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Italian Pages 393 [397] Year 2012
Biblioteca Adelphi 593 Tommaso Landolfi
DIARIO PERPETUO
Ricordi chi? gettano sugli anni della giovinezza u n a luce di malinconica vanità o di inquietante presagio; fuggevoli incontri che rimangono impressi «come u n che di struggente e d ' i m p r o b a b i l e : di lunare»; corteggiamenti che altro non sono se non convulsioni d'infelicità e solitudine, matrimoni ridotti a «secchi schianti di disprezzo» e l'intollerabile vuoto lasciato dal disamore; fantasie che p r e n d o n o improvvisam e n t e c o r p o d i f f o n d e n d o u n o d o r e di morte, inspiegabili visioni notturne di u n volto u m a n o librato contro u n angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa c o m e a u n tavolo di chemin defere il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l'impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di m o r t e «quale unica possibile dignità, in f o n d o a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto c o m p o r r e - se n o n fosse sopraggiunta la morte dello scrittore - u n volume da affiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari f r a m m e n t i di m e m o r i a ai quali è affidato l'assoluto disincanto di u n Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia p e r raccontare u n a storia», m a n o n sa e n o n p u ò r i n u n c i a r e all'ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.
Tutte le opere e le traduzioni di Tommaso Landolfi (1908-1979) sono in corso di pubbli« a/ione presso Adelphi. I titoli più recenti sono Viola di morte (2011) e la traduzione di l.a lettura e Kastankad i Cechov (2012).
«Accese la luce sulla scala interna, la quale rimetteva in una stanza nuda, una sorta di atrio. E lì nel mezzo, in una posa rattratta, come pronto a balzargli addosso, c'era un u o m o oscuro (quanto alla generale impressione fornita dal suo aspetto) e stravolto (quanto, in particolare, all'espressione del viso). E quegli occhi iniettati di sangue lo fissavano con così bieco, selvaggio odio, con tal palese volontà di sterminio, che lui non volle anzi non potè vedere altro: in preda a un irrefrenabile convulso di terrore, senza neanche interpellare l'uomo o cercare di spiegarsi la sua presenza in casa propria, fece mezzo giro su se stesso e fuggì verso le stanze interne. Lo sconosciuto però, scortolo appena, s'era davvero lanciato su per la scala e adesso lo inseguiva furiosamente; lui ebbe giusto il tempo d'inchiavarsi dietro due o tre porte... Ma già la prima cedeva sotto colpi forsennati: non servivano chiavistelli, contro una simile rabbia...».
In copertina: Roy Hobdell, Program Design (1951). Collezione privata. © BOURNE GALLERY, REIGATE, SURREY / THE BRIDGEMAN ART LIBRARY /ARCHIVI ALINARI
BIBLIO TECA ADELPHI 593
DELLO STESSO AU TORE:
Cancroregina Dialogo dei massimi sistemi Gogol' a Roma Il Mar delle Blatte e altre storie E principe infelice In società LA BIERE DU PECHEUR La pietra lunare La spada Le due zittelle Le labrene Le più belle pagine Ombre Ottavio di Saint-Vincent Racconto d'autunno Rien va Se non la realtà Tre racconti Un amore del nostro tempo Viola di morte
Tommaso Landolfo
DIARIO PERPETUO ELZEVIRI 1967-1978 A cura di Giovanni Maccari
ADELPHI EDIZIONI
© 2 0 1 2 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT ISBN 978-88-459-2717-1
INDICE
Isolia splendens Buie passioni Il professore Un fiato leggero Il regalo Premio Nobel Esperienze drammatiche Un'eredità Veleni quotidiani Il gioco della torre Contatti umani Trasloco Nuove meditazioni In famiglia Il pazzo Partenza in due versioni Fantasie imprudenti
13 19 24 29 34 39 44 49 54 59 64 68 73 78 83 88 93
Le età d'innocenza Animalini Uscite salutari La donna coli'ombrello Le crocelline Esperimento inutile Tempo perduto Ricordi senza verbo L'omone I due cugini Diario a rovescio Il millantatore Filippo UnaG. La paura della paura Gli Incas Uomini senza timbro Spollatori e spollati Un oggetto inquietante Il solitario Tempo innocente Gatto telegrafista Dialogo di primavera Sangue sul sagrato Passo vietato L'orologio Un caso palmare Storie di civette Nino Il maestro In fiacchere
98 103 107 112 116 120 125 130 134 139 143 147 152 157 162 166 171 176 181 186 191 196 201 206 211 216 221 225 230 235 240
Un volto umano Il freddo Pagine perdute Porcellino di terra Diario perpetuo. La seta nel baule Di alcune immagini La versiera Diario perpetuo. La pazienza. La timidezza Lassù La luna, le piene Diario perpetuo. Sull'orlo di un imbuto Un marito cornuto e una moglie fedele Diario perpetuo. Perché mi piace corteggiare il caso al tavolo da gioco Il nuovo Monsignor Perrelli Diario perpetuo La cavalleria dei topi Diario perpetuo. Ultime donne in casa nostra Due donne Diario perpetuo. Volete imparare questo alfabeto? Lassù Diario perpetuo. Verso la fine del tempo Fatti personali
245 250 255 260 265 270 279 284 288 305 310 314 318 323 329 334 339 343 348 354 359 363
L'ultimo libro di Giovanni Maccari
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Nota al testo
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DIARIO PERPETUO
WVMPMM»
ISOLIA SPLENDENS
«Com'è carino! ». « Che cosa? ». « Questo... questo animaletto ». « E perché esiti? Vediamo, figliuolo, sei proprio sicuro che sia un animale? ». « Ma, maestro, lo vedo correre in qua e in là... ». « Bella ragione. Bella, ma assai poco scientifica: si danno pure piante o parti di piante portate dal vento o da altri agenti». « Ebbene sì, a pensarci meglio mi sembra piuttosto un fiorellino portato dal vento, oppure una di quelle alate spore... ». «Ah ragazzo, ragazzo, come ti lasci facilmente fuorviare: e non ti dicono niente quelle membra delicate, il pallido involucro che le ricopre, quella fitta vegetazione cervicale, infine quei due grandi occhi? ». « Gli occhi però, maestro, possono averli anche i fiori ». « Basta; è proprio un animale, invece. Mi dispiace, fin qui hai fatto una cattiva prova; ma orsù, cerca di riabilitarti identificandolo ». «Beh, ora che mi avete aperto il punto... Ecco: mi par proprio, son quasi certo che sia... Che debba essere... ». « Avanti senza paura ». 13
«... UnaIsoliasplendensl ». «Ci sei; bravo, ti sei in parte riabilitato. Esattamente una Isolia splendens. L'hai mai veduta da vicino? ». « Né da vicino né da lontano: la riconosco di sulle immagini dei repertori ». «Acchiappala dunque; vedrai, ti farò vedere, è interessante per parecchi riguardi ». «Acchiapparla, maestro? ». « Sì, che c'è? Coraggio ». « Ma... ma in che modo? ». « Come! neppur questo sai fare? ». « Uhm no, son desolato; il fatto è, maestro, che di queste tecniche ci hanno dato soltanto un'idea generale ». « Ah, si va bene davvero: qui si torna alle scuole elementari. Ed io, secondo quei signori, con voialtri dovrei riprincipiare dall'abbiccì? ». « Son mortificato... ». « Zitto, e stammi a sentire. A tuo parere, in che dimensione si muove quell'animaletto?». « Mah, a giudicare dai suoi organi direi nella terza ». «Vero; e allora è facile, no? ». « Come facile? ». « Oh Dio: tu insomma ti devi, per dir così, sintonizzare colla terza dimensione ». « Questo lo capisco: ma come? ». « Maledizione! Noi in che dimensione siamo? ». « Nella quindicesima ». « Sì, sul momento; e ciò significa che tu devi far macchina indietro per dodici dimensioni. Chiaro? ». « Chiarissimo; ma... ». « Oh figliuolo: è come un atto di volontà, come un atto di simpatia (si potrebbe anche chiamare), qualcosa infine che deve avvenire dentro di te e che non si spiega a parole. Uno è in una certa dimensione, poi si dispone, dispone tutto se stesso diversamente, ed eccolo in una altra dimensione; io non so spiegartelo che così, sei tu che devi trovar la maniera, ognuno ha la sua ». « Sì sì, ne ho sentito parlare ». « Meno male ». « Sì, ma come si fa? ». «Ah, ma allora stiamo facendo il chiasso! T'ho detto 14
che ci devi pensare da te. Guarda, t'è mai avvenuto di vedere certe figurazioni con pieni e vuoti, che i pieni possono diventar vuoti e viceversa, a seconda... a seconda dello stato d'animo? ». « Sì, sì ». « Beh, è una cosa del genere ». « E uno può passare da una dimensione all'altra con questo semplice atto di volontà o di simpatia? ». « Piano: soltanto dalle superiori alle inferiori; son gli esseri superiori come noi che possono occasionalmente, per motivi di studio, d'indagine, per comodità scolastica, trasferirsi dall'una all'altra dimensione. Gli esseri meno evoluti sono imprigionati nella loro. Ma bando alle chiacchiere: prova. Anzi procediamo in questo modo, che ti sarà più facile: fa' un passo per volta, ed io cercherò d'aiutarti per quanto possibile. Su, metti, ingrana la quattordicesima dimensione. Ohé, ma intanto tieni d'occhio l'Isolia: è lei che si tratta di pescare; e al tempo stesso guardati bene dal perdere i contatti colla nostra dimensione... Sicché, ci sei? ». «Già... già, difatto la mia prospettiva, il paesaggio e ogni cosa intorno, è stranamente mutata». « Mutata, mutata! Che cosa vedi? ». « Per dir la verità, niente ». « Che dici, niente? ». «Niente: son come perso in un'atmosfera grigiastra, e c'è un leggero vento, e non si vede nulla ». « Neppure l'Isolia ». « No... cioè sì, ma come attraverso un'acqua torbida ». « Suvvia, credo che tu sia davvero giunto alla quattordicesima dimensione. Adesso va' avanti, ossia indietro: cerca di ingranare la tredicesima... Ebbene, che vedi ora? ». « Un'immensa pianura di ghiaccio cosparsa di fiamme: colonne di fuoco ». « Ottimamente, sei nella tredicesima. Prosegui. Ora cosa?». « Enormi edifici, torrioni vertiginosi in mezzo a un mare verde». « La dodicesima. Coraggio ancora. Adesso? ». « Sabbia rossastra, con altissimi coni bianchi: neve! ». «Nessunameraviglia: l'undicesima. Su, forza». 15
« I mondi tutti addosso ». «Eh?». « Sì, come star fuori della terra e che una moltitudine di corpi celesti mi si affollasse sul capo, ma in tralice ». « Non si sa che diavolo inventi, ma insomma è press'a poco il paesaggio della decima. Però da' retta, continua ormai per conto tuo, è inutile che ti controlli passo passo. Su, su, e avvertimi quando ti pare d'esser vicino alla meta ». «... Ecco, ecco!». «Che?». « Risono sulla terra ». « Ringraziamo Dio. E allora? ». « Tutto è al suo posto, ma niente è al suo posto ». « Lascia perdere gli indovinelli e parla in modo sensato». « Tutto è capovolto ». «Ah sì, certo: sei nella sesta. Un altro piccolo sforzo ». «Tutto è riritto ma seminascosto, cioè nascosto fino a una certa altezza da un gran mare di nebbia lattea ». « Oh finalmente: sei nella quarta ». « Riritto, ma a sghimbescio rispetto a... ». «Non importa. Avanti, l'ultimo passo. Un momento: non avrai mica perso di vista l'Isolia? Se no che stiamo facendo?». « E chi vede nulla sotto questa nebbia? ». « E bravo il grullo. Ma ormai c'è poco da fare: attacca senz'altro la terza e acchiappa l'Isolia se la ritrovi. Beh, cosa?». «Ah, ma è tutto così strano, così meraviglioso: pensate maestro, una pianura tutta verde, proprio di smeraldo, e qua e là bianche casette, e alberi sparsi, e montagne azzurrine all'orizzonte, e acque di diamante correnti, schiumose... ». « Sì sì, lo so: la terza, puah! Ma l'Isolia? ». « Che Isolia? ». « Sciagurato, non rammenti più perché ti sei inabissato fino alla terza dimensione? ». « Gli è che questa dimensione mi piace... quasi quasi mi ci stabilirei. In fede mia, maestro, è una dimensione... una dimensione così piacevole... ». « Non essere sciocco. L'Isolia? ». 16
«Ah sì, l'Isolia. Eccola: l'acchiappo e torno su? ». « Certamente ». « L'acchiappo: si fa presto a dire. Ma come l'acchiappo?». «Accidenti, questi ragazzi di oggi devono avere il tonchio nel cervello: che vuol dire "come l'acchiappo"? L'acchiappi e basta». « Ma ho paura di farle male. Se vedeste com'è tenera, luminosa, bella; e com'è fragile ». « Sì, d'accordo. E tu prendila colla dovuta cautela; ma fa' presto, se no finisce che costaggiù ci rimani ». «Oh maestro, non c'è cautela che basti, temo: è così... ». « Delicata, l'hai già detto. Ma ora falla finita: prendila e via, altrimenti ti abbandono dove sei ». «Oh no, no». «Allora svelto». « Sicché l'acchiappo? ». « Ma che aspetti! ». «Anche quest'altra bestiola che le sta accanto? ». « Chi, quella? No, non serve, non è un esemplare tanto raro». «... Ecco, ecco fatto, ecco, torno... Oh Dio, oh santo cielo, ma che cos'è?... Ah maestro, ve lo dicevo! Maestro, lo vedete cosa m'avete fatto fare colla vostra fretta? Ah che disgrazia! Maledizione! e maledizione anche ai maestri presuntuosi ». « Come ti permetti! ». « Ma guardate, maestro: questa creaturina così bella e così delicata, questo fiore della sua dimensione... ». « Bah, è morta. Non è la prima volta che succede, da quando si studia la natura ». « E che mi importa della natura: darei la natura intera e tutta la scienza della natura per riportare in vita questa meravigliosa bestiolina! ». «Ragazzo controllati; e quanto all'Isolia, beh è stata una fatalità, ripeto. E ormai cosa ce ne faremmo, così inerte e spenta? Ributtala nella sua dimensione e non ci pensare più ».
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« La mia creatura, uh la mia povera creatura che era il sole della mia vita! Ah Dio, Dio, se è vero... ». « Cosa è successo, signora? ». « E non lo vede? morta! Eravamo venute a fare una passeggiata in campagna, eravamo felici... Morta all'improvviso, da un attimo all'altro! ». « Che, come? Oh quanto mi dispiace; ma forse... Ha fatto chiamare un medico? ». « Ma che medico: basta guardarla ». « E vero, è proprio morta. Ma com'è stato? ». « E chi lo sa: d'un tratto, senza sapere né come né quando, si è messa a lamentarsi, a gridare: "Mamma, mamma, mi sento male, mi sento stringere, mi sento stringere il petto"... e ha perso il fiato, come se davvero qualcuno la serrasse ai fianchi, come se le si fosse spezzato qualcosa dentro, che devo dirle? ». « Oh che gran disgrazia... Quanti anni aveva? ». « Non ancora sei ». « Povera piccolina. Ma via, si faccia coraggio, signora, si rassegni al volere di Dio ». «Eh, ci mette poco lei. Era bella, era buona... lo sa che già mi aiutava in casa? Era... Guardi, ora lei la vede pallida e smorta; ma, mi creda, era splendenti. ». « Lo credo, lo credo, è ancora adesso una creatura meravigliosa... Come si chiamava? ». « Isolina. Ma qualche volta in casa la chiamavamo anche Isolia».
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BUIE PASSIONI
Buie, in senso letterale: si danno infatti passioni che sembrerebbero rifiutare la luce del giorno e prosperare, al contrario, nell'oscurità. E perché poi? Forse è davvero, in esse, qualcosa di tristo o ignominioso? oppure gli è che serbano tanto di pudico e geloso, da impedir loro di esibirsi nei trivii («ragliando salmi», come disse il poeta)? Nondimeno, di trivii in fondo qui si tratta... Accantoniamo la questione. I fedeli del culto si ritrovavano in un certo bar anonimo. Bevevano, cianciavano come nulla fosse; ma si squadravano anche, e non senza sospetto. Era il momento delle operazioni di stazza: « Costui ha perso ieri sera la tal somma; quanto avrà, stasera, in tasca? Molto poco, direi; e mi merita buttarmi a capofitto nella partita, se la contropartita promette tanto poco?». (Naturalmente, simili considerazioni potevano aver valore prima, non durante). Ancora: «Ahi ahi, arriva il caro collega. Scommetto che vorrà chiedermi quattrini in prestito »; eccetera eccetera. A parte ciò, tutti erano posseduti da una agitazione, da un'ansia e quasi angoscia. Ed ecco, verso la mezzanotte, sopravvenire il personaggio necessario benché insignificante dell'oscuro traffico: un vecchio pregiudicato di fronte aguzza e dura (reduce per assassinio dalle patrie 19
galere, e d'altronde il miglior vecchio che io abbia conosciuto), il quale recava sottobraccio un lungo involto in fogli di giornale, affatto innocente... Ma orsù, scopriamo le carte (è il caso di dirlo) : l'involto conteneva il « bambino », ché così appunto si chiama, in gergo, la cassetta o sabot da chemin de fer; e i fedeli del culto altro non erano che giocatori marci e arrabbiati di ogni casta. Per cui ora, in possesso degli strumenti del piacere o della disperazione, si poteva trasferirsi alla spicciolata in luogo acconcio, dove dar principio all'opera. Il prossimo quadro ci mostra i ritardatari: gente che, o davvero faceva tardi al convegno, o si peritava di comparirvi. Poiché per ovvi motivi di prudenza si mutava luogo ogni notte, costoro dovevano essere volta a volta informati degli spostamenti; e lo erano mediante scritte a gesso su alcune cantonate della città... Facciamo un esempio. «Buio d'inferno e di notte privata d'ogni pianeta sotto pover cielo » - in parole volgari, oscuramento per via della guerra; con aria di cospiratore, un tipo avanza, accende un fiammifero, avidamente scruta il muro; vi legge l'indicazione d'una strada, d'una casa, d'un piano; e verso lì s'affretta a passi di lupo. Un tipo, del resto! No, lettore: io, 10 stesso. A buon conto, adunati che fossimo tutti in quella fuggevole sede, cosa avveniva? Facile immaginarlo: la padrona di casa stendeva sul tavolo una coperta di mollettone (neppur verde, ahimè, ma per solito bigia), la spianava colle mani, ci raccomandava di non far chiasso, e si ritirava lasciandoci padroni del campo di battaglia. E invero, che furiose zuffe seguivano, non tanto tra noi quanto colla sorte! Al qual proposito, ed a titolo di saggio, ricorderò 11 grande sgomento di una di tali notti clandestine. Teatro delle nostre lusorie imprese era stavolta una minuscola stanza da letto senza finestre: oltre all'indispensabile tavolo, poche seggiole e brandina lungo la parete, su cui per necessità di spazio tre o quattro giocatori sedevano. Io, avevo un occhio solo, essendo l'altro misteriosamente malato, guasto e quasi del tutto cieco: giusto il tanto che mi permetteva di sbirciare le carte. E lì d'improwi20
so, in tal critica situazione, tra i due colossi della nostra compagnia (l'uno celebre pittore, il secondo scrittore apostolico) scoppiò una furibonda lite. I due omaccioni si affrontavano, si gettavano in viso aspre parole, già già si mettevano le mani addosso, ed è da credere che, in quell'angusto chiuso, avrebbero fatto passare a tutti i presenti un brutto quarto d'ora. Qualcuno saltò sulla branda nel puerile intento di togliersi dalla mischia... Fummo salvati all'ultimo istante da un trottolino di farmacista, un vero soldo di cacio; che, levatosi come un razzo, si buttò animosamente tra i due massicci avversari e giunse a placarne i furori. Incidenti a parte, si seguitava così tra sconforti ed esultanze, tra ciste e battute, fino all'alba e talvolta fino all'ora di pranzo: quando, vinti o vincitori, ci trascinavamo con cineree fronti e piedi molli verso le nostre rispettive tane, per giacere in ingiusto sonno. Ma prima, sul passo dell'uscio e mentre tutti facevano fagotto, bisognava celebrare il rito del Capitano. Questi, dicesi, non meglio identificato che quale « zio di Rossano Brazzi », si poneva ritto a mensola od a cariatide contro il margine del tavolo e sfidava gli uscenti. Cosa poteva essergli rimasto dalle sue costanti perdite? Mettiamo, dieci lire. Non importa: «Venga, venga; l'ultimo colpo; banco di cinque lire! » - giacché egli, saggiamente, divideva anche le sue postreme risorse. Vano accorgimento, del resto: in capo a due colpi si ritrovava nella condizione forse inconsciamente agognata, ossia pulito. Altro fatterello. Certa notte ebbi la discutibile idea di portare con me in una di codeste bische volanti nientemeno che un accademico d'Italia, il quale mi onorava della sua benevolenza ed era poi noto pel suo amore o interesse al gioco. Mi è lecito anzi nominarlo, credo, dal momento che questa sua umanità spicciola ed accessoria non lo diminuirebbe, se mai, ove al contrario accrescerebbe nella generale estimazione: in breve, Massimo Bontempelli. Era bensì inteso che egli mantenesse l'incognito, ma le notizie viaggiano; pertanto, al suo apparire, tutti i biscaioli sorsero in piedi dicendo: « Buonasera, eccellenza! »... Suo imbarazzo, occhiate accusatrici a me senza colpa; da ultimo, virile e signorile accettazione delle circo21
stanze; colpi scambiati, come di fioretto, coi vari sarti e barbieri del raduno; suo vantaggio (egli era al postutto una «natura vincente»); sua sollecita fuga... Seppi in seguito che aveva detto a comuni amici: « Ma dove diavolo si va a cacciare, il nostro amico! ». Oh caro Massimo, perché mi sarei cacciato in quelle camere da letto e perfino cucine, se non per disperazione? se non per incanaglire, appunto? Incanaglire, è necessario; vivere, non è detto. Passò il tempo; la nostra bisca pellegrina si sciolse per mancanza di linfa, vale a dire di quattrini. Singolare effetto, tra parentesi: tutti (salvo, chissà, qualche barbiere o droghiere od ortolano) vi si erano impoveriti, nessuno beneficiando delle altrui perdite. Ora un bel giorno, secondo mi fu riferito, il babbo d'uno di noialtri signorini ebbe occasione di intrattenersi col questore o vicequestore della città, infine con tal personaggio da far accapponar la pelle; e gli disse, costui: «Vede, mio caro signore, noi lo sapevamo di lunga mano (ma naturalmente il personaggio non si valse di questa letteraria e pretenziosa espressione) che quelli lì si riunivano la notte per giocare d'azzardo. Cosa vuole, però: in mezzo a loro c'era un noto pittore, c'era il nipote carnale d'un grande editore, c'era il figlio d'un conte, c'era... suo figlio; mi capisce. Eppoi sapevamo anche che, prescindendo dalle loro passioncelle, era gente incapace di far male a una mosca; sicché, tutto sommato, li lasciammo fare, sorvegliandoli con un occhio». Qui, proteste del babbo di devozione alla legge: il personaggio o i suoi birri avrebbero anzi dovuto dare ai temerari trasgressori «una lezione», quando pure tra i medesimi fosse il figliuolo di lui babbo. Proteste di cui il buon senso del personaggio non tenne alcun conto. Comunque sia, fermiamoci un momento: poiché il nostro presente scritterello è in sostanza tessuto di morali da trarre, ci compete individuare la prima. Che potrebbe, in parole ariostesche, così suonare: « Miser chi, mal oprando, si confida che ognora resti il maleficio occulto », etc. 22
Non tanto misero, mi si obbietterà, se non sempre dal maleficio deriva male; interruzione che lascio cadere. Venendo all'oggi: mi sono l'altro giorno imbattuto in uno di quei lontani barbieri. Grandi accoglienze reciproche; adesso va a giro ripicchiato e con un grosso brillante al dito; è proprietario d'una bottega in piazza del Duomo, laggiù nella città della giovinezza, bottega che forse noi stessi con quei lontani traffici gli abbiamo in parte o per intero pagata; i capelli bianchi conferiscono al suo volto un che di degno, di pensoso, d'intellettuale. Questo sommariamente l'uomo al quale, profittando della rimpatriata e delle conseguenti libagioni, volli fare una domanda mancina: « Siamo vecchi amici, stiamo bevendo insieme, e tanti anni son trascorsi... Mi dica proprio la verità: le carte, le manipolavate; correggevate in qualche modo la sorte? ». - Lui mi guardò sorpreso, offeso forse, esitò, e si decise a rispondere in tre monosillabi perfino difficili da pronunciare, ma di senso aperto: «Non con voi». Rivendicava, cioè, una sua onorabilità superiore agli eventi stessi; indi fuggì, il baro, a dispetto dell'atmosfera conviviale e della mia palese benignità. Beh, codesta seconda morale è meno agevole da trarre; o troppo ovvia; sebbene, sebbene... Via, cosa importava a noi se artigiani e bottegai si facevano di noi gioco nel gioco? Lo sospettavamo, ne eravamo certi; ma avevamo da tenere a bada la nostra furiosa inquietudine, il nostro terrore, la nostra morte. Che di meglio avremmo dovuto e potuto fare? E, il meglio, non sarebbe pur sempre stato una agitazione senza oggetto? Per fortuna, o per disgrazia, c'è una terza morale possibile: generica ed ormai definitiva. Una morale, dirò inoltre, elegiaca; che, mancandomi lo spazio, compendierò nelle brevi parole seguenti. Oggi, di giorno o di notte, le cantonate delle città ci restano mute.
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IL PROFESSORE
All'epoca cui intendo riferirmi, eravamo bensì studenti dell'Università di Firenze, ma l'università stessa, si può giurarlo, la salutavamo di lontano; o magari anche ci andavamo, ma solo a conoscere di persona qualche studentessa celebrata per la sua avvenenza e ad intrecciare con lei rapporti d'ipocrita colleganza. Quanto agli studi in senso stretto, tutt'al più ci si adunava in questo o quel caffè notturno, dove ciascuno fantasticava liberamente di un suo futuro e con future vigilie conquistato posto nel mondo, e dove alcuni tipi, dirò così medi, facevano da tramite tra noi e la cultura accademica. Il resto del tempo, ossia la maggior parte, lo trascorrevamo nei biliardi cittadini (le bische non essendo ancora alla nostra portata) oppure in antiche farse goliardiche. Davanti ad una di codeste tavole da biliardo nasce una disputa; il tal giocatore strepita, minaccia, ed estrae dalla tasca posteriore dei pantaloni la pistola: « La pistola no » grida uno spettatore; ma quello la tien salda in pugno, mentre il suo avversario fugge, infila la porta, seguita a fuggire in cima ai gradini e lungo la facciata del Duomo; l'altro gli galoppa dietro, lo raggiunge quasi, esplode due o tre colpi al suo indirizzo; il primo barcolla ma si fa forza e dilegua; gente comincia ad accogliersi; lo sparatore salta 24
su un tassì: « Corra via. - Dove? - Dove vuole purché faccia presto »... Beh si capisce, la pistola era uno scacciacani, e i due d'accordo. Un principe indiano, turbante marsina pelliccia e piccola corte, entra in un elegante caffè dei Lungarni; camerieri, padrone, bella moglie del padrone, si fanno in quattro snodandosi la schiena; gli eccezionali avventori parlano una lingua a tutti sconosciuta (e difatto inventata di frase in frase), s'aiutano se mai con un po' di francese; sua altezza ora ha fame, e gli preparano a banco panini gravidi, o meglio aristocratici tramezzini; ma il signore è musulmano, per cui uno del seguito precipitandosi implora: « Soprattutto, niente carne di porco! ». E più tardi: «Altezza, si degni firmare questo registro dei visitatori illustri»; quel grande della terra, però, ignora fino i rudimenti della scrittura araba, fa dunque un cenno al solito seguace, ché se la sbrighi lui; il seguace per avventura è in grado di sbrigarsela e verga sul registro, in detti caratteri, una firma immaginaria tutta svolazzi - la quale verosimilmente è ancora lì a comprova d'altolocata clientela; infine, ossequiatissima, l'altezza maestosamente si ritira. O passeggiava, la medesima, con codazzo di monelli per le vie del centro; o sedeva in un palco di proscenio all'Opera; o altro del genere. Oltre tutto, forse, ci figuravamo sconfiggere l'ignaro borghese; che nondimeno sapeva prendersi a volte le sue rivincite, secondo qui appresso per unico esempio. Mutata incarnazione, non so perché (o lo so benissimo) usavamo trasferirci, dopo la mezzanotte, in uno di quei posticini che appunto (da Dostoevskij in qua) è, o purtroppo era, convenuto di chiamar « posticini » senza più. Vi giungevamo, daccapo chissà perché, in abiti da sera: sparato e solino duri, farfalla, brillanti pistagne, mantelli foderati di seta bianca; e dapprima le ragazze ci consideravano con superstizioso riguardo. Ma, fattaci l'abitudine, una notte la più sfacciata di esse uscì in questa smagante osservazione: « Finalmente s'è capita: siete dei camerieri ». Naturalmente, a questa vita almeno nel ricordo beata mancava ciò che sempre manca: i quattrini. Ce ne procu25
ravamo con accorgimenti vari, ma, com'è loro costume, non bastavano mai. E qui il più spericolato di noi modesti gaudenti maturò il più bizzarro e balzano progetto che sia dato immaginare. V'era, tra i nostri intraveduti professori, un dotto e degno al cospetto di Dio; un piccino di barbuccia brizzolata, peraltro con alcun che d'ansioso nello sguardo; sul quale s'appuntarono i miei propri, biechi sguardi. In verità, una volta che per caso mi trovavo tra i suoi uditori, egli aveva avuto l'imprudenza di rammentare sue passeggiate in fiacchere lungo la Senna, tramonti parigini, romantiche fantasie dagli stessi indotte. Istante d'abbandono; ed io pensai: « Questi è quello, quello che, se uomo come sembra e non impresciuttito baccalare, sottoporrò a tributo ». Per chi non lo avesse ancora capito, progettai di stoccare giusto lui, un mio professore, più volgarmente detto di chiedergli quattrini a termine; del resto pareva dovizioso, viveva in albergo. Tentennai a lungo. Infine, una notte di sconforto, esaurita risultando ogni altra fonte di denaro, mi decisi; impugnai la penna e versai sul foglio la piena dei miei affetti, che, neanche a farlo apposta e quasi ad onta della manfaneria esercitata, erano per metà sinceri. Ebbi cura di porre l'accento sull'incertezza della mia umana condizione, sulle indistinte aspirazioni del giovane che, schiudendosi alla vita, non trova nel vasto mondo saldi appigli o pegni di vera esistenza, che ben riconosce impari la scienza libresca al secondamento dei suoi moti più profondi, e via colla solfa; per dir tutto, aprii al piccolo professore un largo e quanto mai gravoso credito (d'intelligenza). Ma la stoccata, quantunque riposta e ad un tempo messa in evidenza tra le pieghe di tanto discorso, restava tale. Tenni la lettera ancora per una settimana sullo scrittoio; la spedii pure. Indi attesi. Passavano i giorni, nulla avveniva, cioè nessuna risposta mi giungeva; ed io smaniavo. Tolta la speranza, appena sistematica, dei disperati, smaniavo come chi abbia detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire. Fors'anche (e forse superfluamente) soffrivo per lui, pel professore: posto così a cimento ed a confronto di se medesimo dalle mie chiacchiere avviluppanti, come se la sarebbe cavata? 26
Passarono altri giorni, un quindici. Poi, tramite il bidello di Facoltà, ricevetti un suo messaggio: dovevo trovarmi, a una certa ora morta (circa le tre del pomeriggio), a un certo gomito del corridoio sul quale davano le aule. Non senza maledire mille volte le mie tristi ispirazioni figlie della mia rabbiosa disponibilità, col cuore in gola, andai. Stava nel vano d'una finestra e guardava fuori, nel cortile deserto, dove non c'era nulla da vedere. Qualche passo di più e fummo a faccia a faccia, io dominandolo fisicamente. Non potendo contare sulla propria statura, egli di solito s'affidava a un talquale sussiego, che d'altronde pareva essergli connaturale: poche, scelte e ponderate parole, paurosi accigliamenti o raggrinzamenti di palpebre. Ma stavolta mi si mostrava indifeso, gli occhi sgranati nella luce diurna, tutto il viso nel colore della sua barba; quanto a parole, nessuna. Centrando meglio l'immagine, non tardai ad avvedermi che era più imbarazzato di me; il che avrebbe potuto darmi coraggio, non fosse stato per una sua affiorante arietta divertita o curiosa. Andava, chissà, accessoriamente valutando che esemplare d'uomo fosse quello dalla sorte buttatogli tra i piedi. Ad ogni modo, per quanto mi concerneva, m'ingegnai di accentuare la mia (mentita) espressione di ironica sfida; cavallerescamente chinato o inchinato verso di lui o su lui, pendevo dalle sue labbra; le quali non mettevano suono. Lunghissimi attimi; non infiniti, pure, se quaggiù non si dà niente d'infinito. Ecco l'esimio personaggio prese a gorgogliare nella strozza e come a debolmente muggire; e disse (non resisto alla tentazione di isolare il suo detto) : « Si rivolga a colleghi più ricchi ». E fu tutto: non raccolse il mio cenno di stupida acquiescenza, girò sui tacchi, si allontanò verso il fondo del corridoio, vi divenne addirittura minuscolo, disparve. Della faccenda, com'è chiaro, non si parlò più; anzi neppure ci rivedemmo. Salvo che fui costretto a ricomparirgli davanti per l'indispensabile esame, cui non serve specificare quanto poco fossi preparato. Aveva ripreso la sua sicurezza, né fece atto di ravvisarmi; 27
era professore di una straniera disciplina letteraria, e in quella lingua con proditorio attacco mi si rivolse. Visto che più o meno ne cavavo le gambe, tornò bruscamente alla lingua nostra, chiedendomi conto quasi minuto per minuto della vita (ve la do a mille) di Chateaubriand: tale infatti sembrava essere stato l'argomento del suo corso. Ma gli toccò subito concludere che, circa i casi del grand'uomo in questione, tutto ignoravo e di nulla mi davo pensiero. Si tolse allora gli occhiali, li depose sul tavolo, e mi fissò con uno sguardo gelido, intollerabilmente severo, d'acciaio. Non sapevo dove mettere le mani e gli occhi. E l'impietoso: « Suppongo lei tradisca la fiducia dei suoi genitori: non tutti, diamine, son fatti per certi studi, ovvero per gli studi in genere; ha mai pensato che la società abbisogna anche di onesti bottegai?... Comunque, sia, diciotto: le do diciotto, non posso fare di più. D'accordo? ». D'accordo ero, figuriamoci: diciotto è la sufficienza, la dispensa dalle discussioni e dai rimbrotti familiari. Quel diciotto valeva bene le duemila lire a suo tempo improntamente richieste anzi pretese. E così ebbe termine la nostra avventura romantica. La nostra, non soltanto la mia.
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UN FIATO LEGGERÒ
Uno dei giochi che si facevano quell'estate consisteva in un rimpiattino il cui campo era la casa intera, colle soffitte, le canove, il giardino. Tutti vi partecipavano, compreso l'arciprete (che una sera fu scovato tra la legna sotto gli antichi forni) ; e le penitenze, talvolta, non erano da prendere a gabbo. Si spengevano le luci; ciascuno, entro un breve termine di tempo, si rintanava chissà dove; poi il designato moveva alla scoperta, vagando per camere e sale, inseguendo labili indizi, soprattutto affidandosi all'acutezza dei propri sensi. La compagnia vantava alcune adolescenti, non già prospere, ma al contrario esili e nervose; le quali potevano aver montato la testa ad alcuni rispettivi giovanotti. Una, segnatamente, ad uno. Sicché le luci si spensero. E il giovanotto cercatore cominciò a pensare: « Ecco la grande occasione. Io, che cosa desidero sopra ogni cosa al mondo? Abbracciarla, abbracciare quella creatura tenera e trepida, ed assicurarla del mio amore. Ebbene, ci sono: fingendo di nulla, fingendo di non ravvisarla, buttarle le braccia al collo, o meglio in29
torno alla vita. Ma naturalmente ciò comporta un doppio ordine di difficoltà: come infatti convincerla del mio amore se fo mostra di non ravvisarla? E, innanzi tutto, come ravvisarla tra le tante larve di questa giostra notturna? ». Il giovanotto aveva però uno speciale metodo d'indagine, fondato sulla straordinaria sensibilità del suo udito; e dell'anima sua, è lecito aggiungere. In altre parole, si figurava di riconoscere al suono il respiro della gente e, a maggior ragione, tra mille l'alito lieve dell'amata. Partì dunque fiducioso, evitando la diaspora che sempre si produceva dopo tratte le sorti e seguendo le indicazioni di precedenti esperienze; volle cioè principiare il giro dal piano superiore, e salì a passi felpati certa scaletta a chiocciola. Si ritrovò in una stanza semivuota, con due finestre: circostanze favorevoli, nel caso qualcuno vi si fosse nascosto, giacché sarebbe bastato avvezzare gli occhi alla non totale oscurità per vederlo addirittura, l'eventuale qualcuno. Ma giova ricordare che il giovanotto non cercava un qualcuno, cercava una determinata personcina; e per di più che, vittima della sua baldanza, ambiva a snidarla solo ed appunto attraverso il di lei spiro... Complicazioni inutili, potrà dirsi: da chi ignora con quali mattoni (scusate la greve immagine) i giovanotti costruiscano i loro edifici d'amore. A buon conto, postosi egli immobile e silenzioso a consultare od ascoltare od auscultare il buio, risultò che in quella prima stanza veramente non c'era nessuno. La seguente era una camera di sbratto, colma per converso di mobili la cui polvere vellicava le nari. E qui dentro qualcosa s'udiva: respiri, facilmente attribuibili a determinate persone, perfino stronfiamenti e risa soffocate. Ma di suo (di lei), nulla; e l'innamorato cercatore proseguì incurante. Una terza stanza, ora, detta in famiglia « della Madonna»: una specie di guardaroba con grandi armadi propizi agli acquattamenti e, da un lato, un domestico altarino che fiaccamente accoglieva il tanto o quanto di luce esterna. Anche qui, suoni spiranti benché sommessi; e, neanche qui, quello inseguito. Poi una vasta biblioteca, odorante di vecchi libri e di topi; dove, certo, sarebbe stato difficile nascondersi, salvo 30
forse che negli angolini tra gli scaffali e le pareti. Ma, dopo tutto, cosa importava? neppure lì dentro aleggiava il suo spirito o si rapprendeva il suo spiro. Poi molte altre stanze, e corridoi e passaggi e tetre soffitte; egualmente vuote di lei. C'erano adesso, è vero, le cantine da perlustrare; e il giovanotto vi scese per dirute scale. Laggiù sembrava ancor più agevole, poiché le decrepite botti fuori uso stavano tutte allineate da una parte, e poiché le volte rintronavano. Difatto, si poteva distintamente percepire la presenza di qualcuno; ossia qualche caposcarico doveva essersi cacciato proprio nella pancia d'una botte. Caposcarico e non lei, di nuovo. Ma a mezza parete, a più di due metri dal suolo, s'apriva una porticina che immetteva in un feudale nascondiglio, o segreta da nemici mortali; il giovanotto vi si arrampicò diligentemente, con fatica e senza successo. Non restava che il giardino. Peraltro, avanti d'accompagnare l'animoso giovane anche in giardino, ci converrà registrare i sentimenti (in fondo consueti) che lo invadevano secondo man mano s'allontanava dal centro vivo della casa: una intormentita, malinconica, sognante disposizione, e delusa già prima di qualsiasi possibile illusione, un disperare di sé e dell'avvenire, un accogliere gli aspetti del mondo come dono momentaneo ed ultimamente irrilevante, o simili. « E quando la avrò trovata, » si diceva egli « cosa cambierà? posso da lei aspettarmi salvezza, o può lei medesima aspettarsi da me il cenno che di una ostile realtà farebbe il regno d'una vita non soggetta a morte, morte d'anima innanzi che di corpo? - eccetera eccetera, più o meno insensatamente. In giardino, la notte illune era animata da (oppure « ferveva di ») una vita segreta, da o di misteriosi fruscii... Così i romanzieri d'appendice: nel fatto, s'udiva soltanto una specie di sonoro ed assiduo trinciamento, dovuto alle mandibole di quei gagliardi, furtivi coleotteri che divorano le foglie appunto trinciandole in mezzaluna, e facendoci a mattino stupire per la nettezza del taglio. O s'udivano bensì mormorii dalle parti del pollaio e delle serre; ma che valevano, se in essi nulla della sua voce deliziosamen31
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te rauca, nulla di lei, passava? E insomma, lei, dove s'era nascosta? Viali di bossolo menavano, in diverse direzioni, al muro di cinta; il giovane ne imboccò uno a caso, e giunse in luogo dove un grande lauro ombreggiava (di giorno) e seviziava due melangoli, ridotti per mancanza di sole a tronconi appena appena fronzuti. Dalle case finitime erano qui piovute bottiglie rotte, scatole e fiale vuote di medicinali, larghe strisce di carta da parati malandata, barattoli ed altri rifiuti. Un angolo di giardino squallido tra tutti, una sorta di ultima Tuie in cui certo la sua presenza non poteva trovar posto; ma sembrava non vi fossero ormai altri luoghi da esplorare, e lei doveva pur essere da qualche parte. Nel frattempo, e mentre egli restava lì indeciso, cominciarono a levarsi dai lembi di quel breve orizzonte schiamazzi sempre più alti, motteggiamenti: stanchi della attesa, i nascosti volevano con ciò affrettare la soluzione del gioco. E lui si guardò ancora una volta intorno. E vide, aggrappate dall'esterno al basso muro di cinta e quasi con esso non so se dire concresciute o impietrite, due manine. Del resto no, non quali in questa prima approssimazione figurate, giacché erano vive: due famigliole di trepide lucertoline, piuttosto, ovvero inventi il poeta ancor più acconce immagini. In linguaggio quotidiano, due manine di adolescente: le sue senza dubbio! Avvicinandosi, infatti, si poteva finalmente udire, e sentire o aspirare con tutta l'anima, il suo fiato leggero, intermesso, inconfondibile. Alle corte: rispettando le regole del gioco e in una eludendole, la furba fanciulla si era appiccata per di fuori al muro e pendeva (né dentro né fuori l'arengo) sulla via sottostante. E lui adesso, cosa avrebbe dovuto fare: smascherarla, denunciarla, confonderla? Mai detto! Lui... lui si limitò a chinarsi ed a coprire di baci ardenti quelle manine come tronche e come sole al mondo. Il che tra l'altro comportava una sconosciuta esultanza: lei lì in sua balia, che non poteva sottrarsi alle sue effusioni e forse neppure (impreveduta, suprema delizia) attribuire un volto preciso a chi la amava. Un debole gemito gli rispose d'oltre il muro; gemito di senso incerto, ma pel momento il giovane se ne tenne pa32
go. Poi, essendosi fatta insostenibile la sua condizione di cercatore, si dette per vinto e si profferse alla penitenza. La penitenza, comminata dal consesso dei giocatori (tra i quali ella medesima), prevedeva un giro di visite ai magnati del paese: salvo che con una gamba fasciata, epperò zoppicando. Interrogato, il giovane doveva replicare: « Non lo sapete? mi son rotto una gamba »; indi, raccolte le prevedibili espressioni di cordoglio, bruscamente allontanarsi a passo di danza. Tutto sommato, una penitenza né più stupida né più intelligente di altre, nell'ambito delle giovanili futilità, sebbene più fastidiosa; cui, ad ogni modo, egli coscienziosamente si accinse. Capitò così in una dimora per definizione avita (vetusta, silente e condegna), quella stessa di lei, dove gli si fecero incontro due donne di due diverse generazioni e di un solo ceppo: madre e nonna, cioè, fedeli immagini della di lei futura immagine o incarnazione o decadenza. E che sgomento: anch'ella, la smilza fanciulla ora folleggiarne in trastulli e rimpiattini, sarebbe stata un giorno, dapprima donna fatticcia e di viso squadrato, poi vegliarda scarna e canuta? Ché invero questo è l'ultimo senso della nostra fragile storia e di tutto: in quella dimora colei è oggi madre... nonna.
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IL REGALO
C'è di quei nobiluomini di mezza età (ma no, facciamo un tre quarti) che usano apostrofare le donne con espressioni d'altri tempi, come, non so, « bella signorina » e « bella fanciulla » se la donna è giovane, o « gentile amica» se è vecchia? e c'è in ogni città di quelle botteghe d'oggetti rari e costosi che magari a rivenderli varrebbero poco, ma si segnalano per pregi squisiti, o « d'epoca», o «di gusto», e talvolta non privi di valore storico? Ebbene, uno di tali signori entrò un giorno in una di tali botteghe; e disse: « Cara la mia vezzosa piccina, ho bisogno del suo aiuto». La commessa, che era difatto vezzosa e che inoltre, ad onta dei geli esterni, vestiva nel suo caldo ricetto abiti leggeri (con ciò ponendo in risalto i suoi punto disprezzabili attributi femminili), la commessa pensò dapprima a un maturo corteggiatore, e si dispose a dispettoso ascolto; peraltro, guardato meglio in faccia il cliente, si fece attenta e premurosa: «Son qui appunto... » cominciò. « Innanzi tutto, » seguitò colui « le annuncio con legittima soddisfazione che iersera ho vinto un milione al gioco». 34
«Un milione: bella somma» commentò la commessa, ancora incerta degli ulteriori sviluppi. « E adesso, adesso che è il momento, ho deciso di fare un regalo a una mia gentile amica; dunque lei deve aiutarmi ». «Amica... che amica: di che età, per esempio?» chiese l'altra professionalmente. « Eh, non vorrà che le racconti tutta la storia ». «No, no! ma pure deve dirmi qualcosa... qualcosa che mi serva d'orientamento. Mettiamo: è sposata, non lo è, è alta, bassa, bionda, bruna? ». «Via, » sorrise il signore «vedo che, malgrado il mio naturale riserbo, mi converrà fornirle delle spiegazioni preliminari. Allora facciamo così: a quest'ora del mattino è difficile che altri clienti ci disturbino; i suoi clienti son quelli del mezzogiorno, dopo i badiali sonni tra le molli piume degli alberghi di lusso; e qui c'è un delizioso calduccino. Per cui sieda, come siedo io se permette, e ascolti ». « Era una ragazza americana; ma non una ragazza americana». « Come "era", e qual è la soluzione del suo indovinello? » obbiettò la commessa, non digiuna di lettere né di romantiche combinazioni. «Intendo,» rispose il signore parzialmente «che non era una ragazza americana secondo lei può figurarsela: non florida, ardita, conscia del proprio destino e di pelo aurato o fulvo. Castana invece, e anzi di capelli appiccicosi, timida, bruttina, meschinuccia ed alquanto sgraziata. Aveva vinto una borsa di studio, epperò solo si trovava tra noi. Le feci un po' di corte, per noia e per disperazione; e lei mi si affezionò come non meritavo. Mi si attaccò in modo da mettermi in imbarazzo: a un certo punto, non aspettavo se non che ripartisse ». « Seduttore! ». « Già. E venne, il giorno che doveva ripartire; e ripartì veramente ». « E così tutto fu finito? » domandò la commessa con ansia involontaria. « Ma che: non so cosa mi prendesse... Era ancora in Ita35
lia, si accingeva ad imbarcarsi; ed io le scrissi una lettera tanto urgente, tanto sconsolata, che tornò ». « Chi tornò? lei? ». « Lei, lei. Osservi del resto che ero in larga parte sincero. Comunque sia, tornò ». « Ebbene? ». « Tornò: ma per udire, o meglio per comprendere senza che io lo dicessi, che non la amavo, che la mia era solo una convulsione d'infelicità e di solitudine ». « Faccenda triste: per la signorina ». « E per me no? Quando poi partì la seconda volta... ». « Partì una seconda volta? ». « Oh gentilissima, certo! Sarei qui, altrimenti? ». « Ma abbia pazienza, io non son mica indovina: potrebbero tra voi, malgrado tutto, esser corsi rapporti che... ». « Niente di simile; al contrario la lasciai andare, mi parve mio dovere ». « Chissà. E lei? ». « Partì, ripeto, e rientrò in patria ». « Come, e la sua storia finisce qui? » domandò la commessa u n po' delusa e tanto più infervorata. « Non finisce per nulla, anzi comincia. Lei, quantunque spregiata, risolse di procedere e di forzarmi la mano ». « Si spieghi meglio ». « Innanzi tutto mi fece tenere un fascio di documenti che mi definivano suo fidanzato o dolcecuore e grazie ai quali avrei potuto raggiungerla laggiù senza difficoltà e senza cauzioni, se lo avessi voluto ». « Ma lei, lei qui, non lo volle? ». « Elementare: no. I documenti invecchiarono, persero la loro validità, prima che io movessi un dito ». « L'avrei giurato. E poi, cosa avvenne? ». «Intanto, lei mi tempestava di lettere. Lettere che, col passar dei mesi e degli anni, serbavano però tutta la freschezza, tutto l'ardore del primo giorno: capisce che roba? Avevo cambiato casa, ma, forse di sei mesi in sei mesi, passavo al vecchio indirizzo; e sempre ci trovavo mazzi di lettere fidenti, candide, angeliche. Per lei non faceva nessuna differenza che io rispondessi o no, cioè che non rispondessi mai ». 36
« Una fanciulla d'oro » esclamò la commessa eccitata e turbata; « ma vada avanti; e poi, e poi? ». « Cambiai addirittura città, e non so più. Verosimilmente, oggi di lettere ne troverei un vagone, seppure la padrona di casa non le avesse buttate via ». « Oh santo cielo! ». « Beh, » riprese di lì a poco la commessa « ora come ora, lei cosa vorrebbe da me? ». « Glielo ho già detto ». « Un regalo natalizio per quella donna? ». «Appunto». « Ma... ma scusi: come mai è risaltata fuori, o come mai se ne ricorda, soltanto adesso? Giacché devo immaginare che la vicenda, o mancata vicenda, narrata... ». « Sicuro: storia di ventìcinque anni fa ». « E allora? ». «La sua domanda sarebbe infatti sensata ove, giusto l'altro giorno, non avessi ricevuto un biglietto, ignoro per qual circostanza o divinazione istradato al mio attuale recapito ». « Che biglietto? ». « "Il buon Natale al già ed eternamente amato" ». «Magnifico biglietto, adorabile!... Ma basta, tutto ciò non mi riguarda. Sicché lei vuole un regalo per... Vediamo, vediamo: che ne direbbe di questa spilla di diamanti?». « Ecco... a parte il suo presumibile prezzo, che c'entra? Vorrei piuttosto un oggetto allusivo ». «Ehi, facile a dirsi! Ma del resto... Aspetti, ho trovato: questa tabellina ». « Tabellina? ». « Sì, o portaritratto. Lei vede che oggi abbiamo una vetrina tutta d'arte russa: ninnoli appartenuti a zar e granduchi. E questo portaritratto, vede, è d'argento dorato, con qualche smeraldino, qualche rosa d'Olanda ed alcune turchesi». « E che dovrei farne? ». «Diavolo: scrivere su un cartoncino a grossi caratteri 37
"Perdono", incorniciare qui dentro il cartoncino e spedire il tutto a quella povera donna ». « Senza firma? ». « Senza firma ». « E un'idea: quanto costa? ». «L'idea?». « Sì, corredata del portaritratto ». « Nulla. Non costa nulla: un milione ». « E lo chiama nulla? ». « Ma non ha premesso d'aver vinto un milione al gioco? Quattrini raccattati nella cenere: dunque... ». « Il concetto, cortesissima, è chiaro; nondimeno un milione è sempre un signor Milione ». « Come come, » strillò la commessa tra lepida e ormai definitivamente professionale «lei sciupa, gualcisce, strazia la vita d'una creatura innocente, uccide i suoi sentimenti più puri, e poi rimpiange quattro soldi che non le costano nulla? Ah, ma sa cosa le dico, signor mio? Quanto propongo è il meno che lei possa fare, le dico! Fuori il milione, qua il milione, e prenda questo leggiadro benché inadeguato pegno del suo pentimento, e vada con Dio. E che anche Lui la perdoni! ».
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PREMIO NOBEL
Lo straniero sbuffò, si cavò il berretto, s'asciugò il sudore, e, rispondendo allo sguardo interrogativo del padrone di casa (se di casa si poteva parlare), disse in cattivo, spinoso ma sufficientemente articolato francese: « Ce n'è voluto: dove mai le è saltato di venirsi a cacciare! E dal momento che non usa dar corso alla sua corrispondenza... ». «Già,» ammise vagamente lo scrittore «il postino non sempre se la sente d'arrampicarsi fin quassù; che poi è proprio ciò che voglio » concluse in tono di sfida. « Ma in codesto modo, » replicò l'altro « si perdono anche le buone notizie ». « Buone notizie? Non ne aspetto e non me ne aspetto ». «Ah no? Eppure io, caro maestro, d'una buona notizia son latore ». « Sarà: me la dia dunque ». «... Di un'ottima, di una trionfante notizia ». « Ho capito, ho capito: quale? » chiese lo scrittore colla solita indifferenza e sfiducia. « Si prepari alla gloria! ». « Mi ci prepari lei; sicché? ». « Insomma, lei ha vinto il Premio Nobel per la letteratura». 39
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« Io? ». « Sì lei; sono il segretario generale della... ed ho appunto l'incarico di comunicarle ufficialmente quanto detto. Beh, felice? ». «No». Alla qual risoluta risposta seguirono alcune immaginabili esclamazioni. Indi: « Come, no! ma si rende conto? si rende conto di cosa può significare e significa il Premio Nobel per chi abbia fatto la letteratura scopo e termine della propria vita, per chi abbia in essa creduto ad onta delle inevitabili incomprensioni ed anzi contro queste se ne sia fatto usbergo... ». «Ah ah, anche lei co\Y usbergo} ». « Ma infine che dice: è il massimo riconoscimento possibile, per uno scrittore; non disgiunto, poi, da sostanziosi vantaggi materiali, giacché l'intero mondo civile... ». « Concesso tutto. E, malgrado tutto, la mia risposta è: no». « No al premio? intenderebbe cioè rifiutarlo? Sa, coi tempi che corrono non sarebbe il primo ». « Ma che, non ci penso neppure: i milioni fanno comodo a tutti, perfino a chi sta quassù in questo covo da belve, straniato dal consorzio umano, in veste di semplice e non necessariamente divertito spettatore. "No" dicevo alla sua prima domanda, se fossi felice dell'annuncio ». « Oh Dio, mi illumini: ho da riferire ». « Ma si rende conto lei, piuttosto, della inopportunità e tardività e in certo senso offensività di codesto suo famoso riconoscimento? Come: mi si tiene in quarantena u n mezzo secolo o giù di lì, mi si costringe, per sentirmi vivere o giusto per non morire, a drogarmi con partite di calcio televisive, con televisione purchessia, con gare di scopone tra villici; e, quando ormai ho acquistato la desolante ma consolante certezza che sono un verme e che non servo a nessuno, mi si viene innanzi coi riconoscimenti internazionali?... Ah cosa si aspetta, mio ottimo amico, che mi profonda in riverenze e gratitudine? o non dovrei al contrario far le boccacce a lei ed ai suoi mandanti? ». « Un momento » obbiettò il segretario generale eccete40
ra. « Lei dice "mi si tiene", "mi si costringe"; beh, chi la ha tenuta o costretta? ». «Voi perbacco; voi o la società, dalla quale non m'è mai riuscito di cavar nulla ». « Ma la società deve pure, prima di tutto, raccogliere i dati alla cui stregua operare: mettiamo, è forse colpa del re di Svezia se il suo riverito nome non volava, fino a ieri, per terre e per mari? ». « Pensi, » seguitò peraltro lo scrittore, senza badare alla sensata interruzione « pensi se una cosa del genere mi fosse capitata anche solo trent'anni fa: allora sì! Allora, di questi quattrini e di questi consensi avrei sì potuto fare addirittura un elemento costitutivo della mia arte... ». « Cosa, cosa? Confesso che un tal singolare principio mi coglie impreparato ». « Ih che frasetta male, o troppo bene, girata! » esclamò lo scrittore con asprezza. « E lei si chiamerebbe un uomo di lettere? O, del resto, è un uomo di lettere e nulla più. Avrei potuto, intendevo, ritrovare me stesso ed in me stesso gli altri; e gli altri a loro volta... Per farla breve, è vero o non è vero che chi eserciti l'arte letteraria (e qualsivoglia arte) ha bisogno d'un anfiteatro? ». « Scusi? ». « Diciamo, d'un consesso di persone, d'un pubblico: se non plaudente, attento almeno e che almeno gli dia il senso di non essere del tutto inutile sulla faccia o scorza della terra? ». « Sembrerebbe, infatti, poiché è nella natura medesima dell'opera d'arte una certa imprescindibile dose di comunicativa o di comunicabilità». « Bravo il segretario generale: chi lo avrebbe immaginato a tal punto chiaroveggente! ». « Ma signore, la sua ironia... ». « Ed è altresì vero che il denaro, qui come dappertutto, si afferma quale condizione necessaria d'ogni possibile ed augurabile successo? che il lavorare per vivere uccide ogni ispirazione e spenge ogni moto o delirio dell'animo? che, ancora, l'uomo umiliato ed offeso, in una parola invilito, dalla miseria e dal concorde disinteresse non può fornire se non l'indispensabile per la propria sopravvivenza e mai quel superfluo o gratuito o magari anticipaci
tore donde lui stesso trarrebbe gloria e (in una serrata circolazione di simpatie e d'intese) trarrebbero forse (che più conta) i suoi simili profitto? ». « Beh, sarà tutto vero; ma guardi, a me in ogni caso pare che lei, come dicono gli Inglesi, prenda il bastone dalla parte sbagliata ». « E sputi la sua sentenza avversa, amico segretario ». «Secondo me si tratta, non solo nella situazione prospettata ma nella vita senza più, di aspettare con fiducia. Tutto qui: non permettere, ad esempio, che le circostanze sfavorevoli influiscano sul naturale sviluppo e sulla naturale maturazione delle nostre facoltà, dell'arte nostra... Come vede, poi, la vita e perfino i nostri simili finiscono col renderci giustizia ». «Ma che belle parole, daccapo! E non lo sa, mio caro, che ad aspettare si perde il meglio per la strada? La sostanza, la fiamma dei nostri sogni o sentimenti è cosa tenue e peritura, ombrosa, legata al tempo fuggente; ad aspettare ed a seguire i suoi sennati moniti, dunque, alla fine avremo sì aspettato, cioè serbato un qualsiasi equilibrio, ma ci ritroveremo vuoti, senza più nulla da dire! La giovinezza se n'è andata, la speranza è divenuta una dimensione o proporzione sistematica, infeconda: da questo, cosa potrebbe nascere di risolutivo? cosa se non, nella migliore ipotesi, il costante e buio risvolto di ogni lusinghiera parvenza?... Come ora, come ora: laddove non è di risvolti o rovesci che può vivere l'umanità, sibbene di argentee certezze, di volti luminosi ». « "Argentee certezze", 'Volti luminosi": lei senza dubbio assume a termine di confronto la luna. Che gran poeta è lei». «Ma stia zitto! sono, beninteso, un pagliaccio verbigerante. In fondo, però, lo siamo tutti: con qual diritto, sicché, lei viene a conferire proprio a me il suo premio? ». « Bah, cessiamo la disputa. D'altronde, con tanti discorsi, non ho ancora capito una cosa: ammettendo pure che il "mio" premio sia male od oziosamente conferito, in che modo, santo cielo, guasta? Mentre lei, si direbbe, lo teme addirittura come la peste ». « Ben si appone, cortese messaggero, e mi segua per un ultimo istante. Io, io ero alla men peggio io o me, no? E 42
ora, se accetto e se mi puntate addosso i vostri riflettori, non dovrò forse impostare su nuove basi la mia esistenza, ridimensionarmi, prendere a credermi un che o un qualcuno? ». « Può darsi; e allora? ». «Ah, ma è tanto difficile? Stato di pericolo e d'emergenza, ecco che, indesiderate e gravosissime responsabilità. E lei, chiedo, se ne fa garante? ». «Via, il tempo stringe, il mio treno parte tra due ore ed ho da riattraversare la montagna. Adesso che bene o male s'è sfogato, cosa devo in definitiva riferire? ». « Riferisca... riferisca che accetto ». «Ah, benissimo; congratulazioni ». «A patto che mi si risparmino le cerimonie solenni ». « Ehm, dovrà nondimeno recarsi... ». « A ricevere il premio? No per nulla al mondo ». «Vede... ». « Oppure sì, tutto sommato; ma badi, nella pubblica allocuzione di rito non farei che ripetere quanto ho avuto l'onore e il piacere di esporle qui ». « Il che certo non sarebbe opportuno ». « Ci credo; epperò, dico ». «Oh maestro, mi consenta... e con tutto il rispetto... Amerei concludere, se non altro idealmente, questo colloquio». « E sia: il succo di esso può magari figurarsi riassunto in una sua precedente frase, purché capovolta». « Enigma affascinante, ma enigma ». «No, no... Semplice, invece: io non ho mai fatto la letteratura scopo e termine della mia vita, non ho mai nella medesima creduto ad onta... con quel che seguiva. Questo è magari il punto. Ebbene, chiaro adesso? obbiezioni? ».
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ESPERIENZE DRAMMATICHE
Le prime esperienze di teatro, si capisce, ciascuno se le fa a casa propria. Ma non intendo discorrere di quei perfetti e bravamente condotti dialoghi o battibecchi (sia pure a vile proposito) di cui la vita familiare si presenta ricca anzi prodiga; mi riferisco piuttosto alle recite, vere e proprie, in varie occasioni organizzate nelle famiglie per bene. A casa mia laggiù, mettiamo, c'era un grande salone a pianterreno, capace di più che duecento persone: e lì dentro, si trattasse di pubblica beneficenza o di raccoglier fondi pel monumento ai caduti (della prima guerra, nientemeno) o di semplice divertimento, quanti sollazzi appunto, quanto volar di parole, quante segrete speranze frustrate o chissà mai esaltate! Ché ognuno di noi adolescenti poneva in tali giochi un singolare impegno, quasi ne dipendesse la salute dell'anima sua. Ovvero pretendevamo incaricare le parole del mediocre testo di qualche occulto messaggio, farle tramite tra noi ed alcuna vagheggiata creatura: «Durante la scena del second'atto potrò, senza parere e senza evadere dal copione, dichiararle il mio amore » ci dicevamo: « e lei, la diletta, non avrà modo di sottrarsi alle mie infiammate proteste »... Come tutto ciò finisse, è superfluo stabilire: il direttore di scena, mio padre, gli occhi iniettati di sangue pel troppo 44
leggere all'incerta luce (dei lumi a petrolio), ci gridava dalla buca del suggeritore, mentre ancora duravano gli applausi del pubblico, ci gridava in dialetto scurrile: «Avete fatto una patanata» - ossia paragonava la nostra prestazione drammatica a una grave zuppa di patate. Poteva però vociare a sua posta, per noialtri la faccenda stava, secondo ho accennato, in modo diverso. E insomma, non volendo dar nell'astratto, meglio venire subito ad un esempio. La cugina diciassettenne era bionda e bianca; i suoi occhi, neri per converso e fondi, si posavano talvolta su me, ma scivolavano via come non mi avesser veduto, o come avesser veduto niente più che un moscerino accanito contro un vetro. Del che io ero infelice, e mi arrovellavo per modificare almeno l'espressione di quello sguardo, o per conferirgliene una; ma sembrava pena perduta. Finché giunse, anche per me, la grande occasione. Dovevamo recitare insieme una scena d'amore: amore incipiente, trepido, dall'ottimo drammaturgo costretto nel suo sboccio entro il breve campo d ' u n o scacchiere e in certo senso commisto colle figure o pezzi del gioco. Pensate dunque: piccolo tavolino; testa a testa; nessuna possibilità, da parte della fanciulla, di eludere una sia pur finta e provvisoria intimità. Durante le prove, poi, avevo con ogni cura evitato di lasciar trasparire le mie intenzioni, tanto da essere rimproverato di «scarso fuoco»; e ciò avevo fatto sia per sorprendere l'oggetto del mio amoroso assalto, quanto per serbarmi integro al cimento decisivo. Si venne così alla gran sera. Tutta la prima parte della commedia, che in verità poco o punto si confaceva ai miei propositi, fu da me recitata o snocciolata sciattamente, senza convinzione e come trasognatamente: io infatti vivevo d'attesa. Ed ecco alla fine ci ritrovammo, noi due, noi due soli tra tanta gente, davanti al detto tavolino. Ella ostentava la sua solita aria superba, indifferente, declinatoria; ed io mi proponevo di mortificarla (non già lei, ma la sua aria), di piegarla (lei, stavolta) a u n a più attenta considerazione di me verme e di turbarla forse, in quest'impresa gettando il massimo delle mie forze. Cominciai. 45
Le parole del testo sonavano un confuso agognamento, una nostalgia senza fondo per uno smarrito bene o per una condizione, per una stagione, in cui ogni nostro affetto avesse pieno splendore, pieno accoglimento, in cui nulla andasse perduto; e al tempo stesso celebravano gli inebrianti misteri d'una vita anche candidamente ossia anche corporalmente vissuta, colle sue generazioni, le sue impotenze e glorie, il suo inevitabile scioglimento. Queste parole io ora non più snocciolavo ma proferivo, quali quelle che in me trovavano inquieta rispondenza e che d'entro me si gonfiavano di ignoto turgore. In breve, recitavo benissimo; lo stesso mio incontentabile padre, dalla sua buca, aveva rinunciato ai gesti rabbiosi con cui soleva stimolarci e correggerci in piena rappresentazione; e, quasi vero attore, mi sentivo adesso forte, inesplicabilmente sicuro di me, certo d'una raggiunta comunicazione. Ma ci voleva altro! Ella restava lì chiusa, assorta, le palpebre basse, rigirandosi tra le dita esili (e perfino alquanto nocchierute) una torre, un cavallo; preoccupata solo della sua prossima battuta. Ebbene, come almeno indurla a levare il volto, a fissarmi? Raddoppiai gli sforzi; raddoppiai, posso dire, di sincerità; e nulla, nulla. Se non che, d'un tratto, a un certo punto d'una mia tirata evocante paesi solari (di contro agli algidi del testo), ebbe un sussulto e si decise a guardarmi; né mai dimenticherò quella sua prima occhiata, lunga, ombrosa, sospettosa, e alla resa dei conti timida. Cominciava ella dunque a sperimentare la mia potenza? e non la mia: la potenza d'amore? sarei giunto a turbarla più profondamente, più distintamente se così devo esprimermi? Volli crederlo, superai me stesso; e finalmente colsi la meritata ricompensa, potetti assaporare il mio trionfo. Ella cioè, cui ora spettava dar la replica, lo fece a viso aperto; ma prima sembrò esitare, protese attonita la mano in un debole gesto di deprecazione, o difesa contro la piena dei miei sentimenti, da lei bene intesi quali eccedenti la finzione... gesto, d'altronde, esso medesimo esorbitante... Imponderabili, certo; e li lascerò dormire nella m e m o 46
ria. Cominciava, soggiungerò invece, il nostro naturale duello; che durò quanto tutta la scena d'amore. Ma non imponderabile quello che seguì. Al qual proposito calza una premessa. Il nostro familiare palcoscenico era piccino, tanto da non tollerare passaggi sul fondo; in altri termini noi fortunosi attori, per passare dopo un'uscita dall'opposta banda, dovevamo insinuarci e strisciare sotto il praticabile; riuscivamo in tal modo, a dritta o a manca secondo le necessità del copione, in una stanza d'abitazione donde rientravamo in scena. E codesto passaggio segreto o sotterraneo, codesto (col poeta) «cammino cieco e strano», sempre destava il particolare interesse di noi adolescenti: di lì sotto ci sorgevano nostre adorabili coetanee scarmigliate, imporporate, scomposte, e palpitanti ancora delle loro drammatiche o filodrammatiche fole; a me lei, sorgeva. Per gli stessi motivi, ci capitava sovente d'assistere ai loro cambiamenti d'abito: casti, si può crederlo; né alcuna fanciulla, tanto meno la mia altera lei, faceva caso alla nostra presenza. Il che chiarito, ritrasportiamoci in quel tempo felice. Dopo la scena d'amore venne fuori strisciando, lei, in una delle mentovate stanze; e si vide a faccia a faccia con me (che, per esser sinceri, la aspettavo al varco); e ci fissammo, come pubblicamente un istante prima. Io chiedevo una conferma, un cenno rassicurante; ma al mio sguardo immutato ella rispose con una grinza degli occhi e di tutto il viso; grinza di fastidio, si sarebbe detto. Donde, mio smarrimento, mia disperazione: a tal punto evidenti, che lei parve sorriderne di passata. M'apostrofò nondimeno severamente: «Che ci fai tu qui?». Ed io, lo confesso, stentai a rendermi conto dell'assurdità, o piuttosto della pertinenza, d'una simile domanda. Il fatto è, come da ultimo intesi, che lei doveva cambiarsi per una successiva scena, e che d'improvviso la mia indiscreta presenza le pesava. Quella retorica domanda, dunque, configurava appieno e consumava il mio trionfo.
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Il rimanente non importa. O per meglio dire, non vi fu alcun rimanente: di lì a poco io tornai agli studi, e lei col tempo finì dove finiscono tutte, ovvero nel seno di una sua propria famiglia dalla quale forse trasse conforto e senza dubbio (o insieme) malinconica delusione. E magari i suoi figli, oggi, stanno a loro volta facendo il teatro. Quanto a me, approfitterò dell'occasione per riaffermare che adoro queste fragili storie in cui non succede nulla o tutto succede per di dentro. Né si vuol qui trattare precisamente delle « cose che potevano essere e non sono state », bensì al contrario di quelle che a nessun patto potevano essere. Badiamo, d'altronde: quando pure la fosse andata diversamente, io o lei cosa avremmo oggi da registrare a nostro favore, a nostra pace? La conclusione ultima sarebbe stata, e sarebbe attualmente, sempre la stessa. Mentre così m'è almeno dato, a me almeno, fantasticare: « Ma se quella ragazza... se con quella ragazza... se con lei, col suo aiuto e colla sua complicità, avessi edificato la mia ancorché vuota e inutile vita, magari tutto, ancorché egualmente vano, mi sarebbe risultato meno tormentoso »... e via a discrezione. Se e se. Giacché forse soltanto di questo si vive: di ipotesi.
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UN'EREDITÀ
« Io ti odio ». « Eh come mai, cara zia? ». « Che "cara"! Ti sono cara? ». « Non particolarmente, lo confesso ». « Allora sta' zitto: se ti ho fatto chiamare, è perché viene pure, un bel giorno, il momento della verità». «Della verità?». « O della morte ». «Guarirete». « No, stavolta la sento vicina ». «La morte?». « O cosa? Del resto ho ottantanove anni: se non è oggi, sarà domani ». «Non è detto: tutti abbiamo le stesse probabilità di vedere la prossima alba, Cicerone medesimo lo afferma ». «Ah, ma allora non hai capito nulla! Non si tratta ormai dei vostri soliti giochetti, e al diavolo i tuoi ciceroni ». «Va bene. In che posso dunque servirvi? ». « Nell'ascoltarmi e, appunto, nel capire, sempreché ti riesca». « Cominciate ». « Muoio: ma lucida per disgrazia, non rimbambita quale vi piace di credermi ».
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« Andate avanti ». «Qualche tempo fa, tuo padre m'ha scritto una lettera». «Ah sì?». « Che sciocco: lo sai benissimo ». «Ammesso». « E cosa mi diceva? ». « Non saprei ». « Sai benissimo anche questo, invece ». « Può darsi; ma ditelo voi ». « Mi chiedeva di rammentarmi, per esempio nelle mie disposizioni testamentarie, dei tuoi figli ». « Purtroppo, ed ebbi occasione di disapprovare energicamente il suo passo ». « E facesti bene: giacché, e con ciò si torna al principio, come avrei potuto "rammentarmi" dei tuoi figli se odio te per primo?». « Certo, e loro a maggior ragione. Non avete però ancora detto perché odiate me ». « Perché sei figlio di un'altra donna ». «Altra da chi? ». «Da me». «Ah, è una storia d'amore in extremis che mi proponete?». « Propongo! Te la racconto bellamente ». «Coraggio». «Beh: devi immaginare il clima, l'aria che si respirava nell'anteguerra ». « Ante la prima guerra mondiale, suppongo? ». «Già». « Fatto; immaginato ». « Ehi, così facilmente? ». «Gli è che non giudico questa determinazione essenziale al vostro racconto ». « Essenzialissima, anzi! Non era ancora caduto tutto, fuori e dentro di noi; ancora potevamo illuderci di un ordine da dare alla nostra esistenza, di un'armonia da instaurarvi, forti d'alcune benché modeste certezze a noi tramandate dai nostri padri; né ancora s'erano levate le vostre querule e discordi voci... ». « E più chiaramente? ».
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« Sì, le vostre odierne voci ». « Lasciate, vi prego, i luoghi comuni e procedete ». « Le nostre due famiglie, la tua e la mia ascendenti, erano le maggiori del paese e tra le maggiori della provincia; e tra loro strettamente imparentate ». « Ovvio, se siete mia zia ». « Per conseguenza, s'era da tempo ventilato un pateracchio: ciò che una precessa divisione patrimoniale aveva separato doveva daccapo e felicemente ricongiungersi ». « Era stabilito, ossia intendete, che voi sposaste vostro cugino, alias mio padre? ». « Sì; ma attenzione, ora. Tuo padre non era solo colui che avrebbe dovuto ricondurre ad unità il casato: era anche un uomo bello, nobile, ricco, intelligente... ». « Eh quanta roba; ad ogni modo, meglio se mai ». « E tu non capisci nulla, lo ripeto: insomma, io me ne innamorai follemente ». «Benissimo! ». «Ah che zucca di nipote! Benissimo, ove egli mi avesse riamata». «E invece?». « Invece, niente di niente ». « O h che tristo e peregrino caso ». « Puoi dirlo, giovane e non più giovane buffone ». « Uhm, guardate di venire al punto ». « Era un mezzo artista, tuo padre: s&i, di quelli che, con tutte le loro invidiabili doti, non trovano terra e cercano se stessi altrove ». « Dove, precisamente? ». « E affar loro: in un sempre ripostulato altrove, in un sempre altrove ». « Congratulazioni ». « Per cosa? ». « Per la vostra insospettata intelligenza ». «Ah povero grullo! ». « Beh beh, continuate ». « Io, da parte mia, ero stata educata in un ottimo collegio di fanciulle nobili: sonavo passabilmente al pianoforte improvvisi, mazurche e preghiere di vergini, recitavo con espressione le poesiole della nonna, sapevo tre lingue e
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piangevo a teatro. Ma evidentemente non gli bastavo; per cui, non appena comparve l'altra... ». « Che altra, zia? ». « Ma tua madre. Comparve, e lui subito giù a capofitto ». «Ella aveva, bisognerà credere, qualche vantaggio rispetto a voi? ». «No, questo è il fatto! O meglio, era bella, bellissima, mentre io... ». «E vi par poco?». « Ma io non potevo ammettere che un uomo come lui si lasciasse rimbambolare da codesti attributi esteriori ». «Né magari avevate torto, se soltanto di attributi esteriori si trattava». « Così era, o così la intesi ». « Orsù, evitiamo il merito della questione e seguitate alla vostra maniera ». « Ho finito, non c'è più nulla da dire ». « Come: ora sì mi stupite! Voi, cosa faceste? ». « La mia maledetta delicatezza mi impediva di mettermi a lottare colla rivale, e per di più mi induceva a riconoscere a tuo padre il diritto d'innamorarsi di un'altra, anche senzabastevoli motivi. Mi spiego? ». «Ameraviglia. E in conclusione? ». « Davvero non lo so, come concludere, e addirittura se sia necessaria una mia conclusione. I fatti parlano da sé ». «Nell'ordine del racconto, forse! Ma finalmente, perché mi avete fatto chiamare? ». « Ih, petulante. Diciamo che non lo sapevo, come concludere, e che adesso, a forza di riflessione e di colloqui colla morte, lo so ». «Ah, siamo già un bel tratto innanzi; vuotate il sacco ». « Tu non ignori, nipote mio poco amante e poco amato, che avevo stabilito di lasciar tutto al prete, o alla chiesa oachi». « Nessuno lo ignora, infatti: qui le notizie corrono ». «A questo fine avevo steso e depositato un regolare testamento ». «E buon prò' al prete; solo non capisco come mai la mettiate al preterito ». « L'ho revocato ». « Il testamento? e cos'altro avete inventato? ».
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« Di lasciar tutto a te ». «Ame! ». «A te, proprio; ed è una eredità punto disprezzabile, se te la sai giostrare ». « Ma abbiate pazienza, non mi ci raccapezzo; e inoltre aborro i colpi di scena ». « Auff! Sentiamo, perché ti avevo diseredato? ». « Perché son figlio di una altra donna, avete detto ». « E perché ora ti reintegro nei tuoi diritti di unico continuatore del nostro nome? ». « Oh Dio, che mi fate pensare: per questo medesimo motivo?». « Hai indovinato, e sei meno stupido di quanto io supponessi». « Convenite però, ammiccamenti e mostre d'intelligenza a parte, che qualche spiegazione supplementare non guasterebbe ». «Come, adesso ridai addietro!... Beh di' intanto, non mi ringrazi? ». « Son troppo sorpreso ». « Peccato, ciò mi fornirebbe l'opportunità di replicare: "Non ringraziarmi, non lo faccio per te né tanto meno per tuo padre, lo faccio perché era scritto che il patrimonio familiare e i familiari affetti si riunificassero, ed io non ho la forza di oppormi ai decreti del fato, eccetera". In confidenza, poi, lo faccio soprattutto per salvarmi l'anima». « Più chiaro almeno, se pure non esauriente. Ma, cara zia, l'ora corre ed io mi ritiro ». « Arrivederci in paradiso ». «Voi scherzate. Comunque sia, buona morte, di qui a cent'anni». « Eh eh! Buona vita a te, piuttosto: che, dal poco ho potuto capire, sarà cosa di gran lunga più difficile ».
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VELENI QUOTIDIANI
Era sopravvenuta, nel nostro matrimonio, quella stagione trista in cui ogni minimo incidente risveglia rancori sopiti, rabbie inespresse o non consumate, vicendevoli accuse. Ciascuno di noi due faceva responsabile l'altro per la propria non conseguita felicità; mia moglie mi parlava ormai solo per amari sarcasmi, con risolini furiosi, nel migliore dei casi con occhiate di sopportazione. Aveva ella al buon tempo usato emettere, venendomi accanto, un curioso suono da colomba o da tortora, ottenuto chissà con una particolare sollecitazione delle tonsille o delle corde vocali, suono quanto mai confidente e confortante: niente più, ormai, si produceva nella sua strozza, tranne secchi schianti di disprezzo. E da tutto ciò, qui troppo sommariamente esemplificato, il mio nativo avvilimento aveva preso forza nuova e soverchiante dei postremi miei spiriti vitali. Davvero non potevo più vivere così; urgeva una soluzione. Determinai, dico, di ucciderla; né pensai sul momento alle conseguenze; pensai invece al senso di liberazione, alla pace che sarebbe seguita, quando, sebbene egualmente incerto di me medesimo, almeno non avrei avuto quell'indice accusatore puntato contro il petto; e senz'altro cominciai a riflettere al modo da tenere. Ma qui non
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correvano dubbi: ero si o no un vile? dunque dovevo uccidere mia moglie col veleno. Eppure, i dubbi scacciati dalla porta rientravano per la finestra: con quale veleno, come procurato, come somministrato? Tale indagine mi prese più tempo di quanto non supponessi, un sei mesi circa; alla fine, giunsi a configurarmi partitamente le circostanze del progettato uxoricidio e mi preparai all'esecuzione del criminoso progetto. Tanto per precisare, avevo dato le mie preferenze all'arsenico: sostanza che, in determinate dosi, poteva agire lentamente, ossia (secondo esigeva la mia codardia appunto) permettermi in caso di ripensarci, di pentirmi e di sospendere le somministrazioni. Ma sia ben chiaro, non avevo ancora mosso un dito; e tuttavia, un bel giorno, avvenne qualcosa di singolare.
«Oggi,» dichiarò mia moglie scendendo in vestaglia per la colazione del mattino « oggi non mi sento bene ». « Eh, come mai? » chiesi con immaginabile e peloso interesse. « Di che si tratta? ». « Non lo so: un malessere vago e diffuso ». «Possibile!» esclamai, a metà gongolando ed a metà sconcertato (difatto, gli esecutori d'alta giustizia ed i loro mandanti vogliono vittime in perfetta salute, o altrimenti a che servirebbe torturarle?). « Passerà » troncò lei. Ma non passava, col procedere dei giorni, anzi lo strano malessere si aggravava. Consultammo un medico; e questi: « Se non vi conoscessi, quasi quasi... ». « Per l'amor di Dio, dottore, cosa c'è? ». « Direi che la signora è intossicata ». « Intossicata! » ripetemmo diversamente allibiti, colle altre debite meraviglie; meraviglie, si vuole intendere, sincere forse da parte di mia moglie e da parte mia positivamente ipocrite. Ché, in realtà, a me la faccenda apparve subito manifesta: ella, o addirittura il suo organismo, aveva percepito la mia volontà di sterminio e reagiva con sintomi ed allarmi. Donde, tra parentesi, io cavavo molteplici rimorsi, ma an-
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che un acre senso di trionfo, come dire che bastava la mia intenzione per annientare mia moglie e inoltre che gli attuali sviluppi della situazione mi avrebbero risparmiato di macchiarmi la coscienza. Ella, insomma, sarebbe forse morta per mero ed inconscio terrore della morte. Il medico andò via stringendosi nelle spalle e prescrivendo qualcosa, naturalmente di nessun utile. E seguitammo a vivere, lei sempre peggiorando, in quell'inviluppato rapporto, in quel nodo di aperta o sottintesa avversione; cui peraltro, devo ripetere, io niente aggiunsi di concreto (nel senso che non mi decisi a usar davvero il veleno). Ma venne pure la catarsi del nostro oscuro dramma.
Una notte, a tarda ora, mia moglie scese dalla propria stanza e mi si piantò davanti con aria aggressiva. Capita di rado, un libro appassionante: sicché, levando gli occhi dalla lettura, la guardai infastidito; infastidito e ben risolto a rimandarla subito a letto. La vidi però insolitamente sconvolta. «Lassù, » disse con cipiglio «lassù si soffoca». « Ed io sarei responsabile anche del caldo? ». « Sì! No... non del caldo ». «Edi che?». «Amico, facciamola finita: giù la maschera! ». A questa teatrale uscita io, ancora nel clima della lettura (distratto dunque, trasognato), feci seguire una semplice e quasi indifferente occhiata interrogativa; e lei riprese: « Tu, amico, vuoi uccidermi; non hai trovato mezzo migliore per liberarti di me e rientrare nel pieno possesso delle tue preziose facoltà. Vuoi avvelenarmi, per l'esattezza; e scommettiamo che indovino quale veleno hai scelto, quale veleno mi stai somministrando a piccole dosi? Diamine: l'arsenico ». « Ma tu come lo sai? » mi sfuggì detto; né mi resi conto che ciò poteva sonare conferma di tutte quante le sue supposizioni o implicazioni, e non solo delle colpe a me effettivamente imputabili. « Come lo so: ma perché anch'io, a mia volta... ».
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E con rapide parole, per reciproche o dicasi in negativo, ella venne tracciando agli occhi esterrefatti della mia mente lo stesso quadro desolante che ho qui sopra sbozzato al lettore. Mutato appariva l'angolo di vista, non mutata la sostanza: anche lei si sentiva oppressa, avvilita e menomata dalla vita familiare, anche lei aveva determinato di uccidermi e perfino scelto il medesimo veleno, e così via. Ciò udendo, senza darle tempo di finire gridai: « Ma io, io, non ho fatto nulla di positivo! Era solo un proposito magari vano, una cosa di dentro ». « Quanto a questo, » replicò imperturbata « neppure io ti ho materialmente versato il veleno nel caffè o nella minestra. Il che non toglie... Mi sono ammalata, io » aggiunse in tono d'irrefutabile accusa. Come me, ella si studiava di distinguere o quasi enucleare e di opporre il proprio piccolo e particolare Io (quale parola almeno). Ad ogni modo, che girandola di Io: quando tutti lo sanno, neanche due soli di codesti vessatori possono coesistere pacificamente. Mi vidi abbandonato dagli stessi sofismi, cui solevo e soglio chiedere assistenza; dissi tetramente, fiaccamente: « Ti sei ammalata, eh? E di me poverino, che mi racconti? ». « Sì sì, » concesse generosamente « in fondo hai ragione: tu ammalato lo sei per natura, ma certo lo sei ora più che mai... ^ « Bene, bene » continuò mia moglie; « dunque ci siamo ammalati ambedue, lo siamo, e di giorno in giorno si peggiora. E adesso, vogliamo provare a concludere? Non che serva a qualcosa, ma giusto per aver le idee chiare ». Posta così brutalmente la questione, gingillarsi pareva inutile; arrischiai: « La convivenza? ». « Oh bravo, ci sei arrivato alla prima e mi rallegro » approvò. « La convivenza: o se no che altro? Noi ci stiamo uccidendo pel fatto stesso che stiamo insieme ». Orsù, ne fui subito convinto e non volli seguitare in quei termini meramente teorici. E lei sul momento si ritirò, accompagnata dalla mia ammirazione (per tanta e tanto ben compendiata chiaroveggenza). Piuttosto, rima-
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nevo e rimango dubbioso circa l'efficacia risolutiva dell'effetto allegato da mia moglie. Il matrimonio invero è morbo che può diventar cronico e che il più delle volte non ci vieta, se pure balogi, semivivi, ad ogni nobile intrapresa inetti, di sopravvivere fino a cent'anni et ultra. Per conseguenza uno di noi due, se gli preme guarire, dovrà ben decidersi a far uso del veleno: di quello buono, dell'arsenico. Uno di noi, o tutt'e due concordemente, che sarà la più spiccia.
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IL GIOCO DELLA TORRE
Ci era in qualche modo amica, e per avventura sul momento compagna, una di quelle donne mezzo forestiere (a causa di complicate ascendenze) che camminano volubilmente o come danzando e parlano, non solo con accento inusitato, ma quasi diremmo a distesa ovvero quasi cantando: a conti fatti una specie di grulla, sebbene non ci fossimo mai data la pena di accertarla tale, ché anzi il nostro giudizio implicito poggiava unicamente su una generale quanto immotivata impressicele. Il suo nome, quello letterario e in fondo assurdo di Guendalina. Il tempo, tempo di vacanze o di vacanza: in particolare, una pausa forzata nella nostra volontà di svago, magari a sua volta forzata. Queste, ad ogni modo, le circostanze in cui si situa il seguente dialogo (o zuffa oziosa, disperata). « Che noia! ». «Che noia». «E perché poi ci annoiamo tanto, voglio dire più del solito?». « Credo di saperlo, ragazzi: perché da me non c'è nulla da cavare, o almeno voi così pensate. E voi siete così fatti,
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che se siete in compagnia di una donna e per caso questa donna è preclusa ai vostri appetiti, o supposta tale... ». « Non si tratta di supporre o pensare alcunché, è proprio vero: tu, Guendalina, sei innamorata dei tuoi figliuoli e basta». «Può darsi benissimo, ma è egualmente vergognoso che lo diate per pacifico. Vergognoso per voi, si capisce: dovreste almeno considerare la possibilità che io fossi innamorata dei miei figli ed unicamente di essi perché non sono innamorata d'uno di voi due, ossia perché nessuno di voi due...». «... Ha avuto la forza, il valore, di meritare la tua attenzione. Sta bene: mica tanto sciocca, la ragazza ». « Ragazza! madre di famiglia, piuttosto ». « Ma sempre ragazza. Comunque sia, le cose stanno ormai così, e qualunque tentativo da parte nostra, quand'anche l'afa lo permettesse, sarebbe tardivo ». « E allora seguitate ad annoiarvi ». «No, sarebbe troppo chiederci. Faremo invece il gioco... ecco, il Gioco della Torre ». «Che cos'è?». « Dunque guarda: tu, Guendalina, dovrai immaginare di essere in cima a una torre altissima, tanto alta che chi si getti o sia gettato di lì debba per forza morire. T u vi sarai insieme con due persone e dovrai buttarne giù una. Hai capito? dovrai, non potrai farne a meno, potrai solo scegliere quale delle due buttar giù: mi sono spiegato? E rammenta anche che una terza soluzione non c'è; non potrai, mettiamo, ammazzare te stessa, dovrai in tutti i modi ammazzare una di quelle due persone. Ebbene, se hai capito, accetti di giocare? ». « Ma è un gioco atroce! ». « Perciò è divertente, o speriamo lo sia ». «Mah, se un'idea simile vi diverte... Avanti, cominciamo». « Brava. Allora vediamo un po'. Tu sei lassù con Hitler e Mussolini: chi butteresti giù? ». «Hitler». « Già già; ma vedi, Giovanni, la domanda è un po' troppo semplice, per non dire oziosa».
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«Aspetta. Si comincia colle domande facili, e poi man mano... Intanto, signori e signore... ». « A chi stai parlando? ». «Al deserto, naturalmente. Intanto, signori e signore, osserveremo che dove o quando la domanda chiami in causa solamente l'intelletto, la risposta seguirà pronta, cieca ed assoluta, come l'obbedienza. Questa donna infatti non ha alcuna esperienza diretta, cioè personale, dei due dittatori citati, epperò si limita a condannarne uno secondo un certo e generico grado di pericolosità, desunto per opera dell'intelletto appunto. Vogliate di ciò prendere atto; e proseguiamo, o meglio confermiamo il detto. Signora! e se con Lei fossero Dante e Shakespeare, chi butterebbe Ella giù? ». «Un momento, miei cari: Dante e Shakespeare a che età?». « Che strano quesito ». «Voglio dire, che avessero già scritto la Commedia e V Amleto?». «Beh sì, Dante e Shakespeare quali risultano a te in questo momento: già autori, suppongo, di quelle opere immortali». « Che imbarazzo. Ma via: Shakespeare ». « Cioè butteresti giù lui? ». «Sì». « Ecco, signori e signore: giusto o non giusto il giudizio della nostra paziente o cavia o conlevi piaccia chiamarla, ella non esita se non per vezzo, poiché la sua scelta o condanna è, nuovamente, suffragata dall'intelletto. Andiamo avanti. Tuo padre o tua madre? ». « Devo proprio buttar giù uno dei due? ». « Ma certo, bellezza ». «... Mia madre». «Ed ecco, ora, amici: qui all'opposto parla il cuore. Il quale ha tante probabilità di sbagliare quante la ragione, ma questo non c'entra. Importa invece notare che il suo giudizio è limpido e fermo, ove e nella misura che più dubitosa ne appaia la formulazione... ». « Ma Giovanni, stai confondendo le carte ». « Taci!... Almeno, e per esser più precisi, qui il cuore ha potuto parlare; e il suo giudizio, fallace o no, è autosuf-
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ficiente. Son forse oscuro, signori e signore? Via, intendo insomma che, dove né intelletto né cuore parlassero, cosa sarebbe? o, se preferite, dove non parlasse il cuore (giacché l'intelletto parla sempre in un modo o nell'altro)? Oppure... oppure non so che. Non ci confondiamo il capo. Insomma ancora, proporrei il seguente esperimento, ossia la seguente domanda: Guendalina! ». «Forza». «Vedi, il fatto che non rammento mai gli strani nomi dei tuoi figliuoli mi guasta l'effetto. Ma finalmente: tra tuo figlio e tua figlia? ». « Chi butterei giù? ». « Sì ». « Mi butterei io ». «Non dire sciocchezze: hai dimenticato le regole del gioco? ». « Che me ne importa delle regole del gioco! Mi butterei giù io». «Ma no, tu devi tassativamente buttare... immaginare di buttare uno di loro due ». « Non immagino e non posso immaginare niente di simile». « Ma allora cosa stiamo qui a fare? Tu hai accettato il gioco ». «Io non ho accettato niente, o l'ho accettato finché... Non è neppure una domanda crudele, è una domanda stupida, stupida!... ».
« Calmati, Guendalina, dopo tutto è un gioco appunto. Va bene, smettiamola, non fa nulla ». «... Stupida, stupida! ». «Ma via, che c'è adesso da piangere? Piangere addirittura: alla fin fine è una cosa senza conseguenza ». « Lo credete voi! E una domanda... ». «Stupida, d'accordo. Ma ora calmati; noi ti vogliamo bene, non volevamo... ». « Non volevate, eh? ». «No, no davvero. Ed oltre a tutto guarda, mammina crucciata, guarda quanto è fittizia e senza importanza questa storia: non si dà, un problema che ammetta due
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sole soluzioni, e in genere un numero obbligato di soluzioni. E uno scherzo, ecco cosa». « Uno scherzo, eh? ». « Sì sì, uno scherzo. Eppoi vogliamo bene anche ai tuoi bambini. E neppure c'è un problema la cui soluzione possa essere fondata unicamente sulla ragione o unicamente sul cuore; no, forse ci vogliono tutt'e due, e infatti i maggiori sistemi filosofici chiedono in primo luogo un atto di fede... Era un falso problema, daccapo uno scherzo, un gioco». « Bravi, bravi ». « E allora perché non la finisci di piangere? ». «... Domanda stupida, stupida! ». «Ma sì, certo, lo abbiamo già ammesso; calmati ora, scusaci; smetti di disperarti, non è successo nulla». « Un falso problema, eh? ». «Certo». « Scherzo, gioco? ». « O h Dio, certo, certo. Tu non ti troverai mai in cima a una torre e nella necessità di buttar giù uno dei tuoi bambini, neanche se tornasse Hitler con i suoi più raffinati torturatori». « E non è vero, perché casi simili possono capitare. Ad ogni modo la questione non è qui: se non ci si trova di fuori, in una data situazione, ci si trova magari di dentro ». « Questo poi è addirittura un enigma ». «Ah non capite, sciagurati... Voi non capite niente, c'era da scommetterlo ». «Mache cosa?». «Non capite, non capite! Non capiscono, loro; parlano e non sanno». « Ma Guendalina, avrai i nervi scossi per qualche altro motivo: noi non ne abbiamo colpa ». «E non capite, sciagurati, che al contrario... che io so, io ora so chi butterei giù? ». « Quale dei bambini butteresti giù dalla torre? ». « Dalla torre; io, sì. Ed è terribile, è spaventoso, non potrò più guardarli in faccia, non potrò più vivere! ». « Tu, tu sai! E... e quale? ». «Anche questo! anche l'oltraggio della curiosità! Vorreste vi dicessi anche questo, barbari, carnefici?... ».
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CONTATTI UMANI
A dispetto delle mie sempre sgraziate risposte (di dentro beninteso, senza aprire) qualcuno osa ancora bussare alla mia porta... Non è, del resto, che di tale costante malagrazia voglia vantarmi; ma come si fa! Per cominciare, io vivo solo, sicché in casa m'aggiro in libertà, quale bestia selvaggia: con diverse parole, sudicio, arruffato e scalcagnato; « impresentabile », secondo l'espressione in uso tra i borghesi che hanno rispetto di se medesimi. Inoltre, pare impossibile, la gente arriva sempre nel momento sbagliato: sono in bagno, che so, oppure mi sto facendo la barba, oppure sto conteggiando gli spiccioli rimastimi dopo una notte di follia, o semplicemente, torbido davanti allo specchio, conteggio le rughe e con dito delicato tento le borse sotto gli occhi. E, diamine, in queste condizioni come accogliere degnamente un visitatore? Eppure, dicevo, c'è ancora di tanto in tanto qualcuno che sollecita il mio uscio. Forestieri, da scommettere, e basterebbe lasciarli alla loro attesa ed al loro destino. Invece, vedi animo umano, può perfino eccezionalmente avvenire che io l'uscio lo apra: tanto per sfogarmi ad inveire contro i malcauti, o per curiosità se i malcauti son furbi. « Chi è? » (con voce da Scarabone Buttafuoco). «... Sigarette ».
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« Che sigarette? Non capisco niente ». Altro incomprensibile mormorio di là della porta. Non mi serve nulla e non apro; buongiorno. «Ma... ». C'era, in quel « ma», qualcosa che m'indusse a tornare sulle mie decisioni e insomma a spalancare il battente, sebbene tuttavia col viso dell'arme. Un tipo sveglio, con un maglione da marinaio, un berretto a visiera d'incerta foggia (riferibile bensì alla sua supposta professione) e, quasi per forzare il giudizio o la identificazione, una spilla in forma d'ancora appuntata nel mezzo del petto. Egli mi considerò dapprima lungamente, indi mi spinse dentro con due dita ed entrò lui stesso, come furtivo. «La nostra nave,» esordì «la nostra nave è nel porto di...» (quivicino). « Me ne rallegro ». « No: dico, voi fumate? ». « 'Voi", cioè io? Sì fumo ». «Parlate piano... E, siccome siete un signore, sigarette estere? ». « Per forza ». « Beh, ne avrei una partita a metà prezzo: sapete, noi marinai abbiamo delle opportunità... ed anche noi abbiamo famiglia... Una mano laval'altra». « Ma io non sono un contrabbandiere. E poi, che "partita": si trattasse di pochi pacchetti, magari... Tanto non si danneggia nessuno, fuorché lo Stato... ». «Va bene, calma; prendetene quanti volete ». « E dove sarebbero queste sigarette? ». Fece un gesto vago; e qui, preceduto da un grattamento all'uscio (che era rimasto socchiuso), comparve un secondo personaggio. Personaggio ancor più vegeto e di fisionomia aperta: un uomo da fidarsene. « Hai portato le sigarette? » gli chiese il primo. « Il signore ne prende tre stecche ». « No, ma che ci vuole: in due minuti vado e torno ». Il nuovo arrivato mi scrutava a sua volta con attenzione. «Vado e torno » confermò. « Ma, giacché ci sono, osservate questo gioiello » soggiunse ficcandosi due dita in tasca e cavandone un piccolo orologio. «D'oro, vedete? ecco il marchio (io però non avevo occhiali, e lui s'accorse
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che raggrinzavo le palpebre). E di quelli che non occorre dargli la corda: è sufficiente il calore del polso ». «Non mi servono orologi, ne ho già più d'uno; inutile insistere ». « Ma, non si sa mai, per un regalo... ». «Niente da fare». Nondimeno egli m'aveva ormai appoggiato l'orologino sul polso: « Guardate, guardate: poverino, già s'è messo a camminare». «Basta; prendo le sigarette, dell'orologio non parliamo. D'altronde non ho quattrini ». « Quanti quattrini avete? ». « Sì e no diecimila lire » risposi imprudentemente. « Ve lo darei per ottomila ». «Ho detto che...». «Cinquemila». «No, no». « Tremila? Giusto per aiutare la barca ». «No». « Duemila. Duemila, non mi potete dire di no: soltanto d'oro, ci guadagnate un bel po' ». Ed a questo punto, devo confessarlo, in me levò il capo il demone dell'affare (sul che essi contavano): duemila, duemila miserabili lire un orologio, d'oro o no!... Titubai; e lui pronto: «Affare fatto. Dunque, duemila l'orologio; e, per le sigarette... in tutto ottomila. Datemi il foglio da dieci: ecco due di resto ». Beh, potevo obbiettare a muso duro: « Di codesto si parlerà quando mi avrete portato le sigarette »; ma non lo feci, mi parve ingeneroso e addirittura vergognoso. Tuttavia, né cedevo né ritiravo il foglio da diecimila che tenevo in mano, come non accettavo né rifiutavo il resto da lui offerto; se non che questa mia incertezza era già, in parte, una resa; era ad ogni modo, diciamo così, la sua carta. Per cui egli mi venne a un pollice dal viso: « Non vi fidate? ». Ah, come non fidarmi o con quale coraggio deluderlo! quanta benigna onestà, invero, nel suo sguardo!... Porsi la banconota, ovvero me la sfilò egli stesso destramente di mano, ponendo in suo luogo due fogliolini da mille ap-
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pallottolati. Anzi, per colmo di buona fede o di dabbenaggine, raccomandai: « Sto per uscire: portatemi le sigarette entro un quarto d'ora al massimo ». « Sì sì, non dubitate » dissero. E se ne andarono. E chiaro: non tornarono più. E, in capo a pochi giorni, l'orologio si fermò; non valse ricaricarlo, rigirarlo, scuoterlo. E quando lo portai dall'orologiaro, questi sentenziò ridendo: « Li vendono nelle fiere ad uso dei bambini; vale forse mille lire, o anche meno; se vuole glielo aggiusto, per un momento, ma le verrà a costare il doppio del suo valore». Lo sapevo, dopo tutto; rimarrebbe in caso da determinare perché, se lo sapevo, mi prestassi a quel raggiro, d'altronde non troppo pesante neppure pel mio magro bilancio. Ebbene, la risposta è facile. In primo luogo, o meglio in unico luogo, chi non darebbe qualcosa per il piacere di conoscere o d'aver conosciuto due tipi tanto intraprendenti e al tempo stesso tanto modesti, infine tanto simpatici? Ma voglio, più specialmente, riferirmi all'ultima frase lanciatami dal secondo di essi. Io, cioè, indugiavo sulla soglia del mio uscio e gli guardavo dietro mentre già scendeva le scale. E lui, rivolgendosi d'un tratto: « Bello, siete; siete un vero signore; vi si legge in faccia la franchezza e la purezza del cuore. E, credete a me, non c'è niente che conti di più, a questo mondo... ». Egli era senza dubbio sincero! Sincèro quanto patetico; le sue parole erano intrise di rimpianto, di desolazione. Pensate: io, signore, col lusso della mìa asserita purezza di cuore; e lui, povero diavolo, costretto ai raggiri. Sicché ripeto: chi non darebbe diecimila lire, centomila, un milione, per una tale lode e da una tale bocca?
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TRASLOCO
D'un tratto l'amico si sedette sul marciapiede; sì, proprio sul gradino del marciapiede come un monello. Per fortuna eravamo in una via poco frequentata. Provai bensì a dirgli: «Andiamo, tirati su»; ma lui non si mosse ed a me non rimase che raggiungerlo lì, quasi in terra. Si sedette, e: «Dunque, a conti fatti, devo cambiare casa. Letteralmente a conti fatti: il padrone pretende di aumentarmi il fitto, né io sono in grado di sostenere la sua esosità ». « E tu cambia casa » replicai con un certo sospetto (giacché, conoscendo l'amico, prevedevo il seguito). « Ma sicuro! » riprese egli infatti. « Che ci vuole: uno cambia casa, e festa finita ». « E sì, direi: siamo uomini o femminucce isteriche? ». « Femminucce isteriche ». «Via, via: uno raccoglie le proprie robe... ». « Anche i libri?». « I libri innanzi tutto ». « E i dischi? ». « I dischi, naturale ». « Dove, li raccoglie? ». « Mah non saprei: in un baule, in una cassa ». « E chi ce l'ha, qualcosa di simile! Del resto ti faccio os-
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servare che i libri accumulati in quattro o cinque anni... In ogni caso, pei libri passi: ma i dischi si spezzano facilmente». « Diamine, ci sarà pure un modo ». « Forse, ma quale? D'altra parte questa è solo un'immagine, delle mie insormontabili difficoltà... Ah, ho quasi deciso di lasciarmi morire su questo marciapiede ». « Addirittura lasciarti morire perché, se mai, un disco o due si saranno spezzati! ». « Oh, ma allora non vuoi capire: chi parla di dischi? ». «Tu». « E va bene; ma ti ripeto che si tratta di un'immagine ». « Spiègati meglio ». « Un trasloco, caro mio, un trasloco!... Senza dubbio c'è gente per cui una tale faccenda non costituisce problema: cambiano casa, loro, e ricominciano a vivere come nulla fosse». « Laddove per uno spirito delicato e sensibile... ». «Puoi dirlo forte!... In primo luogo, quell'atmosfera d'incertezza, di disagio e di sospensione che precede il materiale scioglimento del dramma». «Del dramma! ». « Del dramma, del dramma. Non si può intraprendere niente perché, tanto, tra una settimana o due non saremo più qui; eccetera. E poi, quel senso di sgomento, d'estraneità, di minaccia perfino, indotto dalla nuova dimora... Ma non hai viscere umane? abbiamo'impiegato un anno forse a placare, a renderci familiari se non benigne le mute parvenze di questa casa che ci è tolta, esse ci tollerano se non ci assistono: ed ora, d'improvviso... O cosa dovremmo fare, ricominciar tutto da capo, alla nostra età? ». « Sicché, e senza tanti discorsi, grave crisi? ». «Gravissima». Ecco il male: per assurde od eccessive che fossero le sue allegazioni, l'amico aveva il potere di convincermi. Mi toccò farmi forza: per esortarlo a farsi forza e persuaderlo a considerare meno tragicamente gli eventi: « Eppure, » spacciai con finta sicumera « eppure! Non è cosa sgomentevole come mostri di credere, se fai appello a quel minimo di virile consapevolezza che ciascuno di noi... Magari ci si rivolge a un'impresa di trasporti ».
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«Quale?». « Ce n'è tante: cercatela da te. Sei un uomo ». « Ma se ti ho appena detto... ». « Silenzio, non intendo prestarmi alle tue calunnie ». « Come, calunnie? ». « Di o contro te medesimo; tu ti stai calunniando, oso sperare». « Ma potresti almeno darmi una mano ». « Niente affatto: ciò ti servirebbe di pretesto per riscivolare nelle tue compiacenti mollezze, nei vari alibi del cuore e dell'intelletto ». E così lo lasciai. «Si può?». «Avanti » rispose una voce a tal punto desolata, che ne fremetti. L'uscio della nuova casa era infatti solo accostato; lo spinsi, e vidi l'amico seduto nel mezzo del pavimento (questa del sedere in terra, quasi per protesta, doveva essere una specie di sua passione). «Traslocato poi, eh? » dissi stupidamente. «Tanto terribile? ». «Accomodati». « E una parola! » volli scherzare; ché in verità non vedevo una sola seggiola ritta né alcun altro sedile, o del resto mobile, pel suo verso. « Prova su quella cassa » mormorò cupamente. «Dunque cassa, secondo i miei suggerimenti... Che c'è dentro? » chiesi con eguale insipienza. «Eh, chi ha il coraggio di guardarci: libri o dischi, o tutt'e due, o macero e poltiglia». « Ma infine, » sbottai « quando ti decidi a...? ». «A metter ordine? Mai! ». «Nondimeno,» seguitai, ignorando la perentoria dichiarazione « son già due giorni che... ». « Due giorni che » fece eco senza espressione. « Auff, dove hai passato queste due notti? ». « Lì » disse, indicando un materasso spiaccicato in un angolo. « Come un cane! O h Dio, vediamo: perché, per comin-
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dare, non rizzi codesto scrittoio? Scrivere è il tuo mestiere, dopo tutto, e ciò forse ti calmerebbe, anzi ispirerebbe». « Rizzarlo presuppone sapere in qual precisa posizione metterlo e quale orientamento dargli ». « Beh pensaci un momento, pensiamoci ». «Un momento! da ben quarantotto ore invano mi studio... Se lo metto lì, laggiù, allora dove metto lo scaffale, che per forza devo avere a portata di mano? e se lo metto dal lato opposto, la luce mi viene da destra, ossia dalla parte sbagliata». « Mettiamolo qui, ecco qui ». « Di fronte alla finestra: e i riflessi, e l'abbagliamento? Degnati di constatare che dirimpetto c'è una parete tutta bianca battuta dal sole. Eh eh, tu credi sia facile! ». A questo punto però, guidato dalla comune e dolce illusione che non convenga indulgere troppo alle altrui debolezze, stimai mio dovere far la voce grossa: « Parliamoci chiaro: ammetto che non sia cosa agevole risistemarsi in un posto nuovo ed awezzarcisi, ammetto tutto; ma anche mi sembra, nella misura in cui rispettiamo noi stessi, che le nostre fisime debbano da ultimo esser contenute entro limiti ragionevoli... ehm. Eh? Un po' di serietà, ti si chiede! ». Ma lui aveva certo previsto una tirata del genere, e, perfino con un'ombra di buon umore tra tanto sconforto, senza dare un crollo dalla sua infima posizione, ribatté blandamente: «Ancor più che chiaro, parli; parli come un libro stampato: segno che stai ripetendo una lezione ». Questa sua insolenza mi offese per davvero e mi fece trascorrere al solito ricatto: « O tu ti rizzi immediatamente di terra e con te rizzi i tuoi maledetti mobilucci e fai senno, o io... ». « Mi abbandoni alle mie perplessità, anzi alle mie disperazioni? ». « Giuraci: che altro potrei fare! ». « Orsù lascia, amico, e vattene se ti piace. Ti dirò, per l'aiuto che puoi darmi!... Né tu né io sappiamo se mi sarà mai dato risollevarmi, idealmente e materialmente, da questa condizione ».
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« O h da che condizione, alla fin fine? ». « Ogni cosa, intorno, estranea, opinabile, incerta, quasi irreale; ed io stesso dubitoso di tutto... ». « Basta! » gridai precipitandomi verso la porta. Feci in tempo a vederlo ridacchiare fra sé. Mi salutò con un fiacco sorriso e colla mano; mi lanciò dietro: « Che vuoi farci: l'intera nostra vita è un trasloco ». Sciocco e facile moralismo, soggiungerò tanto per soggiungere qualcosa: moralismo universale da farmacista, nell'ordine delle massime eterne! Ma ciascuno di noi, ed anche le creature indifese, giunge talvolta a rendersi odioso.
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NUOVE MEDITAZIONI
Non sempre il tempo «rende giustizia»: soverchiamente avaro in alcuni casi, si mostra in altri fin troppo generoso, concede magari più del giusto e del debito. Ad esempio, il poeta L. (defunto circa un secolo e mezzo addietro) non meritava forse le onoranze di cui era oggetto, lì nel suo borgo natale. Le sue opere, probabilmente già allora mediocri, lo restavano in barba alla prospettiva storica; nondimeno un sindaco giovane, intraprendente ed ambizioso pretendeva oggi iscriverle nell'albo d'pro della letteratura nazionale. Tra l'altro, per ispirazione di costui, l'antica casa del poeta (messa in vendita da stanchi e dispersi eredi) era stata acquistata dal Comune e « consacrata alla memoria » di quel supposto grand'uomo. E la lapide murata nell'annessa corte, dettata dal maestro di scuola, sonava: Qui Movendo in pensosi andirivieni L. Concepiva alcune delle sue opere immortali. « Beh tanto meglio: è una speranza». Nel borgo, infatti, viveva ai nostri giorni un secondo poetino, cui giusto apparteneva codesto ultimo commento;
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poetino egualmente mediocre, salvo che più conscio della propria mediocrità, in accordo coi tempi nuovi. Il quale anche lui usava aggirarsi, meditando, per un suo orto... Via, davvero « meditando »? e se mai, meditando su cosa? « Il poeta passeggia nel suo giardino » così, una volta, due studentelli appostati a una lontana finestra. Ma, prescindendo dalla patente di nobiltà data a quell'orto brullo, aveva egli diritto a una tale qualifica e ad un tale credito? La risposta era manifestamente negativa. Diamine, un qualsivoglia poeta passeggiante nel proprio giardino o verziere, o sia pure nella propria cavolaia, a che è tenuto se non ad elaborare versi eterni? Mentre lui... lui pensava, in realtà, a tutt'altro. Anzi, un bel giorno si propose di veder chiaro in se stesso, quasi radiograficamente o radioscopicamente. Ed ecco cosa ottenne: «Amo sperare che quell'avido bottegaio finisca col cedermi la sua motocicletta per centomila lire: tanto, e non di più, possiedo al mondo; e il tanghero senza dubbio l'avrà rubata, nella confusione seguita al passaggio della guerra; per lui, son quattrini raccattati nella cenere. « Dunque ho la motocicletta, poniamo. E adesso, che ne faccio? Niente: ci corro in su e in giù; ci corro verso le cime di questa montagna, nelle cosiddette "albe stillanti". Che sensazione di libertà, di freschezza; raggiungo il Ponte del Freddo; il sole non è ancora sorto, la rugiada ancora imperla l'erba (guarda che suggestive assonanze ci offre spontaneamente la nostra lingua, se non la natura medesima) . E poi? Daccapo niente: non basta contemplare codesti alberi giovinetti?... Già, come si chiameranno (un poeta dovrebbe conoscere il nome della più umile pianticella)? farnie, orni, carpini? D'altronde che importa; importa la corsa stessa, la velocità, l'ascesa, il sentore delle foglie e dell'aria, la marina di lassù scoperta. « Quantunque bruna, mia cugina è molto bella; quantunque bruna, perché in verità io amo le donne bionde. Ma, bruna o bionda, se una donna è bella... E che mi diceva l'altra sera? Parole vaghe, oscure: da cui però sorgeva come un richiamo. Bisognerebbe incalzarla, indurla a superare i suoi pregiudizi. «La mia serva invece è bruttissima: si può mai essere
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tanto grasse e mal formate! Perfino barbuta. Ma da queste parti c'è poco da scegliere. «A proposito di quattrini, donde procurarsene? O h tempi felici, quando c'era sempre chi ci pensava, ai poeti; un mecenate, una principessa innamorata. Loro... noi, non dovevamo far altro che poetare appunto, o come massimo accondiscendere a qualche innocente adulazione. Adesso, a me tocca (proverbialmente) fare i conti della serva e (in pratica) rivedere quelli della spiacente fantesca qui sopra rammentata. (Adagio: ove davvero fossi libero di poetare senza affanni, in che misura saprei rendermi degno di tale privilegio? - Eh, non mi ci son mai trovato! Ad ogni modo, è evidente che ne trarrei un vantaggio. La mia ultima composizione, mettiamo, s'è fermata al primo verso; e ciò, di sicuro, pel fatto che preoccupazioni estranee mi assediavano. Al primo verso: "Cielo rappreso in un grigiore muto"... Te lo raccomando! Difficile seguitare, quand'anche mi trovassi nella condizione voluta, eccetera) . « Il signor N., una mezza calzetta in fondo o mezza tacca, risponde con degnazione al mio saluto. Occorre ristabilire le distanze. Così: io vengo avanti pel vicolo, lui mi guarda con i suoi occhi di rana aspettando i miei omaggi; ed io lo riguardo bene in faccia senza salutarlo, gli do perfino di spalla se necessario. Quest'è tutto, e lui la prenda come gli piace... S'intende, ci vuole una certa dose di determinazione (e la de terminazione, devo confessarlo, non è affar mio). « I finitimi hanno la lercia abitudine di buttare dentro il mio orto tutti i loro rifiuti. Che cos'è ciò, verbigrazia? Vedi una boccia vuota di pillole contro... chissà contro il mal di pancia, o per il seno della smorfiosa lì di fronte. Ma non ce ne occupiamo, risolleviamo gli occhi da queste brutture. « In camera da pranzo non ci vedo. Era inutile allisciare le pareti e tingerle di un bell'azzurro, se poi non ci si può stare; e non è solo per la luce scarsa, ma quell'odiosa risonanza, quel rimbombo... Dice: è perché ancora non ci sono i mobili. D'accordo; e io di dove li prendo, i mobili, dopo tante rovine? Beh, proviamo almeno a immaginarli. Tolta la tavola, il buffè, il controbuffè, mi ci vorrebbe in-
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nanzi tutto una poltrona gonfiata (certamente: son l'ultimo trovato della tecnica, che uno le gonfia e sgonfia come gli accomoda). Poltrona, ripeto; e una di quelle lampade col lungo piede e col paralume di cartapecora; e sottomano, su un tavolino basso con portacenere incorporato, libri, dischi, grafofono, lente d'ingrandimento, sigarette, bottiglie di liquore o di Porto o di Borgogna. (Porto, Borgogna: figurazioni letterarie; sogni proibiti, secondo batte la solfa. E lente di ingrandimento, perché? Perché non manca mai sul tavolo d'un gentiluomo). « Questa vecchia casa ha soltanto mezza facciata: sarebbe opportuno riscattare, cioè ricomprare, la parte di essa venduta nel corso dei secoli e andata divisa in quattro o cinque povere abitazioni d'artigiani. In tal modo, al corpo di sinistra e tanto o quanto monumentale, corrisponderebbe un corpo di destra e il grande portone risulterebbe al centro delle due ali... Ma, per quello che mi costa (immaginarla), meglio ancora sarebbe una vasta dimora merlata lì su codesto colle; e poi no: su quella remota montagna. Piantata sulla roccia, essa dimora; e avrebbe un cerchio di cipressi intorno; e uno stagno; e nel parco balzerebbero cerbiatti, o forse daini: damme, per onor di firma; ed ampie vasche o bacini (ché volgarmente "piscine" non oso definirli) digraderebbero di terrazzo in terrazzo; e, per raggiungere il tutto, s'avrebbe a risalire, in barca debitamente fornita di bucranio e parzialmente onusta di cunzie, un canale d'amene e fiorite rive. (Un canale in piena montagna? E se mai, non rassomiglierebbe un po' troppo, il tutto, alla tenuta o possesso di Arnheim? Inoltre ho udito che siffatte grandiose fantasie son proprie d'alcuni blandi malati di mente ed indici di perduranti stadi infantili ovvero di regressioni... Eh, tanti saluti!). «Mia zia, benché abbia novant'anni o giù di lì, non muore: se morisse, forse! Ma è poi sicuro che mi lascerebbe qualcosa? non è, piuttosto, verosimile che lasci ogni suo avere al prete? ».
Radiografia desolante, non c'è che dire. D'altro canto che farci, soggiunse seco stesso il poetino: uno il genio
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non se lo può dare, la fede immemore, l'appassionata inchiesta al mondo. La gioia di vivere: questo il dono più prezioso compartito dalle fate a... a chi, a Fiordirovo, alla Bella Addormentata? Importa poco: a una reginotta che aveva la felicità per destino. Tutto sommato, pertanto e nuovamente, non ci rimane se non fidare nel tempo; ossìa sperare che il tempo oblioso dimentichi di renderci giustizia e ci esalti in luogo di prostrarci definitivamente. In questi termini il poetino. Quanto a me scrivente, non ho neppure tale speranza; anche perché essa, a ben guardare, speranza non è. Che giova, ci esalti il tempo o ci deprima? Il tempo finirà a sua volta.
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IN FAMIGLIA
« Mi dai un'occhiata a una lettera che... a una lettera? » disse la moglie, più che altro per non saper che fare. O fors'anche voleva ammansire il marito con quella prova di fiducia; e veramente, poi, non sì sentiva sicura della propria ortografia. « Lettera in partenza, suppongo » borbottò lui, ancora accigliato per il precedente scambio di rabbiose parole. « E a chi scrivi di bello? ». «AM. ». « Sicuro, la tua buona amica. Beh, da' qua » soggiunse inforcando gli occhiali. « Intanto, però, un fogliolino più decente di questo strappato da un quaderno del bambino non t'è riuscito trovarlo? ». « Ma è la brutta copia » protestò la moglie. « D'accordo, d'accordo. Dunque vediamo ». « Ecco, per esempio: si dice incrassareo ingrassare? ». « Grassa è solo la tua ignoranza ». «Allora ingrassare? ». «Tu mi fai venire i brividi, colle tue domande. Guarda in mezzo a che gente dovevo consumare i miei giorni ». «Va bene. E sempre o sembre? ». « Ma di', da quale colonia salti fuori? ». «Ho capito: sembre».
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«No-o! ». « Sempre? ». « Sempre, ove tu debba per forza far uso di simili avverbi compromettenti ». « Oh Dio, ma se mi vieni meno tu, che sei il mio naturale sostegno...» piagnucolò la moglie, di nuovo tanto per fare. « Sostegno: come scrivi questa parola?... Del resto sta' zitta; e piuttosto, cosa leggo qui? ». «Dove? ». « Qui, l'ultima frase: "Mi manchi molto; ho bisogno di te per sentirmi vivere, o meglio per dimenticare che vivo". Ma brava! ». « Davvero? » chiese dubbiosamente la moglie, troppo tardi avvedendosi della propria imprudenza. « Sì certo, bella frase, non ti credevo da tanto... E non lo capisci,» seguitò mutando tono «che con queste sciocchezze mi fai fare una meschina figura, che metti me e anche lei in una posizione falsa, che ci metti l'uno contro l'altra? E poi ti lamenti se tra me e codesta tua diletta M. non corre buon sangue! ». « Ma perché? In fondo... » tentò l'altra con poca convinzione. «Ah, non ti torna? Allora, cara mia, devo concludere... ». « Ma no, vedi... Noi donne, beh, queste cose ce le diciamo per lusingarci reciprocamente; o, così, a titolo di saluto, di complimento... Non è che... Lei lo sa benissimo che t'amo». « M'ami, m'ami: che significa? » gridò lui, nondimeno alquanto rabbonito (e sebbene vergognoso per aver ceduto così presto). « Ti prego, mi svegli il bambino; andiamo di là ».
Passarono in cucina. Si scrutarono negli occhi, ed a ciascuno dei due apparvero ombrosi e vuoti quelli dell'altro. « Che stupido, quel tale » ricominciò la moglie. «Chi?». « Non hai letto il giornale? Quel signore che ha affida-
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to settanta milioni all'amante per comprarci un appartamento». « E con ciò? ». « Oh che ingenuo: l'amante... ». « Coraggio ». « E fuggita coi quattrini ». « E va bene; ma perché stupido, lui? » domandò il marito, ripreso dal demone della polemica. « Eh santo cielo: settanta milioni così, senza saper né leggere né scrivere! E se lei, come infatti è avvenuto...? ». «Adagio. Io, mettiamo, a te, che pure sei una moglie sciagurata, altro che settanta milioni ti affiderei (se li avessi) ! ». «Che caro». « No no; non lo farei mica, o non lo farei soltanto, per i tuoi begli occhi. Affermo che a un certo punto, e naturalmente non col primo venuto, fidarsi è una questione di dignità propria ». « Sentimenti nobili; ma se io tradissi la tua fiducia? ». «Tanto peggio per te, non per me. In ogni caso, tutto meriterei fuorché l'epiteto di "stupido" ». « Già, ma intanto il malloppo... ». « Diavolo: che parola volgare ». « Beh scusa, i quattrini. I quattrini intanto... ». « Perché, » interruppe il marito con sospetto « se li avessi tu, i settanta milioni, non me li affideresti? ». « Io no » rispose candidamente la donna. « Eh? cosa hai detto? Tu no! ». « Un momento, lascia che mi spieghi». « C'è poco da spiegare: non me li affideresti! ». « Oh Dio, non ti accendere come un fiammifero, non ti offendere subito... Tu, mettiamo, sei un giocatore accanito: che ne so io, di cosa potrebbe passarti per la testa? ». «E insiste, e circostanzia, la mogliettina! Beh senti: giocatore magari sì, ma non ladro; né mi è mai avvenuto d'appropriarmi indebitamente settanta milioni ». « Ma i settanta milioni son giusto un esempio ». « Un esempio probante, però, rispetto alla stima in cui mi tieni!... ». Insomma, qui il discorso prendeva una brutta piega, e manifestamente le lingue si confondevano; la moglie,
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pertanto, giudicò opportuno accusare un mal di capo ed arroccarsi nel bagno. Ma il marito, incalzandola attraverso la porta chiusa: « Sai allora cosa ti dico? Se parli a codesta maniera, significa né più e né meno che sei tu ad esser capace dei crimini che mi attribuisci, sia pure in via d'ipotesi ». « Io! » esclamò flebilmente la donna d'oltre l'uscio. « Sì, uno non può sospettare un altro se non di ciò di cui è capace lui stesso... E quando uno è capace di una cosa, poi, perché non dovrebbe esserlo di tutto il resto? Sì sì, tu sei capace di tutto, ecco! ». Silenzio, di dentro. Indi un improvviso scroscio d'acque; che, chissà come, mandò addirittura in bestia il marito. « Ora che ci penso, infatti, per qual motivo vuoi tanto bene a M.?». « Pel motivo che le voglio bene » si decise a rispondere la moglie, sempre d'oltre cortina. « O non sarà invece pel fatto che colla tua M. c'è spesso A.?». «Chi?». «A., A.: un bel ragazzo, devi riconoscerlo; e malinconico, e infelice quanto basta». Nuovo silenzio; nuovi furori maritali, ma stavolta repressi. Ché d'un tratto, e a parte l'assurdità dell'accusa, lui s'era visto quasi in uno specchio... Che situazione grottesca: di là, una moglie che si lavava i-piedi prima d'andare a letto; e, di qua, un marito blaterante, formulante accuse inconsistenti... Tuttavia in qual modo uscirne, da una tal situazione, con onore o almeno salvando la faccia? Finalmente l'uscio del bagno stridette un tanto, si schiuse. Comparve lei in una leggera vestaglia, fresca, rosea, parata per la notte. Disse: « Si va a letto? ». «A letto! » gli sembrava un'enormità: a letto senza aver risolto i loro problemi! « Che c'è di strano: non ci andiamo tutte le sere? ». «Ma stasera... ».
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« Stasera ci son problemi più gravi del solito, eh? ». «Beh sì». « E li tratteremo a letto ». « Ma questo è una specie di ricatto: lì tutti i problemi diventano uno scherzo, annegano ». « Tanto meglio; vieni ». « Ma io ti odio ». «Anch'io, se devo esser sincera. Però, in fondo, esser sinceri non è necessario... o non lo è esserlo più di quanto lo siamo stati or ora». « Che vuol dire? ». « Che, tutto sommato, io non ti odio e tu non mi odii. Del resto, pensa al Casino di Montecarlo ». «Mi sbigottisci: fo la figura dell'"asino in mezzo ai suoni"». « Pensa a un qualunque che capace di conciliare gli inconciliabili ». « O h oh, donde codesta sùbita dottrina, e forbitezza, e saggezza?». « Lo vedi, che non si sa mai? ». «... sicché, a letto? ». «A letto».
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IL PAZZO
S'era levato un leggero vento dolciastro, e lui si sentiva fiacco, soprattutto nervoso; le mani gli tremavano; vaghi terrori, fantasie dimenticate e funeste gli affioravano dentro... Una brutta sera! Nondimeno raccolse gli occhiali, le sigarette, il libro, e salì come sempre nel suo studio. La villa era al limite del paese, e lui ci viveva solo. Tutto taceva ormai. Ma, per l'appunto, cosa significava quel silenzio? Ovvero: possibile che quel silenzio fosse unicamente se medesimo, che non racchiudesse un'oscura, inimmaginabile minaccia? Scosse le spalle, riprese la lettura di dove la aveva lasciata. D'un tratto udì un rumore dal piano di sotto, come di seggiola smossa o chissà. Un rumore poco familiare, a buon conto: non rodio o rotolio di topo, non gemere di antichi mobili, né infine alcuno dei tanti che per solito animavano il silenzio notturno dell'appartata dimora. Bisognava forse andar a vedere; sebbene, - si disse per metà alleviato e per metà deluso, - è chiaro che al mondo non capita mai niente di singolare. Ma il rumore si ripetè, e lui andò a vedere. Accese la luce sulla scala interna, la quale rimetteva in una stanza nuda, una sorta di atrio. E lì nel mezzo, in una posa rattratta, come pronto a balzargli addosso, c'era un
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uomo oscuro (quanto alla generale impressione fornita dal suo aspetto) e stravolto (quanto, in particolare, all'espressione del viso). E quegli occhi iniettati di sangue lo fissavano con così bieco, selvaggio odio, con tal palese volontà di sterminio, che lui non volle anzi non poté vedere altro: in preda a un irrefrenabile convulso di terrore, senza neanche interpellare l'uomo o cercare di spiegarsi la sua presenza in casa propria, fece mezzo giro su se stesso e fuggì verso le stanze interne. Lo sconosciuto però, scortolo appena, s'era davvero lanciato su per la scala e adesso lo inseguiva furiosamente; lui ebbe giusto il tempo d'inchiavarsi dietro due o tre porte... Ma già la prima cedeva sotto colpi forsennati: non servivano chiavistelli, contro una simile rabbia... Lui continuava a ritrarsi precipitosamente davanti all'invasato, sempre più addentrandosi in quell'ala della casa; e intanto si faceva un febbrile esame di coscienza: « Chi è dunque costui? Se m'odia a tal punto, deve conoscermi: e perché io non lo ravviso? E in ogni caso chi posso aver tanto crudelmente offeso, sia pure a mia insaputa, da provocare questa furia? » etc. Nulla poi sovvenendogli, concluse che l'uomo non poteva essere se non un pazzo, un pazzo sanguinario evaso Dio sa donde. Il che d'altro canto non cavava lui stesso d'impaccio: al contrario. «Un pazzo » riprendeva, tuttavia fuggendo: « ciò che uno teme, infatti, ciò che sommamente ripugna e spaventa, ciò che uno chiede al Signore di risparmiargli, ciò appunto arriva sempre! ». E un pazzo furioso nella sua casa solitaria, fuor d'ogni speranza di soccorso, non era stato l'incubo ricorrente di molte sue notti? Finché giunse in luogo oltre cui non si procedeva: ossia nell'ultima stanza della fila, con nessun'altra comunicante. Ma il pazzo aveva ormai abbattuto l'uscio della stanza attigua e si dirigeva a passi rovinosi verso questo or ora varcato ed inutilmente sprangato... Che fare? C'era bensì una finestra: lui vi corse, la spalancò d'un colpo, misurò il vuoto; vide che, appiccandosi di fuori lungo disteso, il salto non sarebbe risultato troppo pericoloso; e senza più, manovrando come detto, si lasciò cadere sul vicolo sottostante. Caduto sano e salvo, in primo luogo se la dette a gam-
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be; ma si fermò poco innanzi per porgere orecchio. Aveva immaginato che il pazzo lo seguisse per la medesima via: invece, strano, dalla casa non s'udiva alcun suono. Cosa era avvenuto, o cosa aveva rattenuto l'impeto del suo persecutore? Del resto, no: certo in quel silenzio, in quella lacerante sospensione, si annidava qualche nuova insidia. E lui riprese la fuga. Giunse trafelato da suo cugino il generale e picchiò a martello. Questi (il cugino generale, a tempo perso studioso di lingua araba), finito lo spettacolo televisivo, s'era attardato in una difficile versione, e venne ad aprirgli subito. «Che c'è?». « Fammi entrare, presto! ». «Ma che c'è?». « C'è... c'è un pazzo in casa mia ». «Un pazzo!». « Sì, un pazzo criminale... ». E giù con domande, risposte, spiegazioni. Indi il cugino, afferrando la sua brava pistola d'ordinanza e facendo passare una pallottola in canna: «Andiamo! ». «Dove?». «Acasa tua». «Ho paura». « Ci sono io ». «Ed anch'io» intervenne l'altro cugino, l'ingegnere, destato dal trambusto ed armandosi a sua volta d'una doppietta. Con tale scorta, sarebbe stato da pusilli dare addietro. Uscirono, convergendo come in missione di guerra sulla casa infestata. Giunti a tiro, dapprima s'appostarono, specularono, girarono poi la posizione dalla parte del giardino: e niente; non si vedeva e non si sentiva niente. « Beh, dico? » chiese severamente il generale. «Eppure... O meglio, sfido io: quel demonio sta lì inquartato nell'ombra, e... ». « E quanto vedremo subito; qua la chiave del portone ». « Ma dove l'ho, se son saltato dalla finestra! ».
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« È vero; in tal caso, » decise prontamente il generale « non ci resta che scalare il muro del giardino ». Così fecero, con qualche stento (ché il generale, a riposo, era un bel po' imbolsito); e, osservando le debite precauzioni, penetrarono nella casa, visitandola da cima a fondo. Ebbene: non solamente non vi si scorgeva traccia di pazzi furiosi, ma il minimo oggetto appariva innocente, al proprio posto. « Questo scherzo potrebbe costarti caro » disse il generale con palese disgusto, quando ebbero perlustrato fin le cantine e le soffitte. «Tu sei come quello che gridava al lupo». «Ma ti giuro...». «Buonanotte! E d'ora innanzi, se accetti un consiglio, farai bene a tenerti per te le tue bizzarre fantasie». Poi, volto al fratello ingegnere: « E un letterato, nostro cugino, un poeta: non lo sapevi? Bah vieni, vieni, possiamo andarcene a letto tranquilli ». « Effettivamente... » mormorò l'altro. Ed ambedue si ritirarono. Lui restò daccapo solo: genericamente rassicurato rispetto alle circostanze, sia pure, ma nient'affatto rassicurato (per dir così) rispetto a se stesso. Ad ogni modo gli riuscì di coricarsi e addirittura di prender sonno. Se non che... Era nella corte alberata e cercava d'attirar l'attenzione di qualcuno nell'interno della casa, mentre accanto a lui si andava producendo alcunché d'imprecisabilmente spaventoso: sinistro fruscio di fronda, movimento d'ombre. « Ecco, è venuta Elena! » - pensava ed avrebbe voluto urlare; ma come urlare se, per quanti sforzi lui facesse, dalla sua gola chiusa non usciva suono? E intanto il fruscio diveniva rombo di torrente, le ombre si gonfiavano fino a soffocarlo... Finalmente, la liberazione: «Aiuto, aiuto! »... e si ritrovò seduto sul letto, in sudore, risvegliato dalla sua propria lugubre voce. Ma simili sogni angosciosi, simili trasposizioni, beninteso non significano nulla: molto più tardi, a lui ancora av-
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veniva di domandarsi chi da ultimo fosse stato, e donde sorto, lo sconosciuto, il furioso visitatore della sua casa. In termini positivi, certo che poteva essere uno dei tanti folli fuggiti dai loro luoghi di reclusione e di tortura (né dei medesimi i giornali danno sempre notìzia) : questa semplice spiegazione, peraltro, gli sembrava futile e insufficiente... E un bel giorno, o una brutta notte, gli parve di capire: lo sconosciuto era forse la Morte, che infatti cerca noi e proprio noi e non ammette sostituzioni. La morte non aspetta, si obbietterà; ma, chissà mai, può darsi che in determinate circostanze, o quando nelle vicinanze ci son generali mustacchiuti... In ogni caso per poco, aspetta; e, in ogni caso, ciascuno ha il suo pazzo che lo guata dalla tenebra.
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PARTENZA IN DUE VERSIONI
Voglio provare a immedesimarmi con uno di quei tali per cui tutto è semplice e facile; che son mossi dall'ingranaggio e al tempo stesso lo muovono, che stanno al mondo e ci sanno stare... Eh sì, perché ho udito che esistono, di codeste persone. Poniamo: il nominato tale una bella mattina si desta; si leva; si aggiusta i pantaloni del pigiama da letto; si gratta il capo (quante operazioni riflessive eppure irriflesse) ; sbircia la strada di tra gli scuri. Vede bene, dai passanti intabarrati, che è freddo: ma che perciò? Difatto, recuperati appena i sentimenti, pensa: « Stamane ho da partire »; e là per là prende a regolarsi in conseguenza. Trangugia il caffè; si lava, sbarba, veste; fa la valigia, trascegliendo appuntino quello che ci mette in relazione al tempo e alle necessità del viaggio; dà un'ultima occhiata alla casa; inchiava accuratamente l'uscio. Eccolo in strada che si frega alacremente le mani alla sizzola: si guarda intorno per un tassì; ma gli viene il pensiero dell'eventuale corrispondenza urgente; passa dunque alla posta di quartiere per depositarvi il suo recapito provvisorio; prende da ultimo il tassì e si fa portare alla stazione. Sale in treno, si assicura tra i pochi liberi il posto meno
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scomodo; quando il treno parte, posatamente osserva un poco le periferie fuggenti all'indietro; si stuzzica i denti (chissà perché, certo per disimpegno) con uno stecchino cavato di tasca; dà mano al giornale, che spiega e ripiega con crepitio e sgrigliolo, non senza fastidio dei vicini... Intanto il treno corre, arriva a destinazione: e lui subito sa dove andare, cosa fare. Infine, quello che è una vita ben ordinata, nessuno ignora. Beh e proviamo ora, per converso, a immedesimarci con uno di quegli altri (magari a noi stessi strettamente imparentati) che tanto fortunati non sono e che pure si danno; e riprendiamo, frase dopo frase, il detto. Il nostro nuovo ed antitetico personaggio una bella mattina si desta... Già, si desta e non può a meno di destarsi, ove per avventura non sia morto nel sonno; ma purtroppo la faccenda va per lui meno liscia, comporta doglia, lotta (coi ragnateli nel cervello) e zuffa (coll'improbabile realtà). Diavolo: ristabilire i contatti col mondo, riaccettarlo o far le viste! Supponiamo, a buon conto, che egli si tragga senza grave danno dal fiero passo. Si leva. Eh, piano: le membra rifiutano d'obbedirlo; occorre dar loro agio, accortamente sollecitarle con leggeri stiramenti, con cauto gioco di muscoli, finché non si palesino disposte a compiere il loro ufficio. Si aggiusta, etc. Ma anche per aggiustarsi i pantaloni bisogna una certa elasticità di movimenti, non ancora raggiunta; bisogna, soprattutto, una certa fiducia nell'esistenza. Si gratta il capo. Gesto di per sé agevole, salvo che emblematico, donde che richiede una approfondita coscienza dell'essere e del divenire. Sbircia, etc. Dico, c'è sbirciamento e sbirciamento: questo del nostro uomo è di genere, numero e caso eticometafisici. Ossia: vorrà o potrà il mondo, da lui alla men peggio accettato, accettarlo a sua volta? (Dove, d'altro canto, la questione rimane aperta). Vede bene, etc.; ma che perciò? Proprio « che perciò », invece: se è tanto freddo, non si intende perché lui dovrebbe
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affrontare strade e treni. Se è freddo, l'ottimo è tornare a letto! Per cui, pensa etc.: bubbole; pensa, al contrario, il testé riferito. Del resto, avrebbe addirittura a pensare, quando (per via dei cigli ancora appiccicati) il semplice vedere gli riesce assai problematico? E là per là prende, etc. Qui poi, secondo il calcolo delle probabilità, si potrebbe bellamente far punto: affermare cioè che nulla intraprende, e tanto meno là per là. Ma ammettiamo che quest'altra crisi venga felicemente superata. Otterremo: Trangugia il caffè. Il caffè, dite? Non v'è caffè nella bottiglia, quella in cui mogli o amanti usano stivarlo: converrà prepararselo di propria mano, versando polvere in acqua bollente e andando su e giù col pentolino sul fuoco, sì che non soverchi. Col che, magari si esaurisse il travaglio: troppo caldo, troppo freddo? troppo amaro, nauseosamente dolce? troppo forte, troppo leggero? In ogni caso, non quale dovrebbe essere. Si lava. Eh, nessuno, ieri sera, ha acceso lo scaldabagno; l'acqua è gelida, la pelle si aggriccia. Risultato: zampa sul muso, neppur dietro l'orecchio (i gatti si lavano dietro l'orecchio solo quando sta per piovere). E come prendere a petto una nuova giornata se non ci si sente freschi e puliti? Si sbarba. A h ah: come si sbarba? Con un rasoio elettrico: e in tal caso, chi lo salva dalle pnirigini, dalle irritazioni, da quel senso di vanità, d'inutile fatica, che senza dubbio sperimentano coloro i quali grattano le cotenne di un porco appena scannato? Con una lametta: e allora taglia, non taglia questa lametta, e proviamo a forbirla, a tuffarla nell'acqua calda, e cambiamola se mai, e affettiamoci il polpastrello del dito indice, e via e via. Fa la valigia trascegliendo, etc. Come dirla! I problemi che in questo momento cruciale assalgono il nostro uomo son tanto tormentosi, tanto (se così posso esprimermi) insolubili, che è meglio tirarci sopra un velo e darli per acquisiti, in altre parole per irrisolti. Proseguiamo, pure. Dà un 'ultima occhiata, etc. Va bene, amo credere che ciò riesca possibile perfino al nostro uomo. Ma: Si frega le mani. Bah, in qual modo? Da una ha la valigia stessa, e a poco gli serve intascare l'altra.
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Si guarda intomo, etc. Ma è arcinoto che mai e poi mai un tassì, ove urga, si troverà alla nostra portata. Gli viene il pensiero, etc.; passa dunque, etc. La posta è ancora chiusa. Prende da ultimo il tassì. Quale? (V. sopra). Ma concediamo che raggiunga egualmente la stazione. Sale in treno. Ove l'abituale ressa glielo permetta. Si assicura, etc. Non contiamo frottole! nessun posto mai è libero, sui nostri treni. Posatamente osserva, etc. Beh, può darsi che anche per lui le periferie fuggano all'indietro, e che di conseguenza gli sia dato osservarle: non « posatamente », però. E quanto allo stuzzicarsi i denti, siamo seri! Difatto, cosa significa serbare in tasca uno stecchino? Significa, né più né meno, far provvista di microbi pel momento in cui ci avverrà di usarlo; e poiché, tra i tanti guai, il nostro uomo è altresì (come si diceva una volta) un salutista... Laonde, niente stecchini; e, laonde ancora, niente contegno o disimpegno. Dà mano al giornale, etc. Questa poi è marchiana. Il giornale, il quotidiano: ci ha ben riflettuto il lettore, lo ha bene esaminato? Insudicia l'anima, si afferma, e su ciò non intendo pronunciarmi; ma soprattutto insudicia le mani, sì da renderle atre, plumbee come quelle dei proti appunto, e inadatte a qualsivoglia altra funzione. Chi, domando, vorrebbe aver commercio con tali fogli odorosi o putidi di inchiostri tipografici? chi se non politicanti, o marci letterati che anzi da quel puzzo cavano una malsana eccitazione? (Ne conosco, guarda un po', uno che non vive se non ha comprato, sfogliato, spulciato una ventina di gazzette). Intanto il treno corre, arriva a destinazione (questo è inevitabile) : e lui, etc. E lui, chiaro ormai, non sa dove andare, cosa fare. E così, colla più grossa difficoltà, si conclude la nostra antifrasi, che nondimeno potrebbe esser protratta indefinitamente. Certo, le precedenti considerazioni, ancorché in forma scherzosa od estrema, vorrebbero ora sistemazione e spicciolamento: in sostanza, come dovremmo contenerci? Eb-
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bene non me la sento, non ardisco, di dir qualcosa in proprio; guarderò pertanto d'aiutarmi con parole e morali altrui (nel subdolo tentativo, lo confesso, di attribuire a codesti altri tutta la responsabilità di tutto). Avevamo in gioventù un amico, che sembrava particolarmente dotato da madre natura; e che, alla resa dei conti, non si valeva in alcun modo dei suoi doni, anzi era positivamente dominato da un'inguaribile accidia. E noi ad incoraggiarlo, a spronarlo: «La Tale, è manifesto, ti fa l'occhiolino: e tu?... Avessimo noi la tua bella presenza, la tua espressione malinconica! ». Oppure: «Avessimo noi la tua statura vantaggiosa e la tua aria di nobiltà, tutte le porte ci sarebbero aperte! ». E via di seguito. E lui ultimamente: « Non capisco ». « Che cosa, carissimo? ». « Perché vi stia tanto a cuore che io faccia o dica alcunché. Eppoi, più generalmente, non capisco... ». «Non capisci...?». Al che lui, cambiando bruscamente soggetto: « Ma come farà, la gente, a vivere! ».
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FANTASIE IMPRUDENTI
Badiamo: uno è solo, in apparenza tranquillo, nella quiete della propria casa; e d'improvviso gli vengono delle idee. Per esempio: « Se ora l'uscio si spalancasse e comparissero due ceffi mascherati o con una calza sulla faccia, e volessero quattrini e magari mi torturassero per sapere dove li tengo nascosti (che, poi, bravo chi ne possiede)? ». Non credo però che simili immaginazioni siano le più paurose: in fondo, una scena del genere di quella qui sopra fantasticata è cosa ormai d'ogni giorno, quand'anche non ci coinvolga personalmente. Paurose saranno piuttosto le immaginazioni che in qualche modo si richiamano alle nostre esperienze infantili... I bambini, mettiamo, hanno la candida e di per sé assurda abitudine d'invilupparsi strettamente nelle coltri contro il buio e il terrore: a lasciar fuori un braccìno, o peggio a lasciarlo pendere dal letto, temerebbero di sentirselo d'un tratto afferrare da mano ignota, robusta e pelosa (ancorché al postutto immateriale) . Ebbene, anche un adulto può essere sorpreso da un tale spavento, da una tale ripugnanza. L'amico, dunque, era a letto e la notte era calda; ma lui si strìngeva nel lenzuolo perché aveva paura; e d'altra parte, così facendo, soffocava. Pensò, come oggi con somma eleganza dicono, che la situazione si sarebbe sbloccata al
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soprawenire del sonno; ma sì, il sonno era lungi dal sopravvenire, anzi gli occhi dell'amico sempre più si sgranavano nell'oscurità. Qui poi il nostro si dette di sciocco, sbuffò, e passò a una prova di forza, cioè trasse risolutamente le braccia di sotto il lenzuolo: e rimase lì immobile, col batticuore, sentendosi orribilmente scoperto (contro gli esseri palesi od occulti) e come in attesa di qualcosa. Qualcosa, del resto, che non si fece attendere. Dapprima fu una tiratina al lenzuolo, laggiù dalla parte dei piedi, una tiratina discreta ed opinabile ma reiterata; indi d'un tratto, senza dargli il tempo di basire, veramente un pugno d'acciaio gli afferrò il polso e lo tenne con sovrumana saldezza... Lui, per unica reazione, tirava il braccio a sé; la larva, o chi mai fosse, non abbandonava la presa... La spiegazione (secondo me la comunicò l'amico, buona per gli ingenui) è che la sua propria mano, languidamente scivolata durante il primo sonno, era restata chiusa tra la cornice del letto e la rete di ferro. Laonde lui si destò, riconobbe la vanità dei propri terrori, eccetera e tutti pari.
A me, debbo dire, la meschina avventura dell'amico non fa né caldo né freddo: io ho di meglio. L'altra notte passeggiavo per la sala, in su e in giù infaticabilmente; consideravo il mio lamentevole stato, mi proponevo uscirne con qualche colpo di testa, mi prospettavo i luoghi della mia azione risolutrice. Ero insomma le mille miglia lontano dal luogo dove ero; quando mi avvenne di percepire uno strano odore. Odore di morte, intendo, di corruzione carnale: e, mio Dio, donde poteva sorgere? Ma sul momento non ci badai troppo, giacché talora il vento segreto (che alita anche nel chiuso, o sia l'umidità dell'aria o una sua particolare temperie) ci mena sentori remoti, quasi presagi e in una messaggi di mondi sconosciuti. D'altra parte il sentore in parola si faceva a grado a grado più distinto, e inoltre risultava tanto prossimo, concreto, che involontariamente mi guardai attorno. Non vidi nulla di sospetto, ma principiai ad almanaccare: chissà, un topo (razza di animalini tra tutte misteriosa) venuto a morire sotto qualche mobile e lì restato occulto
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da due o tre giorni? Se non che neppure questa seconda e partita investigazione ebbe esito; mi proposi allora di risalire sistematicamente alla fonte del nauseoso odore, e lì per lì non vi giunsi. Facevo come i cani: fiutavo l'aria, tra poco mettevo il muso in terra; ma l'odore sembrava andare e venire, si perdeva del tutto, ricominciava appresso; a buon conto, ogni volta che lo ritrovavo era più denso e aggressivo. Per parte mia, si capisce, mi sentivo ormai turbato, impegnato in una ricerca da cui dipendesse la salute dell'anima. Finalmente, mi parve d'aver infilato la pista giusta; la seguii a capo basso (come un toro, stavolta) ; e detti di naso contro una vecchia cassapanca, una delle due a piè del grande arco che divide per mezzo la detta sala. E, fisso nella mia precedente idea, pensai: « Chiaro, qui dentro c'è un topo morto, che converrà rimuovere ». Non avevo ombra di dubbio, e mi accinsi alla ripugnante bisogna. Aprii la cassapanca: una pendola smembrata, un cenciolano, stato ai suoi tempi farsetto a maglia ed oggi forse utilizzato nelle pulizie domestiche, una forma da scarpe femminili, un piede rotto di canterano; e niente più. O allora? Peraltro era proprio di tra questi oggetti eterocliti ed innocenti che si levava il putrido, protervo odore. Nessuna possibilità d'errore: questo era il suo covo, o la sua base, donde si spandeva per tutto. Troppo sconcertato per capire subito, ci arrivai pure a forza di riflessione. Ovvero me ne illusi; non mi nascondo, infatti, che la mia spiegazione ha essa medesima un certo carattere fantastico da lasciare insoddisfatto più d'un lettore. Ad ogni modo ecco, secondo me, come andarono le cose.
Alcune sere innanzi avevo detto a mio figlio cinquenne, il quale si ostinava a rotolare verso la camera da pranzo, dove puntualmente faceva scempio di pregiati soprammobili, avevo detto: « Uhm, hai un bel coraggio tu! ». « Coraggio? » aveva chiesto lui fermandosi in tronco, aggrottando le ciglia e deliziosamente sconturbandosi nel volto.
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« Eh già: per andar lì devi attraversare tutta la sala e passare davanti alle cassapanche ». «E io ci passo! » era stata la sua risposta da intrepido maschietto, consolazione di babbo pavido. « Ma come, non lo sai? Da quelle cassapanche, sovente, nel cuor della notte... ». A sentire «cuor della notte» lui abbrividì, ma gridò: «Io non ho paura! ». E bravo il mio figliolino; ora, però, cosa dovevo inventare di terribile? « Nel cuor della notte, » ripresi sommessamente, in tono misterioso «magari, da una di quelle cassapanche... ». (Annaspavo; lui tremava d'eccitazione). «Beh, il coperchio si solleva ed esce una mano: una mano pallida, cerea anzi verdastra, colle unghie sanguinose... ». «Una mano di morta! » esclamò come una pentola che dà di fuori, per altro riguardo prevenendomi, o meglio attribuendo una precisa direzione alle mie lugubri frottole. « Appunto. E la mano si abbranca al bordo della cassa, e si comincia a vedere il braccio dell'orrendo corpo, le spalle... ». E qui lui non perse tempo ad aspettare l'orrendo viso disfatto, le vuote occhiaie della mia larva d'avello: sebbene dignitosamente, preferì rifugiarsi nei paraggi della mammina ed abbandonare per adesso ogni iniziativa concernente la camera da pranzo. Né io volli insistere, memore di una uscita della sua sorellina; che, da me intrattenuta in circostanze analoghe d'un tal Minotauro, mi aveva ridotto al silenzio colla seguente e secca risposta: « Il Minotauro è morto e basta! ». Tornando all'assunto, è manifesto ormai dove paro: nella sala, e giusto su dalla cassapanca, ci puzzava per l'unico motivo che quest'ultima era legata a un'immagine di morte; una semplice immagine, si osservi, oziosa, casuale. D'altronde tale mia spiegazione, lo capisco e ripeto, non converrà agli spiriti positivi: è soltanto la mia.
Ma in verità queste storielle che sembrano così svagate hanno il loro veleno. Son tante, le cose che ci determinano: cose dure, consistenti, ineluttabili, impermeabili epperò limitative; beh,
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che ad esse si debbano aggiungere gli incontrollati, liberi, se si vuole insipienti moti dell'animo, le irresponsabili fantasie del nostro terrore o del nostro presentimento? Sarebbe davvero preoccupante. In breve, io direi d'andarci piano anche colle semplici immagini e colle oziose fantasie, specie se macabre: da un momento all'altro ci si può trovare a confronto con qualcosa che, senza essere realtà vera e propria, la ormeggia da presso. Ma, perbacco, una realtà diversa, imbarazzante: della quale che fare, o come sistemarla nel nostro polveroso cosmo interiore?
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LE ETÀ D'INNOCENZA
Nessuno vuol più bene a questa vecchia casa: non la moglie, troppo giovane e perfettamente ignara delle passate generazioni, non i bambini tanto meno, o forse in quanto suoi figli. «Altri tempii » è la loro invariabile contestazione se m'abbandono a qualche ricordo o rivagheggiamento (giacché la casa, poi, è solo il simbolo d'un modo di vita, d'un ordine di rapporti, d'un paesaggio umano e naturale sepolti). Eh, possibile siano « altri tempi » quelli in cui un uomo soffrì, s'accese di sogni non volgari, cercò di rintracciare il suo segno nel mondo? Dice, è il destino di noi vecchi. Ma, certo, anche per me ora è diverso: questa luna, allora, non brillava così malinconica e spenta, oltraggiata da tanto impronte luci pubbliche; le querce della valletta qui innanzi non ombreggiavano civettuole dimore di contadini arricchiti; la brulla piaggia d'allora traversava quasi ogni notte, col suo rauco latrato, la volpe; per le vie del borgo non si udivano canti e suoni, si udiva invece un silenzio fecondo d'oscure fantasie, di terrori, di voluttà senza nome... Era facile vivere, sperare: sperare in una sorte meno atroce, per sé e per gli altri. « Ecco io son qui, in questo sconosciuto cantuccio di pianeta; ma di qui la mia parola luminosa raggiungerà i miei simili, ridesterà le coscienze, infiammerà gli spiriti,
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susciterà sentimenti benigni, l'intelligenza ed il compatimento delle altrui sciagure, porgerà i mezzi per alleviarle »... e chissà cosa ancora («Mica male » disse mio padre una volta: « tu romito sul Faggeta, e la tua parola come lampo, come fulmine dalle alture »). La casa medesima non è più quella, dopo il passaggio della guerra e coi barbari di recentissimo conio che presentemente vi spadroneggiano. Né intendo delle sue materiali devastazioni, ma dell'aura segreta ed inebriante un tempo per tutto diffusa, oggi svaporata, o rifugiata in certo stipo a muro: quasi minuscolo tempio ad altri dei, colmo d'oggettucci inutili e tragici nella loro impotenza, nel loro ostinato, antico sentore...
Che cosa mi hanno lasciato, ed hanno lasciato al mondo, questi innumerevoli morti? Niente più che cifre, son talvolta tentato di pensare; cifre vere e proprie, monogrammi: quelli che ritrovo, se son d'umore contemplativo, sugli angoli degli asciugamani, dei lenzuoli, delle federe. E di taluni ho perduto il senso, cioè non so scioglierli e distenderli in nomi: chi sarà stata la E. A. (ché senza dubbio donna era) qui vissuta cento o duecento anni addietro? o la F. G. che amava tanto bizzarramente intrecciare le proprie iniziali, da rendermi arduo il decifrarle? Invano faccio appello a quanto mi è noto delle tradizioni familiari; non dico un volto, neppure w nome ne cavo. Ed ove per avventura giunga a ricostruirlo, ma chi fu veramente la tal mia prozia, la mia nonna stessa? Colei, non conobbi e non potevo conoscere; e della seconda ho una memoria troppo incerta. D'altronde questi superstiti capi di biancheria si fanno sempre più rari: ogni giorno la feroce consorte ne mette uno in disuso. Ed erano già pochi, sebbene le gentildonne qui traverso il tempo approdate recassero corredi « da cento ». Oppure è qualche minima, insignificante ed inservibile immagine, figlia (per così dire) di oziose sere autunnali. Ad esempio, la briscola. La briscola, gioco innocente; gioco regionale anzi nazionale; gioco da patriarchi. Pare che mio nonno non sdegnasse al caso trattenersi in cucina, e perfino ricevervi amici o parenti, quando l'in-
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verno era più crudo («Son pungenti le brezze che soffia questa forra » esclamava nel medesimo torno un poeta a me diletto, o l'uno dei suoi personaggi medievali). Ora, per che fare s'adunavano lì quei degni gentiluomini? Per giocare la briscola, si capisce, mentre nel grande camino, su sesquipedali graticole o trafitta dai lunghi schidioni, veniva apprestata la cena... « Ma dove si mettevano, zia? e non davano noia, diciamo, agli operatori culinari? - No, si mettevano qui, qui dietro. - Dietro questa scranna, in penombra? - Devi pensare che a quel tempo non c'era la luce elettrica: bisognava servirsi del candeliere a olio, a quattro becchi se mai. Sicché, un posto o l'altro era la stessa. - Beh, e poi cosa facevano? - Giocavano a briscola, toh: di centesimi, o di nulla. - Ah così, anche di nulla? - Ma si divertivano egualmente; si divertivano onestamente, ecco. - Poniamo? Che "poniamo"! Non so: una volta, che con tuo nonno c'erano lo zio T. e lo zio P. e lo zio S., una volta uno di loro fu costretto a giocare un carico sotto quattro mani. Quello appresso, allora, giù il re di briscola; e il terzo si levò in piedi per meglio battere sul re la sua carta, che era il tre; finalmente, il quarto di mano, lo vedemmo addirittura salire sulla seggiola e con tutte le forze stampare, sopra il tre, l'asso. - Carino. Ma dite un po', zia, voi queste cose come le sapete? - Diavolo, se ti ho detto che le ho viste coi miei propri occhi! - Intendo, passavate il vostro tempo ad osservare i vecchi che giocavano? - Uhm, qualche volta giocavo anch'io. Certo: erano gente alla buona, e, se mancava il quarto o che, non si vergognavano d'accettare al loro tavolo una bambina. - Chissà però che batoste. - Mica sempre, caro mio. Sta' a sentire: una sera gli altri non erano ancora scesi e c'era solo lo zio M., tuo prozio, che si credeva il più gran giocatore di briscola della cristianità; sicché, figurati, ci mettemmo a giocare a testa a testa, lui sorridendo con aria di superiorità. - E che avvenne? - Avvenne semplicemente che, come si dice qui da noi, lo portai cappotto. - Nientemeno: cappotto a briscola! - E contro una bambina, devi aggiungere, un tale giocatorone. Puoi figurarti la sua faccia... ». Del resto simili sparse e vagabonde immagini sembra-
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no confluire in una più ferma, ma non perciò più aperta; con premessa poi, necessaria quanto, forse, elaborata. C'è persone la cui misura interiore è esattamente proporzionata alla grandezza del mondo: questo, cioè, sta dentro di loro senza residui od insufficienze; tutto quanto 10 costituisce o vi capita trova dunque posto, e posto ragionevole, anche nell'animo loro; esse, si potrebbe con meno parole dire, sono esattamente commisurate al mondo, alla realtà. Non tutti però, anzi pochissimi, risultano così fortunati: e gli altri, i più? - Beh, per gli altri la propria rispondenza alla realtà è vicenda ardua ed alterna. Certi giorni, per esempio, noi comuni mortali ci si sente del tutto impari a quello che ha luogo, o solo esiste, fuori di noi; ogni cosa ci soverchia e supera, le nostre facoltà chiamate a concilio non bastano a coprire l'intera somma o superficie degli oggetti e degli eventi; insomma, in questo vasto guazzabuglio ci stiamo troppo larghi e ci navighiamo sperduti. Mentre certi altri giorni ci stiamo troppo stretti, ossia le nostre facoltà si direbbe eccedano i confini del mondo; il che per avventura stabilisce quasi un margine o un'intercapedine tra essi medesimi e i provvisori limiti della nostra personalità: una specie di frangia, o limbo, o terra di nessuno, un che d'oscuro e (confessiamolo) pauroso. Ebbene, proprio in tale buio margine a me è saltato, la scorsa notte, di calarmi. C'era come un fruscio di topi; e vera tenebra, e freddo; s'udiva come un assiduo rodio o trinciamento, senza dubbio dovuto a qualche inaudita genia d'insetti azzannanti... azzannanti che cosa, poi? Anche, tratto tratto, si percepiva un ventare come d'ali (di pipistrelli?). E ragnateli: me li sentivo sul viso, nel cervello. Donde, da tutto questo, 11 mio ribrezzo, il mio affanno, la mia angoscia... Eccetera. Eccetera, perché sarebbe bello far punto qui, buttando tutto in bizzarrìa o nel conto d'una sensibilità esasperata, o in quello di occasionali rappresentazioni oniriche; ma purtroppo (e nel fatto per fortuna) le immagini astratte non hanno corso se non per pochi spìriti superbi, che si pretendono il diritto di sacrificare la realtà alla propria
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gelida sufficienza. Dirò dunque in piena umiltà che ero giunto nella stanza più o meno assurdamente denominata in famiglia Gallinaio. Una stanza oggi morta, cioè vuota e di nessun supponibile impiego; meglio ancora, un largo pertugio, situato all'incirca dietro gli antichi forni. Non ci entravo da forse cinquanta anni; era il luogo dei nostri terrori infantili, il riferimento o teatro di minacciati castighi e d'incubi vari. Né, soggiungo con eguale umiltà, ci trovai o seppi trovarci altro da quanto ho qui sopra accennato in termini ambigui. Non «come un fruscio di topi», c'era, ma soltanto un fruscio di topi; e così via... Un piccolo «come» in meno, una differenza da nulla: quella che corre tra l'innocente speranza e la trista certezza.
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ANIMALINI
Tra i nostri compagni di pianeta c'è anche un certo ammalino il cui nome, francamente, ignoro e con tutta probabilità ignorerei quando pure mi fossi dato la pena di consultare i più minuziosi repertori zoologici. Per darne un'idea alla svelta, dirò che le sue dimensioni appaiono estremamente ridotte (sui quattro o al massimo cinque millimetri) ; che la sua forma è all'incirca quella tra rotondeggiante ed oblonga di molti insetti; che il suo colore è un bianco quasi abbagliante; che il stto aspetto generale è quello di un minuscolo piumino. Lo si incontra di solito sotto le acacie; percorre il terreno, rispetto a lui accidentatissimo, con aria indaffarata. Cosa poi cerchi tanto vivacemente, so meno che mai (è bensì vero che tal famoso abitante di Sirio non seppe cosa pensare della nostra umana agitazione). M'è piaciuto raccattarne alcun esemplare, a tempo perso: come lieve, come innocuo; come fidente, oso dire. Sebbene da me di proposito stuzzicato, non mi pinzava, non mi faceva alcun male, mi evitava perfino il suo proprio peso; traversava la mia mano inavvertito, non fosse stato pel mio sguardo che attentamente lo scrutava, a null'altro badando che a trarsi da quella rischiosa situazione senza mio danno. Ora, un giorno, a tal perdigiorno pensosamente e di-
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speratamente seduto al rezzo uno di questi animalini salì per caso sulla scarpa. E il perdigiorno lo lasciò salire; lo aspettò su per i pantaloni; infine, con una semplice pressione del pollice... E perché poi lo uccise? Perché fatto feroce dalla sua stessa disperazione, perché uomo, sta bene; ma forse solo perché la creatura in parola era piccina, indifesa, leggera. Ecco, sì: tanto senza peso, da doversene quasi forzatamente concludere che fosse... senza peso appunto, senza significato.
Una compagnia di giovanotti e ragazze s'intratteneva piacevolmente in una corte alberata; d'un tratto la più pallida e bionda sussultò, si portò una mano al petto ed emise un'esclamazione soffocata, indicando un punto in terra. Gli è che per lì procedeva, alla sua goffa maniera, un piccolo bruco rossiccio, neppure dei più sgargianti: un umile bruco, un bruco qualunque. Procedeva contraendosi, stiracchiandosi, lordandosi di polvere, parendo trascinarsi dietro un gran peso; volgeva il capino a dritta e a manca, ogni tanto si fermava per tentare l'aria colle brevi antenne; poi, quasi con sospiro di rassegnazione, riprendeva pazientemente il cammino, riaffrontava le minime asperità del suolo come a noi avviene d'affrontare colline e montagne. Verace immagine, insomma, dell'uomo nel suo faticoso passaggio terreno. O magari, per ciò che ne sappiamo, tutto al contrario: magari lui andava a passeggio spedito quanto gli era concesso, e si sentiva felice, il mondo gli sembrava meraviglioso... Ma bah, in fondo fa poca differenza. Tale comunque Tesserino che aveva destato il ribrezzo della sensibile fanciulla, e che, di tutto ignaro, continuava ad arrancare pei fatti suoi. Ora però il più rubizzo e devoto (alla biondina) dei giovani, seguito il verginale sguardo e individuato il responsabile di tanto turbamento, esclamò: «Ah, è per quel coso lì? », e girò gli occhi intorno, evidentemente in cerca d'uno strumento atto a levar dal mondo il coso stesso; non avendolo trovato, e d'altro canto poco disposto a insudiciarsi fosse la suola d'una scarpa, si rizzò ed impugnò per la spalliera la propria seggiola. Qui un pietoso volle intervenire: « Lascialo
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andare, che male ti ha fatto ». Se non che il primo: « Storie! », e con un piede della seggiola portò un gran colpo al piccolo bruco, attardandosi poi a spiare sul volto della fanciulla gli effetti della sua prodezza. Gran colpo, ma, data l'arma, impreciso: il bruco, morto più che per metà, dovette lungamente e ancor più buffamente contorcersi, rivoltolandosi nel proprio bianco sangue. Da ultimo rese l'anima (vegetativa) al Creatore, e la fanciulla fu contenta. Trovammo una delle nostre due tartarughe terragnole che s'accaniva selvaggiamente contro il corpo morto e già quasi corrotto dell'altra: lo sormontava in bilico, lo grattava cogli unghioni, lo frugava nel suo ricetto tra le piastre del carapace, tentava benché vanamente d'aderirvi allo scopo di farne scempio, il tutto aprendo e richiudendo con secco schianto il becco, e perfino emettendo una specie di furioso gemito. La allontanammo dal posto, ma lei sempre ci tornava; e così finimmo col buttarla in giardino, accompagnata dalla nostra esecrazione. Ché non avemmo dubbi: essa aveva in qualche loro incomprensibile giostra (sessuale o meno) ucciso la congenere, e ora voleva chissà cibarsene, in ogni caso godere del proprio trionfo. In base alla quale interpretazione, la trattammo sempre con disgusto e severità; non più le offrimmo tenere lattughe, e da ultimo la abbandonammo definitivamente alla sua sorte, lì nel mare magno del giardino inselvatichito, dove ancor oggi può capitare d'incontrarla, solitaria e spaurita. Ma il dubbio di cui a suo tempo le negammo il beneficio è venuto a me più tardi. E veramente, le sue singolari attitudini in quel giorno lontano avrebbero potuto altrettanto bene essere interpretate quali atti di disperato dolore per la morte naturale della compagna: atti dunque, non che d'odio, d'amore. Forse, poi, la nostra imputata anzi condannata stupiva di quella assurda, immeritata morte, e non sapeva capacitarsene e ne moveva coi suoi stridori accusa a qualcuno... Lasciamo però le congetture; e piuttosto guardate quanto incerta la nostra valutazione degli altrui moventi o quanto poco note ci son le creature più familiari.
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Il medico condotto pretende stanziato dalle nostre partì un tal ragno tredecimpunctatus la cui pinzatura risulterebbe perfino mortale. Ma a vero dire, con tanti anni di frequentazioni agresti, io questo ragno non l'ho visto mai; e, circa la scolopendra morsitans trovata una notte sotto il mio origliere di bimbo (secondo narrano le cronache familiari), non me la rammento in proprio. Sicché, tutto sommato, resto dell'opinione che da noi il solo insetto pericoloso sia il calabrone, il ronzante predatore dei nostri orti, che sorprende gli incauti di tra o meglio di dentro i frutti maturi e suole annidarsi in quei semidiroccati muri di cinta, donde, come saetta, esce inopinatamente a guerra. « Sette calabroni fanno una vipera », è il detto popolare, che anzi sospetto troppo benigno. D'altra parte, difficile salvarsene, specie in certe stagioni: quando ad esempio, in settembre o sul primo ottobre, l'edera fornisce le sue piccole bacche, quale agitazione su per la fronda e lì sotto; e può anche avvenire che due calabroni, avvinti in fiera lotta, vi cadano addosso, oppure diano in terra con tonfo di germano impiombato... Una mattina passeggiavo nella corte; e davvero qualcosa mi cadde ai piedi. Guardando con maggiore attenzione, vidi che non si trattava dei soliti due calabroni pugnanti, bensì d'un solo calabrone e di due vespe, in confuso groviglio color di sole; esso del resto parve rimbalzare contro il suolo e daccapo si librò, ancorché stentatamente, per posarsi da ultimo su un ramicello. Pensai: « Ecco che le due vespette hanno per una volta fatto fronte comune e ora lo metteranno a mal partito, il prepotente ». Invece, come nella favola di quel Giovanni che amava rovinare a pezzo a pezzo giù dalla cappa del camino, un attimo dopo dal velloso corpicciuolo del calabrone cominciarono a piovere i disiecta membra delle due vespe medesime: un capino, un'aluccia trasparente, un corsetto. E in men che non si dica, sotto i miei occhi esterrefatti, il feroce si scosse, si fregò le zampette anteriori, saggiò con più alto ronzio le proprie forze, e gloriosamente riprese il volo.
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USCITE SALUTARI
F. è uno di quei tali cui può avvenire, quando vanno dal barbiere, di cominciare a guardarsi nello specchio e di pensare: « Dio, che brutta ciera ho oggi; sto male; malissimo; tengo l'anima coi denti; da un minuto all'altro cado in deliquio; e, in tal caso, mi taglio senza fallo la gola contro il rasoio che costui mi sta passando in su e in giù pel collo... Proprio sicuro, poi, che questo sia un barbiere? Niente affatto: è un carnefice, un sicario; basta vedere con quale ferocia affila la sua arma per il ciilpo di grazia. I miei nemici lo hanno incaricato di sopprimermi, tra un minuto non sarò più...». E magari, l'ansia aggiungendosi all'ansia o di se stessa nutrendosi, davvero il nostro tipo salta in piedi, sbatacchia via l'asciugamano, grida: «Finiremo un'altra volta, adesso devo andare; ecco mille lire, tenga il resto, addio ». E il barbiere: «Ma... ma è solo un minuto»; e lui: «Neppure un minuto; un'altra volta: adesso mi lasci andare, per carità! ». Il nostro tipo, cioè F.; le cui angosce, certo, avevano in qualche caso motivo più plausibile, o meglio non apparivano del tutto senza motivo. Come quella notte, laggiù in campagna. La sera, aveva detto alla occasionale domestica (la quale non dormiva in casa) : « Domattina parto, sicché non
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darti la pena di venire: prendo la prima corriera, che passa ancora di buio. Quando torno, te lo faccio sapere io ». Ritiratasi colei, F. s'era coricato; ma poco dopo s'era riscosso, rammentando d'aver dimenticato qualcosa (di indispensabile pel viaggio) al piano superiore: che aveva dunque raggiunto. E ora, rintracciato l'oggetto richiesto, se ne tornava di sotto fischiettando; c'era tempo d'avanzo, ci si poteva rimettere a letto e dormire ancora un po' prima della partenza. Tornava di sotto: quando, arrivato in cima alla scaletta interna... Qui però giova intendersi. Le relazioni o comunicazioni tra i due piani della bicocca erano e sono assicurate da due scale: l'una di pietra, generosamente costrutta, che nondimeno aveva il torto d'essere esterna; e l'altra, che aveva bensì il merito d'essere interna, ma il torto d'essere angusta, buia, erta e per giunta lubrica (a causa d'imposte malferme che ingoiavano acqua), le quali incomodità del resto non le impedivano di venire solitamente praticata dagli abitanti della casa. E per farla breve, in cima a questa seconda scala si fermò d'un tratto F., misurando il piccolo gurgite e pensando: « Guarda un po' eh, io mi preparo a scendere, perfino fischietto; ma se, tra per la poca luce e il rimanente, mi mancasse il piede, se cascassi rovinosamente, se poniamo mi rompessi una gamba? In simile eventualità, è chiaro, rimarrei qui sciancato, dolorante, sanguinoso, moribondo e da ultimo morto, prima che a chicchessia venisse pure in capo d'indagare su me stesso: difatto, ho annunciato iersera la mia partenza, e nessuno potrebbe immaginare... e da questo chiuso le mie grida (posto che fossi in grado di emetterle) non raggiungerebbero orecchio umano... ». E rimaneva lì intontito, né si decideva a tentare il primo passo giù per la scala; poi si fece coraggio, avanzò cautamente un piede, col quale saggiò il gradino sottostante; e infine, parendogli aver trovato sicuro appoggio, pian piano spostò o calò il peso del corpo su detto piede. Ciò che ne seguì non potrà stupire nessuno, dati i suoi precedenti terrori: un inarrestabile sdrucciolamento e ballottamento fino in fondo alla rampa, insomma una caduta ancor più rovinosa di quella ipotizzata e temuta, sebbene per somma ventura meno pericolosa. E si ritrovò a
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valle in ginocchio, abbracciato a uno spigolo di muraglia (che per miracolo non gli aveva spaccato in due la fronte) ; mentre, a mezza spanna dai suoi occhi, un grillo del focolare abbandonava in tutta fretta il luogo di tanto fracasso. E: « Oh Dio, sarà vero che non ho nulla di rotto? o non sarà invece che a caldo le ferite non si sentono? E adesso cosa faccio, provo a rizzarmi?... ». Non è d'altronde necessario continuare colle vecchie storie: basterà citare la più recente. La donna (non so se fosse moglie o cosa) partiva l'indomani mattina, per pochi giorni. Su questa partenza erano preliminarmente corse lunghe discussioni: F. non voleva saperne di restar solo, l'altra faceva valere le proprie ragioni, e così via; finalmente, ridotto al minimo possibile il tempo della separazione, egli s'era piegato a dare il suo consenso. Avevano perfino convenuto che lei non lo avrebbe neppur destato, al momento d'andarsene; ed F., disponendosi nella sua stanza al riposo notturno, poteva in certo modo considerarla già partita. Ma qui appunto cominciavano i guai: diamine, partita davvero! e lui stesso? in qual maniera doveva lui colmare l'infinita desolazione della casa vuota, dei giorni vuoti che lo attendevano? Seguitava a rigirarsi per la stanza, apparentemente occupato nelle sue minime faccenduole, in realtà chiedendo comprensione e coraggio agli oggetti coi quali sarebbe or ora rimasto a tu per tu. E fu mentre ricaricava l'orologio nel cerchio di luce della lampada da notte, che si scoprì sulla mano destra ben cinque pustoline, alcune più vivide e rilevate, altre meno: piccole sì, ma a parer suo sommamente sospette. Donde il solito scarnicolamento: « Cinque pustole tutte insieme, si ha un bel dire, non sono di sicuro cosa buona: senza dubbio esse denunciano qualche morbo segreto e profondo. O h Signore, e quale?... E io che sto per essere, che sono già stato abbandonato ai miei morbi segreti, privo d'ogni conforto, lungi da ogni presenza amica! » - e giù e giù. Ma evidentemente c'era dell'altro: commiserandosi egli così, infatti d'improvviso gli si risvegliò il dolore al fianco del mattino, dimenticato
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poi nel corso della giornata; e subito dopo un dente della chiostra superiore, un canino, parve abbrividire e scrollarsi come fanno i cani nell'uscire dall'acqua, comunicando a tutta la testa del misero una specie di scossa elettrica. Figuriamoci dunque: «Ah, son proprio ben conciato: ho le pustole, un dolore a un fianco e il mal di denti; e in tali condizioni mi si lascia solo! Eh certo, perché no: posso sbrigarmela da me a crepare ». E via per buona parte della notte, sempre accentuandosi (o tanto gli pareva) i preoccupanti sintomi osservati. Ma, verso il mattino, F. balzò a sedere sul letto ed opinò: « Pure, se ho fin qui fatto conto che lei fosse già partita, partita materialmente non è ancora: in altri termini, sono ancora in tempo a fermarla! ».
Nel corridoio, la donna era ormai quasi pronta per uscire: anzi pronta affatto, tolte le pantofole che tuttavia calzava nel manifesto intento d'attutire il suono dei propri passi e di lasciar dormire in pace il compagno. Posato in terra accanto all'uscio sulle scale, uno smilzo valigino. Vedendo erompere F. dalla stanza, ella non disse nulla: lo considerò un momento con occhi neutri, e si accinse a cambiare calzatura. Lui però, lanciandosi come un bolide ed inceppandola nei suoi movimenti: «Cara! Cara, tu vuoi partire; ed io, lo ammetto, ero d'accordo. Ma... ma guarda tu stessa » e protendeva la mano secondo lui infetta; che l'altra del resto non guardò per niente, limitandosi a fissare lui medesimo negli occhi, sempre in silenzio. «E non basta» riprese F. un po' sconcertato, con pietoso accento: « ho anche un dolore al fianco, sai quello di stamane. E inoltre ho mal di denti! » terminò in tono di trionfo. Al che sul volto della donna si avvicendarono rapidamente, in pauroso crescendo, tre o quattro espressioni da accademia d'arte drammatica, quali: sorpresa, perplessità, severità, stizza, disprezzo ed altre non meglio identificate. Ma lui, per quanto o anzi perché spaventato, non riusciva più a fermarsi: « In poche parole, » gridò afferrandola per le spalle « tu non devi partire: te lo proibisco... te ne prego! ».
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Liberatasi facilmente dal suo assalto, la donna gli stava innanzi come meditabonda o come consultando l'orologio da polso; ed F. volle intromettersi tra lei e la porta, per contrastarle l'uscita. A questa goffa mossa, ella alzò le ciglia e da ultimo parlò. Parlò brevemente; disse: « Levati di mezzo, buffone ». Più stupito che offeso, F. eseguì senza neppure rendersene conto; e lei non ci pensò due volte ad uscire. Niente di singolare, in fondo. Singolare piuttosto, o addirittura magico, l'effetto di quello scioglimento quasi forzato: ché, partita appena la donna e invece di restare doppiamente sconfortato, egli si sentì d'un tratto ristabilito nella pienezza delle proprie forze. Naturalmente c'entrava anche una sorta di ripicco, dato che il suo risoluto pensiero fu: «Ah sì, è così? Ebbene gliela faremo vedere: ora mi vesto elegantemente, scendo in città, e a chi tocca tocca! ». Tanto salutare, insomma, può palesarsi la parola giusta al momento opportuno, ed ove pure a nessuno poi toccasse nulla.
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LA DONNA COLL'OMBRELLO
Battevo le alte serre in compagnia d'un contadinotto, che era dei miei; durante le pause della poco fruttuosa caccia, egli mi andava raccontando interminabili storie di fantasmi e prodigi, secondo lui frequenti dalle nostre parti. E in verità, se non il contenuto stesso di tali storie, mi stupiva la perfetta naturalezza e semplicità con cui egli le spacciava, o, diciamo pure, la sua piena accettazione d'un mondo così portentoso. Narrava tra l'altro di una certa sera: un ente invisibile gli strappava di dosso il terraiuolo e, quando lui si chinava a raccattarlo, gli tirava via il cappello, e poi ancora Dio sa che. Ma qui io avevo buon gioco, era cioè facile pensare ai rovi che senza dubbio fiancheggiavano il sentiero, e anche ad eventuali precedenti libagioni del mio interlocutore; sicché volli motteggiare: « Guarda guarda! o non sarà che venivi dall'osteria? ». Mi fissò più perplesso che offeso, e tacque. « Del resto, » seguitai « si capisce bene: il crepuscolo, il buio... Ciascun oggetto assume una forma strana, inquietante, e i nostri sentimenti stessi... ». « Ma i fantasmi, » obbiettò « si trovano anche di giorno».
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« Eh, diavolo: proprio di giorno, in piena luce, come ora?». « Sì sì » assicurò senza scomporsi; e, data una rapida occhiata al sole: « Tra poco ce n'è uno laggiù nella valle ». « Ah, esce a orafissa?». «Sì». «Ache ora?». « A mezzogiorno preciso ». «Ah; e che specie di...? ». « E la Donna coll'ombrello. Volete vederla? ». « Perbacco se voglio: guidami ». E lui mi guidò, per uno sterpeto, fino sul crinale di un'erta collina. Di lì scoprivamo una valletta bionda (per via delle stoppie) e del tutto deserta. « Beh, aspettiamo: non può mancare. Forse non è ancora mezzogiorno » disse. Mentre io mi dicevo a mia volta: « Sarò poco grullo! Ecco, son qui con questo sempliciotto in attesa d'un prodigio ». Il sole picchiava, la montagna taceva, la valletta restava deserta. D'un tratto, dal paese lontano, ci giunse il suono delle campane di mezzogiorno; e nel medesimo istante la vidi. Poteva essere uscita da una punta di bosco che si protendeva alquanto sul breve piano laggiù, o di dietro a quel grande masso, o solo di dietro a quel tronco di cerro secco. Era una donnina snella e flessuosa, ia quale, volgendoci le spalle e dolcemente ancheggiando, procedeva lungo un fosso asciutto che tagliava di sbieco le stoppie. Il suo abbigliamento, un abito bianco e lustro (come di raso), appariva certo singolare, ossia vecchio di almeno cent'anni; ma è pur vero che, nei nostri paesi sperduti, la gioventù femminile usa in determinate occasioni rispolverare gli abiti della nonna o della bisnonna... Nondimeno, come considerare fortuito l'ombrellino di pizzo con cui ella si schermava dai raggi del sole cocente? e che dire della sua aria assorta, di quel senso di segregazione o d'impenetrabilità che sembrava il naturale attributo della sua piccola figura? (Ma capisco bene che sto dando nel gratuito e nell'opinabile).
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« Che vi dicevo? » mormorò modestamente il mio impassibile compagno. Ma, scorta appena quella qualsiasi apparizione, io m'ero precipitato giù per la pendice verso la valle. Ostacoli vari, relativi all'accidentata natura del terreno, rallentavano la mia corsa e insieme la rendevano fragorosa come frana: il che d'altronde non turbava la donnina laggiù, né la sua calma passeggiata. Pure, a un certo punto un forteto me la nascose per un attimo; e, quando riebbi vista libera, ella era ormai scomparsa. Arrivai in fondo; non più di quattro o cinque minuti potevano essere passati dal momento che la avevo veduta. « Diavolo, » balbettai « era qui or ora ». « Eh, » disse il ragazzo « così succede ». « Ma cosa » gridai: « se c'era, dovrà essere ancora qui dattorno». Lui rimase zitto per non contrariarmi. « E andiamo, cerchiamola». « Dove? » e fece un gesto circolare. Difatto, la configurazione dei luoghi era tale da escludere che qualcuno potesse passarvi inosservato: dietro a noi, le stoppie aperte e spoglie di ogni vegetazione; a dritta e a manca, due piagge brulle, due petraie piuttosto, in cui neppure una lepre sarebbe rimasta celata; davanti a noi infine (giusta la direttrice da colei seguita), lo sbocco della valle su una seconda e non meno nuda valletta montana... « Insomma! » sbuffai, cadendo a sedere su una pietra. « Beh, voi non ci volete credere, ma... ». Non finì la frase: fissando un punto a ridosso, mi toccò leggermente il gomito. Mi volsi, e, in una specie di torbido abbagliamento, la rividi: tornava adagio adagio sui propri passi, sempre lungo il fossato (e sempre dandoci le spalle). Eppure, per farlo, avrebbe dovuto previamente scontrarsi con noi, o almeno mostrarcisi; donde dunque era sorta o risorta, lì in mezzo al piano?... Balzai in piedi, la inseguii, ora da nulla inceppato; e lei avanzava senza fretta, io correvo... Tuttavia, daccapo la persi: toccato il bosco, da cui forse proveniva e del resto assai rado in quel punto, sembrò svanirvi. Mi fermai ansante; scambiai un'occhiata col ragazzo,
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che si strinse nelle spalle, e mi sentii ridicolo. Paventavo inoltre i suoi inadeguati commenti; ma lui taceva, senza dubbio giudicando che non vi fosse nulla da aggiungere. Ed ecco mi venne in mente che il mio disagio e la mia smania potevano derivare da un'unica circostanza: io, cioè, non avevo avuto modo di guardar Za in viso. Idea insensata, dopo tutto; a buon conto, presi ad interrogare febbrilmente il ragazzo: « Tu la avevi già incontrata, non è vero? ». «Eh sì, spesso: vi ripeto che basta trovarsi qui a mezzogiorno... ». « E di', l'hai mai vista in faccia? ». «No, questo no» rispose, per la prima volta manifestando un certo turbamento. « E meglio non vederla ». « In faccia, vuoi dire? E perché è meglio? ». «E morta». E per la prima volta a me non sembrò del tutto assurda una simile affermazione. Risparmio al lettore, tanto le spiegazioni fornitemi dal ragazzo sulla via del ritorno, quanto i risultati di mie posteriori indagini tra la gente del luogo. D'altronde la storia della mal veduta fanciulla non appariva per nessun riguardo notevole: d'una grande famiglia oggi estinta, ella era stata uccisa (da un innamorato deluso?) lì appunto dove usava mostrarsi, ed a quell'ora appunto - fatto o fattaccio capitato, secondo la valutazione popolare, un centocinquanta anni innanzi. La sua anima, sicché, errava senza requie... e via col rimanente. A tutto ciò ripensavo la sera coricandomi; né certo potevo nascondermi quanto labili ed incerte fossero le apparenze di cui ero stato osservatore o vittima. E, malgrado ogni saggia considerazione... Beh, confiniamo pure nel limbo dell'ignarità le incrollabili credenze del mio compagno di caccia: ma lasciar correre la fantasia è permesso anche a un uomo evoluto e cosciente. Mi chiedevo, per esempio: «E insomma che cosa, celandomi il suo volto, quale inimmaginabile orrore ha voluto evitarmi la sconosciuta fanciulla? ».
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LE CROCELLINE
Un certo scrittorello di brutte speranze contemplava avvilito tal suo manoscritto nel corpo del quale spiccavano, spesso troncando a mezzo le frasi o addirittura le parole, numerose crocelline. Naturalmente, non c'era da capirci un'acca; ma intanto il direttore del giornale aspettava il pezzo, e d'altra parte i figlioletti e la moglie dello scrittore aspettavano che il pezzo fosse pubblicato per poter provvedere ai loro bisogni. Che risolvere?... Qui però sembra necessario fare un passo indietro e spiegare cosa fossero codeste crocelline; che fortunatamente è presto detto. Per duro volger di tempi, lo scrittore s'era ridotto ad esplicare la propria attività in un angolino della camera da pranzo: esposto cioè a qualunque interruzione, incursione ed azione di disturbo della famiglia, presa nel suo insieme o spicciolata nei suoi singoli componenti. Ora, la prima volta che gli avevano interrotto il lavoro, a lui era avvenuto (come ai lettori col dito indice) di puntare saldamente la penna sul foglio; e questa poi, per effetto di qualche successivo movimento, vi aveva tracciato una specie di crocellina appunto; donde, da ultimo, la cosciente adozione di tale segno o segnale. Insomma, ogni crocellina stava a rappresentare una sùbita e subita interruzione.
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Tanto chiarito, possiamo tornare allo scrittore stesso che si sente perduto e non sa che pesci pigliare. Ma ecco gli viene un'idea luminosa: « Se provassi a sviluppare le crocelline che costellano il mio sciagurato manoscritto: ossia, dichiarando per disteso i vari impedimenti? ». Il risultato, diciamolo subito, non fu brillante; in compenso fu ed è autentico. Lo si registra comunque qui sotto, avvertendo che il corsivo figurerà i brindelli del breve contesto cui (saggiamente) si restrinse lo scrittore, il tondo quanto si oppose ad una sua plausibile redazione. La letteratura: che cosa è infondo la letteratura ? Un modo, un metodo per « Papà, che vuol dire Ipotiposi? ». « Ipotiposi: dove hai trovato una simile parola? Del resto vattene, non ho tempo ». « Non lo sai; allora a che serve essere scrittori? ». «Ma sta' zitto, insolente; fattelo spiegare dalla mamma ». « E lei che mi ha mandato da te ». «Ah, a questo siamo; e non lo sa, lei, che io son qui a spremermi le meningi per mandare avanti la baracca? Via, via, e non fate chiasso, di là ». offrire agli uomini di buon volere una rappresentazione differenziata delia realtà. « Caro il mio uomo, il ragazzo m'ha riferito la tua pertinente osservazione. Ma, se tu tiri la carretta, credi pure che anch'io... ». « Sicuro, sicuro, e chi lo nega! Adesso però... ». « Per esempio, tu immagini sia lo stesso darmi centomila lire tutte insieme o darmele a briciole, a minuzzoli? ». « E tu, vuoi capirlo che non te le do tutte insieme pel buon motivo che non le possiedo? Io mi arrangio come posso, alla giornata ». « E pretendi che una moglie e due creature vivano in eterno alla giornata? O sei un perfetto irresponsabile? ». « Non pretendo niente e, sì va bene, sono un perfetto irresponsabile; ma adesso lasciami lavorare ». «Mah! ». E cosa precisamente si deve intendere con « rappresentazione differenziata della realtà » ? Questo: che la realtà può essere duplicemente concepita: sotto specie
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Grande fragore di cocci rotti verso la cucina. « Ma che succede? ». «Niente, papà: la pentola a pressione ha sbuffato in viso alla mamma, e la mamma l'ha lasciata cadere sui piatti ». «Ah... Ehi ma tu, piccolina, perché non sei a fare i compiti? ». « Li ho finiti ». « E quanto fa sette per otto? ». « Sette per otto? ». « Sì, e non ripetere sempre la domanda; rispondi invece». « Cinquantaquattro ». « Pensaci bene, grullina ». « Cinquantasei ». « Oh via. Ora morse, ho da fare ». di realtà pura e semplice, ovvero dirichiamoa diversa e più distinta realtà, che ben potremmo definire originaria. (Qui poi allo scrittore sembrò vagamente che codesto bel discorso fosse farina d'altrui sacco. Ma egli non ebbe il tempo di rifletterci, giacché : ) Perentoria scampanellata; parlottamento, indi passi affrettati in anticamera. « Sarei indiscreto se chiedessi cosa avviene, voi lì di fuori?». « Macché indiscreto, sèrviti con comodo ». « La bolletta della luce? ». « Sì, e guarda la cifra ». « Diavolo!... Ma è naturale: tu ti ostini a tenere lo scaldabagno acceso tutta la notte ». «Dunque i nostri poveri figliuoli, già così disgraziati, dovrebbero anche essere sudici? ». «Va', va': mi fai scappare le maglie del ragionamento; e la pazienza. Io mi domando come mai a tanta gente è concesso...». « D'avere accanto a sé una compagna dolce e comprensiva? ». « Sì, questo ». « Ed io mi domando come mai tante donne hanno la fortuna... ». «Vattene, per l'amor di Dio ». « D'accordo ».
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Tali premesse, ad ogni modo, non sono indispensabili ave si tratti Ancora due tocchi di campanello. « To', una lettera ». « Una lettera: e di chi? chi si permette di scrivermi? ». « Che ne so io; leggila piuttosto, può anche darsi che sia una buona notizia o una offerta di lavoro ». « E più facile che muoia l'asino a qualche poverino ». « E questa che significa? ». « Niente, niente: è un detto del mio paese ». « Ah beh, tanti saluti ». (Era infatti un'offerta di lavoro, ma poneva un difficile problema di comportamento e richiedeva una scelta impegnativa: che lo scrittore rimandò a miglior tempo. Ora come ora, gli premeva concludere il suo vessato raziocinio. Riscorse l'ultimo rigo: Tali premesse non sono indispensabili ove si tratti... Eh, ormai solo il Diavolo avrebbe potuto dire di che si trattasse. Del resto:) Improvviso e terribile strepito dalla strada, giusto di sotto le finestre. « Oh Dio, che altro c'è? ». « Eppure son due settimane che brontoli e inveisci contro l'amministrazione comunale perché non sai dove mettere i piedi quando esci: son venuti, con tutte le loro macchine, ad aggiustare il selciato ». « Uhm. Ma tu cosa fai, origli? ». « Nossignore, io son qui in cucina ». « E dalla cucina ti riesce di udire lè mie menome esclamazioni? Allora fa' tanto il piacere, chiudi anche la porta della cucina: ti par possibile che ci si metta a urlare e a leticare attraverso due stanze? Eppoi così mi sento scoperto, come nudo. Mentre, per tua norma, ho bisogno d'isolamento: ho da finire un articolo ». Ove si tratti... ove si tratti... Mentre scrivo, lo strepito continua. Non saprei pertanto aggiungere altri tocchi a questo bozzetto di vita domestica.
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ESPERIMENTO INUTILE
La donna guardava lontano, oltre il monumento equestre che fronteggiava la stazione, e del resto oltre tutto quanto era in vista. Si fermò, disse: « Beh, e ora dove andiamo? ». « Mah, » rispose l'uomo « intanto visitiamo le bellezze artistiche della città ». «Non ne ho nessuna voglia. Che bellezze artistiche, poi? Ne abbiamo fin sopra i capelli delle nostre ». «Allora perché siamo venuti qui? ». « Sono io che devo domandartelo ». « Ma se l'idea è stata tua! ». « Mia, è vero, ma in certo senso forzata da te ». « In che senso precisamente? ». « Dalla tua insoddisfazione, dal tuo malumore, dalla tua litigiosità». « E tutto ciò ti avrebbe dato l'idea di questa gita? ». « Non gita: fuga ». « Fuga da me, dunque; e come mai con me? ». « Non capisci niente: fuga almeno dalla nostra città, che è il luogo abituale dei nostri contrasti ». « Ossia immaginavi che mutando cielo... ». « Eh, forse ».
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« Ma era una fantasia puerile: difatto, appena arrivati, riprendiamo a questionare ». « Sì, sì, va bene, hai sempre ragione tu colla tua stupida logica». « Ma no, non fare così. Mettiamoci in quel caffè e ricominciamo daccapo ». « Cosa, vorresti ricominciare? ». « I nostri lunghi discorsi ». « Che non approdano a nulla ». «Via, chissà. Siedi». « Ecco, son seduta... Che devo prendere? ». « Un cappuccino? ». «Oh no! ». « Lo vedi come sei: se rifiuti sempre tutto... ». « Un cappuccino è "tutto"? ». « Non fingere di non capire ». « D'altra parte poco fa non ho saputo esprimermi: parlando della tua insoddisfazione intendevo una cosa grossa ». «Ah sì, e cosa?». « Tu sei avverso alla vita, sei maligno colla vita ». «Ammettendolo, per ciò appunto ci saresti tu ». «Io però, non solo non son da tanto, ma neppure voglio: non sono tenuta». « Cioè non mi vuoi bene abbastanza? ». « Non è questo ». «Infine, si arriva alle solite affannose domande? Che so: "Lo amo, mi ama? Siamo felici? Se no, perché non lo siamo?". Eccetera eccetera». « Non è colpa mia, se ci si arriva ». « E di chi? ». « Senti, facciamo una cosa: separiamoci simbolicamente ». « Non ti seguo ». « Diciamo allora per prova; ci ritroveremo qui questa sera dieci minuti prima dell'ultimo treno ». «Ho capito; accetto. Ma se ti proponi di dimostrare che...». « Non mi propongo niente di definito ». « È comunque un esperimento stupido ». « Può darsi; addio e buona fortuna ».
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La città aveva un'aria smorta, frusta, evidentemente per via del tempo umido e lacrimoso; le ruote delle automobili traevano dalla leggera belletta un suono (se così è lecito dire) appiccicaticcio. A lui era già passata la voglia dei musei o d'altrettali luoghi notabili; ma intanto come trascorrere le lunghe ore di solitudine cui lo aveva condannato il capriccio della compagna? Finì, malgrado tutto, col visitare la casa di un grand'uomo morto più di mezzo secolo innanzi. Questa casa, almeno nelle stanze che si mostravano ai devoti, era rimasta intatta, con perfino i nettapenne sullo scrittoio. Il custode recitava: « Su quella poltrona Egli soleva... Su quel tavolo... Da quella finestra... » - e lo guardava sospettosamente, deluso dal suo poco entusiasmo o forse divinando i suoi tetri pensieri. Che erano, all'incirca: «Ma chi glielo ha fatto fare, a codesto celebrato grand'uomo? a cosa gli è servita una vita esemplare o che gli giova oggi l'ammirazione dei posteri? ». Poi fu di nuovo la strada uggiosa. Ciò che più lo spaventava era la propria perfetta indifferenza: indifferenza di sentimenti rispetto alla circostanza. Diversamente detto, l'amica (secondo il linguaggio di loro donne) non gli mancava in alcun modo. D'altro canto, se gli fosse mancata, questo non avrebbe provato niente; così come, a rigore, non provava niente il fatto che ella non gli mancasse... Guardò l'orologio: due ore buone all'apertura del primo cinema, evento intorno al quale s'erano venute cristallizzando le sue speranze di passatempo, d'oblio. Ebbene, si poteva sempre andare a pranzo. Dove però? Le vistose trattorie del centro erano senza dubbio troppo care per la sua borsa... «Ah che sciocca: lei lo saprebbe, dove andare, in quale viuzza infilarsi, come scovare un posto decente ed accessibile; ma nossignori, il suo vero talento consiste nel non esser mai presente quando si ha bisogno di lei. Il che, intendiamoci, è solo noioso e non riveste alcun particolare significato ». A buon conto la trattoria da ultimo scelta (una di quelle infossate e bugiardamente caratteristiche cui si scende per sordide ed erte scale) si rivelò un antro infetto; ma lui prese egualmente a discorrere col cameriere, fingendosi voglioso di contatti umani.
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Ingannata dalla sua falsa allegria, certa ragazza della tavola accanto gli chiese una sigaretta: gli toccò levarsi per porgerla, e l'altra, colto il momento e giusta la prassi, chiese anche il fiammifero. Era delle non imbellettate, che cioè si stimano più piacenti al naturale; ma, mentre si lasciava accendere la sigaretta, trovava modo di torcere gli occhi e di fissarlo languidamente. E a lui passò per la testa: « A parte tutto non se lo meriterebbe, la mia puntigliosa amica, che stasera mi presentassi all'appuntamento in compagnia di questa qui? ». Beninteso non ne fece di nulla e si affrettò a battere in ritirata. Seguirono l'agognato cinema, un interminabile scarpinare lungo interminabili portici (giacché la pioggia s'era fatta insistente), un caffè intronato da macchine cantanti, uno straripamento di futili pensieri. E, come Dio volle, venne la sera. Giungendo alla stazione, scorse la donna che lo aspettava, ma con accanto un giovane sconosciuto ed alquanto sparuto. Si fermò interdetto a una certa distanza; lei però gli fece cenno di avanzare: «Ti presento il signor..., che è stato tanto gentile da tenermi un po' compagnia». «Ah, piacere » borbottò lui, stupito di non provare nessuna rabbia. Visto da presso, il giovane appariva anche strabico. Egli sembrò sorpreso a sua volta, si rigirò non sapendo dove mettersi le mani, emise un sospiro d'incerta interpretazione; e, in men che non si dica, con un inchino cerimonioso tagliò la corda. I due non fecero commenti e presero il loro treno, benché ancora tutto spento e non ancora sul binario di partenza. Fu solo quando ebbero oltrepassato la grande galleria e quando, fosse stato giorno, sarebbe risultato ormai visibile il cupolone della loro città, che la donna si decise a domandare: « Allora, sei stato bene da solo? ». « E tu? » chiese lui di rimando. « Ma io non ero sola, l'hai veduto ». «Andiamo! E, per la cronaca, quel tizio? ».
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« Mi si era messo ai panni una mezz'ora prima » ammise onestamente. (Comunque lei lo aveva fatto, quello che lui aveva immaginato di fare: presentarsi all'appuntamento con uno sconosciuto). « Beh, concludi tu come ti piace » disse sbadigliando. «Un esperimento inutile, d'accordo» replicò la donna stancamente: « le cose si fanno o non si fanno ». « E cioè? ». (Ma quel treno semivuoto e semibuio, gli avvenne di pensare, che li riportava alla loro debole, irrisolta vita quotidiana...). « Cioè, » riprendeva intanto lei con una sorta di sconsolata malizia « cioè uno di questi giorni ti lascio per davvero e non se ne parli più ».
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TEMPO PERDUTO
A volte, nelle ore vuote, riprendono per noi consistenza brindelli d'un passato perduto. Non parlo, cioè, dei grandi ricordi che tuttora in qualche modo determinano il nostro presente, bensì di piccoli episodi ormai inerti e dimenticati: i quali tuttavia, chissà perché, un bel momento riaffiorano dal nostro intimo con una certa insistenza ed urgenza, quasi davvero significanti o quasi specchi d'una nostra costante condizione. Queste involontarie rievocazioni, poi, sono di solito angosciose; il che (almeno nel mio caso, e come a ristabilire l'equilibrio) comporta una ricerca mnemonica di esperienze più liete, da opporre alle prime. Insomma una fredda e una calda, se non altro. Ma, naturalmente, è più facile esprimersi in termini rappresentativi: ho dunque pensato di dichiarare qui la trascorsa angoscia da cui sono oggi gratuitamente riassalito, col suo pronto contravveleno. R. è celebrato luogo di soggiorno invernale: per conseguenza i suoi inverni sono tra i più rigidi dei nostri climi cosiddetti temperati. Inoltre la casa che abitavamo era situata, in cima ad un'erta affannosa, nella parte peggio
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esposta della città: donde, a causa d'una collina intermessa, non vedevamo il mare e quasi neppure il sole. Coll'inverno venne di prima giunta la neve; e noi ci ammalammo, d'influenza e di sgomento. Ma per fierezza, per pigrizia, e anche per mancanza di soluzioni migliori, resistevamo. Se non che mi avvenne di recarmi a S., sull'altra riviera, e vi trovai aria tiepida, riso di mare, passeggiatori senza pastrano; e da allora, si capisce, il nostro più caro desiderio fu di trasferirci armi e bagagli in quel paese incantato. Peraltro, dove reperire (così dicono gli operatori economici) i fondi necessari? Resistemmo ancora; e alla fine, un giorno di tormenta, gridai a mia moglie: «Va', parti, corri dai nostri vecchi laggiù, dipingi loro la nostra lamentevole condizione e cògli quattrini quanti più puoi». Ed ella partì; la accompagnai alla stazione trascinando una valigia non troppo leggera, inarcandomi contro il vento furioso ed affondando fino a mezza gamba nella neve. Mi sorrise dal finestrino, già invasa dal tepore del treno, e partì. Rimasi solo sotto la pensilina; mi si strinse il cuore; rincasai. La casa era gelida e, così mi parve, ormai irrimediabilmente vuota: non trovai di meglio che mettermi a letto, sebbene fossero soltanto le tre del pomeriggio. Non dormivo, s'intende, e contemplavo cogli occhi sbarrati, per l'ampia finestra, quel miraggio di rade case volte al mare, che a me davano le terga; leggere non potevo, per tema di diacciarmi le mani. Sapevo che mia moglie non sarebbe stata di ritorno (con quattrini o senza) prima di due o forse tre giorni, e mi domandavo in quale modo avrei varcato questo abisso di tempo. Il cielo era torbido, quasi bianco; ma poi inviolì, e mi resi conto con orrore che annottava. Beh, che dopo il giorno venga la notte è vicenda cui dovremmo essere da sempre abituati; eppure non potrò miti dimenticare il senso di desolazione, di sconforto, di abbandono che mi prese in quel crepuscolo invernale. Mi sembrava d'essere come scordato in un angolino morto del pianeta, non raggiunto da soccorsi terreni o celesti e donde nessuna amica mano avrebbe avuto valore di trarmi. E veramente, il crepuscolo aveva ceduto alla notte fonda, le ore si sommavano alle ore, senza che io trovassi
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la forza di scrollarmi dal mio letto d'angoscia; non provavo neanche il morso della fame; mi sentivo preda d'una paralisi che non era solo del corpo, che era anzi quasi un ritorno ad una oscura condizione prenatale... Da ultimo caddi in un affannoso dormiveglia, interrotto da orribili incubi, ai quali seguivano lunghi stupori. In uno di tali incubi vedevo me stesso come attraverso un cannocchiale rovesciato: incredibilmente remoto e solitario, contro uno sfondo di bige nubi, che però ben presto si disponevano a vortice e mi risucchiavano, sicché io scomparivo alla mia vista. Andai avanti così tutta la notte e tutto il giorno seguente; può anche darsi avessi la febbre. Finché, in un attimo di lucidità o di remissione, saltai su a sedere e mi dissi: « Ma cosa! A questo modo il meno che possa capitarmi è d'impazzire ». Mi vestii a fatica, abbrividendo, mi trascinai fuori traballante e finalmente famelico. Le luci della strada avevano intorno uno spesso alone, c'era ancora vento e nevischio. Poi, bene o male, la vita riprese; ma a lungo mi rimase la sgradevole impressione di vivere per mera forza di volontà o per assurda scommessa, non per vera necessità. Fin qui il primo ricordo, molesto e quasi intollerabile: al quale, come dicevo in principio, mi sono affrettato a cercare nella memoria un antidoto. Ed ecco, sui due piedi, cosa ho ottenuto. In una delle nostre più amene città fu un tempo una piccola bisca protesa sul mare: ché mare e non altro si scorgeva da qualunque finestra. V'erano allogate alcune roulettes a scartamento ridotto (di dodici numeri, chiamate non so perché cavallini) e tre o quattro tavoli di chemin de fer. Entrati, una mia compagna ed io, e mentre ci si guardava intorno irresoluti, avvenne che il croupier del primo tavolo con largo gesto d'invito ci segnalasse libero il primo posto, alla sua dritta: il gioco non era ancora incominciato, si aspettava appunto che quel posto fosse occupato. La compagna titubò; non io. L'invito, voglio dire, era in certo senso irresistibile: pensate, il primo posto del primo tavolo, a gioco vergine! Per cui, sebbene le nostre risorse
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fossero estremamente limitate, senza pensarci due volte mi buttai a sedere di traverso sulla seggiola che la sorte mi additava. Si fecero le carte, mi fu presentata la cassetta per il primo banco. Intanto io andavo riflettendo che, in tale rischiosa partita, un insuccesso iniziale ci avrebbe definitivamente messi fuori combattimento; ma era troppo tardi per le resipiscenze. La punta chiese carta: non la detti perché rovesciai un otto... Beninteso, questo favorevole colpo d'apertura non significava nulla; ma ecco che, al secondo, la punta richiese carta ed io rovesciai un secondo otto. E qui, lo confesso, cominciai a « sentirci » o ad « attaccarmici» (come si dice nel gergo lusorio). Peraltro, c'era adesso il colpo-base, che avrebbe potuto ritogliermi ogni cosa ovvero consolidare il mio successo... La punta avanzò «parole di pace», alias chiese carta per la terza volta: alle quali parole risposi duramente, ossia voltando un terzo otto. A questo punto la vincita appariva già ragguardevole ma essa restava a disposizione d'un qualunque chiamatore di banco: per incamerarla stabilmente avrei dovuto passare la mano. E l'eventualità che difatto mi proposi; le ragioni però della prudenza furono, nel mio breve dibattito interiore, soverchiate da quelle dell'avarizia o da non so quale estetismo. Seguitai il gioco, col cuore in gola, ed anche il quarto colpo mi fu favorevole; e poi il quinto e il sesto, fino al settimo. All'ottavo, il mio banco cadde; ma « in piedi », cioè lasciandomi un ricco margine di vincita. In chiare note, avevo « trovato » alla prima (al primo giungere nella bisca, al primo tavolo, al primo posto, al primo banco) una serie di ben sette colpi favorevoli. E rammento oggi con soddisfazione l'obeso signore che, dalla gran rabbia, lacerava le sue grosse banconote prima di porgerle in pagamento, e che del resto il croupier s'affrettò a redarguire per tale atto villano. Di lì a poco, durante una pausa, sedevamo nell'annesso luogo di ristoro davanti a una cenetta da giocatori. E dissi alla compagna: « In fondo, che cosa potremmo chiedere di più alla vita? Siamo qui giovani, spensierati, imbottiti di quattrini, in uno dei ricetti cari al nostro cuore... Già: sta solo in noi tra un attimo rituffarci nella voluttà del gioco e
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daccapo vincere, vincere fino a giorno; ovvero, e forse ancor più voluttuosamente, indugiare (certi di quanto ci è promesso) in discorsi lievi e svagati, in parole d'amore. E guarda per maggior tripudio il mare sotto la luna, ed accogli sulla fronte la brezza notturna»... O magari sul più bello della volata m'imbrogliai, ma non per ciò i miei sentimenti erano meno legittimi. Ad ogni modo questo è il ricordino roseo, ancorché egualmente gratuito, mediante il quale mi son difeso dal primo e tetro. Se, ora, accenno all'ultimo esito di quell'avventura di gioco, non è con intenti morali, quanto per semplice dovere di cronaca. Sul mattino, dico, ci ritrovammo diretti a piedi verso la stazione ferroviaria. Tacevamo; di qua e di là, case addormentate; e il nostro batter di tacchi che pareva l'unica voce della notte. Un percorso di cinque chilometri, a dir poco. Gli è che non c'era rimasto neppur da noleggiare un qualsiasi veicolo: i nostri pugni contratti nelle tasche stringevano appena, dopo tanta gloria, i pochi spiccioli necessari per il treno.
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RICORDI SENZA VERBO
Attraversando l'anticamera per uscire, lo studente si fermò sorpreso. Gli è che la sera innanzi aveva trattato l'affitto con una donnetta malatìccia, di capelli bigi e d'occhi scialbi; e ora, per l'uscio semiaperto della cucina, scorgeva una superba creatura giovane e bionda, intenta a prepararsi il caffè. La quale del resto gli volgeva le spalle, sicché c'era caso non fosse poi tanto bella... Lo studente tossì con discrezione, la ragazza si girò. Bella, lo era: con occhi neri e profondi, in palese contrasto colla sua biondezza; con capelli, nel nuovo taglio di luce, leggermente fulvi ovvero lionati, e lucenti. Ella considerò un attimo il giovane; disse: «Ah, lei è il nuovo dozzinante?... Voleva la mamma? ». « No, volevo... Non volevo niente, ecco ». «Ah, capisco», « Mi scusi, stavo uscendo ». « Certo, certo; di che si scusa? ». Dialogo privo di senso. In realtà lui pensava: « Che fanciulla meravigliosa»; e lei: «Non male, il ragazzo; salvo che, così bruno, deve essere di quei paesi laggiù. Ma tanto meglio, dopo tutto ». Erano due adolescenti appena, ancora aperti alla speranza; il mito dell'incontro ancora accendeva la loro immaginazione.
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« Beh, arrivederla ». « Non... non le andrebbe una tazza di caffè? ». « Sì magari, ma non vorrei... ». « Un istante: è già quasi pronto » troncò la fanciulla. E pensava: « Come mai gli offro il caffè? ». Lui invece era un giovane estremamente tìmido epperò aggressivo; il suo interesse per gli altri si traduceva in sollecitazioni gratuite, in domande assurde: « Lei, sentiamo... lei, cosa si ripromette dalla vita? ». « Oh povera me » rise: « mi fa delle domande, così a bruciapelo... » e abbozzò un gesto che comprendeva loro due ritti nel mezzo della sordida cucina. « Dico » riprese l'altro imperterrito « si può vivere senza avere idee precise sul proprio avvenire? ». « E vedrà che anch'io, nel mio piccolo, avrò le mie. Ma ora prenda; badi, scotta». « Ha ragione, sono uno sciocco ». «No, no. Ma, sa, il discorso sarebbe lungo ». «Vede: qual è la nostra parte in tutto questo? » ricominciava lui, animato da una vera ansia di... di qualcosa. Egli uscì, e ognuno dei due attese alle sue diurne faccende. Ma lei si sentiva come quando, bimba, faceva bere il passerottino dalla propria bocca; e lui covava una gioia fonda, che se mai nulla perdeva ad essere (quasi per gioco) differita. La notte, rincasando, il giovane vide ancora luce in cucina e non seppe resistere alla tentazione di spingere la porta: la ragazza era lì, seduta al tavolo con un giornale davanti. « Ma lei cosa fa qui? ». «Oh bella» rispose allegramente; «perché, dovrei far qualcosa di particolare? Leggo il giornale ». «A quest'ora! ». « Non è poi tanto tardi ». E improvvisamente lui fu preso come da un convulso d'audacia: «Dorme?». «Chi?». « La mamma ». « Certo. Ed ha il sonno duro » soggiunse, forse con una punta di malizia.
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«Allora... ». «Allora? » chiese, guardandolo diritto negli occhi. «Venga un minutino da me ». «Nella sua stanza? No, questo no... Oppure sì, ma se mi giura... ». « Giuro ». Trovarono la stanza inondata di luna, e, senza accender la luce, avanzarono fino alla finestra spalancata: dove, sbollito ogni ardire pel fatto stesso che erano così vicini e così soli, restarono immobili e tremanti, non osando neppure sfiorarsi. La finestra dava su un terreno da costruzione sudicio e squallido di giorno, ma che in quella luce simulava un intero pianeta con i suoi sconvolgimenti e le sue catastrofi. Tacevano; d'un tratto lui afferrò la ragazza per il polso e la trasse verso l'interno. « Oh Dio no, no; cosa vuol fare? » badava ella a ripetere, badando altresì a non opporre troppa resistenza. Ma non si trattava di ciò. Il giovane accese la lampada sullo scrittoio e cominciò a frugare febbrilmente tra i fogli ivi sparsi. « Sieda. A lei, piace la poesia? ». « Beh, certo » rispose, delusa ma lusingata. «Allora, vuol sentire una cosa che... una cosa? L'ho fatta la notte passata ». « Sì, sì ». Il componimento di cui egli dette lettura aveva una vaga attinenza con quella marea lunare lì sotto la finestra; ma vi era anche implicata (o tanto a lei sembrò) una misteriosa, una sognata presenza femminile: irriconoscibile dunque, quasi beffarda, e nondimeno singolarmente simile a lei medesima... La lettura finì, ella mormorò: «È bello!». « Davvero? Leggo ancora? ». La ragazza lo incoraggiò con un gesto impaziente, e lui si buttò in una seconda poesia. Poiché sapeva a memoria il testo, era in parte libero di pensare ai casi suoi. Si chiedeva confusamente: «Ma, dopo tutto, non è sciocco quello che sto facendo? »... E si rispondeva, sebbene altrettanto in confuso: «No perbacco. Ho qui a discrezione una bella e sensibile fanciulla: cosa potrei fare di meglio che
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confidarle il mio segreto, che affidarle il mio tesoro?». Inoltre, scrutandola nei cupi occhi, vedeva da quel profondo affiorare lacrime di commozione; ed era felice. Finita anche questa seconda lettura o declamazione, la ragazza, levatasi bruscamente, venne ad abbracciarlo in silenzio; né alcuno dei due si sentì menomato o tradito da quel castissimo abbraccio. Poi ella chiese altre e sempre nuove poesie, che ascoltò seria, intenta. La notte era ormai avanzata, ma loro sembrava non conoscessero tempo. Da ultimo lei si riscosse ed annunciò: « Devo andare, ora: domattina ho da alzarmi presto, non sono fortunata come certi studenti che possono poltrire fino a mezzogiorno ». Era una maniera per difendersi da alcunché con un motto; ma era al tempo stesso un ritorno di buon senso: l'irruzione, nella notturna, della vita diurna, che purtroppo ha sempre l'ultima parola. Gli dette un rapido bacio sulla guancia, fece una sorta di finta per evitare le sue mani involontariamente protese, e dileguò in fondo al corridoio oscuro; né lui tentò seguirla. Il giorno appresso il giovane fu richiamato in famiglia da un telegramma urgente, foriero di luttuose notizie; e partì senza averla riveduta. Quando tornò, in capo a tre settimane, la ragazza era partita a sua volta: per assistere, lo informò la madre, una zia graverilente ammalata. Ma intanto l'anno accademico volgeva al suo termine: le vacanze lo portarono daccapo lontano, prima che lei si rifacesse viva. Ad anno nuovo poi, quando volle tornare nella vecchia casa, trovò il posto occupato da altro studente. In conclusione, non si rividero più mai. E il ricordo di un tale fuggevole incontro rimase nella loro vita come un che di struggente e d'improbabile: di lunare, appunto. Uno di quelli che, quasi titoli, si qualificano soltanto per sostantivi: « Una notte, una lettura di versi... ». Ricordi, per dir così, senza verbo.
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L'OMONE
Il treno era affollato; ma, a Pisa, nel nostro scompartimento si fece libero un posto. Un attimo dopo, ci parve che l'uscio sul corridoio si oscurasse per intero; levammo gli occhi... e rimanemmo allibiti. Il nuovo venuto era uno di quei prodotti finiti dei quali la natura a tempo perso si compiace: una specie di gigante, o piuttosto d'orco, un uomo insomma di tanto vaste ed imponenti proporzioni, da lasciarci tutti (dicendolo in chiare note) senza fiato per il terrore. Del resto converrà precisare che tale nostro terrore aveva per unica causa quelle inaudite proporzioni; ossia, l'uomo non appariva punto mostruoso, appariva anzi simile a noi miseri, salvo che costruito su scala assai maggiore. Di più, e fortunatamente, egli sembrava benigno alla debolezza quanto conscio della propria forza: l'orco buono di cui talvolta nelle favole. Chiese difatto col dolce accento locale: « Libero, questo posto? ». Ma, ahimè, nessuno rispose perché nessuno aveva ancora ripreso il fiato. E lui, senza perdere la pazienza: «Libero? ». « Sì, sì » risposi finalmente io con un certo sforzo: « si accomodi». L'omino accanto si fece piccino piccino, e lui si sedette
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maestosamente, appoggiando con agevolezza il gomito sulla tavoletta ribaltabile all'altro capo dello scompartimento (dunque travalicando d'un sol tratto ben sei ginocchi). Indi sorrise e, senza dubbio per metterci a nostro agio, osservò: « Un bel caldo, oggi ». « Eh sì, già già » si affrettarono a concedere due o tre viaggiatori. « E, si può capire, un viaggio con questo caldo è d'un tanto più noioso ». « Proprio vero, verissimo! ». « Ecco però, se uno riman lì intontito e si lascia prendere dalla sonnolenza magari è peggio ». « Peggio, peggio! » approvammo. « Riscotersi invece un tantino: non so, con qualche gioco di società, con qualche passatempo... Beh, non sarebbe meglio? ». « Meglio, sicuro, meglio! » urlammo in coro. In realtà, le nostre entusiastiche approvazioni non avevano nulla di eccessivo: ciascuno di noi era fermamente deciso a non contrariare in alcun modo un tanto uomo, il cui menomo moto di collera avrebbe prodotto lì dentro chissà quale sconquasso. Lui, da parte sua, doveva rendersi conto della situazione, e così forse gli venne l'idea di divertirsi un pochino: alla buona, quasi senza malizia. « Su, e allora cosa si inventa? » riprese. « Io direi, per esempio, che ognuno facesse quello che sa fare; e si starà a vedere. Cominci lei! » soggiunse bruscamente, puntando un indice grosso come un piolo di seggiola contro il suo dirimpettaio. « Io, ehm, io? Ma del resto... Però, mi scusi, non ho capito bene » balbettò il designato, che era un grave signore di mezza età con occhiali a stanghetta. « Sì, lei: uno ha da cominciare. Lei, tanto per dire, saprà fare il verso di qualche animale? ». «Veramente... Ma poi perché no: posso provare ». « Oh via. E di che animale? ». « Il gallo? » mormorò l'altro tergendosi il sudore. « Il gallo: mi piace. Coraggio ».
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Noi serbavamo un codardo silenzio; il signore dagli occhiali a stanghetta si raccolse, si schiarì la gola, e d'un tratto (potenza del terrore) emise di tra i baffi vibranti un sonoro, un insospettabile chicchiricchì. Chinammo il capo, vergognosi per lui e tementi per noi stessi. «Bravo, sinceramente» commentò l'omone: «lo vede che basta un po' di buona volontà... Ora a lei» proseguì volgendosi alla ragazza seduta appresso. « Eh, che? lei non sa fare versi d'animali? Poco importa: conoscerà, poniamo, una canzonetta di queste d'oggi. Forza, canti ». Con un vocino ingoiato, e stonando, la ragazza accennò una sorta di tremulo recitativo, debitamente centrato sul relativo Che e sulla clausola Felicità. « Bene, bene, può bastare... E adesso, cosa ci fa sentire il nostro amico? Sì lei, lei costì ». Si trattava d'un signore un po' meno grave del primo ma non meno annoso: un piazzista o un commerciante. Il quale poi giunse solo a boccheggiare ed a fissare con aria tanto spaurita l'interlocutore, che questi gli venne crudelmente in aiuto: « Beh, se proprio non sa far nulla glielo suggerirò io, un bel giochino: d'accordo? ». Grugnito d'assenso. « Guardi, qui ci sono tre fiammiferi svedesi: lei deve fare in maniera da tenerne fermo e sospeso uno cogli altri due. Ha capito? Su, ne prenda perbenino due tra il pollice e l'indice, uno per mano; e ora cerchi di sostenere il terzo a contrasto. Eseguisca, prego ». Dopo alcuni tentativi compiuti con dita tremanti, il malcapitato riuscì alla men peggio nell'intento e sorrise scioccamente, come chi abbia portato a termine il proprio compito e ben meritato dell'allegra compagnia; ma quella crocellina di fiammiferi seguitava a tremargli tra mano, minacciando di disfarsi al primo scossone del treno. « Non basta » disse in ogni caso il nostro tiranno: « adesso strusci un piede in terra; animo, avanti e indietro... ». E qui d'improvviso, abbassando una gran manata sul ginocchio del signore e scoppiando a ridere sgangheratamente, gridò: « Le piace, eh, andare in monopattino! ». Tutti facemmo eco alla sua risata; ma io a denti stretti,
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poiché vedevo ormai arrivato il mio turno. Infatti egli già mi squadrava: « Quanto a lei, immagino sia inutile chiederle una futile esibizione: lei è un intellettuale ». « Da che... da che lo arguisce? ». « Eh, ce l'ha scritto in fronte. Per cui, vediamo vediamo... Trovato: ci reciti dei versi ». «Versi?». « Ho detto proprio così. Via, non si faccia pregare ». Ed io, in barba alla mia sufficienza, obbedii come tutti gli altri. Attaccai o intonai a caso: «All'ombra dei cipressi e dentro l'urne... » eccetera per una ventina di versi; e lui, avendomi ascoltato colla massima attenzione: « Lo sapevo; rallegramenti. E un professore lei, no? ». «No». «Professore, professore» concluse perentoriamente; «dice di no per modestia». (Come ci fosse poi tanto da inorgoglire, ad esser professori). Seguitò a questa maniera coi tre restanti viaggiatori, e non so più cos'altro inventasse. Ma ad un certo punto quegli scherzi parvero venirgli a noia; i suoi occhietti assunsero un'espressione seria, perfino triste. « Si fa per passare il tempo » mormorò. E fissando me, proprio me: « Gli è come nella nostrai vita: ci si dà da fare, ci si arrabatta; ci si dimena, si soffre e si gode, e alla fin fine ci si ritrova tutti nello stesso luogo ». Mi sfuggì un sorriso. Al che lui: « Già, a lei sembra buffo che io, con questo corpaccio, possa patire di malinconia? ». « Ma per carità: sorridevo in segno d'approvazione ». « Lasci perdere... Il fatto è che anch'io ho un cuore ». «Lo credo! » esclamai, un tantino preoccupato. Se non che il mio formidabile e tenero interlocutore guardava ormai fuori dal finestrino. Poi si riscosse: «Siamo vicini a Campiglia; devo scendere, vado all'Elba». Si tirò su con delicatezza, badando a non pestarci i piedi; di sulla soglia ci fece un piccolo inchino, disse: « Grazie
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per la compagnia, buon viaggio»; e scomparve nel corridoio. La sua uscita, naturalmente, fu per noi un gran sollievo: tra l'altro, la sua massiccia persona ostruiva l'uscio e impediva la circolazione dell'aria. Ci sentivamo di nuovo liberi e leggeri, e ricominciammo a parlare tutti insieme. Ma ecco, sul più bello, la sua grossa testa riapparire al finestrino dalla parte esterna e quella voce di tuono lanciarci, stavolta con aperta malizia: « Siete fuori pericolo! ». Il treno ripartì, l'omone si perse indietro; e a noi non rimase se non raffigurarcelo per iperbole che, arrivato a Piombino, incurante o impaziente di traghetti, si buttava a nuoto e con quattro vigorose bracciate raggiungeva Portoferraio.
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I DUE CUGINI
Questa che segue è storia antica, chissà, d'un paio di secoli addietro: quando un paese di provincia era un paese di provincia e non un quartiere contraffatto del prossimo capoluogo o addirittura della meno prossima capitale, era insomma quasi un remoto pianeta... «Tempi di oro», li chiamava esattamente tal mio zio; che è quanto dire innocenti. Ad esempio, in quella felice età nessuno prendeva sul serio il problema del tempo libero, vero flagello dei nostri giorni, nel senso che tempo libero era tutto e che « l'ora» così suonava un detto locale «c'era per gli appiccati» (ossia l'obbligo di un orario soltanto per i condannati all'impiccagione). Inoltre la gente, allora, aveva perfino comodo di temere morti, fantasmi e larve d'ogni specie; per cui la storia in parola può farci l'effetto d'una boccata d'aria fresca, oggi che i nostri terrori hanno ben diversa radice. Come tale, a buon conto, la riferisco. Sulla piazza del borgo due nobili cugini, forse inanimiti da copiose libagioni, si davano battaglia in presenza di numerosi sfaccendati: ambedue giuravano e sacramentavano di non aver paura neanche del Demonio. Se ne venne a una sorta di sfida.
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« Come, » diceva uno « tu saresti capace, in una notte senza luna, d'andare al cimitero? ». « Questo e altro » ribatteva il secondo fieramente. « E d'aggirarti tra le tombe? ». « Perché, c'è qualcosa che lo vieti? ». «Aspetta. Tu sai che al cimitero c'è una cripta... la cripta». « Certo che lo so ». « Ebbene, ti darebbe l'animo di... di imboccarli? ». Per dar modo al lettore d'intendere quest'ultima uscita occorre precisare che laggiù c'era e c'è tuttora un di quei sinistri sotterranei in cui, per memento a monaci altra volta ivi stanziati o per generico monito ad ogni razza di peccatori, file di scheletri stanno ritti stecchiti lungo le pareti. Ma, anche conoscendo a cosa, anzi a chi si riferisse, la frase restava oscura; e difatto il secondo cugino replicò: « Imboccarli? Che vuoi dire? ». « Quello che ho detto: dar loro da mangiare una minestra calda, poverini; una cucchiaiata per uno ». L'idea era singolare, tuttavia lo sfidato non se ne stupì e senza batter ciglio esclamò: «Perbacco, contaci pure: quando si comincia? ». Gli opportuni accordi furono presi per la più corta; trasferiamoci adesso nella cripta medesima, sulla mezzanotte. Silenzio di tomba, naturalmente, fiato d'avello; eccetera coi rimanenti sinonimi. Il coraggioso, armato d'un piatto di minestra bollente (particolare necessario quanto sconcertante per la più blanda critica storica, considerata la distanza del cimitero dal paese) e d'un cucchiaio, avanza, si avvicina al primo scheletro e veramente lo imbocca; passa poi al secondo, al terzo, al quarto. Ma qui d'un tratto... « Scotta! » protesta lo scheletro con voce cavernosa. E il coraggioso, avendo penetrato il machiavello (e cioè che qualcuno doveva essere nascosto in qualche luogo lì dietro la fila), senza un attimo d'esitazione: «Soffia!...». In breve, vittoria piena pel secondo cugino. Al quale, allorché si rividero alla luce del giorno, il primo concesse: « Sta bene, hai dimostrato d'essere un animoso. Ora, però, anch'io ho il diritto di farlo: a te la scelta della prova cui sarò sottoposto ».
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Se non che l'altro, come l'eroe di un famoso racconto: « Eh no, troppo facile sarebbe: tanto facile quanto, in verità, è stato per me. Codesta prova, cugino, io me la riservo; diversamente detto, essa sarà improvvisa ed inopinata. Attendila, fosse per tutta la vita; addio ». E su questa brillante battuta i due si separarono, e (secondo il mio annoso informatore) trascorse circa un anno: in capo al quale si situa l'ulteriore episodio e la luttuosa conclusione della memorabile sfida. Notte di pioggia stizzosa; acqua che gronda lungo il filo dell'angolo dalla travata sconnessa. Comunque il primo cugino dorme, benché colla sua pistola a portata di mano sul comodino. Dorme. Ma si ridesta di soprassalto sotto la pressione d'uno sguardo, e innanzi tutto accende il candeliere: davanti a lui, ai piedi del letto, è un allampanato frate nero che lo fissa senza far motto. Nondimeno una tal vista, in sé e date le circostanze positivamente spaventosa, poco turba il nostro uomo; che anzi, intrepido di suo e d'altronde memore del patto corso, squadra il supposto fantasma con aria un tantino beffarda. Il duello di sguardi seguita per lunghi istanti, poi: «Non darti pena, cugino: t'ho ravvisato sotto la cocolla e so bene per qual motivo sei qui. Ma se questa è la tua famosa, la tua inopinata prova, confessa lealmente d'averla architettata invano, giacché, come puoi vedere, io non soffro sgomento ». Degne parole cui non tien dietro alcuna risposta; il giacente rinnova le proprie dichiarazioni d'impavidezza, il frate continua a tacere ed a fissarlo con occhi cupi; passano altri lunghi istanti... il primo comincia a sentirsi inquieto... Beh, ecco dove invidio al vecchione che m'ha raccontato questa storia la sua consumata arte narrativa: egli tanto bene sapeva rendere il progresso della perplessità, dell'agitazione, della smania, del delirio, nell'animo della vittima, da lasciarmi col fiato sospeso. Mentre, com'è noto, la penna di noi scrittori abborre le fasi preparatorie e tira piuttosto alle crisi finali...
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« Guarda, » grida sicché, da ultimo, il coricato al ritto «guarda che pazienza n'ho avuta più del necessario. Ora basta: o tu ti sveli e ti confessi vinto, o io... ». Ma che: silenzio di bel nuovo. « O io, » riprende il medesimo battendo i denti «tisparo con questa pistola! Vedi? questa » (e senza più la impugna). Nessuna reazione, neppure adesso, da parte del frate. E finalmente il primo, unendo (come allora si diceva) l'atto alla parola, scarica addosso al secondo tre colpi della sua pistola (in realtà una rivoltella, a quel che pare). Ma il frate non vacilla: si fruga invece nel petto, nel luogo dove i mortali proiettili dovrebbero essersi conficcati, e ne cava... Ne cava giustappunto le tre pallottole, che, una sull'altra, con lento gesto rende ossia rilancia allo sparatore. Questi riapre il fuoco e vuota il tamburo; e il frate puntualmente gli ributta le pallottole sulle coltri. Finché... Finché, cosa? Le versioni non sono concordi: il mio vecchione dava il misero per morto di colpo, alias di paralisi cardiaca; laddove altri lo volevano d'un subito impazzito. Amo credere che la verità fosse o sia stata meno tragica: oltre a tutto codesto primo cugino, per quanto semplice, dovette ben riconoscere che chi aveva il potere di entrargli in casa inavvertito aveva anche quello di rendere innocue le sue cartucce. Verosimilmente, opino dunque, l'intera faccenda finì in qualche allegra cena. Ma, del resto, a noi che importa della verità? Assai più propizie ci sono le bugie, o favole o illusioni; salvo che non è poi tanto facile risuscitarle, dico in un ambito meno astrattamente letterario. Io, poniamo, dopo aver ascoltato la storiella qui sopra sommariamente riferita, volli visitare quella tal cripta. Me ne ripromettevo magari un fuggevole brivido: non lo ottenni. C'è un vetusto, sguernito altare; e dietro, in semicerchio, gli scheletri. «Va' pure, aspettami di fuori» imposi al chierichetto che m'aveva aperto l'uscio. Rimasto solo, passai in rivista la lugubre fila, talora soffermandomi a faccia a faccia con un teschio e quasi interrogandolo. Ma nessuno scheletro soffiò verbo.
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DIARIO A ROVESCIO
Il dottore gli disse: « Guardi, amico mio, che così non si va avanti ». « Ma perché, o cosa dovrei fare? ». « Lei è un depresso, se così posso dire un avvilito: deve semplicemente tirarsi su». « E in che modo? ». «Le medicine non servono, deve farsi coraggio da se stesso. Che so io, al mattino apra la finestra, guardi di fuori, segua coll'occhio i voli delle rondini... ». « Già, di dicembre! ». « Si arrangi, segua quello che vuole, e dica a se medesimo: "Io son felice!" ». « Pensa che sia utile? ». « Eccome! è tutto lì: convincersi d'esser felici ». « E se non ci riesco? ». « Ci deve riuscire ». Così lui, se non proprio i voli delle rondini, seguì i consigli del medico; ma, visto che non approdava a nulla, cercò di escogitare per conto suo qualche altro mezzo. Lui, poniamo, usava tenere un diario; e si chiese se avrebbe potuto giovargli che tale diario risultasse per avventura roseo quanto di solito appariva desolante. In parole povere, si propose (sempre a scopi terapeutici) di scrivere un
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diario a rovescio: del quale, per intenderci ancor meglio, ecco qui di seguito alcuni estratti. Stamani ero rabbioso, aggressivo: una minima contrarietà familiare mi ha spinto ad arroccarmi nella mia stanza, inchiavandone l'uscio ostentatamente. E per un certo tempo non è avvenuto nulla; tutto, lì di fuori, taceva; ed io già m'ero pentito del mio scarto, allorché qualcuno ha picchiato con discrezione. «Chi è?». « Caro... caro, apri, ti prego ». « Desidero non esser disturbato ». « Ma no, è cosa importante ». «Ah, proprio? Ci potevi pensare prima! ». (Risposta, per la verità, priva di senso definito). «Apri, per favore ». Me, basta alla fin fine pregarmi; ho aperto. « Che vuoi? ». « Perché ti sei chiuso qui dentro? ». «Puoi immaginarlo, no? Perché sono l'essere più abbietto, più sciagurato e più infelice del mondo ». «Ma via! ». « Che significa "Ma via"? ». « Ci sono io qui ». « E tu cosa puoi fare? ». « Tutto, se... se mi vuoi bene come io te ne voglio ». « Non ti voglio bene ». « Tu così credi, ma invece... ». « Invece, niente ». « Ma come: non ci fornisci, me e i nostri figli, di tutto il necessario? Non fai dei sacrifici per noi? Io lo capisco, sai, quanto ti costa delle volte... ». « Delle volte! ». « Già, certo: sempre. Lo so bene quanto ti costa provvedere ai nostri bisogni; mentre a te piacerebbe piuttosto... ». « Oh Dio, smettila ». « Cosa, devo smettere? ». « Tu sei una donna meravigliosa ». « Io? Io sono una sconoscente ». « Ma no, che dici: tu sei il mio buon angelo. Se non ci
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fossi tu, io che sarei, come soltanto vivrei?... Santo cielo, tu piangi. Piangi! Ah in qual modo dartelo ad intendere che ti adoro?... ». Etc.
Oggi ho detto a mia moglie: « Cara, devo parlarti ». « Di' » ha replicato sorridendo. « E discorso delicato; e tu senza dubbio avrai altro da fare ». « Io? Cosa di meglio potrei avere da fare, che ascoltarti? ». « Non hai da rigovernare o da accompagnare i bambini a scuola o da attaccare la lavatrice? ». « Ho, ma tutto passa in seconda linea se tu vuoi parlarmi, o in genere se hai bisogno di me ». «Oh cara e doppiamente cara!... Beh ecco: questo mese occorre andarci piano, perché non c'è quattrini ». « Tutto qui? ». « Ti toccherà pel momento rinunciare alla cappina di velluto... ». « Che importa! ». « E perfino alle scarpe di coccodrillo ». «Figurati». «Vedi, cara, tu devi scusarmi: non sempre le cose vanno per il loro verso... ». « Ma sta' zitto, di che ti scusi? A me, a noi spetterebbe scusarsi». « Oh no, io... io sono un disutilaccìo che non sa mantenere a dovere la famiglia, sono un fallito: me lo hai detto mille volte ». «Te l'ho detto? Forse perché ero in preda all'ira (càpita), e di sicuro perché sono una moglie malvagia, indegna di te. Cosa! Tu sei un uomo superiore, anche se sei un semplice impiegato d'ordine. Non devi avere di queste sensibilità eccessive, che diamine, devi pensare anche a te stesso... D'altro canto sta' tranquillo: non c'è quattrini in casa, ti figuri? E ti inganni. Sappi che, lira su lira, a tua insaputa e senza pesare sul tuo bilancio, a me è venuto fatto di risparmiare un piccolo gruzzolo: una somma da nulla, si capisce, ma quanto basta pel momento del bisogno; insomma, come adesso. Perciò, ripeto, sta' tranquillo... ». Etc.
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La zia ottantacinquenne era una bigotta, e per me non è mai corso dubbio che avrebbe lasciato ogni suo avere al prete. Metto il verbo al passato perché ieri notte ella è morta; né posso in coscienza soggiungere che questo evento sia stato per noi propriamente luttuoso. Eppure, stamani mattina... Ero ancora in giacca da camera, quando mi è stata annunciata una visita: nientemeno che un notaio. Il quale ha così esordito: «Accetti, caro signore, le mie condoglianze, e al tempo stesso mi permetta di congratularmi con lei ». « Ma cosa dice! » ho risposto, non osando credere all'unico significato possibile di quelle strane parole. E lui: « La sua lontana zia baronessa X è ieri sera passata a miglior vita; ella peraltro la ha lasciata erede d'una sostanza che si aggira sui trecento milioni ». Qui io son saltato sulla seggiola: volevo applaudire quel messaggero di felicità, poi ci ho ripensato ed ho preferito versare una lacrimuccia sulla buon'anima, protestandomi del tutto indifferente alle sue disposizioni testamentarie. Alla fine il notaio s'è ritirato, non senza precisare dove e come prenderò possesso dell'eredità (dopo averne largito al fisco un due terzi). Commento di mia moglie: « Eh già, vedi, la buona vecchina: noi la credevamo... e invece... Ah, davvero la gente è più buona che non si pensi! ». Son pienamente d'accordo; è perfino commovente, vivere in un mondo tanto benigno e tanto soave. Ma, se i brevi estratti qui riportati ormeggiano tutti una certa situazione familiare, o piuttosto un certo familiare assillo, nel diario erano poi anche pagine d'altro ordine e tenore; anzi, non si dava sogno impossibile che il misero non vi registrasse come realizzato. Ebbene, ignoro qual fosse l'esito d'una tal cura di nuovo genere, che mi limito a sospettare negativo. Comunque sia, guardate a cosa si attaccano gli infelici! Giacché è superfluo aggiungere che in realtà quella moglie era una megera senza amore e senza comprensione, e che la zia baronessa davvero lasciò tutto al prete.
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IL MILLANTATORE
«Millantatore»: ma in verità cosa millantava quel nostro gentile zio (gentile ad onta di un suo onorevole passato guerresco) ? Riprenderemo la domanda alla fine; per ora mi affretto a cedergli la parola. « Ero un ufficialetto di prima nomina, ed ero di guarnigione nella cittadina di... (Ahi ahi, dirà il solito guastafeste, molte storie cominciano così. Ma ufficialetti e guarnigioni si danno pure e non solo nelle storie: per cui lasciamolo seguitare). Qual vita fosse la mia è facile immaginare: tolti due o tre colleghi di pari grado, meglio introdotti in quel piccolo mondo e per conseguenza quasi sempre indaffarati colla gioventù femminile del medesimo, non vedevo nessuno; le mie serate trascorrevano per lo più malinconiche e solitarie nel principale caffè del luogo. Perché poi vi indugiassi, non saprei dire: magari perché vi si stava più caldi che nel mio squallido alloggio. E intanto, preceduto da un piovigginoso novembre, l'inverno avanzava a gran giornate, incalzava. «Ma una sera, che mi pareva aver toccato il fondo dell'uggia e della desolazione, la sorte volle favorirmi: accompagnate da uno sbuffo di nebbia, nel caffè entrarono due avvenenti, imprevedute creature. Due donne, natu-
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raímente, e del resto non più giovanissime... il che peraltro, anziché togliere, aggiungeva qualcosa ai loro vezzi; e inoltre come racchiuse nella speciale, indefinibile aura che ci permette di distinguere una dama da una bottegaia. In breve, ce n'era abbastanza da eccitare la mia curiosità: chi erano? E come in quel posto, a quell'ora tarda? « Esse si guardarono intorno in cerca d'un tavolo libero; e, vedi caso, sul momento ve n'era un solo: a due spanne dal mio. Osservandole di sottecchi, notai alcunché di eccentrico o singolare nel loro abbigliamento: alcunché, come dire? d'antico. Ma fu impressione fuggevole, e, in quel tempo, bastava un nulla a far galoppare la mia fantasia. « Sedettero dunque e, con un certo mio smagamento (tanto contrari apparivano i loro atti alla prima idea che di loro m'ero formata), principiarono ad occhieggiare, poi a ridere, poi a darsi di gomito, infine ad insegnarmisi reciprocamente e senza ritegno. E io che avrei dovuto fare? Quello che feci, scommetto: le guardai interrogativamente, e alla lunga le apostrofai, seppure con urbanità: « "Signorine (o signore), m'inganno o sono oggetto della vostra ilarità? Se sì, degnatevi illuminarmi: quali miei negletti pregi provocano a riso le vostre incantevoli labbra?". (O altra tiratina del genere). « "Tutto come ci figuravamo!" rispose, senza rispondere, una. « "Vogliate scusarmi, non intendo". « "Le vostre ornate e poetiche parole". « "Ehm... vi sembrano ornate e poetiche?". « "Sicuro: degne di voi, di ciò che ci figuravamo voi foste". « "Non è facile da capire, ammettetelo: chi o che vi figuravate io fossi?". « "Ma, ciò che siete" concluse con una franca risata, lasciandomi a bocca aperta. La faccenda cominciava a essere seccante; per fortuna ella acconsentì a spiegarsi: « "Siete un giovane ufficiale di guarnigione, non corre dubbio; eppure siete molto di più". « "Pensate?" chiesi scioccamente, se mai un tantino lusingato. « "Avete qualcosa di nobile sulla fronte... Per cui" sog-
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I
giunse con brusca transizione "andiamo via da questo fumo: onorateci in nostra casa, se più piacevoli imprese non vi reclamino altrove". « S'erano levate: le seguii. Piccole avventuriere di provincia, insomma, con tutte le loro arie: tali avevo finito col giudicarle. Ma dovetti ben presto ricredermi. « La casa era lì presso, in una piazzetta segregata della città vecchia: una casa patrizia con ampio scalone ravvolto; non che onesta, severa. Le due donne mi fecero strada, per una fuga di minori stanze, fino a un salone ammobiliato e adornato al modo antico... E qui, d'un tratto, mi colpì la persistenza di quest'ultimo aggettivo nelle osservazioni che venivo mentalmente formulando; e desueto, quasi obliato (me ne resi ora conto con oscura inquietudine) , era il nostro linguaggio stesso... « La serata trascorse più o meno come usa tra gente bennata: fecero musica; conversammo, con mie scarse contribuzioni; quella delle due sulla quale avevo da ultimo concentrato (un po' a freddo) la mia attenzione, resistette bravamente ma graziosamente ai miei goffi assalti. Mi servirono anche da bere: di propria mano, ché i domestici dovevano essere già coricati e la casa tutta taceva. La loro vivacità, o vitalità, non venne mai meno; e tanto bene le accorte padrone di casa seppero sciogliere il mio riserbo, che, sulla mezzanotte, mi sorpresi a declamare tal mio proprio e perfido componimento d'amore. «Venne poi il momento di separarsi: mi accompagnarono alla porta, dissero con lieto volto: "Tornate quando vi piace, se vi piace". E mi ritrovai nella piazzetta buia, tra la nebbia. « Ebbene, sicuro che sarei tornato lì, e con tutte le regole. Ma l'indomani mattina un improvviso ordine di partenza raggiunse il nostro reparto, e al tempo stesso constatai che avevo smarrito il portasigari d'oro, dono di mia madre. Pensando con ragione d'averlo dimenticato in casa di quelle donne, dovetti sollecitare la loro porta (così dicevasi) ad ora incompatta. «Alla luce del giorno, il vecchio palazzotto pareva suggellato. Picchiai ripetutamente: nessuno venne ad aprire. Mentre, perplesso, mi accingevo a nuovi tentativi, un cia-
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battino al lavoro m'osservava curiosamente dal fondo del suo stambugio. « "Chi cerca vossignoria?" diss'egli. "Lì non abita nessuno". «"Eh? come!". « "Il guardiano della casa" riprese lui bonariamente "sta un po' più in là... Del resto eccolo che viene: deve aver sentito". E il brav'uomo si rimise alle sue tomaie. « Il guardiano, invece, era di quelli col naso ritto: « "Desidera?". « "Desidero parlare alle signore". « "Quali signore?". « "Alle signore che abitano in questo palazzo". « "Ma qui non abita nessuno" esclamò sinceramente sorpreso, ripetendo le parole del ciabattino. « "Ah, no?" replicai inviperito. "Senta, capisco che lei possa avere i suoi ordini, ma si tratta di cosa urgente; animo pertanto, voglia annunciarmi alle dame che, non più tardi di ieri sera, m'hanno fatto l'onore di ricevermi in questa casa". « Perduta tutta la sua boria, il poverino mi guardava avvilito e timoroso come chi sia in presenza d'un pazzo, balbettando incerte spiegazioni: in sostanza, e daccapo, che la casa non era abitata da almeno cento anni... anzi, a pensarci bene, da cento anni giusti, scaduti appunto la notte precedente... ossia da quando le sue ultime abitatrici, due sorelle... Né intesi o volli intendere cosa fosse capitato alle due sorelle: certo un'orribile, una violenta morte. D'altra parte avevo ormai i minuti contati. « "Come è possibile che lei, ieri sera..." ripeteva costui per l'ennesima volta. "Lo capisce? le dame di cui mi sta parlando sono morte cento anni fa! ". E voleva precisarmi per quale intricata vicenda di eredità e di eredi la casa fosse rimasta disabitata. « "Ho, ieri sera, dimenticato il mio portasigari nel salone" troncai quanto più freddamente seppi; "l'ho dimenticato, ora ricordo bene, su un tavolino rotondo nel vano d'una finestra. (Lui fece un gesto di stupore: conosceva quel tavolino e gli sembrava incomprensibile che lo conoscessi anch'io). Apra dunque, e, se non mi è concesso por-
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gere i miei omaggi alle signore, ch'io almeno rientri in possesso d'un oggetto tanto a me caro. Apra, le dico! "». Puntolini in abbondanza perché, qui giunto, il gentile zio era solito interrompere d'un tratto il racconto e chiudersi in un silenzio misterioso, a significare che l'oggetto in parola era stato puntualmente ritrovato lì dove detto... con tutto ciò che da un simile caso si poteva inferire e ricostruire. Silenzio al quale noi nipoti corrispondevamo con reiterati cenni del capo. Caro zio; che di marziale ebbe sempre ben poco, l'ho già lasciato intendere. Ma che, lui era piuttosto un poeta: poeta da liriche fiorite, e lo si è visto declamarne una perfino in casa di « quelle dame », ed anche da rispolverare, riadattare ed attribuire a se medesimo trite storielle; che peraltro sapeva narrarci con una certa grazia, talvolta, e sempre (per nostra speciale delizia) al modo antico. Quanto poi alla domanda posta in principio, beh, se qualcosa lo zio millantava o rivendicava, era una talquale privilegiata dimestichezza colle larve dei trapassati e coi fantasmi in genere. Diamine: la più nobile e la più innocua delle millanterie.
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FILIPPO
«Ah, da' retta, oggi hai voglia di contraddire: perciò lasciamo perdere ogni cosa e ritiriamoci ciascuno nella propria stanza. Saluti, ci vediamo più tardi ». « Ferma lì, carina! Ti piacerebbe, eh, startene a leggere il tuo romanzo rosa, mentre io... ». «Mentre tu...?». « Prima mi turbi, e poi m'abbandoni a me stesso ». « In che modo ti ho turbato? ». «Non ci posso pensare: sicché tu risolveresti tutto col grano avvelenato! ». « Col grano avvelenato, perché si trova in commercio bell'e pronto; ma se preferisci cerchiamo un altro mezzo, ad esempio avveleniamo delle croste di formaggio ». « Non si tratta del mezzo, sciagurata ». «D'altra parte io non posso più vivere così, assediata dai topi. Lo sai che iersera ne ho sorpreso uno appollaiato (indovina dove) sul ramaiolo appeso in cucina? E lo sai che un altro topo, nel bagno, ha cavato dalla mia borsa da toletta il portasapone, l'ha aperto e ha mangiucchiato il sapone medesimo? E le loro schifose tracce dappertutto... Dimenticavo: due o tre giorni fa ho trovato un topolino morto nella catinella, annegato ».
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« Va bene; ma la tua azione con grano o formaggio avvelenato sarebbe egualmente vile e proditoria». « E allora dimmi tu come devo fare ». « Il come ignoro, dal momento che non devi far nulla ». « Bravo, così loro mi mangiano la pappa in capo ». « Calma. Anche a me, in passato, è avvenuto di dare in ismanie per simili motivi ». «E al presente cosa hai deciso, nella tua saggezza ed equanimità? ». « Se alle tue ironie ed ai tuoi sarcasmi non dispiace, ho deciso... Una notte, mentre tu eri via epperò la tavola della vedova cena era rimasta apparecchiata, ed io poco discosto stavo facendo il solitario di Napoleone, ho sentito da quella tavola un lieve rumore: tanto lieve, che solo minuti passettini di topo potevano esserne la causa o fonte. Ho guardato, ed ho visto sulla tovaglia una piccola macchia bruna; ho guardato meglio, ed ho riconosciuto uno di quegli infinitesimi topini dagli orecchi a ventola che chiamano raccattabriciole. Di fatto andava raccattando e sgranocchiando le briciole del magro convito ». « Scusa, non intendo bene il senso di codesta commossa rievocazione ». « Ma pensa, esso si stava nutrendo di ciò che noi buttiamo via, o meglio neppure ci diamo la pena di buttar via: tanto bastava alla sua vita! Capisci cosa voglio dire? ». « Sì, sì. Ma il fatto è che non si contentano di questo ». « Oh che osservazione pedestre!' l a genere, mia buona amica, occorre cercare di rendersi conto delle cose, di penetrarle... O non crederai putacaso che quanto è, è per nulla? che, poniamo, si diano sulla terra animali affatto inutili? ». « Per cui tutto sarebbe parte di un superiore disegno?... E le pulci? ». « Diavolo, servono a tener desta la nostra pensosità là dove tenderebbe ad adagiarsi nel sonno o nell'oblio ». « Le mosche? ». « Ci insegnano la pazienza, che è la virtù delle virtù ». « Ma via, codesto è compito dei ciuchi ». « Hai ragione, mi esprimo male; diciamo dunque che i ciuchini ci infondono la pazienza, e le mosche la esercitano».
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«I... ilicaoni?». « Servono a mostrare che anche le più nobili razze vanno soggette a regressioni ed onnubilamenti ». « Eh caro, un po' alla svelta! Ad ogni modo, e i tapiri indiani cosa ci raccontano? ». « Che non di tutto si deve chiedere la cagione ». « Beviamola... Le iene? ». « Ci fanno manifesto fino a qual punto ci si può spelacchiare nella ricerca del "cibo che solum è nostro": un intendente mi specificava che le iene si son così ridotte unicamente perché, in luogo dell'agognato e puro latte, non trovano sul loro cammino che corrotte carogne ». «Bene bene. E, giacché tutto il discorso era poi fatto per venire a questo, ossia per giustificare l'esistenza dei topi: avanti, illuminami in proposito ». « Oh, per i topi è più facile che mai: essi rappresentano la forma concreta delle nostre ossessioni e manie, dei nostri terrori, delle nostre angosce; sono, infine, la nostra cattiva coscienza che ci spia dall'ombra». « Esseri odiabili, a buon conto? ». «Al contrario, adorabili: chi non ama i propri tormenti e fantasmi? ». « Beh, mi arrendo. Anzi, ti confesserò una cosa: finché si tratta dei tuoi raccattabriciole, o piuttosto imbrattamense, io dopo tutto son disposta a seguirti. Ma Filippo no, santo cielo! ». « Che, che? che c'entra... Chi è Filippo? ». «Un topo». « Un topo! ». « Sì, diletto: ormai li ravviso forse tutti, i topi che infestano questa antica dimora; sai, si son fatti arditi al punto da non temere la mia presenza (altro che spiare dall'ombra!). Quanto a Filippo, mi ha strappato il suo nome di bocca: è grosso e lustro, quasi nero, quasi obeso, con lunghi baffi e con una coda nauseabonda». «Ah, meno male: per un istante ho temuto che il suo nome te lo avesse comunicato lui stesso ». «Spiritoso! Ma, invece, tentiamo di concludere; sebbene sia tempo perso ». « Come mai? ». « Tu proteggi i topi, io li vorrei sterminare: su quale ba-
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se arriveremmo a un'intesa? Tutto sommato, tanto vale che me ne ritorni al mio romanzo: "rosa", secondo hai sentenziato ». « Perché, di che colore è? ». « Non saprei, fa' tu; si intitola Guerra e pace». « Oh oh, in tal caso ritiro l'insinuazione. E tornando a noi, facciamo così: non lasciamo a giro nulla, ma proprio nulla, che possa eccitare la loro cupidigia o stuzzicare il loro appetito; né avanzi né briciole né altro, e né in cucina né altrove. In questo modo, quando si saranno convinti che non c'è niente da raccattare, cambieranno quartieri e ci lasceranno in pace. Il topo, cara mia, è un ammalino intelligente e non ci mette molto a capacitarsi di una certa situazione. Lo sai che si può perfino avvezzarlo a tirare il cordino d'una campanuccia per chiedere cibo, eccetera? ». « Già, già. Ebbene proviamo a codesta maniera». « Dico, è una soluzione che concilia... ». «D'accordo, concilia».
«Allora, come va? ». « Coi topi? Male ». « Male! Ma hai avuto cura di togliere di mezzo ogni sostanza appetibile? ». « Tutto secondo la tua luminosa idea ». «E loro? ». « Si sono inveleniti. Ora mi vengono anche in camera da letto: hanno tentato di rapirmi e di mangiare il mio piumino della cipria, e, passando, hanno buttato in terra una bottiglietta di profumo (da te pagata lire tredicimila) . Del resto hanno attaccato in forze la credenza: vogliono farci un buco e penetrare in quel paradiso vietato di caci e di salamini, né, coi loro dentoni, staranno molto. Finalmente, non si peritano di venirmi tra i piedi di pieno giorno: da un attimo all'altro ne vedi spuntare uno chissà di dove, che ti fissa con aria impronta, con intenzione... ». « Tutto qui? ». « E non basta?... Ma aspetta... Oh Dio, oh Dio! ». « Eh, cosa c'è adesso? ».
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« Guarda laggiù: che ti dicevo? Laggiù sulla soglia... Santo cielo, è lui! ». « Che fai, ora addirittura mi sali sul tavolo; e come sei pallida. Rientra in te stessa: non sarà mica, a farti paura, quel topolino che è comparso un momento sull'uscio e si è subito ritirato? ». « Hai visto come cifissava?E lui! ». «Ma chi?». « Filippo! ». « Beh, non m'è parso un tipo pericoloso ». «Ah no, ah no?... Ecco, io non volevo dirtelo, ma lui e i suoi accoliti hanno dato l'assalto anche al tuo almanacco: quello per l'anno 1734 ». « Cioè... cioè alla sua preziosa legatura? ». «Naturale. Cosa vuoi, mio povero amico, a quell'epoca si usava colla di pura farina; e Filippo, o chi per lui, col suo fine odorato... ». «Ah maledette bestiacce: sapranno chi sono! ».
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UNAG.
G. era partita, dicendo che doveva farlo: e fu certo questo odiato verbo, o questo odiato concetto, a rinfocolarmi. Io non amavo G.; pure, come poteva essere per me tollerabile un suo dovere che mi scavalcasse? Ed è in fondo su questa sola indicazione, non so dire se della mia vanità o della mia disperazione, insufficiente sempre, che mi precipitai in un caffè a scriverle una lettera (mi aveva lasciato un indirizzo ancora italiano, della città donde si sarebbe involata per la sua lontanissima terra). La mia lettera conciliava il massimo della sincerità col massimo della mala fede: in essa parlavo del terribile senso di vuoto seguito alla sua partenza, del mio sconforto, dell'impossibilità d'appiccare la mia vita ad alcunché d'altro da lei, eccetera. E ciò tutto era perfettamente vero... quant'era vero che, ben lo sapevo ormai, non da lei avrebbe potuto venirmi salvezza. Allora a che si riduceva lo straziante appello con cui la lettera si chiudeva? a una prova di forza? G. comunque, che invece mi voleva bene, prese la faccenda pel verso più semplice e giusto, ossia (nel fatto) sbagliato. Senza neppure avvedersene, ella oppose il proprio candore alle mie storture o manovre, delle quali peraltro e non meno di lei io stesso ero vittima; ella insom-
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ma, udito che l'uomo amato aveva bisogno di lei, tornò in tutta fretta. Ma, naturalmente, il contraddittorio rapporto qui sopra accennato mi avrebbe messo in difficoltà. Quella cena, la sera del suo docile ritorno! Era scesa dal treno raggiante, perché a fìl di logica aveva interpretato la mia lettera come una specie di scontrosa dichiarazione, anzi come la dichiarazione d'amore tanto a lungo attesa; ma le era bastato una occhiata per intendere che la cosa stava altrimenti, ed ora eccoci lì a fronte a fronte. Mentre lei si districava con prudenza dalla rete dei convenevoli e dei discorsi indifferenti, io la scrutavo, perplesso nei miei propri riguardi: mi pareva d'aver esaurito, col suo ritorno, ogni mio interesse nella storia in corso, e non trovavo o solo cercavo parole plausibili. Di più: nemmeno in un ordine logico, giudicavo indispensabile aggiungere qualcosa; lei, mettiamo, era tornata, ma ciò non comportava minimamente la necessità di ulteriori dibattiti o di alcuna speciale conclusione. Constatata la mia atonia, che tanto poco quadrava coi sentimenti espressi nella lettera, la povera G. cominciava a innervosirsi e a turbarsi; finché proruppe malaccortamente: «E allora? m'hai richiamata e non sai neppure tu perché? ». « Lo so benissimo: perché non ho la forza, non ho più la forza, di vivere... così ». « Questo è chiaro; ma la mia parte, in questo? ». « Come! » replicai un po' sorpreso di trovarla meno cedevole e compassionevole del solito. «Ti preoccupi per la tua parte, quando... ». « Beh, e con tutto il rispetto per i tuoi malanni fin troppo reali, devi pur ammettere... Un giorno lungamente sospirato (ieri, colla tua lettera) mi dai la felice, l'inebriante illusione di poterti giovare, e subito dopo (oggi, ora) col tuo stesso atteggiamento me ne togli i mezzi? ». « Sai, ci ho riflettuto e mi son convinto che nessuno può giovarmi ». Era però evidente che perdevo terreno. Difatto: « Oh che egoistico sentimento! Egoistico ed orgoglioso e dispettoso, il peggiore di tutti: quel peccato o delitto
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dell'anima che si chiama rifiuto di soccorso... Vedi,» seguitò in mutato tono « potessi io àncora esserti compagna nella tua impari lotta contro la noia, nel tuo sempre rinnovato tentativo d'instaurare un perenne stato di sospensione, d'evitare ogni responsabilità ed ogni soluzione, ancora e sempre mi vedresti al tuo fianco senza chiederti nulla e secondo il tuo capriccio (come è stato fino a pochi giorni fa). Ma non posso, e sia pel più balordo dei motivi. Pel più balordo, ecco, e più pesante: perché ho finito i quattrini; non ho denaro, molto semplicemente. E quando ti ho detto che dovevo partire, cosa immagini intendessi se non questo?... ». Ebbene, a parte la propria natura del denunciato impedimento (vile, senza dubbio, e perfino offensivo), che di più onesto, di più umano d'un simile discorso, il quale poi implicava affetti profondi? Ma io di esso non registrai mentalmente, sulle prime, che un punto: costei sapeva troppo di me. Del resto, l'istante appresso, ricominciai ad almanaccare circa in questo metro: « Il fatto che lei abbia ceduto e ceda alla necessità, aggrava o alleggerisce la sua eventuale colpa verso di me, e, in altri termini, costa più o meno al mio orgoglio?». Eccetera; e da ultimo, non sapendo come risalire il corso dei miei futili pensieri o come ridurmi a maggior serietà, decisi di lasciarmi trasportare dagli eventi, cioè dalle sue parole medesime, senza muovere un dito: decisi di chiudermi nella più ottusa indifferenza e di accettare o di fingere d'accettare tutto, pur di uscirne. Ché ella, ignara di quanto passava in me, riprendeva: « Dunque bisogna darmi tempo, e per prima cosa darmi il modo d'aiutarti. Mi dispiace di violare, d'oltraggiare la tua passione per l'incertezza, ma alla fin fine occorrerà venire a una soluzione concreta ». M'agitai sulla seggiola, e riuscii a non rispondere. « Tu verrai con me, è il solo mezzo, visto che io non posso restare; non sarà facile, ma penserò a tutto io. D'altronde cosa fai qui, per favore? Qui perdi le tue migliori qualità, butti via il tuo talento, sempre più ti affezioni alle tue malattie, di cui quasi quasi vorresti farti una bandiera; insomma, lo sai bene. Aria, ti ci vuole! Io sono stata zitta e ti
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ho secondato finché possibile, ma, adesso che è venuto il momento della verità... Allora, d'accordo? ». «Una soluzione concreta», e addirittura quella sorta d'interiezione, «Aria! », e a compir l'opera «il momento della verità»: altrettante cose da me abborrite come concetti non meno che come espressioni o cifre verbali... E inoltre quella sua aperta o coperta violenza a fin di bene, quella speciosa sicurezza di giudizio morale, quell'improvvida fiducia nei miei sentimenti e nei suoi propri, ossia quel non mettere in dubbio la sua importanza nella mia vita... Da tutto ciò, dico, io mi trovai confermato nella mia protervia nonché nelle mie riserve mentali; e risposi, senza neppur sapere con precisione a qual proposito: «D'accordo». Alcune ore dopo lei ripartì, molto sollevata. Le sue ultime parole, già di sul treno, furono: «Arrivederci a Batavia. Saremo felici! ». Cominciai a ricevere buffe scartoffie, in cui (secondo il poco che mi riusciva decifrarne) io ero qualificato o tacciato di «promesso»; di cui ciascuna reclamava una mia piccola firma e una mia grande compromissione. Per esser più chiari, io figuravo richiesto di laggiù a scopo matrimoniale. Questi invii erano accompagnati e sostenuti da lettere di G., a volta a volta languide, supplici, imperiose, esortanti, rimbrottanti. Ed io tutto leggevo colla massima attenzione e tutto mettevo da parte, non sentendomi di apporre firme inonorabili, né per altro verso sapendo in qual modo corrispondere degnamente a tanto e tanto attivo interesse. Il tempo passava, le lettere senza riscontro si accumulavano sul mio tavolo. Pensavo, talora: « Perché no, alla fine? Forse, laggiù davvero... » - ma mi guardavo bene dal dare libero campo a tali vaghe malinconie. Poi mi avvenne di cambiar pensione, trascurando di lasciare il mio nuovo indirizzo. Circa un anno più tardi, m'imbattei casualmente nel padrone della prima pensione, il quale mi disse: « C'è una montagna di lettere per lei, dall'estero: dove gliele rispedisco? ». Assicurai che sarei passato di persona a ritirarle;
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e, intendiamoci, lo avrei sicuramente fatto, se in quella non fossi stato chiamato in altra città da grave ed improvvisa occorrenza. Ma, senza oltre menare il can per l'aia, non è ancor questo (il mancato ricupero delle lettere) l'oggetto del mio più cocente rimorso; gli è piuttosto che... Ecco, voltiamola coraggiosamente in domanda: come si chiamava G.? Ahimè, tanto tempo è trascorso, bisogna compatirmi... l'ho dimenticato; né possono illuminarmi le due o tre missive di recente ritrovate, giacché ella usò sempre firmarsi colla sola iniziale... E così, dell'impareggiabile amica di antichi giorni non m'è rimasto neppure il nome.
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LA PAURA DELLA PAURA
Ho ritrovato tra vecchie carte un curioso appunto, che trascrivo qui sotto; e mi ci è voluto un bel po' prima di rammentare a cosa potesse riferirsi, ma alla fine ne son venuto a capo. L'appunto reca testualmente: 1. Camera di passaggio (segue una crocellina frettolosamente tracciata). 2. Camera rossa (altra crocellina). 3. Camera gialla (c.s.). 4. Galleria vecchia (c.s.). 5. Galleria nuova (c.s.). 6. Camera scura (violento punto esclamativo). 7. Stanza delle patate (giubilante filza di punti esclamativi; e puntolini di sospensione). Ed ecco di che si tratta. Quando ero ragazzo mi capitava sovente, sul principio delle vacanze ed avanti che i miei mi raggiungessero, di star solo soletto al paese: qualcuno veniva di giorno ad accudirmi, ma si ritirava col sole e mi lasciava arbitro delle mie notti. E, poiché allora ero convinto di dovermi preparare un avvenire glorioso, tali notti io trascorrevo in severi studi. O meglio, la prima parte di esse: in verità, non appena le ore notturne avevano consolidato il loro tenebroso im-
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pero, in me cominciavano a ridestarsi sensazioni inquietanti e poco note, seppure non necessariamente sgradevoli... Il fatto è che a quel tempo per me non si davano spazi vuoti, o pieni solo di silenzio e di solitudine, né complete remissioni dell'anima: se tanto o quanto mi distraevo dalla lettura, subito mille presenze, mille occhi occulti, prendevano a spiarmi non so donde, e con questa indistinta genia dovevo fare i conti. In parole meno involute, avevo paura? Beh, si dica magari così: a patto mi si conceda che la mia non era una paura volgare, ma un che simile piuttosto a quel che da alcuni esperti è definito «paura della paura». Ad ogni modo, di qualunque natura fosse, codesto sentimento mi pesava, ossia mi sembrava indegno di me; per cui risolsi di debellarlo. Forse perché meno frequentato, il piano superiore della casa appariva alla mia immaginazione più ombroso o conturbante dell'inferiore. Mi avveniva di chiedermi se avrei avuto il coraggio, lì sui due piedi e a quell'ora cupa, di visitare la tale o talaltra stanza lassù (tutte prive di luce elettrica) ; e mi toccava rispondermi che no. Ebbene, questo sarebbe stato il motivo migliore per farlo e per scrollarmi di dosso i miei ridicoli turbamenti da femminuccia. Scrissi dunque in bell'ordine su un foglio il nome delle stanze più paurose (da noi il menomo bugigattolo ha il suo), e convenni meco stesso che la prima sera, giusto sulla mezzanotte, sarei salito alla prima, la seconda alla seconda, eccetera. Ciò perché temevo che, a voler fare tutto in una sola volta, non mi sarebbe bastato l'animo: la mia guerra, la mia conquista, il mio cimento, dovevano procedere per gradi. Tolto il passo dell'uscio, nel nostro caso il gran buio risucchiarne della scala a chiocciola, da affrontare armati unicamente di candeliere o di lume a petrolio, le prime due o tre spedizioni risultarono relativamente facili; epperò l'esito di esse è, nel documento esibito, segnato con semplici depennazioni. Ma prove più impegnative mi attendevano man mano che, di mezzanotte in mezzanotte, mi addentravo verso il cuore segreto della casa. Tra l'altro
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le porte delle camere via via attraversate avevano la particolarità di richiudersi per sé medesime sul mio passaggio con un tonfo sordo, sempre più segregandomi dal mondo. Comunque mi facevo forza e, una sera dopo l'altra, procedevo secondo i piani prestabiliti. Ormai mi stimavo poco men che un eroe; ma, la quarta sera, la mia baldanza ebbe a subire un fiero colpo. Sonata la mezzanotte e salito al piano superiore, percorsi con passo animoso, perfino fischiettando, le tre stanze già precedentemente addomesticate e senza esitazione spinsi l'uscio della quarta... Quello che vidi mi fece rizzare i capelli sul capo e mi indusse a precipitosa ritirata. E fuggendo, ricordo, pensavo in contùso: « Ecco, ci siamo, questo è ciò che inconsciamente temevo e al tempo stesso speravo: lì dentro c'è un fantasma! ». Giova intendersi: l'oggetto del mio sbigottimento io lo avevo male raffigurato, ché la fiammella della candela, abbattuta e quasi appiattita per effetto dei miei rapidi moti, non rendeva bastevole luce. Come però ingannarsi? La forma intraveduta nella stanza era bianca, erta, mostruosa, rigonfia; e, sebbene di proporzioni vagamente umane, fosforica, diluita nell'aria (o tanto fantasticavo)... Fuggivo, a buon conto. Pure, di lì a pochi istanti, ebbi vergogna della mia fuga, mi rattenni a gran fatica, e mi ritrovai ansante col naso contro il detto uscio; che stavolta spalancai con un calcio. La cosa (come a questo punto la chiamerebbe uno scrittore di fantascienza) era ancora piantata lì, parendo guatarmi e sbarrarmi il passo. Mio rinnovato sbigottimento, miei cauti approcci; e da ultimo, quando ebbi cuore di farmi a petto della supposta larva... la riconobbi. La riconobbi (piuttosto ovviamente e non senza un certo dispetto) per un comune manichino da sarta, che tal mia zia o prozia, in vena di alta o bassa couture domestica, aveva, morendo, legato alla casa anzi alla casata. «Comune», d'altronde, ai tempi di colei: oggi, non so se ne trovi di simili. Aveva, ed ha, per testa un pallottolino di legno forbito; e fianchi opulenti, seno vantaggioso; e una sola gamba, ancorché fornita di tre piedini.
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Pensare che lo avevo visto mille volte; ma di notte e nelle accennate condizioni, si capisce, è diverso. Sorvolando ora su altri minimi episodi della mia tenzone colla paura della paura, verrò al conclusivo. Io cioè dovevo per prova suprema recarmi nientemeno che nelle soffitte, e precisamente in un luogo o vano di esse rispetto al quale nutrivo sensi di particolare diffidenza. Questo luogo, infatti, era il teatro di un mio sogno ricorrente: salivo con affanno l'erta scaletta, come chi corra ad un convegno od obbedisca a un comando, e principiavo a scorgere in fondo in fondo un rosso bagliore; mi avvicinavo, e c'era lì un vecchio seduto davanti ad un braciere colmo di carboni ardenti; egli poi levava gli occhi, mi scrutava e, mentre io mi sentivo fondere sotto quello sguardo terribile, gridava: «Che vuoi? Vattene! ». Il qual grido faceva esplodere il mio sogno. Ma passiamo dal sogno alla veglia. Giungendo lassù, e studiandomi di penetrare il buio oltre il breve cerchio di luce della mia solita bugia, davvero mi parve di scorgere in fondo in fondo un rosso bagliore. E cos'era? E non stava forse per pararmisi innanzi il terribile vecchio sognato, che col suo grido di ripulsa mi avrebbe fatto estraneo alla mia casa medesima, al mondo, alla vita?... Eppure seguitai ad avanzare, e raggiunsi in tal modo una sorta di finestra, o piuttosto fessura, sghemba tra il muro maestro e il tetto incombente: donde appunto, dalla strada sottoposta, entrava nella soffitta il riflesso rubecchio d'un fanale. Tutto qui; e con ciò potetti tornarmene di sotto ad annotare il mio nuovo trionfo. Nuovo ed ultimo, ché, giudicando ormai sufficientemente provata la mia impavidità, rinunciai ad ogni altra possibile impresa. Ma i terrori ebbero (per così dire) il buon senso di riassalirmi più tardi, sebbene con mutato volto; che (di nuovo per così dire) fu ventura. Qual condizione, intendo, più malinconica della mia attuale? Oggi posso percorrere in lungo e in largo questa casa, a qualsivoglia ora notturna... senza giungere a risuscitare uno solo dei brividi di quel tempo trascorso. Oggi sono vecchio; e i vecchi, purtroppo, non credono ai fantasmi.
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GLI INCAS
«Ciao». « Uhm ciao, cara ». « Sei rientrato da molto? ». « Da sempre: non ho avuto la forza di uscire ». «Ah no? Ma cos'è codesto tono lugubre? Su colla vita». « Eh, fai presto tu a dire: ognuno ha i suoi grattacapi ». «Certo; ma insomma che c'è?... Aspetta, non sarà che devi scrivere una lettera? ». « Hai indovinato ». «Oh beh, possibile che... Gli altri, come bere un bicchier d'acqua; e per te ogni volta è una crisi! ». « Perché, gli altri, non gliene importa niente di come la scrivono: se ci mettono costrutti approssimativi, ripetizioni di parole e incongruenze varie. Tanto, dice, non è che una lettera». « E magari hanno ragione: a te, di dove ti salta fuori una tale sensibilità esasperata, eccessiva? ». « Che esasperata e che eccessiva: il genere epistolare è il più difficile di tutti i generi letterari, questa è la verità. E accidenti agli Incas ». « Che c'entrano? ». « Son loro che hanno inventato il servizio postale ». «Non credo: già i Babilonesi, e gli Egiziani... ».
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« Per favore! abborro l'erudizione da rotocalco femminile. Del resto, sai, dipende anche dalla razza di lettera che uno ha da scrivere ». « E la tua di che razza è? ». « Una lettera d'affari, o quasi ». «Ah, ma allora... ». « No, al contrario ». « Intendo, se c'è qualcosa di concreto, di positivo da comunicare... ». «Lo avevo capito, ciò che intendevi, epperò ho detto "Al contrario". Pensa: se ad esempio io dovessi, così, semplicemente e in piena libertà ricordarmi a un amico, potrei, innanzi tutto, valermi di parole poetiche (che mi son più familiari) e poi, all'occorrenza o secondo il mio capriccio o seguendo le parole stesse, addirittura mutar concetto; mentre in una lettera d'affari non si scappa, quello che hai da dire hai da dire, e ti tocca dirlo nei suoi propri termini. Infine, sei inchiodato alle tue responsabilità e i voli lirici ti servirebbero a poco ». « Sì sì giusto. Ma un uomo come te non vorrà mica annegare...». « Son gli uomini come me che annegano nei bicchieri d'acqua». « Ma via! Ad ogni modo sentiamo un po': cosa devi raccontare nella tua lettera? ». «Devo render noto all'amico C. che gli ho spedito a parte un manoscritto, il quale nondimeno sarà da lui utilizzabile soltanto nel caso che non venga pubblicato prima altrove: poiché, ove ciò avvenisse, sarebbe interesse di ambedue (mio e suo) il non riproporlo al lettore ». « Ebbene, non è tanto agevole da spiegare, lo ammetto; ma neppure troppo complicato. E poi, ecco, l'hai già detto: basta che tu lo trascriva ». « Che significa? ». « Prendi un pezzo di carta, scrivi sopra quanto hai appena finito di dirmi, chiudilo in una busta... ». « Sancta simplicitas! (esclamò Giordano Bruno). Avanti, prova a concepire la lettera parola per parola, come se me la dovessi dettare ». « Beh, poniamo: "Caro C., ti ho inviato, a parte, un ma-
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noscritto. Potrai utilizzarlo a tuo piacere; ove, però, prima che tu lo pubblicassi, risultasse..."». «Ah ah, lo vedi? lo vedi? ». « Cosa c'è da sghignazzare? ». « Ma che ti pare un modo di scrivere, codesto? codesto accavallarsi di soggiuntivi? E, "Un manoscritto": ma non si tratta d'un manoscritto, si tratta del manoscritto di cui. L'amico, cioè, il manoscritto me lo aveva lungamente sollecitato». «Già già, questa è un'altra delle tue manie. Diavolo, non importa dir proprio tutto: lui compenserà mentalmente, e ti richiamo a un po' di fiducia nei tuoi simili. O se no specifica il titolo del manoscritto, e festa finita». « Il titolo? Non lo conosco, né mi sono esercitato a immaginarne uno, visto che lui usa cambiare tutti i titoli proposti». « Specifica allora soltanto la natura o il tono o il genere dell'elaborato. Di' per esempio: il mio articolo, il mio saggio, il mio racconto, e non so più ». « Quasi il mio scritto fosse definibile in alcuna maniera! Esso è ad un tempo articolo, racconto, saggio e molte altre cose; ovvero non sarei uno scrittore contemporaneo; ovvero non sarei qui a ingnillire e a farti ingnillire... Ad ogni modo la questione è più complessa. Guarda, eravamo rimasti ai due soggiuntivi l'uno sulle spalle dell'altro (come nel gioco delle pede) : seguita a dettare, per finta. Anzi, riprendi dal principio ». « "Caro C., ti invio un... o il...". Auff! "Ti invio un dannato che..."». « "Un dannato che": carino, potrebbe passare. Vediamo appresso ». « "Ti invio un che, che tu potrai..." ». « "Che" e "che": si finisce in un pollaio! ». «Scusa. "Ti invio un che. (Punto fermo). Potrai utilizzarlo a tuo piacere; ove, però, prima che tu lo pubblicassi..."». « Ma no, accidenti: si torna al costrutto di prima. Occorre girare la frase ». « Scusa. "Ove, però, nel frattempo, si desse il caso che il medesimo fosse..." ».
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« "Desse", "fosse"? E taccio della generale macchinosità del dettato ». « "Ove, però, il medesimo fosse..." ». « Orsù, meglio. E poi? ». « "... Il medesimo fosse nel frattempo pubblicato altrove..."». « Congratulazioni: prosegui ». « "... Tu capisci bene che..." ». «Come come?». «Cosa?». « Dico, tu mi cambi la carta, cioè il soggetto, sotto il naso. Codesto trucco ha il suo nome. Di grazia, in qual modo si arriva da "medesimo" (che è il soggetto della prima proposizione) a "tu"? ». « Non fare il pignolo e lasciami finire ». «Ah, pignolo un onesto lavoratore della penna? ». « Ma sta' zitto e non mi far confondere. Dunque: "... tu capisci che sarebbe del nostro comune interesse non ripubblicarlo". Ecco qua, mi sembra abbastanza esplicito ». « Esplicito, forse; ma rudimentale e approssimativo, almeno nell'espressione, quanto le lettere degli altri ». « Sicché una lettera d'affari avrebbe a essere una poesia lirica?». « Certamente, e anche un sistema filosofico in nuce, se è vero che in qualsivoglia particolare non può non riflettersi il generale. Inoltre, sentiamo: cosa aggiungeresti alla frasetta con tanta fatica stilata? ». « I convenevoli e basta ». « Formulali ». «"Mi auguro d'essermi spiegato. Molti cari saluti dal tuo"». « "Mi auguro", eh? Ma questo equivale a una confessione d'impotenza; e io che fo di mestiere, l'imbianchino? No no: una cosa, o la spiego o non la spiego, e le cautele son da inetti. E per altro riguardo la questione, lo ripeto, non è meramente formale, o lo è soltanto nella misura in cui una forma sgraziata denuncia un'incertezza di contenuto. Comunque voglio venirti ancora incontro e, tornando alla vessata frase, ti inghiotto per ipotesi lo sciagurato cambio di soggetto: beh, ma non lo senti che il conte-
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sto rimane in sospeso e che non si può passare senza più ai convenevoli? ». « E cos'altro vorresti aggiungere? ». « Eh già, appunto: non lo so. So solo che l'insieme non mi torna e che tutto resta, daccapo, come in sospeso ». « Sicuro, hai proprio ragione, in sospeso! e anche questo nostro discorso, perché io... io non ne posso più! ». «Ih, che donna impaziente e nervosa doveva capitarmi». « Ma via, ma a te ti ci vorrebbe un roboto, non una donna! tu ammazzeresti un bue, con codeste diaboliche fìsime! Sai che? le tue stramaledette lettere scrivitele da te, e lascia in pace una... una che... una che ha l'unico torto di...». « Buona, buona, e serba le tue lacrime per migliore occasione. A tutto c'è rimedio ». « E continua, no! ». « Ho una confessione da farti ». « E di' in buon'ora». « Io, in realtà, il manoscritto per accompagnare il quale dovremmo scrivere la lettera che è causa della nostra zuffa, io il manoscritto non lo ho ancora spedito: aspettavo, prima, di concretare la lettera con cui l'avrei accompagnato». «E così?». « E così, rinuncio a spedirlo, e con questo cade l'obbligo di scrivere la lettera ». «... Uhm, un momento: quanto ti avrebbero dato per il tuo articolo? ». « Trecentomila lire ». « Ci farebbero comodo ». « Naturale: i quattrini fanno comodo sempre. Ma, considerato che scrivere una lettera è impossibile... ». « Impossibile, ne son quasi convinta anch'io ». «... Considerato che, faremo a meno dei quattrini ». « Ma i bambini hanno bisogno... ed io stessa... ». « Prendetevela cogli Incas ». «Mostro! ». « Mostri, tu e loro (gli Incas, non i bambini) ».
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UOMINI SENZA TIMBRO
Conoscevo una donna che, quando parlava, mal riusciva, non dirò a farsi intendere, ma anche solo a farsi udire. Era al caffè, poniamo, e voleva chiamare il cameriere, impalato a due passi di distanza? Ebbene, non c'era verso di attirare la sua attenzione: l'onesto tavoleggiante rimaneva lì interito, nell'atteggiamento e col volto, appunto, di chi non ode. Di questa desolante e buffa condizione lei stessa usava dire: « Beh che vuoi: io ho una voce senza timbro ». Analogamente, si danno uomini cui nessuno dà retta checché facciano; uomini, si potrebbe dunque definirli, senza timbro. M., ad esempio: quanto gli sarebbe piaciuto contare per qualcosa nella vita dei propri simili, esser considerato almeno un pochino, esser temuto magari, temuto appena quel tanto che occorre perché uno non si senta sperduto e inutile nel mondo, insomma esser preso sul serio. Ma tale non pareva fosse il suo destino. Si dava da fare, cercava di fabbricarsi una grinta, di parlare in tono risoluto e virile, di assumere un piglio autorevole (ecco, una certa autorevolezza, con relativo ossequio altrui, era ciò che specialmente gli sarebbe stato a cuore) ; e tutto risultava vano. Intendiamoci: la gente lo accoglieva con benignità, perfino con affetto, né gli era in alcuna maniera impedito di
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partecipare a simposi amicali o in genere a una modesta vita di società; e gli amici ragionavano tra loro di cose belle, interessanti, talvolta affascinanti. Quando però lui, vincendo da ultimo la propria naturale timidezza, si disponeva a dire anche la sua, allora invariabilmente l'amico più prossimo sbadigliava e, battendogli una mano sulla spalla: «Ah, s'è fatto tardi; lascia stare, vecchio mio ». In seguito M. si sposò, con donna (se così posso esprimermi) tanto distratta da avvedersi di lui; e fu anche peggio. Faceva la voce grossa? - e la moglie lo guardava curiosamente, quasi pensando: « Sarà vero che costui, che questo cosino, si adiri? » e del resto un attimo dopo pensando ad altro. Si mostrava docile ed amoroso? - non per tanto giungeva a richiamare a sé gli spiriti vaganti della compagna. Vennero i figliuoli. Ma nemmeno su queste ignare creature, e a lui per naturale ordine soggette, a M. veniva o venne mai fatto di stabilire una propria autorità; anzi, scopriva in fondo a quei freschi sguardi la stessa distrazione e indifferenza, lo stesso lampo d'allegria, al suo cospetto, che erano della loro madre. Se li sermoneggiava, essi non si davano lontanamente la pena di protestare o contraddire, ma lo piantavano in asso con una bonaria alzata di spalle. E quando furon cresciuti, non se ne parli. A un certo punto, poi, capitò l'inevitabile (date le premesse) : invaghitasi d'uomo più incisivo, la moglie lo tradì. E stavolta M., sebbene per diverso riguardo smagato, gongolò: ora forse aveva il coltello dalla parte del manico, o, come dicono gli inglesi, il bastone dalla parte giusta. Un marito tradito, seppure mingherlino ed insignificante, è infatti sempre personaggio temibile e considerevole. Ossia, così ragionava l'illuso, soggiungendo: « Ma che si scherza! Voglio vedere che faccia farà quando le contesterò la sua colpa; allora dovrà per forza riconoscere che io, ehm, son qualcuno; e d'altro canto sarà turbata, sarà mortificata, avrà paura... ». Sì, paura davvero! La moglie, al contrario, prese la faccenda con tanta calma (calma e neppure improntitudine) , con tanta impavida e candida svagatezza, che delle due l'una: o massacrarla sul posto, o lasciarla perdere. Né serve precisare qual partito adottasse il saggio M.
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A conti fatti, non gli rimaneva che sperare nella morte, cioè nel punto di morte. Già, perché, se è possibile serbarsi indifferenti di fronte ai più gravi casi della vita altrui (secondo ci ammonisce l'episodio testé riportato), provatevi a restare distratti davanti a un uomo che muore. Queste, beninteso, erano ancora deduzioni di M., e lui stesso le sentiva tutt'altro che sicure; ma a lungo andare si affezionò all'idea. Tanto che ormai, a ogni nuova mortificazione, si fregava celatamente le mani e mormorava seco: « Sì, sì, fate quello che vi piace, voialtri, trattatemi come uno strofinaccio da cucina; ma dovrò pur morire, e allora sarò ripagato di tutto ». E ormai, dobbiam dire, desiderava la morte. Beh, la morte non è necessario corteggiarla: per venire, viene; solo che è suo costume (lo accertano i poeti) venire come un ladro. Ammalatosi infine gravemente, M. se la vedeva a due spanne, senza però poterci giurare. Situazione delicata e imbarazzante, rispetto ai suoi intendimenti e alle sue speranze; della quale comunque egli volle profittare almeno per qualche esperimento (diciamo così) prefigurativo. Non so, sarebbe bastata la gravità della sua malattia a strappare agli altri, e in primo luogo alla sua famiglia, quell'attenzione, quella considerazione che sempre gli era mancata? No: M. potè ben presto constatare che, per quanto gravi e palesi le sue sofferenze, non pgr tanto subiva modificazioni l'atteggiamento di coloro nei suoi riguardi. Essi lo curavano amorevolmente, magari lo commiseravano e si rammaricavano di tutto cuore; ma, prenderlo sul serio, non ci pensavano neppure. « Suvvia, è malato: gli passerà » parevano intendere. Del resto, a quell'ambigua e quasi sconveniente fase del morbo tenne subito dietro la condanna dei medici: non c'era più da farsi illusioni né alcuna probabilità di cavarsela. « E qui comincia il bello » si disse M. come non fosse fatto suo: «ora si riderà». E, per primo atto d'imperio, mandò a chiamare i due teneri figliuoli; indi, avutili ritti a piè del letto di morte, principiò a parlare con voce gonfia o al caso flebile (un po' di teatro non guasta mai), pretendendo chissà ammaestrarli e distillar loro il succo d'una
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non meglio identificata esperienza, secondo suole ogni buon padre morente. Ciò che M. sperava è manifesto: sperava che i ragazzi lo ascoltassero compunti, che stornassero se mai il viso a nascondere i lucciconi, od altri attucci del genere, infine che con tutto il loro contegno mostrassero, almeno ora, rammarico, affetto, ed in ispecie apprezzamento e considerazione per l'autore dei loro giorni. Ciò che difatto avvenne, fu che il piccolo si mise a giocare colle nappine del copertoio e che la femminuccia (più grandicella) gli dette per questo di gomito, ma rendendogli non troppo furtivamente un'occhiata carica di gioconda malizia. « In fondo non sono che bambini » si consolò M. E concentrò le sue speranze sull'ultimo atto o quadro della tragedia. Oh, adesso coll'aiuto di Dio ci s'era arrivati, al punto: al punto di morte. M. aveva temuto di perdere i sentimenti, il che gli avrebbe tolto ogni soddisfazione; ma per fortuna era lucido come non mai. Essi tutti (familiari, parenti, qualche intrinseco) stavano lì in semicerchio, con facce d'occasione, e lo fissavano quasi interrogativamente; alcuni, per la verità, preferivano contemplare la punta delle proprie scarpe; un cugino, più sensibile, tossicchiava per mera nervosità. E tutti aspettavano. Beh, ma quale segno di particolare interesse era ravvisabile nelle attitudini di quella muta accolta? Quale indizio (che certo i suoi occhi ed i suoi sensi di morente avrebbero saputo riconoscere) poteva assicurarlo che il suo passaggio nel mondo non fosse stato inutile?... Guardò la moglie: teneva il fazzoletto sulla bocca, piangeva. La guardò meglio, e tutto gli fu ultimamente chiaro. La donna piangeva sì, e nondimeno appariva distratta, e ad M. questa sorta di distrazione era schifosamente nota: era la stessa di quando, una sera lontana, lui le dichiarava il suo amore e lei lo accettava, ma come pensando ai casi propri. Un'espressione inequivocabile, simile a quella di alcune cortigiane. Ed ecco subito la controprova: ella ora sbadigliò nel naso, secondo fa chi non voglia esser sorpreso in flagrante noia.
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D'un tratto nella piccola assemblea si produsse un fremito, un soffocato scompiglio. Cosa avveniva? Che i bambini avevano preso a leticare, forse a contendersi un balocco; e che i grandi, volendo reprimere l'agitazione ovvero parteggiando per talun rampollo, quasi quasi si mettevano a leticare anche loro. Già volavano frasi concitate, per quanto sommesse... «Vi prego, signori: qui si muore! » mormorò, da nessun udito, col postremo fiato il morente. Così, non bastò la morte a dare importanza a quella vita. Rimarrebbe in caso da chiedersi se M. morisse contento o no. E beh, tutto sommato penserei che sì: non deve cuocer troppo, lasciare una vita che neppure la morte può salvare. Pensate, a buon conto: fosse egli stato un grande della terra, un ministro, un cardinale, un direttore d'azienda, o solo un direttore generale, un capo di gabinetto, e in breve un personaggio da ciascuno di noi stimato, considerato e riverito, allora sì avrebbe avuto ragione di rammaricarsi.
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SPOLLATORIE SPOLLATI
Qui calza una premessa. Lo studente la cui giornata (o una delle cui giornate) è di seguito sommariamente descritta non ha nulla a vedere cogli studenti d'oggidì, responsabili e pensosi di sorti sociali: ohibò, in quel tempo buio uno studente tutt'al più studiava, e notate del resto che dico « tutt'al più », in quanto la sua occupazione preferita era poi darsi bel tempo. Anzi, a evitare d'esser tacciati di calunniatori facciamo una cosa: dichiariamo senz'altro di chi appunto intendiamo discorrere. Cosa presto fatta: lo studente in parola ero io stesso; che dunque, per semplicità, tirerò avanti in prima persona. Così, tutti pari. Venendo ora a noi, mi piacerebbe disporre d'una penna tanto magistrale da rappresentare con efficacia al lettore certi stati dell'anima (e del corpo) cui imperfettamente si riferisce il poeta là dove riscontra qualcosa di nuovo nel sole, ovvero con rapimento esclama che prima di primavera c'è dei giorni... Infine, capita: uno ha dentro, e non sa perché, come una gioia segreta; l'aria gli appare brillante, nitida e quasi lavata; i suoi pensieri son tersi; il suo cuore, per solito grave, è divenuto leggero; e le bolse speranze riprendono lena.
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Ciò, peraltro, è piuttosto una disgrazia; difatto, come consumare o a che piegare tanta pienezza di sentimenti? S'avrebbe sì urgenza di fare alcunché d'insolito, di raro e di supremamente lieto; ma, pensandoci meglio, ci sembra evidente che non giungeremo a nulla, sia perché giudichiamo fin d'ora inadeguata ogni possibile intrapresa, sia anche perché in tutto quanto parrebbe prometterci gioia l'animo tristemente pregusta l'amaro del poi, da qualsivoglia gioia o piacere inseparabile (almeno, così è di taluni spiriti sofisticati). E alla resa dei conti, può avvenire quello che avvenne a me; ossia che, dopo più d'una mezza giornata trascorsa nell'attesa di chissà cosa, ci si ritrovi in qualche gran salone sotterraneo da biliardo, intenti ad altrui partite. Non stupisca il luogo: su tali saloni lo studente di allora contava come su sicuri ricetti, in caso di pioggia o di gelo o di noia soverchiante. Non si pagava nulla, si osservava i giocatori, si ammazzava il tempo. In queste piccole geenne regnavano degli spollatori; personaggi coi quali non credo il lettore abbia molta dimestichezza, donde la necessità di un breve chiarimento. Spollare, dicesi, è verbo che ha una certa estensione: si può spollare un misero solo imponendogli la superiorità del proprio gioco, e si può spollarlo con raggiro, cioè in modo acconcio fingendosi deboli e d'improvviso tirando fuori le unghie, o con diversi stratagemmi. Ma, dolo o non, il risultato è sempre una totale depredazione del misero stesso (piùpertinentemente denominato «pollo») da parte dell'altro. Ebbene, tra gente siffatta, e quando seguendo il gioco di un campione, quando quello assai più sottile d'uno spollatore, o talvolta usurpando la seggiola d'un biscazziere, ebbi la costanza di trascinare un paio d'ore, man mano scemandomi la gran voglia di vita che avevo avuta a mattino. Poi, col crepuscolo, sopravvenne il tedio vero e proprio; uscii di lì disgustato, ma ancora ruminando: « Possibile che le mie mirabili disposizioni di stamane debbano sortire tanto meschino effetto, e che la mia giornata debba concludersi così tristemente?». Il destino però mi ri-
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servava un incontro in qualche misura vivificante: sotto i portici, tra lume e lustro, mi sorse innanzi il dottor C. Costui, noto e stimato professionista, aveva nondimeno i piedi d'argilla; in altri termini, era legato a noi studenti, ed a consimili perdigiorno, da fratellanza di bisca. Mi disse di punto in bianco: « Stasera avrei un pollo: te la senti? ». Posto il gergo lusorio più su accennato, non c'era da sbagliarsi. Ma volli replicare, alla Baiardo: « Bada, amico, che io non mi presto a giochini del genere». «Cosa vai a pensare! Nulla di disonesto: lui è soltanto uno che ci offre una sostanziosa contropartita; un industriale milanese, un quattrinaio. Noi non dobbiamo far altro che cercare di vincere, senza in alcun modo venir meno alla più scrupolosa correttezza... Tu lo sai, no? Di solito, nel nostro traffico, se Dio guardi si vince vien fuori che il perdente non ha quattrini. Questo invece i quattrini ce li ha, ecco tutto ». «Ah, beh, in tal caso... E il quarto chi sarebbe? ». « Che quarto: non c'è bisogno di tirar dentro altra gente. Giocheremo in tre. Piuttosto, i quattrini tu ce li hai? perché, mi capisci, non si tratta di fare il chiasso ». Ne avevo, chissà come; prendemmo dunque i debiti accordi per la sera e ci lasciammo. Tutto sommato, anche il nostro era un progetto di spellatura, sebbene formalmente ineccepibile; e di qui (cioè dalla mia pronta accettazione) si inferirà magari che la coscienza del giocatore d'azzardo sia facile da placare. Ma è pur vero, e nessuno dell'arte lo ignora, che la capricciosa fortuna può da un attimo all'altro fare d'uno spollatore uno spollato. Sicché, messo a tacere ogni superstite scrupolo, dopo cena raggiunsi la casa del dottore, prossimo teatro della zuffa tra due miserabili e un riccone sfondato. Questo non era esattamente quello che avevo sognato a mattino; ma insomma mi contentai. L'uomo arrivò puntuale, ed affermò che la pioggia non sarebbe cessata tanto presto; il dottore a sua volta piantò sul tavolo una bottiglia di liquore, dalla quale ci servim-
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mo. Indi il primo disse spontaneamente: «Perché perdiamo tempo? All'opera! ». Un tavolino col piano di panno verde, un paralume opportunamente disposto; e il gioco incominciò. Appariva davvero un uomo ragguardevole: ben vestito, atticciato, con pinguedine incipiente e mani bianche, curatissime. Al medio della destra recava un brillante che valutai d'un tre carati; dalla tasca posteriore dei pantaloni aveva estratto un rotolo di banconote da vertigine... Questo, mio Dio, il pollo virtuale? E d'altronde era soprattutto il suo sguardo che faceva paura: sguardo di chi sa ciò che vuole. Dove l'amico avesse pescato codesto bell'esemplare di dirigente e come mai si fosse illuso circa le sue possibilità di resa, è rimasto per me un mistero. Fin dalle prime battute, si vide in qual modo il pericoloso ospite la intendeva: ad ogni nostro tris opponeva (sempre con cortese sorriso) una scaluccia seria seria, ad ogni nostra scala un fullino, ad ogni nostro full un colore sbilenco tanto per gradire; in breve, ogni volta quanto bastava per battere il nostro punto, senza esagerare e senza farsi bello di combinazioni troppo vistose. Funzionale anche in questo, il tipo non voleva stravincere: si limitava a vincere. Il che non toglieva che i nostri capitali si assottigliassero nella misura in cui s'impinguava il suo, già in origine tanto più vantaggioso. I nostri miseri quattrinelli si perdevano nelle sue dovizie come acque di fiumi o di ruscelli nel mare: quanto dire, spostando appena l'immagine e adottando i termini d'un provato adagio, che pioveva sul bagnato. Dopo due ore di giostra, l'amico ed io eravamo ridotti al lumicino, mentre egli seguitava gloriosamente; ancora poco, e fummo costretti a giocare sulla parola, condizione che del resto il nostro tiranno accettò o concesse colla più grande buona grazia. Ma c'era nell'aria qualcosa, si andava configurando il colpo grosso. A forza di sudare e di stillare, infatti, mi riuscì di comporre nientemeno che una scala reale. E pensai: « E venuto il momento, signor mio, di farti rimettere la vincita e forse anche dell'altro ». Ai miei folli rilanci lui però non oppose controrilanci
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troppo sostanziosi e si contentò di seguirmi fino alla fine. Quando poi venimmo a scoprire le carte ed io ebbi sgranato sul tappeto la mia scala reale massima, disse raggrinzando gli occhi e fingendosi rammaricato: «Cos'è, una massima? Oh, mi dispiace: questa è una minima». (Rammento al lettore inesperto che, al gioco del poker e in fatto di scale reali, la minima vince la massima). E con ciò, tutto era detto; la partita si trascinò ancora un poco, indi si spense per inanizione. A gioco chiuso, l'amico ed io risultavamo debitori verso il messere d'una somma per quei tempi notevole; e, diamine, come metterla insieme entro ventiquattro ore? Ma lui ci assicurò che non c'era urgenza, e, con una certa malizia, che avremmo «fatto la rivincita» quando gli fosse capitato di tornare nella nostra città... Carino, no? In ogni caso, quale pollo spollatore, dei più comodi e benigni. Io peraltro (non so l'amico dottore) preferii rimettergli a mezzo posta il suo avere, e, senza attendere il suo ritorno, ritirarmi pel necessario tempo avita privata.
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UN OGGETTO INQUIETANTE
Era uno strano giorno: dal mattino mi trovavo tra i piedi oggetti eterocliti e difficilmente identificabili (devo però chiarire che tra i piedi avevo anche due bambini, i quali mi trascinavano in casa, dalla corte e dal giardino, ogni sorta di cianfrusaglie, non sdegnando neppure d'attingere ai rifiuti che qualche vicino poco scrupoloso mi buttava nell'orto d'oltre il muro). Tuttavia, a forza di riflessione e di buon volere, ero fin qui riuscito a cavarne le gambe, intendo da codesta ardua bisogna dell'identificazione. (Nuova parentesi. Mi si chiederà forse come mai mi sentissi a ciò tenuto? E semplice: perché tali singolari oggetti irritavano e sfidavano le mie facoltà d'osservazione). Ma quando, sul tardi, mi capitò innanzi quest'ultimo assurdo esemplare... Tanto per cominciare, giaceva dove non avrebbe a nessun patto dovuto essere, cioè sul passo d'una porta; e poi in una posizione così innaturale, sgraziatamente coricato sul fianco, che non potetti fare a meno di raccattarlo subito e d'esaminarlo attentamente. Esso, alla prima, appariva come un minuscolo tripode di metallo: salvo che nella sua forma medesima era incluso un qualcosa di dinamico, quasi un principio di moto autonomo, ancorché sul momento frustrato... Tutto questo d'altronde, che io rico-
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struisco in termini di ragione, non ha senso. E piuttosto: cos'era insomma quell'oggettuccio, a cosa era od era stato destinato? Ecco quanto non seppi in alcun modo determinare, e quanto mi parve d'un tratto urgentissimo conoscere; per cui, senza por tempo in mezzo, coinvolsi nella mia indagine i familiari. A mia moglie che passava di lì: « Che cosa è questo? ». «Cosa?». « Questo! ». «E che vuoi che ne sappia» rispose dopo un'occhiata indifferente all'oggetto. « Come! Eh no, cara mia... In primo luogo, chi lo ha portato qui? ». « Mah, sai, i bambini... ». « Lo so, lo so che razzolano nell'orto; ma quale bambino per l'appunto, lo avrebbe portato? ». «La grande sta facendo i compiti... sarà stato il piccino». «Chiamalo... Ehi tu, quartigliere, vieni qui: sei tu che hai portato dentro questo? ». « No, io no » disse il minimo personaggio guardandomi con sospetto. « No: e chi allora? ». « Io... io non... » ridisse lui, e quasi quasi si metteva a piangere. « Dunque sei stato tu. Guarda, non voglio mica rimproverarti: voglio solo sapere dove l'hai trovato ». Tirò su il moccio e fece un gesto vago verso il fondo del giardino. « Del resto » ripresi « che importa dove! Sentiamo invece: che cosa è, secondo te? ». Si strinse nelle spalle e, ormai disinteressato alla questione, cavò dalla tasca dei pantaloncini tre o quattro pietruzze brillanti, che si rigirò tra le dita. « Ho capito che cos'è » intervenne mia moglie: « è l'anima d'un lumino da cimitero ». « Eh? Spiegati un po' meglio ». « Sì: quei lumini che, il giorno dei morti, si accendono e si lasciano accesi nelle cappelle... Chissà quante volte li avrai veduti: c'è una specie di bicchierino, fatto di carta
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pieghettata; e, dentro, la cera; e, per tenere insieme la cera, un aggeggino di codesto genere ». « Già, ma allora a che serve questa sbarretta con questo dentino? » obbiettò la bambina più grandicella, che il nostro vociare aveva tratto dalla stanza dove stava facendo i compiti: una temibile, una formidabile osservatrice. Guardammo meglio l'oggetto: effettivamente, da un lato, esso presentava come un prolungamento e un abbozzo di uncino che, ad accettare la interpretazione di mia moglie, non avrebbero avuto ragione di essere. « Beh » si difese la brava donna, lei stessa poco convinta « quando i lumini si attaccano alle lapidi... ». « Ma via! » esclamammo. « Fai giusto per dire: questa esilissima appendice non reggerebbe il peso d'una mosca, lo capisci da te ». Lo capiva. Tanto bene, che di lì a un attimo si batté la fronte: « Stavolta ci sono davvero: è il sostegno d'una calzetta ». « Hai il farnetico? ». « Sì sì: uno di quei cerchiolini che, negli antichi lumi a petrolio, sostenevano la calzetta, cioè il massiccio stoppino». « Bah, bah » borbottai senza prender posizione. « E l'appendice? ». «C'era» spiegò mia moglie saputamente «c'era, attaccata al cerchiolino, giusto una piccola sbarra, che terminava con un dischetto regolatore; e l'intero sistema comandava lo stoppino medesimo, ossia serviva ad alzarlo o abbassarlo secondo l'occorrenza; e di tutto ciò noi abbiamo sott'occhio l'avanzo» concluse trionfalmente. E qui io mi sarei magari dato per vinto. Se non che: « Andiamo a vedere ». Chi così parlava era ancora la bambina, la malignetta; e quanto ella proponeva era una specie di sopraluogo, come segue. Ci trasferimmo, dico, in sala (noi tre: il piccino era tornato ai suoi giochi e forse ad incettare altri disperanti oggetti), dove su una console troneggiava appunto un venerabile lume a petrolio. « Ecco ecco, vedete? » proruppe mia moglie, indicando la parte del lume la cui struttura avrebbe dovuto, secondo lei, corrispondere a quella del nostro oggetto misterioso.
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Ma le fu sufficiente un'occhiata per intendere di aver dato di fuori, che neppure la più lontana parentela era riscontrabile tra le due. « Oh Dio, dovete pensare che questo lume è grande anzi monumentale, e che quell'altro, codesto altro, chissà...» volle ancora opporre, con voce piagnucolosa, al nostro sguardo severo; indi si tacque, mentre la bambina emetteva un di quei suoni ambigui e flautati che equivalgono a ghigni e convincono i genitori di tanta prole della propria insipienza. « Ebbene » diss'io riscotendomi e vestendomi d'autorità « di qui non si sfonda. Con che rimane il quesito: cos'è questo?». Il silenzio mi rispose. « Oh sentite » gridai quasi « bisognerà pure venirne a capo: ormai non possiamo far finta di nulla, fare... far come se questo oggetto non fosse mai entrato nella nostra vita! ». Nuovo silenzio. « Ma infine » urlai davvero « nulla è senza una ragione, neanche questo oggetto, e, oso dire, neanche il nostro ritrovamento di questo oggetto... Dunque? ». Terzo, irrimediabile silenzio. « Calma! » ingiunsi, quantunque fossi io solo ad averla persa. «Calma, e consideriamo la faccenda sistematicamente: questo oggetto è in ogni caso un oggetto, o no?... Lo è: e pertanto deve essere qualcosa. E pertanto vi chiedo: che oggetto è?... ». Poi mi avvidi da me che la logica stava andando a gambe all'aria, e, quasi per modo di diversione: « Innanzi tutto, di che metallo è composto? ». Imprudentissimo quesito: ché, dopo la solita ridda di ipotesi e di vuote chiacchiere (di cui sarà superfluo riferire partitamente), scoprimmo con un certo orrore che neppur questo eravamo capaci di stabilire, cioè di quale materia l'oggetto fosse fatto. Sicuramente non si trattava né di stagno, né d'acciaio, né d'ottone, né d'alcuna altra lega a noi conosciuta. Provammo perfino a scalfirlo colla punta d'un temperino: senza successo; quel metallo pareva più duro del diamante. Tutto sommato, a me non rimase che blaterare contro gli incoscienti che mi mettevano tra i piedi di tali oggetti
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inammissibili, innominabili e mostruosi, e ritirarmi col poco o nulla di dignità superstite nelle mie stanze; dove, seppi in seguito, fui udito a lungo passeggiare nervosamente e borbottare fra me. Mi dispiace, lettore: da questa veridica storiella non caverai se non (e se pure) un costumato divertimento. Una vera, un'empirica spiegazione non sono in grado di fornire, poiché l'oggetto in discorso restò sempre tetragono alle nostre indagini. Oggi lo tengo sul caminetto, in uno scatolino senza coperchio, a rammentarmi che non tutto può, anzi non tutto deve, essere spiegato... Pensiamo, ad esempio: e se fosse venuto o venisse fuori che esso fu abbandonato nel nostro mondo da una stirpe extraterrena durante un'incursione esplorativa (naturalmente volta a preparare l'invasione del medesimo, eccetera, secondo si legge nei racconti di fantascienza)? Che terrore. Ma, da ultimo, si potrebbe addirittura affermare che tutti gli oggetti sono egualmente misteriosi (e minacciosi).
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IL SOLITARIO
Avevo preso l'abitudine di fare dei solitari. Il più sovente ne facevo uno il cui esito (ove ad un esito si giunga) è una divisione e un raggruppamento delle quaranta carte per seme, dunque in quattro mucchietti da dieci ciascuno. Avveniva non di rado che, tutte le carte essendo già sistemate, una sola ne rimanesse coperta: della quale pertanto era facile, considerando le altre, indovinare il seme e l'altezza. Non c'era caso di sbagliarsi, nelle dette circostanze quella carta non poteva essere che quella. Ora, una volta mi venne una bizzarra idea: « E se invece un bel giorno codesta ultima e indubitabile carta, la cui identità mi è garantita da tutti gli ordinamenti celesti e terreni, se codesta carta risultasse diversa? Adesso, poniamo, al compimento del mio gioco manca soltanto il sette di bastoni: sicché quest'unica carta ancora coperta deve per forza essere il sette di bastoni... Beh, e se invece non fosse? Dico, cosa succederebbe? Evidentemente che il mondo intero mi crollerebbe addosso! Diamine, come vivere su un pianeta dove quattro e quattro non fanno otto?». Eccetera, e quasi, già cent'anni addietro, qualcuno non ci avesse mostrato che nel nostro mondo quattro e quattro non possono mai fare otto. Una oziosa immaginazione, insomma; che, pure, si ri-
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velò più tenace del previsto. Per tagliar corto ai preamboli, essa divenne in breve tempo una specie di ossessione anzi di terrore: come, ogni volta che si riproducevano le circostanze sopra descritte, io fossi sottoposto a un duro cimento, a una prova decisiva per la salute dell'anima mia; o, piuttosto, come a tale prova venisse assoggettata la realtà medesima, cioè la sua compattezza e stabilità (pegno, daccapo, della mia salute. Un simile sentimento, se ben ricordo, intende o sottintende Cechov dove ci narra d'un suo fortunoso viaggio: attraversando con sommo periglio straripati fiumi siberiani, ad esempio, egli era preso da un'ansia di sperimentare la propria sorte). Detto più semplicemente, ormai non potevo più voltare una delle mentovate ultime carte senza che un brivido mi percorresse la schiena: sarebbe essa stata quale doveva essere? Di tutto ciò perfino mi confidai con mia moglie, sebbene (per vergogna) in tono leggero. Ella non parve attribuire troppa importanza alla cosa: si strinse nelle spalle e non rispose niente; ed io rimasi dov'ero. O forse no, forse la sua reazione, la sua mancanza di reazione, mi tranquillizzò in parte. D'altro canto, visto che non succedeva nulla, ossia che la famigerata carta era sempre e puntualmente quella giusta, la mia stessa ansia finì coll'assopirsi: o almeno, abbandonò gli alti strati della coscienza, ritraendosi un po' più in fondo all'animo. Si venne così a una certa notte. Mia moglie era uscita e non sarebbe tornata che assai tardi. Mi aveva pregato di andare a letto senza aspettarla, ma io non avevo sonno e, un po' smanioso, misuravo in lungo e in largo le povere stanze della nostra abitazione: quando mi cadde sott'occhio il mazzo di carte posato sul tavolino da gioco, richiamandomi al mio usato passatempo. Tra parentesi, non so cosa mi ripromettessi dal ritorno di mia moglie: il resoconto della sua serata, le sbadigliose chiacchiere che predispongono al riposo notturno o colle quali, piuttosto, i coniugi si studiano d'esorcizzare quel riessere lì insieme senza che alcun miglioramento, o solo mutamento apprezzabile, sia sopravvenuto nella loro vita dal giorno innanzi.
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Mi sedetti, ed ebbe inizio una serie pressoché infinita di solitari: tutti con esito awerso, o meglio senza esito alcuno. Ma in fondo ero abituato a una tale ostinazione della sorte, senza contare che la mia indifferenza e la mia distrazione potevano averci la loro parte. Tratto tratto m'inorecchivo, cercando cogliere qualche rumore dalla porta di ingresso; se non che mia moglie tardava, e io ricominciavo a stendere le carte. Certo, mi sarebbe piaciuto fare alcunché di più costruttivo, leggere se non altro: sul momento però non me ne sentivo capace. Beh càpita, e senza un motivo preciso: si ha l'anima come intormentita, il consueto senso di vanità ci si ingigantisce dentro. Un lontano orologio cittadino aveva ormai battuto il tocco e tre quarti, quando affrontai l'ennesimo solitario della serata. Stavolta il gioco procedeva (o colava) come un olio: già in cima al tavolo s'erano accumulate in bell'ordine sette carte di coppe, sei di denari, otto di spade, nove di bastoni. Considerato che disponevo di ben tre case libere, potevo far conto che il solitario fosse riuscito. Difatto le sette coppe furono ben presto raggiunte dalle carte vestite del seme, cioè dalla donna (ancorché, il Diavolo sa per qual motivo, in panni maschili - corrispondente al fante dei mazzi maggiori), dal cavallo (la dama) e dal re; le sei denari accolsero le consorelle mancanti, con in testa il loro dovizioso monarca; le nove bastoni furono suggellate, od oppresse, dal relativo e minaccioso despota. A questo punto due sole carte mi rimanevano in mano, ambedue già facilmente identificabili per il cavallo e il re di spade. Occorreva se mai vedere in quale ordine sarebbero uscite. Voltai la prima, ed apparve il cavallo: per incontrovertibile conseguenza, la seconda ed ultima del gioco doveva essere il re, il magnanimo condottiero che della spada ritta si fa eterna insegna. In breve, io ero giunto a una di quelle posizioni prospettate in principio, ossia a un evento forzato e come tale capace di ridestare la mia latente ossessione. Tuttavia, posto lo stato d'animo in cui mi trovavo, fu quasi senza emozione che m'accinsi a voltare codesta ultima carta. Anzi, prima di voltarla, la portai e bilanciai giusto sopra la sua sede naturale (il mucchietto delle spade) ; poi, con un indolente colpo di pollice...
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Mi si rizzarono i capelli sul capo: la carta non era il re di spade. « Dunque avevo avuto ragione di temere... e di sospettare la realtà d'oscure mene ai miei danni »... eccetera eccetera. Ma il mio sentimento dominante era una specie di profondo avvilimento, come di chi, sebbene incolpevole, chini la testa in attesa d'una terribile punizione della sorte. E, del resto, davvero incolpevole? Son tante le nostre colpe, anche se a noi stessi ignote... Ecco, sì: che cosa sarebbe successo ora? e come mai il mondo non era già andato in mille pezzi?... Tenevo tra le dita la mia bruciante carta, la interrogavo anelando... E in questa buffa attitudine fui colto da una fresca voce che diceva: « Come vedi non è successo nulla ». Mi girai di scatto: sulla soglia, ancora agghindata da teatro e imparruccata, era mia moglie, che evidentemente mi stava spiando da qualche tempo. «Ah, non è successo nulla? Ma qui... ma questa... questa carta dovrebbe... e invece... ». « Successo nulla di ciò che temevi » precisò. « Per esempio, il mondo non t'è cascato addosso. Quanto alla carta medesima, lo so bene che non è quale dovrebbe essere, perché son io che l'ho sostituita, prendendola da un altro mazzo ». « Ma a che scopo, mio Dio? » gemetti, rinunciando ad ulteriori spiegazioni. « Eh, ti vedevo così preoccupato, così perso nelle tue strane fantasie... Ho voluto mostrarti che non c'era motivo di prenderla sul tragico. Ed ora confessalo: quasi quasi ti dispiace che non sia avvenuto niente, quando, un minuto fa, hai colto quella carta in palese contravvenzione alle o delle leggi umane e divine eccetera (secondo avesti a dirmi)?». « Lo confesso volentieri, sebbene, a fìl di logica, ci sarebbe da obbiettare. Ma non è questo che... ». «Avresti potuto avvederti della sostituzione anche prima dell'istante fatale, intendi? Poco probabile: tu ti mettevi ai tuoi solitari come imbambolato, colla sola ansia (o
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speranza) di quella tale combinazione. Ad ogni modo, è andata così ». « L'esperimento era nondimeno pericoloso, ma lasciamo stare; e adesso concludi ». « Ci tieni proprio? ». « Ci tengo e ci ho diritto. Positivamente e non negativamente parlando, cosa hai voluto dimostrare? ». « Il tuo tono inquisitoriale mi spaventa: ora son io sotto accusa, e non tu coi tuoi ridicoli terrori? ». « Avanti, avanti ». « Beh, questo magari: la maglia che non tiene, quantunque meno manifesta, è in tutto quanto pensiamo ed operiamo; c'è sempre, nel tessuto delle apparenze, una falla. Eppure si seguita tranquillamente a vivere ». « Tranquilla tu, forse ». « No, neanche io, se è per questo. Diciamo allora semplicemente: si seguita, bene o male, a vivere ».
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TEMPO INNOCENTE
Non vorrei riuscire troppo oscuro; ma delle volte è giuocoforza discostarsi dai facili schemi, ove si voglia approdare a una qualunque definizione del proprio argomento. Il mio quesito di oggi è: può darsi un tempo astratto o, dirò così, puro? Si è tentati di pensare, intendo, che il tempo non possa operare se non su una serie di eventi, mancandogli in caso contrario la materia, il contenuto, il pretesto. In verità su cosa si eserciterebbe esso, quando non vi fosse nulla da defiorare, da uccidere a grado a grado? Sembrerebbe inoltre (se poi non è la stessa) che un tempo senza visibile oggetto o frutto fosse egualmente malagevole da concepire, e che anzi dovesse addirittura arrestarsi. Eppure a ciò vorrebbero opporsi le singolari esperienze di un amico. Al quale, avendo bell'e veduto che tra enunciazioni, definizioni ed interpretazioni mi rigiro male, stimo opportuno cedere la parola e la responsabilità di tutto. Mi aveva ripetutamente scritto, l'amico, che lui non faceva nulla. E, si può capire, io non ci avevo creduto: come si fa a non fare nulla? Ma quando mi decisi e lo andai a trovare, constatai che davvero non faceva nulla. Pare buf-
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fo, a dirlo, e tuttavia la faccenda stava esattamente in questi termini... « Ma insomma! Nulla: e come si fa a non fare nulla? » andavo ripetendo. « Qualcosa farai pure, e sia pure d'indifferente ». « Oh beh, certo: d'indifferente, tutto quello che vuoi. Per esempio mangio, bevo, dormo, leggo il giornale, ogni due giorni mi faccio la barba, eccetera... Dobbiamo intenderci, carissimo: il mio "nulla" si riferisce al tempo che gli altri dedicano, consacrano, votano al lavoro ». « E tu? Voglio dire, mentre tu...? ». « Ecco, quelle otto orette che fanno sudare gli altri, io le consacro a passare il tempo ». « Bravo, e in che maniera? Spiegati senza tanti giochini». « Ma, passare il tempo: così, semplicemente e senza secondi fini». «Cos'è, un nuovo scherzo? E se mai, quale sarebbe il modo di procedere? ». « Beh, non escludo che ci sia più d'un metodo. Il mio, a buon conto, è quello della sveglia». «Nome astratto o concreto? ». « Concretissimo: una comune sveglia da poche lire, purché fornita del quadrantino dei secondi ». «Va' avanti: e allora che succede, cosa fai? ». « Proprio niente, ma aspetta che finisca; occorrono ancora un tavolino, o una sedia, e una comoda poltrona ». « Cioè, tu starai semidisteso sulla poltrona e avrai davanti a te la sveglia? ». «Appunto». « E adesso? ». «Adesso! Sai tu, mio giovane amico (il bizzarro uomo mi chiamava così, sebbene io fossi più vecchio di lui), sai tu che vasto mondo figuri il quadrante d'una sveglia? Vasto e riposante, nel senso che non tende, che non la pretende, a soluzioni né a conclusioni di sorta... Tu lo contempli, e vi vedi rappresentati mille eventi, tutti i possibili eventi, ma allo stadio appena di eventualità, privi dunque della loro carica aggressiva, ossessiva; e del resto sommamente improbabili anche come tali, giacché non ignori (daccapo un tu retorico, beninteso) che il tuo personale
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tempo è vuoto, vuoto fino in fondo. Per cui ciò che in ultima analisi rimane è un'alta dilettazione dell'animo ». «Sì sì, va bene, capisco all'incirca, o facciamo le viste. Ma, per la terza volta, in pratica come procedi? Dico, non ti limiterai a contemplare il quadrante? ». « E invece sì, proprio così: non mi serve altro; e i minuti, e le ore filano via con passo di felpa, o (se preferisci) s'involano con ali soffici e silenziose ». « Non ricominciare. Io voglio sapere... ». «Vedi, carissimo, tu hai il poco invidiabile talento di rendere necessaria la specificazione del sottinteso ». « Oh, va' al Diavolo ». «Io seguo coll'occhio il moto delle sfere... e coll'orecchio la relativa musica, potresti aggiungere, e saresti nel vero; ma qui pel momento si tratta solo di lancette. Lo seguo, e mi diverto a proporre loro dei traguardi, delle mete fittizie ». « Prova, da bravo, a fare un esempio ». « Decreto, ad esempio, che la sfera o lancetta dei minuti primi precipiti come a convegno d'amore verso l'infimo 6 (un inferno, senza dubbio), per poi man mano rielevarsi alle sottili aure del 12-paradiso... Oppure stabilisco partizioni di comodo: siano, che so, unità di conteggio le ventine di secondi, sì da compire in numero perfetto il minuto primo... O ancora introduco criteri geometrici, valutando la ampiezza degli angoli descritti dalle sfere e misurando la avanzata del tempo, mettiamo, in angoli retti... Eccetera eccetera, ché questa sorta di osservazione o speculazione, come ammette i più svariati sistemi analitici, così può beneficiare di combinazioni pressoché infinite. E intanto ammiro le sottili, le misteriose corrispondenze delle sfere nella loro fuga concordemente discorde, nella loro pazza corsa verso... oh, verso che cosa mai? Corsa, a buon conto, ogni volta ferreamente ricondotta alla sua origine; sì che da ultimo non vi sia più principio né fine a quel... come lo chiamate voialtri? ». « Chi noialtri? ». «Beh, voi uomini di penna, o i vostri poeti. Ecco: a quell'"errore". Ma, tralasciando le implicazioni morali (che non mancherebbero) e riprendendo il discorso... Amico! tanto vale io ti confessi che la mia scelta d'una pa-
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rola ambigua come "sfera" e le mie stesse precauzioni di poc'anzi son solo piccole viltà. Non queste sfere, bensì quelle, quelle rotanti maestosamente nello spazio, io contemplo nel o attraverso il mio quadrante. Il moto delle sfere, l'armonia delle sfere, la musica delle sfere: sì, in tali antichi termini è pienamente restituito il mio sentimento. Il mio quadrante, giovane amico, è in verità un quadrante siderale, universale! ». « Eh adagio, ridiscendimi sulla terra e cerca di parlare un po' più da cristiano: donde ti verrebbero in particolare, secondo te, codesti grandiosi sentimenti, codesta ebrietà o pienezza? ». « Ma se te l'ho già detto: da ciò che al tempo investigato io non chiedo nulla e nulla me ne aspetto. Il mio rapporto con esso è puro, è innocente: tanto, che il tempo medesimo, il quale usa trarre seco ogni specie di sciagure, ne è forzato a innocenza ». « Non è molto chiaro ». «Ma come! Giusto per spicciolare (e perdendoci il meglio) questa mia idea: studiati, e guarda se ti riesce, di passare il tempo senza nuocere a qualcuno o a qualcosa, non fosse che a un concetto di te stesso per avventura accreditato. Laddove il mio tempo, o il mio modo di passare il tempo, a nessuno e a niente nuoce, nessuno e niente lede. Il modo comune (sempre di passare il tempo) è protervo, indiscreto, tirannico, non dà quartiere, rinsalda l'ordito delle insofferenze, delle animosità, e soprattutto reclama con ansia ed angoscia accadimenti... vani, rispetto alla salute dell'anima nostra: il mio modo, lascia almeno impregiudicata ogni cosa e, di più non potendo, evade e sfuma verso una superiore bellezza, ancorché egualmente postulata». Ma qui o poco dopo mi scappò la pazienza: « Fèrmati in nome di Dio: tu in sostanza sei un pazzo ». « Già, forse ». « E inoltre ci siamo notevolmente discostati dal primo proposito ». «Già». « Perché, eravamo partiti da una sveglia posata su un tavolino davanti alla tua poltrona? ».
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«Eh sì». « Una sveglia da poche lire che ciascuno può comprare in un magazzino popolare? ». «Già». « Ebbene, cosa hai da aggiungere? ». «Da aggiungere?... Vattene ormai: ho da fare, piuttosto». «Da fare! ». « Sì, la mia sveglia mi attende. Ho da passare il tempo ».
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GATTO TELEGRAFISTA
Ci siamo ormai ridotti al punto che la menoma disavventura ci mette, come suol dirsi, a terra. Io m'ero fatto un preciso programma per la serata: avrei corretto e copiato due articoli che da mesi attendevano nel cassetto, e ne avrei avuto il doppio beneficio del lavoro compiuto e del tempo trascorso (il tempo invero deve essere non solo per me il peggior nemico, secondo si rileva da ciò che tutti vogliono «ammazzarlo»). Ed ecco, invece, che mi si ruppe la macchina da scrivere. E la lettera a, solitamente, che fa di questi scherzi: casca d'improvviso e riman lì inerte, e, poiché la sua frequenza nella nostra lingua è soverchiante... Via, come si fa a scrivere (anche da cani) nell'idioma di Dante, se manca la a? Per cui, da parte mia, avvilimento e quasi disperazione. Soprattutto un gran senso di vuoto: ora, stanotte, in che modo o con cos'altro avrei sostituito il mio progettato lavoro o passatempo? Mi aggiravo come una larva per lo studio, sconfinando talvolta nelle stanze attigue, né trovavo pace; a coricarmi non era da pensare, sapevo troppo bene che, se lo avessi fatto prima di una certa ora, mi sarei destato nel cuor della notte e non avrei più ripreso sonno. E così, coi sensi irritati e resi particolarmente acuti dal mio disagio medesimo, non stentai a percepire un tal suono o rumore al-
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quanto discrepante (rispetto a quelli abituali della casa nelle ore notturne: come gemito di mobili, rotolio di topi e simili). Era un suono, benché modesto, reiterato; e dunque per ciò stesso in qualche misura sospetto, posto anche che della casa io ero il solo abitatore. In breve, mi proposi di chiarirne senza indugio la causa o dicasi di individuarne la fonte. Esso pareva sulle prime remoto, ma nella mia rapida marcia d'avvicinamento fui favorito dal gran silenzio di dentro e di fuori; e, attraversate che ebbi tre o quattro camere, imboccata la scala interna sul piano inferiore, si fece più distinto. Scesi quatto quatto, e mi trovai col viso contro una rustica, ingrommata porta, che rimetteva in una stanza di sbratto dove usavo accumulare le stoviglie della mia solitaria cena: la domestica il mattino dopo provvedeva a rigovernarle. Ebbene, ecco: subito di dietro a quella porta, sorgeva il rumore che mi aveva impensierito. Ma io intanto ero stato preso da non so quale irragionevole terrore, e non mi decidevo a spingerla. Cosa poi temevo? Non so, l'ho detto; o magari, a sbigottirmi, era la natura o qualità del rumore. Questo mi giungeva adesso come una sorta di ticchettio singolarmente cadenzato e che, se così posso esprimermi, sembrava seguire una ben determinata legge: sembrava cioè relativo a una qualche operazione o attività razionale, la quale a sua volta presupponeva... che, se non una presenza umana e per quanto improbabile? D'altra parte, la mancanza di rumori concomitanti mi rassicurava un poco: difficile immaginare un uomo che si limiti a un solo rumore, reprimendo tutti i vari suoni incessantemente prodotti da un corpo vivo in moto (perfino il suo respiro mi sarebbe stato agevole udire, di dove ero). E finalmente, cosa ci avrebbe fatto un uomo, mettiamo pure un malintenzionato, in una stanza squallida e vuota di qualsiasi allettante bottino? Tuttavia non mi decidevo a nulla; mi sentivo ridicolo, ma restavo lì, quasi incollato a quelle decrepite assi, senza muovere un dito. Poi mi venne in mente che la porta, secondo avevo spesso osservato, era addirittura fenduta in
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più d'un punto: ossia, mettendo l'occhio a una di tali fessure, e supponendo che dentro vi fosse luce bastante, avrei forse potuto sbirciare nella stanza. Ebbene: trovata la richiesta fessura, e poiché l'interno risultava sufficientemente illuminato (attraverso una finestretta) dalle luci di strada e dal chiaro di luna in combinazione, ebbi modo di vedere quanto segue. Sul rudimentale acquaio stavano accatastate le scodelle sudice della mia cena; con in cima, e in bilico, un piattino. Inerpicato fortunosamente sulla catasta era un gatto, certo un di quelli che mi entravano in casa dalla gattaiola dell'uscio esterno; il quale andava leccando coscienziosamente il piattino, e traendone, data la posizione precaria del medesimo, il suono ritmato che era causa delle mie perplessità e dei miei timori. E se l'animale tanto si attardava nella sua bisogna, è perché il piattino aveva contenuto del miele: e nessuno ignora quanto questa sostanza sia tenente alla lingua, né ignora che i gatti dabbene sogliono lasciare netto e lustro il vasellame leccato. In conclusione nulla di più rassicurante, si sarebbe detto: un gatto che lecca un piattino. Già; eppure, a rifletterci appena un istante, c'era lì qualcosa che non tornava. In primo luogo, i gatti non sono orsi, né mi consta che amino il miele in alcun modo; essi, anzi, sono dalla loro libera natura portati a fuggire tutto quanto minacci d'invescarli. Sicché come mai codesto gatto si dedicava con così generoso impegno a ripulire giusto il piattino? quando poi i piatti sottostanti, in gran parte accessibili, recavano tracce d'unto o emanavano sentori ben più sostanziosi e confortevoli? Ma ciò era il meno; e piuttosto, quale dimenticata sensazione ridestava d'un tratto dall'oscuro fondo di me stesso quel ticchettio? a qual confuso ricordo, a quale remota condizione o abitudine mi richiamava? Aguzzavo l'orecchio verso quel trascorrere e come rimbalzare di lievi suoni: affascinato, sempre più turbato e sgomento man mano che mi pareva avvicinarmi alla soluzione dell'enigma... E finalmente compresi: il piattino con tutto il resto non erano che una messinscena, mentre in realtà il gatto voleva trasmettermi, voleva battermi un messaggio. Mi spiego subito. Durante il mio servizio militare, tanti anni addie-
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tro, io m'ero per avventura familiarizzato con certo sistema di impulsi tradotti in battute di varia durata (alias in punti e linee), che è insomma quello adottato dai telegrafisti di tutto il mondo: e appunto valendosi di tale alfabeto, mi parlava l'animaluccio baffuto. Con alcune incongruenze, beninteso; ma, ecco ecco, le parole si componevano ormai in discorso filato... « Eh eh, anche meno! » esclamò qui l'amico cui venivo raccontando questa mia storia; e fece seguire al detto un sibilo, di scherno e d'incredulità insieme. « Perché? » chiesi candidamente. « Ma andiamo, cosa vorresti darmi a bere? Confessa che il tuo pretesto narrativo oggi è un po' debole ». «Pretesto narrativo!... » replicai. «Magià, naturale: voialtri siete quelli che ci chiedete il verosimile e non il vero». « Come se il primo escludesse il secondo ». « In un certo senso sì: il verosimile è, appunto, simile al vero: se non che, vedi caso, il vero non è mai simile a se stesso». « Mi inchino all'eleganza della proposizione, e resto incredulo». « Dunque ti andrebbe meglio se per esempio ti raccontassi che il messaggio lo sognai durante un breve dormiveglia, o me lo inventai e me lo trasmisi da me a me medesimo quale espressione d'un mio particolare stato d'animo? ». «Almeno, potrei crederti». «Ah, ed ecco cosa cercate voi in un racconto: le circostanze di fatto, le volgari circostanze di fatto. Ma, dico io, non è tutt'una, in che modo il messaggio sia giunto al mio orecchio? Che stupido letteralismo; se ti dà noia il gatto, leviamo pure di mezzo il gatto: la sostanza del discorso rimane». « Eh, caro il mio uomo! » sbuffò l'amico « tu vai un po' troppo per le spicce: avrei qualche obbiezione. Comunque lasciamo stare. È invece venuto il momento d'informarmi sul contenuto di codesto famoso messaggio... Ma
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no, prima un quesito: perché il gatto si sarebbe presa (scusa) una tal gatta a pelare? ». « Mah, forse gli era imposto da una potenza superna, o meglio infera». « Capisco. E adesso avanti: cosa dunque ti diceva il tuo gatto (o la tua immaginazione) ? ». « Uhm, diceva testualmente: Dove vai, dove corri da insensato nella notte? e pensando sorprendermi, laddove io ti ho benissimo udito venire e di proposito seguito a leccare questo piattino... E dove vai o corri nelle tenebre del tuo spirito, il quale non potrà mai fornirti la ragione, il motivo, il chiarimento che cerchi? Credimi, tanto vale rassegnarsi al buio, alla cecità di questa come di tutte le altre notti passate o future. Credimi: io sono la tua coscienza negativa e so quanto vano sia ogni affanno, quanto vana ogni speranza. Dormi, se puoi, dormi tutto il tuo tempo terreno e non inseguire le spettrali parvenze che ti illudono di vita o di resurrezione!... Ah basta: mi manca il cuore ».
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DIALOGO DI PRIMAVERA
Nella nostra vita era sopravvenuto un tempo d'attesa. « Ma tu in sostanza che cosa aspetti? » mi chiese lei. « La primavera » risposi. «Questo, però è solo un modo di dire: e quando sia giunta?». « Guarderò la fioritura delle rose, lì contro il muro del cortile: saranno migliaia forse, e non avranno pazienza, e sarà bellissimo ». «Pazienza?». « Eh sì, non si daranno l'un l'altra quartiere; ciascuna fiorirà quando le piace, senza darsi pensiero delle altre. Vi sono giorni di maggio che quasi ogni minuto se n'apre una». «E poi?». « E poi sfioriscono, si capisce; ma intanto... ». « No, voglio dire: e dopo aver guardato le rose? ». « C'è anche il glicine bianco, una vera medusa ». « Oh, si può sapere di dove cavi queste immagini? ». «Certo, una medusa: fiorisce a ombrello, e coi suoi grappoli e le sue trine compone appunto come il diafano corpo d'una di quelle creature marine ». «E poi? ». « I fiori delle casce: tanto profumati, che bisogna tener
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chiusi gli usci sulla corte, altrimenti si rimane storditi e si prende il mal di capo ». «E poi?». «La brulicante, la prepotente, l'accesa acetosella, che invade tutte le aiuole ». «E poi?». «Ah basta. A sera, seguirò con lo sguardo i furiosi voli dei rondoni... ». «E così, insomma, non vuoi prender coscienza della mia domanda. Chiedo, e non son disposta a lasciarmi protestare o contestare, chiedo: e quando avrai fatto, quando avrai guardato tutto ciò? ». «E la mia risposta è: "Va' al diavolo, donna crudele"... Ossia, dovrebbe essere; e invece umilmente ti chiedo a mia volta cosa dovremmo fare ». Le sue incerte repliche non contano. Ma, venuta che fu la primavera, lei tornò alla carica: « Questi fiori son troppo caduchi. Guarda il lillà: ancora ieri, che pompa; e guardalo adesso: il terreno al suo piede è tutto cosparso delle stelline piovute dai rami. E ì rondoni stessi partiranno. Dovremmo, ecco, appigliarci a qualcosa di più stabile, di più sicuro ». « E si dà, qualcosa di più stabile? ». « Il nostro amore ». «Ad esso siamo già saldamente appigliati ». « Eh no caro, non mi capisci. Ci sono molti modi per uccidere un amore: uno è quello di annegarlo nel nirvana». « Mi diventi ardua ». «Eppure è semplice: l'amore non può vivere di sole mollezze e di beato abbandono, né tollera che gli sia dato pieno ed incontrastato corso. A codesta maniera si sfibra». «Sta bene, posso all'incirca intenderti: l'amore, in parole povere, deve essere continuamente minacciato ». « Sì sì, come la fede ». « E sia. Ma, in pratica, dove vuoi arrivare? ». « "In pratica": che espressione da bempensante, da notaio, da dirigente sindacale ».
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«D'accordo. E sicché, in pratica? ». « Noi dobbiamo almeno almeno leticare; non permettere al nostro amore di languire in ozi capuani ». « Come sei brava ». « Come sei grullo... Hai capito sì o no? ». « Per capito sì. Ma in qual modo o con qual pretesto leticare se, giustappunto, non c'è motivo? ». « Qui, magari; ma proviamo ad andare nel mondo, e vedrai se il motivo salta fuori ». «Nel mondo! Ah no, questo sarebbe troppo: sarebbe come, contro una lepre che ci mordicchiasse qualche cavolo, chiamare un cacciatore... che ci devasterebbe l'intero campo». « Dunque ammetti, se non altro, che la tua cavolaia vada soggetta a mordicchiamenti? ». « Ma no, non confondiamo le immagini ». «Sì, invece. Di', lo sai che, l'ultima volta che siamo stati in città, il tuo diletto amico T. mi faceva una corte sfacciata?». «Via, via, con codesti mezzi non riuscirai a farmi arrabbiare né a leticare con me: so quanto tu sia seria ». «Io? Io, figurati, sono un mare, sono un universo di pensieri impuri ». «Anche le sante lo erano ». « Sono una traditrice costituzionale ». « Sì sì, angelo mio: salvo che ti comporti incostituzionalmente, come taluno dei nostri uomini pubblici ». « Oh, ma allora?... Vediamo un po': se provassi a parlar male di Dante? ». « E facile farlo ». «Ah sì? Ebbene, cosa avresti da dire contro di lui? ». « Scusa, ma sei tu che devi farmi arrabbiare ». « Posso sempre contraddirti ». « E vero. Beh, una cosa sola ci sarebbe da obbiettare a Dante, ma capitale ». « Su, su, ora m'incuriosisci ». «Il fatto d'avere scritto la Divina Commedia». « Cioè il fatto medesimo dal quale ha tratto eterna fama e per cui va in ogni luogo celebrato? ». « Già già: perché la scrisse? ». « Perché non poteva farne a meno ».
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« Tu dici? O, se mai, proprio questo sarebbe il suo torto: perché non potè farne a meno? ». « Cos'è, il giochino del perché? Insomma, quella roba gli urgeva, gli bruciava dentro e reclamava espressione ». «Ah, ma allora andiamo per le fratte? o anche tu ti figuri che si possa scrivere qualcosa unicamente per se stessi? In tal caso, di scrivere non c'è neppur bisogno: si ha tutto lì... qui, e tanto basta». « Come se codesto aver tutto nel cuore fosse già espressione. L'espressione, al contrario, dev'essere un che di ben articolato ». « L'espressione; e chi ha parlato di espressione? ». «Io». «Io no. Dell'espressione ne facciam senza, disse il poeta: è forse obbligatoria, è forse tassativa, l'espressione? Dante avrebbe potuto e dovuto farne senza. E nota tra parentesi che qui si tratta di un lungo poema, tale da ridurre "per più anni macro" il suo autore ». « Beh, lo avrà scritto per gli altri o in pari tempo per gli altri». « Ma nella sua alta mente doveva ben sapere che non sarebbe servito a nulla ». «Come come?». « Diamine, c'è qualcosa di più inutile oggi, a quanto pare, della Divina Commedia? Un repertorio di modi aulici: ecco, così oramai la giudicano i posteri cui il poeta intese le sue vigilie... Del resto, ti dirò, non me ne importa niente». « Neppure di Dante !». « Se non proprio di Dante, della questione ». «... Guardalo». «Chi?». « Questo ragnetto che si dà tanto da fare per ordire la sua tela tra questi due fili d'erba ». «Carino». «Macché carino: è bruttissimo, sgraziato nei movimenti, ha un'aria proterva, ed è obeso. Ora lo ammazzo ». « Ma no, lascialo vivere: anche lui, poverino, si travaglia per... Come tutti noi ». « Oh no! ». «Cosa, no?».
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«In codesto tono me Io dici, in codesto tono appena appena conciliante intercedi per il ragno? ». « E che dovrei fare, difenderlo a prezzo di violenza? ». « Ma un tempo, ieri stesso, i sentimenti che ho testé simulati ti avrebbero fatto imbestialire: ammazzare una creatura perché è brutta! ». « Ma oggi è primavera. E poi ognuno ha il proprio destino, sia esso di mano femminile ». «Ah, non ne posso più! Sicché non ti si muove in nessun modo? in nessun modo si riesce a provocare il tuo sdegno?». « Mi spiace. Prova ancora, se credi ». «No: fallita la prova del ragno obeso, non so che altro immaginare. E con ciò, come si diceva in principio, il nostro amore dovrà languire sfibrato, e... ». « Zitta: non ci converrà piuttosto rassegnarci ad essere felici? ». « Ma è la cosa che temi di più! ». « Eh, per una volta... ».
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SANGUE SUL SAGRATO
Quando s'era studenti, uno dei nostri innocui trastulli (che senza dubbio gli studenti d'oggi sdegnerebbero perché poco costruttivo, e anche perché loro non hanno alcun bisogno di fare per burla ciò che possono fare e fanno con tutti i sensi), uno dei nostri trastulli consisteva nel simulare alterchi, risse e zuffe: così, giusto da dare sfogo agli umori bizzarri, da intronare gli orecchi dei passanti e da beffare i gonzi. Sceglievamo un luogo in cui fosse sufficiente concorso di popolo, un pubblico passeggio o una piazza festiva, e davamo principio alla commedia: uno di noi blaterava e pareva volere paglia per cento cavalli, un altro lo rimbeccava crudamente; indi, a grado a grado, si passava agli oltraggi, indi ancora agli spintoni, e finalmente ne nasceva quello che in termini volgari si chiama uno spicinio. Poi, quando passanti e gonzi avevano fatto cerchio o magari i più animosi ormai avanzavano a ristabilir l'ordine, ci si dilungava alquanto giù per la via e, giunti a distanza di sicurezza, si inscenava un balletto con accompagnamento di sberleffi vari, e si scompariva in fretta al primo cantone; beninteso, non senza udire i commenti dei beffati, quali: « Ma andate a letto e copritevi a modo! - Bellini davvero! - O grulli! » ed altri non riferibili... Bah, proprio
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vero che dove c'è gusto non c'è perdenza; e anzi ci sarebbe da chiedersi che gusto ci provassimo, in un passatempo al postutto così balordo. Tanto più che le cose non sempre andavano per il loro verso. Una volta, ad esempio, avevamo scelto per nostro palcoscenico il largo antistante un teatro estivo di varietà e per nostro pubblico la promiscua folla che alla fine dello spettacolo ne usciva. E qui, solito procedimento: un tale (al secolo mio amicissimo) figurava avermi offeso; io replicavo, m'incattivivo, e passavo alle vie di fatto; gli altri (della nostra compagnia di capiscarichi) tentavano dividerci; non vi riuscivano (pel buon motivo che il copione non lo comportava); eccetera... Quando, essendoci la folla venuta un po' troppo a ridosso, stimai opportuno abbandonare spontaneamente il campo e scansarmi verso il fondo della strada: il che peraltro feci seguitando a vociferare minacciosamente, come chi si accinga a riaprire le ostilità non appena sia rimosso l'occasionale impedimento che gli ha fermato la mano. Ma, mutati pochi passi, mi vidi fronteggiato da un tipo tarchiato e rubesto, che mi afferrò saldamente per i polsi. Saldamente, è poco dire: me li stringeva come in una morsa d'acciaio. E io sbigottito: « Ehi, cosa c'è, chi è lei? ». E lui, con voce melliflua ma senza allentare la terribile stretta: « Sono un agente, sono un agente » (Diavolo, non ci mancava altro). - « E sta bene, che vuole da me? ». - « Bisogna calmarsi, ragazzo mio, bisogna calmarsi ». - « Ecco: sono calmo; adesso mi lasci, mi fa male ». - « Eh no, vedo dai suoi occhi che non le è ancora passata, lo vedo dai suoi occhi» disse, raddoppiando la frase alla sua maniera. «Ma no, le assicuro... ». - «Tanto grave era la questione con quell'altro signorino? la questione era tanto grave? ». - «No, no, è stato solo un momento di rabbia: sa come capita ». - « Male, male: calma ci vuole, calma e bontà; tutto s'aggiusta, colla calma». - «Ha proprio ragione... Beh, è finita» (e sorrisi). - «Davvero? posso fidarmi?». - «Si fidi pure ». E lui finalmente mi lasciò andare, coi polsi indolenziti; ma mi seguì con sguardo professionale mentre mi allontanavo, tuttavia mormorando: « Calma e bontà ».
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(Una sorte, invece, patetica toccò al mio mentito antagonista, che per avventura era piccolino e mingherlino. In quella che io mi districavo dall'agente, alcuni della folla se lo presero in mezzo e, con gran rinforzo di « Ma via! ma che le pare! » badavano piuttosto a consolarlo e vezzeggiarlo che a frenarne l'improbabile corruccio. Il gruppetto scese la via fino a una piazzetta dov'erano un paio di baracconi con relativi tirassegni, e dove ai consolatori s'unì il padrone d'uno di questi ultimi. Il quale a un certo punto, per dare maggior forza alle generali esortazioni di buon animo, corse dentro alla sua tenda e ne riuscì con un oggettuzzo che pose tra le mani dell'amico dicendo: «Via via, allegro; ecco, tenga». L'oggetto era un canino d'argilla col fischio, e senza dubbio faceva parte dei premi destinati ai tiratori più esperti). Ma veniamo alla più clamorosa anzi truculenta di quelle scene, seguita nientemeno che in piazza del Duomo. Eh sì, avevamo constatato che da qualche tempo i bravi borghesi della città si mostravano un po' troppo distratti, per non dire insolenti; durante le nostre zuffe erano capaci di tirar via per la loro strada, magari facendo spallucce 0 ghignando sotto i baffi come intendessero: « Guardali lì, 1 soliti studentelli colle loro grullaggini». E questo noi non potevamo permetterlo; occorreva qualcosa che li risvegliasse, i furbi borghesotti, li turbasse a dovere, e insomma li riportasse alla loro parte di docili zimbelli. E così fu quanto segue. Nell'isolato compreso tra gli sbocchi sulla piazza di via Martelli e di via Ricasoli, si apriva allora un caffè profondo, chiamato (se ben ricordo) «Elvetico»: profondo nel senso che aveva sale posteriori, dove erano allogati un certo numero di biliardi. Io dunque, piacevolmente conversando con un amico e compare, entro come nulla fosse in tale caffè; diamo di piglio alle stecche, le ingessiamo accuratamente, iniziamo un'innocentissima «guerra». Qualche pensionato sposta la seggiola per assistere alla nostra partita; tutto procede per il suo verso, i pensionati cominciano perfino ad appisolarsi. Ogni tanto coll'amico ci si prende un po' a parole, ma bonariamente: « Bel tiro, accidenti a te; ora però ti fo vedere »... D'un tratto scoppia la parola aspra, corre la contume-
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lia, i volti s'aggrondano, uno di noi si precipita incontro, addosso all'altro gridando alcunché, gli gesticola furiosamente sul naso, e finisce col dargli un formidabile spintone a mezzo il petto; l'altro reagisce subito e si rifa sotto minaccioso, abbrancando l'avversario per le spalle... Non si capisce neppur bene su cosa verta la disputa: se lo domandano, non senza allarme, i pensionati ridesti dal loro assopimento; biscazzieri, avventori si avvicinano... Volano nostre invettive, e frasi confuse di «Non è vero! tu sei un bindolo! - Io? Te piuttosto: ah sarebbe facile. Tu sei, ma un ladro », e simili; intanto ci si scuote e tartassa vicendevolmente, ci si misura pugni quanto possibile leggeri, ma, nella foga della commedia, non del tutto senza danno... E qui io fo un passo indietro, porto la mano alla tasca posteriore dei pantaloni e cavo la pistola (lo scacciacani del quale m'ero per l'occasione provveduto). Come avessi la scena sotto gli occhi: «No, la pistola no! » grida uno degli astanti. Ma io non gli do retta e con calcolata lentezza abbasso l'arma; al che il mio avversario, simulando terrore, prende la fuga. Taglia in frenetica corsa la sala del biliardo e le precedenti, raggiunge ed infila la porta esterna. Io, dietro. Egli ora attraversa la strada (a quel tempo attraversare una strada non era faccenda tanto impegnativa), sale di sbieco i gradini di Santa Maria del Fiore e seguita a fuggire lungo la facciata. Io, pistola nel pugno, sempre dietro come il destino. Lo sciagurato tenta ripararsi negli sguanci dei portali, ma deve esporsi per passare dall'uno all'altro; e durante uno di tali passaggi la mia pistola latra per la prima volta. Senza effetto, a quanto sembra: egli infatti non si arresta, al contrario fila via più veloce... sta quasi per sfuggirmi... ed io riapro, raddoppio, triplico il fuoco. E lui stavolta barcolla, cerca di farsi forza, cerca di aggrapparsi al muro, muove ancora uno o due passi - e si abbatte con un gemito. Accorro, gli son sopra e... e lo aiuto pel gomito a ritirarsi su, facendogli cenno di sbrigarsi. Invero non c'è tempo da perdere: a piè dei gradini si è ormai raccolto un bel numero di persone che guardano, lanciano esclamazioni e, sebbene sul momento tenute in rispetto dalla mia ar-
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ma, si dispongono a intervenire. Il partito più salutare, a scanso di complicazioni, è togliersi di mezzo per la più corta. A piè della gradinata stazionano anche alcuni tassì; saltare in uno di essi è per noi faccenda d'un istante. L'autista (che non si chiamava ancora così barbaramente) si volge a scrutarci. Forse ci conosce, giacché sorride con aria d'intesa. «Dove andiamo, signorini? - Dove vuole, ma presto. - Bene, bene, allora si fa un giro alle Cascine » e parte come un razzo. Beh, ripeto, c'è di meglio da fare nella vita, anche a essere studenti. Ma, per dir tutto, a nostra parziale giustificazione si potrebbe forse invocare quell'istinto esibizionistico che gli psicologi affermano presente in ciascuno di noi. In ogni uomo, sembra, c'è un attore che dorme: e quando uno non ce la fa a calzare davvero il coturno, bisogna pure s'accomodi di insignificanti buffonate. E finalmente, confesserò che ancor oggi, a tanti anni di distanza, quell'immagine di assassinio davanti alla Cattedrale non è priva d'un suo umile fascino.
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PASSO VIETATO
Un signore del paese si recava a caccia. Erano circa le tre del mattino: un tempo si usciva di buon'ora, per trovarsi all'alba sui luoghi della battuta. La via campestre, oggi forse asfaltata e senza dubbio illuminata a giorno, divallava bruscamente verso un cupo che era ed è passaggio obbligato per chi voglia raggiungere una certa parte della montagna. Il signore, dunque, lasciò le ultime case del borgo e si mise per la via testé detta, alla men pèggio schiarata da un cencio di luna calante. Procedeva tranquillo, bardato di tutto punto, solo badando a non torcersi la caviglia tra il pietrame; e pregustando i piaceri della caccia. I cani, glieli avrebbero menati sul posto i suoi contadini, e in breve la prima brigatella di pernici sarebbe stata levata, e... Procedeva tranquillo; si lasciò alle spalle anche la vecchia croce di legno in cima alla china, e principiò a seguire un ben noto muro a secco. Quando, d'un tratto, avvenne qualcosa d'inesplicabile e di terribile: egli cioè si sentì fermato. Era come se una forza soverchiarne, la quale pareva concentrarsi sul suo petto, gli impedisse di avanzare; o, per maggior chiarezza, come se lui medesimo avesse dato di petto contro un'invisibile barriera. Ed omettiamo le diverse reazioni cui lo straordinario incidente doveva
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dar luogo nell'animo suo; basti qui dire che invano il signore cercò di farsi una ragione, e invano tentò forzare quel blocco di nuovo genere. Alla fine, gli convenne rincasare per la via più corta e riscivolare tremante tra le coltri or ora abbandonate. Tutto questo mi raccontò lui stesso sotto segreto, perché in fondo si vergognava della sua avventura. Ma nei piccoli posti, si sa: e così la faccenda fu ben presto di pubblico dominio, e variamente commentata dai perdigiorno. La generale opinione, comunque, era che il signore si fosse quel mattino trovato in qualche particolare disposizione d'animo (magari conseguente a smodatezze conviviali della sera innanzi), o più semplicemente che fosse rimasto sbigottito dall'orrida penombra della campagna. I più, insomma, non attribuivano all'incidente alcun valore obbiettivo. Per quanto mi riguarda, io, da giovanotto avventuroso, mi ero bensì premurato di fare laggiù un sopraluogo a notte fonda, ma non ne avevo cavato speciali indicazioni: nel senso che avevo potuto oltrepassare senza inceppi il tratto di strada incriminato. E ormai non pensavo più a quella fantastica storia. Tuttavia una sera, tra i soliti sfaccendati in piazza, la noia fece riaffiorare l'argomento. Furono ripetuti i sommari giudizi di sopra citati; cui non si unì, se non con ambigui scotimenti del capo, tal vecchione che era della compagnia. Andati poi gli altri, costui mi guardò significativamente e mi accennò di seguirlo. Aggirammo la chiesa fin dove, di su un greppo, si scopriva il più prossimo orizzonte: avevamo ora davanti il monte protettore del paese, e in primo piano una sua groppa pietrosa coronata da un cerro secco, ben visibile contro la perdurante chiaria del crepuscolo. E qui il vecchio, afferratomi pel braccio, mi fece le seguenti e sorprendenti dichiarazioni. «Vedete,» disse «con quella gente lì sono stato zitto; ma con voi che siete... (si tralasciano le sue lusinghiere qualifiche), con voi si può parlare. Il fatto è che quando la luna sorge di lassù, giusto nel punto dov'è il cerro secco, e pare impigliarsi tra i suoi rami contorti, beh allora tutto è possibile ». Invitato a spiegarsi meglio, riprese: « Quell'albero avrà forse mille anni; io, mio padre e mio nonno lo abbiamo sempre veduto, e sempre così come si vede ades-
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so: deve averci dato il fulmine nei tempi dei tempi. E sicché, come vi dicevo, si è potuto notare che ogniqualvolta la luna sorge di lì, ossia di dietro all'albero (cosa che capita raramente), in paese succedono fatti strani»... e il vecchio si addentrò in una elencazione e descrizione partita di eventi singolari del passato, secondo lui connessi con una simile positura o incidenza del nostro satellite. Ma io ne avevo ormai abbastanza e lo interruppi: «Alle corte, la faccenda del cacciatore sarebbe in relazione colla luna o con codesto suo modo di levarsi: è questo che intendete? ». « Beh, » replicò senza scomporsi « quella notte la luna era sorta proprio di lì dove ho detto. Ad ogni modo io non affermo positivamente nulla; affermo solo, » ripetè a mo' di conclusione « che in un caso del genere tutto è possibile ». Passarono anni, prima che io mi rammentassi del cacciatore, del vecchio, e anche della luna. Quest'ultima, non la vedevo se non occasionalmente, e sempre quando era già alta nel cielo; finché una notte, levando per caso gli occhi alla montagna, la scorsi che appunto sorgeva di dietro il grande albero fulminato. E, dopo un attimo, veramente essa apparve come impigliata tra quei rami scheletriti che, simili a tentacoli, sembravano volerla rattenere a forza. Codesta specie di zuffa ebbe fine, beninteso, colla vittoria della luna: la quale peraltro (a sarebbe detto) non ne uscì del tutto indenne, se le toccò poi arrancare su per il cielo con estrema lentezza e quasi slabbrata o sformata dalla stretta dell'avversario (o forse amante). Quella vista, a buon conto, mi risuscitò dentro l'intera storia di cui sono venuto intrattenendo il lettore: fui preso da una sorta di follia, provai l'irresistibile bisogno d'accertare quanto di vero fosse nei discorsi del vecchio e, in altri termini, di ripetere l'esperienza del cacciatore antelucano. Naturalmente, uscito appena di casa, già mi davo dello sciocco; proseguii nondimeno, con tanto maggior decisione quanto più assurda mi si manifestava l'impresa. Laggiù, la notte era calma, silenziosa; troppo: certo di là dei monti si preparava un uragano. E, quel che è peggio, mi sentivo leggermente turbato; né valeva mi dicessi
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che non avevo alcun motivo per esserlo. In verità, potevo io credere seriamente al racconto del cacciatore o alle chiacchiere del vecchio? No di sicuro... Già, ma allora perché mi trovavo adesso qui? Frattanto, in tale sterile dibattito interiore, avevo passato la croce più sopra ricordata e scendevo a gran passi la via campestre. Il cacciatore stesso, localizzando la sua avventura, si era con molta precisione riferito a un'aia abbandonata, a un pagliaio, a un ulivo torto: che, ecco, mi vedevo innanzi, poco in giù, lungo la strada. Ebbene, perché rallentavo il passo, indugiavo, quasi affascinato e tenuto in rispetto da quelle smorte parvenze? Ma da ultimo mi decisi ed avanzai baldamente: e lì, giusto lì, fui a mia volta arrestato. Preciso anche a questo proposito, colui: era infatti come se una mano di ferro, puntata contro il mio petto, mi impedisse di proseguire il cammino. Al che poi rispondeva come una confusione o un intormentimento dei sensi, e insieme una obnubilazione dello spirito, e ancora uno smemorato abbandono... Ritentai più volte la prova, e sempre fui respinto. E che voleva dir ciò, insomma? o davvero dovevo rassegnarmi ad ammettere un che di tanto improbabile, di tanto lontano da ogni convincimento di ragione? rassegnarmi, infine, a restar vittima d'un sortilegio? Più stupito che sgomento, scrutai dattorno; e, si può crederlo, non vidi nulla di sospetto. Ebbi per un momento l'idea di aggirare il punto morto attraverso i campi, uscendo cioè dalla via e riprendendola più sotto; ma tale idea respinsi come puerile. Pure, alcunché dovevo fare, se non volevo ripiegare angosciato e sconfitto, se non volevo perdere ogni stima di me medesimo. Sedetti su una pietra, cercai di calmarmi e di riconsiderare daccapo la mia bizzarra anzi grottesca situazione. I miei pensieri, così, presero gradatamente una diversa direzione: quella giusta. « Qual meraviglia, » finii col dirmi « che io non abbia veduto nulla di sospetto? L'impedimento è e non può non essere che dentro di me: basta individuarlo e rimuoverlo ». Problema invero non tanto semplice, ma tutto sta nel mettersi sulla buona strada; e la soluzione non tardò, nella persona (se così è lecito esprimersi) di un improvviso, antico ricordo.
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Il famoso professor Gabrielli, che leggeva il pensiero, magnetizzava la gente e faceva mille altre diavolerie, calcava ancora le scene; io, ragazzo, ero in un palco con mio padre. A un certo punto della serata, il gran mago ordinò al pubblico tutto di intrecciare le mani sul capo: indi strabuzzò gli occhi, impregnò del proprio fluido l'atmosfera, e soggiunse: «Stacchi ora le mani chi può». Ed io, insieme con due o tre tipi dolci della platea, ci restai: ossia non mi riusciva più di disgiungere le mie, per quanto tirassi. Inoltre dovevo avere in viso una espressione tanto ebete, che mio padre, sorpreso, mi disse: «Che fai!». E ciò fu sufficiente perché io staccassi le mani e sorridessi di me. Beh, l'applicazione di questo ricordino d'infanzia al caso attuale era agevole: in sostanza, dovevo dirmi: «Che fai! ». O meglio, me l'ero già detto col solo pensare di dirmelo. Ritentato dunque senza più il periglioso passo, lo superai stavolta trionfalmente. E sta bene, ma non per tanto presumo farmi maestro a chicchessia o di chicchessia mi arrischio a farmi beffe: le cose del mondo non soffrono un'unica interpretazione, e il savio (disse il poeta) non discerne la verità.
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L'OROLOGIO
Per rendersi conto di quanto siamo fragili, basta por mente alla minima avventura che mi accingo a riferire: in realtà del tutto insignificante, se non pel riguardo or ora precisato. Ma del resto, pensandoci meglio, chissà che il lettore non giunga a cavarne un'indicazione più positiva. Ero in viaggio da due giorni: treni su treni, senza contare gli autobus, i tranvai, i vaporini, i tassì; dunque sballottamenti a non finire; e fumo e polvere; e sonno arretrato. Quando finalmente arrivai nella città dove intendevo sostare, avevo la testa gonfia e mi bastava chiudere gli occhi per assopirmi, o piuttosto per cadere in una sorta di stupore, travagliato però da trabalzamenti e sussulti che mi rifingevano le circostanze e fatiche del viaggio. Insomma, era evidente che ormai abbisognavo di riposo. Sicché mi dissi: « Qui non c'è da lesinare; mi ci vuole un grande albergo, un albergo di lusso, uno di quelli in cui il cliente è un mostro sacro e la sua tranquillità un punto d'onore per tutto il vario popolo dei locandieri»; e mi regolai in conseguenza. Uditi i miei desideri, mi fu assegnata una stanza particolarmente riparata. Alla cameriera (anzi gentildonna) che con premura si informava se mi mancasse nulla, manifestai soltanto il timore di essere destato troppo presto, l'in-
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domani, da manovre mattutine del personale: allorché qualcuno magari ti tenta e ritenta l'uscio per sapere se sei già uscito. Ma ella sorrise e, riaprendo il mio proprio uscio, mi additò un cartellino pendente sulla sua faccia esterna; il quale da una parte era bianco, e dall'altra recava in tre lingue la scritta: « Si prega di non disturbare ». Era cioè sufficiente voltare il cartellino dalla parte giusta (il che ella medesima fece) per dormire, giorno o notte, altrettanto giusti sonni. Rassicurato anche su questo punto, passai ora all'esame o rassegna della stanza. Beh, una stanza che, come suol dirsi, ne valeva quattro: spaziosa, accogliente; e l'annesso bagno non era dei soliti sgabuzzini in cui se si alza il gomito destro non si può alzare il sinistro, bensì grande quasi quanto la camera stessa; e, per appiccar gli abiti, non i soliti due avari ganci, ma un intero stanzino foderato di legno e fornito in copia di grucce (o, come talvolta son leggiadramente chiamate dalle donne, « omini »), nonché di altri aggeggi da indumenti; e così via con tutte le rimanenti comodità che l'affranto viaggiatore possa desiderare. Né l'insieme si mostrava privo di una certa dignità: i mobili non erano di serie, e perfino scopersi nel comodino (chiedo scusa pel particolare) un vaso da notte di maiolica fiorita, un vero pezzo d'antiquariato. In breve, la ricognizione mi lasciò pienamente soddisfatto; la mia naturale diffidenza, quale di chi affronti luoghi nuovi, si sciolse; ed io mi abbandonai fiduciosamente a quel benigno ricetto. Scivolai tra le coltri, spensi la luce; già già gli occhi mi si chiudevano. D'improvviso un rumorino da nulla, ma ben distinto nel silenzio notturno, un rumorino secco e brusco mi fece sobbalzare. Non ci badai, pure, stimandolo uno dei tanti suoni occasionali che riaffiorano quando sia spento il frastuono del giorno; se non che, in capo a un tempo assai corto, quella specie di leggero schianto o scatto si ripetè; e di nuovo si ripetè dopo alcuni istanti. Allarmato, riaccesi la luce e scorsi alla prima, sopra l'uscio, un oggetto sfuggito alle mie precedenti osservazioni: vale a dire un di quei dannati orologi che hanno carica praticamente infinita,
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ossia che si ricaricano da sé, ma non senza dar luogo a codesti petulanti ed ineluttabili rumorini. Nella fattispecie, secondo mi fu facile constatare, l'orologio che avevo innanzi emetteva i suoi segnali allo scadere di ogni minuto primo. Sommando, ora, a una nativa instabilità nervosa la grande eccitazione generata dalla stanchezza, si può immaginare il mio avvilimento e quasi terrore: quel suono invero, sebbene contenuto, era più di quanto occorresse per impedirmi di prendere sonno, e ciò soprattutto in relazione alla sua implacabilità. Non ne avessi riconosciuto il ritmo, dico, mi sarebbe forse stato possibile sfuggirgli, o almeno non sarei stato forzato ad attenderlo di minuto in minuto, con una tensione spasmodica dei sensi; tensione che, giusto di minuto in minuto, si fortificava colla sua puntualità al convegno... D'altra parte, che fare? chiamar qualcuno, cambiare stanza? Non ne avevo più la forza, tolto pure che s'erano fatte le due del mattino. Meglio valeva studiarsi di riportar l'ordine nella confusione dell'animo con mezzi meno empirici. Cercai di dominare lo sgomento e di risolvere il caso per sola forza di ragione. Il problema che mi si presentava era in sostanza quello di riuscire ad addormentarmi nello spazio d'un minuto: ebbene, non era forse problema insolubile. Ad esempio, molte volte avevo avuto occasione di osservare quanto opinabile sia il tempo, non solo come valore assoluto o metodo universale, ma anche, più modestamente, come sequenza o durata: un minuto cioè, che considerato alla buona è tempo brevissimo, può in determinate circostanze risultare intollerabilmente lungo (e d'altronde tutti lo sanno). Per conseguenza io non avevo ora che da pormi o fingermi nelle debite circostanze, che da provocare una dilatazione del tempo... eccetera con bubbole di diverso tenore. Ben presto, voglio dire, mi avvidi che questo indirizzo razionale era in realtà il meno atto a trarmi d'impaccio, proprio in quanto comportava una certa tensione dell'intelletto (avversa all'invocato sopore). Né miglior sorte ebbi con alcuno dei numerosi e più pedestri mezzi in uso tra coloro che (si legge sulle cartelle della tombola) « duran fatica a prender sonno». La mia lotta contro il tempo,
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opinabile o meno, s'era qui fatta davvero impari: lui aveva dalla sua, non solo l'estrema brevità delle soluzioni, ma soprattutto lo sconcerto che aveva saputo gettare nel mio animo. Ogni mio tentativo, con quel brigante appostato al canto di strada, era destinato al fallimento; e difatto fallì, e ogni volta mi ritrovavo seduto sul letto, gli occhi sbarrati, fissi sull'orologio che del tempo era l'implacabile strumento. Venne pure, il momento della riscossa, ma allora fu anche peggio: a costo di sforzi inauditi o di torbida languidezza e di sprezzo del pericolo mi riusciva di addormentarmi, magari profondamente, salvo che, entro un minuto, mi destavo (o meglio ero destato) di soprassalto... In conclusione, una notte d'inferno. Da ultimo, coll'alba, col totale esaurimento ormai delle forze, ma in ispecie coll'affondare e poi annegare del diabolico rumorino nei maggiori rumori dell'albergo e della strada, da ultimo caddi non so come in un sonno di piombo; il quale fu tuttavia di breve durata e non servì per nulla a ristorarmi. Levatomi rabbioso e più stordito della sera innanzi, non pensai che a fuggire. Desideravo, ecco, riparare in uno di quegli alberghini di terza o quarta categoria, graveolenti se ci corre, in cui non sono orologi elettrici alle pareti: in cui, ti manchi qualcosa, hai un bel seviziare il pulsante del campanello, nessuno accorre; in cui, per dir tutto, ti senti abbandonato da Dio e dagli uomini, e pertanto libero di suicidarti o (qui volevo giungere) di seppellirti nel sonno. Era presto; il primo sole dorava anzi arrossava il selciato, che si intrawedeva di là dalla bussola. Il portiere di giorno, appena entrato in servizio, aveva il viso fresco, disteso, e gli occhi ancora gonfi di sonno: aveva dormito da pascià, lui. Stropicciandosi le mani, mi chiese per mera sovrabbondanza di cuore: « Passata una buona notte? ». «Oh sì,» mentii «il vostro è un albergo confortevole. Solo che... ». « Qualcosa che non andava? » domandò con espressione quasi d'orrore.
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« Beh, se mai, quell'orologio... ». « L'orologio elettrico sulla porta le ha dato noia! ». « Già: come fa a saperlo? ». « Lei non è il primo a lamentarsene. Eppure è così facile: uno ferma col dito la lancetta; sulla punta dei piedi, ci si arriva benissimo. In ogni caso, poteva chiamare ». « E, fermata la lancetta, cosa succede esattamente? ». « Che si ferma anche lui, l'orologio, e non se ne parla più». « Ma guarda! » esclamai con tutta la poca animosità di cui ero sul momento capace. « Eh sì, » ripetè senza rilevare « è facile. Perché, lo capisco, a certuni quel rumorino secco dà fastidio: magari non riescono ad addormentarsi ». E, a tutto ciò, un solo fuggevole commento: che questa storia non è tanto una storia di orologi, quanto di tempo in persona. Sempre, il tempo è sul punto di scadere, e sempre è appostato sul canto della via.
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UN CASO PALMARE
Appena rientrato nella sua misera camera d'affitto, e prima ancora d'accendere la luce, l'uomo fu investito da una singolare sensazione: come un avvertimento segreto o un sottile senso d'allarme o chissà che. La camera insomma non gli rendeva la solita e in genere bonaria atmosfera, bensì pareva, se non crucciata, turbata almeno e quasi in sospeso. Ma probabilmente ciò era dovuto solo a qualche imprecisabile intervento: poniamo, una mano straniera che avesse sconvolto l'ordine meticoloso delle sue carabattole, nella quale eventualità a lui sarebbe bastata un'occhiata per individuare il guasto... E pur vero che lì non entrava mai nessuno: la stanza aveva ingresso sulle scale, la padrona abitava lontano e si disinteressava del proprio inquilino. O, se non la padrona, chi? un ladro forse? Tutto questo d'altronde era, per dir così, a priori, avendo le riferite considerazioni trovato posto nel breve tempo necessario a sollevare una mano e girare la chiavetta di un interruttore. Sicché l'uomo accese ora la luce, e si guardò intorno con una certa ansia. Ma, contrariamente ad ogni aspettativa, di prima giunta non vide nulla: nessun cambiamento apprezzabile nella disposizione degli oggetti o nella generale fisionomia della stanza. Oh, ma allora? donde al-
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lora l'inquietante sensazione, che non accennava a dileguare ed anzi usciva rafforzata da quella rassegna preliminare? «Senza dubbio,» pensò egli «non ho guardato bene »; e si accinse a un'indagine più minuziosa. Era, lo si è già accennato, un uomo metodico; egli dunque, innanzi tutto, divise mentalmente la stanza in settori, quindi principiò l'esame da quello che gli stava più a cuore: quello cioè in cui si trovava lo scrittoio, con relativa seggiola e cestino della carta straccia e scaffale di dizionari a portata di mano. Su tale scrittoio aveva lasciato un'ora prima un fascio di fogli scomposto: se davvero qualcuno si fosse introdotto lì durante la sua assenza, era da scommettere che non avrebbe mancato di curiosare tra quei fogli, e sarebbe stato facile rilevare la traccia di codesto indiscreto passaggio. Ché i fogli stessi erano solo apparentemente scomposti, in realtà avevano un loro speciale verso o sesto, da lui ben osservato al momento d'uscire e che nessuno avrebbe potuto minimamente alterare senza denunciarsi; per dir tutto, l'uomo era, quanto a certo suo ordine personale (e alle cautele destinate a proteggerlo), addirittura un maniaco. Ad esempio, egli ricordava perfettamente che il primo foglio del fascio, un po' in torcere rispetto ai sottoposti, era rimasto col margine inferiore distante non più d'un pollice da una minuta tacca sul piano del tavolo: e in questa medesima posizione, a questa precisa distanza dalla tacca, lo ritrovava ora. Un momento però: che l'ipotetico intruso si fosse contentato di chinarsi sul fascio e di scorrere unicamente il primo foglio? No, per farlo avrebbe quasi certamente dovuto sostenersi appoggiando mani o gomiti sul tavolo, ossia lasciando alcuna impronta sulla leggera coltre di polvere ivi stesa: che invece appariva intatta... Sempre più stupito, l'uomo volse la sua attenzione ad altri oggetti. (Ma qui calza forse una parentesi, che del resto servirà a meglio definire il personaggio. Come mai questi si mostrava tanto sollecito di quei fogliacci, vorrà sapere il lettore: cosa contenevano essi? Le sue poesie, che diamine). La spazzola da indumenti sul canterano, usata in fretta al momento d'uscire e gettata lì negligentemente, risultava poco innanzi per metà incavalcata sulla compagna da capelli: e in tale (oseremo dire) attitudine appariva tutto-
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ra, non deviata né spostata d'un millimetro. Il tubetto del dentifricio, stato abbandonato in precario equilibrio sulla sponda del lavandino, era sempre lì, quando a farlo sbilanciare sarebbe bastato il vento di una persona in moto. E, nell'armadio, i pochi abiti avevano la stessa aria sinistra di un'ora addietro, ciascuna gruccia serbando il debito orientamento. « O allora? » si ripetè l'uomo. Al quale però, dopo ulteriori indagini ed interni dibattiti, ed autoconsultazioni che gli ridavano al vivo la sua inquietudine, non rimase se non coricarsi e tentar di annegare nel sonno l'incidente. Ma ecco, in capo a breve tempo fu ridestato da un discreto grattamento che sembrava provenire di sotto il tavolo o giù per lì. Accesa di colpo la luce, la causa del rumore apparve subito manifesta: un piccolo topo si ingegnava con tutte le sue forze a far passare un pezzettino di cioccolata attraverso un angusto varco dello sconnesso parché. Per intenderci, il pezzettino di cioccolata, fortuitamente caduto in terra, era di quelli che lui soleva sgranocchiare mentre vergava le sue poesie. Ma, piuttosto, converrà adesso chiedere al lettore una certa attenzione. La presenza del topo, si domanda, non avrebbe dovuto essere risolutiva? Una volta isolato il motivo della sua imbarazzante sensazione, una volta scoperto il responsabile o intruso di cui sopra, l'uomo non avrebbe avuto che a mettersi il cuore in pace ed a considerare archiviato il caso: o meglio, il suo disagio avrebbe dovuto cadere di per se stesso e sull'atto. E invece no, invece egli si avvide, sentì dentro, che questo benefico effetto non s'era prodotto: il disagio, il turbamento, l'ansia, tutto ciò sopravviveva a qualunque circostanza chiarificatrice. Ora sì che la faccenda diventava seria! Preso da una specie d'orrore, l'uomo balzò dal letto nell'intento di chiedere soccorso a un caro amico, di professione filosofo. L'amico, da cattivo (o chissà ottimo) filosofo, passava la notte e buona parte del giorno a dormire; dormiva comunque sul momento. Svegliato, borbottò qualche garbata maledizione; indi stette a sentire di che si trattava. Udito il tutto, si volse altrove con un'alzata di spalle, come chi non stimi neppur necessaria (in quanto troppo ovvia) una risposta, e finse di armeggiare colla macchinetta del caffè.
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« Ehi, » protestò l'altro « e sicché cosa puoi dirmi? ». « Ma vuoi fare il chiasso? » si decise a replicare il filosofo severamente. « Il tuo caso è semplice, lampante, palmare, e per simili bazzecole non c'è bisogno di destare la brava gente che dorme ». « E avanti, illuminami ». « Possibile non lo capisca da te? ». « Non lo capisco ». « Eppure tutti gli uomini, prima o poi, ci arrivano ». «A che?». «A codesto punto. Via, » riprese ormai pazientemente, come si fa coi bambini o coi grulli « tu sei rincasato, dici, e d'un tratto hai sentito che qualcosa non ti tornava? Beh, sei ancora fortunato, dico io, che un fatto del genere non ti sia capitato prima ». « Scusami daccapo, non ti seguo ». « Oh santo cielo. La tua casa: che cos'è la tua casa? ». «Ma... il luogo dove trascorro alla men peggio la mia vita». « Ecco, vedi: la tua vita. Ebbene, a un certo punto, a un certo fatale ed inevitabile punto, la tua vita non ti torna più: questo è tutto. Che c'è di strano? Strano, in fede mia, sarebbe il contrario: che tu seguitassi fino alla morte ad essere più o meno soddisfatto della tua vita, delle tue intraprese o (per microscopico esempio) delle tue poesie. E sai, non serve cercare un motivo preciso di ciò o studiarsi d'addossarne la responsabilità ai topolini di passo: è così perché sarebbe troppo bello che fosse altrimenti... Un bel giorno, senza preavviso, le cosiddette familiari parvenze ti divengono estranee, perfino ostili; e... ». Qui però al filosofo parve d'aver già troppo parlato, ossia d'aver troppo sminuzzato il pan degli angeli; per cui concluse infastidito: « Ora poi, convinto o non convinto, lasciami dormire. Auguri». E, cingendogli le spalle, sospinse verso l'uscio l'amico. Il quale avrebbe voluto eccepire alcunché, ma non ebbe il tempo e si ritrovò fuori; e, alquanto stordito, incerto, perplesso, riprese tristemente la via della propria casa, dove nessuna benigna intimità più lo aspettava. Responso un po' sommario, infatti, quello del filosofo. Ma, a pensarci, più che sufficiente.
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STORIE DI CIVETTE
Se dovessi fare la storia partita dei miei rapporti colle civette non la finirei più, tolto pure il rapporto tradizionale e in certo senso doveroso, ché, non sono esse le naturali amiche di noi vegliatori? Il fatto è che io trovo questi uccelli assai amabili; le loro grida, per altri sgraziate e malaugurose, a me suonano singolarmente ben intonate, patetiche, estrose, quali le mille voci del gatto. Gatte dell'aria, invero, possono chiamarsi le civette; e anche poeti o poetesse dell'aria, nel senso che ambediìe queste razze di viventi, i poeti e le civette, hanno per particolarità di vegliare la notte e di emettere versi più o meno gradevoli e modulati. Ma lasciamo le brillanti divagazioni. Quasi consce della mia simpatia, le civette non mi sono in genere avare della loro presenza: una primavera, perfino, una madre mi menò sulle acacie della corte l'intera sua prole. I civettini, in numero di quattro o cinque, stavano lì sui rami tutto il giorno, immobili nella loro bella posa emblematica: oggetto invece di orrore per la fante, che ogni volta esclamava: « Uh come son brutti, e portano male », e avrebbe voluto scacciarli; il che, si capisce, non permisi. Col procedere poi della stagione si dispersero, ciascuno seguendo il proprio destino. E furono egualmente le civette, a rallegrarmi durante
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un mio soggiorno nelle patrie galere. All'imbrunire si raccoglievano in molte sui tetti del tristo luogo; e, tra loro e i prigionieri, correva una sorta di tenzone. Questi ultimi le ingiuriavano, battevano le mani per metterle in fuga, berciavano in tutti i toni; ed esse, punto sgomentate, parevano accettare la sfida e rispondere per le rime. Sì, me ne rammento una su quell'angolo di tetto che si vedeva dalla mia cella: stava zitta, guardava in giù sporgendo e stravolgendo il capo: e, quando dal cortile sorgevano i detti schiamazzi, replicava a gran voce nella sua lingua, simile insomma a una comare che leticasse su per le scale coi vicini. E, prima di finirla col tempo andato, voglio ancora ricordare un casetto per cui vado a tutt'oggi orgoglioso. Avevo composto una poesiola, che di notabile conteneva solo il seguente verso: « Civetta, non puoi tu guardarmi in viso?». Ebbene, pochi giorni dopo, mentre ero seduto a frescheggiare, mi sentii osservato: protendendosi alquanto da un occhio (cioè tondo finestrino) del solaio, una civetta mi guardava in viso fissamente, e tentava meglio affigurarmi con leggeri movimenti del capo, o piuttosto di quelli che possono ben essere chiamati i suoi sopraccigli (difatto era ancora giorno, come dire che per lei era ancora notte). Ci scrutammo così per un bel tratto e, osai sperare, con reciproca benevolenza. Poi, distratta da qualcosa, si volse altrove stiracchiandosi, allungando un po' sinistramente il collo, traballando e studiandosi di penetrare la luce; finché volò via silenziosamente. Anche questa in corso è annata di civette, sembra; ma stavolta esse mi danno seriamente pensiero, se non altro perché mi mostrano del tutto inadeguate le mie facoltà di indagine, che pretendevo considerevoli. Ecco. Due giorni fa mi son trovato una civetta in casa; dove però (qui il punto) ? in una fila di stanze chiuse, ossia di quelle che nessuno frequenta magari per un anno intero, come se ne dà in tutte le vecchie case. Codeste camere in parola, poi, ero ben certo che fossero rimaste inviolate da tempo immemorabile; nondimeno, entratovi io per mero caso, la civetta mi frullò davanti ed andò ad appollaiarsi
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in atteggiamento palladio (o dureriano) sulla cornice d'uno stipo. Incalzata da me, che desideravo soltanto ammirarla, rivolò via per finire addirittura in terra, donde trassi che era esausta: chissà da quanto si trovava lì dentro. Beh, ma perché ci si trovava? Intendo, in qual modo o per quale via c'era arrivata? E, in qualunque modo ci fosse arrivata, come mai non le riusciva d'andarsene per la stessa via? Ciò dovevo ovviamente chiedermi, e mi chiesi; ma poi, passato il momento e socchiusa una finestra per cui la misteriosa visitatrice riprese il largo, non ci pensai più. Se non che, giusto ieri e in quelle medesime stanze, di codeste visitatrici ne ho sorprese due... Eh no, era una sfida bell'e buona; ormai la cosa non poteva finire così, occorreva darsi da fare. Di dove piovevano lì dentro le civette, si ripete? Sicché mi son dedicato, ieri stesso, a un'indagine sistematica quanto delusiva. In quelle antiche stanze le imposte tengono male, concesso. A una finestra, d'accordo, manca una listerella di legno: ma per tale fessura potrebbe tutt'al più passare un topolino di nido, non certo una civetta. O che altrimenti? La travata ha di sopra un solaio, luogo accessibile ad ogni uccello notturno e diurno: ma gli è che appare intatta, o perlomeno non tanto sconnessa da lasciare varchi; e lo stesso si dica degli usci. E altro, cioè altra via d'ingresso, per conto mio non so immaginare. Concludendo, m'è toccato rassegnarmi a considerare inesplicabile la presenza delle civette lì dentro, e consolarmi nel solito magro modo (ossia che non tutto si può spiegare). Quanto invidio quei tali investigatori che, se scoprono un cadavere in un posto con porte e finestre sprangate dall'interno, in capo ad appena due paginette di ragionamenti ti dichiarano come quattro e quattro otto di dove è entrato l'assassino. Ma non è finita. Questa mattina medesima, sempre nella corte alberata, sono d'un tratto rimasto assordato da un gran volo e frastuono di promiscui uccelletti. Levati gli occhi, ho visto che inseguivano, in frotta e in coro, una civetta: la quale ha traversato a bassa quota la corte recando tra gli artigli una preda, senza dubbio un passerottino, e si è fermata sull'architrave d'una porta. Spettacolo raro e in
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ogni caso rivoltante, che inoltre minacciava di scatenare certe mie morbose perplessità... Se vedete una mosca, ancora ronzante e palpitante, imbozzolata da un ragno, il vostro primo impulso non è di salvarla? Tuttavia anche il ragno ha da vivere, e non è per malvagità che sevizia barbaramente la mosca, sibbene per dura legge naturale. E così, avrei davvero avuto io il diritto di strappare alla civetta la sua sudata pastura? Eccetera, più o meno sensatamente. Per fortuna, questa volta non ho avuto bisogno di farla troppo lunga: giacché, posatasi appena sull'architrave della porta, la civetta si è lasciata sfuggire il passerotto; e, mal salvando la faccia, è ripartita straccamente verso i propri reconditi quartieri diurni. Anche la ciurma degli inseguitori, avendo ormai ottenuto lo scopo, si è dispersa senza più badarle. Intanto la progettata vittima era corsa balzelloni a rifugiarsi in un folto d'erba tra le aiuole: da cui non è stato facile cavarla. Ma non la potevo abbandonare a se stessa, sarebbe cascata subito in bocca a qualche gatto. Un passerottino di prima piuma. E ferito (dagli artigli) al capo e all'ala sinistra, non sembra però cosa grave. L'ho messo in una gabbietta, ma non ha voluto starci: batteva con tanta forza contro le sbarre, che già sanguinava d'intorno al becco. Allora l'ho lasciato libero in una stanza vuota, fornendolo beninteso di miche inzuppate nel latte, d'acqua, e insomma di tutti i soccorsi del caso; ma lui, invece d'essermi grato di queste premure, quando mi vede è come vedesse il diavolo. Gli ho perfino messo una frasca in un angolo: e lì corre a rintanarsi, trascinando l'ala ferita, se appena sente il mio odore. Bisogna compatirlo, si sa, colla terribile impressione che deve aver provato. Del resto un'ora fa lo ho spiato dal buco della serratura, ed ho constatato che, credendosi solo, faceva entusiasticamente onore alla modesta tavola. Tutto sommato penso che tra un paio di giorni potrò restituirlo, ormai accorto contro ogni razza di predatori, al suo vasto mondo. E sta bene, ma le perplessità di cui più sopra mi rientrano ora per la finestra: anche lei, dico, la civetta, la bieca
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che voleva levare dal mondo questo grazioso passerotto, anche lei poverina... Pensate: perché una civetta si decida a mettersi in caccia di giorno, brancolando nel sole e con quella volatile, petulante marmaglia pronta a saltarle addosso in fronte comune, occorre proprio che sia affamata e non sappia dove altrimenti battere la testa. Il passerotto, seppure un po' malconcio, ha qui tutto quanto gli serve; lei, cosa s'imbandirà per il suo pranzo di mezzanotte?
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NINO
Il mito dell'incontro, così vivo in alcuni poeti, è certo dei più cattivanti, e ciascuno di noi annovera qualche ricordo di quest'ordine. Non so: una donna pietosa (e bella, si capisce) incontrata nel momento dello sconforto, un caro amico in terra straniera, o soltanto un animale, un fiore... Ma propriamente l'incontro, quale lo intendo qui, è un che di ignoto e segreto, di fatale, di promesso ai rimpianti quando pure in sé lieto. Se ad esempio vi capitasse d'incontrare lungo le vie del mondo un angelo del cielo, e precisamente un cherubino, non ve ne rimarrebbe poi sempre un senso di rimorso per la vostra greve umanità terrena? A buon conto io l'ho incontrato una volta, codesto cherubino: salvo che, più tardi, il caso o le mie insane curiosità hanno provveduto a ripresentarmelo sotto diverso aspetto. Vedo del resto che, per risultare intelligibile, mi converrà tenere linguaggio più concreto. La località dove mi trovavo a villeggiare non era un posto di lusso o frequentato da gente di qualità, tutt'altro: era un modesto paesino il cui principale anzi unico vanto consisteva in estesi boschi che serravano da presso l'abita-
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to. Boschi, sebbene fitti, non troppo ingombri da vegetazioni subalterne, ed abbastanza solitari perché io mi vi aggirassi con delizia; in un dei quali appunto, una mattina di primo agosto, feci il mio incontro meraviglioso. M'ero spinto innanzi tra gli alberi, forse un po' più innanzi del solito, e cioè fino a una valletta sconosciuta. Esultavo per la purezza del cielo, ancorché contesa da rigogliose chiome; deploravo il mal consiglio dell'uomo, che ha disertato le sue sedi naturali. Infine, mi abbandonavo alla consueta retorica del cittadino in campagna; quando udii sfrascare su pel declivio della valletta, o piuttosto forra. Mi preparai dunque a veder apparire una libera creatura delle selve: una lepre, una volpe, un tasso? La creatura, in verità non meno libera, che apparve fu viceversa della mia stessa specie: un bambino. Un bambino completamente nudo, tutto roseo, tutto ambrato, tutto tenero e delicato eppure ardito tanto da affrontare i rovi del bosco. Poteva avere un quattro anni. Vedendomi, non mostrò meraviglia né timore, anzi venne avanti e si accosciò ai miei piedi: dove prese a baloccarsi per conto suo, strappando fili d'erba, raccogliendo sassolini. Pareva non badarmi, ma di tratto in tratto lo sorprendevo a scrutarmi intentamente. Tutto sommato, era quello il suo modo di salutarmi, quel fiducioso abbandono. Dopo il primo silenzio, volli fargli festa, accarezzarlo, interrogarlo: dov'era la sua casa, la sua mamma, come mai lì in quell'arnese? E lui si degnava bensì rispondermi, se non che con evanescente borbottio e in una lingua press'a poco incomprensibile (per me forestiero, o per me mortale). Intesi soltanto, mi sembrò intendere, che il suo nome fosse Nino. Poi venne il solito terribile momento: quando l'oggetto del nostro interesse ci sta davanti remoto, irraggiungibile... Cosa dovevo fare o dire, in qual modo stabilire una salda comunicazione con quel puttino, in qual modo propiziarmelo? Finii coll'adottare il mezzo comune, il più abbietto: gli offrii una moneta d'argento. Lui la guardò appena, nella sua propria palma, ma in essa la chiuse e tenne stretta. Indi riprese a baloccarsi: aveva scoperto sui cesti d'erba certe minute bacche o sporangi, che si divertiva a pestare tra
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due pietre. Restammo così per un tempo, tacendo ormai, come assortì, felici in fondo l'uno dell'altro ed ambedue di tutto ciò che ci circondava. Or ecco di là dalla forra si levarono voci argentine, e una femminile che manifestamente chiamava; alla quale Nino, sfoggiando (come alcuni minuscoli uccelli) un'insospettata potenza canora, rispose colla sola frase intelligibile che mi fu dato udire da lui: « Aspetta 'nu po', aspetta 'nu mome'». Cercando di penetrare coll'occhio il frascato, intravidi infatti, laggiù di fronte dove il bosco si diradava, il tetto di una misera casipola: che del resto avrei ben potuto prevedere. Volevano separarci, ad ogni modo, l'incanto era rotto; quel che è peggio, sentivo io stesso, quantunque fiero della sua renitenza all'appello, il dovere di rendere quel fantolino nudo alla sua mamma o sorella maggiore. Lo esortai a rincasare; ma non si moveva. Per aiutarlo, ed essendosi fatta la mia ora, con un'ultima carezza mi levai ed allontanai di qualche passo: rimase tuttavia dov'era, ma smise di giocherellare colle sue pietruzze per fissarmi attonito. E cosa passava nel puro cielo dei suoi occhi: un'ombra di rimprovero, forse? Allontanatomi ancora e voltomi a fargli addio, lo vidi, tutto ritto e macchiato di sole, che mi seguiva con uno sguardo serio... Aveva ragione: perché il suo nuovo amico, colui che gli aveva regalato la lucente, l'eccitante moneta, doveva così dileguarsi nel bosco? O così appunto si sarebbero poi sempre dileguate le presenze benigne nel bosco della sua vita? (Ma queste melensaggini appartenevano a me, non a lui). Non ebbi più occasione di tornare da quelle parti, ché pochi giorni dopo ripartii. E questo è tutto; non fosse che di recente, e cioè a vent'anni circa dal descritto incontro, mi son ritrovato in quei paraggi. La meta della nostra gita era veramente tutt'altra; ma, a un dato momento, mi son balenati aspetti vagamente familiari: una piazzetta con un platano da canto, una botteguccia di mereiaio, un caffeino con insegne rosse. In breve, stavamo attraversando la parte inferiore di quel tale paesino; ed io, preso dall'improvviso e malin-
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conico desiderio di rivedere i luoghi del mio antico soggiorno, ho pregato i cortesi amici che mi scarrozzavano di risalire la via fino alla parte superiore. Lassù non tutto si trovava al suo posto: due o tre ripicchiate palazzine da villeggianti occupavano il selvatico giardino pubblico dei miei tempi; ma intatta appariva la casa che mi aveva ospitato, e intatto il bosco alle sue spalle. Io però non ero ancora contento e cercavo ancora qualcosa, chissà che. Ovvero, sì, desideravo rivisitare anche il bosco; e i cortesi, lasciata la macchina in un posteggio di fortuna, pazientemente mi seguirono in questa nuova fantasia. Strada facendo, li informai della mia piccola avventura di vent'anni prima; e uno, penetrando meglio di me i miei sentimenti: « In altri termini, tu vorresti ritrovare Nino? ». « Già, forse » replicai, colpito dalla ovvietà dell'enunciazione e, in una, dall'assurdità od oziosità dei miei propositi. Giunti alla forra, non fu facile varcarla. Ne riemergemmo in vista d'una casetta oltremodo modesta, evidentemente la stessa da me intraveduta quel lontano giorno: davanti a cui, seduto a un rustico deschetto, un giovane atticciato, mal rasato e copiosamente baffuto andava imbullettando una grossa scarpa, di momento in momento aggiustandosi la sdruscita berretta che recava in capo. Il quale, udendoci avvicinare, fece le viste di nulla e seguitò a tenere gli occhi bassi sulla sua bisogna. Gli amici, non senza malizia, si premurarono di cedermi la parola; sicché io: « Buongiorno! (Nessuna risposta). Aria fina quassù, eh? (Come sopra). Che bella campagna: di questa stagione dev'essere un piacere vivere qui ». E stavolta, finalmente, ottenni in risposta una specie di grugnito. Ma d'un tratto mi sentii positivamente ridicolo: potevo forse chiedergli bellamente: « Scusi, è lei quel bimbo nudo che vent'anni fa raspava a quattro zampe pel bosco qui di fronte»? Poiché tacevo, lui da ultimo si decise a levar gli occhi: una guardatura torva, amara, come è sovente quella dei campagnoli appetto dei cittadini o supposti tali. E disse in tono brusco, quale risposta generale alla nostra presenza e alle mie chiacchiere: « Ma a voi che vi serve? ».
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Nulla, nulla, si capisce; e già ci affrettavamo a battere in ritirata, io deluso, allorché dall'interno della casa qualcuno dette la voce, interpellando il giovane su noi medesimi. Il che per avventura ci rivelò il suo nome: Nino. La mia trista curiosità era in tal modo soddisfatta, ma non avevo da menarne gran vanto: Nino quell'uomo torvo e scorbutico? Eppure, dovevo esserci preparato: si sa, è sempre pericoloso confrontare un uomo colla sua immagine celeste.
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IL MAESTRO
« Ti piacerebbe conoscere Y? » mi chiese l'amico incontrato per caso (più vecchio di me e già laureando). « Magari! ma come? ». « Semplice: mi sto appunto recando da lui, che mi ha preso a benvolere; tu vieni con me, io ti presento, ed è fatta». Figuriamoci se non accettai. Yera personaggio noto ed importante: letterato innanzi tutto, ma poi anche mezzo storico, mezzo filosofo, mezzo sociologo, e infine quel che si dice un maestro; la cui influenza sulle giovani generazioni fu difatto notevole. Era inoltre uomo di difficile accesso, sì che esser ricevuti da lui costituiva una specie di lettera credenziale. A vero dire, non mi sfuggì una certa arietta maliziosa dell'amico; ma lì per lì la attribuii al divertimento che egli si sarebbe ripromesso dal vedermi forse turbato in presenza di tanto uomo. Lasciai dunque correre, e procedemmo per la più corta verso la dimora magistrale. Fummo accolti da una prosperosa ragazza in cuffia bianca; la quale, dopo un'anticamera non più che ragionevole, ci introdusse nello studio del nume. Costui, che davvero appariva personaggio solenne, ci additò graziosamente due poltrone, e tornò nella sua dietro la scrivania;
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indi si mise a discorrere coll'amico di qualcosa che non posso ricordare. Non posso, perché nel frattempo io contemplavo affascinato, in uno scaffale alle sue spalle, la lunga fila delle opere che per noi giovincelli erano altrettante bibbie. Ma mordevo il freno; e, appena ne ebbi l'opportunità: « Che cosa pensa, maestro, dell'ultimo romanzo di N.? ». (Romanzo assai discusso in quel torno, e non solo per motivi letterari). Così aggredito, il maestro lasciò passare alcuni secondi guardandomi in tralice; poi rispose: «Vi furono pittori che sorpresero la realtà, fosse paesaggio o anche figura umana, attraverso cocci di bottiglia; altri che la ritrassero, o argomentarono, dalle vignette delle scatole di fiammiferi ». Rimasi alquanto perplesso: si trattava evidentemente di una risposta indiretta ed analogica, ma gli è che neppure come tale mi tornava. Detti una sbirciata all'amico, che mi rese un nuovo ambiguo sorrisino. « No, » insistetti « volevo dire che il generale sentimento della vita, quale emerge dalla prima parte del romanzo, non basta poi a sostenere i gravi eventi della seconda... O mi inganno? ». E stavolta, dopo la solita pausa, la sorprendente risposta fu: « Oh Dio, ma guardiamo fuori dalla finestra, invece di volgere sempre lo sguardo al chiuso delle nostre stanze. Lì, lì per esempio: son galline quelle, o no? (Egli abitava infatti nell'estrema periferia, quasi in campagna, e infatti volatili di varia razza si scorgevano tra i cavoli d'un orto sottoposto). Ora, cos'è una gallina? Glielo dirò io: è un essere tenero, affettuoso e gentile, altro che! Ha il cervello piccino, si afferma, ed è vero: oh bah come se la gente si misurasse dal volume del cervello! ». E si tacque in tronco. Eh no; benché la mia reverenza non avesse fatto che aumentare in ragione dell'oscurità di quelle repliche, io ci perdevo il capo. Che diavolo c'entravano adesso le galline, o in qual maniera codeste dicerie potevano essere ricondotte a fungere da risposte ai miei animosi quesiti? In ogni caso, volli tentare ancora: « Capisco... credo di capire. Ma l'autore non tiene con-
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to, a quanto sembra, di simili presenze benigne: il suo mondo è tutto incentrato intorno a duri, a spietati nuclei d'esperienza... ». E lui: «Vero è che mai ci dimostriamo più noi stessi, di quando ci studiamo di non esserlo ». E quest'altra uscita di che sapeva? Ciascuna di tali sentenze o apoftegmi poteva magari star bene da sé, ma certo non aveva alcuna relazione col nostro argomento. Sicché, in una colla reverenza, cresceva il mio imbarazzo; il quale ultimo, tuttavia, rinfocolava per converso la mia giovanile petulanza: « Ma no, maestro. Ecco, cercherò di spiegarmi con maggior precisione... ». « Qualunque visione del mondo, » interruppe « è alla fin fine accettabile, purché rappresentativamente, e sto per dire figurativamente, legittimata». Beh, si andava un po' meglio: questo, sia pure spicciativo e sia pure alla lontana, poteva in qualche modo applicarsi al proposito. Restai zitto ruminando; e il maestro ne approfittò per volgersi, con lento giro d'occhi, all'amico e per riprendere con lui un precedente detto. Del resto, avessi voluto ancora replicare, non ne avrei avuto il tempo: pochi istanti appresso ci fu chiaramente significato che l'udienza era finita. « E allora: soddisfatto della tua visita al grande Y? » mi chiese l'amico quando fummo fuori. « Mah, presto per raccapezzarmi. E innanzi tutto, le sue risposte ai miei quesiti sono state a tal punto ardue, che ci devo riflettere ». «Ah sì, ah sì, ci vuoi riflettere?» motteggiò, dando ormai in riso aperto. « Ma dunque non hai capito niente? ». « Cosa c'era o c'è da capire? ». «Yè sordo». «Sordo! ». « Come una campana. Epperò, se uno lo interroga, lui risponde la prima cosa che gli passa per la testa; oppure, in mancanza d'ispirazione, si aiuta con ciò che sul momento gli cade sott'occhio (così si spiega lo straordinario intervento delle galline nella vostra conversazione di alta
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letteratura). E poiché nessuno avrebbe il coraggio di chiedergli davvero delle spiegazioni... Già, anch'io ci sono stato un bel po', prima di scoprire il trucco ». « E va bene, ma il motivo di queste manovre? O devo supporre che un uomo della sua levatura si vergogni d'essere sordo? ». « Supponilo, carissimo; che vuoi, perfino i grandi della terra hanno le loro debolezze ». « E non si vergogna piuttosto di gettare in tal modo lo sconcerto nelle vergini coscienze dei suoi discepoli? » dissi, bruscamente trapassando dall'ossequio all'accusa, furioso per essere stato insomma beffato. «Adagio,» obbiettò l'amico «la durezza d'orecchio sarà il suo motivo primo e irriflesso; ma in realtà nel suo comportamento si potrebbero vedere ulteriori motivazioni, ovvero individuare alcune più o men volontarie implicazioni». « Evviva la chiarezza!... Quali implicazioni? ». « Giusto per dire, che non solo i suoni e colori e profumi dei poeti cari al nostro cuore si rispondono, ma tutto risponde a tutto: qualsiasi cosa a qualsiasi altra ». « Eh tu coi tuoi paradossi! ». «Paradossi, dici? O sta' a sentire. Una volta ci ho portato, dal maestro, uno del primo anno... una buffa matricola come te. E il maestro gli spacciò, anche a lui, qualche sua solenne castroneria; e lui, gonzo, si mise (per lo appunto) a rifletterci sopra con tutto l'impegno. Alla fine, un po' di giorni più tardi, venne da me e mi espose il risultato delle sue elucubrazioni. Beh, sapessi come tutto filava, come tutto tornava: sulle parole irresponsabili d'un sordacchione, lo sciagurato aveva ricostruito o costruito una vera e propria teoria estetica; teoria, pare impossibile, compiuta in ogni sua parte e in fondo non peggiore di tante altre... ». « Sì, sì, riconosco il tuo stile: i procedimenti del pensiero, nella fattispecie quelli della critica letteraria, sono anch'essi frutto del caso, e così via ». «Eppure». « Ah, non bamboleggiamo; per me, la sola nozione che cavo da tutto ciò è che il tuo attuale protettore è un personaggio sinistro, un ribaldo ».
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«E tu esageri daccapo; trascorri da un eccesso all'altro». « Che significa? ». «Vediamo: sicuro che le galline non c'entrano per nulla col romanzo di N.? Pensaci bene ». «Ma no, diamine, col romanzo no. Se mai... ». « Se mai, carissimo? ». «Avranno qualcosa in comune col suo autore ». « E ti par poco! Sicché vedi: comunque sia, la tua visita a Ynon è stata inutile » concluse giovialmente l'amico.
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IN FIACCHERE
Non so se a Firenze sia rimasto un fiacchere per seme, ma ne dubito forte: io invece son tanto vecchio che, quando ci sbarcai la prima volta, non ci trovai altro che fiaccheri. Ossia, c'era anche qualche timido tassì, ma insomma i veri dominatori della piazza erano loro, coi relativi fiaccherai in tubino. E che meritoria istituzione, specie per gli studenti; voglio anzi spenderci due parole di lode e di rimpianto. Prima di tutto, un fiacchere (un coupé, in sostanza) realizzava una condizione impossibile da ottenere con un tassì, vale a dire un perfetto isolamento dell'occupante o degli occupanti: il fiaccheraio restava di fuori, in serpa, ignaro di quanto potesse accadere alle sue spalle. Sicché fatevi un conto, chi avesse da menare a diporto una ragazza. Ma poi, questi fiaccherai medesimi, che brava gente. Avveniva ad esempio che, dopo tre o quattro giri delle Cascine e venuti al capo del pagamento, l'onesto frustaiolo si vedesse consegnare, in luogo di banconota, uno di quei massicci portasigarette d'argento dei quali di rado uno studente andava allora sprovvisto (appunto perché gli tornavano utili in circostanze del genere). Né c'era da far troppe parole: lui capiva a volo e precisava dove avrebbe stazionato l'indomani, sì da rendere il pegno contro il prezzo della
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corsa; e libero ognuno d'andarsene per i fatti propri. Vero è che simile traffico comportava per lui un sicuro profitto, in quanto ci correvano vistose mance, ma questo nulla toglie alla sua cortesia. Ho dimenticato una cosa: chi era nel fiacchere poteva perfino, se in umore o in occorrenza da farlo, tirare le cortine (sempre sudice, per la verità) e segregarsi così ancor meglio dal mondo, quasi in una itinerante bara. E, volendo pizzicare altre corde, chi ce lo ridarà ora lo spettacolo d'un fiaccheraio che entra in una mescita seguito dalla testa del proprio cavallo? Entra, beve, poi sogguarda il compagno: « Ne vuoi uno anche te, eh? » - e porge un bicchier di vino, che il cavallo aspira con grave impegno. Pure, s'intende, non si dà vantaggio senza svantaggio: come ebbi a constatare una certa sera. Rincasavo fischiettando tra i denti, quando mi si parò davanti una personcina di mia conoscenza, che, mi fosse stato possibile, avrei di gran cuore evitata: in breve, una donnina bruna, minuta e focosa alquanto o rabbiosetta di carattere, nei cui confronti, per maggior disgrazia, mi sentivo vagamente in colpa. Non più che vagamente, del resto: rammentavo d'averla in qualche modo irritata, ma dove o come mi sarebbe stato diffìcile ricostruire. A buon conto, la mia era pur sempre cattiva coscienza. « Buonasera » esordì in tono acido. « Eh? Ah, buonasera, buonasera ». Mi aveva piantato addosso i fierissimi occhini; riprese: « Non mi porti a fare una girata? ». E, accortasi che tentennavo: « Cos'è, troppo tardi forse? La settimana passata la pensavi diversamente ». « Ma no, figurati... con piacere ». «E monta! » disse sordamente, spingendomi verso il fiacchere all'angolo. A me non rimase che fare copertamente i conti di cassa, ovvero accertare che non avevo un picciolo ma avevo in compenso il fido portasigarette. Montai. « Chiudi » ingiunse lei, una volta dentro e movendo già il fiacchere per una delle solite corse senza meta.
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« Cosa? » domandai candidamente. « Le tendine, grullo ». Ecco, ora veramente eravamo in camera charitatis: l'uno in balia dell'altro, o meglio l'uno in balia dell'altra. S'era girata tutta dalla mia parte e badava solo a squadrarmi, ignorando i miei pietosi tentativi d'avviare una conversazione. Non però che la sua generale attitudine non tradisse una violenta agitazione dell'animo: poniamo, di continuo apriva e chiudeva la borsetta, raspandovi furiosamente e tratto tratto cavandone oggettucci che ributtava lì con disgusto... Fu anzi durante tali irriflessi maneggi che il mio disagio raggiunse il colmo; sulle cianfrusaglie contenute in codesta borsetta, dico, vidi a un certo punto affiorare, prima d'essere ritravolto nel profondo, un piccolo manico di madreperla. Manico, o impugnatura, inequivocabile, appartenente cioè a uno di quei piatti e leggiadri gingilli, non per tanto meno pericolosi, allora di moda: intendo pistole, ancorché di proporzioni ridotte. Ma dunque rischiavo addirittura la vita? E d'altro canto, cosa avrei dovuto fare? Innanzi tutto calmare la mia bellicosa compagna, d'accordo: come però, se non avevo una chiara idea del mio fallo né delle sue attuali pretese? Non sapevo di dove cominciare, e tacevo; e taceva anche lei. Finalmente si riscosse, e, tra sbuffi di disprezzo ed amari storcimenti di bocca: « Sentiamo, canaglia: Anna? e Giulia? e Giselda? e Paola?... » seguitando con un'intera filza di nomi femminili. La frase in sé non aveva senso comune, ma era ormai facile capire che la poverina mi stava facendo una scenata di gelosia, e da questa nozione partii per le proteste e i dinieghi che la circostanza comportava. Macché, lei non pareva soddisfatta e continuava a bucarmi collo sguardo; indi passò a una nuova ed egualmente folle serie d'inchieste, quali: «E se non è vero che... perché? se non, come mai?... » eccetera. Mi difendevo alla men peggio, ma a poco serviva: la ragazza entrava in sempre maggior furore e aveva perfino abbandonato il tono sarcastico cui, giusto per sostenersi, s'era in principio appigliata. D'un tratto poi la vidi impal-
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lidire, da accesa in volto che era; e, tuffando decisamente una manina nella borsetta (in cerca senza dubbio, mi dissi fremendo, dell'arma ivi custodita) : «E adesso, mascalzone, coraggio: giuri tu che... e che... e che...? ». Francamente, non so bene cosa mi chiedesse di giurare: certo di non accompagnarmi mai più nella vita a nessuna delle numerose donne che mi aveva poco innanzi generosamente accreditate. Comunque, giurai tutto: chi, al mio posto, non avrebbe giurato? Così da ultimo, e mi credesse lei o no sincero, si calmò un tantino; le scappò un sorriso, si lasciò baciare la mano; e, quel che conta, mi permise di rimenarla a casa sua e di raggiungere successivamente la mia stanzuccia, dove non fu faccenda da nulla smaltire le emozioni della serata. Beh, che dire? passarono alcune settimane, la mia temibile amica pareva scomparsa dalla circolazione, e io forse non fui fedele a quelle promesse, che d'altronde (conveniamone) m'erano state estorte. Contavo anche sul fatto che nel frattempo avevo cambiato casa, per cui mi stimavo irreperibile, al sicuro. Ma sì! certe donne son come i cani, che ritrovano una pista solo a fiutar l'aria. Una mattina, ero quasi pronto per uscire; non mi mancava che d'infilare la giacchetta. Allettato da chissà quali rosee prospettive, avevo indossato una camicia nuova ed elegante, che viene a significare costosa; mentre, sul canterano, faceva bella mostra di sé ed aspettava di coronare il mio abbigliamento un cappello non meno fiammante e di non minor prezzo. Quand'ecco l'uscio si spalanca d'un colpo, ed entra lei. Entra e, non saprò mai per qual meccanismo interiore, va difilato al cappello: che afferra, mantrugia, artiglia e comprime tra le mani, per poi lasciarlo cadere e calpestarlo rabbiosamente. Indi mi si fa sotto e mi morde il petto, indi ancora sputa in terra, e alla fine, sempre senza proferir parola, si ritira là donde è venuta; ossia ha il buon senso di uscire, non pur dalla mia stanza, ma definitivamente dalla mia vita. E buon viaggio, santo cielo. Salvo che mi sono in segui-
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to spesso domandato come si faccia, materialmente, ad abboccare e mordere una camicia tesa da petto virile: tutta la furia di questo mondo parrebbe non dovesse a ciò bastare. Tant'è; né alcun rammendo di mano maestra potè risparmiare alla mia camicia uno sfregio permanente. Ma, quanto al cappello, con legittima soddisfazione ricordo qui che appena una mezz'ora dopo era già risorto come la fenice, quasi non avesse mai subito quel brutale trattamento. Cappello amabile e fiducioso, esso forse volle mostrare che non ci si deve lasciar abbattere dai colpi di fortuna.
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UN VOLTO UMANO
La ragione è una bella cosa, magari la più bella: eppure ciascuno di noi ha tra i suoi ricordi qualche fatto o fatterello (non importa se insignificante) restato senza definita spiegazione. Sarà perché non sapemmo esercitare convenientemente e fino in fondo la nostra ragione, o perché questa era davvero impotente a penetrare l'arcano, in altre parole l'oggetto della sua investigazione ne eccedeva i termini? Pauroso dubbio. Comunque sia voglio riferire, pari pari e senza commenti, uno di codesti fatterelli. Una notte di pioggia, e di vento stizzoso, m'ero ritirato al piano superiore e mi disponevo a coricarmi; quando sentii bussare al portone. Per raggiungere la mia camera da letto avevo dovuto chiudermi parecchi usci alle spalle, e c'era l'ulteriore difficoltà del cortile da attraversare, ove avessi voluto dar retta al tardo visitatore; sicché finsi di nulla e cominciai a spogliarmi. Ma le bussate seguitavano e si accavallavano, con un certo ritmo d'urgenza che mi indusse a ripensarci; ridisceso dunque, e incappato alla meglio per affrontare il cielo inclemente sulla detta corte, aprii il portone. Non vidi nessuno. Brontolando contro ipotetici (e in verità poco probabili) burloni, mi ridussi nuovamente nella mia camera. Qui
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però mi sentii chiamare di sotto le finestre, e riconobbi alla voce tal mio cugino: ottimo ragazzo, salvo che, di tanto in tanto, un po' bislacco e misterioso. Del resto, non lo vedevo da mesi. « Che diavolo c'è? » gli gridai tra le raffiche di pioggia e mal reggendo il battente della finestra, che il vento voleva strapparmi di mano. « C'è che... C'è una cosa: una cosa». «Vieni dentro » troncai. «Vieni fuori tu, invece» ebbe la faccia fresca di replicare. Ora, disputare con lui e indurlo ad entrare era, tutto sommato, poco meno scomodo che fare a suo modo: mi imbacuccai pertanto col maggior impegno possibile e mi lasciai condurre a casa sua, a due passi. Dove giunti, il cugino mi spiegò subito di che si trattava. Mezz'ora prima, pretese, stava per addormentarsi, allorché d'improvviso, nel buio, gli era sorto innanzi un volto umano. « Un volto umano... al buio... Che significa? ». « Questo devi dirmelo tu, se ti riesce; voglio insomma sapere se son pazzo io, oppure... ». « Oppure? ». « Oppure se c'è qualcosa di pazzo intorno a me, o nell'aria o non so». « Ma cerca almeno di essere più preciso nella descrizione di codesto volto ». «Non c'è bisogno: tu lo vedrai... o non lo vedrai, e perciò sei qui. Andiamo ». « Dove? ». « Nella mia stanza; coraggio ». « Stenditi qui accanto a me, di modo che il tuo angolo di vista non sia diverso dal mio di poc'anzi. Adesso spengiamo la luce e stiamo a guardare. Dovremmo vederlo lì, da quella parte ». Rimanemmo fermi e cheti per alcuni minuti; poi a me la situazione sembrò assurda e buffa; principiai ad agitarmi, borbottando che non vedevo nulla e che mi pareva inutile... «Aspetta» interruppe il cugino con voce soffocata: « ora, ecco ora».
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E veramente, la mia attenzione fu ora attratta da un tenue e indistìnto chiarore, simile a quello che possono diffondere le lancette fosforescenti d'una sveglia. E lì per lì dovetti accontentarmi di questa incerta impressione; ma in capo a pochi istanti, sempre meglio assuefacendosi il mio occhio all'oscurità, la visione si venne precisando, gli sparsi segni si composero, e rivelarono da ultimo ciò appunto che il cugino aveva annunciato, vale a dire un grande volto umano. Librato contro un angolo della stanza (il collo e le spalle, appena accennate, dileguavano giù nel buio), esso appariva tracciato per linee essenziali, senza tuttavia che nulla della sua espressione andasse perduto. E la sua espressione era alcunché di terribile: tanto profondamente malinconica, disperante, da riuscire quasi intollerabile allo sguardo e all'animo. E quella sorta di larva teneva le palpebre basse: le avesse d'un tratto levate? - mi sorpresi a pensare follemente. Al contrario, la particolarità che in secondo luogo colpiva, e che aggiungeva al nostro orrore, era la sua completa fissità; laddove un moto qualsiasi della funesta effigie ci avrebbe forse messi sulla via d'una spiegazione. Nessun appiglio invece, nessun indizio ci veniva offerto; di fronte a una immagine manifestamente distorta della realtà, ovvero di fronte a una realtà ignota, insospettata, noi dovevamo cavarcela colle nostre sole forze. Eravamo rimasti, si capisce, come affascinati. Ma un attimo dopo balzai su: « Riaccendiamo la luce! ». «A quale scopo? » disse dolcemente il cugino. « Colla luce, scompare ». «Ah, hai già fatto l'esperimento? Beh, allora... » e corsi alla finestra. «Anche questo è già fatto» ridisse lui in tono blando. « Se però ci tieni ». Mi figuravo, speravo, che il volto fosse in sostanza il risultato d'una fortuita combinazione di raggi luminosi, quantunque deboli e male apprezzabili, penetranti nella camera attraverso gli scuri semichiusi da qualche remota fonte esterna; e di conseguenza andavo armeggiando con detti scuri per provocare, se mai, un cambiamento in
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quella inquietante parvenza. Ma le mie manovre non sortivano alcun effetto. « Lascia, » mormorò il cugino « è tempo perso. E poi, a che serve? » soggiunse. «Come, a che serve! » esclamai, tornando a sedere sul letto. « Non può certo finire così; adesso gli vado sotto e cercherò di toccarlo ». « Chi, lui? ». «Lui, sì». « Ecco quanto io non farei » osservò gravemente. « Perché, che pericolo c'è? ». « Oh, nessuno forse. Ma che ne so io cosa o chi è, lui? ». « Sciocchezze! ». Peraltro, e per quanto strano possa parere, non ebbi il coraggio di menare ad effetto il mio proposito. Passammo, così, il breve scorcio di notte ad ascoltare la pioggia, sempre vigilati da quell'immobile volto, che pure non ci guardava. Colle prime luci dell'alba esso gradatamente impallidì e si spense, lasciandoci davanti (è superfluo aggiungere) nient'altro che una nuda parete. Come talora avviene, e contro ogni aspettativa, la faccenda non ebbe alcun seguito: il cugino non si faceva vedere, per darmi ulteriori notizie, e anzi sembrava evitarmi. Quando finalmente lo rintoppai, alzò la mano quasi ad arginare la piena delle mie prevedibili domande e disse con aria leggera: «Non è più comparso, non c'è più». Accorgendosi poi che volevo qualcosa di meglio d'una spiccia e inconcludente constatazione, riprese: « Mah, forse era il volto di quella pioggia ». In altri termini se la cavò con un'uscita. E questo, se anche poco, è tutto. Ma qui gli spiriti forti, lo intendo bene, vorranno sapere come mai non mi sovvenisse la supposizione o spiegazione più ovvia: non poteva insomma darsi, non era anzi il più probabile, che il cugino avesse voluto divertirsi alle mie spalle e combinarmi, così tanto per fare, una piccola beffa? Ci pensai infatti: ché, diamine, con una qualunque mi-
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stura fosforata e simpatica deve esser facile produrre effetti del genere. Nondimeno, qual è il beffatore che rinuncia a vantarsi della propria beffa? E d'altra parte non fu neppur questo motivo estrinseco a rendermi dubbioso, bensì uno più sottile, che non esito a definire stilistico. In breve, come avrebbe fatto il cugino, di quale mostruosa perizia o arte si sarebbe valso, per infondere alla sua sommaria figura quella espressione di disperata, d'intollerabile angoscia? Cosicché, concludendo, io rimasi e rimango colla mia perplessità; il lettore giudichi secondo gli piace.
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IL FREDDO
« Ehi, ma qui si gela! » disse l'amico entrando. « Sì, ammetto che sia freddo, volgarmente parlando ». « E allora, perché non riscaldi la casa? ». «Non la riscaldo... E come? ». « Non sarà difficile procurarsi una stufa ». « Ma ci vorrebbe l'energia industriale ». « Ti procuri anche questa ». « Occorrono un monte di domande a non so quale ufficio del capoluogo: di domande e di versamenti ». «Beh, vedo che hai un grande focolare: accendi il fuoco». «Accendere il fuoco! Tu, hai mai acceso il fuoco? ». «Io no». « Non è cosa da nulla ». « Fattelo accendere ». « Sì, ma poi chi lo mantiene? ». « Mantiene? ». « Eh già. Devi stargli addosso, al fuoco: basta tu volti gli occhi da un'altra parte, e lui scade, come suol dirsi. Si vede proprio che non te ne intendi ». « Oh Dio, trova una diversa maniera ». « Quale? ». « Auff! Intanto questo freddo è intollerabile ».
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« E tu rimettiti il pastrano che imprudentemente ti sei levato». «Ma è sempre una soluzione provvisoria e inadeguata». « Uhm, lo sarebbe infatti, ove di una soluzione ci fosse imprescindibilmente bisogno ». « Che vuoi dire? ». « Che io non sento freddo ». « Cosa! tu, giusto tu, che sei più freddoloso d'un gatto, anzi d'una salamandra? ». «Non, sono: ero». «Ma fammi il piacere. Tutta la tua vita non è stata, in fondo, che una lunga lotta contro il freddo: me l'hai ripetuto cento volte ». «E stata». « Oh questa sì che è bella: e le tue numerose malattie, di cui il freddo era l'unico responsabile? e quel caratteristico "senso di sgomento" che ti soverchiava se appena il termometro "accennasse a prendere la via dello zero"? e la tua "desolazione ed angoscia incolmabili" quando lo avesse raggiunto? Eccetera: vedi che rammento bene le tue dicerie ». « Roba di gioventù ». « Ma cosa è successo nel frattempo? ». « Ho girato una chiavetta ». « Che significa, accidenti! ». « Se smetti di smaniare e di far le meraviglie proverò a spiegarti». «E avanti». « Ecco: in primo luogo il freddo è uno stato d'animo. Sì o no? ». «No! è una realtà obbiettiva, denunciata dai termometri e dal nostro batter di denti ». « Bah, a codesta stregua anche il fisco è una realtà obbiettiva». « E lo credo ». « Già, ma allora ti chiedo: il saggio può mai restar determinato dal fisco o dal freddo? ». « Oh, va' un po' al diavolo, tu e tutti i sofisti tuoi maestri. Non ci capisco un'acca, in un ragionamento così strampalato: che intendi? ».
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« Chiaro: fisco, freddo e tante altre cose appartengono a un ordine di realtà che il saggio non prende neppure in considerazione ». «Ah no? e come fa "il saggio" quando gli arriva la cartella delle tasse, oppure schianta dal freddo con tutti i malanni che questo si tira dietro? ». « Nel primo caso, paga e pensa ad altro ». « E nel secondo? ». « Nel secondo, si limita a non sentire il freddo ». « Sì, ma come? Lasciando il tuo vaniloquio, la questione è appunto qui ». «Concedo che la domanda sia motivata; e dunque ascolta. Se tu mi trasferissi d'un tratto sulla Luna, cioè nella notte lunare, o anche soltanto al Polo Nord, può ben darsi che col freddo io sarei costretto a fare i conti; ma dalle nostre parti!... ». « Dalle nostre parti il freddo è spesso polare ». « Per modo di dire: veramente polare non può essere, perché noi siamo in pieno ecumene ». « Oh santa pazienza! ». «Ti danno noia i miei termini scientifici? E va bene, diciamo allora che noi si vive in luoghi abitati e abitabili del pianeta». « E con ciò? ». «Ma sei duro! Hai sentito parlare d'un nostro (organico) meccanismo termoregolatore? ». « Beh sì, naturalmente... Che roba è? ». « Esso ci permette, se così posso esprimermi, di proporzionarci alla temperatura; di affrontarne, entro certi limiti, senza danno le variazioni ». «Se tanto mi dà tanto, però, il tuo meccanismo deve funzionar male ». « Pel fatto che non ci diamo la pena di tenerlo vivo e vegeto: seguitiamo a chieder soccorso al mondo esterno, quando la soluzione, ossia il rimedio, è dentro di noi bell'e pronto ». « Bravo, bravo. Ove poi ti pungesse vaghezza di riuscire più esplicito, fammelo sapere al mio indirizzo ». «Ah, vedo bene che ad una configurazione teorica di questa faccenda tu risulti impari. Guarderò pertanto di illuminarti con un raccontino elementare ».
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« Ottima idea ». « Sicché senti. Un bel giorno del passato inverno la mia domestica s'ammalò improvvisamente e mi mandò a dire che, per quel giorno almeno, non sarebbe venuta: il ragazzetto ambasciatore, un suo nipote, mi fischiò dalla strada, mi dette la notizia e m'abbandonò a me stesso. Ora, pel mangiare potevo sempre arrangiarmi colle provviste che c'erano in casa; ma pel riscaldamento? Si dava infatti il caso che la mia scorta di legna da ardere fosse esaurita e che io aspettassi appunto la domestica per rinnovarla... Ebbene, ti confesso che mi sentii perduto; digià bubbolavo dal freddo, e avevo innanzi un tempo imprecisato da varcare così, senza un briciolo di fuoco. Aggirandomi smarrito per la casa, passai sul dietro, trassi uno scuro: la vista della campagna, nevosa a perdita d'occhio, mi ribadì il gelo nelle ossa... Ma sentiamo: tu, cosa avresti fatto? ». «Avrei preso un aeroplano, un treno, o un carrettino tirato da un ciuco, e sarei fuggito; o sarei morto ». « Che esagerazione; e questa è la differenza tra noi due. Io invece, come ti accennavo, girai la chiavetta. Possibile, mi dissi, che io debba darmi per perso qui a zero gradi, quando nel vasto mondo c'è tanti miei simili, tanti uomini fatti né più né meno come me, che tranquillamente vivono a dieci, a venti, a cinquanta gradi sotto zero? (Tra parentesi: la temperatura più bassa registrata sulla faccia della Terra, ci insegnavano a scuola, era di un 83 gradi. Beh, l'hai saputo che di recente ne hanno registrata una di 103, sempre sotto zero? E nota, non al polo, bensì in un luogo abitato, in un villaggio siberiano o giù per lì). Su quasi tutti i picchi degli eccelsi monti indiani, seguitai a dirmi, c'è un santone nudo capovolto: mi lamenterò io, che non dimoro nella regione delle nevi eterne, che vesto panni e che se non altro sto a capo ritto? Ah no, la natura stessa mi ha provveduto i mezzi per resistere al freddo: entro certi limiti, naturalmente, ma in questi limiti pel momento ci sto largo... ». « Basta; capisco dove pari, e le tue varie implicazioni. Osservo però, quei tali del villaggio siberiano almeno accendono il fuoco? ». « Forse. Ma gli uomini delle caverne? ». «Anche loro lo accendevano, ho udito ».
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« Non prima che lo scoprissero, ovvero scoprissero il modo di accenderlo ». «Scusa?». « Eh sì, tu sembri dimenticare che per centinaia di migliaia d'anni noi siamo andati avanti senza fuoco ». «Ossia per virtù di meccanismi termoregolatori e di chiavette girate al momento opportuno? ». « Evidentemente, e necessariamente... Ma che fai, dove vai con tanta fretta? ». «Avevo dimenticato che... Ho un negozio importante ». « E non ti fermi neppure a pranzo? Ho dato ordine di preparare un paio di pollastrini alla griglia... ». « Serbameli per questa estate ».
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PAGINE PERDUTE
La lucertola a due code credevo fosse appena un modo di dire, una misura d'impossibilità o d'impotenza: «La tal cosa? Certo, si può, ma bisogna prima trovare la lucertola a due code » mi dicevano da bambino. Così come dicevano: «... Quando spunta il sole a Potè » (monte tutelare del paese), intendendo mai; oppure: «Puoi pittare il sole» (ossia dipingergli la faccia), e leggasi che sarebbe tuttavia stato invano, rispetto a un qualunque scopo da ottenere. Invece l'ho proprio trovata; sulla loggetta. Questa loggetta presenta, di là dalla ringhiera, un breve sporto sospeso sul giardino; e la lucertola a due code era lì a passeggio. Mutava calmi passi, ancorché sempre cauti, né pareva sentirsi in alcun modo eccezionale; del resto le sue appendici non devono molto imbarazzarla, giacché si tratta in sostanza di un'unica coda biforcata. Ma ecco, biforcata val quanto dire biforcuta o forcuta, con relativa suggestione diabolica; e sarà forse questo il motivo per cui ho accolto la singolare apparizione con un certo orrore, subito vinto. In verità essa, lo ripeto, si comporta in tutto e per tutto come le altre lucertole: si appoggia sulle mani (scusate: sulle zampette anteriori) e rizza il capino scrutando intorno, spia e sorprende calabroni, guizza avanti e indietro coll'agilità medesima delle sue congeneri, eccetera. Dispone inol-
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tre di un ben congegnato piano o sistema di ritirate: se io le vado incontro da una parte, lei fugge dall'altra lungo una direttrice costante; e se proprio la stringo, lei si mette in salvo su pel muro della casa. Raggiunto poi un buco in detto muro, si volge a guardarmi, la gola palpitante, ed è capace di restare un'ora intera in tale attitudine. La cosa più buffa è che mi stimi uno spaventoso nemico. Ma tanto meglio, perché magari pensa: « Come son furba, destra e forte: voleva ammazzarmi, gli sono sfuggita ». Ne ho parlato alla fante, quando è venuta. La quale mi ha reso due dichiarazioni: che di siffatta bestiola tutti novellano ma nessuno l'ha vista, che dunque devo essermi ingannato; e che ad ogni modo sarebbe una presenza estremamente benigna, una garanzia di buona sorte. « Beata quella casa dove c'è una lucertola a due code » ha anzi esclamato entusiasticamente la brava donna. Mi è infatti tornato a mente che si dice anche: « Quello lì deve avere in tasca la lucertola a due code » (in altri termini, è nato colla camicia) ; e per avventura mi son dato ragione della mia sfacciata fortuna nella vita, senza dubbio dovuta a quella occulta presenza. Dopo ciò, si pensi quanto poco gradite mi siano le visite di certi gattacci spelacchiati e sconosciuti che la fanno da padroni qui per la corte. L'altro giorno, ad esempio, ce n'era uno particolarmente brutto ed atro che recava in bocca una lucertola straziata, priva di coda (il primo bocconcino di codesti feroci), mezzo decapitata eppure ancora fremente e sussultante: beh, e se una volta mi scoprono la mia propria e preziosa lucertola, che oltre a tutto, per loro maggior delizia, di code ne ha due? D'altro canto, come proteggerla? I gatti non si parano. Intanto lei va divenendo addirittura impronta: ormai scorrazza a suo agio sulla loggetta, perfino inseguita da qualche rompicollo della sua razza; un maschio, dico, o tanto arguisco dalla maggiore corpulenza e dai colori più vivaci, mentre lei è piuttosto mingherlina e delicatuccia. Ma egualmente ardita: stamane, lungo lungo il muro, è venuta avanti con decisione fino alla porta di casa. Poi, è vero, ha cambiato idea ed è risaettata indietro. Mi domando cosa farei se, poniamo, un giorno me la ritrovassi tra le
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coltri; ma penso che anche in questo caso, che confesso deprecabile, la accoglierei con tutti gli onori. Strano, poi: questa sera stessa apprendo dalla radio che in terra lontana (forse nella Amazzonia) hanno trovato un, o meglio il, serpente a due code. L'informatore faceva un discorsetto del genere del mio: diceva che codesto favoleggiato serpente nessuno in realtà l'aveva mai veduto, che serviva solo a configurare l'impossibile, e che invece eccolo lì... Ossia non più lì, ormai: il misero animale è finito tra le branche degli scienziati. I quali, non fosse che a serbare memoria d'un tale mostro, per prima cosa l'avranno ammazzato. Ma stia tranquilla, la mia lucertola: io scienziato non sono, e i mostri me li godo tra me e me. Leggo coi consueti lustri di ritardo il noto libro del Mazzucchelli sulla Monaca di Monza, di cui non saprei abbastanza raccomandare la lettura a coloro che amano sorprendere il romanzesco nel suo farsi, o più semplicemente confrontare la realtà coi parti della fantasia. Ora, a parte la situazione maggiore, un minimo episodio di quella vasta trama di scelleratezze mi ha specialmente incuriosito, ed è l'episodio del pozzo. Come i numerosi lettori del libro ricorderanno, le due principali intrinseche della protagonista furono dall'Osio cavate con arti oblique di monastero per essere menate, se possibile, a morte; ciò a processo già iniziato e nell'intento di sottrarre al giudice le più pericolose testimonianze. Delle quali due l'una, suor Benedetta, fu dal ribaldo precipitata in un pozzo cupo (asciutto) ; dove, stroppiata e semiviva, rimase un paio di giorni. E badiamo. Suor Benedetta si trova dunque nel detto pozzo, profondo un trenta braccia... Beh, per cominciare: che luce, che sorta di luce la assiste laggiù? Certo una luce dubbiosa e funesta, un tetro crepuscolo. Ma rinunciamo al colore: e cosa vede, in più del piccolo orbe di cielo offuscato per forza di quella infera prospettiva? Poco, senza dubbio; eppure vede un mal ravvisabile oggetto rotondo che c'è da scommettere, si sarà ben guardata dall'esaminare partitamente... Per sua dichiarazione, ella grida e chiede
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aiuto soltanto di giorno: di notte, ci sarebbe caso che il bieco Osio, conoscendola ancora viva, sopravvenisse a compir l'opera... Infine, ci possiamo ben figurare le angosce della sciagurata; e, dopo tutto, questo non c'entra. In quello stesso pozzo, osserviamo invece, l'Osio aveva a suo tempo gettato la testa della conversa da lui uccisa col concorso di suor Benedetta medesima e delle altre fide; e l'oggetto rotondo intravisto non è se non tale testa appunto. Sicché, venendo a noi, mi domando: quale romanziere da quattro o anche da otto soldi avrebbe qui resistito alla tentazione di porre a fronte a fronte l'assassina e la propria vittima, tanto meglio se in luogo desolato, se scemata e ridotta la seconda alla sua più orrenda ed accusatrice parvenza, e se già avviata la prima al pagamento delle sue nequizie? porre a fronte a fronte, dico, magari cementando ogni cosa con una idea aperta o sottintesa di nemesi? La realtà è più sottile: suor Benedetta si ritrova sì di fatto nella situazione indicata, ma a sua insaputa. E non basta: delle due suore tratte di monastero, chi da ultimo soccomberà non sarà questa sibbene l'altra (egualmente complice del delitto, se non che sul momento lontana). E ce ne sarebbe forse da aggiungere, rilevando ulteriori elusioni o convenimenti. Dove, per concludere, si potrebbe scorgere una severa lezione della realtà (sia pure di per sé immaginaria o postulata) a romanzieri e perdigiorno. Ciò che cerchiamo, dice, è sempre vicino; e sarà vero, ma il male è che, per quanto vicino, può restarci ignorato. Il Tracciolino di Roccasecca, ad esempio: qui accanto, eppure chi di noi lo conosceva o soltanto ne aveva udito il prestigioso nome? Volgarmente parlando, il Tracciolino di Roccasecca è una strada che mette in comunicazione la valle del Liri colla Val di Cornino, lungo lungo il corso della defunta Melfa: tenendo linguaggio più degno, è un luogo o tramite meraviglioso che si può risalire per oltre dieci chilometri senza incontrare una sola persona, una sola bestia, una sola abitazione. La montagna dalle due parti appare inesprimibilmente vivace: di colore, ma anche di forme, di
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garbo; e rinuncio a descrivere quelle rocce brillanti, quegli arbusti erompenti colla violenza, coll'estro, e insieme colla sorta di mansuetudine, delle cose non tocche da mano umana... Il fiume stesso, secondo quanto ho accennato, non è ormai che un'astrazione: il suo letto biancheggia nel fondo come innumerabile chiostra di denti, o, con immagine più truce, come se digrignasse i denti. Ma, tutto sommato, una tale vedova presenza aggiunge un tanto alla suggestione dei luoghi. (Per la cronaca, questa misera Melfa è stata inghiottita da non so che centrale elettrica; ed evitiamo di indagare se, con qualsivoglia pretesto, sia lecito abolire, trucidare un fiume). «Vorrei costruire qui una casa e viverci » ha detto il più vecchio di noi. « E per mangiare? » ha replicato un altro. (La trita realtà che uccide il sogno). « A me basterebbe starci un intero giorno » ha interloquito il prudente. «A me, » ha detto una quarta « a me basta questo ». Mio Dio, costei diceva la cosa più saggia: pel paradiso bisogna contentarsi di passare.
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PORCELLINO DI TERRA
La sera innanzi sua moglie gli aveva detto che non lo amava più. E stamane di buon'ora era partita coi ragazzi: entro pochi giorni si sarebbero aperte le scuole. Via, che sua moglie non lo amasse più, lui già lo sapeva. Come un celebre storico scorse l'imminente rivoluzione, si narra, negli occhi d'un facchino che spingeva una carretta, così lui aveva argomentato con sicurezza lo stato d'animo della moglie da minime, quasi insignificanti reazioni e attitudini. Lui, ad esempio, usava ravviarsi i baffi coll'indice inumidito di saliva; e questo gesto, che al tempo dell'amore aveva provocato rapiti o almeno divertiti gridolini, era adesso accolto dalla donna con un fastidito anzi disgustato raggrinzar di palpebreCadute d'un tratto, come cade un vento rapinoso, la di lei protervia e la turbolenza dei ragazzi, la casa appariva singolarmente vuota, afona, infruibile. In compenso, il trionfale sole ottobrino empiva la corte col relativo giardinetto pensile, facendo sfolgorare ciascuna fogliuzza, tagliando vivacemente ogni cespo, accogliendosi in pozze d'oro tra l'erba; e, dopo tutto, era bello star lì a quel sole, lasciarsi dietro ogni cosa. Si poteva perfino dormicchiare, sebbene i vecchi lo sconsiglino. Dalla via oltre il sottoposto giardino venivano di tratto in tratto rumori concilian-
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ti: un sordo martellare, una pesta di zoccoli asinini, voci di comari; anche un passo di cane, risultava talvolta udibile. Solo di rado la pace era rotta dallo sgraziato strepito di alcun cerchio di ferro, che schiamazzanti monelli cacciavano per le strade del paese; e in genere, tra due passaggi di questi perturbatori della pubblica quiete, c'era tempo di riappisolarsi. E, oltre i tetti delle basse case liminari, la vasta campagna, donde singulti di tacchini, donde (ahimè più raramente) gracchiamenti di cornacchie (cinerine)... Sì, ma poi? Come colmare l'intollerabile vuoto? Il vuoto lasciato dalla loro assenza, certo; ma in particolare, e parlando più seriamente, quello lasciato dal suo disamore? Il vuoto di quella giornata e di tutte le giornate avvenire? Il sole declinava; soffi di vento, non ancora freddi ma già umidi, lo persuasero a rientrare in casa. E qui? Si mise a passeggiare per la sala a pianterreno; e si trovò davanti a due bambini addormentati. Che erano, si capisce, due bambolotti: sua figlia, prima di partire, li aveva accuratamente sistemati nei loro giacigli, da lei stessa composti. Tenevano gli occhi chiusi (per effetto della loro posizione) e dormivano, come dire?, con impegno e diligenza, sebbene la testa d'un dei due fosse ridotta alla sola faccia: guasto che il berretto da notte mal nascondeva. Un'immagine comunque di tranquillità, sia pure fittizia, la quale non si accordava in alcun modo coi suoi sentimenti. Girellò ancora senza meta tra i pochi mobili e tra i pochi libri sparsi sul tavolo, e finì coll'accendere la radio. Ma la radio non conforta gli angosciati: sull'ora più difficile, sul funesto imbrunire, non se ne cava che suoni discordi e canti in irte lingue, cui per maggiore sgomento tengono dietro notizie dal mondo del lavoro. E sicché lui era lì, intontito e quasi di nuovo appisolato, quando una minuscola ombra attraversò il suo campo visivo, che vien poi a dire il pavimento. Guardò meglio. Onisco, lo chiamano i naturalisti, ascrivendolo appunto agli Oniscidi; porcellino di terra (o familiarmente di Sant'Antonio) è detto in qualche provincia; e si tratta insomma di quel minuto animaletto che tutti conoscono,
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nostro inevitabile compagno almeno nelle vecchie case. Tacendo della sua graziosa forma ellittica, della sua camminatura assidua e di altro, la sua principale particolarità consiste in tal buffo effetto che tutti i bimbi di casa (delle case vere, di provincia) altamente apprezzano. Se cioè, al solo scopo di non calpestarlo, lo si spinga via dal mezzo della stanza colla punta del piede (e con tutta la delicatezza possibile), lo si vede, non senza sorprese, schizzare a parecchi metri di distanza. Non senza sorpresa e con positiva perplessità: tanto poco, o per meglio dire tanto eccessivamente, risponde il moto all'impulso. Ma il vero motivo è che esso animalino, tocco appena, si appallottola; e dunque, in forma di sferetta o anzi di pallettone da caccia, deve finire assai più lontano del previsto. Era uno di tali porcellini, quello che stava attraversando il piancito; ma si percepiva qualcosa di irregolare o singolare nel suo comportamento. In genere essi vanno pei fatti loro, tra il fremito dei numerosi zampini, e alla prima occasione si buttano lungo il filo della parete, sempre ostentando una gran sicurezza di orientamento: questo qui, al contrario, sembrava incerto della propria direzione; ogni po' s'impuntava, tentava l'aria colle brevi antenne, per poi seguire via apparentemente capricciosa; e talora perfino tornava sui propri passi. Altrimenti detto, v'era in quel porcellino qualcosa di fraterno: ossia l'insetto e l'uomo che lo osservava erano egualmente smarriti, egualmente incapaci di tracciarsi un cammino nel mondo... o, almeno, in questi pomposi termini la mise (da bravo uomo, da bravo torturatore di se stesso) l'uomo. E di conseguenza gli venne una gran curiosità di capire dove parasse, la bestiolina, col suo volubile procedere: chissà non potesse venirne a lui, indirettamente, una buona ispirazione. Impresa veramente da disperati! Come è possibile immedesimarsi in o con una minuscola, misteriosa creatura quale un porcellino di terra, e penetrare i suoi moventi? Tuttavia, esso lì manifestava un affanno quasi umano. Pareva ora aver preso una direzione incontrovertibile, una linea ideale ferreamente segnata; e invece, eccolo che
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daccapo si fermava, volgeva la testa (o supposta tale) a dritta e a mancina, esitava, principiava ad arretrare, zampettava un poco di traverso, ed infine operava una conversione. E da ultimo, cosa gli mancava, cosa voleva? Adesso filava con speciosa sicumera verso la grande libreria. Che non ha piedi e poggia direttamente in terra; ma, per un animaluccio della sua fatta, c'è sempre spazio sufficiente da insinuarvisi sotto... E scomparso, evidentemente ha lì sotto la sua casa... Ma no, ricompare: impolverato ma non meno agitato; neppur quella è la sua meta. E quale allora? Adesso aggira coscienziosamente il piede d'una seggiola, parendo fiutarlo; poi daccapo si decide e prende il largo, allontanandosi cioè dalla parete ed accingendosi a traversare di nuovo il vasto deserto del pavimento... Ma deriva gradatamente (o scarroccia) e fa un gran giro, che lo riporta press'a poco al punto di partenza. Tutto sommato non è un itinerario, il suo, è un rabesco: e non sarebbe nella forma stessa di questo rabesco, l'indicazione?... Ora, però, si tuffa risolutamente nell'ombra, sotto un altro mobile (una lunga panca)... Ebbene no, non può, non ha il diritto di sottrarsi così allo sguardo: occorre provvedere una torcia elettrica e seguirne i movimenti nell'ombra... E così l'uomo si sorprese che, coi ginocchi e coi gomiti in terra, scrutava sotto la panca, aguzzando gli occhi verso la bestiola; la quale d'altronde, di lì a pochi istanti, riusciva alla luce dalla parte opposta e ricominciava la sua affannosa passeggiata... Era un'anima in pena, quel porcellino. Anche lui lo era; ma, se quello continuava ad arrabattarsi, con ciò dimostrando di serbare qualche speranza, lui da tempo conosceva impossibile ogni speranza ed inutile l'annaspare. Si scosse la polvere dai pantaloni e rise di se medesimo (come quel santo di Paradiso che, in vita, s'era ingannato sulle gerarchie angeliche). Quando, oziosamente ormai, cercò coll'occhio il suo minuscolo compagno d'una sera, constatò che era scomparso e stavolta senza ritorno: aveva finito, lui, per trovare il proprio buco... o forse la sconosciuta pena di quella
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creaturina terrestre era peggiore della sua? Forse, ma che perciò? La sofferenza divide, non unisce; al mondo non si danno fratelli. E, di nuovo, come varcare il deserto della serata, della nottata, e poi di tutte le altre serate e nottate, sia pure brulicanti di stelle, e mattinate, sia pure sfolgoranti di sole?
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DIARIO PERPETUO
LA SETA NEL BAULE
Mio padre era ultranovantenne, non poteva più inerpicarsi su per la scala a chiocciola, né forse per quella esterna. Nondimeno un giorno udii le sue babbucce (ma guarda: babbo e babbucce) frusciare sul piancito della prima sala al piano nobile. Venni fuori: « Papà, ma dove vai? », mentre, a non essermi corrotto con tutti e con tutto il resto, avrei dovuto e voluto anticamente dire: « Signor Padre, dove andate? ». Rispose comunque solo facendomi cenno di seguirlo. Attraversò due o tre stani» senza nome, cioè senza qualifica, e si fermò in una che può essere definita di sgombero o sbratto, sebbene vi troneggiasse e troneggi il letto averno. In tale stanza era ed è un grande baule: lo stesso che aveva già accompagnato gli autori dei miei miserabili giorni nel loro viaggio di nozze a Parigi ed altrove. A Parigi, dove (informava con orgoglio mio padre) io fui concepito: al dolore, al peccato, alla disperazione, soggiungo da parte mia... Ma, santo cielo, sono vecchio e divago. Nel baule è custodito quanto Tedeschi, Francesi, paesani e sfollati hanno lasciato del guardaroba di mia madre, morta oltre sessantanni addietro. Ed è davanti a questo baule che il mio vecchio intendeva fermarsi. Prese infatti una seggiola, mise mano al suo anello di
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chiavi e disse: « Chiama Idolina, questa roba riguarda lei ». Ma Idolina, la sua nipote quattordici o quindicenne, non era in casa; e così mio padre se ne tornò giù, stavolta da me accompagnato, né più ebbe l'occasione o il tempo di porre in atto il suo proposito: di mostrare alla giovinetta quelle vecchie stoffe, che ella avrebbe dovuto prima o poi utilizzare. In ciò, s'intenda, era alcunché di sacrale: qui si manifestava il fulgore della tradizione, secondo il significato etimologico e vergine della parola. Quando Idolina era nata, a mio padre in attesa io avevo dato notizia di questo novo miracolo e gentile prendendolo e menandolo innanzi al ritratto di mia madre ed esclamando: « E rinata! ». Ed ora l'ava, ancorché sconosciuta alla nipote, alla medesima, per tramite di mio padre, trasmetteva e legava i suoi poveri beni terreni... Come un passaggio di chiavi da suocera a nuora. Ebbene, ma quanto appariva così ovvio a mio padre è lungi dall'esser tale per me: ché, scomparso mio padre, doveva pur venire ed è venuto il giorno in cui le donne di casa avrebbero avanzato loro pretese sul contenuto del baule. Vedendomi poi torcere il naso, hanno soggiunto: «E un modo perché questi oggetti rivivano; queste sete, lasciate dove sono, in breve ingiallirebbero, si trincerebbero, cadrebbero in brindelli»... col resto. Oh Dio, eccoci al punto: si compirebbe cioè, si consumerebbe quello che io desidero. Io non voglio che alcunché riviva, forse non avrei neppur voluto che vivesse mai; io voglio anzi che tutto si stazzoni, gualcisca, estenui, pieghi alla sua fine, ingloriosamente la raggiunga. Ed affermo, in termini meno estetistici, che una simile volontà di distruzione, di morte, giace, quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo. L'antica e terribile questione se ciascuno sia fabbro della sua fortuna o per contro tiri la paglia («Allora il giovin tirò più corta paglia », è un caro verso). Alla quale questione e non paglia senza pretesa d'apportar nuovi lumi, si può osservare che grande è talvolta la tentazione di dar ragione all'antico, nonché a coloro che pretendono la felicità ci passi accanto almeno una volta nella vita e basti ri-
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conoscerla, eccetera. D'altronde questo è un rincalzo: della questione credo d'essermi già in diverso tempo occupato. In una sala di scrittura alla Posta centrale di Roma, a San Silvestro, mi venne un lontano giorno di scontrare Federico Fellini. Io, cioè, stavo scrivendo con tutti « i peli arricciati » una lettera, e lui faceva con eguale fastìdio altrettanto. Era già un uomo celebre, ed aveva pubblicamente affermato di preferirmi tra molti scrittori italiani. Vistosi osservato e ravvisato, egli mi piantò addosso, anzi negli occhi, quei suoi occhi straordinariamente vivaci e quasi balzanti verso il proprio oggetto; e pareva aspettare o aspettarsi qualcosa. Forse che io gli chiedessi un autografo; o forse anche la mia fisionomia gli appariva in qualche modo familiare; o semplicemente, da ultimo, la medesima gli si distingueva da quelle anonime degli altri estensori di lettere e documenti e bollette. Io, poi, lo riguardavo di rimando con una vaga ironia non certo a lui volta, e... Eppure, ricordo, pensavo: « Sì certo, ora, ora appunto la mia fortuna mi passa accanto: mi basterebbe un cenno perché egli, che già conosce il mio nome, mi porgesse benevola udienza, mi si mostrasse amico, e così via con tutto quanto ciò potrebbe comportare. Ma sono io (seguitavo), è questo piccolo lucifero colui che darà atto alla sorte della sua buona volontà? - No non sono (mi rispondevo) : venga piuttosto ella (la sorte) e mi si accosci ai piedi, o venga egli a me». E così insomma, forse, la buona sorte mi passò tra i capelli senza che io crollassi il capo. Giacché al postutto ero allora intelligente quanto basta, di non turpe aspetto, e dotato perfino di alcuna vis o comunicativa; e sopra ogni cosa ero un grande attore. Ma che farci, se la costruzione del proprio destino deve fare i conti anche col nostro orgoglio! Per me, non seppi mai accomodarmi delle cose da perseguire, magari con travaglio o solo fastidio, delle cose che non ci corrano incontro a lambirci i piedi. E questo è il motivo per cui son restato di qua dalla barricata: son restato, invece di vivere, a vergare fogli senza corso.
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Il mio vecchio e carissimo amico Carlo Bo ha dato una nuova e superba prova della sua finezza quando, chiamato a parlare di me, ha detto (cito a memoria) : « Egli è il vero erede di D'Annunzio, nel senso che può fare ciò che vuole »... eccetera. Frase (tanto festosa in apparenza per la gente grossa) che contiene pure, se non il suo vecchio veleno, la sua limitazione. Poiché, lo si rammenti, le talent fait ce qu 'il veut, le geniefait ce qu 'ilpeut. Non meno cara per questo, anzi più cara, la sua testimonianza. Il bigliettaio di un filobus: « Il sarago, signora mia, è un pesce ricco di fosforo. Lei faccia questo esperimento: prenda un sarago, ma appena pescato e senza lavarlo, lo metta lì in cucina o dove vuole, poi faccia buio e vedrà! Ah sì? Ma vedrò cosa? - Vedrà come splende nel buio ». Mica male, a parte il fatto che un simile esperimento sarebbe tutt'altro che probante. E mi torna alla memoria colei che mi sussurrava appassionatamente e quasi colle medesime parole: « Una perla. Prendi una perla d'Oriente, ma che sia viva, non morta come quella che da troppo tempo non posi su un seno di donna, prendi una perla e ponila nella più nera tomba, di notte illune: la vedrai splendere ». È l'idea stessa di sport che è avversa agli spiriti pensosi: che ci si debba inerpicare con inenarrabili fatiche su per una parete di roccia fino a tal cima accessibile di rovescio per comoda via prativa, o che ci si debba fidare a una vela per fendere flutti perigliosi, e così via, ecco quanto non potrà mai concepire una mente non corrotta. Analogamente: «Va', esci, fa' una bella passeggiata. - Eh, cara zia, ma camminare si può soltanto se non vi sia altro modo per raggiungere una determinata meta (che innanzi tutto bisognerà fingersi); laddove qui sotto fermano diversi tranvai »... O, peggio ancora, v'è chi tenta imprese inaudite e del tutto fine a se stesse: come dire l'arte per l'arte o, appunto, lo sport. E, a quest'ultimo proposito: è giusto che i soccorritori
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di codesti temerari (ove si trovino in difficoltà) o, più assurdamente ancora, i recuperatori dei loro cadaveri rischino la vita? - Giusto no di sicuro. E donde dunque in loro un simile ardore di sacrificio? Ah, qui appunto il civismo e la solidarietà umana gettano la maschera e si rivelano per ciò che sono: una melensa retorica.
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DI ALCUNE IMMAGINI
Una brutta notte, fui d'improvviso colto da gravissimo male; in capo a due giorni, già m'ero arroccato in un coma donde a fatica mi trassero due settimane di cure eroiche (ossia ciascuna comportante rischio di morte definitiva). Oh badiamo, «mi trassero a fatica»: e perché poi? con quale vantaggio per me o pel pianeta?... Questa, concedo, è altra questione. Ma non di tale tristo e purtroppo comunissimo caso intendevo intrattenere il lettore, bensì di alcune immagini, qualche volta singolari, che mi frequentarono e spesso tormentarono sul primo, timido riaffiorare della coscienza. Si capisce, son qui costretto a interventi retrospettivi, in particolare a una verbalizzazione affatto arbitraria: ma tutto è così incerto, all'alba del mondo! Ché, se non prima, fu quella almeno (con tal famoso titolo) una « seconda nascita». I fili sacri, per esempio: una gran ragnatela di fili, dei quali ciascuno, appunto, rappresentava o figurava una priorità sacra. Poniamo, lo Spirito Santo, Dio Padre, Suo Figlio, la Vergine Madre, etc.: tali bene o male-meriti enti dovevano badare a non soverchiarsi l'un l'altro in codesto sistema di nuovo genere, in codesta rete di reciproche corrispondenze o sopraffazioni... Ho parlato più sopra di
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verbalizzazione: almanaccamento, invenzione, avrei dovuto forse dire, e in definitiva alcunché di gratuito... I fili non dovevano accavallarsi se non osservando determinate gerarchie, altrimenti il Padreterno (ripeto per maggior chiarezza) avrebbe rischiato d'esser declassato da qualche suo subalterno o la Madonna di cedere a qualche santa, magari di seconda classe. Il che mai e poi mai sarebbe stato tollerato dalle suore: cui finalmente, sembra, il tutto si riconduce. (Divagazione. - Le suore di una clinica! Possono essere proterve, brune di pelle e feroci di carattere o tratto. E possono, come suor G., essere vezzose, adorabili, tenere, candide di fuori e di dentro, veramente sollecite del bene dei loro assistiti e veramente degne della scelta di Cristo tra le sue spose, del privilegio loro concesso di soccorrere la o alla sventura... Suor G.: che neppure potrai, perché non la conoscerai, farti un merito davanti all'Altissimo della mia ammirazione: ovvero per la tua santa umiltà. Fine della divagazione). (Ma principio d'una seconda divagazione. - Che cosa è l'olio santo? Dio, o il Diavolo, lo sanno. L'olio santo, ad ogni modo, mi fu da mia figlia, preda d'istigazioni, proposto. E mia figlia, che per una volta sostituiva sua madre al disperato capezzale, disse: «Vado a sentire se lo vuole ». E pare io, in qualche forma, annuissi. Sicché detto olio mi fu davvero somministrato, o amministrato: come si dice? E brava la figlia, che interroga un incosciente. E insomma quei barbari mi unsero, e mi segnarono la fronte; e chissà che altro. Fine, del resto, della seconda ed ultima divagazione) . Una notte infine, non so in base a quali indizi o prove, scoprii che l'intero mio giaciglio di sofferenza e di morte (in buon volgare il mio materasso) era composto di fili: quelli certo da cui le suore traevano il materiale per le loro devote combinazioni. Né starò a dire quanto tale scoperta mi imbarazzasse l'anima e il corpo. Ma per fortuna, un felice giorno, la Regina delle suore dichiarò: «La Grande Festività è passata, da oggi ciascuno potrà muoversi liberamente ».
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Quattro piccole uova palpitanti. Erano vive, ma bisognava sacrificarle alla famiglia, servivano perché la famiglia non morisse quel giorno di fame. E sta bene; ma in che modo queste uova convenivano ossia erano in relazione col ciclo o tema dei Cavalli? Neppure, poi, col ciclo: in particolare con quei vantaggiosi, dignitosi, formosi, atticciati e lustri (accidenti, più aggettivi in questa frase che nel carducciano Bove) cavalli che nel mio farnetico scontravo in un sonoro vestibolo di marmo ove aprivano le loro bocche quattro cisterne? Cavalli, per tutto dire, in qualche modo tributari della parola POMBA - sebbene, a mia confusa cognizione, Pomba sia o sia stata nient'altro che una casa editrice. Tutta la vita della stirpe... e Dio sa quale stirpe: la nostra, certo, ma anche ogni altra del mondo... si volgeva all'ombra di cavalli. La famiglia li tradiva bensì, ovvero i giovani li rinnegavano; ma l'ava, direttamente o indirettamente, li riaffermava. Li riaffermava, rivelandosi, nelle guance secche e smunte, nella piangevole espressione, nulla meno che osso di cavallo (osso proprio il viso, il mento). Ora, due intermezzi, già allora da me percepibili come tali e in ogni caso fortemente dubbi anche solo rispetto alla loro composizione o, diciamo, al loro valore rappresentativo e fantastico. Il primo. - Occorreva, evidentemente a scopo pubblicitario (imbonimento, non so, della clinica) ferirmi nei lombi e ben ostensibilmente lasciar colare il sangue; indi fare scorrere un'intera parete della stanza e fotografarmi su giaciglio di velluto contro un paesaggio di sole rivierasco... Più precisamente. - Primario: « Questo di questa stagione è il più bello e rutilante sangue. Si lasci dunque in grazia salassare: la gente ne sarà invogliata a... ». Io: « Ma il mio compenso? Coi miei poveri lombi lei fa i milioni: ed io che ci guadagno? ». Pare infatti che la mia sordida anima d'eterno indigente fosse allora ossessionata dall'idea di un compenso o di compensi ricavabili dal mio morbo. Il secondo. - Guardavo la televisione? e vi passava un Molière? Forse; ma il protagonista aveva sempre, in pro-
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spettiva, un rametto contro la bocca. E cosa avveniva? Un che certo di inconcepibile: il protagonista medesimo era un furfante la cui condotta non poteva essere interpretata se non quadruplicemente e ciclicamente (avverbi che d'altronde rendono male l'idea). E v'è in Molière alcunché di simile? Lo ignoro. Ma da ultimo... Mia moglie, la mia infelice compagna di vita e, in questa clinica, di cella 25, dormiva sonno agitato, cadendole ogni po' il capo; dormiva contro una di quelle coltrine di pelle (di camoscio?) che son poste talvolta a sostenere gioie sulle vaschette, sui cassettini, sulle leccarde degli orafi. Ed io guardavo lei, la sua misera testa affaticata, e mi ribolliva tutto e mirisorgevala vendetta (Oh, da quale abisso d'ignominia o di dignità derivavano o scarrocciavano queste parole?)... Sicché mi parve bello e necessario fare la pipì: a dispetto, per odio, per rancore, per amore. (E trovo su una cartella clinica: «... Emissione spontanea di orina»). Oppure, ecco. Mi pareva di precipitarmi a velocità inaudita per lunghissimi cunicoli, o piuttosto gallerie ferroviarie; che peraltro erano, a un certo punto del folle percorso, sbarrate - ovvero pervie sì, ma estremamente ridotte di luce, che non vi sarebbe passato un vermicciuolo (ed io ero un treno!). Si dava tuttavia un mezzo per eludere la difficoltà: altrimenti come avrei potuto da ultimo ritrovarmi in quella sala col piancito rigato di pioggia filtrante, per i mal accostati battenti, dalla via che l'alba minacciava? E il mezzo consisteva nel capovolgere e in certo senso stravolgere il convoglio ch'io ero, il quale in tal modo giungeva a infilarsi in quei minimi buchi. Questa immagine è del resto, ignoro per quali vie, collegata coll'altra della Più bella favola del mondo. E, tornato in me, ho sovente ripensato a ciò: senza alcun vantaggio per il buon senso, o per la ragione o per la volgare chiarezza. Quanto alla sorta di titolo qui sopra trascritto, esso mi sonava come pronunciato o recitato da una voce fuori campo, che si studiasse di svolgere e invece ingarbugliasse la matassa. In sostanza, durante questi smaniosi e inesorabili viaggi (dico durante la parte a cielo aperto del percorso), io ero
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di continuo accompagnato da un certo gracidio e cinguettio, anzi, gracidio e cinguettìo, quasi insomma di granocchie e passerotti. Il paesaggio era cupo alquanto e funesto; soprattutto lacrimoso, ché in quel paese pioveva e pioveva (... Là, sotto giorni nubilosi e grevi... etc.). E pensavo: « La Signora, la Regina di questi luoghi, traversa il suo feudo o regno e... ». Che E, mio Dio? Ma che grande Signora, e che grande famiglia la sua; famiglia di principesse, di voivodesse, di contesse che nude sfuggono presso fittavoli al Barbarossa (il pirata, non l'imperatore pirata). Che E, mio Dio, ripeto? - Non l'ho mai scoperto; non ho mai scoperto perché la più bella favola del mondo (che tale è difatto, lo giuro) lo sia. *
Riprendo qui e (per fortuna del lettore) conchiudo le mie dicerie su alcune immagini cliniche, o di clinica. Ma quanto segue è ancor più difficile da dire. Ogni suono, in una certa fase, era di natura lignea o piuttosto arborea, o meglio ancora lignea per ciò che arborea, ogni suono insomma essendo interprete di una determinata anima vegetale. Che so: l'ontano, il tiglio, l'orno, la betulla, avevano ciascuno la sua propria voce, rispondendosi (qui il singolare) di terra in terra e perfino di continente in continente. Il pianeta tutto, appariva irretito in tali misteriose corrispondenze sonore. Altra singolarità, queste voci o suoni non mai raggiungevano un tono puro e perfetto o almeno integro, intero. O tanto si sarebbe dovuto desumere dal terribile senso di insoddisfazione che accompagnava (come dire?) il loro manifestarsi. E volendo precisare, alle voci o suoni in parola mancava sempre ed esattamente mezzo tono... «Mancava»: e rispetto a cosa, quando purezza, perfezione e interezza erano in fondo una mera postulazione? Non importa: io ascoltavo sorgere, correre, e talvolta lanciavo, questo appello dalle coste d'Irlanda a quelle d'Islanda; e sempre, con infinita amarezza, lo riconoscevo debole. « Ecco » dicevo, forse urlavo « non v'è speranza: la
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tremula non può cantare come il rosso scotano. In ogni luogo, in ogni luogo del mondo, manca mezzo tono ». E, passando a diverso spaccato: Talvolta la notte mi si prospettava, come a Gérard, noire et bianche-, io mi facevo allora alla finestra e gettavo una rapida occhiata sulla piazza sottostante, dove una fontana di pietra in mezzo a vegetazioni quasi tropicali versava acque canore (nella brutale realtà nulla di simile facevo o, date le mie languenti forze, avrei potuto fare; né poi esiste la piazza del resto). Gettavo una rapida occhiata, e subito m'era chiaro. Che dunque? - Non è agevole, neppur qui, spiegarsi; mi varrò di un esempio. Una volta, mi fu evidente alla prima che chi presiedeva a quella notte era S. Benedetto, che costui ne era l'eponimo e la regnava: dalla disposizione degli oggetti, da non so che particolare atmosfera diffusa, da non so che piega o verso del vento, delle chiome degli alberi, da non so che ancora - il suo modo, la sua maniera, la sua regola, il suo nome, sprizzavano inequivocabili. E, stabilita questa corrispondenza (o questo dominio), l'intera notte poi passava sotto il suo segno, con mille... Eh via, con mille cosa? Con mille altre labili assurdità, con mille altre inafferrabili immagini. Ma per fortuna ci si avviava ormai, benché (come diceva,Carlo d'Angiò) «a petitti passi », verso un che dall'adorabile nome: la Lisi. Si temeva ora che l'enorme quantità d'ossigeno necessariamente somministratami potesse aver prodotto guasti irreversibili nel mio cervello, già tanto debole per natura. Donde l'impegno di mia moglie, imbeccata dai medici, in questa fase (ossia quando avevo già, purtroppo, rivarcato la soglia della coscienza). Mia moglie, ad esempio: « Ecco, noi siamo qui a Sanremo... o non ci siamo? ». « Beh sì, credo di sì ». «Credo?». « Sì ci siamo ». «Sì dunque; ma Sanremo, proprio Sanremo, che cos'è? » seguitava, insinuante e melliflua. Mio Dio, già: « Sanremo » che cos'era? Non vedevo, che
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corrispondesse a una tale denominazione, se non un isolotto ovoidale, disancorato in un mare azzurrissimo, battuti ambedue da un sole abbagliante; un isolotto, però, interamente di legno; un amabile isolotto, che mi cavava lacrime di tenerezza. Comunicavo, sicché, questa visione a mia moglie; la quale asciutta: «Ah. E dimmi: del nostro amico Filiberto ti rammenti?». « Se me ne rammento! ». « Bravo; e dove abita? ». Altro duro problema: in realtà, dove abitava?... « In una grande casa contro il mare ». « Che casa, dove? o cosa ha di peculiare? ». « Ha qualcosa di turco ». «Turco?». «Turco». « Oh cielo, turco! ». Oppure: « IP., i C., gli M., sono tuoi cugini? ». « Certo, cugini primi ». « E perché lo sono? ». « Beh, perché figli di... ». (In verità, di chi? di zie, di zii o che?). « Coraggio ». « IP. sono figli di una zia » . « Perfetto! ma come si chiamava? » (Dio solo lo sapeva). « E tua nonna, perché era tua nonna?... ». E così, e così di seguito. Poi finalmente capirono che se la testa non mi fosse di già andata via, me l'avrebbero mandata a spasso loro con codesta razza di quesiti (tra l'altro non ero tanto bocco da non intendere che cosa i medesimi celassero). La smisero. Rimase la questione delle luci alle imposte, che mi parevano sempre albali, laddove erano dovute a imprecisate fonti esterne. Da cui le lezioni della diligente consorte: con parole insospettate e buffe, per esempio diurnazione. E anche: « Ho il compito di rifarti una coscienza, di reinserirti nel mondo »... etc. etc.
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Rimase altresì, o meglio risorse, l'antica avida brama di caffè, per perfido che fosse. Ma: « Oh cara, quando arriva il caffè? ». «Il caffè! » esclamava sobbalzando dal sonno. «Ohè, ti rendi conto di che ore sono? ». «No». «Le tre». « Con tutta codesta luce al balcone? ». « Non ci credi. Beh, » e sonava il campanello e compariva l'infermiera di notte « signorina, gli dica che ore sono ». «Vediamo: le tre ». Le tre davvero: cinque ore al caffè. D'altronde non ha senso seguitare con queste ricognizioni. Guarii insomma, quel poco che potevo guarire; e vivo ora sotto un incubo atroce, come chi sa che un giorno o l'altro dovrà morire... M'hanno detto, è vero, che tale è la condizione di tutti gli uomini. Voglio a buon conto soggiungere due cose, come segue. Per bizzarre che siano, le immagini qui sopra accennate potrebbero trovare alcuna rispondenza nella realtà: nella realtà clinica, senza dubbio, ma anche esistenziale. Che, sempre a buon conto, è opportuno non prendere in considerazione. Non prendere neppure, in considerazione, tanto infida si presenta talvolta, la realtà. Secondo. - Un'occasione simile, dove o quando mai la ritrovo? M'era perfino stato risparmiato il fisico dolore, il dolore volgarmente detto, il dolore straziante: era quasi subito sopravvenuta l'incoscienza, il coma addirittura. Sarei partito di qui senza avvedermi di partire... Potrò mai, dico, ritrovare una morte così dolce? Tanto più che, in barba ad alcuni pensatori, nulla si ripete, e che basta immaginare una cosa perché non avvenga?... Ah, bella responsabilità davvero, si son presa, coloro che mi salvarono dalla morte: colei, in particolare. Da tutto ciò, pure, rimane esclusa la più misteriosa delle immagini: quella del cane. Che cane? - Non so, in coscienza. Un cane che con un qualche suo comportamento denunciava un qualche oscu-
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ro delitto... In verità, di questo cane non ho finora parlato perché è troppo difficile farlo... Detto cane moriva con un salto sghembo allo scopo di ottemperare in tutto e per tutto alla volontà del suo padrone, uomo serio, pensoso e penetrante... E con questo rendeva manifeste le trame di chi aveva organizzato... Lettore, ci capisci tu qualcosa? Io no. Di tutto questo, mio Dio, le mie povere notti si facevano una croce... Tutta una notte, passava nella commiserazione del cane; e della vita umana... Ma basta, non ridestiamo i demoni.
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LA VERSIERA
Sono stato a visitare un amico: laggiù dalla parte del mare, dove, tra l'altro, ci son tanti rigogliosi aranceti. L'amico è appunto felice possessore d'uno o due di codesti giardini delle Esperidi; epperò la nostra giornata trascorse quasi per intero all'aperto, guidandomi egli attraverso il suo opulento regno e aspirando io debitamente le aure balsamiche. Ma, col declinare del sole e l'insorgere della cruda brezza serotina, ci ritraemmo in casa: una dimora solitaria, lontana dall'abitato. Qui, dopo la solita rimpatriata, l'amico cadde d'un tratto in cupe fantasticherie, le quali nondimeno stranamente coincidevano con alcune mie proprie, antiche e recenti; e che di seguito riferisco, sperando possano interessare anche qualcun altro. (Al mio fiacco tentativo di ripartire egli non aveva dato peso: mi aveva bellamente sequestrato per diritto d'amicizia). Cominciò col pormi un quesito, francamente, dei più ardui; disse: « Tu che ti vanti di penetrare... ». « Ti prego, io non mi vanto di nulla ». « E invece sì: basta guardarti in faccia per capire che ti vanti di penetrare. Ebbene, tu che ti vanti, come spieghi i singolari effetti prodotti da un cencio qualunque buttato su una qualunque seggiola? ».
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« Non li spiego in nessun modo perché non ho neppure inteso di cosa si tratta ». «Ecco: avrai notato che talvolta (che sempre o quasi sempre, per quanto mi riguarda) da una stoffa, da un indumento buttati lì senza disegno prende figura... qualcosa? ». « Si continua cogli indovinelli: che cosa? ». « Un viso umano, per esempio, o semiumano o... ». « Cioè, vuoi dire che le pieghe di quella stoffa compongono una tale immagine? ». « Eh già. E che significa questo? ». « Uhm, suppongo sia un caso ». «Ammettiamolo; ma perfino il caso abbisogna d'un materiale su cui operare ». « Beninteso » concessi ingenuamente. Ma subito dopo, avendo fiutato come una insidia: « Questo però che vuol dire, o meglio in che relazione è col nostro contesto? ». « Dillo tu ». « Oh da' retta, » esclamai « stasera non mi riesce proprio di tenerti dietro ». «Via, via: hai capito a meraviglia». « Non pretenderai, benedetto uomo, » mi sforzai di riprendere, già tentato « che, se da codesto tuo cencio buttato sulla seggiola nasce o si configura l'ipotizzata immagine, ciò avvenga perché essa vi è contenuta ab aetemoì ». « Ti esprimi molto male; ma, tutto sommato, è ciò che pretendo». « Ossia l'inerte materia, » rincalzai sempre più tentato « sarebbe gravida di inaudite rivelazioni? e starebbe solo in noi, nelle debite circostanze, il trarne messaggi significativi? ». «Adagio» fu la deludente risposta: «chi ha parlato di messaggi significativi? E, quanto alle inaudite rivelazioni, piuttosto chiamiamole semplici manifestazioni (Dio sa a qual fine) di maligne presenze ». « Come: necessariamente maligne? ». « Beh, sta il fatto che mai mi è accaduto di veder affiorare dai miei cenci (come li chiami) una faccia amica». A questo punto, però, io volli far macchina indietro: ero un po' spaventato soprattutto dalla sua tranquilla follia. Ché folle di certo era il suo assunto, se spacciato in to-
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no tanto positivo e senza lasciare alcun margine al dubbio, magari al divertimento. «A conti fatti, non credo un ette delle tue ciance» dichiarai. E lui con serenità olimpica: « Facciamo, allora, un esperimento? ti senti in forze? ». L'esperimento che seguì, debbo dirlo, non appare del tutto probante: è verosimile, anzi sicuro, che fui influenzato o suggestionato nel mio giudizio e nella mia visione medesima. Ad ogni modo, ecco come si svolse la faccenda. « Dunque accetti? » riprese l'amico. « Bene. E ora, di cosa ci serviremo? Sceglilo tu, il cencio destinato a convincerti». «Mah, uno qualunque... quello!» decisi, indicando a caso un pezzo di stoffa che, accuratamente piegato, pendeva dalla spalliera d'una seggiola. « Quello? » fece eco lui. « Sì... Che cosa è, esattamente? ». « Una fodera di guanciale: sai, del divano-letto in cui dormirai. Comunque mi congratulo per la tua scelta, è davvero il più innocente pezzo di stoffa che si trovi in questa stanza». « E avanti, procediamo! ». « Subito, subito... Sicché, tu vedi qui un innocentissimo pezzo di stoffa. Che io adesso spiego, strapazzo, appallottolo, e butto senza disegno sulla seggiola. E... ma vieni a vedere, vieni presto ». « Perché, c'è qualcosa da vedere? » dissi dopo aver dato un'occhiata, che voleva parere indifferente, al groviglio. « Guarda da te, guarda meglio ». Guardai meglio, con aria di degnazione, e non vidi niente; ossia, niente più che un capriccioso, casuale panneggio, dal quale non mi venivano indicazioni o suggerimenti di sorta. «Mi duole significarti, caro il mio uomo, che con me non attacca. Bah, d'altronde dovevo immaginarlo, ch'era tutto uno scherzo» soggiunsi quasi con rabbia e quasi m'avessero defraudato d'un che.
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«Ah, ma allora sei cieco o insensibile! » gridò lui. « Qui, qui: queste linee, cioè queste pieghe, che si congiungono qui e tracciano il contorno d'una fronte... Le vedi o non le vedi?». « No. Ovvero, le pieghe sì, la fronte no ». « Oh che ostinato... E qui, ecco, gli occhi, il naso, la bocca...?». « E inutile tu seguiti, t'ho già detto che non vedo nulla. A buon conto, setifa piacere esser preso sul serio, e giusto per la cronaca, tu in complesso cosa vedi? ». « Una orribile faccia di donna ». «Nientemeno. E ora smettiamola con questi ridicoli esperimenti ». «Ah, no perbacco» replicò. «Forse l'apparizione, d'accordo, non era abbastanza distinta. Per cui riproviamo». E, dando una manata alla stoffa, la fece impennare e poi ricadere di sghembo; indi si chinò a scrutarla. « Stavolta è tutto più chiaro, più palese » disse lietamente eppur gravemente; « stavolta sfido chicchessia a non vedere... Guarda! » e, senza dare spiegazioni, andava inseguendo col dito non so che fattezze. Ed io già mi preparavo a fargli pesare addosso, con una ben calibrata replica, la mia sufficienza e la sua follia; quando d'un tratto la vidi, l'immagine implicata nella stoffa. Era davvero un'immagine bieca, turpe, che non si poteva guardare senza fremere. Un viso, insomma, di vecchia versiera; ma a tal punto evidente, a tal punto ben delineato anzi modellato, da riuscire quasi insostenibile al cuore (nonché alla vista). E, come l'amico aveva preveduto, dalla orrenda effigie spirava un senso di malignità implacabile. Altro non voglio aggiungere. Salvo che distrussi immediatamente, stirando e ventolando la stoffa, quel prodotto... posso ancora dire: del caso?... memore del monito d'una saggia dama di mia conoscenza: «Non bisogna lasciarle queste cose, se no esistono » (intendeva: « se no prendono a vivere»). Dopo ciò, si capisce, il mio primo pensiero fu quello di
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fuggire. Non potevo farlo sul momento; ma al mattino, non appena le stelle cominciarono a impallidire... poiché in quei luoghi (che non oso più definire felici) tutti e tutto muove a prim'ora. L'amico ebbe un bell'esortarmi a rimanere, facendomi balenare «ben altre rivelazioni»: preferii, ho preferito ripartire. E confesso che da un paio di giorni bado soltanto a disfare grovigli di stoffe, di cenci, di strofinacci, ovunque per avventura se ne produca.
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DIARIO PERPETUO
LA PAZIENZA. LA TIMIDEZZA
Seguendo la poco raccomandabile abitudine di mettere il naso tra vecchie carte, trovo le seguenti notazioncelle, che in verità non so se l'eventuale lettore potrà giudicare (com'io sul momento ho fatto) salvabili. Comunque... Anzi, anzi, niente puntolini. In oggi si scrive: Comunque e punto fermo e al diavolo la sciagurata controparte e morte alla letteratura. FORMULA DELLE PAZIENZE
Questa formula, benché (suppongo) non peregrina, ha ciò di peculiare ed oserei dire di glorioso: che fu nel tempo d'oro stabilita, a mia richiesta, da Carlo Emilio Gadda, il celebre matematico ed ingegner costruttore e trattatista magnesiaco a ciascuno noto. Cui dunque (in seguito provatosi, e non senza successo, nell'arengo delle patrie lettere) resti consacrato il poco seguente. Se giocare (d'azzardo) è sempre un lavoro estenuante, giocare sul vivo (ossia non in vincita) è fatica che rischia a ogni momento di soverchiare l'umano coraggio e l'umana energia. E una questione di pazienza, ma di pazienza che si sa precedentemente inutile nel caso la sorte voglia
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decisamente accanirsi contro di noi, e che per di più deve, come s'intende di leggieri, aumentare in progressione almeno geometrica rispetto alla matematica delle perdite. La pazienza impiegata in ogni colpo sarà dunque eguale al prodotto delle pazienze impiegate in tutti i colpi precedenti, moltiplicato per gli elevatissimi coefficienti di delusione dei colpi perduti (dei quali coefficienti ognuno è, si capisce, almeno eguale al quadrato del precedente), diminuito appena della magra somma dei decrementi di soddisfazione sulle pazienze semplici impiegate nei colpi vinti. La seguente formula generale potrà forse risultare interessante per qualcuno: P = ( P1a • P2 a -P3a ... P .a" ) - dx in cui P esprime la pazienza al colpo n, a il coefficiente di delusione, x il numero dei colpi vinti sugli n colpi giocati, di\ decremento di soddisfazione, P P .. le pazienze semplici ai colpi 1,2... Se si ammetta d'aver giocato sul vivo 10 colpi, di cui 5 vinti e 5 perduti, il valore in pazienza dell'I 1° colpo sarà pertanto espresso dalla seguente applicazione: P = (PjO • P a - P a ... P a ) - db E così via. Sicché alla fine, la pazienza aumentando paurosamente, uno spasimo, un delirio di pazienza brucia i nervi e, raggiunto il massimo del tollerabile, deve logicamente produrre la morte. O quanto meno un atto d'impazienza, quasi altrettanto fatale al giocatore. n
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CHIASMA DELLA TIMIDEZZA
La cupa ed oscura tragedia della timidezza sta nel fatto che il timido è perennemente sproporzionato alle sue contingenze. Quest'infelice parla correntemente il francese soltanto con se stesso in camera sua, ovvero con persona la cui ignoranza di tale lingua sia ben provata (meglio nel secondo caso per motivi laterali); gradatamente 10 parla sempre meno bene per quanto meglio lo conosce 11 suo interlocutore, seguendo dunque secondo inversa ragione la curva delle attitudini di costui; non lo parla per nulla o lo parla ignobilmente con un nativo della dolce
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Francia. Analogamente e in termini generali, nei confronti d'un qualunque essere umano (o magari animale se non vegetale) il timido si ritrova in condizioni tanto peggiori, quanto maggiore è il suo desiderio di procacciarsi la simpatia e la considerazione dell'essere medesimo. Si vedano ad esempio i suoi rapporti colle donne. Su quella per cui la pressione * sarebbe più che sufficiente egli esercita una pressione x + n; e per converso, su quella che richiederebbe almeno una pressione y non esercita che una pressione y-n. I due casi estremi o limite sono così rappresentabili: Necessità di pressione 0 — Pressione esercitata Necessità di pressione oo — Pressione esercitata 0 Eppure basterebbe una semplice inversione perché tutto si mettesse per il suo verso! Non è, infatti, che manchino le cariche d'energia necessarie a una soluzione soddisfacente, ed è appunto questa coscienza che rende così tormentoso il dramma del timido. Ecco (sempre in termini estremi) l'immagine grafica o formula tendenziale dell'assestamento, ottenuta a buon conto senza provocazione di nuovi elementi o quantità: N. di Pr. 0 Pr. es. N.diPr. oo ^ Pr.es. 0 ... e il timido avrebbe ambedue le donne tra le braccia. Tralascio una casistica che mi porterebbe troppo lontano. Basti qui soggiungere che queste tipiche inversioni di potenziale possono, a complicare ancora le cose, divenire da determinate determinanti. Se poi si cerchi di rendersi ragione del suesposto, soccorrerà provvisoriamente una immagine abusatissima: il timido è una lepre. Il terreno naturale della lepre è in salita, epperò essa in discesa avanza con una certa lentezza, ma non già per difetto di energia, sibbene anzi per eccesso: giacché (il suo treno posteriore essendo assai più sviluppato dell'anteriore) la violenza stessa dei suoi balzi, sproporzionata alla configurazione del terreno, la porta continuamente a inciampare, a rotolare su se medesima,
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eccetera. In somma le possibilità del timido sono bruciate proprio dalla violenza del suo slancio, nel terreno a lui più sfavorevole. Se ne conclude, in via di secondo corollario, che - un impulso non potendo produrre, al di là d'un certo limite, commisurabile risultato ma anzi compromettendo, se eccedente, il risultato stesso - ogni organismo, ogni complesso organato, come anche l'armonia degli astri, è paragonabile a una macchina che segue un certo regime e non tiene più, oltre una certa pressione. La presenza di questi margini morti e infruttiferi è ovunque riscontrabile. È spesso per questo che abbiamo l'impressione di trascinarci dietro il corpo come un peso. L'anima sarebbe dunque la Disorganizzata.
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LASSÙ
« Dite un po', voi ci siete stato? ». «Dove? ». «Ma lassù». « Certo che ci sono stato ». «E come?». « Per forza di volontà ». « Di volontà! ». « Sicuro; perché, lo conoscete voi un propellente capace di trasportarvi d'una in altra galassia a una velocità tale che possiate raggiungere la meta prima di morire? ». «Noi no. Ma...». « Ebbene? ». « Non c'è l'iperspazio? ». «Eche cos'è?». « Come, non sapete cos'è l'iperspazio? ». « Ma sì, ma sì che lo so. Dico peraltro: voi l'avete mai visto, l'iperspazio? ». «Noi no». « E neppure io, e penso che sia favola di poeti. L'iperspazio è come il dio dei tempi andati: tutti ne parlavano e nessuno lo aveva veduto ». « E allora come siete arrivato lassù? ». « Per forza di volontà, ve l'ho già detto ».
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« Bah, in fondo a noi poco importa come ». «Bravi». « E d'altro canto no: ci importerebbe sapere cosa vuol dire "per forza di volontà" ». « Ciò che vuol dire e nulla più: uno fa gli esercizi spirituali del caso, poi si concentra, si concentra, e alla fine si ritrova dove vuole ». «Ah! ». « E insomma vogliate senz'altro considerarmi lassù ». «D'accordo, d'accordo. Sicché cominciamo il discorso vero e proprio ». « Cominciamolo ». «Voi sapete che, a prezzo d'anni di bilancio... ». «Anni? Bilancio? ». « Cioè, impegnando i nostri più cospicui redditi nazionali, noi abbiamo raggiunto il nostro satellite naturale ». «Naturale?». « Beh, il nostro satellite ». « E allora? ». « Raggiunto, senza cavarne alcunché, salvo un pugno di terra o qualche pietruzza ». «Venite al fatto, vi prego ». « Ecco, noi vorremmo invece sapere qual è l'aspetto generale di quel remoto luogo ». « Intendete forse il paesaggio? ». « Sì, press'a poco; cercate di darci un'idea dei paesaggi di lassù». «Eh, cosa dirvi! Comunque, dirvi qualcosa di positivo non saprei e non potrei (a parte che non vorrei) ». « Come sarebbe? ». «Cosa?». « Innanzi tutto, perché non vorreste, o potreste non volere?». «Perché sperimento in me stesso una specie di ritegno ». « Uhm, lasciamo stare. Allora, come mai qualcosa di positivo no? ». « Perché in realtà sono negativi ». « Chi o cosa? ». :
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« I paesaggi di lassù ». « Via, che vuol dire? ». « Se ne percepisce ciò che non ne fa parte, non ciò che effettivamente li compone ». « E come è possibile questo? ». «Infatti è difficile da dire... Guardate però: qui da noi può capitare d'udire certe musiche il cui precipuo valore è nelle pause ». « Quei paesaggi sarebbero pause musicali? ». « Eh, che ne so io ». «Vediamo: ci son montagne, in codesti paesaggi, o no?». «No». «Ah, no?». «No, dico». « Pianure? ». «No». «Selve?». «No». «Fiumi?». «No, no! ». «Mari, laghi?». « No, no, no, e non mi tediate dell'altro ». « E allora cosa c'è? ». « Santo cielo, dovreste piuttosto chiedere cosa non c'è ». « Ebbene, cosa non c'è? ». « Ma ve l'ho or ora detto! ». « Ossia cosa? ». «Le montagne, le pianure, le selve, i fiumi, i mari, i laghi». « Codesti non ci sono? ». «Non ci sono». « E allora cosa...? ». «Non ricominciate: c'è che codeste cose non ci sono». « Ma in grazia aiutateci a concepirlo, un simile paesaggio». « E colpa mia se quei paesaggi son tali? ». «Avanti avanti, sforzatevi: come si presenta il tutto? ». « Il tutto? Il niente, vorrete dire ». «Aspettate. In conclusione cosa si vede? ». « Niente, credo ».
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«Benedetto, anzi maledetto, uomo! Quando voialtri vi mettete a viaggiare perdete la bussola, si deve credere ». « Ma no, vi assicuro che non si vede niente, e non so come farvi capire. Ecco, o forse sì, si vede qualcosa: si vede per l'appunto il fatto che non si vede niente... Capite? ». «No! ». « Madonna santa, ma colla vostra incomprensione mi fate alterare ». «Ah, io vi faccio...? ». «Voi, proprio voi che avete così vasta esperienza delle arti figurative (terrestri) ». « Ma cioè? ». « Cioè, cioè! Davanti a quei paesaggi voi (un tale) dite a voi stesso: "Ecco, lì manca una montagna, forse due; e lì un fiume, e lì una selva, e lì un mare, e lì... cosa altro avete detto?... e lì un lago" ». « Dico a me stesso: ma non vedo niente? ». « Sempre più, Dio vi abbia in gloria, di quanto vedete in quella lavagna o in quella finestra o in quello specchio ». «Quali?». « Quelli esposti a Palazzo Strozzi: una lavagna senza segno alcuno, una persiana chiusa, eccetera». « Insomma è la fine! ». « Ma no: su tutto, o meglio su nulla, s'incurva un cielo verde... ». « Perché verde? ». « Perché tale è... E corrono per l'aria ammoniacale canti. E questo in certo modo sostituisce o ricrea o crea ciò che manca... Chiaro? ». «No! ». «Andate al diavolo, cordialmente e con molte scuse. Voi non avete immaginazione: prima di recarmi lassù io vivevo a Venezia, che credete ». «E con ciò?». « Tutti i giorni e a tutte le ore vedevo paesaggi negativi». « Sì, ma condotti a salvamento (poniamo) dalla pittura. Eppoi negativi davvero non dovevano essere, poiché nascondevano alcunché di preciso, di concreto... Dietro i vostri, cosa c'era? ». «Non l'ho mai saputo e neppure desidero saperlo ».
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«Voi sicché viaggiate nel cosmo in pura perdita». «Amico, io viaggio nel cosmo per non vedere, non per vedere». *
« Informateci, per favore, di codeste istituzioni culturali: cosa erano o sono gli spettacoli cui testé vi riferivate? spettacoli pubblici, suppongo? ». « Certo, pubblici e a pagamento ». «A pagamento: ma non avete fin qui detto che lassù non si fa questione di denaro, o meglio che il denaro è addirittura ignoto? ». « Sì, sì, ma una qualche idea di compenso è pur sempre implicita nelle loro concezioni ». «Ah sì? E il pagamento o compenso, allora, in che consisterebbe? ». « Ma nel gradimento ovvero nel piacere provato dallo spettatore ». « Già, già. Comunque andiamo avanti ». « Dove o verso dove? ». «Orsù!... Cosa viene rappresentato in codesti spettacoli?». «Nulla». «Ah, ci risiamo? ». « Nulla, vi dico ». « Ma insomma, cosa avviene? ». «Nulla». « Sentite, parliamo così, terra terra. Che cosa sono, quelli dove si svolgono gli spettacoli: teatri o sale o...? ». «Beh sì». « Oh, meno male. E poi? ». « Che poi? ». « Oh Dio, come va la faccenda? ». «Niente: s'entra, si sta lì ». «Dove?». «Lì». « Ma come: seduti? ». « No, a cavalcioni ». « Di cosa? ». «Di... di... Mah, che ne so io! ».
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« Sforzatevi di ricordare ». « Ricordo benissimo ». « E che ricordate? ». «Niente». « Niente? ». «Niente». « Ma, dico, voi entrate in una sala o no? ». «Sì entro». « E poi? ». « Ecco il guaio: poi, non so ». «Vi sedete?». «Non proprio». «Come! ». « Ripeto: non proprio ». « Ma che intendete? ». « Quello che ho detto ». «Ma...». « Date retta: voi come vi sedete? Cioè, su quale parte del corpo vi sedete? ». « Sul sedere ». « Beh, e invece lì arriva una bella... ». « Una bella che? ». « Una bella ragazza, eh diamine ». «E...». « E vi mette tra le gambe... ». «Ah ah: cosa?». « Non so cosa: un che ». « Ma vi rendete conto che state parlando da mentecatto?». « Sto rapportando il vero ». « Cosa vi mette tra le gambe? ». «Alcun che come una sella». « (Oh Goethe!). Oh finalmente! Vi sedete su una sella». «Sì». « E in tal positura ascoltate il dramma ». « Ma scherzate: non c'è dramma». « E che c'è, Dio v'aiuti? ». «Voi piuttosto colle vostre domande! C'è... c'è dapprima come un impasto o miscuglio di sensazioni strane, ambigue, sfuggenti e volatili; còme... ecco, come un odo-
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re, un profumo... un odore gradevole in ogni caso. Capite? ». « No. Ovvero intendete che in tali sedute o cavalcate è soprattutto sollecitato l'olfatto a detrimento di... ». « Forse. Ma, a conti fatti, non è cosa molto agevole (né molto utile) da chiarire ». « E lasciamo per ora. Dicevate che ciò avviene o si prova dapprima: e poi? ». « Poi si arriva al clou ». «Al clou? ». «Aciò che importa, o che più importa». «Allabuon'ora: e cos'è esattamente codesto? ». «Sentite, qui se volete seguirmi dovete abbandonare tutte le vostre idee preconcette o, diciamo, terrestri rispetto a quanto può venirci da un'opera dell'ingegno ». « Fatto, fatto ». «Ebbene, nella sala comincia a diffondersi un senso quasi di rammarico ». « Di rammarico? ». «Eh sì». « Ma rammarico relativo a che cosa? ». «A niente e a tutto. Lo spettatore, o meglio assistente, comincia a percepire come uno svogliamento da tutto quanto gli fu caro e in genere da ciò che fa la vita dell'uomo: Grande Cordigliera, splendori d'Oriente, amore, gloria eccetera». « "Svogliamento"... e codesti termini improvvisi e conturbanti... ». «Aspettate: a questa sensazione tra tutte incerta sebbene acuta tien dietro... Insomma si viene a stringere ancor più da presso l'argomento ». «Argomento, lo chiamate! ». « E chiamatelo come volete ». «Va bene, va bene; e qual è la prossima sensazione? ». « Eh no, piano, non più sensazione ». « E che? ». « Un... una nozione virile, consapevole eccetera ». « Eccetera? ». «Dite allora un'idea; o, guardate dove arrivo, un concetto». «Addirittura concetto! ».
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« Fate voi ». « E voi fate conto che io abbia fatto. Avanti ». «Vi avverto però: se mi interrompete dell'altro vado a... (censura) ». « Ma che vi salta! ». «O a prendere un Negroni alla sede sindacale dei RIC». « Oh Dio, siate più serio ». « E voi meno petulante ». « D'accordo; proseguite ». « Ordunque, eravamo rimasti alla nozione virile, anzi al concetto; e adesso voi vorreste saperne di più, in proposito? ». «Appunto». «Se. Ebbene, questa nuova dimensione s'impianta o consolida negativamente anziché positivamente... Chiaro?». « Domanda oziosa: per nulla ». «... Negativamente, ossia accenna con insistenza a ciò che non è, piuttosto che a ciò che è. Donde, tra l'altro, un risucchiamento generale ». « Risucchiamento? » . « Risucchiamento dell'anima verso una realtà possibile, ma non realizzata, non vissuta, non consumata... Tutto questo è...». « Che tutto questo? ». « Mettiamo, la vita ». «Uhm». « Tutto questo è: ma cosa gli manca? ». « Cielo! cosa gli manca in effetti? ». « E chi lo sa! Lì, in quei discorsi e dibattiti meramente interiori, non è precisato ». « Ma lo spettatore, o assistente, finisce per averne un'idea?». « No; oppure sì sì, ancorché opinabile ». « E infine, cosa gli manca? ». «Nulla! ». « "Nulla"! ». « Sì, non gli manca nulla per essere realtà; e gli manca tutto per essere altro... per essere il to timiotaton». «Peuh».
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« Non conoscete il greco antico? ». «Ma sì. E no. Del resto la questione non è qui: codesto che manca, chi o cosa potrà sopperirlo? ». « Ehi calma, amico: quegli spettacoli non lo dicono. Ciò sarà se mai argomento della prossima relazione ». *
« Parlateci, ve ne preghiamo, delle donne ». « Di qui o di lassù? ». « Che diamine: di lassù ». «Beh, uhm...». « E dunque? Oppure non ci son donne e la generazione, cioè la perpetuazione della specie è assicurata in altro modo? Ci sono insomma i due sessi? ». « Ci sono, ci sono ». « E allora ci son anche le donne? ». « Ci sono e non ci sono ». « Come! ». « Ecco, per esserci ci sono, tuttavia... ». « Oh beh, ma insomma avranno anche loro bocca, occhi, eccetera». « Certo, certo. Ma il fatto è che tali attributi sono lassù del tutto accessori ». « Spiegatevi meglio ». «C'è poco da spiegare... Voi, qui, perché guardate le donne?». « Oh bella, perché... ». « Coraggio ». «Ah, ora diventiamo noi gli interrogati? ». « Perché guardate le donne? ». « Perché queste deliziose creature sono dolci, buone e consolatrici». «Al passeggio pubblico ». « Che vuol dire? ». « Che, ammesso siano dolci e buone, voi, vedendole passeggiare nel parco, non potreste saperlo. Nel parco dunque le guarderete per qualche altro e più immediato motivo: animo, per quale? ». « Per le loro curve armoniose? ».
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« Eh già. Ebbene, ecco il punto: le donne di lassù nessuno le guarda per le loro curve armoniose ». « Ma dette curve quelle femmine ce le hanno o no? ». « Questione oziosa, questione... terrestre ». « E in definitiva? ». « Non so rispondervi, e son costretto a un ulteriore raffronto. Voi qui uscite di casa e per avventura scontrate una bella amica, una anzi da voi ammirata e concupita: va bene?». « Andate avanti ». « In successiva occasione, se per alcun motivo o per alcuna civetteria della donna doveste rammentare qualcosa del suo abbigliamento, la gonna o il cappellino, sareste in grado di farlo? ». «No! ». « Ecco, vedete; E del pari lassù non rilevereste le loro curve armoniose, o le dimentichereste subito dopo: al punto che io, per quanto mi riguarda, non so darvene notizia». «Codesto, perdonateci, è piuttosto oscuro. Difatto, le curve già troppe volte mentovate hanno o non hanno una funzione determinante nel meccanismo di riproduzione della specie? funzione di richiamo, di eccitamento e così via?». «Forse». « E in tal caso la loro importanza deve essere ben superiore a quella da voi prodotta o ipotizzata. Poiché in ultima analisi con codesti attributi si deve far l'amore. O se no come si arriva, dicendolo brutalmente, all'accoppiamento?». « Piano: codesta veduta è troppo manifestamente desunta dai processi fisiologici in atto quaggiù. Ma, prescindendo da ciò, devo confessare che di questo rapporto tra i due sessi non m'è riuscito dì formarmi una chiara idea. Opino...». «Lasciate stare le opinioni... O se no, su cos'altro potrebbe fondarsi l'atto d'amore? In diverse parole, quale altro allettamento, quale altra vincolante malia esplicano le donne di lassù? ». « Finalmente rimettete il discorso nei suoi giusti termini... Quale altro? quale altro? ».
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« Sì ». « Quale altro! ». « E forza, decidetevi a spostarvi da codesta dizione ». « Quale altro! Ma ciò che fa l'incanto, il fascino, l'incantesimo, la magia, lo slancio vitale, eccetera, di quelle donne! ». « Così la tautologia è completa ». « In breve quelle donne, come voi le chiamate, promanano un senso infinito di pace ». «Non è nuovo, quanto dite: perfino delle terrestri, si potrebbe questo dire ». « Ma nuove a me per contro suonano le vostre allegazioni: non è più vero che le donne di quaggiù recano guerra e non pace, e che nei casi migliori comportano una quantità di sensi frustrati e delusi, ad esempio un senso d'infanzia e al tempo stesso un rimorso per l'infanzia e l'età dell'oro perdute, con altre dannatissime complicazioni? ». «No, guardate, non ci abbandoniamo a disquisizioni più o meno eleganti su queste donne: voi dovete parlarci di quelle». « Ma non posso farlo senza valermi in qualche misura delle mie o anzi vostre esperienze terrestri ». «Avanti, avanti ». « Quando vi ho detto che quelle diffondono un'aura di pace intendevo che esse, a differenza di queste (di fronte alle quali un sentimento d'impotenza irritata è di regola), inducono un'idea d'appagamento ». « Ossia, vi sarebbero i sessi ma non la guerra tra i sessi?». « Che so io ». « Scusate, ma fin qui, con tanti discorsi, non siete ancora riuscito a fornirci un'immagine purchessia di quelle creature». « Ci credo: non la ho io stesso ». «Voi affermate infatti che i loro attributi fisici restano (o sono per voi restati) inappercepiti; e sta bene. Ma, se non diretto, un modo di conoscenza o almeno di descrizione indiretta vi sarà pure? ». « Non vi intendo ». « Ecco: vi sarà capitato di avere con taluna di quelle una relazione intima? ».
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« Eh? Come vi permettete! ». « Perché, cosa vi ho detto d'offensivo? ». « Codeste faccende, per vostra norma, lassù non hanno luogo». « Ma se avete voi stesso assicurato... ». « Ovvero sì, hanno luogo, ma come inavvertitamente: capite?». « Oh santo Dio, invece d'impennarvi cercate di intendere a cosa noi si voleva parare ». « Beh, a cosa? ». « Una relazione di tale o infine di qualunque altro ordine, vogliam dire, nel vostro ricordo come si configura? ». « Oh, interessante: voi sapete almeno interrogare ». « Rispondete ». « Si configura come un traguardo raggiunto ». «Raggiunto! ». « Raggiunto ». « Singolare davvero: le nostre donne ci hanno abituati ad altro, anzi persuasi e convinti (o confessi) della sensazione opposta». « E non era questa or ora la mia premessa? ». « Sì. Ad ogni modo, raggiunto o no l'ideale traguardo, a voi cosa restava o resta in mano? ». « Ma che volete dire! ». «Una donna, di qualsivoglia regione dell'universo, è non solo un sentimento, una musica, un'aura, una luce, ma eziandio un che ». « Quasi sentimento, musica, luce, non fossero un che ». «Via, via, capite bene cosa intendiamo. Insomma, se gli attributi fisici di quelle creature vi sfuggivano, su cosa si impianta il vostro ricordo? ». « Devo riconoscere che, se non positivamente diventate, vi sforzate di diventare più intelligente... man mano che discorrete con me ». « E allora? ». « Badate però, se la domanda è intelligente, questo non significa che la risposta sia diffìcile ». « Udiamo tale risposta ». «Voi, quando fistiettate... ». « Fistiettate? perché non fischiettate? ».
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« Fistiettate, fistiettate... Voi, quando fistiettate La donna è mobile, cosa avete in mano? ». «Ah no, è una risposta un po' troppo ovvia ». «Vi sembra? Lasciatemi sicché commentare questa fase delle nostre conversazioni e questa nuova sospensione di esse colla seguente fiase: "Che accademia di scempiaggini" ». « Che accademia di scempiaggini ». « Stiamo discorrendo a vuoto ». « Stiamo discorrendo a vuoto ». *
« Orsù, non siamo in grado di suggerirvi un ordine purchessia: seguitate come meglio potete colle vostre informazioni e considerazioni ». «Non posso né meglio né peggio, mi trovo io stesso smarrito». « Che, ad esempio, della religione di codesti abitanti? ». «Ah no, riserbo questa ricerca alle mie ultime comunicazioni, quando avrò meglio digerito ogni cosa». « Oh, insomma procedete come più vi piace ». « Ecco, devo innanzi tutto riparare a una mia precedente dimenticanza. Non vi ho forse detto ancora che il pianeta in parola è rotondo ». «Rotondo! ». « Ma sì, sferico ». « Sferico! Questa nozione è per noi meramente astratta». «Anche per me ». « Come quando, per puro divertimento intellettuale o per passaggio obbligato d'uno sviluppo geometrico, si facesse ruotare un cerchio sul proprio diametro? ». «Già». « E, a buon conto, questo cosa importa? Ovvero, cosa da ciò discende? ». « Una sorta di ciclicità d'ogni loro ragionamento ». « Crediamo d'intendere ». «Oh via». «Ma ora seguitate... Non so: ci avevate promesso (o minacciato) rivelazioni circa... come avete chiamato ciò? ». « "Indagini senza nome"? ».
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« Già già, appunto. Di che si tratta? ». « Di indagini senza nome ». «Va bene, ma relative a che? ». « "Senza nome" ripeto. E intendete pure senza destinazione, senza senso ». « Oh Dio, che vuol dire? ». «Niente». « Niente il vostro discorso o le indagini stesse? ». «Ogni cosa». «Ah poveri noi. Procedete dunque come volete. Intanto, dove?». « Che dove? ». « Momento: dove si svolgono codeste indagini? ». « In apposite sedi, che d'altronde non sono specificate ». «Come! Spiegatevi». «Voi andate per i fatti vostri... ». « Quali fatti? ». «Nessuno, si capisce. Beh, voi passeggiate per la via e d'un tratto, e sempre come per caso, vi trovate coinvolto...». « Coinvolto? ». «Sì, in particolare vi trovate in un... in un posto dove, ecco, si svolge questa indagine ». « Questa: che questa? ». « Un'indagine. A qual fine volta, anzi soltanto a che relativa, non è dato sul momento sapere... Son posti in genere poco illuminati, con grandi vòlti di pietra, con depositi di acque, con gracchiamenti ». « Gracchiamenti, dite? ». « Gracchiamenti ». «Vi sono, cioè, animali che fanno di tali versi? ». «Neanche per sogno: i gracchiamenti, in quei posti, son come una dimensione, o un destino, o almeno un'abitudine». «Via, via; e lì dunque cosa avviene? ». « L'indagine ». « Uhm. Ma voi sapete o se non altro sentite dentro di voi qual è, non diremo il fine e l'argomento, ma almeno l'ordine di tale indagine? ». «L'"ordine"?». « Sì, l'ordine o, come dire, la categoria».
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« Già!... allora sarebbe facile ». « Sicché no? nulla di nulla? ». « Nulla di nulla ». «Ma neppure se l'indagine è personale o impersonale, vi è dato conoscere? ». «Scusate...?». « Se riguarda voi intimamente ovvero se è, diciamo, accademica. Insomma, la sospettate forse una trappola volta a elicitare vostre confessioni, a compromettervi? ». «Ma che dite! Siete abbastanza intelligente, ma battete falsa strada». « O dunque? ». « Beh, ammetto che un certo senso di sequestro o di violazione, o ancora di frustrazione, non sia estraneo a chi incappi nelle reti dell'indagine; ma basta un attimo di riflessione per concludere che questo aspetto della faccenda è del tutto secondario ». « E il primario? ». « Bravo voi! Ad ogni modo, il primario potrebbe essere in un disagio... Non fate però il furbo: non già un disagio esistenziale e per così dire inevitabile, bensì... ». «Avanti». « Non so procedere ». «Vediamo, forse sarà opportuno riferire come si svolgono in concreto codeste sedute ». « In concreto, è presto detto: da quelle grandi arcate, da quegli atrii muscosi, viene come una richiesta; e quei gracchiamenti divengono straordinariamente suasivi, tanto che il male o ben capitato si dispone al sonno ». «Al sonno! ». « Sì, come succede colla musica terrestre ». « Come come: perché, voi pensate che Mozart faccia venire il sonno? Ma non è tempo da approfondire questo punto... Vorrete forse dire che quei qualunque suoni allentano e quasi sciolgono le difese, che rendono disponibile, aperto a tutto e a tutto disposto l'animo dell'ascoltatore? ». « Questo e altro ». « Beh, e la successiva fase? ». «Mah, il consueto insorgere di impulsi sconosciutile
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come un rispondersi di echi in circuito chiuso (se intendete l'espressione) ». « E poi? Si precisa finalmente la richiesta o no? ». «No». «No? ». «No». «Va bene; andate avanti ». « Non c'è più nulla ». « Come, finiscono così presto le sedute? ». « Così presto, dite? A volte durano ore e ore ». « E alla fine? ». «Alla fine, alla fine chissà ». « Cioè voi riprendete la vostra passeggiata come nulla fosse, senza aver capito niente, e festa finita? ». « È all'incirca così ». « "All'incirca", almeno ». « Già, non del tutto perché in realtà... ». « Oh benedetto! fatevi coraggio ». « In realtà qualcosa di mutato, un nulla, c'è ». « E sarebbe? ». «Vi sentite più debole e più vuoto, la gente vi guarda come foste nudo. E vi sentite complice ». «Di che?». « Eh, Dio solo lo sa. E vi vergognate, vi vergognate ». « Una sensazione assai sgradevole, al postutto? ». « Ma no, come al solito quaggiù nessuno capisce niente: al contrario, quasi liberatrice ». « Oh oh, signor mio, che sussiego. Voi dite "Quaggiù nessuno..." come non foste anche voi di quaggiù ». « Ma se non altro ci sono stato, lassù. Del resto non ho fin qui fatto un mistero della mia quasi totale ignarità ». «Risposta degna. Permetteteci però di farvi notare la inconsistenza e levità, o futilità, di alcune vostre motivazioni, o piuttosto formule: di che sa, ad esempio, dichiarare la vergogna liberatrice (e se volete catartica)... ecco, di o da cosa?». « Lasciamo stare ». « Eh no, ormai. Di cosa, si avrebbe a chiedere con codesta vergogna il riscatto, se non di una pregressa vergogna? E vi par serio che una vergogna in atto ne condizioni una
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passata o futura? E non sarebbe questo un giochino da critico letterario intinto di psicanalisi? ». «Non so... Scusatemi voi: sul momento ho perduto il senso profondo di questo come di ogni altro possibile discorso. Osservo unicamente: voi dite "critico letterario" come diceste "sciocco"? ». «Ahimè sì, ci sembra questo (colle debite eccezioni) l'infimo gradino sociale... ». « Della repubblica letteraria? ». « Della repubblica letteraria, come un dì in Cina... ». « Il soldato? ». « Il soldato ».
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LA LUNA, LE PIENE
La montagna è incisa da cento letti potenziali di torrente, che son come le sue vene: vuote bensì per gran parte dell'anno, ma un giorno d'improvviso gonfie del sangue lutulento delle piene; tanto gonfie, che possono straripare e dilagare. Ebbene, in uno di questi laghetti inopinati m'imbattei una sera, tornando dal paese verso la residenza montana o semimontana che era allora la mia. L'ostacolo pareva insormontabile: l'alluvione, per quanto poco estesa (e poco profonda) copriva per intero la mia strada e me la tagliava. O forse avrei dovuto, nella fredda stagione e a quell'ora quasi notturna, guadare quelle gelide, torbide e oltretutto impetuose acque? Considerai attentamente la situazione, senza venirne a capo, finché mi si presentò una soluzione possibile: in breve, avrei forse potuto aggirare il malo passo se avessi sconfinato nei campi, e anzi nel verziere del mio vicino il barone C. E chi era questo vicino? Personaggio certo poco acchitabile, ma in un caso del genere, magari... Procedetti dunque secondo avevo divisato e, con un lungo giro, raggiunsi i confini del piccolo feudo, recinto da una cosiddetta fenza, ovvero rete metallica, giacché quel gentiluomo teneva riserva di caccia. Ma qui mi avvidi che mai e poi mai mi sarei spacciato da questo impegno ove non
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avessi traversato, come più sopra detto, il verziere o giardino innanzi alla facciata del signorile ancorché rustico palazzotto. Per cui, data una occhiata a dritta e a manca, mi abbrancai senza più all'uno dei pali che segnalavano il divieto di caccia, e con questo appoggio giunsi facilmente a scavalcare la rete. Bene, adesso ero dentro, ossia bellamente in casa altrui; ma i cani, ma il guardia, ma i diversi incidenti che potevano capitare in un luogo sconosciuto? e per quell'intrusione, in caso, come avrei dovuto giustificarmi? La mia intenzione, a buon conto, era di tenermi sul margine del parco, quanto possibile lontano dalla casa. Ma impedimenti vari e impensati si frapposero a ciò: mi avvenne perfino di imbattermi in una coppia di daini, che mi fecero sobbalzare colla loro fuga improvvisa, e, dopo avere sguazzato in una sorta di acquitrino, mi persi in uno spinoso forteto - donde uscii... a due passi dalla paventata dimora. Della cui facciata abbracciai con una rapida quanto sgomenta occhiata le numerose finestre; e vidi... Il temporale era cessato, d'un tratto come era cominciato, solo lasciando il rombo della piena. La Luna splendeva quasi tonda in un cielo ormai puro; ma a queste vaghe apparenze ne corrispondevano, naturalmente, altre spettrali. In ben diverso metro avrebbe qui lodato il poeta la sera, o notte che fosse: nelle finestre della casa, nelle pozze, nelle vene defluenti si specchiava bensì un volto superno, ma incertamente e foscamente. Un po' a monte, non so dove, doveva esserci un salto: una breve cascata insomma, e neppure troppo fragorosa, se non che ben rivelata dal lustrare che la luna ne traeva. Pure, non è da tutto questo che ero rimasto colpito e come folgorato. Nell'aria durava il consueto odore di terra bagnata e d'ozono. Non era freddo sul momento, sebbene l'aria fosse umida: e tuttavia strana poteva apparire la figura femminile che occupava una finestra spalancata, al davanzale della medesima appoggiandosi e scrutando la notte. Che d'altronde non era più del tutto tale: un sospetto d'alba imbiancava l'oriente, già s'udivano i leggeri richiami (palatali, ebbe a definirli un amico filologo) della « selvaggi306
na nobile stanziale », starne e pernici; non certo delle beccacce, sempre e meravigliosamente mute. Più strano ancora ciò che seguì. Beh, per cominciare, figura femminile: ma quale o di quale ordine? - Giovane e bionda; bianca di Luna, s'intende, ma anche vestita di bianco; e soprattutto bella. Bella di lineamenti, certo, per ciò che potevo scorgerne; eppure c'era dell'altro. In realtà quella apparizione aveva destato o smosso in me qualcosa di segreto e di misterioso, e al tempo stesso di familiare, qualcosa come un ricordo, che peraltro stentava a prendere il suo posto tra gli infiniti ricordi che ciascuno di noi custodisce in sé... Il risultato di tutto questo era, ovviamente, che io contemplavo come affascinato la fanciulla, rallentando senza volere il passo e quasi sfiorando la facciata. E qui appunto si produsse l'evento singolare di sopra accennato. Avvenne cioè che colei, quell'angiolo o quel demonio tentatore, quell'essere comunque d'altri mondi, levasse il sottile indice e con gesto imperioso mi chiamasse a sé (a prostrarmi davanti al suo trono). Ma avvenne altresì che qualcuno non meno imperiosamente le parlasse dall'interno della stanza (della quale potevo vedere, in un'aureola di debole luce rosata, un cielo d'oro cosparso di preziosi stucchi). E lei si volse, ma prima di scomparire per sempre al mio sguardo, dette in una risata stridula, agghiacciante. Una risata che mi chiarì le idee ossia la memoria. Scomparve, ho detto; e io, affrettandomi a uscire di lì, fui assalito da due ricordi. Quando ero bambino, facevo un giorno la mia passeggiata con una governante per la via maestra: allorché scontrammo una leggera ed elegante vettura, calesse o charrette, tirata da un morello e occupata da tre persone, ossia due uomini di vantaggiosa corporatura, vestiti di nero e d'espressione grave, dei quali l'uno guidava, che tra loro due davano posto (non troppo agevole, quasi tenendola serrata o sequestrata) a una giovane, esile, bionda, bellissima fanciulla... E costei, prima di dileguare alla girata e schiarendosi a nessun proposito la gola, mi lanciò un'occhiata indefinibile: cupa forse, o follemente lieta, o invitante a tripudi ignominiosi. 307
« È la pazza dei C. » disse la governante (e nominò un'antica famiglia della regione). «La tengono in casa, e quei due sono i "mastrogiorgi" ». Beh, si sarà capito a cosa paro: la fanciulla da me intraveduta in quel lontano giorno era la stessa veduta in questa notte di piena. Come ciò potesse darsi, se per forza di follia (mia propria, stavolta) o per forza di Luna, non saprei dire. O forse, più semplicemente, questa fanciulla era la figlia di quella? Il secondo ricordo riguarda una memorabile piena della quale peraltro io sono informato solo di seconda mano, benché purtroppo fossi già in vita; memorabile soprattutto perché allora le acque impetuose ci restituirono il corpo già virtualmente spento di tal giovanissimo cugino. Ecco a buon conto come si svolsero le cose. La Mariuccia era una donna robusta devota alla casata. Ella, mentre noi si frescheggiava sui colli, era stata mandata al paese per cibarie; ma il tempo passava, si annunciava il crepuscolo, e la Mariuccia non tornava. A questo punto mio padre ebbe l'idea di muoverle incontro; e la trovò che, carico il canestro di provviste, sedeva su uno scoglio di là da una torbida piena nel frattempo fluita dalla montagna. Con un gesto la donna significò che le era impossibile passare, e mio padre ebbe una nuova idea: quella di «far la catena». Egli, cioè, e il suo congiunto testé nominato, tenendosi per mano onde resistere alla rapinosa corrente, e coll'acqua al petto, la traversarono o guadarono fino ad agganciare la donna, che trassero seco sull'altra sponda. Costei, si capisce, ebbe l'accortezza di porsi in capo il canestro, e così le cibarie furono salve - eccetera come nel West. Non fu salvo invece il cugino, che, a causa della bagnata o di sue nascoste debolezze organiche da quest'ultima rivelate, di lì a pochi giorni s'ammalò gravemente e morì. In tal modo, quella piena ci rese un cadavere. Sì, penso dopo tutto che allora non si trattasse, che qui ora non si tratti di orrori lunari, ma piuttosto del sottile, del malefico incanto esercitato dalle piene sull'animo nostro. Quando tutte le vene della montagna si sciolgono e 308
versano torbido sangue e sciolgono entro noi tutto quanto gelosamente custodiamo di atroce, di torbido, di disperato: disperato, intendo, come ciò che ci abbandona. Ché in quelle notti di Luna, in quegli specchi lutulenti delle piene, perdiamo anche una parte del nostro sangue.
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DIARIO PERPETUO
SULL'ORLO DI UN IMBUTO
Ciò che ho letto nei suoi meravigliosi e malinconici occhi è: « Perché dunque non mi canti? So che ne hai il nervo; e se non l'avessi, io medesima te lo provvederci. Perché non mi canti? ». (Ho calcolato che è morta di ventisei anni e due mesi: fiera di me, disperata d'esser felice). « Madre! perché l'accidia mi soverchia (e ciò non è a caso, né tutto mio peccato), perché tutto mi pare inutile, perché...». Il terzo « perché » bene esprime la nostra viltà: di noi letterati, di noi uomini. « Oh cara, come son contento d'incontrarti ». «Ah si?». « Sì, ho qualcosa da chiederti ». «A me, proprio a me? ». «A te come a persona intelligente e sensibile ». « Lasciamo stare, e avanti ». « Tu, come vivi? ». « Mah, come tutti. Ad esempio, sono professoressa d'università». «Ad esempio; e poi? ». « Ho adottato una bambina ». 310
« Un po' meglio. Ma, dico, codeste cose non ti basteranno? ». « Beh, confesso... ». « Capiterà il momento che tutta la tua dottrina universitaria e tutti i tuoi sentimenti ti sembreranno men che nulla rispetto alle tue vere aspirazioni o al concetto della vita che tu possa esserti formato o alle postulazioni delle tue speranze? ». « Certo, e troppo spesso ». « E quando capita...?». «Non saprei: procedo per inerzia o per imperativi ». « Categorici? ». « Naturalmente ». « Ebbene, ecco dove ho bisogno dei tuoi lumi. Devo confessarmi a mia volta: francamente non ho mai capito come si possa vivere... così ». « Che vuol dire "così"? ». « Senza che nessuna cosa ci prometta alcunché ». « In un ordine superiore? ». « Eh già; ché invero tutto quanto uno escogiti, comprese le felici improvvisazioni o diversioni intellettuali o sentimentali, è poi parte di un ordine chiuso ed angusto, privo di qualsiasi rapporto, per dir così, col mare o collo spazio aperti. Possibile che l'appagamento che tu cavi dai tuoi testi o l'amore per una fantolina ti tengano luogo di... di vita? Tutto ciò mi somiglia troppo al mio imbuto ». « Il tuo imbuto? ». « Sì. Io, nato, cominciai ad aggirarmi sull'orlo d'un imbuto. Sapevo che di qua si sdrucciolava, che nel mezzo del mio mondo c'era un buco; ma sapevo anche che di là c'era il nulla; e così giravo e giravo sull'orlo dell'imbuto. Finché (era fatale) ci caddi dentro, e tutto si restrinse. Poi scivolai ancora più in giù, come discendere nel Maelstrom, e via e via. « E ora sono arrivato in fondo, e non so più risalire né passare pel buchino. E son qui col Formicaleone! ». Amico immaginario, ho scoperto l'ora vuota, l'ora pura: un abisso di terrore e di gioia selvaggia, una sfida al tempo e alla sorte, un'àncora per chi voglia vivere non 311
avendo alcuna ragione per vivere o per chi non voglia morire avendo tutte le ragioni per morire (rappresentate dal non avere alcuna ragione per vivere). Oh Dio, vivere e morire: gli antichi termini di un'antica e puntigliosa perplessità o moralità. E infine, chi non ha buon motivo per vivere, né per morire, deve vivere o morire? - Altra volta lasciai che fosse il caso a decidere, e del resto a non decidere, poiché quel raccontino non registrava l'esito dell'aleatorio suicidio: mi sembrerebbe venuta l'ora di stringere più da presso l'argomento, o meglio questo supremo attingimento della mia ascesi. Con tutto ciò, mi avvedo bene dì non essermi spiegato: che cosa è in sostanza l'ora vuota, l'ora pura? - Ecco, mi limiterò stavolta a prenderla dal difuori: è l'ora in cui ci si siede, possibilmente coi piedi sul tavolo, davanti a una sveglia; e si segue coll'occhio la lancetta dei secondi-, e si dura in questa occupazione tre, quattro, cinque, sei, n ore; senza un desiderio, senza un rimpianto, di tutto immemori. Alcuni viali della nostra capitale (amministrativa, parlamentare, dicasterica, quirinalesca) hanno a spina avari giardinetti frequentati, sull'alba, da passere estremamente agevoli, che in piccole brigate vanno raccattando le briciole degli infanti, delle balie e dei marinai; donde traggo che un patto di non aggressione debba esser corso tra loro e i loro naturali nemici i grassi gatti di quartiere. L'altro giorno, alla retroguardia di una di queste brigatelle c'era un passerottino tanto minuto da far ridere o piangere: non aveva ancora forza d'ala né di garetto (se così s'abbia a dire) e con troppa fatica s'industriava a seguire i suoi congeneri o magari parenti stretti. Per cui decidemmo di sottrarlo ai pericoli del luogo e della vita, nella quale forse (per contrario) si sarebbe trovato perfettamente a suo agio. Naturalmente morì il mattino dopo; e mi rammentò un certo bimbo... Guerra. Noi, fuggiti in tal nostra campagna. Un'alba di gennaio (alba, gennaio). La coIona esce sulla soglia recando sul braccio piegato un fantolino di primo salto, roseo, paffuto. Intervento della mia cugina: « Poverino, mo312
rirà dal freddo, gli procurerò almeno una camiciola di lana», etc. Un anno o due dopo. Il bimbo è morto, ucciso dalla camiciola. Monito a quelli dell'« arco costituzionale », o, per concludere in verso, 0 di non so quale altra baggianata. Tra me e la pagina scritta, o forse l'espressione in genere, o forse solo il foglio bianco, s'è ormai stabilita una sorta d'allergia: alcunché di opposto a ciò che qualche critico letterario ha immaginosamente chiamato un « corto circuito». Il corto circuito, infatti, presuppone un'energia, un circolo, forse una volontà. La mia mano. - La zia si pizzicava la pelle della mano; che stentava a ridistendersi. E mi diceva: « Ecco, anche tu purtroppo giungerai a questo punto ».
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UN MARITO CORNUTO E UNA MOGLIE FEDELE
La donna volse gli occhi come verso un orizzonte lontano o estremamente vicino (interno) e riprese: « Sai, la differenza d'età, quale può esserci tra noi due, o d'estrazione, sociale o altra, e insomma qualunque differenza di potenziale... ». « Potenziale? ». « Beh insomma qualcosa del genere, e del resto proprio così... Tutto questo, dico, può non contare nulla: ciò che conta... ciò che conta... ». «Orsù? ». « Ciò che conta, caro mio, è la bontà, la comprensione, l'indulgenza di quell'uomo; la sua adorabilità, ecco, la sua adorabilità, ossia il posto che egli ha saputo conquistarsi, colla sua adorabilità e generosità, nel nostro cuore... nel mio, parlando in concreto. Con lui, mai discussioni, egli si rende conto delle mie minime esigenze di donna e, perché no, di amante, egli mi ammonisce bensì talvolta, ma dolcemente, e... e... E sfido io! egli intende quale immensa carica d'affetto io gli porti e sa quanto prezioso sia questo affetto che tenevo in serbo per lui appunto, per lui». «Lui: chi lui?» interruppe l'uomo duramente, soverchiato da quella sorta di vaniloquio. 314
« Lui, o vorresti che te ne dicessi il nome? Lui, lui che amo». «Ami? davvero? ». « E soprattutto, non v'è mai in lui ombra di disprezzo, per quanto poca cosa io sia al suo confronto. Egli sa bene che tesori d'amore io celi in me... ». «Ah, l'hai già detto; e se la smettessi? » gridò qui l'uomo con una certa positiva esasperazione. (« Ma perché poi esasperazione? » si disse subito dopo. « Sì davvero, sì forse l'ho talvolta disprezzata: ed ora ella si va creando in sé codesto simulacro d'uomo perfetto e pietoso, capace di apprezzarla e di trarne le più segrete, le più specchiate qualità! ». Tuttavia riprese con non minore durezza:) «E tu credi che io presti fede alla tua ridicola storia? Pagheresti, eh, per avere un tipo simile, uno come se lo finge la tua fantasia?... ». « Ma no, ti giuro... ». « No, non ci credo » volle concludere lui brutalmente. « Ma dunque, » chiese la donna in tono d'agonia « dunque non si danno mariti traditi? ». «Si danno eccome: dico soltanto che io non son di quelli». Ma a questo punto gli occhi della donna si empirono di lacrime ed ella urlò: « Tanto sei sprezzante e malvagio, da non concedermi neppure questo? ». « Che questo? ». « La possibilità, non parlo del diritto, di tradirti ». Beh, ormai non c'era da equivocare. «Perché,» seguitò la donna «perché, sentiamo, non potrei tradirti? Son forse mal formata o particolarmente sgraziata o ignobile, reco forse sulla fronte il marchio di una nascita bassa e volgare? reca forse il mio corpo turpi tracce di incidenti gravidici? ». «Ma no,» disse lui, finalmente con dolcezza «certo che... ». «Ah, Dio mio, come non vuoi credere che sei cornuto?». «Via, càlmati, lo credo: non v'è dubbio che... ». «Ah, ora lo ammetti. Beh, forse è troppo tardi. Ma dim315
mi un poco, caro il mio grand'uomo, tu che cosa hai fatto di me, della mia giovinezza e sto per dire della mia adolescenza? ». Ma a lui questa solfa era a tal punto nota, che gli sfuggì una leggera smorfia: prontamente rilevata dalla donna, la quale gli teneva gli occhi incollati sul viso. «Eh, come! » si rinfocolò ella. «Perché, non è vero? E abbi anche questa faccia fresca, di dire che non è vero... Ad esempio, quanti anni avevi tu quando ci sposammo? e io quanti? e non ero io una povera ragazzina che non aveva idea di niente, mentre tu, » aggiunse con disgusto « avevi già fatto la tua vita? È vero o non è vero tutto ciò? ». « Ma sì, eh sì... » mormorò lui sentendosi salire il sangue agli occhi dalla rabbia, eppure intenerito da quella furia di povertà, di candore anche, e da quella disperata richiesta d'amore. «Ah, lo confessi!... E insomma non ti ho io dato il fiore... il fiore... il fiore della mia verginità? Negalo ». Oh Dio, era quasi troppo per lui, malgrado tutto e tutte le sue buone intenzioni. « Non nego nulla, nondimeno... ». « Ma che nondimeno! E cosa ci ho guadagnato? ». « Uhm, in che senso? ». « In tutti. Del resto taci, non serve discorrere a lungo. E ora, dico, ora che un'anima buona, un uomo puro, generoso, bello, nobile, ha penetrato i tesori d'amore che io nascondo in me e m'ha dato il suo affetto, ora oseresti tu biasimarmi, tu che m'hai sempre disprezzata, escludendo categoricamente che io potessi suscitare in chicchessia un vero e duraturo affetto, tu, proprio tu vorresti biasimarmi?». «No no, calmati, ti ripeto... Sicché allora tu l'hai trovato, questo specchio di bontà, di generosità... ». « Ecco, ma perché insisti sulla bontà e generosità? Dunque ne occorre tanta per apprezzarmi? ». « Di bontà e altro del genere hai parlato tu stessa ». « E per te è stato un ottimo pretesto per avvilirmi ». «Ma no... oh santo cielo, prendi a rovescio tutte le mie parole... Comunque e in definitiva c'è, costui, nella tua vita?». « "Costui"! ». 316
« Bada che "costui" non vuol dir altro che "questo tale"». « "Questo tale"! ». « Insomma, codesto uomo hai finito per trovarlo? ». « "Finito per trovarlo"! Ma sono cinque anni, caro mio, che egli mi consola della vita e di te ». «Cinque». «Sì, sì, cinque... guarda, da tanti anni, da quanti tu mi chiedi con una certa vaga curiosità, ma in fondo con intimo disinteresse, con malvagio disinteresse, con sprezzante disinteresse, tu mi chiedi: "Codesto anello chi te l'ha dato?"». « E ripeto la domanda: chi te l'ha dato? ». «Lui». «Ma come mai così, all'anulare della sinistra, tu ne rechi due, degli anelli? ». « Perché me ne ha dati due: uno, dice, per il tuo cuore, l'altro per la luce che porti in fronte... Capisci? ». « Beh, capisco almeno come si parla a Napoli ». « Che c'entra Napoli? ». « No, è un modo di dire ». E guardò gli anelli che la donna esibiva e gli faceva balenare a una spanna dagli occhi. E chiaramente vide che uno era la sua fede matrimoniale, l'altro un semplice fermanello: per far reggere in piedi la sua panzana ella aveva contato sulla miopia del marito. Quest'ultimo, ormai senza più parlare, le prese le mani attirandola a sé; e la donna, benché smarrita e riluttante, seguì in parte il suo movimento; poi d'improvviso si abbandonò e gli appoggiò con un mugolio infantile (e con qualche lacrimuccia) la testa sul petto. Egli volle baciarla, ma lei si trasse indietro vivacemente: « Ma no, ma no. Dimmi prima: sei sì o no convinto di essere cornuto? ». « Certo, certo, eh diavolo, lo sono senza dubbio » rispose lui per la più spiccia. Tuttavia (questo forse ciò che importa) non è escluso vi fosse in lui, mentre la donna gli porgeva finalmente le labbra, una specie di inquieta sincerità: come dire che quelle corna, nel fatto del tutto immaginarie, lui quasi quasi le avrebbe meritate. 317
DIARIO PERPETUO
PERCHÉ MI PIACE CORTEGGIARE IL CASO AL TAVOLO DA GIOCO
Ho finalmente scoperto che cos'è il Signore: un'interiezione. Ben venga comunque; e ricominciamo. Oh Signore, non togliermi ancora questo: questo sorgere, non già dal letto (ché ormai non posseggo letto) ma dalla mia poltrona, una di quelle, frequentate da cani, che Maria chiamava «pidocchi»; sorgere alle prime luci dell'alba quando ancora tutto tace, perfino sulla strada, e solo furtivamente osa muoversi in babbucce di feltro la donnetta dell'appartamento sovrastante; provvedere a una sommaria colazione; e subito sedere a questa macchina da scrivere colla quale, senza aver nulla da dire, inganno la disperazione e il troppo lungo indugio della mia amica d'un tempo (la morte, o chi?). «Mi levo ogni mattina all'ore sei. E divoro una cantica di Dante ». - Beh, queste son donne intellettuali, e questi son poeti satirici! Ma io no, io non divoro nulla, sebbene all'ore sei mi levi. E perché mi levo tanto presto? Per due motivi: che riesce difficile ai vecchi fare lunghe dormite; e che in ogni caso è impossibile, a vecchi o giovani, farle su una poltrona sia pur comoda. E perché io ho, come già ricordato, una poltrona in luogo di letto? Per ciò che la casa è minuscola e fatta per due persone, laddove noi siamo tre o, a seconda delle stagioni, quattro. E come mai 318
stiamo in una casa tanto piccola? Semplice, perché non ho quattrini. E perché non ho quattrini? Diamine, non sarà mica un quarto grado? Del resto ci verrò, forse. D'altro canto capisco che qualunque mia reazione sarebbe fuori luogo, giacché son io stesso che mi espongo. Mi levo, a buon conto, e naturalmente mi gratto il capo. Ma ora bisogna procedere a quella penosa operazione del tirar su l'avvolgibile, oggetto stupido e democratico se mai se ne dettero. Diavolo, finché tale maledetto avvolgibile serve una finestra scempia, si giunge bene o male a tirarlo su, intendo anche un vecchione come me ci arriva: ma quando l'oggetto in parola è tanto largo e pesante e sgraziato e democratico da servire una finestra doppia, dicesi a quattro vetri? E poiché i familiari al mattino dormono sempre, dormono fino alle cinque, alle sei, alle sette, perfino alle otto di domenica, dormono, da chi sperare aiuto? A prezzo d'affanno, di catarro e di sorsate dalla boccia del cognac, l'avvolgibile ora ha ceduto ed ha svelato il paesaggio: di là dallo spigolo della casa di fronte già occhieggia un rosso sole, se tutto va bene; altrimenti non occhieggia niente salvo le nuvole gonfie e arruffate... Orsù, e adesso? Il giocatore di roulette conosce bene quest'ora terribile: quando nessuna necessità forza alcun evento, i colpi cadono sui colpi senza senso o direzione, senza accennare a nulla di preciso; quando, seppure tutti sfavorevoli, gli esiti si dispongono quasi direi casualmente - laddove tutti sanno che col gioco d'azzardo il caso non c'entra per nulla, anzi che il caso non esiste addirittura. L'ora terribile e trista, infine, quando il misero si chiede smarrito: « E perché mai dovrebbe uscire il tale o tale altro numero? in coscienza non ne vedo il motivo » (ma chissà quante altre volte ho detto questo!). «Non ne vedo il motivo»! Frase alla Talleyrand. Ma se non ne vedi il motivo, sciagurato, perché giochi o perché non t'ammazzi? Ché, analogamente, c'è un'ora, una stagione dell'anima e d'altronde della carne, altrettanto smarrita, gratuita, trista e terribile. Oggi, ad esempio, oggi cosa mi aspetta? e 319
perché dovrei vivere, e non l'ho ancora capito quanto io sia corto all'eterno? e se mai quale delle numerose futilità che, non dirò mi assediano, ma almeno mi scorrono sopra come l'acqua sul gradino della pescaia, quale avrei a considerare più attentamente, a fare oggetto del mio studio? A parte il rosso sole di cui sopra, di là dai vetri è il solito paesaggio, e man mano si destano i soliti rumori mattutini: rispettivamente un pezzo di mare crespo di maestrale, e un fruscio o piuttosto grattare di granata sulla pubblica via. Non si tratta però di spazzini (tutti laureati e magari dormiglioni), bensì della portiera dirimpettaia il cui marito è morto di coccolone qualche giorno addietro. Beh ma io, ripeto? quale possibilità o divertimento mi balena? e, se non v'era alcun motivo per cui dovesse uscire il diciassette, per che motivo qui dovrebbe uscire... cosa poi? La vita non è un diciassette. Oh gran mare dell'essere: poco pescoso, donde non cavi acciuga. È corteggiatore del Caso, altro che della morte, sarò forse detto un giorno da uno di quei tali che attraverso i secoli si danno pure e che si occupano anche dei minori o minimi, e sempre senza alcun giovamento per l'ormai scheletrito loro oggetto. Corteggiatore del caso: via, questo mi piace. Il caso invero io gli fo le riverenze per ogni dove, e fin nelle case da gioco. Su questo punto però conviene intendersi: non è che lo blandisca per forzarlo a cedere i suoi segreti, ma anzi pel motivo opposto, perché si decida a essere pienamente caso... Sissignori (o se preferite Nossignori), neppure nella roulette il caso è caso: la roulette al contrario parla chiaro, fin troppo per la nostra sete di abbiezione, di morte o alle brutte di droga. Senza dubbio l'ho già detto altrove e, di nuovo, chissà quante volte: la roulette annuncia colla massima chiarezza le sue prossime decisioni, o almeno fornisce notizie e ammonimenti inequivocabili circa l'andamento e la condotta generali del gioco. E se tanto fa la roulette, figuriamoci il resto, ossia le altre benché ambigue rappresentazioni della realtà. E insomma, chiedo, se neppure al tavolo verde, dove andremo a cercarlo, il caso? o come potremo prendere in considerazione certe teorie, di duemila anni fa od odierne, sulla formazione dell'universo eccetera? 320
Sì, questo giunge a turbare perfino la nostra metafisica: giacché, se caso non è, allora cosa? forse un essere supremo? Ma codesta, ultima nozione i nostri pori medesimi la rigettano con violenza, sarcasmo e sdegno (sia pure venato di atavico, cioè insipientissimo, senso di colpa). E infine, tale il motivo per cui non oso pensare che questa qui sopra sia davvero una divagazione. Ma non mi arrendo ancora e ci riprovo. O ritorno al punto di partenza? Ecco, il guaio maggiore è proprio questa costante esigenza d'ordine, questo che (questo qualcosa) che ci soffoca, ci impedisce di godere e addirittura di vivere. Per cui mi pare di dover concludere che il caso non è fuori di noi, ma dentro, nella nostra natura stessa: misterioso e irraggiungibile sì, ma pel fatto che irraggiungibili siamo noi a noi stessi. Il caso del resto, contro ogni apparenza, non è l'argomento di questi fogli arruffati: ne è il pretesto, o un pretesto. Visto però che ci siamo cascati, tanto vale seguitare nel medesimo metro. Ad esempio, andate a chiamarlo caso quello capitato qualche giorno addietro in una famosa bisca. Entra spavaldamente un tale, perde in un baleno (non esageriamo: in pochi baleni) quattro o cinque milioni. Esce, torna con ulteriori provviste di numerario, e stavolta vince trenta milioni. Ma seguita il gioco con una certa stupida frenesia, che è peraltro quella dei veri giocatori, e riperde (come di uso), non solo la vincita, sì tutto il suo. Si leva dal tavolo, più che amareggiato, iattante, per fuggire in fretta di lì, dimenticando sul tavolo, al suo posto, un piccolo gettone, un gettoncino forse da cinque. Uno degli spettatori richiama la sua attenzione su codesta dimenticanza e anzi gli porge il gettone. L'eroe della trista vicenda fa un gesto di diniego e di deprecazione, come dire al cortese porgitore: «Ma se lo tenga, tanto per me... ». - E qui scatta qualcosa, io non so che: ne giudichi il lettore. Il personaggio, o modestamente la persona, che ha ricevuto il gettone, lancia il medesimo sul numero trentaquattro. Che esce; e, doppiato, riesce; ridoppiato, ririesce. Senza farla troppo lunga, e mentre l'eroe è già scomparso dalla scena, dopo mezz'ora l'uomo del gettone è addirittura ricco... e ogni tanto rigioca il trentaquattro, e 321
ogni tanto il trentaquattro esce con ricca messe (dicendolo con rima imperfetta). E... e ignoro come sia finita. Certo quel tale ha riperso ogni cosa; ma questo che vuol dire?
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IL NUOVO MONSIGNOR PERRELLI
« Già già, quando tua figlia avrà fame, tu leggile Tanto gentile e tanto onesta pare: vedrai come ingrassa! » urlano con rabbia quei tali del contesto socioeconomico. Ed è perfino lecito supporre che il gran problema dei tempi nostri sia tutto qui: Dante o bistecca (alla fiorentina, sia pure)? Ebbene, voglio narrare un fatterello singolare di cui mi trovo ad essere deuteragonista. Dopo la morte della mia prima moglie, ci eravamo rinchiusi, la mia figliuola diciottenne ed io, nell'antico e crollante castello dei nostri avi; e, Dio, come eravamo poveri. Nei primi tempi, ai nostri bisogni provvedevano alcune misere pecore che ancora ci restavano su un terrenuccio avanzo del nostro piccolo feudo; poi anche le pecore finirono, e così le ortaglie varie che potevamo raccattare di lì; quanto al latte, la capretta che lo forniva dovette essere ben presto venduta per qualche imprescindibile necessità. Rimanemmo infine con alquante galline e le loro uova, ma anche questa ultima fonte si andava ormai rapidamente esaurendo, in ragione medesima del benché poco profitto che noi se ne traeva. Fu a questo punto che ebbi l'idea di tentare un esperimento; e a tale uopo considerai attentamente due ricordi, quasi due classici personali. Il primo era l'esperimento di Monsignor Perrelli: il 323
quale aveva addestrato i suoi cavalli a vivere senza biada, o almeno di ciò si illudeva, sicché, quando morirono, esclamava: « Guarda iattura, proprio ora che li avevo abituati a fare a meno di mangiare! ». Il secondo mi rifigurava una donna bionda e rigorosamente astemia ma oltremodo sensibile, che si inebriava o volgarmente ubriacava a mano a mano che noi scioperati puppavamo il fiasco, fino ad invasarsi non meno di noi. Considerato dunque il secondo ricordo, che in qualche modo s'opponeva al primo, ma considerato altresì il primo, venni nella determinazione di sottoporre la mia adorata figliuola a un regime che, senza positivamente affamarla, la andasse tuttavia parzialmente almeno e gradualmente francando da quella schiavitù del cibo quotidiano. « Il pane nostro quotidiano dacci oggi Signore ». Beh, ma era veramente a tal punto necessario e a tal punto quotidiano codesto pane? « Silvia, » dissi un bel dì quasi a conchiusione dei miei pensamenti « oggi si ha poco da mettere sotto il dente. C'è ancora, non dico, un par di polli e una serqua d'ova, ma se potessimo risparmiare... risparmiare sulle poche risorse che ci rimangono, certo sarebbe meglio. Per cui propongo di... di... ». «Avanti, papà, cosa proponi? ». « Ecco: pensi tu, puoi tu immaginare che un sonetto di Dante possa sostituire una prima colazione del mattino? ». «Non capisco bene il discorso. Ma in fondo sì. Solo che... ». «S'intende... E, sempre secondo te, un canto di Dante potrebbe o no fare le veci d'una bistecca alla fiorentina? ». «In parte, penso... E sì: perché no?» gridò poi la mia Silvia, tentata dall'idea. « Sicché proviamo » ripresi io senza più. « Ascolta: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io (etc.). Beh, che effetto ti fa? ». « Magnifico, straordinario! ». « Sì sì, ma intendevo rispetto alla questione che stamane ci occupa». «Oh! Ebbene confesserò che, se non mi sento proprio repleta, son tuttavia assai men vuota di quanto non sarebbe ragionevole supporre io fossi a quest'ora del mattino e 324
dopo tredici o quattordici ore di digiuno » precisò la mia cara fanciulla. « Ma non lo dirai per farmi piacere o per vanificare tutte le stupide dicerie alimentari od economiche degli arruffapopolo, o infine perché sopra ogni cosa trionfi la causa dello spirito (insipiente parola)... dell'anima (insipientissima)? ». « Lo dico perché è vero » rispose l'animosa. Seguitammo così a discorrere di cose notevoli, finché si fece l'ora del pranzo; quando dissi a Silvia: « Ecco un uovo, pel desinare non c'è altro. Ma ti faccio notare che nella madia c'è del pane raffermo: sai, di quello con cui si fanno ottime ribollite ». «Non sarà necessario,» replicò lei «basta l'uovo: un Cornaro (se Cornaro era) visse quarant'anni con un solo uovo al giorno, voglio dire solo con un uovo al giorno, e morì ultraottantenne... Ma tu piuttosto: e tu? ». « Beh, io son vecchio e non ho tanto bisogno... ». « Di mangiare, dici? ». «Via, questo bisogno non è a tal punto imperioso da...». « Taci, padre, e ricorda quelle parole di Poscia più che il dolor eccetera. Il che significa che gli anziani devono pur nutrirsi, e sia d'una miscea. Io invece, che son giovinetta, io sogno di spezzare queste vergognose catene ». Ora poi mi prendeva la mano, e cercai di tornare precipitosamente indietro: diamine, nobile sì la volevo, non morta! Avevo comunque inteso benissimo il suo detto, pure balbettai: « Cosa mi racconti tu di vergognose catene? ». « Certo, quelle del cibo quotidiano e di altre quotidiane necessità». « Ma guarda che... ». « Svègliati papà, » interruppe la mia benedetta « svègliati e dimmi un poco: credi tu che si possa scrivere, anzi (bada bene, ch'è ancor meglio, o peggio) riscrivere un intero capitolo di un importante romanzo quando in giornata si siano subiti sette (sette) attacchi epilettici?». « No, non lo credo » gridai. « Tuttavia, » riprese ella trionfalmente « è ciò che ha fatto qualcuno: un certo Dostoevskij, per la cronaca». 325
«Sì ma...». «D'accordo, d'accordo, qui non si tratta direttamente di cibo. Facciamo allora l'ultimo passo: credi tu che si possa digiunare quaranta giorni col solo ausilio di qualche grammo d'estratto di coca contenuto in un anello? ». « Stento a crederlo, in effetti ». « Pure, questo è ciò che ha fatto un tal Succi, se così si chiamava. E del resto mutiamo l'ultimissimo (passo): credi tu che si possa vivere quaranta giorni o più senza neppure l'estratto di coca, e senza neppure respirare, e sottoterra? ». «No... no, non lo credo » ammisi disperato. « Questo è nondimeno ciò che fanno, si può dire ogni giorno, alcuni, molti fachiri indiani ». «Beh ma... ». «Ah, niente ma. E circa alle altre cosiddette necessità, dove trascorreva la sua vita e ad esempio come beveva Diogene?». « Ma lui era un cinico ». « Ed io, padre, lo sarò cento volte, oppure sette e cinque per diece, o non so ». Oh Dio, oh Dio, era troppo! Chiesi tremante: «Nobili esempi, non c'è dubbio; ma anche un tantino insani, o no? ("No, no" gridò stridulamente). E in ogni caso cosa ne conchiudi? ». «E semplice: farò a meno quest'oggi del mio uovo, e si starà a vedere». « Ma rifletti... ». «Avanti, cosa mi servi stamane? Ma aspetta, che ore sono? ». « Non è ancora ora di pranzo ». « Dunque penso che ci stia bene, per prima colazione del mattino, Quale neiplenilunii sereni... ». E più tardi: « Sicché è venuta finalmente (e ho fame) l'ora del pranzo. Ebbene, ho voglia di cibo prelibato. Ti prego, comincia di lì dove dice: Così per li gran savi si confessa... ». In capo ad alcuni giorni mia figlia, pallida o subitamente incarnata, recitava e cantava interi canti del Paradiso e tuttora rifiutava ogni nutrimento terreno o terrestre. Il quarto giorno: 326
« Ma via, già ti dissi che abbiamo ancora un par di polli: non ti andrebbe, così per fare, un brodino? ». «Un brodino! Ma sì, perché no, un brodino: e sia per l'appunto Per entro sé l'etterna margarita, col seguito ». Il quinto giorno io, folle dalla fame, grattavo la madia (col radimadia, ovviamente) cavandone minuscole pallottole di farina, grasso e carcassine di quegli infinitesimi insetti delle madie. Ma non cedeva la mia Silvia la quale: «Papà, caro, ho fame! Leggimi dunque, in attesa con tale lettura di ristorare le mie forze: leggimi Mira Quanto è il convento delle bianche stole o per lì ». Il sesto giorno, ella si accasciò improvvisamente mormorando: « Un uovo, un uovo almeno; colla marsala ». Della marsala ce n'era sottomano, pel fatto che il nonno, ai bei tempi, se la faceva spedire a barilotti; e così mi precipitai a sbattere sommariamente in una tazza quell'unico e non più freschissimo uovo, mescolandolo a marsala calda. E lei si riebbe rapidamente dal suo languore o piuttosto deliquio. Ma certo, da allora in poi fu più cauta, pur senza diventarmi una tanghera. In seguito... beh, si sa bene, non c'è gentiluomo che possa resistere a un duro volger di tempi... in seguito io mi misi a scrivere le mie memorie, che un settimanale da femmine mi paga (per dirla alla Rabelais) coll'odore dell'arrosto, e inoltre a rispondere, su un foglietto d'ordini o di partito, alle lettere di metalmeccanici in travaglio d'amore. E lei, la mia diletta Silvia (nobile, con Dumas stavolta, «come un Dandolo o come un Montmorency»), divenne, Dio mi perdoni, stenodattilografa presso il commendator... Ma ogni tanto mi dice: «Però, eh? Eh, papy, te lo ricordi il nostro inverno a Santa Berta? (e sospira)... Anzi guarda, la prossima volta proviamo con Mozart e Haydn ». Ed io sciagurato capisco benissimo, ma (è quasi un rito) replico: « Come come? Mozart, Haydn... ». «E sì, invece di poesia ci nutriremo di musica; e un'altra volta ancora di pittura, o di architettura o di... ». 327
Quante altre volte, mia povera Silvia: quando forse non ve ne sarà più neppur una. Orsù, cosa voglio concludere? Ma è chiaro: che le scale mobili, i consumi prò capite, le uscite ossia spese della famiglia-tipo e le rimanenti baggianate non sono appunto se non baggianate. La prova è in quest'ultima frase ad effetto. Lettore, non sono uno sciocco: in quel tempo di cui sopra volli tenere i conti delle spese. Ebbene, sai tu quanto spendemmo in quell'ultimo mese? Diciottomila lire, italiane e svalutatissime tra i serpenti monetari e le trappole ceeiche o ceesche. Epperò non infastidite i nostri bravi e accorti e perpetui governanti, o Italiani, né chiedete loro ad ogni momento notizie della rotta (così in una memoranda occasione il Duce del Fascismo) : se avete fame non vi peritate di leggere le Ricordanze, o di ascoltare il Quartetto dell'Imperatore o di contemplare le opere del Filarete o di Francesco di Giorgio Martini, o che so. Vi nutrirete in parte, così facendo, e Dio m'è testimonio che questo non è uno scherzo.
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DIARIO PERPETUO
« Le tasse sono una grassazione, le tasse sono immorali: penso che ciò non sembri una novità, che anzi sia nella coscienza di tutti. Le tasse, ad ogni modo, sarebbero forse un po' meno tasse ove ci fosse fornita un'alternativa. E più chiaramente ancora: possibile che ad un tale sia perfino concesso di non fare il servizio militare come tutti, e che non si dia obbiezione di coscienza rispetto alla sopraffazione, al ladroneccio, alla rapina fiscali? ». - Così l'inqualificabile amico. « Il carcere forse » riprendeva e riprende egli; «ebbene, ci arrestino! Poiché non corre dubbio che sia nostro impegno l'evasione (sulla trappola del cosiddetto civismo mi esprimerò altrove)... Ah ah, censimento fiscale! nulla di più bizantino, alessandrino, godunoviano, petresco, insomma avvilente fu mai escogitato... Ipati di Gaeta, Cattani di Bari o Moffetta, oh cantina! » esclamava da ultimo, ormai del tutto insensatamente. Al che faceva seguire una sorta di buffonesca rievocazione: d'un qualcosa capitato in non so qual cantina, sulla cui prima voce non saprei bene informare il lettore. Press'a poco: « "Cornelio!". « Silenzio. «"Cornelio!". « Silenzio. 329
«"Cornelio!". « Silenzio. «"Cornelio!". «"Gno'!" (Signore?). « " Muori ammazzato ! " ». (Ove il Cornelio - così detto per ovvi motivi e per il suo accanimento fiscale contro il proprietariuccio che in tal modo si sfogava nel segreto della sua cantina - era, suppongo, il Duce del Fascismo. E, dico a latere, cosa avrebbe oggi solfeggiato quel misero?). Avrei stanotte un paio di notazioni importanti. Tanto importanti, che possono benissimo aspettare per l'eternità. Sicché passiamo a diversa partita. La tentazione razionale (d'un discorso razionale) è sempre vigile, ed è di continuo sventata dal desiderio profondo di altro. Solo che, mentre la prima è, appunto, sempre offerta e non ci tradisce mai e non ci lascia mai a secco, la secondava soggetta alle lune... «Vorrei, vorrei... ». « Cosa vorresti, cara? ». « Non lo so ». « Guarderò d'aiutarti: vorresti essere a Venezia? ». « Sì, anche; sì, naturalmente. Ma... ». «Venezia, neppure Venezia basterebbe, in questo momento? ». « Già, ecco, proprio: neppure Venezia». «Allora, forse, Colmar o Nancy? ». « La piazza Stanislao? Sì, sì; però... Del resto, perché dovrei voler essere in qualche posto? Io voglio, io voglio... ». « Essere senza più, ma in un determinato modo; sentire, amare? ». « Sì, ma la storia come la facciamo? ». « La storia! ». « Eh sì: a cosa precisamente riferire il mio stato d'animo, o in qual maniera testimoniarlo per immagini dirette? ». Difatto il sentimento è elusivo di sua natura e non ci soccorre mai o quasi mai, benché sempre ci ingombri. Tanto varrà ucciderlo e tornare, per magro conforto, alla ragione. 330
Di quale antico verbo Sparuto è participio? (Che sono poi due settenari). (E novenario giambico questo nella precedente parentesi). Come esempio dei singolari bistìcci in cui cade talvolta la retorica sentimentale, cioè la speculazione (filosofica, toput it mildly) sui sentimenti, può valere il seguente. Tra i doni delle fate a non so chi (in Perrault) il più importante era l'amore per la vita; e qualcosa di simile, magari non in termini espliciti, si troverà forse nel Catechismo. E dice: « Beh, dono delle fate appunto, né si vede come altrimenti conseguibile». Ma ecco che qualcuno replicherà: « Niente affatto: conseguibile invece colla buona volontà, coll'amore per il prossimo, colla fiducia in Dio», ecc. In parole più semplici, coll'amore per la vita. Analogamente, come forse già detto, chi non ha la grazia potrà senza sforzo procurarsela colla grazia, e chi non crede in Dio giungerà a farlo di leggieri credendo in Dio. Guardavo il minuscolo e fragile cavalletto che sostiene una fotografia dell'Ottocento: un giovane d'occhi chiari e capelli biondi o biondastri regge colla punta delle dita i polpastrelli della sua piccola sposa brunetta; e guardano l'obbiettivo come guardassero Dio e il loro destino (che non fu lieto). Questi due gentili sono i genitori di Fosforina, padrona della casa in cui mi trovo. E più in là sullo stesso mobile un vaso da fiori di bizzarra forma anulare cela una cornice d'argento e incornicia esso medesimo il dolce volto dell'altra cugina morta: colei che mi accudì ed amò dopo l'abdicazione al mondo di mia madre. Guardavo, e pensavo alla lunga ed amara sollecitudine che, con buono o cattivo gusto, aveva disposto lì sopra quegli oggetti significativi di una umana sorte, ora scompigliati e confusi (tanto da generare confusione nell'animo stesso dell'ordinatore, ovvero ordinatrice) dalla nuova, urlante, insulsa, ignara e volgare generazione di ragazzini mal nati: i miei figli, nella fattispecie... E voglio dire, 331
insomma: un uomo (o una donna) si costruisce o costituisce un rifugio purchessia, lo dota di simboli, spera di morire tra le apparenze della sua illusione - e giunge da ultimo un evento o una razza sciagurata a togliergli fin la dignità esteriore della sua fine. E così per me, così per me (sarà, è già). Struggimento per la cadente casa lontana: e credevo di esserne ormai districato, avevo quasi deciso di venderla... In questi giorni, ladri l'hanno visitata; ma quali ladri! Ladri degni di essa, di lei; ladri commoventi, ladri cari, ladri intendenti e senzienti più di tanti onesti cristiani. In particolare, secondo le prime notizie raccolte dalla famiglia mandata in esplorazione, questi ladri sono entrati per un balcone effrangendo un vetro. La luce elettrica essendo staccata, essi, ignari dell'interruttore generale ovvero troppo pigri per raggiungerlo in fondo alla corte, hanno illuminato i propri passi con torce di carta (delle quali reperiti i resti). E, qui il bello, il soave, qui la lezione per noi che disgraziatamente non rubiamo - in tutta la casa e di tutto non hanno sottratto che una roulette (da bambini), un giroscopio, un gioco di scacchi; infine, tre giocattolini. ... La casa, «la vecchia casa da cui non poteva venirci nulla se non di bene ». - Ma la mia malattia, la prima delle gravi, non fu forse contratta tra quelle mura? Prendi un fiammifero, compagno, accendilo, e, traverso la sua fiammella, guarda questo gran fuoco lingueggiante. Vedi: tu sai quanto tenue la prima, quanto maggiore e fulgido il secondo; eppure essa, perché più prossima all'occhio, oscura e vince il gran fuoco. Così, compagno, il suo lontano splendore resta offuscato dal piccolo volto che ho acceso tra le mie palme. Non è proprio nero, il Mar Nero, ma d'un viola cupo e funesto; del qual medesimo colore son le vegetazioni marine, quelle almeno visibili dalla superficie. Né fanno ec332
cezione i pesci, alcuni tanto grossi da sbarrare, in determinati periodi dell'anno, lo Stretto dei Dardanelli. La prima volta che mi avventurai su questo periglioso mare, il nostro veliero fu preso da una grande onda che andò man mano arricciolandosi fino a quasi ripiegarsi su se stessa. L'effetto di ciò fu per noi disastroso: a un certo punto noi navigavamo a testa in giù e per mera forza centrifuga; ma ben presto l'intera nave rovinò sul sottostante specchio d'acqua, travolgendo seco buona parte dei marinai e passeggeri. Non noi medesimi a buon conto, e cioè alcuni miei amici ed io, che avemmo l'accortezza di gittarci in mare muniti di corde, con cui ci ingegnammo di superare codesto sesto grado di nuovo genere. (Qualcosa di simile ho trovato poi nei racconti del Barone di M. - colui che viaggiava su palle di cannone - e nelle pitture di Okusai - da non confondersi con Orosai, mio vecchio e defunto amico). Protendendomi dalla finestra, cercavo con una chiavetta di aprire l'aria. Questo sogno è meno fantastico di quanto sembra: forse, se davvero ci fossi riuscito, tutta questa incresciosità e queste creature malvage sarebbero d'un colpo scomparse nel nulla. Se mi si chiedesse di sintetizzare in una sola parola la superiore dignità, intendo il superiore impegno dell'uomo, penso risponderei: « Dire ». Dire è ben più che Dipingere, Comporre, Scrivere e perfino più che Parlare, giacché presuppone un oggetto (idealmente se non grammaticalmente; laddove si può parlare senza dire), ed è al tempo stesso più aperto. Dire è addirittura più che Nominare (secondo talune accezioni retoriche, come ad esempio nei teorici dell'acmeismo), poiché l'oggetto di quest'ultimo è forzato, mentre quello del primo si risolve nell'esigenza di un oggetto, eccetera.
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LA CAVALLERIA DEI TOPI
Credo di avere già altra volta discorso, e magari teorizzato, di ricordi improvvisi. Ed ecco, oggi siamo al terremoto, il solo un po' robusto che io rammenti: quello della Marsica. Laggiù a casa, secondo l'uso d'un cento anni fa, molti soffitti erano di tela. Cioè, intendiamoci, erano ad antiche travate, ma rozze per lo più e irregolari; donde che, per coprire quelle brutture e d'altra parte risparmiare le spese di cassettatura (bella parola in fede mia, non però peggiore di evidenziazione o dello scioglilingua competitività), si ricorreva a tele appunto; le quali poi, incartate, potevano venire più o meno vagamente dipinte. E, com'è ovvio, tale disposizione comportava una sorta di intercapedine fra le travi sbilenche e la faccia superiore della tela medesima. Col che siamo al punto che ci interessa. In questa intercapedine i topi menavano al ruzzo la loro prole. Dove meglio avrebbero potuto? Lì non giungevano gatti né insidie umane né insidie meteorologiche né luci pregiudizievoli agli occhietti bianchi e alquanto ripugnanti dei topini di nido. E quegli esserini erano tanto felici della loro tregua spaziale e forse temporale, che nei loro giochi rendevano rumore ossia pesta di ginneti, pesta rossiniana: Cavalleria di 334
topi. Di solito si udiva innanzi tutto un piccolo tonfo che corrispondeva, penso, al salto del topino da qualche buco un po' elevato sul piano della tela, o forse alla sua caduta in seguito a spintone della genitrice; cui tenevano dietro numerosi altri tonfi del genere e da ultimo, come nelle sagre paesane, un « colpo scuro » corrispondente al salto materno. Dopo di che, principiava una galoppata generale, che in particolari giorni molto umidi o troppo caldi poteva diventare frenetica: finché non si spegneva, ritirandosi topi grandi e piccini pel sonno nei loro quartieri diurni, con qualche rumore inverso o antagonistico rispetto a quelli descritti. Ecco, e tutto questo affascinava stranamente me bambino: quasi avessi presentito o meglio scoperto per mio conto il « corso topigno della vita » di cui un celebre poeta iperboreo. (Più tardi, da grande, volli un bel giorno catturare una di quelle generazioni di topi, che in verità travagliavano i miei sogni ormai non più innocenti, e disperderla: per far ciò, tagliai con un coltello un angolino della tela e introdussi lì sopra una comune trappola con relativa esca di cacio. E presi, uno per volta, ben trentaquattro topini, i quali impazzavano nella loro angusta prigione, fino ad avere il musetto insanguinato. Li portavo, tuttavia prigionieri, in fondo al giardino, seguito da un gatto nervosamente miagolante o da un cane smanioso - di avventura, piuttosto che di carne di topo - e davo loro la via su per un muro Tonchioso: loro si inerpicavano di asperità in asperità, e i loro potenziali o dilettanti nemici rimanevano a sbadigliare di disappunto... Intendevo forse affidarli al loro destino. Ma il destino riporta infallibilmente alle origini, e così i topini rientravano magari in casa, per essere magari vittime degli stessi gatti o cani che non avevano potuto ghermirli alla prima). Ma è forse tempo di tornare al terremoto. Una mattina mi destai quasi di soprassalto, intronato da un gagliardo galoppo sulla mia testa. Il solito, a buon conto, la solita sarabanda di animalucci scatenati? Eppure v'era qualcosa 335
di diverso e di meno allegro, di sinistro addirittura, in quel frastuono. Mi parve, in più, notare che la stanza tutta andasse per un attimo fuori sesto, come cioè i muri venissero inclinati e spiombati da una forza sovrumana, mentre una specie di brontolio intestino o di sordo boato sorgeva dalle viscere della casa... Saltai a sedere sul letto, studiandomi di serbare un tono festoso e in realtà sentendomi vincere da una sconosciuta angoscia; gridai: « La cavalleria dei topi! ». Nessuno mi rispose, salvo una voce lontana dalla corte: voce che d'altronde non rispondeva a me, e in cui riconobbi quella di mio padre, sebbene stranamente aspra. Mi levai allora a piedi nudi e mi affacciai sulla sala; il che contemporaneamente aveva fatto dalla sua camera la nonna, la quale mi mosse incontro e mi abbracciò stretto mormorando: « Figlio mio, figlio mio! ». Ma io avevo già avuto modo di leggere nel bianco dei suoi occhi « tutto il dolore del mondo », come diceva un famoso pazzo. Poi furono altre cose, che non importano qui. Ad esempio, la voce paterna dalla corte si precisò. Urlava: « Macché terremoto! Queste casse hanno da partire con noi, intesi? Bah, il terremoto! Avanti, avanti, coraggio: pronta la carrozza? » - ché con tal mezzo, in quel tempo felice, si raggiungeva il treno (distante undici chilometri). Ella, la mia cara nonna, gentildonna del Gran Sud, di terremoti sapeva qualcosa: più di mezzo secolo addietro aveva avuto la casa distrutta da un tale flagello. Distrutta davvero e per intero, tanto che aveva dovuto trasferirsi, dal suo antico villaggio sulla montagna, laggiù al mare; dove a suo tempo il nonno, giudice regio, aveva avuto occasione d'incontrarla, corteggiarla, proferirsi con superromantica lettera e santamente sposarla. Ma quella prima esperienza, quella esperienza unica e tra tutte significativa, chi avrebbe potuto togliergliela dal cuore? Per due giorni e due notti era rimasta sotto le macerie. O meglio, quanto a lei stessa, sotto la grande cappa del camino, secondo precisava nei suoi racconti; cessate poi le scosse più violente, aveva tirato in su (e rifaceva il gesto) la lunga gonna sulla cui balza s'erano accumulati, gravandola, rottami e detriti d'ogni sorta, e s'era ritrovata come dire incolume. 336
Due altre sorelle si salvarono del pari e furono a suo tempo bene o male, in buono o cattivo stato, estratte dalle macerie. Ma per la minore (diciannovenne) non vi fu nulla da fare: giaceva sotto travi e travetti rovinati, orrendamente ferita e senza alcuna possibilità di movimento. Per due giorni e due notti le sorelle la assistettero, per dir così, alla voce, loro medesime ancora prigioniere del buio e della rovina. Quando infine la giovinetta si sentì morire, prese a recitare non so che rosario, cui le sorelle e in particolare mia nonna, la più vicina, rispondevano con fervore: finché la voce di quella innocente vittima della superna malvagità o indifferenza, fattasi a grado a grado più fioca, si spense. A casa, nel mio primo tempo, si diceva ancora all'or di notte collegialmente il rosario (sebbene già le nuove generazioni tendessero a volgerlo in burla) : rammento con quanta compunzione e passione la nonna sollecitava: «A flagello terrae motus - Libera nos Domine ». Ma ben presto dopo questa terribile esperienza, come ho già accennato, la vita si riprese i suoi diritti pel tramite di mio nonno. Il quale alla fin fine non era brutto né povero, era nobile, e recava qualcosa sull'ampia fronte. E probabilmente lei stessa lo amò; certo, tutta la sua vita accreditò, per oltre cinquant'anni, tale ipotesi. Il giorno del matrimonio, dalla montagna lucana scesero verso il mare cinquanta cavalieri (quale scorta della sposa, tornata per l'occasione, e cioè per rispetto della tradizione, ai suoi luoghi lassù), con sulle bestie di quelle loro variopinte gualdrappe a due sacche. Queste antiche celebrazioni, comunque, non esorcizzarono i barbari cisalpini, al cui arrivo i novelli coniugi si ritirarono in tutta fretta nel paese d'origine dello sposo: qui, dicesi, ove attesero a riprodursi con notevole impegno... Donde, ahimè, io stesso e la mia disperazione. Ma il resto, appunto, è già storia mia, di cui non si vuol qui toccare. Breve storia purtroppo: perdetti presto questa nonna, preziosa a me come ogni buona nonna a ogni fanciullo sensibile. Ne riparlerò forse altra volta; ma mi 32
piace ora anticipare un suo detto, anzi due detti, come segue. « Questo, » diceva dunque talvolta la nonna intenerita, intendendo « costui, questo bambino » « questo si tira con un filo di seta». Mentre altre volte esclamava: «Ah no ah no, per questo ci vuole l'educazione del carattere! ». Due detti in apparenza contraddittori e nondimeno ambedue convenienti al loro minuscolo ed oggi decrepito oggetto.
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DIARIO PERPETUO
ULTIME DONNE IN CASA NOSTRA
Le ultime femmine di Casa Landolfì avevano tutte nomi straordinariamente belli e straordinariamente romantici. A parte la Clarice, e la non so come nominata (ma sempre degnamente) sua gemella, morte diciannovenni d'un contagio oggi curabilissimo, a parte forse altre, trapassate prima del mio avvento, io posso mentovare l'Amalia (del '61!), l'Elisa, l'Elvira, l'Adele, la Giuseppina - e sfido chicchessia ad aver avuto zie meglio nomate. Beh, Rosina era figlia della prima di codeste gentili zie, era cioè mia cugina di sangue; e, al di là di quella che può essere stata la sua difficilissima situazione familiare dopo la morte prematura del babbo, fu spinta verso me, restato senza mamma, unicamente dal suo animo generoso. Ella dunque, dirò, permea ed accarezza l'intera mia prima infanzia: fino alla sua morte, seguita quando io non ero ancora di undici anni. Era una creatura dolce, con vasti occhi e una massa di capelli bruni; portata piuttosto al faceto che al tragico, nonostante la propria incerta condizione. Di lei, fino ai giorni brucianti della sua morte, non ricordo propriamente che qualche espressione (se così posso dire genericamente) d'incoraggiamento alla vita. Ad esempio, ero salito in piedi, laggiù al paese, sul davanzale della finestra; la situa339
zione era estremamente pericolosa, giacché mi credevo solo e, sorpreso da un detto improvviso, potevo precipitare in giardino. Ma lei con voce pacata: « Ehi, uomo pingue, scendi di lì ». (Ero infatti un bambino piuttosto ben pasciuto). Fu lei, immagino, che mi insegnò a leggere e a scrivere; trovo ancora la sua snella scrittura sulle copertine cartacee, da lei stessa fornite, dei libri per l'infanzia di allora: Il birichino di papà, Senza famiglia... La ritrovo a Montepulciano, dove, richiamato alle armi mio padre, vivevo con Rosina e sua sorella, della quale se mai altra volta. Montepulciano, luogo incantevole di dolce lingua senese, deliziosa per noi poveri coloniali, eppure di gelido inverno. Incantevole nondimeno, involto nella nebbia d'oro dell'infanzia; e sulla cima dei colli intorno si trovavano conchiglie fossili; e dal suo giardino Poggifanti (se davvero si chiamava così) si scopriva un vasto panorama di borghi turriti, di laghi. Né era difficile scoprire la professoressa Fosforina, cui in definitiva ero affidato e che per qualche motivo affannosamente cercavo, scoprirla dico di spalle ai vetri d'una finestra di un primo piano che (pizzicando l'erre come fu sempre suo costume) leggeva o per meglio dire declamava a una collega invisibile nell'interno della stanza: « Lascia... (Dio sa che) / E corri, corri, corri / Corri, minaccia gli itali penati » - col resto. E talvolta dormivo col monaco nel letto. E da ultimo tutto ciò non vale, per chi non fu lì e allora: queste deboli stuzzicazioni della fantasia, e le stesse grandiose immagini della storia, non renderanno mai al sopravveniente un certo color di sole, un certo odore di stoppie. La zia Amalia (detta Malietta), altro personaggio caro ed importante della mia vita, usava fare le sue divozioni inginocchiata sul nudo pavimento e con braccia aperte a croce. Un giorno avevo da restituirle una pesante tenaglia, che m'ero fatto dare per chissà quale inutile lavoro da fanciullo: spingo sicché la porta della stanza dove seguiva il colloquio della brava donna col suo dio... il quale 340
le manda subito un segno della sua benevolenza, se è vero che egli fa soffrire quelli che ama. Più chiaramente, affacciandomi alla porta e tenendo in mano il detto utensile, io feci un gesto come a dire: « To', tenete la vostra tenaglia»; e quest'ultima, pel suo stesso peso e per mia oltre che sua sfortuna, mi volò di mano battendole giusto tra i due occhi. Ella cadde riversa, e si può immaginare il parapiglia; più tardi le vennero atroci borse sotto gli occhi, che tosto divennero viola e poi verdi e poi gialle e poi, come suol dirsi, color cane-che-fugge, e solo molto lentamente scomparvero. (In proposito mi torna un'immagine remotissima. « Nonna, ecco prendete: lo hanno fatto stamane ». La nonna agucchiava accanto alla finestra; e l'uovo, da me treenne o quattrenne lanciato, rotolò docilmente un tratto, ma a mezza strada si ruppe sui mattoni alquanto sconnessi). Mio Dio, si può esser grati a una creatura umana per la sua morte? Forse sì, ove si ponga questa morte ineluttabile e non dimostrativa o sperimentale. Parlo oscuro, me ne avvedo; ma infine la mia cara Rosina si ammalò d'un tratto seriamente del morbo chiamato in quei giorni «spagnola» (sottintendendo «febbre» o sim.): morbo che nel suo caso e d'altronde nel mondo intero andava d'ora in ora aggravandosi, mentre io, sbigottito, già presentivo una soluzione ignota, terribile, esiziale... Ho ritrovato di recente, sul margine d'uno dei miei quaderni d'allora, una sorta di cartiglio tracciato a penna, con iscritte, e non so perché coronate, le cifre: 41,7. Questa era l'altezza cui era giunta la sua febbre, la sua indomabile febbre. E lei gridava: «Ma no, non voglio morire! » (qualche giorno innanzi, al momentaneo arrestarsi, sotto le nostre finestre, d'un prete che recava il viatico a un morente, aveva gridato: « No! il prete non deve fermarsi qui »). Moriva, invece. Vollero dare la colpa di tutto a una calza di cotone tinto che le avrebbe infettato una piaghetta sul tendine; ma erano fantasie di quei medici, sinistri travestimenti d'un destino. A questo punto, poi, io venni allontanato dalla casa della morte. Via Mazzini 10; e c'era lì davanti una specie di piazzetta 341
o di trivio in cui chissà come identificavo la piazzetta antistante la Casa Leopardi. Perfetta identificazione, del resto, salvo che su diversa scala; e difatto si scorgeva laggiù a una di quelle finestrette una fanciulla... Era, la nostra, una casa modesta; la dispensa si trovava addirittura sotto tetto, sui travicelli del qual tetto non di rado vedevo, con divertimento e terrore, qualche topo corpulento e canuto, passeggiante o foraggiante, che senza complimenti si fermava a guardarmi negli occhi. Non so perché mi attardo in questi particolari, se non perché inconsapevolmente voglio differire l'orribile momento: il momento dei miei primi convenevoli colla morte. Mi avevano posto a dozzina presso una buona signora lassù in cima alla città, nella piazza superna oggi purtroppo nota a tutte le mandrie turistiche: in una casa unicamente caratterizzata, nel mio ricordo, da un enorme edredone. E un giorno chiesi d'uscire; ma la padrona: « Uscire! e cosa avrebbe a pensare la gente? Questo bambino va a spasso quando sua cugina è morta! ». - « Ma come, » replicai sentendomi morire io stesso « sicché è morta? ». Colei accennò di sì col capo, ed io fui preso da un accesso di pianto che tentai soffocare contro il detto piumino. Udii ancora la donna dire sommessamente a una sopravvenuta che forse cercava di calmarmi: «Andiamocene, meglio lasciarlo sfogare ». Poi, si capisce, riaffiorai da quella disperazione come si riaffiora da ogni cosa, di questo e d'altri mondi: a buon conto in tempo per ritrovarmi davanti alla mia casa mentre portavano giù la bara per le scale anguste. Era un giorno turbato, piovoso; ogni poco la bara rendeva un suono cupo, cavo... E finalmente l'esiguo drappello si avviò, con qualche ombrello spiegato, verso l'alto; donde ridiscese a valle sul rovescio del colle, per deporre la povera spoglia al cimitero lì dalle parti di S. Biagio. E oggi Rosina cos'è? E, temo, soltanto la cartolina che puntualmente ogni 7 di febbraio scrivo a sua sorella, in memoria di quella morte ingiusta. E cosa sarà, nei secoli, Rosina? Morti noi due, nulla.
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DUEDONNE
U N A LETTERA
Carissima, ho ricevuto puntualmente per Natale i miei dolciumi preferiti, il mio liquore preferito, e sto per dire il mio libro preferito, cioè uno di quelli (pare impossibile) che difatto desideravo. Ho ricevuto anche lo scarno, essenziale biglietto che tutto questo ben di Dio accompagnava: « Con indicibile stima ». Beh, e sottintendendo le convenienti espressioni di gratitudine, dovrò io insegnarti che, rivolgendosi a un vecchio scrittore di qualsivoglia tacca, « stima » va obbligatoriamente sostituito con « ammirazione » e che del resto quest'ultima, o la stima medesima (parola da impiegati all'ufficio del registro o da coniugi felici, ove se ne dia) può sempre essere detta, specificata, cantata, in prò' del poveruomo da sempre e per sempre posto in minoranza? Ma non è su tale punto che volevo oggi richiamare, per prima ed ultima volta, la tua attenzione; e il discorso sarà magari introdotto dal seguente e recentissimo ricordo. Quando ti ho telefonato, in seguito a codesto invio, e come usa ti ho soggiunto: « Lo capisci che non voglio stima, voglio amore » tu replicasti: « Quello ce l'hai di già, e lo sai bene »... Ah sì? Lo so bene? E tu stessa sai bene cosa è l'amore, e che non è fatto soltanto di paroline dolci o di bacini furati? Odimi (come Odimi Aida). 343
Tempo addietro, io leticavo atrocemente con mia sorella, dalla quale non ho avuto che bene, molto bene, ma ripagato in lacrime di sangue. Dio mio, perché? Non è facile dirlo: perché ella rinfaccia, grida, talvolta malignamente inventa... ed io non son da meno. A questo punto tu telefonasti, per caso; ed io gridai nel microfono: «Vieni, vieni, sì sì vieni! ». E tu venisti prontamente. Ora, e per tornare al fatto, tu sapevi bene quanto ella mi seviziava, quanto sminuita, invilita ed estenuata usciva l'anima mia da quella ignobile situazione, quanto caduto (se così posso dire) ero io angelo... E cosa facesti? Tu andavi ragionando del più e del meno, mettendo una toppa qui, tappando là un buco, in tutto e per tutto come chi si studii di metter pace in una famiglia un po' turbolenta. « Son cose, » arrivasti perfino a dire « che capitano in tutte le famiglie ». Dio mio, era possibile, ti era possibile, questo? Tu sapevi chi sono, tu mi amavi o (che è lo stesso o forse meglio) dicevi di amarmi: e potevi lasciarmi a quella mortificazione, a quella vergogna? Non sentivi dunque in te un impulso soverchiante di strapparmi di lì e da tutto quanto rischiasse di travolgermi, di travolgere e stravolgere la mia immagine migliore, migliore in sé e in te medesima? Ti credetti sicché smarrita... Per tuo uso, e per una volta, volli farmi vittima di una tale debolezza: poiché in verità gli affetti non subiscono smarrimenti né oscuramenti. Volli infine richiamarti ai tuoi obblighi verso ambedue: ti chiesi compromissione, quella che fa gli uomini e le donne, quella che può salvare l'anima. E con amarezza mi avvidi che ti avevo chiesto la sola cosa che non potevi dare: alla mia istanza di condurmi lontano, dove potessi non ricevere menomazione (e non soffrire) per l'eternità, tu cosa opponesti? Ho negli orecchi la tua bassa risposta: « Ma... Certo, se fossi tua moglie... ». Parole basse, dico, della sapienza borghese. Ovvero di una saggezza superiore, che dopo tutto 344
potrebbe (se non avere) farsi una ragione? Ecco il dubbio che improvvisamente mi coglie. Ritiratasi o forse uscita che fu la seviziatrice, la padrona di quella casa d'inferno, tu mi sedesti accanto e, nel crepuscolo ormai sopravvenuto mi andavi mormorando: «Che voleva significare quel tuo sguardo sulla loggetta del Campolacorte? Quel tuo sguardo che provocò un rossore della mìa fronte. Mi avevi chiesto: "Ti piace?" - cioè il Campolacorte, i suoi campi fulvi, il suo bosco e tutto il resto; soggiungendo: "E allora perché...?". E fu appunto questa reticenza a provocare il mio rossore. Ma poi, a palazzo giù in paese, nel grande andito mi baciasti anche. «Ebbene,» concludevi nell'ombra, dopo quelle parole gravi di tempo « lo sai che si può vivere di questo, di questo} ». Non seppi rispondere, se non più o meno ipocritamente dall'alto d'una mia pretesa esperienza; ma il mio turbamento dura. Quella, ho detto, fu l'ultima tua occasione per diventare donna: o non fu piuttosto l'ultima mia per diventare uomo? LA SVEDESE
Abitavo sui colli; e una notte, una notte cupa, il telefono mi recò la voce di certa svedese che in fondo conoscevo appena: « Posso venirti a trovare? ». «Ma, sai... infine, son quasi nudo, perché... ». « Non importa, anzi meglio, mi sta benissimo ». « Oh Dio, in tal caso ti aspetto » conclusi io abbassando, come Orazio, le orecchie e dopo una rapida occhiata colla padrona di casa. E lei, la ragazza svedese, in capo a un quarto d'ora venne davvero. Di prima giunta pareva florida, subito dopo patita. Ad ogni modo venne, salutò piuttosto freddamente la mia ospite e senza troppi discorsi si mise a succiare il bicchiere che le era stato offerto. Appariva come crucciata per qualcosa o per qualche mancato divertimento. Ma dopo mezz'ora già diceva: 345
« Bello questo divano: grande. Però sarebbe meglio mettersi un po' più in libertà; non c'è per esempio un letto a due, a tre, a dieci piazze? ». « Proprio dieci no » rise la padrona di casa. « Ma in una maniera o nell'altra ci accomoderemo ». « Beh beh » riprese quella. «Andiamo ». Lì poi si mise in libertà (secondo il suo detto), ma non ostentatamente né indecentemente; e seguitò a bere. Io sembravo dimenticato: l'attenzione della ragazza sembrava ora concentrata sulla padrona di casa medesima. La quale era donna alquanto contegnosa; pure, di lì a non molto, la prima già abbracciava svisceratamente la seconda mormorando tra un bicchiere e l'altro « Cara, oh cara! », mentre la seconda dava addietro col capo per osservarla divertita, neppur troppo scostante. Si andò così avanti per alcune, per parecchie ore, fin sotto l'alba: quando da ultimo tutte le cose finiscono di propria virtù o di proprio difetto. Venne cioè il momento stordito (da vino) e sempre triste del commiato. La accompagnammo, traversando il giardino nell'ormai rigida aria antelucana, al grande cancello; dove, non senza sorpresa, trovammo un tassì e un misero tassista che si batteva il petto e le spalle per riscaldarsi. Sorpresa del resto insipiente: si era lontano fuori città, e come avrebbe fatto, se no, la nostra amica a rincasare? Fu qui, al momento di salire in macchina, che ella mi guardò; voglio dire, mi guardò secondo era supponibile mi guardasse anche prima, eppure in modo imprevedibile, singolare... Oh Dio, cosa significava, cosa voleva significarmi quello sguardo incomparabilmente e (si licei) esaltantemente malinconico? A me dedicato, d'altronde, o al mondo intero? Ora so: parlai con una sua cara amica, anni dopo, e seppi. La ragazza svedese era furiosamente, pare, innamorata di me; ma non ignorava d'essere condannata: una malattia che non perdona, che avrebbe agito in un tempo breve quanto facilmente calcolabile, nella quale ella non voleva coinvolgermi. Quell'ultimo sguardo. - In cui passava terrore, amore, 346
malizia, impotente vanità, desiderio... Ma così, da ultimo, si può seguitare in eterno: in cui passava tutto, diciamo. Oggi è morta, non v'è dubbio. Diavolo, e perché non è toccato a chi sarebbe stato più lievemente, forse più lietamente, morto?
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DIARIO PERPETUO
VOLETE IMPARARE QUESTO ALFABETO?
Gli L. sono, com'è noto, tre: L.I, L.II, L.III, secondo l'uso invalso di contrassegnarli. Spigolerò per comodo del lettore non specialista qualche notizia che mi è sembrata più curiosa da un vasto trattato che un mio defunto amico aveva in animo di scrivere sull'argomento. Dico aveva in animo, giacché per disgrazia la morte lo colse quando ancora non aveva posto la parola fine nonché al tutto, alla parte riguardante l'L.I che è però già piuttosto voluminosa e che forse un giorno pubblicherò integralmente. Gli stralci sono dunque da ciò che rimane della progettata fatica. Risparmio al lettore profano le numerose discettazioni su problemi particolari o di critica filologica, le introduzioni generale e speciale, etc. E così pure mi sono studiato di evitargli, per quanto possibile, un'ingrata terminologia tecnica. Né so se queste poche note appariranno curiose anche al lettore medesimo. Ma il precipuo interesse della presente spigolatura, lo si avverta, è soprattutto in ciò che da quanto segue (e sia pur sommariamente segue) ci si potrà fare un'idea approssimativa delle altre due lingue, l'L.I e l'L.II, di gran lunga più complicate! I generi sono quattro: maschile, femminile, neutro e astratto. Al primo appartengono tutti gli esseri viventi di
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sesso maschile, uomini animali o piante; al secondo tutti gli esseri viventi di sesso femminile, c.s.; al terzo tutti gli « esseri » (giacché alla lingua pare essere estranea l'idea di « cosa » o di oggetto inanimato) non dotati di vita apparente o che si riproducano per partenogenesi; al quarto tutti i termini astratti o che designino intere categorie di «esseri». I numeri sono sette: singolare, duale, triale, decale, centale, miliale e milionale (il quale ultimo, a parte la sua funzione specifica, sostituisce il nostro plurale). Il sistema è in fondo molto chiaro: le quantità intermedie sono segnate dalla caratteristica del numero immediatamente inferiore, salvo il caso dei multipli di 2,3,10,100,1000 e 1 milione. ( Omissis. Il trattatista passa a una complessa casistica e conclude trionfalmente:) Così, 90 uomini è un decale, 190 uomini ancora un decale, ma 100 o 200 o 1900 uomini un centale; 1000,2000 o 999000 un miliale, e così di seguito; laddove s'intende di leggieri che ad es. 101, 999001, 999999001 uomini restano rispettivamente un centale, un miliale e un milionale. Niente di più semplice. Come si vede la lingua non tollera (sebbene più in teoria che in pratica) espressioni indeterminate rispetto alla valutazione delle quantità, o comunque obbliga chi parla a un computo almeno approssimativo degli « esseri » che vuol designare. Questa particolarità, anzi, permette dettati di violenta efficacia, mediante finti solecismi di cui infatti gli scrittori della lingua hanno fatto e fanno largamente uso: e in tali casi, come in altri che vedremo, un errore di grammatica può essere una rivelazione. Ad esempio: «Alcuni uomini (al milionale, soltanto il nome), alcuni uomini, Signore, mi correvano incontro per lapidarmi » (Racconto della donna adultera. - Di questo e di eventuali altri testi, fin troppo noti agli ellisti, tralascio l'indicazione completa). Oppure: «Suppongo, signora, che un uomo (decale c.s.) sia passato nella vostra vita. - Nessun uomo (centale), signore, e molti dolori. - Capisco. E... posso domandarvi quanti anni avete? - Ahimè, signore,
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ho ormai trentacinque anni (nuovo centale) ». (Dialogo d'un tardo imitatore). (omissis). I casi ammontano, secondo il computo dei grammatici, a centoquarantasei (anzi a cenquarantasei, tale essendo la forma dell'ordinale raccomandata dagli studiosi), di cui solo centoventicinque dotati di desinenza caratteristica. Essi sono esattamente il doppio dei complementi: ciò si spiega col fatto che ogni complemento ha due aspetti, l'astratto e il concreto. Ad esempio, nella lingua le due frasi «Mi son fatto strada coll'onestà» e «Mi son fatto largo con un randello » seguono (a torto in fondo) due aspetti diversi, essendo quello contenuto nella prima un complemento di mezzo astratto, quello della seconda un complemento di mezzo concreto. Dunque solo i nomi di genere astratto seguono la flessione nominale astratta. (Enumerazione dei casi, esame di ciascuno, questioni connesse. Si omettono circa duecento pagine. Il trattatista accenna poi alla distinzione, propugnata da alcuni grammatici, dei casi in temporali, spaziali e galimbii strana parola forse di origine slava, giacché di colombe parlano tradizionalmente gli elementari esempi offerti ai fanciulli delle scuole. Disquisizione esemplificativa sul traversarie passivo astratto galimbio). II verbo ha diciotto aspetti, nove concreti e nove astratti (senza pregiudizio della comune partizione in perfettivo e imperfettivo) ossia: il lentivo, il rapidivo, il buttivo alias con perfida parola improwisivo, il gioivo, il tristivo, l'egualivo, il prossimivo, il lungivo, l'egualivo spaziale. Come si vede non si tratta, a rigore, di aspetti; ad ogni modo questa impostazione flessiva assorbe senza residui gli incoativi e i futurivi propriamente detti delle nostre lingue indoeuropee. Il solito esempio: una ragazza, per quanto pudica, a un giovane intraprendente: «Allontanatevi (prossimivo), vi ho detto! ». Data, ora, una tale ricchezza di aspetti, si potrebbe credere che l'organismo dei tempi e dei modi avesse a risultarne semplificato. Niente di simile in realtà! se la quanti-
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tà dei modi non eccede quella dei modi latini, i tempi sono in compenso pressoché innumerevoli... (Elencheremo qui, dice il nostro uomo, i principali con poche osservazioni. Eh sì, poche: lo conosciamo, per cui non lo seguiremo). Ogni tempo presenta tante persone per quanti sono i numeri: più una, la seconda; ogni persona, quattro generi. Tra gli ausiliari, assai numerosi, si trovano i due verbi morire e nascere, specialmente usati nella costruzione detta del conativo coll'infinito (om.). Le coniugazioni sono milleduecento (breve, ma non troppo, esame di ciascuna). Ogni verbo inoltre può essere transitivo o intransitivo: andare o sedere possono, o non, comportare un accusativo, o anche in certi casi un deduzionale... In un popolare dramma giallo un assassino, insospettabile dal punto di vista della sua cultura filologica, indica con un suo lapsus a conti fatti l'ora e le circostanze precise del delitto, demolendo così il proprio alibi! Ma mi vedo qui costretto a riassumere brevemente, o non la si finirebbe più. - Aggettivi, pronomi, articoli, preposizioni, son tutti declinabili e seguono in genere numero e caso il sostantivo cui si riferiscono. Per quanto concerne la struttura della frase in generale, nessuna parte del discorso vi ha un posto fisso, in qualunque locuzione si voglia; ogni parte del discorso, inoltre, può presentarsi a sé stante ovvero sotto forma d'enclitica o di proclitica mai peraltro inserita epenteticamente. - Il trattatista rimanda per ulteriori chiarimenti al volume che riguarda la sintassi, purtroppo neppure iniziato. Noterò di sfuggita che gli aggruppamenti semantici sono operati secondo ciò che fu definito un valore pseudo o paralogico, d'altronde come nelle nostre indoeuropee. Ma si nota già la tendenza, che si conclamerà in L.II e poi in L.III, a francarsi da tali pastoie. La medesima radice, ad esempio, presiede alla formazione di parole come « dormire », « letto », « notte », « luna », « perdere », al gioco d'azzardo, «ispirazione», «poesia». Il sistema di notazione grafica, per quanto a prima vista complicato, è ciò che di più razionale si può immaginare, nel senso che ciascuno dei pressoché innumerevoli fonemi della lingua vi trova il suo speciale segno o la sua spe-
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ciale combinazione di segni. Esso potrebbe definirsi un sistema semi-ideografico, in quanto comprende una serie di ideogrammi (dei quali ognuno corrisponde a un radicale) e una serie di diacritici a valore alfabetico. Pertanto agli ignoranti della lingua basta conoscere gli ideogrammi (detti ideogrammi radicali) e imparare una volta per tutte l'alfabeto descritto, per leggere correttamente un testo. Come si sarà già inteso, questo alfabeto serve a notare le alternanze, le distensioni, la flessione infine della «base». Si calcola che in L.I gli ideogrammi ascendano al numero di centodiciottomila; non è escluso che altri ne vengano alla luce se, come si spera, si rintracceranno le carte 428-702 dell'Archivio di Praga, rapite, è noto, alla fine dello scorso secolo. L'alfabeto non consta invece che di trecentottantuno segni, i quali fanno praticamente millecinquecentoventiquattro lettere, dato che il loro valore muta secondo la posizione (in alto, in basso, a destra o a sinistra della cosiddetta base). Un testo si legge da destra a sinistra e viceversa alternamente, sempre in senso orizzontale e cominciando dal basso ( segue uno schema che mi dispiace non poter riprodurre). Insomma una sorta di scrittura bustrofedica. Per consuetudine, nei testi stampati un quadratino delimita il campo di ciascuna delle ricordate basi, mentre un più ampio quadrato intorno al primo assicura lo spazio necessario ai diacritici. Quando si chiese a uomo di sterminata dottrina ed ellista al cospetto di Dio il congetturabile perché, o dicasi lo spirito di tale disposizione, quegli rispose: «Mio gentile allievo, la faccenda sta secondo me così: mentre un testo in qualsivoglia lingua (se, e solo in parte, se ne eccettui la cinese) favorisce nel lettore il sonno, intendo il verso medesimo della scrittura, la disposizione adottata da L.I costringe invece detto lettore a levare sempre più il capo - tranne al voltar della pagina, ma non è che un attimo. Con quanto vantaggio per le patrie lettere e pei patri scrittori, non sempre divertenti, lascio a voi giudicare ». Ahimè lettore, mio lettore stavolta, su queste precise parole il manoscritto del mio povero amico è rimasto interrotto, verso la pagina numero... beh, non voglio spaventarti.
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Ma forse è nato chi lo continuerà. Resterebbe verbigrazia ad occuparsi ex novo della fonetica, aspetto assai complicato e dibattuto della faccenda. Spero a buon conto, quando farò passare le schede di sottoscrizione per l'impresa che ho in animo e di cui ho detto in principio, di poter contare sulla tua adesione.
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LASSÙ
« Signori, amici! i parametri (scusate la stupida parola) di lassù non sono quelli di quaggiù ». «Perbacco, ci crediamo; nondimeno... ». « Niente di tutto questo, immagino ». « Come, "immagino"! ». « Ecco: punto primo, e per avventura, vi rammento che lassù, a quanto pare, non c'è acqua». «Ah, "immagino" e ora "a quanto pare"! ». « Certo, può sembrare che io non abbia saputo vedere... Ma credetemi, uno non può essere sicuro di nulla: uno vede e non vede ». « Piano, piano, non ci fate girare il capo: noi qui stiamo parlando, per cominciare, della configurazione dei luoghi. Giusto? ». «Ingiusto. Ma guarda, ora vi riprende l'uzzolo della "configurazione dei luoghi": locuzione inesprimibilmente sciocca, imparentata con la confindustria o altri casuali con (cons?) ». « Tuttavia, una configurazione dei luoghi... ». «Vi sarà pure? è questo che intendete? ». «Eh sì». « Ma ebbi già ad informarvi in proposito ». « Siate tanto cortese da ripetervi ».
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« Lo farò per carità di patria. Uno esce, già vi dissi, passeggia, vede perfino qualche albero, sebbene a quattro zampe... ». « Chi a quattro zampe? l'uno? ». «No: l'albero. E poi d'un tratto... ». «D'un tratto...?». « D'un tratto scopre come un ravviamento ». « Che significa? ». « Scopre come un ravviamento, dico ». « Ma che significa? ». « Sembra quasi che gli alberi, le erbe o che diavolo, siano come pettinate o, diciamo meglio, volte a qualcosa, o piuttosto verso qualche punto ». « Cioè, sembrano avere una direzione? E sarà certo effetto del vento ». «Ma quale vento! lassù non soffia mai vento... Più che una direzione: uno scopo ». « Ossia sembra che quegli oggetti di natura tendano a qualcosa? ». « Lo dite egregiamente ». «E cosi?». « Che così: a questo punto non capite più nulla, non sapete neppure se abbiate veduto o no, non siete più sicuri di niente ». « Ora siete voi a dare i numeri... Sicché alla resa dei conti non sapreste neppure garantirci che... ». «Non so cosa dovrei garantirvi. Comunque, non saprei». « Non sapreste? ». «No». «Ma voi cosa immaginate noi vorremmo ci garantiste?». « Per vostra norma, non immagino niente ». « E sia. Ma adesso, esauriti gli umanistici o filologici salamelecchi, venite al fatto ». « Non mi brigo di fatti ». «Su, su». « In tutto si manifesta... si manifesta, né saprei altrimenti esprimermi... si manifesta la ricerca d'un personaggio brumoso e misterioso ». « "Brumoso"? ».
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« Certo; nessuno potrà pretendere di vederlo alla luce del sole». « E "misterioso"? ». « Senza dubbio, dal momento che non si palesa se non a tratti e per illuminazioni repentine ». «Ah, anche le illuminazioni repentine? E sia; ma, in genere, ci compete avvertirvi che cominciate a stancarci. Voi parlate, parlate... ». «A mia volta devo farvi notare che siete voi a interrogare ». « E lo stesso. E vogliamo soggiungere che tra o da tanto parlare noi, per parte nostra, non abbiamo cavato una sola nozione utile ». « Utile a che? ». « Eh diamine, a una visione quantunque approssimativa dell'universo ». « L'universo non si lascia in alcun modo circoscrivere ». «Sassi». «... E sallo in Campagnatico ogni fante? ». « Già. Ma la questione è un'altra: a proposito delle "illuminazioni repentine", brav'uomo, cosa ci contate? ». «Vi conto ciò che voi non potete intendere ». « Non seguitate su codesto tono: vi abbiamo già detto che siamo vicini al cosiddetto punto di rottura. Comunque, calma! Guardiamo di rifarci dal principio: stavamo parlando di... ». « Non ricomincerete, spero, con non so quale esautoratissima configurazione? ». «Eppure...». « Ma volete sì o no capire che Configurazione dei Luoghi e Ricerca del Personaggio brumoso e misterioso fanno tutt'una? ». «Eh?». «Il paesaggio (se così vi ostinate a chiamarlo) non sarebbe quello che è se non vi fosse la mentovata Ricerca, o, ad libitum, Configurazione ». «Ah, sicché... ». « Né la detta Ricerca potrebbe aver luogo se il Paesaggio non fosse quello che è, non comportasse anzi forzasse codesto Personaggio medesimo. Chiaro? ». « Difficile, per contro ».
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« Come mai? ». « Difficile e per nulla agevole la corrispondenza ». « Oh Dio, ma se voi vedeste dei pini in mezza collina ed udiste dire dolcemente gre gre (badate, non mi riferisco certo al "breve gre gre di ranelle" che tal poeta... ». « Sorvoliamo ». «Ah, questa poi è nuova: ora m'interrompete perfino in corpo di parentesi? ». « Gli è che non ne possiamo più dei vostri rigiri, che abbiamo raggiunto il limite estremo della sopportazione ». « Carini, loro! Ma intanto io la parentesi come la rappicco o come la chiudo? ». «Non chiudetela e in nome di Dio abbozzatela... ». « "Abbozzatela"? ». « Smettetela, cessate: cessate di menare il can per l'aia ». «Pensavo che almeno un po' di rispetto formale o stilistico si dovesse ai pochi e sparuti giovani che ci ascoltano». «Oh Signore! volete dunque che vi uccidiamo o che (peggio? meglio?) volgiamo la mano contro noi stessi? ». « No, no. Ma allora vi dovrete sorbire la ripresa dell'intera frase. Non odo obbiezioni; riprendo sicché. Se voi vedeste dei pini in mezza collina ed udiste dire dolcemente gre gre (parentesi omessa), non pensereste che qualcosa mancasse al quadro? ». « Oh beh, oh sì: mancherebbero in tal caso le gazzere ». «Che maledetti baccalari: intendete gazze o, sia pure, chichacolesì ». «Appunto». « Oh bravi, bravi. Di conseguenza, lì... ». « Dove lì? ». « Lì, in seno a quei paesaggi o luoghi od orizzonti o personaggi, o come meglio vi piaccia chiamarli ». « Fermatevi, abbiamo finalmente capito ». « La Dio mercé ». «Abbiamo finalmente capito che siete della più pericolosa (e odiosa) genia di pazzi contro noi armata dal Demone tricefalo che regna il Tartaro orientale ». « Se mai, e a quanto sembra, voi non siete da meno ». «Ah, tacete infine e tornatevene sull'atto presso il vostro malvagio padrone. Voi non siete mai stato lassù; voi
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non quello di LASSÙ, ci state descrivendo o vi sforzate di descriverci, bensì il mondo di QUAGGIÙ ». (A capo, stessa voce). « Quaggiù, dove tutto è incomprensibile, dove tutto svicola e scantona, dove l'amore e l'odio egualmente uccidono, dove Dio stesso non può che essere invisibile mentre i suoi decreti non possono che essere imperscrutabili, dove esso Dio non si contenta neppure degli infiniti sacrifici di sangue a lui votati, né delle pelli di vergini indossate dai sacerdoti davanti al sinistro pozzo... Dio, cui la morte medesima non basta ».
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DIARIO PERPETUO
VERSO LA FINE DEL TEMPO
Non ho mai capito come ci si possa dedicare a un'opera o impresa qualsiasi quando la propria fine sia già stata in alto loco decretata: se dobbiamo morire, a quale scopo darsi da fare? Questo, s'intende, è detto di noi in quanto umanità, non in quanto singoli. Né deve ciò sembrare un paradosso: se un'eternità, benché sempre relativa, d'un singolo uomo è bene o male concepibile, nella misura in cui egli legasse o si figurasse legare a una nebulosa ed innumerabile serie di generazioni una qualche sua opera, a nessun patto per contro potrebbe stimarsi eterna l'umanità medesima, cui natura o chi per lei ha posto, secondo dicevo in principio, un termine indifferibile. Oggidì, invero, l'espressione « la fine del tempo » ha cessato di non significar nulla (salvo una scadenza imprecisata, imprecisabile e in ogni caso proiettata all'infinito), per significare invece alcunché di ben situato nel tempo, con minima approssimazione. E sia essa, tale scadenza, remota quanto vuole rispetto ai nostri metri (pardon, parametri), che importa? La scienza ci ammonisce, e ci ha convinti: è certo, è ineluttabile che tra quattro o cinque miliardi d'anni il nostro pianeta sarà diventato una morta roccia fiondata intorno al Sole. Beh, ma un miliardo d'anni equivale ad un attimo, a un volger di ciglia, a una frazione di secondo, a
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una frazione di frazione, neppur sognabile da quei cronometri che indagano i « tempi » di quegli scivolatori zigzaganti tra picchetti su nevi in pendio. - E sicché ripeto: cosa si ripromette l'umanità? Converrà forse rifarsi un passo indietro, o uno avanti. Lo scientismo è degenerazione della scienza, come il socialismo (in senso proprio) della socialità o il contenutismo del contenuto; o, se si vuole, è il vizio insito e latente nella scienza. Ciò posto noi viviamo oggi, non già in un'epoca scientifica o sia pure (secondo si ama chiamarla) tecnologica, bensì in un'epoca tipicamente scientistica: quale, ancorché in fondo cosa nota, non mai si configurò, neanche al tempo di Voltaire, tanto chiaramente quanto ai nostri infelici giorni. Caratteristica in particolare di simili epoche è la fiducia incrollabile che la conoscenza serva a qualcosa. Ma, salvo a tornare su questo punto e sulle necessarie distinzioni, mi limiterò qui a richiamare l'attenzione sul tanto di grottesco che un tale pazzo assunto, ma infine lo scientismo stesso, comporta, e su alcuni manifesti danni allo spirito pubblico e privato (o addirittura alla morale pubblica e privata) che ne derivano. Qualche esempio? - L'altro giorno, o due mesi fa o non so quando, c'era gente che pescava sogliole a mie spese: a spese di me contribuente. E perché pescavano sogliole? Non per mangiarle, che sarebbe troppo facile, sì per inserire o imprimere nel loro corpo, mentre esse disperatamente sventolavano, una targhetta metallica con non so quali dati da cui si sarebbe in seguito dovuto cavare il percorso primaverile o autunnale o amoroso delle sogliole medesime. E cavare perché? Avessero almeno detto: « Perché così ci sarà più facile ammazzarle e mangiarle ». Ma no, gli inconsulti giustificavano la loro grottesca impresa colla prometea o ulissesca brama di conoscenza, e in definitiva queste vittime dello scientismo contemporaneo c'è caso si figurassero operare davvero in nome e nell'interesse della scienza (quella autentica, galileiana). E a me venne in mente un tal cugino che si credeva pittore, e che una volta trovai nella mia cucina mentre con grande impegno ritraeva una batteria di mestoli e romaioli sospesi sui fornelli (mio Dio, fosse stato un Teniers
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avrebbe magari potuto farlo, ma Teniers non era). E del resto noto che da noi chiunque dichiari: « Desidererei stabilire, attraverso un'opportuna ricerca di gruppo, quanti flaconi vuoti di medicinali o guanti di Parigi vengono annualmente gettati lungo le prode delle autostrade, e ciò con intenti squisitamente e socioculturalmente scientifici», è tosto sovvenuto di miei quattrini da sottosegretari quasi piangenti di progressistica e democratica commozione... Ché da ultimo appunto di codesto scientismo imperante fanno parte simili minute ricerche, come anche quelle intorno ad altri nostri miseri e sparutissimi compagni di pianeta con radioline al collo o fatti bersaglio di anestetiche siringhe, quando pure non rechino qualche diabolico apparecchiuccio nel cervello o nel midollo e seppure poi generosamente rimessi in libertà (libertà, santo cielo: può mai essere libertà dov'è l'uomo?). E cosa dire, e sempre per minimo esempio, di quegli altri dottori che, sempre animati da sete inesauribile di sapere, di progresso, di superamento dell'attuale condizione umana, si trasferiscono anzi allogano in fondo al mare? - Via, se tutti costoro dicessero che ciò fanno per provvedere ulteriori fonti di nutrimento alla loro razza, cui sacrificherebbero tutte le altre e tutti i loro (come dicevo) compagni di pianeta, pazienza! Ma no, essi affermano di agire nell'interesse della scienza: sebbene, ad onor del vero, da qualche tempo occasionalmente si confessino, abbiano cioè preso ad ammettere che in queste ricerche corre soprattutto l'interesse di noi uomini. L'ecologia tutta, è una trappola bella e buona: che senso ha il voler mantenere in vita animali in via d'estinzione, quando in via d'estinzione è l'infausta razza umana medesima? Se codesti dolci animali riuscissero a sopravvivere da sé e senza alcun soccorso o parco o laghetto litoraneo, allora magari! ma così... dico, rispetto all'utilità che l'uomo potrebbe cavarne. A carico poi di questo malaugurato scientismo, v'è di ben peggio. L'altro giorno assistevo a una trasmissione televisiva per bambini (e per vecchi valetudinari) pomeridiana, una di quelle a cadenza o insomma in serie. Beh, e sapete su cosa verteva questa collana di trasmissioni? Sui trucchi cinematografici o televisivi: un tale cioè mostrava
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a quei figli di mamma mediante quali accorgimenti e trappole e macchine si ottenessero, come tuttora si ottengono, certi effetti spettacolari... gli effetti appunto che un dì lasciavano a bocca aperta l'infanzia. Capite cosa voglio dire: quel tale, in diverse parole, si applicava ad uccidere sistematicamente quel bene insostituibile, quel privilegio prezioso che si chiama in vari modi e per la più corta fantasia. E per sostituirla con cosa? - Ah, quando (sempre alla televisione, che è ormai il mio solo canale d'informazione), quando odo quelle giovanissime teste brune o bionde, quegli occhi vivaci, intelligenti e meritevoli di miglior destino, parlare di « contesto socioeconomico o socioculturale », io li piango, quei miseri fanciulli, e piango. (Un amico mi fa osservare che il da me qui sopra detto scientismo meglio si chiamerebbe scientifismo, posta la precisa collocazione storica del primo termine - laddove incidentalmente io mi riferisco addirittura al tempo di Voltaire. Non sono del tutto d'accordo col mio gentile mentore. Ma sia pure: non varrà comunque una sottile questione terminologica, mi lusingo, a invalidare il precedente discorso).
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FATTI PERSONALI
Non so se quanto segue possa interessare qualcuno; a buon conto l'ultimo scrittorucolo ha pur diritto, si dice, ai suoi fatti personali, beninteso ove di tale diritto non abusi. E se di meglio non vi fosse, vi sarebbe che quest'oggi la ho presa sotto quest'angolo, ed eventualmente il lettore mi scusi. Mettiamo: Leone Piccioni, il noto critico letterario e (un tempo almeno) gerarca televisivo. Io avevo qualche motivo di malumore nei suoi confronti, in seguito a una circostanza che senza dubbio egli ha dimenticata, o per meglio dire non ha mai percepita quale possibile motivo di malumore; ed in un breve scritto in coda a tal mio libro lo avevo direttamente chiamato in causa. Direttamente o quasi: senza farne il nome, ne avevo in compenso citato due o tre frasi, di un articolo a me stesso dedicato. Col che poi pensavo confonderlo, inchiodarlo alle sue responsabilità di critico, eccetera. E invece, cosa avvenne? Coronando una sua diuturna e fattiva simpatia (di cui a quanto pare il sopradetto malumore, giustificato o meno che fosse, non teneva il debito conto) il Piccioni ebbe a parlare lungamente di me immerito in televisione. Ora,
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tra le cose da lui pertinentemente ed ovviamente osservate, era una certa mia avversione per la critica in generale; al qual proposito, poi, egli si riferiva giustappunto alla coda di libro che ho del pari rammentata. E soggiungeva, con atti tra di mistero e di complicità, e cogli opportuni slittamenti di voce (quasi avesse con suoi misteriosi poteri individuato, e non volesse comprometterlo, il critico contro cui particolarmente io menavo la mia crociata) soggiungeva, dico, un nome... che non era il suo proprio. In parole povere, egli non riconosceva la propria scrittura. Beh, io son di certo un uomo volgare, ma non al punto da richiamarmi alla mente l'insipiente detto che « chi non conosce la sua scrittura... ». Quanto a me anzi, non solo questo casette mi rallegrò, ma sciolse ogni mio rigore nei confronti dell'amico Piccioni: al quale colla presente noterella pubblicamente restituisco tutta la mia stima (che per la verità vera non gli avevo mai tolta) e testifico la mia amicizia nonché la mia gratitudine per la sua assidua e disinteressata assistenza nei vari accidenti della travagliata esistenza di noi poco prezzati pennaiuoli. Altro motivo di allegria, non intendo beffarda anzi patetica e simpatetica, poté venirmi da un altro di simili casi minuti. Nel solo articolo (ch'io sappia) a me dedicato, il Montale rilevava con molta ragione alcuni miei vezzi o manierismi, e, quasi esemplarmente, concentrava l'attenzione del suo lettore sulla locuzione « allo stremo », da lui rinvenuta in certa pagina patinata, ossia volta a stabilire, in apertura di tal mio libretto, attraverso il linguaggio un'epoca e un costume (si trattava nella fattispecie di un tardo, prerivoluzionario settecento francese). Il Montale, è vero, pareva intendere che tale qualità istrionica o mimetica non avesse valore limitatamente funzionale ma fosse diffusa in tutta la mia letteratura come costituendone un carattere distintivo; rimaneva, pure, il fatto che, settecento o non settecento, istrionismo o meno, io non conoscevo e non conosco diverso modo di esprimermi in occasioni del genere. Diavolo: ove s'abbia a significare «allo stremo», in che
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dannata maniera si dovrà in buon italiano dire se non « allo stremo» o «all'estremo» o tutt'al più «agli estremi» (questo sì lezioso) ? - Oh beh, ne volete la prova? Eccola: posto a sua volta il Montale, per necessità di discorso o per attrazione dell'infido argomento, nell'occorrenza imprescindibile di dire «allo stremo», né volendo cedere alla locuzione testé stigmatizzata, che cosa ti inventa? Passa con disinvoltura a lingua sorella o cugina e scrive: aux aboisl Giacché poi siamo qui a discorrere senza pretese, colgo l'occasione per rammentare agli innumeri esegeti e commentatori, italiani e stranieri, del nostro poeta che, in fatto almeno d'Elegia di Pico Farnese (e intendo in fatto di circostanze di fatto), l'umile sottoscritto avrebbe ad essere la massima autorità: dato che, come sovente ai grandi lirici avviene, il Montale ricalca scrupolosamente alcuni aspetti della realtà con cui venne a contatto in quei remoti giorni, chi meglio di me potrebbe sciogliere, documentare o circostanziare qualche suo passo? - Io meglio del poeta stesso, il quale non dubito abbia ormai dimenticato tutto o quasi tutto di quel tempo sognato. Nessuno, invece, che m'abbia mai interpellato; e ho dovuto intanto udirne e leggerne, delle scempiaggini, delle storture!... Ma no, signori, non serve buttarsi a capofitto nel mare degli etimi: il « fanciulletto Anacleto » era nient'altro che il fanciulletto Anacleto, figliuolo del fattore ed oggi maggiorente a Providence o chissà dove; e la « cagna lionata allungata all'ombra del melangolo » era la mia divina Chàli; e il melangolo stesso era un vero melangolo, in seguito bombardato, oggi timidamente rispuntato di tra un tumulto d'erbe malevole; e la «soffitta cupa di vetri e d'astrolabi» era una soffitta cupa di vetri e d'astrolabi (astrolabio infatti battezzai, a maggior gloria della poesia, un manico di frullone) ; e « l'oscurità animata dagli occhi confidenti dei maiali» era veramente l'oscurità d'un «sopportico» picano su cui s'aprivano stallucce suine («confidenti», certo, già appartiene alla poesia)... E tutto so delle « grotte dove scalfito luccica il pesce » e delle « isole del santuario - vascelli sospesi »... E così via, e così via. Ma beninteso, inutile ormai interrogarmi: non risponderei.
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Si noti anche, a buon conto, che ho citato tutto a memoria. E basti pel momento di ciò. E per qualche misteriosa virtù che alcuni dei numerosi volumi e volumetti (segnatamente di poesia) ricevuti in omaggio da chiunque tenga penna in mano, parlano all'animo nostro: d'un tratto, non si sa perché, quel tale libricino ci raggia allo sguardo, rivelandoci il fraterno cuore d'uomo annidato tra le sue pagine. E noi siamo grati allora all'amico sconosciuto che ci ha stimati degni di tanto dono; anche se, alla resa dei conti, la nostra gratitudine non avrà altro esito che questa neghittosa, sterile e privata riconoscenza. Renato Del Monte, col suo poetico Traghetto è una siffatta voce fraterna. E conclude egli la sua cosiddetta Prefazione: «Mentre lo vedo da me allontanarsi, vorrei pure affidargli una speranza, un augurio: che possa trovare all'ormeggio, anziché vano plauso e compiacimento, un solo uomo, non so se un amico, un solitario o un ignoto, che l'attenda trasognato, come un poco stupito, perché ha riconosciuto nella voce che s'avvicina la sua stessa gioia e il pianto ». Ed ecco, a parte la gioia (che non ho mai conosciuta), io bene vorrei essere quell'uomo. E del resto non voglio, poiché auguro a questo libretto di poesia i numerosi lettori che merita. Oppure la Helle Busacca dal bel nome germanico che anni addietro (anni!) volle onorarmi coll'invio della sua grave silloge poetica I quanti del suicidio e, in cambio della sua preziosa fiducia, non si ebbe dalla mia accidia alcuna risposta... Chi è poi questa cara Helle? Non l'ho mai saputo bene; capitato a Firenze, dove ella risiede, per un momento la cercai, ma nessuno della mia cerchia la conosceva; e non aveva telefono, o non lo rintracciai; e di lì a un giorno o due caddi ammalato, partii in fretta. Né so se possa farle piacere il conoscere che in quel torno leggevo ai miei figli giovinetti taluno dei suoi componimenti, uno segnatamente. Forse sì, e tanto meglio. O tanto peggio. Sebbene sia manifesto che io son uomo per ogni verso inutile e che più di questa noterella qui sopra non saprei o potrei fornire.
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L'ULTIMO LIBRO
D I G I O V A N N I MAC CARI
A furia di frivolezze siamo usciti di senno. OSIP MANDEL'STAM
L'ultimo libro di Landolfi è questo volume di elzeviri dall'apparenza al tempo stesso frivola e disperata, composto (con poche eccezioni) dagli articoli apparsi sul « Corriere della Sera » fra il 3 dicembre 1967 e il 10 luglio 1979, due giorni dopo la morte dello scrittore. Il contratto che lo legava a Rizzoli, stipulato nel 1972, prevedeva fra l'altro « una o due raccolte da realizzare con gli elzeviri », e questa sarebbe stata la seconda, dopo Del meno (1978). La complicata situazione editoriale venuta a crearsi con la malattìa e poi con la morte dell'autore ha impedito che il libro si facesse secondo i piani. E II gioco della torre, uscito postumo nel 1987, accoglieva sì una parte di questi testi, ma risultava costruito sulla base di criteri alquanto discutìbili: per di più cadeva forse nel momento di maggiore sfortuna editoriale di Landolfi, quando intorno al suo nome si era addensata una cortina di silenzio che una raccolta di elzeviri, e di questa natura, non era certo in grado di intaccare. Dunque l'ultimo libro di Landolfi esce a più di trent'anni di distanza dalla sua morte, accumulando un credito di ultimità che da una parte, quasi troppo, gli si addice (la disperazione), mentre dall'altra sembra un peso troppo grave per questi scritti d'occasione. Ci si potrebbe domandare, in altri termini, se questo è il vero Landolfi, o il Landolfi migliore, ma sarebbe fuorviarne rispondere al secondo quesito sulla scorta dei consueti criteri di misurazione della sua felicità, quelli per dire elencati da Calvino nel-
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la sua celebre postfazione: « l'agilità, il brio, la ricchezza senza pari delle risorse verbali » - questi aspetti ci sono ma portati al limite dell'esaurimento, ovvero appunto sfigurati dalla disperazione. Quanto al primo quesito, se qui c'è il vero Landolfì, non c'è dubbio che ci sia, anche se non è detto che il suo volto corrisponda del tutto all'identikit diffuso dalle cronache letterarie. Alcuni elementi di questa fisionomia ci sono offerti da un appunto di Des mois, il terzo dei diari landolfiani (1967). Qui la questione cruciale della produzione letteraria è posta in termini piuttosto secchi: « Già: come si può guadagnarsi la vita inventando elzeviri? ». E si noti che il verbo inventare ha per Landolfì una sfumatura tormentosa, come un qualcosa che si fa torcendosi dagli spasmi e, fuor di metafora, fumando ingenti quantità di sigarette e « ciucciando dal fiasco », come dice lui. Naturalmente, per guadagnarsi il pane, uno scrittore non è strettamente obbligato a scrivere elzeviri. Per esempio potrebbe, se non lavorare (come Landolfì ha fatto fino a un certo punto, in qualità di traduttore), almeno dare ai giornali contributi di carattere diverso: « Potrei anche fare articoli di diverso tenore, » dice infatti « trattare qualche "problema" di cultura, di costume, sociale... insomma esercitare le mie prerogative di letterato o almeno esercitarne modestamente il mestiere». Tuttavia questa seconda scelta è impraticabile per un problema molto serio, ossia che Landolfì si vergogna: « per parecchie ragioni, e soprattutto perché non ho il linguaggio adatto, o tanto devo arguire dalla circostanza che l'altrui linguaggio non trova in me la debita rispondenza ». L'altro motivo essenziale è che per descrivere la società bisognerebbe ammetterla, se non prenderla per buona così com'è, mentre lui è « per lo più radicale nel suo modo di concepire, è un po' più in qua, o in ritardo ». Fosse per lui metterebbe in discussione l'istruzione obbligatoria, la democrazia, la Chiesa cattolica - ma da che punto di vista, da quale posizione (dal momento che si vergogna)? I suoi scritti gli darebbero un senso di ripugnanza uguale a quello che gli danno le pagine d'introduzione a Puskin, di cui scrive a Giulio Einaudi cercando in ogni modo di convincerlo a non pubblicarle: « Quello che ho fatto, cioè, risulta qualcosa di bizzarro, di personale anzi personalistico, di inconclusivo, anche di poco serio, in una parola di impubblicabile; nella migliore delle ipotesi di schifosamente letterario ». Non importa che Einaudi si sia ben guardato dall'accettare le riserve di Landolfì, e che abbia quindi pubblicato l'introduzione, fatto sta che Lan-
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dolfi non può farlo, e non lo farà più: non scriverà più introduzioni né articoli di costume. Le vicende di cui stiamo parlando si svolgono intorno alla metà degli anni Sessanta; l'appunto del diario data per l'esattezza al marzo del '64. L'impressione è che proprio in questo giro di anni si produca una frattura decisiva nella vita e nell'opera di Landolfi, e che la storia di quest'ultimo libro inizi di qui. Sul versante operativo si dirà che nel '63 Landolfi porta a termine due ultime traduzioni - II viaggiatore incantato di Leskov e le poesie di Tjutcev - e conclude la sua intensa collaborazione da russista con Einaudi. Mentre nel maggio, sempre del '63, è cominciata la collaborazione al « Corriere della Sera », che provoca le riflessioni riportate sopra e che si protrarrà fino a questi brani estremi con una specie di eroismo della necessità. La distanza dalla sua 'opera seria' si fa più profonda. A parte l'eccezione dei diari, che riaccendono in fondo con un trucco la questione intorno all'identità di Landolfi, alla natura simulata o veritiera (per riprendere un'espressione di Giorgio Manganelli) della sua scrittura, quel che cade e che viene lasciato cadere è il contatto con l'attualità letteraria, e in termini più stringenti la prospettiva di una narrazione non si dice oggettiva ma circostanziata, organizzata, e di nuovo il problema del linguaggio: raccontata in una lingua che non sia un'invenzione solipsistica come quella del celebre racconto La passeggiata: «La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima... ». Escono in questo periodo i Tre racconti ( 1964) e Un amore del nostro tempo (1965), l'ultima prova narrativa di una certa estensione nella carriera di Landolfi; ma l'allegoria fin troppo trasparente delle sue disposizioni è quella contenuta nei Racconti impossibili (1966; il primo dei quali è appunto La passeggiata), in pezzi come Rotta e disfacimento dell'esercito, dove a subire la disfatta sono non solo le velleità afFabulatorie dell'autore ma la stessa possibilità di creare un racconto: « occorre avere una tal quale dose di follia per raccontare una storia, e forse il titolo di tutta intera la presente raccolta doveva essere, meno ambiguamente, Racconto: impossibile». Si noterà che questa posizione non era poi così lontana dalle idee correnti lungo gli anni Sessanta, ma la tangenza è solo di ordine storico, non implica un appoggio neanche esterno ai vari governi della crisi che di volta in volta vengono proposti; anzi le poche volte che Landolfi prende la parola in questo senso la cifra è quella della stroncatura (a proposito di Beckett) oppure
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dell'irrisione (a proposito di Robbe-Grillet e del 'nouveau roman'). Ma questa estraneità antropologica alla gente del suo mestiere entra nel gioco dell'infelicità e dell'impotenza, così come una volta era una libera funzione della sua ironia e della sua differenza aristocratica. Sul piano della biografia, difatti, proprio questa differenza subisce negli anni Sessanta una singolare mutazione, nel senso che il suo rifiuto originario (aristocratico) di integrarsi nella società borghese si risolve in una sorta di deriva in quella zona grigia della società borghese che è una città di provincia. Landolfi va a vivere ad Arma di Taggia, a rispettosa distanza ma a portata di corriera da Sanremo, dove c'è il casinò e dove si è trasferita la famiglia. Scrive, passeggia, scende al bar, va con la moglie a comprare un ombrello o il grembiule per la bambina; di tanto in tanto gioca, e perde, sicché perdura in uno stato cronico di povertà. Viene in mente una pagina di Pietà contro pietà Ai Guido Piovene, che conosceva bene al pari di Landolfi il buio fascino della vita provinciale: « O pietosa provincia... o grande terra di nessuno in attesa degli uomini stanchi di vivere in compagnia di se stessi. Aperta a tutti quelli che, senza più luoghi né case né pensieri amati, e vivi solo di disgusto, di pietà e d'odio per se stessi, non aspirano più a un pensiero o a una fede, ma ad annullarsi in una terra indistìnta ». Parole che, al netto del tono letterario, si applicano quasi letteralmente al Landolfi di questo periodo, come si adattano per una strana coincidenza a un personaggio imparagonabile con lui sotto tutti gli aspetti se non per l'indole irregolare, per l'incapacità congenita di adeguarsi ai modi e ai ritmi dell'industria culturale, e appunto per la coincidenza che lo vede in questi stessi anni rigettato qui, sulla riviera ligure, a masticare in solitudine le risultanze della propria tendenza alla dissipazione. Questo secondo personaggio è Luciano Bianciardi, che abita a Sant'Anna di Rapallo in una casa da cui vede l'autostrada e probabilmente non sa nulla di Landolfi, come Landolfi non sa nulla di lui. L'accostamento è suggestivo solo nella misura in cui suggerisce un'atmosfera, anche visiva, in bianco e nero, con la pioggia insistente sui vialetti a mare e i pastrani abbottonati, la tosse, le borse sotto gli occhi, la signora del bar che gli dà il tìtolo di « professore ». Certo Landolfi è un signore distìnto e Bianciardi un uomo di mezza età dall'aria un po' guascona; ma sono due persone che per ragioni diverse e quasi opposte non hanno più un mondo sotto i piedi.
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L'emblema proverbiale della caduta del mondo è per Landolfi la casa di Pico, il palazzotto avito in cui si ambientano fin dall'inizio le sue storie romantiche e straordinarie, dalla Pietra lunare (1939) al Racconto d'autunno (1947), dalla BIERE DU PECHEUR (1953; che si conclude con la celebre fantasia sul crollo della casa al modo di quella di Roderigo Usher) alla gran parte dei diari. Ma appunto quella casa è il simbolo di una rovina eternamente attuale, al contempo una tana e una prigione, luogo della non-vita cadenzata dalle futilità e dalle nevrosi di un'esistenza « irrita e vuota», ma anche garanzia di identità, in fondo di resistenza: « Non è bello che io muoia con lei, o lei con me? ». Nella patente allegoria di Cancroregina (1950), per esempio, il solitario abitatore di questo vecchio maniero se ne stava tranquillo con le sue occupazioni negative (a non leggere un libro, quando bussano alla porta) prima che uno spostato di nome Filano lo convincesse a prender parte nientemeno che a una spedizione sulla Luna. Il risultato è che Filano, « l'altro », sirivelaun pazzo intero e viene espulso dalla navicella dopo una colluttazione - il suo corpo gelato dal freddo siderale resta appreso al velivolo per forza di gravitazione. Quanto al protagonista, è dannato a girare in eterno intorno all'orbita terrestre, in vista del pianeta ma senza alcun contatto, con la struggente nostalgia di un rapporto ormai impossibile con i propri simili. Le parabole di Landolfì sono spesso trasparenti, tant'è che Edoardo Sanguineti, fra gli altri, ebbe a rimproverargli un empito di confessione «incredibilmente ingenua» (al che Landolfì: « i critici non capiscono come dire nulla, ma se per caso capiscono una cosa, eccoli subito gridare allo scandalo»); ma un'altra loro proprietà è quella di essere immediatamente reversibili sul piano dell'esistenza. Landolfì stanato dalla casa di Pico è un individuo senza centro e senza presa sul mondo, non un semplice outsider dallo sguardo obliquo ma uno spiantato vero, nel senso etimologico della parola. La configurazione della cosiddetta società affluente, ossia l'Italia del boom, delle automobili e della televisione, non è solo qualcosa con cui non intende compromettersi, ma anche e soprattutto un sistema che lo esclude. Di qui le fughe, anche in questo periodo, nel ventre senza tempo della casa parentale, dove però non c'è nessuno, e il paese non è più un paese ma la periferia cafona e degradata della capitale. E poi da un certo punto in avanti, dal Natale 1971, dopo una grave malattia, come a un nobile russo uscito da un racconto di Óechov, i medici gli vietano i soggiorni prolungati in quella casa fredda, inospitale.
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Tutto ciò naturalmente contrasta nel modo più vivace col profilo esteriore di Landolfi, con la sua fama di scrittore e col prestìgio di cui la sua figura gode ancora ampiamente negli anni Sessanta. Il fatto stesso che il « Corriere della Sera » richieda la sua collaborazione (fra l'altro pagandola profumatamente) è una prova evidente della sua inclusione nel novero degli autori che contano sulla scena italiana. Sennonché questa fama e questi riconoscimenti gli rimandano un'immagine che non esiste più, e che d'altro canto le necessità materiali rendono desiderabile e anzi indispensabile. Per cui si torna al problema da cui siamo partiti: può uno scrittore sopravvivere inventando elzeviri? Uno scrittore che non crede più a niente e che non vuole compromettersi in niente se non nel proprio essere, « a ritroso dei tempi », integralmente scrittore? A scorrere la cronologia delle opere landolfìane dell'ultimo decennio, verrebbe da rispondere di sì, malgrado tutto: in un'ottica estrema di resistenza all'impossibilità che rappresenta forse il fascino più forte di questa fase finale del suo lavoro. Per dieci anni, di fatto, Landolfi scrive solo pezzi brevi, «innocenti raccontimi », dando fondo a ogni residua capacità di combinazione narrativa. Un po' secondo il detto di Kafka: «La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere »; un po' facendo una parte alla passione metafisica di Landolfi per il gioco, cioè per la scommessa: il demone della sfida che per cinquantanni porta un uomo davanti alla roulette per rivolgerle sempre la stessa domanda e ricevere sempre la stessa risposta. Questa tendenza di Landolfi a scommettere sempre nella sua scrittura, al di là della facile immagine di giocatore impenitente, di alchimista o di combinatore di ingredienti letterari, è in fondo ciò che la tiene insieme, che riunisce i racconti, i diari, le poesie, e questi elzeviri, in una sorta di diario perpetuo che era la grande aspirazione e l'incubo più tenace dell'autore (« Così, su tutte le altre, si trova frustrata la mia antica e perenne aspirazione alla terza persona»). Come uno che, appunto, gioca tutta la posta anche quando il suo gioco è al minimo, quando come scrittore batte le vie del volontario avvilimento, del foglietto, del diario scritto per « necessità (igienica) ». Alla stessa maniera parla sempre di sé, si confessa anche mentre si nasconde, anzi il nascondersi è forse un contenuto essenziale della confessione. Ciò non significa che Landolfi sia sempre sincero nelle sue espressioni, il punto non è questo; piuttosto si dirà che la scrittura, e la sua prosecuzione oltre ogni limite ragionevole, sono la sua attività in termini di biologia, di risposta vitale. Cadono tutti gli steccati, le ambizioni, la fede, e resta solo la scrittura: o meglio questa e, come dire, il mercato (l'industria culturale) ; per il quale è
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del tutto inadatta, oltre a essergli ostile, ma da cui per paradosso è interamente provocata. In realtà una reazione « ingenua » nel suo moto iniziale, ma non nel suo declinarsi, si dà anche in questo periodo, ed è l'apertura di uno spazio « della gloria » occupato dalla poesia. Le due raccolte di versi infatti cadono entrambe negli anni Settanta ( Viola di morte nel '72; Il tradimento nel '77) e rappresentano nella loro oltranza iperletteraria una veemente protesta del « romantico sconfitto » contro il dio nero della realtà presente, ultimo grido e ultima Thule in cui si stipano come oggetti desueti e al tempo stesso minacciosamente vivi i fantasmi della letteratura, il pathos, la spudorata nostalgia di Ottocento in un clima culturale che con la massima energia si dedica a liquidarlo. Landolfì stesso ha dato chiari segni di voler separare i due ambiti della poesia e della prosa: uno è la celebre Nota al Tradimento'va cui afferma: « Questo libro è quello che, rispetto alla sua composizione (e qualunque altro libro possa aver veduto la luce nel frattempo), immediatamente segue la mia Viola di morte» - il che fra l'altro non è del tutto vero, perché alcuni racconti intercalano la stesura dei versi. La formula corrente di questa spartizione è quella stabilita in una poesia del Tradimento come antinomia fra i due versanti, o « brulli e spogli » o « selvosi », della «nudapoesia» e della «ricciuta prosa», dove le aspirazioni di Landolfì tenderebbero evidentemente verso la prima; sennonché entrambe lo allettano ed entrambe lo respingono, e lo scrittore «vaga su questo scrimolo, solingo », in una striscia di terra così esigua che sembra sempre sul punto di esaurirsi, di sparire. Gli elzeviri, e gli ultimi che qui si raccolgono in particolare, sono la stenta vegetazione presente in questi luoghi, e sono « ricciuti » solo nel senso che fioriscono di tutto l'apparato retorico e cerimoniale del genere, inteso nella sua variante, per Landolfì, normale: il pezzo in prosa anni Trenta fra il divagante e il narrativo, la memoria, le piccole storie inconcludenti. A un'interpretazione ironica e slogata di questo patto al ribasso col lettore già si dovevano molti dei racconti più felici di Landolfì, fino agli esilaranti « foglietti di viaggio » di Se non la realtà (1960), dove in mezzo a uno spreco di affermazioni frivole - « Son davvero disperato (benché al postutto nell'accezione leggera e femminile del termine) » - passa una ben desolata filosofia della vita. Sicché l'amico Ripellino gli scriveva a ragione che «il grigio automatismo dell'esistenza e lo squallore della provincia assumono proporzioni metafisiche»; e che peraltro quelle pagine, nonostante il distacco « dai costumi, dalle mode, dal linguaggio dell'e-
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poca in cui viviamo », stavano al centro stesso dell'epoca, erano cioè « attuali, nostre, contemporanee ». Erano tempi un po' diversi ma il ritrovato stilistico fondamentale rimane lo stesso: con l'espressione di una forbitezza e cerimoniosità portate al limite dell'impertinenza e quindi della pazzia, o almeno della stranezza. Posizione desunta, nella ricchezza misteriosa dei riferimenti landolfìani, dallo skaz russo, da Gogol' al Dostoevskij dei Bicordi dal sottosuolo non a caso tradotti con straordinaria adesione simpatetica. Quella forma di ironia, che come dice Aleksandr Blok è un modo di non esserci (e come tale è un veleno), quello sguardo da fuori, o da sotto, apparenta per un tratto Landolfì a tutta una tradizione che si potrebbe chiamare del manierismo nichilista; un emblema della quale è il personaggio smidollato, vicario, conformista e mattoide nello stesso tempo che s'incarna in gran parte dei libri di Robert Walser. Il conformismo, soprattutto, e la pedanteria linguistica, l'esibizione costante dei propri artifici, le professioni di umiltà di questo narratore, che si presenta sempre come inadeguato al ruolo che gli si affida, sono il bagaglio molto settecentesco del manierismo landolfiano, ammirato per evidenti ragioni da uno scrittore come Giorgio Manganelli: Buongustaio dì spettri, per esempio, è il titolo della recensione che egli appunto dedicò al Gioco della torre, l'antecedente imperfetto di questo volume. Tuttavia Walser e Manganelli, pur diversi come sono fra loro, portano dentro la maniera una specie di gioia che è la gioia antifrastica della distruzione: fanno la festa alle convenzioni letterarie proprio come si dice far la festa a qualcuno o a qualcosa. Il narratore di Walser, servo, assistente o studentello povero che scrive pezzi in prosa, gode come di un privilegio del proprio punto di vista subalterno, che gli consente di sbarazzarsi del più ingombrante idolo borghese, quello della dignità. Eterno minorenne, il suo inadattamento è legato a un non ancora che non può essere rimosso, a un ingresso nel mondo che non può realizzarsi sia perché il mondo è inabitabile sia perché quel fanciullo preferisce di no, vuole piuttosto far perdere le proprio tracce come Walser stesso, che ha finito i suoi giorni nel sanatorio di Herisau. Sono anche queste suggestioni che funzionano, al pari di altre che lettori diversi potrebbero avanzare, ma che in fondo rimangono esterne alle ragioni di Landolfì: l'annullamento dei valori in lui genera lutto più che gioia, sicché, più che lasciar cadere la sua dignità, propriamente la dissipa, per miscredenza e malumore, per accidia, per protesta metafìsica, in ogni caso co-
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me esito di un dopo o di un non più che non cancellano mai il primo termine di riferimento. Non a caso Landolfì, specie in questi elzeviri ma già prima, quando l'età anagrafica lo consentiva molto meno, tende a rappresentarsi come un vecchio (e del resto il suo primo racconto in assoluto, Maria Giuseppa, scritto a ventuno anni, si chiudeva così: « Ho trentaquattro anni. Ho finito. Buonanotte, Signori»), e la sua condizione quindi è quella della caduta, disperazione come punto di arrivo e non come premessa. La persistenza del tragico all'interno del suo sistema, all'apparenza tutto recitato, tutto risolto in parodia, è ciò che lo distanzia dalle esperienze apertamente manieriste e che lo rende estraneo proprio come sensibilità all'irrisione avanguardistica del primo e del secondo Novecento. In lui piuttosto avviene un processo di reazione, per cui i suoi procedimenti, concepiti per affermare obliquamente, o per cantare in falsetto, una romanza seria, si irrigidiscono e sfigurano come maschere di teatro. « La maschera è una forza / finché si dia qualcuno / che brami di strappartela; altrimenti / tu ci muori dentro / come la Maschera di Ferro » - così una poesia di Viola di morte, e così appunto accade nella sua letteratura, che privata del mondo con cui faceva attrito si richiude in se stessa, si dissecca, mentre per così dire dentro l'autore è ancora vivo. In quest'ultimo libro, allora, si troverà un campionario pressoché completo delle possibilità di Landolfì: il pedale fantastico, l'apologo, l'aneddoto, il dialogo morale, la memoria, l'ultima parte della serie Lassù, che è il contributo landolfiano alla letteratura di fantascienza. E gli espedienti, le formule, le soluzioni si ripetono per una sorta di coazione, come se lo scrittore li estraesse a caso dal baule per mostrarne ogni volta la futilità. Fa il racconto del racconto, come Le crocelline o Gli Incas, giusto per mostrare come anche dal niente vero e proprio possono venir fuori tre cartelle da mandare al giornale, che le pubblicherà comunque con l'occhiello «Un racconto di Tommaso Landolfì». Oppure prende una situazione, un oggetto qualunque, e lo trasforma per un attimo (lo spazio del racconto) in un fantasma, un possibile segno, un'infrazione alla logica consueta. Ma non succede nulla, la cosa rientra: la versiera è solo un pezzo di stoffa e l'oggetto inquietante è un oggetto indefinibile; e del resto « tutto qui » è la conclusione tipica, oppure: « Oggi sono vecchio; e i vecchi, purtroppo, non credono ai fantasmi ». Ancora: i racconti di vita studentesca non riguardano altro che fatti inconsistenti: piccoli debiti, scherzi, aspirazioni generi-
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che e sognanti di quei giovani di una volta che, a differenza degli attuali (che fra parentesi sono gli studenti del Sessantotto), «tutt'al più studiavano», sebbene in fondo preferissero «darsi buon tempo ». I « colpi di pollice » con cui Landolfi dà gli ultimi ritocchi al personaggio che non ha smesso di tratteggiare lungo tutta la sua opera sembrano fatti per fissarlo, privarlo per così dire della terza dimensione (la profondità). Le opposizioni si radicalizzano, il conflitto fra l'uomo e il suo tempo, fra i sogni e la vita, fra le illusioni e la realtà effettuale diventa secco e dichiarato a priori, senza più luogo a procedere per le mediazioni. Il che determina anche l'uso di una lingua 'da operetta' per ripetere, in termini espliciti, che tutto va male, e in termini generali un disincanto di rara potenza nella nostra letteratura. Chi cercasse in tutto questo il virtuosismo di Landolfi, ossia un risarcimento sul piano della felicità linguistica alla tetra filosofia di fondo, troverebbe ugualmente pane per i suoi denti, perché in definitiva Landolfi è sempre lui, è uno scrittore capace comunque di sorprendere o di allarmare il lettore, cancellando di colpo il sorriso di sufficienza che gli era affiorato alle labbra. Ma quello stesso lettore potrebbe correre il rischio di ritrarsi con un senso di claustrofobia, oppure come Pasolini (in una sua crudele recensione a Le labrene, 1974) avvertire un senso di vuoto « da stringere il cuore ». Meglio allora leggere questi racconti per quello che sono, pagine di un diario scritto di contraggenio e, come ha detto una volta Idolina Landolfi, « storia di una forzatura», brani estorti al silenzio dalla sola volontà di proseguire. Si vedrà come questi elzeviri sono divisi in due gruppi, con un lungo intervallo fra il 1971 e il 1976, determinato da un aggravamento delle condizioni di salute. Il primo racconto della nuova serie è Porcellino di terra (6 novembre 1976), un piccolo capolavoro già antologizzato da Calvino nelle Più belle pagine; ed è un esempio della forza e persino della solennità che può acquistare una scrittura che si nega del tutto, per limitarsi a trascrivere come sotto dettatura. Non è l'unico esempio, è naturale anzi che la tendenza a rompere il tessuto del racconto spinga verso il referto, la dichiarazione. Ma alla fine del percorso, appunto dopo l'interruzione, l'impressione è che saltino gli ultimi presidi e la finzione si smascheri (quasi) del tutto. Ci sono i brani che compongono Di alcune immagini, che riferiscono l'attività mentale dello scrittore durante il coma, che non hanno più nulla a che fare con le varie poetiche del sogno, e verrebbe da dire neanche nulla a che fare con la letteratura. E nello spazio allestito dall'oc-
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chiello già ricordato, « Un racconto di Tommaso Landolfì », passano ora frammenti di scrittura privata, ricordi (di un candore incredibile, come quello dedicato a Fellini), appunti ripescati dal fondo di un cassetto. Probabilmente per la prima volta nella sua carriera Landolfì riutilizza materiali già editi (Lapazienza. La timidezza; Volete imparare questo alfabeto'?), forniti appena di un cappello giustificativo. Forse è nell'ordine delle cose che sia proprio uno scrittore aristocratico e 'prestigioso' a toccare con tanta forza il nesso fra letteratura e menzogna, o fra letteratura e mercato. Ma lo spettacolo ugualmente fa una certa impressione. In una penetrante recensione alla ristampa Adelphi di Un amore del nostro tempo (1993), Luigi Baldacci osservava che forse lo scrittore, nei suoi ultimi libri, voleva invitare a una « pazienza d'ascolto » che si stentava a concedergli: « se si continua a parlare di lui come di un classico, cioè di un maestro di stile e di valori oggi desueti, mentre dovremmo parlarne come di un azzeratore che si è giocata l'intera posta... e si dispera perché l'uomo moderno ha perduto la chiave per dire la propria disperazione ». Questo libro che viene da lì e che doveva essere l'ultimo, ma esce solo oggi, può essere inteso anche come un'occasione per esercitare un po' di quella pazienza. I riferimenti delle citazioni presenti nel testo sono, nell'ordine, i seguenti: I. Calvino, L'esattezza e il caso, postfazione a T. Landolfì, Le più belle pagine, Adelphi, Milano, 2001. T. Landolfì, Des mois, Vallecchi, Firenze, 1967. Lettera di T. Landolfì a G. Einaudi, 20 luglio 1959. G. Manganelli, Simulato e veritiero il diario di Landolfi, in « Il Giorno», 14 giugno 1967. T. Landolfì, La passeggiata, in Racconti impossibili, Vallecchi, Firenze, 1966. T. Landolfì, Rotta e disfacimento dell'esercito, ibid. G. Piovene, Pietà contro pietà, Bompiani, Milano, 1946. T. Landolfì, La vera storia di Maria Giuseppa, in Ombre, Adelphi, Milano, 1994. T. Landolfì, LA BIERE DU PECHEUR, Adelphi, Milano, 1999. E. Sanguineti, Tommaso Landolfi, in Letteratura italiana. I contemporanei, Marzorati, Milano, vol. II, 1963. T. Landolfì, Cancroregina, Adelphi, Milano, 1993. F. Kafka, Il processo, Adelphi, Milano, 1973. T. Landolfì, Rien va, Adelphi, Milano, 1998.
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P. Citati, Landolfi: romantico sconfitto, in «Il Giorno», 7 giugno 1972. T. Landolfi, Il tradimento, Rizzoli, Milano, 1977. T. Landolfi, Se non la realtà, Adelphi, Milano, 2003. Lettera di A.M. Ripellino a T. Landolfi, 1° giugno 1960. G. Manganelli, Buongustaio di spettri, in « Il Messaggero », 11 marzo 1987. T. Landolfi, Maria Giuseppa, in Dialogo dei massimi sistemi, Adelphi, Milano, 1996. T. Landolfi, Viola di morte, Adelphi, Milano, 2011. P.P.Pasolini, Tommaso Landolfi, «Lelabrene», in « Tempo illustrato », 28 giugno 1974. I. Landolfi,ttpiccolovascello solca i mari. Bibliografia di e su Tommaso Landolfi, in corso di stampa. L. Baldacci, Quell'amore proibito trafinzionee verità, in « Corriere della Sera », 5 aprile 1993.
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NOTA AL TESTO
Avvertenza Si ripropone qui la Nota al testo redatta da Idolina Landolfi, la figlia dello scrittore scomparsa nel 2008, per il terzo volume delle Opere landolfiane presso Rizzoli, mai andato in porto per sopravvenute divergenze editoriali. E un lavoro che nessuno avrebbe potuto fare meglio di lei, per la sua conoscenza dell'autore, della vicenda editoriale dei testi e delle carte relative. Lo si ripropone pertanto senza modifiche sostanziali, a parte lievi interventi di riscontro o adattamento redazionale. L'unica eccezione di rilievo è l'inserimento di un ulteriore brano disperso: Isolia splendetti, uscito sul «Corriere della Sera» del 31 luglio 1964, e inesplicabilmente omesso dalla raccolta Un paniere di chiocciole (1968), composta con gli articoli pubblicati sul quotidiano dal 17 maggio 1963 al 27 settembre 1965. Quanto ai motivi dell'omissione, sembra che i redattori Vallecchi del volume non fossero riusciti a datare il brano, e che in ottemperanza alla consegna d'autore di pubblicare tutto in ordine cronologico (e al suo rifiuto, peraltro, di occuparsi della questione) abbiano infine scelto di lasciarlo fuori. G.M.
Ho riunito in tale sezione gli ultimi 71 elzeviri pubblicati in vita dall'autore nella terza pagina del «Corriere della Sera» (la testata alla quale, dopo «Il Mondo», collaborò per il maggior numero d'anni consecutivi), ed esattamente quelli compresi fra il dicembre 1967 e l'agosto 1978. In realtà gran parte di essi si riferisce agli anni fino al dicembre 1971: data, questa, che corrisponde ad una prima, lunga battuta d'arresto nella collaborazione dello scrittore alla testata milanese. Colpito, a partire da allora, da gravi malattie che rallentano il suo ritmo di lavoro, egli riprende infatti un (assai più diradato) rapporto col « Corriere » solo alcuni anni dopo, nel novembre del 1976, e, si vedrà, con testi la cui stesura è databile parecchio tempo addietro (laddove per solito stesura e pubblicazione sono sempre stati in Landolfi mi riferisco in particolare a questo genere di produzione - a stretto contatto cronologico). Inoltre il lettore trova qui altri quattro testi che, per innegabili motivi di affinità tematica, contiguità cronologica e destinazione, ho giudicato opportuno inserire in questa medesima sezione, benché, in quanto a storia 'esterna', appartengano forse a quella dei Testi sparsi: uno della serie Diario perpetuo, uscito sull'«Approdo Letterario» nel dicembre 1977 (ma molto probabilmente Landolfi aveva intenzione di riproporlo - come talvolta faceva - anche al « Corriere della Sera»), e tre 'in giacenza' (cioè in attesa di pubblicazione) presso il «Corriere della Sera», e che l'autore non ha fatto a tempo in vita a vedere stampati. L'ultimo, Fatti personali, per il
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suo contenuto riguardante persone - una in particolare — viventi, è stato addirittura rifiutato; e, a distanza di anni, restituitomi infine nel dattiloscritto originale. Un discorso a sé merita la questione dei titoli: talvolta quello che compare sul quotidiano è un titolo redazionale, non voluto dall'autore. Fortunatamente Landolfi usava spesso apporre delle correzioni sul ritaglio che conservava in archivio, riportando così, tra l'altro, anche il titolo originale: in mancanza dei dattiloscritti, è stato dunque su tali correzioni autografe che ho potuto nella maggioranza dei casi ricostruire la lezione d'autore. La cosa - l'alterazione dei titoli, cioè - diviene frequente, quasi una regola, a partire dalla fine del '76, quando Landolfi andava pubblicando sul «Corriere della Sera» soprattutto pagine d'una frammentaria autobiografìa (l'estremo atto della sua vicenda di scrittore), a cui aveva dato il titolo, sempre ripetuto e senza ulteriori precisazioni, di Diario perpetuo: il quale ultimo, evidentemente poco 'attraente' (forse proprio a causa della sua ripetitività) per la pagina d'un giornale, veniva utilizzato come sopratitolo, e la redazione della terza si sbizzarriva poi in titoloni didascalici spesso davvero infelici. Lo stesso vale per la piccola serie 'fantascientifica' (cinque racconti), che Landolfi intitola Lassù, e che con questo nome appunto qui si ripropone. Isolia splendens Pubblicato in « Corriere della Sera», 51 luglio 1964. Buiepassioni Pubblicato in « Corriere della Sera », 3 dicembre 1967. Ilprofessore Pubblicato in « Corriere della Sera», 21 dicembre 1967. Unfiatoleggero Pubblicato in « Corriere della Sera», 2 gennaio 1968. Il regalo Pubblicato in « Corriere della Sera », 11 gennaio 1968. Premio Nobel Pubblicato in « Corriere della Sera», 31 gennaio 1968. Esperienze drammatiche Pubblicato in « Corriere della Sera», 29 febbraio 1968. Un'eredità Pubblicato in « Corriere della384 Sera», 17 marzo 1968. Veleni quotidiani Pubblicato in « Corriere della Sera », 11 aprile 1968.
Il gioco deUa torre Pubblicato in « Corriere della Sera », 26 aprile 1968. Databile metà 1963 (l'autografo è infatti contenuto nel secondo quaderno di Rien va) : si tratta dunque di un raro caso di recupero a distanza di anni. Contatti umani Pubblicato in «Corriere della Sera», 30 giugno 1968, col titolo redazionale //raggiro. Trasloco Pubblicato in «Corriere della Sera», 11 agosto 1968. Nuove meditazioni Pubblicato in «Corriere della Sera», 14 settembre 1968. In famiglia Pubblicato in «Corriere della Sera», 5 ottobre 1968. Il pazzo Pubblicato in « Corriere della Sera », 30 ottobre 1968. Partenza in due versioni Pubblicato in « Corriere della Sera », 17 novembre 1968. Fantasie imprudenti Pubblicato in « Corriere della Sera», 11 dicembre 1968. Le età d'innocenza Pubblicato in « Corriere della Sera», 29 dicembre 1968. Animalini Pubblicato in « Corriere della Sera», 17 gennaio 1969. Uscite salutari Pubblicato in « Corriere della Sera », 28 febbraio 1969. La donna coll'ombrello Pubblicato in « Corriere della Sera», 24 aprile 1969, col titolo redazionale La fanciulla sconosciuta. Le crocelline Pubblicato in « Corriere della Sera », 20 maggio 1969. Esperimento inutile Pubblicato in «Corriere della Sera», l7giugno 1969. Tempo perduto Pubblicato in « Corriere della Sera », 3 luglio 1969. Ricordi senza verbo Pubblicato in « Corriere della Sera », 2 agosto 1969.
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L'omone Pubblicato in « Corriere della Sera 5 settembre 1969. I due cugini Pubblicato in « Corriere della Sera 21 ottobre 1969. Diario a rovescio Pubblicato in « Corriere della Sera 17 novembre 1969. II millantatore Pubblicato in « Corriere della Sera 7 dicembre 1969. Filippo Pubblicato in « Corriere della Sera 29 dicembre 1969. UnaG. in « Corriere della Sera 22 gennaio 1970. Pubblicato La paura della paura Pubblicato in « Corriere della Sera 16 febbraio 1970. Gli Incas Pubblicato in « Corriere della Sera 4 marzo 1970. Uomini senza timbro Pubblicato in « Corriere della Sera 23 marzo 1970. Spollatorì e spollati Pubblicato in « Corriere della Sera 6 aprile 1970. Un oggetto inquietante Pubblicato in « Corriere della Sera 18 maggio 1970. Il solitario Pubblicato in « Corriere della Sera 23 giugno 1970. Tempo innocente Pubblicato in « Corriere della Sera 23 luglio 1970. Gatto telegrafista Pubblicato in « Corriere della Sera 8 agosto 1970. Dialogo di primavera Pubblicato in « Corriere della Sera 5 settembre 1970. Sangue sul sagrato Pubblicato in « Corriere della Sera 5 ottobre 1970. Passo vietato 27 ottobre 1970. Pubblicato in « Corriere della Sera L'orologio Pubblicato in « Corriere della Sera 16 novembre 1970.
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Un caso palmare Pubblicato in « Corriere della Sera», 21 dicembre 1970. Storie di civette Pubblicato in « Corriere della Sera », 1° marzo 1971. Nino Pubblicato in «Corriere della Sera», 19 aprile 1971. Il maestro Pubblicato in « Corriere della Sera », 5 luglio 1971. Infiacchere Pubblicato in «Corriere della Sera», 23 agosto 1971, col titolo redazionale II cappello. Un volto umano Pubblicato in «Corriere della Sera», 27 settembre 1971. Efreddo Pubblicato in « Corriere della Sera», 15 novembre 1971. Pagine perdute Pubblicato in « Corriere della Sera», 13 dicembre 1971. La seconda parte dell'elzeviro, quella dedicata al volume del Mazzucchelli sulla monaca di Monza, è di alcuni anni più antica, della seconda metà del 1967. Porcellino di terra Pubblicato in « Corriere della Sera », 6 novembre 1976. Databile 1971. Diario perpetuo Pubblicato in « Corriere della Sera », 17 novembre 1976, col titolo redazionale La seta nel baule, e per sopratìtolo Diario perpetuo. La stesura è databile tra la seconda metà del '72 e il '73. Landolfi pensava ad un 'diario perpetuo' - e ne andava scrivendo alcuni stralci - da parecchi anni, e deve averne fatto proposta ad Arrigo Benedetti già nel '69, allorché quest'ultimo, allora direttore del settimanale, gli chiede un pezzo per il rinnovato « Mondo » (vi uscirà soltanto il racconto Le maiuscole, poi in A caso, 1975). Benedetti, infatti, ringraziando lo scrittore per l'invio, dà informazioni sui compensi: «... hai scritto una cosa molto bella, ed è giunto il momento di far cifre. Per racconti di questo genere ti daremo 60.000 lire, io vorrei, però, anche cose più brevi. Queste lunghezze intermedie sono causa di difficoltà. Per due cartelle del tuo diario perpetuo ti daremo 50.000 lire » (da Firenze, 9 ottobre 1969). E, retrocedendo ancora, nel testo diaristico Des mois (1967; ma il brano in questione si riferisce al febbraio 1964), troviamo appunto una dichiarazione del seguente
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tenore: «Vado schivando da tempo, più che altro per viltà, dei Frammenti o Momenti autobiografici ». Inoltre si rammenta che l'ormai piuttosto lontano racconto di Ombre (1954) dal titolo Prefigurazioni: Prato reca nell'autografo il sottotitolo Dai saggi autobiografia, quasi fossefinda allora intenzione dell'autore prendere al sistematico palesamento della propria natura - di scrittore e di uomo - attraverso la narrazione, e l'analisi, delle varie Fasi della sua vita. Di alcune immagini Pubblicati in «Corriere della Sera», rispettivamente il 12 gennaio e il 12 marzo 1977, coititoliredazionali La più bellafavola del mondo (e il sopratitolo Viaggiando tra la vita e la morte) e L'occasione di morire senza dolore (sopratitolo: Il racconto di alcune immagini di clinica). Il secondo pezzo (richiestone l'autore) uscì in seguito anche in « Il Polso », quindicinale di informazione per medici e operatori sanitari, III, 10, 30 maggio 1978, col titolo Di alcune immagini /L'occasione di morire senza dolore. Databile 1976 (l'episodio a cui Landolfi si riferisce è la gravissima forma di pneumotorace spontaneo che lo colpì alla metà del 1975). La versiera Pubblicato in «Corriere della Sera», 17 aprile 1977, col titolo redazionale Esperimento con la stoffa. Databile 1971. Diario perpetuo Pubblicato in « Corriere della Sera », 13 maggio 1977, col sopratitolo Diario perpetuo e il titolo redazionale La pazienza. La timidezza. Il testo riprende, con qualche passo aggiunto o tolto e lievi modifiche, uno dei cinque brani pubblicati in « Letteratura », V, 3, luglio-settembre 1941, sotto il titolo complessivo di Varietà non letterarie. Essi sono, in successione: Qualche notizia sull'L.I; Dell'immagine letteraria; Dueformule (suddiviso in due paragrafi, così come avviene anche nell'articolo del « Corriere della Sera »-.Formula delle pazienze, Chiasma della timidezza) ; Caratteri - Il moralista; Il racconto della piattola. Di questi il secondo e il quarto non vengono più ristampati; il primo è ugualmente ripreso da Landolfi in un successivo articolo per il « Corriere » (si veda sotto, la nota a Diario perpetuo, 14 agosto 1978) e il quinto era a suo tempo confluito nella raccolta La spada, 1942. Queste le varianti tra la prima e la seconda stampa: del tutto nuovo, ovviamente, l'inizio, Seguendo... alla letteratura; e così anche i periodi di apertura della Formula delle pazienze: Questaformula ... il poco seguente. Quindi: 284,17 una fatica > fatica 285,12 essere interessante > risultare interessante 285,22 Etc. > E così via. 285,26 altrettanto, quasi, > quasi altrettanto 285,30 Di necessità quest'infelice > Quest'infelice 285,32 la cui ignoranza in quella
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lingua > la cui ignoranza di tale lingua 285,36 interlocutore (seguendo dunque secondo inversa ragione la curva delle attitudini di lui) > interlocutore, seguendo dunque secondo inversa ragione la curva delle attitudini di costui; 285,37 affatto > per nulla 286,1 di Francia > della dolce Francia 286,1 Analogamente> Analogamente e in termini generali 286,16 perché tutto sirimettesse> perché tutto si mettesse 286,17 a una risoluzione > a una soluzione 286,22 ottenuta dunque senza provocazione di nuovi elementi > ottenuta a buon conto senza provocazione di nuovi elementi o quantità 286,25 e il timido > ... e il timido 286,30 Se, ora, si cerca di rendersi ragione > Se poi si cerchi di rendersi ragione 286,31 soccorrerà in qualche modo > soccorrerà prcnwisoriamente 286,33 con molta lentezza > con una certa lentezza 286,35 per eccesso, giacché > per eccesso: giacché 287,1 a rotolare su se stessa etc. > a rotolare su se medesima, eccetera. Nella versione sul « Corriere della Sera» appare poi omesso il seguente passaggio (in «Letteratura» posto dopo il capoverso che termina con:... nel terreno a lui più sfavorevole): Ma ciò èriconducibilea una legge psicologica universale, ed altrettanto naturale quanto le leggifisiche. Le quali, sefossero qui pertinenti, si presenterebbero coi termini rovesciati: in una parola, all'impulso più debole corrisponde il moto più forte e risentito. E ancora: 287,5 che un impulso > che -un impulso 287,6 corrispondente risultato, > commisurabile risultato 287,7 ilrisultatostesso; > il risultato stesso - 287,10 pressione. O perlomenorispondeugualmente a pressioni e comunque stimoli di intensità diversa > pressione. Lassù Quattro brani pubblicati in «Corriere della Sera», rispettivamente il 24 maggio; 14 giugno; 26 giugno; 3 luglio 1977; coi titoli redazionali Viaggio nel cosmo per non vedere; Uno spettacolofatto di nulla-, Ma lassù le donnefanno l'amore?; Ma come si svolgono da voi le indagini? Le stesure di questi testi (il quinto della piccola serie uscirà postumo il 10 luglio '79) sono collocabili, cronologicamente, tra la fine del 1974 e il 1975. La luna, le piene Pubblicato in « Corriere della Sera », 6 agosto 1977. Diario perpetuo Pubblicato in «Corriere della Sera», 15 agosto 1977, col titolo redazionale Sull'orlo di un imbuto. Databile seconda metà 1970. Un marito cornuto e una mogliefedele Pubblicato in « Corriere della Sera», 18 ottobre 1977, col titolo redazionale Tradire il marito restandoglifedele. Diario perpetuo Pubblicato in « Corriere della Sera », 9 dicembre 1977, col titolo redazionale Perché mi piace corteggiare il caso al tavolo da gioco.
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Il nuovo Monsignor Perrelli Pubblicato in «Corriere della Sera», 22 dicembre 1977, col tìtolo redazionale Caro papà ho tantafame perfavore leggimi Dante. Diario perpetuo Pubblicato in « L'Approdo Letterario », XXIII, 79-80, dicembre 1977. Qui, trattandosi di rivista, e dunque senza che 'ragioni di pubblico' conducano a certi stravolgimenti, viene mantenuto il tìtolo landolfiano originale. E questo il terzo ed ultimo pezzo comparso sul trimestrale romano (ma con redazione a Firenze) «di lettere e arti», stampato dalle edizioni ERI (Rai Radiotelevisione Italiana), dopo Diahgo veneziano (ottobre-dicembre 1959; quindi nella raccolta In società del 1962) e Allegoria (marzo 1970; poi in A caso, 1975). Fu l'amico Carlo Betocchi, redattore insieme a Leone Piccioni (il comitato di direzione è formato da Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Diego Fabbri, Goffredo Petrassi, Nino Valeri), ad invitare Landolfi a collaborare, sempre rammaricandosi che tale collaborazione fosse tanto sporadica. La cavalleria dei topi Pubblicato in « Corriere della Sera », 9 marzo 1978, col tìtolo redazionale Quel galoppo è un terremoto. Diario perpetuo Pubblicato in « Corriere della Sera », 3 giugno 1978, col sopratìtolo Diario perpetuo e il titolo redazionale Ultime donne in casa nostra. Due donne Pubblicato in «Corriere della Sera», 22 giugno 1978, col titolo redazionale Se fossi tua moglie. Manca inoltre il tìtolo del primo brano, Una lettera, mentre compare quello del secondo, La difese. Diario perpetuo Pubblicato in «Corriere della Sera», 14 agosto 1978, col titolo redazionale Volete imparare questo alfabeto ? L'artìcolo ripropone, con varianti di carattere soprattutto formale, il testo uscito in «Letteratura», V, 3, luglio-settembre 1941, dal tìtolo Qualche notizia sull'L.I (si veda sopra, la nota a Diario perpetuo, 13 maggio 1977). Nel passaggio, questi i cambiamenti: 348,3 del lettore > del lettore non specialista 348,3 che mi parve > che mi è sembrata 348,8 la parola fine alla parte riguardante l'L.I > laparolafinenonché al tutto, aUa parteriguardantel'L.I 348,10 che cirimane> che rimane 348,14 mi studiai > mi sono studiato 348,16 Non so > Né so 348,17 anche al lettore > anche al lettore medesimo 348,18 Ma l'interesse della presente spigolatura è soprattutto nelfatto che > Ma il precipuo interesse della presente spigolatura, lo si avverta, è soprattutto in ciò che 348,19 (e sia pure sommario) > (e sia
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pur sommariamente segue) 348,20 ci si può formare > ci si potrà Jare 348,22 (passim). Igeneri > Igeneri 349,1 maschile (uomini animali o piante) > maschile, uomini animali o piante 349,2 femminile (c.s.)> femminile, c.s. 349,7 «esseri». / (faccio grazia delle numerose eccezioni. Aggiungo che questo sistema è l'unico semplificato nei successivi L.IIed L.III, dove i generi sonoridottia due: l'astratto e il cosidetto rstzwai). (...). > «esseri ». 349,16 e conclude trionfalmente in capo a una cinquantina dì pagine): > e conclude trionfalmente:) 349,25 o almeno obbliga > o comunque obbliga 349,27 Questa particolarità comunque > Questa particolarità, anzi, 349,28 di una violenta efficacia > di violenta efficacia 349,30 qui, come in altri casi che vedremo, > e in tali casi, come in altri che vedremo, 349,33 soltanto il nome), Signore > soltanto il nome), alcuni uomini, Signore. Dopo la dicitura (Racconto della donna adultera), il testo surivistareca l'indicazione per una nota (1), e in calce alla pagina leggiamo: Tralascio l'indicazione completa dei testi. Sul « Corriere della Sera », invece, la •nota appare riassorbita nel corpo della narrazione, e ivi leggermente ampliata: Di questo e di eventuali altri testi,fintroppo noti agli ellisti, tralascio l'indicazione completa. E ancora: 349,36 « Suppongo, signora > Oppure: «Suppongo, signora 350,3 (...) > (omissis) 350,6 a centoquarantasei, > a centoquarantasei (anzi a cenquarantasei, tale essendo laforma dell'ordinale raccomandata dagli studiosi), 350,10 Nella lingua ades.> Ad esempio, nella lingua 350,12 seguono (a torto d'altronde) > seguono (a torto in fondo) 350,16flessione nominale astratta. Nuovo esempio di vigoria espressiva per via solecistica: un veterano pirgopolinice e sfruttatore delle sue glorie: «E mio amo/patrio (nom. concr.) mi ha spesso valso i più larghi riconoscimenti (acc. concr.) ». > flessione nominale astratta. 350,18 Si omettono circa quattrocento pagine> Si omettono área duecento pagine 350,23 galimbii. Breve disquisizione esemplificativa > galimbii — strana parola forse dì origine slava, giacché di colombe parlano tradizionalmente gli elementari esempi offerti ai fanciulli delle scuole. Disquisizione esemplificativa 350,26 della distinzione tradizionale > della comune partizione 350,28 il buttìvo, > il buttivo alias con perfida parola improruvtsivo, 350,35 vi ho detto!». (...)> vi ho detto!». 350,36 Data una talericchezza> Data, ora, una talericchezza350,38 avesse ad esserne semplificato: > avesse arisultarnesemplificato. 351,5 innumerevoli. Elencheremo qui i principali con poche osservazioni. (... om. pag. 900 circa). > innumerevoli... / (Elencheremo qui, dice il nostro uomo, i principali con poche osservazioni. Eh sì, poche: lo conosciamo, per cui non lo seguiremo). 351,7 i numeri, più una > i numeri: più una 351,8 generi. (...). > generi. 351,9 «nascere» (in allotropo), > nascere, 351,18 «andare» o «sedere», ad es., possono essere costruiti intransitivamente ovvero reggere un accusativo, o anche in certi casi un deduzionak. (...). Un assassino insospettabile dal punto di vista della
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sua culturafilologicaindica con un suo lapsus (in un popolare dramma giallo) a contifatti l'ora e le circostanze precise del delitto, smantellando così il proprio alibi! > andare o sedere possono, o non, comportare un accusativo, o anche in certi casi un deduzionale. ..In un popolare dramma giallo un assassino, insospettabile dal punto di vista deUa sua culturafilologica,indica con un suo lapsus a contifatti l'ora e le circostanze precise del delitto, demolendo così il proprio alibi! 351,20 (... Da questo puntoriassumoper comodità del lettore). > Ma mi vedo qui costretto a riassumere brevemente, o non la sifinirebbepiù. 351,23 Per quanto riguarda > Per quanto concerne 351,27 mai inserita > mai peraltro inserita 351,30 neppure iniziato, e passa da ultimo a occuparsi di quella che definisce la dibattuta questione del lessico, richiedente cognizioni spedali e soverchiamente astrusa perché soltanto vi si accenni qui. Notiamo di sfu^ta > neppure iniziato. / Noterò di sfuggita 351,32 secondo quello che fu definito un valore pseudologico (come nelle nostre indoeuropee). > secondo dò che fu definito un valore pseudo oparalogico, d'altronde come nelle nostre indoeuropee. 351,37 «perdere» (al gioco), > «perdere», al gioco d'azzardo, 351,37 «poesia» e simm.) > «poesia » 351,38 (sìriprendonole dtazioni testuali). E sistema > II sistema 351,39 è ciò che si può immaginare di più razionale > è dò che di più razionale si può immaginare 352,10 «base». (...). > «base». 352,19 della «base»), (...). > della cosiddetta base). 352,22 Un testo si legge da destra a sinistra e in senso orizzontale alternatamente, cominciando dal basso > Un testo si legge da destra a sinistra e viceversa alternamente, sempre in senso orizzontale e cominciando dal basso 352,25 di dascuna base> di ciascuna dellericordatebasi 352,27 diacritid. (...). > diacritid. 352,30 Quando si chiese a uomo di sterminata dottrina il probabile perché di tale disposizione, quegli (ellista fra l'altro di indiscusso valore) rispose: «Mio gentile allievo, la cosa sta > Quando si chiese a uomo di sterminata dottrina ed ellista al cospetto di Dio il congetturabile perché, o dicasi lo spirito di tale disposizione, queglirispose:«Mio gentile allievo, la faccenda sta 352,33 dico il verso > intendo il verso 352,34 lo studioso > detto lettore 352,38 pdpatri scrittori lascio a voi immaginare». Quell'uomo saggio... / Ahimè lettore, > pei patri scrittori, non sempre divertenti, lasdo a voi giudicare». /Ahimè lettore, mio lettore stavolta, 352,39 dell'amico > del mio povero amico 352,41 verso la pagina 8.500 àrea > verso la pagina numero... beh, non voglio spaventarti 353,3 assai vessato e complicato > assai complicato e dibattuto 353,6 e di cui t'ho detto > e di cui ho detto. Lassù Pubblicato in «Corriere della Sera», 10 luglio 1979 (due giorni dopo la scomparsa di Landolfi), col tìtolo redazionale Quale vento? Lassù non soffia mai... Databile 1976.
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Diario perpetuo Pubblicato in « Corriere della Sera », 8 luglio 1980 (dunque per ricordare lo scrittore a un anno dalla morte), col tìtolo redazionale Verso lafinedel tempo (ma prima del brano critico di Carlo Bo che accompagna il testo landolfiano è scritto a gran caratteri: « Una pagina inedita dal "Diario perpetuo" ». Fatti personali Del testo esiste, come abbiamo detto, il dattiloscritto originale, restituitomi dalla redazione del « Corriere della Sera » in quanto non giudicato adatto alla pubblicazione per i riferimenti a personaggi noti ivi contenuti. L'artìcolo è stato pubblicato, ma solo parzialmente, in «Panorama», 2 aprile 1989.
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CRONOLOGIA DELLE OPERE DI TOMMASO LANDOLFI
Dialogo dei massimi sistemi, 1937. La pietra lunare, 1939. Il Mar delle Blatte e altre storie, 1939. La spada, 1942. E principe infelice, 1943. Le due zittelle, 1946. Racconto d'autunno, 1947. Cancroregina, 1950. LA BIERE DU PECHEUR, 1953. Ombre, 1954. La raganella d'oro, 1954. Ottavio di Saint-Vincent, 1958. Mezzacoda, 1958. Landolfo VI di Benevento, 1959. Se non la realtà, 1960. Racconti, 1961. In società, 1962. Rieri va, 1963. Scene dalla vita di Cagliostro, 1965. Tre racconti, 1964. Un amore del nostro tempo, 1965. Racconti impossibili, 1966. Des mois, 1967. Colloqui, in AA.W., Sei racconti, 1967. Un paniere di chiocciole, 1968.
Filastrocche, in AA.W., Le nuovefilastrocche,1968. Faust 67, 1969. Breve canzoniere, 1971. Gogol' a Roma, 1971. Viola di morte, 1972. Le labrene, 1974. A caso, 1975. Il tradimento, 1977. Del meno, 1978. Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, 1982. Il gioco della torre, 1987. Opere, 1(1937-1959), 1991. Opere, 11(1960-1971), 1992.