, a New York ti stanno aspettando e non avrai alcun problema a passare la dogana» le assicurò Albert. Nel vedere la nave lasciare il porto, Amelia avvertì un brivido di solitudine. Albert le mise un braccio intorno alle spalle per confortarla. Era perdutamente innamorato di lei e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di accontentarla. «Cosa facciamo adesso?» gli domandò Amelia, una volta rientrati alla pensione. «Andiamo a Londra. Devo chiedere a mio padre di parlare con certi suoi amici che possono agevolare l'ingresso di Rachel negli Stati Uniti. Voglio anche telefonare a un mio amico d'infanzia che lavora nell'ufficio del sindaco. E poi l'uomo dell'ambasciata ci ha detto che lo zio Paul voleva vederci al più presto a Londra. Non posso rifiutarmi.» «Cosa vorrà tuo zio?» «Farsi ripagare per il favore che ci ha fatto.» «Ma come?» «Ancora non lo so, ma sono certo che il prezzo sarà alto.» «Io... mi dispiace di averti messo in questa situazione.» «Non sei stata tu, Amelia. Salvare Rachel era un dovere morale. Purtroppo non possiamo aiutare tutti coloro che ne avrebbero bisogno. In realtà, sono stati il dottor Schatzhauser e Max a chiedere a entrambi di aiutare Rachel, e non dimentichiamoci che senza Carla non ce l'avremmo mai fatta.» «Mi piacerebbe andare a Madrid... Siamo così vicini...» Albert esitò, ma poi insisté per recarsi subito a Londra. «Mi dispiace, Amelia, ma dopo quello che ha fatto per noi non posso snobbare mio zio.» «Hai ragione, ci andremo un'altra volta.» «Te lo prometto.»

6

Amelia non si sentiva a suo agio a Londra. Percepiva intorno a sé un ambiente sgradevole, riflesso dell'ostilità della famiglia e degli amici di Albert, informati del fatto che viveva con una donna sposata, motivo di scandalo nell'alta società britannica, assai puritana. Quando arrivarono, i genitori di Albert stavano partendo per New York, e lui chiese al padre di intercedere presso il governatore dello Stato affinché aiutasse Rachel. Ernest James adorava suo figlio ed era incapace di rifiutargli alcunché; inoltre era un accanito antinazista, perciò promise di intercedere per la ragazza. «Non preoccuparti, riusciremo a farla entrare negli Stati Uniti. Adesso che siamo soli... insomma... vorrei parlarti. Tua madre è molto preoccupata, sai... pensava che tu e lady Mary...insomma...» «Lo so, papà, che a te e alla mamma piacerebbe vedermi sposato con Mary Brian, ma mi dispiace, non posso accontentarvi.» «Allora la tua è una decisione definitiva?» «Vi ho presentato Amelia e sai che sono innamorato di lei.» «È una ragazza molto bella e intelligente, ma è sposata e sai bene che la vostra relazione non ha futuro.» «Ha il futuro che entrambi vogliamo che abbia. Voi siete irlandesi e siete più legati alle regole e alle tradizioni.» «Sei irlandese pure tu, anche se sei nato a New York.» «Ma sono cresciuto lì, come un americano, ed è così che mi sento. Rispetto le tradizioni, cerco di seguire le regole, ma non

le considero sacre. Mi sono innamorato di Amelia e vivo con lei, quindi è meglio che la mamma la smetta con i suoi tentativi di farmi sposare Mary.» «Non potrete avere figli.» «Spero che un giorno si troverà una soluzione per la nostra situazione. Nel frattempo, papà, ti prego di cercare di capirmi e, se non ci riesci, almeno rispetta la mia decisione. Amo Amelia e ti chiedo di accettarla in famiglia, come se fosse mia moglie.» «Tua madre non vuole saperne di lei!» «Allora non saprà più niente neanche di me.» «Per favore, figlio mio, riflettici bene!» «Credi che non l'abbia fatto? E voglio che tu sappia che non permetterò a nessuno di metterla in imbarazzo né di umiliarla. Nemmeno alla mamma.» Lord Paul James organizzò una cena d'addio per suo fratello Ernest e la moglie Eugenie alla quale invitò anche Albert e Amelia. La madre di Albert, che considerò inopportuna quella serata, non partecipò, con la scusa di un forte mal di testa e dell'imminente partenza per New York. Albert e Amelia si presentarono a casa dello zio alle sei in punto, come indicato sull'invito. Paul James aveva riunito a casa sua una dozzina di invitati e tutti furono sorpresi nel vedere la deferenza con cui trattava Amelia che, per la società puritana dell'epoca, era pur sempre l'amante del nipote. Provocò un certo subbuglio la sfrontatezza con la quale Amelia criticò la Gran Bretagna e le potenze europee per essersi disinteressate della guerra civile in Spagna. Fu soltanto quando tutti gli ospiti se ne furono andati che Paul James chiese al nipote e ad Amelia di restare a bere con lui un bicchiere di porto in biblioteca. Albert sussurrò all'orecchio di Amelia: «Adesso vedrai che ci presenta il conto per l'aiuto che ha dato a Rachel». «Sono molto impressionato dalle peripezie che avete affrontato per salvare quella giovane ebrea, Rachel Weiss» disse

dopo aver loro servito un bicchiere di vino portoghese color porpora. «Sì, è stato complicato, ma abbiamo avuto fortuna» replicò Albert. «Fortuna? Direi piuttosto che avete dimostrato intelligenza e doti di improvvisazione. Mi congratulo con voi.» Osservando Amelia di sottecchi, lord James si schiarì la voce prima di continuare. La ragazza sembrava tranquilla, sicura di sé e non lasciava trasparire l'agitazione interiore. «Ebbene, siamo in guerra e le guerre si sa quando iniziano ma non come né quando finiscono. Il nemico è forte, sarà dura: o lui o noi. E quando dico noi, mi riferisco all'Europa della ragione, quella dei valori con cui siamo cresciuti e in cui crediamo. E in questa guerra non c'è posto per la neutralità. Mi dispiace per te, Albert.» «Volevo proprio parlarti di alcune persone che ho conosciuto a Berlino. Ho promesso di difendere la loro causa in Gran Bretagna, e lo faccio anch'io con te. Il tuo amico, il barone Max von Schumann, fa parte di un gruppo che si oppone a Hitler.» «Questo lo so già, cosa credi che ci facesse qui l'estate scorsa? Era venuto a chiederci aiuto per rovesciare Hitler, aiuto che in quel momento non eravamo in grado di dargli.» «Ebbene, vi siete sbagliati.» «Sì, c'è chi si è sbagliato pensando che non sarebbe scoppiata la guerra, che Hitler non avrebbe osato invadere la Polonia né compiere i passi che sta facendo. Io ho sempre pensato che sarebbe andata così, ma i miei superiori erano convinti del contrario. In ogni modo, il gruppo del barone von Schumann è... insomma, gente che va e gente che viene, non sono organizzati. Non sono sicuro che sia un gruppo di opposizione efficace. Temo non siano in grado di fare altro che riunirsi per lamentarsi del fatto che Hitler è diventato il padrone della Germania.» «Ti sbagli, zio. Sai, oltre ai comunisti e ai socialisti, non credo

che ci siano molti gruppi di opposizione organizzati contro Hitler. E i comunisti, seppur perseguitati in Germania, hanno scoperto che il loro capo, Stalin, è sceso a patti con Hitler. I socialisti da soli non hanno la forza di rovesciare il regime. A mio parere, bisognerà convincere tutti i gruppi d'opposizione a lavorare in modo coordinato. Il capo del gruppo di Max von Schumann è il professor Karl Schatzhauser, che oltre a essere uno stimato medico è anche un insigne professore universitario. Credo che dovresti tenerne conto.» «Hai preso impegni con loro?» «Ho soltanto promesso di riferirvi la loro richiesta di aiuto e di dare il mio parere sul fatto che lo meritano.» «Bene, ne terrò conto, anche se per ora posso dirti solo che lo comunicherò ai miei superiori. Adesso però vorrei parlarvi di un'altra faccenda... è un argomento delicato e spero di poter contare sulla vostra discrezione.» Sia Amelia sia Albert lo rassicurarono. «Le guerre non si vincono solo al fronte: abbiamo bisogno di informazioni raccolte dietro le linee nemiche, e per ottenerle servono uomini e donne coraggiosi. Il mio dipartimento all'Ammiragliato sta addestrando persone che possano svolgere questa missione, tutti civili in possesso di specifiche qualità, come quelle che ha lei, Amelia.» «Zio Paul, cosa stai cercando di fare?!» lo interruppe Albert. «Voglio soltanto sapere se siete disposti a collaborare affinché questa guerra finisca il più presto possibile.» «Sono un giornalista e il mio unico modo per schierarmi contro la guerra è raccontare alla gente quello che succede.» «Te l'ho già detto, Albert, questa volta non potrai rimanere neutrale. Nonostante Chamberlain abbia messo in atto una politica distensiva con Hitler, siamo stati costretti alla guerra. Purtroppo Hitler non si accontenterà della Polonia, senza dimenticare che i sovietici, come immagino saprai, hanno deciso di prendersi la Finlandia. Forse non ci rendiamo ancora conto della reale portata di questa guerra, ma il mio compito è

quello di fornire ai miei superiori le informazioni necessarie affinché prendano le giuste decisioni. Dopo la dichiarazione di guerra abbiamo dovuto lasciare la Germania, ma ci servono occhi e orecchie laggiù.» «E, se non sbaglio, vorresti invitarci a prendere parte ai gruppi che stai organizzando.» «Sì, è così. Tu sei americano e puoi andare in giro ovunque senza destare sospetti; la signorina Garayoa è spagnola, il suo paese appoggia Hitler, e con il suo passaporto può viaggiare anche lei in Germania senza problemi. Prima mi parlavi del barone von Schumann, il cui ruolo nell'opposizione mi interessa meno del suo alto grado militare, grazie al quale gode di grande considerazione nell'esercito. Ha accesso a informazioni che per noi potrebbero rivelarsi di vitale importanza.» «Max von Schumann non tradirà mai la Germania. Vuole solo liberarsi di Hitler» intervenne Amelia. «Ma questa frittata, signorina, non potrà farla senza rompere qualche uovo. Temo che, in questa situazione, tutti finiremo per fare qualcosa che non ci piace.» «Mi rincresce, zio Paul, non posso aiutarti» dichiarò Albert. Paul James guardò il nipote con aria dispiaciuta. Sperava che la guerra gli avesse aperto gli occhi, invece Albert continuava ad avere un'idea romantica del giornalismo. «Mi dica, lord James, se la Gran Bretagna vincerà la guerra contro la Germania, che effetto avrà sul resto d'Europa?» si informò Amelia. «Non capisco...» «Voglio sapere se la fine di Hitler può far sì che le potenze europee decidano di ristabilire la democrazia in Spagna. Voglio sapere se continueranno ad appoggiare e a legittimare Franco.» Lord James fu sorpreso dalla domanda di Amelia. Era evidente che la ragazza avrebbe collaborato soltanto se avesse creduto di poter essere d'aiuto alla Spagna, quindi si prese qualche secondo per cercare le parole adatte per risponderle.

«Non posso assicurarle nulla. Ma un'Europa senza Hitler sarebbe diversa. La posizione del Duce non sarebbe più la stessa in Italia, e quanto alla Spagna... è chiaro che per Franco sarebbe un duro colpo non poter contare più sull'appoggio tedesco. La sua posizione si indebolirebbe.» «Bene, se è così, credo di essere pronta a collaborare per rovesciare Hitler.» «Stupendo! Una decisione molto saggia, cara Amelia.» «Ma, Amelia, non puoi farlo! Zio, non devi ingannarla...» «Ingannarla? Non è così, Albert. Amelia ha fatto un'equazione, il cui risultato potrebbe essere quello da lei sperato. Non glielo posso garantire, ma se vinciamo questa guerra ci saranno conseguenze immediate per la politica europea, naturalmente anche in Spagna.» «Per me basta che ci sia anche una sola possibilità. Cosa vuole che faccia?» chiese Amelia. «Oh! Innanzitutto, deve prepararsi. Ha bisogno di addestramento e di migliorare le lingue che già parla. Quali sono? Russo, francese, tedesco?» «Il francese lo parlo come lo spagnolo; in tedesco non ho problemi, mi dicono che ho un buon accento; quanto al russo, in realtà mi difendo e basta. Sono abbastanza portata per le lingue.» «Ottimo! Deve migliorare la conoscenza del russo e perfezionare il tedesco. Poi imparerà a mandare e a decifrare messaggi, oltre ad alcune tecniche indispensabili per il lavoro di intelligence.» «Amelia, ti prego, ripensaci. Rifletti sull'impegno che ti stai assumendo. Non sai in cosa ti stai cacciando. E tu, zio Paul, non hai diritto di raggirare Amelia mettendola in pericolo per una causa che non è la sua. Sappiamo entrambi che la Spagna non è una priorità della politica estera della Gran Bretagna; anzi, vi dà meno fastidio che al potere ci sia Franco piuttosto che un governo comunista. Non ti permetterò di ingannare Amelia.» «Per favore, Albert! Credi che la stia ingannando? Non lo

farei, anche se fosse soltanto per te. La Germania rappresenta un grande pericolo per tutti, dobbiamo vincere questa guerra. Non ho detto che la nostra vittoria significherebbe la caduta di Franco, ma senza Hitler le cose non sarebbero le stesse. Amelia è intelligente, sa come funziona la politica.» «È una sfida, Albert, e nel mio caso forse c'è qualcosa da guadagnare; ormai non ho più niente da perdere» intervenne Amelia. «Se lavorerai per lo zio Paul, entrerai in un ambiente da cui non potrai fuggire.» «Non voglio prendere questa decisione se tu sei contrario. Aiutami, Albert, cerca di capire perché ho detto di sì.» Quando se ne furono andati, lord James si versò un altro bicchiere di porto. Era soddisfatto. Amelia Garayoa era una sorta di diamante grezzo, che aspettava solo di essere lavorato. Lui ormai faceva parte dei servizi segreti da parecchio tempo ed era in grado di capire chi aveva le doti per diventare un buon agente; era sicuro delle qualità di quella giovane dall'aspetto così fragile e delicato. Quella sera lord James si addormentò all'istante, mentre Amelia e Albert passarono la notte in bianco, a discutere. Alle sette del mattino dopo un'auto dell'Ammiragliato passò a prendere Amelia. Lord James indossava l'uniforme della marina e sembrava contento di vederla. «Prego, si accomodi, Amelia. Mi rallegra che non abbia cambiato idea.» «Lei pensa alla Gran Bretagna e io alla Spagna, spero che potremo conciliare i nostri interessi» replicò lei. «Ma certo, mia cara, lo desidero anch'io. Adesso le presenterò la persona che si occuperà del suo addestramento, il comandante Murray. Lui la metterà al corrente di tutto. Prima deve firmare un documento in cui si impegna al più assoluto riserbo. Poi stabiliremo il suo onorario, perché si tratta di un

lavoro.» Il comandante Murray era un quarantenne affabile che non nascose la sorpresa nel vedere Amelia. «Quanti anni ha?» «Ventidue.» «Ma è una bambina! Lord James conosce la sua età? Non possiamo vincere la guerra con i bambini!» protestò. «Non sono una bambina, glielo assicuro.» «Ho una figlia di quindici anni e un figlio di dodici, sono quasi suoi coetanei» ribatté lui. «Non si preoccupi per me, comandante, sono certa che potrò fare tutto quello che mi chiederete.» «Il gruppo che mi è stato affidato è formato da persone più anziane, il più giovane ha trent'anni. Non so come farò con lei.» «Mi insegni tutto quello che sono in grado di imparare.» Murray le presentò il resto del gruppo: quattro uomini e una donna inglesi. «Tutti voi avete in comune una qualità: la conoscenza delle lingue» disse loro Murray. Dorothy, l'altra donna del gruppo, aveva lavorato come maestra fino al giorno del reclutamento. Bruna, non molto alta, sulla quarantina, aveva un sorriso aperto e leale e simpatizzò subito con Amelia. Gli altri componenti del gruppo erano Scott, il più giovane, che aveva trent'anni, mentre Anthony e John avevano superato i quaranta. Murray illustrò il programma di addestramento. «Imparerete delle cose uguali per tutti e altre specifiche a seconda delle doti individuali. Si tratta di tirare fuori il meglio da ciascuno di voi.» Il comandante presentò loro gli istruttori e all'ora di pranzo li congedò, fissando l'appuntamento per il giorno dopo alle sette in punto. «Andate a riposare, ne avrete bisogno.» «Vuoi bere una tazza di tè?» propose Dorothy ad Amelia.

Amelia accettò di buon grado. Aveva voglia di tornare a casa per parlare con Albert, ma temeva di litigare di nuovo. Dorothy era una persona molto gradevole. Raccontò ad Amelia che era di Manchester, ma era stata sposata con un tedesco, per questo parlava bene la lingua. «Vivevamo a Stoccarda, ma mio marito è morto cinque anni fa per un attacco di cuore e ho deciso di tornare a casa. Non c'era niente che mi legasse a quel posto, perché non abbiamo avuto figli. Non puoi immaginare quanto mi manca, ma così è la vita. Almeno credo di fare quello che lui avrebbe desiderato: non sopportava Hitler.» Le spiegò anche chi erano gli altri componenti del gruppo. «Scott è scapolo, è figlio di un diplomatico ed è nato in India, anche se naturalmente è inglese. È cresciuto a Berlino perché suo padre era di stanza là. Ha studiato lingue classiche a Oxford, sai, ebraico, aramaico... E poi conosce il tedesco e il francese, credo per motivi familiari. Proviene da una famiglia altolocata. Anthony è professore di tedesco ed è sposato con un'ebrea. Quanto a John, era nell'esercito e quando si è congedato ha messo su una scuola di lingue. Sembra che vi sia particolarmente portato. Ha uno zio sposato con un'esiliata russa che gli ha insegnato la sua lingua, ma parla anche spagnolo, perché è stato in Spagna con le Brigate internazionali e lì ha imparato un po' di ungherese; e parla anche abbastanza bene il tedesco. Non è sposato, ma sembra che sia fidanzato da molto tempo.» Quando Amelia rientrò a casa, Albert non c'era. Lo attese impaziente. Aveva bisogno di lui, ma soprattutto della sua approvazione. Dipendeva da Albert più di quanto lei stessa volesse ammettere e, pur sapendo che la loro relazione non aveva futuro, si diceva che finché poteva sarebbe rimasta al suo fianco. Albert arrivò più tardi del solito, ma sembrava di umore migliore rispetto alla sera prima.

«Ci sono riuscito: il primo ministro mi riceverà domani, devo preparare l'intervista. La pubblicheranno diversi giornali, negli Stati Uniti sono molto interessati a sapere come il Regno Unito intende affrontare la guerra. E a te com'è andata la giornata?» «Bene, suppongo che la parte più dura comincerà domani. Oggi ho conosciuto il gruppo con cui lavorerò, sembrano brave persone.» «Non perdonerò mai lo zio Paul per averti convinta a lavorare per lui. La decisione che hai preso ti segnerà per il resto della vita.» «Lo so, ma non posso restarmene con le mani in mano, dopo quello che abbiamo visto in Germania.» «Non è la tua guerra, Amelia.» «No, non è la mia guerra, temo che sarà la guerra di tutti.» Nei tre mesi seguenti il comandante Murray addestrò Amelia a diventare un'agente. Oltre a seguire le lezioni intensive di tedesco e di russo, Amelia imparò a preparare esplosivi, a decifrare messaggi in codice e a usare le armi. Lei e gli altri componenti del gruppo cominciavano alle sette del mattino e non rientravano a casa fino a notte inoltrata. Albert era preoccupato perché la vedeva sfinita, ma sapeva che niente di quello che poteva dire sarebbe servito a farle fare marcia indietro. Amelia era convinta che, se Hitler fosse stato sconfitto, la Gran Bretagna avrebbe aiutato la Spagna a disfarsi di Franco. In quei mesi Amelia rimase sempre in contatto con la sua casa di Madrid. Mandava regolarmente dei soldi allo zio Armando, per contribuire al mantenimento di sua sorella Antonietta. Amelia continuava a vivere con Albert, ma si pagava le sue spese e questo la faceva sentire indipendente e quasi felice. Nel frattempo, nonostante l'inaspettata ed eroica resistenza dei soldati finlandesi, l'Armata Rossa ebbe la meglio sulla Finlandia, impresa che ebbe come conseguenza l'espulsione

dell'Unione Sovietica dalla Società delle Nazioni. E, anche se la Gran Bretagna e la Francia erano ufficialmente in guerra con la Germania fin dall'invasione della Polonia, fu soltanto nell'anno successivo, il 1940, che iniziarono le ostilità. «A questo punto forse dovrebbe parlare con il maggiore Hurley» mi disse lady Victoria. «Anche se ho ancora alcune cose da raccontarle, il maggiore potrà darle maggiori informazioni sulle attività di Amelia Garayoa per i servizi segreti. Ah, dimenticavo! Prima le ho detto che Amelia era rimasta in contatto con la sua famiglia e sembra che andò a trovarla nel febbraio 1940. Non ne sono sicura, ma ho trovato una lettera di Albert a suo padre in cui, tra le altre cose, gli racconta che Amelia si trovava a Madrid.» Mi congedai da lady Victoria dopo la sua promessa di ricevermi ancora per aiutarmi a indagare sulla vita di Amelia Garayoa. Ero così impressionato da quello che mi aveva raccontato che non diedi peso all'e-mail appena ricevuta da Pepe, in cui mi annunciava che, non avendo più avuto mie notizie né risposte ai suoi messaggi, il direttore aveva deciso di fare a meno della mia collaborazione. In altre parole: ero licenziato. In realtà non me ne importava molto, ma già mi immaginavo la scenata che mi avrebbe fatto mia madre quando lo avesse saputo. Nonostante la mia insistenza perché ci incontrassimo il prima possibile, il maggiore Hurley mi diede appuntamento a casa sua solo una settimana dopo. Telefonai a mia madre e, come temevo, mi trattò come se fossi un adolescente sulla cattiva strada. Sapeva già del mio licenziamento perché Pepe, dal momento che non rispondevo alle sue e-mail, aveva telefonato a casa sua per sapere se ero ancora vivo. «Non so cosa credi di fare, ma stai commettendo l'errore più grande della tua vita. A chi importa la vita di quella benedetta

donna?» mi rimproverò. «Quella benedetta donna era tua nonna, perciò potrebbe interessare anche a te.» «Ma che dici? Credi davvero che mi interessi quello che ha fatto Amelia? Non è mia nonna.» «Come non è tua nonna? Cosa mi tocca sentire!» «Quella signora ha abbandonato suo figlio, mio padre, ed è scomparsa. Non ho mai sentito parlare di lei né mi è mai interessato il motivo per cui l'ha fatto. Non mi cambia certo la vita sapere il perché.» «Ti assicuro che tua nonna era davvero una tipa tosta.» «Be', sono contenta per lei, spero che si sia divertita.» «Su, mamma, non arrabbiarti!» «Ah, è così? Dovrei essere felice di avere per figlio una testa di rapa che invece di prendersi sul serio se ne va in giro a indagare su una storia familiare irrilevante?» «Posso assicurarti che la storia di Amelia non è affatto irrilevante.» «Non parlarmi più di quella signora! Senti, o lasci perdere questa storia oppure non mi richiamare più per farti tirare fuori dai guai. Sei abbastanza grande da sapertela cavare da solo e se non lo fai è perché non vuoi, perciò sei avvisato. D'ora in avanti, l'unica cosa che farò per te è prepararti un piatto caldo quando verrai a trovarmi, ma non mi chiedere prestiti per pagare il mutuo dell'appartamento, perché non intendo darti più neanche un centesimo.» Dal suo punto di vista di madre aveva ragione, ma io non avevo altra scelta che andare avanti. Non solo mi ero impegnato con la signora Laura e con la signora Melita, ma per me le ricerche erano ormai diventate una droga di cui non potevo fare a meno.

7

Dall'albergo telefonai a Pablo Soler per farmi raccontare, sempre che se la ricordasse, la visita di Amelia a Madrid nel febbraio 1940. Il professore non si fece pregare e mi invitò a Barcellona per parlarne con calma. «Vuole che le dica quello che ho scoperto?» gli chiesi quando mi trovai seduto davanti a lui nel suo studio. «Non è a me che deve rendere conto. Ci sono cose che forse le signore Garayoa preferiscono non divulgare al di fuori della famiglia.» «Ma, a quanto ho scoperto, lei è praticamente di famiglia!» «Non esageri, giovanotto. Sarò loro eternamente grato per tutto quello che hanno fatto per me, ma non ho alcun diritto di sapere più di quanto vogliono che sappia. Lei continui a ricostruire il puzzle e, quando sarà completo, glielo consegni.» Pablo Soler, che evidentemente aveva una memoria prodigiosa, mi parlò della visita di Amelia. Un evento che definì "drammatico"... La tubercolosi di Antonietta peggiorava e il signor Armando e la signora Elena temevano per la sua vita. Dovettero ricoverarla in ospedale e il signor Armando chiese ad Amelia di venire immediatamente a Madrid. Amelia era dimagrita, ma sembrava più tranquilla, più sicura di sé. Appena arrivata, insisté per recarsi subito in ospedale e i suoi cugini, Laura e Jesús, la accompagnarono. Io andai con loro, perché seguivo Jesús ovunque andasse.

La signora Elena e Edurne si davano il cambio al suo capezzale, mentre il signor Armando e Laura le facevano visita quando uscivano dal lavoro. A Jesús non era permesso andarci troppo spesso, perché anche lui aveva avuto la tubercolosi e la signora Elena temeva che potesse avere una ricaduta. Amelia abbracciò la sorella cullandola come se fosse una bambina. Antonietta pianse emozionata; voleva molto bene ad Amelia e sentiva la sua mancanza, anche se non se ne lamentava mai. «Che bello che sei venuta! Adesso sento che riuscirò a guarire!» «Ma certo che guarirai, altrimenti mi arrabbio!» «Non dire così, io ti voglio tanto bene!» protestò Antonietta. Amelia parlò con il medico che aveva in cura sua sorella e gli intimò di salvarla. «Faccia quello che deve fare, le dia tutto quello di cui ha bisogno, ma se succede qualcosa a mia sorella... non risponderò di me!» «Ma, signorina, come osa minacciarmi?» ribatté il medico, chiaramente arrabbiato. «Non la sto minacciando, Dio me ne scampi, è che... Antonietta è tutta la famiglia che mi resta. Volete togliermi anche lei?» «Qui non togliamo niente a nessuno, facciamo tutto il possibile per salvare delle vite, ma sua sorella è molto debole e non risponde bene alle cure.» «Mi dica cosa devo fare e seguirò ogni indicazione, non ne dubiti.» «La vita di sua sorella non è nelle nostre mani, ma in quelle di Dio. Se lui decide di chiamarla a sé, non c'è nulla che possiamo fare.» «Come dice?» «La vita di sua sorella, come quella di tutti noi, dipende da Dio.» «Non sono d'accordo. Davvero pensa che Dio abbia bisogno

della vita di mia sorella? Perché?» «Per favore, Amelia, non prendertela con il dottore!» la pregò la signora Elena, innervosita dalla piega che stava prendendo la conversazione. «Non me la prendo, zia, mi aspetto solo che Antonietta riceva tutte le cure di cui ha bisogno per superare la malattia e non sopporto la rassegnazione di chi pensa che si muore perché Dio ha deciso così.» «Ma, cara, il dottore ha ragione, è Nostro Signore che decide l'ora della nostra morte.» «Assolutamente no, zia. Non credo che sia stato Dio a decidere che mio padre morisse fucilato, e mia madre... sai che è morta perché era ammalata, senza forze per affrontare il male a causa della fame, della sofferenza, della miseria. Mio padre è stato ammazzato dai proiettili fascisti, non da Dio.» «Non voglio che parli di politica! Abbiamo sofferto abbastanza per colpa della politica. Vuoi che ti ricordi i miei morti? Sai perché non sono impazzita? Te lo dirò, Amelia: perché credo in Dio e accetto che lui abbia delle ragioni che io non posso e non riesco a capire.» «Be', io non intendo rassegnarmi a lasciar morire mia sorella. La porteremo in un altro ospedale, cercheremo altri medici che si prendano cura di lei e non se ne lavino le mani dicendo che la sua vita non dipende da loro, ma da Dio. Dio non c'entra niente in questa storia.» La signora Elena era scandalizzata dalle parole di Amelia. La guardò come se fosse una sconosciuta, e in effetti lo era. Anche se Amelia sembrava fragile, d'improvviso ci appariva diversa. Quella notte Amelia rimase a vegliare Antonietta, e la signora Elena e Edurne tornarono a casa con noi. La signora Elena si lamentò con il signor Armando per l'atteggiamento della nipote. «Se l'avessi sentita... ti dico, Armando, che Amelia non è più la stessa... c'è così tanta amarezza in lei...»

«E ti stupisci? È la stessa amarezza che proviamo anche noi. Abbiamo perso parte della famiglia, siamo rimasti senza niente, lei è all'estero per guadagnarsi da vivere, e tu pretendi che continui a essere la dolce ragazzina di un tempo?» «Ma mettere in dubbio la volontà di Dio... questo, Armando, è troppo.» «Pretendi davvero che Amelia accetti che sia per volontà di Dio che Antonietta muore? Non puoi parlare sul serio. Credi che sia stato per volontà di Dio che la tua povera cugina suora è stata torturata e assassinata da una banda di fanatici? È stato per volontà di Dio che hanno assassinato mio fratello?» «Parli come lei!» «Parlo usando il cervello. Sai bene che sono credente, ma ci sono cose... Amelia ha ragione, lasciamo in pace Dio e chiediamogli di darci la forza di sopportare tutto il male che ci circonda.» Amelia si ostinò a cercare un altro ospedale in cui trasferire la sorella. Andò a chiedere consiglio a due medici, ma entrambi le dissero che un ospedale valeva l'altro, che la gente moriva ogni giorno di tubercolosi e di altre malattie, che tutto dipendeva dalla resistenza dell'ammalata. Ma Amelia non si rassegnava e continuava a cercare qualcuno che potesse darle speranza. Un pomeriggio, mentre eravamo tutti al capezzale di Antonietta, le sue condizioni peggiorarono. Ricordo ancora la scena... fu terribile... Amelia, stretta alla sorella, urlava per chiamare qualcuno che la aiutasse. Jesús tremava. Era un ragazzo estremamente sensibile ed era molto affezionato alla cugina: vederla in quello stato per lui fu davvero troppo, e svenne. Il mancamento servì a far tornare la calma per qualche secondo. I suoi genitori e la sorella Laura si precipitarono a soccorrerlo. Accorse anche una delle suore che si prendevano cura delle pazienti di quella sala. Non ricordo come si chiamasse, né se fosse una brava infermiera, ma trattava Antonietta con molta tenerezza e andò a sedersi

accanto ad Amelia. «Tua sorella ha un angelo custode che veglia su di lei» sussurrò «e Dio la aiuterà. Adesso lascia che ce ne occupiamo noi.» La suora spinse delicatamente Amelia per allontanarla dalla sorella. Amelia non rispondeva, non faceva che piangere, sembrava non ascoltarla, ma forse la voce dolce della suora la tranquillizzava. Il medico arrivò scortato da due suore e ci pregò di uscire dalla stanza. Rimasi con Amelia in corridoio, aspettando che il medico ci informasse delle condizioni di Antonietta. Ci volle un bel po', me ne ricordo perché fecero in tempo a tornare la signora Elena, il signor Armando e Jesús, che era pallidissimo, aggrappato alla mano della sorella Laura. «Come stai, Jesús?» si interessò Amelia, ridotta a un fascio di nervi. «Sto meglio...» «È una cosa da nulla» disse il signor Armando. «Gli ha fatto impressione vedere così Antonietta.» Quando il medico uscì, Amelia gli si piazzò davanti tremando dalla paura per quello che avrebbe potuto dire. «State tranquilli, ha avuto una crisi, ma sta già meglio. Le ho fatto un'iniezione che le allevierà il dolore e l'oppressione al petto. Adesso deve riposare, è meglio che non entriate tutti in camera, perché le togliete l'aria.» «Ma io voglio restare con mia sorella.» «Non ci sono problemi, resti pure, ma non la agiti.» Il signor Armando decise che era meglio tornare a casa e lasciare Amelia con Antonietta. «Ma domattina presto verrà Edurne a darti il cambio, altrimenti ti ammalerai anche tu.» La suora doveva avere ragione a dire che un angelo custode vegliava su Antonietta, perché lei si riprese e ben presto fu fuori pericolo. Il giorno in cui la dimisero e Amelia la riportò a casa, la signora Elena aveva organizzato una piccola festa. In realtà

non era proprio una festa, ma la signora era riuscita a procurarsi, non so dove, della farina, del burro e delle melagrane, con cui aveva preparato una torta. Antonietta era molto debole, ma era felice di essere di nuovo a casa, con la sua famiglia. La signora Elena aveva raccomandato a me e a Jesús di non combinare nessuna marachella che potesse infastidire Antonietta e aveva affidato a Edurne un unico compito: prendersi cura dell'ammalata. Appena Amelia constatò il miglioramento delle condizioni di sua sorella, annunciò che sarebbe tornata in Gran Bretagna. «Devo lavorare, adesso più che mai, perché possiate comprare i medicinali di cui Antonietta ha bisogno.» Amelia si accollava anche il mio mantenimento, visto che mia nonna era ancora in ospedale e Lola non dava segni di vita. Il signor Armando aveva fatto l'impossibile per avere notizie di mia madre, ma invano. Alcuni suoi vecchi compagni erano in prigione e i loro familiari dicevano le cose più diverse su di lei: secondo qualcuno era stata fucilata a Barcellona, secondo altri era morta durante la guerra, e c'era persino chi assicurava che fosse fuggita. Ma Amelia non credeva a quest'ultima versione perché, diceva, se fosse stato così, Lola mi avrebbe cercato. Quanto a mio padre, si era arruolato nella Legione Straniera, quindi non sapevamo molto nemmeno di lui. Il signor Armando e la signora Elena mi trattavano come uno di famiglia; suppongo che si fossero rassegnati a tenermi con loro. Erano troppo buoni per disinteressarsi di me, e poi io e il loro figlio, Jesús, andavamo molto d'accordo. Prima di tornare a Londra, Amelia pregò Edurne di andare a chiedere ad Águeda di lasciarle vedere suo figlio. La signora Elena disse che non era una buona idea: se Santiago se ne fosse accorto, avremmo messo nei guai Águeda, che avrebbe rischiato di essere licenziata. Il signor Armando intervenne in favore della nipote.

«È logico che voglia vedere Javier, che almeno ci provi, cercando di essere discreta. Águeda è una brava persona, farà certamente tutto il possibile perché Amelia veda suo figlio.» La signora Elena continuava a insistere che Amelia rinunciasse all'idea e si accanì a tal punto che il signor Armando finì per arrabbiarsi con lei e, con sorpresa di tutti, in particolare di sua moglie, ordinò a Edurne di andare a casa di Santiago per cercare di convincere Águeda a lasciare che Amelia vedesse il piccolo Javier. Edurne si appostò per due giorni davanti alla casa di Santiago prima di incontrare Águeda. All'inizio la donna non voleva che Amelia vedesse Javier. Temeva la reazione di Santiago, ma dopo che Edurne le ebbe raccontato della malattia di Antonietta e di come avessero temuto per la sua vita cedette. In quel momento non capimmo perché ma, quando tornò dall'incontro con Águeda, Edurne era molto nervosa. Águeda diede appuntamento ad Amelia il pomeriggio del giorno seguente, all'ingresso del parco del Retiro, come la volta precedente. Laura si offrì di accompagnarla. Temendo la sua reazione, non voleva che la cugina si presentasse da sola all'appuntamento, e la signora Elena decise che anche io e Jesús saremmo andati con loro. Ricordo che quel pomeriggio faceva freddo ma, anche se era inverno, splendeva il sole. Quando arrivammo all'ingresso del parco, Águeda era già lì. Aveva il cappotto sbottonato, sembrava che le stesse stretto perché era ingrassata. Teneva per mano Javier. Il bimbo cercava di divincolarsi e di mettersi a correre, ma Águeda non glielo permetteva. Laura dovette trattenere Amelia perché non si precipitasse verso il bambino. «Per favore, controllati e cerca di fare in modo che sembri un incontro casuale, altrimenti Águeda non ci permetterà più di avvicinarci a Javier.» Le donne salutarono Águeda e Amelia chiese al bambino se

voleva darle un bacio. Javier ci pensò un po' su e poi scosse la testa, rifiutandosi. «Su, tesoro, dai un bacio a questa signora così bella» lo incoraggiò Águeda. «Non voglio, mamma» rispose Javier. Amelia fu sul punto di scoppiare in lacrime. Sentire Javier che chiamava "mamma" Águeda dovette ferirla profondamente. Ma sua cugina Laura le sussurrò all'orecchio di stare calma. «Ti comporti bene, tesoro?» domandò Amelia. «Sì.» «E cosa ti piace fare?» «Giocare con mio papà e con mia mamma. E giocherò anche con il mio fratellino.» «Il tuo fratellino?» Amelia tremava. «Sì, avrò un fratellino. Vero, mamma?» Águeda guardò Amelia con aria angosciata e vide quello che vedevamo anche noi: disperazione e rabbia. «Avrai un figlio, Águeda?» «Sì, signora.» «Sei sposata?» «No... no, signora.» «Allora come fai ad avere un figlio?» Sotto lo sguardo gelido di Amelia, Águeda abbassò la testa. Javier guardava le due donne senza capire cosa stesse succedendo ma, avvertendo la tensione, cominciò a fare i capricci. «Mamma, voglio andare a casa.» «Io... mi dispiace, signora.» «Dormi nel mio letto?» «Mio Dio, signora, non mi parli così! Cosa vuole che faccia? Io... Il signor Santiago è molto buono con me, io voglio molto bene al bambino e ha visto quanto mi è affezionato. Queste cose succedono, lo sa bene anche lei... Ha lasciato suo marito.» «Come osi paragonarti a me? Io non mi sono infilata nel letto di un uomo sposato e non ho rubato a una madre l'affetto di suo

figlio!» Javier scoppiò a piangere, spaventato dal tono di Amelia, che riusciva a stento a trattenere la rabbia. «Signora, la prego, non parli così davanti al bambino!» «Come hai osato? Eri stata presentata ai miei genitori come una persona perbene, ma non avremmo dovuto fidarci di te... in fin dei conti, ti eri fatta mettere incinta senza essere sposata.» «Per favore, Amelia, non abbassarti a tanto!» disse Laura cercando di trascinare via la cugina. «Non ha il diritto di giudicarmi, lei non è certo migliore di me. E non è colpa mia se non ha l'affetto di suo figlio. Lei l'ha abbandonato.» Laura dovette trattenere Amelia per impedirle di schiaffeggiare Águeda. Io e Jesús eravamo pietrificati dalla violenza della scena. «Andiamo, Amelia. E tu, Águeda, non devi rispondere così alla signora. Non dimenticarti chi sei. Non hai nessun diritto di giudicarla né tanto meno di parlarle così di suo figlio.» Águeda, poveretta, non sapeva più cosa fare e sembrava stesse per mettersi a piangere. Laura afferrò la cugina per un braccio e la trascinò via costringendola a camminare. Io e Jesús la seguimmo, senza osare aprir bocca. Amelia tremava visibilmente. Una volta arrivati a casa, trovammo la signora Elena molto agitata, che stava discutendo con il signor Armando. Tacquero entrambi vedendoci entrare. «Zio, non puoi immaginare cos'è successo!» Amelia si gettò piangendo tra le braccia del signor Armando. «Invece lo so: tua zia mi ha appena raccontato un segreto che non ci aveva rivelato. Per questo non voleva che vedessi Águeda.» «Ma tu sapevi...?» Amelia guardò la signora Elena in attesa di una risposta. «Sì, mia cara, sapevo che Águeda è incinta di Santiago, che

vivono in concubinato. Non te l'ho detto per non causarti altro dolore, hai già sofferto abbastanza.» «Ma, zia, avresti dovuto dirmelo» si lamentò Amelia. «Non l'aveva detto neanche a me» affermò il signor Armando. «Non volevo far soffrire nessuno; se ho sbagliato, chiedo perdono, ma l'ho fatto solamente a fin di bene» si scusò la signora Elena. «Come l'hai saputo?» si informò Amelia, che stava evidentemente facendo uno sforzo per non prendersela con la zia. «Perché quei due sono oramai sulla bocca di tutti. L'ho scoperto quando sono andata a trovare la signora Piedad. Sai che prima della guerra la signora Piedad e suo marito possedevano alcune pasticcerie dove ci servivamo. Dopo la guerra sono rimasti senza niente; la povera donna è vedova e malata e ogni tanto vado a trovarla. E a casa sua che ho scoperto di Santiago e di Águeda. Tuo marito l'ha fatta diventare la padrona di casa; anche se non la porta in società, esce con lei e con Javier. Tuo figlio pensa che Águeda sia sua madre e Santiago glielo lascia credere.» «Sì, immagino che sia il suo modo di punirmi. Sa che non posso lamentarmi per il fatto che Águeda si sia infilata nel mio letto, ma ho tutto il diritto di contestargli il male che mi fa privandomi dell'affetto di mio figlio.» «Mi dispiace, Amelia» mormorò il signor Armando abbracciando la nipote. «Forse dovresti restare qui e lottare per tuo figlio. Andremo a trovare Santiago, gli parlerò io e gli farò capire che non può negare a Javier la sua vera madre. Non credo che il signor Manuel e la signora Bianca approvino il comportamento del figlio. Potremmo parlare con loro...» «No, zio, è inutile. Conosco bene Santiago. Mi ha amato tanto da trasformare il suo amore in odio e non mi perdonerà mai. D'altronde, me lo merito; come posso pretendere che mi perdoni quando nemmeno io riesco a perdonare me stessa? Dio

mi ha punita con gli interessi. Spero solo che quando Javier sarà grande mi ascolti e mi perdoni.» Pablo Soler tacque. Sembrava che stesse rivivendo la scena. Anch'io rimasi in silenzio in attesa che mi raccontasse qualcosa di più. «Bene, Guillermo, adesso deve tornare di nuovo a Londra e continuare là le sue ricerche» disse alla fine. «Caspita, quell'Amelia! Mi stupisce che abbia trattato Águeda come una donnaccia. E dire che era stata comunista ed era una donna piuttosto emancipata per quell'epoca.» «La sta giudicando?» «No, non era mia intenzione, ma mi sorprende che abbia trattato così la povera Águeda, che, tra parentesi, è la nonna di mia madre e la mia bisnonna.» «Amelia era profondamente ferita e lei stessa si giudicava con durezza. In fin dei conti, siamo tutti il prodotto della nostra epoca, e lei era stata educata come una signorina della borghesia illuminata.» «Può darsi, ma poi aveva infranto tutte le convenzioni sociali dei suoi tempi.» «È vero, ma ciò non toglie che continuava a essere quello che era, non poteva sottrarsi ai condizionamenti dell'educazione ricevuta. Quanto al fatto che la sua bisnonna fosse comunista, non ne sarei tanto sicuro. Si era innamorata di Pierre Comte, che lo era, ma in realtà lei era una giovane idealista con molti grilli per la testa e non aveva un'idea precisa di quel che significava essere comunisti.» Tornai a Londra e telefonai a lady Victoria e al maggiore Hurley. Lady Victoria era in Costa Azzurra per un torneo di golf. Traditrice! Quanto a lui, mi ricevette tre giorni dopo il previsto. Il maggiore aveva informazioni precise su quanto mi aveva raccontato lady Victoria; mi mostrò addirittura gli appunti che lei gli aveva lasciato in caso ne avesse bisogno quando parlava

con me. Perciò andò subito al punto e mi ricordò, sempre con aria accigliata, che non aveva tempo da perdere, il che era come dirmi che con me lo stava sprecando. Il maggiore Hurley cominciò a raccontare. A metà marzo del 1940 Amelia Garayoa tornò nell'unità del comandante Murray. Il Regno Unito stava attraversando una situazione molto delicata, aggravata dalla guerra. La politica di riconciliazione con la Germania attuata da Chamberlain e da Halifax non aveva dato risultati; ma era stata necessaria, perché, anche in caso di vittoria, un'altra guerra avrebbe portato al tracollo le finanze del paese. Per questo, giovanotto, ritengo che alcuni storici abbiano espresso giudizi troppo severi nell'esaminare la politica di intesa che Chamberlain attuò con la Germania di Hitler. Nonostante questo, Churchill aveva ragione: a lungo termine, una politica di intesa con la Germania sarebbe stata impossibile, per il semplice fatto che Hitler voleva la guerra. La signorina Garayoa riprese il suo posto e continuò l'addestramento, nonché la relazione sentimentale con Albert James. In quel periodo, gli articoli che lui pubblicava sui giornali britannici erano i più duri e mordaci contro Hitler. Il 9 aprile, senza una dichiarazione ufficiale di guerra, l'esercito tedesco invase la Danimarca e la Norvegia; quell'invasione è nota come Operazione Weserübung, e il 5 maggio ebbe inizio l'offensiva contro la Francia. Il 10 maggio, lo stesso giorno in cui Churchill diventava primo ministro, nonché ministro della Difesa, la Germania invase il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. Quelle azioni sono conosciute come la Blitzkrieg o "guerra lampo". Il 12 maggio i tedeschi superarono la Linea Maginot e il 15 maggio i Paesi Bassi si arresero; i tedeschi arrivarono fino alla periferia di Parigi e bombardarono il Sud dell'Inghilterra. Riesce a immaginare ciò che stava succedendo in quei giorni? Lord Paul James chiese al comandante Murray se la sua unità

fosse pronta per l'azione e la risposta fu affermativa. A giugno il comandante Murray riunì i membri della squadra per affidare a ciascuno le rispettive consegne. Prima della fine del 1940 Amelia avrebbe preso parte a due operazioni. «È giunto il momento di agire. Non c'è bisogno che vi spieghi quello che è successo: le truppe della Wehrmacht sono riuscite a occupare gran parte della Francia, dei Paesi Bassi e del Belgio. Il primo ministro francese Paul Reynaud ha dato le dimissioni ed è stato sostituito dal maresciallo Pétain. Qualcuno di voi vuole mollare adesso?» Tutti risposero di no: sembravano ansiosi di entrare in azione. «Bene, parlerò con ognuno di voi separatamente. Nessuno deve sapere cosa fanno gli altri; a partire da questo momento, non potete rivelare a nessuno, né in famiglia né agli amici più intimi, in cosa consiste la vostra missione.» Amelia fu l'ultima a ricevere gli ordini di Murray. Lui l'aveva lasciata deliberatamente alla fine perché, pur considerandola in grado di portare a termine quel compito, era preoccupato per la sua giovane età. «Voglio che vada in Germania.» «In Germania?» «Sì, laggiù lei ha amicizie importanti.» «Conosco alcune persone, ma non so se sono importanti.» «Lord James mi ha informato che lei conosce un ufficiale dell'esercito, il comandante Max von Schumann, un aristocratico sposato con una donna fanatica di Hitler; lui però fa parte di un gruppo contrario al nazionalsocialismo, vero?» «E così.» «Credo che lei e Albert James, il nipote di lord James, abbiate consegnato un messaggio del gruppo di cui fa parte von Schumann. So anche che avete aiutato una giovane ebrea a sottrarsi alle persecuzioni.» «Sì, è così, non le ho detto nulla perché non lo credevo necessario.»

«Ma io devo sapere tutto degli agenti con cui lavoro.» «Capisco.» «Bene, è opportuno che lei torni in Germania e ci mandi tutte le informazioni che Max von Schumann può fornirle sui movimenti dell'esercito. È di vitale importanza sapere se stanno preparando l'invasione delle isole. Dopo quello che è successo a Dunquerque, e dopo che i tedeschi avranno conquistato tutta la Francia, il primo ministro dovrà prendere delle decisioni, perciò qualunque informazione è indispensabile.» «Il barone von Schumann non tradirà mai il suo paese; ritengo improbabile che mi confidi informazioni rilevanti.» «Lei e von Schumann siete vecchi amici, perciò lei gode già della sua fiducia.» «Ma non mi rivelerà mai nulla che possa compromettere la Germania.» «Non deve chiedere niente. Vada a Berlino, guardi, ascolti e tragga le conclusioni.» «Deve sapere che sono un'agente?» «Per la sua sicurezza e per quella di lui, è meglio che non lo sappia. Lei stessa è sicura che non collaborerebbe mai con noi. Dobbiamo cercare un alibi che giustifichi la sua presenza a Berlino.» «Be', non so se può servire, ma mio padre aveva un'attività a Berlino, che è stata espropriata perché il suo socio era ebreo, ma il contabile ha riscattato alcune macchine che adesso affitta e parte dei guadagni spettano alla mia famiglia...» «Perfetto! Non potevamo trovare una scusa migliore.» «Come faccio a mandare le informazioni, qualora le ottenessi?» «Scriverà delle lettere a un'amica in Spagna, in cui parlerà di frivolezze, naturalmente usando un codice.» «Quale amica?» «Non esiste. Lei manderà le lettere all'indirizzo di una donna molto gentile che collabora con noi. Scriva soltanto quando ha qualcosa di importante da comunicare.»

«Per quanto tempo dovrò restare a Berlino?» «Non lo so. Crede di poter partire fra un paio di giorni, o le serve più tempo per sistemare i suoi affari personali?» «Come ci andrò?» «Si recherà prima a Lisbona. Da lì in Svizzera, dove prenderà un treno fino a Berlino.» Erano da poco passate le cinque quando Amelia rientrò a casa e fu sorpresa di trovare Albert in biblioteca che ascoltava musica sorseggiando un whisky. «Cosa festeggi?» gli domandò incuriosita, visto che Albert di solito non beveva a quell'ora del pomeriggio. «Ho una bella notizia. Vieni, ti verso da bere, dobbiamo brindare.» Amelia accettò il whisky. Si disse che ne avrebbe avuto bisogno per dire ad Albert che stava per andare a Berlino, in missione come agente dei servizi segreti britannici. «Mi ha telefonato mio padre per dirmi che Rachel è arrivata sana e salva a New York e, grazie agli amici che lavorano per il governatore, sono state espletate tutte le formalità dell'immigrazione. Grazie a Dio, adesso si trova con la sua famiglia. È o non è una grande notizia?» Lo era, e Amelia se ne rallegrò, soprattutto perché magari avrebbe mitigato il malumore di Albert quando gli avrebbe annunciato che se ne andava. Bevve un lungo sorso di whisky e, dopo aver parlato un po' di Rachel, gli disse che anche lei aveva qualcosa da comunicargli. «Spero che sia un'altra buona notizia, non vorrei che niente offuscasse la nostra gioia per Rachel.» «Mi mandano a Berlino, parto tra due giorni.» Albert rimase a fissarla. «Doveva succedere, prima o poi» mormorò distogliendo lo sguardo da Amelia. «Non mi aspettavo che avvenisse così presto... Non so cosa dire.» «Niente, non dire niente. Amarti è un'avventura complicata,

ma non posso cambiare i miei sentimenti per te. Fin dal primo momento ho capito che la nostra relazione non sarebbe stata facile, e ti confesso che ho sempre temuto di perderti. Sei così imprevedibile... Non perdonerò mai lo zio Paul di averti convinta ad arruolarti nei servizi segreti, e se ti succedesse qualcosa...» «Non mi succederà niente. Vogliono soltanto che vada a Berlino per cercare di scoprire se Hitler pensa di invadere la Gran Bretagna.» «Come se fosse facile! Loro sanno che non è una missione adatta a una ragazzina. Dovrebbero mandare agenti esperti. Come farai a ottenere le informazioni?» «Vogliono che mi metta in contatto con Max e con il suo gruppo. Lui ha una posizione importante nell'esercito, certamente ha accesso a certe informazioni che potrebbero esserci utili.» «Per favore, Amelia, non essere ingenua! Credi che Max ti racconterà come pensa di muoversi? Allora non lo conosci.» «Non capisco... Max è membro dell'opposizione e odia Hitler» replicò, non molto convinta. «Sì, e farà l'impossibile per rovesciarlo, ma non tradirà mai la Germania. Ecco il dettaglio che temo tu non abbia capito.» Amelia non poteva ribattere. Sapeva che Albert aveva ragione. Quando il comandante Murray gliel'aveva spiegata, la missione non le era sembrata complicata, ma Albert la mise davanti alla realtà. «Devo provarci.» «Sì, immagino che tu debba farlo. E cosa ne sarà di noi?» «Non lo so...» «Vorresti giocare a fare la spia mentre io aspetto pazientemente, pregando che non ti succeda niente, che torni da ogni missione?» «Io... in realtà non voglio nulla, non ti chiedo di aspettarmi...»

«Credo che tu non abbia pensato a me, e sai perché? Perché non l'hai mai fatto. Io sono qui, ma se non ci fossi nemmeno te ne accorgeresti.» «Non dire così! Non è vero! Io... ti amo, forse non come speri né come meriti, ma a modo mio ti amo.» «Questo è il problema: il tuo modo di amarmi.» Amelia Garayoa arrivò a Berlino il 10 giugno, lo stesso giorno in cui l'Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Tirò un sospiro di sollievo quando, uscendo dalla stazione di Berlino, si accorse che la polizia non le prestava attenzione. Era una delle tante donne cariche di bagagli. Amelia cercava di camminare con passo spedito. Il comandante Murray l'aveva avvertita che, se i tedeschi avessero sospettato di lei, l'avrebbero fucilata come spia. Andò direttamente a casa di Helmut Keller, il contabile della ditta di suo padre e di Herr Itzhak. Negli ultimi due giorni aveva messo a punto un piano preciso. Pensava di chiedere a Herr Helmut di affittarle una stanza. Non poteva permettersi di alloggiare di nuovo all'hotel Adlon e si sarebbe sentita più sicura vivendo in una casa; inoltre, se lui l'avesse ospitata le avrebbe fornito un alibi, perché poteva sempre farsi passare per un'ospite dei Keller e dimostrare i vecchi legami che li univano, commerciali ma anche familiari. Herr Helmut fu contento di vederla. Sua moglie, Greta, era ancora ammalata e il brav'uomo la accudiva teneramente, facendosi carico anche dei lavori di casa. «Meno male che adesso buona parte del mio lavoro di contabile lo svolgo in casa, altrimenti non potrei occuparmi di Greta.» Fu sorpreso dalla proposta di Amelia, ma non esitò ad accoglierla come ospite. «Non deve pagare, mi basta quel che guadagno.» «Lei mi fa un grosso favore accogliendomi in casa sua, mi sentirei molto sola in albergo. Non posso certo darle molto, ma

le faranno comodo un po' di marchi, e naturalmente contribuirò alle spese per il cibo e la aiuterò come posso ad accudire sua moglie.» Neppure Greta ebbe nulla in contrario a ospitare Amelia. La donna nutriva simpatia per la giovane spagnola e aveva un bel ricordo di suo padre, il signor Juan, un gentiluomo molto generoso. E poi avrebbe avuto qualcuno con cui parlare, oltre a suo marito, adesso che passava la maggior parte del tempo a letto. Aveva l'asma e si stancava dopo pochi passi. La camera di Amelia era piccola e veniva usata come ripostiglio. «Mi sarebbe piaciuto darle la stanza di mio figlio Frank, ma anche se non viene spesso, perché è nell'esercito, sua madre vuole che abbia sempre la sua camera, come quando viveva ancora con noi.» «Qui starò bene, Herr Helmut, non ho bisogno di molto. Mi bastano il letto e un tavolo con una sedia; l'armadio è grande. Davvero, non mi serve altro.» Amelia gli spiegò che, dopo l'inizio della guerra tra la Gran Bretagna e la Germania, lei aveva pensato di tornare in Spagna e di cercarsi un lavoro; visto che la Germania stava diventando la nazione più potente d'Europa, aveva deciso di migliorare il suo tedesco e di provare a rimettere in sesto l'attività familiare. Herr Helmut aveva salvato alcuni macchinari, forse avrebbe potuto spiegarle come funzionava la ditta prima della guerra e come riavviarla. Inoltre, gli diede a intendere che voleva riprendersi da una disgrazia personale. Il brav'uomo accettò le spiegazioni di Amelia, anche se in seguito avrebbe detto alla moglie che, a suo parere, la ragazza stava scappando da una delusione amorosa, che forse coinvolgeva l'aitante giornalista americano che l'aveva accompagnata la volta precedente. Il giorno dopo il suo arrivo a Berlino, Amelia si recò a casa di Karl Schatzhauser. Pensava che fosse meglio riprendere i

contatti con il capo del gruppo di opposizione anziché direttamente con Max. Il professore non sembrò troppo sorpreso di vederla. La fece accomodare nel suo studio e le offrì una tazza di tè. «Mi porta notizie da Londra? Ci prenderete in considerazione?» le chiese senza preamboli. «Abbiamo riferito quello che ci avete detto. Naturalmente la loro principale preoccupazione è ciò che il Führer intende fare nei confronti della Gran Bretagna.» «Naturalmente. Gli inglesi pensano prima a quel che può succedere a loro, non è così?» «È difficile che vi aiutino se non possono aiutare se stessi, non crede?» «E il suo amico, il signor James? Perché non è venuto anche lui?» «Albert è un giornalista e, per coerenza con la propria professione, deve raccontare quello che vede. Le assicuro che i suoi articoli sui giornali britannici e statunitensi hanno avuto un forte impatto. Ha descritto Hitler come un gravissimo pericolo e negli Stati Uniti le sue cronache hanno provocato un'intensa commozione, perché laggiù sono in molti a credere che ciò che accade in Europa non li riguardi.» «Quindi lei lavora per gli inglesi, ma il signor James no. Peccato! Mi era sembrato un uomo leale, di cui ci si poteva fidare. Lei è molto giovane e per di più spagnola, come mai sta con i britannici?» «Oh, no, non pensi che lavori per loro! Sono soltanto una messaggera. E se lo faccio è proprio perché sono spagnola e desidero che questa guerra ci aiuti a liberarci di Franco.» «Vuole che la guerra arrivi anche in Spagna?» «Voglio che sconfiggiate Hitler, così anche Franco perderà il suo principale alleato dopo il Duce.» «Uno scopo davvero lodevole, ma mi permetta di suggerirle di non contarci troppo.» «Certo, ma nemmeno posso restarmene con le mani in

mano.» «Bene, adesso mi spieghi cosa vogliono esattamente i suoi amici di Londra, e io a mia volta le dirò cosa ci aspettiamo noi da loro.» Amelia fu abbastanza ambigua da non impegnarsi in nessun modo e da non chiedere quello che sapeva di non riuscire a ottenere. La sua missione aveva ben poco a che fare con la sorte del gruppo di opposizione guidato dal professore. Quello che il comandante Murray le aveva ordinato di scoprire attraverso Max von Schumann erano i movimenti della Wehrmacht. Naturalmente per farlo doveva prestare attenzione al gruppo di Schatzhauser il quale, un attimo dopo, la invitò a una cena la sera successiva. «Saremo a casa di amici, verranno anche il nostro caro Max e padre Müller, che sarà sempre grato a lei e al signor James per quanto avete fatto per Rachel. Sarà felice di sapere che è sana e salva a New York.» Amelia era stupita dall'allegria e dalla spensieratezza che sembrava regnare tra i berlinesi. Nelle vie della città, le donne portavano a passeggio i figli, estranee a qualunque preoccupazione, i cabaret erano sempre affollati e i commercianti sistemavano la merce intenti esclusivamente ad accontentare la clientela. A Londra, invece, la popolazione era ben consapevole della guerra, e la ritirata dei soldati dalle spiagge di Dunquerque era stata seguita con angoscia. Mentre tornava a casa di Herr Helmut, Amelia si fermò in un negozio a comprare del tè e un pan dolce per fare una sorpresa a Frau Greta. La donna era gentile e bendisposta nei suoi confronti. Amelia si disse che era stata una buona idea farsi ospitare dai Keller. Le permetteva di passare inosservata, anche se nella Berlino di quei giorni migliaia di occhi sembravano scrutare fin dentro le case.

Greta apprezzò il tè e il pan dolce e propose ad Amelia di gustarli insieme a lei. Herr Helmut era andato a portare i libri contabili a un negozio per cui lavorava e non era ancora rientrato. Il professor Schatzhauser passò a casa dei Keller a prendere Amelia. Herr Helmut, che nel frattempo era tornato, andò ad aprire la porta e lo invitò a entrare, ma Amelia era già pronta, perciò uscirono subito. Amelia aveva spiegato ai Keller che il professore era un vecchio amico di suo padre, che gentilmente si era offerto di aiutarla durante il suo soggiorno a Berlino. Schatzhauser, alla guida di una vecchia automobile nera, non sembrava molto loquace. «È preoccupato?» domandò Amelia. «Max mi ha avvisato che saranno presenti due ospiti influenti, l'ammiraglio Canaris e il suo aiutante, Hans Oster. Sono due uomini importanti per gerarchia militare e posizione sociale.» «Cosa dirà loro di me?» «Il necessario, ma naturalmente cercheranno di scoprire tutto su di lei con i loro mezzi, che sono molti.» «Rappresentano un pericolo?» «Ci auguriamo di no. In alcune occasioni ci hanno anche aiutato. In ogni caso, mia cara, non c'è niente di meglio che dire la verità, e visto che lei si trova a Berlino per un motivo molto lodevole, cioè riscattare l'attività familiare, non abbiamo nulla di cui preoccuparci, non crede?» La casa di Manfred Kasten si trovava nei pressi di Charlottenburg. Era una villa a due piani in stile neoclassico, circondata da un giardino in cui crescevano salici e abeti. Li accolse la moglie dell'anfitrione, la signora Kasten, una donna di oltre sessant'anni, con i capelli bianchi, alta e magra. «Professor Schatzhauser, che piacere rivederla! È in compagnia di una ragazza molto bella... prego, accomodatevi.

Manfred è in biblioteca, insieme a un suo amico, il barone von Schumann. Spero che vi godrete la serata, senza impegolarvi in discussioni politiche. Me lo promette?» Helga Kasten sorrise fiduciosa, offrendo loro una coppa di champagne. Poi si allontanò per dedicarsi ad altri invitati. Il professore prese Amelia sottobraccio e si diresse verso la biblioteca, ma Ludovica von Waldheim li intercettò. «Ma guarda, il caro professor Schatzhauser e la signorina Garayoa! Non sapevo che fosse a Berlino...» «Sono appena arrivata.» «Ha abbandonato il bel signor James? Se fossi in lei non lo farei, non ce ne sono molti di uomini come lui.» «Albert ha degli impegni di lavoro, ma appena potrà mi raggiungerà.» «E come mai le ha permesso di venire da sola?» «Sono ospite di alcuni vecchi amici dei miei genitori. Mio padre importava macchinari dalla Germania e voglio cercare di rimettere in sesto l'attività familiare» spiegò Amelia, a disagio per l'interrogatorio a cui la stava sottoponendo Ludovica. «Come sta il barone, suo marito?» chiese a sua volta. «Mio marito sta bene, grazie. È in biblioteca, sta parlando di politica con alcuni amici. Lei si interessa di politica?» «Il minimo indispensabile, baronessa.» «Così mi piace! Gli uomini sono sempre così complicati, incapaci di godersi la vita. Deve venire a casa nostra, parleremo di cose da donne, è d'accordo?» «Ma certo, con piacere.» «Alloggia all'Adlon, vero?» «No. Come le ho detto, sono ospite di amici dei miei genitori.» «Fa lo stesso. Mi faccia sapere quando le è più comodo» disse Ludovica allontanandosi. «Stia attenta con la baronessa» la avvertì il professor Schatzhauser «è chiaro che non si fida di lei.» «Fa bene. Se la baronessa sapesse delle nostre attività, è

probabile che ci denuncerebbe.» «Non potrebbe farlo senza denunciare suo marito.» «Arriverebbe a tanto, se fosse il caso. È una nazista convinta. È stato azzardato da parte di Max portarla a questa cena, anche se immagino che non abbia avuto scelta, in fondo è sua moglie.» L'ammiraglio Wilhelm Canaris era un uomo affascinante e squadrò Amelia con insistenza, quasi volesse leggerle nel pensiero. Dimostrò di conoscere bene la situazione spagnola e la sottopose a un velato interrogatorio per cercare di capire da che parte stava. Anche il colonnello Hans Oster si mostrò interessato ad Amelia, la cui presenza quella sera attirava l'attenzione. I due uomini sembravano molto in sintonia e si scambiavano fugaci sguardi d'intesa. Se Amelia sperava di sentire da loro qualche critica al nazismo, rimase delusa, perché nessuno dei due uomini disse nulla che lasciasse sospettare che non erano d'accordo con il Führer. Amelia fu felice di rivedere padre Müller, il sacerdote che le aveva affidato la vita di Rachel; in un momento della serata, si appartarono per parlare senza farsi sentire dagli altri invitati. «Non sapete quanto vi sono grato per quel che avete fatto. È un sollievo sapere che Rachel è sana e salva.» «Mi dica, padre: crede che ci siano abbastanza tedeschi contrari a Hitler?» «Che domanda! Mi piacerebbe poterle rispondere che siamo in migliaia a renderci conto del pericolo rappresentato da Hitler, ma temo che non sia così. La Germania aspira solo a tornare grande, a occupare il posto che è convinta le sia stato sottratto dopo la Grande guerra.» «E voi cosa potete fare?» «Non lo so, Amelia. Nel mio caso, collaborare quando me lo chiedono, ma sono un sacerdote, un gesuita che rappresenta soltanto se stesso. Credo che l'unica cosa che possiamo fare è convincere chi ci sta intorno della malvagità intrinseca al nazismo.»

«Ma, secondo lei, fin dove vuole arrivare Hitler?» «A diventare il padrone d'Europa. Non si fermerà finché non ci sarà riuscito.» Max si avvicinò con aria indifferente. Aveva a malapena salutato Amelia, conscio che Ludovica non lo perdeva di vista. Anche se sua moglie non gli aveva mai detto niente della spagnola, sapeva che era gelosa di lei. «Per quanto tempo resterai a Berlino?» «Ancora non lo so, dipende da cosa riesco a fare qui.» «Il professor Schatzhauser mi ha raccontato che ti mandano i britannici...» disse abbassando la voce. «No, mi trovo a Berlino per altri motivi, ma mi hanno chiesto di fare da tramite con il vostro gruppo. Vogliono sapere come pensate di muovervi adesso che la guerra sembra aver coinvolto tutta l'Europa.» «Non c'è molto che possiamo fare. Cosa vogliono i britannici?» «Vogliono sapere fin dove è disposto ad arrivare Hitler. Se ha intenzione di invadere la Gran Bretagna» chiese Amelia direttamente. Max tossicchiò. Sembrava a disagio per quella domanda e si guardò intorno prima di rispondere. «Potrebbe provarci, anche se, a quanto ne so, preferirebbe accordarsi con i britannici, o almeno è quello che mi ha appena detto il nostro anfitrione. Manfred Kasten è un diplomatico in pensione, ma ha mantenuto ottimi rapporti con il ministero degli Esteri e ha sempre eccellenti informazioni sui movimenti del ministro Ribbentrop.» «Quando posso vederti?» «Tra qualche giorno, forse. Domani saprò qual è la mia destinazione immediata. Può darsi che mi mandino in Polonia o in qualunque altro posto, non lo so... Preferirei rimanere a Berlino, almeno per ora. Ma non dipende da me. Ti avviserò attraverso il professor Schatzhauser, possiamo vederci da lui. A proposito, dove alloggi?»

«A casa di Herr Helmut Keller.» Amelia gli diede un numero di telefono e un indirizzo che Max memorizzò. Sapeva che Ludovica era solita curiosare nelle tasche delle sue giacche e dei suoi pantaloni. Il 22 giugno la Francia firmò un armistizio con la Germania, e due giorni più tardi con l'Italia. Hitler visitò Parigi il 23 giugno e rimase affascinato dal palazzo dell'Opéra e dall'Hôtel des Invalides, dove riposano i resti di Napoleone. Amelia si recava regolarmente a casa del professor Schatzhauser, che spesso organizzava riunioni a cui assistevano diversi membri del piccolo gruppo di opposizione, e ascoltava attentamente. Molti di loro erano persone di un certo prestigio sociale, che godevano di posizioni privilegiate in punti strategici dell'amministrazione, e pertanto avevano accesso a informazioni che, seppur non rilevanti, Amelia riteneva necessario passare a Londra, intenta a preparare la nuova fase della guerra. Fu durante una di quelle riunioni che Amelia incontrò di nuovo Manfred Kasten, l'anziano diplomatico che odiava Hitler con tutte le sue forze. Quel giorno non erano molti i partecipanti alla riunione. Oltre al professor Schatzhauser, c'erano due colleghe dell'università, un diplomatico svizzero, padre Müller, il pastore Ludwig Schmidt, un funzionario del ministero dell'Agricoltura e uno degli Esteri, oltre a Max von Schumann e al suo aiutante, il capitano Henke. Manfred Kasten rivelò di aver saputo da un amico con ottimi contatti nel partito che si stava lavorando a un piano per spostare gli ebrei fuori dai confini europei. «Ma a quale scopo?» domandò Schatzhauser. «Amico mio, Hitler e i suoi seguaci sostengono che gli ebrei siano i peggiori nemici della razza ariana e del Reich. L'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, creato da Himmler e dal suo accolito Heydrich, persegue l'assurdo progetto di deportare migliaia di ebrei fuori dalla Germania allo scopo di disfarsene, e

non solo gli ebrei tedeschi, ma anche i polacchi e tutti quelli che si trovano nei paesi occupati dalla Wehrmacht.» «Dove intendono mandarli?» si informò Max, allarmato. «Vogliono deportarli in qualche paese africano.» «Sono pazzi!» esclamò padre Müller. «Molto peggio, i pazzi non sono altrettanto pericolosi» sentenziò il pastore Ludwig Schmidt. «Ma possono farlo?» insisté Amelia. «Stanno studiando come. Tra qualche giorno parteciperò a una cena a casa dell'ambasciatore giapponese, dove incontrerò un amico che forse potrà darmi maggiori dettagli sull'operazione.» «Credo che ci resti ancora qualche faccenda di cui parlare, non è così, Max?» disse il professor Schatzhauser. «Sì. Devo annunciarvi che mi è stata affidata la supervisione della sanità del nostro esercito, per cui dovrò seguirne tutti gli spostamenti. Ma anche se sarò perennemente in viaggio, ovunque io mi trovi, continuerò a sostenervi; sappiate che potete contare su di me per qualunque cosa» disse von Schumann. «Starai via per molto?» volle sapere Manfred Kasten. «Si tratta di un impegno a tempo indeterminato. Devo ispezionare le truppe, controllare l'intendenza sanitaria e scrivere alcuni rapporti sulle carenze mediche sul campo di battaglia. Ho l'impressione che i miei superiori vogliano tenermi costantemente occupato.» «Credi che sospettino qualcosa?» domandò inquieto il professor Schatzhauser. «Spero di no. Immagino che non apprezzino il mio scarso entusiasmo per quanto sta succedendo. Mi tollerano per quello che sono, perché appartengo a una vecchia famiglia di soldati e perché sanno che non tradirò mai la Germania né l'esercito.» «Cerca di non rivelare i tuoi sentimenti. Non risolverai niente a dichiarare quello che pensi davvero; potresti perfino mettere in pericolo tutti noi» lo esortò il pastore Schmidt.

«Non preoccupatevi, sto attento. So di camminare sulle sabbie mobili, ma a volte mi costa nascondere il disprezzo che provo per alcuni capi militari, grandi soldati che sembrano adolescenti spaventati davanti al Führer» aggiunse Max. «Non giudicarli troppo duramente. Chi non vuole sopravvivere in un periodo in cui il potere della Gestapo non ha limiti e chiunque è considerato sospetto?» concluse Kasten. Qualche giorno più tardi Amelia ricevette dal professor Schatzhauser un invito a prendere il tè. Quando giunse a casa sua, trovò anche Manfred Kasten. «Stavo raccontando al professore che, come vi avevo detto, ho partecipato a una cena a casa dell'ambasciatore del Giappone. Ho incontrato un amico che mi ha confermato di lavorare proprio all'assurdo progetto di deportare gli ebrei fuori dall'Europa. Il piano è coordinato da Heinrich Himmler in persona.» «Dove li manderanno?» si interessò Amelia. «In Madagascar. O almeno così mi ha assicurato il mio amico. A quanto pare vogliono portare laggiù tutti gli ebrei europei.» «C'è una data stabilita?» «Ancora no, stanno studiando come fare. Non è uno scherzo spostare centinaia di migliaia di persone dall'Europa all'emisfero australe, servono mezzi.» «E una volta arrivati là, cosa ne faranno?» chiese il professor Schatzhauser. «Li rinchiuderanno nei campi di lavoro. In realtà vogliono trasformare l'isola in una grande prigione. Il mio amico è convinto che sia un piano assurdo, ma mi ha detto che Hitler in persona ha dato la sua benedizione, ordinando di risolvere quanto prima i problemi logistici dell'operazione.» «Ma avranno bisogno di centinaia di navi per trasferire tutti quegli ebrei!» disse Amelia, che non riusciva a riprendersi dallo stupore. «Non sarà facile, la Germania non controlla il mare.» «Questo è evidente, ma stanno cercando di elaborare un

piano che riduca al minimo rischi e costi. Mi dica, informerà Londra?» Per qualche istante, Amelia rimase in silenzio. Gli ordini del comandante Murray erano stati chiari: non doveva rivelare a nessuno la sua missione a Berlino. Aveva ripetutamente assicurato al professor Schatzhauser, e anche a Max, di non avere niente a che vedere con i britannici, ma sapeva che il professore sospettava che non dicesse la verità. «Mi dispiace deluderla, Herr Kasten, ma non lavoro per i britannici» assicurò con aria convinta. «Però Max ci ha detto che il suo amico Albert James è in ottimi rapporti con l'Ammiragliato» disse il professor Schatzhauser. «È così, ma si tratta di rapporti familiari, e io... be', cercherò di far sapere ad Albert quello che mi avete raccontato. Lui saprà cosa fare...» Amelia approfittava delle ore notturne per scrivere le lettere cifrate alla sua inesistente amica spagnola. Dopo cena, con i Keller, ascoltava la radio, che trasmetteva la propaganda di regime, e poi si ritirava nella sua stanza. Ormai si trovava a Berlino da due mesi e, per quanto i Keller sembrassero entusiasti di averla come ospite, si era accorta che erano stupiti della sua permanenza, perciò, un pomeriggio che erano da sole, confessò a Greta di essere tornata a Berlino per prendere le distanze dal suo amante, Albert James. Non ebbe problemi a rivelarle che i genitori di Albert si opponevano alla loro relazione e che lei era disposta a sacrificarsi pur di renderlo felice. «Con me non ha futuro. Come lei sa, sono già sposata.» Greta Keller la consolò e le assicurò che Albert sarebbe venuto a cercarla. Per rendere ancora più verosimile il suo soggiorno, si era iscritta a una scuola di lingue dove andava ogni giorno a perfezionare il tedesco. Il resto del tempo lo passava a casa del

professor Schatzhauser, oltre a far visita a padre Müller, con cui aveva stretto una buona amicizia. Padre Müller non era molto più vecchio di Amelia, e il fatto che lei avesse aiutato Rachel aveva creato fra loro un legame speciale. A volte discutevano sulla posizione della Chiesa nei confronti del nazismo. Amelia criticava il papa perché non si opponeva apertamente a Hitler, mentre il sacerdote cercava di convincerla che, se il papa Pio XII avesse deciso di prendere posizione pubblicamente contro il Führer, avrebbe messo in pericolo i cattolici tedeschi e quelli di tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht. «Tu stessa ti stai facendo passare per una ragazza spensierata quando in realtà sei qui per altri motivi» la provocava. «Di che cosa parli? Cerco solamente di migliorare il mio tedesco, visto che a quanto pare voi tedeschi ci dominerete tutti e non avremo altra scelta che conoscere bene la vostra lingua» scherzava lei. Spesso, di pomeriggio, Amelia si recava nella parrocchia dove padre Müller celebrava la messa. Il sacerdote aiutava un gesuita anziano e ammalato che si rifiutava di abbandonare i suoi fedeli in quel momento di grande tribolazione. Il vecchio sacerdote non era temerario come padre Müller e faceva finta di non sapere nulla delle riunioni cospiratorie del giovane sacerdote, anche se in realtà ne approvava il comportamento. E non faceva obiezioni nemmeno all'amicizia ogni giorno più solida tra padre Müller e il pastore Ludwig Schmidt; attribuiva all'influenza del pastore la politicizzazione sempre più appassionata del ragazzo, ma sapeva che a spingere definitivamente padre Müller a prendere posizione contro Hitler era stata la situazione di quella famiglia ebrea a cui si sentiva tanto legato. Rachel era stata molto vicina a lui e a sua sorella Hanna. Sia Irene, la madre di padre Müller, sia Hanna non avevano esitato a nasconderla in casa. Un giorno gli aveva detto che Rachel era in salvo; non gli aveva spiegato come e lui

non gliel'aveva chiesto. Adesso notava che padre Müller passava sempre più tempo con la giovane spagnola e si chiedeva in cosa entrambi fossero coinvolti, ma preferiva non fare domande. Il vecchio sacerdote si diceva che forse era meglio non sapere troppo sulle attività del suo aiutante. Amelia andava spesso a casa di padre Müller a sentire le trasmissioni della BBC. Era sempre ben accolta da Irene e da Hanna. Le due donne avevano in simpatia la spagnola e le erano grate di aver salvato Rachel. Fu a casa di padre Müller che, il 10 luglio, Amelia apprese che il governo collaborazionista di Pétain aveva deciso di interrompere le relazioni con la Gran Bretagna. Il parlamento di Vichy aveva concesso pieni poteri al maresciallo di Francia. E questo succedeva soltanto pochi giorni dopo che il porto di Dover era stato bombardato. Amelia rivide l'ammiraglio Canaris e il colonnello Oster in altre occasioni, durante eventi mondani a cui accompagnò il professor Schatzhauser, l'ultimo dei quali fu a metà agosto a casa di Max: sua moglie aveva organizzato una cena d'addio prima della partenza per la Polonia. Ludovica aveva invitato, oltre a Göring e a Himmler, tutte le personalità più in vista di Berlino, accettando suo malgrado di coinvolgere gli amici che suo marito desiderava fossero presenti. Quella sera Manfred Kasten si avvicinò ad Amelia con un gran sorriso. «Mia cara, sono venuto a sapere alcuni dettagli dell'Operazione Madagascar: manca solo che il Führer dia la sua approvazione finale. Mia moglie e io saremmo lieti di invitarla a prendere il tè da noi domani.» Amelia accettò immediatamente. Era un'informazione che a Londra aspettavano, non tanto perché avessero a cuore la sorte degli ebrei, ma perché un piano di tale portata comportava la mobilitazione di ingenti risorse e il controllo delle rotte

marittime dell'oceano Atlantico, che fino a quel momento era stato mantenuto dai britannici. Winston Churchill stava appunto cercando di convincere gli Stati Uniti che, se la Gran Bretagna fosse stata sconfitta da Hitler, il controllo dell'Atlantico sarebbe passato alla Germania. Pertanto, le informazioni su quell'operazione potevano servire all'intelligence britannica per valutare quanto grande fosse la potenza marittima della Germania. Nonostante il disagio che entrambi provavano sotto gli occhi inquisitori di Ludovica, Max ne approfittò per salutare Amelia. «Avrei voluto vederti da sola, ma non ce l'ho fatta; gli obblighi militari e familiari me l'hanno impedito.» «Lo so, non preoccuparti. Immagino che quando tornerai sarò ancora qui. Sai dove ti hanno destinato esattamente?» «All'inizio andrò a Varsavia, ma devo visitare le nostre truppe spiegate in tutto il paese, perciò sarò sempre in giro.» «Il capitano Henke ti accompagna?» «Sì, e sarà un sollievo. Hans è ufficiale d'intendenza, ed è lui che deve trasmettere i miei ordini in merito alle necessità mediche al fronte.» «Almeno avrai un amico vicino.» «Non immagini quanto sia difficile potersi fidare di qualcuno. Nell'esercito ci sono altri ufficiali che la pensano come noi, ma non osano muovere un dito. Sanno di cosa sono capaci i nazisti quando qualcuno si intromette nei loro piani; temono che possa succedere loro quello che è accaduto a Werner von Fritsch, capo dell'esercito, che Göring, tramite la Gestapo, ha accusato di omosessualità. O al maresciallo Blomberg, che è stato obbligato a dimettersi da ministro della Guerra a causa delle insinuazioni sul passato di sua moglie. E non sono un segreto le idee di Ludwig Beck; era il nostro capo di stato maggiore fino a un paio di anni fa, quando si è dimesso per le divergenze con il Führer. Ci sono generali come Witzleben e Stülpnagel che in passato hanno appoggiato Beck. Cominciano anche a verificarsi contrasti fra alcune alte cariche

dell'esercito e il direttivo delle SS, la cui influenza è in aumento. Sembra che durante la campagna di Polonia siano sorte alcune divergenze tra il generale Blaskowitz e le SS. Sia il generale von Tresckow sia von Schlabrendorff sono preoccupati per l'attuale deriva della politica tedesca.» «Perché mi racconti tutto questo?» «Perché credo di potermi fidare di te e mi interessa cosa pensi; non voglio che tu creda che in Germania siamo tutti nazisti. C'è gente che detesta quello che il nazismo rappresenta e, soprattutto, che non vuole un'altra guerra in Europa.» «È così difficile togliere di mezzo Hitler?» «Non è certo qualcosa che si può improvvisare. Forse, quando la guerra sarà finita...» «Magari sarà troppo tardi...» «Non sarà mai tardi per ristabilire la democrazia in Germania, per restituirle le sue istituzioni. Siamo contro Hitler, ma non tradiremo mai il nostro paese. Sei sempre in contatto con lord Paul James?» «L'ho visto soltanto un paio di volte, insieme ad Albert, che è suo nipote.» «Mi preoccupa che Londra veda la Germania come un blocco compatto intorno a Hitler, perché non è così. Siamo in molti disposti a dare la vita per mettere fine a quest'incubo.» Ludovica si avvicinò, seguita da un cameriere con un vassoio di coppe di champagne. «Tesoro, non vorresti brindare a che Amelia possa incontrare qualcuno a Berlino?» Il tono di voce di Ludovica era sarcastico e il suo sguardo carico di rabbia. «Ottima idea» rispose Max. «Brinderemo al ritrovarci qui, allegri come oggi.» Max porse una coppa ad Amelia e assecondarono la richiesta di Ludovica. Poi si occupò degli altri invitati. Quella notte Amelia non riuscì a dormire. Doveva tornare a Londra e cercare di parlare personalmente con lord Paul James, ma avrebbe accettato di riceverla? Sapeva di dover informare il

suo capo, il comandante Murray, però Max le aveva chiesto espressamente di lord James. C'era un solo modo per avvicinarsi a lui: tramite Albert. Avrebbe dovuto chiedergli di organizzare una riunione mondana con suo zio prima che lei si presentasse negli uffici dell'Ammiragliato, a fare rapporto al suo superiore. Non sarebbe stato facile convincere Albert, ma sperava di riuscirci. Avrebbe avuto bisogno del permesso di Murray per tornare a Londra, giustificato dalla circostanza che quanto doveva riferirgli era così importante da lasciare Berlino. Si alzò presto e trovò Herr Helmut che preparava la colazione per Greta. «Devo uscire. Può occuparsi lei del tè e portarlo a mia moglie? So che è chiedere molto, ma potrebbe anche aiutarla ad alzarsi e sistemarla nella poltrona accanto alla finestra? Sembra che stia un po' meglio.» «Stia tranquillo, Herr Helmut, mi prenderò cura di lei.» «Non deve andare a lezione?» «Sì, ma ho ancora tempo.» Nel pomeriggio Amelia si recò a casa di Manfred Kasten. Fu ricevuta da sua moglie, che la condusse nello studio del marito. Il vecchio diplomatico la aspettava impaziente; la invitò a sedersi e le porse una cartellina che conteneva le informazioni sull'Operazione Madagascar. Amelia lesse avidamente senza dire una parola, ma il suo volto tradiva lo sconcerto provocato da quel piano folle. «Posso tenere i documenti?» «Sarebbe pericoloso. La Gestapo ha occhi e orecchie dappertutto ed è possibile che sul nostro gruppo sappia più di quanto immaginiamo. Diffida di tutti. È meglio che questi documenti non escano di qui, per la sua e per la nostra sicurezza.» Amelia si immerse di nuovo nella lettura delle carte, cercando di memorizzarle il più possibile. L'autore di quel piano aveva precisato persino il numero delle navi necessarie al

trasporto di tutti gli ebrei dalla Germania al Madagascar, nonché quello delle imbarcazioni d'appoggio necessarie a portare a buon fine l'operazione. Oltre a quelle informazioni, nel documento era specificato lo stato della flotta mercantile del Reich. Potevano essere dettagli fondamentali per l'Ammiragliato, pertanto Amelia ebbe la conferma della necessità di un suo immediato viaggio a Londra. «La ringrazio per la fiducia, Herr Kasten» disse dopo aver finito di leggere le carte. «Sono cristiano, Amelia, mi considero un buon tedesco e mi ripugna quello che certi uomini stanno facendo. Deportare gli ebrei! Confinarli su un'isola come se fossero appestati!» Era tardi quando Amelia rientrò a casa dei Keller. Greta dormiva già e il marito era in cucina, intento a controllare alcuni libri contabili. Amelia gli annunciò che pensava di tornare a casa. «È successo qualcosa?» si interessò l'uomo. «No, ma lei sa che mia sorella Antonietta è malata, e non voglio passare troppo tempo lontana da lei. Però tornerò, Herr Helmut, e se lei sarà così gentile da continuare ad affittarmi la stanza gliene sarò molto grata. Credo di poter trovare lavoro a Berlino, ho conosciuto alcune persone che hanno bisogno di qualcuno che parli bene spagnolo. Sa della collaborazione tra Hitler e Franco, i nostri due paesi sono alleati...» Helmut Keller annuì. Non aveva mai parlato di politica con Amelia; entrambi avevano evitato qualunque accenno a ciò che stava succedendo. Lui era stupito che Amelia non facesse alcuna allusione al nazismo, tanto più se si considerava il fatto che suo padre aveva perso tutta la sua fortuna a causa del nuovo regime, ma non osava dichiarare davanti alla ragazza il suo odio per il Führer, perché sapeva che non sempre i figli ereditano le idee dei padri. Suo figlio, Frank, sembrava contento nell'esercito; diceva che Hitler stava riportando la Germania alla sua grandezza. All'inizio avevano discusso, ma poi padre e

figlio avevano preferito evitare di parlare di politica per non arrecare dispiacere a Greta, che soffriva nel vederli litigare. Amelia dedicò i giorni successivi a salutare il professor Karl Schatzhauser, padre Müller e gli altri membri del gruppo di opposizione. Assicurò che sarebbe tornata a breve. Prese anche una decisione: si sarebbe confessata con padre Müller, rivelandogli la sua collaborazione con i britannici. «Questo non è peccato» la rimproverò lui. «Lo so, ma mi preme assicurarmi che non rivelerai questa informazione a nessuno.» «Non posso farlo, sono legato al segreto della confessione» replicò lui, infastidito. «Dimmi, perché me l'hai confessato?» «Perché ho bisogno d'aiuto, oltre che di qualcuno di cui potermi fidare.» Il giorno seguente andò a trovare il sacerdote a casa. Gli insegnò a criptare qualunque informazione potesse essere rilevante e lo pregò, una volta stesa una lettera banale e insulsa, di spedirla allo stesso indirizzo di Madrid al quale lei mandava le sue missive. «In questo modo, chiunque legga le tue lettere penserà che scrivi a una vecchia amica.» «E non dovresti istruire qualcun altro in caso mi succedesse qualcosa?» chiese preoccupato padre Müller. «Non ti succederà niente, e poi non è opportuno che troppe persone conoscano questo sistema di cifrare messaggi. Non dimenticare che le lettere arriveranno a Madrid, dove ci sono molte spie tedesche. Potremmo mettere in pericolo la persona che le riceve.» Fu padre Müller ad accompagnare Amelia alla stazione e ad aiutarla a prendere posto nello scompartimento che, per sollievo di entrambi, era occupato da una donna con tre bambini piccoli. «Quando tornerai?» volle sapere il sacerdote. «Non dipende da me... Ma spero prestissimo: credo di poter

essere utile a Berlino.» La meta di Amelia non era Madrid, ma Lisbona, da dove poteva raggiungere Londra. Sapeva che la capitale britannica stava subendo i bombardamenti tedeschi, con enormi perdite materiali e umane, ed era ansiosa di ritrovare Albert e di assicurarsi che stesse bene. A Lisbona alloggiava in un piccolo albergo vicino al porto. La scelta non era casuale. Il comandante Murray le aveva dato quell'indirizzo assicurandole che, se avesse avuto bisogno di aiuto o di mettersi in contatto con lui, il proprietario dell'albergo avrebbe saputo come trovare le persone giuste. L'hotel Oriente era piccolo e pulito; il proprietario era un inglese, John Brown, sposato con una portoghese, la signora Mencia. Amelia pensò che entrambi lavorassero per i servizi segreti britannici. Disse loro che voleva andare a Londra e chiese consiglio sul modo migliore per raggiungerla. Pronunciò la frase in codice che le aveva insegnato Murray: «Devo sbrigare alcune faccende, ma soprattutto ho nostalgia della nebbia». John Brown annuì senza dire una parola e qualche ora dopo mandò la moglie nella stanza di Amelia per informarla che un peschereccio l'avrebbe portata in Gran Bretagna. Lei lasciò il Portogallo due giorni dopo che Lev Trockij fu assassinato in Messico. Aveva sentito la notizia alla BBC e si era ricordata del viaggio che non molto tempo prima aveva fatto insieme ad Albert. Ricordava bene Trockij, il suo sguardo inquisitore, i suoi gesti diffidenti, in definitiva, la sua paura di essere assassinato. Rabbrividì al pensiero di quanto fosse lungo il braccio di Mosca e di come lei sembrava essere scampata a quel pericolo.

8

Amelia fu sorpresa di scoprire che Albert non si trovava a Londra. L'appartamento era gelido e ricoperto di uno strato di polvere. Trovò una lettera sulla scrivania dello studio. Era datata 10 luglio. Cara Amelia, non so se e quando leggerai questa lettera. Ho chiesto allo zio Paul quanto ti terrà lontana da Londra, ma non ha voluto darmi una risposta. In caso tornassi mentre io non ci sono, voglio che tu sappia che mi trovo a New York. Lì ho delle cose da fare: vedere i direttori dei giornali per cui scrivo, controllare lo stato delle mie finanze, parlare con mio padre e discutere con mia madre...Credo che cercherò anche di rintracciare Rachel per assicurarmi che stia bene. Non so ancora per quanto tempo mi fermerò a New York, ma tu sai come metterti in contatto con me. L'appartamento è a tua disposizione. La signora O'Hara verrà ogni tanto a fare le pulizie. Insomma, tesoro, io che scrivo tante pagine per gli altri non so bene cosa scrivere a te. Tuo Albert James

Il comandante Murray sembrò felice di vedere Amelia entrare nel suo ufficio. «Ottimo lavoro» le disse a mo' di saluto. «Lei crede?» «Ma certo.» «In realtà non vi ho mandato nessuna informazione

sostanziale, ma ho i dettagli di un'operazione che penso possa rivelarsi di vitale importanza.» «Lo immagino, visto che ha preso la decisione di rientrare senza il mio permesso.» «Mi dispiace, ma credo che, quando le avrò spiegato in cosa consiste l'Operazione Madagascar, converrà con me che si tratti di una faccenda importante.» Murray chiese alla segretaria di preparare il tè. Poi si sedette davanti ad Amelia, disposto ad ascoltare. «Sentiamo cos'ha da dirmi.» Amelia gli spiegò nei dettagli cosa aveva fatto dal suo arrivo a Berlino fino al giorno della partenza: i contatti avviati, il gruppo di opposizione con cui lavorava, il piano dell'Operazione Madagascar, oltre a tutto quello che Max von Schumann le aveva rivelato in merito allo scontento serpeggiante in alcuni settori dell'esercito. Il comandante la ascoltava in silenzio e la interruppe soltanto per chiederle maggiori dettagli su alcuni punti. Quando Amelia ebbe finito, Murray si alzò dalla poltrona e per qualche minuto andò avanti e indietro per l'ufficio senza dire una parola, ignorando il crescente disagio di Amelia. «Quindi lei ha creato una piccola rete nel cuore del Terzo Reich. Adesso a Berlino abbiamo un gruppo di amici bendisposti che ci forniranno informazioni e un posto dove andare. Davvero non mi aspettavo tanto da lei. Quanto alle informazioni che le ha fornito il barone von Schumann, non dico che ci aiuteranno a vincere la guerra, ma almeno ci danno un'idea di cosa sta succedendo. Le sue valutazioni politiche sui passi che sta compiendo Hitler sono più preziose di quanto lei possa immaginare... È interessante sapere che non tutti i tedeschi stanno dalla parte del Führer.» «Non sono tanti» puntualizzò Amelia. «Sì, sì, certo... molto interessante. Mia cara, lei ci ha procurato informazioni preziose. Voglio che metta per iscritto tutto quello che mi ha raccontato entro due ore. Devo appunto

mettermi in contatto con lord James. Credo che sarà contento di sapere che lei ha svolto con successo la missione che le avevamo affidato, molto meglio di altri agenti che stanno lavorando a Berlino in questo periodo.» Amelia ebbe un sussulto e guardò Murray con aria di sfida. «Ha mandato altri agenti a Berlino?» «Naturalmente. Non penserà che ci fosse soltanto lei? Quante più reti si riescono a creare tanto meglio è. Capirà che è preferibile che non abbiano rapporti le une con le altre finché non sarà necessario. E non solo per sicurezza.» «Perciò adesso a Berlino ci sono degli altri agenti...» insisté Amelia. «A Berlino e in altre zone della Germania. Non sarà mica sorpresa!» Non lo disse, ma in effetti era così. Fu allora che cominciò a capire che, nel mondo delle spie, niente è come sembra e gli agenti sono soli perché non sono altro che pedine nelle mani dei loro superiori. «Devo tornare a Berlino?» «Mi prepari il rapporto entro due ore, poi vada a casa. Oggi è venerdì, si prenda un paio di giorni di riposo e lunedì si ripresenti qui per ricevere nuovi ordini.» Amelia seguì le istruzioni di Murray alla lettera. Dedicò il fine settimana a scrivere ad Albert e a mettere in ordine l'appartamento. Non aveva voglia di vedere nessuno; inoltre, le persone che conosceva a Londra non erano amici suoi ma di Albert. Il lunedì alle nove in punto si presentò nell'ufficio del comandante Murray, che sembrava di pessimo umore. «Gli attacchi della Luftwaffe sono sempre più precisi...» si lamentò Murray. «Lo so, signore.» «Bisogna restituirgli la visita a Berlino.» Amelia annuì e al contempo non poté fare a meno di

rabbrividire al pensiero degli amici che aveva lasciato laggiù, tutti oppositori di Hitler, disposti a rischiare la vita pur di mettere fine al Reich. «Bene, ho un'altra missione per lei. Deve partire immediatamente per l'Italia.» «L'Italia? Ma... ecco... credevo di dover tornare a Berlino.» «Ci sarà più utile in Italia. Sto per darle un'informazione riservata, ma qualche giorno fa un sottomarino sconosciuto ha affondato l'incrociatore Helle. Pensiamo si tratti di un sottomarino italiano.» «Ma perché devo andarci io in Italia? Insisto, sono più utile a Berlino.» «Deve andare in Italia perché è amica di Carla Alessandrini.» «Questo è vero, ma...» «Non c'è "ma" che tenga» la interruppe Murray. «Come lei sa, il Duce ci ha dichiarato guerra. Non che ci preoccupi troppo, ma un nemico non deve mai essere sottovalutato. La signora Alessandrini la aiuterà a introdursi nell'alta società. L'unica cosa che le chiedo è di ascoltare, di prendere nota di qualunque dettaglio le sembri interessante e di comunicarcelo. È lo stesso lavoro che ha svolto a Berlino. Lei è una ragazza aggraziata, beneducata, capace di instaurare relazioni importanti; non stona negli ambienti eleganti né in quelli del potere.» «Ma non posso sfruttare Carla!» «Non le sto chiedendo questo; ma, a quanto ne so, la sua amica non è una sostenitrice del Duce e inoltre è in contatto con la Resistenza...» «Carla? Non è possibile! È una grande cantante lirica... È vero che è contraria al fascismo, ma questo non significa che voglia mettersi nei pasticci.» «Ma non le sembra che l'abbia già fatto aiutando quella ragazza ebrea a fuggire? Rachel, credo si chiami, o mi sbaglio?» «Ma quello era un caso molto particolare» protestò Amelia. «Vada a Milano, o dovunque si trovi adesso la grande cantante, e ci riferisca quello che si dice alla "corte" del Duce. È

questa la sua missione. Abbiamo bisogno che la signora Alessandrini collabori con noi. Ha libero accesso a tutti i centri di potere in Italia. Mussolini è il suo primo ammiratore.» «E cosa dirò a Carla?» «Non le menta, ma eviti di rivelarle tutta la verità.» «E come?» «Finora l'ha fatto benissimo.» «Ma cos'è che vuole sapere?» «Non lo so, me lo dirà lei.» «Come farò a mettermi in contatto con Londra?» «Le darò un indirizzo di Madrid a cui scrivere. Manderà lettere apparentemente indirizzate a un'altra amica. Il codice cifrato sarà diverso da quello che usava a Berlino. Gliene insegneremo uno nuovo, non credo che ci metterà molto a impararlo. Se invece dovesse comunicarci qualcosa di urgente, andrà a Madrid, con la scusa che la sua famiglia ha bisogno di lei, e si metterà in contatto con il comandante Jim Finley. Lavora all'ambasciata come funzionario di basso livello, ma sta con noi. Prima che se ne vada le dirò come raggiungerlo. Tra una settimana la voglio in Italia. Non credo che abbia bisogno di una copertura particolare se va come amica su invito di Carla Alessandrini. A proposito, mi sono permesso di mandarle un telegramma a suo nome, per annunciarle che andrà a trovarla, e lei ha risposto che ne è entusiasta.» «Ha usato il mio nome per mettersi in contatto con Carla?» fece Amelia, incredula. «Ho velocizzato la pratica, tutto qui.» In realtà Amelia non era poi tanto sorpresa di sapere che Carla era in contatto con la Resistenza. La sua amica era una donna appassionata, con un'idea precisa di cosa significasse il fascismo e di quanto la ripugnasse. Il comandante aveva previsto che Amelia si recasse a Roma passando da Lisbona e acconsentì malvolentieri a permetterle di trascorrere qualche giorno a Madrid dalla sua famiglia.

Amelia arrivò il 1° settembre. Dietro di sé lasciava un paese che sopportava stoicamente i cruenti attacchi della Luftwaffe non soltanto a Londra, ma anche in molte altre città: Liverpool, Manchester, Bristol, Worcester, Durham, Gloucester e Portsmouth erano tra quelle più colpite. Naturalmente la RAF rispondeva colpo su colpo agli attacchi della Luftwaffe: i bombardamenti a Berlino si intensificavano ogni giorno di più. Nel frattempo, Winston Churchill portava avanti la sua missione diplomatica segreta con gli Stati Uniti, cercando di assicurare al presidente Roosevelt che la Gran Bretagna non solo non sarebbe stata sconfitta, ma avrebbe addirittura potuto vincere la guerra; a condizione che, ovviamente, potesse contare sull'aiuto concreto degli Stati Uniti. Churchill prospettava a Roosevelt un futuro nero nel caso in cui gli aiuti non fossero arrivati e Hitler fosse riuscito a prendere il controllo dell'Atlantico, minacciando direttamente gli Stati Uniti. Insomma, Churchill cercava di convincere Roosevelt che il trionfo del Regno Unito fosse di vitale importanza per il suo paese. La situazione finanziaria del Regno Unito era sempre più critica e si dovette arrivare alla bancarotta perché gli Stati Uniti si rendessero conto che, se non fossero intervenuti, ben presto si sarebbero trovati Hitler sulle loro coste. Il 2 settembre 1940 gli Stati Uniti concessero cinquanta cacciatorpediniere alla Gran Bretagna, in cambio di basi in tutto il mondo... Il maggiore Hurley si schiarì la voce. Sembrava giunto alla fine del suo racconto. Guardò platealmente l'orologio. Non sapevo se mi avrebbe congedato senza darmi ulteriori informazioni, o se mi avrebbe rimandato da lady Victoria; preferii non dire niente. Avevo ascoltato in silenzio, avvinto dalla narrazione, senza fargli nemmeno una domanda. «La sua bisnonna ha svolto un ruolo di primo piano anche in Italia. Ma forse lei dovrebbe scoprire cos'ha fatto quando è

tornata a Madrid. Purtroppo, su questo io non posso esserle utile. Quanto all'Italia, sarò molto lieto di fornirle qualche informazione sul lavoro di Amelia in quel periodo, ma i dati in mio possesso non sono molto esaurienti perché negli archivi non ho trovato granché. Però lei mi ha detto di aver conosciuto una professoressa molto preparata sulla vita di Carla Alessandrini; magari lei saprà darle maggiori dettagli in merito. O forse no... Comunque, adesso devo andare e potrò riceverla di nuovo solo tra qualche giorno.» Stavo per protestare, ma poi pensai che al maggiore William Hurley sarebbe importato ben poco delle mie lamentele. Lui aveva le informazioni che mi interessavano e le elargiva come meglio credeva; perciò dissi che gli ero eternamente grato per l'aiuto. «Senza di lei non potrei portare avanti le mie ricerche» lo lusingai. «Ovviamente no, ma, come può capire, ho altri doveri e responsabilità; perciò non posso riceverla che tra qualche giorno, facciamo mercoledì della prossima settimana. Telefoni martedì alla mia segretaria per avere conferma che io sia disponibile.» Lasciai la casa del maggiore un po' contrariato. Però non tutto il male veniva per nuocere, perché potevo telefonare a Francesca Veneziani, rimproverandola di non avermi detto niente sulle attività politiche di Carla Alessandrini e con quella scusa andare a trovarla a Roma. Non volevo abusare dei mezzi che la signora Laura metteva a mia disposizione per le indagini su Amelia, ma mi convinsi che quel viaggio fosse più che giustificato. Mi succedeva la stessa cosa che alla mia bisnonna: non mi sentivo a mio agio a Londra. Telefonai a mia madre aspettandomi la consueta scenata, invece la trovai sarcastica e distaccata. «Ah, Guillermo? Sono contenta di sentirti.» «Davvero? Non mi sembri entusiasta di sapere che sto bene.»

«Be', immagino che tu stia bene, ormai sei grande, perciò perché dovresti chiamarmi? Basta che mi fai gli auguri per Natale e per il mio compleanno... ovvio che, per farlo, dovresti ricordartene, e visto che sei sommerso dal lavoro...» Ecco qual era il problema! Mi ero dimenticato del suo compleanno. Mia madre non me l'avrebbe perdonato, perché tra i suoi riti immutabili c'era la cena del giorno del suo compleanno, quella del mio e quella della vigilia di Natale. Le altre sere dell'anno le erano indifferenti, ma quelle tre per lei erano sacre. «Perdonami, mamma, ma non sai quanto sono incasinato per le ricerche su tua nonna.» «Ti ho già detto che non m'importa niente di quello che ha fatto quella benedetta donna. E non devi scusarti, non ce n'è motivo, sei libero di telefonare a chi vuoi e quando vuoi.» «Stavo proprio pensando di venire a Madrid e portarti a cena fuori» mentii, improvvisando. «Ma non mi dire! Che premuroso!» «Senti, domani sono a Madrid e vengo a prenderti alle nove. Decidi tu dove vuoi che ti porti a cena.»

9

Nel momento in cui entrai nel mio appartamento, mi resi conto di essere contento di trovarmi di nuovo a casa. Pensai a quanto erano confortevoli quelle quattro mura arredate con i mobili dell'Ikea. Era da tanto tempo che me ne andavo in giro per il mondo alla ricerca di Amelia Garayoa senza quasi più passare da casa. Mi bastò un'occhiata per rendermi conto che l'appartamento aveva bisogno di un'urgente ripulita e mi ripromisi di convincere mia madre a mandarmi la sua donna delle pulizie, giurandole che l'avrei pagata io. Mi feci una doccia e poi mi buttai sul letto. Quanto mi era mancato il mio letto! Mi addormentai all'istante. Dovevo avere un angelo custode che voleva proteggermi dall'ira di mia madre, perché se quel giorno non mi fossi presentato a casa sua per portarla fuori a cena, sarebbe stata capace di non parlarmi più per il resto della sua vita. Mi svegliai di soprassalto cercando l'orologio. Le otto e mezzo! Mi alzai di scatto e andai di nuovo a infilarmi sotto la doccia. Alle nove in punto, con i capelli bagnati fradici, passai a prenderla. «In che stato sei!» mi disse a mo' di saluto, senza darmi nemmeno un bacio. «Non ti piaccio? Io invece ti trovo bellissima!» «Certo, ma tu sei un disastro. Sai a cosa serve il ferro da stiro? Ovviamente sì, perché sei un ragazzo sveglio.» Il suo sarcasmo mi infastidiva, anche se aveva ragione: la camicia che indossavo era stropicciata e i jeans avrebbero avuto bisogno di una lavata.

«Ho a malapena avuto il tempo di disfare la valigia. Ma l'importante è che sia qui, non sai quanta voglia avevo di vederti.» «Acqua! Per favore, portatemi dell'acqua!» gridò mia madre. «Ma cosa ti succede?» chiesi, preoccupato. «La tua faccia tosta mi fa venire le palpitazioni.» «Mi hai fatto prendere uno spavento!» Andammo al ristorante che aveva scelto. La conversazione continuò sullo stesso tono per tutta la serata. Mi pentii di averla invitata a cena. Inoltre, per gravare il più possibile sulle mie disastrate finanze, mia madre decise, pur essendo praticamente astemia, di pasteggiare a champagne e, come se si trattasse di gazzosa, ordinò una bottiglia di Bollinger. Il mattino dopo telefonai alla signora Laura e le chiesi se voleva che andassi a trovarla per raccontarle tutto quello che avevo scoperto fino a quel momento. «Preferisco che mi consegni la storia scritta quando l'avrà finita.» «È per darle modo di controllare che sto facendo progressi. Le assicuro che la vita di Amelia Garayoa è degna di un romanzo.» «Bene. Quando saprà ogni cosa, la scriva e me la porti. È quanto abbiamo pattuito, no?» «Ma certo, signora Laura, farò così.» «Le serve qualcos'altro?» «No, per ora me la cavo. Il professor Soler mi è di grande aiuto. A proposito, mi sono offerto di parlargli delle mie ricerche, ma mi ha detto che non vuole sapere niente che non sia imprescindibile per aiutarmi.» «Ed è giusto così. Pablo è un caro amico, ma non fa parte della famiglia, e ci sono cose... insomma, che né lui né nessun altro devono sapere.» «Devo telefonargli perché ho bisogno che mi parli di quando Amelia è stata a Madrid all'inizio di settembre del 1940.» «Se vuole può parlare con Edurne, lei potrà aiutarla.»

«E lei, signora Laura, non ricorda niente di quel periodo?» «Certo! Però non voglio essere io a dire quanto è successo, ma la memoria neutrale di chi era con noi.» «È sicura che Edurne sia la persona giusta? Alla poverina sembra pesare molto il fatto di dover ricordare.» «È logico, a noi vecchi non piace che si frughi nei nostri ricordi. Edurne è molto riservata e leale e per lei non è facile raccontare le cose di famiglia a un estraneo.» «Anch'io faccio parte della famiglia: in fondo Amelia era la mia bisnonna. E lei è una specie di prozia.» «Non dica sciocchezze! Insomma, credo che dovrebbe parlare con Edurne. Se per lei va bene, venga da noi domattina presto, che è il momento in cui ha la mente più fresca.» Non so perché la signora Laura insistesse nel farmi parlare con Edurne. Quella povera donna non riusciva a nascondere il suo disagio nel raccontare a un estraneo gli aspetti più intimi della famiglia a cui aveva dedicato tutta la vita. Quando arrivai a casa Garayoa, la domestica mi annunciò che Edurne mi stava aspettando, ma prima dovevo andare in salotto dalle signore. Lì c'erano la signora Laura e la signora Melita. Quest'ultima non aveva un bell'aspetto, sembrava stanca. «Sta faticando molto per ricostruire la storia?» mi chiese con un filo di voce. «Non è facile, signora Melita, ma stia tranquilla: credo che riuscirò a scoprire almeno i fatti più importanti della vita della mia bisnonna.» La signora Laura si agitò sul divano e mi ordinò di non perdere tempo. «Non è solo per le spese che dobbiamo sostenere, ma anche perché siamo troppo vecchie per aspettare.» «Non preoccupatevi, sono il primo ad avere tutto l'interesse a concludere al più presto le ricerche. Ho trascurato il mio

lavoro e mia madre tra poco non mi rivolgerà più la parola.» «Sua madre è ancora viva?» mi chiese la signora Melita. La domanda mi stupì perché le avevo già spiegato la mia condizione familiare. «Sì, fortunatamente è ancora viva» risposi, sconcertato. «Ah. Io invece ho perso la mia quando ero molto giovane.» «Bene, basta chiacchiere» li interruppe la signora Laura. «Guillermo, lei è qui per lavorare, perciò vada pure a parlare con Edurne. La sta aspettando in biblioteca.» L'anziana donna era seduta in poltrona e sembrava appisolata. Trasalì sentendomi entrare. «Come sta?» «Bene, bene» rispose imbarazzata. «Non voglio disturbarla troppo, ma forse si ricorda di quando Amelia è venuta a Madrid nel settembre del 1940. Credo che fosse diretta a Roma, ma prima è passata a trovare la famiglia.» «Amelia andava e veniva di continuo, e spesso non ci diceva da dove arrivava né dove fosse diretta.» «Ma ricorda cos'è successo in quell'occasione? Era il settembre 1940 e credo fosse venuta da sola, senza Albert James, il giornalista. Nella sua visita precedente aveva scoperto che Águeda era incinta...» «Ah, certo che mi ricordo! Povera Amelia. Che dispiacere le aveva dato! Águeda aveva portato Javier al parco del Retiro per farlo vedere ad Amelia, ma le si era aperto il cappotto e ci eravamo accorte che era ingrassata, perché era incinta...» «Sì, questo lo so, ma vorrei sapere cos'è successo la volta successiva che Amelia è venuta a trovarvi.» Edurne, con voce stanca, cominciò a parlare. Non l'aspettavamo. Si presentò senza avvisare. Ormai era diventata un'abitudine per lei. Non sapevamo mai quando sarebbe arrivata. Antonietta stava meglio, grazie alle medicine che il signor Armando poteva comprare con i soldi di Amelia...

be', medicinali e cibo, perché Antonietta aveva bisogno di nutrirsi. Il denaro che mandava Amelia non bastava certo per grandi lussi, ma era più che sufficiente per mangiare. A quell'epoca si potevano trovare cose buone al mercato nero, ma costavano. Credo che fosse sera quando Amelia si presentò a casa; sì, era sera, perché ero in cucina a preparare la cena e il signorino Jesús andò ad aprire la porta. «Mamma, mamma, vieni, c'è la cugina Amelia!» Andammo tutti nell'ingresso, dove Amelia stava abbracciando Jesús. «Ma come ti sei fatto bello, cugino! Sei cresciuto un sacco e hai un bell'aspetto, sembri meno pallido.» Anche Jesús si stava riprendendo. Era sempre stato un bambino deboluccio e, poveretto, si era ammalato durante la guerra. Ma in quei giorni era migliorato. Le medicine, e soprattutto il cibo, fanno miracoli. Antonietta abbracciò sua sorella e non ci fu verso di separarle. La signorina Laura scoppiò a piangere per l'emozione e il signor Armando tratteneva a stento le lacrime. Tutti volevamo abbracciarla e baciarla. Fu la signora Elena, con il suo senso pratico, a riportare l'ordine fra tutti quegli abbracci e a dirci di andare in salotto. Ordinò a Pablo di portare la valigia di Amelia in camera di Antonietta e mandò me a finire di preparare la cena e a mettere un piatto in più a tavola. Amelia fu molto affettuosa con tutti noi; a me diede due baci, e anche a Pablo. Jesús e Pablo erano buoni amici e, adesso che Jesús stava meglio, la signora Elena aveva messo il letto di Pablo nella stanza del figlio, perché diceva che il ragazzo stava crescendo e non era opportuno che dormisse in camera con me. Quella sera per cena c'erano riso al pomodoro e pancetta fritta. La pancetta l'avevo comprata io quello stesso pomeriggio da un tizio che vendeva al mercato nero e mi faceva la corte.

Rufino, era questo il nome dell'uomo, mi aveva fatta avvisare che gli era arrivata della pancetta fresca; e così la signora Elena mi aveva mandata a comprarla. Cosa stavo dicendo? Sì... ora ricordo... Amelia ci disse che non sarebbe rimasta per molto tempo, soltanto due o tre giorni perché doveva lavorare. Era l'assistente di Albert James, il giornalista americano, che a quanto pareva si trovava a New York ma l'aveva incaricata di andare a Roma per un reportage, non ricordo su cosa. Fu una fortuna che l'avesse mandata a Roma, così aveva fatto un salto a Madrid. «Da dove sei passata venendo da Londra?» le chiese il signor Armando. «Da Lisbona, è la via più sicura.» «Gli inglesi non sono contrari a Franco» commentò il signor Armando. «Non possono combattere contro Hitler e contro Franco; prima devono sconfiggere la Germania, poi verrà tutto il resto.» «Ne sei sicura? La Gran Bretagna continua a concedere a Franco i navicert per farci arrivare gasolio e grano; non che ce ne sia molto, ma qualcosa si trova.» «Vedrai che le cose cambieranno quando avranno sconfitto Hitler.» La aggiornammo sulle novità della famiglia. Antonietta disse a sua sorella che avrebbe voluto lavorare, ma che la signora Elena non glielo permetteva. «Non mi lascia nemmeno aiutare in cucina» protestò Antonietta. «Ma certo, non sei ancora del tutto guarita!» esclamò, arrabbiata, sua zia. «La zia ha ragione. Il miglior aiuto che puoi dare alla famiglia è riprenderti completamente» replicò Amelia. «E il medico ha detto che dobbiamo stare attenti perché potrebbe avere una ricaduta» aggiunse il signor Armando. «E tu, Laura, insegni sempre a scuola?»

«Sì, quest'anno faccio lezione di francese. Le suore mi trattano molto bene. Hanno cambiato la madre superiora; suor Encarnación non c'è più, la poveretta è morta di polmonite, e al suo posto hanno messo suor Maria de las Virtudes, che è stata la nostra professoressa di pianoforte, te la ricordi?» «Certo! Era molto affettuosa con noi, una brava persona.» «Dice che in tutta la scuola nessuna suora parla francese come me. Perciò quest'anno insegno francese e, appena Antonietta starà meglio, forse riuscirò a convincere suor Maria a lasciarle dare lezioni di piano... ma prima deve guarire completamente...» «Sarebbe bellissimo! Vedi, Antonietta, che potrai lavorare? Ma devi curarti. Finché gli zii non mi diranno che stai bene, ti proibisco di fare qualsiasi cosa.» Il signor Armando raccontò come gli andavano le cose in ufficio, nel suo nuovo ruolo di praticante. «Devo sopportare parecchie ingiustizie, ma non mi lamento perché in fin dei conti quello che guadagno ci permette di tirare avanti. Sono schedato come "rosso", quindi non mi lasciano dibattere i casi in tribunale, ma almeno lavoro nel mio campo, preparo i casi che poi portano avanti altri.» «Lo sfruttano, ogni giorno si porta il lavoro a casa e non ha né sabati né domeniche» si lamentò la signora Elena. «Sì, ma ho un impiego, ed è già molto se consideriamo che qualche mese fa stavano per fucilarmi. Non mi lamento, Amelia mi ha salvato la vita e ho un lavoro, è più di quanto sognassi quando ero in carcere. E poi, con il tuo aiuto, ce la caviamo bene.» «Sapete qualcosa di Lola?» chiese Amelia guardando Pablo. «No, di lei non si sa niente. Pablo va a trovare sua nonna in ospedale, ma la povera donna peggiora ogni giorno. Suo padre gli scrive ogni tanto, ma di Lola non c'è traccia» spiegò Laura. «I ragazzi vanno a scuola» aggiunse il signor Armando. «Sono svegli e prendono buoni voti. Jesús è molto portato per la matematica e Pablo per il latino e per la storia, perciò si aiutano

a vicenda. Sono come fratelli, a volte litigano perfino come fratelli.» «Ma non è vero che litighiamo!» protestò Jesús. «Be', a volte ho sentito certe grida provenire dalla vostra stanza» continuò il signor Armando. «Ma sono sciocchezze! Non preoccuparti, Amelia, vado d'accordo con Pablo. Non so cosa farei senza di lui in questa casa con tante donne e così prepotenti» disse Jesús ridendo. «Io... be'... sono molto grato che mi teniate qui...» sussurrò Pablo. «Figurati! Non devi ringraziarci, ormai sei uno di famiglia» tagliò corto il signor Armando. Amelia passò due giorni in famiglia. Andò a parlare con il medico che aveva in cura Antonietta e chiese alla signorina Laura di accompagnarla a salutare suor Maria de las Virtudes, a cui fece una piccola donazione "per comprare i fiori per la Madonna della cappella". Poi, come tutti temevamo, insisté per vedere suo figlio, il piccolo Javier. La signora Elena non voleva che andassi ad appostarmi nei pressi della casa di Santiago, ma l'insistenza di Amelia fu tale che finì per cedere. «Dopo quanto è successo l'ultima volta, Águeda forse si rifiuterà di farti vedere il bambino» disse la signora Elena. «È mio figlio e voglio vederlo. Non lo capisci, zia? Non posso stare a Madrid e non far nulla per vederlo. Se sapessi quanto mi pento di averlo abbandonato...» Amelia raccontò alla signorina Laura che aveva gli incubi, che spesso di notte si svegliava urlando perché aveva visto una donna che correva portando in braccio Javier. Un giorno mi appostai all'angolo della casa del signor Santiago aspettando che Águeda uscisse. Passai lì tutto il giorno e rientrai a sera inoltrata. Avevo visto soltanto il signor Santiago che usciva di prima mattina e tornava nel pomeriggio, ma di Águeda e di Javier neanche l'ombra.

La signora Elena si innervosì e ci disse che era meglio rimandare a un'altra volta, ma Amelia insisté; non poteva trattenersi a Madrid per molto tempo, era lì già da tre giorni, però non se ne sarebbe andata prima di aver visto suo figlio. Alla fine la signora Elena scoppiò a piangere. «Ma, Elena, cosa ti succede?» chiese il signor Armando, preoccupato per le lacrime della moglie. «Zia... non piangere, non voglio farti soffrire» si scusò Amelia. La signorina Laura abbracciava sua madre non sapendo come consolarla. Quando la signora Elena si fu calmata, calò il silenzio. «Sei così testarda, Amelia! Non volevo dirtelo per non farti soffrire... ma tu insisti e insisti...» «Cosa c'è, zia? Non sarà successo qualcosa a mio figlio...» chiese Amelia, spaventata. «No, Javier sta bene, e a quanto ne so è con i tuoi suoceri.» «Con Manuel e Bianca? Ma perché?» «Perché Águeda ha avuto una bambina, una settimana fa, e sembra sia stato un parto difficile. È in ospedale. Santiago ha portato Javier a casa dei suoi genitori finché Águeda non sarà in grado di tornare a casa con la bambina. Non volevo dirtelo per non darti un dispiacere.» Amelia non pianse. Tremava e fece uno sforzo enorme per controllarsi e per trattenere le lacrime. Quando fu in grado di parlare, con appena un filo di voce, chiese alla zia: «Da quanto tempo lo sai?». «Te l'ho detto, da una settimana; ho incontrato un'amica che non ha perso tempo e mi ha detto che Águeda ha partorito una bambina che sarà battezzata con il nome di Paloma. Mi ha raccontato che il parto si è complicato e la donna ha gridato per quasi due giorni finché non è nata la bambina. Santiago non si è mai allontanato dal suo capezzale. Mi ha anche detto che, fin da quando Águeda è rimasta incinta, Santiago ha assunto un'altra governante per farsi carico delle faccende domestiche e che di

fatto Águeda è diventata la padrona di casa. Non indossa più il grembiule e, anche se Santiago non la porta ancora in visita dagli amici, tutti sanno che vivono insieme.» «Non posso rinfacciargli nulla. Non ho alcun diritto» mormorò Amelia. «Hai ragione, per quanto sia difficile, non puoi farlo. Santiago è un uomo... un uomo giovane, non poteva stare ad aspettarti» disse il signor Armando. «Non ce n'era motivo, zio. Sono stata io ad abbandonarlo e ad andarmene con un altro, lasciandogli un bambino di pochi mesi. Vorrei tanto riuscire a perdonarmi, prima o poi!» «Se vuoi, posso telefonare al signor Manuel e alla signora Bianca e chiedere loro che ti lascino vedere Javier...» suggerì il signor Armando. «Non devi umiliarti, zio, non servirebbe. Sai bene che non mi permetterebbero di avvicinarmi a mio figlio. Speravo che Águeda...» «Ti accompagnerò a casa dei tuoi suoceri e aspetteremo che portino a passeggio il bambino. Almeno lo vedrai da lontano» si offrì Laura. «Mi sembra una buona idea... Rimanderò la partenza di un giorno sperando che... Albert non si arrabbi per il ritardo.» La signora Elena mi ordinò di accompagnare le due cugine. Non voleva che Amelia e la signorina Laura andassero da sole, aveva paura di quello che poteva succedere. Ci appostammo di buon'ora davanti alla casa dei genitori di Santiago e non dovemmo aspettare molto, perché verso le undici vedemmo uscire la signora Bianca che teneva per mano Javier. Il bambino era cresciuto parecchio e sembrava contento con la nonna. La signorina Laura teneva stretto il braccio di Amelia, ma non riuscì a evitare che lei si divincolasse e corresse verso suo figlio. «Javier! Javier! Figlio mio, sono la mamma!» esclamò Amelia. La signora Bianca si fermò di botto e diventò rossa, credo per la rabbia.

«Ma come osi?» gridò ad Amelia. «Come osi presentarti qui? Vattene! Vattene!» Ma Amelia aveva preso Javier tra le braccia e lo stringeva forte, coprendolo di baci. «Il mio bambino! Ma come sei bello! Quanto sei cresciuto! Ti voglio tanto bene, Javier... la mamma ti vuole molto bene!» Spaventato, Javier scoppiò a piangere. La signora Bianca voleva toglierle il bambino, ma Amelia non mollava la presa. Io e la signorina Laura non sapevamo cosa fare. «Per favore, signora Bianca, sia gentile!» la supplicò la signorina Laura. «Si metta nei suoi panni, è la madre del bambino e ha il diritto di vederlo.» «Razza di sgualdrina! Se avesse amato suo figlio non l'avrebbe abbandonato per fuggire con un altro uomo. Lascialo andare, sgualdrina!» gridò, mentre tirava Javier per un braccio. «Signora Bianca, anche lei è madre, lasci che Amelia baci suo figlio!» insisté la signorina Laura. «Se non lo lascia andare, mi metto a gridare più forte, chiamo la polizia e la denuncio. Non è scappata con un comunista? Tutti voi eravate comunisti e dovreste essere in galera. Le rosse sono tutte puttane... Credi che non sappia come ha fatto tuo padre a uscire dal carcere di Ocaňa? Ma per lei uno o cento non fa differenza!» gridò indicando Amelia. La signorina Laura era diventata rossa come un pomodoro e fece una cosa insolita per lei. Afferrò la signora Bianca per un braccio e, torcendoglielo, la separò da Amelia e da Javier. Poi la spinse contro il muro e, immobilizzandola, senza dar retta alle sue grida, le diede un pestone. «Zitta, strega! Lei sì che è una sgualdrina. Non si azzardi mai più a insultare mia cugina, altrimenti... le giuro che se ne pentirà. Mio padre è vivo grazie ad Amelia, perché voi nazionalisti siete una banda di farabutti... fate schifo... lei e i suoi compari non siete degni nemmeno di pulirci le scarpe. Quanto alle puttane, i nazionalisti hanno fatto diventare puttane molte donne perbene: vada nella Gran Via a vedere

quante madri di famiglia si vendono per poter dar da mangiare ai figli. È questa la prosperità promessa da Franco? Ma certo, a lei non manca niente, i suoi amici hanno vinto la guerra... anche se stavano per uccidere suo figlio, perché Santiago non era un fascista, non lo era, grazie a Dio.» La signora Bianca si divincolò dalla stretta della signorina Laura con un forte spintone. Nel frattempo, Amelia cercava di calmare Javier, in lacrime per lo spavento di vedere sua nonna trattata così da due donne che per lui erano sconosciute. «Che le piaccia o no, è mio figlio e non potete ingannarlo dicendogli che ha un'altra madre. Sarò anche la peggiore del mondo e non mi meriterò Javier, ma è mio figlio e voi non potete portarmelo via» disse Amelia affrontando la suocera. «Quando Santiago verrà a sapere quello che avete fatto... Tutte le rosse sono puttane, puttane! Lasciateci in pace, avete fatto abbastanza danni!» Amelia lasciò Javier dopo avergli dato un ultimo bacio. «Figlio mio» gli disse «ti voglio molto bene e, qualunque cosa dicano, non dimenticare mai che sono io tua madre.» Tra le braccia della signora Bianca, il bambino cominciava a calmarsi. La donna entrò nel portone di casa a passi rapidi. Noi ce ne andammo, temendo le conseguenze di quanto era appena successo. Conoscendo Santiago, era certo che non sarebbe rimasto con le mani in mano quando sua madre gli avesse riferito l'accaduto. Il signor Armando cercò di tranquillizzare Amelia e la signorina Laura, assicurando che non avrebbe permesso a Santiago di fare alcunché. Ma la signora Elena non ne era affatto sicura, e così passammo il resto della mattinata e parte del pomeriggio nell'attesa che succedesse qualcosa. E così fu. Erano le nove e mezzo e stavamo cenando quando il campanello suonò insistentemente. La signora Elena mi ordinò di andare ad aprire e io le obbedii tremando, certa che si trattasse di Santiago. Aprii la porta ed era lì. Santiago aveva il volto contratto

dall'ira e si notava che stava facendo un grosso sforzo per trattenersi. Suo padre era con lui. «Dica che siamo qui» mi ordinò senza tanti preamboli. Entrai in sala da pranzo e, balbettando, annunciai il signor Santiago. Il signor Armando ci disse di non muoverci dai nostri posti, avrebbe parlato lui con Santiago. Restammo immobili, in silenzio, spaventati dall'idea di quello che sarebbe potuto succedere. «Buonasera, Santiago, signor Manuel. In cosa posso esservi utile?» «Voglio che una volta per tutte sua nipote stia alla larga dalla mia famiglia. Non ha alcun diritto di spaventare mio figlio. E voglio che sappia che non tollero che si tratti mia madre come oggi ha fatto sua figlia Laura.» Santiago riusciva a stento a contenere la rabbia. «Se qualcuno si azzarda a toccare di nuovo mia moglie o mio nipote con un dito, finirà in galera. Le assicuro che farò tutto il possibile perché sia così» concluse il signor Manuel. «Non ho dubbi che ne sareste capaci, ma nessuno ha mosso un dito contro la signora Bianca. A quanto mi è stato riferito, Laura si è limitata a separarla da Amelia affinché lei potesse prendere in braccio suo figlio. Non hanno mancato di rispetto alla signora Bianca, ma lei invece l'ha fatto, non solo con Amelia e con Laura, ma ha insultato tutta la famiglia.» «Mia moglie è una signora e si comporta sempre come tale, cosa che non si può dire di sua nipote» ribatté il signor Manuel. «Per favore, papà, non è necessario...» disse Santiago, infastidito dal commento del padre. «Se siete venuti qui per insultarci, è meglio che ve ne andiate. Non ammetto nemmeno una parola contro Amelia. Il passato è passato. E tu, Santiago, non hai il diritto di impedirle di vedere suo figlio, né di confondere Javier dicendogli che sua madre è Águeda. È una crudeltà, prima o poi dovrai dirgli come stanno le cose, e credi che Javier ti perdonerà? E il fatto che hai negato a sua madre il diritto di vederlo?»

«Non sono venuto a discutere con lei le mie decisioni, ma a informarla che non tollererò un'altra sceneggiata come quella di stamattina. Mio figlio sta crescendo, è felice, ha una famiglia, e non sono stato io a separarlo dalla madre.» «Signor Armando» lo interruppe il signor Manuel «è avvertito: farò qualunque cosa pur di mandarvi in rovina. Lei perderà il lavoro e posso anche far riesaminare la sua sentenza e farla tornare in prigione. In fin dei conti, tutti sanno come ha fatto a uscire, i corrotti ci sono ovunque, e chi l'ha rilasciata in cambio dei favori di Amelia è una mela marcia.» «Come osa fare tali insinuazioni? Sì, sono libero grazie a lei, grazie ai soldi che ha dovuto pagare a un farabutto che salva vite in cambio di denaro: ecco la gentaglia che bazzica i nazionalisti. Ma non si azzardi a dire nemmeno una parola contro Amelia!» «Papà, non era necessario dire queste cose!» Santiago rimproverò suo padre. «Ah! Non lo sa? Non posso crederlo, è sulla bocca di tutta Madrid! Chieda a sua nipote con cos'altro ha pagato, oltre ai soldi, per farla uscire di galera» insisté il signor Manuel. In quel momento, Amelia si affacciò all'ingresso e si intromise nella discussione. «Potete insultarmi quanto volete. Non vi nego questo diritto dopo quello che ho fatto, ma sei tu, Santiago, che devi lasciare in pace la mia famiglia. Loro non hanno alcuna colpa. Quanto a Javier... è mio figlio, anche se la cosa ti pesa, e non puoi farci niente. Io non posso tornare indietro, però, se potessi, ti assicuro che non commetterei gli stessi errori. Sono pentita e non me lo perdonerò per il resto della vita, ma ormai non posso più cambiare le cose.» «Amelia, per favore, torna dentro, lascia che risolva io la faccenda. Non hanno alcun diritto di sputare veleno su di te, non intendo tollerare queste insinuazioni.» «No, zio, sono io che non posso permettere che ti insultino o ti minaccino. La credevo diverso, signor Manuel: l'ho sempre

considerata un galantuomo incapace di bassezze come quella che ha appena commesso, dicendo quel che ha detto. Non sono io a essere indecente per aver salvato mio zio dal plotone d'esecuzione. I suoi amici nazionalisti non si accontentano di aver vinto la guerra, ma si stanno vendicando di chi ha combattuto con i repubblicani. Tra l'altro, anche tu stavi dalla loro parte, Santiago, a differenza di tuo padre. Franco diventerà più forte per aver fucilato migliaia di uomini che stavano nella fazione opposta alla sua? No, non è così; sarà temuto e odiato, ma questo non lo renderà più forte.» «Stai lontana da mio figlio» disse Santiago lanciandole un'occhiata furiosa. «No, non starò lontana da Javier; cercherò mille volte di vederlo, di passare qualche minuto con lui, di ricordargli che sono sua madre e dirgli che, nonostante ciò che ho fatto, lo amo con tutta l'anima. E continuerò a pregare, a chiedere ogni giorno perdono a Dio e a sperare che anche Javier prima o poi mi perdoni.» «Ottengo sempre quello che voglio: non permetterò ad alcun membro di questa famiglia di avvicinarsi alla mia. Che sia chiaro, altrimenti, ne pagherete le conseguenze» sentenziò il signor Manuel. Santiago girò i tacchi e prese suo padre per un braccio, obbligandolo a lasciare la casa senza nemmeno salutare. Ci precipitammo tutti nell'ingresso. Il signor Armando fissava Amelia con le lacrime agli occhi. «Ma cos'hai fatto per tirarmi fuori di prigione?» chiese temendo la risposta. «Niente che possa disonorarmi. Ho pagato il prezzo pattuito con quella canaglia di Agapito, che ha fatto da intermediario. E non è chi paga a commettere un errore, ma chi incassa.» «Amelia, maledizione, voglio sapere cos'hai fatto!» insisté il signor Armando. «Per favore, zio! Ho fatto quello che mi dettava il senso del dovere verso di te, perché ti voglio tanto bene. E non me ne

pento, farei qualunque cosa per salvare una vita. Non è mai troppo alto il prezzo da pagare per una vita, tanto meno per quella di qualcuno che ami.» Il signor Armando era avvilito. La signora Elena lo abbracciò, cercando di trasmettergli tutto l'amore di cui in quel momento aveva bisogno. «Amelia è stata molto generosa con noi, non metterla in imbarazzo con le domande» disse al marito. «Le saremo sempre grati per averti salvato la vita.» «Ma non a qualunque prezzo!» «Non dire una cosa simile! Non so cos'ha fatto Amelia, a parte dare dei soldi a quel farabutto, ma ti giuro che anch'io avrei fatto qualsiasi cosa mi avessero chiesto, pur di salvarti.» Amelia pregò la famiglia di riunirsi in salotto. «Quello che ha insinuato Santiago... be', è vero. Nessuno lo sapeva, tranne Laura, o almeno così credevo, ma a quanto pare quella canaglia di Agapito ha raccontato in giro che mi sono concessa a lui in cambio della tua salvezza. Avrei preferito che né tu né nessun altro della famiglia ne venisse mai a conoscenza, e ti giuro, zio, che io l'ho già dimenticato.» «Mio Dio, Amelia! Mio Dio! Quanto avrebbe sofferto tuo padre se avesse saputo una cosa simile! Io non merito di vivere a costo di un sacrificio così grande... non potrò mai sdebitarmi...» «Per favore, zio, non dire queste cose! Non mi devi niente, non ci sono debiti fra le persone che si vogliono bene. E ti ripeto che non mi pento di ciò che ho fatto, nemmeno per un giorno ho provato rimorsi di coscienza; l'unica cosa che desidero è che quell'Agapito prenda la sifilide e muoia. Lo odio profondamente. Ma io non mi sento sporca, quindi non rimproverarmi. So che avresti dato la tua vita per salvarmi e io non ho fatto altro che concedere pochi minuti della mia a un mascalzone.» Quella notte nessuno di noi riuscì a dormire. Sentii Amelia parlare fino all'alba con Laura e Antonietta. La signora Elena si

alzò a preparare una tisana per il signor Armando, e Jesús e Pablo bisbigliavano. Eravamo sconvolti. Amelia se ne andò il giorno dopo e non tornò per parecchio tempo. Edurne tacque e chiuse gli occhi. La sua sofferenza era palese. Mi dispiaceva che la signora Laura la obbligasse a ricordare. Non so perché lo feci, ma le presi la mano e mi chinai verso di lei. «Molte grazie, non sa quanto le sono grato per l'aiuto. Senza di lei non sarei in grado di ricostruire la vita della mia bisnonna.» «E perché deve farlo? Se lei non si fosse presentato in questa casa, tutto sarebbe andato avanti come prima e saremmo morte tranquille senza guardarci indietro.» «Mi dispiace, Edurne, mi dispiace davvero.» «Dovrò ancora parlare con lei?» «Cercherò di non disturbarla più, glielo prometto.» Volevo salutare le due padrone di casa, ma la domestica mi disse che le signore erano uscite. Non le credetti, tuttavia accettai la scusa. Non solo mi stavano pagando uno stipendio, ma senza il loro aiuto non sarei mai riuscito a scoprire nulla su Amelia. Avevano tutto il diritto di ignorarmi. Uscii da quella casa con una strana sensazione, quasi di fastidio. Non sapevo bene perché; suppongo che il racconto di Edurne mi avesse colpito. Mi stava antipatico quel signor Manuel; mi infastidiva dover riconoscere che ero imparentato con lui. Era il nonno di mio nonno, quindi uno di famiglia. Tornai nel mio appartamento con l'intenzione di mettermi a scrivere quello che avevo scoperto nelle ultime settimane, ma era tanto il materiale accumulato che prima decisi di trascrivere le registrazioni e riordinare gli appunti, altrimenti rischiavo di perdermi. Lavorai per il resto della giornata e per buona parte della notte. Volevo andare al più presto a Roma a parlare con

Francesca Veneziani. Prima di partire, telefonai a Pepe per sentire come andavano le cose al giornale on line. Ero stato licenziato, ma forse si sarebbero impietositi e mi avrebbero riassunto. «Assolutamente no, Guillermo! Il capo non vuole più saperne di te. Dice che sei inaffidabile e ha ragione. Sono stanco di difenderti, quindi arrangiati, amico.» Non volevo preoccuparmi, ma mia madre aveva ragione: una volta finite le ricerche su Amelia e scritta la storia, forse non avrei più trovato lavoro. Mi dissi che ormai non potevo più tornare indietro e decisi di fare mia la frase di Giulio Cesare nel De bello Gallico: "Quando arriveremo a quel fiume, parleremo di quel ponte". Del mio futuro mi sarei occupato più avanti.

10

Scesi all'hotel d'Inghilterra, nei pressi di piazza di Spagna e a due passi dalla casa di Francesca. Ero certo che mi avrebbe invitato a cena, e così fece, perciò comprai una bottiglia di Chianti e mi presentai puntuale. «Ciao, caro, come stai?» mi salutò. «Abbastanza bene, per ora» risposi con un sorriso. La rimproverai di non avermi raccontato che Carla Alessandrini si era lasciata coinvolgere dalla politica. «Te l'avevo detto che Carla era una donna singolare» mi rispose, come per scusarsi. «Singolare mi sembra riduttivo. Ha aiutato una ragazza ebrea a fuggire da Berlino, attraversando con lei mezza Europa, e a quanto pare ha avuto contatti con i partigiani... Insomma, mi sembra che abbia fatto ben più che gorgheggiare.» «È vero. Carla era una donna straordinaria.» «Già, però non mi hai detto niente di tutto questo.» «Non me l'hai chiesto.» «Okay, allora te lo chiedo adesso: voglio sapere tutto, assolutamente tutto su Carla Alessandrini. Non m'importa se si tratta di politica o di giardinaggio, tutto significa tutto.» «Non so se potrò raccontarti tutto stavolta.» «Ah, no? E perché?» chiesi, infastidito. «Perché il professor Soler mi ha detto che devi procedere passo a passo, trovare un filo conduttore e seguirlo, per scoprire ogni cosa nel giusto ordine. Io non so quale sia questo ordine, ma non dubitare che ogni volta che salterà fuori Carla

potrai venire da me.» «Questa sì che è buona! Sono un po' stufo di andare avanti e indietro e di lasciarmi manovrare come una marionetta.» Francesca si strinse nelle spalle chiarendo che la faccenda non la riguardava. «Cosa vuoi sapere?» «Voglio sapere cosa fece la divina Carla nel settembre del 1940 quando la mia bisnonna andò a trovarla a Roma, e se quello che sai di quell'epoca l'hai raccontato a qualcuno, perché nel libro sulla Alessandrini non ne fai menzione.» «E perché dovrei riferire fatti che non hanno niente a che vedere con la sua arte?» «Sei la sua biografa.» «Sono qualcosa di più, sono la custode della sua memoria. Be', ti confesserò un segreto: sto scrivendo un nuovo libro su di lei, ma mi ci vorrà tempo, perché non so molto di quello che ha fatto durante la Seconda guerra mondiale. Cominciamo?» Amelia arrivò a Milano il 5 settembre 1940. Vittorio Leonardi, il marito di Carla, andò a prenderla in stazione. «Che gioia averti qui! Carla è impaziente di vederti, devi raccontarci com'è andata con Rachel...» All'uscita li aspettava un autista con una Fiat ultimo modello. Carla era contenta della visita di Amelia. Quando aveva ricevuto il telegramma che annunciava il suo arrivo, si era impegnata a rinnovare l'arredamento di una stanza della sua casa, secondo quelli che pensava fossero i gusti della sua protetta. Mentre la cameriera pensava a disfare i bagagli, le due donne non la smettevano di parlare. Amelia le spiegò che il suo rapporto con Albert non stava attraversando un buon momento e Carla le consigliò di lasciarlo, se non lo amava. «È un brav'uomo, non si merita di soffrire, nemmeno per te, cara. Assomiglia a Vittorio, solo che mio marito è felice così...

Albert invece aspira ad avere tutto il tuo amore e, se non glielo puoi dare, concedigli l'opportunità di trovarlo con qualcun'altra.» «Hai ragione, ma puoi anche non crederci: a modo mio, lo amo.» «Te l'ho già detto a Berlino: tu non lo ami, hai bisogno di lui, è il tuo rifugio. Ma a te non serve un uomo per sentirti sicura: hai me e Vittorio, sai che ti vogliamo bene come se fossi nostra figlia. E adesso dimmi, come mai ti sei decisa a venire?» Carla era troppo intelligente per credere che Amelia fosse lì solo per vederla. La diva era una donna appassionata e franca e non sopportava le mezze verità. Amelia si confidò con lei. «Dopo che abbiamo aiutato Rachel a fuggire da Berlino, lo zio di Albert, che lavora all'Ammiragliato, mi ha proposto di svolgere qualche incarico per lui. Ho accettato. Sono tornata a Berlino e tramite Max von Schumann sono riuscita a scoprire che esistono gruppi di opposizione a Hitler sparsi in tutta la Germania; alcuni sono cristiani, altri socialisti o anarchici, ma non c'è coordinamento tra loro, ognuno funziona in modo autonomo, il che ne limita la forza. Ma sapere che c'è gente che si oppone a Hitler, anche se il suo numero è esiguo, è un sollievo, e per i britannici rappresenta un'informazione fondamentale.» «Churchill è un uomo straordinario. Ho avuto l'occasione di parlare con lui una volta: era assolutamente contrario alla politica di riconciliazione. Sconfiggerà Hitler, non ho alcun dubbio. Se dirige lui la guerra, vincerà.» «In questa guerra si gioca il futuro di tutta l'Europa. Spero che, una volta deposto Hitler, poi le potenze europee ci salveranno da Franco.» «Non essere ingenua, Amelia! Franco non dà fastidio, lo preferiscono al governo del Fronte popolare. Non vogliono i russi dentro casa, non permetteranno mai che la Spagna diventi una base dell'Unione Sovietica.»

«Non lo vorrei nemmeno io, ma spero in una democrazia come quella inglese.» «Magari! Mi rendo conto che sopportare il regime di Franco debba essere come per noi sopportare Mussolini.» «Gli inglesi dicono che sei in contatto con i partigiani...» «Dicono così? Può darsi, e allora?» «Pensano che tu aiuterai chiunque lotti contro il fascismo in Italia e contro Hitler in Europa.» «Non è così semplice. Amo il mio paese, non vivrei in nessun altro posto al mondo, e quando sono in viaggio non vedo l'ora di tornare. Non tradirei mai l'Italia, ma il Duce... Non lo sopporto! È un vanesio che sa come infiammare le masse. Sono raccapricciata all'idea che ci rappresenti, ci ha coinvolti nella guerra in modo vergognoso. Quindi aiuterò il mio paese a liberarsi di lui e... so che non ti piacerà, ma provo simpatia per i comunisti, anche se è un po' come darmi la zappa sui piedi: se governassero loro, cosa ne sarebbe di me? Ma questo non è importante adesso, ciò che conta è togliere di mezzo il Duce e tirare fuori l'Italia dalla guerra.» «Posso chiederti come hai fatto a contattare i partigiani?» «La gente mi conosce, si fida di me. Sono stati loro ad avvicinarmi per chiedermi qualche favore... niente di importante, per il momento. Devi sapere che il mio vecchio maestro di canto è comunista. Gli devo molto: in realtà, tutto quello che sono. Te lo farò conoscere. Si chiama Matteo Marchetti ed è una leggenda tra i cantanti d'opera. Non molto tempo fa mi ha chiesto di nascondere un importante partigiano: era il tramite con la gente di fuori e la polizia gli stava alle calcagna. Gli ho dato rifugio in casa mia e poi sono riuscita a portarlo in Svizzera, un po' come hai fatto tu con Rachel. E a te cos'ha chiesto lo zio di Albert?» «Vuol sapere cosa intende fare Mussolini, fino a che punto ha intenzione di farsi coinvolgere nella guerra. Mi ha chiesto di approfittare delle tue conoscenze; sa che tu frequenti l'alta società e vuole che tenga le orecchie bene aperte. Magari scopro

qualcosa di importante.» «E così sei diventata una piccola spia» disse Carla ridendo. «Non dirlo! Non è così che mi sento, finora non ho fatto altro che ascoltare e osservare attentamente quello che succede intorno a me. Non so nemmeno se quel che faccio ha importanza.» «Bene, organizzerò una cena e inviterò un po' di quegli alti papaveri che tanto detesto. Spero che qualcuno di loro ti dica qualcosa che valga la pena, perché ti assicuro che mi ripugna l'idea di averli in casa.» Carla fu di parola e diede una festa a cui parteciparono molti suoi amici e un buon numero di nemici. Nessuno poteva dire di no alla grande diva, soprattutto quando, come in quel caso, si trattava di una festa in casa sua. A Milano la cantante viveva in un palazzo alto tre piani, lussuosamente arredato. Quella sera le stanze erano illuminate soltanto da candele e Carla aveva ordinato che si servisse champagne come unica bevanda. Vittorio Leonardi non riusciva a capire il motivo di un tale sperpero da parte di sua moglie, ma non protestò quando Carla, imperiosa, gli disse che non poteva dare una festa se non in pompa magna. Vestita con un abito rosso di seta e pizzo, la diva ricevette gli invitati sulla porta del palazzo, insieme a Vittorio e ad Amelia. «Stai accanto a me, così sarà più facile presentarti a tutti gli ospiti.» Tra le oltre duecento persone invitate, Carla indicò ad Amelia una coppia che accolse senza il minimo entusiasmo. «Sono amici di Galeazzo Ciano, il genero del Duce. Se gli sei simpatica, ti apriranno le porte della cerchia più intima.» Amelia sfoderò tutto il suo fascino per farsi notare da Guido Gallotti e da sua moglie Cecilia. Guido era un diplomatico e uno dei consiglieri di Ciano, il

ministro degli Esteri. Aveva superato i quarant'anni, mentre sua moglie doveva avere all'incirca l'età di Amelia. Cecilia era figlia di un facoltoso commerciante tessile, molto ben introdotto e acceso sostenitore del Duce, all'ombra del quale stava facendo ottimi affari; dare la figlia in sposa a quel diplomatico così vicino alla famiglia di Mussolini si era rivelata una mossa conveniente per entrambi i contraenti. Guido Gallotti elevava socialmente Cecilia e la sua famiglia, e in cambio lei portava in dote a lui un conto corrente sostanzioso che gli permetteva di togliersi qualunque sfizio. «Conosco la Spagna, ci sono stato prima della guerra civile. È una fortuna che possiate contare su Franco. È un grande statista, come il nostro Duce» le disse Guido Gallotti. Amelia trasalì. Non sopportava le dichiarazioni di ammirazione nei confronti di Franco, ma Carla le diede un pizzicotto sul braccio e così abbozzò un sorriso. «Non vedo l'ora che Guido mi porti in Spagna, me l'ha promesso. Mio marito è innamorato del suo paese» aggiunse Cecilia. «Ne sono contenta! Deve proprio portarci sua moglie, sono certa che piacerebbe anche a lei» replicò Amelia. Carla si allontanò per occuparsi degli altri invitati e Amelia intrattenne la coppia raccontando com'era Madrid dopo la guerra, cercando di evitare qualsiasi accenno alla politica. Vittorio si avvicinò. «Questa ragazza ci è molto cara» disse, facendo l'occhiolino ad Amelia. Cecilia sembrava impressionata dall'amicizia che c'era tra la spagnola e la Alessandrini. Non erano molte le persone che potevano vantarsi di far parte del circolo ristretto di intimi della diva. Carla aveva legioni di ammiratori sparsi in tutto il mondo, ma era molto esigente quando si trattava di scegliersi gli amici. Inoltre, tutti sapevano che non aveva simpatia per il regime di Mussolini e che non si faceva problemi a criticarlo. Per questo i coniugi Gallotti erano stupiti, non solo per l'invito di Carla, ma anche perché quella sera la diva aveva invitato

persone fedelissime al fascismo. «Deve venire a trovarci a Roma. Sarà la benvenuta a casa nostra. Si fermerà molto tempo a Milano?» chiese Cecilia. «Ancora non lo so, ma di certo non me ne andrò prima di aver visto la prima di Tristano e Isotta. Per niente al mondo mi perderei l'esibizione di Carla alla Scala.» «Stupendo! Io sono di Milano, mio padre possiede una fabbrica in periferia. Veniamo spesso a trovare i miei genitori. E abbiamo proprio intenzione di assistere all'opera. Neanche noi ci perderemmo mai un'esibizione della divina Carla. Vero, tesoro?» Guido mascherò con un sorriso lo stupore provocatogli dall'affermazione della moglie. Cecilia non amava l'opera, in realtà non ci capiva niente di musica lirica, ma era ansiosa di frequentare gente come la Alessandrini. «Sarà un piacere rivederla, e naturalmente speriamo di averla nostra ospite a Roma.» Più tardi, Amelia raccontò a Carla e a Vittorio che era riuscita a farsi invitare dai coniugi Gallotti nella capitale. «Non avrai accettato?» «Be', non ho preso impegni.» «E non devi farlo, per ora. Lascia che insistano. Sanno che io non vado certo matta per il Duce e, anche se Cecilia è un po' tonta, Guido è furbo come una volpe.» «Perché hai una così brutta opinione di Cecilia?» «È un'arrivista. Lo sono entrambi e si completano a vicenda: Guido le procura i contatti in società e lei è quella che ha i soldi. Sono fatti l'uno per l'altra.» «Non credi che siano innamorati?» «Ma certo. Guido ama appassionatamente il denaro di Cecilia, la quale gli permette di spenderlo senza limiti con il gruppo di amici che gravita intorno a Galeazzo Ciano, e lei ama la posizione sociale di Guido. Da Cecilia non hai niente da

temere, ma da lui sì. Non dimenticartelo.» «Inoltre è un donnaiolo» intervenne Vittorio «e non mi piaceva per niente il modo in cui ti guardava. Né io né Carla vogliamo che tu diventi un trofeo di caccia di quella coppia.» «Cosa? Che esagerato, Vittorio, io non sono nessuno» disse Amelia ridendo. «Sei amica di Carla, quindi a Cecilia piacerebbe potersi vantare di conoscere una persona molto vicina alla gran diva. Quanto a lui, sono sicuro che vorrebbe aggiungerti alla lista di belle donne che ha corteggiato.» «Starò molto attenta, ve lo prometto.» La prima di Tristano e Isotta era prevista per metà ottobre. Carla si recava ogni giorno alle prove e passava due o tre ore a cantare in casa sotto la guida del maestro Matteo Marchetti. Da parte sua, Amelia, su consiglio di Carla e Vittorio, accettò diversi inviti da parte di amici della coppia. In particolare, si interessò al vecchio Marchetti, visto che sembrava qualcosa di più di un semplice militante comunista. All'inizio l'uomo si era mostrato distaccato e diffidente, ma Carla insisté che Amelia era da considerarsi una persona di fiducia, e a poco a poco il maestro cominciò a cedere. A volte si fermava a cena dopo le prove con la cantante. Parlavano soprattutto di politica e spesso Marchetti chiedeva a Carla qualche favore per uno dei suoi amici. Amelia di solito si limitava ad ascoltare, perché non padroneggiava l'italiano e si sentiva insicura nell'intrattenere una conversazione di una certa profondità; tuttavia Carla e Vittorio insistevano che partecipasse senza pudore alle loro chiacchierate. Una sera, durante la cena, Carla stupì il suo anziano maestro parlando con Amelia del periodo che aveva trascorso a Mosca. Il professore si mostrò molto interessato a conoscere il parere della ragazza sugli effetti della rivoluzione bolscevica e faticò alquanto a trattenersi quando Amelia descrisse la vita

nella Russia di Stalin. «Lei non capisce niente» le disse Marchetti. «È molto giovane e di certo non si rende conto di quel che la rivoluzione ha significato. Il mondo non sarà più lo stesso. Ci sono dei problemi? Come potrebbero non esserci! Le cose non funzionano ancora come vuole Stalin? Non mi stupisce: in Russia sono rimasti molti controrivoluzionari che non sono disposti a perdere i loro privilegi. Lei accusa Stalin di perseguitare chiunque non stia dalla parte della rivoluzione. E cos'altro dovrebbe fare? L'Unione Sovietica è diventata il faro a cui tutti guardiamo, consapevoli che stia illuminando un mondo nuovo. I controrivoluzionari devono essere liquidati perché rappresentano un pericolo per il mondo che vogliamo creare.» Amelia controbatteva alle sue arringhe raccontando alcune piccole storie quotidiane del suo soggiorno a Mosca; tuttavia il professor Marchetti si mostrava inflessibile nelle sue opinioni e la accusava di non avere la passione di una autentica rivoluzionaria. «La rivoluzione non è democrazia?» gli chiese Amelia. «Ma cosa c'entra la rivoluzione con la democrazia borghese? Stalin sa quello che fa, deve guidare quasi un intero continente, convincere milioni di persone che prima di tutto sono comunisti, non importa dove siano nati, che tutti sono uguali, che non ci sono altri principi a parte quelli dettati dal partito.» «Sa, ho conosciuto molti comunisti e quello che mi stupisce è che abbiano trasformato il comunismo in un dogma e il partito in una Chiesa» ribatté Amelia. Nonostante le continue e interminabili discussioni, i due finirono per simpatizzare e, su richiesta di Carla, Marchetti cominciò a parlare senza riserbo in presenza di Amelia. In questo modo lei scoprì com'era organizzato in clandestinità il Partito comunista, quali rapporti aveva con i socialisti e con altri gruppi di opposizione al Duce e, soprattutto, apprese che ogni tanto da Mosca venivano inviate istruzioni che passavano

attraverso la Svizzera. Il Patto Tripartito, firmato il 27 settembre da Germania, Giappone e Italia, rappresentò un ulteriore passo avanti verso la guerra totale. Le prove si erano svolte senza contrattempi fino al 2 ottobre, quando Carla si svegliò con la febbre e fu costretta a interrompere le lezioni con il maestro Marchetti. Era furiosa con se stessa per essersi ammalata di quella che all'inizio sembrava una banale influenza accompagnata da afonia. Il medico le raccomandò di stare a riposo per accelerare la guarigione, ma la diva non era una paziente diligente: nonostante gli inviti di Vittorio a coprirsi, passava la maggior parte della giornata andando su e giù per la casa con indosso solo leggere vestaglie di seta. L'8 ottobre Carla si ritrovò senza voce. Aveva la gola fortemente infiammata, il che poteva rappresentare un grosso rischio per la prima di Tristano e Isotta prevista per il giorno 20. Marchetti suggerì a Vittorio di chiamare un vecchio otorino in pensione, il dottor Bianchi. L'unico problema era che viveva a Roma. Vittorio si mise in contatto con lui e insisté per farlo venire a Milano a visitare Carla, ma la moglie del medico si dimostrò inflessibile. «Mio marito è in pensione, ha l'artrosi e non permetterò che affronti un viaggio, per nessun motivo. Tutto quello che può fare è ricevere la signora Alessandrini qui, a casa nostra.» L'insistenza di Marchetti sull'abilità del dottor Bianchi convinse Carla ad andare a Roma. La diva, per quanto debole, ritenne che fosse l'unica possibilità per evitare di rimandare la prima di Tristano e Isotta. La mattina del 10 ottobre partirono in macchina diretti a Roma. Amelia viaggiava accanto a Carla sui sedili posteriori,

mentre Vittorio guidava e il professor Marchetti era vicino a lui. Il viaggio fu sfiancante per l'ammalata che, arrivata a destinazione, aveva la febbre alta. Amelia fu sorpresa dal meraviglioso attico che Carla possedeva nei pressi di piazza di Spagna. Era un appartamento spazioso, con la vista migliore della città. Due cameriere tenevano in ordine la casa durante l'anno e quando arrivarono era tutto pronto per accoglierli. Amelia e Marchetti vennero sistemati nelle stanze degli ospiti. Il maestro non perse tempo a disfare i bagagli, ma telefonò subito al dottor Bianchi per chiedergli di visitare Carla. «Ma sono le nove di sera!» protestò dall'altra parte del filo la moglie di Bianchi. «Anche se fossero le quattro del mattino, suo marito ha il dovere di venire qui! Carla Alessandrini è arrivata da Milano apposta per lui e il viaggio ha aggravato le sue condizioni. Ha la febbre altissima e sarà sua responsabilità se le succede qualcosa.» Un'ora dopo il dottor Bianchi visitava l'ammalata. «Ha una grave infezione alle corde vocali. Ha bisogno di medicinali e di riposo assoluto, non deve neanche parlare.» «Ma potrà cantare tra dieci giorni?» chiese Marchetti, temendo la risposta. «Non credo, sta molto male.» «Siamo venuti perché la guarisca!» protestò il maestro di canto. «Ed è quello che voglio anch'io, ma non faccio miracoli» ribatté il dottor Bianchi. «E invece li fa! Ricordo che nel 1920 riuscì a guarire in soli tre giorni la terribile afonia che aveva colpito Fabia Girolami.» «La signora Alessandrini non ha una semplice influenza accompagnata da afonia, ma una grave infezione alla gola, alla faringe e alle corde vocali, che richiede tempo per guarire. Le preparerò una ricetta con i farmaci che deve prendere, ma la

febbre mi preoccupa; se non le scende entro un paio d'ore, bisognerà portarla all'ospedale. È stata un'imprudenza farla venire fin qui da Milano.» «Ma è stato per colpa sua!» gridò Marchetti. «Se fosse venuto lei a Milano, non sarebbe peggiorata!» Il dottor Bianchi acconsentì a rimanere per un paio d'ore al capezzale dell'ammalata, ma fu inflessibile: se la febbre non scendeva, bisognava ricoverarla. A mezzanotte Carla sembrava in delirio. La febbre era aumentata e Vittorio non esitò a portarla all'ospedale. Lì il dottor Bianchi espose la sua diagnosi ai colleghi e, sapendo di lasciarla in buone mani, si congedò con la promessa di tornare a trovarla il giorno dopo. Per tutta la notte, Vittorio, Amelia e Marchetti non si mossero dalla stanza di Carla, che sembrava in bilico tra la vita e la morte. Fu solo nella tarda mattinata del giorno dopo che i medici riuscirono a farle scendere la febbre. Il dottor Bianchi fu di parola e andò da Carla ogni giorno. Vittorio si rese conto che ci sarebbe voluto del tempo prima che Carla fosse di nuovo in grado di cantare, perciò cancellò tutti gli impegni dei due mesi seguenti. «Vedremo come andranno le cose» disse, affranto. Il maestro Marchetti non volle tornare a Milano. Si sentiva responsabile nei confronti di Carla, era il suo padre musicale, e chiese a Vittorio il permesso di restare a Roma. Ovviamente Amelia non ebbe dubbi che il suo posto fosse accanto all'amica e non si sarebbe mossa dall'ospedale. La notizia della malattia di Carla uscì su tutti i giornali. La diva non avrebbe cantato nel Tristano e Isotta alla Scala e inoltre aveva cancellato molti altri impegni, quindi la stampa seguiva con grande interesse la vicenda. Ogni giorno Vittorio informava i giornalisti sulle condizioni di Carla, mentre l'ospedale era invaso da centinaia di mazzi di fiori mandati da amici e ammiratori.

Il 18 ottobre Cecilia Gallotti si presentò all'ospedale insistendo per vedere Amelia. Carla era ancora ricoverata, ma ormai fuori pericolo. Quando un'infermiera spaventata venne a riferire che la signora Gallotti minacciava di non lasciare l'ospedale finché non avesse visto la signorina Garayoa, Carla dapprima si arrabbiò, ma poi sembrò calmarsi. «Mia cara, va' da lei, altrimenti quella donna è capace di installarsi in corridoio» sussurrò. «Dio mio, non parlare!» la supplicò Amelia. «Ti hanno detto di non provarci neanche. Hai solo un filo di voce! E poi non voglio vedere Cecilia né nessun altro; adesso l'unica cosa importante è che tu guarisca.» Carla non si diede per vinta. Soffriva nel pronunciare ogni parola, ma riuscì a convincere Amelia. «Se mi costringi a insistere, peggiorerò.» Amelia scese controvoglia nell'atrio dell'ospedale, dove Cecilia la stava aspettando. «Cara Amelia! Sono contenta di rivederla! Immagino che Carla avrà ricevuto i fiori che le abbiamo mandato... io e Guido siamo stati molto in pensiero per lei. Eravamo così ansiosi di vederla interpretare Isotta! Ma si riprenderà, questo è sicuro. E lei, mia cara, è riuscita a visitare un po' Roma? Sono venuta per invitarla a cena a casa nostra. Ci sarà anche qualche amico, persone di fiducia, e mi piacerebbe molto averla con noi...» Cecilia parlava senza posa e sembrava entusiasta dell'idea di invitare Amelia a casa sua. «Vorremmo poter contare anche su Carla e suo marito, ma, viste le condizioni della poveretta, non lo propongo nemmeno. Ne avrà ancora per molto? Speriamo di no, che guarisca presto. Ma lei verrà? Per favore, Amelia, mi dica che verrà!» In quel momento arrivò Vittorio, che aveva appena parlato con i medici e che si avvicinò a salutare le due donne. «Con chi è Carla?» chiese preoccupato. «In camera è rimasto il maestro Marchetti» rispose Amelia.

«Ma ora salgo subito da lei.» «Caro Vittorio» intervenne Cecilia «sono venuta a chiedere notizie di sua moglie, sa quanto la apprezziamo. Siamo così dispiaciuti che non abbia potuto cantare alla Scala... Ma Amelia mi ha detto che sta molto meglio ed è un'ottima notizia. Sono qui anche per dirvi che ho organizzato una cena a casa mia domani. Una festa per pochi intimi, tutti amici accuratamente selezionati. Pensa che potrete fare a meno di Amelia per qualche ora? Manderò una macchina a prenderla. Cosa gliene pare?» Amelia cercò, invano, di sottrarsi all'impegno, mentre Vittorio, stufo delle chiacchiere di Cecilia e ansioso che se ne andasse, assentì a tutto quel che diceva pur di togliersela di torno. «Bene, bene... Amelia a casa sua... le servirà per distrarsi un po'... non ho nulla in contrario.» Carla fu dello stesso parere quando le riferirono il motivo della visita di Cecilia. «Devi andarci» le disse in un sussurro. «Non dimenticare perché sei qui.» «Non c'è niente di più importante che starti accanto» replicò Amelia con sincerità. «Lo so, lo so, ma devi andarci.» All'ora stabilita, la macchina dei Gallotti passò a prendere Amelia per portarla alla villa che la coppia possedeva sull'Appia Antica, una lussuosa residenza circondata da un muro che la proteggeva dagli sguardi indiscreti. I Gallotti avevano invitato a cena quindici persone. Amelia notò che era il maggiordomo a occuparsi di ogni dettaglio, mentre Cecilia lo lasciava fare senza curarsi di alcunché. A mano a mano che le presentavano il resto degli ospiti, Amelia si rese conto che intorno a quella tavola era riunita la crema della diplomazia fascista. Cecilia introduceva Amelia come se si trattasse di un trofeo. «Permettetemi di presentarvi la signorina Garayoa, intima

amica della grande Alessandrini, è ospite a casa sua, vero, mia cara? Per fortuna Amelia ci porta buone notizie sullo stato di salute di Carla.» Amelia stringeva i denti, infastidita per come Cecilia usava il nome di Carla, e fu sul punto di andarsene, piantando in asso la padrona di casa. In un primo momento, la conversazione si incentrò su argomenti banali; fu soltanto a metà della cena che Guido, in risposta alla domanda di un amico, fece una rivelazione che mise in allerta Amelia. «Mussolini ha detto a suo genero, il nostro caro Galeazzo, che sta pensando di dare una bella lezione alla Grecia. Ma, signori, vi chiedo discrezione! Il nostro Duce vuole sorprendere Hitler.» «Ma il Führer non la prenderà affatto bene!» commentò un uomo con i capelli bianchi, piuttosto anziano. «Senza dubbio, conte Filiberto, ma il Duce sa quello che fa. Vuole mettere in chiaro con Hitler che, pur essendo suoi alleati, abbiamo a cuore anche i nostri interessi.» «E Galeazzo cosa ne pensa?» chiese la donna seduta accanto al conte Filiberto. «Appoggia la decisione di suo suocero, cosa crede? È sicuro che la Grecia non troverà molti sostenitori. D'altronde, non può contare né sulla Turchia né sulla Jugoslavia; quanto ai bulgari, il loro re appoggia l'Asse» rispose Guido Gallotti. «E gli inglesi? Pensa che se ne staranno con le mani in mano?» chiese un altro commensale, un diplomatico di mezza età, di nome Enrico. «Quando lo scopriranno sarà troppo tardi. E poi hanno il loro bel daffare a difendere Londra dagli attacchi della Luftwaffe» rispose Guido. «Sono pur sempre una potenza navale...» mormorò il conte Filiberto. «Ma la Grecia è molto lontana dalle loro coste. Non dovete temere, amici miei: il Duce sa quel che fa.» Guido sembrava

euforico e perentorio. Amelia non osava dire una parola. Conosceva l'italiano meglio di quanto credessero i presenti a quella cena, ma faceva finta di non riuscire a capirci granché, in modo che parlassero con maggior tranquillità. «E i comandanti dell'esercito cosa pensano di questa avventura?» chiese un'altra invitata, una donna matura, con le braccia piene di braccialetti e le mani cariche di anelli. «Romana, sei sempre così perspicace!» commentò Enrico. «Non ho dubbi sulla lungimiranza del Duce» continuò Romana in tono ironico «ma è l'esercito che deve dirci se siamo in grado di affrontare i greci oppure no. Le battaglie si devono vincere, altrimenti, meglio restare a casa.» «Su, su! Vi dirò come stanno le cose, ma insisto nel chiedervi discrezione. Abbiamo agenti in Grecia che hanno comprato l'appoggio di molti; soldi, miei cari amici, che sono finiti nelle mani giuste, e questo aiuterà a creare una situazione favorevole all'Italia» aggiunse Guido con aria complice. «I soldi possono comprare qualcuno, ma non tutti. Conosco bene i greci, per anni abbiamo passato l'estate nel loro paese, e dubito fortemente che ci accoglieranno con entusiasmo e applausi. I greci sono grandi patrioti» ribatté la donna. «Visto che siamo in vena di confidenze, anch'io voglio rivelarvi una cosa.» A parlare era stato un uomo che fino a quel momento era rimasto prudentemente zitto e che rispondeva al nome di Lorenzo. «Ah! E cosa sai che a me non hai raccontato?» chiese una donna dall'aspetto imponente, scuotendo la chioma nera e trafiggendo con gli occhi color carbone l'uomo che aveva appena parlato, che era suo marito. «Non sapevo che... insomma, pensavo che la decisione del Duce fosse un segreto di Stato» disse Lorenzo. «Va be', raccontaci...» lo incitò la moglie. «A quanto ne so, nello stato maggiore dell'esercito serpeggia un po' di inquietudine riguardo all'operazione» disse Lorenzo.

«Perché?» si interessò Romana. «Tra gli altri motivi, perché i rapporti che ci arrivano dal nostro ambasciatore ad Atene non sono così ottimisti come quelli del ministro Ciano e prevedono che sarà necessaria una forza d'attacco imponente» rispose Lorenzo. «Per quando è prevista l'operazione?» volle sapere Enrico. «È questione di giorni» rivelò Guido. «Quello che non capisco è perché il Duce non lo dice a Hitler» insisté il conte Filiberto. «Perché è stufo che il Führer porti avanti una politica di fatti compiuti. Siamo alleati, ma non ci prende mai in considerazione al momento di agire, le cose veniamo a saperle quando vuole lui. Il Duce gli renderà pan per focaccia. Così, Hitler non avrà altra scelta che appoggiarci. Ma stia tranquillo, conte, a quanto ne so, Mussolini scriverà a Hitler per annunciargli l'attacco. Però quando la lettera arriverà a Berlino saremo già in Grecia.» «Che Dio ce la mandi buona!» mormorò Romana. Amelia rientrò a casa di Carla, nei pressi di piazza di Spagna, a mezzanotte passata. Timorosa, non sapeva cosa fare. Era consapevole dell'importanza di quelle informazioni. Ma come poteva abbandonare la sua amica in simili circostanze? Di prima mattina andò all'ospedale a trovare Carla. Vittorio si stropicciò gli occhi arrossati quando la vide. «Hai fatto bene a venire così presto; se mi dai il cambio vado a casa a dormire un po' e a cambiarmi» le disse, a mo' di saluto. Quando Vittorio se ne fu andato, Amelia si avvicinò al letto di Carla. «Mi dispiace, ma devo andare subito a Madrid.» Carla socchiuse gli occhi e fissò Amelia. Le tese una mano e lei la strinse tra le sue. «Tornerai?» le chiese l'ammalata, con un filo di voce. «Sì, o almeno è quello che spero.» «Cos'è successo?» «Ieri sera, a casa di Guido e Cecilia, ho saputo che il Duce ha intenzione di attaccare la Grecia.»

«Quell'uomo è un pazzo...» sussurrò Carla. «Mi perdoni?» «Cosa devo perdonarti? Prima te ne vai, prima potrai tornare» la incoraggiò Carla sforzandosi di sorridere. Amelia ebbe fortuna, perché trovò un volo per Madrid due giorni dopo. Una volta atterrata, si recò subito all'indirizzo che le aveva indicato il comandante Murray, una casa nei pressi del paseo de la Castellana, proprio dove spediva le sue lettere. Si chiese chi vivesse davvero in quella casa. Con sua sorpresa, venne ad aprirle una signora anziana con un leggero accento che non riuscì a identificare. «La signora Rodriguez?» chiese Amelia alla donna che la guardava in silenzio. «Sono io, e lei chi è?» «Amelia Garayoa.» «Prego, entri, non rimanga sulla porta.» La invitò a seguirla in un grande salotto sobriamente arredato: un divano, un paio di poltrone, un caminetto e alcuni tavolini bassi su cui spiccavano delle fotografie dentro cornici d'argento. «Gradisce un tè?» chiese la signora Rodriguez. «Non vorrei disturbare.» «Non si preoccupi, lo preparo in un attimo.» La donna scomparve e tornò pochi minuti dopo reggendo un vassoio con il tè e un piatto di plum cake. «Li assaggi, li ho fatti io.» «Credo che lei possa mettermi in contatto con un amico... il signor Finley» disse Amelia abbassando la voce. «Ma certo. Quando vuole vederlo?» «Se fosse possibile, oggi stesso...» «È così urgente?» «Sì.» «Vedrò cosa posso fare. Se vuole può aspettarmi qui.»

«Qui? Pensavo di passare da casa...» «Se è molto urgente, di sicuro il signor Finley verrà subito. Non è consigliabile andarsene in giro, a Madrid ci sono troppi occhi che vedono quello che nemmeno ci immaginiamo. Dirò alla cameriera di occuparsi di lei mentre sono fuori, e non sarà per molto. È meglio fare così.» La signora Rodriguez agitò una campanella d'argento e poco dopo apparve una donna in uniforme. «Luisita, esco un attimo. Occupati della signora, non ci metterò molto.» La cameriera annuì, in attesa di istruzioni da parte di Amelia, ma lei le assicurò che non aveva bisogno di niente e che avrebbe aspettato il ritorno della padrona di casa. Passò un'eternità. La signora Rodriguez tornò un'ora dopo e trovò Amelia preoccupata. «Stia tranquilla, il signor Finley verrà.» «Qui?» «Sì. È più discreto. In questa casa non ci sono occhi estranei. È meglio così. Vuole ancora un po' di tè o qualcos'altro?» «No, no... be', magari... » «Cosa mi vuole chiedere?» Sembrava che la signora Rodriguez leggesse nel pensiero di Amelia. «È solo una curiosità, ma lei è di qui?» «Spagnola? No, non lo sono, anche se vivo a Madrid da oltre quarant'anni. Mio marito è spagnolo, ma io sono inglese. C'è chi nota ancora un leggero accento quando parlo.» «Ma è quasi impercettibile: se lei mi avesse detto che era madritena, le avrei creduto senz'altro.» «In realtà è come se lo fossi. Dopo quarant'anni che ci vivi, un paese diventa tuo. Sono stata via solo durante la guerra. Mio marito ha insistito per tornare a Londra e purtroppo, quando siamo rientrati, è morto.» «E lei collabora con...» «Un vecchio amico di famiglia mi ha chiesto se potevo aiutarli ricevendo a casa mia certe lettere che avrei dovuto

consegnare al signor Finley. Ho accettato senza pensarci due volte. Quello che sta succedendo in questo momento è più importante di quanto pensiamo. E poi sono una fervente ammiratrice di Churchill.» Parecchio tempo dopo la cameriera annunciò il signor Finley. «Prego, entri, signor Finley, voglio presentarle un'amica, la signorina Garayoa.» «Sono il comandante Jim Finley, è una sorpresa conoscerla.» «Vi lascio soli, così potete parlare» disse la signora Rodriguez uscendo dalla stanza. Amelia non perse tempo e riferì a Finley quello che aveva sentito a casa dei Gallotti. Quando ebbe finito di parlare, Jim Finley le rivolse un'infinità di domande finché non fu certo di aver colto in pieno la portata delle informazioni di Amelia. «Cosa devo fare adesso?» volle sapere lei. «Tornare a Roma. Ha fatto bene a venire qui. Le sue informazioni sono molto importanti e deve cercare di approfondirle al più presto» rispose Finley. «Ci proverò, ma non so se sarò ancora tanto fortunata da ascoltare altre confidenze come queste.» «Coltivi l'amicizia con la signora Gallotti: di certo vorrà vantarsi davanti a lei di essere al corrente di quello che sta succedendo.» «Non so se suo marito le riveli i dettagli del suo lavoro.» «Deve provarci. Ma adesso vada a trovare la sua famiglia, è la scusa migliore per giustificare il suo viaggio a Madrid. Qui non sono paranoici come i tedeschi, ma è meglio evitare sorprese. Naturalmente non potrà fermarsi che il tempo indispensabile a confermare il suo alibi. Deve tornare a Roma al più presto.» «La prossima volta che avrò informazioni urgenti, come devo comportarmi?» «Ho il numero di telefono di un amico a Roma, ma dovrà usarlo solo se le sarà impossibile venire a Madrid e mettersi in

contatto direttamente con me.» «Chi è questo amico?» «Un artista che adora Roma. È pittore, scultore... un eclettico.» «Italiano?» «Svizzero.» «Davvero?» «Sì, suo fratello fa parte della Guardia svizzera. I suoi si sono trasferiti a Roma anni fa. Lui è l'artista della famiglia.» «E lavora per l'Ammiragliato?» «È un uomo bizzarro, ha i suoi principi... e poi lo paghiamo bene. Ma insisto che deve contattarlo soltanto in via eccezionale; altrimenti, è meglio che venga in Spagna.» Amelia seguì le istruzioni alla lettera e, a malincuore, trascorse solo una settimana con la sua famiglia. Come le aveva detto Finley, era solo un alibi. Al suo rientro a Roma, trovò Carla ancora ricoverata in ospedale, ma le sue condizioni sembravano migliorate nelle ultime ore. Vittorio fu molto felice di veder arrivare Amelia. Carla aveva sentito la mancanza delle cure dell'amica; averla accanto le metteva allegria. Perfino Matteo Marchetti sembrava contento che Amelia fosse tornata. «Sono due giorni che non discuto con nessuno» disse a mo' di saluto, sorridente. Carla chiese ai due uomini di andare a riposare e di lasciarla da sola con la sua amica. Era ansiosa di sapere cos'era successo. «Mi hanno chiesto di approfondire i rapporti con i Gallotti. I britannici credono che un'azione dell'Italia contro la Grecia prolungherebbe ulteriormente la guerra.» «Dovremmo impedirlo» mormorò Carla. «Pensi che, se telefono a Cecilia, lei sospetterà qualcosa?» «Non credo, ne sarà felice. Dille che vuoi organizzare un pranzo per ricambiare il suo invito a cena. Sono sicura che ti

racconterà tutto quello che vuoi.» «Sempre che sappia qualcosa...» «Sicuramente è così: non conosco uomo maturo che non si pavoneggi davanti a una donna più giovane.» «Ma Cecilia è sua moglie» replicò Amelia ridendo. «Sì, ma è lei che gli dà da mangiare, perciò ha bisogno di rendersi interessante ai suoi occhi.» Amelia seguì il consiglio di Carla e invitò Cecilia Gallotti a pranzo. La donna accettò entusiasta. Amelia scelse un ristorante molto popolare dell'Aventino, il Checchino dal 1887, attraverso le cui vetrate filtravano gli ultimi raggi del sole autunnale. Dopo un aggiornamento sulla salute di Carla Alessandrini, le due donne chiacchierarono di argomenti banali. Amelia non sapeva come portare il discorso sulla politica, in modo che Cecilia le facesse qualche confidenza interessante; e invece fu proprio l'italiana ad affrontare l'argomento. «Non sa quanto sono contenta che mi abbia invitato a pranzo proprio oggi. Sono due giorni che Guido se ne sta chiuso al ministero. Stanno preparando... be', a lei lo posso dire, in effetti è stato Guido a raccontarlo a casa. Stiamo per invadere la Grecia. Ormai non è più un segreto, molta gente ne è al corrente.» «E pensa che l'Italia sia pronta per questa impresa? Attaccare la Grecia significa entrare in guerra.» «Sì, sarà facile come bere un bicchier d'acqua. A quanto ho sentito dire da Guido, attaccheranno dall'Epiro... sì, credo che si chiami Epiro. E abbiamo forze sufficienti per farlo; si figuri che, per una missione del genere, servirebbero almeno una ventina di divisioni, ma i greci sono così arretrati che ne basteranno sei.» «Ne sa parecchio di strategia militare!» «Non creda, non so niente della guerra, né m'interessa, ma a forza di ascoltare, qualcosa mi rimane. L'altro giorno Guido

discuteva con il conte Filiberto di questa faccenda delle divisioni, sottolineando il particolare che ne bastino sei, quelle che si trovano in Albania al comando del generale Visconti Prasca. Le assicuro che è un grande generale.» «E cosa dirà Hitler?» «Il Duce è un genio. Gli ha scritto per informarlo ma, siccome Hitler è a Parigi, non leggerà la lettera fino al suo ritorno. E non potrà certo rimproverare Mussolini di non avergli detto niente, ma al contempo il Duce ha preso la decisione più conveniente per l'Italia e senza il permesso del Führer. Vedrà che in poche settimane prenderemo la Grecia. Ho detto a Guido che, appena l'occupazione sarà conclusa, dobbiamo fare un viaggio laggiù. Ho sempre avuto la curiosità di visitare il Partenone, e lei?» «Certo, mi piacerebbe molto.» «Allora lo faremo! Ci andremo insieme! Tutti gli amici di Guido sono così vecchi... Mi piacerebbe avere accanto qualcuno della mia età. Ma lei potrà lasciare Carla?» «Ormai è in via di guarigione. Come le ho detto, è molto migliorata negli ultimi due giorni; se continua così, il medico la dimetterà presto. Lo spero davvero.» «E non potrà venire con noi? Le farebbe bene un viaggio dopo quello che ha passato. Perché non glielo propone?» «Ottima idea! Però dipenderà da quello che le diranno i medici, è molto debole...» Dopo pranzo, Amelia si recò a casa di Carla, dove scrisse in codice quello che le aveva raccontato Cecilia. Era necessario che il comandante Murray sapesse quanto prima che il Duce progettava di invadere la Grecia dall'Epiro. Quando ebbe finito di preparare il messaggio, si recò immediatamente a Trastevere, cercando la piazza di San Cosimato, dove Jim Finley le aveva detto che viveva il fratello di una guardia svizzera del papa. Lo studio di Rudolf Webel occupava il pianterreno di un edificio che sembrava sul punto di crollare. La porta era socchiusa e Amelia entrò. Scorse un uomo di mezza età, alto,

con gli occhi azzurri e la barba bionda come i capelli, assorto a guardare una donna con il corpo coperto da una stoffa color porpora. «Vuoi stare ferma, Renata? Così non posso lavorare» brontolò. «Caro, hai visite!» lo informò Renata tirando il più possibile la stoffa. «Se ne vada, adesso sono impegnato» ordinò lo svizzero senza nemmeno degnare l'intrusa di uno sguardo. «Mi scusi, signor Webel, potrei parlarle?» chiese Amelia. «No, non può. Se ne vada. Non vede che sto lavorando?» «Mi dispiace disturbarla, ma devo insistere per parlare con lei. Mi manda un suo amico di Madrid.» «Di Madrid? Non ho amici là, o forse sì, ma adesso l'unica cosa che voglio è che se ne vada. Torni un altro giorno.» «Se non le dispiace, aspetterò che abbia finito» ribatté Amelia. Rudolf Webel si voltò infuriato a guardarla. Non aveva mai permesso a nessuno di contrariarlo. Fu sorpreso di vedere che a tenergli testa, senza la minima intenzione di cedere, era una donna molto giovane. «Non è la benvenuta, come vuole che glielo dica?» «Non pretendo che mi dia il benvenuto, solo che mi ascolti.» «Ma perché non la ascolti?» gli gridò Renata. «Perché parlo solo quando voglio e con chi voglio!» «Non ci credo, signor Webel, sono sicura che anche lei a volte deve parlare con chi non vuole. E non mi faccia insistere ancora. Ho una cosa urgente da riferirle. Le assicuro che se fosse per me non l'avrei mai scelta come interlocutore.» «Mi ha fatto passare l'ispirazione!» protestò lui. Amelia fece spallucce mentre la modella si alzava in piedi, avvolta nel telo porpora. «Parla con la signorina e lasciami riposare un po'. E poi ho freddo. Forse dovresti scolpire nudi soltanto d'estate.» «Pensi che un artista debba adattarsi alle esigenze della

modella? Se hai freddo resisti, ti pago per questo!» «Mi paghi? La pasta che abbiamo mangiato oggi l'ha portata mia madre! Se fosse per te, saremmo morti di fame.» Renata uscì dalla stanza e li lasciò soli. Webel continuava a non prestare attenzione ad Amelia, intento a osservare il blocco di marmo che stava modellando per dargli la forma del corpo della ragazza. «Allora, mi ascolta oppure no?» insisté Amelia. «Cosa vuole?» «Jim Finley mi ha detto di venire a trovarla se non avevo altra scelta, e purtroppo non ce l'ho.» «Quel Finley è un intrigante.» «Ne parli con lui, a me stupisce che si fidi di lei.» «E non è così: diciamo che non ha altre opzioni in questa città, quindi deve accontentarsi di me. E ora mi dica cosa vuole.» «Deve recapitare una lettera in Svizzera oggi stesso.» «Oggi non posso» rispose lui, con aria di sfida. «Signor Webel, questo suo atteggiamento non ha alcun effetto su di me, quindi la smetta di recitare la parte dell'artista e faccia quello che le chiedo. Questo non è un gioco, e lei lo sa.» Webel fu sorpreso dal tono energico di Amelia. La fissò con attenzione e vide, sì, una giovane donna, ma con uno sguardo che rifletteva tutta la sua esperienza. «Va bene, farò ciò che mi chiede. Ha qui il messaggio?» Amelia gli consegnò la lettera, ma Webel non la guardò neppure. Se la infilò nella tasca dei pantaloni. «Dove la trovo se ho una risposta?» «Sarò io a venire da lei. Ripasserò tra qualche giorno.» «Non voglio ficcanaso in casa mia.» «Non ho alcun interesse a ficcanasare, tanto meno se si tratta di lei. E adesso la prego di non indugiare oltre, è necessario che la lettera arrivi al più presto a destinazione.»

Webel si girò e sparì in fondo alla stanza. Amelia uscì chiudendosi la porta alle spalle e rimproverando mentalmente Finley per il messaggero che aveva rimediato. All'alba del 28 ottobre, l'ambasciatore italiano ad Atene si presentò nella residenza del presidente Metaxas per consegnargli una notifica ufficiale che chiedeva l'autorizzazione all'ingresso di truppe italiane nel territorio ellenico. La risposta del presidente greco fu inequivocabile: no. Ma Metaxas fece ben più che respingere la richiesta degli italiani: chiese anche l'aiuto della Gran Bretagna. Nel frattempo, la divisione Julia attraversava la frontiera tra l'Albania e la Grecia. Il piano dello stato maggiore italiano consisteva nel far passare parte delle truppe attraverso la catena montuosa del Pindo verso la Tessaglia, mentre altre divisioni si dirigevano verso Giannina, da dove avrebbero avuto il controllo su tutto l'Epiro, e il resto della spedizione iniziava la marcia verso la Macedonia. Mussolini era euforico. Finalmente poteva presentarsi dal Führer vantandosi di un'iniziativa di successo. Quello che il Duce non aveva previsto era che i greci avrebbero combattuto eroicamente per difendere l'indipendenza della madrepatria. Il capo di stato maggiore greco, il generale Alexandros Papagos, aveva concentrato in Macedonia il grosso delle truppe, che riuscì a far retrocedere le unità italiane. Anche se le forze fasciste avanzavano nell'Epiro, Papagos circondò la famosa divisione Julia, decimandola. Ai primi di novembre intervennero gli aiuti britannici e parte della flotta italiana alla fonda nel porto di Taranto fu distrutta. La Royal Navy fece decollare dalla portaerei Illustrious alcuni biplani, i Fairey Swordfish, che riuscirono a colpire buona parte delle navi della Regia Marina Italiana. A metà novembre, si profilò l'ipotesi che il Duce potesse perdere la guerra contro la Grecia.

Carla Alessandrini trascorreva la convalescenza nella sua casa di Roma. Amelia le stava accanto e nel frattempo coltivava l'amicizia con i coniugi Gallotti. Cecilia si era rivelata un'inesauribile fonte di informazioni e Guido sembrava contento del rapporto di sua moglie con la spagnola, che considerava una franchista convinta. In realtà, l'aveva dato per scontato, perché Amelia evitava sempre di parlare di politica, preferendo far credere che non le interessasse granché. Inaspettatamente, un mattino Albert James si presentò a casa di Carla a Roma. Amelia fu molto felice di vederlo. Carla, generosa come sempre, insisté per averlo come ospite. Albert fece un po' di complimenti, non sarebbe voluto rimanere, ma poi capì che per la cantante era importante avere accanto Amelia, a cui voleva bene come a una figlia. Quando infine riuscì a restare solo con Amelia, Albert le confessò di essere venuto per riportarla a Londra. «Non posso andarmene adesso» si scusò lei. «Non si tratta solo della mia missione, ma anche di Carla.» «Credo che mio zio Paul abbia altri piani. Non me li ha rivelati, ma il comandante Murray mi ha dato una lettera per te.» «È per questo che sei qui?» «No, sono venuto per vederti, per stare con te, perché ti amo. Nient'altro. Ma devo confessarti che sono contento che ti abbiano ordinato di tornare a Londra... Certo, conoscendo lo zio Paul e Murray, suppongo che non ti lasceranno in pace per molto.» Amelia presentò Albert ai Gallotti, che si mostrarono entusiasti di conoscere il famoso giornalista, anche se Guido aveva letto alcuni suoi articoli e sapeva delle sue critiche a Hitler e allo stesso Mussolini. Comunque, la coppia era contenta di farsi vedere in giro con un giornalista statunitense. Guido gli organizzò perfino un incontro con Galeazzo Ciano.

Amelia non poteva ignorare gli ordini contenuti nella lettera del comandante Murray. Per quanto le costasse separarsi da Carla, aveva l'obbligo di tornare a Londra. «Perché non lasci perdere tutto e resti a vivere con noi?» «Vuoi adottarmi?» rispose Amelia ridendo. «Magari! Non sarebbe un problema, neanche per Vittorio. Sei la figlia che avremmo voluto. Pensaci: potresti fare un sacco di cose, accanto a me, ed essere comunque utile ai tuoi amici di Londra anche da qui. Quanto ad Albert... non ti proporrei di fermarti se sapessi che sei innamorata di lui, ma so che non è così. Gli sei affezionata, ma non lo ami come hai amato Pierre.» Amelia sentì una fitta di dolore. Sì, aveva amato Pierre, tanto che sapeva di non poter più amare nessun altro uomo allo stesso modo, ma Pierre aveva distrutto la sua innocenza, calpestando il suo amore e lasciandole nel cuore una cicatrice così profonda che le avrebbe provocato dolore per il resto della vita. «Farò tutto il possibile per tornare qui. Come hai detto tu, posso essere utile anche dall'Italia.» «Sono certa che già lo sei stata» replicò Carla. Fine della storia. Francesca sbadigliò. Sembrava stanca. Non l'avevo interrotta nemmeno una volta, lasciando che si dilungasse. «Bene, Guillermo, adesso devi cavartela da solo.» «Tutto qui?» «Almeno per ora. A quanto pare, devi ricostruire la storia di Amelia Garayoa passo dopo passo, senza saltare niente. Ecco, adesso sai quello che ha fatto la tua bisnonna alla fine del 1940 in Italia. Ti assicuro che non ho la più pallida idea di cosa sia avvenuto dopo. Naturalmente ti posso raccontare cos'ha fatto Carla: in fin dei conti è lei l'oggetto dei miei studi.» «Amelia è poi tornata a Roma?» «È partita nel dicembre del 1940. Se prosegui le ricerche, è probabile che ci rivedremo. Ma adesso non ha senso che tu vada

avanti nel tempo.» «Il professor Soler ti ha istruita bene» protestai. «L'unica cosa che mi ha chiesto è di aiutarti come potevo, ma di non dirti niente che ti portasse a salti cronologici, perché devi essere in grado di raccontare nel giusto ordine ogni cosa che ha fatto Amelia Garayoa.» «Ma sarebbe più facile se tu mi raccontassi tutto quel che sai su di lei... ci penserei poi io a ricostruire il puzzle.» «Ma non lo farò, quindi...» Quindi mi salutò, ma entrambi sapevamo che ci saremmo rivisti. Tornai a Londra senza passare dalla Spagna. Preferivo proseguire con le ricerche. Avevo ricevuto una telefonata da lady Victoria, che mi annunciava di essere a mia disposizione per parlare di nuovo con me; tenendo conto che la sua unica priorità era il golf, non potevo sprecare l'occasione.

11

Questa volta lady Victoria mi invitò a pranzo a casa sua, dicendomi che così avremmo avuto più tempo per parlare. Quando la vidi, pensai che fosse una donna eccezionale. Il suo interesse per le mie ricerche sembrava sincero. Le raccontai quello che mi aveva detto Francesca. «E così è arrivato al dicembre del 1940...» mormorò sfogliando un quaderno. «Sì, credo che Amelia sia tornata a Londra con Albert James.» «È così, poi sono andati negli Stati Uniti.» «Negli Stati Uniti? Perché?» chiesi, irritato. Cominciava a infastidirmi l'andirivieni della mia bisnonna da un posto all'altro. Ormai facevo fatica a seguire i suoi spostamenti per il mondo. «Perché lord James aveva chiesto un favore al nipote e lui aveva insistito per farsi accompagnare da Amelia. È tutto qui, in questo quaderno» disse lady Victoria indicando la copertina. «Posso dargli un'occhiata?» «Questa è una parte del diario di lady Eugenie, la madre di Albert. Grazie a lei sappiamo quel che è successo. Non so se gliel'ho detto, ma Eugenie scriveva tutti i giorni. Era il suo modo di sfogarsi. Albert l'aveva delusa rifiutandosi di rompere con Amelia e di sposare lady Mary Brian. È pronto?» Annuii. Sapevo che la cosa migliore che potevo fare era ascoltare senza interrompere finché non si fosse stancata di parlare. Winston Churchill era impegnato a cercare di ottenere la collaborazione degli Stati Uniti. Sapeva che la Gran Bretagna non avrebbe potuto vincere la guerra senza il loro appoggio,

così tentava con ogni mezzo di convincere il presidente Roosevelt a venirgli in aiuto. Il Regno Unito era in bancarotta e aveva urgente bisogno di soldi per far fronte alle ingenti spese di guerra. Lord James pensava di approfittare della posizione di suo fratello Ernest, agiato uomo d'affari negli Stati Uniti, e delle relazioni di sua cognata Eugenie, nel cui salotto si ritrovava la crema dell'alta società newyorkese; visto che Albert era un giornalista influente, avrebbe potuto servirsi della famiglia per spingere le personalità di Washington a fornire il loro imprescindibile apporto per sconfiggere Hitler. Ernest ed Eugenie non ebbero esitazioni nell'accollarsi questo compito, e Albert si impegnò a tenere una serie di conferenze in giro per gli Stati Uniti per parlare del pericolo che Hitler rappresentava, ma insisté per farsi accompagnare da Amelia. Senta cosa scrive Eugenie nel suo diario: Albert arriva domani. Mio cognato Paul l'ha convinto. Meno male! Perfino Ernest, sempre così comprensivo verso nostro figlio, era furioso per il suo rifiuto di impegnarsi in prima persona in quello che sta succedendo. Certo che ce la fa pagare a caro prezzo: viene con quell'Amelia, che per me ormai è diventata un incubo. Come la presenterò ai nostri amici? Non posso dire che è la promessa sposa di Albert, visto che è una donna sposata. Né posso presentarla come un'amica di famiglia. Non sappiamo niente di lei, e per quanto mi riguarda penso che sia solo un'avventuriera, ma Paul ha detto a Ernest che Amelia si è rivelata molto utile. Non so cos'abbia fatto, tuttavia sono sicura che non sia stato niente di così importante come Paul ha fatto credere a Ernest. Di qualunque cosa si tratti, per me quella ragazza continua a essere una nullità. Albert dice che Amelia è di buona famiglia, ma che razza di famiglia è quella che permette a una giovane donna di abbandonare marito e figlio? Non sarà facile sopportare i pettegolezzi che circoleranno su Albert, dal momento che lui è tanto testardo che ospiterà Amelia nel suo appartamento, proprio come ha fatto a Londra. Mio figlio che vive more uxorio con quella spagnola... chissà cosa diranno!

Se non fosse perché è mio figlio, non lo riceverei mai più. Si è presentato a casa nostra con Amelia, anche se suo padre aveva insistito per parlare con lui da solo. Ma Albert è cocciuto. Il pranzo è stato insopportabile. La ragazza non la smetteva di guardarmi e Albert pende dalle sue labbra. Per di più, a un certo punto, Ernest si è appartato con Albert, mentre io ho dovuto passare quasi un'ora con quella nullità. Le ho chiesto se aveva letto Shakespeare e mi ha detto di no. Me l'immaginavo. Perfino i suoi gusti musicali sono mediocri, ma a quanto pare è capace di eseguire al pianoforte qualche brano di Mozart, di Chopin e di Liszt. Non so cosa ci trovi mio figlio in quella donna. È insulsa. Ernest mi ha detto che Albert ha riscosso un grande successo a Washington. Sono andati a sentirlo alcuni amici del presidente Roosevelt e anche certi uomini del suo staff. Credo che siano preoccupati per quello che hanno sentito. Sembra incredibile che gli americani non capiscano che Hitler rappresenta un pericolo anche per loro. Se non fosse per Winston Churchill, Hitler diventerebbe il padrone del mondo, ma qui non vogliono rendersene conto. Ernest, però, mi ha assicurato che Roosevelt è molto attento a quanto gli dice Churchill. Che vergogna! Quella strega della signora Smith è venuta a trovarmi, per dirmi soltanto quello che già so: che la presenza di Amelia è uno scandalo e che Albert dovrebbe mostrare rispetto per le famiglie perbene e non presentarsi con lei ovunque. Ho detto alla signora Smith che forse dovrebbe preoccuparsi di come si comporta sua figlia Mary Jo, perché alla cena dei Vanderbilt non ha fatto altro che civettare con il figlio maggiore dei Miller. So che non mi perdonerà per quel commento, ma non mi è venuto in mente nient'altro per metterla a tacere. Non posso permettere che venga a casa mia a criticare mio figlio. Se non me l'avesse raccontato Ernest non ci avrei creduto. Albert ha chiesto ad Amelia di tenere delle conferenze sulla situazione in Europa. A quanto pare, molta gente è accorsa ad ascoltarla, ma so che le persone ci sono andate solo per vederla, per sapere com'è la

donna che ha fatto perdere la testa ad Albert. Ernest dice che la buona società di San Francisco è stata conquistata da Amelia, che viene ricevuta in tutte le case più importanti. Sembra che lei stia tenendo conferenze nei club femminili perché Albert è convinto che le mogli siano in grado di convincere i mariti di qualunque cosa. Tra due giorni tornano a New York. Ernest vuole che organizzi una gran cena con tutti i nostri conoscenti e desidera che Albert faccia un discorso. La cena è stata un successo, ma sono sfinita. Sono venuti tutti; credo che, a parte Roosevelt, ci fosse chiunque rivesta un ruolo di spicco alla Casa Bianca. Albert è stato fantastico! Con quale partecipazione ha spiegato chi è quel caporale austriaco, Adolf Hitler! Ha spaventato le signore e ha dato da pensare agli uomini. Ernest dice che Roosevelt ha bisogno di una spintarella per mostrarsi più propenso ad aiutare la Gran Bretagna. In realtà ha già iniziato a farlo. Per certi nostri amici la guerra rappresenta una buona opportunità di fare affari, perché ovviamente l'aiuto che verrà dato ai britannici sarà remunerato, in un modo o nell'altro. Gli americani sono molto pratici, ma sono contenta che mio figlio li abbia aiutati a capire cosa sta succedendo in Europa. Albert parla come se fosse uno di loro, e in effetti è più statunitense che irlandese, ma nelle sue vene scorre sangue della nostra terra. Dice addirittura che comprende la prudenza di Roosevelt, perché i governanti devono evitare la guerra, finché è possibile. Quello che non mi aspettavo era che chiedesse ad Amelia di parlare anche in questa occasione, e lei, che non ha alcun pudore, non ha esitato a rivolgersi ai nostri invitati. A mio parere, ha fatto male a raccontare la storia di una sua amica, Yla, figlia del socio di suo padre, costretta a fuggire da Berlino, o di quella Rachel. Sembra che Amelia abbia soltanto amiche ebree. Non che io abbia niente contro gli ebrei, molti nostri amici lo sono, ma, da come Amelia racconta le cose, sembra che il difetto peggiore di Hitler sia che non gli piacciono gli ebrei. Quella spagnola semplifica troppo. Ho dovuto mettere a tacere diversi commenti su Amelia e Albert, perché la gente si ostina a chiedere se sono qualcosa di più che buoni amici, come se non fosse evidente che lei è l'amante di mio figlio. Tutta questa situazione è molto sgradevole, ma Albert si

rifiuta di ascoltare anche una sola parola su Amelia. Che umiliazione: Albert ha litigato con il figlio maggiore dei Miller, per di più a casa loro. I Miller avevano organizzato una cena d'addio per Albert, che tra qualche giorno riparte per Londra. Tutto andava bene, finché Bob, il figlio maggiore della coppia, non ha chiesto insistentemente ad Amelia di ballare con lui. Il ragazzo era un po' ubriaco, ma Amelia si è comportata come una verginella, rifiutando il suo invito. Bob non ha accettato quella risposta e l'ha afferrata per un braccio, insistendo affinché ballasse con lui. Amelia è diventata isterica e gli ha chiesto di lasciarla stare, così Albert è intervenuto in suo aiuto e ha sferrato un pugno a Bob. Ha dato spettacolo, facendoci vergognare tutti. La festa non sarebbe potuta finire in modo peggiore. Il signor Miller ed Ernest sono dovuti intervenire per interrompere la rissa e siamo stati costretti ad andare via tra i mormorii degli invitati. Amelia era pallida, ma non credo che fosse dispiaciuta per l'accaduto. Adesso tutti ci criticheranno e il peggio è che le voci arriveranno fino a Londra. I nostri amici si sono dimostrati molto generosi nell'accettare che Albert si presentasse a casa loro con Amelia, ma dopo questo incidente sono sicura che non ci inviteranno più. Ho chiesto a mio figlio di passare a trovarmi e oggi è venuto a salutarmi. Meno male che ha avuto il buon gusto di non portare Amelia. Anche se Ernest mi aveva raccomandato di non discutere con Albert, nessuno dei due è riuscito a evitarlo. L'ho pregato di mettere fine a questa storia, una volta per tutte, perché non può pretendere rispetto da una donna che non rispetta se stessa. Lui mi ha detto che non mi perdonerà mai per quello che ho detto su Amelia, che a suo parere è la donna più integra e coraggiosa che abbia conosciuto. Non so cosa gli ha fatto per ridurlo così, ma non lo riconosco più, si preoccupa solo di lei. Poi ha concluso dicendo che, se non accetto la sua storia con Amelia, non verrà più a trovarci. Il brutto è che era sincero mentre lo diceva. Quella donna ci distruggerà tutti. Ha già rovinato Albert e adesso vuole distruggere tutta la nostra famiglia. Albert se n'è andato senza darmi neanche un bacio. È stata la

prima volta in tutta la sua vita che mi ha salutato in questo modo. Domani partono per Londra.

Albert e Amelia tornarono a Londra ai primi di marzo del 1941. Il loro viaggio era stato un successo, o così pensava lord Paul James. Sembrava che molte idee esposte da Albert avessero fatto breccia nelle alte sfere politiche ed economiche di Washington. La coppia si installò nell'appartamento di Albert, sapendo che, in qualunque momento, Amelia avrebbe potuto essere mandata in missione fuori dal paese. Albert affrontò lo zio Paul, chiedendogli di smetterla di servirsi della sua compagna, ma lui riteneva di aver rispettato i patti con il nipote, permettendogli di portare con sé Amelia negli Stati Uniti. Il comandante Murray non tardò a chiedere ad Amelia di tornare in Germania. «Lei mi ha detto che il suo amico Max von Schumann è stato trasferito in Polonia» le ricordò. «Sì, è così.» «Ci farebbe comodo capire cosa sta succedendo laggiù. Abbiamo qualche informazione, ma vorremmo sapere di più.» «Avete qualcuno in Polonia?» volle sapere Amelia. «Questo, mia cara, non è affar suo. Lei non deve fare altro che mettersi in contatto con von Schumann e cercare di raggiungerlo in Polonia.» «Con quale scusa?» «Dipende da lei. Nel corso dell'addestramento le abbiamo insegnato che sono gli agenti a doversi costruire una copertura sul campo. Sarebbe difficile farlo da un ufficio a Londra. Mi dica di cosa ha bisogno e glielo farò avere, ma è lei che deve trovare il modo giusto per avvicinarsi a von Schumann. A quanto pare, il barone prova una forte attrazione nei suoi confronti.» Amelia si irrigidì. L'insinuazione del comandante Murray era offensiva. «Come osa...» cominciò, indignata.

«Non intendevo mancarle di rispetto, ma non dimentichi che lei è un'agente con una missione; quando è stata addestrata per questo lavoro le è stato detto che avrebbe dovuto mentire, perfino uccidere se necessario, che sarebbe stata costretta a fare cose che in condizioni normali l'avrebbero disgustata, ma che in guerra sono necessarie. Quindi non si offenda, non ci troviamo in una sala da tè, ma negli uffici dell'Ammiragliato. Se non se la sente di svolgere questo lavoro, me lo dica, senza fare scenate da donzella disonorata. Naturalmente lei è una signora perbene, ma è anche un'agente, perciò deve essere pronta ad affrontare qualunque circostanza. In ogni caso, non le ho ordinato niente di concreto, le ho solo ricordato una cosa evidente: il barone è attratto da lei e questo può giocare a suo favore. Decida lei come preferisce gestire l'operazione.» Per qualche secondo rimasero in silenzio, a fissarsi, come se si studiassero a vicenda. Il comandante Murray era un gentiluomo, ma anche un soldato dedito al suo lavoro, lo spionaggio, che non aveva norme né limiti. Non voleva offendere Amelia, fin dal primo momento aveva provato per lei una segreta simpatia, ma la trattava con la stessa durezza del resto dei suoi uomini. In tempo di guerra non c'era posto per le convenzioni sociali. «Andrò a Berlino e troverò un modo per raggiungere il barone von Schumann in Polonia» disse, infine, Amelia. «Può darsi che debba rimanergli attaccata per un certo tempo, per noi è molto importante disporre di una fonte così autorevole nell'esercito. Nonostante la sua opposizione a Hitler, è un militare di rango e ha contatti con i gradi superiori.» «È contrario al nazismo, ma è un patriota, non dirà mai nulla che possa mettere in pericolo la vita dei soldati tedeschi.» «È senz'altro così, ma lei deve ottenere le informazioni senza che lui abbia la sensazione di tradire la sua patria. In questo caso potrà contare sull'aiuto di una persona che conosce e che adesso si trova a Berlino.»

«Chi è?» «Una sua compagna di addestramento, si ricorda di Dorothy?» «Sì, siamo diventate amiche.» «Il marito di Dorothy era tedesco, di Stoccarda, ed è morto di un attacco di cuore. Lei parla tedesco quasi perfettamente come Jan.» «Jan? Credo di non conoscerlo...» «In effetti, no. È inglese, ma sua madre era tedesca. È stato allevato dalla nonna materna perché è rimasto orfano da piccolo. Conosce Berlino come le sue tasche. Ha vissuto in quella città fino ai quattordici anni, quando la famiglia di suo padre lo fece tornare qui per dargli un'educazione più consona.» «Con quale copertura si trovano a Berlino?» «Si fanno passare per una coppia felice. Jan ha ormai superato i sessanta; ha lavorato per l'Ammiragliato e, anche se è vicino alla pensione, si è offerto volontario per questa missione. Gli abbiamo fornito un'identità falsa: ufficialmente, i suoi genitori erano tedeschi emigrati negli Stati Uniti, e ora il figliol prodigo ha deciso di tornare in patria attratto dal magnetismo di Hitler e l'ha fatto con l'affascinante moglie, una donna di parecchi anni più giovane. Hanno mezzi sufficienti per vivere e non attirano l'attenzione. Il fatto che Jan sia un ingegnere ci è molto utile; gli abbiamo mandato una radio speciale, potentissima, anche se naturalmente deve evitare le intercettazioni della Gestapo. D'ora in poi, quando avrà qualche informazione rilevante, la darà a loro, che le comunicheranno anche le mie istruzioni. Deve stare attenta che nessuno la segua quando va a trovarli e, almeno per il momento, è meglio che non riveli a nessuno la loro esistenza, nemmeno ai suoi amici e al barone von Schumann.» Il comandante Murray impiegò più di un'ora a spiegare ad Amelia quello che si aspettava da lei. Poi accolse la sua richiesta

di passare dalla Spagna per recarsi in Germania. Sapeva che l'unica cosa che non poteva negarle, se voleva continuare a servirsene, era la possibilità di andare a trovare la sua famiglia, ogni tanto. Inoltre, poteva entrare in Germania solo se proveniva da un paese amico del Reich, e la Spagna lo era. «Non voglio che tu ci vada» le disse Albert quando Amelia gli annunciò che doveva tornare in Germania. «È il mio lavoro, Albert.» «Davvero? No, Amelia, quello che stai facendo non è un lavoro. Ti sei lasciata coinvolgere in una faccenda che non puoi controllare, sei una trottola alla mercé degli altri. Quando vorrai riprendere le redini della tua vita, sarà troppo tardi, non ti apparterrà più. Lascia perdere, non te lo chiedo per me ma per te, molla tutto prima che ti distruggano.» «Credi che quello che faccio non serva a niente?» ribatté Amelia, adirata. «Non dubito che lo spionaggio sia imprescindibile per vincere la guerra, ma davvero credi di poter gestire questo gioco solo perché hai fatto un corso all'Ammiragliato? Ti stanno usando, Amelia, ti illudono dicendo che, forse, quando sconfiggeranno Hitler decideranno di muoversi contro Franco, ma non lo faranno. Preferiscono lui all'eventualità che la Spagna abbia un governo come quello del Fronte popolare, non te ne rendi conto?» «Nessuno mi ha promesso niente, ma credo fermamente che, una volta sconfitto Hitler, il regime di Franco vacillerà. Rimarrà senza alleati. Mi dispiace che mi consideri così insignificante, così incapace di svolgere questo lavoro, ma porterò avanti la mia missione dando tutta me stessa per svolgerla al meglio.» «Allora dobbiamo riconsiderare la nostra relazione.» Amelia sentì una fitta di dolore alla bocca dello stomaco. Non era innamorata di Albert, ma da quando Pierre era morto lui era diventato il pilastro a cui lei si appoggiava e non era pronta

a perderlo. Nonostante questo, quando gli rispose il suo orgoglio ebbe la meglio. «Se è quello che vuoi...» «Quello che voglio è vivere insieme a te, cercando di essere felici. Ecco quello che voglio.» «Anch'io; purché tu rispetti quello che faccio.» «Rispetto te, Amelia, ma proprio per questo ti chiedo di comunicare al comandante Murray che lo abbandoni, che non intendi continuare.» «No, Albert, devo rispettare il mio impegno con l'Ammiragliato. Per me, è compatibile con la nostra relazione...» «Non per me, Amelia. Se questa è la tua ultima parola, mi dispiace, ma non possiamo andare avanti.» Si lasciarono. Due giorni più tardi, Amelia usciva dalla casa di Albert con due valigie in cui c'erano tutti i suoi averi. Un'auto dell'Ammiragliato la aspettava sulla porta. Il comandante Murray aveva organizzato il suo viaggio in Spagna, e da lì a Berlino. «Bene, mio caro Guillermo» concluse lady Victoria «so che Amelia trascorse poi diversi giorni a Madrid, suppongo che li abbia passati con la famiglia. Ho parlato con il maggiore Hurley e le ho preparato una sorpresa. Lui ha accettato di venire a cena da me domani sera. Mi ha detto che tra i documenti non segretati ce ne sono alcuni che riguardano il viaggio di Amelia in Germania. Ci darà i dettagli durante la cena.» «Che fortuna che lei e il maggiore Hurley siate parenti» replicai con ironia. «Sì, e per lei è una fortuna ancora maggiore che io abbia sposato un nipote di lord Paul James, altrimenti le sarebbe molto difficile ricostruire quanto accadde in quei giorni.» Lasciai la casa di lady Victoria con la promessa che ci saremmo rivisti a cena la sera dopo, verso le sei. Una volta rientrato in albergo, telefonai al professor Soler. Gli chiesi se si ricordasse

che Amelia era passata da Madrid a metà marzo del 1941, ma il professore sembrò dubbioso. «Consulto i miei appunti e la richiamo. Amelia andava spesso a Madrid, a volte si fermava qualche giorno, altre volte restava più a lungo. In realtà, non ricordo che sia successo niente di straordinario nel marzo del 1941.» «Lei non vi raccontava niente di quello che faceva?» «No, non l'ha mai fatto. Nemmeno a sua cugina Laura. Amelia appariva e scompariva senza dir nulla. Suo zio Armando cercava di scoprire come si guadagnasse da vivere, ma Amelia lo esortava a fidarsi di lei perché lo faceva in modo onesto. Sapevamo che viveva con Albert e in realtà pensavamo che fosse lui a mantenerla.» «E così nemmeno lei sa bene cosa abbia fatto Amelia...» gli dissi, dubbioso. «Perché mai la sua bisnonna avrebbe dovuto essere oggetto delle mie ricerche storiche?» Un'ora dopo mi telefonò per dirmi che non aveva trovato alcun appunto su quel periodo, perciò entrambi arrivammo alla conclusione che Amelia era passata da Madrid e, a parte vedere la sua famiglia, non c'erano state novità. Non mi restava che aspettare di vedere cosa mi riservava la cena con il maggiore Hurley a casa di lady Victoria. Devo confessare che mi irritavano un po' tutte quelle formalità. Non capivo perché non mi raccontassero tutto ciò che sapevano, invece di darmi le informazioni con il contagocce. Ma erano loro ad avere il coltello dalla parte del manico, quindi non mi rimaneva altra scelta che adeguarmi alle loro decisioni.

MAX

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Il marito di lady Victoria era l'esatto opposto del maggiore Hurley. Quella sera ebbi l'opportunità di conoscerlo e mi ispirò subito simpatia. Arrivai alle sei meno cinque e la cameriera mi invitò a raggiungere in biblioteca lord Richard James, nipote di quel Paul James che aveva assoldato Amelia come agente dell'Ammiragliato. Lord Richard, un sessantenne con i capelli bianchi e la faccia rubiconda, mi accolse con un sorriso, stringendomi la mano. «E così lei si sta documentando su Amelia Garayoa... Be', a quanto ne so, era una donna eccezionale.» «Lei l'ha conosciuta?» chiesi, incuriosito. «No, ma consideri che un mio parente, nipote di mio nonno, Albert James, era innamorato di lei, un vero scandalo per quell'epoca; come lei sa, tutto ciò che spezza la routine familiare finisce per essere noto anche ai discendenti. Perciò tutti i James hanno sentito parlare dello sfortunato amore del nostro antenato Albert per una bella spagnola.» Richard James mi offrì uno sherry che non rifiutai, anche se a dire la verità mi fece l'effetto di un pugno nello stomaco. Non ho mai capito la passione degli inglesi per lo sherry, visto che a me dà alla testa al primo sorso. Alle sei in punto arrivò il maggiore Hurley insieme a lady Victoria. Come noi, anche loro presero uno sherry. Quando lord Richard ce ne offrì un altro, pensai che difficilmente quella

avrebbe potuto essere una serata di lavoro, visto che mi sentivo già girare la testa, e immaginai l'effetto che il secondo sherry avrebbe avuto anche sugli altri. Ma mi sbagliavo. Lady Victoria camminava impettita come sempre e l'espressione corrucciata del maggiore Hurley non cambiò per tutta la cena. Ascoltai pazientemente le chiacchiere che non avevano niente a che vedere con l'oggetto della serata. Fu soltanto al dolce che lady Victoria chiese al maggiore Hurley di parlarci del viaggio di Amelia in Germania. Allora lui cominciò il suo racconto... Amelia arrivò a Berlino il 3 aprile del 1941. Aveva preparato meticolosamente il piano da seguire e decise di farsi ospitare di nuovo a casa di Helmut e Greta Keller. «Sono contento di averla di nuovo qui a casa, mia moglie sentiva la sua mancanza, anche se adesso c'è Frank con noi. È in permesso. Ma le donne vogliono sempre avere accanto una presenza femminile, suppongo che ci siano cose di cui parlate solo tra voi. Greta non è più a letto, da qualche giorno si è alzata e sembra che stia migliorando, grazie a Dio.» «Vi ringrazio molto per avermi accolto in casa vostra...» Greta Keller si emozionò quando Amelia le diede i fazzoletti ricamati che aveva portato in regalo. Frank, il figlio dei Keller, era un ragazzone alto, con i capelli castani e gli occhi azzurri, e sembrò affascinato da Amelia. «Certo che è cresciuta! La ricordo quando era piccola, l'ho vista in un paio di occasioni, con sua sorella Antonietta. Mi dispiace per i suoi genitori... Il signor Juan è sempre stato molto buono con la mia famiglia. Si fermerà molto a Berlino?» «Berlino mi piace. Suo padre le avrà raccontato che mi sto occupando di quanto è riuscito a salvare dell'attività di mio padre e di Herr Itzhak... Non avete idea di com'è ridotta la Spagna dopo la guerra... là non ci sono molte possibilità. E lei si fermerà molto?» «Ho qualche giorno di permesso, poi rientro a Varsavia.»

«E noi, mia cara, andremo un po' in campagna, da mia sorella. Il medico dice che mi farà bene lasciare la città e respirare aria pura» annunciò Greta. «Oh! Allora cercherò un altro posto dove stare...» «Assolutamente no! Può rimanere qui, così farà la guardia alla casa. Non staremo via molto, solo qualche giorno» assicurò Greta. «Ma non voglio crearvi problemi...» «Si figuri, altrimenti non l'avremmo invitata a rimanere» aggiunse Herr Helmut. Berlino viveva l'euforia della vittoria. L'esercito tedesco sembrava non doversi impegnare troppo per raggiungere i suoi obiettivi, e la città non voleva farsi coinvolgere dal clima funereo della guerra. Il giorno dopo il suo arrivo in città Amelia si presentò a casa di Karl Schatzhauser. Il professore non nascose il suo stupore nel vederla. «Non pensavo che sarebbe tornata. Era da parecchio tempo che non avevamo notizie sue e del suo amico giornalista, né tanto meno dei suoi amici britannici.» «Mi dispiace, le assicuro che ho riferito il messaggio che mi avevate affidato.» «Ma a quanto pare non ci prendono sul serio. Non lo hanno fatto nemmeno quando li abbiamo avvertiti di non proseguire con la politica di riconciliazione con Hitler perché non portava a niente. Come lei ben sa, prima della guerra Max l'ha spiegato a Paul James senza alcun risultato.» «Professore, sa che la mia relazione con lord James è unicamente attraverso il nipote Albert. Mi dispiace non poterle essere più utile, soprattutto in questo momento.» «Perché è tornata?» chiese il professore. «Per essere sincera, il mio legame sentimentale con Albert è finito. Per questo sono qui. Io... be', non sapevo dove andare. Forse non è stata una buona idea, ma... insomma, ho pensato

che qui forse avrei potuto esservi d'aiuto. Come le ho spiegato, il contabile di mio padre ha salvato alcuni macchinari della ditta e... in fin dei conti, questo mi permette di guadagnare il denaro indispensabile per aiutare la mia famiglia. Se posso rendermi utile anche con voi... non so, qualunque cosa...» «Ma lei cosa potrebbe fare? Non è tedesca e questa non è la sua guerra. La Germania e la Spagna sono alleate. Perché non torna nel suo paese?» «Non posso ancora viverci. Non riesco ad accettare la morte dei miei genitori.» «Max è a Varsavia, ma può darsi che tra qualche giorno torni a Berlino. Sua moglie Ludovica l'ha detto ad alcuni amici e sembra che gli stia organizzando una festa di bentornato» disse il professore guardandola fisso negli occhi. «E padre Müller? E i Kasten?» si informò Amelia. «Collaborano più attivamente che mai con il pastore Schmidt. Helga e Manfred sono davvero coraggiosi. Lui è un uomo molto rispettato dai colleghi della diplomazia che continuano a consultarlo, ma soprattutto ci apre le porte delle case importanti. Ha una vita sociale frenetica e lei non immagina la quantità di informazioni che è in grado di raccogliere durante cocktail e cene.» «Quando potrò vederli?» «Tra un paio di giorni ci troveremo tutti qui per una serata letteraria, naturalmente solo in apparenza. Venga anche lei, sono certo che saranno contenti di vederla.» Amelia fece poi una visita a Dorothy e a Jan, che si erano sistemati in una discreta palazzina della Unter den Linden. I vicini erano persone agiate e favorevoli al Terzo Reich, e non sembravano sorpresi dalla presenza della coppia che aveva affittato un appartamento. Dorothy fu felice di rivedere Amelia. Non era stato facile per lei farsi passare per la moglie di un uomo che fino a pochi mesi prima nemmeno conosceva. Sia lei sia Jan erano vedovi e

avevano quell'età in cui si è ormai riusciti ad acquisire il dominio di tutte le passioni, ciò nonostante all'inizio si erano sentiti a disagio nel dover condividere la casa, anche se ognuno aveva la sua stanza. Jan era un uomo di media statura, con i capelli castano chiaro come gli occhi, ed era metodico e diffidente, al punto che chiese più volte ad Amelia se l'avessero seguita e, nonostante le rassicurazioni di lei, non sembrò soddisfatto. I loro nomi in codice erano "Madre" e "Padre", così li chiamavano a Londra. «È un brav'uomo» le disse Dorothy approfittando di un momento in cui Jan era uscito dalla stanza. «È troppo cauto.» «Mettiti nei nostri panni: dobbiamo essere prudenti, qualunque errore potrebbe costare la vita a noi, a te e agli altri agenti sul campo.» «Il comandante Murray non mi ha detto chi sono gli "altri"...» «Non lo farò neanch'io: meno sappiamo gli uni degli altri meglio è; così si riducono i rischi. Se la Gestapo ti arresta e ti tortura, potrai parlargli solo di Jan e di me, non degli altri.» «Ma se arrestassero voi sarebbe peggio, perché conoscete il nome di tutti noi.» «Se accadesse, Amelia, non vivremmo abbastanza da raccontare alcunché. Ormai abbiamo accettato l'idea di... be', suppongo che abbiano dato anche a te una pastiglia di cianuro. Meglio morire che cadere nelle mani della Gestapo.» «Mio Dio, non dire così!» «Quando abbiamo accettato questo lavoro, abbiamo anche accettato la possibilità di morire. Nessuno ci obbliga a fare quello che facciamo. La nostra missione è aiutare a vincere la guerra, e in tutte le guerre ci sono delle perdite, non solo sul campo di battaglia.» Jan tornò reggendo un vassoio con una teiera e tre tazze. «Non è come il nostro tè, ma le piacerà» disse guardando

Amelia. «Ma certo... non doveva disturbarsi.» «Nessun disturbo, anzi, ricevere visite è sempre un'ottima scusa per prendere una tazza di tè. E adesso stabiliamo le norme di sicurezza per i prossimi incontri. Non conviene che venga a trovarci con troppa frequenza, a meno che non abbia informazioni che non possono aspettare. La Gestapo ha occhi e orecchie dappertutto, e ogni volta che trasmettiamo corriamo un grave pericolo.» «Lo so, il comandante Murray mi ha dato istruzioni su come dobbiamo lavorare.» «È meglio se ci incontriamo in orari normali: non desterà sospetti se viene all'ora del tè, invece sarebbe strano se si presentasse qui di sera o di mattina presto.» «Il comandante Murray pensava che avremmo anche potuto trovarci in altri posti.» «Dovremo comunque prendere molte precauzioni e scegliere con cura il luogo di incontro. Propongo il Prater, lì passeremo inosservati.» «Il Prater? Non so dov'è» disse Amelia. «Nella Kastanienallee: è una birreria molto popolare, d'estate è affollatissima di clienti, fanno ottimi panini di carne e c'è anche un teatro.» «Non attireremo l'attenzione?» «C'è tanta gente, nessuno farà caso a noi. Certo dovremo essere discreti, vestirci in modo non appariscente.» «Non mi sono mai vestita in modo appariscente» ribatté Amelia, infastidita dal consiglio. «Meglio così.» Jan le spiegò come preparare gli incontri e cosa doveva fare per avvertirli se sospettava di essere seguita. «Se abbiamo in mano un giornale vuol dire che nessuno ci segue e può avvenire il contatto; se non siamo sicuri, allora tiriamo fuori un fazzoletto bianco e ci soffiamo il naso. Sarà il segnale che non si può stabilire il contatto e che, appena

possibile, bisognerà abbandonare il posto senza attirare l'attenzione.» Amelia era molto contenta di aver rivisto Dorothy, ma soprattutto era soddisfatta di aver riallacciato i contatti con il gruppo di opposizione capeggiato dal professor Schatzhauser. Si diceva che, fino a quel momento, aveva avuto fortuna nel lavoro di agente. A Londra il suo rapporto sull'Operazione Madagascar era stato apprezzato, e ancora di più il suo operato in Italia. Confidava che la buona sorte fosse ancora dalla sua parte, pur essendo consapevole che con l'avanzare della guerra la sua situazione diventava sempre più pericolosa. Due giorni dopo Amelia si ripresentò a casa del professor Karl Schatzhauser. Lo trovò nervoso, in preda all'ansia che la Gestapo li stesse tenendo d'occhio. Aveva saputo che alcuni suoi amici erano scomparsi senza lasciare traccia dopo che la Gestapo si era presentata a casa loro. Amici che non erano ebrei né militanti di sinistra, ma gente come lui, professori, avvocati, commercianti, a cui ripugnava vedere la Germania sotto il dominio di Hitler. Helga e Manfred Kasten abbracciarono con affetto Amelia, come Ludwig Schmidt. Amelia si preoccupò non vedendo padre Müller. «Non abbia paura, verrà» assicurò il pastore Schmidt. «La riunione è stata convocata proprio perché ci riferisca cosa succede a Hadamar.» «Cos'è Hadamar?» chiese Amelia. «È un manicomio a nordest di Francoforte. Un amico ci ha detto che lì stanno accadendo cose orribili. Padre Müller si è offerto di andare a verificare» le spiegò Schmidt. «Ma cosa vi hanno raccontato di tanto orribile?» chiese Amelia, incuriosita. «Sono cose così atroci che non possono essere vere, nemmeno Hitler potrebbe arrivare a tanto. Ma padre Müller è un ragazzo molto appassionato e, se dovesse appurare che

quello che ci hanno detto è vero, vorrebbe riferirlo subito al Vaticano.» Amelia insisté con il pastore per farsi dire di cosa si trattasse. «Ci hanno raccontato che uccidono i malati di mente, che tolgono loro la vita perché non pesino sul bilancio dello Stato.» «Dio mio, che orrore!» «Sì, figliola, significa applicare l'eutanasia a dei poveri infelici che non possono difendersi. La persona che ce l'ha raccontato lavorava lì; ha detto che non riusciva a sopportare che infliggessero quella condanna ai minorati psichici e ai pazzi. Io stento ancora a crederci. Chi ce l'ha riferito è filosocialista e magari esagera» concluse il pastore. Mentre aspettavano padre Müller, Manfred Kasten li informò che Max von Schumann sarebbe arrivato a Berlino al più tardi entro una settimana. Glielo aveva assicurato la moglie Ludovica, che aveva incontrato a teatro. La baronessa sembrava sentire la mancanza del marito e aveva detto che, quando Max fosse rientrato, gli avrebbe organizzato una cena di bentornato. Ludovica si lamentava che il marito fosse stato destinato in Polonia. Finalmente arrivò padre Müller; era in compagnia di una donna, sua sorella Hanna. Amelia lo trovò cambiato: era più magro e con una piega amara agli angoli delle labbra. Quasi non fece caso a lei, tanta era l'ansia di raccontare agli amici quanto aveva visto a Hadamar, dove aveva trascorso le ultime due settimane. «Tutto il paese sa cosa succede nel manicomio, perfino i bambini. Ho assistito a un litigio in strada, un ragazzino che minacciava il fratello: "Dirò a tutti che sei pazzo e ti manderanno a bruciare a Hadamar".» «Su, figliolo, ce lo racconti per filo e per segno» gli chiese il pastore Schmidt, cercando di far ritrovare a padre Müller la calma che sembrava avere perso nel viaggio a Francoforte. «L'uomo che ci ha dato le informazioni diceva la verità. Sono andato all'indirizzo che mi aveva indicato, quello della casa di

suo fratello, un signore di nome Heinrich che vive con la moglie e due figli. Anche Heinrich lavora a Hadamar, fa l'infermiere. Ha confermato punto per punto quello che ci aveva raccontato il fratello. Mi ha detto che, se potesse, anche lui se ne andrebbe, ma ha una famiglia da mantenere. Per questo, anche se gli costa mettere da parte i suoi scrupoli, continua a lavorare a Hadamar. Non è stato facile, ma grazie a lui sono riuscito a entrare nel manicomio. Mi ha presentato come un amico che aveva bisogno di lavorare. Il direttore sembrava dubbioso, ma Heinrich gli ha spiegato che le nostre famiglie si conoscono da tempo e che mi aveva parlato del suo impiego al manicomio. Ho dovuto recitare il ruolo più odioso che possiate immaginare: quello di un uomo del partito, convinto della superiorità della razza ariana e della necessità di disfarci di tutti quelli che potrebbero macchiarne la purezza. Ma credo di essere stato convincente, perché il direttore di Hadamar ha cominciato a fidarsi e mi ha assicurato che tutto quello che fanno lì è per il bene della Germania. Suppongo che gli sia sembrata una buona idea poter disporre di un paio di braccia in più per badare ai pazzi. La gente del paese evita il manicomio e preferisce non avere a che fare con chi lavora lì. Alla fine della giornata di solito Heinrich va in un bar a bere qualcosa prima di tornare a casa, perché dice che altrimenti non riesce a dormire. Ha bisogno di annebbiarsi la coscienza per poter guardare i figli negli occhi. Al bar, la gente ci evitava come se fossimo appestati. Quello che ho visto laggiù... è orribile!» Padre Müller rimase in silenzio. «Su, figliolo, faccia uno sforzo, è importante che ci racconti tutto» insisté il pastore Schmidt. «Volete sapere quanti pazzi sono passati da Hadamar? Heinrich calcola che siano almeno sette o ottomila. Anche se lì non c'è spazio per tutti, li portano da altri ospedali psichiatrici da tutta la Germania. Giungono su carri bestiame, come se fossero degli animali. Quei poveri innocenti non sanno quale sia il loro destino. Quando arrivano, vengono portati dentro il manicomio senza poter mangiare o bere. Se li vedeste... esausti,

nervosi, disorientati. Poi vengono condotti nei sotterranei dell'edificio, in stanze con le pareti spoglie, senza nemmeno delle panche per sedersi. Al soffitto sono collegati dei tubi. Gli infermieri li obbligano a spogliarsi e poi li rinchiudono là dentro. Le grida sono strazianti...» Padre Müller interruppe il racconto e si coprì la faccia con le mani. Nessuno dei presenti osò fare domande, nemmeno il pastore Schmidt lo esortò a continuare. Fu Hanna, la sorella del sacerdote, a mettergli una mano sulla spalla e ad accarezzargli i capelli, facendolo tornare alla realtà. Padre Müller, con gli occhi colmi di lacrime, sospirò, e facendo un grosso sforzo, proseguì con il suo terribile racconto. «In quelle camere non c'è niente, tranne alcune grate sul soffitto. Mentre i malati gridano in preda al panico, dalle grate comincia a uscire un fumo spesso, che li avvolge nascondendone la nudità, un fumo che li fa soffocare, che finisce per strappare loro la vita. Sì, nelle cantine di Hadamar hanno costruito delle camere a gas dove portano i malati di mente di tutta la Germania per farli fuori. Poi trasportano i corpi in un forno e li bruciano.» «Mio Dio! Com'è possibile che nessuno dica niente, come possono permetterlo gli abitanti del paese?» esclamò Amelia. «Ufficialmente nessuno sa niente, ma per la gente di lì quello che succede non è un segreto, il fumo del crematorio si vede al di sopra dei tetti. Heinrich pensa che, dopo che avranno finito con i pazzi, assassineranno gli anziani e tutti quelli che considerano inutili. L'ha sentito dire dal direttore del manicomio.» «Dobbiamo fare qualcosa!» esclamò indignato il professor Schatzhauser. «Non possiamo permettere una simile infamia!» «Ho riferito al vescovo di Limburg, alla cui diocesi appartiene Hadamar, quello che ho visto. Aveva già sentito delle voci e io gliele ho confermate. Ha promesso di parlare con le autorità. Dirà che gli sono giunte segnalazioni preoccupanti e

chiederà un'indagine ufficiale» continuò padre Müller. «Forse così smetteranno» disse Helga Kasten. «Spero tu abbia ragione!» replicò il marito. «E tu... cosa facevi là?» chiese Amelia, provocando in padre Müller una reazione devastante. La guardò con gli occhi fuori dalle orbite. «Il direttore del manicomio all'inizio mi ha affidato altre incombenze, poi ha cominciato a fidarsi di me e... be', un giorno è arrivato un contingente di malati: c'erano delle donne, addirittura dei bambini. Heinrich è venuto a chiamarmi dicendomi che il direttore voleva che aiutassi a trasferire i malati nella camera a gas. Non potevo rifiutarmi, visto che era necessario che continuassi a interpretare il mio ruolo, ma non ce l'ho fatta: quando hanno cominciato a spingerli dentro, ho cercato di impedirlo, mi sono messo a gridare come un ossesso. Quei poveretti si sono innervositi ancor di più per le. mie grida... Heinrich mi guardava spaventato, io... io gridavo che era un crimine, che dovevano lasciarli uscire da lì... Qualcuno mi ha dato una bastonata in testa e sono svenuto. Quando mi sono svegliato, mi sono ritrovato nella stanza in cui gli infermieri si cambiavano d'abito. Era stato Heinrich a trascinarmi fin lì e mi ha raccomandato di non dire nemmeno una parola. Il direttore voleva interrogarmi. Lui era già stato minacciato di essere consegnato alla Gestapo con l'accusa di aver introdotto nell'ospedale un nemico del Reich. Heinrich aveva giurato che ero un nazista fedele, ma troppo sensibile per quel lavoro, e aveva assicurato che non costituivo un pericolo, ma il direttore gli aveva ordinato di portarmi nel suo ufficio. Non gli ha obbedito. Mi ha fatto uscire dal manicomio attraverso la carbonaia e mi ha consigliato di non passare da casa sua a prendere le mie cose. "Scappa, io me la caverò. Se sei un amico di mio fratello, sono certo che insieme riuscirete a fare qualcosa per mettere fine a una simile atrocità. Io non ne ho il coraggio." E così sono fuggito da quel luogo maledetto; ho cercato un rifugio, sono andato dal vescovo e grazie a lui adesso mi trovo

qui.» «E Heinrich? Cosa ne è stato di lui?» chiese preoccupato il professor Schatzhauser. Padre Müller scoppiò a piangere, sfogando la sofferenza che non riusciva più a dominare. «Quando ha calcolato che fossi abbastanza lontano dal manicomio, è salito nell'ufficio del direttore e da lì si è gettato nel vuoto.» «Mio Dio!» gridarono quasi all'unisono il professor Schatzhauser, il pastore Ludwig Schmidt e i Kasten. «Mio fratello ha sofferto molto» sussurrò Hanna mettendo un braccio intorno alle spalle del sacerdote. «Forse dovremmo tornare a casa. Ha bisogno di riposare.» «Padre Müller, lei è stato molto coraggioso e ha prestato un grande servizio alla causa di Dio. Solo sapendo quello che succede potremo combatterlo» disse il pastore Schmidt. «L'eliminazione dei malati e dei deboli fa parte dell'ideologia nazista. Non è la prima volta che veniamo a sapere dell'assassinio di malati di mente. C'era un piano simile anche prima che scoppiasse la guerra» ricordò Manfred Kasten. «L'unico modo per fermare quegli omicidi è renderli pubblici» mormorò il professor Schatzhauser. «Il vescovo denuncerà alle autorità quello che succede a Hadamar» sussurrò padre Müller. «Ma non gli darann