Devi cambiare la tua vita
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Peter Sloterdijk

Devi cambiare la tua vita Sull' antropotecnica

Edizione italiana a cura di Paolo Perticari

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www.raffaellocortina.it

Titolo originale

Du mu/5t dein Leben iindern. Uber Anthropotechnik © 2009 Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main Ali rights reserved Traduzione Stefano Franchini ISBN 978-88-6030-361-5 © 2010 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2010 Stampato da Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe

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INDICE

Introduzione all'edizione italiana

XIII

(Paolo Perticari) Introduzione. La svolta antropotecnica

3

Il pianeta dei praticanti 1. Il comando dalla pietra. L'esperienza di Rilke

25

2. Sguardo remoto sulla stella ascetica. Nietzsche e il suo progetto sull'Antichità

37

3. Finiranno per sopravvivere solo gli storpi. La lezione di Unthan

51

4. L'ultimo digiuno. L'arte acrobatica di Franz Kafka

75

5. Buddhismo parigino. Gli esercizi di Cioran

91

Transizione. Le religioni non esistono: da Pietre de Coubertin a Lafayette Ron Hubbard

103

PARTE PRIMA

La conquista del!'improbabile. Per un'etica acrobatica Programma

135

1. Psicologia dell'altezza. La dottrina della surcreazione e il senso di uber Il matrimonio, pensato in termini evolutivi Che cosa significa "verso l'alto"? Per una critica delle verticali L'epoca degli acrobati

VII

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INDICE

Acrobatica evolutiva sul Mount Improbable Conservatorismo primario e neofilia Metafisica da acrobati Naturalizzare lascesi Non v'è nulla di più inaudito dell'uomo: l'esistenza sulle vette Il sogno di Giacobbe ovvero la gerarchia Superparole Non fu rivolta di schiavi nell'ambito della morale: latletismo cristiano Aristocrazia o meritocrazia

2. "Cultura è una regola di un ordine." Albori dei modi di vivere, teoria del disciplinamento Graduazioni non legate al potere La regola monastica di Ludwig Wittgenstein La cultura deriva dalla secessione Forma e vita Giochi linguistici ed esercizi: l'illusione dell'ordinary language Ciò che si rivela Esercizi dichiarati Cosa non tacere Albori della teoria ascetica e gaia scienza Miche! Foucault erede di Wittgenstein Verticalità tragica Giochi linguistici, giochi discorsivi, teoria generale del disciplinamento Lotta filosofica su più fronti: il soggetto come esecutore dei propri esercizi Visione di un paesaggio immenso Tra le discipline

3. Insonnia a Efeso. I demoni dell'abitudine e la loro cacciata attraverso la Teoria Prima Un rimedio contro la stravaganza: l'analisi del discorso Eraclito e la prima distinzione etica L'astuzia di Heidegger Che cosa fa il daimon: la distinzione etica Essere superiori a se stessi Tra due sopraffazioni: l'individuo posseduto Patdeia: afferrare le radici dell'abitudine Pensare e vegliare Pensare senza vegliare, vegliare senza pensare: antitesi tra Oriente e Occidente

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INDICE

4. Habitus e inerzia. Ai campi base della vita incentrata sull'esercizio Ancora una volta: altezza e ampiezza. Proporzionalità antropologica Al campo base: gli ultimi uomini Pierre Bourdieu, pensatore del Campo Definitivo Habitus: la classe in me Basis e physis: dove si nasconde la società? Il genio dell'abitudine. Aristotele e Tommaso Homo bourdivinus: l'altro Ultimo Uomo La docenza come professione: assalto alle varie forme di pigrizia L'identità come diritto alla pigrizia

5. Cur homo artista. La leggerezza dell'impossibile Catapulte L'effetto dell'età assiale: l'umanità a due velocità Giungere sull'altra sponda: la filosofia come atletica Ascetica e acrobatica Antropotecnica: volgere il potere della ripetizione contro la ripetizione La pedagogia come meccanica applicata Ascensioni celesti a fini didattici: apprendere per vivere la vita Performance mortali: la morte sulla scena metafisica In che misura Gesù ha ragione dicendo "Tutto è compiuto" Atleti della morte Certum est quia impossibile: solo l'impossibile è certo

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PARTE SECONDA

Metodi per eccedere Prospetto. Ritiri nell'inconsueto 6. Prima eccentricità. La separazione dei praticanti e i loro dialoghi interiori Sradicarsi dalla vita di prima: secessionismo spirituale La scissione dell'esistente causata dalla spedizione contro la sfera abituale Spazi per il ritiro dei praticanti La distinzione più profonda: appropriazione di sé e abbandono del mondo La nascita dell'individuo dallo spirito della recessione Il Sé nell'enclave Nel microclima della vita incentrata sull'esercizio Rifiutare la cura di sé: fatalismo coerente Le tecniche di solitudine: parla con te stesso!

IX

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INDICE

Endoretorica ed esercizi di disgusto Il testimone interiore L'Inquisizione contro l'Io Riabilitare l'egoismo

7. Perfetto e imperfetto. Come lo spirito di perfezione coinvolge i praticanti in storie Nel tempo della perfezione Coinvolgimento emotivo dovuto alla meta Sulla differenza tra un saggio e un apostolo Esame mortale: la dottrina della saggezza come addestramento al teatro della crudeltà Vita a priori La scala dell'umiltà di Benedetto Scala Paradisi: la psicoanalisi anacoretica Il fulgore teomimetico Perfezionismo e storicismo La teleologia indiana Il segreto della seconda secessione: l'oscuramento del karma e l'anelito alla liberazione I cammini lenti e quelli rapidi

8. Giochi da maestro. Gli allenatori quali garanti dell'arte di esagerare Cura e cultura L'improbabilità stabilizzata: l'istituzione delle immagini guida Paradossi e passioni: la nascita del mondo interiore dalla sovratensione cronica Gli albori dell'allenatore Dieci tipologie di maestro Il guru Il maestro buddhista Intermezzo: critica dell'illuminazione L'apostolo Il filosofo Il sofista, l'uomo del saper-fare universale L'allenatore profano: l'uomo che vuole che io voglia Il maestro artigiano e le due nature dell'opera d'arte Professori, insegnanti, scrittori

9. Cambio di allenatore e rivoluzione. Sulle conversioni e sulle svolte opportunistiche L'arte del rivolgimento Ogni educazione è una conversione

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INDICE

La catastrofe sulla via di Damasco La conversione non esiste: il paradigma agostiniano La conversione come cambio di allenatore: Francesco e Ignazio

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PARTE TERZA

Gli esercizi dei moderni Prospettiva. Il soggetto in ritiro torna nel mondo Il potere della parola d'ordine Il nuovo Zeitgeist: esperimento con l'uomo L'inquietudine moderna L'agire autoplastico: circulus virtuosus La scoperta del mondo nell'uomo

Homo mirabile Homo anthropologicus

10. Arte sull'uomo. Negli arsenali dell'antropotecnica Giochi di passione La vaccinazione per mezzo dell'immensità: Nietzsche immunologo Il campo di allenamento europeo Seconda storia dell'arte: il boia come virtuoso L'inizio della biopolitica: già lo Stato classico fa vivere Sovrapproduzione di uomini e proletarizzazione La nascita della politica sociale dalle difficoltà derivanti dall'eccesso demografico La politica educativa davanti all'imperativo assoluto

Emendatio mundi Ragion di scuola contro ragion di Stato L'intero mondo è una scuola Pre-illuminismo: la via della luce Posizionalità eccentrica: l'automa umano come provocazione dell'antropologia Il continente interdisciplinare Storia dell'arte come storia dell'ascesi L'addestramento militare Gli equipaggiatori dell'uomo in generale

11. Nello spazio ricurvo della dimensione auto-operativa. Uomini Nuovi tra anestesia e biopoJjtica Elogio delle orizzontali Il progresso come metanoia a metà prezzo La riforma del mondo come riforma di sé Farsi operare: il soggetto nella curvatura auto-operativa Il Sé oggetto di trattamento Nel cerchio operativo: l'abbandono medico

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INDICE

Rivoluzione d'ottobre: la narcosi eterea Il diritto umano allo svenimento Quando il mancato abbandono è rivoluzionario La metanoia radicale come volontà di sowersione Verticalismo politico: l'Uomo Nuovo La produzione comunista di uomini La biopolitica del miracolo e l'arte del possibile L'era dell'abolizione Essere e tempo, alla sovietica L'immortalismo: liquidazione della finitezza Mettere fine ali' epoca della morte e delle bagatelle "Antropotecnica" Epilogo postcomunista: la vendetta della gradualità

12. Esercizi e mancati esercizi. Critica della ripetizione Condannato a distinguere ripetizioni L'essere vivente che non riesce a esercitarsi Riesercitare tutti gli esercizi Da dove proviene la cattiva abitudine: metafisica dell'Età del Ferro Realismo, scarsità, alienazione La sospensione ascetica dell'alienazione: i cinque fronti Contro la fame Contro il sovraccarico Contro i bisogni sessuali Contro il potere e l'inimicizia Contro l'ineluttabilità della morte L'eredità postmetafisica della rivolta metafisica Apologia della seconda Età dell'Argento Il lavoro sul canone in epoca moderna Ripetizioni maligne 1: la cultura dei Lager Ripetizioni maligne rr: l'erosione della scuola Ripetizioni maligne III: il sistema autoreferenziale dell'arte moderna

Sguardo all'indietro. Dalla riaggregazione del soggetto alla ricaduta nella cura totale Sguardo in avanti. L'imperativo assoluto Chi può dirlo? Chi può udirlo? Chi lo farà?

Indice dei nomi

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XII

INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA ALL'ALBA DI UN NUOVO ORIZZONTE. LA FILOSOFIA ACROBATICA COME CIVILTÀ PEDAGOGICA

Paolo Perticari

Devi cambiare la tua vita è, in un certo qual modo, un libro sulla scalata. Su qualunque genere di arrampicata: economica, religiosa, politica, artistica, scolastica, sportiva, e tratta sempre del tentativo dell'uomo di migliorarsi e di innalzarsi attraverso le proprie pratiche e attraverso la propria azione. Che cosa connette un presidente del Consiglio, una velista, un pizzaiolo, una biologa, uno yogi, una lap-dancer? Che cos'hanno in comune tutte queste scalate e tutti questi scalatori? Hanno in comune il fatto di vivere in un mondo in cui l'attività personale e collettiva retroagisce incessantemente sull'individualità e sulla collettività, sulla biocoscienza e sulla biosfera: il lavoro sul lavoratore, la comunicazione sul comunicatore, le sensazioni sui sensi del senziente. Il fatto, anche, di dare una parte di se stessi, spesso ciò che si pensa la parte migliore di se stessi, quella che sta alla cima dell'uomo. Anzi, per molti versi, questo libro conduce sulla cima dell'importanza in quanto tale. Una scalata di secondo ordine, una magie line dell'eccellenza, del1' elevarsi, fino all'apice dell'ammirazione. La scalata di tutte le scalate, poiché tutte le culture, in estrema sintesi, sono sistemi che addestrano a trasmettere alle generazioni successive i contenuti della propria evoluzione e le patologie che ne derivano, facendo dell' elevarsi qualcosa di così cruciale per la vita dell'uomo. Per questo Peter Sloterdijk compie, con il passo allenato di chi è consapevole, l'attacco alla parete più verticale del pianeta, che è al contempo dentro ciascuno di noi e là fuori, in continua metamorfosi e variazione selettiva delle sue altezze e profondità, delle sue ampiezze e vicarietà: il Monte Improbabile. Questa montagna la cui cima si innalza fino a elevazioni indeterminabili o si abbassa fino alla sua base e oltre, dentro le più recondite viscere della Terra, nel momento stesso in cui la si affronta e i

XIII

INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

cui picchi, vette e creste - sfidati in continuazione da arrampicatori occasionali- sono già stati scalati, nel corso dei secoli, dai migliori; nel XX secolo, sono giunti in vetta, o nelle sue prossimità momentanee, Martin Heidegger, Ludwig Wittgenstein, Michel Foucault e, prima ancora, colui che è rimasto più a lungo sulla cima, anche se poi la sua discesa è stata funestata da un esito iperbolico e tragico: Friedrich Nietzsche. Questa montagna può essere legittimamente chiamata, in lingua inglese, come fa del resto l'autore di questo libro, il Mount Improbable, in virtù delle descrizioni di qualche geografo darwiniano, e tra questi Dawkins, che ne ha fatto una metafora della selezione naturale per giustificare l'evoluzione di eventi complessi come l'occhio del calamaro, il cervello umano, la rotta aeronautica dell' albatros, la tela del ragno. Sono, tutte queste, vette dell'evoluzione e della selezione naturale di cui la visionaria scalata del Mount lmprobable rivelerebbe profili e prospettive inedite, designando la complessità della vita in tutte le sue forme. Ecco come veniva descritta questa montagna prima della sua scalata: Mount Improbable rears up from the plain, lofting its peaks dizzily to the rarefied sky. The towering, vertical cliffs of Mount Improbable can never, it seems, be climbed. Dwarfed like insects, thwarted mountaineers crawl and scrabble along the foot, gazing hopelessly at the sheer, unattainable heights. They shake their tiny, baffled heads and declare the brooding summit forever unscalable. 1

Ora, per l'autore, il punto cruciale è che le montagne non si criticano: si scalano oppure si lasciano là dove sono. Per questo, Devi cambiare la tua vita non segue in alcun modo la via della metafora del monte inscalabile che aveva alimentato scenari religiosi o parareligiosi. Nella sua vasta indagine sulla natura dell'uomo e sulle condotte elevative -il tratto chiave dell'itinerario - Sloterdijk, più che imbattersi nella favola del ritorno della religione .nel mondo occidentale, liquidata appunto come tale, ha invece, una volta raggiunta la cima, la visione di un immenso panorama: il pianeta dei 1. "Il Monte Improbabile si erge sulla pianura elevando i suoi picchi vertiginosi verso il cielo rarefatto. Si ha l'impressione che le sue incombenti pareti verticali non possano essere scalate. Piccoli come insetti, scalatori frustrati arrancano e si affannano ai piedi della montagna, fissando senza speranza i picchi inaccessibili. Scuotendo perplessi le loro microscopiche teste, dichiarano che nessuno riuscirà mai a scalare la vetta solitaria" (Richard Dawkins, Climbing the Mount Improbable, Penguin, London 1996, p. 64; tr. it. di Claudio Carere, Alla conquista del Monte Improbabile, Mondadori, Milano 2003, p. 68).

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IN1RODUZIONE ALI.:EDIZIONE ITALIANA

praticanti,, E, visto questo enorme brulichio di persone indaffarate che si muovono nei campi più disparati per sviluppare le proprie pratiche e pe~ andare oltre la propria natura umana, per sé e per le generazioni a venire, decide di scendere nell'arena per trasformarsi in un allenatore che promuove a tutti i costi la causa degli esercizi del singolo nonché della società. Attraverso la forma filosofica dell'acrobatica, un'antropologia radicale e radicalmente innovativa delle scienze dell'uomo nell'era antropotecnica, riesce a delineare l'idea di una visione dentro il nucleo centrale dell' autoformazione di tutta la sfera umana. In un aforisma, Nietzsche afferma: "Alcune ore di alpinismo fanno di una canaglia e di un santo due creature abbastanza simili. La stanchezza è la via più breve verso l'uguaglianza e la fratellanza'? Chi coglie il senso dello sforzo, della scalata e degli esercizi necessari per arrivare a realizzarla entra subito nell'atmosfera planetaria della vita verticale. Non si tratta però, qui, di una "metafisica'dell' alpinismo" che possa essere anche, come nel caso della scalata del Monte Analogo di Daumal, un itinerario minuzioso, lentamente maturato nel).' esperienza dell'autore, verso un centro sentito come libe- · razione della persona da ogni suo limite, verso una vetta in cui, al di sopra di ogni specifica contraddizione, ciascun uomo attivi le proprie potenzialità.3 Non è neppure la metafisica di cui rischia di es- · sere intrisa la nozione platonica di epimeleia, di cura, e di cui Michel · Foucault lamentava l'esistenza anche nelle opere migliori dei suoi contemporanei, come quella di Patocka Platone e l'Europa. 4 Foucault si dichiarava invece interessato a una visione dell' epimeleia essenzialmente come cura di sé e non come cura dell'anima, avver. tendo tutto il rischio di vedere questa tematica nella direzione e sotto il profilo della conoscenza e dell'ontologia dell'anima, quando, al contrario, è il tema della cura di sé come messa alla prova, messa in questione, esame, verifica della vita (del bios) a interessarlo. La vita, ben più dell'anima, come oggetto di cura e, nello specifico, pr9prio questo tema del bios come oggetto di epimeleia può essere il 2. Riidiger Safranski, Nietzsche fiir Zeitgenossen, Sanssouci, Berlin 2000; tr. it. di Stefano Franchini, Nietzsche per i contemporanei, Guanda, Parma 2007. 3. René Daumal, Le Mont Analogue. Roman d'aventures alpinès, non euclidiennes et symboliquement authentiques, Gallimard, Paris 1952; ed. it. a cura di Claudio Rugafiori, Il Monte Analogo, Adelphi, Milaiio 1991. 4. Jan Patoi:ka, Plat6n a Evropa (1970-1977), Samizdat Archive Collection, Praha 1979 (ora in Péce o dùSi, secondo volume delle opere complete, OIKOYMENH, Praha 1999, pp. 149-355); tr. it. di Giuseppe Girgenti, Platone e l'Europa, a cura di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 1998 .

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INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

punto di partenza e di pratica di tutta un'attività filosofica di cui il cinismo, correttamente inteso, è l'esempio primo.5 La Critica della ragion cinica, libro ormai lontano dal suo autore, ma di cui Devi cambiare la tua vita riprende fedelmente la metodica narrativa secondo il criterio del cortocircuito che può generarsi tra le rovine o gli ampi resti della filosofia antica e le maglie delle implicazioni reciproche che intersecano la cultura e le più attuali problematiche dell'uomo nella rete globale del sapere, è anche il punto di partenza dell'opera di Sloterdijk. 6 Egli approda ora verso una sorta di paideia antropotecnica che, per molti versi, ne costituisce il compimento. Pubblicato in Germania nel 1983 e salutato daJiirgen Habermas come un'opera fondamentale del pensiero contemporaneo, la Critica della ragion cinica è l'esempio di un best-seller filosofico che porta a una lotta contro la "falsa coscienza illuminata" del comportamento neocinico contemporaneo, dotatp di sorprendenti analogie con quel momento della filosofia antica. 7 Il-vero Cinismo (si pensi a Diogene che ruttava in pubblico per indurre i filosofi a un maggiore rispetto della filosofia), invece, è sempre sinonimo di uno sforzo, poiché la catastrofe ci colpisce proprio nel momento in cui siamo in uno stato di narcosi acquiescente rispetto al mondcr-Proprio nel mondo ipertecnologizzato di oggi si possono ritroyare le tracce di un processo - in realt.à molto più antico - di pervertimenII.

5. Michel Foucault, Le courage de la vérité. Le,gouvernement de soi et des autres Cours au Collège de France. 1984, É}litions de l'Ecole des Hautes Études en Scien-

ces Sociales, Gallimard, Paris 1984; Editions du Seuil, Paris 2009, p. 119. Sebbene sia tutt'altro che esatto ricondurre a metafisica la prospettiva della cura dell'anima diJ an Patocka, l'affermazione di Foucault ha una sua amplissima giustifica.zione in virtù del fatto che la maggior parte delle riflessioni sulla cura dell'anima viene abitualmente espressa nei termini della metafisica e dell'ontologia che, per molti versi, non arriva neppure al campo base del mettersi alla prova e dell'ascesi della montagna da scalare. Per queste ragioni, ben più dell'anima, è la dialettica AntroposBios come oggetto di cura e di governo di sé e degli altri a dover essere il punto di partenza e di pratica di tutta un'attività filosofica, di cui il cinismo, beninteso, è l'esempio primo, dice Foucault. E di cui anche il Cinismo, recuperato da Sloterdijk via Diogene-Nietzsche, è l'esempio secondo, si potrebbe anche aggiungere. 6. Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983; tr. it. di Andrea Ermano, Critica della ragione cinica, Garzanti, Milano 1992. 7. Mario Perniola, "Prefazione", in Critica della ragione cinica, cit., pp. 7-18. Habermas si espresse nella recensione dell'edizione tedesca in questi termini: "Sloterdijk può difficilmente essere superato nella sua immaginativa e vivida descrizione dell'esperienza di una generazione[ ... ]. Non solo vuole descrivere le cose che ha sperimentato così personalmente, ma anche spiegarle. Nel modo in cui spiega le conseguenze degli ideali frantumati del 1968, con mezzi che prende a prestito dalla storia della filosofia, racimola dalla pila delle rovine un pezzo di verità. Egli chiama questa verità 'impulso cinico"'.

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INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

to delle pratiche di miglioramento, per cui nel mondo anglosassone può imperversare ancora la filosofia analitica, che rappresenta una forma decadente di "presentismo" platonico male interpretato. 8 E in molti Paesi industrializzati la provocazione può venire finalizzata al denaro e al più bieco conformismo populista mediatizzato. Per questo motivo il Diogene-Sloterdijk veste ora i panni del Platone della Repubblica, quello del mito della caverna, e attacca il cuore della decadenza del cosmo mediatizzato. Il problema autentico è come fare una filosofia della globalizzazione oltre l'apologetica della televisione. Come vedere dunque la religione, le diverse pratiche, l'arte, la scuola, la produzione culturale, e cioè il modo di portare al linguaggio tanto la società quanto le singole maniere di stare insieme, la socialità in quanto tale, in un modo che non sia quello del linguaggio sofista della televisione. 9 La forma del mondo globale è stata descritta da Sloterdijk nella trilogia intitolata Sphà'ren (Sfere) e nel volume presentato come un compendio a essa e pubblicato in italiano con il titolo Il mondo dentro il capitale. Questa enorme opera, non ancora completamente tradotta in lingua italiana, tratta di quel che avviene ~egli spazi interni dei capitali e delle informazioni. 10 E delinea un profilo delle condizioni di possibilità e di realtà della vita da cui può emergere il paradigma di una immunologia generale del pianeta. Il punto essenziale è dato dall'attenzione, inconsueta per la filosofia della vecchia Europa, alla dimensione spaziale, intesa come una dimensione categoriale che persiste nella vita dell'uomo alle prese con i suoi problemi di "tempo" e di cui si ricostruisce, grazie a un'ambiziosa periodizzazione, la morfologia genetica. Ciò che oggi si festeggia o si condanna come globalizzazione, secondo Sloterdijk, non è altro che l'ultima fase di un processo iniziato con la razionalizzazione della struttura del 8. Peter Sloterdijk, "La costruzione telematica del reale", conversazione con Giovanni Leghissa, in aut aut, 336, 2007. 9. Boris Groys, Das kommunistische Postskriptum, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006; tr. it. di Gianluca Bonaiuti, Post scriptum comunista, Meltemi, Roma 2007. 1O. Vedi Peter Sloterdijk, Sphiiren I. Blasen; Sphiiren II. Globen; Sphiiren III. Schiiume, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998-2004. In Italia è uscito il primo volume della trilogia: Sfere I. Bolle, ed it. a cura di Gianluca Bonaiuti, Meltemi, Roma 2009. Vedi anche il volume di compendio alla trilogia, tradotto in italiano con il titolo bello ma approssimativo di Il mondo dentro il capitale, là dove sarebbe stato forse più chiaro "Negli spazi interni del capitale mondo" oppure "Negli spazi interni del mondo dei capitali: per una teoria filosofica della globalizzazione": Peter Sloterdijk, Im

Weltinnenraum des Kapitals: Pur eine philosophische Theorie der Globalisierung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2005; tr. 'it. di Silvia Rodeschini, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006.

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INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

mondo a opera dei cosmologi antichi che raccoglievano nella totalità compiuta di una sfera la moltitudine degli enti. Le prime circumnavigazioni globali di marinai, pirati e avventurieri europei segneranno, dopo diversi secoli, un ulteriore stadio di questo sviluppo, dal quale inizia la globalizzazione terracquea di cui lattuale assetto del pianeta rappresenta la tappa conclusiva, di fronte ai nostri occhi. In questa fase, la globalizzazione, iniziata con l'installazione di un ambiente satellitare nell'orbita della Terra e con la realizzazione di un'atmosfera elettronica, sostiene ora i corridoi del comfort dove circolano tanto i turisti quanto le merci del pianeta Terra. Il Crystal Palace dell'esposizione mondiale di Londra del 1851 viene eletto da Sloterdijk a cifra storico-geografica dell'intero discorso del capitalista, si potrebbe dire in gergo lacaniano. 11 Il carattere esclusivo della globalizzazione, in grado di affiancare al comfort del capitalista e del turista globale confini invisibili ma insormontabili dal1'esterno, fa sì che lo spazio interno dei capitali si presenti oggi come uno spazio di esclusione senza precedenti. Proprio l'insormontabilità di questa esclusione e la crisi antropologica senza un orizzonte certo di uscita da essa sono l'oggetto materiale della forma sferica intesa sia come archeologia interna della poetica generale dello spazio globale sia come sferologia politica dell'Impero e del suo attuale circuito televisuale (circo neoromano mediatizzato) .12 Il filosofo Peter Sloterdijk si è chiesto che ne sia di tutto quello che l'Umanesimo ci ha lasciato in eredità in una conferenza (poi pubblicata) sulle "regole per il parco umano" tenuta al castello di Elmau. n Questa eredità è soprattutto l'eredità dei libri, della lettura, dello studio come vaccino contro la fero eia e le barbarie. Sloterdijk considera i grandi testi greci (Omero e Platone anzitutto) come lettere invia11. Le ricadute del Discorso del capitalista sulle diverse discipline non sono state ancora compiutamente affrontate a tutt'oggi dai diversi saperi accademici e scientifici. Per un'interpretazione nell'attualità contemporanea delle derive del Discorso del capitalista di Lacan vedi in Italia Massimo Recalcati, I:uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2009. 12. Può essere utile affiancare allo specifico dell'analisi in chiave neoromana dell'attuale circo mediatizzato come componente essenziale di una sferologia politica un celebre lavoro che si è fatto notare anche per il linguaggio inconsuetamente spirituale-religioso utilizzato dai suoi autori; vedi Michael Hardt, Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002. 13. Peter Sloterdijk, "Regeln fiir den Menschenpark: Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief iiber den Humanismus", in Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999; tr. it. "Regole per il parco umano", in Non siamo ancora stati salvati, a cura di Anna Calligaris e Stefano Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266.

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te ad atnici ignoti: lettere che hanno prodotto nell'Occidente latino una fioritura di comunità di ricerca e di pensiero, unite dall'amore per il linguaggio e per i grandi testi che orientano verso l'umanizzazione dell'Homo inhumanus. Questi aspetti resteranno alla base della forma scritta, dal Convivio di Dante (che è un manifesto per togliere l'uomo dal suo stato ferino) fino alla nostra epoca. 14 Ma Sloterdijk, a Elmau, andò oltre, chiedendosi se il vaccino dell'umanesimo avesse ancora un senso. I libri sono entrati in conflitto con le nuove forme di comunicazione a distanza e hanno dovuto adeguarsi alla cultura televisiva. Lo stesso è capitato alle città e alla cittadinanza, costretta ad adeguarsi a una cultura videocratica. Ora i prodotti dello scrivere e della città sono affidati a manager, il cui lavoro consiste nel trattare i libri e i cittadini come neutri oggetti di profitto, e la scrittura del codice genetico dell'uomo è entrata nel suo orizzonte di possibilità cosciente. Sloterdijk si spinse a dire: Se poi lo sviluppo a lungo termine condurrà anche alla riforma genetica dei caratteri della specie, se una futura antropotecnologia giungerà fino a una esplicita pianificazione delle caratteristiche umane, e se l'umanità, dal punto di vista della specie, potrà compiere il sovvertimento dal fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale, più in generale se si giungerà alla manipolazione dei rischi biologici, la formulazione così è più completa; tutte queste sono questioni nelle quali inizia ad albeggiare l'orizzonte dell' evoluziom~, anche se in modo ancora oscuro e inquietante. 15

Questo intervento sulla partita dell' addomesticainento della vita nel mondo contemporaneo provocò l'ira di Habermas il quale, dal ritiro silenzioso di Starnberg, lavorò nell'ombra per distruggere una simile prospettiva, prima sulla stainpa culturale-scientifica e poi attraverso un affaire mediatico, da cui peraltro tentò di ritrarsi, noto come die Sloterdijk-Debatte (o anche, in inglese, Flirting with fascism) .16 Es14. Gianni Celati, "Lo scrittore come cadavere", in Alias, 36, 2009, pp. 17-18. 15. Peter Sloterdijk, "Regeln fiir den Menschenpark: Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief iiber den Humanismus", cit.; tr. it. cit., p. 260. Si è preferito inserire all'interno di questa citazione la nota 23 presente nell'edizione italiana (p. 349), che conteneva la seguente frase: "Più in generale, se si giungerà alla manipolazione dei rischi biologici, la formulazione così è più completa". 16. Se l'esito di tale scontro, in cui Sloterdijk è per altro risultato non propriamente perdente (meriterebbe di essere proposto nella sua integrità perché contiene amabili coincidenze e dettagli istruttivi), è stato quello di un certo rallentamento o di una cosiddetta mancata ricezione italiana della sua filosofia, adombrata dalla connotazione di "neopaganesimo", unitamente all'accusa rivoltagli da Habermas di e·ssere il fautore particolarmente raffinato e capzioso di un nuovo eugenismo, va

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so segna un punto cruciale in cui, a livello internazionale, si è bloccato il pensiero critico ("La teoria critica è.morta", fu la risposta di Sloterdijk). Habermas tornò sul tema della natura umana in un libro sui rischi della genetica liberale. 17 In estrema sintesi, il discorso sul "parco umano" e sulle sue conseguenze procede nell'ottica di recepire filosoficamente, piuttosto che criticare o negare, la questione antropotecnica, i risultati delle ricerche genetiche e i rischi di una formazione biotecnica dell'essere umano. È, questa, una realtà scabrosa ed estraniante, che obbliga l'uomo a reinventare l'essere umano nel momento in cui l'Umanesimo, che comprende un panorama culturalmente egemone di posizioni etiche differenti- dalla Chiesa ai mondi liberali, dalle teorie più reazionarie fino alle teorie epistemologiche più progressiste -, ciò che appare quotidianamente rappresentato sugli schermi televisivi, rischia di non avere più risposte credibili da offrire. Per molti versi, Devi cambiare la tua vita può essere considerato una risposta a quella parte del discorso sulle "regole per il parco umano" che concerne essenzialmente l' antropotecnologia e le sue ricadute sulla parola Selektion, molto scabrosa per la lingua tedesca a causa delle affinità evocative riferibili a Auschwitz che essa comporta. La dottrina surcreazionista (Hinaufpftanzungslehre) fondata sull'elevarsi oltre la propria natura umana evidenzia che là dove inizia ad albeggiare, anche se in modo ancora oscuro e inquietante, l'orizzonte dell'evoluzione, albeggia anche l'allenatore. Non basta procreare, bisogna surcreare, cioè costruire le condizioni morali e materiali affinché le giovani generazioni superino chi le ha create. Il discorso sulle "regole del parco umano" è stato costruito, per ammissione del suo autore, su tre parole chiave: la radura heideggeriana, l' addomesticazione dell'essere umano, l' antropotecnica. Di queste espressioni, l'ultima trova oggi il cammino verso la coscienza del pubblico. 18 considerato ora che proprio l'attualità dona oggi al filosofo una crucialità culturale di cui si sente tutto il ritardo. Vedi Heinz-Ulrich Nennen, Philosophie in Echtzeit, Die Sloterdi}k-Debatte: Chronik einer Inszenierung, Konigshausen & Neumann, Wiirzburg 2003, pp. 113-131. Vedi anche Gianluca Bonaiuti, "Introduz.ione" a Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit. E ancora, in olandese, la ricostruzione antologizzata di tutti gli interventi, con l'eccezione del contributo di Habermas il quale non concesse il permesso: Regels voor het Mensenpark, Kroniek van en Debaat, Boom, Amsterdam 2000. 17. Jiirgen Habermas, Die Zukun/t der menschlichen Nature. Au/dem Weg zu einer !tberalen Eugenetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001; ed. it. a cura di Leonardo Ceppa, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002. · 18. Importante, per una ricostruzione del discorso sulle "regole per il parco umano" e per le sue conseguenze dal punto di vista di Sloterdijk, nonché per pre-

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Dunque, è un miracolo che ci sia ancora qualcuno che si addentra nelle aree in cui passa la via del rapporto che intercorre tra elevazione e selezione umana dopo Auschwitz, dopo Hiroshima e Nagasaki. Questo addentrarsi ha un valore di civilizzazione quando il pensiero non è più ali' altezza degli eventi fondamentali dell'epoca. E cioè negli ambiti in cui l'improbabilità della vita interseca la vita sociale in generale. La scalata del Mount Improbable, posto al di sopra dello Human Park, e le sue conseguenze per la sopravvivenza della specie e della biosfera consentono a filos©fi, scienziati, psicologi ed economisti di avere ora a disposizione una bussola antropologica per riorientare le proprie attività nel mondo in crisi verso una visione più alta e importante della vita. Ma vediamo le cose da vicino. Sloterdijk stesso è un filosofo importante? Un lettore colto potrebbe senza meno arrivare a rispondere a questa domanda dicendo che, una volta scomparso il grande filosofo Jacques Derrida, oggi è lui, per ampiezza di visione, il numero uno del pensiero filosofico internazionale, in grado, fra l'altro, di formulare un'ecologia nascosta del dolore del mondo. Se si riescono a vendere più di cinquantamila copie di un libro di filosofia, come è successo a Devi cambiare la tua vita in Germania, si può parlare, se non di successo assoluto, di un buon risultato. Tradotto nelle categorie della cultura di massa equivale pressoché all'inesistenza e alla insignificanza. Un amico di Sloterdijk, Boris Groys, raccontò un giorno la storia di un suo conoscente russo che, tornando in patria dopo la sua prima visita a New York, si era sentito costernato e allo stesso tempo estasiato perché aveva appena vissuto lo shock culturale dell'uomo colto che entra in contatto con la vera società del mercato. Il suo conoscente gli aveva raccontato che, se un intellettuale, a Mosca, faceva trapelare di non conoscere il nome di Albert Camus, veniva deriso per il resto dei suoi giorni. A New York, invece, se qualcuno non conosceva Camus, si diceva semplicemente: "Camus non ce l'ha fatta". Una storiella come questa evidenzia bene la questione del successo e delle condotte elevative al giorno d'oggi. E, si badi bene, di che cosa sia importante al tempo dei media, in cui tutto è manipolabile in un'immagine perfettibile in maniera tale che può diventare "tecnicamente immortale". La paranoia e la cultura del sospetto dell' attuale scena politica hanno il loro riferimento ultimo in questa comcisare i collegamenti e la tempistica da cui è scaturito Devi cambiare la tua vita, è il secondo capitolo di un libro-intervista del 2001. Vedi Peter Sloterdijk Die Sonne und der Tod. Die Dialogische Untersuchungen mit Hans ]urgen Heinrichs, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001, pp. 53-156.

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petizione che non è solo con i viventi, ma anche e soprattutto con i morti. E la competizione con i morti è più difficile e ambiziosa di una competizione con i vivi perché ha bisogno di un pubblico che partecipi alla sfida dell'immortalità artificiale e della sopravvivenza dopo la morte: una politica dell'immortalità come modo di vivere e come fondamento stesso dell'esistenza sociale. 19 Nessuno che appartenga all'ambiente filosofico, per tornare alla storia di Groys, ce la potrà mai fare, almeno non nel senso in cui ce l'hanno fatta alcuni autori, non più di cinquant'anni fa; ma, al tempo, le masse non si erano ancora cristallizzate al punto in cui lo sono oggi. Figure come l'appena citato Camus, ma ancora di più Jean-Paul Sartre, erano yeri global players, al pari di Brigitte Bardot o del generale de Gaulle. E forse, già ora, non c'è più neppure lo spazio per coloro che fanno ancora affidamento su ciò che Blumenberg ha chiamato la pensosità. 20 È a pieno regime l'affermazione di Cocteau che nel xx secolo la stupidità si è messa a pensare. Pensare è un'attività pericolosa, che solo sporadicamente conduce alla soglia di ciò che è importante per l'uomo contemporaneo, il quale rimane tutt'al più mimeticamente impigliato nella sua stessa ira e nel rapporto che essa intrattiene con il tempo. 21 Il presente assoluto del mercato totale come modus vivendi chiama chiunque, sotto le spoglie della ricerca della felicità, a una scelta di vita, che piaccia o meno, che lo si voglia oppure no. 22 Scacciare di continuo la novità lanciando scrittori e personaggi come cadaveri vestiti alla moda - e, là dove il manager ha sostituito angeli e passeurs, ciò non indica alcuna facile terapia- oppure partecipare alla sfida del successo della propria arte di vivere e, insito in essa, dell'elevarsi. Per questa sfida, non c'è niente da fare, il monito di Sloterdijk è secco: o si è allenati o non si parte neanche. Non che, a dire il vero, Sloterdijk creda più di tanto al successo o a una sua parvenza. Anzi, non sembra crederci affatto. E ciò perché la costellazione culturale non è più fatta in modo tale che una voce letteraria o filosofica inconfondibilmente impregnata di alta cultura possa essere realmente di successo nell'odierno panorama mediale e culturale. Nel mondo di oggi stanno inesorabilmente andando alla deriva, stanno dividendosi per non 19. Boris Groys, Politik der Unsterblichkeit, Vt'er Gespriiche mit Thomas Knofel, Edition Akzente, Miinchen 2002, pp. 59-60. 20. Hans Blumenberg, "Nachdenklichkeit", in Neue Ziircher Zeitung, 21 novembre 1980; tr. it. di Lea Ritter Santini, Pensosità, Elitropia, Reggio Emilia 1981. 21. Peter Sloterdijk, Zorn und Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2005; tr. it. di Gianluca Bonaiuti, Ira e tempo, Meltemi, Roma 2007. 22. Zygmunt Bauman, The Art o/ Ltfe, Polity Press, Cambridge 2008; tr. it. di Marco Cupellaro, I:arte della vita, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 67-118.

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più ricomporsi, la cultura popolare e quella colta. Ma con Devi cambiare la tua vita il filosofo Peter Sloterdijk punta a tendere una fune tra queste due enormi derive. E pone innanzi, con l'acrobatica, la chiave di ogni scalata, di ogni verticalità, di qualunque asketologia (Asketologie) attraverso ciò che egli chiama ubendes Leben, la vita esercitata, per trasformarsi in allenatore speciale dell'umanità. La filosofia -la filosofia antica in particolare -lo ha sempre saputo. Che cos'è la filosofia? Vista dall'esterno, è una questione definita abbastanza chiaramente: è semplicemente il risultato di ciò che fanno i filosofi, e filosofi sono coloro che hanno studiato all'interno delle facoltà filosofiche per impossessarsi del discorso filosofico. Ma c'è poi un senso etico della filosofia che è presente in tutta la sua storia fin dalle origini e che anche Kant, in fin dei conti, non nega. Secondo questa prospettiva, la filosofia va vista come modo di vivere. 2' Nella visione antica, il filosofo non è altro che la persona la quale orienta la sua vita secondo proprie leggi e secondo le leggi del cosmo: si prepara alla morte; è un monaco della ragione che esprime la sua saggezza emergendo come una funzione locale dell'universo. Oggi questa prospettiva si è offuscata ed è emersa una moderna visione della filosofia che ha una universale competenza di consulenza e un orienc' tamento in grado di affiancare i nuovi business del pensiero. 24 E c'è da chiedersi se anche Sloterdijk, con questo testo, in fin dei conti non strizzi l'occhio al business. La lettura dei classici di Sloterdijk differisce però da quella di altri filosofi proprio su questo punto: perché non si limita a un gioco di interscambio tra letteratura primaria e secondaria, ma crea un cortocircuito tra la filosofia antica e una lettura ibrida del presente leggendo i classici in termini interdisciplinari e creando discontinuità per favorire inediti incroci che portano là dove si intersecano improbabilità e socialità, estraniamento e ritiro dal mondo, per chiamare in causa il proprio modo di vivere'. All'inizio è la ripetizione, dice Michaux, che ne aveva colto il senso profondo come via per l'insubordinazione attraverso la lettura di Kierkegaard. 25 È nel lavoro di ripetizione che l'uomo forgia i suoi sa23. Vedi Pierre Hadot, Qu'est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995; tr. it. di Elena Giovannelli, Che cos'è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998, pp. 55-221. Vedi anche, dello stesso autore, Exercises spirituels et philosophie antique, Éditions Albin Michel, Paris 1988, 2002; tr. it. di Anna Maria Marietti, Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di Amold I. Davidson, Einaudi, Torino 2005. 24. Vedi Alessandro Dal Lago, Il business del pensiero, manifèstolibri, Roma 2007, pp. 65-87. 25. Henry Michaux, Essais d' en/ants, dessins d' en/ants, in Ouvres completes, édition établie par Raymond Bellour avec Ysé Tran et la collaboration de Mireille Car-

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peri e la sua attività di conoscenza, così come le sue nevrosi e la sua isteria. Tutta la vita umana è scandita da rituali e l'essere umano, in quanto tale, vive nella ripetizione e dà forma e contenuto alla propria vita immettendo la lotta continua del pensare e dell' autotrasformazione di sé in un ritualismo più o meno cosciente fatto di ripetizioni. Per cui nella definizione di filosofia e di essere umano di Sloterdijk non c'è solo la creatività, ma c'è la ripetizione nella creatività. E proprio dalla ripetizione scaturisce l'acrobatica che è il modo dell'uomo che si esercita ad ampliare la propria visione del mondo nel corpo a corpo quotidiano con la ripetizione maligna. Ritorna il fatto, spesso banalizzato, che nella tradizione filosofica antica la filosofia è essenzialmente un modo di vivere, è praticata come una terapia o come un allenamento muscolare dell'anima, con il compito primario di creare effetti formativi durevoli nei cittadini (polites) e nella città (polis). Paideia non è solo la parola fondamentale del filosofare antico, ma denomina anche il programma della formazione dell'uomo e della filosofia come riforma del pensiero e come faticosa pratica politica. 26 Tutto questo è noto. Ma, allora, qual è il contributo specifico di Sloterdijk? È un contributo di verità e di de-conformismo che riguarda l'essenza non edulcorata della paideia nell'età presente. E porta l'intera questione dell'antropologia filosofica nella sfera della filosofia come modo di vivere, là dove fare i conti con la filosofia non è separabile dal porre il problema antropologico-filosofico della forma.27 Da Leibniz in poi sono pochissimi i pensatori della forma quadot, Gallimard, Paris 1995, 2004, voi. 3, p. 1327. Vedi ovviamente anche S0ren Kierkegaard, Gjentagelsen (1843 ); tr. it. La ripetizione. Un esperimento psicologico, Guerini e Associati, Milano 1991. 26. Werner Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, Band 1-3, Walther De Gruyter Verlag, Berlin 1944; tr. it. di Luigi Emery e Alessandro Setti, Paideia, la formazione del!' uomo greco, Bompiani, Milano 2003. 27. Va dato atto a Bruno Accarino di aver posto il problema dell'antropologia filosofica in Italia per tempo e in modo coerente, utile ora a collocare la filosofia di Sloterdijk in una costellazione di riferimenti che non sono in alcun modo una riesumazione della Kulturkritik, quanto piuttosto una metodologia di ricerca accertabile per via paleoantropologica che consente di cogliere connessioni ed elementi essenziali dell'antropogenesi immanente ai processi di ominazione. Dai pionieristici lavori sulle "isole antropiche" di Dieter Claessens ai battaglieri saggi antischmittiani di Bazon Brock, dall'inconfondibile marchio di Uscite dalla caverna di Hans Blumenberg fino al Leroi-Gourhan di Il gesto e la parola, e ancora dal Plessner di I gradi dell'organico e l'uomo al Canetti di Massa e potere e al mai abbastanza riletto Kant di Che cosa significa orientarsi nel pensiero, tutta la linea Allsberg-Claessens fino a Tarde, Plessner, Gehlen, Luhmann, cui si affiancano, senza ombra di dubbio, i lavori di Vilém Flusser e la teoria della follia di massa di Hermann Broch o la strategia investigativa cibernetica di Gotthard Giinter, tutto va nella direzione di un approfondimento antro-

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le il tedesco Dietrich Mahnke; in Italia può essere ricordato Carlo Diano. 28 Rischia pertanto di essere triviale, quando si analizza il progetto Sphéiren, dichiarare che la parola sfera è soltanto una metafora. Infatti, quando usa metaforicamente la parola sfera all'interno dei suoi testi, Sloterdijk ha anche l'accortezza di annotarlo per indicare che, per principio, le sfere non sono metafore, bensì forme. Sfere indica, a partire da una teoria dello spazio interiore, l' esaurimento della possibilità di interpretare il moderno secondo canoni che non siano i canoni dell'esteriorità e dell'estraneità più inquietante. Ciò significa che la vera forma non è altro che la forma che ricevo: essa non proviene da me; tutt'al più riguarda un'abilità del ricevente.29 Ma attraverso il trascendentalismo si rischia di tralasciare la morfologia, le forme e la loro formazione. Esattamente questo è il problema affrontato nel secondo volume della trilogia riguardante le sfere, nel quale il concetto di sfera non viene pressoché mai utilizzato metaforicamente, ma come terza via fra trascendentalismo oggettivismo nella prospettiva della spazialità del globo.' 0 La sfera acrobatica qui delineata, con la sua curvatura auto-operativa unita ai passaggi nicciani sul legame tra verticalità e teoria della natura, po-

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pologico precluso all'animale del divenire estraniati là dove il problema linguistico della Entfremdung, e-straniazione, per quanto non dissimile da quello della Entfernung heideggeriana (il dis-allontanamento) indica una scelta di campo netta e inequivocabile. Vedi Bruno Accarino, "Introduzione" a Sfere I. Bolle, cit., pp. 13-69. Vedi anche Joachim Fischer, Philosophische Anthropologie. Bine Denkrichtung des 20. ]ahrhunderts, Karl Alber, Freiburg-Miinchen 2008. 28. Carlo Diano, Forma ed evento, Marsilio, Venezia 1993 (1 •ed. Neri Pozza, Venezia 1952). · 29. Vedi tùtta la linea Bateson, von Foerster, Giinther, Luhmann, Varela. Nel casò dell'abilità del ricevente vedi Gregory Bateson, Mind and Nature, Bantam Books, New York 1980; tr. it. di Giuseppe Longo, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, pp. 7-23. Per quanto concerne i rischi della banalità nei processi auto-organizzativi vedi anche Heinz von Foerster, Observing Systems, IntesSystems Publications, Seaside (CA) 1981; tr. it. di Bernardo Draghi, Sistemi che osservano, a cura di Mauro Ceruti e Umberta Telfner, Astrolabio, Roma 1987. 30. Jedi come riferimento culturale Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille plateaux, Editions de Minuit, Paris 1980; tr. it. di Giorgio Passerone, Mille piani II. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 1987. Vedi ancora Gaston Bachelard, La poetique del'espace, PUF, Paris 1957; ed. it. a cura di Mariachiara Giovannini, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2000. Tra i lavori più recenti: Homi Bhabha, The Location ofCulture, Routledge, New York 1994, tr. it. di Antonio Perri, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma2001; Arjun Appadurai, Modernity at Large: CulturalDimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996, pp. 408-421, tr. it. di Piero Vereni, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001; Rem Koolhaas, ]unkspace, Project on the City 2 I Harvard Design School, Guide to Shopping, Taschen, Koln 2001, pp. 408-421; tr. it. di Filippo De Pieri, ]unkspace, a cura di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 61-103.

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ne innanzi un salto di qualità nella visione del mondo come materialismo dionisiaco. La vita ascendente suscitata dal modello della Grecia antica non è più una metafora e neppure una metafisica moralista, ma è una via per sperimentare l'andare oltre, e il senso dell' uber andando sui monti alla maniera di Zarathustra. In una recente intervista Sloterdijk ha ripreso il concetto di esoterismo democratico. 31 Il concetto di esoterismo - si sa - è uno dei concetti più fastidiosi. "Esoterismo" significa sempre parlare di ciò che è nascosto, di cose che vanno contro l'intuizione o che hanno requisiti di accesso molto complessi, talvolta persino ieratici. Rientra in quest'ambito l'intera questione del ventre materno affrontata da Sloterdijk quando, per esempio, si chiede: il feto ha un legame con l'ambiente materno? Presumibilmente sì. Ma si arriva presto a un punto in cui il tutto diventa abissale. Com'è l'accesso cognitivo riguardo a tutti i rapporti nascosti che caratterizzano la problematicità e la complessità di questo tempo? Non c'è nulla di pubblico o di evidente in questi temi. L'inquietante capitolo sul ventre materno in Bolle (Sphiiren I), in cui-nel punto critico, dove l'indiscrezione arriva al culmine - viene posta innanzi l'immagine di una grotta joni, in India, che rappresenta un'immensa vagina, lascia all'immaginazione del lettore la visione dei rituali praticati da chi, passandovi attraverso, veniva iniziato. Nel Casanova di Fellini si vede un' altrettanto allusiva scena in cui appare la Grande Mouna, attrazione da fiera che rappresenta l'organo sessuale femminile, nella quale si può agevolmente entrare a piedi. Un certo esoterismo non ha nulla a che fare con l'oscura mistica, ma può innescare la capacità diandare oltre la cura in una zona poco esplorata come l'utero, dove un umanesimo conformista alle prese con i suoi scarti, con le sue macerie, con le sue ritirate non osa procedere. Per quanto riguarda la filosofia, si potrebbe dire che dove finisce l'alleanza umanistica tra la clerocrazia e il finto criticismo umanistico democratico iniziano la vulva della escort desiderata dal politico telecratico, l'utero preso in affitto per una migliore riproduzione, l'organo sessuale del transgender straniero cercato con ansia nella notte. Da questo punto di vista emerge in modo inaudito il significato del fallimento e del fallito nella filosofia. E la stessa filosofia nol) è forse null'altro che / l'arte di saper fallire. Nella Germania del xx secolo sono esistiti veramente un'arte del 31. Peter Sloterdijk, "An der Pforte der Bedeutsamkeit", in Der blaue Reiter, 25, 2007.

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fallimento e dei falliti accompagnati filosoficamente. Questo ha avuto origine nel fatto che i tedeschi hanno sviluppato l'esistenzialismo molto prima dei francesi, che invece lo hanno soltanto copiato durante l'occupazione tedesca. Le differenze sono notevoli: i tedeschi sono sempre stati esistenzialisti ostinati con interessi antropologici; invece, i francesi sono stati esistenzialisti oppositori con un focus politico. I francesi hanno usato, dell'esistenzialismo dei tedeschi, soltanto l'aspetto dell'opposizione politica, senza accorgersi che dietro il concetto di resistenza si celava la più ampia ostinatezza eroica: tutta la resistenza del tanto discusso Carl Schmitt, così come di Benjamin, sfugge ai parametri dell'Umanesimo progressista e non la si comprende se non si vede tutto ciò. 32 Non si rispolvera un autore degli anni Venti e Trenta, seguace di Nietzsche, dal nome di Hans Wiirtz, capostipite ideale della pedagogia statale tedesca per persone diversamente abili e pioniere di una nuova disciplina chiamata antropologia dei disabili, senza avere in mente la stringente problematicità dell'intera questione dell'antropologia filosofica nel monc do contemporaneo, che proprio nel momento dell'urgenza e della sua maggiore necessità rischia di bloccarsi. Qui emerge chiaramente cosa significhino veramente il teorema della vita come atto divolontà e il concetto nicciano di Ubermensch. Dopo la Prima guerra mondiale, in Germania esistevano 2,7 milioni di persone disabili: storpi, senza braccia, senza gambe, feriti alla testa: un'enciclopedia inimmaginabile di drammi e disastri. La disabilità divenne un tema epocale, e quando Freud parlò dell'uomo come dio delle protesi non fece altro che cogliere le battute dello spirito del tempo. Wiirtz credeva anche di avere scoperto che lo storpio non fosse altro che l'uomo del futuro, in base al quale si dovevano rivedere e ripensare tutti i quesiti e le categorie dell'umanità: il disabile creatore dell'uomo. In virtù della sua neotenia, l'uomo è un diversamente abile nella sua più intima natura, e il diversamente abile è il vero padre dell'uomo. Tutti gli autori occidentali che hanno iniziato a usare il disabile come paradigma dell'uomo hanno posto le condizioni per 32. Si dovrà approfondire in proposito, con calma, l'influenza diJacob Taubes (uno degli ultimi grandi rappresentanti dello spirito ebraico di lingua tedesca, morto nel marzo 1987) su Devi cambiare la tua vita e sull'opera di Sloterdijk in generale. Il ruolo qui svolto dall'escatologia e dalla teologia occidentale parrebbe evidente. L'autore, che ha vissuto un certo periodo a contatto con Taubes, deve averne ricavato indicazioni indelebili su come praticare il culto della buona memoria. Al momento si menzionaJacob Taubes, Ad Cari Schmitt. Gegenstreibige Fugung. Merve Verlag, Berlin 1987; ed. it. a cura di Elettra Stimilli, In divergente accordo, Quodlibet, Macerata 1999.

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una chiave di lettura dell'uomo per difetto. 33 L'uomo è uno storpio per natura, perché rappresenta perennemente una nascita prematura. Soltanto gli storpi, arriva a dire Sloterdijk, sopravviveranno. Devi cambiare la tua vita è una risposta molto radicale alla domanda: come l'uomo crea l'uomo? L'uomo si crea principalmente attraverso l'esercizio, l'ascesi, l'allenamento e le acrobazie che quotidianamente compie per la sua elevazione dalla mediocrità. Non tanto parlando di quesiti biologici e di tecnologia genetica, quanto scansando la vita dalla logica dei piccoli sgradevoli imperativi del tipo "Devi mangiare di meno!", "Non devi fumare!", "Devi praticare più sport! ", che noi tutti conosciamo. Adesso c'è qualcuno che prende molto più sul serio questo "Cambia vita!", perché "Cambia vita!" diventa esplicitamente "Cambia proprio la tua di vita!". E pretende molto di più dall'uomo. In quest'opera l'autore ci fornisce una riflessione filosoficamente fondante riguardo alle conseguenze della krisis globale per la nostra esistenza.34 L'epoca in cui la celeberrima frase di Nietzsche "Dio è morto" giunge al suo culmine, tale da lasciarci finalmente leggere la frase immediatamente successiva a essa, quella che di solito viene tralasciata: "E noi come possiamo vivere, senza?". Come potremo consolarci, dice Nietzsche, noi che siamo gli assassini di tutti gli assassini? Facendo l'amore? Facendo della politica? Battezzando case di cura per i più deboli o ospedali più funzionali e indispensabili? Sloterdijk vede una via d'uscita, ma il prezzo da pagare è molto alto, cosl egli esorta l'umanità a uscire da tutto ciò che è abitudine. E pretende veramente qualcosa di più da noi. Con un forte richiamo, egli mette piede nell'arena dei combattimenti spirituali che caratterizzano l'epoca delle tecnologie dello spirito ed esorta ognuno a cambiare la propria vita. Come un allenatore che rimprovera la sua squadra dopo un insuccesso, egli parla alla nostra coscienza. È evidente che le condizioni di vita, nel terzo millennio, saranno tutt'altro che piacevoli e confortevoli; non ci aiuteranno a rilassarci, non prometteranno fortuna a chi non è qualificato, e per questo abbiamo tutti la sensazione che la tensione nel mondo stia nuovamente crescendo. L'allenatore-filosofo, questa volta, si è prefissato un programma impegnativo, e con concentrazione ed equilibrio ha cercato di muo33. Vedi ahneno Louis Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Fischer, Jena 2006; tr. it. di Rossella Bonito Oliva, Il problema del!' ominazione, Derive Approdi, Roma2006. 34. Per una descrizione dei problemi filosofici fondamentali inerenti alla crisi vedi, tra i primi, Massimo Cacciari, Krisis, Feltrinelli, Milano 1975.

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versi attraverso gli ultimi tremila anni della storia dell'uomo osservando quali alte prestazioni l'Homo sapiens abbia richiesto a se stesso e come abbia tentato incessantemente di andare oltre i propri limiti, oltre se stesso, ricercando l'aiuto di maestri, guide, allenatori e ideologie per imparare nuove strategie di successo. E tuttavia Sloterdijk sottolinea senza equivoci che qualcosa è sempre andato storto. E con ciò l'intera formazione dell'uomo. Se ci guardiamo indietro, possiamo vedere i tagli alla scuola per privilegiare le nuove agenzie tecnospettacolari. Ma guardando ancora un po' più indietro possiamo vedere come le influenze egualitarie e antiautoritarie, e addirittura le ideologie bohémiennes, abbiano fatto sì che l'università è la scuola passassero di moda gettando al vento la politica educativa delle nazioni. Troppi hanno creduto che la scuola fosse soltanto un pretesto fine a se stesso, una sorta di gruppo di autoesperienza per i giovani e per le generazioni, e questo si è rivelato insufficiente. Tutta una serie di etiche basate sull'alfabeto umanistico non sono per nulla riuscite a trattenere la componente bestiale dell'uomo e ne hanno anzi favorito la pigrizia mentale e il "principio soporifero" incistato nel ragionamento. Da questo punto di vista la via di Sloterdijk pone il problema fondamentale di ogni educazione presente e a venire: la sfida dell'autoeducazione nei processi di civilizzazione. E così, dopo decenni di debolezza formativa, si va finalmente creando una concezione della formazione della sfera umana che tende a saldarsi con quella conversione (metanoia) eroica che ha caratterizzato sempre la vera filosofia. Per questo Devi cambiare la tua vita, per spessore e ampiezza, è il Della grammatologia dell' antropotecnica: perché indica al lettore il blocco antropologico-grammaticale che gli impedisce di vedere la propria vita come oggetto di ripetizione e di cambiamento. 35 Oltrepassando la soglia levinasiana di Totalità e infinito e, doppiando auto-operativamente il principio responsabilità, l'imperativo ecologico di Hans Jonas, attraverso l'episteme della survitalità e degli esercizi, giunge effettivamente sulla cuspide del Mount lmprobable, da cui si coglie l'intero orizzonte della biosfera e la problematicità della sua sopravvivenza: l'etica acrobatica come filosofia prima e come civiltà pedagogica. È necessario un cambiamento profondo dell'orientamento: al posto del miglioramento del mondo, il miglioramento di se stessi. Invece di rimanere sempre pigramente al campo base delle sociologie 35. Jacques Derrida, De la grammatologie, Éditions de Minuit, Paris 1967; ed. it. a cura di Gianfranco Dalmasso, Della grammatologia, Jaka Book, Milano 1969.

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o sprofondare negli inferi della banale malaripetizione, sperimentare che si può essere migliori di quello che si è. E ciò attraverso l' esercizio e l'allenamento nelle più svariate discipline: dall' a,tletica alla meditazione alla retorica alla culinaria alla conoscenza scientifica ... insomma, genericamente, più impegno nell'ampliamento delle proprie capacità. Qui si incontra il bivio dello sportivo e il compito ciclopico dell'età presente: o ritrovare l'antico sapore della capacità umana di compiere passi avanti fino alla sommità dell'improbabile e dell'impossibile, e in questo caso l'esercizio e l'allenatore diventano garanti della sperimentazione dell'eccesso, oppure proseguire sulla strada imboccata dell'autodistruzione, dove fan deboli di mente si stordiscono in forme di sport drogato da un atletismo altrettanto debole. Bisogna impegnarsi di più, sforzarsi di più, arrivare a un'autorevolezza che dia l'autorità necessaria a convincere coloro che stanno vivendo con poco sforzo a sforzarsi di più. La scalata dell'autorevolezza esige un taglio verticale tra ciò che io posso fare e tutto il resto del mondo. Esige più tensione verticale: il saper distinguere, anche, il sopra dal sotto, il buono dal cattivo, la velocità dalla lentezza ... e queste, si sa, sono forme di antiche gerarchie che emergono là dove si rende necessario parlare a nuove élite. Ci sarà un'élite di persone che riuscirà a rispondere alle esigenze del momento con mezzi più appropriati rispetto a quelli usati dalla massa. Saranno loro - non senza lottare, ma comunque con grande coraggio - a presentare il proprio carattere elitario e a proporre il proprio contributo, grazie a un temperamento in grado di cercare di mettere in pratica le risposte più efficaci alle crisi che inevitabilmente e drammaticamente si presenteranno. Queste crisi non promettono nulla di buono al pianeta e tanto meno a chi non è preparato. Tutto ciò non ha nulla a che fare con una logica di restaurazione reazionaria. In un mondo continuamente in crisi, le catastrofi che incombono richiedono più impegno, e queste sono esigenze reali e non richieste di un nuovo autoritarismo. Lo sguardo va orientato a nord del futuro, dove Sloterdijk viene a trovarsi sulla stessa linea d'onda di un filosofo classico o di un antico stilita che, al di sopra dei fatti della cronaca attuale, comincia a interrogare più radicalmente la sfera dell'umano e quel meglio che in essa si può creare o pervertire.36 Grandi 36. Si può notare come, su un territorio non eguale ma analogo, abbia portato la propria riflessione uno studioso come Ivan Illich: vedi The Rivers North o/the Future. The Testamento/ Ivan Illich as Told to David Cayley, Routledge, New York 2005; ed. it. a cura di Milka Ventura Avanzinelli, I/zumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, Macerata 2009.

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compiti spettano all'umanità, ai giovani e alle generazioni. Crisi e coercizioni senza precedenti dei desideri e dell'immaginazione saranno sempre più all'ordine del giorno; nuovi massacri e spargimenti di sangue sembrano anch'essi, purtroppo, tragedie da mettere in conto. Ma colui che saprà esigere da se stesso "Cambia la tua vita!" non avrà ancora perso la speranza. Il peggio, che si manifesta sempre quando si corrompe il meglio, potrà al contrario trovare soluzioni proprio là dove il pessimismo non l'avrebbe neppure lasciato cercare. In una impressionante, nuova situazione storica carica di incognite e di imprevisti si devono trovare risposte audaci e originali. Siamo destinati a diventare cittadini di un mondo globale con sette miliardi di persone oppure a soccombere. Il popolazionismo consumista, nome dell'attuale biopolitica, è destinato a portare con sé criticità enormi su cui, si è visto, noh è il caso di scherzare. Di qui passeranno le nuove selezioni. Sloterdijk insegna in modo pratico come prepararci attraverso un assiduo e giornaliero allenamento alle future sfide; forse solo un inizio, ma tale da portare a volgersi verso l'albeggiare di qualcosa d'importante, dove la luce del nuovo mattino vede finalmente la notte e la tenebra da cui proviene l'uomo, e reca con sé anche il leggero retrogusto di un puritano miglioramento del pianeta. Ora, Sloterdijk, pervenendo con la sua via per/ectionis sulla vetta del Mount Improbable muove, non si sa quanto inavvertitamente, un macigno bloccato tra i ghiacci da migliaia di anni: la vera natura del linguaggio e dell'uomo è minerale. Non è forse vero che in certi momenti le pietre parlano? Chi non sa che le parole diventano ali' occorrenza pietre o macigni? Sono le forme mineralogiche attorno alle quali gravita tutta l' autoformazione della sfera umana, che si schianta sotto il suo stesso peso: vocaboli come proiettili o corpi contundenti da usarsi nell'atavica lotta per la sopravvivenza. Non si deve cadere qui nel trabocchetto del chiarimento umanistico; piuttosto, occorre smuovere il suo blocco antropologico-grammaticale banalizzato, così che, dalle sue ripetizioni maligne -la cultura dei Lager, l'enorme erosione della scuola, il disastro autoreferenziale del1' arte moderna -, rimbalzando come un sasso che rotola per l'immane parete cui danno la scalata tutti i praticanti e i cercatori di successo di questo pianeta, si scagli nell'abisso dell'uomo, si ampli e si deformi fin dentro le profondità della Terra. Ciò genera un movimento tellurico di increspamenti geologici che investe l'intera ecologia della biosfera del pianeta vivente. E provoca uno scompaginamento di tale portata che, d'ora in poi, ci saranno non più solo due

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tipi, ma ahneno tre tipi di filosofia: la filosofia continentale, la filosofia analitica e, in una posizione di mezzo tra le due, la filosofia acrobatica o antropotecnica. Ma, a ben guardare e riflettendo meglio sull'immane onda anomala di esercizi scaraventata sulla terra filosofica divisa dall'oceano in filosofi analitici e filosofi continentali, la panoramica ne risulta tanto sfrangiata e devastata che del territorio analitico resta ben poca cosa e la metafisica continentale già viene inglobata nei suoi stessi esercizi. Che la si chiami nuova antropologia filosofica o filosofia acrobatica, essa verrà sempre a trovarsi in una posizione di entre deux tra la filosofia analitica e la filosofia continentale, con la tendenza a spazzar via entrambe per creare un nuovo agonismo orientato verso una vita verticale intesa come civilizzazione pedagogica. E ciò vale per la scienza. La morte apparente del pensiero coincide con la storia interiore dell'osservatore, richiede non più solo due, ma ahneno tre tipi di scienza: le scienze dure, le scienze morbide e la scienza come esercizio che rende sempre più faticoso mantenere la distinzione tra scienze dure e scienze morbide perché pone innanzi tutta l'ineluttabilità di una scientificità in azione. 37 Sulla scia dei pionieristici lavori del filosofo e pedagogo Paul Rabbow, che ha mostrato come la tradizione degli esercizi sia una sorta di fenomeno carsico che compenetra e filtra l'intera storia della filosofia,38 Sloterdijk dimostra che il futuro del pianeta appartiene alla capacità di rispondere alla domanda: che cosa è veramente importante nella mia vita? L'uomo può imparare a morire, finahnente? Devi cambiare la tua vita! La voce da cui Rilke si è sentito interpellato al Louvre di fronte all'antico torso di Apollo si è staccata, nel frattempo, dalla sua origine e nel giro di un secolo è confluita nello spirito del tempo globale generale. Anzi, è diventata il contenuto ultimo e definitivo di tuttala comunicazione che permea e attraversa sibilante il globo. Non si può negare che, nel mondo attuale, l'unico dato di fatto di importanza etica universale sia l'idea - oggi diffusa ovunque e da tutti condivisa in modo sempre più presente - che così (il pianeta) non possa più andare avanti. La rivoluzione necessaria è la stessa che da sempre accompagna l' awentura antropologica del.3 7. Bruno Latour, Science in Action, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1987; tr. it. di Silvio Ferraresi, La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Torino 1998. 38. Paul Rabbow, Seelenfiihrung. Methodik der Exerzitien in der Antike, Kosel Verlag, Miinchen 1954. Vedi anche, dello stesso autore, Paidagogia. Die Grundlegung der abendllindischen Erziehungskunst in der Sokratik, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1956.

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l'uomo, dal suo sorgere come Homo sapiens fino all'antropotecnica dell'Homo sapiens-demens. L'uomo è precisamente l'essere il quale, nel superare la propria natura, mette in gioco la sua stessa vita, la sopravvivenza della specie umana e la vita del pianeta. Il fatto di rialzare il capo, di guardare alla cima, consente di udire ancora il grido assoluto che proviene dalla pietra, poiché molti sono gli uomini desiderosi di partecipare a questo o a quel successo, di togliersi questa o quella soddisfazione profonda nella propria vita, di arrivare a questa o a quella rivoluzione personale, sociale, planetaria, ma solo pochi sono disponibili a prepararsi davvero a farla (la rivoluzione). Andare oltre l'indolenza della propria natura umana, elevarsi, sollevarsi è già, sempre, il primo passo di questa e di ogni scalata.

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Avanza vigilando!

Mahaparinibbana Sutta 6,7 Soprattutto, e prima di tutto, le opere! Cioè esercizio, esercizio, esercizio! La "fede" a ciò necessaria verrà al momento giusto - siatene certi! FRIEDRICH NIETZSCHE

INTRODUZIONE LA SVOLTA ANTROPOTECNICA

Uno spettro si aggira nel mondo occidentale: lo spettro della religione. Ovunque ci viene assicurato che, dopo una lunga assenza, esso ha fatto ritorno tra gli individui del mondo moderno e che sarebbe bene tener conto seriamente della sua nuova presenza. Diversamente dallo spettro del comunismo, il quale, quando apparve il suo Manifesto nel 1848, non rappresentava un fenomeno di ritorno, ma, tra le varie minacce possibili, costituiva una vera novità, il fantasma attuale corrisponde pienamente alla sua natura ricorsiva. Che consoli o minacci, che venga salutato come spirito buono o temuto come proiezione irrazionale dell'umanità, la sua comparsa, anzi, già il suo semplice annuncio gli procura rispetto, ovunque si rivolga lo sguardo (esclusa forse loffensiva ateista nell'estate del 2007, alla quale dobbiamo due dei più superficiali pamphlet prodotti dalla storia del pensiero contemporaneo, firmati Christopher Hitchens e Richard Dawkins). Le potenze della vecchia Europa si sono associate in una pomposa festa di benvenuto, dove si riuniscono ospiti tra loro eterogenei come il papa e gli eruditi islamici, i presidenti americani e i nuovi governanti del Cremlino, tutti i Metternich e i Guizot dei nostri giorni, gli esperti francesi di amministrazione e i sociologi tedeschi. Di fronte a questo tentativo di restituire alla religione i suoi antichi diritti, un tempo garantiti, si impone la necessità di adottare un protocollo disciplinare che esiga, dai nuovi convertiti e da chi è rimasto recentemente folgorato, la confessione dei propri precedenti errori di giudizio. Come ai tempi del primo merovingio, il quale si convertì alla croce in seguito a una vittoria militare, anche al giorno d'oggi i figli dell'illuminismo banalizzato dovrebbero bruciare ciò che prima avevano adorato e adorare ciò che prima avevano bru-

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ciato. 1 In occasione di questa svolta vengono messe in scena profonde intuizioni liturgiche. Ai novizi della "società" postsecolare si richiede una pubblica presa di distanza dai dogmi elaborati, nei secoli dell'lliuminismo, dalla critica delle religioni. A quell'epoca sembrava che l'autodeterminazione umana sarebbe stata raggiungibile solamente se i mortali fossero tornati in possesso delle energie da loro dissipate occupandosi del mondo ultraterreno e le avessero impiegate per ottimizzare la loro condizione terrena. Si dovettero sottrarre a "Dio" grossi quanta di energia, al fine di essere in piena forma per il mondo umano. Su questo trasferimento di energia si fondò l' élan dell'epoca, ribattezzato con il grandioso sostantivo singolare "progresso". L'aggressività umanistica fu tale da elevare la speranza a principio. Le provviste dei disperati sarebbero diventate il primum mobile di tempi migliori. Chi si dichiarava seguace di questa causa prima sceglieva la Terra come meta della sua migrazione, per trovare in essa, e solamente in essa, la propria realizzazione. Ciò significava rompere tutti i ponti con le sfere lassù in alto e investire tutte le energie così liberatesi nell'esistenza profana. Nel caso in cui Dio esista, sarebbe rimasto, in quel periodo, la grandezza più solitaria dell'universo: la migrazione dall'aldilà assunse i tratti di una fuga di massa, a confronto della quale la situazione demografica attuale dell'Europa orientale, assai smagrita, sembra in condizioni di sovrappopolazione. Che la gran massa, per nulla turbata dalle ideologie dell'immanenza, si concedesse qualche escursione segreta oltre confine, anche nei giorni dell'lliuminismo trionfante, è un altro paio di maniche. Nel frattempo, stimoli di tutt'altro genere hanno preso il sopravvento. La situazione è determinata da percezioni complesse circa le opportunità offerte agli individui. L'lliuminismo, riflettendo sulla propria immagine, ha svelato i propri paradossi, è penetrato perfino in quegli ambiti dove le cose, tanto per citare un celebre narratore, "diventano complicate e tristi". Dell'antica, incondizionata spinta in avanti sono rimasti in vigore solamente stanchi residui. Non trascorrerà molto tempo e gli ultimi custodi della speranza e dello stile illuministico si ritireranno in campagna, come fossero Amish della Postmodernità. Altri, progressisti per l'eternità, segui1. "Incende quod adorasti et adora quod incendisti": secondo la cronaca di Gregorio di Tours, il vescovo di Reims, Remigio, pronunciò queste parole mentre Clodoveo I, re dei Franchi, convinto, dopo la battaglia di Ziilpich, di godere del favore di Cristo, si immergeva nel fonte battesimale "come nuovo Costantino".

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ranno il richiamo di qualche organizzazione non governativa che si è prescritta il compito di salvare il mondo. Per tutti gli altri, i segni dei tempi indicano revisione e regresso. Non pochi contemporanei delusi vorrebbero rifarsi dei danni subiti sui produttori e sui distributori delle loro illusioni progressiste, come se fosse possibile appellarsi a una tutela dei consumatori nell'ambito delle idee. L'archetipo giuridico della nostra epoca, il processo per risarcimento danni, passa in altri ambiti della vita. Non abbiamo forse imparato, dalle sue varianti americane, come si debbano pretendere all'inizio somme esorbitanti, per poi ottenere, alla fine della battaglia legale, indennizzi magari soltanto parzialmente soddisfacenti? È chiarissimo come i posteri di coloro che furono scacciati dal cielo aspirino a ottenere copiose riparazioni, anzi, azzardino il sogno di un risarcimento epocale. Se le cose andassero secondo i loro desideri, si dovrebbe invertire tutto il processo di espropriazione del mondo ultraterreno. Alcuni imprenditori scopertisi di nuovo religiosi rimetterebbero in funzione, magari dall'oggi al domani, i siti per la produzione metafisica prima dismessi, come se si fossero lasciati alle spalle una semplice recessione. L'illuminismo europeo come deformazione? Quanto meno un esperimento su di un piano inclinato e, visto nell'ottica globale, un'anomalia. I sociologi della religione lo affermano senza mezzi termini: ovunque nel mondo si continua ad avere fede e a credere con forza, solamente da noi si è esaltato il disincanto. In effetti, perché solamente gli europei dovrebbero continuare la dieta metafisica, mentre il resto del mondo banchetta sereno alla tavola imbandita dell'illusione? Vorrei ricordare che Marx ed Engels scrissero il Manifesto comunista con l'intento di sostituire la leggenda dello spettro di nome "comunismo" con un' autoattestazione aggressiva dell'autentico comunismo. Dove aveva regnato semplice timore degli spiriti, avrebbe dovuto sorgere una motivata paura dinnanzi a un reale nemico dell'esistente. Anche il presente libro è dedicato alla critica di una leggenda e alla sua sostituzione con una tesi positiva. In effetti, alla leggenda di un ritorno della religione in seguito al "naufragio" dell'illuminismo bisogna contrapporre una visione ancor più netta dei fatti spirituali. Mostrerò che un ritorno di interesse per la religione non è certo più probabile di un ritorno della religione stessa, per il semplice motivo che la "religione" non esiste né esistono le "religioni", ma soltanto mal compresi sistemi di esercizio spirituale, sia che essi vengano praticati a livello collettivo (originariamente: chiesa,

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ordo, umma, sangha) sia che vengano eseguiti a livello individuale, interagendo con quel "Dio personale" al quale i moderni borghesi si sono affidati privatamente. In tal modo, l'incresciosa distinzione tra "vera religione" e superstizione perde consistenza. Esistono solamente sistemi di esercizio più o meno capaci di diffusione, più o meno degni di diffusione. Viene meno anche l'errata distinzione tra credenti e non-credenti, sostituita dalla distinzione tra praticanti e chi non si esercita, o meglio, chi esegue esercizi diversi. In effetti, oggi qualcosa sta tornando in auge, ma che si tratti della religione che annuncia il proprio ritorno, come si ripete di consueto, è una notizia che non può soddisfare le istanze critiche. Non si tratta nemmeno del ritorno di una grandezza nel frattempo scomparsa, bensì di un cambiamento di accento in un continuum mai interrotto. Ciò che realmente fa ritorno, ciò che ha meritato tutta questa attenzione intellettuale, possiede in realtà un vertice antropologico anziché "religioso": per esprimerci in una parola, si tratta di guardare dentro la costituzione immunitaria della natura umana. Dopo esperimenti secolari con nuovi modi di vivere, vediamo ora chiaramente che gli esseri umani, a prescindere dalle condizioni etniche, economiche e politiche in cui vivono, esistono non solo all'interno di "rapporti materiali", bensì anche dentro sistemi immunitari di natura simbolica e dentro vesti rituali. Nel nostro libro parleremo proprio di questo tessuto. Nel corso dell'esposizione si capirà anche perché i suoi telai siano designati con l'algida espressione di "antropotecniche". Vorrei compiere il primo passo per giustificare l'interesse nei confronti di questi oggetti ricordando la celebre richiesta di Wittgenstein, ossia di porre fine alle "chiacchiere sull'etica". Nel frattempo è diventato possibile riformulare in termini antropotecnici quella parte del discorso etico che non è fatta di chiacchiere. Fin dagli anni Quaranta del XIX secolo, il lavoro speso per questa traduzione costituisce - anche se veniva ancora chiamato con altri nomi - il nucleo incerto dei moderni cultura! studies. Per un istante il programma etico attuale fu messo nettamente a fuoco, allorquando Marx e i giovani hegeliani articolarono la tesi che è l'uomo stesso a generare l'uomo. In un batter d'occhio, il significato di questa frase venne scalzato da un'altra chiacchiera, la quale parlava del lavoro come unica azione essenziale dell'essere umano. Ma se davvero l'uomo produce l'uomo, non è certo attraverso il lavoro e i suoi risultati oggettivi, nemmeno mediante il "lavoro su se stessi", ultima-

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mente così celebrato, né infine tramite !"'interazione" o la "comunicazione", evocate in alternanza. L'uomo produce l'uomo attraverso una vita di esercizi. Definisco "esercizio" ogni operazione mediante la quale la qualificazione di chi agisce viene mantenuta o migliorata in vista della successiva esecuzione della medesima operazione, anche qualora essa non venga dichiarata esercizio. 2 Chi parla di autoproduzione dell'essere umano senza dire che si compie nella vita incentrata sull'esercizio ha mancato fin dall'inizio la tematica. Dobbiamo quindi tenere in sospeso praticamente tutto ciò che è stato affermato sull'essere umano quale lavoratore, al fine di tradurlo nella lingua dell'esercizio, o meglio, della condotta che plasma e perfeziona se stessa. Non solo l'esausto Homo faber, che oggettiva il mondo nella modalità "fare", deve abbandonare il suo posto al centro del proscenio logico: anche l'Homo religiosus, che si rivolge al mondo ultraterreno con riti surreali, è tenuto a prendere il meritato congedo. Lavoratore e credente entrano insieme sotto l'arco di un nuovo e più ampio concetto. È tempo di disvelare l' essere umano come quell'essere vivente che nasce dalla ripetizione. Così come, dal punto di vista cognitivo, l'Ottocento si trovava sotto il segno della produzione, mentre il Novecento sotto il segno della riflessività, l'avvenire si presenterà sotto il segno dell' exercitium. L'impegno richiesto non è poco. La nostra impresa consiste niente meno che nell'introdurre un linguaggio alternativo, e insieme a esso un'altra ottica, rispetto a un gruppo di fenomeni che la tradizione soleva definire con espressioni quali "spiritualità", "devozione", "morale", "etica" e "ascesi". Se la manovra dovesse riuscire, il concetto tradizionale di religione, quel fatale spauracchio conservat.o dietro le quinte dell'Europa moderna, risulterebbe il grande sconfitto nel quadro di queste indagini. Certo, da sempre la storia delle idee assomiglia a un luogo d'asilo per concetti malformati; tuttavia, lungo le varie stazioni che percorreremo, non indagheremo la concezione di "religione" solamente in relazione al suo design fallimentare, una concezione che quanto a malformazione viene superata solamente dal super-spauracchio di nome "cultura". Cercheremo anche di capire perché, a fronte di modalità espositive diverse, 2. Approfondimenti sul concetto di esercizio si possono trovare nei paragrafi dedicati alla scoperta della pedagogia (infra, pp. 241 sgg.), alla formazione dell'habitus (infra, pp. 224 sgg.), àl circulus virtuosus (infra, pp. 391 sgg.) nonché nei primi tre paragrafi del capitolo 12 (infra, pp. 497-506).

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sarebbe altrettanto assurdo prendere posizione in favore della bigotteria critica, che alle nostre latitudini, da circa un paio di secoli, si presenta in veste di ateismo di facciata: una sorta di saluto al cappello di Gessler, che gli intellettuali raffinati hanno tributato di buon grado ogni volta che gli sono passati dinnanzi, non senza pretendere per sé, in tali occasioni, il predicato di "intellettualmente onesto" oppure a scelta: "critico" o "autonomo". Adesso occorre ruotare l'intero palcoscenico di 90 gradi, fino a quando non si riesca a vedere il materiale religioso, spirituale ed etico da un punto di vista nuovo e proficuo. Ripeto, l'impegno richiesto è notevole. Dobbiamo infatti scontrarci con una delle più massicce pseudoevidenze della storia spirituale contemporanea: con quella fede nell'esistenza di "religioni" che imperversa in Europa da appena due-tre secoli, o piuttosto, con quella fede non verificata nell'esistenza della fede. La fede nel dato di fatto chiamato "religione" è l'elemento che accomuna, ieri e oggi, credenti e non credenti. Essa è talmente imperturbabile che tutti i Prefetti della Congregazione delle fede dovrebbero impallidire per l'invidia. L'ecumene degli equivoci ha superato indenne i tempi moderni. Fra coloro che sono andati oltre la religione, nessuno ha mai messo in dubbio la sua esistenza, per quanto se ne contestasse ogni singolo dogma. Rifiutarla non ha mai significato chiederle se il nome che portava fosse appropriato e se, in quanto tale, avesse una qualche consistenza. Soltanto perché siamo abituati a una finzione relativamente recente (entrata in uso solo dal XVII secolo) possiamo discutere oggi di un "ritorno della religione" .3 A fondamento della leggenda attuale ' troviamo, in realtà, la fede intatta nella religione in quanto grandezza costante e universale che può sp,arirsene e far ritorno. Mentre la psicoanalisi eresse il proprio edificio sul teorema del ritorno di ciò che è stato rimosso, un'analisi delle idee e delle condotte, come quella che presentiamo in questa sede, si rifà al teorema del ritorno di ciò che non è stato compreso. Fenomeni di circolarità come questi sono inevitabili finché non si comprenda a sufficienza, nella sua peculiarità, ciò che è stato, che sprofonda e che nuovamente affiora. Il proposito di andare alla radice della questione può avere buon esito solamente evitando di assumere atteggia3. Edward Herbert von Cherbury (1583-1648), con i suoi scritti intitolati De Veritate (1624), De Religione Gentilium e De Religione Laici (1645), può essere considerato il capostipite di quella che in seguito verrà chiamata filosofia della religione.

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menti di adesione o di rifiuto rispetto all'oggetto di studio, e prendendo piuttosto le mosse da una spiegazione approfondita. Si tratta di un progetto avviato da un'avanguardia di studiosi dell'Ottocento e del primo Novecento, sebbene si sia riconosciuta ormai da molto tempo l'inadeguatezza degli strumenti in loro possesso: penso ad autori come Feuerbach, Comte, Durkheim e Weber. Eppure, nelle loro ricerche, le cosiddette religioni in quanto sistemi di condotta simbolicamente regolati assunsero contorni sempre più definiti, sebbene, owiamente, l'esercizio come essenza della condotta "religiosa", insieme al suo consolidamento in procedure destinate a plasmare chi l'esegue, fosse ancora ben lungi dal trovare una formulazione adeguata. Soltanto l'ultimo Nietzsche, nelle sue riflessioni dietologiche degli anni Ottanta (si pensi alle relative pagine di Ecce homo, il suo scritto di autocrocifissione), ha prodotto spunti per una dottrina dell'esercizio utile alla vita, o meglio, per una teoria generale dell'ascesi (allgemeine Asketologie). I lettori superficiali potrebbero fraintenderle, vedendovi un regresso della filosofia al livello farmaceutico. 4 Ma chi le studia con la dovuta attenzione può scoprirvi le idee embrionali di una teoria complessiva dell'esistenza incentrata sull'esercizio. Qui proponiamo una traduzione dei fatti religiosi, spirituali ed etici nella lingua e nell'ottica di una teoria generale dell'esercizio. Tale traduzione si presenta come un'impresa finalizzata alla conservazione della tradizione illuministica, anzi, addirittura come un'impresa di per sé conservatrice. A suo fondamento troviamo infatti un interesse a preservare; inteso in un duplice senso: da un lato, tale impresa punta dichiaratamente a preservare la continuità di quel1' apprendimento cumulativo che chiamiamo illuminismo e che noi contemporanei, a dispetto di tutte le voci su una condizione "postsecolare" nella quale saremmo recentemente entrati, continuiamo a portare avanti in quanto contesto di apprendimento caratteristico della Modernità e operante ormai da ben quattro secoli. Dal1' altro lato, questa impresa riprende i fili, alcuni dei quali millenari, che ci legano a primitive manifestazioni di quel sapere umano ba4. Tipico di questo atteggiamento è Oswald Spengler, Il tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. it. Longanesi, Milano 1981, il quale intese la svolta nicciana verso la consapevolezza dell'arte di vivere come un sintomo del "climaterio della civiltà" (p. 539). Egli vi vide un esempio di decadenza, che a suo avviso caratterizzava lo stadio di "civilizzazione" raggiunto dalle civiltà. Nel corso del suo sviluppo, le sublimi visioni del mondo di natura metafisica decadono a semplici orientamenti per individui presi dalle loro preoccupazioni quotidiane e digestive.

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sato sull'esercizio e sulla vitalità ... sempre che si sia disposti a ricollegarvisi esplicitamente. Ecco dunque che abbiamo pronunciato la parola chiave per tute to ciò che si leggerà da qui in poi. La parola "esplicitamente", impiegata in relazione agli oggetti designati, contiene l'intero libro in nuce. La menzionata rotazione del palcoscenico sul quale si svolge la storia dello spirito non è altro che una manovra logica per esplicitare condizioni presenti nel coacervo delle tradizioni, ma solo in forme "implicite", vale a dire inspiegate (in sich elnge/altet) e compresse (zusammengedrlingt). Se, sotto l'aspetto tecnico, Illuminismo rappresenta il vocabolo programmatico per indicare il progresso compiuto nella consapevolezza dell'esplicazione, è lecito affermare, senza timore di usare formule roboanti, che rendere esplicito l'implicito costituisce la forma cognitiva del destino. Se così non fosse, in nessuna epoca si sarebbe potuto credere che il sapere più tardo debba allo stesso tempo essere il migliore: su questa supposizione, com'è noto, poggia tutto ciò che noi, da secoli, esprimiamo con il termine "ricerca". Solamente quando le "cose" o le circostanze inspiegate tendono autonomamente a dispiegarsi e a diventarci più comprensibili è lecito parlare (nella misura in cui il dispiegamento riesce) di autentico incremento del sapere. Unicamente nella misura in cui le "materie" sono spontaneamente disposte (o si vedono costrette dall'indagine che viene loro imposta) a venire alla luce su superfici ingrandite e meglio illuminate, si può seriamente affermare (e qui "seriamente" significa: con enfasi ontologica) che esiste scienza in progress, che esiste un reale guadagno conoscitivo, che esistono spedizioni attraverso le quali noi, il collettivo impegnato a livello epistemico, penetriamo in continenti conoscitivi nascosti, tematizzando ciò che fino a quel momento era rimasto non tematizzato, portando alla luce ciò che ancora è ignoto e trasformando in sapere esplicito ciò che sappiamo solamente in maniera oscura. In tal modo moltiplichiamo il capitale cognitivo della nostra società, un termine, quest'ultimo, che scriviamo senza virgolette. In passato, forse, si sarebbe detto che il lavoro del concetto sfocia in una "produzione". Hegel si spinse tanto lontano da dichiarare che la verità è essenzialmente risultato e che perciò, inevitabilmente, si trova soltanto alla fine del proprio dramma. Dove essa si disvela con una figura delineata, lo spirito umano festeggia la domenica della vita. Poiché in questa sede non mi voglio occupare del concetto di concetto e poiché ho in animo qualcos'altro rispetto alla concezione del lavoro, mi accontento di una tesi 10

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un po' meno trionfalistica, ma non per questo meno impegnativa: c'è qualcosa di nuovo sotto il sole a livello cognitivo. La novità del nuovo, come ho osservato, va ricondotta al dispiegamento di ciò che è conosciuto sopra superfici più grandi, più chiare, più profilate. Di conseguenza, essa non può mai essere innovativa in senso assoluto, giacché sempre costituisce anche la prosecuzione con altri mezzi di ciò che è già disponibile dal punto di vista cognitivo. Per questa ragione, novità e maggiore esplicazione convergono. Ne deriva che, quanto più elevato è il grado di esplicazione, tanto più profonda sarà la possibile, anzi, inevitabile stranezza (Be/remdlichkeit) del sapere appena acquisito. Finora ho considerato una convenzione che questo tavolo sia di legno di ciliegio. Prendo poi atto con la tolleranza della persona istruita che il legno di ciliegio si compone di atomi, quantunque i citatissimi atomi, questi coetanei epistemologici del XX secolo, si trovino ancora, ai miei occhi, al medesimo livello di realtà dell'unicorno e degli influssi di Saturno. In quanto utente finale dell'Illuminismo fisicalistico, devo anche accettare che gli atomi di ciliegio, attraverso un'ulteriore esplicazione, si dissolvano in una nebbia di inezie subatomiche pressoché inesistenti, sebbene ciò finisca decisamente per compromettere le mie ipotesi circa la sostanzialità della sostanza. L'ultima spiegazione mi illustra con la massima intensità come il sapere più recente tenda a essere anche il più strano. Nella gran quantità di novità cognitive comparse sotto il sole moderno, nessuna, per quanto concerne la portata degli effetti prodotti, è comparabile, anche solo lontanamente, con la scoperta e la conoscenza dei sistemi immunitari nella biologia ottocentesca. Da allora, nelle scienze, nulla di ciò che è integro può più rimanere come prima: organismi animali, specie naturali, "società'', culture. Con qualche iniziale esitazione si è compreso che sono i dispositivi immunitari l'elemento tramite il quale i cosiddetti sistemi, gli esseri viventi e le culture diventano tali in senso proprio. Unicamente per via delle loro qualità immunitarie essi salgono nella gerarchia delle unità capaci di auto-organizzarsi, di conservarsi e di riprodursi in costante relazione con un ambiente potenzialmente e concretamente invasivo e infettivo. Queste attività sono sviluppate in misura particolarmente impressionante nei sistemi immunitari di tipo biologico, la cui scoperta risale alle ricerche condotte alla fine del XIX secolo da Il'ja Il'ic Mecnikov e dagli allievi di Robert Koch, soprattutto da Paul Ehrlich. Dal funzionamento di tali sistemi traspare la sbalorditiva idea secondo la quale già esseri viventi relativamente semplici, co-

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me insetti o molluschi, posseggano una sorta di "preconoscenza" innata dei tipici rischi mortali cui possono andare incontro. Di conseguenza, i sistemi immunitari, a questo livello, si possono definire come attese di vulnerabilità installate nel corpo, con relativi programmi a priori di protezione e riparazione. Vista in questa luce, la vita stessa appare come una dinamica di integrazione dotata di competenze autoterapeutiche ovvero "endocliniche", la quale si rapporta a uno spazio dominato dall'imprevisto, diverso e peculiare a seconda della specie. Alla vita spetta una competenza per le ferite e le invasioni che regolarmente subisce nel1' ambiente cui è stata rigidamente destinata ovvero nello spazio da essa conquistato, una competenza sia innata sia, negli organismi superiori, acquisita tramite adattamento. Si potrebbero descrivere altrettanto bene tali sistemi immunitari come preformazioni nell' organismo di un senso della trascendenza. Grazie all'efficienza di questi congegni continuamente pronti a scattare, l'essere vivente affronta attivamente i suoi potenziali nemici mortali, contrapponendogli la capacità specifica del proprio corpo di superare i fattori letali. Per via di queste prestazioni, i sistemi immunitari di tal genere sono stati paragonati a una "polizia del corpo" o a una milizia confinaria. Poiché tuttavia, già a questo livello, bisogna concordare un modus vivendi con potenze straniere e invisibili (e per giunta, nella misura in cui possano rivelarsi letali, con potenze "superiori" e "perturbanti"), troviamo qui un livello preliminare di quella condotta che, in contesti umani, si è soliti designare religiosa o spirituale. Per ogni organismo la trascendenza è rappresentata dal proprio ambiente e quanto più astratta e sconosciuta è la minaccia proveniente da quell'ambiente, tanto più trascendenti saranno le forme in cui essa si presenta. Ogni gesto dell"'essere trattenuto" nell'aperto ("Hineingehaltensein" ins Offene), per dirla con Heidegger, comporta la necessità preventiva, da parte del sistema vivente, di essere pronto a incontrare forze in grado di infettarlo e invaderlo in misura potenzialmente letale. "Con tutti gli occhi la creatura vede I l'aperto", stabilisce Rilke all'inizio dell'Ottava elegia: la vita stessa è un esodo che rapporta qualcosa di interiore all'ambiente. Dal punto di vista evolutivo, il passaggio nell'aperto avviene gradualmente: sebbene in pratica tutti gli organismi o gli esseri integri trascendano negli spazi di primo grado dominati dall'imprevisto e dal conflitto, spazi che talvolta sono loro attribuiti come ambienti (accade perfino con le piante e a maggior ragione con gli animali), quelli che raggiungono il

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movimento trascendente di secondo livello sono pochissimi, per quanto ne sappiamo solamente gli esseri umani. In virtù di questo fenomeno l'ambiente, Umwelt, perde i confini e diventa mondo, Welt, in quanto ambito che integra fattore manifesto e fattore latente. Il secondo passo è opera della lingua. Essa non solo costruisce la "casa dell'essere" (Heidegger trae la locuzione dagli animali di Zarathustra, che rimproverano il Convalescente: "In eterno si ricostruisce da principio la casa dell'essere"), ma è anche il veicolo per quelle tendenze a lasciare la casa, con le quali l'essere umano va incontro all'aperto in forza delle sue eccedenze interiori. Inutile spiegare perché solamente con il secondo trascendimento faccia la sua comparsa il più antico parassita del mondo, il mondo ultraterreno .. Rinuncio a trarre fin da ora le conseguenze di queste riflessioni per l'ambito umano. Per il momento è sufficiente stabilire che la prosecuzione dell'evoluzione biologica in quella sociale e culturale conduce a una stratificazione dei sistemi immunitari. Abbiamo ragione di pensare che, nel caso degli esseri umani, non si debba fare i conti soltanto con un unico sistema immunitario, quello biologico, che in . ottica evoluzionistica troviamo al primo posto, ma che nella storia delle scoperte è invece all'ultimo. Nella sfera umana esistono almeno tre sistemi immunitari, i quali, sovrapponendosi l'uno all'altro, cooperano in un profondo intreccio reciproco e si integrano in termini funzionali: oltre al sostrato biologico ampiamente automatizzato e indipendente dalla coscienza, sono andati formandosi nell'essere umano, nel corso della sua evoluzione mentale e socioculturale, due sistemi integrativi finalizzati al trattamento preventivo delle lesioni: da un lato, le pratiche socioimmunologiche, in particolare quelle di tipo giuridico e solidaristico, ma anche militare, con le quali gli esseri umani che vivono in "società" risolvono le loro controversie con aggressori lontani ed estranei e con elementi oltraggiosi o nocivi vicini. 5 Dall'altro lato, le pratiche simboliche ovvero psicoimmunologiche, con l'ausilio delle quali, fin dai tempi antichi, gli esseri umani riescono a far fronte più o meno bene alla loro vulnerabilità dovuta al destino, inclusa la mortalità, attraverso misure di prevenzione immaginaria e di equipaggiamento mentale. 6 Per ironia della 5. Sul "sistema giuridico come sistema immunitario del sistema sociale" vedi Niklas Luhmann, Sistemi sociali: fondamenti di una teoria generale, tr. it. il Mulino, Bologna 1990, pp. 578 sgg. 6. Con problemi di questo tipo si confronta, tra l'altro, la nuova scienza della psico-neuro-immunologia, la quale si occupa dell'intreccio tra più sistemi di trasmettitori (sistema nervoso, sistema ormonale, sistema immunitario).

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sorte, questi sistemi sono in grado di esplicare la loro parte oscura sebbene, fin dall'inizio, esistano in modo indipendente dalla coscienza e si considerino grandezze invisibili a se stesse. Essi non funzionano alle spalle dei soggetti, ma sono al contrario del tutto inseriti nel~ la loro condotta intenzionale. Dall'esterno è tuttavia possibile raggiungere una comprensione migliore di questi sistemi rispetto a quella ottenuta dai suoi sproweduti portatori: è solo perché le cose stanno in questo modo che la scienza della cultura è possibile. E giacché un approccio non ingenuo ai sistemi immunitari di tipo simbolico è oggi diventato una condizione indispensabile per la soprawivenza delle "civiltà", la scienza della cultura è anche necessaria.7 In questo libro ci occuperemo soprattutto, com'è naturale che sia, delle manifestazioni del terzo livello immunitario. Raccoglierò materiali per una biografia dell'Homo immunologicus, lasciandomi condurre in questa operazione dall'ipotesi che, in questo contesto, occorra soprattutto trovare la sostanza di cui sono costituite le antropotecniche. Con questo termine intendo le condotte mentali e fisiche basate sull'esercizio, con le quali gli esseri umani delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico sia sociale, dinnanzi a vaghi rischi pet la propria vita e a profonde certezze di morire. Solamente dopo aver disposto queste procedure in un ampio tableau dell'umano "lavoro su di sé", possono essere valutati i più recenti esperimenti di manipolazione genetica, ai quali spesso viene ridotto, nel dibattito attuale, il concetto di "antropotecnica", reintrodotto nel 1997.8 Le mie opinioni attuali su questo argomento verranno fornite nel corso dell'espo~izione mediante accenni ad hoc. L'orientamento della mia posizione può già essere dedotto, tuttavia, dal titolo di questo libro. Tenendo presente che esso è: "Devi cambiare la tua vita!" e non: "Dovresti modificare la vita!", si capisce già, a prima vista, il nocciolo della questione. 9

7. Sull'importanza che sopravviva una scienza della cultura nel contesto globale vedi infra, pp. 545 sgg., il capitolo intitolato "Sguardo in avanti". 8. Vedi Peter Sloterdijk, "Regole per il parco umano", cit. Peraltro, il concetto venne già utilizzato durante gli anni eroici della Rivoluzione russa: lo possiamo trovare nel terzo volume della Grande enciclopedia sovietica del 1926, dove esso designava soprattutto le possibilità, anticipate per via speculativa, delle manipolazioni biotecniche sulla sostanza genetica dell'essere umano. 9. L'antitesi tra autoperfezionamento o riforma di sé (Selbstverbesserung) e miglioramento o riforma del mondo (Weltverbesserung), decisiva in questo contesto, verrà discussa più avanti, nella terza parte, in cui si parla della crescente esteriorizzazione dell'imperativo metanoico.

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L'eroe di questa vicenda, l'Homo immunologicus, il quale è tenuto a conferire una veste simbolica alla sua vita, insieme alle minacce e alle eccedenze che la caratterizzano, è l'individuo in lotta con se stesso, preoccupato per la propria condizione, che andremo a caratterizzare in maniera più precisa come individuo etico, o meglio: Homo repetitivus, Homo artista, individuo in allenamento. Nessuna teoria oggi in voga, interessata alla condotta e all'agire, è in grado di comprendere l'individuo impegnato nell'esercizio. Noi, al contrario, cercheremo di capire come mai le teorie finora sviluppate lo facciano sistematicamente sparire (non importa se il campo sotto osservazione sia suddiviso tra lavoro e interazione o tra condotta e comunicazione oppure tra vita attiva e contemplativa). Con un concetto di esercizio ben fondato dal punto di vista antropologico acquisiamo finalmente uno strumento idoneo per oltrepassare il baratro, che si presume metodologicamente insuperabile, tra i fenomeni immunitari di origine biologica e quelli di origine culturale, quindi tra i processi naturali da un lato e le azioni dall'altro. Che tra le due sfere non vi siano passaggi diretti è stato affermato a sufficienza in infinite discussioni sulla differenza tra fenomeni naturali e fenomeni culturali, e sui metodi per indagarli scientificamente. La richiesta di un passaggio diretto rappresenta tuttavia un'inutile gimcana, dalla quale non si dovrebbe lasciarsi fuorviare. Essa è avanzata con insistenza soprattutto da coloro che reclamano, per quelle che in Germania vengono chiamate scienze dello spirito, un ambito riservato, schermato da steccati metafisici. Alcuni avvocati del mondo spirituale vogliono scavare quanto più a fondo possibile il fossato tra eventi naturali e opere della libertà, all' occorrenza fin dentro gli abissi del dualismo ontologico, con la presunzione di farlo per proteggere le regali colonie dello spirito dagli abusi naturalistici. Vedremo quanto si dovrà salvare di tutto ciò. In realtà, il passaggio dalla natura alla cultura, e viceversa, è sempre stato aperto. Esso conduce sopra un ponte facilmente percorribile: la vita incentrata sull'esercizio. Gli esseri umani si sono impegnati a costruire questo ponte fin da quando sono comparsi. Di più: gli esseri umani esistono solamente perché si sono spesi per costruire quel ponte. L'uomo è l'essere vivente pontificale che, a partire dagli stadi più primitivi della propria evoluzione, getta degli archi, idonei a essere tramandati, tra le teste di ponte piantate nella sua corporeità e quelle inserite nei programmi culturali. Fin dal principio, natura e cultura sono collegate da una vasta zona mediana po1 ')

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palata di pratiche installate nel corpo: in questa zona hanno la propria sede le lingue, i rituali e i presupposti manuali della tecnica, poiché queste istanze incarnano le forme universali dell'artificialità automatizzata. Questa zona intermedia costituisce una regione ricca di forme e dall'assetto variabile-stabile, che può essere designata provvisoriamente, ma in maniera abbastanza chiara, con espressioni convenzionali quali educazione, costume, consuetudine, habitus, allenamento (training) ed esercizio, senza bisogno di aspettare i rappresentanti delle "scienze umane", i quali, con il loro chiasso sulla cultura, non fanno che alimentare la confusione che poi si propongono di superare offrendo i propri servigi. Le indagini che seguiranno trovano i loro oggetti proprio in questo "giardino dell'umano" (per rammentare una felice formula non fisicalistica del fisico Carl Friedrich van Weizsiicker10). I giardini sono aree recintate nelle quali le piante incontrano le arti. Essi rappresentano "culture" nel senso non compromesso della parola. Chi entra nei giardini dell'umano si imbatte negli spessi strati di azioni regolate, interiori ed esteriori, dotate di una tendenza a fungere da sistema immunitario al di là dei sostrati biologici. Di fronte alla crisi globale della cultura, nella quale vanno annoverati anche gli spettrali episodi neoreligiosi menzionati in apertura, non è affatto un mero diletto accademico mettere all'ordine del giorno, nei parlamenti della civiltà, l'esplicazione di questo ambito. u Uno studio dedicato all'antropologia dell'esercizio non può essere condotto, per ragioni interne, senza schierarsi e senza partigianeria. Ciò dipende dalla circostanza per cui ogni discorso sull"' essere umano" oltrepassa prima o poi i confini della semplice descrizione e finisce per perseguire fini normativi, siano essi espressi o taciti. Nella storia, ciò è stato riconosciuto nella maniera più chiara all'inizio dell'illuminismo europeo, quando l'antropologia è stata tenuta a battesimo come l'originaria "scienza borghese". La nuova scienza dell'essere umano iniziò allora a presentarsi come il moderno paradigma di filosofia, prima ancora delle discipline tramandate come 10. Cari Friedrich von Weizsacker, Der Garten des Menschlichen. Beitri:ige zur geschichtlichen Anthropologie, Hanser, Miinchen 1978. 11. Per quanto riguarda il parlamentarismo allargato vedi Bruno Latour, Making Things Public. Atmosphere of Democracy, The MIT Pr~ss, Cambridge (MA) 2005, nonché Das Parlament der Dinge. Fiir eine politische Okologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001. Rispetto al programma generale di civilizzazione delle culture vedi Bazon Brock, Der Barbar als Kulturheld, Dumont Buchverlag, Koln 2002.

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la logica, l'ontologia e l'etica. Chi era coinvolto nel dibattito sull'essere umano vi partecipava - in termini "progressisti" - per far valere l'analogia tra borghese ed essere umano, ragion per cui o voleva sbarazzarsi dell'aristocrazia in quanto secessionista rispetto all'umanità o cercava di elevare il complesso dell'umanità ai livelli del ceto nobiliare. Oppure vi partecipava -in termini "reazionari" - per ritrarre l'essere umano come la bestia affetta dal peccato originale, corrotta e labile, che nel suo stesso interesse era opportuno non fosse mai abbandonata dalla mano dei suoi tutori, ossia, con formula medievale, i suoi correetores. L'insopprimibile partigianeria della teoria antropologica è intimamente intrecciata con la natura stessa del suo oggetto. Infatti, per quanto il discorso generale sull' "essere umano" sia intriso di pathos egualitario - non importa se concernente l'eguaglianza reale o dichiarata degli individui rispetto all'eredità biologica della specie o l'equivalenza virtuale delle culture davanti al tribunale che stabilisce se sono degne di sopravvivere -, tale discorso deve pur sempre tener conto della circostanza che gli esseri umani sono inevitabilmente soggetti a una tensione verticale, in tutte le epoche e in qualsiasi spazio culturale. Ovunque si incontrino esseri umani, essi sono collocati entro campi d'azione e classi di status. Al carattere vincolante di questi fenomeni gerarchici non riesce a sottrarsi del tutto nemmeno l'osservatore esterno, per quanto si sforzi di mettere fra parentesi i propri idoli tribali. È evidente che esistono determinati meta-idoli, la cui autorità è trasversale alle cult~re. Si tratta chiaramente di ruoli vincenti, riconoscimenti di status ed eccellenze, fenomeni elevati a universali, dai quali nessuno riesce a emanciparsi, né all'interno del proprio ambito né tanto meno in quelli estranei, senza precipitare al livello dei barbari. Fatalmente, il termine "barbaro" fornisce la password che permette l'accesso gli archivi del XX secolo. Esso designa chi disprezza la performance, designa il vandalo, chi nega lo status, l'iconoclasta, chi rifiuta di riconoscere qualunque sorta di rango e di gerarchia. Chi vuole comprendere il xx secolo deve sempre tenere presente il fattore barbarico. È stata e continua a rimanere u'na caratteristica tipica della fase più recente della Modernità permettere un'alleanza tra barbari da un lato e successo davanti al grande pubblico dall' altro, inizialmente sotto forma di imperialismo condotto a spron battuto, oggi invece nelle vesti della volgarità invadente, che per tramite della cultura popolare penetra praticamente in qualsiasi ambito. Che la posizione barbarica nell'Europa del xx secolo sia stata talvol-

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ta considerata, perfino dagli esponenti dell'alta cultura, come un segnavia, fino ad arrivare all'annuncio messianico della non-cultura in quanto utopia di un nuovo inizio sulla tabula rasa dell'ignoranza, illustra la profondità della crisi culturale che ha investito il nostro continente negli ultimi centocinquant' anni, inclusa la rivoluzione culturale dal basso, che dalle nostre parti ha attraversato il Novecento e proietta la sua ombra sul XXI secolo. Poiché le pagine seguenti trattano della vita incentrata sull' esercizio, esse accompagnano - in accordo con il loro oggetto - in una spedizione nell'universo poco esplorato delle tensioni verticali cui l'essere umano è sottoposto. Per la cultura occidentale fu il Socrate platonico a scoprire tale fenomeno, quando, expressis verbis, parlò dell'essere umano come di colui che potenzialmente è "superiore a se stesso" .12 Propongo di tradurre questa indicazione nella seguente osservazione: tutte le "culture", "sottoculture" o "scene culturali" si costruiscono su differenze guida, con l'aiuto delle quali viene suddiviso in classi polarizzate il campo in cui si danno le possibilità di condotta umana. Così, le "culture" ascetiche conoscono la diffe- · renza guida tra perfezione e imperfezione, le "culture" "religiose" quella tra sacro e profano, le "culture" aristocratiche quella tra nobile e triviale, le "culture" militari quella tra valoroso e vile, le "culture" politiche quella tra potente e impotente, le "culture" amministrative quella tra superiore e subordinato, le "culture" atletiche quella tra eccellenza e mediocrità, le "culture" economiche quella ·tra abbondanza e scarsità, le "culture" cognitive quella tra sapere e ignoranza, le" culture" sapienziali quella tra illuminazione e accecamento.13 Queste distinzioni hanno tutte in comune la partigianeria per il primo termine, che in ciascuno dei campi indicati funge da attrattore, mentre al secondo polo spetta invariabilmente la funzione di valore repulsivo ovvero di grandezza negativa. Gli elementi che qui chiamo attrattori sono, secondo le loro modalità di funzionamento, le direttrici di quelle tensioni verticali che nei sistemi psichici provvedono all'orientamento. Se l'antropologia non vuole parlare a vuoto dei vettori decisivi della condicio humana, non può trascurare ancora a lungo la realtà di queste grandezze. So12. Vedi in proposito infra, pp. 203 sgg. 13. Vedi in proposito Thomas Macho, "Neue Askese? Zur Frage nach der Aktualitat des Verzichts". lnMerkur, 54, 7, 1994, pp. 583-593, uno scritto in cui viene discussa la differenza guida tra pieno e vuoto in relazione all'alternativa, molto brutale sul piano della storia della civiltà, tra sazietà e fame.

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lamente riconoscendo queste forze traenti attivate "dall'alto", diventa comprensibile perché e in quali forme l'Homo sapiens, che i paleontologi ci esibiscono perfino negli ingressi delle facoltà umanistiche, abbia potuto evolversi sino a diventare un animale dalla tendenza a elevarsi, animale che i rinvenimenti scoperti dagli storici delle idee e dai viaggiatori in giro per il mondo descrivono più o meno all'unisono. In qualunque luogo si incontrino membri del genere umano, essi rivelano ovunque i tratti di un essere condannato a compiere una fatica surreale. Chi cerca esseri umani troverà acrobati. Indicare la pluralità di differenze guida non dovrebbe solamente attirare lattenzione sulle condizioni di funzionamento delle molteplici "culture" o "scene culturali". Una simile pluralità di differenze guida tenta anche di spiegare come, nella storia delle "culture", soprattutto nelle loro fasi più fervide e creative, si siano potute produrre sovrapposizioni e mescolanze di ambiti inizialmente separati, nonché capovolgimenti dei segni di valore e incroci di discipline: fenomeni che dunque costituiscono il fondamento di forme, ancora oggi attraenti, di spiritualità e civiltà. Il fatto che le differenze guida possano migrare dal loro campo originario per stabilirsi con successo in zone lontane ci offre quelle opportunità spirituali che continuano ad affascinarci, perché rappresentano le potenzialità più elevate, supreme dell'essere umano: tra queste figurano una definizione non economica di ricchezza; una definizione non aristocratica di nobiltà; una definizione non atletica di primato; -una definizione non cratica di superiorità; una definizione non ascetica di perfezione; una definizione non militare di audacia; una definizione non bigotta di saggezza e fedeltà. Per concludere queste osservazioni preliminari desidero aggiungere una parola sulla partigianeria del presente libro e mettere in guardia da un facile equivoco. Le seguenti indagini procedono a partire dal loro stesso risultato: esse attestano lesistenza di oggetti che non consentono al loro commentatore una epoche integrale né un ripiegamento nell'indifferenza, anche quando gli accenti sono posti sulla teoria, dunque sull'assenza di pregiudizi, capricci e ossessioni invidiose. Qui abbiamo a che vedere proprio con un oggetto siffatto, che non lascia tranquillo chi lo analizza. Non sarebbe consono al tema, se lautore volesse nascondersi nel recinto della non intenzionalità. La materia stessa coinvolge coloro che vi si applicano in un'inevitabile autoreferenzialità, mettendo davanti ai loro occhi il carattere di esercizio - il carattere "ascetico", bisognoso di forma e creatore di habitus - della loro stessa condotta. Nella sua di-

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samina sulle lotte divine alla base dell'antico teatro dionisiaco, il giovane Nietzsche osserva: "Ahimè! Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche combatterle!" .14 Analogamente, un'antropologia della vita incentrata sull'esercizio viene inficiata dal suo stesso oggetto. Avendo a che fare con esercizi, con ascesi e addestramenti (non importa che vengano o meno definiti tali), il teorico si imbatte immancabilmente nella sua stessa costituzione, al di là dell'approvazione o del rifiuto che può mostrare nei loro confronti. La stessa cosa vale per il fenomeno delle tensioni verticali, senza le quali non vi sarebbero esercizi intenzionali. Rispetto a tensioni di questo tipo, il teorico non muoverà un dito per allontanare i propri pregiudizi, prescindendo dalla sua consueta disponibilità a chiarirne le cause. Lo studio antropologico concepisce l'affezione provocata dall'oggetto stesso come segno del proprio orientamento filosofico. In effetti, la filosofia rappresenta la modalità di pensiero caratterizzata dalla forma più radicale di prevenzione: la passione per l'essere-nel-mondo. Esclusi forse soltanto gli specialisti, chiunque avverte che, dal punto di vista filosofico, rimane privo d'importanza tutto ciò che non offre almeno un assaggio di questo gioco appassionante. Per designare le occupazioni umane da cui gli individui sono interamente assorbiti, l'antropologia culturale propone il bel termine deep play. Dalla prospettiva di una teoria della vita incentrata sull'esercizio si dovrebbe integrare questa formula dicendo che i giochi profondi sono quelli mossi dall'alto. Infine, l'avvertimento rispetto all'equivoco in cui, come ho detto, è facile incorrere. Esso deriva dalla circostanza che, attualmente, una gran moltitudine di persone interessate alla "religione" partecipa a una mobilitazione antinaturalistica ampiamente sostenuta, con l'aiuto della quale i presunti o reali abusi delle scienze riduzionistiche dovrebbero essere allontanati dai domini santificati del vissuto e della percezione qualitativa. Si capisce subito che gli argomenti contro il naturalismo servono ad approntare la prima linea difensiva per proteggere i fatti della fede. Chi trasferisce il vissuto in una fortezza interna, che i saraceni scientisti di oggi e di domani non possono espugnare, può dunque ritenere di aver fatto abbastanza per mettere sotto tutela filosofica questi beni delicati. In tal 14. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. Adelphi, Milano 1995, § 15, p.104.

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modo vengono messi al sicuro, se non i contenuti stessi della fede, quanto meno le condizioni di po~sibilità dell'aver fede in generale. Ai naturalisti - rappresentati oggi soprattutto dagli intrepidi studiosi di neurologia - si rimprovera, di norma a buon diritto, la tendenza tipica della loro disciplina a concepire i fatti della coscienza estraniandosi sul piano funzionale e riflettendo dal di fuori, senza riuscire a soddisfare quell'insopprimibile persistenza di contenuti ideali che invece compare nell'ottica della prima persona. Rivolgendomi a coloro che si occupano di queste configurazioni mentali,15 vorrei spiegare che le seguenti indagini, nell'ambito principale in cui si svolgono, non intendono servire interessi né naturalistici né funzionalistici, sebbene mi sembri auspicabile, anche per il versante "spiritualistico", garantire la possibilità di ricollegarsi ai risultati di queste ricerche, in particolare sotto l'aspetto immunologico appena menzionato. Benché io mi proponga di prendere le distanze dagli oggetti del mio studio o talvolta di giungere a una loro nuova, polemica descrizione, questo avviene non perché a essi vengano applicate logiche esterne, come per esempio si nota quando i neuroscienziati parlano di cristologia 16 o quando i genetisti parlano del DNA dei monoteisti. 17 Lo straniamento che scaturisce dai miei esercizi teoretici, casomai venissero percepiti come tali, si spiega esclusivamente sulla base di traduzioni interne, grazie alle quali i linguaggi locali di origine antropotecnica vengono resi espliciti all'interno dei relativi sistemi spirituali. Quelli che qui chiamo linguaggi locali sono già contenuti, come si vedrà, nei tanti sistemi di es,ercizio codificati in termini "religiosi" o etici, sicché renderli espliciti non comporta alcuna interferenza proveniente da ambiti esterni. Con il loro aiuto, ciò che le Sacre Scritture e altre venerande regole affermano attraverso il proprio messaggio verrà nuovamente formulato in una lingua alternativa e molto simile. Facendo bene i conti, ripetizione + traduzione+ generalizzazione = spiegazione. Se esiste qualcosa di simile al progress in religion, esso può manifestarsi solamente sotto forma di crescente esplicazione.

15. Esemplare in proposito Heinz-Theo Homann, Das /unktionale Argument. Konzepte und Kritik funktionslogischer Religionsbegrundung, Schoningh, Paderborn 1997. 16. Vedi Detlef Linke, Religion als Risiko. Geist, Glaube und Gehirn, Rowohlt, Hamburg 2003. 17. Vedi Dean Hamer, Das Gottes-Gen. Warum uns der Glaube im Blut liegt, Kosel, Miinchen 2006, pp. 207 sgg.

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1 IL COMANDO DALLA PIETRA L'ESPERIENZA DI RILKE

Per chiarire il fenomeno delle tensioni verticali e il loro significato per il ti-orientamento della confusa esistenza vissuta dall'individuo moderno, presenterò anzitutto un esempio estetico: si tratta del celebre sonetto di Rainer Maria Rilke intitolato Torso arcaico di Apollo, che inaugura il ciclo delle Nuove poesie. Seconda parte'tisalente al 1908. Ha i suoi vantaggi prendere le mosse da un testo poetico, oltre al fatto di avervi tratto il titolo del presente libro, perché un simile prodotto, essendo ascrivibile al campo artistico, rischia in minor misura di provocare quei riflessi antiautoritari che oggi scattano pressoché automaticamente quando si toccano affermazioni dogmatiche o calate dall'alto: "Figuriamoci, dall'alto!". Nella creazione estetica, e soltanto in essa, abbiamo imparato ad accostarci a una forma di autorità che non asservisce~ a un'esperienza non repressiva di differenza gerarchica. L'opera d'arte può ancora dire qualcosa perfino a noi, che abbiamo disertato la forma, perché essa, in maniera del tutto palese, non fa propria l'intenzione di opprimerci. "La poésie ne s'impose plus, elle s'expose. "1 Ciò che espone se stesso e supera brillantemente l'esame guadagna un'autorità non pretesa. Nello spazio della simulazione estetica, che nello stesso tempo costituisce il luogo dirimente per la riuscita e il fallimento della creazione artistica, la superiorità impotente delle opere può influenzare osservatori che in altre circostanze, mostrandosi estremamente sensibili, si guarderebbero bene dall'avere sopra di sé dei padroni, siano essi vecchi o nuovi. La poesia rilkiana dedicata al Torso è particolarmente appropriata per porre la questione riguardante la fonte dell'autorità, giacché 1. Paul Cdan, "La verità della poesia", tr. it. in "Il meridiano" e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. 1.

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essa rappresenta di per sé un esperimento sulla possibilità di lasciarsi-dire-qualcosa. Com'è noto, Rilke, sotto l'influsso di Auguste Rodin, al quale era stato vicino come segretario personale a Meudon tra il 1905 e il 1906, aveva abbandonato lo stile poetico della sua giovinezza, caratterizzato dallo Jugendstil e da un'attenzione particolare alle atmosfere di ovattata sensibilità, per sviluppare una concezione artistica contraddistinta più nettamente dalla "preminenza del1' oggetto". Il pathos protomoderno di concedere la precedenza al1'oggetto, senza però ritrarlo "fedelmente" alla maniera degli antichi maestri, portò Rilke al concetto di Ding-Gedicht, poesia-cosa, e di qui a una nuova risposta, temporaneamente persuasiva, alla domanda circa la fonte dell'autorità estetica ed etica. Da quel momento, tutta l'autorità doveva promanare dalle cose stesse, o meglio, da questa cosa singola di volta in volta presente, che si rivolge a me nel momento in cui esige il mio sguardo interamente. Ciò è possibile soltanto perché adesso l'essere-cosa finisce per non significare altro, di per sé, che avere qualcosa da dite. Rilke compie, nel suo ambito e con i suoi strumenti, un' operazione che si potrebbe trascrivere in termini filosofici come "trasformazione comunicativa dell'essere" (normalmente detta linguistic turn). "L'essere che può venir compreso è linguaggio", dirà Heidegger, un'affermazione che implica, viceversa, la tesi per cui il linguaggio abbandonato dall' "essere" diventa chiacchiera. Allora e solo allora, quando l'essere si ritira dentro cose privilegiate e si rivolge a noi, che stiamo transitando tra queste cose, è ragionevole sperare di sfuggire ali' arbitrio crescente, sia sul piano estetico sia su quello filosofico. Dinnanzi all'inflazione galoppante della chiacchiera, una simile speranza dovette ammaliare, intorno al 1900, numerosi artisti e "spirituali". Nel mezzo delle onnipresenti compravendite di segni ormai prostituti, la poesia-cosa poté offrire un auspicio circa la possibilità di tornare a esperienze sensoriali attendibili. Essa ne fu capace perché fissò la lingua al gold standard di ciò che le cose stesse comunicavano. Dove viene spento l'arbitrio, si accende l'autorità. È evidente che, al rango di cosa, non possa essere promosso qualunque oggetto, altrimenti tutto quanto tornerebbe a essere parlante, anzi, la chiacchiera si estenderebbe dagli esseri umani alle cose. Rilke privilegiò, per esprimerci con una dizione filosofica raffinata, due categorie di "enti" che vengono chiamate in causa per svolgere l'importante compito di essere cose comunicanti: gli artifici (Arti/izien) e gli esseri viventi, laddove questi ultimi traggono la loro specifica connotazione dai primi, come se gli animali fossero le supreme realizzazioni artisti')(,

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ca-artificiali (Kunstwerke) dell'essere preumano. Entrambe queste categorie sono caratterizzate da un'energia comunicativa che non si attiva da sola, ma che necessita del poeta in qualità di decader e latore. Qui ha origine la complicità tra la cosa parlante e la poesia rilkiana, così come, qualche anno più tardi, le cose heideggeriane cospireranno con il "dire originario" (Sage) di una filosofia meditativa, che non intende più essere una mera disciplina scolastica. Con queste indicazioni, forse un po' troppo rapide, abbiamo però tracciato una cornice entro la quale tentare una breve lettura del Torso. Prendo avvio dal fatto che il torso di cui si parla nel sonetto dovrebbe incarnare una "cosa" nel senso più elevato del termine, ossia proprio perché rappresenta semplicemente il resto di una scultura intera. Leggendo la sua biografia apprendiamo che, per via della sua permanènza nei laboratori di Rodin, Rilke fu testimone di come la scultura moderna esplorasse il genere del torso isolato. 2 Lo sguardo del poeta sul corpo mutilo non ha perciò nulla a che fare con il romanticismo del frammento e delle rovine, tipico del secolo precedente, ma indica come I' arte moderna esplori il concetto di oggetto che racconta se stesso con autorità e il concetto di corpo che comunica se stesso mediante un potere effettivo.

Il torso arcaico di Apollo Non conoscevamo il suo capo inaudito in cui maturarono i pomi oculari. Ma il suo torso ancora arde come un candelabro, dove il suo sguardo, ormai scorciato, si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi su quel luogo centrale cui spettava la procreazione. Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta sotto lo spiovere invisibile delle spalle, e non tremolerebbe come pelo di belva feroce; e non irradierebbe da ogni suo contorno come una stella: perché non v'è punto qui che non ti veda. Devi cambiare la tua vita. 3 2. Wolfgang Briickle, Von Rodin bis Baselitz. Der Torso in der Kunst der Moderne, Hatje Cantz, Ostfildern 2001. 3. Qui abbiamo preferito offrire una nuova traduzione, più letterale, del sonetto, mentre per una versione più poetica rimandiamo a Rainer Maria Rilke, "Torso

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Chi coglie qualcosa di più definito già alla prima lettura della' poesia capisce che in essa è chiamata in causa una perfezione .. : ma una perfezione che sembra essere più vincolante e misteriosa di quella che può spettare a un semplice frammento. È lecito supporre che Rilke, con quest'opera, volesse ringraziare Rodin, il maestro dei suoi anni parigini, per quel concetto di torso isolato che il poeta aveva appreso per la prima volta nel suo laboratorio. L'entità perfetta evocata in questi quattordici versi trova la propria ragion d' essere nella circostanza che - indipendentemente dalla mutilazione del supporto materiale - essa detiene il potere effettivo di costituire, di per sé, un messaggio che interpella. Questa forza appellativa è squisitamente presente nell'oggetto ricreato dalla poesia. Perfetto è ciò che articola un intero principio dell'essere. Bisogna che la poesia, né più né meno, percepisca il principio dell'essere nella cosa e lo adegui alla propria esistenza, con lo scopo di diventare essa stessa un prodotto con eguale potere comunicativo. Il torso rilkiano può essere considerato destinatario del predicato "perfetto", perché possiede qualcosa che gli consente di frustrare la consueta aspettativa di una totalità figurativa. In questo gesto troviamo una delle tematiche che caratterizzano la rivolta della Modernità contro il principio dell'imitazione fedele della natura (nel senso del1'imitazione di aspettative figurative che in realtà sono finzioni). Questo gesto è in grado di percepire le totalità comunicative e gli autonomi segnali delle cose anche quando non siamo più in presenza di figure morfologicamente integre, anzi, proprio in quelle occasioni. Il senso per la perfezione abbandona le forme naturali, forse perché la. natura stessa è in procinto di perdere la propria autorità ontologica. Anche a causa della diffusione popolare della fotografia, gli sguardi standardizzati rivolti alle cose sono soggetti a una crescente svalutazione. In quanto versione originale del visibile, la natura cade in discredito. Essa non riesce più ad affermarsi come mittente di messaggi vincolanti, e ciò per cause che in definitiva vanno ricondotte al suo disincanto per mano della ricerca scientifica e della poderosa offerta tecnica. In seguito a questo mutamento, "essere perfetto" assume un significato diverso: significa aver qualcosa da dire che sia più rilevante delle chiacchiere proposte dalle consuete figure totali. A quel punarcaico di Apollo" (1908), in Nuove poesie. Requiem, a cura di Giacomo Cacciapaglia, Einaudi, Torino 1992, p. 195. La stessa versione del sonetto si trova in Rainer Maria Rilke, Poesie I (189 5-1908), edizione con testo a fronte a cura di Giuliano Baroni, commento di Andreina Lavagetto, Einaudi-Gallimard, Torino 2004, p. 567. [NdCJ

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to entrano in azione i torsi e i loro simili, mentre è scaduto il tempo delle forme che non rievocano nulla. I frammenti, le figure deformate e ibride esprimono qualcosa che le consuete forme compiute e le figure intere ben riuscite non sono più in grado di trasmettere. L'intensità batte la perfezione standardizzata. Cent'anni dopo il suggerimento di Rilke comprendiamo questa indicazione meglio ancora dei suoi contemporanei, perché le nostre facoltà percettive sono assopite e defraudate dalle chiacchiere sul corpo immacolato, a un livello che nessuna generazione precedente aveva mai raggiunto. Questi accenni dovrebbero chiarire in che modo il fenomeno del "venire-interpellati-dall'alto" possa incarnarsi in una creazione estetica. Per comprendere un'esperienza del genere non è però necessario far propria l'ipotesi adottata da Rilke, secondo la quale il torso oggetto della poesia era il relitto della statua di una divinità, di un Apollo, come ritenevano gli esperti di allora. Non bisogna inoltre del tutto escludere che, nell'esperienza vissuta dal poeta davanti alla scultura, abbia avuto importanza un elemento di rispetto culturale derivante dai canoni dello Jugendstil: Rilke vide l'esemplare originale in occasione di una visita al Louvre e, per quanto se ne sa, esso non sarebbe stato un'opera d'arte arcaica,'ma risalente all'epoca classica della scultura greca. Tuttavia, ciò che il poeta sa dirci sul torso del presunto Apollo è ben più di un appunto riguardante una sua visita al museo delle antichità.All'autore non importa che la cosa mostri una divinità estinta, alla quale potrebbero forse interessarsi gli umanisti, ma che la divinità scolpita nella pietra rappresenti una creazione-cosa ancora adesso in missione. Abbiamo qui una testimonianza di come la più recente ontologia comunicativa abbia abbandonato le teologie tramandate. In essa, non è più dio, non sono più gli idoli dispotici delle religioni, ma è l'essere stesso che viene considerato la grandezza dotata della maggiore capacità di parlare, della missione più grande e dell'autorità più influente. Ai nostri giorni, anche un dio può facilmente finire in mezzo alle belle figure che non hanno più nulla da dirci, quando non diventino palesemente moleste. La cosa colma di essere, al contrario, non cessa di interrogarci quando è giunto il suo momento. Ci stiamo avvicinando al punto critico: gli ultimi due versi della poesia hanno sempre ammaliato i lettori. Essi suscitano la sensazione di avere a che fare con un aspetto di grande rilevanza, che scardina, per così dire, la creazione lirica nel suo complesso, come se quest'ultima fosse soltanto il viatico per approdare a un culmine, in vista del quale viene esposto tutto il resto. In effetti, gli ultimi due pe-

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riodi: "[ ... ]perché non v'è punto qui I che non ti veda. Devi cambiare la tua vita", hanno percorso una carriera quasi indipendente, imprimendosi nella memoria di molte persone istruite, non solo in quella degli amanti di Rilke e della lirica. Ammetto che stavolta sdno incline a cedere al bisogno di strappare alcune frasi dal loro contesto, non da ultimo perché nella predilezione popolare per i bei passaggi poetici si rivela occasionalmente un valido giudizio su apici di autenticità. Non bisogna essere dei fanatici visionari per capire come mai i due versi conclusivi abbiano sviluppato una propria vita autonoma. Nella loro solida concisione e nella loro mistica semplicità emanano un'energia artistica simile a quella evangelica, difficile da rintracciare in altre formulazioni della poesia contemporanea. A prima vista, il verso che precede sembra il più misterioso. Chi lo comprende o lo accetta, oppure lo considera nel suo contesto lirico - approcci che in questo caso sono del tutto analoghi -, viene colto all'istante da una sorta di suggestione ipnotica. Sforzandosi di "comprendere", si dà credito a una formulazione linguistica che ribalta il rapporto quotidiano tra colui che vede e ciò che viene visto. Che io veda il torso, con le sue spalle strette e i suoi moncherini, è un conto; altra cosa è che io immagini come in sogno, e riesca ad animare per associazione, le parti mancanti: la testa, le braccia, le gambe, il sesso. All'occorrenza, stimolato da Rilke, posso perfino im~ maginare un sorriso che parta da una bocca invisibile e giunga fino a un genitale scomparso. Tuttavia, l'aspetto totalmente altro, assolutamente incommensurabile, consiste nella pretesa di supporre che il torso mi guardi mentre io l'osservo, anzi, che esso scruti nei miei occhi più intensamente di quanto io riesca a guardarlo. La capacità di compiere quel gesto interiore, con il quale si crea lo spazio per questa improbabilità, potrebbe ritrovarsi (in misura piuttosto predsa) in quel talento che Max Weber negava di possedere: si tratta della "religiosità" in quanto predisposizione spontanea nonché dote sviluppabile, giustamente paragonabile in tal senso altalento musicale, anch'esso esercitabile, così come accade nel caso di passaggi melodici o fraseggi. Sotto questo aspetto, la religiosità rivela congruenze con una certa promiscuità grammaticale. Dove essa vige, oggetti e soggetti si scambiano di posto in maniera flessibile. Di conseguenza, se accetto che sulla superficie levigata della pietra mutila vi siano "punti" forti, che assomiglino a occhi e che mi guardino, compio un'operazione di qualità microreligiosa che, una volta concettualizzata come modulo primario di una condotta interiore "devota", finisco per riconoscere a tutti i livelli, anche nei sistemi svi-

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luppati sul piano macroreligioso. Nella posizione dove solitamente compare loggetto, che proprio in quanto oggetto mai restituiscé gli sguardi, "riconosco" ora un soggetto che possiede la capacità di vedere e di rispondere agli sguardi. lo, ipoteticamente credente, ipotizzo quindi la presenza di un soggetto nel luogo in questione, in attesa di capire come agisca su di me questo condiscendente rovesciamento. (Nota bene: anche la fede più "profonda" o più virtuosa non può mai produrre qualcosa di più che ipotesi trasformate in abitudini.) Il premio per la mia disponibilità a condividere il rovesciamento tra oggetto e soggetto mi spetta sotto forma di illuminazione privata o, nel caso specifico, sotto forma di commozione estetica. Anche il torso, in cui non v'è punto che non mi veda, non si impone, ma si espone. Si espone perché per esso quel che conta è se io, in quanto soggetto vedente, riesca a vederlo. Intendere il torso come vedente significa in pratica "aver fede" in lui, dove l'aver fede, come abbiamo osservato in precedenza, designa in questo caso le operazioni interiori necessarie per pensare il principio vitale, presente nella pietra, come un mittente di energie discrete ben indirizzate. Se queste operazioni dovessero in qualche modo riuscirmi, allora sarebbe anche possibile togliere alla pietra il suo ardore di soggetto. Accetterei sperimentalmente la sua presenza, splendente come un modello, e accoglierei la sua eccedenza di autorità e anima, raggiante come una stella. Il nome del rappresentato ha la sua importanza soltanto all'interno di questo contesto. Ciò che appare in quella che fu la statua di Apollo, tuttavia, non può essere semplicemente paragonato all'omonima divinità olimpica, che nei giorni della sua interezza doveva badare alla luce, al profilo delle cose, alla preveggenza e alla certezza delle forme. Apollo piuttosto, come suggerisce il titolo della poesia, indica qualcosa di molto più antico, che risale a fonti primordiali. Egli simboleggia un magma divino, nel quale viene alla luce qualcosa del primo potere ordinativo, antico quanto il mondo stesso. Non v'è dubbio che qui Rilke fosse influenzato dal ricordo di Rodine del suo ciclopico ethos professionale. Nel periodo del suo rapporto con il grande artista, Rilke imparò che cosa significasse trattare le superfici del corpo tanto a lungo da formare un'unica trama di "punti" modellati, luminosi, per così dire vedenti. 4 Qual4. "Gli uomini rimasero muti con lui. Parlarono le pietre", dice il poeta proprio nel saggio su Rodin. Vedi Rainer Maria Rilke, Su Rodin, a cura di Elisabetta Potthoff, Abscondita, Milano 2009, p. 26.

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che anno prima, a proposito delle sculture di Rodin, Rilke scriss~: "C'erano punti senza fine e non uno in cui qualcosa non accadesse" .5 Ogni punto è un luogo nel quale Apollo, dio della forma:' e della superficie, conclude un compromesso, pregnante dal punto di vista visivo e tattile, con il suo più antico antagonista Dioniso, dio dell'impeto e del fluire. Che questo Apollo energizzato incarni una manifestazione di Dioniso risulta dall'indicazione secondo la quale la pietra starebbe tremolando come pelo di belva feroce: anc che Rilke aveva letto Nietzsche. Qui ci imbattiamo nel secondo modulo microreligioso, o meglio, protomusicale: le massime "una cosa sta per l'altra", "l'uno compare nell'altro", "la profondità è sulla superficie" sono figure senza le quali non sarebbe mai stato prodotto alcun discorso religioso. Da queste formulazioni si può dedurre che la religiosità è una forma di mobilità ermeneutica e rappresenta una grandezza allenabile. , "Perché non v'è punto qui I che non ti veda. Devi cambiare la tua vita": resta da illustrare perché il secondo verso, nel quale apparentemente non v'è nulla da spiegare, sia di gran lunga il più misterioso. Misteriosa non è solamente l'assenza di una preparazione al verso, ma la repentinità di quest'ultimo. "Devi cambiare la tua vita" è una frase che sembra provenire da una sfera dove non posso-. no essere sollevate obiezioni. Nemmeno si riesce a capire da che luogo venga pronunciata, mentre al di là di ogni dubbio v'è soltanto la sua assoluta verticalità. Non si sa però se questo detto spunti in verticale dal terreno, come un palo, per intralciarmi il cammino, o se cada dal cielo per trasformare la strada in un abisso, in modo che il prossimo passo che farò debba già appartenere a quella vita diversa che viene pretesa. Non basta affermare che Rilke ha tradotto l'etica, con finalità estetizzanti, in un linguaggio lapidario e ciclopico, nonché in quello brutale tipico dell'Antichità; egli ha scoperto una pietra che incarna, in generale, il torso della "religione", dell'etica, dell'ascesi: una creazione da cui promana una chiamata dall'alto, ridotta a puro comando, ordine incondizionato, espressione illuminata dell'essere che può venir compreso e che parla solamente per imperativi. Se decidessimo di trasferire tutte le dottrine religiose redatte su papiro e su pergamena, quelle scritte con lo stilo e con la piuma d'oca, quelle calligrafiche e tipografiche, nonché tutte le regole degli ordini religiosi e i programmi delle sette, tutti i manuali di me5. Ibidem, p. 19.

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di~azione e le dottrine iniziatiche, tutte le regole di allenamento e le prescrizioni dietetiche, in un laboratorio dove dovessimo sintetizzarle in una redazione definitiva, il massimo concentrato derivante da tale sintesi non farebbe che ripetere ciò che il poeta ha lasciato promanare, in un momento di estatica lucidità, dal torso arcaico di Apollo. Devi cambiare la tua vita! Questo è l'imperativo che supera l'alternativa tra ipotetico e categorico, l'imperativo assoluto, il comando metanoico per eccellenza. Esso fornisce la parola chiave per larivoluzione, declinata alla seconda persona singolare. Esso definisce la vita come un dislivello tra le sue forme più elevate e quelle più basse. lo vivo, ma qualcosa mi dice con autorità inconfutabile: non vivi ancora correttamente. L'autorità numinosa della forma gode del privilegio di rivolgersi a me con un "tu devi": è l'autorità di una vita diversa in questa vita. Questa autorità coglie in me una sottile insufficienza, che è più antica e più libera della colpa. Si tratta del mio più intimo non-ancora. Nel mio istante più cosciente vengo colto dalla protesta assoluta contro il mio status quo. Cambiare me stesso è ciò di cui ho bisogno. Se tu dunque cambi veramente la tua vita, non faresti che dare retta alla tua migliore volontà, non appena capisci che una tensione verticale, a te favorevole, sta scardinando la tua vita. Accanto a questa lettura etico-rivoluzionaria sono ovviamente possibili anche interpretazioni del sonetto un po' più concrete e semplicLdal punto di vista psicologico. Nulla ci impone di relegare il commento nelle alte sfere della filosofia dell'arte e dell'essere. L' esperienza dell'autorità, che per un istante incatena il poeta ali' antica statua, può essere ricostruita, forse in maniera ancor più plausibile, a un livello più legato ai sensi, più facilmente comprensibile dal punto di vista estetico. In quest'ottica, bisognerebbe parlare degli aspetti somatici della scultura, o meglio, dei suoi aspetti autoerotid e legati all'atletismo maschile, che devono aver indotto il poeta (nella lingua del suo tempo: un nevrastenico, un introvertito fisicamente cagionevole) a immedesimarsi nell'antitetica costituzione del vigoroso "corpo maschile". A ciò corrisponde una circostanza che Rilke certo non ignorava: che nella ricca cultura scultorea dei Greci regnava, tra divinità e atleti, una parentela fisica e psichica nella quale l'accostamento poteva arrivare fino alla congruenza. Un dio era pur sempre una sorta di sportivo, mentre lo sportivo, soprattutto se celebrato nell'encomio e coronato d'alloro, era sempre, a sua volta, una sorta di divinità. Per questa ragione, il corpo dell'atleta, che univa bellezza e disciplina in una quiescenza pronta a scattare,

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si presentava come una delle forme fenomeniche più comprensibili e persuasive di autorità. Il corpo autorevole del dio-atleta agisce sull'osservatore direttamente con la sua esemplarità. Anch'esso dice lapidariamente: "Devi cambiare la tua vita!", e dicendolo mostra nello stesso tempo verso quale modello dovrebbe orientarsi il cambiamento. Da quel modello si può dedurre come convergano essere ed essere-esemplare. Ogni statua classica costituiva un potere dottrinale pietrificato o bronzeo su questioni etiche. Ciò che veniva chiamato platonismo, una faccenda per altri versi non greca, poté trovare una dimora in Grecia solamente perché le cosiddette idee vi avevano già ottenuto cittadinanza sotto forma di statue. L'amore platonico in quanto passione per lallenamento, condivisa tra colui che è somaticamente perfetto e il principiante, era già ancorato a livello popolare molto tempo prima di Platone. Ma questo eros agiva in ambedue le direzioni, dal modello al suo emulatore e viceversa. Non voglio certo attribuire a Rilke una relazione narcisistica con un frammento esposto al Louvre attestante lantica maestà che caratterizzava il culto greco per il corpo maschile. È tuttavia plausibile che lautore del sonetto, ispirato dal torso reale che aveva davanti agli occhi, abbia colto qualche aspetto della forza radiosa dell'antico vitalismo atletico e della teologia muscolare dei lottatori nella palestra. Il divario tra la vitalità del corpo potenziato e quella del corpo profano deve averlo colpito in maniera immediata, perfino di fronte a un semplice relitto di virilità trasfigurata. Con questo modo di sentire si potrebbe definire il poeta come un sensibile contemporaneo del tardo Rinascimento europeo, che intorno al 1900 entrò in uno stadio critico. Il connotato che meglio lo può definire è il ritorno dell'atleta come figura chiave dell'antico idealismo somatico. In tal modo, il processo di riforma culturale postcristiana, che era iniziato intorno al 1400 come Rinascimento filologico e artistico, passa alla fase della cultura di massa. La sua caratteristica più marcata è lo sport: non si sottolineerà mai abbastanza quanto profonda sia stata la sua influenza sull'ethos dei moderni. Con la ripresa dei Giochi olimpici (e con leccessiva popolarizzazione del calcio in Europa e Sudamerica) prende avvio un corteo trionfale di cui non si riesce ancora a scorgere la fine, salvo che lattuale corruzione legata al doping non vada interpretàta come indizio di un tracollo imminente. Oggi però nessuno sa che cosa potrebbe subentrare al posto dell'atletismo. Al culto per lo sport, esploso intorno al 1900, spetta un significato eminente nella storia della cultura,

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o meglio, nella storia dell'etica e dell'ascesi, perché con esso si manifesta uno spostamento di accento epocale nella condotta incentrata sull'esercizio: una trasformazione che possiamo descrivere al meglio come ri-somatizzazione ovvero de-spiritualizzazione dell'ascesi. Sotto questo aspetto, lo sport costituisce la più esplicita realizzazione del progetto della sinistra hegeliana, il movimento filosofico la cui parola chiave era stata "risurrezione della carne nell'aldiqua". Fra le due grandi idee del XIX secolo, il socialismo e il somatismo, solo la seconda, evidentemente, poteva affermarsi ovunque, e non serve essere un profeta per affermare che il XXI secolo, più ancora del Novecento, ne sarà interamente connotato. Da quanto abbiamo detto, non mi sembra fuorviante attribuire a Rilke una partecipazione al Rinascimento somatico e atletico, sebbene il suo rapporto con questo fenomeno fosse naturalmente indiretto e mediato da artefatti, in particolare dalla categoria della "co-sa", già discussa in precedenza. Rilke non ha mai fatto mistero del suo entusiasmo per Nietzsche né di aver scritto sulla propria bandiera (per esempio nella Lettera del giovane operaio6) l'allora attuale richiamo alla sessualità contro la tradizione deformante della "rinuncia alle pulsioni" di matrice cristiana. La presenza del mana atletico in quel torso, ancora luminoso e dotato di potere dottrinale, porta con sé un'energia capace di offrire orientamento, energia che vorrei definire (benché, di primo acchito, l'espressione possa risultare strana) come autorità dell' allenatore. In questo ruolo e in tale qualità, il torso si rivolge ai deboli dei nostri giorni, deboli nel corpo e nella vita, con un inconfondibile richiamo di origine etico-sportiva. Il verso: "Devi cambiare la tua vita!" può essere inteso, adesso, mme ritornello di una lingua dell'essere-in-forma. Esso va annoverato in un nuovo genere retorico: il discorso del coach, la predica d~gli spogliatoi da parte di un allenatore alla sua squadra fuori condizione. Chi parla a una squadra deve rivolgersi a ciascuno come se parlasse solamente a lui. In società, discorsi simili non sarebbero tollerati, mentre per le squadre sono elementi costitutivi. Abbandona la tua dipendenza da uno stile di vita comodo, presentati al ginnasio (gymnos: nudo), dimostra che non sei indifferente alla distinzione tra perfetto e imperfetto, mostraci che prestazione, eccellenza, arete, virtù non sono rimaste per te delle parole estra6. Scritta nel febbraio del 1,921, ma pubblicata postuma nel 1933.

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nee, ammetti che esistono motivi per compiere rinnovati sforzi! Ma· soprattutto: al sospetto che lo sport sia un'occupazione da stupidi concedi solamente lo spazio che gli spetta, non abusarne come di un .\ pretesto per continuare ad andare alla deriva nel mare della tua abituale trascuratezza, diffida del filisteo che dimora in te, il quale pensa che tu sia già a posto così come sei! Ascolta la voce proveniente dalla pietra, non opporti all'appello alla forma! Cogli l'occasione. per allenarti con un dio! J

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2 SGUARDO REMOTO SULLA STELLA ASCETICA NIETZSCHE E IL SUO PROGETTO SULL'ANTICHITÀ

L'espressione "tardo Rinascimento", che ho proposto per caratterizzare il fenomeno del culto dello sport affermatosi dopo il 1900 e ancora troppo poco compreso, si rivela molto utile quando si tratta di datare l'intervento di Nietzsche tra i vari discorsi sul passaggio dall'Illuminismo al Modernismo. In effetti, ogni tentativo di capire Nietzsche deve prendere avvio da una riflessione sulla sua collocazione storica. Quando si parla di lui, non basta conoscere la sua data di nascita e quella di morte per sapere quando è vissuto e quando ha sviluppato i suoi pensieri. L'enormità di questo autore si esprime anche nell'impossibilità di considerarlo figlio del suo tempo. Ovviamente, è facile individuare nella sua opera gli elementi tipici della sua epoca. Si può mostrare come, in quanto artista, abbia segnato il passaggio da un romanticismo depotenziato in senso Biedermeier a una Modernità dalle tinte tardoromantiche; come, in quanto'polemista, abbia compiuto il salto dal wagnerismo a un elitismo profetico e come, in quanto pensatore, abbia sostituito il tardo idealismo simbolista con il naturalismo prospettico, ovvero, per dirlo con i nomi dei protagonisti: Schopenhauer con Darwin. Se in Nietzsche avesse rilevanza soltanto ciò che è riconducibile alla sua epoca, la recezione della sua opera sarebbe cessata al massimo nel 1914, cioè nel periodo di svolta a partire dal quale i moderni hanno iniziato una volta per tutte ad avere altre preoccupazioni: già nel 1927 Heidegger promuove le "altre preoccupazioni" (andere Sorgen) al rango di preoccupazione per eccellenza, di cura (Sorge) sans phrase. In realtà, gli impulsi di Nietzsche hanno iniziato a dispiegarsi solamente nell'epoca delle "altre preoccupazioni" e non si riesce ancora a prevedere la fine della loro efficacia. Dal punto di vista filosofico, l'autore della Genealogia della morale è il contemporaneo più attento a quei processi riassumibili con il concetto, introdotto in ~7

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precedenza, di "Rinascimento somatico o atletico". Per ottenere un , quadro adeguato della direzione in cui questi impulsi hanno esercitato la loro forza d'urto, è indispensabile una rilettura dei suoi scrit-' ti dedicati all'arte di vivere. In questo senso, stabilire la vera datazio-' ne dell'esistenza intellettuale di Nietzsche è una questione che sorge da motivazioni estremamente concrete. Che l'autore stesso si sia talvolta percepito come individuo rinascimentale gettato in un'epoca sbagliata è un giudizio cui possiamo credere senza alcuna verifica. Per il nostro contesto, invece, quel che conta non è l'amore per un passato ideale o la nostalgia di un'età dell'oro ormai trascorsa, caratterizzata dalla fioritura del1' arte e dall'assenza di scrupoli. Decisiva è piuttosto la circostanza che Nietzsche stesso fosse attore in reali avvenimenti rinascimentali, che egli non riuscì a identificare in quanto tali solamente perché il suo concetto di Rinascimento rimase troppo condizionato dalla storia dell'arte. Non a caso il giovane Nietzsche fu annoverato fra i lettori più appassionati della Civiltà del Rinascimento in Italia (1860), il capolavoro di morfologia storica scritto da Jacob Burckhardt, un'opera nella quale lo storiografo concentrò, in un unico affresco, un arco temporale di vari secoli. Al lettore del tardo XIX secolo, intimidito davanti a questa immagine sublime, non resta-. va che rivolgersi nostalgicamente ai tempi passati e proiettare se stesso in un punto adeguato dell'affresco. Tutto ci induce a pensare che Nietzsche non fosse estraneo a simili esercizi: potrebbe essersi trasferito con il pensiero nell'accampamento di Castruccio Castracani, per vivere da vicino il vitalismo eroico; potrebbe aver passeggiato sul Lungotevere, sognando di diventare un Cesare Borgia della filosofia. Al viandante di Sils Maria, tuttavia, sarebbe bastato abbandonare l'angusto schema di Rinascimento derivato dalla storia dell'arte e passare a un concetto teorico-processuale di Rinascimento per giungere inevitabilmente alla conclusione che l'epoca della "rinascita" non si era affatto esaurita con gli eventi artistici e culturali del xv e XVI secolo. Da un punto di vista processuale, Nietzsche stesso avrebbe potuto riconoscersi quale perno di un rinnovato Rinascimento, il quale appunto stava per infrangere le definizioni che la cultura borghese aveva fin fi prodotto. Grazie alla mediazione dell'Illuminismo, questo movimento si era trasformato da passatempo di ristrettissime élite alfabetizzate, con i loro rispettivi segretari, da sfarzoso trastullo per mecenati di origine principesca o altoborghese, con i loro rispettivi maestri fornitori (che fondarono un primo

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"sistema dell' arte" 7 ), in una questione nazionale, europea e planetaria. Per propagarsi dai pochi ai molti, il Rinascimento dovette deporre la sua veste umanistica e presentarsi come ritorno dell'antica cultura di massa. La vera e propria questione rinascimentale, riformulata nei termini della filosofia pratica, owerosia: se per noi possano darsi e sia lecito che esistano altre forme di vita dopo il cristianesimo, in particolare quelle che attingono i loro modelli all'Antichità greco-romana (forse perfino a quella egizia o indù), non fu più dunque, nel XIX secolo, un discorso esoterico o un esercizio accademico, ma una passione epocale, un ineludibile pro nobis. Per questa ragione bisogna eVitare di giungere all'erronea conclusione che la tematica dellaLebensre/orm ("Movimento per la riforma della vita"), nell'aria fin dal tempo dei romantici e dei protosocialisti, ma giunta al culmine della propria influenza soltanto dopo il 1900, fosse un'ubbia da séttari, e che le Re/ormhiiuser (le sedi del movimento) fossero dei simpatici relitti fuori moda. La Lebensre/orm costituisce piuttosto il programma stesso del Rinascimento, trasferito dalla storia dell'arte di matrice borghese all'arena in cui si svolge la lotta per il vero modus vivendi dei moderni. Porre Nietzsche in quest'arena significa anzitutto datarlo correttamente. Con questo ampliamento della zona denominata Rinascimento, tuttavia, non si è compiuto che un primo passo. Se ci si arrestasse ora, avremmo comunque ridatato Nietzsche in modo solo parzialmente esatto. Gli si sarebbe infatti resa giustizia connettendo la sua presenza a un passato da lui scelto, ma, per quanto riguarda la sua "cronopolitica", ossia il suo sforzo di fuoriuscire interamente dalla Modernità, non lo si sarebbe preso dawero sul serio. In questo tentativo di fuoriuscita si nasconde la provocazione di gran lunga più importante e lo stimolo intellettuale di gran lunga più ~iolen­ to. Per farvi fronte non basta neppure la proposta di datazione diventata ultimamente abituale, secondo la quale Nietzsche non apparterrebbe alla Modernità, ma all'epoca postmoderna, essendone uno dei padri fondatori. In realtà, non si può caratterizzare la posizione di Nietzsche nel quadro dell'alternativa fra moderno e postmoderno, anzi, su questo terreno non la si mette nemmeno a fuoco. La fioritura di Nietzsche in un'epoca a lui conforme non lo introduce, come si è voluto ipotizzare, in un'era "successiva alla Modernità", a prescindere da cosa si intenda con questa espressione. 7. Vedi Beat Wyss, Vom Bild zum Kunstsystem, Verlag der Buchhandlung, Koln 2005, 2 voli.

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Ciò che Nietzsche aveva in mente non era la modernizzazione della Modernità e nemmeno un progresso oltre l'epoca del progresso. Egli non persegue neppure lontanamente la dissoluzione della sto~~ ria unitaria nelle molte storie, come sembra plausibile a molti spi"'.. riti critici, che durante l'ultima parte del xx secolo lavoraropo af~ finché l'illuminismo illuminasse se stesso. In Nietzsche ciò che conta è una radicale allocronia, una temporalità essenzialmente diversa nel mezzo del presente. La sua datazione autentica cade perciò nell'Antichità, ma siccome in epoca moderna essa può darsi solamente sotto forma di ripetizione, parliamo dunque di Neoantichità. L'Antichità neoantica, alla quale Nietzsche riconduceva la datazione di se stesso, non intende essere un semplice programma da mettere all'ordine del giorno a seconda dei bisogni del momento. Un'Antichità programmata contraddirebbe le intenzioni di Nietzsche, perché lo stesso gesto di annotarla tra gli impegni dell'attualità sarebbe indice di un modernismo inopportuno. Gli ordini del giorno forniscono le condizioni di lavoro,' nelle quali la Modernità dispone i propri passi sulla linea del tempo orientata al futuro, non importa se esso indichi un avanzamento sostanziale o vuoto. Ciò che Nietzsche ha in mente non è una ripetizione di antichi modelli secondo l' esemp,io della moda, la cui antichità risale ogni volta a un paio di anni prima; sapere se le · mode turnano nel giro di decenni o secoli non ha per lui alcuna importanza. Il suo concetto di allocronia - all'inizio introdotto ancora timidamente come "inattualità", ma in seguito radicalizzato per fuoriuscire dalla Modernità - poggia sull'idea, tanto suggestiva quanto immaginaria, che l'Antichità non abbia bisogno delle ripetizioni messe in scena dalle epoche successive, perché essa "in sostanza" ritorna continuamente per moto proprio. In altri termini, l'Antichità (o l'elemento antico) non rappresenta affatto una fase dell'evoluzione culturale ormai superata, presente solamente nella memoria collettiva e citabile per finalità culturali. Essa costituisce piuttosto una sorta di presente perdurante, un tempo di profondità, un tempo naturale, un tempo dell'essere, che continua a scorrere sotto il teatro della memoria e dell'innovazione. Se si potesse mostrare come il ritorno vinca la ripetizione e come il cerchio si faccia beffe della linea, non si sarebbe soltanto colta la peculiarità della decisiva datazione che Nietzsche compie di se stesso, ma si realizzerebbe inoltre quel presupposto grazie al quale riusciremmo a capire se e in che senso Nietzsche sia nostro contemporaneo, nonché se e in che misura noi siamo o vogliamo essere suoi contemporanei.

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Dovrebbe allora essere chiara una cosa: l'espressione "Rinascimento" rimane fruttuosa e ambiziosa solamente fino a quando con essa venga designata un'idea gravida di conseguenze, in base alla quale gli europei sono tenuti a promuovere un'esistenza e triodi di vivere successivi e alternativi alla loro definizione in termini cristiani. Dal punto di vista nicciano, non si tratta di imitare modelli antichi, ma di scoprire lAntichità, prima ancora di rianimarla sul piano dei contenuti, come modalità di un tempo non storico, non orientato in avanti, non progressivo: Ciò esige niente meno che la sospensione del tempo su cui poggi'a la cultura cristiana, sia che quest'ultimo venga presentato come accelerazione finale di natura apocalittica o come paziente pellegrinaggio nel mondo, ovvero, secondo i canoni della politica ecclesiastica, come intelligente combinazione di entrambe queste opzioni. È scontato che tale sospensione finisca per coinvolgere anche il tempo della cultura illuministica, il tempo del progresso e quello del capitale. Solamente in questo contesto ha senso occuparsi ancora una volta della sfida sovreccitata che Nietzsche ha lanciato al cristianesimo. Da una prospettiva attuale, essa costituisce un capitolo piuttosto scomodo, al quale ritorniamo soltanto perché indotti da ragioni che pesano più delle perplessità. La si potrebbe rubricare, non da ultimo per la simpatia che nutriamo nei confronti dell'autore, come episodio di una nevrosi/in de siècle, se nel contempo non rappresentasse anche il veicolo delle idee nicciane più preziose e destinate a durare. La polemica anticristiana mostra il suo versante produttivo non appena la si inserisce nella cornice del "progetto" dedicato da Nietzsche all'Antichità, il quale, come abbiamo visto, si proponeva di ritornare in senso rigenerativo a prima dell'era cristiana (e di fuoriuscire dallo schema Antichità-Medioevo-Modernità). Voler tornare a prima del cristianesimo significa, nella fattispecie, collocarsi prima di un modus vivendi che non sentiamo più come vincolante e che sembra ancora efficace solamente grazie a impropri adattamenti, a traduzioni nel gergo della civiltà cristiana e a nuove stilizzazioni dell'etica (e della politica) imperniate sulla commiserazione (inclusa lautocommiserazione). Quando Nietzsche spicca il suo salto all'indietro, a prima della civiltà cristiana, non si schiera assolutamente per la sua riforma in senso umanistico. Questa riforma aveva costituito il programma compromissorio della Modernità europea, che in un lavoro secolare di tipo letterario, pedagogico e filantropico creò quel mostruoso ibrido chiamato "umanesimo cristiano", da Erasmo a Thomas Stearns Eliot, da Comenio a Montessori, 41

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da Ignazio a Albert Schweitzer. Ciò che occupa Nietzsche non concerne le condizioni di possibilità di un amalgama, ma i presuppostj della rottura radicale con il sistema delle mezze misure. L'espressi~­ ne "cristianesimo", nell'uso che ne fa Nietzsche, non indica in prima istanza l' omqnima religione, ma allude, come fosse un codice, 'a un determinato habitus religioso-metafisico: una posizione rispetto al mondo definita intermini ascetici (nel senso dell'espiazione e della rinuncia), un modo infelice per differire il godimento della vita, per orientarsi verso l'aldilà e per allontanarsi dai fatti secolari. Su questi temi, Nietzsche si è scagliato nel suo Anticristo con il furore di un uomo che intendeva demolire i pilastri portanti della tradizione religiosa occidentale e al contempo della propria esistenza. Quanto detto mi permette di sostenere la tesi che lega queste riflessioni al tema del libro: in qualità di attore e medium di un'Antichità concepita diversamente, Nietzsche diventa lo scopritore delle culture ascetiche nella loro smisurata estensione storica. In questo senso ha importanza osservare che, in greco classico, la parola askesis (accanto alla parola melete, che è anche il nome di una Musa), significa semplicemente "esercizio" o "allenamento". Sulla scorta della sua nuova classificazione dicotomica degli spiriti ascetici, Nietzsche non scopre solamente l'importanza fondamentale della vita incentrata sull'esercizio per la costituzione di stili esistenziali o di "culture". Egli inoltre mette mano all'articolazione delle forme di esercizio, a suo avviso decisiva per tutte le morali, dividendole tra ascesi dei sani e ascesi dei malati, presentando quest'antitesi senza la minima remora e con una nettezza quasi caricaturale. I sani - un termine già sottoposto a innumerevoli decostruzioni8 - sono coloro che, poiché sani, intendono perfezionarsi con buone pratiche ascetiche; i malati invece sono coloro che, poiché malati, meditano vendetta con pratiche ascetiche negative. Non possiamo che definire questa teoria come un'orripilante semplificazione dei fatti. Eppure non possiamo evitare di ammettere che, tramite questa tesi, espressa con la durezza di una martellata, venga messo in luce qualcosa che bisognerebbe apprezzare come una delle maggiori scoperte della storia spirituale. Nietzsche va considerato, né più né meno, lo Schliemann delle pratiche ascetiche. Aveva assolutamente ragione quando, in mezzo.ai suoi cantieri di scavo, circondato dalle psicopatiche rovine dei millenni e dai 8. Vedi Aaron Antonovsky, Salutogenese: Zur Entmysti/izierung von Gesundheit, Dgvt, Tiibingen 1997.

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ruderi di regge marcescenti, esibiva la posa trionfalistica dello scopritore. Oggi sappiamo che stava scavando nel punto giusto, sebbene ciò che finì per dissotterrare fosse, per restare nella metafora, non la Troia di Omero, ma uno strato più tardo. Inoltre, buona parte delle pratiche ascetiche, alle quali egli si interessò polemicamente, non esprimeva affatto negazione della vita o ipocrisia metafisica, quanto piuttosto eroismo praticato nelle regioni incognite dello spirito. Le interpretazioni avanzate da Nietzsche, puntualmente erronee, non riescono tuttavia a sminuire il significato della sua scoperta. Con il suo rinvenimento, Nietzsche si colloca fatalmente, nel senso positivo della parola, all'inizio della teoria moderna e non spiritualistica dell'ascesi, insieme ai suoi annessi e connessi concettuali tratti dalle fisiotecniche e dalle psicotecniche, dalle dietologie e dagli allenamenti autoreferenziali, incluse tutte le forme di esercizio e di lavoro sulla propria vitalità, che ho riassunto nell' espressione di "antropotecniche". È difficile sopravvalutare l'importanza dell'impulso derivaf!te dalle nuove opinioni di Nietzsche sui fenomeni ascetici. Trasferendosi in un'Antichità "sovraepocale", la quale cova sotto la non-Antichità medievale e moderna, ma anche sotto ogni avvenire, Nietzsche acquisì la misura necessaria di eccentricità per gettare una sorta di sguardo dall'esterno sul proprio tempo (e non solo su quello). La datazione alternativa di se stesso gli consentì un balzo fuori dal presente, che gli fornì una vista abbastanza acuta per abbracciare, in un'inedita sinossi, il continuum delle culture alte, il regno, durato tre millenni, degli esercizi spirituali, degli addestramenti di sé, dell'elevazione personale e dei modi per concentrarsi, in breve: l'universo delle tensioni verticali codificate in termini metafisici. A tale riguardo vanno citati soprattutto quei capitoli della Genealogia della morale, il capolavoro dedicato appunto alla critica della morale, che sottopongono il loro oggetto a un interrogatorio serrato attraverso un linguaggio di olimpica chiarezza. Nel passo decisivo si parla delle forme di esercizio collegate alla negazione della vita o alla stanchezza nei confr9nti del mondo, un atteggiamento che in complesso, secondo Nietzsche, caratterizza il novero delle pratiche ascetiche malate. L'asceta (sul modello del prete-malato, NdA) tratta la vita come un sentiero sbagliato, che si dovrebbe percorrere a ritroso fino al punto dove comincia; oppure come un errore che si confuta, che si deve confutare, mediante lazione: lasceta infatti esige che si proceda insie-

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me a lui, impone a forza, dove può, la sua valutazione dell'esistenza.'., Ma di che cosa si tratta? Una simile, mostruosa maniera di valutare non è iscritta nella storia umana come eccezione e stranezza: essa costituisce uno dei fatti più diffusi e duraturi che vi siano. Letta a partire da un astro lontano, la scrittura in maiuscolo della nostra esistenza terrestre ci indurrebbe forse a concludere che la Terra sia la stella t propriamente ascetica, un angolino colmo di creature malcontente, superbe e ostili, che non riuscirebbero assolutamente a liberarsi da un profondo fastidio nei confronti di se stesse, della Terra, di ogni vita, e che farebbero a se stesse quanto più male possibile, per il divertimento di far male - probabilmente il loro unico divertimento. 9

Con questo brano, Nietzsche si presenta come pioniere di una nuova scienza umana, che si potrebbe designare "astronomia culturale". Il suo metodo consiste nell'osservare il nostro corpo celeste grazie a immagini di formazioni culturali prese da grande altitudine. Attraverso le nuove astrazioni illustrative, la vita dei terrestri viene esplorata in cerca di modelli universali: in questo senso, l'ascetismo, appare come una struttura sviluppatasi storicamente, che Nietzsche chiama, in modo del tutto legittimo, "uno dei fatti più diffusi e duraturi che vi siano". Questi "fatti" richiedono una cartografia adeguata alla loro natura nonché una geografia e una scienza specialistica adeguate. Le genealogie delle morali non vogliono essere altro che · questo. La nuova scienza che studia la provenienza dei sistemi morali (ed eo ipso i modi di vivere e di esercitarsi orientati dalla morale) è la prima figura in cui compare la disciplina che chiamo "Teoria generale dell'ascesi". Con essa prende avvio la storia esplicativa delle religioni e delle varie etiche in quanto prassi antropotecniche. Non dev'essere per noi fuorviante la circostanza che Nietzsche; in questo passo, parli esclusivamente delle prassi ascetiche dei malati e dei loro assistenti, i sacerdoti. La stella ascetica cui egli guarda è il pianeta dei praticanti nel suo complesso, il pianeta degli individui dotati di alta cultura, il pianeta di chi ha iniziato a dare forme e contenuti alla propria esistenza, nel mezzo di tensioni verticali e nella cornice di svariati programmi, più o meno rigidamente codificati, di allenamento. Quando Nietzsche parla della stella ascetica, non è perché avrebbe preferito nascere su un astro più rilassato. Il suo istinto per l'Antichità gli suggerisce che ogni corpo celeste che merita di essere abitato deve essere una stella ascetica (nel senso rettamente in9. Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. mod. Adelphi, Milano 1993, "Terza dissertazione. Che significano gli ideali ascetici?", § 11, p. 111.

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teso del termine), popolata di individui dediti all'esercizio, ambiziosi, virtuosi. Che cos'è per lui l'Antichità se non una cifra dell'epoca nella quale gli individui dovettero diventare abbastanza forti per confrontarsi con un'immagine sacral-imperiale della totalità? Le grandi visioni del mondo tipiche dell'Antichità erano caratterizzate dal proposito di illustrare ai mortali in che modo potevano vivere in armonia con l"'universo", anche e soprattutto quando la totalità mostrava loro la sua faccia enigmatica, la sua spietatezza nei confronti dei singoli individui. Ciò che chiamiamo saggezza degli antichi èra in sostanza un olismo tragico, un adattarsi a grandi totalità, impossibile senza eroismo. Gli abitanti della stella nicciana, specie i maschi, avrebbero dovuto portare nuovamente il peso del mondo senza lamentarsi, conformemente alla massima dello stoicismo, secondo la quale ciò che conta è mantenersi in forma per il cosmo. Qualcosa di simile si ritroverà, alcuni anni più tardi, anche nella dottrina heideggeriana della cura, che richiama i mortali a prendere atto del carattere gravoso dell'esistenza (dopo il 1918 i mortali sono, in primo luogo, i feriti di guerra e i reduci, i quali devono tenersi pronti, in qualità di candidati ottimali, per sperimentare altri modi di morire su altri fronti). In nessun caso la Terra poteva rimanere quel sanatorio in cui il clima generale veniva determinato dai programmi basati sul risentimento ed elaborati dai deboli, nonché dalle arti del risarcimento esercitate da chi si sentiva offeso. Nel distinguere tra loro le pratiche ascetiche, Nietzsche collocò da un lato la variante sacerdotale, da lui radiografata con sguardo malevolo, e dall'altro lato, nettamente separate, le regole disciplinari degli individui spiritualmente creativi, filosofi e artisti, nonché gli esercizi di guerrieri e atleti. Se per i primi quello che conta è un'ascesi per così dire patogogica -la capacità di un'élite di sofferenti di opprimere se stessi a regola d'arte, capacità in forza della quale questa stessa élite diventa idonea a guidare gli altri e a trascinare i sani nella propria insana condizione-, i secondi impongono a se stessi delle regolamentazioni soltanto perché in esse vedono il mezzo per giungere alla condizione ottimale di pensatori e creatori di opere. Ciò che Nietzsche chiama il pathos della distanza10 è interamente dedicato alla separazione degli spiriti ascetici. Bisogna "tenere eternamente distinti anche i compiti": gli esercizi con i quali le persone di successo, buone e sane, hanno ancora più successo, migliorano e diventano ancor più sane, vanno separati da quegli esercizi che pongono i negatori in10. Ibidem, § 14, p. 119.

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calliti, i malvagi e i malati su colonne o pulpiti, non importa se in" virtù di sentimenti di superiorità maturati in modi perversi o per distogliersi dal loro tormentoso interesse verso la propria malattia e il proprio fallimento. 11 Inutile sottolineare che qui l'opposizione tra sano e malato non va intesa semplicemente in termini medici: essa funge da differenza guida per un'etica che prediliga la vita basata sul "primo moto" (''una ruota ruotante da sola") rispetto alla vita in cui prevale l'inibizione del movimento. Con l'ampliamento delle prospettive sulla storia morale, è possibile comprendere la tesi del Rinascimento atletico e somatico. Alla volta tra XIX e xx secolo, il fenomeno chiamato "rinascita dell' Antichità", secondo le convenzioni linguistiche adottate dalla scienza del1'arte, entrò in una fase che modificò radicalmente tutti i nostri motivi di interessamento per i relitti culturali antichi o addirittura protoantichi. Si tratta, come abbiamo visto, di un ritorno a un'epoca nella quale il cambiare vita non si trovava ancora sotto l'egida delle pratiche ascetiche negatrici della vita stessa. Questo tempo "sovraepocale" può essere definito altrettanto bene come avvenire, e quello che sembra rappresentare un regresso al passato può anche essere immaginato come un balzo in avanti. La maniera in cui Rilke fa esperienza del torso di Apollo attesta la stessa svolta culturale sulle cui tracce si trovava Nietzsche, quando spinse le sue riflessioni sull'istituzione delle pratiche ascetiche sacerdotali, "bionegative" e spiritualistiche, fino al punto in cui diventava visibile la lotta paradossale della vita sofferente contro se stessa. Imbattendosi nei fondamenti teorici dell'ascesi tipici dei modi più elevati di vivere, Nietzsche attribuì alla "morale" un nuovo significato. Lo spessore dello strato che, nella condotta umana, è riconducibile all'esercizio è stato compreso in maniera sufficientemente ampia da includere interamente l'antitesi tra le "morali" affermative e quelle negatrici. Lo sottolineo ancora una volta: questa scoperta di "uno dei fatti più diffusi e duraturi che vi siano" non riguarda soltanto le elaborazioni del rapporto con se stessi basate sull' autoafflizione. Essa include tutte le varianti della "cura di sé", nonché tutte le forme di cura impiegate per conformarsi a ciò che sta al massimo livello (das Hachste). Inoltre, l'ambito di competenza della teoria dell'ascesi in quanto teoria generale dell'esercizio, dottrina dell'habitus e disci11. Ibidem,§ 18, pp. 129 sgg. Da queste indicazioni Alfred Adler ha dedotto il suo approccio individuai-psicologico alla psicoterapia, secondo il quale la nevrosi viene definita come dispendiosa costruzione ausiliaria finalizzata a salvaguardare l'illusione di superiorità tipica dell'inferiore.

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plina embrionale del!' antropotecnica, non rimane circoscritto ai fenomeni culturalmente alti e ai risultati spettacolari delle elevazioni spirituali o somatiche (sfocianti nelle più svariate configurazioni del virtuosismo), ma include altresl ogni continuum vitale, ogni sequenza abitudinaria, ogni successione vissuta, incluse l'attività apparentemente più informe e la fiacchezza più trasandata. Nei tardi scritti di Nietzsche non si fatica certo a riconoscere una marcata unilateralità: egli non ha seguito il versante positivo delle sue scoperte teoriche nel campo del!' ascesi con la stessa energia da lui dimostrata rispetto alle scoperte del polo insano, senza dubbio perché era maggiormente incline a occuparsi del significato terapeutico degli ideali ascetici negativi piuttosto che del significato atletico, dietologico, estetico e anche "biopolitico" dei programmi positivi di esercizio. Per tutta la vita egli fu sufficientemente malato per interessarsi alle possibilità di superamento interpretativo della malattia e sufficientemente lucido per rifiutare le interpretazioni tradizionali di ciò che non è interpretabile in quanto privo di senso. Nel suo caso, dunque, il malcelato rispetto per il successo dimostrato finora dagli ideali ascetici nella storia dell'umanità si è associato al consapevole rifiuto di servirsene a fini personali. È a partire da questa oscillazione tra il riconoscimento della condotta costrittiva nei confronti di se stessi e lo scetticismo rispetto all'eccessiva estensione idealistica di simili pratiche che deriva, per Nietzsche, il nuovo interesse per l'ambito comportamentale caratterizzato, in complesso, da ascesi, esercizio, cura di sé. Ciò che ora ci prefiggiamo è di descrivere questo ambito mediante le nuove formulazioni di una teoria generale delle antropotecniche. Bisogna tenere presenti tre aspetti che rendono così ricca di conseguenze e dì problemi la scoperta della "stella ascetica". In primo luogo, il nuovo sguardo nicciano sulla dimensione del!' ascesi è possibile solamente in un periodo nel quale le pratiche ascetiche si somatizzano su un piano postspirituale, mentre le manifestazioni di spiritualità si verificano, al contrario, con modalità postascetiche, refrattarie alla disciplina e informali. Ritengo che la de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche sia, nel!' attuale storia spirituale dell'umanità, l'evento più vasto, il più difficile da vedere a causa del suo maxiformato, e tuttavia il più avvertibile e il più influente sull'atmosfera generale. A esso corrisponde, in rapporto inverso, la tendenza a rendere informale la spiritualità nonché a gettarla sul mercato sotto forma di corrispondenti subculture. I valori marginali

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delle due tendenze sono forniti dai punti di riferimento spiritua4 del XX secolo: per la prima tendenza troviamo lo sport, diventato la metafora per eccellenza della performance, mentre. per la seconda tendenza troviamo la neomistica popolare, questa devotio postmoderna che invade la vita degli individui contemporanei con imprevedibili blitz di stati di eccezione interiori. In secondo luogo, sulla stella ascetica, dopo la sua scoperta, diventa sempre più evidente la differenza tra coloro che lavorano poco o tanto su di sé e coloro che invece vi lavorano poco o per nulla. Si tratta di una differenza non riconducibile né a un'epoca né a un' etica. Nemmeno la sociologia riesce a venirne a capo. In epoca monoteistica, Dio veniva considerato come colui che tutto causa e compie, ragion per cui non compete agli esseri umani lavorare poco o tanto su di sé. Nelle epoche umanistiche, al contrario, l'individuo è visto come colui tramite il quale tutto viene causato e compiuto ... ma a quel punto non ha più alcun diritto di sottrarsi al poco o tanto lavoro su di sé. Non importa se ora gli indiVidui lavorano per nulla o molto su di sé: commettono comunque, secondo le logiche tradizionali, un inspiegabile e imperdonabile errore. Sul piano delle differenze, permane sempre un'eccedenza non inseribile in alcuno dei precedenti sistemi di interpretazione dell'esistenza. In un mondo che appartiene a Dio, basta che l'individuo alzi la testa per lavorare su di sé. · In un mondo invece che appartiene agli esseri umani, questi ultimi lavorano normalmente troppo poco su di sé. Che la ragione delle disuguaglianze tra gli individui possa trovarsi nelle loro pratiche ascetiche, nei loro diversi approcci alle sfide poste dalla vita incentrata sull'esercizio, è un'idea che non è mai stata formulata nella storia degli studi dedicati alle cause ultime della diversità tra gli individui. Se tali studi approfondissero questa ipotesi, dischiuderebbero prospettive letteralmente inaudite, poiché mai pensate. In terzo e ultimo luogo, se Rinascimento atletico e somatico significa che le pratiche ascetiche de-spiritualizzate sono nuovamente possibili, auspicabili ed essenzialmente plausibili, allora riusciamo a rispondere serenamente all'esaltata domanda che Nietzsche pone alla fine di Genealogia della morale: verso che cosa possa ancora orientarsi la vita umana dopo il crepuscolo degli dèi. La vitalità, intesa in senso sia somatico sia spirituale, è essa stessa il medium che contiene un divario tra più e meno. Essa porta dunque in se stessa l'elemento verticale, quello che orienta le ascensioni, e non ha bisogno di attrattori aggiuntivi, esterni o metafisici. In questo contesto, non c'importa che Dio sia morto. Con o senza Dio, ciascuno di noi 48

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avanza solamente nella misura in cui la propria forma o condizione atletica glielo permette. Come sappiamo, nel periodo della sua rappresentazione culturale più spettacolare, "Dio" stesso era l'attrattore più plausibile,per i modi di vivere e di esercitarsi che anelavano "a lui": e questo a-lui era identico a "verso l'alto". La preoccupazione nicciana di salvare la tensione verticale dopo la morte di Dio dimostra con quale sensibilità per la serietà della questione egli svolse il suo compito di "ultimo metafisico", senza che gli sfuggisse però il lato comico della sua missione. Egli trovò il suo grande ruolo come testimone della verticalità senza Dio. Che egli, nel periodo in cui visse, non avesse da temere rivali, dà ragione alla sua scelta. La sua pretesa di tenere sgombra la posizione sommitale occupata dal Dio defunto fu una passione che, nel Novecento, fu condivisa da non pochi compagni di sventura: ciò giustifica fino a oggi l'identificazione virulenta di molti lettori con l'esistenza di Nietzsche e con le sue invivibili conti;addizioni. A questo proposito, per una volta si potrebbe usare l' epiteto "tragico". Il teomorfismo della sua vita interiore resse l'urto provocato dai suoi esercizi volti a distruggere Dio. L'autore della Gaia scienza fu consapevole di quanto anche lui fosse ancora devoto. Nello stesso tempo, avendo compreso fin troppo bene quali tegole del gioco vigevano sulla stella ascetica, dovette risultargli chiaro che tutte le ascensioni iniziano dal campo base della vita comune. Se le sue domande: "Trascendere, ma verso dove?", "Ascendere, ma a che altitudine?" avessero trovato una risposta in modo spontaneo, egli sarebbe tranquillamente rimasto sul terreno dei fatti ascetici. Ma Nietzsche era troppo malato per dare seguito alle sue conoscenze più importanti, ossia che l'aspetto principale della vita è prendere sul serio gli aspetti secondari. Dove si rafforzano gli aspetti secondari, viene imbrigliato il pericolo che deriva dall' aspetto principale. Salire più in alto nelle cose di secondaria importanza significa dunque avanzare in ciò che conta di più.

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3 FINIRANNO PER SOPRAVVIVERE SOLO GLI STORPI LA LEZIONE DI UNTHAN

Che la vita sia intrecciata alla necessità di andare avanti malgrado le grosse difficoltà appartiene alle esperienze fondamentali di quel particolare gruppo di persone che un tempo venivano chiamate, con una chiarezza spensierata, gli storpi, 12 e che gli spiriti dei contemporanei, più moderni, si presume più umani, più comprensivi e più rispettosi, hanno ribattezzato handicappati, diversamente abili, bambini problematici e infine, semplicemente, "persone". 13 Se in questo capitolo continuo a utilizzare l'espressione di un tempo, oggi divenuta ormai indelicata, è esclusivamente perché, nel vocabolario del periodo al quale risalgo per queste indagini, essa trovava la sua collocazione originaria. Se si abbandonasse quel termine per questioni di sensibilità, o anche soltanto per delicatezza, sparirebbe con esso un sistema di indispensabili osservazioni e opinioni. Nel presente capitolo vorrei illustrare l'inconsueta convergenza di esse:' re umano e storpio nei discorsi della generazione successiva a Nietzsche, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasformazione strutturale che, in età moderna, ha investito le motivazioni delle perso~ ne a elevarsi. Mostreremo dunque in che misura il discorso dell'individuo novecentesco poggi (juf,t) su premesse di antropologia della disabilità, e come I' antropologia della disabilità trapassi spontaneamente in un'antropologia del "nonostante". In essa, l'individuo umano appare come I' animale che deve andare avanti perché è ostacolato da qualcosa. 12. Kruppel sono gli invalidi, i disabili, gli handicappati, i diversamente abili. Si

è preferito usare il termine italiano "storpi" proprio per la sua arcaicità. Essa rispecchia anche l'uso di questo termine da parte dell'autore. [NdC] 13. Rammentiamo la celebre iniziativa dell'associazione tedesca per I'assistenza ai disabili Aktion Sorgenkind, fondata nel 1964, che sotto la spinta della correctness contemporanea, dal marzo 2000, è stata ridenominata Aktion Mensch.

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Il verbo fuflen ("basarsi, poggiare", letteralmente "mettere i piedi su") mi offre la parola chiave per proseguire le esplorazioni sul pianeta dei praticanti promosse da Nietzsche e, in un certo senso, anche la riflessione sui torsi avviata da Rilke. Nel 1925, due anni prima che Heidegger pubblicasse Essere e tempo, tre anni prima che Scheler desse alle stampe La posizione del!' uomo nel cosmo, comparve, nella collana "Memorienbibliothek" della casa editrice Lutz di Stoccarda, un libro dal titolo, divertente e al contempo scioccante, Das Pediskript. Aufzeichnungen aus dem Leben eines Armlosen, mit 30 Bildern ["Il pediscritto. Appunti dalla vita di una persona senza braccia, con 30 illustrazioni"]. Scritto dalla "penna" di Cari Hermann Unthan, nato in Prussia orientale nel 1848 e morto nel 1929, de facto venne redatto usando un pennino tenuto con il piede e battuto sulla macchina da scrivere. Senza dubbio, Unthan merita un posto nel pantheon che ospita chi, suo malgrado, è diventato un virtuoso dell'esistenza. Unthan rientra nel novero di chi ha saputo lavorare molto su di sé, sebbene, viste le condizioni di partenza, tutto inducesse a pensare che avrebbe concluso poco o nulla. All'età di sei o sette anni il giovane, nato senza braccia, scoprì casualmente la possibilità di suonare il violi- è no fissandolo a una cassa poggiata per terra. Unendo ingenuità e tenacia, approfondì e migliorò il modo, da lui scoperto, di suonare il violino con i piedi. Il piede destro svolgeva la funzione della mano le cui dita pigiano le corde, mentre il piede sinistro muoveva l'archetto. Il giovane eseguì i suoi esercizi con tale perseveranza che, dopo aver frequentato il liceo a Konigsberg, venne ammesso al conservatorio di Lipsia. Qui, praticando una quantità enorme di esercizi, raggiunse un grado considerevole di virtuosismo. Il suo repertorio si ampliò e in breve incluse anche brani di estrema difficoltà artistica. Naturalmente, la bravura del disabile nel suonare il violino non· avrebbe potuto attirargli, nemmeno lontanamente, la stessa atten-. zione attribuitagli per via della improbabilità acrobatica dei suoi gesti, se questi fossero stati praticati nelle modalità consuete. Non passò molto tempo che un impresario del varietà iniziò a interessarsi di Unthan. Ancora minorenne, dal 1868 questi intraprese una serie di concerti che lo condusse, dopo alcune tappe intermedie nella provincia tedesca, nelle capitali d'Europa, e in seguito anche oltreoceano. Suonò tra l'altro a Vienna, dove fu presentato ai direttori d' orchestra J ohann StrauB e Michael Zierer. A Monaco di Baviera impressionò Josef Gungl, di origini ungheresi-bavaresi, direttore della banda militare e re del valzer, eseguendo il Valzer per idropatici, che Gungl aveva appena composto. Gungl rimase esterrefatto, in

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particolare, dall'esecuzione con le dita del piede delle note accoppiate. Dopo un concerto tenuto a Budapest, nella "sala da ballo strapiena", Franz Liszt, che sedeva in prima fila, si complimentò con lui per il suo virtuosismo. Gli diede "un buffetto sulla guancia" e una "pacca sulla spalla", mostrandogli il proprio apprezzamento. Unthan osserva in proposito: "Che cosa fu che mi fece dubitare del1' autenticità del suo entusiasmo? Perché quest'ultimo mi apparve inautetico? ". 14 Si capisce: con questo appunto Unthan, ormai ultrasettantenne quando redige il Pediscritto, non tocca solamente i fenomeni imponderabili nei rapporti tra virtuosi più giovani e più anziani. Gli interrogativi, formulati mezzo secolo dopo che ebbe luogo la scena descritta, avevano senso in quanto sintomo: essi rieordavano all'autore un periodo lontano, quando era ancora viva l'illusione di poter essere preso sul serio come musicista e non come fenomeno da baraccone. Nei gesti di Liszt, pieni di compassione paterna, l' autore avvertiva ancora, a cinquant'anni di distanza, il soffio gelido della disillusione: Liszt, egli stesso un ex bambino prodigio, sapeva per esperienza a quale vita andavano incontro i virtuosi di ogni specie. In questo caso, a maggior ragione, egli deve aver intuito che cosa attendeva quel giovane che, vincendo un capriccio della natura, si incamminava per le vie del mondo. Un cliché ampiamente diffuso tra i biografi vuole che il loro eroe, sovente dopo anni di iniziale fatica, "parta alla conquista del mondo". Unthan, nel redigere la propria autobiografia, adotta questo espediente narrativo, presentando, aneddoto dopo aneddoto, la saga del suo successo come un lungo resoconto di viaggio, di metropoli in metropoli, di continente in continente. Egli narra la storia di una lunga esistenza in continuo movimento: su piroscafi Cunard, con la ferrovia, negli hotel di ogni categoria, in prestigiose sale da concerto o in miseri locali. Trascorse la maggior parte della sua carriera su palcoscenici di sospetti varietà, dalle cui ribalte, alla fine dei suoi spettacoli, lanciava "baci con i piedi" al pubblico sbalordito. 15 Il rumore di fondo che caratterizzò la vita pubblica di Unthan fu probabilmente la fragorosa esultanza delle folle, stupite per la sua esibizione. LeAu/zeichnungen ["Appunti"] di Unthan, non classificabili come autobiografia né come memorie, ma catalogabili piuttosto sotto la voce mirabilia, sono redatte con un linguaggio ingenuo e al contempo sentimentale, zeppo di frasi fatte, adeguato al gene14. Carl Hermann Unthan, Das Pediskript, Lutz, Stuttgart 1925, p. 73. 15. Ibidem, p. 147.

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re del saggio aneddotico, consueto intorno alla metà del XIX secolÒ, scritto per così dire con la lingua ali' angolo della bocca. A ogni pagina del Pediscritto l'autore esprime la sua convinzione, ossia che nella traboccante raccolta di pittoresche situazioni quotidiane traspaia il proprio successo. Come uno scrittore di racconti di viaggio dell'epoca borghese, Unthan elenca le sue perle: il primo concerto, la prima bicicletta, la prima delusione. Accanto a essi, pul~ lulano le osservazioni bizzarre: una corrida in cui il toro ha incornato vari toreri; un mangiatore di spade che si ferisce la gola con un ombrello; femmine di ogni età dal trucco vistosissimo ali'Avana nel 1873: "Su tutte spirava una brezza di decadenza"; e sulle danze del, le nere: "Vedemmo le cose più proibite che mai siano immaginabili"; un pasto a base di lucertole in Messico; "tutto esaurito" aValparaiso, dove "il Sole tramontava lento nell'Oceano Pacifico, come se l'addio gli risultasse gravoso [ ... ] "; sette ore di nuoto a ritmo regolare, "senza girarmi nemmeno una volta sul dorso", con conseguente, violenta ustione; incontro con un pittore ritrattista a Diisseldorf, anch'egli senza braccia, un compagno di sventura che dipingeva con una gamba: "era tutto un domandare e rispondere senza fine'', "aveva una gioia di vivere e una spavalderia incredibili. Le nostre conversazioni, tuttavia, finivano di solito su temi profondi" .. La morte della madre: "Qualcosa pregava dentro me: che cosa fosse non lo sapevo e ancora adesso non lo so". Esibizioni in Oriente, dove le persone sono più ricercate: "La semplice enumerazione delle mie esperienze più incredibili riempirebbe da sola interi libri". Delusione sulla tomba di Cristo, dove sembrava che si fosse "riunita tutta la gentaglia più infame della Terra"; arresto al Cairo, intossicazione da nicotina a Vienna; spari di fucile con il piede a San Pietroburgo, in presenza dello zar Alessandro III; esibizione a Managua, dove "la città Le6n portava il marchio dell'arretratezza"; una cometa nel cielo di Cuba; recitazione in un film dal titolo I.: uomo' senza braccia. A bordo del piroscafo Elba, in direzione di New York, incontra Gerhart Hauptmann 1 che conversò brevemente con l' artista. Infine, il Nuovo Mondo: "L'americano dimostra una stimolante comprensione per ciò che è inconsueto"; "'Lei è la persona più felice che io conosca', disse uno che chiamavano John D. 'E Lei con il Suo denaro, signor Rockefeller?' gli chiesi. 'Con tutti i miei soldi non posso comprarmi la Sua gioia di vivere [ ... ] "'. Il Pediscritto potrebbe essere letto come una sorta di performance sul piano della "filosofia della vita", nel senso popolare del termine. Unthan si presenta davanti al suo pubblico con il contegno di un

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acrobata, il cui peculiare virtuosismo nell'uso del violino, ma in seguito anche del fucile e della tromba, è situato all'interno di uri virtuosismo complessivo, di un esercizio continuo dell'arte di vivere che compenetra tutti gli aspetti dell'esistenzà. Non a caso, la sezione illustrata del libro mostra l'autore mentre esegue principalmente operazioni quotidiane, come aprire porte o mettersi il cappello. Qualora si volessero tradurre in termini teorici le intuizioni generiche di Unthan, la sua posizione andrebbe definita come un "esistenzialismo da storpi" con sfumature vitalistiche. Pertanto, il disabile ha l'opportunità di considerare il suo esser-gettato nella disabilità come pun~o d'avvio per intraprendere un'interazione molto ampia con se stes~o. Con ciò non intendiamo solamente il fondamentale approccio autoterapeutico, così come viene espresso da Nietzsche in Ecce homo, nel capitolo "Perché sono tanto saggio", secondo paragrafo: "Mi presi in mano, mi guarii da solo" .16 Unthan rapporta la sua scelta al proprio awenire. Al ventunenne, che si sente costretto all'indipendenza, mette in bocca queste parole: "Afferrerò me stesso con pugno di ferro, prenderò tutto quanto da dentro me stesso[ ... ]"~ 17 La disabilità viene interpretata da Unthan come una palestra della volontà. "Nelle persone che, fin dalla nascita, cercano di farcela da sole senza essere ostacolate in ciò, si sviluppa una volontà ... l'impulso all'autonomia ... lo stimolo a cercare di farcela sempre." 18 Ne deriva un positivismo emotivo che si accompagna a un rigoroso divieto di essere malinconici. L' awersione di Unthan per ogni sorta di compassione ricorda analoghe formulazioni della filosofia morale nicciana. Soltanto delle sofferenze continue sono forse in grado di fiaccare un disabile: "La volontà sconfigge tutti gli altri inconvenienti e si apre il cammino verso il Sole" .19 La "concezione solare della vita", tipica dello storpio che ha potuto dispiegarsi liberamente, conduce, come abbiamo sentito, a una "più elevata percentuale di gioia di vivere" di quella che possiamo rinvenire nell"'individuo completo" .20 Unthan conclude i suoi appunti con un riassunto che rappresenta il suo testamento: 16. Friedrich Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 20. [NdT] 17. Cari Hermann Unthan, Das Pediskript, cit., p. 97. 18. Ibidem, p. 306. 19. Ibidem, p. 307. 20. Ibidem.

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Rispetto alle persone complete non mi sento per nulla minorato ... · .. Non ho mai incontrato qualcuno con il quale, dopo aver considerato tutte le circostanze, avrei fatto cambio. Ho lottato in continuazione, con me stesso più ancora che con I' ambiente circostante, ma i piaceri più delicati dell'anima, generatisi proprio in conseguenza delle lotte derivanti dalla mia disabilità, non li cederei nemmeno per tutto l'oro del mondo. 21

Quello che conta, in definitiva, è garantire allo storpio la possibilità di dispiegarsi liberamente: Unthan condensa in questa tesi le sue intuizioni morali, che oscillano tra anelito all'emancipazione e richiesta di partecipazione. Con il termine "dispiegarsi liberamente" non bisogna intendere la licenza di compiere eccessi estetici, come reclamavano per sé gli ideologi della bohème contemporanei di Unthan. Lasciare allo storpio "abbastanza luce e aria per svilupparsi"22 significa piuttosto concedergli lopportunità di partecipare alla normalità. In tal modo, per il disabile si capovolge il rapporto tra borghesi e acrobati: egli non può più, come un borghese che vuole evadere dalla quotidianità, sognare di seguire la gente a bordo di una carrozzina. Se intende diventare artista, è per poter essere un · borghese. Pedui l'acrobatica costituisce la quintessenza del lavoro borghese e guadagnarsi da vivere con essa è per lui fonte d'argo~ glia. A un certo punto l'autore annota che non avrebbe mai accettato in dono, da qualche persona facoltosa, una pelliccia per l'inverno, come a suo tempo fece Walther van der Vogelweide: "Preferirei cucire la pelliccia con i miei piedi". 23 Nel nocciolo etico dell'esistenzialismo da storpi professato da Unthan si scopre il paradosso di una normalità per anormali. In questo caso, vi sono tre motivi, esistenzialistici nel senso stretto del termine, che la filosofia del XX secolo si è riservata di elaborare: in primo luogo, la figura della scelta di dedicarsi a se stesso, in forza della qua" le il soggetto lavora su ciò a cui esso è stato ridotto; in secondo luogo, la condizione socio-ontologica inevitabile, nella quale ciascuno si trova situato e che esiste sotto lo "sguardo dell'altro": da essa deriva l'impulso alla libertà e si esprime quella "spinta" ad affermarsi contro il potere paralizzante che promana dall'occhio altrui; e infine, la tentazione di mentire, con la quale il soggetto getta via la libertà, per rivestire il ruolo di cosa tra cose, di un In-sé, di un dato naturale. 21. Ibidem. 22. Ibidem. 23. Ibidem, p. 72.

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Dalla prospettiva dell'esistenzialismo francese, Unthan ha fatto tutto correttamente: sceglie di dedicarsi a se stesso, si afferma contro l'umiliante compassione degli altri, rimane protagonista della propria vita e non asseconda le PJ~sunte circostanze di forza maggiore. Tuttavia, il motivo per cui egli fa tutto correttamente-forse più correttamente di quanto si potrebbe esprimere nel gergo filosofico - non può essere chiarito a sufficienza con gli strumenti intellettuali propri della riflessione maturata sulla sponda sinistra del Reno. L'insufficienza degli approcci francesi deriva dal fatto che l'esistenzialismo nato in Francia dopo il 1940 ha formulato una filosofia per persone politicamente handicappate (nel caso specifico: per membri di un Paese occupato), mentre in Germania e Austria, a partire dall'ultimo terzo del XIX secolo, era nata una filosofia dalle tinte vitalistico-terapeutiche per handicappati fisici e psichici, in particola-. re per nevrotici e storpi, la quale dopo il 1918 si caricò di contenuti politici, filosofico-sociali e antropologici. Mentre i francesi, attraverso l'occupazione, impararono a collegare l'esistenza (e la verità esistenziale) alla resistenza e alla libertà presenti sullo sfondo, i te-. deschi e gli austriaci avevano iniziato, un paio di generazioni prima, a equiparare l'esistenza (e la verità esistenziale) alla ostinazione (Trotz) e alle compensazioni. Di conseguenza, nella prima metà del XX secolo, il teatro della "filosofia continentale" (utilizzando per questa volta, in mancanza d'altro, la ridicola etichetta con cui i formalisti hanno bollato il pensiero sostanzialista) può essere compreso solamente se non si perde di vista il contrasto e la sinergia tra il più vecchio e articolato esistenzialismo mitteleuropeo dell'ostinazione, e il più recente esistenzialismo resistenziale, politicamente angusto, dell'Europa occidentale. Il primo dei due ha le sue fonti nel periodo successivo al Vormarz, per esempio in Max Stirner, e si estende, dopo essere culminato in Nietzsche, fino ai sistemi di Freud, di Adler e dei successivi teorici della compensazione, attivi nella Repubblica federale. Il secondo, come abbiamo notato, assunse la sua configurazione sotto l'occupazione awenuta tra il 1940 e il 1944, non senza mostrare una preistoria che, oltre al revapscismo della Terza Repubblica, risale fino ai movimenti di raccolt'à d'ira formatisi fra gli sconfitti della Rivoluzione francese, in particolare fra i protosocialisti e i protocomunisti. Se si riesce a comprendere il modello tedesco, lo si può poi riconoscere senza difficoltà nei travestimenti che ha adottato sulla riva sinistra del Reno. Ciò che, dopo il 1944, comparve sulla Rive Gauche come dottrina del "contro", era l'adattamento politico dell'esistenzialismo tedesco degli handicappati, i cui pionieri erano legati all'etica del nonostante.

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Unthan va indubbiamente annoverato nella corrente più antiéa dell'esistenzialismo dell'ostinazione. U nthan però, in questa tendenza, non emerse a causa delle sue particolari condizioni di vita. Ciò che lo distingue è una specifica forma di vivere-nonostante, che lo isola dalla corrente principale di matrice più eroica, per ricondurlo alla società degli acrobati. Il suo eroismo consiste in un anelito alla normalità. Vi appartiene inoltre un'inclinazione alla curiosità intenzionale, molto più marcata di quella spontanea. Di conseguenza, la sua posizione può essere definita come quella di un esistenzialista da varietà. In principio troviamo l'astuzia del destino, che comanda di mutare lo svantaggio di un'anomalia in una virtl) acrobatica. Mosso da forti paradossi iniziali, l'esistenzialista da varietà desidera trovare un percorso che lo porti a un "esibizionismo decoroso". Per lui, la normalità diventa il compenso dell'anormalità. Per andare d'accordo con se stesso, egli deve dunque sviluppare un modo di vivere in cui l'evidenza patologica si trasformi nel presupposto di un felice adattamento. All' armless fiddler, nome d'arte americano di Unthan, non era dunque assolutamente permesso salire alla ribalta da semplice storpio, proprio come avveniva nel circo europeo e a maggior ragione tra i saltimbanchi d'oltreoceano. Egli do- · vette quindi presentarsi come vincitore della propria disabilità e battere la curiosità morbosa con le sue stesse armi. · Aver prodotto questa performance conferma la posizione inusuale di Unthan, che attualmente viene occupata, in termini aggiornati, da alcuni eccellenti artisti. Riuscendo a dispiegare i paradossi del loro modo di esistere, i disabili possono diventare convincenti maestri della condicio humana: praticanti di una particolare categoria con un messaggio destinato ai praticanti in generale. Unthan conquistò per sé la possibilità di diventare, in quanto virtuoso tra gli storpi, un soggetto capace di farsi vedere e, nella stessa misura, farsi ammirare, così come accade quando si viene esibiti e scrutati: esibiti in prima istanza dagli impresari e dai direttori del circo, dei quali nel Pediscritto si parla molto, ma raramente bene, e scrutati da un pubblico la cui curiosità si trasforma, sovente in un brevissimo arco di tempo, in entusiastica commozione. Quando l'esistenzialismo dell'ostinazione culmina nella sua forma da varietà, compare l'acrobata storpio, che ha scelto se stesso come individuo-da-esibire. Nella competizione con la curiosità dei normali, da sconfiggere ogni volta daccapo, l'esibizione di sé precede il mero scalpore. In lui viene meno la contrapposizione tra arte e vita. La sua vita altro non è che l'arte, forgiata da duro esercizio, di compiere le cose normali, co58

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me aprire le porte o pettinarsi i capelli, comprese anche altre attività non così normali come suonare il violino con il piede e spezzare matite a metà con uno sparo di fucile azionato con i piedi. Il virtuoso operante nella sfera della normalità può raramente concedersi il lusso di avere stati d'animo depressivi. La vita nella sfera del nonostante impone invece, a colui che decide di conseguire il successo, di ostentare gioia di vivere. Che talvolta, nell'intimo, le cose vadano diversamente non interessa a nessuno: il Paese del sorriso è abitato da acrobati storpi. Vorrei inoltre ricordare che Hugo Ball, cofondatore del dadaismo e coiniziatore nel 1916 del Cabaret Voltaire zurighese, fu, insieme a Franz Kafka, il più importante esistenzialista da varietà di lingua tedesca, sia nella sua fase dadaista sia nel suo periodo cattolico. Nel romanzo Flametti ovvero Del dandismo dei poveri del 1918, riunì un pandemonio di figure marginali provenienti dall'ambiente dei saltimbanchi e dei circensi, a proposito dei quali fa dichiarare a un per~ sonaggio: queste persone sono più autentiche dei borghesi, che apparentemente riescono a mantenersi al centro. Gli individui da varietà sanno di più sulla "vita autentica" perché si trovano al margine, reietti, caduti e spossati. Questi "individui bistrattati" sono forse gli unici che conducono ancora un'esistenza autentica. In un periodo nel quale i normali si sono votati alla follia, essi ricordano, a dispetto della loro fragilità, le migliori potenzialità dell'essere umano. Essi sono torsi non-arcaici che si mantengono in buona forma per compiti ignoti. Grazie a loro il circo diventa la Chiesa invisibile. In un mondo di persone che concorrono all'autoinganno collettivo, i circensi sono gli unici che non simulano: chi cammina sulla fune non può, nemmeno per un istante, fare "come se". Qualche anno più tardi Hugo Ball si imbatterà nelle tracce di un'acrobatica sacra, cui edificherà un monumento attraverso studi rigidamente stilizzati, ispirati dal neocattolicesimo e raccolti in volume nel 1923 con il titolo Byzantinisches Christentum. Drei Heiligenleben ["Cristianesimo bizantino. Tre vite di santi"], un capolavoro sugli albori dell'ascetismo. Tali studi sono dedicati agli eroi della fede della primitiva Chiesa orientale: Giovanni Climaco, Dionigi Areopagita e Simeone Stilita. Dopo quanto detto, ci imbattiamo in una nuova svolta del fenomeno dell'esercizio. Dedicandoci ai modi di vivere propri dei disabili, fra gli abitanti della stella ascetica vediamo comparire una classe di praticanti per i quali prendono il sopravvento motivazioni speciali. Essi non svolgono le loro pratiche ascetiche per amore di Dio,

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oppure, se lo fanno, come Ignazio di Loyola, storpiato da uno spa,~ ro, è perché lo impone Cristo quale immagine guida per neutralizzare il proprio difetto. Non a caso, il fondatore della Compagnia di Gesù suggerisce di imitare Cristo in quanto capitano di tutti i sofferenti. Gli individui visibilmente handicappati, tuttavia, alimentano solo in minima misura le schiere dei santi tormentatori di sé, che Nietzsche vedeva transitare lungo i millenni come rauchi cori di pellegrini. Essi non sono malati nel senso corrente del termine, sebbene Nietzsche sospettasse che fossero psicologicamente malati e sebbene anche la psicoanalisi e la pedagogia ufficiale della disabilità negli anni Venti ipotizzassero nei disabili la predisposizione a generare un complesso d'invidia rispetto ai sani : esattamente ciò di cui, ci assicura Unthan, egli non avrebbe mai minimamente sofferto. Condurre una vita incentrata sull'esercizio è per costoro la risposta allo stimolo che risiede nell'handicap concreto: quest'ultimo fornisce la stimolazione ostacolante, che a volte genera una risposta acrobatica. Come stabilisce Unthan, bisogna garantire al disabile "libertà" sotto forma di "luce e aria per svilupparsi", fino a quando il disagio patito non viene riplasmato dalla volontà individuale e integrato in un progetto di vita. Quindi, attraverso il fenomeno della vi~ ta ostacolata e handicappata, la teoria generale dell'ascesi viene messa di fronte alla sua prova del fuoco. Ora bisogna mostrare come dall'analitica degli ostacoli derivi un intero sistema di idee sulle norme dell'esistenza ostinata. A tale proposito è indispensabile un excursus nelle catacombe della storia spirituale. In effetti, nella corporazione filosofica e pedagogica è stata definitivamente dimenticata la testimonianza più rilevante dell'esistenzialismo dell'ostinazione di matrice tedesca, che al contempo costituisce il manifesto della più antica antropologia della disabilità. Mi riferisco al libro intitolato Zerbrecht die Krucken ["Rompec te le stampelle"] di Hans Wiirtz, iniziatore, ispirato alle visioni nicciane, della pedagogia dell'handicap a indirizzo statale. Quest'opera comparve all'inizio degli anni Trenta senza destare la minima risonanza, per motivi che subito discuteremo. Nessuna storia della filosofia menziona il libro, nessun manuale di antropologia se ne occupa,24 nemmeno nei circoli di esperti nicciani si sa che esista ... e questo, sebbene proprio i nicciani, accademici o at large, avrebbe24. L'opera di Wiirtz non viene citata neppure nel lavoro più importante tra quelli apparsi di recente e dedicati a questa tematica, ossia Klaus E. Miiller, Der Kruppel. Ethnologia passionis humanae, Beck, Miinchen 1996.

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ro tutte le ragioni per occuparsi della ricezione delle idee nicciane nel contesto della pedagogia della disabilità prima e dopo il 1918. Una comprensione adeguata di Nietzsche non può tuttavia ottenersi senza considerare l'influsso e il riflesso provocato dalla sua opera in persone storpie e nei loro principali portavoce. Il motivo per cui il libro è sparito dalla circolazione va cercato soprattutto nelle implicazioni politiche del suo argomento e nella data della sua pubblicazione. Messo sul mercato nel 1932, un libro dal titolo Rompete le stampelle non era certo, allora, quel che si definisce un prodotto di attualità in Germania: non tanto perché l'idea di rompere le stampelle fosse allora priva di seguaci, ma, al contrario, perché lo slogan del titolo ammaliava fin troppi interessati. Questi però non volevano ovviamente sentir parlare di disabili reali. Nelle biblioteche maggiori questa rarità bibliografica è catalogata con il titolo integrale: Zerbrecht·die Krii.cken. Krii.ppel-Probleme der Menschheit. Schicksalstie/kinder aller Zeiten in Wort und Bild ["Rompete le stampelle. Gli storpi come problema dell'umanità. Disgraziati di tutte le epoche in parole e immagini"], comparso per la casa editrice Leopold Voss di Lipsia nel 1932. L'autore, nato nel 1875 a Heide, nello Holstein, e morto a Berlino nel 1958, prematuramente rimasto orfano, operò inizialmente come maestro elementare a Amburgo-Altana e poi a Berlino-Tegel. A partire dal 1911 fu ispettore pedagogico presso l'Oskar-Helene-Heim di Berlino-Zehlendorf, un ente allora fuoriuscito dall'ex "Istituto per l'educazione e la cura degli storpi della regione Berlino-Brandeburgo". Sotto la direzione del giovane idealista, quella istituzione divenne la Mecca dell'assistenza pubblica agli storpi, guadagnandosi una reputazione internazionale. Insieme a Konrad Biesalski, un ortopedico, Hans Wiirtz fece dell'istituto di Zehlendorf un centro nodale per questa nuova forma di prassi filosofica. Per due decenni l'istituto per storpi di Wiirtz e Biesalski si affermò come baluardo tedesco dell'esistenzialismo dell' ostinazione, prima di essere ricondotto alla linea del nazionalsocialismo da nuovi direttori, vicini al partito. In questo istituto le idee di Nietzsche sull'eguaglianza tra vita e volontà di potenza vennero messe alla prova nella relazione quotidiana con i disabili. Alle elezioni parlamentari del luglio 1932, la NSDAP ottenne il 37,3% dei voti, diventando una delle forze di gran lunga più consistenti del Reichstag. Il partito, assai violento, trovò forte consenso presso i neodisabili prodotti dalla Prima guerra mondiale, il cui numero, nella sola Germania, ammontava a 2,7 milioni di individui. Quanto allo slogan "Rompete le stampelle", avrebbe dunque dovu-

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to essere favorevole a Wiirtz: nell'atmosfera tedesca di quel periodb, su un ampio fronte, non si chiedeva altro che le persone fossero in grado di vivere senza i molesti ausili che supportavano la loro esistenza quotidiana, sia nelle cose minori sia in quelle più grandi sia in quelle della massima importanza. Era scoccata l'ora della mobilità. Alla guida (Fuhrer) di un movimento capace di chiamare a raccolta in misura inaudita non poteva che arrivare colui che prometteva credibilmente di abbattere i sistemi dominanti che ostacolavano il cammino. Un'esistenza senza stampelle sorse all'orizzonte e divenne l'immagine guida per tutti coloro che si sentivano danneggiati, ostacolati e angustiati dal presente. Era scoccata l'ora dei vari anarchismi popolari. Fin dai suoi inizi, l'anarchismo aveva costituito la filosofia del Senza. Esso voleva diffondere nel pubblico l'idea che, nell'ordinamento moderno delle cose, si poteva trovare una grande quantità di ausili, di cui si sarebQe potuto fare a meno solamente credendo fermamente in una vita senza padroni e senza dominio: senza lo Stato (la stampella politica), senza il capitalismo (la stampella economica), senza la Chiesa (la stampella religiosa), senza i gioiosi rimorsi dicoscienza (la stampella ebraico-cristiana dell'anima), senza il matrimonio (la stampella sulla quale, negli anni, la sessualità finisce per zop" picare). Nel contesto della Repubblica di Weimar ciò significava soprattutto: senza il Trattato di Versailles, diventato un vincolo che provocava la collera dei tedeschi. In quel periodo, inoltre, molti volevano fare a meno anche della democrazia: da numerosi contemporanei essa venne considerata una messa in scena per ridicolizzare il popolo attraverso i suoi rappresentanti. Perché mai, una volta tanto, non cercare di ridicolizzare i rappresentanti del popolo attraverso i populisti? Rompere le stampelle stava diventando il nocciolo della politica rivoluzionaria, anzi, l'impulso dell'ontologia rivoluzionaria di quel periodo. Al di là della politica e della quotidianità, si levò l'in~ vito a ribellarsi contro tutto ciò che infastidiva per il solo fatto di esi~ stere. Chi era stanco di portare le stampelle voleva abbattere niente meno che il giogo della realtà. Qualsiasi politica si trasformò in politica per handicappati in rivolta. Chi poi voleva raccogliere la collera contro il "dato" e l"' esistente" poteva star sicuro che gran parte dei contemporanei era disposta a riconoscere, in tutte le manifestazioni· della sfera istituzionale, delle stampelle che attendevano solamente di essere distrutte. Il xx secolo appartiene ai fronti popolari contro le costruzioni ausiliarie. Naturalmente, la NSDAP non poté mai presentarsi apertamente sotto il segno degli storpi considerati come un problema da risolve-

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re, sebbene essa, per certi aspetti essenziali, altro non fosse che una presa di posizione militante rispetto alla questione degli storpi e delle stampelle. Il partito risolse la contraddizione che esso incarnava inserendo nel proprio programma il pericoloso tema della "vita non degna di essere vissuta": con questa mossa riuscì a esternalizzare radicalmente il suo argomento più peculiare. ~n caso contrario, i capi stessi del movimento avrebbero dovuto dichiararsi capi storpiati di storpi, come fece nello stesso periodo Otto Perl, lui stesso disabile e pedagogista della disabilità. Avrebbero dovuto ammettere con quale competenza e sulla base di quale delega proprio loro volevano porsi al vertice della rivoluzione nazionale: Hitler handicappato sul piano emotivo, che in attimi estatici cercava la fusione con la comunità di popolo; Goebbels storpio da un piede, che ambiva a calcare eleganti parquet; Goring tossicomane, che fiutò nel potere nazista l'opportunità, per sé e i suoi accoliti, di condurre la bella vita. Tutti costoro avrebbero dovuto amtl1ettere in che cosa consisteva, di volta in volta, la propria battaglia, il proprio sogno e il proprio gqmde nonostante. L'inopportunità di simili confessioni risulta lampante, per non parlare della loro improbabilità psicologica. "Movimenti" di questo tipo vivono in quanto il loro primum mobile rimane latente. Lo spazio politico di quegli anni era innegabilmente permeato da esponenti legati alla problematica degli storpi, anche perché, non da ultimo, la disabilità di Guglielmo II era stata collocata dal suo biografo Emil Ludwig nel 1925, agli occhi del grande pubblico, al centro dell'attenzione psicopolitica. Nell'opinione pubblica trovarono risonanza questioni legate al senso dell'esistenza afflitta dalla disabilità e alla possibilità di conciliare potere e(handicap. È lecit0 che dei disabili occupino posizioni di potere? Che cos'è in generale il potere, se riescono a conseguirlo dei disabili? Che cosa ne sarà di noi, quando i disabili lo avranno ormai ottenuto? Le meditazioni che Nietzsche propose negli anni Ottanta del secolo precedente, apparentemente distaccate dalla realtà del mondo, in brevissimo tempo penetrarono nel nucleo rovente della politica. Hans Wiirtz pensò bene di attualizzare i punti di vista nicciani, mostrando come la disabilità, con una corretta "istruzione", potesse sfociare in un surplus di volontà tesa all'affermazione nella vita. "Il materiale è stato raccolto in maniera del tutto imparziale", si dice nell'introduzione del libro, il quale offre una panoramica enciclopedica su praticamente tutti gli esponenti della cultura europea colpiti da disabilità, e in particolare quelli celebri. Wiirtz, nelle sue panoramiche e nelle sue tabelle dedicate al problema degli storpi

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nella storia dell'umanità, menziona tra laltro anche il suo contemporaneo Joseph Goebbels. Egli annovera per due volte il capo della propaganda nazista nella categoria degli storpi dal piede varo (dove, accanto a figure come Lord Byron, non avrebbe necessariamente sfigurato): una volta nella lista delle nazioni25 e un'altra nella lista delle funzioni, nella rubrica "politici rivoluzionari" .26 Il capo-agitatore della NSDAP deve a Wiirtz, il pedagogista della disabilità, lonore di essere menzionato in un Who's Who dell'umanità che include quasi cinquecento nomi, tra i quali personaggi grandi e grandissimi nonché figure come Unthan, che Wiirtz inserisce nella categoria ampiamente rappresentata degli "storpi sensazionali e disabili virtuosi", insieme a numerosi altri personaggi dal comune destino. 27 I protagonisti di quest'opera condividevano la capacità di concretizzare la filosofia del nonostante. Che nella lista dello studioso ap~ paiano persone come Gesù, secondo recenti ipotesi disabile "per via della sua bruttezza", e Guglielmo II (storpio da un braccio, ma nel quale si nascondeva anche un "disabile psicopatico" ,28 come una matriosca handicappata dentro a un'altra matriosca handicappata) mostra la dimensione e lesplosività della problematica. La menzione di queste grandi figure illustrava la tesi - che segna la transizione dalla filosofia della vita alla filosofia dello spirito - secondo l~ quale i disabili possono trovare un ancoraggio, al di là della loro infermità, nel regno dei valori sovrapersonali.29 In effetti, Guglielmo II non soltanto mise in atto una politica decisamente nevrotica per ripicca personale, ma predispose anche dei bozzetti per le sceno- . grafie teatrali dei Festival di Bayreuth e tentò in altri modi di accedere ali' ambito della concretezza. Per quanto invece attiene al passaggio di Gesù dalla sfera delle sue presunte disabilità alla sfera spirituale, gli esiti di tale passaggio sono ormai da molto tempo inglobati nei fondamenti etici della civiltà occidentale. Nella filosofia dei valori di Max Scheler, che Wiirtz probabilmente non conosceva, l'autore stava tentando, nel medesimo periodo, di evidenziare l' autonomia della sfera dei valori rispetto alla sua "base" immersa nelle tensioni della vita. La quintessenza di quell'agire che conduce ali' ambito sovrapersonale si chiama, secondo Wiirtz e in accordo con la terminologia di quel periodo, "lavoro". Noi sappiamo che questo 25. Hans Wiirtz, Zerbrecht die Krucken, Voss, Leipzig 1932, p. 101. 26. Ibidem, p. 88. 27. Ibidem, p. 97. 28. Ibidem, p. 31. 29. Ibidem, p. 4.

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termine è solamente uno degli pseudonimi sotto i quali continua a manifestarsi il fenomeno dell'esercizio. "La difficoltà (Hemmung) superata è la madre di qualsiasi movimento evoluto." 30 Il movimento che qui viene chiarn'ato "evoluto" (entfaltet) non è dunque definito da Wiirtz semplicemente come movimento di compensazione, bensl di sovracompensazione. In esso, la reazione porta oltre l'impulso iniziale. In tal modo, l'autore ha formulato un teorema il cui ambito di validità si estende a tutti i complessi costituiti da movimenti asimmetrici, di tipo organico o spirituale, psichico o politico, sebbene, nel suo libro, egli si limiti a dimostrare il proprio teorema rispetto al solo fenomeno della disabilità fisica. Queste applicazioni erano tuttavia piuttosto pretenziose: attraverso un'intensa collaborazione su base scientifica, medici, pedagogisti e curatori di anime tedeschi avrebbero dovuto raccogliersi in una "comunità finalizzata al recupero degli storpi". Tuttavia, per quanto in alto puntassero i suoi tentativi, il potenziale politico delle sue riflessioni rimase a Wiirtz del tutto ignoto. Egli aveva stabilito, mediante affermazioni generali, che le eccedenze gen~ra­ te dal superamento degli ostacoli sfociano in un dinamismo rivolto in avanti: "Ignazio di Loyola e Gotz von Berlichingen, benché paralitici, non stettero mai fermi" ,31 non meno degli instancabili epilettici Paolo di Tarso e Giulio Cesare. Non mancano nemmeno dei riferimenti al "piccolo Alessandro Magno, con il suo collo storto", o al "piccolo Lenin, dai brutti tratti mongoloidi", nonché a Rosa 1 Luxemburg, di piccola statura e sciancata. 32 Tuttavia, "afflizione e ostinazione", gli universàli che fondano la psicologia degli storpi, per Wiirtz hanno senso esclusivamente a li- ' vello di psicologia individuale. Ma una rottura politica come quella rappresentata dal socialismo razzista del 1933, che si vantava di essere soprattutto movimento, assalto e rivoluzione, che altro era se non un caso di applicazione all'esterno della legge di compensazione? Se la difficoltà superata è la madre di qualsiasi movimento evoluto, da quali "pulsioni materne" può mai essere derivata la tendenza all'ingrandimento di sé tramite liturgie e terrore? Che cosa significa andare alle "Madri", quando il vocabolo descrive il prodotto composto da ostacolo e suo superamento? Qualora la sovracompensazione della disabilità fosse il segreto del successo, sarebbe for30. Ibidem, p. 49. 31. Ibidem, p. 11. 32. Ibidem, p. 18.

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se opportuno concludere che la maggior parte degli individui no'.n sia abbastanza handicappata? Queste domande sembreranno retoriche, ma mostrano comunque una cosa: la strada verso una più ampia teoria della compensazione è lastricata di parecchie insidie. 33 Quanto a Goebbels, egli non mostrò chiaramente nessun interesse rispetto all'avanzamento dell'illuminismo. Certo non si entusiasmò per essere stato inserito nel pantheon dei disabili. Trovarsi in lista con personaggi del calibro di Kierkegaard, oppure con Lichtenberg, Kant, Schleiermacher, Leopardi, Lamartine, Vietar Hugo e Schopenhauer, solo per nominarne alcuni, non lo indusse certo a fare outing. Mettere a disposizione della scienza la propria psiche mentre era ancora vivo era forse l'ultimo pensiero che potesse sfiorarlo. Egli nemmeno avrebbe gradito il principio ortopedico che guidava l'Istituto di Zehlendorf: "Il moncherino è la miglior protesi". Dinnanzi alla ripartizione del mondo degli storpi, proposta da Wiirtz, in quattro grandi gruppi- storpi in relazione alla crescita (anomalie dimensionali), storpi in relazione a deformazioni (deformità), pseudostorpi (portamenti sbagliati) e storpi per via della bruttezza (sfigurati) - Goebbels avrebbe dovuto senza dubbio finire nella seconda classe, eventualmente anche nella quarta, e inoltre nella sottoclasse "storpio complessato" ,34 che però conduce nel campo psicologico. Goebbels perseguì altri progetti: sulla base di una sua ordinanza, tutte le copie di Rompete le stampelle non ancora arrivate sul mercato dovettero essere immediatamente ritirate. L'ulteriore svolgimento della vicenda dice tutto. Poco dopo il gennaio del 1933, Wiirtz venne denunciato come nemico del popolo per via del suo stesso Istituto, i suoi critici riconobbero in lui contemporaneamente un comunista di razza e un filosemita. Per via di una denuncia, spiccata al momento giusto, per abuso di potere e appropriazione indebita di donazioni in denaro, venne licenziato senza preavviso e senza diritto alla pensione. Si asseriva che egli avesse utilizzato alc\ine sovvenzioni, pervenute al circolo di sostenitori dell'Oskar-Helene Heim, per la pubblicazione di Rompete le stampelle, come se la stampa del libro fosse una faccenda personale dell'autore, senza riferimento ai compiti dell'istituzione da lui condiretta. Nelle denunce contro Wiirtz si possono scorgere i contorni di un conflitto tra gli operatori sul campo attivi nell'Istituto e il ma33. La variante minore della dottrina dell'Homo compensatorè divenuta celebre nella Repubblica federale grazie ai lavori di Joachim Ritter, Odo Marquard e Hermann Liibbe. 34. Ibidem, p. 67.

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schio alfa dedito alla scrittura. Dopo il suo allontanamento dalla carica, alcuni dei suoi accusatori, colleghi ambiziosi, finirono per occupare posizioni dirigenziali ... mostrando che una rivoluzioné'vincente non divora i propri figli, ma li sistema. Wiirtz fu così ingenuo da credere di poter dimostrare, nelle condizioni date, la propria innocenza. A causa del processo, dunque, fece ritorno in Germania dal suo esilio praghese e nel gennaio del 1934 venne condannato da un tribunale di Berlino a un anno di reclusione, ma la pena venne sospesa in via condizionale. In seguito Wiirtz lasciò la Germania e trovò rifugio in Austria fino al termine della guerra. Nel 1947 ottenne la piena riabilitazione giuridica e professionale. Nel luglio del 1958 venne seppellito nel cimitero berlinese di Dahlem. Per proseguire le nostre riflessioni è opportuno delucidare la costellazione formata dagli approcci di Nietzsche all'analitica della volontà e dalle analisi di Wiirtz sulla pedagogia della disabilità. Ciascuno dei due autori potrebbe rimandare all'altro per illustrare i propri assiomi, c;ircostanza che si è realmente verificata nel rapporto di Wiirtz con Nietzsche. Dalla prospettiva dello studioso berlinese dell'handicap, Nietzsche offre un ottimo esempio per la sua concezione della. "difficoltà superata". Con un certo sangue freddo, egli classifica il filosofo, senza lo stimolo del quale il suo stesso lavoro sarebbe pressoché impensabile, come "uno storpio deforme tarato a livello psicopatico" .35 Wiirtz ammette tuttavia che- sulla base della legge di compensazione e in relazione a un talento superiore nonché a un duro lavoro effettuato su di sé- Nietzsche era riuscito a superare parzialmente la propria disabilità, motivo per cui la sua opera va apprezzata come tentativo di passare alla sfera sovrapatolo'gica dei valori. Ruotando però l'angolo visuale, ne risulta un quadro più complesso. Nietzsche avrebbe forse identificato il pedagogista berlinese dell'handicap con il fenomeno, di cui tanto diffidava, del discepolo, a proposito del quale non c'è altro da dire se non che in lui, normalmente, le debolezze dei maestri sono più visibili (ingigantite in misura compromettente) rispetto ai loro meriti. Un secondo sguardo potrebbe stabilire come in Wiirtz abbia preso corpo la sindrome sacerdotale condannata da Nietzsche. Caratteristica distintiva di tale sindrome è la tendenza, riscontrabile nei malati più energici, a mettersi alla testa di un seguito composto da esistenze deboli. Che nella persona di Wiirtz si possano trovare segnali di una disabilità, non è deducibile dalla letteratura che mi è nota, ragion per 35. Ibidem, p. 37. (..7

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cui non posso ulteriormente chiarire se le diagnosi di Nietzsche sulla dinamica dell'ideale sacerdotale-ascetico siano verificabili ad personam nel suo emulatore. Lo stile delle pubblicazioni di Wiirtz, che culminano in inni a "colui che lotta vittoriosamente per la vita" ,3 6 suggerisce di ipotizzare, in lui, una sindrome del portavoce. A sostegno di questa ipotesi vi è il modo in cui egli si infiamma per la propria missione. La somiglianza con la tipologia sacerdotale trapela dal piacere, di natura apparentemente imperialista, che Wiirtz prova nel portare parti sempre più grandi dell'umanità nel proprio ambito di competenza. A questo proposito, diventa visibile anche la classica dinamica del maschio alfa: in ottica nicciana, una manifestazione inconfondibile della volontà di potenza. A ogni modo, sulla base di tutte le informazioni che oggi siamo in grado di raccogliere, per Wiirtz il lavoro presso l'Oskar-HeleneHeim di Berlino costituiva il baricentro del proprio impegno. Non spetta certo a osservatori esterni mettere in dubbio la serietà degli sforzi da lui profusi nel corso di una vita per ottenere il benessere dei suoi assistiti, anche se oggi il suo approccio autoritario sarebbe meno apprezzato e, sulla carta, si simpatizzerebbe di più con il modello dell'autodeterminazione di Otto Perl, il pedagogista alternativo della disabilità. 37 Inoltre, l'Istituto berlinese rappresentava, per il suo ispettore pedagogico, la cattedra dalla quale annunciare a un pubblico piuttosto riottoso le proprie proposte per risolvere gli enigmi dell'umanità. Queste proposte erano costituite principalmente da conversioni dei verbi modali: puoi ciò che vuoi; dovresti volere ciò che non puoi non volere; dovresti riuscire a volere, e ne saresti anche capace, se solo ti stesse qualcuno a fianco, che volesse ciò che tu vuoi. L'ultima formulazione va tenuta presente, perché definisce non solo la figura di quel particolare allenatore della volontà dedito ai disabili, ma precisa la funzione dell'allenatore in generale. Il mio allenatore è colui che vuole che io voglia; egli incarna quella voce che può dirmi: devi cambiare la tua vita!3 8 Il fenomeno del sostegno ai disabili nello spirito di una filosofia della volontà, che esorta lo storpio a lavorare su se stesso, appartiene indubbiamente all'ambito iniziale del grande evento esposto in 36. Cosi recita il titolo di un precedente libro di Hans Wiirtz risalente al 1919, quando la problematica dello storpio per nascita era stata soppiantata da quella dell'invalido di guerra. 37. Otto Peri, Kriippeltum und Gesellschaft im Wandel der Zeit, Klotz, Gotha 1926. 38. Sulla problematica del maestro e dell'allenatore vedi infra, pp. 355 sgg.

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precedenza: la de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche che ha caratterizzato il XIX e XX secolo. A questo fenomeno corrisponde, sul versante "religioso", un trend di lungo periodo volto a de-eroicizzare la missione sacerdotale, tendenza alla quale, per un certo pe- ~ riodo, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, si contrappose la sopravvalutazione del santo, tipica del renouveau catholique e dell' ala devota della fenomenologia. Ciò ebbe effetti duraturi, rintracciabili in autori come l'ecologo Carl Amery e in quel fenomeno &eleganza paracattolica che è Martin Mosebach. Insistendo sul gergo dell'eroismo, Wiirtz, in quanto pedagogista della volontà, si lasciò sfuggire, per ironia della sorte, nel rivolgimento compiuto in quel periodo dalla teoria dell'ascesi, nel quale va annoverata anche la sua opera, proprio quel settore che avrebbe maggiormente influenzato gli sviluppi successivi. A dispetto delle suggestioni eroiche, tuttavia, è decisivo il suo orientamento pragmatico verso un programma di riabilitazione dei disabili e degli invalidi. Non è opportuno richiamarsi al suo habitus pseudosacerdotale. In lui si cela un atteggiamento che era stato preannunciato dalle tesi dietologiche di Nietzsche: lo definisco come l'emergere della coscienza generale dell'allenamento a partire dalla pedagogia dell'infermità e dell'handicap. Nell'allenamento rientra naturalmente, accanto a chi si allena e al programma di allenamento, l'allenatore stesso: è questa figura gravida di futuro che si delinea nei pomposi annunci tardoguglielmini proposti dalla filosofia della vita e della,,volontà di Wiirtz. Con la comparsa della figura dell'allenatore, o meglio, con la sua ricomparsa dopo la decadenza che l'aveva colpita insieme all' atletismo antico, il Rinascimento somatico e atletico entra, all'inizio del xx secolo, nella sua fase pregnante. Non si fa certo torto a Hans Wiirtz definendolo come un allenatore nel Reich dei disabili, all'incirca un Trapattoni degli storpi. Egli va annoverato in una tradizione di autori-allenatori che risale fino a Max Stirner, autore nel 1844 dell'Unico e la sua proprietà. Inutile sottolineare che Wiirtz, con il suo infallibile fiuto per la composizione della squadra, considera Stirner come un suo ;issistito esemplare. In qualità di allenatore della propria unicità, Stirner fu uno dei primi a vedere con chiarezza che, entrando in campo in sovrappeso metafisico, si rischia di fare una figuraccia. L'abbandono delle follie ideologiche, suggerito nel suo libro, non era altro che un esplicito programma di fitness mentale. Con riguardo a questo patriarca dell'egoismo, Wiirtz riuscì a

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proporre una generalizzazione di una certa portata: "Lo storpio Stirner, conformemente alla propria struttura psicologica, vede tutti gli altri individui come lottatori inconsapevoli e involontari per il valore dell'Io" .39 Lo dimostra, secondo Wiirtz, uno dei presupposti che reggono la sua visione: coscienza della propria unicità e "atteggiamento combattivo nella vita" convergono. Al giorno d'oggi ci si esprimerebbe con più cautela: dalle disabilità derivano, non di rado, sensibilità più acute e da esse, talvolta, maggiori fatiche, le quali, a loro volta, in presenza di condizioni favorevoli, sfociano,in performance di vita potenziate. Mentre l'unicità stirneriana, come registra Wiirtz con rammarico, rimane intrappolata nella nevrosi, nel lavoro costruttivo con i disabili si tratta di "liberare lo storpio problematico e trasformarlo in un individuo di carattere" .40 Ai giorni nostri, però, tale pensiero non verrebbe più formulato in questi termini, non importa se l'oggetto del discorso siano i filosofi del Vormarz o altre nature problematiche. L'ipotesi grazie alla quale il pedagogista dei disabili finisce per incarnare, conformemente al proprio profilo sviluppato nella prassi e nella filosofia morale, uno dei primi esempi della moderna figura di allenatore, può essere confermata da svariate affermazioni del1' autore. Nel discorso di Wiirtz si può facilmente riconoscere che l'allenatore è il partner al passo con i tempi entro tensioni verticali di natura non-metafisica, le quali immettono nella vita di chi si allena un chiaro sentimento del sopra e del sotto. Egli è responsabile del fatto che "la terapia prescritta, consistente nell'esercitare questa facoltà (acquisita dall'assistito), si radichi nelle sue energie", affinché "anche la sua volontà di autoconservazione trovi un concreto punto d'appoggio" .41 Con una chiarezza che farebbe onore a una filosofia analitica dello sport, Wiirtz spiega, parlando del disabile in un passo decisivo sul piano della teoria dell'allenamento: La sua volontà instaura dunque, nella valutazione della propria vita, un divario interiore, quando compara la precedente situazione di impotenza con la propria facoltà recentemente acquisita e quando, a fronte di un successo già conseguito, sente la mancanza del suo obiettivo corroborante. Le sue aspirazioni acquistano uno slancio in avanti. Superare il precedente sentimento d'impotenza costituisce, nello stesso tempo, una vittoria etica[. .. ]. Colui che è deputato a trasmettere premurosamente tale educazione non può venir oppresso dal39. Hans Wiirtz, Zerbrecht die Kriicken, cit., p. 50. 40. Ibidem, p. 63. 41. Ibidem, p. 34.

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langoscia di essere delicato [. .. ]. Dall'educatore delle persone senza mani esigiamo quindi un atteggiamento energico rispetto alla vita. 42

Ritengo che nella letteratura recente ci siano poche dichiarazioni nelle quali viene colto in maniera altrettanto esplicita il nocciolo della trasformazione postmetafisica subita dalla tensione verticale, ossia dalla spontanea coscienza del divario che caratterizza la vitalità. Per ottenere questo avanzamento nel livello di esplicazione bisogna adottare alcuni luoghi comuni della visione eroica. Ma, in questo caso, non sono che la maschera del Rinascimento atletico. Del resto, anche nella storia novecentesca dello sport si nota la tendenza a de-eroicizzare il ruolo dell'allenatore. Tuttavia, in ambito sportivo - analogamente alle dinamiche riscontrabili in campo religioso - è presente una controtendenza che potrebbe essere definita renouveau athlétique: in essa, chi pratica sport estremo viene esaltato ... il contraltare, spiritualmente svuotato, del Santo. L'antropologia filosofica del xx secolo ha ignorato i contributi offerti dalla pedagogia dell'handicap e malgrado ciò è pervenuta, prendendo le mosse da un campo concettuale adiacente, a osservazioni affini. L'antropologia dell'individuo normale preparò a modo suo la strada per una consapevolezza della disabilità molto più uni-· versale di quanto i pedagogisti specializzati avrebbero potut9 mai sognare: le sue ripercussioni pratiche, tuttavia, furono diametralmente opposte a quelle derivanti dalla didattica della disabilità di stampo eroico. Il suo motto era: in nessun caso rompere le stampelle! Questo grido d'allarme si sente già risuonare nella psicoanalisi viennese, quando Freud caratterizza l'individuo come il "dio delle protesi", che non sarebbe in grado di sopravvivere senza i supporti che provvedono all'esistenza quotidiana, forniti dalla civiltà tecnica. Freud inoltre, con la sua leggenda di Edipo, riesce a inglobare la metà µiaschile dell'umanità nella famiglia dei piedi vari, mentre diagnostica alla metà femminile un handicap genitale sotto forma di innata assenza del pene. Ancora più acuto risuona il grido d'allarme in Arnold Gehlen e nella sua dottrina delle istituzioni stabilizzanti, secondo la quale la soggettività scatenata, con la sua illusoria assenza di limiti, può essere salvata da se stessa solamente mediante una struttura protettiva costituita da forme sovrapersonali. Qui le stampelle ricompaiono nuovamente come istituzioni e il lo42. Ibidem, p. 36. 71

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ro significato è andato vieppiù crescendo quanto più gli anarchici del XX secolo, di destra e di sinistra, hanno esortato con enorme successo alla loro distruzione. Gehlen si disse estremamente preoccupato allorquando, negli anni Sessanta, vide comparire tra i giovani occidentali un nuovo movimento basato sul Senza. Nella sua legittimazione antropologica delle istituzioni culmina I' antirousseauismo del XX secolo, condensato nel monito: l'uomo ha sempre da perdere molto più che le sue catene. Egli si chiede se per caso ogni cultura politica non nasca dalla distinzione tra catene e stampelle. La dichiarazione che lesistenza richieda obbligatoriamente delle stampelle raggiunge la sua forma più drammatica nelle asserzioni della paleoantropologia biologica di Louis Bolli: e Adolf Portmann: secondo loro, lHomo sapiens è per costituzione uno storpio per via del parto prematuro che lo caratterizza, una creatura destinata a essere perennemente immatura, la quale, per via di questa peculiarità che i biologi chiamano neotenia (permanenza di tratti infantili e fetali), è in grado di soprawivere solamente nelle incubatrici della civiltà. 43 In queste estreme generalizzazioni della moderna antropologia . viene esplicitato, in termini funzionali, il pathos olistico tipico delle civiltà più antiche, quelle civiltà che insistono con intransigenza sulla superiorità di tradizioni e costumi (dell'incubatrice protettiva) di fronte ai capricci di individui propensi all'innovazione. Ogni ortodossia, non importa se fondata religiosamente oppure sulla sua veneranda durata e anzianità, è un sistema per impedire mutamenti nelle strutture stabilizzanti. Sotto questo aspetto, l'età di ciò che è antico si autolegittima. Mentre una tradizione, qualora appaia abbac stanza antica, fornisce la dimostrazione della propria vitalità e della propria conciliabilità con altri elementi del patrimonio culturale unicamente attraverso la propria permanenza, la nuova idea e la deviazione soggettiva debbono anzitutto addurre la prova della loro ri~ petibilità, se sono interessate a durare. Nei sistemi tradizionalistici ostili ai mutamenti, in ogni caso, si riconosce già in partenza che non vale mai la pena permettere che si faccia anche solo il tentativo di dimostrare l'utilità del nuovo. Le epoche con una spiccata tendenza all'innovazione puntano invece sulla constatazione che, anche dopo profonde trasvalutazioni morali e innovazioni tecniche, siano possibili sufficienti stabilizzazioni che orientino il nostro modus vi43. Questi spunti vengono ampliati, nel terzo volume del mio progetto dedicato alle sfere, fino a diventare una teoria generale dell'esistenza in spazi insulari. Vedi Peter Sloterdijk, Sphiiren III. Schiiume-Plurale Sphiirologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 309-500.

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vendi verso una condizione di maggior agio. Le innovazioni, tuttavia, devono sempre essere verificate dal punto di vista della loro corrispondenza con i bisogni di stabilità tipici dei sistemi che accudiscono gli storpi partoriti prematuramente (vulgo: civiltà). Ovunque l'uomo compaia, è preceduto dal suo essere storpio: quest'idea costituisce il ritornello dei discorsi filosofici novecenteschi sull'uomo. Alcuni ne parlano come di uno storpio inerme - è così nella psicoanalisi44 - , il quale può perseguire le proprie mete solamente zoppicando; altri, come Bolk e Gehlen, lo considerano uno storpio neotenico che può compensare la propria cronica immaturità unicamente attraverso rigidi involucri culturali; altri ancora, come Plessner, lo ritengono uno storpio eccentrico, che è presente cronicamente accanto al soggetto e che lo vede vivere; infine vi sono coloro, come Sartre e Blumenberg, che lo considerano uno storpio esposto agli sguardi altrui, il quale è costretto a convivere con lo svantaggio di essere visto. Oltre a ciò, vengono in mente disabilità non solo costitutive, ma anche storicamente acquisite, in particolare, se prestiamo fede a Edmund Husserl, presso i moderni europei. Attraverso i loro sforzi per la conquista intellettuale del mondo reale, nel corso degli ultimi due secoli hanno assunto due atteggiamenti pericolosi ed enormemente sbagliati: Husserl li chiama, con espressioni quasi patografiche, l'oggettivismo fisicalistico e il soggettivismo trascendentale.45 Entrambi sono modi di essere-nel-mondo con il pensiero, modi che però finiscono per mancare di gran lunga sia il mondo sia la realtà. Se si considera che il nostro esserci nel "mondo della vita" costituisce quella relazione originaria che da Heidegger in poi chiamiamo essere-nel-mondo, allora possiamo adottare una visione ironica: per via di erronee concezioni che ci siamo impressi nella mente con grande fatica, scambiamo ormai in maniera cronica il primo mondo con il secondo mondo, quello dei fisici, dei filosofi e degli psicologi. Questa visione precaria degli europei come storpi che non riescono a cogliere il mondo, il vecchio Husserl la prese indirettamente da Heidegger, il suo allievo rinnegato, per il quale all'inizio l'uomo è anzitutto e per lo più uno storpio affetto da inautenticità, e come tale è destinato a concludere la propria vita, se non ha la fortuna di incontrare un allenatore che rimetta in sesto i dati ortopedici della sua esistenza. Fra gli handicap acquisiti, il neofenomenologo Hermann 44. Peter Schneider, Erhinken und er/liegen. Psychoanalytische Zwei/eil an der Vernunft, Vandenhoeck & Ruprecht, Géittingen 2001. 45. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), tr. it. il Saggiatore, Milano 2008.

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Schmitz ha recentemente scoperto anche l'ironia sistematica: essa priva chi la esercita della capacità di calarsi in situazioni collettive. In questo caso, al centro dell'interesse viene posta la disabilità causata dalla presa di distanza, derivante dall'handicap costituito dall'incapacità di partecipare per via della coazione verso l'eleganza cronica. In effetti, finora non è mai stato valutato a sufficienza il ruolo dell'ironia nella storia dei modi di mancare la realtà. Le conseguenze derivanti da queste analisi sono tanto varie quanto le diagnosi stesse. Solo un aspetto tuttavia è comune a tutte: se gli uomini, senza eccezioni e in forme diverse, sono degli storpi, hanno tutti, e ciascuno a modo suo, motivo e spunto per concepire la propria esistenza come stimolo a compiere esercizi correttivi. È opportuno ricordare che, nello schema delle disabilità di Wiirtz, gli individui affetti da nanismo vennero classificati come storpi in relazione alla crescita. In seguito, le medesime persone furono chiamate "handicappati in relazione alla crescita dimensionale". Quando anche la parola handicap divenne urtante, essi si trasformarono nei diversamente abili in relazione alle dimensioni. Negli anni Ottanta del secolo scorso, i paladini americani della corrèttezza trovarono il nome più attuale per le persone che sono spesso· costrette a guardare dal basso in alto, chiamandole vertically challenged people ("persone alle prese con la verticalità"). Non si potrà mai ammirare abbastanza tale espressione. Essa rappresenta una crea" zione concettuale che ha oltrepassato le intenzioni dei suoi autori, senza che essi notassero quale impresa erano riusciti a realizzare. Possiamo ridere due volte di questa locuzione: una volta della sua correttezza affettata, un'altra volta di noi stessi. Abbiamo ragione e diritto di ridere perché, nel plenum di chi è alle prese con la verticalità, noi rappresentiamo lassoluta maggioranza. La formula ha acquistato validità da quando noi ci esercitiamo a imparare a vivere, e non è possibile, come dimostro, non esercitarsi a vivere e non imparare a vivere. Anche essere un cattivo allievo va imparato. In sintesi, bisognava parlare dei disabili, di chi ha una complessione diversa, per arrivare a una formulazione che esprimesse la costituzione universale degli esseri soggetti alla tensione verticale. "Devi cambiare la tua vita!" ... lo vedemmo già nella poesia di Rilke dedicata al torso: dovresti badare alla tua verticale interna e verificare quale influsso esercita su di te l'impulso dell'estremità superiore! Non è l'andatura eretta che fa dell'uomo un uomo, ma è la consapevolezza embrionale del divario interiore che porta l'uomo in posizione eretta.

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4 L'ULTIMO DIGIUNO L'ARTE ACROBATICA DI FRANZ KAFKA

La tendenza dell'antropologia contemporanea a cercare nei disabili la verità sull'Homo sapiens si riflette su un ampio fronte della letteratura moderna. Che in singoli casi soltanto un passo separi l'esistenzialismo dei disabili da quello degli acrobati, è attestato dal no'stro rimando a Unthan, il violinista senza braccia. Rimane da mostrare perché il passaggio dalla condizione di disabile a quella di acrobata non sia una semplice idiosincrasia di figure marginali, come quella sviluppata da Unthan in reazione a uno stimolo innato o come quella comparsa in Hugo Bali, il biografo degli asceti cristiani, quando tentò, attraverso "una fuga dal tempo", di superare le deformazioni spirituali che affliggevano l'epoca della guerra mondiale. In questa sua rivolta contro il Novecento, finì in compagnia di quegli eremiti che millecinquecento anni prima erano sfuggiti al proprio tempo. Nel presente capitolo spiegherò, valendomi inizialmente di un modello letterario e in seguito di profili psicologici e sociologici, in che modo l'acrobatica sia diventata una caratteristica, estesasi a cerchie sempre più ampie, della moderna riflessione sullà condicio humana. Ciò è accaduto quando si riconobbe nell'uomo, sulla scorta dell'onnipresente Nietzsche, l'animale instabile, privo di protezione, condannato a compiere acrobazie (Kunststucken). Orientando lo sguardo in direzione dell'acrobata viene in primo piano un ulteriore aspetto di quella svolta epocale che definisco tendenza alla despiritualizzazione dell'ascesi. Leggendo Nietzsche, ci siamo valsi del suo rimando ali' alba della teoria ascetica e ci siamo persuasi che l'auspicabile tramonto degli ideali ascetici di tipo repressivo non comporti affatto la scomparsa della vita positivamente incentrata sull'esercizio. Probabilmente solo l'alba dei nuovi asceti, che noi collochiamo all'inizio del xx secolo, mostra retrospettivamente, in

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una luce assai diversa e in tutta la sua estensione, il regno trimillenario delle pratiche ascetiche fondate su motivazioni metafisiche. Molti aspetti confermano questa interpretazione: chi cerca uomini trova asceti e chi osserva asceti scopre acrobati. Per sostanziare questo sospetto, la cui prima formulazione risale agli scavi archeologici, condotti dallo Schliemann della morale, vorrei chiamare in causa F ranz Kafka in qualità di testimone dei fatti. Con riferimento agli inizi della sua ricerca, pare owio supporre che egli avesse ricevuto l'impulso proveniente da Nietzsche già in tenera età e l'avesse interiorizzato così profondamente da dimenticare l'origine dei suoi interrogativi, ragion per cui nell'opera di Kafka non esiste praticamente alcun riferimento esplicito all'autore della Genealogia della morale. Kafka sviluppò tali stimoli in direzione di un progressivo abbassamento del tono eroico e di un simultaneo accrescimento della sensibilità per l'universale dimensione ascetica e acrobatica dell'esistenza umana. Per rimarcare l'istante in cui Nietzsche passa il testimone a Kafka, vorrei ricordare il celebre episodio del funambolo nel sesto para~ grafo del Prologo di Così parlò Zarathustra, nel quale Zarathustrà stesso indica l'acrobata schiantatosi al suolo cadendo dalla fune CO" me suo primo discepolo, o quanto meno, se non proprio come discepolo, come il primo individuo a lui spiritualmente affine tra gli uomini della pianura. Zarathustra consola l'uomo morente, spie" gandogli perché non avrebbe dovuto avere nulla da temere: nessun diavolo lo porterà via rendendogli amara la vita dopo la morte. A ciò l'uomo precipitato dalla fune replica grato che, in quel caso, non avrebbe perso molto, perdendo solamente la vita: Non sono molto più di una bestia, alla quale hanno insegnato a danzare a forza di botte e magri bocconi.

In questa dichiarazione abbiamo davanti a noi la prima confessione dell'esistenzialismo acrobatico. Questa affermazione minimalista si collega indissolubilmente alla risposta di Zarathustra, la quale funge per lo sventurato da nobile specchio: Non parlare così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non v'è nulla di spregevole. Ora muori a causa del tuo mestiere: per questo ti voglio seppellire con le mie mani.

Non è possibile fraintendere il senso del dialogo. Esso ha il significato di una scena originaria, poiché vi si istituisce una communio

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di nuovo tipo: nessun popolo di Dio ormai, ma un popolo in azione; rton più la comunità dei santi, ma una comunità di acrobati; nessun versatore di contributi in una società coperta da assicurazione, ma membri del gruppo di chi vive pericolosamente. I: elemento vivificante di questa Chiesa ancora invisibile è il pneuma del pericolo accettatò. L: acrobata caduto dalla fune è, non a caso, il primo degli aderenti alla dottrina di Zarathustra. Nel suo ultimo istante di vita il funambolo si sente compreso dal nuovo profeta come da nessun altro prima di allora: compreso come l'essere che, pur e~'sendo soltanto uha bestia alla quale hanno insegnato a danzare, aveva fatto del pericolo il proprio mestiere. Kafka ha scritto il capitolo successivo al prologo di questo romanzo dedicato all'acrobata. In questa prosecuzione, l'alba dell' acrobata è giàun po' più luminosa, per cui l'apparato scenico è visibile quasi in piena luce. Qui non serve a molto approfondire il fatto che Kafka fosse personalmente un seguace degli esercizi ginnici, delle diete vegetariane e delle ideologie igieniste, comuni in quel periodo. 46 Nella raccolta di massime che egli estrasse dai suoi quaderni in ottavo e organizzò in un elenco numerato (pubblicata in seguito da Max Brod con il titolo Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via), il primo appunto recita: La vera via procede su di una fune, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra destinata più a far inciampare, che a essere percorsa. 47

Nessuno oserà affermare, a primasista, che questo appunto sia facilmente comprensibile. Le due frasi però acquistano trasparenza se le si concepisce come prosecuzione della scena illustrata da Nietzsche ... una prosecuzione, tuttavia, che prende una direzione decisamente diversa rispetto alle intenzioni eroiche e ascensionali di Nietzsche. Senza dubbio la "vera via" continua a essere collegata alla fune, che però è spostata dalle altezze aeree in prossimità del terreno. Essa non ha più la funzione di attrezzo sul quale gli acrobati dimostrano il loro fermo incedere, ma quella di trappola d'inciampo. Ciò sembra voler dire: il compito di trovare la vera via è già così difficile che gli uomini non sono costretti a salire in alto per vive46. Vedi Rainer Stach, Franz Kafka. Jahre der Entscheidungen, Fischer, Frankfurt a.M.2002. 47. Franz Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo. Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, tr. it. mod. Mondadori, Milano 1988,

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re pericolosamente. La fune non testa più la tua capacità di tenere l'equilibrio sulla base più stretta che si possa immaginare, ma deve piuttosto dimostrarti che, avvicinandoti a essa con troppa sicurezza, cadrai anche solamente camminando per la tua strada. L'esistenza come tale è una prestazione acrobatica, ma nessuno può dire con certezza quale educazione offra i presupposti migliori per affermarsi in questa disciplina. Per questa ragione, l'acrobata non sa più quali esercizi possano evitargli la caduta, fatta salva l'attenzione vigile. Questa dissolvenza dell'acrobatica non indica affatto una diminuzione di importanza delfenomeno, ma al contrario rivela come i motivi acrobatici investano tutti gli aspetti della vita. Il grande tema delle arti e delle filosofie del xx secolo (la scoperta della sfera quotidiana) trae la propria energia dall'alba degli acrobati, la quale trova compimento insieme a quel tema. Solamente perché l'esoterismo dei nostri giorni mostra l'identità di quotidianità e acrobatica, le sue ricerche apportano risultati non banali. Anche l'appunto ermetico di Kafka può essere assegnato a quel;, l'insieme di processi che ho chiamato de-spiritualizzazione dell' ascesi. Esso permette di annoverare l'autore nella grande svolta che ha portato i moderni a fuoriuscire da un sistema, operante da millenni, di tensioni verticali codificate in termini religiosi. A parecchi individui, in quell'eone storico, era stata impartita un'educazione da acrobati del mondo ultraterreno, esperti nell'arte di procedere, con l'asta bilanciante dell'ascesi, sull'abisso del "mondo sensibile". A quel tempo, la fune rappresentava il passaggio dall'immanenza alla trascendenza. Ciò che unisce Kafka a Nietzsche è l'intuizione che, con la scomparsa del mondo ultraterreno, ci rimanga comunque la fune tesa. Il perché sarebbe completamente incomprensibile se non si riuscisse a dimostrare che l'esistenza di funi ha una raison d'etre più profonda, una giustificazione che andrebbe separata dalla loro funzione di ponti con il mondo ultraterreno. Una giustificazione del genere, in effetti, esiste: per entrambi gli autori, la fune rappresenta l'idea che l'acrobatica costituisca, in confronto alle consuete forme religiose dell"' ascendere", il fenomeno più resistente. Vi si attaglia la formulazione di Nietzsche relativa a "uno dei fatti più diffusi e duraturi che vi siano". Spostando lo sguardo dall'ascesi all'acrobatica, viene messo in luce un universo di fenomeni presenti sullo sfondo, un universo che abbraccia agevolmente le massime antitesi presenti sullo spettro compreso tra ricchezza spirituale e forza fisica. Vi troviamo riuniti insieme aurighi e studiosi, lottatori e Padri della Chiesa, arcieri e rapsodi, accomunati dalle medesime espe-

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rienze vissute sul cammino che conduce ali' impossibile. l', ethos universale viene formulato in un concilio di acrobati. La fune può fungere da mètafora dell'acrobatica solamente qualora la si immagini tesa: per questa ragione, bisogna prestare attenzione alle fonti da cui si origina la tensione, ai loro punti di ancoraggio e alle modalità con cui si trasmette la forza. Finché la tensione della fune è stata generata sotto il segno della metafisica, si è dovuto supporre un impulso proveniente dal mondo ultraterreno per spiegare la sua peculiare intensità. Ogni individuo dall'esistenza media sperimentava questo impulso proveniente dall'alto attraverso l'onnipresente esempio dei santi, ai quali, per via di sforzi che si amava definire sovrumani, era talvolta concesso avvicinarsi all'impossibile. Non bisogna tuttavia scordare che superhomo è un termine arcicristiano, con il quale l'Alto Medioevo espresse la sua più elevata ambizione: esso fu impiegato per la prima volta alla fine del XIII secolo nei confronti del re francese Luigi il Santo! 1',indebolimento di questo ancoraggio trascendente è visibile in primo luogo nel fatto che sempre meno individui aspirino a salire sulla fune librata nel!' aria. In conformità a uno Zeitgeist egualitario e fondato su un'etica della prossimità, ci si accontenta oggi di un'interpretazione amatoriale del cristianesimo, tutt'al più ispirata alla ginnastica artistica. Perfino un isterico fatto santo come Padre Pio ebbe così poca fiducia nell'origine trascendente delle sue piaghe che, a quanto pare, cedette alla tentazione di provocare le ferite sanguinanti sui palmi delle mani con l'ausilio di acidi corrosivi, rinnovando l'operazione quando necessario. 48 Fin dal XIX secolo, vi è ali' ordine del giorno la costruzione di un generatore alternativo che ripristini l'alta tensione di natura esistenziale. In effetti, esso viene predisposto ogni volta che un equivalente dinamismo interiore compare in persone che hanno correttamente compreso la propria esistenza. Ancora una volta ci tocca pronunciare il nome di Nietzsche, poiché fu egli che riuscì a scoprire nella "vita" in quanto tale un marcato dislivello a priori tra riuscire e riuscire-meglio, tra volere e volere-di-più, tra essere ed essere-di-più. Egli inoltre rivelò l'esistenza di tendenze avverse alla vita ovvero bionegative, le quali non di rado, con il pretesto dell'umiltà, puntano sulla volontà di non-volere e di voler-essere-sempre-meno. I discor48. Queste rivelazioni, che assomigliano allo smascheramento di una frode per doping, vengono presentate nel libro di Sergio Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e poli~ tica nell'Italia del Novecento, Einaudi, Torino 2007. Vedi Dirk Schliimer, "Ein Siiurenheiliger", in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 26 ottobre 2007.

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si, divenuti nel frattempo fin troppo alla moda, sulla volontà di potenza e sulla vita come continuo superamento di sé, forniscono le formule per l'energetica differenziale caratteristica dell'esistenza che lavora su se stessa. Per quanto le ideologie del relax, oggi in voga, cerchino in tutti i modi di occultare questa circostanza, i moderni protagonisti della ricerca della "vera via" non si sono ancora stancati di richiamarsi ai fatti elementari della vita sollecitata dall'alto, così come si presentano prima della loro mistificazione per mano di morali triviali, congreghe umanitariste e programmi di wellness. Che Nietzsche le abbia presentate secondo codici eroici, mentre Kafka abbia preferito le figure minori e paradossali, non cambia affatto la nostra osservazione: entrambi remano nella medesima direzione. Se Zarathustra afferma, nel suo primo discorso: "L'uomo è una fune tesa tra animale e superuomo", o se per Kafka la fune è tesa appena sopra il terreno come una trappola d'inciampo per individui sicuri di sé, in entrambi i casi non si tratta certo né della stessa fune né della stessa acrobazia, ma di funi provenienti dalla medesima fabbrica., che produce, fin dai tempi più remoti, accessori per acrobati. Non occorre che approfondisca in questa sede l'indicazione tecnica per cui Nietzsche era maggiormente incline all'acrobatica basata sulla forza e sull'abbondanza, mentre Kafka preferiva l'acrobatica basata sulla debolezza e la carenza. Tale differenza potrebbe essere spiegata solamente nel quadro di una teoria generale delle buone e delle cattive abitudini nonché prendendo in considerazione le simmetrie tra allenamento che rafforza e allenamento che indebolisce. Kafka ha oggettivato le sue intuizioni sul significato dell' acrobatica e dell'ascesi in tre racconti divenuti classici: Relazione per un'accademia del 1917 (pubblicato per la prima volta nella rivista Der]ude diretta da Martin Buber); inoltre Primo dolore del 1922 (apparso per la prima volta nella rivista Genius) e infine Un digiunatore del 1923 (pubblicato la prima volta dalla Neue Rundschau). Il primo racconto presenta l'autobiografia di una scimmia che è riuscita a diventare umana attraverso l'imitazione. Qui Kafka tenta niente meno che una nuova esposizione del processo di ominazione dalla prospettiva di un animale. Il motivo che spinge a diventare umani non risiede, come accade di solito, in una combinazione di adattamenti evolutivi e innovazioni culturali. Esso dipende piuttosto da una circostanza fatale, ossia che i cacciatori del circo Hagenbeck catturano la scimmia in Africa e la trascinano nel mondo umano. Da ciò traspare un interrogativo che però non viene mai formulato expressis verbis: perché l'uomo, al culmine attuale della sua evo-

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luzione, ha bisogno di giardini zoologici e circhi? Forse perché, in entrambi questi luoghi, trova conferma una sua vaga sensazione, ossia di poter imparare qualcosa sul proprio essere e divenire? Per la scimmia, già a bordo del piroscafo che la conduce in Europa, risulta evidente che, per quanto riguarda il proprio destino, di fronte all'alternativa zoo o varietà, solamente quest'ultimo può essere preso in considerazione e solamente in esso scorge l'opportunità di conservare un resto, per quanto minimo, della propria eredità. In lei sopravvive una sorta di sensazione, come se per una scimmia dovesse sempre esserci una via di scampo: le vie di scampo costituiscono la materia prima di origine animale per ciò che gli uomini indicano con l'altisonante termine di libertà. Inoltre, la scimmia non arriva nel mondo umano nel pieno possesso della propria natu-, rale motilità: due colpi di fucile l'hanno colpita al momento della cattura, in volto il primo, che ha lasciato una cicatrice rossa sulla guancia e le ha procurato il nome di Peter il Rosso; al di sotto del1'anca il secondo, che l'ha storpiata e le ha imposto un'andatura leggermente zoppicante. Hans Wiirtz annoverò Peter il Rosso, accanto a Lord Byron e Joseph Goebbels, nella categoria degli "storpi deformi" e zoppi, ma talvolta anche accanto a Unthan, il violinista senza braccia, il quale, in un passo delle sue memorie, mise a verbale che di tanto in tanto, senza ragioni di tipo organico, iniziava a zoppicare, riuscendo tuttavia a debellare questo errato comportamento attraverso un intenso allenamento. Poiché solamente la strada del varietà rimaneva ancora percorribile, il processo di ominazione della scimmia conduce dritto dritto sulla scia dell'acrobatica. La prima acrobazia che Peter il Rosso impara, senza sapere ancora che, con essa, si stava avviando un processo di autoaddestramento, è la stretta di mano, vale a dire il gesto con cui gli esseri umani fanno intendere ai membri della stessa specie che li considerano loro simili. Mentre i filosofi della società come Kojève riconducono l'ominazione al duello, in occasione del quale i partecipanti rischiano la propria vita per via di un sentimento che chiamiamo, con un termine inadeguato, spavalderia, l'antropologia acrobatica di Kafka si accontenta della stretta di mano, la quale rende superfluo il duello. "La stretta di mano testimonia franchezza[. .. ]"; in questo gesto si realizza la prima forma dell'etica: ha dovuto compierlo una scimmia, affinché diventasse esplicito che la sfera dell'etica ha la sua origine nell'addestramento e, nel caso specifico, in un addestramento finalizzato all'avvicinamento. Ancor prima della stretta di mano, Peter il Rosso acquisì un atteg-

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giamento psichico che avrebbe costituito il fondamento di tutto. il suo ulteriore apprendimento: la calma interiore cui la scimmia si costrinse, basata sull'idea che un tentativo di fuga avrebbe solamente peggiorato la propria situazione. Chi riconosce che entrare a far parte dell'umanità offre la sola via d'uscita all'animale in gabbia può fare ciò che desidera, tranne che rompere le stampelle sulle quali, zoppicando, va incontro alla propria meta. Tra la natura scimmiesca e quella umana si colloca uno stoicismo spontaneo che trattiene il candidato dal commettere - queste le parole di Peter il Rosso - "atti di disperazione". Le acrobazie successive non fanno che sviluppare ulteriormente quanto già era presente nella prima: Peter il Rosso impara a sputare in faccia agli uomini per spasso, divertendosi poi a ricevere con indulgenza i loro sputi in replica. Inizia poi a fumare la pipa e infine a bere dalla bottiglia della grappa, che pone la sua precedente natura davanti alla prova più difficile. Il senso di entrambe queste ultime lezioni è chiaro: senza stimolanti e narcotici l'uomo non può db ventare ciò che è tenuto a rappresentare nella propria sfera. Da quel momento Peter il Rosso, nel suo cammino verso l'ottenimento delle abilità richieste dal varietà, finisce per logorare tutta una serie di maestri, tra i quali uno che, nel rapporto con il suo allievo, sviluppa una confusione mentale tale da renderne necessario il ricovero in una casa di cura. Alla fine, "con uno sforzo che non ha eguale sulla Terra", Peter il Rosso riesce a raggiungere il grado di cultura media di un europeo, il che da un lato non significa nulla, ma dall'altro significa pur qualcosa, dato che gli consente di avere una via di scampo dalla gabbia, una "via di scampo umana". Riassumendo, Peter il Rosso, ormai diventato uomo, nota con enfasi che la sua relazione scritta è un'imparziale descrizione di quanto è realmente accaduto: "Mi contento di riferire, e anche a voi, egregi signori dell'Accademia, non ho fatto che presentare una relazione" .49 Al livello successivo delle ricerche kafkiane nell'ambito dell' esistenzialismo da varietà, viene in primo piano il fattore umano. Nel breve racconto Primo dolore, definito da Kafka, in una lettera a Kurt Wolff, una "storiella disgustosa", si parla di un trapezista, abituatosi a non scendere più dalla cupola del circo dopo i suoi spettacoli. Egli si sistema sotto il soffitto del tendone, imponendo a tutti i suoi colleghi di rifornirlo del necessario salendo fino a quelle altezze. Es49. Franz Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, ed. it. a cura di Andreina Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1997', pp. 1~9 sgg.

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sendo abituato a vivere lontano dal suolo, i traslochi fra le città, nelle quali il circo porta i propri spettacoli, gli risultano sempre più gravosi, ragion per cui il suo impresario tenta di facilitargli il più possibile i trasferimenti. La sofferenza del trapezista, tuttavia, aumenta visibilmente. Egli può sopportare gli inevitabili viaggi sola; mente nelle automobili più veloci o appeso alle reti dei bagagli negli scompartimenti ferroviari. Un giorno stupisce il suo impresario con la richiesta di un secondo trapezio, l'oggetto di cui, da quel momento in poi, avrebbe avuto bisogno più di qualunque altra cosa al · mondo. Fra le lacrime si chiede come sia stato possibile per lui resistere fin lì con una sbarra soltanto. A quel punto si addormenta e l'impresario scopre slll suo viso le prime rughe. In questo racconto vengono condensate, nello spazio più ristretto, asserzioni fondamentali sull'esistenzialismo da varietà. Esseriguardano senza eccezione la dinamica interna dell'esistenza acrobatica: all'inizio, si osserva che l'acrobata perde progressivamente il contatto con il mondo terreno. Volendo rimanere esclusivamente nella sfera in cui perfezionare la propria arte acrobatica, il trapezista perde i contatti con il resto del mondo e si ritira nella precarietà delle proprie altezze. Si possono leggere simili frasi come una seria parodia dell'anacoresi, ossia la rottura con il mondo profano basata su motivazioni religiose. In tal modo, il trapezista kafkiano risolve la tensione che la doppia vita di "artista e borghese" comporta, come ci viene ricordato dalle dichiarazioni, molto vicine sia dal punto di vista temporale sia da quello tematico, di Gottfried Benn e Thomas Mann. Il trapezista punta totalmente la propria esistenza sul primo termine. La richiesta di un secondo trapezio contraddistingue la tendenza, insita nell'acrobatica radicale, a un continuo innalzamento del livello. L'anelito ad.ascendere è tipico dell'arte, come la volontà di raggiungere una realtà ultraterrena è tipica del1' ascesi religiosa: non basta la perfezione. Ciò che non è considerato impossibile non soddisfa. Qui incontriamo un altro modulo mentale50 che raramente manca nella composizione dei sistemi religiosi: esso include le operazioni interiori che presentano l'impossibile come realizzabile, anzi, che lo vedono come già realizzato. Ovunque esse vengano attivate, cade il confine tra possibile e impossibile. Tramite questo terzo mattone ci si abitua a un sillogismo ibrido: che X sia impossibile dimostra la sua possibilità. A modo suo, l'acrobata che chiede la secon50. Vedi la descrizione degli altri due moduli supra, pp. 30 sgg.

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da sbarra ripete il credo quia absurdum con cui Tertulliano, nel III s.ecolo, aveva formalizzato il nuovo sillogismo. 51 Inutile dire che ci:ò rappresenta il modulo religioso propriamente surrealistico. Per metterlo in atto occorre un'operazione interiore che Coleridge - nel contesto dell'estetica- definì willing suspension o/ disbelief, la "sospensione intenzionale dell'incredulità" .52 Con essa il credente fa saltare il sistema della plausibilità empirica e accede alla sfera dell'impossibile esistente nella realtà. Chi addestra intensamente questa figura sillogistica raggiunge l'agilità tipica degli acrobati nel rapporto con la dimensione dell'incredibile. La scoperta decisiva riesce a Kafka sotto forma di un rimando implicito. Egli infatti scopre che non esiste alcuna acrobatica che, comportando un dovere di allenarsi che assorbe unilateralmente, non implichi anche un secondo allenamento non visibile. Mentre il primo poggia su esercizi corroboranti, il secondo assomiglia a un allenamento de-corroborante. Esso, nello stesso tempo, trasforma l'acrobata sulla fune in un virtuoso dell'incapacità di affrontare la vita. Che egli, in quanto tale, debba essere preso altrettanto sul serio che nella sua prima funzione, risulta dall'atteggiamento dell'impresario. Questi rifornisce il suo protetto dell'occorrente, sotto entrambi gli aspetti: da un lato nuovi attrezzi per la sua performance aerea, dall'altro lato di tutti gli accessori volti a facilitargli la vita, utili in particolare nei momenti critici delle trasferte. A questo punto, possiamo affermare che anche questi accessori possiedono la qualità di attrezzi per allenarsi, attrezzi sui quali l'artista esercita la propria crescente distanza dalla vita. L'impresario aveva tutte le ragioni di preoccuparsi per questo secondo awicinamento al confine dell'impossibile, ma d'altra parte proprio esso mette alla prova la radicale dedizione dell'acrobata alla sua arte: un artista che rimanesse capace di affrontare la vita non farebbe che rivelare di avere tempo, accanto alla propria arte, per occuparsi di ciò che arte non è, e verrebbe così automaticamente escluso dal gruppo dei grandi. Kafka, dunque, potrebbe essere considerato come l'iniziatore di una teoria negativa dell'allenamento. Gli spunti più importanti dello scrittore si trovano tuttavia nel breve racconto intitolato Un digiunatore. 53 In esso Kafka integra le proprie osservazioni sull'esistenza degli acrobati con un'asserzione 51. Su Tertulliano vedi infra, pp. 252 sgg. 52. In Biographia Literaria, pubblicata nel 1817. Secondo l'autore, questo atto crea poetic /aith. 53. Hungerkiinstler è letteralmente "l'artista del digiuno". [NdT]

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sul loro destino futuro. Già la frase di apertura del racconto ne chiarisce il senso: "Negli ultimi decenni l'interesse per i digiunatori è molto diminuito". Il pubblico contemporaneo non riesce più a trovare interesse nelle esibizioni di questi virtuosi, mentre in precedenza ne era del tutto ammaliato. Ai tempi d'oro di quest'arte, vi erano abbonati che per giorni sedevano davanti alla gabbia, anzi, l'intera città si dedicava ali' asceta e "la partecipazione cresceva da un giorno di digiuno ali' altro" .54 Quando esibiva la propria arte, il digiunatore vestiva una maglietta nera, dalla quale sporgevano visibilmente le costole. Egli sedeva su di un pagliericcio all'interno di una gabbia, affinché fosse garantito il totale controllo delle sue attività. Dei guardiani sorvegliavano giorno e notte il rigido rispetto del digiuno, affinché l'asceta non si nutrisse di nascosto, anche se egli, naturalmente, non sarebbe mai ricorso a mezzi illeciti. Egli talvolta permetteva addirittura che ai guardiani venisse servita, a sue spese, una lauta colazione, per dimostrar loro la sua gratitudine per i servizi resi. Malgrado ciò i sorveglianti, che lo accompagnavano ininterrottamente, nutrivano sospetti sulla sua arte. Nei periodi migliori, lo spettacolo del digiunatore poteva essere mostrato nelle più grandi città del mondo come awenimento sensazionale autonomo. Per ogni singolo digiuno l'impresario aveva stabilito una durata massima di quaranta giorni, non tanto per via delle analogie bibliche, ma perché, per esperienza, l'interesse del pubblico nelle metropoli veniva eccitato solamente in quell'arco di tempo, mentre poi si affievoliva per lunghi periodi. Il digiunatore stesso era sempre insoddisfatto di questa scadenza, poiché dentro di sé aspirava a dimostrare di essere in condizione "di superare se stesso fino all'incomprensibile" .55 Se il digiunatore, dopo la finè del suo esercizio artistico durato quaranta giorni, finiva per crollare, ciò non accadeva certo perché fosse esausto a causa del digiuno, come affermava il suo impresario scambiando la causa per l'effetto, quanto piuttosto per la disperazione che non gli si consentisse, anche stavolta, di superare i confini di quanto veniva considerato possibile. Quando si iniziò a constatare il calo d'interesse per l'arte del digiuno da parte del vasto pubblico, l'artista, dopo alcuni vani tentativi di rianimare il genere in via di estinzione, dovette decidere di abbandonare il suo impresario e di farsi ingaggiare da un grande circo, dove sapeva che mai sarebbe stato presentato come numero di 54. Franz Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, cit., p. 199. 55. Ibidem, p. 202.

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spicco, bensì come una curiosità marginale. La sua gabbia venne infatti collocata nei pressi delle stalle in cui alloggiavano gli animali dcl circo, affinché i visitatori, che accorrevano ad ammirare gli animali nelle pause degli spettacoli, potessero incidentalmente gettare uno sguardo all'asceta estenuato. Egli dovette rassegnarsi alla realtà, anche a quella più amara: era diventato ormai "un ostacolo sulla via delle stalle". Benché adesso potesse soddisfare un desiderio che da sempre aveva nutrito, ossia digiunare quanto a lungo gradisse, giacché ora nessuno lo osservava e di conseguenza nessuno lo avrebbe mai trattenuto, il suo cuore era tuttavia pesante: egli infatti "lavorava onestamente- era il mondo a defraudarlo della sua ricompensa". Nascosto nella sua paglia, accumulava record che nessuno vedeva. Non appena si sentì prossimo al momento della morte, il digiunatore rese la propria confessione artistica al sorvegliante che ca~ sualmente lo aveva trovato awoltolato nella paglia: "Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno." [ ... ] "E infatti noi lo ammiriamo", disse comprensivo il sorvegliante. "E invece non dovete ammirarlo", disse il digiunatore. "Bene, allora non lo ammiriamo", disse il sorvegliante, "ma perché mai non dobbiamo ammirarlo?" "Perché io sono costretto a digiunare, non posso fare altrimenti", disse il digiunatore. "Ma guarda un po'", disse il sorvegliante, "e perché non puoi fare altrimenti?" [. .. ] "Perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi piacesse. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei fatto tante storie e mi sarei saziato come te e tutti quanti." 56

Dopo la morte dell'asceta, la sua gabbia venne destinata a una giovane pantera, che vi si aggirava con magnificenza. Di questo animale il narratore ci comunica l'essenziale dicendo: "Non gli mancava nulla". Non ho intenzione di commentare gli aspetti artistici di questo capolavoro variamente interpretato. Nel nostro contesto è sufficiente una lettura, non ispirata dal punto di vista artistico, che assuma il testo come testimonianza storico-spirituale. Quel che conta è l' acutezza della riflessione kafkiana in vista di un modello per la teoria generale dell'ascesi. Ciò che ha preso le mosse come filosofia da varietà può ora dispiegarsi come forma esplicativa dell'ascesi classica. Responsabile di questo passaggio è la scelta della disciplina: il digiuno. Esso non è una disciplina acrobatica come tutte le altre, ma costituisce l'ascesi metafisica per eccellenza. Fin dai tempi antichi, esso rap56. Ibidem, p. 207.

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presenta l'esercizio mediante il quale, quando riesce, l'individuo normale, sottoposto alla fame, sperimenta in prima persona - oppure osserva in altri - come si riesca a dominare la natura sul suo stesso terreno. La fame degli asceti è la forma conoscitiva della sofferenza da penuria, la guale altrimenti viene ovunque sperimentata solo in termini passivi~ involontari.57 Questa vittoria sulla penuria è consentita solamente a chi viene aiutato da una carenza ancora più grande: quando gli antichi maestri dell'ascesi affermano che la fame di Dio o dell'illuminazione, ammesso che possa essere saziata, debba scalzare ogni altro bisogno, presuppongono già una gerarchia di privazioni. Il gioco linguistico della devozione religiosa coglie la possibilità di raddoppiare i tipi orali di continenza, contrapponendo alla fame profana una fame sacra. A dire il vero, la fame sacra non è un bisogno di pienezza, ma significa piuttosto la ricerca di un'omeostasi, per la quale "saziare la fame" rappresenta una metafora valida solamente sul piano della retorica spirituale. 58 Nella parabola kafkiana dedicata all'ascesi è decisivo che l'acrobata ammetta di non aver meritato l'ammirazione che gli si tributa, perché, con il suo digiuno, altro non avrebbe fatto che mettere in pratica ciò che coincideva con la sua inclinazione (Neigung) più intima, o meglio, con la sua avversione (Abneigung) più profonda: egli aveva sempre e soltanto obbedito alla propria avversione nei confronti della pretesa che accettasse gli alimenti che gli venivano offerti. La frase: "E invece non dovete ammirarlo" è l'affermazione più spirituale foqnulata nell'Europa dell'ultimo secolo; manca ancora il suo analogo: "E invece non dovete santificarlo". Ciò che Nietzsche aveva descritto, in generale, come il negativismo di chi è handicappato nella vitalità, ritorna ora, nello specifico, come disgusto nei confronti del cibo. L'acrobata kafkiano non supera dunque mai se stesso, ma obbedisce a una repulsione che lavora per lui e che gli basta semplicemente esasperare. L'acrobatica più estrema si rivela, in ultima analisi, una questione di gusto. Nulla qui mi piace ... così recita la condanna spiccata dal tribunale universale del palato rispetto alle offerte dell'esistenza. Il rifiuto del nutrimento si spinge ben più in là del semplice noli me tangere, che Gesù risorto rivolge a 57. Sulla rivolta ascetica contro la fame vedi infra, pp. 512 sgg. 58. La metafora è fuorviante in questo contesto, perché poggia sulla confusione tra intenzioni di ricerca orali e preorali. La differenza guida vigente per il mondo affamato, quella tra vuoto e pieno, non copre l'intero campo della ricerca: per i più esigenti dal punto di vista spirituale, ha più importanza la differenza guida tra omeostatico-senza-apprensione e inquieto-in-apprensione. ·

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Maria Maddalena secondo Giovanni 20, 17. Tale rifiuto articola, a livello gestuale, un non-entrare-in-me ovvero non-riempirmi-interamente. Esso va dal divieto del contatto fino al rigetto del metabolismo, come se ogni collaborazione con le tendenze spontanee del proprio corpo fosse un'audacia infame. Ciò che rende significativo l'esperimento narrativo di Kafka è il suo coerente lavorare sulla scorta del presupposto, tacitamente accolto, che Dio sia morto. In virtù di tale premessa, il digiuno può svelare ciò che resta dell'istanza metafisica quando la sua meta ultraterrena è estinta. Si manifesta una sorta di ascesi decapitata, nella quale la presunta tensione verticale dall'alto si rivela come tensione ostile da dentro. Il torso finisce quindi per coincidere con il tutto. Kafka conduce i suoi esperimenti rinunciando alla religione, al fine di mettere alla prova un'ultima religione basata sulla rinuncia a tutte quelle componenti che, fino a quel momento, l'avevano costituita. Ciò che rimane sono gli esercizi acrobatici. Per questa ragione, il digiunatore parla onestamente quando prega di non essere ammirato. Il calo d'interesse popolare per i suoi spettacoli avviene proprio al momento giusto, come se la folla obbedisse senza saperlo alle ispirazioni di uno Zeitgeist che, a proposito del mondo del digiuno, vorrebbe trarre la seguente conclusione: passato e ormai liquidato. Adesso verrà il tempo di coloro ai quali nulla mancherà, siano essi pantere, abitanti di repubbliche di lavoratori e contadini, oppure seguaci dell'economia sociale di mercato. Quella che fu la più spirituale tra le pratiche ascetiche, oggi non è altro, in effetti, che "un ostacolo sulla via delle stalle". Dieci anni dopo la pubblicazione del racconto Un digiunatore, Josif Stalin, con altri mezzi, ha suggellato la fine del digiuno quando, nell'inverno tra il 1932 e il 1933, per via di un embargo alimentare, ha condannato a morte innumerevoli contadini ucraini (le ci~ fre oscillano tra i 3,5 e gli 8 milioni), anch'essi individui inattuali, ostacoli sulla via verso la sazietà.59 Stalin stesso non è stato in grado di ottenere la totale profanazione della fame. Ai suoi tempi, era davvero esistito un digiunatore, non a Praga, ma a Parigi, pochi anni dopo la morte di Kafka. Non si trattava di un uomo in maglietta nera e con le costole sporgenti, 59. Con il concorso della politica alimentare finalizzata al genocidio, della collettivizzazione forzata e delle persecuzioni dei kulaki, la politica di Stalin pretese circa 14 milioni di vittime solamente tra il 1929 e il 1936.

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L'ULTIMO DIGIUNO

ma di una signorina magrissima che portava calze blu. Anche lei era un'acrobata nel campo del dimagrimento per amore del totalmente Altro: la massima pensatrice dell' antigravitazione che il Novecento abbia conosciuto, nata nel 1909, anarchica di origine ebraica, convertita al cattolicesimo, iniziata a tutte le montagne incantate della dimensione extramondana, ma, al contempo, alla ricerca di radicamento nell'autentica comunità, membro dei movimenti di resistenza nonché esistenzialista per ostinazione, volle morire di fame accanto alla classe operaia, per nobilitare la propria inappetenza e mortificare la propria nobiltà. All'età di 34 anni, durante il suo esilio britannico, Simone Weil perì per il concorso di due cause: per la tubercolosi e per essersi lasciata volontariamente morire di fame.

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5 BUDDHISMO PARIGINO GLI ESERCIZI DI CIORAN

Anche l'ultima figura che desidero presentare in queste riflessioni introduttive, lo scrittore aforistico rumeno Emil M. Cioran, classe 1911, vissuto a Parigi tra il 1937 e il 1995, va annoverata in quella grande svolta che qui stiamo trattando. Egli per noi è una preziosa fonte di informazioni, perché in lui possiamo osservare come il processo di informalizzazione dell'ascesi proceda senza che la tensione verticale venga meno. Anche Cioran, a modo suo, è un digiunatore: un uomo che digiuna metaforicamente, astenendosi dall' a~ limentare stabilmente la propria identità. Anch'egli non supera se stesso, ma anzi, come il protagonista di Kafka, asseconda la sua fortissima propensione a provare ribrezzo per il Sé compiuto. In quanto digiunatore sul piano metaforico, egli altro non fece, per tutta la vita, che gettare le basi del Grande Rifiuto. In questo modo egli ha dimostrato come lo scetticismo si dispieghi dall'atto di sospendere il giudizio fino alle riserve rispetto alla tentazione di esistere. Il modo migliore per avvicinarsi a Cioran è quello di adottare come linee guida due affermazioni di Nietzsche: Chi disprezza se stesso continua pur sempre ad apprezzarsi come dispregiatore.60 Morale: quale uomo avveduto scriverebbe ancora oggi una parola onesta su di sé? -dovrebbe in tal caso già appartenere all'ordine della santa temerità. 61

L'ultima osservazione si riferisce alla quasi inevitabile sgradevolezza che caratterizza ogni dettagliata biografia di grandi personag60. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. mod. Adelphi, Milano 1992, IV,§ 78, p. 72. 61. Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, cit., m, § 19, p. 133.

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gi. Meglio ancora, essa descrive l'improbabilità psicologica e morale di una sincera presentazione di sé. Nello stesso tempo, dà un nome alla condizione che renderebbe possibile un'eccezione: in effetti, in Cioran si potrebbe scorgere il priore dell'ordine evocato da Nietzsche. La sua santa temerità scaturisce da un gesto che Nietzsche considerava il più improbabile e il meno auspicabile: la rottura con le norme della discrezione e del tatto, per non parlare del pathos della distanza. Nietzsche, personalmente, arrivò vicino a questa posizione soltanto una volta, quando cioè, nei passaggi psicologici di Ecce homo, si avvalse del "cinismo" necessario a una presentazione onesta di sé: in quell'occasione, affibbiò immediatamente a questo gesto il predicato di "storico-universale", per compensare il becero sentimento con la grandezza del compito. Egli giunse tuttavia a un autoelogio di stampo barocco piuttosto che a un'indiscrezione contro se stesso, sempre che, in questo caso, l'autoelogio non rappresenti il modo più profondo di compromettersi: Per il resto, Nietzsche rimase un profeta timido, il quale percepì le disinibizioni, che vedeva arrivare, solamente attraverso la fessura della porta socchiusa. Chi, dal punto di vista anagrafico, arrivò dopo Nietzsche, come Cioran, fu condannato a proseguire su quella strada. Il giovane rumeno seguì l'indicazione di Nietzsche non solamente ponendosi alla guida dell'ordine della santa temerità, insieme ad altri personaggi che misero a nudo se stessi, come Michel Leiris eJean-Paul Sartre, ma realizzò anche il programma di fondare sull'autodisprezzo l'ultima possibilità di apprezzare se stessi. Egli poté agire in tal modo perché aveva alle spalle lo spirito del tempo, a dispetto dei suoi propositi apparentemente inusuali. La svolta epocale, mirante a rendere esplicito ciò che è latente, lo affascinò e gli fece scrivere delle cose davanti alle quali, solo qualche anno prima, qualsiasi autore sarebbe inorridito. In questa svolta la "parola onesta su di sé", che Nietzsche aveva postulato ma di fatto escluso, finì per diventare una forza offensiva senza precedenti. Dalla semplice onestà deriva un modo di scrivere basato sulla spregiudicatezza contro se stessi. Non si può più essere autobiografi senza essere autopatografi, vale a dire: senza pubblicare la propria cartella clinica. Onesto è ormai chi ammette ciò che gli difetta. Cioran è stato il primo a salire alla ribalta per dichiarare: mi manca tutto e per la stessa ragione tutto mi risulta di troppo. Il XIX secolo praticò solamente una volta, ad alto livello, il genere della "parola onesta": nelle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, 92

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uscito nel 1864. La reazione di Nietzsche alla pubblicazione di questo libro è piuttosto nota. Cioran scrisse per quasi cinquant'anni i suoi appunti da una mansarda, nella quale elaborava con mirabile monotonia la sua unica tematica: come andare avanti quando manca tutto e tutto risulta di troppo. Egli si accorse presto di poter diventare uno scrittore vestendo i panni offerti da Nietzsche: li indossò già nei suoi primi anni rumeni, per poi non toglierseli più. Nietzsche aveva interpretato la metafisica come sintomo di sofferenza nei confronti del mondo e come ausilio per sfuggirvi, e Cioran accolse questa diagnosi senza compiere il minimo sforzo di riformularla. Ciò che invece di Nietzsche rigettò fu la sua fuga nella direzione opposta, ossia affermare ciò che è inaffermabile. Per lui, il superuomo è una finzione puerile, un presuntuoso portinaio, che appende la propria bandiera fuori dalla finestra, mentre il mondo resta inaccettabile come sempre. Come si può parlare di eterno ritorno dell'eguale, se esistere una volta significa già esistere una volta di troppo? Durante gli anni universitari Cioran entrò brevemente in contatto con le affermazioni rivoluzionarie tipiche di quel periodo e fu risucchiato nell'orbita dell'estremismo rumeno di destra. Gli piacquero la mistica della mobilitazione totale, allora di moda, e il vitalismo politico, elogiato come antidoto contro lo scetticismo e l'ipertrofia della vita interiore. Tutto ciò lo spinse a cercare la salvezza nel fantasma della "nazione", qualcosa di molto simile a quello spettro che oggi si aggira con il nome di "ritorno della religione". Cioran non rimase a lungo su queste posizioni, sempre che fossero da considerarsi tali. La nausea crescente per le proprie isteriche escursioni nella positività gli restituì, col tempo, la capacità di veder chiaro. Quando nel 193 7 si trasferì a Parigi, per abitarvi per qua:;;i sessant'anni come un eremita, non era ancora del tutto guarito dalla tentazione di partecipare alla grande Storia, sebbene iniziasse a prendere progressivamente le distanze dalle esaltazioni giovanili. L'umore di fondo aggressivo-depressivo, che lo caratterizzò fin dall'inizio, si manifestò in altre forme. Durante questa fase, Cioran riuscì a metter piede definitivamente nel genere letterario della "parola onesta su di sé". Mi sono perso nelle Lettere per l'impossibilità di uccidere o di uccidermi. È stata solo questa incapacità, questa vigliaccheria a far di me uno scribacchino.62 62. Emil Cioran, Quaderni (1957-1972), tr. it. Adelphi, Milano 2001, p. 17.

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Egli non avrebbe mai più riutilizzato il linguaggio dell'impegno politico, che aveva adottato nei suoi anni rumeni col talento dell'imitatore in età puberale. Venne abbandonata anche la cieca ammirazione che in passato aveva nutrito per la Germania e la sua bruta~ le avanzata. "Se posso dire di essere guarito da una malattia, allora sicuramente da questa. "63 Per il convalescente, tra le parole oneste sulla propria malattia va annoverata anche l'ammissione di essersi voluto curare con mezzi disonesti. Liberatosi una volta per tutte da questo male, egli si dedicò al compito di inventare il Cioran scrittore, il quale, con il capitale psicopatico che aveva rinvenuto in sé da giovane, avrebbe finito per fondare un'impresa. La figura che egli, a quel tempo, cucì su di sé somigliava a un personaggio uscito dai romanzi di Hugo Ball: essa rappresenta un "individuo provocatore", il santo da varietà, il clown filosofico, che trasforma la disperazione e il voler-essere-nulla in una carrellata di numeri spettacolari. Nell'opera di Cioran si possono osservare, nella maniera più pregnante possibile, la secolarizzazione dell'ascesi e l'informalizzazione della spiritualità. Nel suo caso, l'esistenzialismo mitteleuropeo dell'ostinazione non si tradusse in esistenzialismo resistenziale politicamente impegnato, come invece avveniva nel caso dei mandarini parigini, ma in una serie infinita di atti di disimpegno. L'opera di questo esistenzialista del rifiuto consiste in una successione di dinieghi nei confronti delle tentazioni a farsi coinvolgere e a ricoprire una determinata posizione. In tal modo, il suo paradosso centrale si delinea in maniera sempre più chiara: la posizione dell'uomo senza collocazione, il ruolo dell'attore senza parte. Già con il primo dei suoi libri parigini, Précis de décomposition, del 1949, Cioran raggiunse, quanto a stile, il livello dell'eccellenza, un libro che Paul Celan tradusse in tedesco nel 1953 con il titolo Lehre vom Zer/all ("Teoria della disgregazione"). Certamente Cioran accolse in sé lo spirito dell'epoca del Senza con risultati permanenti, ma le stampelle che egli voleva rompere sono quelle dell'identità, dell'appartenenza, della coerenza. Lo convinceva solamente un principio, secondo il quale ciò che importa è non essere convinti di niente. Libro dopo libro, sviluppò la sua acrobatica esistenzialista eseguita al suolo, la cui vicinanza con gli esercizi delle figure artistiche kafkiane salta subito agli occhi. Il suo numero era stabilito fin dall'inizio: quello del personaggio marginale rintronato, che vaga non soltanto nella città, 63. Citazione tratta da Bernd Mattheus, Cioran. Portrait eines radikalen Skep-

tikers, Matthes & Seitz, Berlin 2007, p. 83.

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ma nell'universo intero come senzatetto (sans abri), apolide (sans papier) e senza pudore (sans gene). Non a caso l'impressionante raccolta delle sue testimonianze autobiografiche in lingua tedesca è stata intitolata Cafard. 64 In quanto parassita praticante, Cioran si ricollegava al senso greco del termine parasitoi: astanti al tavolo imban dito, come venivano chiamati dagli ateniesi quegli ospiti che erano invitati affinché contribuissero a intrattenere la compagnia. Soddisfare queste aspettative non risultava difficile al rumeno emigrato a Parigi. In una lettera ai suoi genitori constatò: "Se per natura fossi stato taciturno, sarei morto di fame già da un pezzo". 65 In un altro passo: "Tutte le nostre umiliazioni provengono dal fatto che non sappiamo risolverci a morire di fame" .66 Gli aforismi di Cioran vanno letti come un commento, con applicazione pratica, alla dottrina heideggeriana delle Stimmungen ("tonalità emotive"), ossia l'idea che il thymos individuale e collettivo venga impregnato dall'atmosfera generale, di modo che all:.esistenza sia "conferita" a priori una tonalità prelogica. Né Heidegger né Cioran fecero lo sforzo di parlare del conferimento e del conferitore (o della conferitrice) di questa tonalità con la compiutezza che sarebbe stata adeguata all'importanza del fenomeno, forse perché sia l'uno sia l'altro tendevano a interrompere l'analisi psicologica per passare rapidamente alla sfera delle affermazioni esistenziali. In effetti, Cioran accetta la sua disposizione emotiva di tipo aggressivo-depressivo come un fatto primordiale e un' atmosfera generale del proprio esserci. Egli accetta come una fatalità che il mondo gli sia dato principalmente con timbri distonici: tedio, noia, assurdità, cattivo gusto, collera ribelle contro tutto ciò che capita. Con franchezza Cioran conferma la diagnosi di Nietzsche, secondo la quale gli ideali della metafisica vanno interpretati come gli esiti spirituali di una malattia fisica e anche psicofisica. Proseguendo sulla linea della "parola onesta su di sé" come nessun autore aveva mai fatto prima di lui, ammette apertamente che gli interessa presentare il controcanto per la "creazione fallita". Pensare (Denken) non significa ringraziare (Danken), come suggeriva Heidegger. Significa vendicarsi. Solamente Cioran ha realizzato quello che Nietzsche aveva volu64. Emil Cioran, Ca/ard. Originaltonaufnahmen (1974-1990), a cura di Thomas Knoefel e Klaus Sander, con una postfazione di Peter Sloterdijk (CD e libro), Koln 1998. 65. Bernd Mattheus, Cioran, cit., p. 130. 66. Ernil Cioran, Sommario di decomposizione, tr. it. Adelphi, Milano 1996, p. 205.

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to smascherare come se il fenomeno fosse esistito fin dall'Antichità: una filosofia del puro risentimento. E se invece una simile filosofia fosse stata possibile soltanto grazie all'impulso dato da Nietzsche? In essa, l'esistenzialismo dell'ostinazione di origine tedesca (eludendo l'esistenzialismo resistenziale di stampo francese, che Cioran disprezzava come moda superficiale) si trasforma in un esistenzialismo dell'incurabilità dalle sfumature criptorumene e dacio-bogomiliche. Soltanto al confine con l'inesistenzialismo asiatico si è arrestata questa svolta. Cioran giocò certamente, in modo vanitoso ed europeo, e in tutti i periodi della sua vita, con il sentimento di una irrealtà completa, ma non riuscì a decidersi di seguire il buddhismo, sebbene quest'ultimo abbandoni la tesi della realtà e, insieme a essa, la tesi di Dio. Questa serve, come si sa, a garantire la realtà nota per mezzo di una "realtà ultima" che ci è nascosta. 67 Benché si senta attratto dal buddhismo, Cioran non vuole contribuire a perfezionare la sua ontologia. Egli non solo detesta la realtà del mondo, ma nello stesso tempo progetta di rimanervi dentro indenne, e perciò deve accettare, fosse anche soltanto in termini sofistici, la realtà della realtà. Egli non intende né redimere se stesso né farsi redimere. Il suo pensièro è un unico reclamo contro l'ipotesi che la redenzione sia necessaria. Si potrebbe tranquillamente considerare tutto ciò come un bizzarro prodotto di allevamento nei biotopi del pariginismo successivo al 1945, se non fosse che, in questo caso, venga in primo piano una tendenza che ha importanza a livello generale, poiché impone un cambiamento radicale delle condizioni vigenti sul pianeta dei praticanti. Come abbiamo visto, Cioran è un testimone chiave rispetto a quel capovolgimento, gravido di conseguenze per la teoria generale dell'ascesi, che stiamo tematizzando come emersione del1' antropotecnica. Tramite Cioran prendiamo atto dell'informalizzazione della spiritualità, la quale andrebbe concepita, l'ho detto in precedenza, come controtendenza complementare alla de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche. Cioran è un praticante di nuovo tipo, la cui originalità e rappresentatività si rivela nel fatto che egli si esercita nel rifiuto di ogni esercizio orientato a una meta. Come è noto, gli esercizi metodici sono possibili solamente quando abbiamo di fronte una meta dell'esercizio che sia vincolante. Cioran contesta proprio l'autorità di questa meta. Accettare una meta dell' esercizio, infatti, significherebbe di nuovo credere, dove "credere" de67. Vedi Robert Spaemann, Das unsterbliche Gerucht. Die Frage nach Gott und die Tà'uschung der Moderne, Klett-Cotta, Stuttgart 2007.

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signa in questo caso l'operazione mentale mediante la quale chi si accinge a compiere l'esercizio anticipa la meta. Questo precorrere-la-meta costituisce il quarto modulo necessario per definire il complesso della condotta "religiosa". 68 L'antici-. pazione awiene di norma in questo modo: si guarda a un esemplare perfetto dal quale si riceve in maniera incredula-fideistica il messaggio che, un giorno, lo si potrà eguagliare. Nei capitoli successivi vedremo come, applicando questa operazione interiore, siano state mobilitate, nel corso dei millenni, schiere di praticanti. 69 Senza il modulo del precorrere-la-meta npn ci sarebbe vita contemplativa né vita monacale, nemmeno desiderio di salpare per altri lidi o desiderio di diventare come una grande figura del passato. Non sottolineeremo perciò mai abbastanza come le antropotecniche più efficaci derivino dal mondo di ieri, mentre le tecniche di manipoliizione genetica, oggi fortemente apprezzate o rigettate, rimarranno per molto tempo, perfino se la loro più ampia applicazione sull'essere umano finisse per essere accettata, un semplice aneddoto in confronto all'estensione di questi fenomeni. Precorrere fideisticamente la perfezione non è un tema caro a Cioran. Egli si "interessa", certo con passione, a quegli scritti religiosi nei quali si parla di perfezione e redenzione, ma non compirà mai I'operazione fideistica in quanto tale, la prefigurazione del proprio essere-altrettanto-avanzati-in-futuro. Il suo non credere ha tuttavia due facce: quella di un non-riuscire, perché la propria tonalità emotiva di fondo mina l'ingenuità necessaria per supporre la perfezione,7° e quella di un non-volere, perché ha adottato la condotta dello scettico e non desidera abbandonare questa definitiva prowisorietà per una posizione precisa. Non gli rimane quindi nient'altro che una spe68. Ricordo en passant i tre moduli, menzionati in precedenza, che caratterizzano l'agire interiore di natura religiosa: il riconoscimento di un soggetto in luogo di una cosa; l'ipotesi di una metamorfosi grazie alla quale il soggetto "si manifesta" nel1'oggetto; la sintassi modale, secondo la quale dall'impossibilità di una cosa deriva la sua possibilità. Il quarto modulo, qui accennato, è quello propriamente acrobatico. Esso può essere riferito tanto a idee di perfezionamento artistico quanto agli ideali di santità. Il quinto modulo consiste nel richiamare alla mente l'elemento sconvolgente, consiste cioè nelle operazioni interiori con le quali si medita sull' annientabilità della propria esistenza e sul suo sprofondare nella dimensione dell'immenso. Per i dettagli vedi infra, pp. 407 sgg. 69. Vedi infra, parte seconda, capitolo 7. 70. Egli definisce talvolta la lucidità come "vaccino contro l'assoluto", non senza ammettere di lasciarsi di tanto in tanto afferrare dal primo mistero che capita. Vedi Sillogismi dell'amarezza, tr. it. Adelphi, Milano 1993, p. 86. q7

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rimentazione con dei resti. Si vede costretto a suonare uno strumento per il quale una formazione orientata a una meta sarebbe insensata: lo strumento scordato del proprio esserci. Forse, però, proprio l'atto di suonare uno strumento impossibile da suonare mostra l'universalità insopprimibile della dimensione incentrata sull'esercizio: infatti, esercitandosi dove non v'è nessuno strumento adatto, l'"antiprofeta" sviluppa una versione informale di maestria. Egli diventa il primo maestro del non-portare-a-nulla. Come il digiunatore di Kafka, dalla sua avversione egli trae un esercizio virtuosistico e trasforma il corrispondente tipo di saper-fare nel proprio caJard. Anche in questa abilità si percepisce l'appello presente in ogni acrobatica: "Volevo continuamente che l'ammiraste [. .. ]".Mentre il digiunante kafkiano aspetta fino all'ultimo per esprimere la sua contro richiesta: "e invece non dovete ammirarlo", Cioran fornisce fin dal principio i materiali per disincantare la sua arte, svelandola quasi a ogni pagina come un lasciarsi-andare sotto la coazione della tonalità emotiva di fondo. È appunto questa tonalità emotiva che parla, quando Cioran osserva: "Sono incapace di non soffrire" .71 "I miei libri non esprimono una visione, ma un sentimento della vita. "12 Rispetto alla possibilità di trasformare in senso terapeutico tali sentimenti, Cioran serbava una diffidenza sprezzante: in definitiva, egli viveva grazie ai prodotti della sua disposizione umorale e non avrebbe potuto nemmeno tentare di cambiarla. Cioran contribuì a scoprire che perfino il lasciarsi-andare è una fonte d'ispirazione artistica e, quando vi si associa anche la volontà di riuscire, richiede un allenamento obbligatorio. Con questo contributo egli ha fornito una regola all'ordine della santa temerità. Questa regola viene custodita nel Précis de décomposition, un libro pieno di strani esercizi, che formula, come intendo mostrare, la vera e propria charta della moderna "cultura" in quanto aggregato di pratiche ascetiche non dichiarate. Un libro che fa saltare qualsiasi rilegatura. In che misura Cioran fosse consapevole del proprio ruolo quando traduceva l'habitus spirituale nel malumore profano, dandone una veste letteraria, è illustrato dalla sua Lehre vom Zerfall ("Teoria della disgregazione"), il testo che ha gettato le basi della sua reputazione e il cui titolo avrebbe potuto essere reso anche con "Linee guida di decomposizione". Originariamente, questa raccolta avrebbe dovuto chiamarsi Exercises négattfs ("Esercizi negativi"), 71. Bernd Mattheus, Cioran, cit., p. 210. 72. Ibidem, p. 219. (.)Q

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un titolo che può significare sia "esercizi di negazione" sia "antiesercizi". Qui Cioran presentò di fatto una regola, che avrebbe dovuto guidare i suoi adepti sulla via dell'inservibilità. Se questa strada a\[esse una meta, essa sarebbe: "Essere più inservibile di un santo[ .. .]".73 La tendenza della nuova regola è antistoica. Mentre per il saggio stoico la cosa più importante è restare in forma a vantaggio dell'universo (lo stoicismo romano, infatti, fu soprattutto una filosofia per funzionari statali, attraente agli occhi di individui che volevano considerare onorevole resistere; come "soldati del cosmo", negli avamposti assegnati dalla prowidenza), l'asceta delineatò da Cioran deve respingere la tesi cosmica in quanto tale. Egli rifiuta l'idea che il proprio esserci sia una componente di una totalità ben ordinata, poiché esso attesta piuttosto la natura fallimentare dell'universo. La reinterpretazione cristiana del cosmo come creazione viene accettata da Cioran soltanto nella misura in cui Dio entra in gioco come autore al quale imputare un totale insuccesso. Per un istante, Cioran si awicina alla dimostrazione morale dell'esistenza di Dio fornita da Kant, sebbene di segno opposto: l'esistenza di Dio è un postulato necessario, perché Dio deve scusarsi per aver creato il mondo. Il procedimento che Cioran sviluppa per i suoi antiesercizi poggia sull'ozio elevato a pratica di rivolta, esistenziale. Ciò che egli definisce "ozio" è in realtà una deriva, consapevole e non ostacolata da nessun tipo di lavoro strutturato, attraverso gli stati d'animo che compongono lo spettro maniaco-depressivo: un metodo che prefigura la successiva esaltazione della dérive, del trascinarsi lungo la giornata, praticato dai situazionisti degli anni Cinquanta. Vivere consapevolmente alla deriva equivale a un'intensificazione, basata sull'esercizio, del sentimento di discontinuità, al quale Cioran era predisposto per via della sua natura lunatica. Tale intensificazione viene inoltre accresciuta dogmaticamente dall'aggressiva tesi che la continuità sia una "fissazione" ,74 ma sarebbe bastato chiamarla un costrutto. Esistere significa dunque: sentirsi indisposti in punti-adesso sempre nuovi. Ali' esattezza con cui Cioran conduce l'osservazione di se stesso, la quale oscilla tra momenti di contrazione ~momenti di diffusione, corrisponde il genere letterario dell'aforisma e il genere editoriale della raccolta di aforismi. L'autore stabilisce fin dall'inizio una gri73. Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, cit., p. 84. 74. Vedi Conversazioni con Cioran. Mistica e saggezza, a cura di SylvieJaudeau, Guanda, Parma 1993.

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glia relativamente semplice e stabile di sei o otto tematiche, con l'aiuto della quale rastrella gli stati d'animo provati nella deriva, per passare, di volta in volta, da un punto della sua esperienza a uno dei corrispondenti nodi tematici. Col tempo, le tematiche (come fossero personalità parziali o gruppi redazionali che lavorano uno accanto all'altro) sviluppano una vita autonoma, grazie alla quale esse crescono ulteriormente e per moto proprio, senza dover attendere un'occasione derivante dall'esperienza. L'"autore" Cioran è solamente il caporedattore che elabora, da editore, i prodotti del suo ufficio letterario. Egli compone in forma di libri ciò che viene fornito in maniera routinaria dai suoi collaboratori interiori. Essi presentano i loro materiali in riunioni dalla frequenza irregolare, aforismi derivanti dai seguenti reparti: imprecazioni contro Dio, osservazioni provenienti dallo studio della misantropia, frecciate dal settore disillusione, comunicati forniti dall'ufficio stampa del circo dei solitari, tesi sull'abisso elaborate dall'agenzia specializzata in truffe, e infine veleni redazionali per gettare discredito sulla letteratura contemporanea. Solamente formulare il pensiero del suicidio rimane appannaggio del caporedattore. Quest'attività include infatti l'esercizio da cui dipendono tutte le restanti attività in quanto sequenze ripetitive. Esso soltanto consente, di crisi in crisi, di riprodurre il sentimento fondamentale: rimanere sovrani nella miseria, un sentimento che garantisce un minimo di sostegno alla vita caratterizzata dal costante malumore. I collaboratori competenti per i singoli temi, inoltre, sanno che cosa stanno producendo di volta in volta le redazioni vicine, sicché man mano finiscono per citarsi a vicenda e allinearsi l'uno all'altro. L'" autore" Cioran inventa soltanto i titoli dei libri che indicano il genere letterario: sillogismi, fughe, detti funebri, confessioni, vite dei santi, linee guida del naufragio. A lui si devono inoltre i titoletti interni, che obbediscono a una logica analoga. Nella sua vita quotidiana, Cioran è molto più un lettore che urio scrittore, e se mai nella sua esistenza si possa individuare un'attività che assomigli, anche solo lontanamente, a un lavoro regolato o a un esercizio con il crisma della formalità, questa è rappresentata dalla lettura e rilettura di libri quali fonti di consolazione e stimoli per sollevare obiezioni. Lesse cinque volte, nella versione originale in spagnolo, la Vita di santa Teresa d'Avila. Le numerose letture sono inserite nel programma di antiesercizi e costituiscono, insieme ai ricordi di quanto ha detto lui stesso, una matassa di interazioni elevate al1' ennesima potenza. Gli "esercizi negativi" del buddhista rumeno da tre soldi (così 1 '"'

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Cioran definisce se stesso nei Sillogismi) sono punti geodetici nella storia contemporanea della condotta spirituale. Hanno ormai bisogno soltanto di essere esplicati in quanto valide scoperte, al di là della cricca che, richiamandosi alla tonalità emotiva di fondo, ha finora determinato il registro nella ricezione di Cioran. Lo scetticismo che si attribuisce all'autore, in accordo con alcuni suoi\artifizi linguistici, è tutt'altro che "radicale": è virtuoso, è elegante. Cioran pratica qualcosa che può sembrare monotono, ma che non sfocia mai in quell'ottusità che caratterizza i radicalismi. Ciò che dice e fa serve a innalzare il suo dolore al livello di abilità che gli corrisponde. I: opera di Cioran appare assai meno affetta da contraddizioni interne non appena si avverte, nei suoi numerosi paradossi, l' affiorare del fenomeno "esercizio" ... ancora una volta, dunque, "uno dei fatti più diffusi e duraturi che vi siano" in una declinazione inusuale. Se Cioran, per via della sua tonalità emotiva di fondo, può essere stato un "bastardo passivo-aggressivo" (come talvolta amavano esprimersi alcuni terapeuti di gruppo negli anni Settanta), egli tuttavia era, per via del suo ethos, un uomo dedito a esercizi, un acrobata che ancora riusciva a trasformare la pigrizia in esibizione, la disperazione in disciplina apollinea, il lasciarsi-andare in un étude dallo stile quasi classico. I: influenza storica dei libri di Cioran rivela che egli è stato immediatamente riconosciuto come un maestro di esercizi paradossali. Naturalmente, essi si rivolsero soltanto a un ristretto numero di lettori, trovando però in costoro una profonda risonanza. Negli scritti dell'autore infame, la piccola schiera di chi lo ha recepito intensamente ha addirittura scoperto qualcosa di cui Cioran avrebbe forse negato l'esistenza: una vibrazione fraternizzante, una tendenza nascosta ad attribuire all"'ordine trappista privo di fede", nel quale egli annoverava se stesso non senza civetteria e irresponsabilità, una consistenza un po' più densa. Vi era, nel suo caso, una disponibilità segreta a impartire consigli a quei disperati ancora più perplessi di lui, nonché una tendenza, molto meno celata, a diventare celebre per i suoi esercizi finalizzati alla fuga dal mondo. Per quanto Cioran abbia resistito più o meno risolutamente alla tentatz'on d' exister (perfino nei bordelli, perfino negli ambienti mondani), era pronto a soccombere, pur con somma discrezione, alla tentazione di diventare un modello. Non è quindi fuorviante vedere in Cioran, oltre al praticante di un'ascesi informalizzata, anche un allenatore informale che, con il suo personale modus vivendi, influenza gli altri da lontano. Mentre il normale allenatore (abbiamo trovato in

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precedenza la definizione) è colui "che vuole che io voglia" ,75 l' allenatore spirituale è colui che non vuole che io non voglia. Egli mi dissuade quando desidero mollare. Per tutto il resto, mi limito a rammentare che i libri di Cioran offrono, a un numero imprecisato di lettori, un'efficacissima profilassi contro il suicidio ... lo stesso effetto si dice provocassero i dialoghi personali con lui. I bisognosi di consiglio devono aver intuito in quale modo egli scoprì il modo più sano per essere inguaribile. Personalmente leggo Cioran e la sua opera di "esercizi negativi" come un'ulteriore indicazione di come sia ali' opera, nella produzione di "cultura alta'', al di là di ciò che questa espressione possa significare in dettaglio, un irrinunciabile fattore ascetico. Nietzsche lo rese visibile, nel momento in cui richiamò alla mente l'immenso sistema di rigidi addestramenti che forma la base per erigere la sovrastruttura della morale, dell'arte e di tutte le "discipline". Questo ascetismo viene in primo piano, ai nostri occhi, quando gli esercizi standardizzati più vistosi della cultura, chiamati "tradizioni", finiscono per patire lo stesso imbarazzo del digiunatore kafkiano: non appena si può dire che l'interesse nei loro confronti "negli ultimi decenni è molto diminuito", le condizioni di possibilità per una loro permanenza diventano propriamente visibili. Quando cala l'interesse per un modo di vivere, qua e là viene rivoltato il terreno sul quale erano state innalzate le parti visibili dei suoi edifici.

75. Vedi supra, pp. 68 sgg. nonché infra, pp. 355 sgg. 1(\'J

TRANSIZIONE LE RELIGIONI NON ESISTONO: DA PIERRE DE COUBERTIN A LAFAYETTE RON HUBBARD

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È tempo ormai di trarre, dalle indicazioni fornite, le conseguenze per una nuova descrizione antropotecnica dei fenomeni religiosi, etici e ascetico-acrobatici. Per questa ragione, ritorno ancora una volta alle due tendenze principali dell'ultimo secolo, concernenti la storia degli esercizi e quella delle mentalità: la riemersione della sindrome neoatletica intorno al 1900 e l'esplosione della mistica informale, non importa se manifestatasi privatissime oppure nel reticolo delle sette psicotecniche. Analizzando entrambi i fenomeni è possibile mettere a punto la tesi sulla natura spettrale del "ritorno della religione". Mostrerò in prima battuta, sull'esempio del movimento neo-olimpico avviato da Pierre de Coubertin, in che modo un'impresa istituita come religione cultuale possa crescere ben oltre il suo design religioso, diventando la più ampia forma organizzativa della condotta umana incentrata sulla fatica e l'esercizio che mai si sia potuta osservare, se si escludono il mondo del lavoro e quello militare. Perfino i pell~grinaggi medievali e gli eccessi della cultura conventuale spagnola nel XVII secolo (quando una buona parte del Paese affluì nelle celle per spogliarsi interamente del proprio Sé) possiedono un carattere puramente episodico se commisurati al volume raggiunto dal culto neo-olimpico dello sport. Successivamente, sul1'esempio della Church of Scientology, fondata da Lafayette Ron Hubbard, autore di fiction scientifiche, cercherò di indagare meglio che cosa si possa apprendere quando un'azienda che commercia metodi di autosuggestione, noti fin dall'Antichità, si sviluppi fino a diventare una multinazionale psicagogica con ambizioni religiose, operante a livello mondiale. Anticipo qui le conclusioni: le sorti dell'impresa olimpica e dell' attività della "Chiesa" scientologica inducono ad ammettere che la "religione", nel senso attribuito al termine dagli utilizzatori del concet-

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to, non esiste e non è mai esistita. De Coubertin e Hubbard hanno finito per soccombere a un miraggio moderno, la cui indagine fornisce parecchie informazioni sulla fabbricazione e costituzione della "religione" in generale. Entrambi volevano fondare o istituire qualcosa che non può esistere e che perciò, una volta "istituito", deve per forza presentarsi diversamente da come avrebbe dovuto essere o da come sarebbe dovuto diventare secondo la volontà dei fondatori. Entrambi questi promotori incorsero nel medesimo errore, ma di segno opposto: l'impresa olimpica reale rifiutò di diventare la religione progettata da de Coubertin, mentre il movimento di Scientology rifiuta di essere considerato solamente come la multinazionale psicotecnica che di fatto è. Analizzando questi due rifiuti chiarisco, con un primo tentativo, qual è la posta in gioco quando affermo che la religione non esiste. Ciò con cui abbiamo dawero a che fare (in dimensioni che non abbiamo ancora iniziato a misurare) sono dei sistemi antropotecnici, più o meno fraintesi, di esercizi e di regole finalizzati a modellare la nostra condotta personale, sia interiore sia esteriore. Nel rifugio fornito da tali forme, i praticanti lavorano per migliorare il proprio status immunitario globale, 76 ragion per cui, sul suolo europeo così come in Asia, salta subito agli occhi un paradosso: non di rado, la degradazione dell'immunità fisica è stata apprezzata come strada màestra per incrementare l'immunità metafisica (immortalità) ... basti pensare a Francesco d'Assisi e ai suoi esercizi miranti al logoramento del "fratello asino" (come il santo soleva chiamare il proprio corpo) nonché ad alcune pratiche parasuicidarie per le quali divennero famigerati il buddhismo tibetano e mongolico, o meglio ancora, il lamaismo. Nei Sillogismi del!'amarezza di Cioran, nella rubrica "Religione", ho trovato questa osservazione: Come sarebbe facile fondare una religione senza la vigilanza dell'ironia! Basterebbe lasciare i curiosi assembrarsi intorno alle nostre lo- . quaci estasi. 77

L'appunto è molto istruttivo perché, nonostante il suo sarcasmo moderno, attesta una comprensione premoderna del fenomeno "re76. Ricordo la tesi discussa nell'"lntroduzione" (vedi pp. 12 sgg.), secondo la quale nell'essere umano non esiste un unico sistema immunitario, ma almeno tre. Il complesso religioso rientra quasi interamente nell'ambito funzionale del terzo sistema immunitario. 77. Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, cit., p. 82, tr. it. mod. Preferisco non seguire la traduzione italiana "garrule angosce", ma il calco tedesco (geschwiitzige Verzuckungen) dell'originale francese "transes loqtiaces". [NdT] l()A

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ligioso". Con la sua microteoria sulla nascita della religione dall' assembramento intorno ali' estasi, Cioran, figlio di un sacerdote ortodosso, prosegue la linea delle teorie veteroeuropee che leggono il fatto religioso come offerta. Le due componenti o "materie prime", dalla cui unione viene fabbricata la religione, sono dunque: una manifestazione estatica da parte di un singolo e una corrispondente curiosità da parte della folla. Alla prima spetta ovviamente la precedenza, perché contiene l'elemento più prezioso. Interpretando ulteriormente l'indicazione di Cioran, si potrebbe dire che una religione sorge quando, e solamente quando, il fattore inconsueto, 1' offerta estatica, raggiunge una certa frequenza, raggiunge la dimensione della curiosità profana, permettendole di radunarsi intorno a essa. È evidente che Cioran, in questo passo, riproduce, benché a un livello assai semplificato, la convinzione dei monoteismi classici secondo la quale, in ultima istanza, è Dio stesso, e soltanto lui, che crea e ammette quegli assembramenti chiamati, in condizioni normali, Chiese. Egli organizza 1' assembramento rivelandosi, come si suol dire, agli uomini. In un'ottica tipologica, l'interpretazione del fenomeno religioso basata sulla teoria dell'offerta corrisponde alla posizione cattolica, in quanto quest'ultima poggia su una linea discendente e rigorosamente gerarchica di trasmissione dell'offerta, da Dio agli uomini, dai sacerdoti ai laici. In questo universo, il primato del donatore e la priorità del dono rimangono inviolabili. I credenti vi compaiono esclusivamente come controparte ricevente, come gli affamati in fila davanti alla mensa dei poveri. 78 In epoche clericocratiche la "parola di Dio" era non soltanto un dono sublime, ma rappresentava al contempo il modello di un'offerta che non poteva essere rifiutata. Per questo, i più cattolici fra i cattolici insistono ancora oggi sulla messa in latino, perché essa rende visibile il diamante che costituisce il nocciolo della religione oblativa. Essa non chiede che cosa gli individui possano comprendere, ma che cosa Dio intenda mostrare. Per i suoi aderenti, 1' Altissimo diventa presente in misura massima quando il sacerdote, voltando la schiena alla comunità, compie i suoi riti misterici in latino. Il latino ecclesiastico è la forma pietrificata della "loquace estasi". Cioran fa capire abbastanza chiaramente di essersi trovato sovente in condizioni a partire dalle quali nature più ingenue della sua avrebbero fondato una Chiesa. 78. Thomas Macho ha esposto la tesi, in un saggio già menzionato ("Neue Askese", in Merkur, 1994), secondo la quale il cristianesimo cattolico sarebbe essenzialmente una "religione della fame", organizzata intorno alla domanda: che cosa sazia?

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Interpretando invece il fenomeno religioso mediante la teoria della domanda, entriamo nel terreno della Modernità. A tale riguardo, per rimanere nella metafora, l'assembramento di individui passa al primo posto e ci si domanda come si possa andare incontro, nel modo migliore, ai bisogni della folla. Ormai non importa più che i fatti frequenti provenienti dall'alto siano compresenti nelle manifestazioni del fatto raro. Quello che conta, piuttosto, è dare ai molti quello che chiedono owero quello che chiederanno quando si mostrerà loro quali pretese è lecito che avanzino. Chi vuole può riconoscervi una svolta democratica. Essa porta con sé il compito di interpretare l'assembramento come domanda e rispondervi con un'offerta idonea. Per assumere questa posizione è necessario interpretare la fede come attualizzazione di una disposizione inerente all'esistenza umana. È inoltre evidente come, nel primato della domanda, la parte offerente debba mostrarsi flessibile e rinunciare ai toni minacciosi. In questo modo finiamo nel campo delle prassi protestanti, al centro delle quali, summa summarum, troviamo alcune richieste, come per esempio: un Dio giusto, un orientamento per le necessità metafisiche o un consulente per il successo nella vita. 79 Ciò vale più daµn punto di vista empirico che tipologico, poiché concretamente il primo protestantesimo, specialmente nella sua variante puritana, ha preferito le comunicazioni apocalittiche, caratteristiche delle religioni oblative e vigorosamente manesche. In effetti, la Riforma era stata avviata come restaurazione dei motivi presenti nella teologia del1'offerta contro la trascuratezza cattolica. Essa tornò agli aspetti più legati alla teologia della domanda solamente quando le comunità si trasformarono in un pubblico interessato alla religione. Per di più, si deve alla moderna teologia protestante (si pensi a Karl Barth) la formulazione più radicale del principio oblativo, collegato al più netto rifiuto della religiosità della domanda, diffusasi il). modo umano, non dogmatico e determinante a partire dal XVIII secolo. In Schleiermacher, colui che aspirava a conquistare le persone istruite tra quanti disprezzavano la religione, Barth vide il principale teologo della religione della domanda o, peggio ancora, della religione del talento, e gli si contrappose con grande risolutezza. 80 79. Ciò vorrebbe dire che il protestantesimo non è più una "religione della fame", ma una "religione del fitness", un surplus spirituale per persone già sazie. 80. Vedi Karl Barth, Die Theologie Schleiermachers. Vorlesung Gottingen Wintersemester 1923124, a cura di Dietrich Ritschl, Theologischer Verlag, Ziirich 1978. Qui lautore schernisce il suo principale nemico paragonandolo a un parlamentare che, con la bandiera bianca in mano, parla alle persone istruite della religione, anziché

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Fu lo stesso Karl Barth a spil'igersi fino alla tesi, inaudita ai suoi tempi, secondo la quale il cristianesimo non era una religione, poiché la "religione è mancanza di fede". Così facendo colse nel segno, ma sbagliò le conclusioni e fornì la giustificazione più inservibile tra tutte quelle possibili: che, cioè, la "parola di Dio" laceri dall'alto, in verticale, la trama dei tessuti culturali, mentre la semplice religione è sempre e soltanto una parte del sistema escogitato dal basso e fatto di umanità, troppa umanità. L'argomentazione, in quanto inasprimento fondato sulla teologia della catastrofe, influì in maniera impressionante sulla situazione creatasi dopo il 1918, ma in quanto espressione della situazione generale fuorviò, perché è ormai noto che la Modernità è un periodo nel quale Dio non si mostra agli uomini a partire dalla dimensione verticale. Anche durante questo secolo, la Terra fu investita da meteore che precipitarono da molto lontano e da molto in alto, ma gli dèi non c'entravano affatto. Se la tesi di Barth avesse colto nel segno, egli avrebbe avuto ragione, con la sua risolutezza, a combattere tutte le teologie naturali. Avrebbe potuto rigettare, a buon diritto, qualsiasi deduzione della religione dalle strutture della coscienza, così come la dissoluzione del cristianesimo in un'etica illuminata. Indagando meglio la tematica" dall' alto, in verticale", si capisce perché la sua tesi fosse sbagliata. Da quanto abbiamo esposto in precedenza sappiamo che, nella Modernità, tutto il complesso della verticalità subisce una rielaborazione che consente una comprensione approfondita di come emergano improbabilità che prendono corpo e al cui sviluppo, però, Barth non prese parte in misura sufficiente. Egli si fermò alla conclusione errata, davanti alla quale i teologi ex officio sono tenuti a fermarsi, ossia: intascare senza tante cerimonie la dimensione delle tensioni verticali come "chiamata dall'alto" decodificata in senso cristiano. Barth però, dopo Nietzsche, va considerato il più importante "osservatore" contemporaneo della verticalità. È riuscito a esporre la dottrina cristiana in una nuova veste, nella quale si prende awio dalla precedenza assoluta dell'autopresentazione di Dio. A suo avviso, la situazione dell'essere umano può essere compresa soltanto fare professione di fede cristiana (p. 438). Non senza disP.rezzo, Barth cita la definizione che Schleiermacher offre dell'essere-cristiano: cercare nella Chiesa "il luogo per eccellenza in cui trovare facilmente e continuamente stimoli religiosi". Non senza sarcasmo, Barth cita la giovanile autodefinizione di Schleiermacher quale "virtuoso della religione" e lo fa apparire come un ermafrodito composto da Paganini e Geremia. Sulla definizione di religione proposta da Schleiermacher vedi infra, pp. 407 sgg.

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a partire dalla verticale più ripida: il vero Dio è colui che, incondizionatamente, pretende un'elevazione dall'individuo, mentre il diavolo lo va a prendere al suo livello. Anche Barth tuttavia, contrapponendo la non-religione del cristianesimo alle "religioni", non contesta la tesi della loro esistenza. Gli è sfuggito che i fenomeni da lui definiti "religioni" non sono tali, nella stessa misura in cui non lo sono gli stemmi delle casate cristiane. Cristiani o non cristiani, essi, nella loro totalità, sia materia/iter sia/ormaliter, non sono altro che complessi di azioni interiori ed esteriori, sistemi simbolici di esercizio e protocolli per la regolamentazione del rapporto con fattori di stress superiori e con potenze "trascendenti" ... in una parola, antropotecniche nella loro versione implicita. Sono prodotti ai quali è stato attribuito, per ragioni puramente pragmatiche (inizialmente per convenienza del cristianesimo romano, poi in conseguenza della polemica confessionale protestante e della sistematica illuministica), il nome di religio, proveniente dal millennio della latinità e dovuto a un richiamo, in parte necessitato e in parte intenzionale, alle abitudini linguistiche e cultuali della bigotteria di Stato romana. 81 Che cosa significasse il termine religio (letteralmente: "cura") per i romani, prima che Agostino glielo togliesse di bocca per parlare di vera religio, lo si capisce più di tutto da un dettaglio: era consentito ad alcune delle principali legioni romane di portare l'appellativo pia fidelis, secondo il modello offerto dalla Legio tertia Augusta, di stanza in Nord Africa, esistita dalla metà del I secolo a.C. fino al IV secolo d.C., nonché dalla Legio prima adiutrix, insediata a Magonza e più tardi in Pannonia, esistita dai tempi di Nerone fino alla metà del v secolo. Grazie alle traslazioni semantiche operate dai crist\ani, i devoti-fedeli di Cesare diventano i legionari di Cristo, che ancor oggi in francese si chiamano les fidèles. Richiamare alla mente la proposta neo-olimpica di Pierre de Coubertin e la Church of Scientology di Ron Hubbard solleva svariate domande: che cos'è in generale una religione, se degli individui orbitanti nella stessa dimensione ne possono istituire una? Che cosa si81. Dopo che il Medioevo aveva parlato di religio solamente per designare la virtù dei fedeli e il modo di vivere degli asceti professionisti legati agli ordini religiosi, la Riforma finì per usare il vocabolo "religione" per bollare il cattolicesimo come falsificazione della "vera religione". L'illuminismo generalizzò infine il concetto di "religione" per classificare razionalmente l'intrico di confessioni culminato nella Guerra dei trent'anni e la varietà di culti che venivano attestati dai navigatori del periodo. Per arrivare a interpretare la "religione" come faccenda privata fu prima necessario generalizzarla come un fattore antropologico costante e definirla come una predisposizione naturale.

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gnifica religione, se un pedagogo ellenofilo, appassionato di corpi maschili dediti alla lotta, e un brillante volpone, noto fino a quel momento soprattutto come autore di insipidi gialli cosmièi, vissero, in perfetta serietà e mancanza di serietà, con la convinzione di averne chiamata in vita una davanti ai nostri occhi? Il metodo più sicuro per compromettere tutte le "religioni" consiste forse nel fondarne una in prima persÒna? Che cosa apprendiamo sulla "religione" in generale quando studiamo le cianografiche dei culti recentemente fondati e osserviamo il loro modus operandi a più lungo termine? Naturalmente, questi interrogativi vengono sollevati non soltanto in relazione ai due esempi portati in questa sede, ma possono essere rivolti con pari diritto a ciascuno dei numerosissimi esperimenti religiosi contemporanei che fanno parlare di sé fin dalla Rivoluzione francese: dal culto dell'Ente Supremo del 1793,82 passando attraverso il saintsimonismo, la religione sociologica di Auguste Comte, il mormonismo, la teosofia, l'antroposofia, per arrivare al bricolage cultuale di matrice neoinduista e alle varie reti di sette psicotecniche, diffuse oggi in tutto il globo. Già l'illuminismo assistette alla nascita di tutte queste imprese, le quali avrebbero potuto essere studiate in vivo e in vitro, se solo si fosse voluto rivolgere loro un interesse conforme, con ottiche e metodi adeguati. Per quanto concerne la proposta neo-olimpica di de Coubertin, la sua storia è stata narrata fin troppo spesso (da ultimo in occasione delle celebrazioni per il centenario dei Giochi olimpici moderni nel 1996), per cui, in questa sede, non farò che ripeterla in maniera più che elementare. Le tre fonti nonché le tre componenti del sistema di religione sportiva proposto dal de Coubertin sono inoltre sufficientemente note: vanno rintracciate nelle idee di filosofia ginnica elaborate da John Ruskin in relazione alla cosiddetta euritmia,83 negli Olympian Games neoellenistici del dottor Brookes, tenuti fin dalla metà del XIX secolo nello Shropshire inglese, e infine nei festival di Bayreuth organizzati da Richard Wagner, in occasione dei quali si poteva cogliere, in tutta la sua articolazione, l'archetipo di un moderno culto edificante di stampo elitario-comunitario, lontanissimo dalla tipica giornata industriale e dalla divisione in classi. Inoltre, per spiegare il transfert dell'impulso totalizzante, si rimanda spesso al82. François-Alphonse Aulard, Le culte de la Raison et le culte de tP,tre Supreme (1793-1794), Scientia Verlag, Aalen 1975 (1' ed. Alcan, Paris 1892). · 83. De Coubertin definisce talvolta lolimpismo come ruskianisme sporti/

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l'ispirazione esercitata dalla Exposition universelle parigina del 1889. Visto in questa luce, l'olimpismo appare come una globalizzazione sportiva in atto e conforme ai tempi. 84 Già il celebre Congresso della Sorbona per il "ripristino dei Giochi olimpici", svoltosi nel 1894, prese questi ingredienti, arricchiti dalle tematiche socioterapeutiche e pedagogiche tipiche di de Coubertin, e li riunì in un composto efficacissimo. Nelle su~ memorie, de Coubertin racconta che, durante la seduta inaugurale alla Sorbona del 16 giugno, venne eseguito, per la prima volta in assoluto e davanti a duemila ascoltatori estasiati, l'Inno ad Apollo per coro, arpa, flauto e due clarinetti bassi, composto da Gabriel Fauré appositamente per quell'occasione, sulla base di un'epigrafe appena rinvenuta a Delphi, nel tempietto del tesoro ateniese: Dilagò una sorta di eccitazione progressiva, come se dai tempi remoti riaffiorasse l'antica euritmia. L'Ellenismo fece così il suo ingresso nell'ampio salone.85 Nello stesso tempo, il Congresso parigino stabilì le caratteristiche fondamentali dei Giochi e l'organizzazione che avrebbe dovuto realizzarli: la cadenza quadriennale che, come un nuovo calendario religioso, avrebbe dovuto scandire il tempo a venire; la dittatura illuminata della presidenza del ero, il Comitato olimpico internazionale, poi consolidata dall'elezione di de Coubertin come suo presidente a vita; il modernismo presente nella definizione dello sport; l' equivalenza tra le varie discipline sportive; l'esclusione dei bambini; il principio secondo il quale la sede dei Giochi doveva essere itinerante; lo spirito amatoriale (fin da subito però contestato e sospeso nel 1976); l'internazionalismo e il principio della pax olympica. Inoltre, Atene venne scelta come città ospitante dei primi Giochi olimpici, mentre Parigi dei secondi, tanto per rimandare doverosamente al luogo dinascita e di rinascita dei Giochi. Non si immaginava tuttavia che i Giochi parigini del 1900 avrebbero segnato il punto più basso nella storia dell'olimpismo: essi si svolsero, praticamente inosservati, a margine della simultanea Exposition universelle. Allora si capì che due feste globali nello stesso arco di tempo sono impraticabili. 84. Vedi Walter Borger, "Vom 'World's Fair' zum olympischen Fair Play-Anmerkungen zur Vor- und Entwicklungsgeschichte zweier Weltfeste", in Stephan Wassong (a cura di), Internationale Einfliisse au/ die Wiedereinfiihrung der Olympischen Spiele durch Pierre de Coubertin, Agon, Kassel 2005, pp. 125 sgg. 85. Pierre de Coubertin, Memorie olimpiche, ed. it. a cura di Rosella Frasca, Mondadori, Milano 2003, p. 14, tr. it. mod.

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In effetti, i primi Giochi olimpici dell'era moderna vennero inaugurati a Atene due anni dopo, con il patrocinio del monarca greco e un grandioso apparato cerimoniale, come una festa puramente andrologica, dato che notoriamente l'appassionato barone non teneva in gran conto lo sport femminile. Egli voleva releg~re il ruolo delle donne, all'interno dei Giochi, al momento in cui il vincitore veniva incoronato con il ramo d'olivo o gli veniva posta la corona sul capo. Che de Coubertin non sia riuscito a imporre il suo taceat mulier in arena, fu solamente la prima di una serie di sconfitte nella realizzazione concreta della sua "religione muscolare". Tra i risultati più gravidi di conseguenze dei primi Giochi conta il fatto che, grazie alla donazione di un ricco mecenate, si sia potuto restaurare e rimettere in funzione lo stadio panatinaico di Atene, risalente al periodo in cui la Grecia fu provincia romana. Ciò diede avvio alla rinascita dello stadio e dell'arena nel xx secolo, rinascita che fino a oggi comporta sempre nuove architetture-evento sulla scorta delle antiche forme primarie. 86 Pare che perfino i monaci del monte Athos abbiano contribuito alla sottoscrizione olimpica, ispirati forse dall'idea che, nella lontana Atene, potessero calcare la scena i moderni epigoni dei loro stessi prototipi scomparsi: del resto, i primi monaci del cristianesimo orientale non si erano forse denominati "atleti di Cristo" e non si erano raccolti in luoghi di allenamento chiamati asketeria? La prima maratona costituì il culmine tanto memorabile quanto imprevisto dei Giochi ateniesi. L'idea risale a Michel Bréart, filologo classico e filelleno francese, il quale, durante il banchetto che concluse la conferenza della Sorbona, aveva encomiato l'idea di istituire una coppa destinata al primo vincitore nella nuova disciplina della maratona. Quando il vincitore della corsa, un pecoraio greco ventitreenne di nome Spiridion Louys, vestito con il costume nazionale, la fustanella, fece ingresso il 10 aprile 1896 nello stadio di marmo, splendente di bianco (imponendosi con un tempo di gara di 2 ore, 58 minuti e 50 secondi), si verificò qualcosa che si fatica a descrivere con il concetto di "stato di eccezione". Era come se fosse stata scoperta una nuova specie di energia, una forma di elettricità emotiva senza la quàle non si riuscirebbe più a immaginare il way o/li/e della successiva era. Quel che accadde in quel rovente pomeriggio, verso le cinque, nello stadio panatinaico, è classificabile co86. Vedi Peter Sloterdijk, Spharen III. Schaume - Plurale Sphiirologie, cit., pp. 626-646: "Die Kollektoren: Zur Geschichte der Stadion-Renaissance".

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me un nuovo tipo di epifania. Una categoria, fino a quel momento sconosciuta, di divinità momentanee si presentò allora davanti al pubblico moderno: sono le divinità che non hanno bisogno di dimostrazione, perché esistono solamente per la durata della loro manifestazione, e che non vengono credute, ma vissute. In quel momento, fu aperto un nuovo capitolo nella storia dell'entusiasmo ... e chi non ne vuole parlare deve tacere rispetto al xx secolo. 87 I principi ereditari greci corsero, accanto al concorrente, gli ultimi metri del percorso davanti a una folla estasiata di circa 70.000 persone, e dopo che il vincitore ebbe tagliato il traguardo, lo condussero a spalla davanti al re, alzatosi dal trono che era stato predisposto all'interno dello stadio. Se si fosse voluto dimostrare che stava iniziando un'epoca fondata sul rovesciamento delle gerarchie, non si sarebbe potuto mettere in scena nulla di più efficace. Per un istante, un pastore divenuto sportivo divenne re dei re: per la prima volta si vide come la maestà, per non dire il potere, si stesse trasferendo dal monarca allo sportivo, mentre nei decenni successivi si rafforzò addirittura l'impressione che i pecorai e i loro simili stessero aspirando al potere assoluto. Una durevole ondata di ebbrezza investì tutta la Grecia: un barbiere entusiasta promise al vincitore di raderlo gratuitamente per tutta la vita. L'onorificenza ufficiale consistette in un ramo d'olivo e in una medaglia d'argento, ai quali seguì un profluvio di doni. La maniera in cui Spiridion Louys riuscì a raggiungere la condizione fisica necessaria rimase sempre poco chiara. Pare che il giovane pastore lavorasse come corriere d'ordinanza o portatore d' acqua per un ufficiale, abituandosi in tal modo a percorrere lunghissimi tragitti. Quattordici giorni prima dei Giochi arrivò quinto in una corsa di prova. È possibile che fino a quel momento egli non avesse mai udito la parola allenamento: e ciò lo considero una prova della mia tesi, secondo la quale la maggior parte di tutte le condotte incentrate sull'esercizio si svolge sotto forma di ascesi non dichiarata. 88 Può darsi che, per i fratelli del monte Athos, questo evento sia stato una sorta di conferma della loro intuizione, visto che di lì a poco iniziò a circolare una voce secondo la quale il corridore avrebbe trascorso la notte precedente la gara pregando davanti alle sacre icone. Perfino de Coubertin prese questa indica87. Sul fenomeno degli dèi istantanei vedi Hermann Usener, I nomi degli dei: saggio di teoria della formazione dei concetti religiosi (1896), tr. it. Morcelliana, Brescia 2008, pp. 315 sgg. 88. Vedi infra, pp. 499 sgg.

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zione con sufficiente serietà per annoverarla tra le prime riflessioni sulle componenti psichiche e spirituali delle performance sportive di alto livello. Come Friedrich Nietzsche, Cari Hermann Unthan e Hans Wiirtz, anche il fondatore dei Giochi ritenne che, in ultima istanza, fosse la volontà a generare successo e vittoria. Per' questo motivo, de Coubertin non fece mistero della propria ostilità verso il positivismo dei medici sportivi, i quali a suo avviso avrebbero pensato in termini troppo "grossolani" per riuscire a cogliere le dimensioni più elevate dello sport in generale e del nuovo movimento in particolare. 89 Ciò che Pierre de Coubertin evocò con il nome di olimpismo avrebbe dovuto significare, ai suoi occhi, niente meno che una nuova religione a tutti gli effetti. In funzione di questa concezione, pensò bene di potersi richiamare alla cornice religiosa degli antichi Giochi. Questi, esistiti per oltre un millennio, si tenevano sempre coram Det's, anzi, si svolgevano non solo al cospetto degli dèi, ma anche con il loro benestare e magari, chissà, anche con il loro concorso, nella misura in cui le vittorie degli atleti nello stadio e nella palestra venivano interpretate come eventi che mai avrebbero potuto verificarsi senza il consenso degli dèi celesti e, perché no, nemmeno senza il loro intervento. La "religione dell'atleta", che de Coubertin si era prefissato di riproporre, non si riallacciava però direttamente alla mitologia greca. Il fondatore dei Giochi era troppo istruito per non sapere che le divinità dell'Ellenismo erano morte. Il punto di partenza dei Giochi era costituito infatti dalla moderna religione dell'arte d'ispirazione wagneriana, progettata come atto sacrale per riconciliare la moderna società "lacerata". Poiché in ogp.i religione compiuta, accanto al dogma e al rituale, vi è anche un clero ufficiale, quest'ultima funzione spettò agli atleti stessi. Erano loro a dover impartire alla folla estasiata i sacramenti muscolari: ecco il mio corpo, la mia battaglia, la mia vittoria. In questa maniera, nel sogno olimpico di de Coubertin, la grecofilia romantica e il pathos pedagogico del XIX secolo si incontrarono con il paganesimo estetizzante del culto del corpo, finendo per formare un amalgama adeguato alle esigenze moderne. Ciò che de Coubertin si aspettava da una nuova ed efficace "religione" risulta da un appunto di diario preso in occasione di una sua visita al festival di Bayreuth. Qui egli traccia paralleli fra due sfere apparentemente separate: 89. Pierre de Coubertin, Memorie olimpiche, cit., p. 46.

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Musica e sport sono stati sempre per me i migliori "isolatori", i più fecondi strumenti per raccogliersi e meditare, come pure possenti incitatori alla perseveranza e, per così dire, "massaggi della volontà". Insomma, dopo difficoltà e pericoli, ogni preoccupazione veniva messa da parte. 90

Con il notevole termine di "isolatore", de Coubertin rimanda alla capacità che la "religione" possiede di dividere la realtà in situazioni usuali e inusuali. Dove troviamo sport e musica, per lui v'è anche religione, nella misura in cui si riscontri la sua caratteristica pr!ncipale, ossia far saltare la quotidianità e dissolvere le preoccupazioni. Se si elabora ulteriormente lespressione "isolatore", ne deriva il seguente principio: religioso è ciò che provoca lo stato di eccezione. Per de Coubertin religione significa provocare laltra condizione con mezzi sportivi: ha qui inizio il cammino che condurrà alla cultura dell'evento. Come capita abitualmente nelle situazioni caratterizzate da valori limite, queste stesse situazioni debbono essere affrontate e nello stesso tempo tenute sotto controllo, due compiti che spetterebbero alla religione atletica pienamente sviluppata. Gli esercizi atletici preparano lo stato di eccezione che si genera nelle competizioni, mentre il culto da stadio dirige le passioni ribollenti entro binari prescritti. Nell'"isolatore" di Bayreuth, de Coubertin capì definitivamente perché solo l'istituzione di una nuova religione potesse rendere giustizia alle proprie intenzioni. Come Richard Wagner, egli intendeva strappare gli individui, per alcuni istanti incommensurabili, alla loro vita consueta, per poi rimandarli nel mondo trasformati, elevati e purificati. Nel clima esoterico dei festival wagneriani, de Coubertin trovò la conferma del proprio atteggiamento di fondo. Così come a Bayreuth veniva offerta la forma più estrema di religione dell'arte, la religione dello sport, dall'analoga configurazione, avrebbe dovuto trovare nell'olimpismo la propria sede naturale. Paragonabile a un Malraux del XIX secolo, de Coubertin discettava, dall'alto della sua cattedra, dicendo che il XX secolo sarebbe stato olimpico o non sarebbe stato. In tale contesto si comprende in che senso i successi dell'idea olimpica significhino, al contempo, il fallimento degli originari propositi di de Coubertin. Si può interpretare come si vuole il trionfo dell'olimpismo: in ogni caso esso produsse tutto fuorché quell' accordo tra sport, religione e arte, che de Coubertin voleva trasferire 90. Ibidem, p. 58.

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dall'Antichità all'età moderna. Il suo fiasco come fondatore di una religione si può facilmente esprimere in concetti: egli diede vita a un sistema di esercizi e discipline che, per come era concepito, confutava l'esistenza della "religione" come categoria separata dell'agire e del vivere umano. Quel che realmente vide la luce e che acquistò sempre maggiore consistenza fu invece un'organizzazione finalizzata a stimolare, dirigere, assistere e coltivare energie di natura in primo luogo timotica (fierezza e ambizione) e in secondo luogo erotica (brama, libido). Le prime, però, non si attivarono solamente negli sportivi, ma anche nei nuovi funzionari appena creati, senza i quali il nuovo culto non si sarebbe potuto praticare. Per costgro, gli indispensabili parassiti dello sport, ebbe inizio un'autentica età del1' oro, perché il movimento olimpico rispettò spontaneamente il più importante fra tutti i segreti organizzativi: creare il maggior,numero possibile di funzionari e di cariche onorifiche, al fine di garantire la mobilitazione timotica dei membri e la loro fidelizzazione pragmatica alla sublime causa. De Coubertin, che si muoveva a suo agio nei cenacoli della vecchia nobiltà, comprese tuttavia che la Modernità rappresentava l'era dei nuovi ricchi e dei nuovi personaggi importanti. Per questi ultimi, in particolare, il suo movimento offrì un terreno ideale d'azione. Oltre a stimolarne l'ambizione politica, non si scordò di ricompensarne l'avidità: dall'olimpismo scaturirono parecchi nuovi patrimoni, alcuni anche in modi illeciti ... le donazioni delle città candidate a ospitare i Giochi finivano direttamente sui conti bancari dei membri del CIO. L'alveo concreto in cui scorrevano i due tipi di sprone era costituito dai comitati nazionali, le naturali matrici degli esercizi sportivi e dell'alleanza tra allenatori e praticanti. La loro esibizione più efficace aweniva nelle gare stesse. Per questo ordinamento delle discipline, le condizioni erano ormai chiaramente mature. Quando l'epoca è dominata dall'economia competitiva, lo sport competitivo condivide lò stesso spirito dell'epoca. Il risultato complessivo degli sforzi profusi da de Coubertin non avrebbe potuto essere più ironico: come fondatore di una religione ha fallito, perché si è affermato, oltre ogni prevedibile aspettativa, come iniziatore di un movimento incentrato sugli esercizi e sulla competizione. All'iniziatore dei Giochi sfuggì ciò che finì per costituire, agli occhi dei funzionari della generazione successiva, l'alfa e omega delle ulteriori imprese: la circostanza, del tutto evidente, che l'idea olimpica sarebbe riuscita a sopravvivere solamente come culto secolare, senza sovrastrutture seriamente intese. Quel poco di pathos per la lealtà, di rispetto per la gioventù e di internazionalismo

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che si dovettero conservare pro forma poteva essere messo insieme anche senza troppi slanci interiori. Sovente, del nobile pacifismo di de Coubertin, nei suoi pragmatici eredi, non rimase molto più di un ammiccamento. I Giochi finirono per integrarsi nella debordante cultura di massa, trasformandosi, in misura sempre più marcata a ogni loro ricorrenza, in una macchina-evento profana. In nessun caso fu loro permesso di elevarsi troppo, nemmeno tramite quel tratto "cattolico" owero legato alla teologia oblativa, che caratterizzò l' approccio di de Coubertin. Dove la dimensione spirituale non può essere del tutto rimossa, come nella celebrazione inaugurale prescritta, essa rimane tuttavia circoscritta alla sfilata festosa degli atleti, agli inni, alla fiamma e all'appello alla gioventù. Nel 1920, in occasione dei Giochi postbellici di Anversa, venne celebrata nella cattedrale una messa solenne, per la prima volta in separata sede, con un momento da brivido quando vennero letti ad alta voce i nomi degli olimpionici uccisi in guerra. L'idea olimpica non ebbe mai nessuna possibilità di affermarsi come forma "pagana" di religione oblativa dal1' alto. Disincantata e trasformata in un semplice incontro al vertice fra atleti, divenne un irresistibile attrattore di masse. Gli autori di questa svolta pragmatica non dovettero nemmeno commettere un vero e proprio tradimento nei confronti della visione di de Coubertin. Fu più che sufficiente non capire i nobili intenti del grande vecchio. Di lì a poco nessuno ormai avrebbe più saputo che cosa significasse il suo sogno di ottenere una sintesi religiosa tra Ellenismo e Modernità. Non si sbaglia di molto affermando che l'idea olimpica ha vinto perché nell'arco di pochi anni i suoi seguaci, a tutti i livelli, dai membri direttivi del CIO fino ai comitati locali, non ebbero più nemmeno il sentore di che cosa fosse quella sintesi religiosa, nemmeno quando, in occasione delle premiazioni dei vincitori, scorrevano le lacrime. Il coraggioso Willi Daume, che ebbe accesso ai documenti originali in quanto presidente di lungo corso del Comitato olimpico nazionale tedesco, si limitò a scuotere la testa rispetto alle motivazioni ideali della vicenda olimpica. Alludendo alla "religione atletica" e con una prosa burocratica impeccabile, egli osservò: "Qui c'è qualcosa che ormai non funziona". 91 Il movimento olimpico del XX secolo, attraverso la sua de-spiritualizzazione, dimostra in che modo una "religione" possa evolversi spontaneamente a ritroso, riducendosi al formato del proprio contenuto reale, alla base antropologica incarnata in un sistema di eserci91. Ibidem, p. 10.

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zi graduati e di discipline diversificate, integrato in una sovrastruttura fatta di atti gerarchici di amministrazione, relazioni routinarie con i comitati locali e rappresentazioni professionali sui media. Delle caratteristiche strutturali di una "religione" consolidata non rimane altro che la gerarchia di funzionari e un sistema di esercizi chiamati, in conformità alla loro natura secolare, moduli di allenamento. L'unico compito spettante al ero, il Vaticano di Losanna, è quello di gestire < il dato di fatto che Dio è morto anche a livello olimpico. A tale riguardo, si può affermare che la "religione atletica" rappresenta, nella storia religiosa, l'unico fenomeno che si sia disincantato da solo, con mezzi propri: soltanto alcune varietà di protestantesimo europeo e statunitense sono quasi arrivate a tanto. In quanto non-religione rivendicata da numerosi individui, il Rinascimento atletico riuscì a diffondersi in vaste porzioni del pianeta. Il suo sviluppo mostra la trasformazione di un entusiasmo in un'industria. Non c'è da meravigliarsi che la giovane scienza dello sport non abbia nessuna voglia di diventare la teologia di questo movimento cultuale appena istituito e già de-spiritualizzato. Tuttavia, anche gli antropologi sono rimasti piuttosto distaccati, nqn interessandosi fino a oggi né delle tribù artificiali di sportivi praticanti né del fatto che fosse comparsa, con i nuovi funzionari dello sport, una nuova sottospecie che non meritava certo un'attenzione minore rispetto all'uomo di Aurignac. La tendenza alla de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche, già più volte menzionata, trova nel movimento olimpico l'esempio novecentesco più fulgido. Per quanto concerne invece la tendenza opposta, l'adattamento mondano dell'elemento spirituale, la Church of Scientology di Ron Hubbard, romanziere e psicologo del do-ityourself, fornisce solamente un esempio fra i tanti, ma estremamente istruttivo. Qui di seguito, vorrei considerare l'inventore della dianetica come uno dei maggiori illuministi del xx secolo, che ha ampliato in misura decisiva le nostre conoscenze sull'essenza della religione, sebbene in modo per lo più involontario. Egli merita un posto nel pantheon della scienza e della tecni,ca, giacché è riuscito a compiere un esperimento psicotecnico con esiti rilevanti sul piano della cultura nel suo complesso. Secondo Hubbard una cosa è ormai accertata una volta per tutte: il modo più efficace per mostrare che la religione non esiste consiste nel metterne al mondo una. Chi desidera istituire una religione può farlo, in linea di principio, seguendo due diverse ipotesi. La prima dice: esistono già molte re-

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IL PIANETA DEI PRATICANTI

ligioni, ma quella vera non c'è ancora. Le nuove prospettive rendono però finalmente possibile e necessario chiamarla in vita. Secondo questo schema, Paolo ha derivato il cristianesimo dall'ebraismo, così come, in seguito, Agostino lo ha isolato dal manicheismo e dal culto romano, e Muhammad, più tardi ancora, ha distaccato l'islam da entrambi i monoteismi precedenti. In modo analogo procedettero gli illuministi che, fin dal XVII secolo, vollero fondare la "religione della ragione" subentrando alle religioni storiche. 92 Simili iniziative si richiamano all'avanzato disvelamento della verità: quest'ultima costituisce il contenuto per il quale bisogna trovare la forma adeguata. Il nuovo contenuto risiede in un messaggio che, secondo la fede del fondatore, ha in sé maggiore potere salvifico rispetto ai culti fino a quel momento conosciuti. Per tale motivo, questa fondazione si può definire religiosa rispetto ai contenuti. I suoi protagonisti sono di norma ingenui, nel senso neutrale del termine, senza connotazione di valore. Essi ritengono di credere che l'oggetto della loro fede sia ciò cui essi credono. Se non fossero ingenui, lo vorrebbero essere e lamenterebbero la debolezza della loro fede. Fra quanti hanno una fede debole, i più intelligenti elevano il dubbio stesso a suo organo, per un motivo che, dalla prospettiva di una teoria dell'ascesi, risulta plausibile: il dubbio cronico è l'esercizio più efficace per tenere in vita l'oggetto del dubbio. La seconda ipotesi, in base alla quale può essere avviata una nuova religione, dice che le religioni esistite fino a questo momento sono insufficienti, perché troppo legate ai loro contenuti, mentre in av-· venire quel che conta è porre in primo piano la forma ovvero !'"atmosfera" della religione. In questo rivolgersi al versante della forma si può osservare una drammatica biforcazione: o la nuova religione nasce come metareligione liberamente fluttuante, ormai priva di ogni principio dogmatico, ma desiderosa di preservare bona fide la dimensione religiosa "di per sé" neutrale rispetto ai contenuti, come accade per esempio per la maggior parte degli individui moderni oggi privi di una precisa confessione, i quali ritengono che ciò in cui non credono sia pur sempre qualcosa. Il vantaggio di questa posizione è che finiscono per acuirsi le tensioni tra sapere salvifico e sapere secolare, ovvero tra teologia ed etica. Già il protestantesimo romantico si era avvicinato al dissolvimento della religione positiva in 92. Vedi Hermann Cohen, Religione della ragione dalle fonti del!' ebraismo, tr. it. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. Mark Lilla ha recentemente descritto la moderna religione della ragione come un aborto: The Stillborn God. Religion, Politics, and the Modern West, Knopf, New York 2007. . 11 S
nel comandamento di Zarathustra: "Non soltanto devi procrearti, ma surcrearti! ".Secondo questa massima, nell'evoluzione in quanto tale abbiamo sempre a che fare con un "sur", con un movimento "verso l'alto", nel senso che essa istituisce un continuum di esperimenti con le forme di vita, al fine di ottenere livelli continuamente accresciuti di improbabilità stabilizzata. Owiamente non si tratta di un progresso pianificato, e tuttavia, in quanto movimento teso a una crescente complessità, è un processo inequivocabilmente orientato.L'antitesi tra "pro" e "sur", tra "in avanti" e "verso l' alto", si risolve da sola nella successione delle generazioni, perché tutte le specie che in prospettiva sincronica sembrano incarnare stabili forme definitive, in ottica diacronica, e rispetto ad ampi archi temporali, risultano condizioni temporanee all'interno di una deriva genetica imprevedibile nei dettagli, ma che nel complesso indica un movimento "all'insù" (nach oben). La deriva globale incanalata nella corrente del fitness mostra, per le specie premiate con la sopravvivenza, una tendenza ascendente, e in particolare questo tratto tendenziale: che la corrente, in maniera controintuitiva, scorre all'insù, così come viene spiegato da Dawkins con la sua immagine dell' arrampicata sulle vette dell'improbabile. Non è possibile avvicinarsi alle altezze dell'evoluzione in maniera affrettata. Anche i problemi più complessi possono essere risolti, e anche le pareti più ripide possono essere scalate se solo si riesce a tro-

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vare un sentiero che possa essere percorso in modo lento e graduale, procedendo passo dopo passo. 11 Sono i geni "egoisti" che lo trovano, i quali, testando in permanenza la realtà della vita di spede, vengono spintì in avanti (/ort) e in alto (hinauf). La "metafisica dell'acrobata" proposta da Nietzsche può collegarsi indisturbata alle conquiste della biologia darwinista. Sotto l' aspetto dell'attenzione per l'improbabilità, le spede naturali e le" culture" (queste ultime definite come gruppi umani dalle forti tradizioni, con un elevato fattore di addestramento e abilità) sono fenomeni appartenenti allo stesso spettro. Nella storia naturale dell'artificialità, la soglia natura-cultura non rappresenta una cesura particolarmente rimarchevole, ma semmai una gobba in una curva, che a partire da quel punto aumenta la pendenza. L'unico privilegio della cultura rispetto alla natura consiste nella sua capacità di accelerare l'arrampicata evolutiva sul Mount Improbable. Nel passaggio dall'evoluzione genetica a quella simbolica o "cùlturale", il processo morfologico accelera fino al punto in cui gli uomini si accorgono che la nuova forma compare già durante l'arco della loro s,tessa vita.12 Da questo momento, gli uomini prendono posizione rispetto alla loro capacità innovativa ... ma, fino a qualche tempo fa, quasi sempre biasimandola.

CONSERVATORISMO PRIMARIO E NEOFILIA Durante gli ultimi 40.000 anni di evoluzione umana, di fronte al manifestarsi di un'improbabilità supplementare, la reazione standard è consistita, a ben vedere, in una difesa incondizionata. Tutte le antiche civiltà, risalendo fino alle forme paleolitiche primordiali, risultano iperconservatrid rispetto alle loro condotte di superficie. Sembrano innervate da un'ostilità viscerale verso l'innovazione, forse perché sollecitate fino al limite delle loro capacità dal compito di trasmettere alle generazioni successive, senza soluzione di continuità, i propri con11. Richard Dawkins, Alla conquista del Monte Improbabile, cit., p. 300. 12. Da questo momento in poi può essere abbandonata quell'errata interpretazione metafisica d.~lla lentezza, che la relegava nella trascendenza. Vedi Heiner Miihlmann, "Die Okonomiemaschine", in Gerd de Bruyn (a cura di), 5 Code. Architektur, Paranoia und Risiko in Zeiten des Terrors, Birkhiiuser, Basel-Boston-Berlin 2006, p. 227. Vedi anche Peter Sloterdijk, Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008, pp. 5 sgg.

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LA CONQUISTA DELL'IMPROBABILE

tenuti consci, le proprie convenzioni simboliche e tecniche. Alla base delle civiltà in quanto tali vi è, senza eccezioni, la contraddizione di fondo tra il congenito atteggiamento neofilo dell'Homo sapiens e la predisposizione neofobica, inizialmente fuevitabile, degli apparati normativi. Poiché la riproduzione dei contenuti rituali e cognitivi costituisce la prima e unica preoccupazione di tali civiltà, il loro cammino attraverso le epoche è pesantemente neoclastico: la furia distruttiva contro la novità in generale precede di parecchi millenni quella contro le immagini. Per ogni Catilina, per ogni rerum novarum cupidum, troviamo diecimila difensori del vecchio, secondo il modello offerto da Catone. Poiché tuttavia anche le civiltà più stabili vengono continuamente infiltrate da innovazioni simboliche e tecniche, sia grazie a invenzioni autoctone sia per via dei contatti infettivi con le arti delle culture confinanti, esse camuffano astutamente la novità di quanto è stato appena adottato, attribuendo gli elementi ormai penetrati, e nolens volens integrati, a una trasformazione di quanto giace sul fondo del proprio patrimonio più antico, come se tali elementi appartenessero da sempre al cosmo locale. In una siffatta integrazione del nuovo nell' ar- caico troviamo una delle principali funzioni del pensiero mitico: rendere invisibili in quanto tali le improbabilità vissute, siano esse eventi o innovazioni, e retrodatare all"'origine" l'invadente novità ormai impossibile da ignorare. È del tutto evidente che la predilezione mostrata dalla metafisica per la sostanza e il suo risentimento rispetto al1'accidente sono dei tardi derivati del pensiero mitico. Non si sottolineerà mai abbastanza quanto a fondo la recente positivizzazione del nuovo, iniziata nell'Europa del Cinquecento, abbia inciso nell'ecosistema mentale dei popoli maggiori. 13 Essa somiglia a una trasvalutazione di tutti i valori, perché ha ribaltato il più antico paradosso della civilizzazione, in base al quale individui neofili vivevano in strutture sociali neofobiche. Nel corso dei secoli questo paradosso ha costretto la maggior parte delle persone ad assumere involontariamente una posizione neofobica, a partire dalla quale gli individui, ancora oggi, non sono in grado di seguire l'impeto innovativo che caratterizza, la civilizzazione circostante. Questo cambiamento rQmpe con la maestà di ciò che è antico e trasferisce la funzione regale a coloro che apportano il nuovo. Chi adesso esclama "Viva il Re!" non può che pensare a innovatori, ad autori, a moltiplicatori del patrimonio culturale. È soltanto perché l'età moder13. Sul take-off con cui il Rinascimento europeo ha accettato l'innovazione vedi infra, pp. 409 sgg.

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PSICOLOGIA DELL'ALTEZZA

na ha inaugurato l'epoca della neolatria che Nietzsche ha osat~ proporre un inasprimento del trend, suggerendo regole procreative radicalmente diverse. Mentre finora la procreazione è sempre stata subordinata al primato del versante procreante e trovava il proprio criterio di riuscita quando nel giovane riviveva il vecchio, in avvenire la precedenza spetterà al figlio, che la otterrà quando, come afferma inequivocabilmente Nietzsche, quell'uno sarà qualcosa di più dei due che l'hanno creato. Coloro che non ne vogliono sapere sono definiti ultimi uomini.

METAFISICA DA ACROBATI

I presupposti evolutivi di questa svolta vanno esposti con chiarezza, anche se le conseguenze rimangono imprevedibili: essi derivano dalle valutazioni neolatriche del Rinascimento europeo, le quali risalgono, in definitiva, alla reinterpretazione della Trinità cristiana a vantaggio dello Spirito creatore e allo spostamento di accento dalla z'mz'tatz'o Chrz'stz' alla z'mz'tatz'o Patrz's Spz'rz'tusque. Sulla base di queste premesse, Nietzsche non dovette far altro che strappare i rivestimenti csa. Plausibile è invece l'affermazione di sua moglie, secondo la quale egli, il generoso attivista, che lavorava ventiquattro ore su venti-,,, quattro, che dormiva su un lettino di ferro in ufficio e che morì a·· 48 anni per esaurimento, disse che un giorno o l'altro avrebbe la- 1 sciato l'incarico di supremo carnefice della rivoluzione per dedicarsi interamente, in veste di commissario del popolo per la formazione, all'educazione dei bambini e della gioventù per edificare la "so-. cietà" a venire. Sinjavskij la chiama una "prospettivafantasiosa": 121 il boia come pedagogo, lo sterminatore di massa come formatore di uomini. Tuttavia, il passaggio dall'annientamento di individui inutilizzabili e non convinti alla formazione di individui utilizzabili e convinti sembra molto meno assurdo, non appena si prenda in con~ siderazione la logica di un' agire a partire dal punto zero, la quale era alla base sia dell'una sia dell'altra funzione. Ciò che divide il boia sovietico dal boia di de Mais tre è l'impossibilità di immaginarsi Dzedinskij confessare in segreto a se stesso: "Nessuno stermina meglio di me" .122

120. Versi tratti dalla poesia Tbc del poeta sovietico Bagritzkij, risalente al 1929 e dedicata alla memoria di Dzerzinskij. Vedi Sinjavskij, Der Traum vom neuen Menschen, cit., p. 187. Chi cerca conferme dell'esplicita sospensione del quinto comandamento nel xx secolo troverà molto materiale anzitutto negli interpreti intellettuali della Rivoluzione russa. 121. Ibidem, p. 183. 122. Vedi supra, pp. 415-416.

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L'IMMORTALISMO: LIQUIDAZIONE DELLA FINITEZZA Agli occhi degli esponenti filosoficamente radicali dell'intellighenzia rivoluzionaria, fenomeni come quelli descritti si riducevano a effetti superficiali, che dovevano essere accettati nolens volens in un'epoca di trasformazioni sostanziali. Nel gruppo di questi utopisti ontologici, accanto al già citato Aleksandr Svjatogor (ca. 18891937), figuravano soprattutto Konstantin Ciolkovskij (1857-1935), esoterico e tecnico missilistico, il quale divenne celebre come padre dei viaggi spaziali russi, Emel'jan Jaroslavskij (ca. 1895-1930), esponente di un "massimalismo cosmico", Valerian Muravjev (18851931), che postulò il superamento del tempo e una tecnologia della risurrezione (anastatica), nonché Aleksandr Bogdanov (18731928), fautore del "collettivismo fisiologico" e fondatore di un movimento per la "lotta in favore della vitalità" .123 Per costoro, i rivoluzionari metafisici, che si richiamavano quasi senza eccezioni a Nikolaj Fedorov (sebbene alcuni, come Svjatogor, negassero la sua influenza), il pensatore che, con la sua Filosofia dell'opera comune, aveva posto le fondamenta per una politica dell'immortalità, gli inizi bolscevichi della rivoluzione culturale non significavano molto di più che un preludio grossolano, benché entro certi limiti utile, all' autentica "rivoluzione mondiale", di cui esplorarono le premesse, le prospettive e i metodi nei loro scritti degli anni Venti. Se la rivoluzione permetteva di salire sulla scala dell'abolizione di disfunzioni tramandate, l'abolizione della "proprietà privata dei mezzi di produzione" e della personalità borghese costituiva uno stadio significativo, benché provvisorio, per non dire inferiore, in un programma di ascesa, della cui altezza nessuno dei contemporanei coinvolti nelle turbolenze del grande rivolgimento era in grado di farsi un'idea precisa. Entrambe le operazioni, per quanto potessero apparire decisive per gli attori e per le vittime del rivolgimento, non rappresentavano nulla più che la prosecuzione della rivoluzione borghese del 17 89, la quale allora si era arrestata all'abolizione dei privilegi nobiliari, all'affrancamento delle ambizioni borghesi e a 123. Una selezione dagli scritti di questi autori è stata messa a punto nel quadro del progetto, promosso dalla Fondazione culturale federale, intitolato "The PostCommunist Condition", diretto da Boris Groys e sotto il patrocinio di Peter Weibel presso il Karlsruher Zentrum fiir Kunst und Medientechnologie, e presentato, quasi un secolo post eventum, con il titolo Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in Ruflland zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., contenente testi in gran parte tradotti per la prima volta in tedesco, in parte nuovamente tradotti.

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GLI ESERCIZI DEI MODERNI

una contraddittoria retorica sui diritti umani. Dalla prospettiva russa, le riforme zariste del 1861 proseguivano in quella direzione. Nel1' ottica dei rivoluzionari metafisici, queste conquiste costituivano semmai degli episodi in vista di una rivolta di ben altra portata. Dopo l'era degli esperimenti preliminari, era giunto il momento di un opus homini di dimensioni maggiori. Il dominio dell'uomo sull'uomo, diventato scandaloso, costituiva soltanto l' epifen~meno di una servitù molto più antica e molto più profonda. L'uomo non viveva forse da tempo immemorabile sotto il dispotismo della natura esterna e interiore? La natura stessa non era forse il biopotere che, per un verso, faceva vivere arbitrariamente e, per un altro, f3;ceva morire non meno arbitrariamente? Il suo dominio universale non forniva forse la matrice di tutti i domini secondari? Non bisognava quindi mettere ali' ordine del giorno di una rivoluzione meta,-~) fisica l'abolizione della morte e, al contempo, eliminare il fatalismo della nascita? A che cosa serviva sopprimere lo Stato assolutistico fin quando si continuava a ossequiare il diritto divino della natura? i\ che scopo sterminare lo zar e la sua famiglia, se si continuava, come sempre, a incoronare la morte sovrana della finitezza?

METTERE FINE ALL'EPOCA DELLA MORTE E DELLE BAGATELLE L'avanguardia speculativa della Rivoluzione russa pensava di aver compreso che sarebbe stato necessario intervenire subito sul piolo più alto della scala delle abolizioni, qualora si fosse voluto rimarcare la differenza decisiva. In caso contrario, l'eliminazione delle disfunzioni e delle disuguaglianze tra gli uomini, anzi, perfino l' abolizione dello Stato e di tutte le strutture repressive, sarebbero rima-, ste misure provvisorie e inutili. Esse avrebbero incrementato la coscienza dell'assurdità che connota la "società" egualitaria, finché non si fosse riusciti ad abolire la morte, incluse tutte le forme di imperfezione fisica. Chi, nell'esistenza umana, intende estinguere l'ultimo residuo di interesse privato, considerato negativo, deve liberare ciascun singolo dalla sua prigionia nel piccolo arco temporale della propria vita. Al suo posto, deve subentrare la nuova "opera comune". Solamente gli immortali possono formare la vera Comune, mentre tra i mortali dominerà sempre il panico dell'autoconservazione. L'eguaglianza degli uomini davanti alla morte appaga soltanto quell'Internazionale di egualitari reazionari, i quali vedono di

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buon occhio che anche i ricchi e i potenti vi giungano "come bestiame". Fin dall'Antichità, la gente di questo genere simpatizza con la morte dato il suo ruolo di leveller, così come è stato messo in scena con lo Jedermann al festival di Salisburgo del 1920, in una presentazione kitsch conforme al gusto del periodo. Ciò che non vogliono ammettere questi amici della meritata fine per tutti è la semplice circostanza che la morte rappresenta il principio reazionario per eccellenza. Ogni memento fa inchinare l'uomo sempre più in basso al cospetto della natura. Gli ideologi della morte corrompono incessantemente la "società" moderna, non stancandosi mai di inocularvi la formula: "La morte è inevitabile". Essi forniscono il propellente dell'individualismo che alimenta l'avidità, nella misura in cui definiamo "avidità" l'ambizione a massimizzare le proprie esperienze e i propri vantaggi nell'angusta finestra del tempo esistenziale. Si poteva parlare di un "essere per la morte'', che nel capolavoro di Heidegger del 1927 venne presentato come carattere strutturale dell'esistenza, solamente perché la rivoluzione del presente, mirante ali' obiettivo più lontano, non fu compiuta nemmeno dai pensatori più radicali della "borghesia agonizzante". Nel 1921 Svjatogor postulò la necessità di una nuova agenda, che prendesse le mosse dal seguente accertamento: Realizzare l'immortalità personale è una questione che adesso è ampiamente ali' ordine del giorno. Ormai è tempo di sopprimere l'inevitabilità [ ___ ] della morte naturale. 124

Qui torna nuovamente il tempus est, con il quale l'apocalittica cristiana entrò nel progetto-storia: il tempo stesso è arrivato al punto di pronunciare la parola d'ordine per l'ultima impresa storica: sospendi il tempo! Chi ha compreso lo Zeitgeist deve preoccuparsi che, in avvenire, non si parli più di finitezza. "L'epoca della morte e delle bagatelle" è alla fine. Ciò che ha inizio è "l'era dell'immortalità e della infinità" .125 "Soltanto il biocosmismo può definire e regolare l'intera società." 126 Un anno dopo Jaroslavskij proclamò il Massimalismo cosmico, che comprendeva l'immortalismo, l'interplanetarismo e la sospensione del tempo, mentre Bogdanov pubblicava le sue idee rispetto a una Tettologia della battaglia contro l'età. 124. Boris Groys, Michael Hagemeister (a cura di, con la collaborazione di Anne von der Heiden), Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in Ru/Sland zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., p. 393. 125. Ibidem, p. 395. 126. Ibidem, p. 403.

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Egli si entusiasmò all'idea di dare compimento al socialismo suI piano fisico, sottoponendo tutte le popolazioni a reciproche trasfusioni estensive, al fine di creare ambienti affini e alleanze immunitarie. Con questa somatizzazione della fratellanza, il "sangue", altrimenti dominio delle destre, si rivelava medium di una reale circolazione comunista. 127

"AN1ROPOTECNICA" Fra gli autori della rivoluzione metafisica degli anni Venti, se vedo correttamente, Muravjev fu quello che discusse nel modo più ampio la questione della produzione dell'Uomo Nuovo, ponderando i suoi aspetti tecnologici nella prospettiva più vasta. Naturalmente, la forma assunta allora dall'idea della "produzione del produttore" era da tempo diventata un cliché onnipresente nell'intera sfera d'influenza sovietica, non da ultimo nel mondo del lavoro, dove l'imperativo della modernizzazione forzata si presentava nella maniera più scoper- ' ta: esso prescriveva la massiccia produzione di proletari socialisti come il compito più urgente della pianificazione ... bisognava far nascere, almeno a posteriori, il presunto soggetto portatore della rivoluzione. Il gioco linguistico della produzione dell'uomo era saldamente ancorato anche nella pedagogia sovietica. A quanto ne so, fu tuttavia Muravjev, nei cui scritti dei primi anni Venti compare per la prima volta il termine "antropotecnica", perfetto sinonimo dell' espressione "antropourgia", coniata nello stesso periodo, colui che mise per primo l'accento sulla produzione di un tipo superiore d'uomo. 128 127. Sulla politica del sangue di Bogdanov vedi Margarete Vi:ihringer, Avantgarde und Psychotechnik. Wissenscha/t, Kunst und Technik der Wahrnehmungsexperimen-' te in der /rUhen Sowjetunion, Wallstein, Gi:ittingen 2007, pp. 173-229. Inoltre, Margarete Vi:ihringer, "Im Proletformat. Medien fiir Transformationen und Transfusionen im Russland der 20er Jahre", inAnja Lauper (a cura di), Trans/usionen. Blutbilder und Biopolitik in der Neuzeit, Diaphanes, Ziirich-Berlin 2005, pp. 199-210. 128. Già nel 1926, nel terzo volume, la Grande enciclopedia sovietica accolse la voce "Antropotecnica". Viene definita "ramo applicato della biologia, che si pone

il compito di migliorare le qualità fisiche e spirituali dell'uomo con gli stessi metodi impiegati dalla zoologia per migliorare e allevare nuove razze di animali domestici" (citato in Boris Groys, Michael Hagemeister (a cura di, con la collaborazione di Anne von der Heiden), Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in RujS!and zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., p. 54). Già nel 1922, nel suo scritto intitolato Pa~ dagogzk, ampiamente diffuso, Pawel Blonski, ex neoplatonico, così discettava: "La pedagogia deve trovare la propria collocazione tra la zootecnia e la fitotecnica (coltivazione delle piante) [ ... ]",citato in Alexander Etkind, Eros des Unmoglichen. Die Geschichte der Psychoanalyse in RujS!and, Kiepenheuer, Leipzig 1996, p. 330.

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Per via della sua familiarità con le tradizioni spirituali dell'Oriente e dell'Occidente, Muravjev vide, più chiaramente degli altri autori della corrente biocosmica e immortalista, il legame tra la rivolta ascetica e quella tecnica contro la natura. Secondo la sua concezione, le conquiste derivanti dalle tradizionali forme "dell'ascesi e del movimento yogico" urtano inevitabilmente contro un limite, perché sono condizionate dalla "trascuratezza del fattore corporeo", dovuta al1'arcaico disprezzo idealistico per la materia. La "trasformazione dell'uomo" non è tuttavia "pensabile solamente in termini spirituali e morali". 129 Essa oggi va posta su basi radicalmente nuove, ossia su procedimenti tecnici, seriali e guidati collettivamente. Tra questi, l'eugenetica, come ritiene Muravjev, può avere solamente una funzione subordinata a causa della sua lentezza. I metodi eugenetici attuali, afferma l'autore, vanno ben oltre la primitività degli esperimenti condotti da Paracelso e finalizzati alla creazione di homunculi negli stomaci dei vitelli o dentro le zucche, ma continuano a dipendere dalle incresciosità della riproduzione bisessuale e dagli orribili eccessi del parto naturale, nel quale non possiamo non vedere un "processo straordinariamente complicato, doloroso e imperfetto" .130 L' eugenetica tradizionale, che ottiene buoni risultati con le piante e gli animali, è trasferibile agli uomini solo in misura limitata. Di conseguenza, bisogna pensare nuove procedure, nelle quali la divisione dell'umanità in uomo e donna finisca per perdere d'importanza.L'abolizione della nascita e la generazione dell'uomo in laboratorio dovrebbero condurre a un "quarto metodo di trasformazione dell'uomo" (mentre gli altri tre sono costituiti dai provvedimenti ascetico-didattici, medico-terapeutici ed eugenetici). Qui affiora per un istante il richiamo al metodo che in seguito sarà definito "clonazione" ("gemmazione"), che, secondo Muravjev, non andrebbe affatto circoscritto esclusivamente a un dominio popolato da forme di vita inferiori. Se qualcosa di simile trovasse applicazione anche agli esseri viventi superiori, in definitiva a Homo sapiens, l'uomo non sarebbe più il risultato della relazione sessuale tra due indi129. Boris Groys, Michael Hagemeister (a cura di, con la collaborazione di Anne von der Heiden), Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in Rujjland zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., p. 466. In questa argomentazione, Muravjev espone ciò che sa sulla dimensione corporea dei sistemi d'esercizio indiani sotto l'evidente influsso del tecnicismo imperante, che ignora la differenza tra operare-sé e farsioperare, e punta esclusivamente su trattamenti esterni. L'unilateralità di questa opzione viene smentita dalla coeva insistenza sull'impiego di metodi "psicofisici" nella "costruzione dell'uomo". 130. Ibidem, p. 468.

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" vidui più o meno limitati, mal' opera di una comunità di ricerca impegnata a raggiungere altissime mete. Qualora quest'ultima si dedicasse alla produzione di uomini, celebrerebbe un sacramento tecnico: prodotti di sintesi originali al di fuori della vecchia natura. Con gli Uomini Nuovi entrano in scena nuovi corpi, che potrebbero nutrirsi di luce e non sarebbero più soggetti alla forza di gravità. Al contempo, grazie alla tecnica di creazione degli uomini, sarebbe vicino un culmine inaudito di individualizzazione. Con l'an- · dar del tempo sparirebbe l'uomo di oggi, fatto con lo stampo, e alla volgarità verrebbero tolte non solo le basi sociali ed estetiche, ma anche quelle biologiche. A quel punto, artisti del calibro di Shakespeare e Goethe non creerebbero più drammi teatrali, ma uomini e gruppi umani: singolarità antropiche e statue sociali, accanto alle quali le opere appartenenti alla passata storia dell'arte sembrerebbero esercizi preliminari privi di vita. m L'operazione fondamentale dell'utopismo biopolitico in Russia si può ridurre a una semplice formula: ciò che finora sembrava possibile esclusivamente a livello immaginario va ora realizzato sul piano' dei procedimenti tecnici. Dove vi era opera d'arte, deve subentrare. vita prodotta dall'arte. La tecnica moderna abbatte il confine tra essere e fantasia, e trasforma delle impossibilità in schemi di ciò che è realmente possibile: masse vuote, il cui riempimento inizia adesso mediante un'entità realmente esistente. Il concetto di "anticipazione", che attraversa come un filo rosso i commenti marxisti nei confronti delle "conquiste" ottenute dalle precedenti epoche della civiltà, designa fantasie da concretizzare in awenire seguendo un pia-, no. Il medesimo superamento della frontiera, tra l'altro, è alla base della cultura di massa americana che si sta sviluppando nello stesso periodo, la quale, a partire in particolare dalla scalata lanciata dagli emigranti europei alla "fabbrica dei sogni" di Hollywood, fornisce un'unica serie di variazioni sul tema dreams come true. 132 .Aron 131. È nota l'analoga tesi di Lev Trockij, ispirata in senso nicciano, secondo la quale "l'autoeducazione psicofisica" di stampo comunista eleverebbe "il tipo umano medio dell'avvenire al livello di Aristotele, Goethe e Marx. E sopra a questa catena montuosa si innalzerebbero nuove vette. [ ... ] La specie umana, l'irrigidito Homo sapiens, verrà nuovamente sottoposta a una radicale revisione e (nelle sue stesse mani) sarà oggetto dei metodi più complessi di analisi e di allenamento psicofisico". Citato in Boris Groys, Michael Hagemeister (a cura di, con la collaborazione di Anne von der Heiden), Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in Ru/Sland zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., pp. 421e419. 132. Sul ruolo degli emigranti europei nella ricostruzione dell'industria americana delle illusioni vedi Neil Gabler, Ein eigenes Reich. Wie jiJdische Emigranten Hollywood er/anden, Berlin Verlag, Berlin 2004.

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Zalkind (1889-193 6), uno psicologo sovietico che nella sua "pedologia" degli anni Venti tentò di sintetizzare gli approcci di Freud e di Pavlov (al fine di reclamare l'attribuzione del campo educativo alla teoria dei "riflessi condizionati", allora molto utilizzata, e di annettervi la teoria della cultura come ambito di applicazione della riflessologia superiore), chiama questo metodo il "fantasticare scientificamente fondato".m Su di esso poggia l'arte della prognostica socialista.134 Quest'ultima costituisce il contraltare, in termini di utopia reale, al tentativo di Oswald Spengler, non meno pretenzioso, di fornire basi scientifiche alla narrabilità dell' awenire mediante l'analisi delle leggi secondo le quali si muovono le "civiltà". In una perizia sull'awenire psicosociale dell'uomo socialista, Zalkind avanza la prognosi che esso si trasformerà, attraverso il trattamento rivoluzionario, in un essere sempre più stabile, sempre più performante, dalla gioia di vivere sempre più vibrante, radicalmente sociofilo; l'uomo svilupperà una sorta di sistema immunitario olistico, nel quale l' autoconservazione sarà una funzione della conservazione comunitaria, a differenza che nella società occidentale, dove la disgregazione individualistica avanzerà in misura inarrestabile. L'argomentazione opportunistico-ottimistica di Zalkind è caratterizzata dalla cancellazione del confine tra didattica, terapia e politica: essa concepisce l'uomo comunista come un paziente oggetto di cambiamento, un paziente illimitatamente malleabile, che può sempre e solo guadagnare quando si fa operare senza porre limiti. Ciò che Zalkind sottace sono i metodi dell'anestesia comunista. Lenin lo sapeva: il terrore di Stato rappresenta l'equivalente funzionale della narcosi totale nelle com~ plicate operazioni condotte su collettivi di grosse dimensioni. 133. Aron Zalkind, "Die Psychologie des Menschen der Zukunft" (1928), citato in Boris Groys, Michael Hagemeister (a cura di, con la collaborazione di Anne von der Heiden), Die Neue Menschheit. Biopolitische Utopien in RuJUand zu Beginn des 20. Jahrhunderts, cit., p. 612. 134. Nello scritto menzionato, Zalkind fornisce prove ambivalenti di quest'arte: da un lato, prevedeva "colossali progressi dei mezzi di locomozione e della tecnica di comunicazione. Inconsueta dinamicità della vita" (ibidem, p. 645). Dall'altro, azzardava la prognosi che l'uomo socialista sarebbe stato talmente pervaso dalla gioia di vivere, che si sarebbero estinti gli ultimi moti trascendenti del "misticismo", così come era caduta la coda al nostro antenato, la scimmia (ibidem, p. 647). Il trend progressivo che connota l'evoluzione dell'umanità non verrà più generato dalla concorrenza tra individui, ma nascerà perché, da una parte, l'universo mondo sarà dichiarato il nuovo "terribile nemico di classe" e perché, dall'altra, grazie al1'educazione socialista, verrà sistematicamente stimolata l'indispensabile insoddisfazione provata da ogni generazione umana rispetto al livello di benessere raggiunto da quella precedente. Il motore della storia girerà ancora a pieni giri, ma al posto degli egoismi subentreranno forze motrici sociofile (ibidem, pp. 650 sgg.).

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EPILOGO POSTCOMUNISTA: LA VENDETTA DELLA GRADUALITÀ Rinuncio in questa sede a commentare il destino empirico degli impulsi immortalisti e biocosmisti nella prima fase della Rivoluzione russa. Nessuno dovrebbe stupirsi se, in tali progetti, vi è stata una distanza drammatica tra il livello programmatico e quello pragmatico. Se esistesse un pantheon dei fenomeni icarici, in esso ai bioutopisti russi spetterebbe di diritto una cappella privata. I protagonisti della suprema abolizione, quasi senza eccezioni, finirono per sparire nelle turbolenze della rivoluzione cui essi aderirono con tanto entusiasmo. Tranne Konstantin Ciolkosvskij, il quale, cooptato e riverito dal potere ufficiale sovietico "in quanto figlio geniale del popolo", morì nel 1935 molto anziano, tutti gli altri attori della rivolta biopolitica andarono incontro a una fine tipica per quel periodo: Svjatogor sparì nel 1937 all'età di 48 anni in un "campo di lavoro correttivo"; di Muravjev si perdono le tracce intorno al 1930, all'età di circa 45 anni, in un campo di prigionia, probabilmente sulla famigerata iso-'; la di Solovki, nel Mar Bianco; Jaroslavskij, all'età di 35 anni, venne fucilato nel dicembre del 1930, dopo un fallito tentativo di fuga da questo stesso campo; Bogdanov perse la vita nel 1928, all'età di 55 anni, durante un esperimento di trasfusione condotto su stesso; Zalkind morì nel 1936 all'età di 48 anni per un infarto, dopo aver ricevuto la notizia che il comitato centrale del Partito aveva condannato e vietato la sua "pedologia" in quanto "pseudoscienza antimarxista". Altrettanto superfluo mi sembra giustificare dettagliatamente perché, dopo la fine della Seconda guerra mondiale (e a maggio/ ragione dopo l'implosione dell'Unione Sovietica e del blocco orientale nel 1990), praticamente nessuno, sia in Oriente sia in Occidente, voleva più sentir parlare, anche lontanamente, di una rivolta contro la condicio humana, contro il vecchio Adamo, contro l'inconscio e tutta la restante sindrome della finitezza, tranne che nei luoghi di simulazione dello sconfinato museo moderno, nel quale ogni rivolta trova il suo curatore. Si sbaglierebbe di grosso, tuttavia, se, dal1' antiutopismo globale successivo al 1945, diradato solamente dal terzo movimento giovanile del xx secolo, la rivolta studentesca internazionale, si volesse trarre la conclusione che il sistema delle "società" moderne avrebbe perduto il proprio orientamento "in avanti" e avrebbe abbandonato le sue qualità di campo universale di formazione per virtuosità in continuo incremento, ovvero le sue "qualifiche" e "competenze". 492

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In realtà, il sistema globale ha solamente effettuato, dopo il 1945, le dovute correzioni di marcia. Ha eliminato la modalità "rivoluzione" dal catalogo delle sue opzioni operative e, al suo posto, ha optato risolutamente per la modalità "evoluzione". La comparsa di discorsi neorivoluzionari intorno al 1968 rappresentò soltanto un romanticismo allargato, che si appropriò di figure storiche come Lenin, Stalin, Mao, Brecht e Wilhelm Reich in funzione di ready mades_ Nella corrente principale del periodo, il partito gradualista tornò al potere, guidato da un'élite di risoluti evoluzionisti di professione. Tra le pieghe dello stato d'animo fondamentalmente antirivoluzionario, il quale si articolava sul piano discorsivo come antitotalitarismo o antifascismo, si nascondeva il ritorno alle tradizioni progressiste del Barocco e dell'illuminismo, il cui nucleo pragmatico consiste nell'ampliamento relativamente costante e razionalmente controllato degli spazi in cui possono affermarsi le opzioni umane. Per prender parte a questi movimenti di ottimizzazione, non serviva scrivere la parola "progresso" a letteré maiuscole né fingere di credere alla dea "storia". L'evoluzione della civiltà occidentale nel suo complesso dopo il 1945 sembra dare ragione in maniera pressoché illimitata ai moderati. Essa saturò I'ambiente con mezzi per riformare il mondo facilmente accessibili ai più. La loro diffusione avvenne in parte sui liberi mercati, in parte attraverso le attività dello Stato ridistributore e dello straripante sistema assicurativo, due modi impolitici per operazionalizzare l'idea di solidarietà, i quali, nel radicare motivi di sinistra, hanno avuto più influenza di quanta ne abbia mai avuta un'ideologia politica. Il riorientamento più importante a livello di storia spirituale è tuttavia consistito nel fatto che la metanoia ha cambiato nuovamente direzione: dopo un'era di slogan sanguinari e astrazioni maligne, la quotidianità apparve come qualcosa su cui si poteva nuovamente "riflettere". Numerosi individui compresero che il qui e ora costituiva un'isola lontana, sulla quale non avevano ancora messo piede. Si dava quindi un presupposto per ridestare la differenza etica nella sua forma originaria: la distinzione tra cura di sé e occupazione con tutto il resto. Nulla, per i rivoluzionari disincantati, fu più utile che riattualizzare questa distinzione. Nel film Passion di Jean-Luc Godard, uscito nel 1982, un personaggio pronuncia il principio chiave del periodo: "Non si salva se stessi salvando il mondo". Dopo mezzo secolo di movimenti giovanili militanti, riapparve perfino un essere, di cui non si era sentito parlare da molto tempo: l'adulto. La sua 493

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ricomparsa servì a ravvivare i pragmatismi aggressivi, che riempiva::, no di contenuto vuoti gusci concettuali come "democrazia", "società civile" e "diritti umani". Così, accanto alla consapevolezza di quanto era già stato raggiunto, vide la luce una fitta agenda di passi ancora da compiere, in vista di ulteriori ottimizzazioni, rispetto a numerosi punti di intervento della prassi progressista. Quest'ultima costituisce oggi il reale modo di lavorare di un'internazionale decentralizzata, che si articola in decine di migliaia di progetti interni alle tradizioni dello slancio riformatore del mondo, senza che un comitato centrale debba dire, o almeno riesca a dire, agli attivisti in che cosa dovranno consistere le loro prossime operazioni. 135 Il pragmatismo onnipervasivo del dopoguerra non può dunque essere liquidato come una restaurazione, come vorrebbero gli eterni giacobini. Esso inoltre non esprime un ritorno alla moderazione. In realtà, il complesso delle "società" occidentali guidato dagli USA ha incrementato continuamente, fin dagli anni Sessanta, la pendenza dell'evoluzione economica e tecnica, fino a raggiungere un punto à partire dal quale è diventato problematico per le popolazioni tenere il passo del sistema economico e di quello mediatico, che da allora1 hanno subito una grande accelerazione. Ciò risulta evidente soprat-. tutto dal golpe neoliberale contro il semisocialismo dell"'economia mista", che dal 1945 aveva dominato l'Occidente fino alla cesurà thatcheriano-reaganiana dei tardi anni Settanta. 136 A causa di questo irrigidimento del clima, il capitalismo globale dimostra di essere l' agenzia di quella "rivoluzione permanente" che gli ideologi dell'eco-' 135. Vedi il saggio diJean Ziegler, "Vernunft", in ZDF-Nachtstudio (a cura di),

Tugenden und Laster. Gradmesser der Menschlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 252 sgg.: "Dov'è la speranza? Nascono movimenti sociali nuovissimi, una possente società civile. Ovunque sul pianeta si inaugurano fronti di resistenza. I loro metodi di lotta sono ovuµque diversi, ma la motivazione è ovunque la stessa: l'imperativo morale[. .. ]. Oltré 100 mila uomini da cinque continenti, in rappresentanza di oltre 8000 consorzi agrari, sindacati industriali, movimenti femminili, organizzazioni non governative che lottano per i diritti umani, per l'ambiente, contro la tortura e la fame, si sono ritrovati l'anno scorso (2004) a Bombay per il Social forum mondiale. Senza gerarchia, senza comitato centrale, senza un sofisticato programma imperativo. Come combriccola notturna, come figura vivente della solidarietà. Sappiamo benissimo che cosa non vogliamo". 136. L'esistenza del "sistema a economia mista" dagli anni del New Deal fino all'inizio dell'era Thatcher viene sistematicamente ignorato dalla critica ideologicamente distorta al "capitalismo". Per ironia della sorte, il movimento del 1968, che portò lo spostamento dallo stalinismo al maoismo o alle posizioni della sinistra alternativa, fu attivo nel periodo d'oro del semisocialismo renano realmente esistente. Vedi Daniel Yergin, Joseph Stanislaw, Staat oder Markt. Die Schlussel/rage unseres Jahrhunderts, Campus, Frankfurt a.M.-New York 1999, pp. 22-87.

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nomia di comando comunista richiedevano invano. L'economia mista fu popolare fino a quando un capitalismo addomesticato nel senso dello Stato sociale poteva presentarsi come il potere che otteneva più o meno quello che aveva promesso il socialismo dichiarato. Nel frattempo, dalla rivoluzione permanente accelerata, che da due decenni chiamiamo "globalizzazione", scaturisce per innumerevoli individui la necessità di lavorare nuovamente all'ampliamento della propria competenza in materia di passività. Agli ultimi amanti della "rivoluzione permanente" in Europa ciò risulta molto sgradito: sognano incessantemente gli agi perduti del capitalismo renano. 137 Esposti alle durezze del mercato mondiale allargato, awertono la necessità di farsi-operare ancora una volta ... stavolta però per migliorare la loro condizione competitiva sui mercati mondiali divenuti imprevedibili. Nell'immane crisi finanziaria del 2008, tuttavia, la necessità di farsi-operare investe anche gli operatori. · La tendenza epocale della Modernità a de-verticalizzare l' esistenza prosegue anche nelle condizioni attuali. Al contempo, i sistemi immunitari simbolici richiedono regolazioni precise, che interrompano alcuni automatismi del secolarismo troppo grossolano. Di qui ha origine il nuovo, diffusissimo interesse per le tradizioni "religiose" e spirituali, nonché il sentimento sommessamente ridestatosi per gli imperativi verticali. In effetti, nelle incarnazioni dominanti dello Zeitgeist dopo il 1945 si era affermato un risoluto antiverticalismo: nell'esistenzialismo come culto della finitezza, nel vitalismo come culto del wetabolismo, nel consumismo come culto dello spendere, nel turismo come culto dello spostamento. In quest'epoca de-spiritualizzata toccò agli sportivi di punta il ruolo di custodire il sacro fuoco dell'eccesso. Essi sono i superuomini del mondo moderno, superuomini senza testa, che aspirano a salire dove l'uomo del passato non può arrivare ... nemmeno dentro loro stessi. Sono gli androidi interiori, che ormai superano sempre se stessi. Al vecchio uomo presente dentro gli stessi atleti non rimane che commentare ottusamente le esibizioni del superandroide che essi incarnano.

13 7. Studiando i programmi di partito dei tre candidati trockisti alle elezioni presidenziali francesi dell'aprile 2007, Olivier Besancenot, Ariette Arguiller e Gérard Schivardi, i quali raccolsero insieme 2,2 milioni di voti, scopriamo un paradosso: sono tutti favorevoli alla sospensione della rivoluzione permanente compiuta dal capitale e al ritorno ali' epoca della sicurezza sociale.

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CONDANNATO A DISTINGUERE RIPETIZIONI La distinzione etica ebbe efficacia dall'istante in cui la ripetizione perse la propria innocenza. Con la comparsa di asceti e pratiche ascetiche agli albori delle civiltà avanzate, si manifestò una differenza che non si poteva dispiegare esplicitamente negli stadi iniziali della primitiva civilizzazione: scegliendo il ritiro, i primi etici praticanti produssero la cesura con le forme e le condotte di vita abituali. Essi sostituirono le serie di ripetizioni inculcate con altre serie, con condotte diverse: non casualmente diverse, ma diverse in quanto gravide di salvezza. Quando l'originaria distinzione produsse la cesura tra modi di vivere elevati e salvifici, da un lato, e modi di vivere abituali e scellerati, dall'altro, lo fece nella modalità di una programmazione neuroetica, che volge tutto il vecchio apparato contro se stesso. All'inizio non si dà alcuna forma intermedia. O anima e corpo raggiungono insieme l'altra sponda, oppure nessuna delle due. The whole man must move at once. Attraverso il radicale distacco dal modo di vivere di coloro che permangono nella media, nell'approssimazione, nella mancanza di qualificazione, gli asceti, i santi, i saggi, i filosofi praticanti e in seguito gli acrobati e i virtuosi testimoniano la scoperta antropologica primaria: l'uomo è un essere vivente che è condannato a distinguere le ripetizioni. Ciò che nelle filosofie successive sarà chiamato "libertà" all'inizio si manifesta nell'atto con il quale i dissidenti insorgono contro il potere del meccanismo interiore ed esteriore. Prendendo le distanze dall'intero ambito delle passioni inveterate, delle abitudini acquisite, delle opinioni accettate e sedimentate, costoro fanno spazio a una grande trasformazione. Nell'uomo nulla può rimanere com'era prima: vengono riformati i sentimenti, viene ricon-

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figurato l'habitus, viene ristrutturato dalle fondamenta l'univers.o mentale, viene sanata la parola detta. La vita intera si erge come qn nuovo edificio sul fondamento della buona ripetizione. Si ebbe un primo illuminismo, quando i maestri spirituali mostrarono che l'uomo è non tanto posseduto da demoni, ma dominato da automatismi. Non sono gli spiriti maligni che lo mettono alla prova, ma le routine e le inerzie che lo schiacciano al suolo e lo deformano. Ciò che offusca la sua ragione non sono i casuali errori e gli occasionali deficit percettivi, mal' eterno ritorno dei cliché, che rendono impossibile il pensare autentico e il percepire incondizionato. Accanto a Gautama Buddha, Platone fu il primo epidemiologo dello spirito: egli vide nell'opinione quotidiana, nella doxa, la p~­ ste, a causa della quale certo non si muore, ma che di tanto in tanfo avvelena l'intera comunità. Frasi fatte, sprofondate nel corpo, gerrerano "indoli" che conferiscono agli individui la forma di caricature viventi della media, riducendoli a insulsaggini incarnate. Poiché !'.esistenza all'insegna della distinzione etica comincia distruggendo le frasi fatte, sfocia inevitabilmente nella rimozione di quelle indoli. Gli uomini liberi emanano fascino anche perché fanno intravedere la caricatura alla quale si sarebbero potuti ridurre. Chi volesse estirparla diventerebbe l'uomo senza qualità, destinato a essere privo di giudizio, privo di indole e privo di gusto. Un uomo simile potrebbe legittimamente constatare, come fece Monsieur Teste [Valéry]: "La bétise n'est pas man /art". Diventerebbe l'uomo che ha ucciso la marionetta presente dentro di lui. Il mutamento avviene tramite la deautomazione psichica e la decontaminazione mentale. Per questo molte scuole spirituali introducono il silenzio, al fine di svuotare il deposito di frasi fatte: una procedura che, di norma, dura più a lungo di un ciclo psicoanalitico lungo. Pitagora avrebbe preteso dai suoi allievi, all'inizio del ciclo didattico, un quinquennio di silenzio. Ancora Nietzsche si colloca in questa tradizione: "Ogni assenza di spiritualità, ogni trivialità ha la sua base nell'incapacità di opporre resistenza a uno stimolo - si deve reagire, si asseconda ogni impulso". ns Spirituale è quell'esercizio che abolisce tale dovere. Questa de-automazione, questa liberazione dal contagio di ciò che non è verificato, ma che si riproduce ciecamente, deve essere accompagnata dalla metodica costruzione di una nuova struttura spirituale. Ai pionieri della distinzione etica nulla sarebbe risultato più 138. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero Come si filosofa col martello, tr. it. Adelphi, Milano 1992, p. 78 ("Quel che i Tedeschi non hanno",§ 6).

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estraneo dello spontaneismo moderno, che coltiva per se, come valori estetici, lo shock, l'irritazione e l'interruzione di ciò che è consueto, senza chiedersi che cosa debba subentrare al posto di ciò che viene interrotto. La vita etica originaria ha un orientamento riformatore: vuole continuamente scambiare la cattiva ripetizione con quella buona, vorrebbe sostituire modi di vivere corrotti con una vita integra. Aspira a evitare l'impuro e a immergersi nella purezza. Che queste contrapposizioni binarie comportino delle semplificazioni da pagare a caro prezzo inizialmente non cambia affatto la questione. L'importante è che, in questa cornice, emerga una libertà individualizzata nella sua configurazione più antica e potente. Essa scaturisce da una scoperta imbarazzante: esiste una scelta che cambia segno a ogni condotta umana. I primi etici devono decidere tra una vita inserita nella ferrea catena, di cui solitamente non si avverte la presenza, delle abitudini acquisite involontariamente e un'esistenza legata ali' eterica catena della disciplina liberamente accettata. A partire da queste indicazioni si trarrebbe una conclusione del tutto errata ipotizzando che la comparsa della coscienza formale dell' esercizio interessi unicamente pochi attivisti. Per quanto i sadhus possano tormentarsi nella solitudine del bosco con complicati esercizi di respirazione; per quanto gli stiliti, sulle loro assurde colonne, debbano sentirsi più vicini al cielo; per quanto i filosofi possano vendere il loro secondo mantello e dormire per terra ... i comuni mortali rimarranno tuttavia dell'idea che queste stravaganti estraniazioni dalla sfera abituale siano per loro prive d'importanza, una faccenda relativa a un rapporto privatissimum, sacrale-perverso, tra il dio inafferrabile e il suo seguito acrobatico. Chi non riesce a prendervi parte può proseguire nel vecchio habitus, che, sebbene non perfetto, sembra funzionare abbastanza bene per la vita di tutti i giorni.

L'ESSERE VIVENTE CHE NON RIESCE A ESERCITARSI

In realtà, attraverso la secessione dei praticanti, l'intero ecosistema della condotta umana viene posto su fondamenta diverse. Come tutte le esplicitazioni, anche la comparsa dei primi sistemi d' esercizio comporta una radicale modifica dell'ambito di volta in volta interessato, vale a dire: di tutto il campo dell'agire psicofisicamente condizionato. Gli esercizi espliciti, siano essi le asanas degli yogi indiani, gli esperimenti stoici che trascurano ciò che non è di propria competenza oppure le exercitationes spirituales dei cristiani che si ar-

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rampicano sulla scala celeste, proiettano un'ombra su tutto ciò che sta di fronte a essi sul versante implicito, ossia il mondo dell'antico Adamo, l'universo gigantesco delle consuetudini su cui non si è aricora fatto luce. La zona in otfi.bra include l'ambito dominato dalle ripetizioni, il cui carattere di esercizio non è stato ancora dichiara- l to. Possiamo lasciare in sospeso il problema di capire se sia mai esi- · stita l'umiliazione psicoanalitica dell'uomo reclamizzata da Fteud, generata dalla scoperta, ritenuta sgradita, che l'Io non sarebbe padrone in casa propria. Con certezza però rileviamo l'umiliazione behaviouristica dell'uomo, che può essere anche formulata nei termini della teoria dell'ascesi. Essa deriva dalla constatazione che la nostra esistenza è composta per il 99,9% da ripetizioni, in maggior parte di natura rigorosamente meccanica. Questa umiliazione può essere superata solamente immaginando di essere comunque più originali di molti altri. Se ci sottoponiamo a una severa auto-osser:. vazione, finiamo nella sala macchine psicosomatica della nostra esi ~ stenza. Qui le consuete lusinghe della spontaneità restano a becco asciutto. Perfino i teorici della libertà preferiscono non scendervi. Con questa indagine esploriamo un inconscio non psicoanalitico, il quale include tutto ciò che solitamente viene attribuito a ritmi, regole e rituali atematici, non importa se riconducibile a modelli collettivi o a specializzazioni idiosincratiche. In quest'ambito tutto è meccanica ad alto livello, incluse le intime fantasie su una sfera non-meccanica e su un incondizionato essere-per-sé. La sommatoria di queste meccaniche genera quello spazio stupefacente chiamato "personalità", nel quale però avviene molto raramente qualcosa di davvero stupefacente. Gli uomini non abitano territori, ma abitudini. Gli spostamenti radicali intaccano prima di tutto il radicamento negli habits e solamente in seguito i luoghi nei quali si instaurano le abitudini. Fin da quando i pochi si esercitano esplicitamente, risulta evidente che implicitamente tutti si esercitano, anzi, che l'uomo è un essere vivente che non può non esercitarsi. .. dove "esercitarsi" significa ripetere uri modello di azione in modo tale che, in seguito alla sua esecuzione, venga migliorata la predisposizione alla successiva ripetizione. Come il signor K. non fa che preparare il suo prossimo errore, così gli uomini, in complesso, prendono ininterrottamente le precauzioni necessarie per rimanere quel che erano fino a quest'istante. Ciò che non viene ripetuto con sufficiente frequenza si atrofizza: si può constatare questo fenomeno nell'osservazione quotidiana, per esempio quando la muscolatura di arti immobilizzati si ri-

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duce già dopo pochi giorni, come se essa, per via del suo temporaneo inutilizzo, traesse la conclusione di essere superflua. In realtà, bisogna forse considerare esercizio anche il non uso di organi, programmi e competenze, ma un esercizio in senso decrescente. Così come esistono programmi impliciti di fitness, troviamo anche programmi impliciti di non-fitness. Per questo Seneca mette in guardia il suo allievo: "Un solo quartiere d'inverno dissolse le energie di Annibale" .139 Altre condizioni debilitanti presuppongono talvolta un lavoro di abbandono che dura parecchi anni. Ne consegue che già il semplice mantenersi in forma fisica, o meglio, neuropsichica, va interpretato soltanto come effetto di un allenamento non dichiarato. Con questo termine si intendono delle routine mediante le quali vengono attivati con sufficiente frequenza, in procedure non appariscenti, i movimenti normali di un complesso organico, per stabilizzarlo nel suo status di fitness attuale. Le attivazioni automatiche degli organismi entro processi perennemente in funzione, appartenenti a programmi di esercizio non dichiarati, si sommano a una silenziosa autopoiesi: ciò che, negli esseri viventi, si manifesta sotto forma di semplice identità rispetto a se stessi è, de facto, l'esito di una permanente autoproduzione dovuta al compimento di programmi invisibili di allenamento. Probabilmente, le attività cerebrali notturne, gran parte delle quali è vissuta sotto forma di sogni, sono essenzialmente processi di back up per il programma automatico, nella configurazione che ha assunto durante la sua ultima fase di veglia. Il Sé è una bufera di sequenze ripetitive sotto una calotta cranica. L'identità personale, dunque, non rimanda affatto a un'essenza psichica o a una forma inerte, ma indica piuttosto il superamento attivo di una probabilità di disgregazione. Chi rimane identico a se stesso conferma di essere un sistema affidabile e funzionante, specializzato nella riproduzione continua di sé. Negli esseri viventi soggetti allo stupore, del tipo Homo sapiens, nemmeno la banalità è gratuita. Va infatti raggiunta attraverso una cura incessante dell'identità, il cui principale ausilio è costituito dalla ti-banalizzazione di sé, orientata sia verso l'interno sia verso l'esterno. Ri-banalizzare indica l'operazione grazie alla quale gli organismi in grado di apprendere riescono a trattare il nuovo come se non esistesse, sia equiparandolo a ciò che è noto, sia negando il suo valore euristico. Per questo motivo, anzitutto e per lo più, il nuovo non ha alcuna 139. Lucio Annea Seneca, Lettere morali a Lucilio, cit., p. 247 (51,5).

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possibilità di essere integrato nell'apparato di gesti e idee già otieranti, giacché viene assegnato o a ciò che è noto oppure a ciò che è irrilevante. 140 · La cultura neolatrica della Modernità, al contrario, assegna per se un significato al nuovo, rischiarando così il clima globale di appren- ( dimento, ma il prezzo di questo atteggiamento è una disponibilità storicamente inedita a farsi abbacinare, a dare credito illimitato alle chimere del nuovo. Inoltre, non si può più assumere nemmeno la stupidità manifesta come semplice dato: essa viene acquisita at,traverso un lungo allenamento, consistente in operazioni con cui si evita di imparare. Soltanto dopo una serie, pervicacemente incrementata, di knock out dell'intelligenza, può stabilizzarsi un habitus di affidabile stupidità: e perfino quest'ultimo può essere smentito if1 ogni momento da una ricaduta nella non stupidità. Viceversa, bisogna prendere con scetticismo ogni romanticismo nel campo della teoria dell'apprendimento, anche quando è formulato dai classiCi. Aristotele parlò da romantico, quando stabilì, nella prima frase della Metafisica: "Tutti gli uomini aspirano per natura al sapere". In realtà, ogni aspirazione conoscitiva (da Aristotele interpretata soprattutto come primario desiderio di vedere) raggiunge i suoi limiti non appena compare qualcosa di nuovò, che non si vuol vedere. Di norma, si tratta di sguardi non conciliabili con l'imperativo di preservare l'identità. A quel punto, l'impulso çonoscitivo dell'uomo, ampiamente elogiato, si trasforma in un batter d'occhio nell'arte di non aver udito e visto nulla. Attraverso la distinzione etica non soltanto viene smascherato il carattere nascosto di esercizio che connota la vita consueta. Tale distinzione rivela altresì il divario tra l'esistenza condotta finora nella sfera abituale e il modo di vivere metanoico che ora è possibile scegliere. Questa distinzione richiede crudeltà verso se stessi e gli altri, producendo pretese eccessive allo stato più puro. Possiamo udire la sua voce originale quando Gesù dice: "Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me". 141 "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo." 142 "Non sono venu140. Di conseguenza, il "concetto narrativo della soggettività" proposto da Maclntyre (Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, cit, pp. 260 sgg.), che dovrebbe fondare la possibilità dell'identità personale, non realizza ciò che promette, perché l'identità stessa poggia solo in minima parte su cambiamenti coscienti e narrabili, e in massima parte su rifiuti automatici e non-narrabili del cambiamento, nonché su adattamenti inconsci e mimetici. 141. Matteo 10,37. 142. Luca 14,33.

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to a portare pace, ma una spada." 143 La lama della distinzione è l' apo1 calisse, che awiene ora o mai.

RIESERCITARE TUTTI GLI ESERCIZI Come il suicidio inaspettato di un conoscente mette in discussione tutto il suo ambiente, allo stesso modo la conversione di un individuo alla filosofia, o il suo ingresso in un gruppo etico, problematizza il modus vivendi di tutti coloro con i quali, fino a quel momento, aveva condiviso lo stesso tetto, aveva osservato gli stessi costumi, era stato impregnato delle stesse abitudini, era stato coinvolto nelle stesse storie. Ogni conversione implica il seguente atto linguistico: "In tal modo me ne esco dalla realtà comune" o almeno la seguente dichiarazione d'intenti: "Voglio abbandonare il continuum di ciò che è sbagliato e negativo". A tal fine, l'adepto non ha bisogno di salire sulla nave che lo porterebbe all'isola di Utopia. Sovente le mete distano soltanto un paio d'ore di cammino dai villaggi in cui regna la disperazione o un giorno di marcia dalla città in preda all'agitazione. Chi è in cerca di queste eterotopie sa bene che, una volta giuntovi, dovrà percorrere molti altri tragitti, più interiori che esteriori. Quando un candidato viene accolto in una comunità di praticanti, il resto della sua vita consiste nella trasvalutazione sistematica dei valori. Presso i cinici, questa procedura si chiama "cambiare conio alla moneta" (parachrattein to nomisma), che significa anche "cambiare costumi". Una metafora tratta dall'ambito dei falsari fornisce la chiave d'accesso alla storia della morale superiore. Le zecche etiche sono palestre per l'ethos da riformare. Presso i cinici del IV secolo a.C., ciò implicava la necessità di opporre un rifiuto a tutti i comportamenti fondati su uno statuto umano arbitrario, al fine di obbedire esclusivamente alla physis. Questi disinvolti dissidenti furono gli unici saggi a ritenere di poter fare qualcosa del genere nel mezzo della città: bastava trovare una botte libera. Agli altri adepti della differenza etica risultava evidente che era meglio girare le spalle ai consueti luoghi di convivenza. Poiché ethos e topos sono intimamente legati, l'ethos diverso richiede una dimora diversa: all' origine può far ritorno solamente colui che si è ancorato al nuovo luogo e all'altro habitus in maniera talmente profonda da non rischiare più alcuna ricaduta tornando in quello precedente. Fino a quel 143. Matteo 10,34.

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momento è bene dimorare in uno spazio protetto, nel quale ciò che i molti ritengono giusto (ton pollon doxa) 144 non abbia alcun effetto sul migliore sapere dei pochi. Presso i primi cristiani greci, un centro di allenamento appartato veniva chiamato, naturalmente, in base all'attività che vi veniva svolta: asketerz'a, a volte anche hesychaste- z rz'a, "luogo dove si esercita il silenzio". Il termine indiano ashram, tuttora molto in uso, designa il "luogo dell'affaticamento". Sannyasz'n, invece, il nome indiano per definire chi rinuncia, significa letteralmente "colui che ha abbandonato tutto", inclusi i legami con la dimora profana. Ancora ai tempi del saggio indiaho Tota Puri (ca. 1815-1875), maestro di Ramakrishna e conosciuto con il soprannome "il Nudo" (nangka), si tramandava che non avesse mai portato abiti in vita sua, che non avesse mai dormito sotto un tetto e che non si fosse stabilito in alcun luogo per più di tre giorni. Per Nietz-"' sche, più vecchio soltanto di una generazione rispetto all'elusivo in° diano, l'altro luogo si chiamava Sils Maria, collocato ai piedi dellé montagne che si rispecchiano sulla superficie levigatissima del lago di Silvaplana, "seimila piedi al di là dell'uomo e del tempo". La distinzione etica innesca la catastrofe delle abitudini. Essa assume l'uomo semplicemente come un essere che si abitua a tùtto. La "virtù" è una possibilità di assuefazione tra altre. L'uomo però è anche in grado di far proprio il peggio, fino a quando non gli appaia come un'ovvietà intangibile. Chi oggi abita in un Paese piuttosto libero e guarda alla situazione nelle dittature manifeste ne ha ampie dimostrazioni, sia che le tragga dal telegiornale della sera sia che le attinga all'archivio storico. Bisogna aver visto una riunione di partito a Norimberga, una parata del primo maggio a Mosca o una performance ginnica di massa a Pyongyang per capire fino a che livello possa spingersi l'attaccamento alla nefandezza. Dalla prospettiva della asketerz'a greca, dello ashram indiano, dell' er-emo nell'alto Egitto, tuttavia, già in passato l'intero universo umano empirico altro non era che un luogo corrotto di allenamento, nel quale giorno e notte si svolgevano estesi esercizi di falsità, sotto la guida di monarchi semilucidi assurti al livello di divinità, anziani dal sapere apparente e sacerdoti torbidamente severi, dediti soltanto a tramandare regole convenzionali e rituali ormai svuotati: costoro tradussero le necessità esteriori J.n: costumi sacri, per poi custodire tali costumi come necessità sacre. Il resto è "cultura", nella misura in cui, con tale espressione, 144. Vedi Giuliano l'Apostata, Oratio 7, 225 (D-226 A).

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viene definita la macchina copiatrice che ci garantisce I'autoconservazione del complesso delle nostre convenzioni (ultimamente chiamato "memoplesso"), attraverso la trasmissione di modelli vigenti da una generazione alla successiva, e a quella dopo ancora. È dunque superficiale ogni filosofia morale che non si fondi su una distinzione delle abitudini. Anche una Critica della ragion pratica vive di presupposti non garantiti, fino a quando non è chiarita la più importante premessa antropologica: se gli esseri umani in generale possano essere svincolati dalle cattive abitudini permanenti e a quali condizioni riescano invece ad ancorarsi a delle buone abitudini. Il noto argomento di Kant presente nello scritto sulla Pace perpetua (se solo avesse un intelletto, perfino "un popolo di diavoli", per trovare un modus vivendi passabile, si darebbe un ordinamento giuridico talmente simile a una costituzione civile da confondersi con essa) sconta il disconoscimento della gravitazione antimorale: "essere diavolo" (e resta da vedere se un povero diavolo o un diavolo malvagio) è infatti soltanto una metafora per fissare un attore in un habitus irragionevole, che nella sua requisitoria Kant rimuove in maniera troppo semplicistica. 145 I diavoli kantiani sono dei negozianti che sanno fino a che punto possono spingersi, egoisti perbene, che hanno frequentato il seminario dedicato alla rational choice. Un autentico popolo di diavoli, invece, è incarnato da un collettivo di fatalisti, nei quali il de-disciplinamento ha raggiunto il livello del fondamentalismo. Costoro non abitano solamente il sottosuolo di San Pietroburgo, ma sono autoctoni in ogni banlieue allo sbando, in ogni zona di guerra cronica. In luoghi simili il singolo è arciconvinto che nulla sia più normale di quell'inferno che ci prepariamo reciprocamente, fin dal momento in cui siamo in grado di avere pensieri. Non c'è diavolo senza il suo cerchio diabolico, che è anche un circolo vizioso, e non c'è inferno senza un cerchio di cerchi. Chi si è abituato all'inferno è immune dall'esortazione a cambiare la propria vita, per quanto ciò sia nel suo stesso interesse. Che co145. Quanto meno nel passo citato. Nelle sue prime lezioni di pedagogia Kant guarda più in profondità, approfondendo puntualmente i presupposti prelogici del saper-fare-ipotesi-razionali. Nel poscritto di Friedrich Theodor Rink si dice, al paragrafo 7: "Colui che non è istruito è grezzo; chi non è disciplinato è selvaggio. Trascurare la disciplina è peggio che trascurare la cultura, perché quest'ultima può essere pur sempre recuperata; la selvatichezza invece non può essere eliminata e un errore nella disciplina non può essere riparato". Vedi lmmanuel Kant, Werke, vol. 12, p. 700 (citato in Christopher Korn, Bildung und Disziplin. Problemgeschichtlich-

systematische Untersuchung zum Begri/f der Disziplin in Erziehung und Unterricht, cit., pp. 100 sgg.).

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sa significhi "nel suo stesso interesse" è già ipotecato dal muoversi nel cerchio fatale. In queste condizioni, è pressoché indifferente quali direttive si sceglie di seguire per ricondurre alla ragione i detenuti in ciascuno di questi circuii vitiosi, perché, in un modo o nel1' altro, il fallimento è assicurato: non è lecito aspettarsi qualcosa sul piano interiore dal "miglioramento morale degli uomini", aspetto' che anche Kant tralascia dimostrando di conoscere la vita, né sul piano esteriore dal "meccanismo naturale delle tendenze egoistiche", dalla reciproca neutralizzazione delle quali il filosofo si ripro" mette quanto meno di ottenere una pace estorta. L'esperienza indica che la pace tra gli abitanti dei cerchi infernali (o circoli viziosi) non si ha quando le "tendenze egoistiche" si temperano reciproca", mente, ma scaturisce da robuste asimmetrie. Queste possono derivare da uno sfinimento unilaterale oppure dalla vittoria schiacciante di un partito. I teorici sistemici dicono perciò che al corredo deJi male appartiene l'incapacità di vincere. ,

DA DOVE PROVIENE LA CATTIVA ABITUDINE: METAFISICA DELL'ETÀ DEL FERRO Prima di decidere se gli uomini debbano essere sradicati dalle cattive (schlecht) abitudini e, in caso di risposta affermativa, prima di stabilire in quale modo procedere, bisognerà ricapitolare come siano potuti arrivare a radicarsi in esse. Anziché unde malum? ci chiediamo ora: unde mala habitudo? Le classiche risposte della teologia morale si presentano sotto forma di cataloghi di peccati, tra i quali la settemplice lista di Gregorio Magno, risalente al VI secolo, ebbe il maggior successo. 146 In esse viene stabilito che l'habitus malvagio (bose) è conseguenza di una decisione malvagia, provocata dall'ozio e stimolata dalla superbia. Alcune risposte mitiche hanno maggiore profondità, pèrché guardano oltre l'individuo e collegano l'abitudine negativa (iible) alla necessità di abitare un mondo avaro. Se questa fosse un'indagine di storia della cultura, dovrebbe seguire un passo sulla storia naturale della penuria e sulla sua traduzione nella sfera umana. Nel nostro contesto è sufficiente indicare che le primitive arti" colazioni della difficoltà di essere uomo vanno datate all'era degli 146. Essa comprende i cinque peccati spirituali: superbia, acedia o tristitia, avaritia, invidia, ira nonché i due peccati carnali, luxuria e gula.

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imperi mesopotamici e mediterranei. Qui, autori anonimi parlano per la prima volta di un disagio nel mondo, che supera di gran lunga ogni disagio nella civiltà. Illuminanti enunciazioni sull'origine delle abitudinarietà negative sono fornite dai due grandi miti sulla condicio humana che caratterizzano gli inizi della civilizzazione vetero-occidentale: sul versante ebraico-cristiano, il racconto biblico della cacciata della prima coppia umana dal paradiso, mentre sul versante greco-romano, la dottrina dell'Età dell'Oro, sfociata, per via di un'oscura causalità peggiorativa, nell'attuale Età del Ferro, passando per gli stadi intermedi del Bronzo e dell'Argento. Comune a entrambi i racconti è l'intento di spiegare la normalità dell'aspetto cattivo. Ciò che invece li contrappone nettamente sono i mezzi con cui perseguono questo obiettivo. Il primo illustra la permanenza dell'umanità postparadisiaca in una realtà cronicamente insoddisfacente per mezzo di un modello morale incentrato sulla catastrofe chiamata "peccato originale", mentre il secondo racconto deduce i disagi del genere umano dalla legge fatale per cui il presente, quale terzo grado della decadenza, appare in un prowidenziale processo di peggioramento. Mentre nel modello moralistico lo status quo negativo viene spiegato come conseguenza del superamento di un'unica soglia, il mito basato sulle età del mondo si serve di tre stadi discendenti, per interpretare il disagio degli uomini dentro i contrasti che caratterizzano l'Età del Ferro. In questa sede non intendo soffermarmi sul dato di fatto che l'interpretazione fatalistica supera di gran lunga quella moralistica sia per portata contemplativa sia per contenuto in termini di filosofia della storia, mentre quella moralistica, a causa della sua tendenza invasiva, tocca maggiormente i suoi destinatari. In un'ottica sistemica, il racconto biblico contiene un notevole elemento di mora! insanity, poiché spinge laculeo ancora più in profondità nelle carni degli uomini cronicamente inficiati dal peccato, al fine di interpretare la loro condizione come gravame ereditario e punizione meritata. Al contempo, l'impianto colpevolista non è privo di una certa astuzia psicagogica, poiché gli uomini, come dimostrano i dati empirici, diventano chiaramente più disposti a soffrire, se hanno davanti agli occhi un "a che scopo" chiaramente delineato, oppure, in assenza di un "a che scopo", quanto meno un "perché" eun "a causa di che cosa". Alla recezione cristiana del racconto della cacciata dal paradiso dobbiamo la nascita di una civiltà, i cui membri non riescono a 507

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finire in difficoltà senza pensare di essersi meritati il loro malaise. La disponibilità a sentirci colpevoli della nostra sofferenza viene regolarmente versata come contributo alla cassa malati semantica, anzi, quella che viene chiamata professione di appartenenza alla "religione" cristiana sovente altro non è che il nostro contributo obbligato a questo sistema debitorio-colpevolizzante. Nel nostro contesto, tuttavia, ciò che conta e che accomuna entrambi i racconti, quello ebraico e quello greco-romano, è l'intento di esporre la situazione dell'uomo nel mondo come permanenza du~ ratura in un ambiente maligno. Entrambi prendono le mosse dall' evidenza per cui lesistenza umana, nella sua attuale forma fenomenica, è fondamentalmente un "essere-in-difficoltà", che include anche la necessità di abituarsi alle difficoltà. Insieme sostengono I' e~i-' denza complementare per cui la situazione attuale sarebbe inter~ pretabile solo come caduta da una condizione originariamente assai diversa. La miseria cronica subentra soltanto in conseguenza di peggioramenti epocali, siano essi graduali e basati sulla ripetizione oppure repentini e catastrofici. La miseria resa abitudine viene sperimentata, sia in un caso sia nell'altro, in termini differenziali: sUI piano reale, essa contrasta con il modus vivendi degli individui felici, ai quali anche oggi va meglio che ai più; sul piano immaginario, contrasta con le rappresentazioni di epoche nelle quali tutti avevano qualcosa di meglio. Questa differenza fornisce la matrice per laricerca di un'altra condizione. "Dove la vita stessa è una cura basata sulla privazione, vi è terreno fertile per la smania[. .. ]." 147 Quanto siano unite smania (Sucht) e ricerca (Suche) è illustrato sia dagli etimologi sia dagli psicologi.

REALISMO, SCARSITÀ, ALIENAZIONE L'adattamento a un ambiente cronicamente inadeguato genera nell'uomo, secondo la testimonianza delle più antiche teorie comportamentali, un habitus che si potrebbe definire, in senso non filosofico, realismo. Lo si può caratterizzare al meglio come permanenza consolidata sotto una cronica oppressione. Nel racconto biblico l'accento cade sulla sopportazione remissiva ("Col sudore della tua fronte") davanti alle difficoltà dell'agricoltura, mentre nei racconti 147. Peter Weibel, Loys Egg (a cura di), Lebenssehnsucht und Sucht, Merve, Berlin 2002, p. 32. 50R

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dell'epoca mediterranea laccento cade più che altro sulla costrizione a vivere in un incessante conflitto con vicini ostili e corrotti. Secondo il primo libro di Mosè, lesito più importante della cacciata è costituito dalla maledizione del lavoro e dalle difficoltà del parto, mentre secondo Esiodo il risultato principale è la cronica inaffidabilità dei rapporti sociali e il rovesciamento delle norme etiche di buon vicinato. 148 Entrambi i modelli contengono rudimentali filosofie sociali ed elementari ermeneutiche della miseria, che possono essere riprodotte dalle moderne teorie dell'alienazione. Secondo il racconto biblico, la caduta dal mondo paradisiaco del non-lavoro nella sfera connotata dalla necessità di lavorare sarebbe determinata dalla comparsa traumatica della scarsità. Il dover vivere in un ambiente di scarsità deriverebbe dalla colpa originaria dell'uomo: chi ha peccato non riceverà mai più quanto basta. A causa di un'imperdonabile infrazione, l'originario habitus della sopportazione davanti al continuo non-avere-mai-abbastanza finisce per influenzare profondamente la comprensione del mondo sviluppata da quel presunto "essere mancante" chiamato "uomo" .149 Tale habitus originario costituisce un disciplinamento primario analogo a uno stato d'animo di fondo. Da esso derivano sia la rassegnazione originaria, la quale conduce al realismo in quanto registro interiore della durezza, sia l'escapismo originario, il quale postula l'approntamento di riserve immaginarie di abbondanza. In questo modo, lo straniero assurge al ruolo di colui che drammatizza la scarsità, minacciando di consumare ciò da cui dipendono la mia sopravvivenza e l'autoaffermazione del mio gruppo. Il primo straniero è il sovrano da cui dipendo e che, se da un lato mi tiene in vita, dall'altro mi sottrae ogni eccedenza che, se trattenuta, mi farebbe stare meglio. Egli è la figura che unifica il mio sfruttatore e il mio salvatore. Il secondo straniero è il nemico, che prende fino a quando non resta più nulla. Alienato è dunque colui che ha un sovrano e un nemico, non importa se, nel caso di eccezione o nelle situazioni psicopolitiche normali, scenda in campo con il sovrano 148. "Né giuramento sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto I o dabbene; piuttosto l'autore di mali e l'uomo violento I rispetteranno; la giustizia sarà nella forza e coscienza I non vi sarà; il cattivo porterà offese all'uomo buono I dicendo parole d'inganno e sarà spergiuro" (Esiodo, Opere e giorni, tr. it. Garzanti, Milano 1985, p. 15, vv. 190-194). 149. Sulla confutazione dell'ideologia dell'essere mancante vedi Peter Sloterdijk, Sphiiren III. Schiiume - Plurale Sphiirologie, cit., pp. 671-859: "Auftrieb und Verwohnung. Zur Kritik der reinen Laune".

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contro il nemico o con il nemico contro il sovrano, come si nota nella dissoluzione· dei vin cdli di lealtà durante le rivolte di palazzo, le sollevazioni e le guerre rivoluzionarie. Ciò che, nelle sue indagini sulla "prassi" alienata, Sartre afferma a proposito dell'uomo "che vive nella scarsità" (l'homme de la rareté)150 è solamente, in sostanza, un'esegesi del mito biblico della cacciata, letto attraverso una griglia concettuale hegeliana. La scarsità decreta l'impossibilità della coesistenza oltre il collettivo. Sartre fonda questo esistenziale infernale in una dimensione un po' troppo profonda perché possa accordarsi con la concezione marxista dello sfruttamento. Egli inoltre, in virtù dello "sguardo" malvagiq~ getta la competizione e la reificazione reciproca in tali abissi che nessuna conciliazione o amicizia potrebbe mai superarle, sia all'in'.~ terno sia all'esterno della sfera connotata da scarsità. In tal modo, non solo ignora la possibile produttività della competizione, ma perde totalmente di vista anche la fuoriuscita dal mondo della scarsità, effettivamente realizzatasi in conseguenza della moderna economia basata sulla proprietà privata. Il progetto di salvare il marxismo arricchendolo con motivi esistenzialisti era quindi condannato al fallimento fin dal principio. La radice più profonda dell'insuccesso di Sartre non consiste tuttavia nella sua scarsa familiarità con la critica, in sé fragile, dell'economia politica. Deriva piuttosto dal paragone filosofico da lui instaurato tra l'uomo e il focolare del nulla. Quando usa con più risolutezza il gergo metafisico, si allontana in massima misura dallo stato dell'arte che caratterizza il sapere dell'uomo. L'uomo non è negatività, bensì il punto in cui le ripetizioni si differenziano. Esiodo mette in risalto, nelle sue affermazioni sull'Età del Ferro, l'allentamento del vincolo sociale. Ai suoi occhi, il dato più evidente è che nella generazione contemporanea predomina l'habitus dell'infedeltà, perfino tra persone imparentate e apparentemente amiche. Nel periodo del Ferro, i segni "naturali" del bene e del male, dell'onore e del disonore, ecc. sembrano essersi ovunque rovesciati. Da una prospettiva storico-culturale, ciò rivela una situazione climatica complessiva di natura pragmatica, nella quale popolazioni di stampo contadino sono costrette a esercitare modi di vivere inconsueti, tipici delle strategie urbane. Nel quadro di questo mutamento i singoli devono imparare a riconvertirsi dal sentimento al succes150. VediJean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica, tr. it. Marinotti, Milano 2006.

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so; si vedono costretti a sostituire il riconoscimento da parte dei parenti e dei vicini con il riconoscimento da parte dell'opinione pubblica operante sul mercato e delle cricche che detengono il potere; devono abbandonare le loro innate intuizioni del diritto e del torto, abituandosi alla precedenza dei metodi giuridici istituzionalizzati. Nel complesso, queste riconversioni producono un cambiamento di habitus che i seguaci degli antichi valori, come Esiodo, il poeta agricoltore, potevano percepire unicamente come prova di un mondo rovesciato. Osservo en passant che il Corano, benché comparso dodici secoli dopo, in molti punti, conformemente al suo approccio morale, si trova allo stesso livello della visione del mondo espressa da Esiodo in Le opere e i giorni. In esso, la diffidenza del contadino rispetto al nuovo e incomprensibile mondo dei traffici assurge a odio apocalittico nutrito dall'abitante del deserto nei confronti delle grandi città, impenetrabili all'intelletto antico. Ciò che viene chiamato "profetismo" è dunque la forma infuocata di rifiuto opposto all'elevata complessità.

LA SOSPENSIONE ASCETICA DELL'ALIENAZIONE: I CINQUE FRONTI In questo contesto, si può determinare con maggiore precisione che cosa comporta la distinzione etica. Essa mira a disabituare sistematicamente il soggetto rispetto agli effetti reali prodotti dall'Età del Ferro. Essa mette in dubbio, a dispetto delle apparenze iniziali, il carattere definitivo della condizione postparadisiaca. Per sottrarre il singolo praticante al blocco della realtà dominante, la rivolta ascetica fa leva senza eccezioni sul punto più forte dell'avversario. La grande cura disabituante si orienta, come mostra la storia delle pratiche ascetiche, verso i cinque fronti principali della miseria: la scarsità materiale; il carattere gravoso dell'esistenza; l'impulso sessuale; l'alienazione; l'involontarietà della morte. In questi campi, le prime vite esplicitamente incentrate sull'esercizio dimostrano che è possibile compensare perfino le deformazioni esistenziali più ampiamente diffuse, benché a un prezzo che induce la maggior parte delle persone a preferire la propria condizione negativa. Non si tratta solamente della "paura di qualcosa dopo la morte", come dice Amleto, "that makes calamity o/ so long !ife" (Schlegel traduce: "che produce miseria per parecchi anni"), mal' esitazione ad abbandonare la miseria esercitata e accettata. Davanti alla scelta tra la deforma-

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zione subita per mano della realtà e le temute deformazioni provo" cate dalle pratiche ascetiche eseguite lege artis, la maggioranb ha sempre optato per la prima. Si è sempre preferito aspettare una comoda rivoluzione, la quale, si affermava, sarebbe giunta come un "evento". Si è tuttavia sempre elusa l'idea scomoda secondo la quale nulla si verifica, che non sia provocato da noi stessi.

CONTRO LA FAME L'evidenza storica ci dice che le più antiche pratiche ascetiche si svilupparono sul fronte della povertà: gli antichi maestri indiani del1'esercizio furono forse i primi a scoprire il principio del ritiro volon,. tario, mediante il quale il soggetto finisce, in un certo senso, sull' al~ tro versante della sofferenza. Già nel primo brahmanesimo sorge un estremismo della temperanza mosso dalla convinzione immaginaria che il metabolismo sia soltanto una delle illusioni con le quali Maya, colei che vela i sensi, mantiene l'uomo nella follia. Sviluppando la rinuncia al nutrimento ed elevandola a una tecnica somaticospirituale, tali figure trasformarono la fame in una libera azione di digiuno. Di una passività awilente costoro fecero un'azione ascetica. L'esautorazione della fame comportò immediatamente l'emancipazione dalla necessità di lavorare. Chi sceglie la temperanza si stacca dalla vita produttiva e conosce ormai soltanto esercizi. Le antiche culture dei monaci mendicanti in Asia ed Europa dimostrano che, per i contemporanei, la superiorità dello spirito rispetto alla vita ridotta ai minimi termini costituisce uno spettacolo che merita un sacrificio: l'elemosina era il biglietto d'ingresso nel teatro dei trionfi spirituali. Potremmo definire l'offerta data ai monaci un modo di cadere nell'inganno teso dai sacerdoti, ma la realtà psichica parla un'altra lingua. L'antica economia mendicante appartiene al regno della ricerca di sovranità anche per le persone più povere: chi non ha quasi nulla e tuttavia condivide anche il pasto più magro partecipa alle vittorie degli asceti sulla legge della scarsità. Nel caso di Francesco d'Assisi, la vittoria sulla fame veste i panni della relazione d'amor cortese con la signora povertà: alcuni europei, probabilmente i meno insensibili sul piano morale, rimangono ancora oggi impressionati da questa trasformazione di una miseria in allegoria galante. Ricordiamoci che, in Europa, perfino l'antico movimento operaio conobbe la prima sollevazione contro la dittatura della miseria. Sia facendo la fame sia mangiando, solidarietà ... 51?

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CON1ROILSOVRACCARICO Dobbiamo il secondo ampliamento della zona di sovranità ai primi atleti e ai loro precursori nell'ambiente dell'aristocrazia guerriera. Essi scoprono un modo per abrogare la legge del sovraccarico permanente alla quale obbedisce la stragrande maggioranza degli individui presenti nelle società divise in classi. Mentre la risposta normale alla cronica oppressione consiste in una combinazione di indurimenti e piccole evasioni, che prima o poi finiscono per esaurirsi, i guerrieri e gli atleti sviluppano una risposta contraria: conquistano gradi di libertà rispetto al carattere gravoso dell'esistenza, superando coerentemente la difficoltà attraverso qualcosa di ancor più difficile. Costoro mostrano che essersi profondamente affaticati non è un motivo sufficiente per non affaticarsi ancora di più. L'immagine di Eracle al bivio rappresenta la scena etica originaria dell'Europa: quest'eroe del saper-fare-qualcosa incarna interamente il principio per cui si diventa uomo scegliendo il cammino difficoltoso. A tal fine bisogna preferire lamara Arete alla dolce cattiveria. L'ironia atletica sposta i confini della gravosità in una dimensione incredibile: dove c'era "nessuno-può-riuscirci" subentra "io-posso". Anche questo allargamento di orizzonte del saper-fare sfocia presto nell'ambito generale. Nella volgare curiosità del pubblico in occasione di spettacoli sportivi e circensi si nasconde ancora una forma di solidarietà con gli attori dalle implicazioni assai rilevanti sul piano antropologico. Agli individui poveri psicologicamente e deboli sul piano della vitalità, gli atleti, come i digiunatori, portano un messaggio importantissimo: la migliore via d'uscita dalla spossatezza consiste nel raddoppiare la fatica. Anche chi non riesce a concepire l'idea di seguire alla lettera questa massima dovrebbe comunque sentirsi spronato. Che vi sia sempre spazio d'azione verso lalto è una tesi che riguarda tutti. · In questo contesto va formulata la prognosi sull'avvenire dello sport moderno. Come un Eracle collettivo, esso si trova al bivio. O lo sportivo funge ancora da testimone della capacità umana di compiere passi avanti fino al confine dell'impossibile, con imprevedibili effetti di contagio su tutti coloro che si godono il bello spettacolo, 151 oppure prosegue sulla strada già attualmente imboccata del151. Eccellente in proposito Hans Ulrich Gumbrecht, Lob des Sports, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007. La poeticità perduta del primo ciclismo rivive in Philippe Bordas, Forcenés, Fayard, Paris 2007.

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l'autodistruzione, sulla quale fan deboli di mente colmano di riconoscimenti di infimo livello star altrettanto labili: i primi ubriachi, le seconde dopate. In questo senso, è bene ricordare che già Euripide considerava un flagello lo scenario sportivo del IV secolo a.C., resosi autonomo nella sua decadenza. "Esistono evidentemente numerosi mali in Ellade, ma nessuno è peggiore del popolo degli atleti (athleton genous)." 152

CONTRO I BISOGNI SESSUALI Sul terzo fronte, gli attivisti si rivolgono alle tensioni pulsionali di tipo sessuale. Poiché, in molte culture antiche, specie in quelle caratterizzate da regole matrimoniali e parentali di stampo rigidamente patriarcale, la libido era di solito condannata a essere procrastinata a lungo (tra l'inizio della maturità sessuale e una possibile prassi sessuale legalizzata non di rado trascorrevano decenni), l'eros venne sperimentato da innumerevoli individui come un dilemma invivibile. Il dio fra tutti più amabile si rivelava per moltissime persone il più malvagio. Se si cedeva all'impulso, si finiva facilmente dal lato del disordine; se invece si resisteva, si era esposti a una permanente tortura dall'interno. In tal modo, la disperazione rispetto alla sessualità divenne una dimensione costante del disagio avvertito nel processo di civilizzazione. Gli istituti ampiamente diffusi che fungevano da valvole di sfogo, come la prostituzione, il concubinato, l'abreazione con gli schiavi, l'onanismo, le licenze per i più giovani, ecc. mitigavano quel disagio, ma non lo eliminavano. La risposta ascetica alla sfida posta dallà pulsione sessuale consisteva nel trasformare l'eccesso costante di spinta specifica in un élan non specifico orientato a mete superiori. Questo metodo, secondo una convenzione lessicale contemporanea, si chiama "sublimazione". Platone ha illustrato il suo schema di funzionamento, descrivendo lascala sulla quale il desiderio sensibile assurge a movente spirituale: da un bel corpo a un altro, dalla molteplicità dei bei corpi all'unicità del bello. Quest'ultimo si rivela, in definitiva, come il bene stesso, ma considerato dal lato che splende nella sfera dei sensi. La critica filosofica della sessualità rimprovera dunque, alle configurazioni ahi152. Stefan Miiller, Das Volk der Athleten. Untersuchungen zur Ideologie und Kritik des Sports in der griechisch-romischen Antike, Bochumer Altertumswissenschaftliches Colloquium, Trier 1995, p. 5.

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tuali di quest'ultima, di sabotare l'elevazione, sia quando non trova appagamento e genera una fissazione su fantasie frustranti sia quando viene appagata ma fa defluire l'energia psichica, che si esaurisce in un breve ciclo di tensione e distensione. La critica monastica della sessualità procede fin dall'inizio in maniera molto più violenta, denunciando il desiderio fisico come diabolico, ma anch'essa si pone il medesimo obiettivo: generare un desiderio infinito e mantenerlo alla giusta temperatura. Questo desiderio reso infinito, che riappare nella pudica metafisica del XX secolo con il nome di désir, teme più di tutto la ricaduta nella finitezza, con la quale finisce per ripresentarsi la tiepida prosa. In essa regnano le condizioni triviali dell' animo, la depressione, l'assenza di élan, nonché la banale eccedenza di impulsi, che non trova connessioni a programmi incentrati sul raggiungimento di una meta o sullo slancio in avanti. La psiche priva di slanci è incapace di sentirsi coinvolta da un assoluto, producendo quella tetraggine alla quale i primi abati diedero il nome di akedia, il demone meridiano che paralizza l'anima del monaco con un sentimento di indifferenza nei confronti di Dio e di tutte le altre cose. ~akedia figura nell'elenco dei sette peccati capitali in quanto "inerzia" o "pigrizia", e da chi la conosce viene temuta quasi più della superbia, la regina dei peccati. 153 Durante la Modernità il desiderio infinito si è separato dagli uomini. Si è spostato nel sistema economico, il quale produce la propria peculiare irrequietezza, mentre gli individui si convincono in misura crescente di non poter più osservare il perverso imperativo di desiderare e godere sempre più.

CONTRO IL POTERE E L'INIMICIZIA Sul quarto fronte, la rivolta ascetica elimina l'alienazione, dimostrando che l'uomo non è mai stato costretto ad avere un sovrano e un nemico. Il metodo di liberazione consiste anche in questo caso in un'esagerazione arbitraria (ma anche in un abbandono volontario) del male. ~asceta finisce per asservirsi a se stesso in maniera così radicale che nessun asservimento empirico può più turbarlo. Egli sceglie il proprio sovrano nelle altezze supreme, per affrancarsi da tutti i sovrani di second'ordine. Abramo si stacca dagli dèi visibili, professando il proprio Dio invisibile; il saggio cinico-stoico si 153. VediJosef Pieper, "Ùber Verzweiflung", in Werke in acht Biinden, cit., vol. 4, pp. 274 sgg.

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assoggetta alla legge del cosmo, che lo emancipa dagli arbitrari principi umani; il Cristo ironico consiglia di dare all'imperatore ciò eh~ è dell'imperatore, giacché la lealtà dei fedeli appartiene a Dio, ragion per cui la relazione con Cesare non può che essere un dettaglio esteriore. Paolo ricorda ai romani di essere stati servi del peccato in passato, ma di essere liberi adesso, in quanto servi della giustizia. 154 Egli stesso, in apertura della Lettera a Tito, si presenta come servo eletto di Dio e proprio per questo come uomo libero. Nelle discussioni moderne sul rule o/law risuona ancora il linguaggio dell'antico suprematismo, in base al quale esiste libertà solamente sotto la legge. La costrizione da parte dell'Altissimo degrada tutte le altre coazio~' ni a fattori di second'ordine. Il dominio dell'universale è un mezzo dell'ascesi contro il dominio del concreto. Di conseguenza, ogni serio universalismo presuppone un approccio ascetico alla sfera normativa. Chi intende avere universalismo senza lavoro di rinuncia, come se fosse un omnibus diretto verso l'eguaglianza, non ha capito nulla a proposito dei costi dell'elevata universalizzazione. Nello stesso tempo, l'asceta si emancipa dalla necessità di avere un nemico, scegliendo un nemico universale presente nella propria sfera interiore, nemico del quale, nel mondo esterno, possono darsi solamente proiezioni di seconda classe. Chi sa di avere dentro di sé il diavolo non ha più bisogno di un partner malvagio esterno. Di qui il suggerimento di porgere anche I' altra guancia; di qui l' avvertimento buddhista che il torturato non perda la compassione per il suo torturatore. L'ascesi morale strappa di mano al nemico il potere di obbligarci a ribattere. Chi oltrepassa il livello della reazione all'inimicizia dissolve il circulus vitiosus di violenza e controviolenza, ovviamente al prezzo di rimanere parte lesa. Nella Modernità, iperboli morali di questo tipo hanno ormai un pubblico ristretto, poiché le maggioranze rivendicano nuovamente la licenza di controbattere. La causa va ricercata soprattutto nel mutamento dell'umore di fondo: la psicopolitica antitimotica del cristianesimo, che per quasi due millenni aveva esortato l'inquisizione interiore a reprimere tutti i moti dell'orgoglio e dell'autoaffermazione, non trova più alcuna ragion d'essere nella moderna "società della performance" .155 Non dobbiamo però dimenticare che ogni sistema giuridico altamente sviluppato implica una riproduzione in scala ridotta dell'astinenza ascetica dalla reazione diretta, perché 154. Lettera ai Romani 6,17-18. 155. Vedi Peter Sloterdijk, Ira e tempo, cit.

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impone alla parte lesa di cercare un risarcimento per le vie lunghe, che passano dalla sentenza emessa da un soggetto terzo, formulata secondo determinate procedure.

CONTRO L'INELUTTABILITÀ DELLA MORTE Sul quinto fronte, gli eroi della distinzione etica mettono mano alla morte, trasferendola dalla sfera del dovere astratto e fatale in quella del saper-fare individuale. Essi eliminano quel terrorismo della natura, al quale i mortali sono assoggettati da tempo immemorabile. Ciò non deve spingersi fino a tradurre l'idea di immortalità in termini fisicalistici, come avviene in Paolo, nei biocosmisti russi156 e attualmente nei tecnognostici americani, la cui ambizione è quella di ricondurre la teologia alla fisica. 157 La metamorfosi del dovere in saper-fare presuppone un'idea forte di continuità, che sottoponga il confine morte-vita a una grande tensione: lo si deduce dalle due maggiori scene funebri dell'Europa antica, la morte di Socrate e quella di GesÙ. 158 Dimostrando di morire serenamente, la conclusione della vita trapassa in modo esemplare in un ordine simbolico dotato di un marcato senso della continuità, come se il "trapasso" non fosse altro che un diverso stato di aggregazione. Morire in modo competente e accurato costituisce una rivolta diretta contro la dipartita da bestie, che secondo Giobbe rappresentava comunque il destino dell'essere umano. Una morte simile contrasta inoltre con quell'essere ammazzati in modo asettico, di cui è pieno il mondo omerico: quest'ultimo tracima inoltre di morti di seconda classe, che rimangono senza gloria, per cadere preda di cani e avvoltoi, mentre Achille, assassino senza pari, trova collocazione nella memoria ellenica. Nel cristianesimo, la morte oggetto di cura simbolica estende la funzione memorizzante ai salvati, i quali, all'interno di una memoria divina, non vengono dimenticati e quindi sono immortali. Possiamo descrivere il lavoro compiuto dagli asceti sul contt'nuum vita-morte come un'accumulazione originaria di energie civilizzatrici, la quale permette di inserire anche la necessità più estrema all'interno dell'ordine simbolico. Una traccia moderna di questa civilizzazione è presente nel movimento per la libera morte, in fase di 156. Vedi supra, pp. 485 sgg. 157. Vedi FrankJ. Tipler, La fisica dell'immortalità: Dio, la cosmologia e la risurrezione dei morti, tr. it. Mondadori, Milano 1996. 158. Vedi supra, pp. 246-252. ') 17

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espansione in Occidente. Esso ha pragmaticamente smontato I'esuberanza metafisica dell' ars moriendi ascetica, prendendo le mosse dall'evidenza, ormai ampiamente garantita, che spetti sempre all'uomo vivere la propria fine in forme culturalmente definite. I buoni argomenti addotti dai movimenti che attualmente si battono a favore di una morte dignitosa mirano a rompere lalleanza tra una religione reazionaria e una medicina progressista basata sull'uso di apparecchi, le quali ormai, normalmente, non consentono neppure di crepare nel modo migliore. Al posto di questa alleanza dovrebbe diffondersi, anche tra i non asceti, la conquista ottenuta dalle culture ascetiche: l'inserimento della morte in un saper-fare condiviso.

L'EREDITÀ POSTMETAFISICA DELLA RIVOLTA METAFISICA Guardare alle rivolte ascetiche contro il principio di realtà che caratterizzarono l'Età del Ferro permette di determinare in maniera più chiara ciò che chiamo la de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche. Questo fenomeno connota buona parte del tragitto percorso dalla Modernità, nella misura in cui quest'epoca è stata caratterizzata dall'appianamento pragmatico degli slanci metafisici. Tale processo relega gli eccessi nella sfera artistica e compie inoltre quella metamorfosi che Gotthard Giinther definisce come passaggio "dalla verità del pensiero al pragmatismo dell'agire" .159 In questo senso, la Modernità rappresenta un solido programma che sostituisce la secessione etica. Il suo presupposto consiste nel dimostrare che, sui cinque fronti dell'antica miseria, si può ottenere la vittoria anche con altri mezzi rispetto a quelli con cui avevano combattuto gli eroi dell'esercizio nelle epoche antiche. Questo è lo slogan impiegato dai pansofisti del Rinascimento e dai pionieri del pensiero scientifico all'inizio dell'età moderna: "Gli uomini possono fare tutto da soli, sempre che lo vogliano". Costoro inaugurarono I'epoca postmiserabilistica, che per la stessa ragione è anche un'epoca postmetafisica, visto che affronta le necessità esistenziali con risposte intramondane. Pensare ed agire in modo postmetafisico significa superare i gravami dell'antica condicio humana con laiuto della tecnica e senza programmi ascetici estremi. Nell'epoca moderna, gli atleti sono gli unici asceti da cui ci aspettiamo vittorie autentiche, 159. Gotthard Giinther, Die amerikanische Apokalypse, cit., pp. 277 sgg.

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mentre i vincitori spirituali sull'antica condicio humana sono stati privati della loro autorità dalla cultura del sospetto. Oggigiorno, chi sentisse parlare un roveto ardente dopo quaranta giorni trascorsi nel deserto verrebbe classificato come vittima di un episodio psichedelico. Chi intendesse trascendere la sessualità senza averla mai conosciuta finirebbe certamente per farsi diagnosticare una nevrosi. E i moderni studiosi di religioni considererebbero il Buddha Amida, che si rivela ai monaci giapponesi dopo una veglia di cento notti, più che altro come un effetto psicosemantico locale. Per via del suo design egualitario, la Modernità si sente costretta a riformulare tutte le verità, alle quali fino a quel momento avevano avuto accesso solamente i pochi, in verità per i molti, ignorando il residuo intraducibile. In tal modo, il terreno sotto i piedi viene sottratto all'estremismo ascetico praticato, ma viene legittimamente fornito alle sue tendenze di fondo: in effetti, quel che conta è contrapporre alla definizione di miseria vigente nella realtà dell'epoca agroimperiale una forte antitesi, tanto meglio se adesso è possibile articolarla anche con mezzi non metafisici e non eroici. Le traduzioni avvengono immancabilmente dopo la cesura tecnica dell'epoca moderna. Il principio della loro riuscita è illustrato dal fatto che, nel corso degli ultimi trecento anni, è stato avviato un inedito ciclo didattico con finalità civilizzanti, attraverso il quale sono radicalmente cambiate, e non cessano di cambiare, le leggi che connotavano l'esistenza nell'Età del Ferro. Talvolta esso ha procurato potere politico al sogno di ritornare all'Età dell'Oro o di restaurare il paradiso, e sebbene non si sia mai potuto parlare di un avveramento del sogno, la tendenza a sognare, in quanto tale, offre già preziose informazioni sull'umore di fondo dell'era contemporanea. Essa si fonda sull'intuizione che il principio di realtà sia diventato un plasma malleabile. Il massimalismo comunista, che non intendeva ottenere un risultato inferiore alla suprema restaurazione, ha perduto la sua plausibilità psicologica: continua ormai a vivere indirettamente nell'odio che gira a vuoto, quell'odio che gli ex radicali e i loro imitatori di terza e quarta generazione contrappongono alle attuali condizioni mitigate. Nonostante ciò, l'idea di recuperare la seconda posizione in classifica possiede ancora un grande fascino pratico. In effetti, nella seconda metà del xx secolo, europei e americani si sono catapultati, per esprimermi con i concetti di Esiodo, in una nuova Età dell'Argento. Per la maggior parte delle persone, essi hanno creato, all'interno del Crystal Palace, condizioni di vita che si distinguono non in misura graduale, ma epocale, o meglio, eonica, da

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tutto ciò che si è visto fino a pochi secoli fa. Richiamo ancora una volta la Rivoluzione d'ottobre del 1846, la data epocale nella storia del" dolore. 160 Va rammentata inoltre la de-agrarizzazione della vita economica e con essa l'abbandono dell' "idiotismo della vita rustica" .161 Agli occhi dello storico, non c'è ombra di dubbio che pressoché tutti gli abitanti del palazzo di cristallo, almeno sotto il profilo materiale e infrastrutturale, godano di miglioramenti senza precedenti delle loro condizioni di vita, 162 un fatto che viene integrato e conferma-' to dalla fioritura, anch'essa senza precedenti, di una cultura incentrata sulla richiesta continua. La spirale di rassegnazione che caratterizzava l'Età del Ferro si è rovesciata, commutandosi in una spirale del desiderio ascensionale. In questa situazione, la filosofia perde il suo mandato, quello cioè di trascendere verso l'alto il mondo statico della miseria, un mandato che essa ha amministrato per duemila anni, fungendo da ala teorica della distinzione etica. Essa si trasforma in un consulente incaricato di illustrare il vantaggio derivante dal non vivere più nell'Età del Ferro. Diventa uno studio di traduzione, che trasforma il sapere eroico in sapere civile. Per il residuo esoterico, garantisce con il suo stesso patrimonio.

APOLOGIA DELLA SECONDA ETÀ DELL'ARGENTO Durante gli ultimi decenni, è stato Richard Rorty colui che si è impegnato in questo lavoro di traduzione con più coerenza ed empatia, empatia soprattutto perché, nonostante la sua posizione, ispirata daJohn Dewey, favorevole alla precedenza della democrazia rispetto alla filosofia, non ha mai nascosto il proprio interesse per gli eccessi del pensiero eroico, che egli chiama anche pensiero romantico o ispiratore. Ciò che colloca l'americano Rorty nell'alveo delle migliori tradizioni della filosofia barocca europea, e dell'Illuminismo britannico, francese e tedesco, è la sua perdurante fedeltà all'idea della riforma del mondo, una fedeltà che si manifesta nei termini più anacronistici e più stimolanti nel suo libro dedicato alla riforma dell' America. 163 Accanto a Hans J onas, Rorty è stato l'uni160. Vedi supra, p. 465. 161. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1992, parte prima, p. 10. 162. Vedi Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., 2006, pp. 266 sgg. 163. Richard Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. I} eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, tr. it. Garzanti, Milano 1999.

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co pensatore degli ultimi cinquant'anni dal quale si possa capire per quale ragione un filosofo all'apice del tempo debba avere il coraggio della semplicità: soltanto con un linguaggio privo di gerghi è possibile discutere con i contemporanei del perché noi, membri della civiltà moderna, non siamo evidentemente arrivati all'Età dell'Oro, ma non possiamo più nemmeno considerarci cittadini dell'Età del Ferro. Discutendo di questo tema, filosofia e non filosofia finiscono per coincidere, mentre le tesi di filosofia della storia si mescolano alle intuizioni quotidiane. Bisogna contraddire con una lingua intermedia gli ampollosi conservatori che continuano a impiegare l'idioma in uso nell'Età del Ferro, come se niente fosse accaduto.164 Sullo stesso registro bisogna affrontare, a livello locale, gli ideologi della sinistra radicale, ancora virulenti, i quali, pervia della delusione subentrata in seguito al fallito'' ritorno all'Età dell'Oro, fanno di tutto per denigrare l'Età dell'Argento in quanto farsa. Solamente in una simile discussione è possibile ripetere il contenuto intelligente del discorso, esposto in termini un po' eccessivi e difeso in modo ancor più eccessivo, sulla "fine della storia" dopo il crollo dell'Unione Sovietica. 165 La fine della storia è una metafora per descrivere la perdita di vigenza del principio di realtà dominante nell'Età del Ferro, in seguito ai provvedimenti non-eroici contro le cinque miserie. Fra essi vanno enumerati: la riconversione della politica industriale dalla scarsità alla sovraofferta; la divisione del lavoro tra recordman e individui dalle prestazioni modeste, sia nell'economia sia nello sport; la deregolamentazione generalizzata della sessualità; il passaggio alla cultura di massa senza padroni e alla politica di cooperazione senza nemici; gli approcci a una thanatologia posteroica. Nessuno di questi provvedimenti è senza macchia, nessuno di essi può sollevarsi del tutto dal livello del male minore; per certi aspetti essi vengono addirittura percepiti come mali maggiori di nuovo ti164. Ciò vale per tutti gli autori delle varie rivoluzioni conservatrici del XX secolo: come ultimissimo esempio di questa tendenza vedi il trattato bellicistico del neoconservatore americano Robert D. Kaplan, Warrior Politics. Why Leadership Demands a Pagan Ethos, Vintage, New York 2002. 165. Con questo linguaggio Rorty ha formulato il manifesto più intenso della fine del xx secolo in favore di un Rinascimento dell'idea di riforma del mondo dalle fonti della religione civile americana dopo Whitman e Dewey: vedi Una sinistra per il prossimo secolo. J; eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, cit. Dopo le devastazioni provocate dall'l l settembre nel campo discorsivo americano e del resto del mondo, il documento non ebbe più alcuna possibilità di ricezione. Oggi lo si legge come un'utopia liberale proveniente da un'epoca lontana, e se l' avvento dell'era Obama possa donargli nuove opportunità resta ancora da vedere.

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po. Per questa ragione, innumerevoli abitanti della seconda Età del-ì l'Argento, la quale non capisce se stessa, sono inclini a parlare ma-' le della nuova condizione. In molti punti, ciò che chiamiamo Postmodernità altro non è che lo sfruttamento mediatico del disagio de- , rivante dall'occupare la seconda posizione in classifica, con tutti i rischi che toccano ai pessimismi di lusso. La questione fatale è la seguente: riusciremo a stabilizzare gli standard tipici dell'Età dell' Argento, comparsa in modo episodico, oppure siamo davanti alla ricaduta in un'Età del Ferro, della cui imminenza sono convinti vecchi e nuovi realisti, i quali non da ultimo ricordano che più di due terzi dell'umanità non ne sono mai usciti? Una simile ricaduta non sarebbe un destino, ma una conseguenza di reazioni intenzionali contro i paradossi dell'esistenza a livello subottimale. La decisione sull'ulteriore corso delle cose dipende dal fatto che il contesto di apprendimento della Modernità possa essere ampliato attraverso tutte le crisi tecniche, politiche, economiche, culturali, epistemologiche e sanitarie, fino a raggiungere una continuità sufficientemente stabile del sapere incentrato sul miglioramento e del saper-fare incentrato sull'ottimizzazione. Quanto poco sia compreso questo continuum, si deduce dalla circostanza che la storia delle idee del XIX e xx secolo ha prodotto una serie infinita di insurrezioni guidate dall'ostilità verso la civilizzazione e dal risentimento antitecnico, non importa se condotte in nome della fede, dell'anima, della vita, dell'arte, dell'etnia, dell'identità culturale o della varietà della specie. Queste esplosioni rappresentarono delle sospensioni dell'allenamento, che causarono gravi danni al fitness della Modernità. Il pericolo di nuove sospensioni non è scongiurato, come dimostra l'onnipresenza dei fondamentalismi rossi, bruni, neri e verdi. Il "discorso della Modernità", non solo quello filosofico, richiede un continuo chiarimento dell'agenda e il rigetto di piani di apprendimento sbagliati. Ogni generazione deve scegliere tra escapismi e forme capaci di generare tradizione. Anche soltanto per assicurare la possibilità di un'effettiva continuità dell'apprendimento, è indispensabile un intenso filtraggio della produzione contemporanea di idee, un compito che in passato veniva affidato alla "critica", nel frattempo del tutto privata del proprio nocciolo. Al posto della critica subentra una teoria affermativa della civilizzazione, poggiante su una Immunologia generale. 166

166. Vedi infra, pp. 553 sgg.

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IL LAVORO SUL CANONE IN EPOCA MODERNA Più di qualunque altra forma precedente di civilizzazione, la Modernità è incaricata di setacciare ciò che è degno di essere trasmesso e di abbreviare gli sviluppi maladattativi, per quanto i necessari moniti possano essere percepiti come interventi repressivi dagli attori di una generazione che si bea degli sviluppi espressivi indesiderati. Permettersi di bearsi dei maladattamenti di breve durata, inoltre, costituisce una buona parte dello stimolo che muove i moderni modi di vivere. Tale liceità definisce il loro aroma di libertà e assenza di conseguenze, e libera il presente dall'onere di creare modelli: non per nulla la Modernità è l'Eldorado dei movimenti giovanili. La loro grande tentazione consiste nell'eliminare lavvenire con la scusa di essere l'avvenire. Chi si limita a considerare stili di vita riguardanti persone della "stessa età" non serve che si preoccupi di escogitare mediazioni esemplari nei processi riguardanti persone di varie età. 167 Poiché, in condizioni liberali, anche forme evidentemente maladattive tendono a riprodursi e a ricomparire nelle generazioni successive, è importante per il processo di civilizzazione musealizzare quanto prima simili varianti, al limite entro una generazione dopo la dipartita dei protagonisti. 168 In effetti, una delle funzioni più rilevanti del moderno archivio culturale è quella di rendere superfluo l'indice delle opere d'arte e dei libri proibiti, indice ormai diventato controproducente. L' archivio custodisce misericordiosamente e per sempre tutti gli errori importanti e interessanti, tutti i progetti senza futuro e tutti i tentativi irripetibili. 169 Le sue collezioni vengono reclutate rigorosamente fuori da quel canone con cui continua a lavorare il processo reale delle 167. I: antitesi tra stessa-età e varie-età è alla base degli studi di Eugen Rosenstock-Huessy nel campo della sociologia e della filosofia del linguaggio. 168. In questo contesto è assai importante la presa di distanza critica compiuta nei suoi scritti da Peter Weibel rispetto all' azionismo viennese e alla cultura della droga degli anni Sessanta e Settanta: essa abolisce l'assiomatica della sel/ish art. Tra gli esponenti della storia dell'arte regna finora una perplessità, prevalentemente incentrata su un gergo forte, rispetto al trionfo dell'arte maladattiva. Nello stesso tempo, lenorme ceuvre di Bazon Brock attende ancora di essere scoperta: egli sembra essere l'unico artista e teorico dell'arte contemporaneo ad aver concettualizzato, su un piano di immanenza artistica, la necessità di ricivilizzare larte. 169. Vedi Il'ja e Emilia Kabakov, Katalog zur Ausstellung der Grofiinstallation "Palast der Projekte" in der Kokerei Zollverein Essen, 2001, nel quale, sotto le tre rubriche "Come è possibile migliorare se stessi?", "Come si può migliorare il mondo?" e "Come si stimola la nascita di progetti?", si fa ironicamente il bilancio della Modernità utopica in 65 singoli progetti.

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generazioni. In caso contrario, la custodia museale rischierebbe di essere scambiata per esemplarità a vantaggio dei posteri, ossia l' errore preferito degli artisti contemporanei: essi considerano il museo pubblico, dopo l'esaurimento dei movimenti museoclastici, come , una collezione di opere normative e ignorano la sua nuova funzio2 ne di stazione terminale per le singolarità, vale a dire, di deposito per le produzioni non omologabili e non ripetibili. Essi sbagliano irioltre nel valutare la funzione delle collezioni private, che negli ultimi tempi ha finito per consistere uniqmente nel togliere dalla circolazione opere pseudotrascendenti. Inoltre, la paralisi che oggi afferra le cosiddette scienze dello spirito va ricondotta al fatto che i suoi attori si sono ridotti, nella maggioranza dei casi, a osservatori liberamente fluttuanti dentro l'archivio (Rorty li chiama, in tono leggermente sprezzante, detached cosmopolitan spectators), abbandonando al caso o al fanatismo il lavoro programmatico orientato alla formazione di un codice di civilizzazione per l'avvenire.

RIPETIZIONI MALIGNE I: LA CULTURA DEI LAGER Allacciandomi a queste considerazioni, desidero richiamare alcuni fenomeni maladattivi, che hanno influenzato il processo di civilizzazione del xx secolo. Da una prospettiva odierna, essi vanno letti come sintomi del trionfo della ripetizione maligna nelle sequenze contemporanee della tradizione, e rappresentano perciò casi di eccezione per una scienza della "cultura" orientata all'intervento: parlerò anzitutto (collegandomi alle riflessioni sviluppate nel capitolo precedente) della cultura dell'omicidio politico nella politica pseudometanoica del XX secolo; in seguito, dell'indebolimento del fattore imitativo nella pedagogia contemporanea; infine, del rifiuto illusorio dell'imitazione nell'estetica moderna. Per quanto concerne l'esteriorizzazione della metanoia nelle politiche rivoluzionarie del XX secolo, non ho molto da aggiungere alle esposizioni riguardanti la biopolitica del bolscevismo. Il tentativo di imporre, mediante provvedimenti tecnopolitici applicati a grandi collettivi, ciò che in passato era pressoché impossibile da ottenere perfino attraverso gli esercizi ascetici estremi di individui altamente motivati condusse inevitabilmente a una politica della strumentalità assoluta. Poiché, nei propositi caratterizzati da questo livello di ambizione, era consigliabile utilizzare, in quanto strumento per eccellenza, lo sterminio dei contemporanei inerti, nella prima

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metà del XX secolo vide la luce la forma storicamente inedita di una cultura maladattiva: la cultura dei Lager. 17°Con il pretesto della rieducazione essa servì alla repressione, con il pretesto del lavoro essa servì all'annientamento e infine, senza pretesti, servì allo sterminio. All'inizio si esita a utilizzare il concetto di "cultura" per simili fenomeni. Se però si tengono presenti l'ampiezza degli universilageristici, le loro premesse ideologiche, il loro costo logistico, i loro presupposti personali, le loro implicazioni morali, le loro conseguenze creatrici di habitus e gli effetti psichici collaterali prodotti sui gestori dei Lager,1 71 non possiamo evitare di usare il termine "cultura" anche per queste mostruosità, oggetti di apprendimento a livello quasi professionale e ancorate in routine. Di primo acchito, si tende a ipotizzare che le cose non fossero approntate in modo tale da garantire alle norme del Lager la capacità di tramandarsi a lungo termine. È tuttavia incontestabile il dato di fatto che, durante la maggior parte del xx secolo, sia esistita una cultura imprenditoriale dell'internamento, della discriminazione e dell'annientamento, durata assai più a lungo di quanto si sarebbé mai ritenuto possibile prendendo le mosse da premesse legate alla morale o alla teoria della cultura. In Unione Sovietica e in Cina, il crimine organizzato dal partito di Stato rivoluzionario raggiunse lo stadio weberiano, ossia il passaggio dallo stato di eccezione alla burocratizzazione. Una svolta maladattiva di tale portata temporale si può semmai individuare nei modi di vivere vigenti nelle Corti dei Miracoli parigine del XVII e XVIII secolo, quei contromondi di ladri, mendicanti e zingari, che i romanzi del XIX secolo (soprattutto Notre-Dame de Parzs di Victor Hugo) resero immortali: anche in quegli universi si produsse una sorta di stabile controcultura della perversione dotata della capacità di generare vera e propria tradizione. Essa costituì una cultura parallela sorta dalla miseria degli abitanti poveri delle metropoli. Al contrario, la cultura lageristica del xx secolo, operante sul lungo periodo, è esclusivamente opera degli Stati pseudometanoici che si sono richiamati alla Rivoluzione francese e hanno accettato la santificazione giacobina del terrore. 170. Giorgio Agamben, Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. 171. Harry Graf Kessler annota nei suoi diari le osservazioni formulate da Andrea Caffi, il corrispondente del Corriere della Sera, nel dicembre 1931: "Nessun boia bolscevico è mai riuscito a resistere per più di due anni. [. .. ] Sarebbero passati per tutti gli istituti psichiatrici: i sanatori sulla costa della Crimea sono pieni di carnefici usciti pazzi" (Harry Graf Kessler, Tagebucher 1918-193 7, a cura di Wolfgang Pfeiffer-Belli, lnsel, Frankfurt a.M. 1982, p. 689).

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La data di nascita dello sterminismo moderno come forma d'impresa e istituzione è determinabile con precisione. Coincide con i decreti sul Terrore rosso varati da Lenin il 5 settembre 1918, nei quali si dice expressis verbis che bisogna recludere i nemici del sistema sovietico in Lager di concentramento, per eliminarli poco per volta. Questa misura, intesa nei primi anni come provvisoria, venne mantenuta in forme massicce fino agli anni Cinquanta, in versio- , ni più mitigate fino agli anni Ottanta del xx secolo, nell'ultimo periodo con la collaborazione della psichiatria sovietica, la quale si basava sull'assioma per cui, nell'insoddisfazione per i modi di vivere offerti dal socialismo reale, andava visto il sintomo di una grave malattia mentale. Il quadro offerto dalle date parla chiaro: l'universo lageristico del nazionalsocialismo è durato dodici anni scarsi, mentre quello sovietico quasi settanta e quello maoista almeno quaranta, con una lunga appendice nel sistema carcerario del capitalismo autoritario cinese di marca attuale. Ciò significa che lo sterminismo sovietico è riuscito a clonarsi fino alla terza generazione e il maosimo fino alla seconda, benché proiettando la sua ombra fino a oggi: il sistema del laogai, alla lettera: la rieducazione mediante il lavoro, ha coinvolto più di 50 milioni di individui, dei quali più di un terzo è stato eliminato. All' antifascismo di tutte le tinte dobbiamo gratitudine per l'ostinazione con cui ha messo alla berlina le mostruosità iper-maladattive dello Stato nazista, in particolare l'olocausto, questa sintesi di Amok e routine. Resta rimarchevole, però, l'asimmetria nello "sbrigare" questo lavoro: gli "antifascisti" di orientamento sovietico e maoista hanno sempre evitato di spiegare che cosa li inducesse a trattare in maniera assai più discreta gli eccessi, di gran lunga maggiori sul piano quantitativo, commessi nei Lager del loro campo di appartenenza. Fino a oggi, la conoscenza delle proporzioni da essi raggiunte è poco diffusa, nonostante Solzenicyn, nonostante Jung Chang, nonostante il Libro nero del comunismo. Mentre la negazione dei crimini nazisti in alcuni Paesi è giustamente trattata come fattispecie punibile, i misfatti dell'arcipelago marxista vengono ancora considerati, in alcuni ambienti, come trasgressioni perdonabili della storia. Da quanto detto si comprende dunque che non sempre le menzogne hanno le gambe corte. Se forme maladattive in scala così grande sono riuscite a plasmare una seconda e una terza generazione, le loro gambe sono più lunghe di quelle attribuite alla menzogna normale. Per quale ragione si siano potute allungare così tanto è un te-

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ma che merita una riflessione specifica, la quale non concerne solamente le leggi peculiari delle formazioni statali dittatoriali, che tendono a diventare delle clausure a livello abnorme, ma anche i fondamenti del modernismo: con esso si è manifestata, con un' asprezza fino a quel momento sconosciuta, quella distanza, nota fin dagli stadi più antichi della civiltà, tra il successo demoralizzante e l' esemplarità legittima. Se un pensatore del calibro di Sartre decise di sottacere, fino agli anni Cinquanta inoltrati, le condizioni dell'universo lageristico sovietico, pur conoscendone l'origine, la dimensione e le conseguenze, anzi, se si spinse così lontano da denunciare come falsi lacchè della borghesia i critici occidentali dei Lager (fra cui Albert Camus), allora risulta evidente in che modo la massima anomalia maladattiva comparsa nella storia politica dell'umanità sia riuscita a oscurare la facoltà di giudicare di eminenti intellettuali. L'informazione essenziale, da una prospettiva di teoria della cultura, emerge dal conto degli anni: la decisione sartriana ditacere accompagnò l'ingresso della cultura lageristica sovietica nella terza generazione. Egli sostenne un "prowedimento" durante la sua perversa transizione a istituzione. Se mettiamo in luce questo incontestabile senso, o senso secondario, della massima sartriana per cui egli sarebbe stato "compagno di viaggio" del comunismo, non si può certo negare che, con la sua persona, la quale sembrò incarnare l'oracolo morale della sua generazione, fosse entrato in scena l' archetipo del falso maestro, sebbene tra i cultori della memoria critica si preferisca discutere della persona di Heidegger. Per alcuni aspetti, Heidegger potrà esser stato un falso maestro contro la Modernità; ma il tardo Sartre fu il falso maestro per eccellenza a favore della Modernità. 172 Soltanto nel quadro di una musealizzazione rigorosa va compiuta, rispetto ad autori di questo rango, la distinzione tra grandezza ed esemplarità.

RIPETIZIONI MALIGNE II: L'EROSIONE DELLA SCUOLA Quanto al degrado della cultura dell'esercizio e della coscienza della disciplina nella pedagogia della seconda metà del XX secolo, siamo di fronte all'ultimo capitolo nella lunga storia di cooperazio172. Vedi lo studio di Luuk van Middelaar, Politicide. De moord op de politiek in de Fransefiloso/ie, Van Gennep, Amsterdam 1999, in cui a Sartre e alla maggior parte dei filosofi francesi viene rimproverato di aver fornito appoggio alla distruzione della ragione politica.

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ne antagonistica tra lo Stato moderno e la scuola moderna. Ho mostrato in che modo la liaison e il contrasto tra semantica statale e sematica scolastica abbiano inevitabilmente provocato in Europa, al- 1 meno fin dal XVII secolo, una cronica tensione tra "sistemi parziali"< reciprocamente differenziantisi. Se la classica pretesa rivolta dallo Stato alla scuola, ossia di fornire cittadini utilizzabili, viene tradotta dalla scuola nel compito di formare personalità autonome, si instaura fin dal principio un permanente attrito, da un lato come disfunzione creativa, dall'altro come fonte di croniche delusioni. In sintesi, è lecito constatare quanto segue: l'alta cultura borghese è sorta quando l'umanesimo scolarizzato ha travalicato il compito educativo assegnatogli dallo Stato.m Si può addirittura parlare di una/elix culpa commessa dal più antico sistema educativo borghese: esso fornì ai suoi allievi più dotati una quantità di temi culturali infinitamente maggiore di quella che sarebbe loro servita in seguito, nello svolgimento delle loro funzioni civili. In questo contesto, può essere utile ricordare che alcuni dei massimi fenomeni di esuberanza spirituale nella storia del pensiero contemporaneo, Johann Gottlieb Fichte in quanto inventore della teoria dell'alienazione, e Friedrich Nietzsche in quanto modernizzatore dell'idea cristiana di superuomo, frequentarono la stessa scuola, il liceo Pforta, presso N aumburg, in Turingia, che a quel tempo era considerato uno dei ginnasi più severi della Germania: Fichte vi studiò dal 1774 al 1780174 e Nietzsche dal 1858 al 1864. Non penso sia necessario illustrare in che modo il Tiibinger Stift abbia adempiuto il suo incarico educativo nei confronti degli allievi Holderlin, Hegel e Schelling. Quale profonda impronta abbiano lasciato nello scolaro Karl Marx, anno di maturità 1835, gli anni trascorsi al ginnasio di Treviri, ex Collegio gesuitico della Trinità, è una questione alla quale la storiografia rivoluzionaria ha preferito rispondere con informazioni piuttosto scarse. 175 Nell'ultima fase della storia scolastica, il maladattamento creativo della scuola classica si è tramutato, in molti luoghi, in un maladattamento maligno, il quale può essere definito moderno nella misura in cui deriva da un turbamento epocale delle funzioni esemplari e dal 173. Vedi supra, pp. 427 sgg. 174. Vedi Stefano Bacin, Fichte in Schulpforta (1774-1780): contesto e materiall con la traduzione di]. G. Fichte, ''Discorso sul corretto uso delle regole della poesia e della retorica" (1780), tr. it. Guerini e Associati, Milano 2003. 175. Sui surplus socialidealistici del sistema universitario tedesco nel XIX secolo vedi Matthias Steinbach, Okonomisten, Philanthropen, Humanitiire: Pro/essorensozialismus in der akademischen Provinz, Metropol, Berlin 2008.

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degrado, a esso strettamente associato, della coscienza dell'esercizio. Di conseguenza, la scuola si avvicina a un punto di doppia implosione, han riuscendo più a sfornare né cittadini né personalità. Essa si approssima a una condizione al di là dell'omologazione e della produzione di eccedenze, che trascura ogni aspetto di utilità diretta e di creazione di effetti indiretti. Un anno dopo l'altro, essa sforna coorti di studenti sempre più disorientati, nelle quali si osserva con sempre maggiore chiarezza l'adattamento a un sistema scolastico ormai orientato in senso maladattivo, senza che si possa imputare la benché minima colpa al singolo insegnante o al singolo studente. Entrambi sono uniti in un'ecumene del disorientamento, un fenomeno senza pari nella storia, sempre che non si voglia risalire alla lunga notte dell'istruzione tra il crollo del sistema scolastico romano nel V secolo e la rinascita di una cultura scolastica cristiano-umanistica nell'vrn secolo, a seguito delle riforme alcuino-carolinge. Per diagnosticare il malessere, bisognerebbe mostrare en détail in che modo la scuola attuale prenda parte a quel processo che Niklas Luhmann chiama differenziazione (Ausdi/ferenzierung) dei sistemi parziali. Differenziazione significa l'instaurazione di strutture organizzate in senso rigorosamente autoreferenziale all'interno di un sistema parziale o di un "campo della prassi", in termini evoluzionistici: l'istituzionalizzazione del sel/ishness ("egotismo"). Luhmann diede un ingegnoso impulso mostrando in che modo la crescita della capacità performante di sistemi parziali della "società" moderna, siano essi relativi a politica, economia, diritto, scienza, arte, chiesa, sport, pedagogia o sanità, dipenda dall'aumento costante della loro autoreferenzialità, fino a inarcarsi nella condizione di perfetta chiusura autoreferenziale. Nell'ottica della teoria morale, ciò implica la trasformazione del sel/ishness, sviluppato sul piano dei sistemi parziali, in una virtù regionale. Per quanto concerne la critica della "società", ne consegue che, alla protesta inerme contro il cinismo del potere, subentra un illuminismo sistemico, vale a dire: una chiarificazione dell'illuminismo. La trasvalutazione dei valori condizionata a livello sistemico presuppone che la preferenza concessa a se stessi non sia più da considerarsi diabolica, un processo che si può osservare negli scritti dei moralisti europei tra XVII e XIX secolo. 176 Non stupisce dunque in176. Niklas Luhmann, "Am Anfang war kein Unrecht", in Gesellscha/t und Se-

mantik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, voi. 3.

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contrare, al centro di ogni sistema parziale, una perversione neutralizzata. Perversa è considerata non soltanto la deviazione offensiva dalla norma morale da parte dell'individuo "empio", ma appare ancor più perversa la franchezza con cui si ammette che il sistema subordinato poggia, in definitiva, unicamente su se stesso, e non sui suoi possibili mandati nel quadro più generale. 177 Per questa ragid,ne, esiste una stretta connessione tra cinismo e perversione: il cinismo, essendo una falsa coscienza illuminata, dice almeno la verità sul falso, nella misura in cui spinge l'immoralità a non dissimularsi. In origine, l'avvento della non dissimulazione (l' aletheia dei sistemi) si ebbe nell'ambito della politica, quando Machiavelli svelò le leggi peculiari dell'agire politico e ne suggerì l'emancipazione (per molto tempo avvertita come fenomeno immorale) dalla morale generale. Alla politica seguì poi la teoria economica, fin dalla comparsa della produzione per mezzo delle macchine nel tardo XVIII secolo. Già i primi liberali come Mandeville e Adam Smith compresero che prima di tutto veniva l'ammortamento, poi la morale. Il sistema industriale riconobbe apertamente che il proprio compito consisteva nel portare profitti ai propri gestori, affinché riuscissero a pagare i propri crediti, a operare nuovi investimenti e a sopportare i costi salariali. In sintesi, il fattore "sociale" può essere contemplato, dal punto di vista interno al sistema, soltanto al di là dei calcoli degli effetti collaterali. L'argomento secondo il quale l'economia avrebbe per il nostro mondo la massima utilità se si concentrasse su ciò che può fare nel modo migliore, ossia generare profitti, è decisamente corretto: ciò nonostante, tale argomento non riesce a superare il livello di scarsa plausibilità perché, con l'evidente successo di una sola parte, cresce l'evidenza opposta: che il sel/ishness del sistema economico ignora un numero troppo alto di interessi diversi, non importa che siano o meno descritti come quelli del tutto. Naturalmente, i restanti sistemi parziali sono costretti, in misura molto più accentuata, a occultare i loro sel/ishness e a legittimarsi con vaghe retoriche olistiche. 178 Ciò non cambia affatto la loro evo177. Le relazioni tra la teoria della perversione di orientamento psicoanalitico e quella di orientamento sistemico sono poco chiare. Che i contributi psicoanalitici su questa materia, di norma, non siano altro che traduzioni della critica cristiana del1'egoismo in un'altra terminologia è deducibile da lavori come quello diJanine Chasseguet-Smirgel, Anatomie der menschlichen Perversion, Psychosozial Verlag, Stuttgart 1989. 178. Poiché ultimamente hanno bisogno solamente di "esperti" embedded, queste discipline non producono alcuna scienza genuina e rendono difficoltoso il passaggio al livello di una formazione teorica non set/ service.

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luzione concreta in sel/ish systems. Ciascuno di essi produce dei cosiddetti esperti, che ci spiegano perché le cose devono svolgersi nel modo che conosciamo. Costoro devono illustrare al pubblico scettico perché sull'interesse specifico del sistema parziale, fin troppo visibile, finisca per prevalere l'interesse generale. Eppure, non riusciamo ancora a immaginarci un sistema sanitario che affermi apertamente di servire principalmente alla propria riproduzione. Anche da parte delle Chiese non siamo ancora riusciti a sentir dire che il loro unico obiettivo è la conservazione delle Chiese stesse, sebbene dagli ecclesiastici la parola onesta sia considerata una virtù. Ancor più difficile è pensare a un sistema scolastico che, da un giorno ali' altro, diventi perverso a tal punto da dichiarare, quale suo unico compito, quello di reggersi in piedi in qualche modo, per far godere a chi ne riceve i benefici, vale a dire insegnanti e impiegati amministrativi, la gioia del posto fisso e di solidi privilegi. Dove non possiamo attenderci delle ammissioni, dobbiamo farci aiutare dalle diagnosi. Le diagnosi trasformano le perversioni in problemi strutturali. Il problema dell'odierno sistema scolastico, evidentemente, non consiste soltanto nell'incapacità di ottemperare all'incarico statale di educare i cittadini, giacché la definizione della meta si è fatta troppo imprecisa di fronte alle pretese dell'attuale mondo del lavoro. Tale problema si articola ancor più chiaramente nell'abbandono dell'eccedenza umanistica e artistica che caratterizzava il sistema educativo, volto ormai ali' applicazione più o meno asettica di routine didattiche fondate in maniera pseudoscientifica. Non mostrando più, durante gli ultimi decenni, il suo coraggio a essere disfunzionale, dimostrato ostinatamente fin dal XVII secolo, la scuola si è trasformata in un vuoto sel/ish system, che si orienta esclusivamente alle norme del proprio settore. Essa produce insegnanti che ormai rammentano solo insegnanti, materie di studio che ormai rammentano solo materie di studio, scolari che ormai rammentano solo scolari. In questo senso, la scuola diventa "antiautoritaria" in modo inferiore, senza cessare di esercitare autorità a livello formale. Poiché la legge dell'apprendimento attraverso l'imitazione non può essere abrogata, la scuola, per via della sua illustrata ritrosia a essere fattore d'esempio, rischia di essere il modello che si ripeterà nella prossima generazione. La conseguenza è che nella seconda, terza generazione vi saranno quasi esclusivamente insegnanti, donne e uomini, intenti ormai a celebrare solamente l'autoreferenzialità della lezione. Autorefenziale è quella lezione che si svolge perché la natura del sistema implica la necessità di farla svol-

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gere. Con la differenziazione del sistema scolastico si è affermata una condizione nella quale la scuola conosce una sola materia di studio, chiamata appunto "scuola". A questo fenomeno corrisponde l'unico obiettivo esterno della lezione: l'esame di maturità. Chi frequenta scuole del genere ha imparato, durante un periodo che può arrivare fino a tredici anni, a non prendere i suoi insegnanti come modelli. Adattandosi al sistema, si è appreso un apprendimen-: to che rinuncia a interiorizzare le materie. In modo pressoché irreversibile, è stata inculcata la materia, senza servirsi di un esercizio che ne consentisse l'appropriazione. Si è acquisito l'habitus dell' apprendimento-come-se, che si appropria in modo difensivo di argomenti a piacere, nella convinzione, corretta rispetto all'immanenza del sistema, che la capacità di adattarsi alle forme date della lezione sia, fino a prova contraria, l'obiettivo di ogni pedagogia. Di fronte a questi fenomeni, chi ha pensato la scuola in termini radicali ha avanzato la richiesta di eliminare l'intero sistema, sia postulando, come Ivan Illich, una "descolarizzazione della società'', sia proponendo, come gli odierni pedagoghi, l'eliminazione di tutto il sistema corrente di materie scolastiche, per trasformare la scuola, durante gli anni decisivi, in un campo di allenamento perl'intelligenza polivalente dei giovani. Queste pretese si addicono al grande capovolgimento dalla cultura del libro alla cultura della rete, verificatosi negli ultimi due decenni. Esso condurrebbe, in pratica, a una sorta di inselvatichimento dell'intelligenza, che potremmo definire una controllata pedagogia della giungla. In questo contesto, sono notevoli i dati secondo i quali, nei giovani che trascorrono molto tempo giocando al computer ed esponendosi alla comunicazione-spazzatura, sono osservabili elevati effetti di allenamento nell'intelligente relazione con l'immondizia digitale. Steven B. Johnson ha riassunto questi fenomeni con un titolo che fa rizzare le orecchie sia ai genitori sia agli esponenti della teoria sistemica: Tutto quello che fa male ti fa bene. 179 Da esso si desume la tesi che quasi ogni forma di forte inculturazione è meglio che recitare il proprio ruolo in un sel/ish system maladattivo, che ormai mette in scena soltanto parodie di ciò che in passato era l'educazione. Il problema dei cattivi maestri, che, nel contesto filosofico, ho illustrato con l'esempio di Sartre, ritorna a livello sistemico come problema della cattiva scuola.

179. StevenJohnson, Tutto quello che fa male tifa bene: perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono più intelligenti, tr. it. Mondadori, Milano 2006.

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RIPETIZIONI MALIGNE III: IL SISTEMA AUTOREFERENZIALE DELL'ARTE MODERNA Osservazioni di questo genere e connotate da una simile tendenza vengono inasprite non appena ci si rivolga al moderno sistema artistico. A chiunque consideri la storia dell'arte dal 1910 a oggi risulterà chiaro che, in quest'arco di tempo, si è compiuta la catastrofe dell'arte figurativa, sia nel senso della teoria processuale sia nel senso quotidiano del termine. Nella vertiginosa esplorazione di nuovi metodi, le tre decisive generazioni di artisti nel campo delle arti figurative, quella vissuta nel periodo 1910-1945, quella operante nel periodo 1945-1980 e infine quella del 1980-2015, hanno allargato il campo del loro mestiere. Al contempo, però, esse hanno disimparato la capacità di collegarsi di volta in volta al più impegnativo livello acrobatico raggiunto dalla generazione precedente. Nella stragrande maggioranza dei casi hanno interrotto, sul piano degli esperimenti artistici guidati da un modernismo scatenato, la catena d'oro delle imitazioni tematiche, tecniche e formali. La catastrofe dell'arte si rivela essere la catastrofe della condotta imitativa e della coscienza dell'esercizio a essa associata, la quale aveva caratterizzato i precedenti tre millenni della "storia dell'arte" intesa come proliferazione, per quanto frammentata, di maestrie e segreti del mestiere. Dopo una sequenza di ottanta-cento generazioni coinvolte in processi copiativi basati sull'imitatio, tipici del1' arte premoderna, nel giro di due sole generazioni l'imitazione contenutistica e tecnica è stata derubata, in misura pressoché totale, della sua funzione di decisivo fattore di replicazione culturale. Poiché tuttavia l'imitazione, anche in una civiltà che nega l'imitazione stessa a vantaggio di un'ideologia della creatività tanto suggestiva quanto sospetta, rappresenta il meccanismo decisivo per la formazione di una tradizione, l'imitazione dei moderni si richiama all'unico aspetto dell'arte che ancora adesso si presta a essere imitato, senza che gli imitatori debbano per forza accorgersi autonomamente della tendenza seguita dalla loro imitazione, o addirittura coltivarla. Questo aspetto consiste nella circostanza che le opere cl' arte non vengono solamente prodotte, ma anche esposte. Con il passaggio dall'arte come potere di produzione (insieme al "fardello" dell'antica maestria) all'arte,come potere di esposizione (insieme all'originalità dei suoi effetti) prende il sopravvento una forma di imitazione che volta le spalle al laboratorio, per porre al centro dell'attività il luogo della propria presentazione. In questo modo, un elemento

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di sel/ishness incontrollabilmente straripante penetra non solo nel-

1' attività artistica, ma nelle opere d'arte stesse. A ogni decennio che passa, vediamo più chiaramente come esse si interessino sempre meno alla propria producibilità e sempre più alla propria esponibilità. Nel suo saggio Countdown. 3: Kunstgenerationen ("Conto alla rovescia. 3: Generazioni artistiche"), Heiner Miihlmann ha ricostruito, con argomenti evoluzionistici, la caduta libera del sistema artistico nella condizione di rigorosa autoreferenzialità. In questa radiografia dell'evoluzione estetica dal 1910 fino a oggi, si vede in che modo il disconoscimento sistematico dell'imitazione e del fattore allenamento abbia condotto a imitazioni paradossali e ad allenamenti perversi. Paradossali sono quelle imitazioni e perversi sono quegli allenamenti in cui qualità maligne (che in altre epoche sarebbero rubricate come "empietà") raggiungono i massimi successi di riproduzione. Nella subcultura dell'arte figurativa moderna, cieca rispetto all'imitazione, si sono affermate, in prossimità delle soglie tra le generazioni, quelle opere e quegli artisti in cui si poteva rilevare il massimo grado di autoreferenzialità che avrebbe caratterizzato l'epoca di volta in volta successiva, senza che gli osservatori contemporanei fossero in grado di trarre la conclusione che l'opera autoreferenziale è al contempo un'opera che smentisce se stessa. La perfetta malignità della moderna attività artistica, piuttosto, si rivela proprio nel fatto che il più acuto cinismo autoreferenziale può essere interpretato come dimostrazione della trascendenza dell'arte. Nel frattempo, il sistema artistico ha conquistato, senza la minima contestazione, il posto migliore sotto il sole del sel/ishness. Proprio mentre Martin Heidegger, negli anni Trenta, discettava sul fatto che l'opera d'arte istituiva un mondo, stava iniziando il tracollo dell'arte a pura autoreferenzialità: in realtà, l'opera d'arte nel selfish system dell'arte postmodernizzata non ha intenzione di istituire un mondo. Essa, piuttosto, rappresenta qualcosa che non rimanda a un mondo: quel qualcosa è il suo stesso essere esposta. I: opera d' arte, entrata nella terza generazione della cieca imitazione dettata dal sel/ishness, ha tutto, tranne che un esplicito riferimento al mondo. Ciò che essa istituisce è la propria amputazione da tutto ciò che si trova all'esterno della sua stessa sfera. I:unica cosa che conosce del mondo è che vi sono individui desiderosi di vivere esperienze significative e trascendenti. Essa scommette che molti di loro siano disposti ad appagare il loro desiderio nel vuoto ermetismo di opere autoreferenziali, nella tautologia di mostre autoreferenziali e nel trionfalismo di edifici museali autoreferenziali. Come fa ogni pseudoreli5~4

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gione, anche questa specula sulla trascendenza, senza perdere di vista nemmeno per un istante i propri interessi mondani. Nel frattempo, il sistema artistico ha superato addirittura il sistema economico per quanto concerne l'esibizione della propria noncuranza per i legami esterni. Esso è riuscito a fare ciò che il sistema economico, fino a prova contraria, può solo sognarsi: ha sacralizzato il proprio sel/ishness e lo ha issato davanti a sé come insegna della propria elezione. Da ciò deriva l'irresistibile seduzione che il sistema artistico promana sul sistema economico e su tutti gli altri domini dell'agire autoreferenziale. I curatori, che organizzano mostre autoreferenziali, e gli artisti, che agiscono come curatori di sé e collezionisti di sé, 180 sono le uniche figure dalle quali gli attori dell'economia speculativa possano ancora imparare qualcosa; la loro lezione è: rispetto al tema del sel/ishness non potremo mai fare sufficienti progressi, fino a quando il pubblico è disposto a reagire all'arte come a una manifestazione di trascendenza. E in che altro modo dovrebbe reagire, in un'epoca nella quale qualsiasi plus di senso viene presentato come esperienza religiosa? Tutto ci induce a pensare che il pubblico stesso risponderà anche all'estrema ricchezza come risponde alla trascendenza. Possiamo dunque facilmente predire l'avvenire del sistema artistico: si fonderà con il sistema dei più grandi patrimoni. A quest'ultimo promette infatti un brillante avvenire esibizionistico e a se stesso il passaggio in una dimensione principesca. Dopo lemergere dell' acrobatico potere di produzione durante il Rinascimento, che rese grande l'artista in quanto maestro del paesaggio, del ritratto e dell' apocalisse; dopo l'emergere del potere di esposizione durante la prima età moderna, iniziato con l'esibizione di un orinatoio e sfociato alla fine nel museo che esibisce se stesso, attualmente viviamo l'emergere dell'arte come potere di mercato, che conferisce tutto il potere ai collezionisti. Il cammino dell'arte obbedisce alla legge dell' esteriorizzazione, la quale attesta il potere dell'imitazione proprio dove l'imitazione viene rifiutata nella maniera più violenta: tale cammino porta dagli artisti che imitano artisti, passando per gli espositori che imitano gli espositori, fino ai compratori che imitano i compratori. Il motto l'art pour l'art si è trasformato, sotto i nostri occhi, nella concezione the art system /or the art system. In questa posizione, il siste180. Vedi Boris Groys, Logik der Sammlung. Am Ende des musealen Zeitalters, Hanser, Miinchen 1997.

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ma artistico diventa paradigma di tutti i maladattamenti riusciti, anzi, diventa fonte di ogni sorta di processi copiativi maligni. Uproblema della cattiva scuola fa ritorno nei panni del problema della corruzione mediante ricompense, che il sistema artistico concede agli esempi di pseudocultura. 181 La conseguenza è evidente: in avvenire non vi sarà più alcuna assurdità che non prenda a esempio il sistema artistico attuale. Lo scambio di derivati gli era noto già da tempo, prima ancora che il mondo finanziario scoprisse l'affare. Come il sistema sportivo corrotto dal doping, anche il sistema artistico si trova davanti a un bivio: o percorre fino in fondo la strada della corruzione generata dall'imitazione dell'effetto extra-artistico prodottosi nel sistema espositivo e collezionistico, mettendo definitivamente a nudo la funzione dell'arte quale punto di ritrovo dell'Ultimò Uomo, oppure si rende conto della necessità di riportare l'imitazione creativa dentro i laboratori e di riprendere qui nuovamente la questione del modo in cui ciò che è degno di essere ripetuto possa essere distinto da ciò che non possiede questa dignità.

181. Per la definizione di questo termine vedi Heiner Miihlmann, Die Natur der

Kulturen, cit.

SGUARDO ALL'INDIETRO DALLA RIAGGREGAZIONE DEL SOGGETTO ALLA RICADUTA NELLA CURA TOTALE

Se, da queste percezioni attuali, troppo attuali, guardiamo indietro al lungo cammino che hanno percorso le forme moderne di esercizio finalizzate alla creazione del soggetto, dai loro inizi nella mistica urbana, nei laboratori degli artisti acrobatici e degli artigiani, nelle stanze degli eruditi e nelle segreterie del primo Rinascimento, fino alle istituzioni educative, alle gallerie d'arte, ai centri di fitness e agli attuali laboratori di manipolazione genetica, emerge (al di là della quantità non riassumibile di linee evolutive divergenti) un problematico dato complessivo.L'età moderna ha indubbiamente mantenuto una delle sue promesse: essa ha offerto agli individui etici in fuga dal mondo, che hanno popolato i millenni tra Eraclito e Blaise Pascal, tra Gautama Buddha e Tota Puri, la possibilità che il mondo trovasse una nuova innocenza. Mantenendo questa promessa, nello stesso tempo essa ha sottratto agli uomini ciò che, fino a quel momento, molti ritenevano il loro tratto migliore: la possibilità di distinguersi radicalmente dal mondo. Non possiamo negare che la Modernità abbia eliminato la distanza tra le enclave dei secessionisti e la terra desolata delle esteriorità, e abbia descritto il contrasto tra uomo ed essere in modo nuovo, in termini in parte patologici, in parte politici, in parte estetici. Essa ha offerto rispetto al primo termine delle terapie, rispetto al secondo delle riforme sociali e rispetto al terzo una nuova creatività. È necessario forse ricordare che, con queste direttrici principali della riforma del mondo e del Sé, vengono definite, nello stesso tempo, le modalità che ci hanno aiutato a rimuovere la maggior parte degli equivoci addensati nel concetto di "religione"? Se il problema è quello di correggere la sproporzione tra uomo e mondo, allora la medicina, le arti e la democrazia (o meglio: la politica dell'amicizia) costi-

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tuiscono gli strumenti più performanti. E se il problema è quello di deviare le energie legate alla fuga dal mondo in un'immanenza positiva, allora un aldiqua soddisfacente emana luce a sufficienza per mettere in ombra gli effetti speciali dell'aldilà. · ·· Tuttavia, che la Modernità tenti di adattare l'uomo alle esigenze della situazione data o la situazione data alle pretese dell'uomo, tutto dipende sempre dalla necessità di riportare l'uomo, estraniatosi volontariamente dal mondo attraverso la secessione, dalla "landa di se stesso" nuovamente nella "realtà". La Modernità ebbe l'ambizione di inculcargli un'unica cittadinanza, che dà tutto e prende tutto: la cittadinanza dell'essere-nel-mondo. Essa ci lega a una comunità che non conosce più emigrazione. Da quando viviamo in essa, noi tutti possediamo il medesimo passaporto, emesso dagli Stati Uniti della Consuetudine. Ci vengono garantiti tutti i diritti umani, escluso il diritto di espatriare dalla concretezza. Per'questo, con il passare del tempo, spariscono le enclave meditative e si sciolgono le convivenze di chi professa l'estraneità al mondo. Si spopolano i deserti salvifici, si svuotano i conventi, i vacanzieri subentrano ai monaci, le ferie sostituiscono la fuga dal mondo. I mondi intermedi del relax conferiscono senso empirico al cielo e al nirvana. Lari-secolarizzazione del soggetto asceticamente ritiratosi (ed erroneamente elevato al rango di sostanza) appartiene senza dubbio alle tendenze della Modernità che meritano grande attenzione a livello filosofico. Anzi, essa introduce un mutamento che va seguito con simpatia, perché ha prospettato niente meno che una conciliazione tra uomo e mondo dopo un'era di radicale allontanamento. L'"epoca del compromesso" ha messo all'ordine del giorno l'abolizione delle opposizioni più antiche: spirito e vita hanno voluto nuovamente incontrarsi, etica e quotidianità nuovamente allearsi. Sono trascorsi millenni nei quali gli individui decisi a compiere la secessione hanno diviso l'universo intero tra interno ed esterno, tra ciò che è proprio e ciò che non lo è. Ora dovrebbero essere ricondotti nel milieu di una totalità multidimensionale e interpretarsi, ciascuno al suo posto, come "l'uomo di mondo nel mezzo", tanto per adoperare ancora una volta la bella autodefinizione di Goethe. Quando l'Illuminismo avviò il disincanto della metafisica, ciò accadde, non da ultimo, con l'intenzione di liberare gli uomini, indottrinati con le idee sull'aldilà, dal loro stravagante rapporto con finzioni prive di mondo. Ciò che rese così sicuri della propria causa i critici del-

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l'illusione religiosa fu la convinzione che l'umanità alienata potesse essere emancipata e potesse raggiungere la sua reale felicità solamente rinunciando alla felicità immaginaria. Nel loro insieme, questi sforzi costituiscono il complesso dei modi di vivere incentrati sull'esercizio, di cui qui ho delineato i contorni con il titolo di "esercizi dei moderni". Le loro figure chiave furono i virtuosi in ambito tecnico, artistico, retorico, che seppero prodursi in vasti cicli di esercizio come mondi nel mondo, come microcosmi, come "personalità". Gli individui raffinati, dotati di stile, documentati, godettero della certezza di vivere, nel loro intimo, il grande mondo. Tutti loro beneficiarono ancora di un contratto di riassicurazione metafisica, che fece apparire ai loro occhi il volgersi alla mondanità come un profitto maturato sul conto dell'Io incrementato e risparmiato. Per essi, esperienza era sinonimo di evoluzione. Potevano ancora godere dello splendido isolamento che un diritto locale, apparentemente inalienabile, vigente nella sfera dell'anima e dello spirito, garantiva al soggetto separatista: a partire da questo diritto organizzarono i loro viaggi nell'aperto, conquistatori e insieme anime belle. A loro era indirizzato il pronunciamento di Goethe: "E non v'è tempo o potere che mandi in pezzi I una forma plasmata che evolva vivendo" .182 Il resto è presto raccontato, perché è inenarrabile. L'illuminismo radicalizzato del xx secolo fece saltare i riservata delle "personalità" immunizzate a livello trascendente o corporale. Insieme all'anima come entità per sé, esso scacciò al contempo il daimon di quest'ultima, l'accompagnatore perturbante dal quale Goethe aveva tratto la convinzione che ogni vita individuale seguisse la sua forma interiore originaria, in conformità alla "legge in base alla quale sei venuto al mondo". Anche questa espulsione awenne inizialmente in favore della beatitudine intramondana, che era lecito esigesse qualche sacrificio in termini di illusione. Soprattutto però doveva sparire la priorità dell'anima, che era diventata la prigione del corpo. 183 Gli smarrimenti del secolo scorso ci mettono al corrente del vero prezzo di questa operazione epocale. Se dovessimo trasporre que182. Johann Wo!fgang Goethe, "Parole primordiali. Orfiche (Daimon, Demone)", tr. it. mod. in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1989, vol. 1, tomo II, p. 1019. Vedi Hermann Schmitz, Goethes Altersdenken im problemgeschichtlichen Zusammenhang (1959), Bouvier, Bonn 2008, pp. 217 sgg. e 264 sgg. 183. Vedi Alfred Schafer, "Die Seele: Gefangnis des Korpers", in Ludwig Pongratz et al., Nach Foucault. Diskurs- und machtanalytische Perspektiven der Piidagogik, Vs-Verlag, Wiesbaden2004, pp. 97-113.

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sta era in una sceneggiatura, il titolo dovrebbe essere: "La secolarizzazione del mondo interiore ovvero La vendetta del mondo su chi pensava di potervi sfuggire". Risultò evidente che l'uomo era destinato al consumo di massa, non appena lo si fosse interpretato come mero fattore nel gioco di riforma del mondo. Protagoniste erano ormai le ideologie primarie del XIX e XX secolo, legate simmetricamente una all'altra, le quali avviarono lari-trasposizione dell'uomo dalla dimensione della fuga dal mondo a quella dell'appartenenza al mondo: naturalismo e socialismo, ma si potrebbe anche dire, per via d,ella loro stretta parentela: naturalismo sociale e socialismo naturale. Entrambi i sistemi si unirono nello sforzo di ricondurre interamente l'uomo, insieme ai suoi fondamenti psichici, nell"'insieme dei rapporti sociali" e di precludergli l'evasione in presunti mondi interiori e alternativi, per non parlare dei mondi dietro il mondo di stampo religioso. Entrambi gli approcci sono inseparabili da un elementare pragmatismo, secondo il quale può essere considerato reale solamente ciò che è trattabile in azioni sociali e procedimenti tecnici. Tale pragmatismo viene integrato da un inesorabile moralismo, anzi, dalla tendenza all'eccesso moral-demoniaco: benché l'uomo non riesca più a distanziarsi spiritualmente dal contesto secolare, moltissimi altri individui fanno tutto ciò che sembra loro necessario per potersi annoverare, entro il contesto dato, tra le persone buone, tra le persone moralmente superiori. Il colpo decisivo, inferto alla semplice possibilità di un'esistenza in grado di fuggire dal mondo, non provenne tuttavia dal versante "pragmatico", ma dalla nuova "rivoluzione del modo di pensare" all'inizio del xx secolo, legata alla comparsa del giovane Heidegger. Egli mise indietro di oltre due millenni l'orologio della riflessione filosofica, allorquando prese la decisione, nel suo primo capolavoro del 1927, Essere e tempo, di lasciare che il pensiero filosofico prendesse nuovamente avvio nella situazione esistenziale dell'essere-nelmondo. Così facendo revocò il passo nell'ambito della teoria distanziatrice e con esso la sicurezza del Sé nella posizione di osservatore distaccato, proprio quel passo che io (recuperando delle immagini eraclitee) ho descritto come uscita del Sé pensante dalla corrente della vita e come conquista della riva. 184 Lo abbiamo visto: sulla riva è ap184. Un passo che, come "passo indietro", venne accademizzato nella dottrina husserliana della epoche ovvero della "messa tra parentesi" del giudizio sull' esistenza. Su "emersione", "riva", "soggettività rivierasca" e "osservazione pura" vedi supra, pp. 277 sgg.

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parso l'osservatore sotto il cui sguardo il mondo si è trasformato in spettacolo ... uno spettacolo indegno, ovviamente, dal quale distoglie il proprio sguardo l'intelligenza mossa in senso etico. Grazie al nuovo approccio nel quadro di quella situazione complessiva che chiamiamo essere-nel-mondo, vennero distrutte le serre in cui si coltivava l'illusione di un mondo interiore, mentre i loggiati dell'osservazione pura sprofondarono nelle acque. Il soggetto separato si vide ricollocato nell'esistenza e derubato del pi;oprio privilegio teorico (ossia della sua somiglianza con le divinità spettatrici). Venne nuovamente reimmerso nel lavacro degli stati d'animo che, sul piano prelogico, dischiudono il tutto nel quale soggiorniamo e gli conferiscono una tonalità. Venne dunque messo nuovamente in luce in quale misura l'uomo come "organo" dell'esistenza poggi su un essere-fuori-di-sé. Fin dal principio, il suo modo di essere è dimentico di sé, poiché si compie sempre e soltanto come essere-presso-lecose e con-essere con altri. Per via della sua indole spontanea, l'uomo è una marionetta del collettivo e un ostaggio delle situazioni. Solamente in "seconda battuta", tardi ed eccezionalmente, l'esistenza ritorna a sé e al suo possibile mandato di essere se stessa, e tutti i tentativi di elevare questa tarda scoperta al rango di una sostanza, di una forma originaria, di un asse del mondo ergentesi attraverso l'Io, rivelano le tracce di raffinate falsificazioni. A quanto insegnava Proudhon: "Chi dice Dio vuole imbrogliare", bisogna far seguire la tesi di Heidegger: "Chi dice lo vuole ingannare se stesso". Per via del loro sintomatico carattere precipitoso, queste superfetazioni del Sé si rivelano interessate alla salvezza dalla corrente impetuosa del tempo. Bisogna forse sottolineare che la richiesta di salvezza di per sé non dimostra affatto la possibilità di salvezza? Le ripercussioni della svolta sono tanto imprevedibili quanto la condizione dell'epoca a venire, la quale, a prescindere da come sarà, può essere definita unicamente come epoca "successiva". Si impone comunque un'osservazione: lari-secolarizzazione del soggetto ritiratosi non ha soddisfatto l'aspettativa secondo la quale, con la rinuncia alle beatitudini immaginarie, ci avrebbe guadagnato immediatamente la felicità fisica o effettiva. La ragione di questo fatto può essere derivata dalla descrizione heideggeriana dell'esistenza ricondotta nella situazione mondana. Il prezzo da pagare per riorientare il pensiero a partire dalla posizione dell'essere-nel-mondo è inevitabilmente la perdita della distanza. Il suo sintomo principale è l'assegnazione dell'uomo alla cura e la sua immersione nella si'i41

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tuazione vissuta. Chi muta nuovamente il "soggetto" in "esistenza" sostituisce l'individuo ritiratosi con l'individuo coinvolto, l'individuo raccolto con l'individuo disperso, l'individuo eternizzato con quello de-eternizzato, 185 l'individuo redento con quello non-salvato. Ciò che Heidegger chiama "la cura" è la concessione fatta dall'uomo al mondo che l'uomo non riuscirà a tamponare l'infiltrazione del mondo. La riva, alla quale l'osservatore voleva aggrapparsi, non è una riva realmente salvifica. L'esistere effettivo è "inoltre sempre già assorbito nel mondo oggetto di cura" .186 Non importa in che modo l'umanità abbia tentato di proteggersene e di separarsene: come atman, come psiche noetica, come Homo interior, come abitante della cittadella interiore, come favilla dell'anima, come soggetto fondante, come Io disponibile, come personalità, come punto d'incrocio degli archetipi, come punto di sospensione ironica, come critico del legame accecante e come osservatore di osservatori. .. in realtà, per via del suo costitutivo essere-fuori-di-sé, è sempre già dedito alla cura. Solamente gli dèi, e accanto a loro i pazzi, sono di per sé spensierati, ossia privi di cura (sorglos). Fin dall'inizio l'esistenza è colonizzata dalle mondità. Poiché essa è sempre già assorbita nella cura, deve approntare elenchi di priorità ed evaderli come fosse il suo proposito più recondito. I tentativi di prendere le distanze non possono più rappresentare altro che modifiche secondarie di una dedizione a sé, dotata della precedenza su tutto. Le apparenze esteriori che, secondo Marco Aurelio, si sarebbero arrestate come estranee davanti alla nostra soglia, in realtà hanno infestato la casa. Il presunto padrone di casa è posseduto dagli ospiti e può dirsi fortunato se gli rimane un cantuccio in cui ritirarsi. Tutto ci induce quindi a pensare che l'esistenza umana, dopo tre millenni di evasione spirituale, sia tornata indietro al punto in cui erano iniziate le secessioni e che, dopo tutto quello che è successo, sia solo un po' più accorta di allora, o almeno un tantino meno impacciata. Quest'impressione è giusta e nello stesso tempo sbagliata. Giusta, nella misura in cui l'esuberanza bramosa di trascendenza, che ha caratterizzato le ascese surreali, non ha superato gli esami del tempo e dell'analisi. Sbagliata, perché le stanze del tesoro in cui è depositato il sapere dell'esercizio sono colme a dismisura, per quanto in tempi recenti siano state meno frequentate. 185. Vedi Eugen Rosenstock-Huessy, Die Sprache des Menschengeschlechts. Bine leibhaftige Grammatik in vier Teilen, Heidelberg 1964, vol. 2, pp. 15-197. 186. Martin Heidegger, Essere e tempo, tr. it. mod. Longanesi, Milano 1976, p. 240.

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Adesso è giunto il tempo di ripristinare tutti quegli stili della vita incentrata sull'esercizio che non cessano di produrre energie salutari, anche se non vengono più elevati al rango di rivoluzioni metafisiche, come avveniva inizialmente. Bisogna verificare la riutilizzabilità degli antichi stili e inventarne di nuovi. Dovrà iniziare un altro ciclo di secessioni per far uscire nuovamente gli uomini, non più dal mondo, bensì dall'ottusità, dall'avvilimento, dalla cocciutaggine, soprattutto però dalla banalità, che Isaac Babel definì "la controrivoluzione".

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Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, di mia mano. PAOLO DI TARS0 187

CHI PUÒ DIRLO? "Devi cambiare la tua vita!" La voce da cui Rilke si sentì interpellato al museo del Louvre ha ormai abbandonato la sua origine. Nel1' arco di un secolo essa si è riversata nello spirito del tempo generale, anzi, è diventata il contenuto ultimo di tutte le comunicazioni che circolano nel globo. Al momento, non v'è informazione nell'etere universale che, per via della sua struttura profonda, non possa essere ricondotta a questo imperativo assoluto. Esso è il richiamo che non può mai essere neutralizzato e ridotto a un semplice dato di fatto, l'imperativo che continua a operare attraverso tutti gli indicativi. Esso articola il codice che ordina le innumerevoli e caotiche particelle dell'informazione in una configurazione morale pregnante. Da esso parla la preoccupazione (Sorge) per il tutto. Come negarlo: nel mondo attuale, l'unico fatto di significato etico universale è l'idea, sempre più diffusa ovunque, che le cose non possano più andare avanti così. Abbiamo motivo per richiamare ancora una volta Nietzsche. Egli per primo comprese in che maniera, anche in età moderna, andasse trasmesso l'imperativo etico: egli si rivolge a noi con un comando che avanza una pretesa superiore e incondizionata. In tal modo, egli si pose in contrasto con il consenso pragmatico, in base al quale era lecito richiedere legittimamente agli uomini soltanto le presta187. Lettera ai Galati 6,11.

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zioni che riuscivano a compiere nello status quo. Nietzsche vi contrappose lassioma originario della vita incentrata sull'esercizio, così come appare nei modi di vivere tramandati fin dall'avvento della differenza etica: l'uomo avanza solamente finché si orienta all'impossibile. I precetti moderati, le prescrizioni ragionevoli, le richieste da avanzare quotidianamente ... tutto ciò, per essere realizzato, presuppone già una tensione iperbolica, dalla quale scaturisce una pretesa inadempibile e inevitabile. Che cos'è l'uomo, se non lanimale dal quale viene preteso troppo? Solamente chi avanza il primo comandamento può farne seguire altri dieci. Nel primo, è lo stesso impossibile che mi interpella: "Non avere altri criteri accanto a me". Chi non è stato sopraffatto dalla dimensione colossale non appartiene alla specie Homo sapiens. Di essa faceva parte già quel primo cacciatore della savana, che alzò la testa e comprese che l'orizzonte non è un confine protettivo, ma la porta attraverso la quale entrano le divinità e i pericoli. Per articolare la pretesa superiore al livello della condizione attuale del mondo, Nietzsche osò offrire al pubblico "un libro per tutti e per nessuno": un'eruzione profetica, seimila piedi al di là dell'uomo e del tempo, enunciata senza alcun riguardo sopra le teste di tutti gli ascoltatori e, nello stesso tempo, collegata in modo invadente al sapere di ogni singolo dalla sua intima progettualità nell'ambito del non-ancora. Possiamo lasciar perdere il programma del superuomo, sapendo che in generale indica la tensione verticale. La sua proclamazione si rese necessaria quando, rispetto all'ipotesi di Dio, non ci fu più abbastanza certezza per garantire l'ancoraggio della tensione ascendente in un polo trascendente. Tuttavia, anche senza Dio e superuomo, basta rammentare che ogni individuo, anche quello di maggior successo, quello più creativo, di più ampie vedute, quando si sottopone a un esame serio, dovrebbe ammettere di essere diventato meno di quanto avrebbe potuto diventare in base al suo poteressere, eccetto i rari momenti in cui può dire di aver rispettato l' obbligo di essere un bravo animale. Come animale superiore nella media, pungolato dalle ambizioni, afflitto da simboli eccessivi, l'uomo rimane indietro rispetto a ciò che gli viene richiesto, anche quando veste la maglia del vincitore o i panni del cardinale. La massima "Devi cambiare la tua vita!" fornisce la forma basilare del richiamo a tutti e a nessuno. Se da un lato si indirizza inequivocabilmente a un destinatario determinato, dall'altro parla tuttavia, accanto a lui, anche a tutti gli altri. Chi la avverte senza oppor-

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re resistenza incontra, grazie a essa, il sublime in un formato personale. Sublime è ciò che, tramite il richiamo a un fattore sconvolgente, rende palese all'osservatore la possibilità di sprofondare in una dimensione colossale, una circostanza però che, fino a prova contraria, non si realizza. Il sublime, il cui apice è puntato su di me, è personale come la morte e inconcepibile come il mondo. Per Rilke, era stata la dimensione dionisiaca dell'arte a rivolgergli la parola dalla statua mutila di Apollo e a destare in lui la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa d'infinitamente superiore. Oggi, invece, nelle opere d'arte, si sente appena la voce dotata di autorità. Ormai nemmeno alle "religioni" stabilite e ai concili ecclesiastici spetta un'autorità imperativa, per non parlare dei consigli dei saggi, sempre che l'espressione possa essere ancora impiegata senza ironia. L'unica autorità che oggi può dire: "Devi cambiare la tua vita!" è la crisi globale, la quale, come chiunque avverte da un po' di tempo, ha iniziato a inviare il suo apostolo. Essa possiede autorità, perché si richiama a qualcosa d'impensabile, di cui essa è il preludio: la catastrofe globale. Non serve avere una particolare inclinazione musical-religiosa per capire che la Grande Catastrofe diventerà la dea del secolo. Poiché essa possiede l'aura dell'evento immane, le spettano quei connotati essenziali che finora erano stati attribuiti alle potenze trascendenti. Essa rimane nascosta, ma si fa riconoscere già da alcuni segnali; è in arrivo, ma è già presente nei suoi prodromi; si rivela a intelligenze individuali attraverso vivide visioni e nello stesso tempo supera le capacità umane di comprensione; essa assolda singoli individui al proprio servizio, rendendoli suoi profeti; in suo nome, i suoi delegati si rivolgono ai loro contemporanei, ma venendo cacciati dalla maggior parte delle persone in quanto molesti. Vista nel suo complesso, la crisi attuale assomiglia al Dio del monoteismo, quando comparve sulla scena quasi tremila anni fa: anche il suo messaggio era troppo grande per il mondo e solamente pochi individui furono disposti a iniziare una nuova vita a causa sua. Sia in un caso sia nell'altro, tuttavia, il rifiuto dei molti accresce la tensione che regna sui collettivi umani. Da quando è iniziata la catastrofe globale, con il suo parziale disvelamento, è comparsa nel mondo una nuova configurazione dell'imperativo assoluto, che si indirizza a tutti e a nessuno sotto forma di severo ammonimento: cambia vita! Altrimenti prima o poi il completo disvelamento della crisi vi dimostrerà che cosa vi siete lasciati sfuggire ali' epoca dei segni preliminari!

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In questo contesto è possibile illustrare da dove deriva il disagio awertito nell'attuale dibattito etico, sia nelle sue varianti accademi-' che sia in quelle pubblicistiche. Proviene dalla sproporzione tra le mostruosità che sono nell'aria fin dall'era della Guerra fredda dopo il 1945 e la povertà paralizzante di tutti i discorsi correnti, aprescindere dal fatto che le loro argomentazioni si ricolleghino all' etica dell'intenzione o a quella della responsabilità, all'etica del discorso o a quella della situazione, per non parlare dell'inconsistente tentativo di rianimare le dottrine del valore e della virtù. Anche il ritorno della "religione", assai citato, non rappresenta molto più che il sintomo di un disagio, il quale aspetta di trovare soluzione in una formulazione lucida. In realtà, anche oggi l'etica può fondarsi unicamente nell'esperienza del sublime, come è accaduto da quando sono iniziati i processi che hanno condotto alle prime secessioni etiche. Di fronte all'appello del sublime, l'umanità a due velocità ha iniziato la sua spedizione attraverso le epoche. Soltanto il sublime è in grado di avanzare quella pretesa superiore che può far prendere agli uomini la rotta per l'impossibile. Ciò che veniva chiamato "religione" è stato sempre e soltanto un veicolo dell'imperativo assoluto nelle sue principali varianti, diverse a seconda del luogo e del periodo. Il resto sono chiacchiere alle quali bisogna metter fine, come giustamente sosteneva Wittgenstein. Per chi si interessa di teologia, da quanto abbiamo detto risulta che il Dio unico e la catastrofe hanno in comune molto più di quanto si è rilevato finora, non da ultimo la rabbia per gli uomini che non riescono a decidere se credere all'uno o all'altra. Non esiste solamente quella che Coleridge ha chiamato "sospensione volontaria dell'incredulità" rispetto alla finzione, senza la quale non sarebbe possibile alcuna condotta estetica. Ancor più efficace è la sospensione volontaria della credulità rispetto al reale, senza la quale non si avrebbe alcun intervento pratico sull'esistente. Quasi mai i singoli si confrontano con la realtà senza mescolarvi una "perdita della realtà". La perdita della realtà basata sull'incredulità distingue appena tra passato e futuro: non ci si chiede se la catastrofe appartiene al passato ed è un evento dal quale avremmo dòvuto imparare qualcosa, o se appartiene al futuro ed è un evento che, con i debiti prowedimenti, potremmo scongiurare. Il non-voler-credere sa sempre disporre le cose in modo tale da raggiungere il grado desiderato di perdita della realtà.

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CHI PUÒ UDIRLO? Per quanto riguarda le catastrofi imputabili all'uomo, il XX secolo è stato il periodo più istruttivo della storia universale. Da esso si è potuto imparare molto: le grandi sciagure presero avvio come progetti che avrebbero dovuto mettere sotto controllo il corso della storia a partire da un'unica centrale operativa. Furono le manifestazioni più pretenziose di ciò che i filosofi, seguaci di Aristotele e Marx, chiamarono "prassi". Come profezie in chiave contemporanea, i grandi progetti vennero descritti come configurazioni della battaglia finale per il dominio della Terra. Agli uomini dell'epoca basata sulla prassi non accadde nulla che non fosse stato predisposto da loro stessi o dai loro contemporanei. Si potrebbe quindi dire che non v'è nulla nell'inferno che non fosse stato prima programmato. Gli apprendisti stregoni dell'organizzazione planetaria hanno dovuto sperimentare che l'incalcolabile anticipa i calcoli strategici di un'intera dimensione. Non stupisce dunque che i buoni propositi non si siano rispecchiati nei pessimi risultati. Gli sviluppi ulteriori si collocano nel solco della probabilità psicologica: i riformatori del mondo militanti presero le distanze dalle debacle da essi causate e attribuirono alla sventura ciò che gli sfuggì di mano. L'interpretazione più convincente di questo modello di comportamento proviene dalla penna di un filosofo scettico: dopo un'avventura fatale, gli attori falliti praticano "l'arte di non esser stati loro". Alla vigilia della catastrofe annunciata si vedono all'opera dei modelli analoghi: prima dei processi fatali, gli attori sul palcoscenico della politica si esercitano nell'arte di non aver compreso i segni del tempo. Gli occidentali sono bravi in questo comportamento (si potrebbe chiamarlo un procrastinare universale) per via di remote pratiche culturali ancorate in profondità: da quando l'illuminismo ridusse Dio a una radiazione di fondo dell'universo o lo interpretò direttamente come una finzione, i moderni trasferirono l'esperienza del sublime dall'etica all'estetica. In conformità alle regole del gioco vigenti nella cultura di massa sorta all'inizio del XIX secolo, essi assimilarono la convinzione di poter sopravvivere del tutto incolumi al terrore puramente immaginario. Ai loro occhi, tutti i naufragi avvengono soltanto per gli spettatori e tutte le catastrofi soltanto in virtù della piacevole sensazione di salvarsi. Essi ne deducono quindi che i pericoli siano sempre e soltanto una parte dell'intrattenimento, e i moniti un elemento dello show.

I.

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Il ritorno del sublime sotto forma di imperativo etico da non prendere alla leggera coglie impreparato il mondo occidentale, per parlare in questa sede solo di quest'ultimo. I suoi cittadini si sono abituati a recepire tutti i rimandi alla catastrofe imminente, anche quelli formulati in tono realistico, come un documentario horror, mentre i suoi intellettuali affrontano il loro appello come detached cosmopolitan spectators, decostruendo anche i moniti più seri in termini di genere discorsivo e classificando i suoi autori nella categoria dei gradassi. Tuttavia, anche se non fosse un genere estetico, si continua a nutrire pragmaticamente la convinzione che non sia urgente prendere le cose sul serio. Inoltre: una persona che volesse. percepire individualmente i segnali presenti all'orizzonte non crollerebbe forse sotto il peso delle preoccupazioni? Ciò nonostante, i contemporanei si convinceranno prima o poi che non esiste un diritto umano che vieta di pretendere di più, così come non esiste un diritto che impone di affrontare solamente i problemi di cui si riesca a trovare la soluzione con gli strumenti di bordo. Si equivoca la natura di questo tema, qualora si consideri problematico soltanto ciò che sembra risolvibile durante l'attuale legislatura. A maggior ragione, non si coglie l'essenza delle tensioni verticali presenti nell'esistenza umana, qualora si prenda avvio da una simmetria tra challenge e response. Chi si interroga sulla condizione dell'uomo trova pretese superiori da un lato ed eccedenze dall'altro ... e nulla garantisce che il primo membro stia al secondo come il problema sta alla soluzione.

CHILO FARÀ? A prescindere dai provvedimenti che saranno attuati in avvenire per affrontare i pericoli riconosciuti, essi obbediranno alla legge della crescente improbabilità, che domina l'evoluzione surriscaldatasi. Da questa certezza possiamo dedurre perché la propaganda che circola tra Roma, Washington e Fulda, orientata alla conservazione dei valori, non offra una risposta adeguata all'attuale crisi mondiale, a prescindere da possibili effetti costruttivi in ambiti ristretti. Infatti, in che modo i "valori" sovratemporali, che finora si sono già dimostrati impotenti rispetto a problemi relativamente inconsistenti, dovrebbero d'un tratto acquisire il potere, di fronte a faccende più gravi, di operare la svolta verso il meglio? Se la risposta alle sfide attuali si potesse effettivamente trovare

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nelle virtù classiche, allora sarebbe sufficiente applicare la massima che Goethe formulò in una poesia del suo Divan occidentale-orientale intitolata "Legato della fede antico-persiana": "Quotidiana conservazione di rigidi culti I per il resto non serve alcuna Rivelazione" .188 Anche chi è disposto ad ammettere che questa sia la massima espressione della borghesia europea (sebbene nascosta sotto la maschera orientale) prima del suo fallimento storico capisce al volo che una semplice regola di conservazione non ci è di nessun aiuto. Accanto all'irrinunciabile preoccupazione di conservare ciò che ha dato buoni risultati, a noi si impone soprattutto la novità delle situazioni, la quale rende necessarie risposte audaci. Oggi, perfino sul Frauenplan di Weimar, si parlerebbe piuttosto di rigidi culti di quotidiana invenzione, per poi cancellare, dopo un istante di riflessione, l'aggettivo "rigidi": in primo luogo perché contrasta con il gusto del tempo e in secondo luogo perché le invenzioni quotidiane non si conciliano bene con una rigida concezione del culto. Dopo un'altra riflessione si finirebbe per rinunciare anche al genitivo e per parlare di compiti piuttosto che di culti. Infine, si emanerebbe un comunicato stampa con la seguente, indecifrabile raccomandazione: gli uomini di buona volontà nella Società Armoniosa dovrebbero riuscire a conciliare fruttuosamente vecchio e nuovo. Se studiamo le direttive provenienti da Roma, noteremo come anch'esse consistano di formule cinesi. La legge della crescente improbabilità prospetta due superpretese in una. Da un lato, ciò che attualmente si sta svolgendo sulla Terra è una catastrofe dell'integrazione realmente operante: si tratta della globalizzazione inaugurata dal viaggio di Colombo nel 1492, messa in moto dalla sottomissione spagnola del regno azteco nel 1521, accelerata dal commercio mondiale tra il XVII e il XIX secolo e progredita, grazie ai veloci media del XX secolo, fino all'effettiva sincronizzazione degli accadimenti mondiali. Grazie a essa, le frazioni dell'umanità che vivono disperse, le cosiddette culture, diventano un collettivo instabile e lacerato da diseguaglianze, ma estremamente sincronizzato sul piano della transazione e della collisione. Dall'altro lato, si compie una progressiva catastrofe della disintegrazione, che si muove verso un punto di crash temporalmente indefinito, sebbene non infinitamente procrastinabile. Fra le due mostruosità, la se188. Johann Wolfgang Goethe, "Legato dalla fede antico-persiana", tr. it. mod. in

Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, vol. 3, p. 359. [NdT]

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conda è di gran lunga la più probabile, perché si trova già sulla lista dei processi in corso. Viene supportata soprattutto dai rapporti di produzione e di consumo vigenti nelle regioni benestanti e nelle zone sviluppate del pianeta, nella misura in cui si fondano sul cieco ipersfruttamento di risorse finite. La ragion nazionale si sforza ancora di conservare posti di lavoro sul Titanic. Che l'esito sia il crash è probabile, anche perché esso comporta un grande risparmio sui costi psicoeconomici: esso porterebbe alla liberazione dalle tensioni croniche che incidono su di noi in conseguenza dell'evoluzione glo-' baie. Solamente le nature fortunate sperimentano l'elevazione del Mount Improbable, fino alle altezze di una "società" mondiale integrata sul piano operativo, come un progetto vitalizzante per chi vi contribuisce. Solamente costoro sperimentano l'esistenza nel presente come un privilegio stimolante e non desiderano aver vissuto in qualche altra epoca. Nature meno fortunate hanno l'impressione che essere-nel-mondo non sia mai costato tanta fatica. In questo caso, c'è qualcosa di più evidente della formula della cultura di massa "dare la precedenza all'intrattenimento e per il resto aspettarsi che avvenga ciò che non può non awenire"? Dobbiamo al filosofo Hans Jonas la prova che non sempre la nottola di Minerva spicca il suo volo al calar del sole. Con la sua riformulazione dell'imperativo categorico in un imperativo ecologico, egli ha dimostrato, nella nostra epoca, la possibilità di un filosofare previsionale: "Agisci come se gli effetti del tuo agire siano conciliabili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra". In tal modo, l'imperativo metanoico nel presente, che eleva l' elemento categorico a fattore assoluto, acquista contorni sufficientemente definiti. Esso avanza l'impegnativa pretesa di coinvolgerci nella mostruosità dell'universale divenuto concreto. Ci chiede di soggiornare durevolmente nel campo in cui vige la superpretesa di affrontare enormi improbabilità. Poiché si rivolge personalmente a ciascun individuo, devo riferire il suo appello a me stesso, come se io fossi il suo unico destinatario. Si pretende che io mi comporti come se potessi sapere immediatamente quali prestazioni dovrei fornire, non appena interprete;> me stesso come agente nella rete delle reti. Dovrei valutare in ogni istante le ripercussioni del mio agire sull'ecologia della società mondiale. Dovrei addirittura sfiorare il limite del ridicolo interpretando me stesso come membro di un popolo da sette miliardi di persone, sebbene anche la mia stessa nazione sia, ai miei occhi, fin troppo ampia. Dovrei affermarmi come cit'Vi?

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tadino del mondo, anche se conosco appena il mio vicino di casa e trascuro i miei amici. Per quanto non riuscirò a entrare in relazione con la maggioranza dei membri del nuovo popolo, dato che !"'umanità" non rappresenta né un valido destinatario né una dimensione che facilita gli incontri, tuttavia ho il dovere di considerare la sua presenza reale in ogni mia operazione. Dovrei diventare un fachiro della coesistenza con tutto e tutti, e ridurre la mia impronta nell' ambiente sull'esempio di una piuma. Con questi mandati si soddisfa la superpretesa, così come avveniva attraverso la imitatio Christi dell'antica Europa o l'ideale indiano del mok~a. Poiché non ci si può sottrarre a questa pretesa, se non ripiegando nello stordimento, bisogna capire se esista un motivo ragionevole, con l'aiuto del quale si possa colmare il baratro tra l'imperativo sublime e l'esercizio pratico. Un motivo del genere (se tralasciamo i fantasmi dell'universalismo astratto) può essere ottenuto solamente da una riflessione dell'Immunologia universale. I sistemi immunitari sono attese incarnate, ovvero istituzionalizzate, di ferite o lesioni, che poggiano sulla distinzione tra sfera personale e sfera estranea. Mentre l'immunità biologica si riferisce al livello.del singolo organismo, i due sistemi immunitari sociali riguardano le dimensioni dell'esistenza umana che travalicano l'organismo, ossia quelle cooperative, transazionali, conviviali: il sistema solidaristico garantisce sicurezza giuridica, previdenza esistenziale e sentimenti di affinità al di là delle famiglie di volta in volta considerate; il sistema simbolico garantisce invece certezza dell'immagine del mondo, compensazione della certezza di morire e costanza normativa tra le generazioni. Anche su questo piano vale la seguente definizione: la "vita" è la fase di successo di un sistema immunitario. Come i sistemi immunitari di tipo biologico, anche quello solidaristico e quello simbolico possono attraversare fasi di debolezza, anzi, addirittura di quasi-disattivazione. Queste fasi si manifestano nell'esperienza che l'uomo ha di se stesso e del mondo come labilità della coscienza del valore e come incertezza rispetto alla resistenza delle nostre solidarietà. Il loro crollo equivale alla morte collettiva. Il tratto forte di tali sistemi è che non definiscono la sfera personale nell'orizzonte dell'egoismo organico, ma si pongono al servizio di una concezione del Sé etnica o multietnica, ampliata in senso istituzionale e intergenerazionale. Così diventa comprensibile per quale ragione gli approcci evoluzionistici a un altruismo animale, che si

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esprimono nella naturale disponibilità delle specie a procreare e a curare la nidiata, sul piano umano si perfezionino in altruismi cul- · turali. L'aspetto razionale di questa evoluzione consiste nella formattazione della sfera personale su scala maggiore: ciò che appare altruistico dalla prospettiva del singolo è egoismo sul piano delle unità più grandi; nella misura in cui gli individui imparano ad agire come agenti della loro cultura locale, fanno l'interesse della sfera personale allargata, accettando una riduzione nella sfera personale ristretta. Alla base di questo calcolo immunologico implicito si trovano sacrifici e tributi, comportamenti e servigi, ascesi e virtuosismi. Tutti i fenomeni culturali essenziali appartengono ai giochi a premi delle unità immunitarie sovrabiologiche. Questa riflessione rende necessario un ampliamento del concetto di immunità: non appena si inizia a trattare modi di vivere nei quali è coinvolto lo zoon politikon uomo, bisogna fare i conti con la precedenza assegnata ai vincoli immunitari sovraindividuali. In queste situazioni, può aversi immunità individuale solamente come coimmunità. In ottica sistemica, tutte le unioni sociali storiche sono interpretabili come strutture co-immunitarie, dall'orda primordiale fino agli imperi universali. Tuttavia, bisogna registrare che la ripartizione dei concreti benefici immunitari in "società" iperstratificate rivela fin dall'Antichità forti disuguaglianze. La disparità nell' accesso alle opportunità immunitarie venne avvertita già ai primordi come la manifestazione più acuta di "ingiustizia". Essa fu esteriorizzata come oscuro destino oppure interiorizzata come oscura colpa. Tale sentimento poteva essere compensato, durante gli ultimi millenni, solamente da quei sistemi di esercizio sovraetnici comunemente chiamati "religioni". Per mezzo di imperativi sublimi e universalizzazioni astratte della promessa di salvezza, esse tennero aperti gli accessi alle pari opportunità immunitarie di tipo simbolico. L'attuale situazione del mondo è caratterizzata dal non possedere alcuna efficiente struttura co-immunitaria per i membri della "società mondiale". Al massimo livello, "solidarietà" è ancora una parola vuota. A essa ben si adatta la massima di un discusso giuspubblicista: "Chi dice 'umanità' cerca di ingannarti". La ragione è ovvia: le unità solidaristiche effettive eco-immunitarie, sia oggi sia in passato, sono formattate su scala familiare, tribale, nazionale e imperiale, recentemente anche in alleanze strategiche continentali, e funzionano (quando funzionano) conformemente ai formati di volta in volta vigenti della differenza tra sfera personale e sfera estranea. Le riuscite alleanze finalizzate alla sopravvivenza, fino a prova con-

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traria, sono dunque particolari: ormai, anche le "religioni universali", in conformità alla natura delle cose, non possono che essere dei provincialismi su vasta scala. In questo contesto, perfino il concetto di "mondo" è un'espressione ideologica, perché ipostatizza il macroegoismo dell'Occidente e di altre grandi potenze, e non descrive la concreta struttura co-immunitaria di tutti i candidati alla sopravvivenza sulla scena globale. I sistemi parziali rivaleggiano ancora secondo una logica che, di norma, trae dai benefici immunitari degli uni i deficit immunitari degli altri. L'umanità non costituisce un superorganismo (come sostengono precipitosamente alcuni sistemici), ma, fino a prova contraria, non è altro che un aggregato di "organismi" di livello superiore, i quali non sono ancora stati integrati in un'unità operativa di ordine supremo. Tutta la storia è storia di lotte tra sistemi immunitari. Essa coincide con la storia del protezionismo e della esternalizzazione. La protezione si riferisce sempre a un Sé locale e l'esternalizzazione a un ambiente anonimo, del quale nessuno si assume la responsabilità. Questa storia abbraccia il periodo dell'evoluzione umana, nel quale le vittorie della sfera personale potevano essere pagate solamente dalla sconfitta della sfera estranea. In essa dominano i sacri egoismi delle nazioni e delle imprese. Poiché tuttavia la "società mondiale" ha raggiunto il limes e la Terra, insieme ai suoi fragili sistemi atmosferici e biosferici, ha rappresentato, una volta per sempre, il limitato teatro comune di tutte le operazioni umane, la prassi di esternalizzazione incontra il suo confine assoluto. Da questo punto in poi, un protezionismo della totalità diventa il precetto della ragione immunitaria. La ragione immunitaria globale è collocata un gradino sopra a tutto ciò che sono state in grado di ottenere le sue anticipazioni nell'idealismo filosofico e nel monoteismo religioso. Per questo motivo, l'Immunologia generale è l'erede legittima della metafisica e la reale teoria delle "religioni". Essa richiede di andare oltre a tutte le distinzioni finora invalse tra sfera personale e sfera estranea. In questo modo, vengono meno le classiche distinzioni tra amico e nemico. Chi continua a seguire la linea delle separazioni finora invalse tra sfera personale e sfera estranea produce deficit immunitari non solamente per altri, ma anche per se stesso. La storia della sfera personale, intesa in senso troppo ristretto, e della sfera estranea, trattata in modo troppo negativo, raggiunge la sua conclusione nel momento in cui sorge una struttura co-immu-

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nitaria globale basata sull'inclusione delle singole culture, degli interessi particolari e delle solidarietà locali. Questa struttura acquisirebbe un formato planetario nel momento in cui la Terra, innervata da reti e infrastrutturata da schiume, venisse concepita come sfe- ,, ra personale e l'eccessivo sfruttamento, finora dominante, come sfe- , ra estranea. Con questa svolta, la dimensione concretamente universale diventerebbe operativa. La totalità inerme si trasformerebbe in un'unità protettiva. Al posto del romanticismo della fratellanza subentrerebbe una logica cooperativa. L'umanità diventerebbe un concetto politico. I suoi membri non sarebbero più passeggeri della nave dei folli rappresentata dall'universalismo astratto, ma collaboratori al progetto, assolutamente concreto e discreto, di un design immunitario globale. Sebbene, fin dal principio, il comunismo fosse un conglomerato di poche idee giuste e molte idee sbagliate, la sua parte ragionevole: presto o tardi, l'idea che i supremi interessi comuni e di vitale importanza possano realizzarsi solamente in un orizzonte di ascesi universali e cooperative acquisterà necessariamente nuova validità. Essa spinge verso una macrostruttura di immunizzazioni globali: co-immunità. Una struttura simile si chiama" civiltà". Le sue regole monastiche vanno redatte ora o mai più. Esse codificheranno quelle antropotecniche che risultano conformi ali' esistenza nel contesto di tutti i contesti. Voler vivere al loro cospetto significherebbe prendere la decisione di assumere, in esercizi quotidiani, le buone abitudini di una sopravvivenza comune.

INDICE DEI NOMI

Atanasio di Alessandria, 314 Aulard, François-Alphonse, 1090

Abbot, Gilbert, 465 Accarino, Bruno, XXIVn Adler, Alfred, 46, 57, 158 Adorno, Theodor Wiesengrund, 189 Agamben, Giorgio, 157, 3130, 525n Agostino di lppona, 108, 118, 187n,208,209n,272n,374, 375, 376, 389 e o Alberti, Leon Battista, 385n Alessandro III di Macedonia (detto Alessandro Magno), 65 Alighieri, Dante, XIX Alleo Miller, Paul, 4590 Allsberg, Paul, XXIVn Amery, Carl, 69 Antonino Pio, 473 Antonovsky, Aaron, 42n Appadurai, Arjun, :x:x:vn Arendt, Hannah, 258 e o, 357, 435n Arguiller, Arlette, 495 Aristotele, 126, 200, 224, 225, 258,300,333,354,4900, 502,549 Aron, Raymond, 219 Ashoka,473 Asimov, lsaac, 123 Assmann, Aleida, 284 Assmann, Jan, 284

Babel, lsaac, 543 Babich, Babette, 239 Bachelard, Gaston, :x:x:vn, 187, 1980 Bachmann, lngeborg, 134 Bacin, Stefano, 5280 Badiou, Alain, 373 Bali, Hugo, 59, 75, 94, 160 e o, 315 Balzac, Honoré de, 464 Barbedette, Gilles, 196 Barth, Karl, 106 e o, 107, 108 Bataille, Georges, 187 Bauman, Zygmunt, XXIIn Bayertz, Kurt, 478n Beaufret, Jean, 199 Belting, Hans, 445 e o Benedetto da Norcia, 297, 311, 395n Benedetto XVI, papa, 346 Benjamin, Walter, XXVII, 366 Benn, Gottfried, 83 Benz, Ernst, 159n Berger, Klaus, 250 e o Bergson, Henri, 126 Berlichingen, Gotz von, 65, 450 Besancenot, Olivier, 495 Besant, Annie, 468

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INDICE DEI NOMI

Beuys,Joseph, 440 Bhabha, Homi, xxvn Binswanger, Ludwig, 184, 186, 197 e n, 198n, 215 e n, 216 Bismarck, Otto von, 481 Blake, William, 256 Blavatsky, Helena, 468 Bloch, Ernst, 432 Blonski, Pawel, 488n Bloom, Harold, 253n Blumenberg, Hans, XXII e n, 439en,455 en Bodin,Jean, 419 Bogdanov, Aleksandr AleksandroviC, 485, 487, 488n Bolk, Louis, XXVIIIn, 72, 73 Bolz, Norbert, 228n Bonaiuti, Gianluca, xxn Bora, Katharina von, 419 Borger, Walter, llOn Borso, Dario, 286n Bourdieu, Pierre, 136, 219, 220, 221,223,224,227,228, 229,442n Brandt, Ludwig, 465n Bréart, Miche!, 111 Brecht, Bertoldt, 493 Broch, Hermann, xxrvn Brock,Bazon,xxrvn,16n,350, 463,476n Brockling, Ulrich, 403n Brod, Max, 77 Briick, Michael von, 345 Briickle, Wolfgang, 27n Buber, Martin, 80 Bucharin, Nikolaj lvanoviC, 477 Buchheim, Thomas, 353 Buddha, 126, 271, 279, 281, 282 e n, 298, 325, 329n, 343,344,400,403,498, 519,537 Burckhardt,Jacob, 38, 385n, 399 Byron, George Gordon, 64, 81

Cacciari, Massimo, XXVIIIn Camus, Albert, XXI, 527 Canetti, Elias, xxrvn Carter,John, 131n Cassiano, Giovanni, 168, '.311 Castracani, Castruccio, 38 Catilina, Lucio Sergio, 135, 148 Cato, Hercole, 419n Celan, Paul, 25n Celati, Gianni, XIXn Cellini, Benvenuto, 360 Cernysevskij, Nikolaj GavriloviC, 477 Cesare, Gaio Giulio, 65, 108, 448 Chang,Jung, 526 Chasseguet-Smirgel, J anine, 530n Cherbury, Edward Herbert von,8n Chomsky, Noam, 221 Cicerone, Marco Tullio, 135, 314,447 Ciolkovskij, Konstantin, 485,

492 Cioran,Emil, 91, 92, 93 en, 94, 95 e n, 96, 98, 99en, 100, 101, 102, 104n, 105, 177 Claessens, Dieter, xxrvn, 454n Cocteau,Jean, XXII Cohen, Hermann, 118n Coleridge, Samuel Taylor, 84, 130 Colombo, Cristoforo, 551 Comenio (J an Amos Komensky), 41, 385, 387 e n, 388n, 390, 429, 430 e n, 431, 432 en, 433, 434n, 435 e n, 436, 437, 438, 442, 451 Comte, Auguste, 9, 109 Coubertin, Pierre de, 103, 104, 108, 109 e n, 110en,111, 112,113,115,119,192

INDICE DEI NOMI

Crowley, Aleister, 130 Cushman, Robert E., 359 Czerny, Carl, 444

Eracle, 356, 513 Eraclito di Efeso, 199, 200, 201, 202,204,206,210,211, 215,234,251,277,537 Erasmo da Rotterdam, 41, 426 Esiodo, 509 e n, 511 Eugippo, 349 Euripide, 514 Eybl, Franz M., 436n

Da Ponte, Lorenzo, 428 e n Dal Lago, Alessandro, :x:xmn Damiens, Robert François, 415 Darwin, Charles Robert, 37, 143, 144, 158 Daumal, René, XV e n Daume, Will, 116 Dawkins, Richard, xrvn, 3, 145, 146,147n Deacon, Terrence W., 141, 144n Debord, Guy, 401 Deleuze,Gilles,xxvn Derrida,Jacques, XXIXn, 354, 355 Dewey,John, 520, 521n Diano, Carlo, xxv e n Diderot, Denis, 315, 319, 432 Diogene Laerzio, XVI e n Dione Crisostomo, 208n, 239n Dionigi Areopagita, 59, 156, 157, 158 Dostoevskij, Fedor MichajloviC, 92 Duchamp, Marcel, 342, 447 Durkheim, Émile, 9, 219 Dzedinskij, Feliks EdmundoviC, 483, 484 e n

Farell, Brian, 180 Fauré, Gabriel, 110 Fedorov, Nikolaj, 434 e n, 485 Fellini, Federico, XXVI Feuerbach, Ludwig, 9, 228 Fichte,Johann Gottlieb, 121, 28ln,409,528 Fischart,Johannes, 419n Flaubert, Gustave, 416 Foerster, Heinz von, xxvn Foucault, Michel, XIV, xv, XVIn,170,183,184, 185 e n, 186, 187, 188, 189 e n, 190, 192, 193, 194, 196 e n, 197 e n, 198, 207, 213,215,218,226n,228, 235,239n,260,271,277, 37ln, 388, 389, 396, 411,414,415,421,422n, 442n,459n Foxhall, Lin, 459n Francesco d'Assisi, 104, 295 e n, 348, 378, 379, 512 Francesco I di Francia, 360 Frankl, Victor, 154n Freud, Sigmund, 57, 71, 124, 126,154,158,441,464, 491,500 Friedell, Egon, 334 Frugoni, Chiara, 450n

Egg, Loys, 508n Ehrlich, Paul, 11 Eliade, Mircea, 280n, 282n, 288,329n Eliano, Claudio, 448 Eliot, Thomas Stearns, 41 Ellenberg, Henry, 440 Engelmann, Paul, 165 e n, 166en Engels, Friedrich, 5, 119 e n, 520 Enginger, Bernard, 279 Epicuro, 377 Epitteto, 265, 266, 275 e n, 287

Gabler, Neil, 490n Gauthier, Lucien, 386 Gehlen, Arnold, xxrvn, 71, 73, 136, 413, 427n

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INDICE DEI NOMI

Habermas,Jiirgen, '}0Jl, XIX e n, , xxen,219 · Hadot, Pierre, XXIIIn, 350 e n, 351n, 368 e n, 371n Hagemeister, Michael, 124n, 409, 434n, 487n, 488n 489n 490n,491n Hagens, Gunther von, 440 Hahlweg, Werner, 449 Hahn, Alois, 308n Hamer, Dean, 21n Hamilton, Kenneth, 354 Hardt, Michael, '}0JIIIn Harms, Wolfgang, 436n Hasse, J iirgen, 271 Hauptmann, Gerhart, 54 Hayek, Friedrich August von, 473n Hebbel, Friedrich, 399 Hecker, Achim, 244 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 10, 304, 370, 428, 528 Heidegger, Martin, XIV, 12, 13, 26,37,52,73,95,152n, 170,184,186,197,199, 200 e n, 201, 202, 211, 212, 213,215,218,222,223,269, 286,302,339,366,462, 487,527,534,540,541, 542en Heiden, Anne von der, 124n, 488n,489n,490n,491n Heinsohn, Gunnar, 418,419, 420n, 421n, 422 e n Henrich, Dieter, 241 Henting, Hartmut von, 426 Herbart, J ohann Friedrich, 389n,423n Heubach, Friedrich W., 449 Higgins, Henry, 221 Hinckley, Robert, 466 Hiriyanna, Mysore, 327 e n Hitchcock, Alfred, 122 Hitchens, Christopher, 3

Genet,Jean, 142 e n, 226 e n Gesang, Berward, 414n Gesù di Nazaret, 60, 64, 87, 126,181,247,248,249, 266,281,310,373,403, 502,517 Ghiberti, Lorenzo, 3 85 Giddens, Anthony, 398n Giovanni Climaco, 59, 313, 317n Giovanni evangelista, 88, 249, 250,314,316,317,337 Giuliano l'Apostata, 504 Giustino di N ablus, 3 74 Godard,Jean-Luc, 493 Goebbels,Joseph, 63, 64, 66 Goethe,Johann Wolfgang von, 215,237,242,398 en, 490 e n, 538, 539 e n, 551 Goodyear, Dana, 127 Goring, Hermann, 63 Gosala, Makkhali, 281, 282, 283 Gracian y Morales, Baltasar 403,404 Gregorio di Nissa, 301, 306 Gregorio di Tours, 4n Gregorio I (detto Gregorio Magno), papa, 506 Gregorio '}01, papa, 412 Groys, Boris, '}0J!In, XXII e n, 124n,400,409,434n,485, 487n,488n,489n,490n, 49ln,535n Guattari, Felix, :xxvn Guglielmo II di Prussia e Germania, 63, 429 Gumbrecht, Hans Ulrich, 513n Gungl, J osef, 52 Giinter, Gotthard, XXIVn, 123 e n, 129n, 441en,518 Gurdjieff, Georges IvanoviC, 209,261 Gutenberg,Johann, 361, 426, 433,442,450,453

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INDICE DEI NOMI

l-Ioffrnann,Jose~170

1-Iolderlin, Friedrich, 153 1-Iornann, 1-Ieinz-Theo, 2 ln, 408n 1-Iorkheirner, Max, 189 1-Iorster, Detlef, 428 1-Iubbard, Lafayette Ronald, 103,104,108,117,119, 120 e n, 121, 122, 123, 124, 125,126,127,128,129,131 1-Iubbard, Ronald jr, 131 1-Iugo, Victor, 66, 525 1-Iui-Neng, Dajian, 328 e n 1-Iusserl, Edrnund, 73 e n Iagoda, Genrich GrigoreviC, 476n Ibsen,1-Ienrik, 197,215 Ignazio di Loyola, 42, 60, 65, 288,378,380,425,444 illich, Ivan, XXXn, 532 Institor, 1-Ieinrich, 419n lyengar, B.K.S., 328n Jacquet-Droz, Pierre, 438 Jaeger, Werner, XXIVn Jarnes, Williarn, 372 e n, 375 e n, 455 Janik,Allan, 170, 171n, 180n Jaroslavskij, Ernel'jan, 485, 487, 492 Jaspers, Karl, 235, 236 e n Jayakar, Pupul, 213n Johnson, Steven B., 532 e n Jonas, 1-Ians, 520, 552 J ung, Carl Gustav, 124 Kabakov, Emilia, 523n Kabakov, Il'ja, 523n Kafka,Franz,59, 76, 77n, 78, e 80, 81, 82 e n, 84, 85n, 88, 91,98 Kant, Irnrnanuel, XXIVn, 66, 126, 226n, 389, 505 e n, 506 Kaplan, Robert D., 521n

Kapp, Volker, 308n Kastner, Erich, 181 Kaufrnann, Friedrich, 438 Kaufrnann, Walter, 138 Kessler, 1-Iarry Graf, 525 Kierkegaard, S0ren, XXIVn, 66, 278 en, 286 en, 394 en Kircher, Athanasius, 432 Klirnt, Gustav, 170 Kluge, Alexander, 250 e n Knieper, Rolf, 418 e n, 420n, 422n Knoefel, Thornas, 400n Koch, Robert, 11 Koestler, Arthur, 473 Kojève, Alexandre, 81 Kolornan, Moser, 170 Koolhaas, Rern, xxvn Korn, Christopher, 389n, 505n Krajewski, Markus, 422n Kraus, Karl, 171 e n, 451 Krishnamurti,Jiddu, 213, 342 Kroll, Ji.irgen, 478n Krummacher, l-Ians-1-Ienrik, 436 La Mettrie, J ulien Offray de, 440 Lacan,Jacques, 350 Lacarrière, J acques, 187 Lacoue-Labarthe, Philippe, 126n Lafargue, Paul, 158 Lamartine, Alphonse de, 66 Lao-tzu, 126, 403 Larrnour, David 1-I.J., 459n Latour, Bruno, XXXIIn, 16n, 331,449n,463n Le Goff, J acques, 319 Leadbeater, Charles, 468 Legendre, Pierre, 415n Leghissa, Giovanni, XVIIn Leibniz, Gottfried Wilhelrn, XXIV,432 Leiris, Michel, 92

INDICE DEI NOMI

Lem, Stanislaw, 123 Lenin, Vladimir Il'ic Ul'janov, 219,476,477,491,526 Leone VI di Bisanzio, 448 Leopardi, Giacomo, 66 Lichtemberg, Georg Cristoph, 66 Liessmann, Paul Konrad, 429n Lilla, Mark, 118n Lindén, J an-Ivar, 225n Linke, Detlef, 21n Liszt, Franz, 53, 354 Livio, Tito, 448 Loos,Adolf, 170, 171, 176, 179 Louys, Spiridion, 111, 112 Lowith, Karl, 319n Luca evangelista, 248, 502n Luhmann, Niklas, XXIVn, 13, 294 e n, 407n, 529 e n Lukacs, Gyorgy, 223, 476 Lutero, Martin, 158n Luzzatto, Sergio, 79 Machiavelli, Niccolò, 373, 419, 530 Macho, Thomas, 18n, 105n, 156n, 165n, 168n, 284 e n Maclntyre, Alasdair, 395, 396n, 502n Magellano, Ferdinando, 433 Maharshi, Ramana, 342, 464 Mahavira, 325 Mahnke, Dietrich, xxv Maistre,Joseph de, 415, 416 e n Malraux, André, 114 Mandeville, Bernard, 530 Mann, Thomas, 83, 142 en Mansfeld,Jaap, 199 Mao Tse-tung, 493 Marco Aurelio Antonino, 250, 266, 267 e n, 276, 278 e n, 286 e n, 350, 351, 473, 542 Marco evangelista, 248, 266 Marx, Karl, 5, 6, 158, 228, 360 e n, 391, 460, 469 e n, 490n,520n,528

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Matteo evangelista, 248, 266, 393, 502n, 503n Mattheus, Bernd, 94n, 95n, 98n Mayer, Cornelius, 376n Mazumdar, Pravu, 215 McLuhan, Marshall, 461 Mefoikov, Il'ja Il'iC, 11 Mehta, Gita, 342 Meister Eckhart (J ohannes Eckhart), 339 Michaux, Henry, XXIII e n Michelet,Jules, 399 Milinda, 473 Milone di Crotone, 356 Montessori, Maria, 41 Morton, William, 465 Mosebach, Martin, 69 Mozart, Wolfgang Amadeus, 354,428en Muhammad, 118, 126, 403 Miihlmann, Heiner, 129n, 147n,372,534,536n Miiller, Harald, 397n Miiller, Klaus E., 60n Miiller, Stefan, 514 Muravjev, Valerian, 485, 488, 489,492 Nassau,Johann von, 448 Nassau, Wilhelm von, 448 Negri, Antonio, XVIIIn Nennen, Heinz-Ulrich, :xxn, Neumeister, Sebastian, 362 Nickl, Peter, 393n Nietzsche, Friedrich, XIV, xv, XXVIII, 1, 9, 20 e n, 32, 35, 37, 38, 39, 40, 41, 42 43, 44 en, 45, 46, 47, 48, 49,51, 52,55 en, 57, 67, 68, 75, 76, 78, 79, 87, 91 e n, 92, 93, 96, 107, 113, 129, 137 en, 138, 139, 140, 141, 143, 144 e n, 147, 149 e n, 150, 151 e n, 152, 154, 157, 158, 160, 170,173,183,187,191,

INDICE DEI NOMI

196,215,216,218,228, 239,240,241,253,260, 267 e n, 294, 295, 320, 333 en,350,357,394,398, 406, 407, 408 e n, 422, 498n, 504, 528 e n, 545, 546 Nolan,James L., 421 Nordhofen, Eckhard, 165n Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg), 407

247,333,354,355,358, 367,376,403,498,514 Platter, Charles, 459n Plessner, Helmuth, XXIVn, 261, 272,403,439 Plinio Secondo, Gaio (detto Plinio il Vecchio), 243 e n Plotino, 350 Plutarco di Cheronea, 208n Podzneev, Alekse1 Matveevich, 329n Poe, Edgar Allan, 336 Polibio, 448 Pongratz, Ludwig, 539 Portmann, Adolf, 72 Pricoco, Salvatore, 18ln, 285n, 297n,310n,349n,401n Prospero d'Aquitania, 227 Proudhon, Pierre-Joseph, 541, 542

Obama, Barack Hussein, 52 ln Omero, XVIII, 43, 201n Onasandro, 448 Oranien, Moritz von, 448 Orazio Placco, Quinto, 280n Osten, Manfred, 23 7, 411 Ovidio Nasone, Publio, 287 Pacioli, Luca, 390 Padre Pio da Pietrelcina, 79 Palloy, Pierre-François, 466 Panofsky, Erwin, 224 e n Pantanjali, 267 e n Paolo di Tarso, 65, 118, 300, 301, 302, 303, 304, 348, 349,370,371,372,373, 375,516,517,545 Parker, Robert, 450 Parsons, Jack, 131 Pascal, Blaise, 537 Patocka, J an, xv e n Pavlov, Ivan PetroviC, 491 Perl, Otto, 63, 68n Perniola, Mario, XVIn Perry, Heather, 464 Petrarca, Francesco, 272n, 397, 400,450 Pfeiffer-Belli, Wolfgang, 525n Pieper,Josef, 515n, 393 Pietro apostolo, 349 Pilato, Ponzio, 181 Pitagora, 498 Platone, XVII, XVIII, 34, 173, 203,204,206,240,244,

Rabbow, Paul, XXXII e n, 272n, 275n,266n Rabelais, François, 425 Rahner, Karl, 3060, 313n, 318n Rajneesh, Bhagwan Shree (detto Osho), 342, 343 Ralston, Aron, 464 Ramakrishna, 504 Ranchetti, Michele, 165n Rasputin (Grigorij Efimovic Novych), 130 Ravaisson, Félix, 225n Recalcati, Massimo, XVIIIn Reich, Wilhelm, 493 Remigio di Reims, 4n Richlin, Amy, 459n Rilke, Rainer Maria, XXXII, 12, 25,26,27 en,28,29,30, 31en,33,34,35,46,52,74, 131n,416,545,547 Rink, Friedrich Theodor, 505n Robespierre, Maximilien de, 373 Rodin, Auguste, 26, 27, 28, 31, 32,260,352

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INDICE DEI NOMI

Rogozov, Leonid, 464 Rolland, Romain, 321 Roosevelt, Theodor, 388, 389 Rorty, Richard, 520 e n, 52ln, 524 Rosenstock-Huessy, Eugen, 523n,542 Rousseau,Jean-Jacques, 402, 424,456 Ruskin, J ohn, 109 Russell, Bertrand, 165 Sade, Donatin-AlphonseFrançois de, 130 Safranski, Riidiger, xvn Sarasin, Philipp, 392 Sartre,Jean-Paul, XXII, 92, 231 e n, 309n, 394n, 460, 461en,465, 510 e n, 527 e n Saussure, Ferdinand de, 221 Sawaki, Kodo, 346n Scala, André, 196 Schafer, Alfred, 539 Schaller, Klaus, 438n Scheler,Max,52,64, 135, 153, 154 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph von, 528 Schivardi, Gérard, 495 Schlegel, Karl Wilhelm Friedrich von, 511 Schleiermacher, Friedrich, 66, 119, 295, 367, 407 Schliemann, Heinrich, 42, 76 Schliimer, Dirk, 79 Schmidt-Biggermann, Wilhelm, 436n Schmitt, Cari, XXVII Schmitz, Hermann, 73, 74, 398 Schopenhauer, Arthur, 37, 126 Schutz, Alfred, 219 Schweitzer, Albert, 42 Seneca, Lucio Anneo, 245n, 284, 303 e n, 304 e n, 305, 306, 351en,377n, 456 e n, 456,501 en

Sennett, Richard, 258, 357 e n, 359n, 360, 443 Senofonte, 448 Sève, Lucien, 337n, 359n Shakespeare, William, 429, 490 Shiva, 337 Simeone Stilita, 59 Sinjavskij, Andrej, 477n, 483 e n, 484en Sloterdijk, Peter, XVIn, xvnn, xvmn, xrxn, xxrrn, 14n, 72n, llln, 147n, 153n, 164n, 244n,271,298n,304n,313n, 366n,369n,372n,380n, 390n,400n,468n,509n, 516n,516n,520n Smith, Adam, 417, 530 Snell, Bruno, 335 Socrate, 18, 203, 246, 247, 310, 355,350,517 Sofocle, 152, 153n Solinas, Fernando, 245 Solzenicyn, Aleksandr Isaeviè':, 526 Spaemann, Robert, 96n Spengler, Oswald, 9n, 213 e n, 263, 334, 371, 374 e n, 376, 491

Sprenger,Jakob, 419n Sri Aurobindo (Aurobindo Goshe), 279, 342 Stach, Rainer, 77n Stalin, J osif Vissarionovic Dfogasvili, 83, 219, 220, 476 e n,477,479, 493 Stanislavskij, Konstantin Sergeeviè':, 209 Stanislaw,Joseph, 494 Steiger, Otto, 418n, 420n, 422n Steinbach, Matthias, 528n Steiner, Rudolf, 129 Stirner, Max, 57, 69 Stock, Gregory, 138 StrauB, J ohann, 52

INDICE DEI NOMI

Svetonio, Gaio Tranquillo, 448 Svjatogor, Aleksandr, 471, 482, 485

Vohringer, Margarete, 488n Volker, Klaus, 438n, 440n Voltaire (François-Marie Arouet), 464 von Kempelen,Johann Wolfgang Ritter, 438

Tarde, Gabriel, XXIVn, Taubes, J acob, :xxvrrn, 318n Tempete, Pierre, 425 Teresa D'Avila, 100 Tertùlliano, Quinto Settimio Fiorente, 84 e n, 250 e n, 251, 252, 409 Thatcher, Margaret, 494n Tipler, FrankJ., 517n Tommaso d'Aquino, 224, 225, 227 Tommaso da Celano, 295 e n, 379en Tommaso da Kempis, 209 e n, 256,444 TotaPuri,504,537 Toulmin, Stephen, 170, 17ln, 180n Trockij, Lev DavidoviC, 386 e n, 395n, 409n, 414, 461, 475 e n, 478, 490n Trombadori, Duccio, 187n, 196n Tiircke, Christoph, 295

Wagner, Richard, 109, 114 Weber,Max, 9,30,219,359 Wehmeyer, Grete, 443n Weibel, Peter, 153n, 485, 508n, 523n Weil, Simone, 89, 174,252 en, Weingart, Peter, 478n Weizsiicker, Carl Friederich von, 16 en, 214 en Welzig, Werner, 436n Whitman, Walt, 521n Wittgenstein, Ludwig, XIV, 6, 136, 164, 165 e n, 166 e n, 167,168,169,170,171, 172, 173, 174, 175, 176en, 177, 178, 179en, 182, 183, 185, 189, 190, 191, 192 en, 194,215,218,228,548 Wolff, Kurt, 82 Wiirtz, Hans, XXVII, 60 e n, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68 en, 69, 70, 74, 81, 113 Wyss, Beat, 39n

Unthan, Carl Hermann, 51, 52, 54, 53, 55 e n, 56, 58, 60, 75, 113

Yack,Bernard,456n Yergin, Daniel, 494n

Valéry, Paul, 498 van Diilmen, Richard, 416 van Middelaar, Luuk, 527 Varela, Francisco, xxvn Vesalio, 439 Viller, Marcel, 306n, 313n, 318n Vinken, Barbara, 414n

Zalkind, Aron, 490, 491 e n Ziegler,Jean, 494n Zierer, Michael, 52 Zimmer, Heinrich, 322 e n Zizek, Slavoj, 218n, 350n

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