Discorso Tesi 41 Bis [PDF]

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Zitiervorschau

Discorso: “La detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una morte parziale, l’asportazione di una porzione di vita”. Queste sono le parole di un giudice, il giudice del maxiprocesso alla mafia catanese, Elvio Fassone, nelle vesti di presidente della Corte d’Assise. Parlando con la moglie dopo la fine di questo processo Fassone si confessa dicendosi sollevato dalla fatica da un lato, ma triste per i molti ergastoli che aveva dato. “Ho “tolto” la vita a tanti ragazzi, soprattutto a Salvatore”. E ripete alla moglie, le parole che questo detenuto gli aveva detto e che lo avevano colpito: “se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia!”. Da qui l’idea della moglie che propone al giudice di scrivere a Salvatore, e lui lo fa. Una corrispondenza che dura da 30 anni e, qualche anno fa, dopo un tentato suicidio del detenuto, è divenuto un libro “Fine pena mai” edito da Sellerio. Questo dialogo tra un ergastolano ostativo, cioè, di quelli per i quali la pena realmente non finisce mai e colui che l’ha condannato, che mostra non un pentimento ma senso di umanità e responsabilità, mi ha particolarmente colpita. Perché è una storia diversa da quella che quotidianamente si registra nelle aule giudiziarie, fatte anche di routine procedurale, e dove, come scrive lo stesso magistrato autore del libro, l’imputato è “presente al giudice quale semplice entità metafisica, una sorta di contrappunto concettuale e anonimo alla nozione della contumacia”. Leggendo questo libro mi sono resa conto di come, dopo la sentenza, ci sia ancora bisogno di giustizia; così come ci sia la necessità di conoscenza reale delle persone che il giudice si trova davanti, che renderebbe certamente più efficace la giustizia penale. Perché, come scrive il magistrato, “il fatto che qualcuno che ti è vicino sappia che tu soffri non toglie nemmeno un grammo del tuo dolore, ma fa sì che questo pesi di meno”. Da ciò il desiderio di approfondire questo tema, quello della detenzione in molti dei suoi aspetti, per capire come funziona il sistema e come potrebbe essere migliorato.

E nelle parole, sia del giudice Fassone che del detenuto Salvatore (nome di fantasia ndr), c’è il senso di ciò che io ho inteso affrontare con questa mia tesi, cioè il tema dell’utilità dell’ergastolo, in particolare quello ostativo, nel sistema giudiziario italiano, ma anche sul valore in sé della detenzione e sulla reale funzione riabilitativa del carcere. In questo mio viaggio nelle carceri, attraverso i testi, le testimonianze, le interviste ed i rapporti epistolari con alcuni detenuti, mi sono imbattuta in un panorama che, spesso, è ben lontano da quelli che sono i punti di principi su cui il sistema dovrebbe basarsi. Ho incontrato, lungo questo sentiero di conoscenza, anche termini che sembrano essere inconciliabili solo con il fatto che siamo nel XXI secolo e viviamo in un Paese, come l’Italia, che si professa civile. Sto parlando di tortura, privazione di dignità, violenza, maltrattamenti. Espressioni, queste, ben lontane dal fatto che lo Stato, attraverso le carceri, dovrebbe, invece, rieducare, redimere cittadini che hanno sbagliato e non concentrarsi, come spesso è accaduto e talvolta accade ancora, sull’aspetto puramente repressivo della pena detentiva. Così come strumenti come l’applicazione del 41 bis, vale a dire il carcere duro, l’ergastolo (specie quello ostativo) ben lontani da quello che dovrebbe essere il fine ultimo della giustizia, cioè, redimere chi ha violato le leggi. Ho evidenziato, nella mia tesi, che si tratta di strumenti adottati dallo Stato in una fase emergenziale, messi in campo per fronteggiare il fenomeno del terrorismo degli anni di piombo, prima, della criminalità organizzata e dalle stragi di mafia, poi. Anche in questo ambito, però, si è visto come in Italia non c’è nulla di più definitivo delle cose nate per essere provvisorie, con la conseguenza che le deroghe delle norme sono finite per diventare consuetudine, con buona pace della civiltà del diritto. Ed a raccontare tutto ciò, le voci dei detenuti, di coloro che hanno subito sulla propria pelle questo lato ingiusto della giustizia; una voce che, per troppo tempo, è stata inascoltata, sacrificata sull’altare delle emergenze che di volta in volta le articolazioni

dello Stato si trovavano a dover affrontare. Silenzio rotto, ad esempio, da libri come “Le Cayenne italiane” di Pasquale De Feo e “L’inferno di Pianosa. L’esperienza del 41 bis nel 1992” di Rosario Enzo Indelicato, che ho preso come principali spunti per questa mia tesi. In questi due volumi sono trattati i casi non solo dei detenuti De Feo e Indelicato, ma anche di due luoghi simbolo, le famose carceri speciali di Pianosa e dell'Asinara. Ed a certificare ciò che accadeva nelle celle di questi due, come di altre carceri, anche le parole di giudici, come il magistrato di sorveglianza Rinaldo Meroni, così descrive la situazione che ha trovato: "Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose." Ed aggiunge: "non è certamente questo il modo di rafforzare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione". Le testimonianze dei detenuti sono state importanti perché hanno narrato degli autentici "inferni", gestiti dallo Stato, in cui sembra si sia smarrito il lume dell'umanità, della pietas, ma anche, più semplicemente, della civiltà. Ho cercato di approfondire, anche, il tema dei confini, talvolta assai labili, tra sicurezza, giustizia, applicazione di norme e la negazione dei più elementari diritti, che ha portato alla creazione di una sorta di “tritacarne dei diritti” dove chiunque può finire e rimanere stritolato. E le testimonianze di chi in questi “inferni” c’è passato sono talmente crude e disperanti, talvolta, che hanno evocato in me, così come ho scritto, quelle di un altro libro, “Se questo è un uomo” di Primo Levi, che narra della permanenza nei lager tedeschi. E l’accostamento non appaia forzato. Il racconto di ciò che hanno subito De Feo, Indelicato e molti altri detenuti nelle carceri italiani, fa emergere come uno strumento, come quello del 41 bis, nato con le migliori intenzioni, quelle di frenare l’espansione dell’attività mafiosa, col tempo si sia trasformato tanto da essere accostato ad un'autentica tortura.

Non a caso, anche alla luce di recenti episodi di cronaca, è ripartito a livello nazionale il dibattito per una sua eventuale modifica. Rispondendo ad una domanda che gli ho rivolto nella intervista, De Feo così si è espresso: “L’ergastolo è fine pena mai o 9999 anni. Oggi il 90% degli ergastolani ha l’ergastolo ostativo = pena di morte, perché esclusi da ogni pena alternativa, l’ha dichiarato anche il Papa che l’ha chiamata “pena di morte nascosta”. E sulla funzione rieducatrice del carcere ha aggiunto: “No. Il carcere ti può solo fare diventare peggiore perché l’impronta è ottocentesca di conseguenza repressiva, fino a quando non cambia la mentalità, le chiacchere che i politici vanno cianciando è una favola come quella di pinocchio”. De Feo è stato un testimone diretto di ciò che è l'articolo 41 bis, che non doveva diventare uno strumento ordinario (come invece è divenuto dal 2002) ma restare misura d’emergenza. Così come la sua applicazione non doveva essere spinta fino a, secondo il parere di autorevoli autori e giuristi, limitare ciò che è contenuto nella Carta Costituzionale, che sancisce che le pene inflitte devono tendere sempre alla rieducazione e al reinserimento sociale. Ho parlato, nel mio scritto, anche del fatto che, l'applicazione di queste norme un po’ borderline, come il già citato 41 bis e non solo, hanno anche l'effetto di far diminuire la sensibilità nei confronti dei diritti. Le conseguenze sono le derive che poi, periodicamente, emergono nei casi di cronaca, come quelli della caserma Diaz a Genova, di Cucchi e Aldrovandi, per restare solo ai più noti. Così come testimone di ciò che accadeva in questa carceri speciali, è stato Rosario Indelicato, con l’aggravante che lui, in quelle celle, c’è arrivato da incensurato. “Mi trovavo – racconta - detenuto da circa 3 mesi a Palermo. Successe la strage di Capaci e dall’ottava sezione dove ero detenuto mi passarono alla seconda sezione, che è una sezione del carcere dell’Ucciardone un po' più vigilata. Successe la strage di Borsellino e 52 detenuti, la stessa notte, fummo presi all’improvviso e portati all’aeroporto di Punta-Raisi e trasferiti a Pianosa. Poi iniziò l’inferno già dal giorno dopo.

Io ero un incensurato, non avevo subito neanche il rinvio a giudizio, ecco perché vi dico cattiveria allo stato puro. Mi portarono la con lo scopo di farmi pentire, ma pentire di che cosa?”. Nel primo capitolo, in particolare, mi sono dedicata a quelle che sono state definite le isole “infernali”, vale a dire Pianosa e l’Asinara. Nello specifico, a Pianosa ci fu anche la visita di parlamentari che, successivamente, presentarono un'interrogazione al Ministro della Giustizia chiedendo se risultava che in quel carcere “si imponesse ai detenuti un'attività sportiva -fisica in modo indiscriminato e crudele”. Così come se vi fossero “abituali forme di violenza quali pugni, calci e manganellate fino all' abuso nei confronti di due detenuti handicappati che erano stati visti recarsi senza stampelle senza aiuto strisciando per terra a colloqui con familiari e difensori”. Nella stessa interrogazione veniva chiesto se era vero che non fosse consentito il cambio delle scarpe, se si consentisse l'uso delle docce una volta ogni 15 giorni per tre o quattro minuti chiudendo l'erogazione dell'acqua all'improvviso. Ed ancora, che ai detenuti venissero dati 34 pezzi di pasta corta, una patata e un litro di acqua per l'intera giornata, senza carne e pesce così come previsto dai regolamenti e se si fosse registrato una caduta di peso dei detenuti di 10 kg e che gli stessi fossero costretti al silenzio sia durante le ore d'aria che nelle stesse celle. Di questa situazione del 41 bis ebbe ad occuparsi anche il comitato europeo per la prevenzione della tortura, ed è risultato il regime detentivo più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. Ho citato, poi, anche le sentenze emesse dalla Corte Europea in ordine alla violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa del carcere di Pianosa. Le carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa sono state chiuse nel 1998. Ho tracciato anche quella che è stata l’evoluzione del sistema carcerario italiano,

anche per comprendere a come si sia giunto a situazioni come quelle descritte nelle testimonianze citate nella mia tesi. Partendo dal “Regolamento per gli istituti di Prevenzione e Pena” , meglio conosciuto come codice Rocco, dal suo autore, Alfredo Rocco, che lo elaborò nel 1931; un codice che ha un'impronta prettamente fascista. Il primo spartiacque si ebbe a metà degli anni '70 quando i fermenti sociali portarono in tutte le istituzioni l'urgenza di cambiamento delle nuove generazioni. Così agli operai e studenti che protestavano, la classe politica reagisce con una forte repressione, che portò alla così detta strategia della tensione, alla radicalizzazione dello scontro sociale. In carcere, così, finiscono persone e figure sociali diverse dal passato. Non a caso dal 1969 al 1974 si registrarono rivolte e lotte perché si scoprì che anche i detenuti era detentori di diritti. Nascono, così, gli articoli che restringono i diritti, come l’articolo 90, una disposizione finale e transitoria per esigenze di sicurezza, che recita:

“Quando

ricorrono gravi ed eccezionali motivi d'ordine e sicurezza il ministro per la Grazia e la Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte l'applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari per un periodo determinato, strettamente necessario”. L'articolo 90 della legge del '75 si trasformò nel 1986 nell'articolo 41 bis. Anche in questo caso c'è la facoltà di sospendere le proprie regole ordinarie, che differenzia il trattamento. Sorsero le carceri speciali, selezionate dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Della Chiesa, in base ad informazioni raccolte dalle direzioni: Asinara, Fossombrone, Cuneo, Novara, Nuoro, Trani, la diramazione Agrippa di Pianosa. L'idea principale è quella dell'isolamento dall'esterno e dall'interno. Chiusa l’emergenza del terrorismo e degli anni di piombo, se ne palesò all’orizzonte subito un’altra nuova, vale a dire quella delle stragi mafiosi, con l’uccisione, tra gli altri, del citato generale Dalla Chiesa e dei magistrati Falcone e Borsellino.

A precederla (art. 90) ci fu la legge n° 304 del 29 maggio 1982, meglio nota come “legge sui pentiti” che si basa sullo scambio tra sconto di pena e informazioni. Nacquero anche due nuove figure giuridiche: il pentito che, in cambio di informazioni sulla sua organizzazione, vede la sua pena fortemente ridotta o, in certi casi "dimenticata" e il dissociato che, in cambio di uno sconto di pena, si impegna a riconoscere l’insieme dei delitti che gli sono contestati ed a rinunciare all’uso della violenza. Nel capitolo due, invece, ho approfondito il tema delle carceri speciali, create in nome della sicurezza e di come l’emergenza sia finita per diventare un alibi per i diritti negati. In determinati istituti penitenziari vennero istituiti i cosiddetti “reparti speciali”, di “massima sicurezza”, per ospitare quei detenuti ritenuti responsabili di determinati fatti delittuosi. Sull’onda delle stragi dei giudici Falcone e Borsellino il Governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n.306/1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41 bis. Nel contempo, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara. È proprio nel pieno di questa tempesta provocata dalle stragi mafiose, arriva a Pianosa Rosario Indelicato che vi rimarrà dall’estate del 1992 fino al 1997. Insieme alla sua storia, ho scritto anche, in questo capitolo, il caso di Benedetto Labita, che è uno di quelli affrontati dalla Corte europea. A suo dire “il 41 bis non è una tortura per chi è in prigione, è una tortura per i familiari per quelli che vengono a trovare i detenuti, come vengono trattati per quello che devono sopportare”. Ho inserito anche la testimonianza di Antonio De Feo (fratello di Pasquale), per il quale “il 41 bis è una tortura istituzionalizzata che viene coperta con la censura delle parole. Quella più usata è quella di «carcere duro». Il carcere non si limita al contenimento fisico, ma annichilisce l'animo, stritola gli affetti e ti segna per tutta la vita (…)”.

Raccontando la sua esperienza, Antonio De Feo sottolinea come “ogni occasione era buona per picchiare, e ingiuriare, il corridoio del linciaggio era stato limitato, ma il Calvario continuò per mesi, per anni”. Ho trattato, inoltre, dell’efficacia o meno del 41 bis. In merito ho citato Francesca Carolis che sottolinea come il sistema emergenziale autorizzò ad aprire pericolose aree di sospensione del diritto. “Dimenticando – scrive - che la negazione dei principi dello stato di diritto nei confronti del peggiore di noi, non può che aprire gravissime falle nella democrazia ed è cosa che prima o poi tutti può toccare… Le leggi emergenziali, che tutto sembrano giustificare, diventano buchi neri nei quali tutto può precipitare. A cominciare dalla nostra “civiltà”. Ho riferito, poi, della relazione della Commissione Diritti Umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi che chiedeva il ripristino dei diritti violati, così della pubblicazione dei penalisti della Camera penale di Roma in cui si denuncia il 41bis. Nel terzo capitolo, l’argomento che ho trattato è quello delle funzioni della pena dell'ergastolo e la sua esecuzione, con particolare riferimento all’ergastolo ostativo. Ho inserito anche quello che è il pensiero del fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, sul tema. A suo dire “impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Ricorda che la suprema Corte ha sentenziato che la pena dell'ergastolo era da considerarsi legittima solo in quanto effettivamente non perpetua”. Altre testimonianze inserite riguardano il tema della salute, un altro dei diritti spesso violati in carcere, così come quello della morte. Ad esempio, il detenuto Carmelo Musumeci sottolinea come “l'ergastolano è uno strano fantasma che non riesce a morire e ha più paura di vivere che di morire. Non è scandaloso se in carcere ci si toglie spesso la vita, è più scandaloso se uno non se la toglie”. Ho dedicato spazio anche al ruolo, sempre più importante nel panorama della Giustizia dei giorni nostri, ai cosiddetti pentiti e collaboratori, tipologie spesso confuse, e della famiglia e l’affettività in carcere.

L’obiettivo di questo mio lavoro era quello di verificare, attraverso l’analisi della normativa e della giurisprudenza nazionale, la legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Dopo il percorso fatto, è emerso che disciplina pone diversi problemi in relazione a due profili di rilevanza costituzionale: il principio rieducativo ed il principio del divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti. Essenziali, in questo percorso, oltre alle consultazioni di testi e altre fonti su internet, l'intervista con il detenuto, Rosario Indelicato che è stato al regime del 41 bis, e la corrispondenza epistolare con Pasquale De Feo, detenuto di Alta sorveglianza. Infatti, oltre alla mera testimonianza delle loro vite da “ristretti”, i due, hanno fornito anche delle proposte concrete su cosa si potrebbe fare per migliorare concretamente la vita all'interno delle carceri. In particolare, poi, De Feo ha sviluppato una sua teoria, secondo cui il carcere ostativo è, nella stragrande maggioranza dato ai detenuti meridionali. Questo, come altri spunti che, anche per motivi di spazio non ho potuto approfondire spero possono essere spunti di ulteriori approfondimenti sul tema. È emerso che il principio rieducativo della pena spesso è passato in secondo piano, a favore di una tendenza più repressiva, di carattere più punitivo che, talvolta, è sconfinata nella negazione dei diritti. Ciò che, a mio parere, non deve venir mai meno è il principio che tra delitti e pene vi deve essere una proporzione necessaria, così come quello per cui il fine della pena non può essere quello di tormentare e affliggere un essere umano, ma di impedire che il reo commetta nuovi crimini e che altri commettano gli stessi. Per non smarrire il cammino, la bussola da seguire è quella che indica come “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Nel nostro Paese è aperto da tempo un dibattito tra chi pensa che queste misure siano giuste e proporzionate vista la gravità dei reati commessi, e chi, sostiene come l'ergastolo, specialmente quello ostativo, sia contrario ai principi stessi della Costituzione, che parla di rieducazione del reo e di un suo reinserimento nella società. Nel concludere questa mia esposizione, voglio citare, non prima di avervi ringraziati per l’attenzione prestatami, una frase significativa di Silvia Giacomoni, giornalista e moglie di Giorgio Bocca: “Il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti: ma la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia”. Grazie.