Crisi e rinascita del liberalismo classico
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Zitiervorschau

philosophica [102]

Antonio Masala

Crisi e rinascita del liberalismo classico

Edizioni ETS

www.edizioniets.com

© Copyright 2012 EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673385-6

A Özge

Prefazione

Questo lavoro prende le mosse da una serie di importanti problemi di filosofia politica, sollevati con forza negli anni del secondo dopoguerra da alcuni grandi pensatori del Novecento. Questi autori erano convinti che il mondo occidentale si trovasse in uno stato di profonda crisi morale e spirituale e che la filosofia politica, una disciplina a loro giudizio quasi scomparsa, fosse corresponsabile di quella crisi, perché non più capace di riflettere sul problema del buon ordine politico. Il liberalismo era considerato tra le cause di quella crisi. Esso veniva, in forme diverse, accusato di essere diventato relativista e di proporre una semplicistica “soluzione del problema politico con mezzi economici”. Agli occhi di molti dei suoi critici il liberalismo non rifletteva più sulla necessità di un innalzamento morale e spirituale dell’uomo come via necessaria per trovare la migliore soluzione al problema della convivenza civile, ma riteneva che per raggiungere un tale obiettivo bastasse un miglioramento del tenore di vita, ottenibile con la tecnica. Al di là di quanto quelle analisi riguardo alla crisi dell’Occidente e quelle critiche al liberalismo fossero attendibili e fondate, esse rappresentano un interessante punto di partenza per riflettere su cosa sia la teoria liberale, quale sia la sua idea di un “giusto” ordine politico e di come un tale obiettivo si possa perseguire. Il problema non è dunque (solo) quanto quella crisi fosse reale e quanto il liberalismo ne fosse veramente responsabile, ma è (soprattutto) nella sfida che quelle riflessioni lanciano al liberalismo. L’intento di questo lavoro è dunque cercare di capire in cosa consista la filosofia politica del liberalismo classico, e in che termini la sua rinascita, che per molti versi è anche una rivisitazione dell’ “antica tradizione”, sia anche, per quanto in maniera indiretta, una risposta a quei problemi e a quelle critiche. E questo in ragione del fatto

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che il liberalismo classico può essere prima di tutto interpretato come una riflessione intorno a quello che è forse il problema paradigmatico della filosofia politica, ossia il problema di come sia possibile la formazione e lo sviluppo dell’ordine, che è visto come un ordine sociale prima che politico, cosa che peraltro impone una ridefinizione della politica e dei suoi compiti. Si è proceduto dunque seguendo un filo logico che passa anche per la ricostruzione del pensiero degli esponenti del liberalismo classico, ma che vuole sempre essere funzionale alla trattazione di cosa sia, e come sia realizzabile, il buon ordine per la teoria liberale. Dopo l’analisi di alcune critiche al liberalismo come corresponsabile della crisi della filosofia politica si è dunque passati ad analizzare il mutamento avvenuto all’interno della stessa teoria liberale, guardando alla lenta e graduale modificazione dei princìpi del liberalismo classico a favore di un “nuovo” liberalismo, edificato su basi completamente diverse. Questo nuovo liberalismo, nelle sue diverse diramazioni, diventa presto il mainstream liberale ed è al contempo conseguenza e causa dell’idea che il “vecchio” liberalismo, e con esso il laissez-faire e in parte la stessa libertà economica, fossero ormai superati dalla storia. Proprio questo aver abbandonato i vecchi princìpi trasforma il liberalismo in qualcosa di diverso, e tale trasformazione spiega perché si è reso necessario da una parte parlare di rinascita e dall’altra usare il termine liberalismo “classico”. Si parla di rinascita perché, anche proponendo una diversa interpretazione delle cause della crisi “storica” del liberalismo, a partire dagli anni del dopoguerra si apre la strada a un ripensamento della teoria e della pratica liberale, un ripensamento che consiste però in un recupero, e non in una negazione, delle proprie radici. E si usa il termine liberalismo classico proprio perché si vuole mettere in luce il recupero di queste radici, e il ritorno “ripensato” ad esse, cosa che invece non può essere realizzata dai termini neo-liberalismo o new right. Dopo aver analizzato le trasformazioni del liberalismo, e il modo diverso in cui i liberali stessi hanno visto la “crisi” della teoria liberale, viene presa in esame la critica del totalitarismo, essenziale da un duplice punto di vista. Da un lato dimostra come i pensatori liberali, scrivendo negli anni della guerra alcune grandi opere, si siano saputi confrontare con “il male che si affaccia nella storia”, smentendo così, almeno in parte, la tesi della crisi della filosofia politica. Da un altro punto di vista tale critica è essenziale anche nella individuazione del fondamento della società libera; guardando al totalitarismo, alle sue cause remote così

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come ai rischi attuali di una penetrazione della mentalità totalitaria nelle società democratiche, gli esponenti del liberalismo classico ragionano sui presupposti, sui pregi e sulla necessità di un ordine politico liberale, e su cosa sia necessario fare per sventare il pericolo di una sua scomparsa o per cercare di ripristinarlo. È anche un ragionamento sul cosa comporti il voler attribuire allo stato un carattere etico, qualunque sia l’etica a cui si fa riferimento, cosa che porta con sé la ridefinizione di un altro concetto classico della filosofia politica, quello di “società buona”. In stretta continuità con quelle riflessioni si pone il confronto con la teoria democratica, confronto che deve necessariamente partire da una (ri) definizione del concetto di libertà che è a fondamento del liberalismo stesso, per valutarne la compatibilità con la democrazia. Il riconoscerne la necessità della democrazia non deve infatti far dimenticare che il fondamento delle due teorie politiche, liberale e democratica, rimane comunque diverso, e che la felice combinazione tra le due non è il frutto di una necessità logica, ma un bene per il quale è costantemente necessario lottare, anche con le armi della riflessione filosofica. E dimenticare i molteplici rischi che una versione non liberale della democrazia comporta è un pericolo che molto difficilmente sembra destinato a cessare. L’ultimo capitolo affronta infine in maniera organica tutta una serie di concetti e di problemi introdotti in precedenza, in particolare quale sia la soluzione liberale classica al problema dell’ordine, quali ne siano le origini e perché essa sia diversa da altri “modelli” di ordine, a cui pure attingono altre importanti correnti del liberalismo del Novecento. All’interno della tradizione liberale è infatti possibile tracciare una distinzione tra due diversi modelli di ordine. Da una parte vi è la teoria per la quale l’ordine è necessariamente artificiale, va costruito dall’uomo usando la sua ragione e le sue paure. È il modello che ha in Hobbes il suo ideatore, e che si basa sull’idea che l’uomo lasciato a sé stesso vivrebbe in una perenne guerra di tutti contro tutti. Una corrente del liberalismo ha accettato, pur trasformandola radicalmente nella forma e nella realizzazione, la soluzione hobbesiana dell’ordine politico: esiste un sovrano capace di identificare il bene comune e di farlo rispettare, si tratta del sovrano democratico, che governa e produce norme per volontà del popolo e nel suo interesse, ed è limitato costituzionalmente nelle sue scelte al fine di tutelare la libertà individuale. La seconda teoria sostiene invece che l’ordine non è conseguenza di un progetto umano, ma è invece il risultato inintenzionale di azioni umane che sono rivolte ad altri fini, e ha il suo iniziatore in Mandeville. Per questa tra-

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dizione di pensiero l’ordine si forma partendo proprio dai limiti della ragione, riconoscendo che i migliori vantaggi si traggono da processi di cui l’uomo non è consapevole, e che non è in grado di dirigere deliberatamente. Non è quindi una buona soluzione quella di una “mente ordinatrice”, e bisogna invece guardare ad un ordine che sia il risultato di un’evoluzione che ha lasciato in vita le regole universalizzabili, quelle che rendono prevedibili i comportamenti altrui e creano meno conseguenze indesiderate, e che ha eliminato le altre. Questa soluzione è quella propria del liberalismo classico, e qui si tenta un confronto con i suoi pregi e i sui difetti, cercando si spiegare perché essa non può essere considerata relativistica e dedicando attenzione alla tensione irrisolta tra evoluzionismo e diritto naturale, ma anche al significato e al ruolo, entrambi spesso fraintesi, del diritto di proprietà nella tradizione liberale. La riflessione del liberalismo classico intorno al problema della convivenza civile e del miglior regime politico si presenta sempre, anche quando non risulta per molti versi convincente, con caratteri di forza e di notevole originalità. E questo sia rispetto alla trattazione “canonica” della filosofia politica sia rispetto alle soluzioni proposte dalle altre correnti del liberalismo contemporaneo. Questa riflessione, anche per il non ritenere (quasi) mai legittimo l’uso della coercizione, porta a un ripensamento e a una rivisitazione di molti dei temi classici della filosofia politica, che non può essere letta come una semplicistica riduzione della politica all’economia. Anche per il liberalismo classico il ruolo della politica rimane fondamentale, ma esso viene ripensato nei suoi fondamenti e nei suoi compiti, e la “politica”, intesa come processo capace di produrre buone regole, non si identifica più semplicemente con lo stato o con le scelte collettive. Tutti motivi che inducono a sostenere che forse è proprio a partire dalla rinascita del liberalismo classico che si può datare una nuova e intensa stagione della riflessione filosofica sulla politica. Molte persone devono essere ringraziate se questo libro, dopo un’incubazione lunga e carica di ripensamenti, e nonostante tutti i possibili limiti e manchevolezze di cui solo l’autore è responsabile, ha visto la luce. Raimondo Cubeddu, Giovanni Giorgini, Flavia Monceri, Giovanni Orsina ne hanno seguito l’evoluzione negli anni, accompagnandola con preziosi consigli, suggerimenti ed incoraggiamenti. Un ringraziamento particolare va anche ad Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, con il quale ho discusso molti dei temi qui trattati.

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Le lunghe e istruttive conversazioni con gli amici e colleghi Maria Elena Cavallaro, Carlo Cordasco, Francesco di Iorio, Stefano Gattei, Andrea Giannaccari, Carlo Lottieri, Eugenio Pizzimenti, sono state un costante stimolo alla riflessione, così come lo sono stati i commenti dei miei studenti dei vari cicli di dottorato all’IMT Alti Studi Lucca, che durante le lezioni e i seminari hanno ascoltato molte delle idee contenute in questo libro. Due soggiorni di studio negli Stati Uniti sono stati possibili grazie alla generosa ospitalità del Mises Institute di Auburn, Alabama, e della Foundation for Economic Education di Irvington, New York. Durante quei mesi intensi non solo è stato possibile raccogliere materiale e consultare archivi, ma anche conoscere tanti appassionati studiosi del pensiero liberale, dai quali molto ho imparato. Leonardo Amoroso, Paolo Cristofolini, Adriano Fabris, Alfonso M. Iacono, Stefano Perfetti, hanno accettato di ospitare questo lavoro nella loro collana, e di questo sono loro grato. Un ringraziamento di tipo diverso ma altrettanto importante, va poi a mia moglie Özge, a cui il libro è dedicato, a mia madre, a Giovanna, a Josephine, a Fabiana e alle piccole Emma e Paoletta.

Capitolo Primo LIBERALISMO E FILOSOFIA POLITICA

A partire dagli anni della Seconda guerra mondiale, anche se alcune riflessioni affondavano le radici nel periodo precedente, si sviluppò tra i filosofi politici un intenso dibattito su quella che veniva considerata una profonda crisi della teoria politica. Qui si intende ripercorrere, pur senza pretesa di esaustività, quel dibattito, con l’intento di mettere a fuoco le critiche rivolte alla tradizione liberale, la quale era spesso ritenuta responsabile o almeno corresponsabile non solo della crisi della teoria politica ma anche dello stato di decadenza della civiltà occidentale, testimoniato dalla guerra e dai totalitarismi. Al di là di quanto le si trovino attuali o convincenti, quelle critiche rappresentano una pagina importante della filosofia politica contemporanea, e hanno comunque il pregio di individuare dei problemi aperti all’interno della tradizione liberale; problemi ai quali il liberalismo del Novecento, che si avessero in mente o no quelle critiche, cercherà di dare delle risposte. Esse dunque rappresentano un punto di partenza, non necessario ma possibile, per verificare se e quanto vi sia stata nel dopoguerra una rinascita del liberalismo e una revisione di alcuni dei suoi princìpi, se non anche un recupero di alcune delle sue origini dimenticate. Un punto di partenza per cercare di capire meglio cosa sia il liberalismo e per mettere ordine riguardo a una tradizione di pensiero tanto ricca quanto varia, e anche per questo alle volte conflittuale al proprio interno.

1. La crisi della filosofia politica È noto come la fine della Seconda guerra mondiale segni uno spartiacque in termini storici e politici. Lo spartiacque fu anche, e non poteva essere altrimenti, nella riflessione teorica sulla politica. All’affer-

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marsi degli Stati Uniti sulla scena mondiale corrispondeva l’affermarsi di una disciplina relativamente giovane, la scienza politica, la quale portava con sé metodi, tecniche e obiettivi nuovi nello studio della politica. Si poneva dunque il problema di cosa rimanesse della grande tradizione precedente, ossia di quale fosse il ruolo della filosofia politica, una disciplina più europea che americana, e che a molti sembrava porsi domande vecchie in un mondo che invece era prepotentemente cambiato. La filosofia politica doveva in un certo senso fare i conti con sé stessa, e non solo dimostrare la propria utilità, ma anche riflettere su quali fossero le proprie responsabilità rispetto a eventi storici tragici, che si erano verificati proprio là dove la sua influenza sembrava essere stata più presente. Lo sterminio, non solo in operazioni belliche, di milioni di uomini, era qualcosa di così terrificante da rendere necessaria una riflessione profonda su quale fosse il fondamento della convivenza civile. Tale fondamento sembrava essere messo in discussione anche dal fatto che i regimi totalitari erano riusciti ad avere almeno l’assenso, se non anche il consenso attivo, di una grande parte della popolazione. Inoltre, proprio i leader di quei movimenti che negavano il concetto stesso di civiltà, sembravano almeno in parte essere andati al potere con gli strumenti della democrazia, e in ogni caso non avevano dichiarato di esserne la negazione ma semmai il superamento, l’inveramento e quant’altro. La fine della guerra poi, non aveva coinciso con la fine dei rischi per la civiltà. Il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, e se uno appariva totalitario l’altro, almeno dal punto di vista filosofico, attraversava una crisi profonda. L’ibrido liberal-democratico, che muoveva allora i primi passi, era soggetto a critiche riguardanti entrambi i paradigmi da cui era composto. La democrazia appariva a molti come un semplice strumento, di per sé non sufficiente a garantire dai rischi del totalitarismo e l’idea che l’estensione del suffragio fosse una soluzione ottimale del problema politico, per il suo consentire di contare le teste anziché tagliarle, sembrava essere inficiata dalla realtà storica. Infatti ciò che era avvenuto è che prima si era proceduto ad una conta, e poi, e in parte anche guardando a quella conta come ad una giustificazione, si era proceduto al taglio. Al liberalismo si imputava invece, da più parti, la responsabilità di aver condotto a un relativismo di valori che veniva indicato come una delle principali cause della crisi che aveva coinvolto la civiltà occidentale. Tutto questo indusse Walter Lippman, convinto sostenitore della democrazia liberale, a scrivere: «viviamo in un’epoca, in cui si è delineata una massiccia controrivoluzione popolare a danno

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della democrazia liberale. È una reazione all’insufficienza dell’Occidente ad affrontare le miserie e le angosce del secolo: le democrazie liberali sono chiamate in causa, per la loro incapacità a governare con efficienza, in un periodo di guerre e sollevazioni, ma altresì per la loro scarsa idoneità a difendere e conservare la filosofia politica che sostanzia il costume di vita liberale»1. A preoccupare Lippman era il fatto che il cessare della riflessione sui valori, riflessione tipica della filosofia politica, facesse venire meno ogni solido fondamento della democrazia, la quale, se non si basa su valori radicati nelle coscienze prima ancora che nelle istituzioni, difficilmente potrà sopravvivere a lungo. Criticando il relativismo egli indica la crisi della società occidentale nel fatto «che le democrazie abbiano smesso di accogliere le tradizioni di civiltà in cui hanno avuto origine e sviluppo i vari indirizzi liberali e democratici della società buona. Esse sono oggi come escluse da quella filosofia della coscienza pubblica e da quelle arti politiche, che sono necessarie al governo di una società liberal-democratica»2. Una sensazione di crisi investiva dunque decisamente la filosofia politica, una disciplina che a molti, negli anni Cinquanta e Sessanta, appariva ormai deceduta. Si era infatti radicata, tra molti di coloro che pure continuavano a considerarsi studiosi di quella disciplina, la convinzione che ormai da tempo la filosofia politica non fosse più in grado di produrre idee innovative e “visioni del mondo”, e si fosse ormai adagiata nella contemplazione del proprio passato. Questa sensazione fu espressa ad esempio nel 1959 da Leo Strauss, secondo il quale la filosofia politica ormai «si trova in uno stato di decadenza e forse anche di putrefazione, qualora non sia del tutto scomparsa»3, e da Sheldon Wolin, il quale nel 1960 nota che «in molti circoli intellettuali esiste una profonda ostilità, se non addirittura un disprezzo, nei confronti della filosofia politica nella sua forma tradizionale» 4. Una delle più note opinioni al riguardo proveniva da Cambridge, W. LIPPMAN, The Public Philosophy, Little Brown and Company, New York 1955 (trad. it. La filosofia pubblica, Milano, Comunità, 1955, p. 63). 2 Ivi, (trad. it. cit. p. 93-94). 3 L. STRAUSS, What is Political Philosophy?, Free Press, Glencoe 1959 (trad. it. Che cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino, 1977 p. 42). 4 S. WOLIN, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political Thought, Little Brown, New York 1960 (trad. it. Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 9). 1

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e fu espressa nel 1956 da Peter Laslett nell’introduzione di Philosophy, Politics and Society, la prima raccolta di saggi di una serie che sarebbe andata avanti negli anni, rappresentando un importante punto di riferimento per gli studi di teoria politica. Egli ricorda come le grandi opere del pensiero politico si erano spesso avute in corrispondenza dei momenti di crisi e come risposta a essi, dalla caduta dell’Impero romano, con la De Civitate Dei di Sant’Agostino, alla guerra civile inglese, con il Leviathan di Hobbes. Ma, a suo dire, nella sua epoca non ha più senso ritenere che esistano ancora filosofi politici; dopo la tragedia della guerra mondiale e la bomba atomica, non si intravedeva nessuna seria e originale teoria sul fondamento dell’obbligazione politica. La tradizione forse un giorno sarebbe ripresa, ma indubbiamente da tempo si era interrotta e così, egli commenta: «for the moment, anyway, political philosophy is dead»5. Altrettanto chiaramente Laslett indica chi a suo giudizio ha “assassinato” la filosofia politica: «the Logical Positivists did it»6. Il positivismo logico, ispirandosi al metodo delle scienze naturali, riteneva che si potesse arrivare a una soluzione dei problemi filosofici combinando indagine empirica e analisi del linguaggio, e che dunque la filosofia dovesse essere non un sapere speculativo ma un sapere empiricamente fondato. I positivisti logici, con il loro rifiuto di accettare la possibilità che vi possa essere una teoria politica prescrittiva, sono per Laslett coloro i quali hanno messo la parola fine alla filosofia politica come tradizionalmente intesa. Questa tesi fu, nelle due successive raccolte di saggi, progressivamente modificata. Nel 1962 si disse che certo la filosofia politica non poteva dirsi resuscitata, «but the mood is very different and very much more favourable»7. Nella raccolta del 1967 si mostrò un ancora maggioP. LASLETT (ed.), Philosophy, Politics and Society, First Series, Basil Blackwell, Oxford 1956, p. vii. 6 Ivi, p. ix. 7 P. LASLETT, W.G. RUNCINAM (eds.), Philosophy, Politics and Society, Second Series, Basil Blackwell, Oxford 1962, p. vii. La raccolta si apriva con un saggio di Isaiah Berlin dall’emblematico titolo Does Political Theory still Exist? Berlin ripercorrendo le domande classiche della filosofia politica esprimeva preoccupazione per la condizione in cui si trovava la teoria politica, e indicava come si sarebbe dovuta ritrovare la fiducia nella possibilità di indagare razionalmente le scelte umane, le quali non si devono mai ritenere completamente “assoggettate” all’ideologia, come invece troppo spesso avviene. «Rationality rests on the belief that one can think and act for reasons that one can understand, and not merely as product of occult casual factors which breed “ideologies”, and cannot, in any case, be altered by their victims. So long as rational curiosity exist […] political theory will 5

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re ottimismo, facendo riferimento ai primi saggi di Rawls sulla teoria della giustizia, la quale «promises to be a major contribution to contemporary political philosophy»8. Infine, nella quarta serie, del 1972, le “pathological metaphors” non erano più ritenute utilizzabili, come a dire che “l’antica tradizione” si era completamente ristabilita. Questi “attestati” di morte e di resurrezione, rilasciati nell’arco di tre lustri, furono in seguito, e forse non a torto, criticati in modo aspro, e definiti una “parochial comedy” in realtà volta a richiamare maggiore attenzione sulla filosofia politica stessa9. Qualunque possa essere il giudizio in proposito bisogna in ogni caso ammettere che, sia pure con accenti molto diversi, uno stato di crisi della teoria politica10 era richiamato decisamente da più parti, e non semplicemente con annunci più o meno eclatanti, ma anche con analisi assai articolate. Le differenti analisi sul declino della teoria politica tendevano a identificare come responsabili della crisi il positivismo e lo storicismo, da cui deriverebbero l’avalutatività e quel relativismo in grado di paralizzare ogni giudizio morale e dunque ogni forma di autentica filosofia politica. Ancora dieci anni dopo la famosa affermazione di Laslett, Alessandro Passerin d’Entrèves si confrontava con lo stesso problema, chiedendosi «se esista ancora oggi, o possa ancora esistere, una disciplina che rechi questo nome, o se la nostra epoca non sia proprio caratterizzata dal fatto che, alle domande che quella si poneva, altre discipline rispondono, oppure le stesse domande non si pongono più»11. Passerin d’Entrèves riteneva che gli scienziati politici e i filosofi che egli chiama fautori del “non cognitivismo etico” tendessero a occupare il campo che tradizionalmente era stato proprio della trattazione filosofica della politica. Entrambi avevano in fondo la stessa caratteristica che Laslett indicava come propria dei positivisti logici: proponendosi di descrivere not perish from the earth», p. 33. 8 P. LASLETT, W.G. RUNCINAM (eds.), Philosophy, Politics and Society, Third Series, Basil Blackwell, Oxford 1967, p. 1. 9 A. DE CRESPIGNY, K. MINOGUE, (eds.), Contemporary Political Philosophers, Mead & Co, New York 1975, p. x e ss. 10 Nonostante il termine filosofia politica indichi un ambito più definito rispetto al termine più generale di teoria politica, ai fini di quest’analisi essi possono essere considerati come sinonimi. 11 A. PASSERIN D’ENTRÈVES, Scopo e necessità di un insegnamento di filosofia politica, «Il Politico», n. 3, 1966, p. 401, concetti simili vengono espressi dallo stesso autore anche nella voce “Filosofia della politica” del dizionario di politica N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO (a cura di) Dizionario di politica, UTET, Torino 1990, pp. 392-399.

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la realtà politica così come essa è, rifiutano ogni domanda e ogni speculazione sul perché dei fenomeni politici, e così rifiutano ogni risposta al problema dell’obbligazione politica che non sia la semplice constatazione che un’autorità esiste e che le leggi vengono rispettate. La crisi della filosofia politica era dunque legata con un doppio nodo all’idea, propria della filosofia analitica prevalente nel secondo dopoguerra, che fosse impossibile fondare una teoria politica su un qualche principio filosofico, e che alle domande tradizionali di quella disciplina (perché bisogna obbedire alle leggi e all’autorità, ossia qual è il fondamento dell’obbligazione giuridica e politica, come è possibile definire il miglior regime politico, come si realizza l’ordine politico e sociale) non fosse possibile dare risposta. Le domande dello studioso di politica dovevano dunque essere altre, e inerenti più al funzionamento che al fondamento dei sistemi politici, domande su come operano le “pratiche politiche” e non domande sul significato delle medesime. Ad essere incriminata come causa della crisi della filosofia politica era dunque innanzitutto la scienza politica, una disciplina che in quegli anni si era fortemente innovata con la cosiddetta rivoluzione comportamentista (behavioral revolution). Rispetto alla scienza politica tradizionale (la quale aveva posto al centro della propria ricerca i concetti di stato e potere, cercando di elaborare rispetto a essi teorie generali che fossero sia descrittive sia esplicative) i comportamentisti operano una vera e propria rivoluzione, che è prima di tutto una rivoluzione epistemologica. L’obiettivo è arrivare a una conoscenza oggettiva e certa dei fenomeni politici, la qual cosa poteva essere fatta osservando, in base a procedure rigorose, il comportamento degli attori politici e il funzionamento dei sistemi politici, i quali presentano delle “regolarità” che è appunto possibile osservare. I dati empirici vengono raccolti con nuove tecniche di indagine, in particolare interviste e sondaggi, e si tenta di emulare il “rigore scientifico” di altre scienze sociali, quali l’economia e la psicologia. Infine i dati confluiscono in teorie più ampie, e tali da costituire un nucleo di conoscenze universalmente valide e condivise, sull’esempio delle scienze naturali, come la fisica o la biologia. Due importanti corollari di questa impostazione sono la costruzione di un “linguaggio scientifico” e l’avalutatività, consistente nel distinguere fatti e valori, analisi e prescrizioni, una caratteristica che a giudizio dei comportamentisti non avevano né la scienza politica tradizionale né la filosofia politica. Certo il comportamentismo non fu un movimento perfettamente omogeneo, basti pensare a come l’intero approccio possa

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variare a seconda del se e quanto si ritenga prevedibile il comportamento individuale, tuttavia le conseguenze di quella “rivoluzione” nello studio della politica erano indubbiamente tali da mettere in discussione la filosofia politica stessa come disciplina. In un’eccezione ristretta il comportamentismo nasce come paradigma della psicologia americana nei primi anni del Novecento, ma è solo dagli anni Trenta che gli psicologi comportamentisti vengono influenzati dal neopositivismo. La versione “classica” ottocentesca del positivismo – il semplice utilizzo del metodo scientifico quale unica fonte legittima per la conoscenza dei vari aspetti della vita umana – era stata sostituita nel Novecento dal cosiddetto neopositivismo o positivismo logico, una versione più raffinata e articolata, che tuttavia non ne cambiava l’assunto fondamentale: esiste un unico metodo, valido anche per le “scienze dello spirito”, il metodo delle scienze naturali. Tale metodo era considerato in grado, combinando indagine empirica e analisi del linguaggio, di portare anche nelle scienze sociali un sapere certo, perché empiricamente fondato. Il positivismo logico ebbe la sua prima e massima espressione durante gli anni Venti e Trenta nel celebre Wiener Kreis, molti dei cui esponenti emigrarono negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, influenzando fortemente il comportamentismo e la scienza politica americana12. Dagli anni Quaranta, e poi soprattutto negli anni Cinquanta, molti scienziati politici americani13 abbracciano di fatto un Come noto il Wiener Kreis, sul quale esiste una letteratura assai ampia, si sviluppò a partire dal 1922, per spegnersi definitivamente nel 1936 dopo l’invasione dell’Austria da parte di Hitler. Tra i suoi principali esponenti che hanno avuto un rilievo per i temi qui trattati si ricordano Rudolf Carnap e Otto Neurath, ma anche Karl Menger (figlio di Carl, il fondatore della Scuola austriaca) e il matematico Richard von Mises (fratello del liberare Ludwig). 13 Vanno almeno ricordati H. LASSWELL, A. KAPLAN, Power and Society, Yale University Press, New Haven 1950, i quali innestarono l’idea neopositivistica di una conoscenza “fattuale” su quei metodi di ricerca empirica che la scienza politica americana aveva sviluppato, cercando di emulare l’economia, la scienza sociale che a loro giudizio aveva raggiunto i migliori risultati. Ma va ricordato anche Herbert Simon, il quale si occupò di come rendere scientifico il linguaggio della scienza politica. Particolarmente significativa è l’idea di Simon secondo cui non si avranno mai progressi nella teoria politica sino a quando essa continuerà a utilizzare un linguaggio “metafisico” e un grado di rigore scientifico che non passerebbe “un elementare corso di logica”. Il passo di Simon è citato a p. 235 da J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of American Vocation, University of Chicago Press, Chicago 1993. Al capitolo 10 di quell’opera si rimanda anche per un quadro generale sul comportamentismo nella scienza politica americana e sulle sue implicazioni per la filosofia politica. 12

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approccio di tipo neopositivistico, sulla scia dei tentativi di “rinnovamento scientifico” che a Chicago, sin dagli anni Venti, aveva portato avanti Charles Merriam. Attraverso la visione che della scienza aveva il neopositivismo, alcuni comportamentisti andarono paradossalmente alla ricerca di una giustificazione filosofica al superamento della filosofia politica. Questa idea era in linea con la convinzione dei positivisti di aver trovato «una filosofia per por fine a tutte le filosofie»14, e consisteva in definitiva nel credere che una scienza politica empirica avrebbe, di fatto, superato tutti i problemi dei valori e dei giudizi morali caratteristici della filosofia politica tradizionale. L’idea che stava alla base di una tale visione era che la democrazia si fosse ormai consolidata a tal punto da aver posto fine alle discussioni sul miglior regime politico o sul fondamento dell’autorità e del potere, e trovasse invece una legittimazione proprio nel sapere tecnico della scienza politica, capace di razionalizzare il rapporto mezzi-fini e quello costi benefici15. Concepita in tal modo la scienza politica appare frontalmente contrapposta alla filosofia politica, la quale non si rifà al comportamento concreto degli uomini e alla volontà di produrre una conoscenza oggettiva, ma si propone invece come una riflessione (anche) normativa sulla politica.

H. FEIGL, The Wiener Kreis in America, in «Perspective in American History», 2, 1968 (trad. it. Il Circolo di Vienna in America, Armando, Roma 1980, p. 16) 15 In forme diverse quest’idea si sarebbe dimostrata duratura, basti pensare alla tesi sostenuta da Daniel Bell, in un libro che negli anni Sessanta ebbe grande influenza: D. BELL, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Macmillan, London 1962 (seconda edizione rivisitata). A suo giudizio nelle società occidentali (ma la sua analisi si concentra sugli Stati Uniti), il ruolo delle grandi ideologie politiche (liberalismo, conservatorismo e marxismo) si è ormai esaurito, poiché si era esaurita la loro capacità di suscitare emozioni e adesione. Parimenti si sarebbero esauriti gli scontri ideologici che da questo derivavano, e si sarebbe andato consolidando il consenso intorno ad alcuni valori. Il posto delle ideologie ottocentesche sarebbe infine stato preso da nuove “parochial ideologies” e soprattutto da “technological” conoscenze e scelte. Secondo Bell dunque bisogna concentrare gli sforzi su questioni pratiche e concernenti il buon funzionamento delle democrazie, abbandonando le riflessioni sulle “visioni del mondo” e sui fondamenti ultimi della convivenza politica. Le tesi di Bell, nonostante fosse chiaro che i fatti sembravano smentirle, continuarono a suscitare un grande interesse ancora negli anni Settanta e Ottanta. 14

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2. Liberalismo e relativismo Chi però si confrontò con maggiore decisione con l’idea che il liberalismo fosse responsabile della crisi della filosofia politica fu Strauss. Egli vedeva coincidere la crisi del mondo contemporaneo con la crisi della filosofia politica, una disciplina che a suo dire aveva perso la consapevolezza del suo compito e dei suoi princìpi. In ragione della durezza della sua critica, che investe tutta la modernità prima ancora che il liberalismo e i regimi politici contemporanei16, Strauss si pone come un passaggio obbligato nel momento in cui si tenta di indagare se veramente dopo la Seconda guerra mondiale il liberalismo si trovasse in uno stato di crisi, teorica prima che pratica17. Pur prendendo le mosse da lontano, la critica di Strauss al liberalismo e alla democrazia ha un punto di riferimento costante in un fatto storico a lui assai vicino, sia nel tempo sia perché lo coinvolgeva direttamente in quanto ebreo. A suo giudizio l’esempio più chiaro della mancata soluzione, da parte del liberalismo, di quello che egli chiamava il “problema politico” per eccellenza, ossia il problema della convivenza civile, è la questione ebraica, che egli definisce come «il simbolo più palese del problema umano dal momento che è un problema sociale e politico»18. Durante la repubblica di Weimar si tentò di risolvere il problema ebraico seguendo i princìpi del liberalismo, ossia concedendo agli ebrei i pieni diritti civili e politici, in modo tale che essi divenissero semplicemente cittadini tedeschi di fede ebraica. Poiché la democrazia liberale vede nella “moralità umana universale” il legame della società, mentre la religione è relegata a fatto privato, la soluzione consisteva nel fatto che le differenze religiose non dovevano essere rilevanti e i cittadini ebrei sarebbero dovuti essere cittadini come tutti gli altri. Naturalmente ciò non fu una vera soluzione, poiché si «arrecava Interessanti considerazioni a tale proposito si trovano in F. MONCERI, La filosofia politica fra relativismo e nichilismo. La critica di Leo Strauss a Friedrich Nietzsche e Max Weber, in «Filosofia politica», n. 2, 2000, pp. 223-248. 17 La letteratura sulla critica di Strauss al liberalismo e alla democrazia è estremamente ampia, per indicazioni bibliografiche cfr. C. ALTINI, Introduzione a Leo Strauss, Laterza, Bari-Roma 2009 e R. CUBEDDU, Tra le righe. Leo Strauss tra Cristianesimo e liberalismo, Costantino Marco, Lungro di Cosenza 2010. Per una ampia panoramica sulla sua riflessione e sulla sua eredità si veda su tutti S.B. SMITH (ed. by), The Cambridge Companion to Leo Strauss, Cambridge University Press, Cambridge 2009. 18 L. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, Schoken, New York 1965 (trad. it. in Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano, 1973, p. 285). 16

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al massimo eguaglianza legale, ma non eguaglianza sociale; logicamente non aveva alcun effetto sui sentimenti dei non ebrei»19. Che la soluzione liberale non abbia funzionato è provato dal fatto che alla repubblica di Weimar seguì il regime nazionalsocialista e la persecuzione degli ebrei. La vicenda è per Strauss il simbolo dell’incapacità del liberalismo di risolvere il “problema politico”: Il liberalismo si regge o cade sulla distinzione tra stato e società o sul riconoscimento di una sfera privata, protetta dalla legge ma a essa impenetrabile, con l’intesa che, soprattutto, la religione, vista come religione individuale, appartiene alla sfera privata. Così come lo stato liberale non “discriminerà” certo contro i cittadini ebraici, con altrettanta certezza sarà costituzionalmente incapace e perfino riluttante a impedire “discriminazioni” contro gli Ebrei da parte di singoli o gruppi. Il riconoscimento di una sfera privata nel senso indicato consente la “discriminazione” privata, la protegge e favorisce. Lo stato liberale non può offrire una soluzione al problema ebraico, poiché una tale soluzione richiederebbe la proibizione legale di ogni specie di “discriminazione”, cioè l’abolizione della sfera privata, l’abolizione dello stato liberale. 20

La tesi di Strauss è dunque che, contrariamente a quello che sostengono i liberali, non possono bastare delle buone regole, universali e astratte, quindi non discriminanti, perché si abbia un buon ordine politico. Quello di cui c’è bisogno è anche l’individuazione di un contenuto di queste norme, che sia volto a distinguere tra bene e male: bisogna dunque realizzare la virtù nell’animo dei cittadini prima ancora che nelle leggi. Un regime politico liberaldemocratico che proibisce le discriminazioni legali, ma consente quelle private, poiché “rispetta” ad esempio l’idea di chi disprezza determinate persone, ha delle fondamenta di sabbia ed è quindi costantemente soggetto al rischio di essere sostituito da un regime che, dando voce a tutti coloro che vogliono operare tali discriminazioni, si può macchiare dei più grandi delitti, come appunto fece il regime nazista. La soluzione del problema politico non va dunque cercata in “forme” legali, istituzionali, ma in princìpi che devono essere interiorizzati dagli uomini prima ancora che espressi in leggi formali. Queste considerazioni vanno lette insieme alle riflessioni di Strauss sulla filosofia politica classica e sulla religione, ossia quei due elementi che davano un fondamento stabile alle idee di giusto e ingiuIvi, (trad. it. cit. p. 283). Ivi, (trad. it. cit. p. 285). Questo naturalmente non gli impedisce di rilevare che la soluzione liberale del problema ebraico “è superiore alla “soluzione” comunista” (ivi). 19 20

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sto, creando il legame della comunità su princìpi e valori stabili, e non su una male intesa “moralità umana universale”. Il fatto che oggi, anche a detta di Strauss, quelle due esperienze non possano essere riproposte, non vuole naturalmente dire che il problema della convivenza civile abbia trovato una soluzione. Tale soluzione Strauss la cerca, pur non nascondendo le numerose difficoltà, in una riproposizione del diritto naturale, riproposizione che consiste prima di tutto nell’affermazione dell’idea (e qui egli appare vicino, paradossalmente, se si accetta la sua critica del liberalismo, ad alcuni teorici liberali) che non è possibile considerare tutto il diritto come diritto positivo, ossia come prodotto di legislatori e tribunali 21. È infatti necessaria «un’idea archetipica del giusto e dell’ingiusto indipendente dal diritto positivo e più alta di esso: una pietra di paragone che ci permette di giudicare il diritto positivo»22. Tale idea non può essere legata ai diversi ideali che di volta in volta si sono affermati nelle varie civiltà, poiché essi sono per definizione contingenti e mutevoli, ma deve essere un “criterio superiore”, che consenta proprio di giudicare il valore dell’ideale che in un dato momento sembra affermarsi in una società. A tale obiettivo sembra aver rinunciato, a dire di Strauss, il liberalismo contemporaneo che, a causa della sua “unione personale” con la scienza sociale avalutativa (la moderna scienza politica)23, accetta la distinzione weberiana tra fatti e valori, ritenendo conseguentemente tutti i valori degni di rispetto e dunque abdicando alla difesa del diritto naturale. La scienza sociale avalutativa ha infatti come unico compito lo studio del rapporto tra mezzi e fini, ma si rifiuta esplicitamente di distinguere tra fini legittimi e illegittimi e dunque tra bene e male. Ne segue che i nostri princìpi hanno come unico fondamento le nostre preferenze, le quali deCfr. L. STRAUSS, Natural Right and History, Chicago University Press, Chicago 1953 (trad. it. Diritto naturale e storia, Il Melangolo, Genova 1990), in particolare l’introduzione. 22 Ivi, (trad. it. cit. p. 7). 23 La critica di Strauss alla moderna scienza politica è una delle parti più conosciute della sua riflessione, ed egli la riteneva un passaggio fondamentale anche per fare chiarezza sui compiti della filosofia politica. È infatti dall’impossibilità di concepire una scienza politica veramente “value-free” che Strauss prende le mosse per dimostrare la necessità di un confronto con le domande classiche della filosofia politica, cfr. soprattutto L. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. pp. 33-54). La sua critica della moderna scienza politica è stata accuratamente ricostruita da N. BEHNEGAR, Leo Strauss, Max Weber and the Scientific Study of Politics, Chicago University Press, Chicago 2003, il quale conclude, in modo solo apparentemente paradossale, che quella di Strauss è indubbiamente una trattazione scientifica della politica. 21

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terminano le nostre scelte, che diventano tutte ugualmente legittime. Il liberalismo ha accettato questa visione delle cose perché ha voluto portare alle conseguenze estreme, così stravolgendolo, il concetto di tolleranza: l’unico principio ultimo da riconoscere è il “rispetto per la diversità o individualità”, ogni altro limite va rigettato. Poiché il diritto naturale imponeva dei limiti all’individualità, il liberalismo lo ha infine rifiutato per scegliere «il culto senza più freni della personalità individuale», e così la stessa «tolleranza apparve come un valore o un ideale tra molti, e non come intrinsecamente superiore al suo contrario. In altre parole l’intolleranza apparve come un valore uguale in dignità alla tolleranza»24. La “tolleranza assoluta” è dunque irrealizzabile, poiché è destinata a partorire il suo opposto. Una tolleranza senza limiti è incompatibile con quella che secondo Strauss è la vera tolleranza, quella basata sui canoni del diritto naturale, che fissa i parametri per distinguere tra bene e male. In tal senso i liberali dovrebbero, contrariamente a quello che fanno oggi, recuperare la lezione dei classici, per educare gli uomini non alla tolleranza assoluta ma alla virtù e al vero rispetto degli altri: «i veri liberali oggi non hanno dovere più pressante che contrastare il liberalismo pervertito, che pretende “che vivere sicuri, felici e protetti, ma per il resto senza regole, è la meta più semplice, ma suprema dell’uomo” e che dimentica qualità, eccellenza o virtù»25. Contrariamente a ciò, l’“unione personale” tra liberalismo e scienza sociale avalutativa ha condotto a tentare di difendere la democrazia liberale con un’analisi in cui non c’è posto per i valori. La democrazia liberale è difesa non per i valori che professa ma perché, ad un’attenta analisi del rapporto mezzi fini, si dimostra, sotto questo unico aspetto rilevante, il regime politico più razionale. Inutile dire che per Strauss una difesa di un sistema politico che prescinda dalla difesa dei valori che stanno alla base di quello stesso sistema, è destinata non solo a restare lettera morta, ma a facilitare la degenerazione dell’uomo e del modello politico che si vorrebbe difendere. Ed è un concetto che Strauss esprime con particolare durezza:

L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. p. 10). L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern, Basic Books, New York-London 1968 (trad. it. Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano, 1973, p. 85); la citazione fatta da Strauss è da E.A. HAVELOCK, The Liberal Temper in Greek Politics, Yale University Press, New Haven, 1957, p. 374. 24

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Mentre la nuova scienza politica diviene sempre meno capace di vedere la democrazia o di essere un modello per essa, riflette sempre più le più pericolose tendenze della democrazia e perfino le rafforza. Con l’insegnare l’uguaglianza di tutti i desideri, insegna in realtà che non vi è nulla di cui l’uomo debba vergognarsi; distruggendo la possibilità dell’auto-disprezzo, distrugge, con la migliore delle intenzioni, la possibilità dell’auto-rispetto. Insegna l’uguaglianza di tutti i valori, nega che vi siano cose intrinsecamente alte ed altre intrinsecamente basse e negando la differenza fondamentale tra uomini e bruti, contribuisce senza volerlo alla vittoria della melma. [Ecco che allora, della moderna scienza politica] si può dire che essa si trastulla mentre Roma brucia, ma è scusata per due motivi: non sa di trastullarsi e non sa che Roma brucia. 26

Il tema del relativismo è dunque per Strauss il grande problema del liberalismo, ed egli lo tratta anche facendo esplicito riferimento al concetto chiave di questa tradizione, il concetto di libertà 27. Una delle più note formulazioni del problema della libertà è quella fornitaci da Isaiah Berlin, che definisce la “vera” libertà come libertà negativa, ossia l’assenza, o almeno il minor grado possibile, di interferenza, la quale è naturalmente interferenza da parte di altri uomini, di persone che con delle loro azioni ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi 28. Il discorso di Berlin in apparenza non è relativista, poiché egli indica l’esistenza di “certe frontiere di libertà” che non possono essere in nessun caso oltrepassate e vanno considerate sacre e inviolabili. Vi sarebbe dunque una sfera della libertà individuale da considerare assoluta, oltre la quale non è concessa intromissione da parte di altre persone. A giudizio di Strauss tuttavia, il modo di concepire questa assolutezza non è tale da consentire di rifiutare il relativismo, nel quale la concezione di Berlin ricade. Egli infatti, nel delimitare le frontiere della libertà, ci dice che esse sono inviolabili solo in quanto “ampiamente accettate” e fondate “nell’attuale natura umana”, e quindi non importa se L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern op. cit. (trad. it. cit. pp. 275-276). L. STRAUSS, Relativism, in H. Schoek, J.W. Wiggins (eds.) Relativism and the Study of Man, Van Nostrand, Princeton 1961; (trad. it. in Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero dell’occidente, introduzione di R. Esposito, Einaudi, Torino, 1998, pp. 319-334). Sulla critica di Strauss al liberalismo, e al relativismo che a suo giudizio esso aveva accettato, si veda S. HOLMES, Anatomy of Antiliberalism, Harvard University Press, Cambridge, (Mass.) 1993 (trad. it. Anatomia dell’antiliberalismo, Comunità, Milano 1995, pp. 103-105 e pp. 114-117). 28 Su questa definizione, contenuta in I. BERLIN Two Concepts of Liberty, Clarendon Press, Oxford, 1958 (trad. it. Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano 2000), si tornerà nel quarto capitolo. 26 27

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verranno considerate come valide a-priori o identificate con fini soggettivi o sociali 29. Berlin indica dunque l’esigenza di una base assoluta per la difesa della sfera privata, ma poi sostiene che in realtà questa sfera non ha una base assoluta, poiché le si può dare una qualunque base, magari fondandola su una volontà collettiva “ampiamente accettata”. Tuttavia in futuro l’ideale dell’esistenza di una sfera privata potrebbe scomparire o non essere considerato importante, e di conseguenza la necessità di una sfera di libertà individuale non andrebbe più riconosciuta e difesa. L’ideale della libertà negativa è dunque valido solo relativamente, solo ai giorni nostri e non in eterno. Secondo Strauss dunque, Berlin implicitamente ammette che tutte le convinzioni, anche quella volta a difendere la libertà negativa, sono relative e circoscritte nel tempo, ma nonostante ciò tenta una difesa facendo riferimento a una base assoluta di quella libertà. La sua è la ricerca di una “regione intermedia tra relativismo ed assolutismo”, dettata dall’idea che sia impossibile raggiungere un punto di vista assoluto riguardo alla natura umana e dunque giungere a delle verità non relative. Per Strauss una tale posizione è «una caratteristica testimonianza della crisi del liberalismo, una crisi dovuta al fatto che il liberalismo ha abbandonato la propria base assolutistica e sta cercando di diventare interamente relativistico»30. Anche nell’analisi di Berlin, considerata al tempo una delle più nette nella difesa della libertà individuale, Strauss riscontra dunque quell’incapacità di distinguere tra bene e male che caratterizza il liberalismo contemporaneo, immobilizzandolo e rendendolo incapace di degenerare nel suo opposto, ossia quell’intolleranza che, come nel caso della Germania nazista, conduce la società verso il male assoluto. Ma quella che per Strauss è la crisi del liberalismo, che si sostanzia nella sua (supposta) incapacità di trovare una soluzione al problema politico, è in gran parte anche il frutto della crisi della filosofia politica, intesa come disciplina che mira alla conoscenza della “natura delle cose politiche” e dei “grandi fini dell’umanità” e dunque del “buon ordine politico”31. Tale crisi si è manifestata da molto tempo e per ondate progressive, ed è arrivata a uno stadio tale che la filosofia politica ormai «si trova in uno stato di decadenza e forse anche di putrefazione, qualora 29 30 31

Cfr. L. STRAUSS, Relativism op. cit. (trad. it. cit. pp. 321-324). Ivi, (trad. it. cit. p. 234). L. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. cit. pp. 34 e ss.).

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non sia del tutto scomparsa»32. Per Strauss la crisi della filosofia politica è dunque in gran parte imputabile a quella che lui chiama “scienza sociale positivistica”, che con «un processo di emancipazione o di astrazione dai giudizi morali» sostiene che «la sordità morale è la condizione necessaria alla analisi scientifica»33. Insomma, la filosofia politica sembra, a causa del suo rincorrere la scienza sociale positivistica, aver definitivamente dimenticato l’insegnamento dei classici e la loro riflessione su cosa sia e come sia realizzabile il miglior regime politico. Un atteggiamento per Strauss incomprensibile, tanto più dopo che “il grosso evento del 1933” ha dimostrato «che l’uomo non può abbandonare la questione della società buona, e che non può liberarsi dalla responsabilità di rispondervi col deferirla alla Storia, o a qualsiasi altro potere diverso da quello della propria ragione»34.

3. Liberalismo come economicismo Il riferimento costante nell’analisi di Strauss è dunque alla riflessione filosofico-politica dei classici, i quali ritenevano che il fine della vita umana e sociale fosse la virtù e non la libertà, la quale ultima «intesa come fine è qualcosa di ambiguo, perché è parimenti libertà dal male come dal bene»35. La virtù a sua volta può emergere solo tramite l’educazione, che è la “formazione del carattere” e “l’acquisizione delle abitudini”; un processo complesso, che richiede tempo e disponibilità economiche36. Ma mentre i classici rifiutavano la democrazia, proprio perché la ritenevano un sistema poco adatto all’emergere della virtù, in tempi più recenti si è ritenuto che, mediante l’educazione universale, la democrazia potesse divenire “la forma di governo di uomini educati”. Però l’educazione universale «presuppone il passaggio dall’economia della scarsità all’economia dell’abbondanza, e l’economia dell’abbondanza presuppone l’indipendenza dell’economia dal controllo morale e Ivi, (trad. it. cit. p. 42). Ivi, (trad. it. cit. p. 44). 34 Ivi, (trad. it. cit. p. 54). 35 Ivi, (trad. it. cit. p. 66). 36 Considerazioni importanti a tale riguardo si trovano in T. FULLER, The Complementarity of Political Philosophy and Liberal Education in the Thought of Leo Strauss, in S.B Smith (ed.), The Cambridge Companion to Leo Strauss, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, pp. 241-262. 32 33

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politico»37. Ecco allora che, cambiando la valutazione della tecnologia, non più considerata inferiore e dunque subordinata alla morale e alla politica, non si arriva a risolvere il problema dell’educazione ma anzi a un peggioramento: la tendenza alla “disumanizzazione dell’uomo”, la tendenza al conformismo e lo scambiare la semplice istruzione e la propensione alla cooperazione con la vera educazione, che è formazione del carattere. Si perde così anche la propensione per la vera conoscenza, che è conoscenza dell’intero, ossia dei fini che rendono piena la vita dell’uomo e dunque dell’“anima umana”. A questo abbandono del problema dell’educazione come inteso dai classici, ossia educazione alla consapevolezza dei problemi fondamentali e permanenti dell’uomo, corrisponde anche, come si è detto, lo snaturamento della filosofia politica, che da Machiavelli in poi nega l’esistenza di un fine naturale dell’uomo e di una morale “universale”, staccata dalle contingenze, cercando di risolvere il problema del giusto ordine politico solo facendo leva sulle passioni e sui desideri degli uomini. Per Strauss le responsabilità dei filosofi politici moderni sono enormi, e la crisi attuale è in gran parte imputabile proprio al fatto che la filosofia politica ha smesso di riflettere su quali debbano essere i fini dell’uomo e su quale sia il giusto ordine politico. Se tutta la filosofia politica moderna è soggetta a una critica durissima, non rimane certo fuori da questa critica la filosofia politica liberale la quale, prima con Hobbes, considerato da Strauss come il vero padre sia del liberalismo sia del totalitarismo, e poi con Locke, ha fortemente contribuito all’abbassamento dei fini verso cui l’uomo dovrebbe tendere38. Locke, accettando l’insegnamento di Machiavelli e di Hobbes, ritiene che il problema dell’ordine vada risolto appellandosi alle passioni e ai desideri degli uomini, ed identifica il desiderio su cui fare perno non nella passione per la gloria (Machiavelli) o nel desiderio di autoconservazione inteso come paura della morte violenta (Hobbes), bensì nell’autoconservazione intesa come emancipazione dalla povertà e nell’“attitudine all’acquisto”. Si tratta di «una passione completamente egoistica, la cui soddisfazione non richiede versamento di sangue e il cui effetto è il miglioramento della sorte di tutti. In altre parole, la soluzione del problema politico mediante mezzi economici è la soluzione più elegante una volta accettata la premessa di Machiavelli: l’economiL. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. pp. 66-67). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 80 e ss.), e L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. pp. 217 e ss.) 37 38

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smo è il machiavellismo divenuto adulto»39. La “soluzione del problema politico mediante mezzi economici” è da Strauss attribuita anche a Burke, e la sua critica sembra per tanti versi la logica continuazione della critica a Locke. In realtà Strauss, criticando Burke, sembra voler criticare alcuni esponenti del liberalismo a lui coevi, e più in generale sembra prendere di mira tutta quella tradizione di pensiero che, guardando all’economia, ritiene che l’ordine politico si possa formare “spontaneamente”, ossia senza ricorso alla volontà deliberata degli uomini. Dimostrazione ne è in particolare questo passo, in cui appunto si critica Burke, ma che potrebbe, forse anche più propriamente, essere indirizzato a Mandeville, che come si vedrà è il “capostipite” di quella corrente del liberalismo che intende l’ordine politico come ordine spontaneo. Ciò che dopo venne chiamato “processo storico” era ancora per lui causalità fortuita, o meglio causalità fortuita corretta da una manipolazione prudenziale degli avvenimenti, a mano a mano che essi sorgessero. Cosicché l’ordine politico sano era per lui, in ultima analisi, il risultato inatteso di una causalità fortuita. Egli applicò alla formazione dell’ordine politico sano ciò che l’economia politica moderna gli aveva insegnato sulla creazione della prosperità pubblica: il bene comune è il prodotto di attività che non sono di per sé ordinate verso il bene comune. Burke ammette il principio dell’economia politica moderna, che è diametralmente opposto al principio classico: ammette che “l’amore del guadagno”, “questo naturale, ragionevole … principio”, “è la grande causa della prosperità di tutti gli stati”. L’ordine buono o razionale è il risultato di forze che di per sé stesse non tendono verso l’ordine buono o razionale.40

È una prospettiva che Strauss rifiuta con forza. La presunta soluzione economica del problema politico non è in realtà una soluzione, e ha come prodotto solo scatenare passioni egoistiche e soddisfare “impulsi inferiori”, allontanando sempre più gli uomini dalla virtù e dal diritto naturale, ossia dalla vera soluzione del problema dell’ordine politico. Con Locke e Burke dunque, si accelera notevolmente quel processo che conduce al relativismo dei valori, al nichilismo e L. STRAUSS, What is Political Philosophy? op. cit. (trad. it. p. 81, corsivo aggiunto). Per una ricostruzione e analisi di questi problemi si veda R. CUBEDDU, «La soluzione del problema politico tramite mezzi economici». Economia e modernità nell’interpretazione di Leo Strauss, in S. Maffettone e A. Orsini (a cura di) Studi in onore di Luciano Pellicani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 137-163. 40 L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. pp. 338-339). 39

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quindi al totalitarismo. La filosofia politica moderna, in particolare quella liberale, ha la responsabilità di aver ridimensionato le aspirazioni dell’uomo, indicando come unico obiettivo il conseguimento di soddisfazioni materiali e dunque esaltando l’egoismo come una virtù. Contigua a queste osservazioni è anche la critica nei confronti della scienza moderna, che spesso i moderni hanno preso a modello compiendo un grosso errore, poiché essa consente un falso dominio della natura, ma senza offrire alcun tipo di guida morale. Il mondo occidentale sembra dunque segnato da un inesorabile declino, dovuto al fatto che ha dimenticato, complice il liberalismo moderno, il proprio scopo universale (l’unità del genere umano), e a tale declino ha fatto seguito la ricomparsa di quello che è il rischio costante della vita associata, la tirannide. Ma questa volta essa può disporre dei mezzi della scienza moderna ed è quindi infinitamente più temibile, e il fatto che nella Seconda guerra mondiale i regimi tirannici siano stati sconfitti appare a Strauss poco più che una circostanza fortuita, perché quella vittoria non è certo stata causata dalla (né a sua, volta ha causato la) fine della crisi della modernità e della filosofia politica. Ma se la critica di Strauss nei confronti del liberalismo moderno è assai netta, altrettanto netta è la sua convinzione che a una qualche forma di liberalismo si deve guardare se si vuole uscire dalla crisi. Il liberalismo a cui egli pensa è però il “liberalismo” dei classici, un liberalismo che cercava la virtù prima ancora che la libertà. «Essere liberale, nel significato originario, significa praticare la virtù della liberalità. Se è vero che tutte le virtù, nella loro perfezione, sono inseparabili l’una dall’altra, l’uomo veramente liberale è identico all’uomo veramente virtuoso». In questo senso «la filosofia politica classica è liberale» 41. Per questo importante aspetto dunque, la sua concezione del liberalismo è intimamente legata al problema dell’educazione42, e egli guarda positivamente ai regimi liberali, in quanto ancora capaci di lasciare quello spazio per la discussione e la ricerca che aveva caratterizzato il mondo classico e che è l’unica via per la soluzione del problema politico. L’educazione liberale è allora concepita come “antidoto contro la cultura di massa” e come possibilità di formare uomini virtuosi, capaci di guidare la società secondo giusti princìpi, perché L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern op. cit. (trad. it. cit. p. 4). Sull’importanza dell’educazione in Strauss, e su come questo sia il suo importante insegnamento e lascito alla cultura liberale, si veda G. GIORGINI, Liberalismi eretici, Edizioni Goliardiche, Trieste 1999, pp. 25-31 e p. 80. 41 42

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sanno affrontare il problema del miglior regime politico, fondando l’ordine non sul relativismo, ma sui valori e sulla distinzione tra bene e male. L’educazione è dunque «la sola risposta al sempre pressante problema, al problema politico per eccellenza, di conciliare un ordine che non sia oppressione con una libertà che non sia licenza» 43. Ma al di là di questa parziale rivalutazione, resta la netta condanna del liberalismo, bollato come impossibile “soluzione economica del problema politico”. Queste riflessioni di Strauss rappresentano una parte importante di quella “Weimar conversation” sulla crisi della liberal-democrazia che fu “esportata” negli Stati Uniti dagli esuli tedeschi. Un dibattito fortemente condizionato dall’esperienza storica del nazismo, talvolta vissuta in prima persona con pesanti conseguenze personali, come nel caso di Strauss, ebreo tedesco. Se davvero quel dibattito era un prodotto europeo esportato dall’Europa negli Stati Uniti non si può negare che esso attecchì bene nel nuovo mondo. La cosa è dimostrata non soltanto dalle posizioni di prestigio guadagnate, dentro l’accademia e nel dibattito culturale in generale, dagli “Émigrés”, ma anche da quanto importanti pensatori americani condividessero quelle posizioni, e non solo avessero accettato l’idea della decadenza della teoria politica, ma ne attribuissero la responsabilità al liberalismo. Emblematica a tale proposito è la posizione di Wolin, che nel 1969 scrisse Politics and Vision, uno dei più importanti studi di teoria politica del suo tempo. Egli intitola il decimo capitolo Liberalism and the Decline of Political Philosophy44 , e in esso traccia un quadro del liberalismo moderno a partire da Locke. In un’analisi articolata e non pregiudizialmente ostile al liberalismo stesso, Wolin pone l’accento su come il pensatore inglese, distinguendo la società dal governo, abbia dato inizio a quel processo che relega l’elemento politico a uno spazio sempre più ristretto, finendo con l’identificarlo semplicisticamente con il minimo di coercizione necessaria a garantire le transazioni sociali. Guardando a un ordine che, sull’esempio dell’economia, si costituisce senza coercizione, egli elabora un “modello non politico di società”45, L. STRAUSS, Natural Right and History op. cit. (trad. it. cit. pp. 36-37). S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. pp. 413 e ss.). 45 L’idea che il liberalismo pensi a un ordine che faccia a meno della politica è stata in anni recenti ripresa, in una prospettiva diversa da quella di Wolin, da Richard Bellamy in due importanti volumi R. BELLAMY Liberalism and Pluralism, Routledge, London-New York 1999 e Rethinking Liberalism, Pinter, London 2000. 43 44

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dal quale ha origine l’attuale crisi della filosofia politica. «Il declino delle categorie politiche e l’ascesa di quelle sociali costituiscono i tratti distintivi della nostra situazione attuale in cui la filosofia politica è stata eclissata da altre forme di conoscenza. Oggi per noi è naturale rivolgerci all’economista o al sociologo in cerca di ricette per combattere i mali della società, assumendo che siano loro, e non i filosofi politici, a possedere il tipo appropriato di conoscenza» 46. Con Locke ha anche inizio quella revisione verso il basso dei compiti della filosofia che, a giudizio di Wolin, caratterizza il liberalismo contemporaneo. Infatti mentre i filosofi politici classici, Aristotele e Platone su tutti, si proponevano come compito il miglioramento dell’uomo, quasi a raggiungere la perfezione, Locke relega l’uomo in uno “stato di mediocrità” e adegua i compiti della filosofia politica a queste capacità limitate. La filosofia politica liberale divenne allora filosofia dei limiti delle capacità umane e dei limiti dell’azione politica. La conseguenza è che ciò a cui essa deve mirare non è più, come per i classici, il raggiungimento del sommo bene e della vita buona, bensì l’acquisizione di una conoscenza pratica che consenta di sfruttare il mondo naturale, preoccupandosi del miglioramento della vita quotidiana. Da Locke prenderebbe dunque avvio quella riduzione della filosofia politica all’economia che contraddistingue il liberalismo: l’economia diventa la “scienza della società”, società che viene intesa come «una rete di attività svolte da attori che non riconoscono alcun principio di autorità» 47. La società è dunque un ordine spontaneo, e in tal modo viene tendenzialmente meno quella necessità dell’autorità e del potere politico che invece aveva caratterizzato sino ad allora la teoria politica. Bisogna dunque eliminare tutto ciò che in passato, ritenendo erroneamente la politica una “attività creativa”, era stato fatto, e lasciare libero campo all’azione economica e sociale, da cui può venire la soluzione per gli affari pubblici. Proprio in questa concezione, e in questo “carattere minimale dell’ordine politico”, consiste quel declino della teoria politica che caratterizza, secondo Wolin, la riflessione contemporanea48. S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 421). Ivi, (trad. it. cit. p. 435). 48 Wolin muove anche un’altra importante critica al liberalismo, che può essere sintetizzata nell’idea per la quale il liberalismo ha trovato, o almeno cercato, nel conformismo sociale un surrogato per il perduto senso della comunità, facendone l’elemento che consente, una volta eliminata l’autorità, la convivenza tra le varie libertà. 46 47

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Quello che Wolin più critica è una “visione disgregatrice” della teoria politica, che ha come esito il non vedere più la società come un tutto che trova la sua espressione nella forma politica, e che ha in parte origine proprio con il liberalismo. A suo giudizio si è avuto uno scadimento del concetto “alto” di ordine politico, causato anche dal definire come politiche tutta una serie di “forme di associazione” che riguardano solo aspetti particolari della vita associata. Estendendo oltre misura l’orizzonte della politica si è smesso di «identificare ciò che è politico con ciò che è generale per una società», e «la teoria politica e sociale si è concentrata su un orizzonte più circoscritto. I suoi valori non sono più generali ma locali, riferiti non a tutta la società ma a gruppi o associazioni più piccole» 49. Si è così ridotta «l’associazione politica a livello delle altre, mentre queste ultime venivano ridotte al rango di ordine politico e dotate di molte delle sue caratteristiche e dei suoi valori»50. Ciò che allora Wolin propone è il ritorno all’arte della politica, da intendersi come «arte volta a orientare e integrare gli individui in un senso più ampio rispetto a qualsiasi gruppo o organizzazione» così da «tornare a concepire la teoria politica come quella forma di conoscenza relativa a ciò che è comune e che svolge una funzione integrativa per gli uomini»51.

Ivi, (trad. it. cit. p. 630). Ivi, (trad. it. cit. p. 631). 51 Ivi, (trad. it. cit. p. 636). L’obiettivo di Wolin, in contrapposizione al liberalismo e a quelle che egli ritiene essere le sue conseguenze, è dunque riaffermare il valore della comunità. In questo egli è vicino a un altro autore che negli stessi anni era uno dei principali artefici del ritorno alla comunità come riferimento supremo della politica: Carl J. Friedrich. A giudizio di Friedrich la comunità va considerata come il “dato principale della vita e dell’analisi politica”, poiché l’uomo stesso non può essere compreso se non come membro di una comunità. Nonostante anch’egli, al pari di Wolin, non fosse un autore pregiudizialmente ostile al liberalismo, arriva a una condanna del liberalismo perché ritenuto responsabile della crisi della teoria politica. Difendendo l’importanza della comunità come elemento primo per la comprensione dell’esperienza politica, egli infatti critica il liberalismo per il suo aver ribaltato l’ordine delle cose, ossia per aver posto l’individuo prima e a fondamento della comunità stessa. Su questi ed altri temi si veda la raccolta C.J. FRIEDRICH, L’uomo, la comunità, l’ordine politico, Il Mulino, Bologna 2002 [1948-1969]. 49 50

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4. Liberalismo e positivismo A studiare l’evoluzione interna della tradizione liberale cercando di capire come e quando essa avesse perso i suoi riferimenti etici è anche, e prima di Wolin, un altro studioso americano, John Hallowell. Egli scrisse nel 1943 un libro che destò notevole interesse, The Decline of Liberalism as an Ideology52, nel quale si concentra sull’esperienza della Germania (il sottotitolo della sua opera è With Particular Reference to German Politico-Legal Thought) ritenendo che da quel caso specifico si potessero trarre delle conseguenze generali per la teoria liberale. In due opere successive53, anch’esse piuttosto note, Hallowell, con estrema coerenza, arricchisce la sua analisi e rafforza le sue convinzioni, quelle di un credente che non esita a individuare nella perdita della fede in Dio la causa di quella che egli considera, al pari di Eric Voegelin e Wilhem Röpke, la grande crisi sociale e spirituale del mondo contemporaneo. Hallowell rilegge la storia del liberalismo, e con esso la storia della civiltà occidentale, come un processo di degenerazione, e nel fare questo distingue tra due tipi di liberalismo. Il primo è quello che chiama “integral liberalism”, il liberalismo delle origini, basato su valori ritenuti immutabili e sulla legge naturale, un liberalismo che affonda le sue radici filosofiche nell’antica Grecia e le sue radici “spirituali” nel Cristianesimo. Il secondo, il “formal liberalism”, è invece una forma degenerata di liberalismo che, sotto l’influenza dello storicismo e del positivismo, ha perduto ogni riferimento ai valori, ogni capacità di distinguere tra giusto e ingiusto ed anche ogni interesse al contenuto delle norme, pensando solo alla forma che esse devono assumere. La critica di Hallowell investe certamente la tradizione liberale, ma diviene anche una dura condanna delle democrazie contemporanee e del percorso intrapreso dall’intera civiltà occidentale. Ripercorrerla può certamente aiutare a J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism as an Ideology: with particular reference to German Political-Legal Thought, Kegan Paul, London 1943, il libro, frutto della tesi di dottorato, ebbe molte e importanti recensioni, tra cui quelle di Hans J. Morgenthau, George H. Sabin, una decisamente elogiativa di Voegelin e una non molto positiva di Hayek, che gli rimprovera una certa superficialità. 53 J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, University of Chicago Press, Chicago 1954 (trad. it. Il fondamento morale della democrazia, Giuffrè, Milano 1995) e J.G. HALLOWELL, Main Currents in Modern Political Thought, Holt, Rinehart and Winston, New York 1960. Da ricordare anche un breve ma denso saggio pubblicato ne «Il Ponte», con cui Hallowell presentò le sue tesi ai lettori italiani, J.G. HALLOWELL, Il liberalismo d’oggi, in «Il Ponte», fascicolo iv, 1948. 52

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gettare luce su alcuni punti critici del liberalismo, ma anche su quale sia il suo rapporto con la tradizione democratica. A giudizio di Hallowell il liberalismo integrale è caratterizzato dal credere nell’esistenza di una legge naturale (natural law), in grado di offrire degli standard immutabili di riferimento. Non si tratta più della legge naturale cristiana, rivelata, poiché il concetto di legge naturale aveva subìto una lenta evoluzione, già con gli scritti di Grozio. Quella che Hallowell chiama legge naturale “moderna” (e che forse avrebbe più correttamente potuto chiamare diritto naturale), cui appunto fa riferimento il liberalismo, è un insieme di verità e valori eterni che vengono scoperti dalla ragione. Il liberalismo nasce dopo che dalla disgregazione dell’ordine feudale, nel quale non vi era una separazione netta tra sfera pubblica e sfera privata, tra stato e società, emerge lo stato moderno, e la nascita di un ordine politico “impersonale”, rispetto al quale gli individui acquisiscono una sfera di autonomia sconosciuta al mondo medievale. Ecco allora che al vecchio problema medievale del rapporto tra autorità ecclesiastica e autorità secolare si sostituisce il problema del rapporto tra stato e società, o meglio ancora tra la sfera dell’autorità politica e quella dell’autonomia individuale54. Il liberalismo è una filosofia basata sull’individualismo, e nasce come “risposta specifica” a questo problema, e solo davanti a un problema come questo esso ha senso. La risposta consiste nel ritenere che l’individuo debba essere unicamente sottomesso all’autorità di una legge “impersonale, imparziale ed eterna”, ossia della legge naturale concepita come derivante dalla natura umana. Come si è detto tale legge ha un contenuto che può essere scoperto dalla ragione, ed è poi responsabilità degli individui rendere la legge positiva conforme alla legge naturale55. L’individuo è veramente libero quando obbedisce a una tale legge naturale, e lo strumento che consente di riconciliare la libertà naturale dell’individuo con la legge naturale del genere umano è il senso di obbligazione derivante dalla coscienza, che è la vera chiave di volta di tutta la costruzione. Infatti solo se si crede all’esistenza di verità oggettive e di valori che trascendono l’uomo si può avere un ordine giusto. Questo primo e, secondo Hallowell, autentico liberalismo emerge dai valori e dall’ambiente culturale del Cristianesimo che si ritrovano chiaramente tanto nella concezione politica di Locke, per il quale non J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. pp. 80 e ss.) J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., pp. 6 e ss. 55 Ivi, pp. 6 e ss. 54

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solo il sovrano ma anche i parlamenti sono vincolati da una legge superiore, di natura religiosa, quanto in quella economica di Smith, secondo il quale senza la provvidenza la libertà degli individui si trasformerebbe in anarchia56. Nell’età del liberalismo integrale si afferma l’idea, espressa da una celebre frase di Voltaire, secondo la quale «la libertà consiste nell’indipendenza da tutto fuorché dalla legge», idea che si incarna poi nel costituzionalismo inglese come nel Rechtsstaat germanico. Un ruolo importante lo hanno gli eventi storici, con la classe commerciale che rivendica attivamente le libertà individuali a essa indispensabili come dei diritti naturali validi per tutti, e con il liberalismo che, dice Hallowell, diventa ideologia dominante. Egli dedica poi grande importanza al diritto di proprietà, e a come nell’età del liberalismo integrale esso fosse concepito diversamente da come venne poi concepito nel Novecento. Al tempo di Locke il diritto di proprietà era infatti un attributo della personalità, il diritto riconosciuto a ognuno di potersi emancipare con il proprio lavoro, e non il diritto di ricevere dividendi azionari. I primi liberali avevano la consapevolezza che senza la sicurezza economica la libertà è priva di significato, e in quest’ottica legavano appunto il diritto di proprietà, inteso come diritto ai frutti del proprio lavoro, alla vita e alla libertà57. Tuttavia per Hallowell il liberalismo non coincide con il libero mercato; nonostante riconosca che tra i due vi è uno stretto legame e che essi si sviluppano simultaneamente, egli ritiene che il liberalismo non sia solo una filosofia economica, ma prima di tutto una filosofia “politica, sociale e intellettuale”, oltre che una way of life. Egli guarda, come molti altri pensatori della sua epoca, con una certa diffidenza a quelle che considera le “esasperazioni” dell’età del laissez-faire, a un liberalismo che sembra solo preoccupato delle questioni economiche e a un capitalismo finanziario in cui i monopoli hanno preso il posto della libera impresa. Esprime insomma in maniera articolata una convinzione diffusa quando dice che la borghesia divenuta politicamente dominante ha sostituito quelli che nel liberalismo delle origini erano diritti naturali (e sostanziali) dell’uomo con diritti formali del cittadino. E che il liberalismo della borghesia dominante non guarda più al diritto come espressione di princìpi di giustizia, universali ed eterni, ma solo come strumento per garantire la sicurezza e così gli interessi della classe 56 57

Ivi, pp. 27 e ss. Ivi, pp. 30-31 e 73-75. Ma anche J.G. HALLOWELL, Main Currents… op. cit., p. 107 e ss.

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dominante58. Egli individua insomma chiaramente una serie di problemi della tradizione liberale assai importanti e controversi, sui quali si tornerà in seguito. Ma, oltre a questi problemi di carattere “storico”, Hallowell individua anche delle cause “filosofiche” della crisi del liberalismo, cause che rimasero a lungo latenti ma che poi esplosero fragorosamente. Il fatto che il liberalismo integrale fosse dominante storicamente mise a lungo in ombra come esso, molto lentamente e gradualmente, si stesse allontanando dalla sua origine cristiana, ossia si stesse “allontanando da Dio” per “lasciare sempre maggiore spazio all’uomo”, perdendo così alcune delle sue caratteristiche più importanti e aprendo la porta alla sua “degenerazione”. Già nel liberalismo delle origini infatti vi è uno spostamento importante rispetto alla radice cristiana: Dio rimane sì il creatore dell’universo ma non ne è più il “reggitore”, poiché l’universo è considerato una sorta di meccanismo in grado di autoregolarsi, con il quale bisogna interferire il meno possibile59. Ma soprattutto vi sono nel liberalismo integrale due concezioni dell’ordine e della legge le quali, “fuse dalla forza degli eventi storici”, non apparvero da subito come logicamente distinte e tra esse incoerenti. Da un lato vi è una concezione “atomistica” che vede la società come composta da individui autonomi e indipendenti, e per la quale la legge sarà risultato delle “volontà individuali” e l’espressione di “interessi soggettivi” e la sua origine sarà naturalmente nella volontà individuale. Dall’altro vi è la credenza che vi siano alcune verità eterne che trascendono gli individui e la loro volontà, e la legge non sarà altro che l’incarnazione di quelle verità eterne, che possono essere comprese dalla ragione e applicate con l’uso della coscienza60. Nella prima concezione la legge si regge solo sulla “mera J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., pp. 57 e ss. e 70-72. Ivi, pp. 14 e ss. Interessante a tale proposito sarebbe un confronto con il pensiero di Bastiat, come sviluppato in F. BASTIAT, Harmonies Économiques, 1850 (trad. it. Armonie economiche, Introduzione di F. Ferrara, UTET, Torino 1965). La tesi di Bastiat era che l’ordine divino si sarebbe realizzato nel mondo se gli uomini, o meglio gli uomini politici, non interferissero continuamente con la sua realizzazione, e poneva questa idea alla base della sua concezione liberale. A questo riguardo si veda R. CUBEDDU, A. MASALA, Natural Rights, providence and Order. Frédéric Bastiat’s Laissez-faire, in «Journal des Economistes et des Etudes Humaines», XI, nn. 2-3, 2001, pp. 331-336. 60 Il concetto è prima espresso in J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., p. 35 e poi con maggiore forza e chiarezza in J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 84). Ma si veda anche J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit., pp. 90 e ss. 58 59

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coercizione” dell’autorità, mentre nella seconda è «il riconoscimento razionale della giustezza del contenuto a costituire l’obbligo»61. Così in un caso il fondamento della legge, della sua validità, è un fondamento formale, mentre nell’altro è sostanziale. Queste due concezioni della società e della legge riuscirono a convivere bene piuttosto a lungo: alla potenziale anarchia della prima concezione faceva da contraltare la fede in verità trascendenti e oggettive, che la coscienza individuale (il dovere morale) e l’uso della ragione consentivano di riconoscere e rispettare. Tuttavia “l’appello alla coscienza” con il passare del tempo si dimostrò insufficiente; il suo riferimento era ai princìpi cristiani, i quali però dopo la divisione tra fede e ragione e il declino dell’autorità della Chiesa rimasero sostanzialmente inermi: «divelta dalle sue radici nella fede, la ragione finì per abbandonarsi alla corrente delle opinioni, ormai incapace di distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo, il giusto dall’ingiusto»62. Se questo problema filosofico e religioso era alla radice della degenerazione del liberalismo, vi furono anche altri fattori decisivi per il suo declino. Dalla fine del Settecento infatti si assistette al progressivo affermarsi dello storicismo prima e del positivismo poi. Pur nella loro diversità questi movimenti di pensiero ebbero in comune l’individuare nello studio della storia e di fatti specifici l’elemento da cui partire per spiegare il diritto e l’ordine. Nell’Ottocento infatti l’attenzione si sposta dall’uomo al suo ambiente e dall’ideale all’empirico. Così il Romanticismo ritiene che il diritto non possa avere un contenuto universale, ma al contrario sia un qualcosa di legato a particolari e specifiche circostanze di tempo e di luogo, con caratteristiche nazionali anziché universali. L’ordine è costruito a partire dall’attività individuale, e lo stato, che ha un’essenza spirituale, incarna lo spirito del tempo e crea il diritto del suo tempo; l’ordine non è più basato sulla natura delle cose, o sulla natura umana, ma sulla storia63. Con l’affermarsi dello storicismo nel campo giuridico non si afferma ancora l’idea che il diritto venga creato, e si continua a ritenere che esso venga scoperto, tuttavia in tale processo di scoperta non si guarda più alla natura umana, bensì alla storia, e così le stesse idee di libertà e giustizia non sono più legate a valori trascendenti ma sono il prodotto di un’evoluzione storica. La Scuola storica secondo Hallowell vede l’universo come una macchina capace di autoregolar61 62 63

J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 84). Ivi, p. 86. J.H. HALLOWELL, The decline of Liberalism…, op. cit., pp. 50 e ss.

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si, e ritiene che i gruppi sociali si evolvano come organismi biologici. In questo modo accetta il diritto come frutto dell’evoluzione, e non si interessa più alla comprensione del contenuto di esso, ma solo al come si sia venuto a creare, a come sia emerso64. In parte come reazione allo storicismo, ma tuttavia utilizzando il suo stesso metodo, si afferma poi l’utilitarismo, che nella sua versione (collettivistica) tedesca, assai diversa da quella (individualistica) inglese ha il suo massimo esponente in Rudolf von Jhering e nella sua idea che lo stato sia l’unica possibile fonte di diritto. Hallowell in realtà sembra ignorare alcune differenze assai rilevanti tra le diverse correnti utilitaristiche, ma la sua analisi pone un problema reale quando afferma che l’utilitarismo in un certo senso chiude il percorso dello storicismo: il diritto non è più un fine in sé (e dunque non ha in sé dei princìpi di giustizia), ma è uno strumento per raggiungere altri fini. Dopo la distruzione del diritto naturale del liberalismo integrale, i liberali utilitaristi (Bentham e John Stuart Mill sopra tutti) cercano un nuovo fondamento per la libertà, e pensano di poterlo trovare nell’utilità sociale. Così si giustifica lo stato in termini non più morali ma edonistici, per la sua utilità, e il metodo per arrivare a una teoria politica diventa lo “scientific empiricism”65. Ma a segnare la definitiva degenerazione del liberalismo fu il positivismo, e la sua esaltazione del metodo scientifico da applicare anche alle scienze umane al fine di scoprire, non con la ricerca delle cause ma con la pura descrizione empirica, delle leggi universali. Queste leggi universali non sono più la legge naturale, basata su standard morali, ma una law of nature dimostrabile empiricamente, la quale è il contrario della legge naturale. La conseguenza è che la possibilità di un diritto sostantivo, basato su verità universali, è per sempre minato, e l’unica possibilità che rimane è quella di un diritto che sia solo descrittivo della realtà, e non prescrittivo in accordo con un contenuto di giustizia. Con la “scienza” si ha la convinzione di aver eliminato i problemi metafisici e i giudizi di valore, distruggendo così ogni credenza in valori trascendenti e in ultima analisi anche ogni possibile riferimento ai diritti naturali. I diritti vengono equiparati agli interessi, ed esistono solo in quanto creati e garantiti dallo stato. Ai natural rights del liberalismo integrale si sostituiscono i legal rights, e la legge cessa di essere concepita come uno standard ideale e diviene solo un prodotto della volontà. Non conta più 64 65

Ivi, pp. 56 e ss. Si vedano a questo proposito i capitoli 7 e 9 di J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit.

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il contenuto della legge, ma solo che essa assuma una forma determinata. L’efficienza tecnica sostituisce la giustizia, e i diritti naturali degli uomini sono sostituiti dai “diritti” dei cittadini concessi dallo stato, salvo il fatto che, commenta Hallowell, se sono concessi dallo stato non sono veri diritti ma appunto solo concessioni. Inoltre si afferma la convinzione che grazie al progresso nelle scienze sia possibile scoprire delle leggi certe del progresso sociale, e che esso possa essere determinato proprio grazie all’applicazione di metodi e ricerche più sofisticati. Con l’imporsi del positivismo non rimane più nulla del vecchio liberalismo integrale, e si afferma definitivamente il liberalismo formale. Il “vocabolario” del liberalismo rimane lo stesso, ma il modo di intendere i concetti fondamentali cambia completamente. Ritenendo il metodo empirico della scienza naturale l’unico metodo valido i positivisti, inclusi quelli che si dichiarano liberali, negano la possibilità di un ordine morale, di valori morali, poiché negano l’esistenza di tutti gli aspetti spirituali dell’essere umano, aspetti che non possono essere descritti e studiati con il metodo empirico. Ne consegue anche la negazione «di quella premessa dell’assoluto valore morale individuale che costituisce il fondamento del liberalismo nella sua concezione originaria», e la sostituzione dell’ordine «trascendente potenzialmente incarnato nella ragione e nella coscienza» con la «concezione di un ordine immanente della natura», già esistente, che non richiede nessuno sforzo morale agli individui e che può essere scoperto con la metodologia scientifica66. Insomma, al posto della legge naturale del liberalismo integrale, scopribile dalla ragione e attuabile con la coscienza, con lo sforzo morale dell’individuo, i positivisti liberali vedono delle leggi fisiche e ricercano l’ordine e il destino dell’uomo nel processo naturale e nel processo storico. La conseguenza è la deresponsabilizzazione dell’individuo, e il trasformarsi della libertà in licenza; viene meno anche il concetto stesso di giustizia, considerato metafisico, e il solo criterio di valutazione della legge diviene il fatto che esiste, che è stata promulgata dall’autorità competente. Scomparendo le considerazioni morali del liberalismo integrale, la conseguenza è una errata equazione tra giusto e legale (ossia promulgato dallo stato) e tra ingiusto e illegale. Ma naturalmente tra la giustizia e la legalità vi è una grande differenza, ed essere liberi solo dalla coerJ.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. pp. 89-90), ma si veda anche J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit., in particolare pp. 323-327. 66

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cizione illegale significa essere solo liberi di fare «tutto ciò che lo stato non ha ancora proibito», il che è «una concezione della libertà ben più congeniale alla tirannia che alla preservazione dei diritti inalienabili dell’uomo»67. La conclusione di Hallowell è durissima: «Ben prima di Hilter sono stati i giuristi liberali di scuola positivista a insegnare (in modo esplicito o implicito) che è la forza a fare il diritto, che i diritti non sono attribuzioni possedute dagli individui in virtù della loro umanità ma semplicemente rivendicazioni che lo stato può decidere se accogliere o meno. E questi liberali, per quanto inconsapevolmente, hanno aperto la strada a Lidice e Dachau»68. Hallowell in Decline of Liberalism as Ideology69 segue questo processo di cambiamento nel significato del diritto, questo processo di formalizzazione del diritto, e le sue drammatiche conseguenze per la teoria liberale e la civiltà stessa, soprattutto nella Germania dell’Ottocento sino ad arrivare al suo contemporaneo Hans Kelsen e alla sua teoria del positivismo giuridico. I rappresentanti del positivismo giuridico continuano spesso a dichiararsi liberali, ma professano a giudizio di Hallowell un liberalismo molto vicino al nichilismo. E la separazione tra facts e standard morali non è stata solo una caratteristica del diritto, ma un fenomeno più generale che ha investito tutte le discipline, come ad esempio l’economia, la quale si è ridotta a vuote “formule matematiche” senza considerazioni istituzionali70. L’aver perso la fede in verità e valori oggettivi, per rifugiarsi dietro la procedura o la semplice ricerca empirica e quantitativa, è stata la degenerazione fatale del liberalismo, che diventando nichilistico ha aperto la porta al nazismo. Nelle sue opere successive Hallowell cercherà di riproporre un fondamento religioso e cristiano (per l’esattezza parla di tradizione greco-giudaico-cristiana) per il liberalismo e la civiltà occidentale71; al di là di come si giudichi quel suo tentativo, la cui analisi esula dagli obiettivi di questo lavoro, rimane però il suo aver posto in maniera chiara e pressante l’interrogativo riguardo alla possibilità del liberalismo di sopravvivere senza il riferimento a valori assoluti e dunque ad una legge naturale che sia fonJ.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 92). Ivi, p. 93). 69 Si vedano soprattutto gli ultimi due capitoli di J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism…, op. cit., Beyond Good and Evil e From Nihilism to Tyranny. 70 Ivi, p. 113-117. 71 Si vedano in particolare J.G. HALLOWELL, Main Currents…, op. cit., capitoli 10 e 18 e J.G. HALLOWELL, The Moral Foundation of Democracy, op. cit., capitoli 5 e 6. 67 68

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data sulla fede e sulla ragione, basandosi solo sulle procedure esaltate dal positivismo giuridico. A criticare fortemente una deriva positivistica non solo del liberalismo ma in senso più ampio di tutta la civiltà occidentale fu, come noto, anche Eric Voegelin, che al pari di Hallowell72 guardava alla fede cristiana come via d’uscita alla crisi del suo tempo. Nel suo articolato pensiero, cui purtroppo non riuscì a dare una formulazione definitiva, si possono cogliere alcune importanti concordanze con le tesi di Hallowell, anche se Voegelin retrodata di molto la crisi della civiltà occidentale, e non si concentra soltanto sul liberalismo, che ha un ruolo tutto sommato marginale in una vicenda decisamente più ampia e drammatica. Voegelin era nato in Germania, aveva poi studiato a Vienna con Hans Kelsen (ma a Vienna aveva anche seguito il seminario permanente organizzato da Ludwig von Mises), ed era infine fuggito dal nazismo rifugiandosi negli Stati Uniti. Anch’egli dunque, al pari di Strauss, fu uno degli “émigrés” tedeschi che portarono la “Weimar conversation” negli Usa, ed anch’egli esercitò un’influenza profonda e duratura nell’accademia americana. Voegelin vide proprio nel superamento del positivismo, e del suo considerare il metodo delle scienze naturali come un criterio di validità teorica generale, il passaggio obbligato per «una restaurazione della scienza politica sul piano dei princìpi»73, ossia per quella che lui definiva la rinascita di una genuina filosofia politica. A essere criticata è soprattutto l’idea che si potesse rendere “oggettiva” la scienza politica tramite l’esclusione di tutti i giudizi di valore. I positivisti distinguono i “fatti del mondo fenomenico”, oggettivi, dai “giudizi relativi al giusto ordine dell’anima”, soggettivi, e negano ogni validità ai secondi, poiché espressione di preferenze personali. Tale “dogma positivistico” ha distrutto la vera scienza, e «poteva essere accettato solo da pensatori che non conoscessero a fondo la scienza classica e cristiana dell’uomo. Infatti né I due studiosi si conoscevano bene e si influenzarono reciprocamente. Hallowell curò anche E. VOEGELIN, From Enlighment to revolution, edited by J.H. Hallowell, Duke University Press, Durham 1975, e alla sua scomparsa ne scrisse un ricordo che si conclude con queste parole: «Voegelin differs from most modern thinkers in that he takes God seriously. There is not a better guide to an understanding of what is wrong with our society, nor a better guide to the course we must follow if we wish to restore our humanity», J.G. HALLOWELL, Eric Voegelin (1901-1985), in «The intercollege Review», Spring-Summer, pp. 3-4, 1985, p. 4. 73 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, University of Chicago Press, Chicago 1952 (trad. it. La nuova scienza politica, Borla, Torino 1968, pp. 50-51). 72

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l’etica e la politica classica, né l’etica e la politica cristiana contengono “giudizi di valore”, ma studiano, empiricamente e criticamente, i problemi dell’ordine che derivano dall’antropologia filosofica come parte di un’ontologia generale»74. La scienza politica, a causa del suo tentativo di liberarsi dei giudizi di valore, è sprofondata nella “palude del relativismo”, e la principale responsabilità ricade su Max Weber, il quale ha legato il riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di valori tra loro in conflitto a un inevitabile relativismo, con la conseguente «degradazione della scienza politica a mera giustificazione delle inquiete fantasie degli intellettuali politici»75. Voegelin individua la “caratteristica della modernità” in un processo storico articolato e spesso contraddittorio, che chiama gnosticismo. L’antica pretesa dello gnosticismo di poter raggiungere un sapere assoluto, in grado di risolvere ogni problema relativo sia al divino sia all’uomo nel mondo, sviluppa nell’età moderna tutte le sue devastanti conseguenze in un lungo processo di decadenza del genere umano. Tale processo ha un passaggio fondamentale (come nell’interpretazione di Strauss76, vista in precedenza) in Hobbes, il quale, studiando la natura dell’uomo in termini di passioni umane, giunge «al totale rovesciamento della filosofia morale classica e cristiana»: nega l’esistenza del summum bonum, cercando di risolvere il problema dell’ordine con una teoria della rappresentanza, teoria che si fonda sulla paura reciproca e la conseguente disposizione a sottomettersi al potere politico. Tuttavia, «con la scomparsa del summum bonum, scompare anche la fonte dell’ordine dalla vita umana; e non solo dalla vita degli individui singoli, ma anche dalla vita della società»77. È però con Voltaire e l’Illuminismo che un Ivi, (trad. it. cit. p. 61). In questo senso, aggiunge Voegelin, il trionfo del positivismo si ebbe quando si smise di considerare l’ontologia come una scienza e «l’etica e la politica non poterono più essere intese come scienze dell’ordine in cui la natura umana raggiunge la sua massima attuazione». 75 Ivi, (trad. it. cit. p. 68). 76 Proprio nel passaggio su Hobbes infatti Voegelin richiama l’interpretazione straussiana. Va tuttavia notato che a distanziare i due rimane una diversa visione del Cristianesimo, poiché Strauss, il quale guardava alla cosmologia greca, vede quest’ultima come parte del processo di decadenza, nonostante una certa reticenza ad ammetterlo esplicitamente; sull’argomento R. CUBEDDU, Lo scientism nelle critiche di Hayek e Strauss, in F. Grigenti e F. Zanin (a cura di) Logos ed episteme. Finestre di dialogo tra filosofia e scienze, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2011, pp. 19-68; si veda anche la corrispondenza tra i due, in P. EMBERLEY, B. COOPER (eds.), Faith and political Philosophy. The Correspondence between Leo Strauss and Eric Voegelin, 1934-1964, Pennsylvania State University Press 1993. 77 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, op. cit., (trad. it. cit. pp. 261-262). Una 74

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tale processo giunge a compimento. Infatti, il culto della ragione porta a una “religione dell’uomo”, il quale prende il posto di ogni divinità. Lo gnosticismo si congiunge dunque al positivismo, attribuendo all’uomo la capacità e il potere, grazie al possesso della tecnica, di costruire un mondo nuovo. La caratteristica della modernità è allora una gnosi “postcristiana”, che nega il peccato originale e l’intera morale del Cristianesimo, sostituendola con la fede nella scienza. Il processo giunge al culmine quando «il positivista che aveva portato la scienza al limite della perfezione sostituì all’era di Cristo l’era di Comte»78. Dunque, e con riferimento alla morte di Dio annunciata da Nietzsche, Voegelin può dire che «la morte dello spirito è il prezzo del progresso»79. Lo sbocco inevitabile di una siffatta modernità non può che essere il totalitarismo; infatti, se prima della modernità l’ordine si basava sui valori spirituali interiorizzati dagli uomini, il venire meno di quel fondamento richiede un nuovo tipo di ordine, che passa per la divinizzazione del potere temporale. Per Voegelin il totalitarismo, «inteso come dominazione esistenziale di attivisti gnostici, è la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso», e la «repressione della fonte dell’ordine nell’anima ha causato le terribili atrocità dei governi totalitari nei confronti dei singoli esseri umani»80. Questo processo di divinizzazione dell’umano ha portato all’avvento di quello che Voegelin chiama il “Terzo regno”, che ha una delle sue espressioni nel nazionalsocialismo. Lo gnosticismo non ha però certo esaurito la sua carica distruttiva, che dopo essersi mostrata sotto le vesti del fascismo e del nazionalsocialismo, nel secondo dopoguerra compare soprattutto sotto forma di marxismo, ma anche di “progressismo”, “positivismo” e “scientismo”. Il pericolo del totalitarismo è un pericolo davanti al quale le moderne democrazie, proprio perché svuotate dei loro presupposti morali, ed attente solo alle procedure formali, si sono dimostrate disarchiara introduzione a Voegelin, e in particolare al problema della gnosi è G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, CLUEB, Bologna 1989. Considerazioni interessanti sul rapporto di Voegelin con il liberalismo si trovano in T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity: Leo Strauss, Eric Voegelin, and the Search for a Postliberal Order, University Press of Kansas, Lawrence 1996. 78 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, op. cit., (trad. it. cit. p. 199). All’analisi di cosa la società buona fosse per Voegelin e come egli pensasse di proporne un recupero è dedicato J.J. RANIERI, Eric Voegelin and the Good Society, University of Missouri Press, Columbia1995. 79 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, op. cit., (trad. it. cit. p. 203). 80 Ivi, (trad. it. cit. p. 204 e p. 243).

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mate e incapaci di reagire. È a questa debolezza dell’Occidente, al di là delle esperienze totalitarie del nazionalsocialismo e del comunismo, che si deve guardare se si vogliono capire in profondità le preoccupazioni di Voegelin. Infatti, il processo riguarda tutta la modernità, e c’è una «intima logica dello sviluppo politico occidentale, dall’immanentismo medievale, attraverso l’umanesimo, l’illuminismo, il progressismo, il liberalismo, il positivismo, fino al marxismo»81. Tutte queste posizioni, pur nella loro differenza, segnano la continuità storica del processo gnostico, che ha conferito alla civiltà moderna il suo specifico carattere, e anche il liberalismo e le moderne democrazie sono contaminate dallo gnosticismo, in maniera forse meno radicale ma non meno insidiosa. A questa tendenza si dovrebbe reagire, e se «un movimento del genere ha potuto crescere al punto da rendere verosimile il pericolo di una sua conquista della rappresentanza esistenziale con la famosa “legalità” delle elezioni popolari, non si può pretendere che un governo democratico si inchini alla “volontà del popolo”: esso deve rimuovere il pericolo con l’impiego della forza e, se necessario, violare la lettera della costituzione per salvaguardarne lo spirito»82. Egli esprime dunque una forte critica del liberalismo contemporaneo, nonostante a tratti sembri ancora sperare in un suo recupero83. Il liberalismo, proprio a causa dello gnosticismo di cui è permeato, è considerato incapace di trovare un fondamento spirituale dell’ordine. Esso si è dimostrato se non acquiescente quantomeno incapace di resistere alla nascita del totalitarismo, che non può essere arrestato soltanto con il rispetto “della legalità”, ossia delle procedure democratiche, ma che deve trovare sostanza nell’animo degli uomini e nel loro rispetto dei valori morali. Il tema specifico della storia del liberalismo verrà affrontato da Voegelin in un breve saggio del 196084, e anche qui non mancano forti critiche a questo sistema di idee. In particolare viene giudicato un fallimento l’aver pensato che bastassero istituzioni liberali per produrre Ivi, (trad. it. cit. p. 196, corsivo aggiunto). Ivi, (trad. it. cit. p. 220). 83 A tale proposito si vedano proprio le pagine conclusive de The New Science of Politics, in cui si indicano quella inglese e quella americana come le due rivoluzioni meno “contaminate” dallo gnosticismo. 84 Il testo, tratto da una conferenza del 1960, fu prima pubblicato in tedesco e solo in seguito tradotto in inglese, E. VOEGELIN, Liberalism and its History, «The Review of Politics», XXXVI, n. 4, 1974, pp. 504-520. 81 82

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società libere, invertendo così l’ordine dei fattori, e naturalmente il fallimento del modello costituzionale si è poi portato dietro il “collasso” dell’economia liberale. Voegelin vede anche dei profondi cambiamenti interni alla tradizione liberale, soprattutto dagli anni Trenta, dovuti al fatto che il liberalismo cambia seguendo il processo storico, poiché non è un corpus di proposizioni scientifiche “senza tempo” riguardo alla realtà politica, ma piuttosto una serie di «political opinions and attitudes which have their optimal truth in the situation which motivates them»85. Tenendo fermo questo principio Voegelin svolge due distinti ordini di considerazioni. Da una parte egli guarda al passato del liberalismo, al suo essere stato un movimento ideale e rivoluzionario che – nonostante il suo percorso non sia privo di ombre, e nonostante esso si inserisca in processi più ampi di cui non è sempre stato alla guida – lascia almeno due importanti eredità alla civiltà occidentale. La prima è aver stabilito il principio della separazione tra stato e chiesa, cercando così di risolvere i conflitti religiosi con la “disposizione” verso la tolleranza e con il principio della libertà di coscienza. La seconda è essersi battuto contro il dispotismo cercando riferimenti in autorità spirituali. Ma da un altro punto di vista, se si guarda alla trasformazione del liberalismo a seguito degli eventi storici, si deve osservare sia come esso abbia assorbito domande molto diverse tra loro, creando un’amalgama che ha preso vari nomi (“New Deal, Welfare State, Soziale Marktwirtschaft, etc.”), sia come oggi “liberalism’s becoming filled with Christian substance”. Quest’ultimo è un fenomeno ancora da definire, ma la sua consistenza è attestata dal fatto che alcuni tra i principali partiti del continente europeo sono di ispirazione al contempo liberale e cristiana. Quest’ultimo elemento sembra lasciare al liberalismo un potenziale ruolo di rilievo nello scenario politico, ma esso mostra anche come la vecchia concezione liberale dell’economia come meccanismo capace di gestirsi autonomamente sia ormai tramontata, e che dunque in tal senso il liberalismo “secolare”, il “capitalismo borghese” possa essere dichiarato definitivamente morto86. In Voegelin come in Hallowell, sia pure con accenti e analisi diverse, si trova dunque chiaramente l’idea che il liberalismo classico, inteso come “armonia degli interessi”, abbia fallito e sia corresponsabile della crisi del mondo occidentale. Tale liberalismo per loro rappresenta la degenerazione di un (non sempre ben definito) liberalismo delle ori85 86

Ivi, p. 506. Cfr. Ivi, pp. 519-520.

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gini, considerato decisamente migliore perché legato ai valori cristiani. L’aver perduto il riferimento a quei valori ha portato, nel caso del liberalismo come in quello dell’intera civiltà occidentale, all’affermarsi del positivismo, che non è altro che l’idea che l’uomo possa regolare e gestire la sua vita in maniera autoreferenziale, solo facendo riferimento ai suoi desideri e alle sue necessità contingenti. Si è persa così ogni aspirazione a un “giusto ordine”, che abbia il suo fondamento non nei desideri degli uomini ma nella virtù.

5. Il problema etico nel liberalismo Il dibattito qui analizzato riguardo alla (presunta) crisi della teoria politica si svolge prevalentemente negli Stati Uniti, ma ha inizio da alcuni filosofi di lingua tedesca, spesso di origine ebraica, che si rifugiarono nel nuovo continente durante gli anni del nazismo, portando con loro quella che è stata chiamata la “Weimar conversation”87. L’influenza di questi studiosi nel mondo accademico americano fu notevole e per certi versi perdura ancora oggi, ma si è ricordato come anche importanti studiosi americani presero parte a quel dibattito, dando un contributo L’espressione è di John Gunnell, secondo il quale a “reinventare” la teoria politica come la conosciamo oggi furono proprio gli immigrati tedeschi in America. Allo stesso tempo però, ironia della sorte, la scienza politica americana, in quegli anni bersaglio critico dei filosofi politici, si modellò anch’essa guardando ad alcuni immigrati di lingua tedesca che diffusero il positivismo logico e l’empirismo. Cfr. J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory, op. cit., in particolare capitoli 7-9. Nei suoi densi scritti Gunnell peraltro non risparmia critiche all’idea, sostenuta prevalentemente da Strauss, che esistesse una “tradizione” della filosofia politica che trovava le sue origini e le sue domande fondamentali già nel pensiero antico, e che rispetto a tali domande e preoccupazioni costanti si era modellata con continuità nel tempo. Sulla critica a questo “mito” della filosofia politica si veda in particolare il terzo capitolo di J.G. GUNNELL, Between Philosophy and Politics. The Alienation of Political Theory, The University of Massachusetts Press, Amherst 1986. A difendere invece la tesi della tradizione, e a vederla rinascere proprio con Strauss è D. GERMINO, Beyond Ideology. The Revival of Political Theory, University of Chicago Press, Chicago 1967. Sull’influenza degli emigrati di lingua tedesca sul pensiero politico americano si vedano anche P. GRAF KIELMANSEGG, H. MEWES, E. GLASER- SCHMITT (eds.), Hannah Arendt and Leo Strauss: German Émigrés and American Political Thought After World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1995 e T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity… op. cit. Su quella che poi è una particolare attitudine degli intellettuali tedeschi alla critica della civiltà contemporanea un testo di riferimento è ancora, nonostante gli anni, F.K. RINGER, The Decline of the German Mandarins. The German Academic Comunity, 1890-1933, Cambridge University Press, Cambridge 1969. 87

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originale e tutt’altro che marginale. Così, accanto ai tedeschi Strauss e Voegelin si sono analizzati studiosi americani del calibro di Wolin e Hallowell. Tutti questi pensatori, pur con accenti e tonalità molto diverse, concordano sull’idea che vi fosse da tempo in atto un processo di disfacimento della cultura occidentale, culminato con la nascita dei totalitarismi e che aveva proprio nella crisi della filosofia politica la sua cartina di tornasole, anche se va rilevato che, un po’ paradossalmente, proprio con la loro ricerca sulle cause e sui responsabili della morte della filosofia politica essi non facevano altro che scrivere una pagina importante della filosofia politica contemporanea. Con le radici “filosofiche” di quel male, a loro giudizio, si doveva fare i conti se si voleva invertire la rotta e fare in modo che la sconfitta dei totalitarismi non fosse solo una circostanza fortuita ma qualcosa di più duraturo. Le diversità tra questi autori sono certamente notevoli, tuttavia la critica al liberalismo è qualcosa che li accomuna. Il liberalismo è per loro complice, se non primo artefice, della perdita dei valori morali dell’Occidente, valori senza i quali è impossibile avere il buon ordine politico. Strauss, Wolin, Hallowell, Voegelin, sia pure con posizioni e obiettivi diversi, denunciano la scomparsa dell’ordine politico, e questo a causa della crisi dei valori che di un tale ordine devono rappresentare il fondamento. Al liberalismo andrebbe dunque imputata la crisi della filosofia politica, una disciplina che essi tentarono di “rianimare” cercandone un fondamento etico88. Sarebbe un errore grossolano considerare questi filosofi dei semplici esegeti della “grande tradizione”, e certo non si può definire il loro dialogo con gli autori e con i problemi classici della filosofia politica come semplice operazione filologica, giacché è in realtà il tentativo di trovare “verità” valide anche per il tempo presente. Ma se una tale considerazione è sufficiente, forse da sola, a eliminare la leggenda della morte della filosofia politica, rimane tuttavia da domandarsi se essi avessero ragione riguardo al liberalismo, ossia se la filosofia politica liberale fosse davvero venuta meno al suo compito. In realtà questi autori cercano di scaricare sul liberalismo una È interessante ricordare come non solo alcune delle citate opere di Strauss e di Voegelin, ma anche alcuni importanti scritti di un’altra celebre emigrata tedesca, Hannah Arendt, la cui riflessione è fondamentale per capire il tentativo di spiegare la crisi e la decadenza della modernità, abbiano avuto origine da una serie di seminari promossi, tra il 1949 e 1955 all’Università di Chicago, dalla Fondazione Walgreen. Quelle opere avevano come caratteristica comune quella di sostenere la razionalità dei giudizi di valore, negata dal positivismo e da Weber, e di cercare, appunto, un fondamento etico della politica. 88

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serie molto ampia (e talvolta contraddittoria) di problemi, variamente legati a quello che si può chiamare, e che essi talvolta chiamavano, l’avvento della modernità. Il fatto che tali accuse possano a tratti apparire eccessive non nega la validità del problema, che con le parole di Strauss potrebbe essere riassunto nell’identificazione del progresso con la semplice crescita economica, e con la separazione del diritto dalla morale. Davanti a ciò il liberalismo sembrava solo capace di opporre la semplice difesa della proprietà privata, e la difesa a oltranza di un individuo non più guidato dalla coscienza ma solo dalla ricerca di una felicità individuale, non necessariamente compatibile con la “società buona”, e che per questo non poteva essere vera felicità. Il liberalismo avrebbe, a loro dire, ridotto i problemi della filosofia politica a problemi economici, e dunque indebitamente ridotto il problema del buon ordine politico (ossia della società ben ordinata) a un più semplicistico problema dell’ordine sociale (ossia l’ordine possibile, quello esistente). La politica avrebbe così perso il suo ruolo di principio ordinatore della convivenza umana, convivenza che si realizzerebbe semplicemente lasciando spazio alle libere interazioni tra gli individui. La filosofia politica, conseguentemente, si sarebbe trasformata in una sorta di scienza pratica, che non si deve più porre il problema di come costruire il miglior ordine politico e di come migliorare l’uomo, ma semplicemente di quale sia la via migliore per soddisfare i bisogni e le passioni di esseri destinati a rimanere imperfetti. Si abbasserebbero così sia gli obiettivi della politica sia gli obiettivi della vita umana, aprendo le porte alla sostituzione della filosofia politica con altre discipline, più adeguate a questo abbassamento di orizzonte. Andava in tal modo scomparendo l’interesse per quello che Wolin aveva definito come l’importante ruolo svolto dall’immaginazione nell’elaborazione delle teorie scientifiche, un ruolo che a suo giudizio aveva rappresentato da sempre una caratteristica della filosofia politica e che era stato il suo principale strumento per costruire modelli ed esprimere i propri valori fondamentali89. Queste diverse riflessioni sulla crisi della cultura occidentale, della filosofia politica e del liberalismo, esercitarono a lungo fascino ed influenza. Data la loro complessità non sarebbe semplice, e forse neanche utile, tentare di riassumerle in poche battute, tuttavia si può forse indiS. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. pp. 32 e ss.), temi che verranno ripresi e sviluppati in S. WOLIN, Political Theory as a Vocation, The American Political Science Review, Vol. 63, No. 4, 1969, pp. 1062-1082 (un articolo peraltro pubblicato in quella che era probabilmente la più influente rivista americana di scienza politica). 89

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viduare una loro convergenza verso una stessa tematica, che potremmo definire come il problema etico, o la questione dei valori. Le critiche rivolte al (moderno) liberalismo consistono proprio nel ritenerlo “indifferente” rispetto al problema etico, e colpevole di aver pensato che il problema (politico) della convivenza si potesse semplicemente risolvere con i “mezzi economici”, senza che fosse necessario un riferimento a dei valori per fondare quella convivenza civile e senza che si avesse come obiettivo un miglioramento anche spirituale del genere umano. La virtù, sociale e individuale, non sarebbe per il liberalismo un requisito indispensabile per l’ordine, il quale sarebbe semplicemente il frutto delle libere interazioni degli individui e della capacità del mercato, e con esso della società, di autoregolarsi. Questa fiducia illimitata nel meccanismo automatico del mercato e questo indebolimento del riferimento ai valori, avrebbe secondo i critici del liberalismo variamente aperto la strada a diverse forme di relativismo, razionalismo e positivismo, inevitabilmente sfociate nel totalitarismo, la tirannide del mondo contemporaneo. Quello del liberalismo sarebbe dunque stato un suicidio (l’espressione è di Hallowell) più che un omicidio, poiché sarebbe stato esso stesso, con il suo abbandono del riferimento a valori e princìpi universali, a generare quelle forze che poi lo avrebbero distrutto e con esso avrebbero distrutto la civiltà occidentale. La diffusione di queste idee spiega anche il successo ottenuto da A Theory of Justice di Rawls, opera che ripropone con forza, e con una certa solennità, il problema etico di cosa sia la giustizia (sociale) e di come debba essere organizzata una società giusta, tema caro ai classici e ai filosofi politici qui analizzati. Per questo è forse possibile sostenere che quando si proclama che la filosofia politica, se non l’intera teoria politica, rinasce solo nel 1971 in un certo senso si vuole anche sostenere che senza “etica” (nel senso più lato del termine) non c’è filosofia politica. Partendo da queste premesse è possibile delineare qui alcune considerazioni che introducono al prosieguo di questo lavoro. Una prima considerazione è di carattere più filosofico e prende le mosse dalla constatazione che la crisi della civiltà occidentale e la nascita del totalitarismo non hanno origine nei paesi di tradizione liberale, ma in un paese europeo che aveva prodotto alcune tra le più rilevanti elaborazioni filosofiche nell’età moderna, oltre che un apparato statale particolarmente energico ed attivo. Non solo il nazismo si era generato nell’ambiente culturale e politico tedesco, con la nota accondiscendenza o almeno accettazione passiva di alcuni grandi filosofi, ma lo stesso comunismo aveva

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avuto origine dalle riflessioni di un filosofo tedesco. Certamente ai paesi liberali, e ad alcuni filosofi liberali, si può imputare di non aver riconosciuto il male quando esso si è affacciato nella storia (per usare un’espressione di Strauss), ma è un po’ più complicato sostenere che siano stati essi ad averlo generato. Va poi anche considerato che i totalitarismi si sono affermati, e il caso del comunismo è interessante anche perché di più lunga durata, non come sistemi politici che negavano l’importanza dei valori (qualunque essi fossero) o che li relegavano alla vita privata, ma proprio con l’intento di realizzare storicamente e socialmente alcuni princìpi e valori ritenuti giusti da chi li propugnava. Questa considerazione conduce anche a porsi una serie di domande che, come si vedrà in seguito, sono centrali per la teoria politica liberale. Alla luce di quelle esperienze storiche, che affondavano le loro radici in convinzioni culturali e filosofiche, viene infatti da chiedersi sia se e quanto abbia senso, al fine di realizzare un sistema politico buono, puntare sull’acquisizione della moralità da parte degli uomini e sull’azione morale delle istituzioni, sia chi abbia il diritto di stabilire quali siano i valori “buoni”, e quali siano i rischi del ritenere lecito il tentativo di realizzare con la politica una convivenza basata su tali valori. Il fatto che un agire morale condiviso possa lecitamente rimanere una aspirazione dei filosofi non significa necessariamente che si debba, anche in sede di ricerca filosofica, rinunciare a vagliare l’ipotesi che non si debba cercare in esso il fondamento della buona società, e che al contrario il meccanismo del perseguimento degli interessi personali non solo non possa essere “estirpato”, ma possa anche produrre risultati positivi. Certamente rimane il problema, che è anche una consapevolezza dei pensatori liberali, che gli interessi individuali devono essere “normalizzati” in un quadro di giuste regole, e il problema di quanto tali regole sorgano spontaneamente o quanto invece debbano essere imposte tramite l’uso del potere politico, ma questi pur non semplici problemi non sembrano in realtà più complicati di quelli che emergono quando si tenta di costruire un buon ordine a partire da considerazioni etiche e morali. Si pensi ad esempio ai riferimenti degli autori analizzati: Strauss che guardava al pensiero greco, Hallowell e Voegelin che guardavano al cristianesimo. Quale è la possibilità che questi riferimenti fondino oggi la nostra convivenza civile? È davvero possibile fare ancora affidamento sulla religione e sulla morale religiosa, per avere un “buon ordine” nelle nostre società sempre più multiculturali? Ma anche ammettendo che questa sia una possibilità reale, quali sono i rischi dell’accettare il

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principio che esistano dei valori universali e assoluti intorno ai quali organizzare la vita associata? Se infatti individui e comunità diverse da noi accettassero il principio dell’esistenza di valori universali, ma poi li identificassero in valori diversi e conflittuali rispetto ai nostri, quali sarebbero i margini per la convivenza, per far coesistere la diversità di princìpi considerati assoluti? Queste, e tante altre, sono le questioni che emergono se si decide di prendere sul serio le critiche mosse alla teoria liberale dai filosofi politici qui analizzati. Quelle critiche rappresentano dunque un punto di partenza utile e interessante, anche se non certo il solo e non necessariamente il migliore, se si vuole cercare di capire in cosa consista la rinascita della filosofia politica del liberalismo classico nel Novecento. Si vedrà come, lungi dall’essere una posizione relativista, e anche lungi dall’essere esente da difetti e problemi irrisolti, la teoria liberale classica abbia il pregio di essere un tentativo di elaborare una filosofia politica che dà una risposta alle domande classiche di quella disciplina, senza per questo doversi rifugiare in considerazioni di carattere etico.

Capitolo Secondo TRASFORMAZIONI DELLA TEORIA LIBERALE

Si è visto nel capitolo precedente quanto dense e filosoficamente fondate fossero le critiche rivolte al liberalismo, espresse da importanti pensatori a partire dagli anni della Seconda guerra mondiale sino ad almeno gli anni Sessanta. In questo capitolo si cercherà di capire quali fossero le cause storiche e teoriche della crisi del liberalismo guardando al punto di vista degli stessi liberali. Lo si farà da un lato indicando alcuni punti nodali della sua evoluzione (o involuzione) storica, concentrandosi in particolare sul caso della Gran Bretagna, e dall’altro analizzando alcune spiegazioni che i pensatori liberali hanno dato di quella stessa crisi. Verranno in particolare esaminate le due diverse posizioni di Röpke e Mises, emblematiche del bivio davanti al quale si trovavano i pensatori liberali. Una strada, quella percorsa da Röpke, consiste nel mettere in discussione la stessa teoria politica del liberalismo, riconoscendola responsabile di gravi errori insiti nella sua stessa formulazione e ritenendola ormai non più adeguata a un mondo troppo cambiato. L’altra strada, percorsa da Mises, consiste invece nell’individuare nei cambiamenti avvenuti all’interno della teoria liberale un errore, e rispetto a tale errore tentare di tornare, sia pure con una rivisitazione importante di alcuni elementi, alle proprie più antiche radici.

1. Una lunga metamorfosi Il XIX secolo viene comunemente, e forse non a torto, definito il secolo del liberalismo. In questa sede non si vogliono certo ripercorrere le vicende di quell’epoca, ma si vuole invece osservare come la tesi,

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sostenuta anche in sede storica1, che la vittoria del liberalismo fosse stata parziale, e per alcuni aspetti una vittoria di Pirro, valga anche se si guarda all’evoluzione della teoria liberale. Si può anzi forse sostenere che lo schianto del liberalismo con la Prima guerra mondiale, e poi con l’avvento dei totalitarismi, affondi le proprie radici in uno snaturamento della teoria liberale. Infatti, se le circostanze storiche resero inevitabile per il liberalismo un cambiamento profondo, la direzione del cambiamento fu anche il frutto di una profonda modificazione della teoria liberale, sulla quale dopo alcuni decenni i pensatori liberali tornarono a riflettere. Intorno al 1870 il liberalismo, a seguito di un lungo processo, aveva conquistato un predominio nella maggior parte degli stati europei, e lo aveva fatto con una discreta “compattezza” interna, in termini sia politici sia filosofici, e in nome della lotta contro i privilegi di origine feudale e l’arbitrio dell’autorità politica. In questo senso il liberalismo fu un grande movimento di emancipazione, che ebbe anche e soprattutto a livello morale una forza d’urto quasi senza pari nella storia, e che per un lungo periodo seppe rappresentare gli interessi della collettività nella sua interezza. Intorno a quella data, ovviamente con differenze nei diversi paesi, si arriva anche a una crescente mobilitazione politica di strati sempre più ampi della popolazione e questo proprio grazie all’emancipazione prodotta dalle politiche e dalle idee liberali, oltre che dell’accresciuto benessere realizzato dalle rivoluzioni industriali e dal capitalismo. È in quel periodo che il liberalismo sembra a molti aver esaurito il suo compito e trasformarsi da movimento capace di incarnare gli interessi dell’intera nazione in “partito della borghesia”, che si contrappone ai legittimi interessi di altri strati della società. Si assiste in quel periodo non solo alla nascita del socialismo, ma anche al radicarsi di partiti di ispirazione religiosa nel continente e a una rinascita in Gran Bretagna del conservatorismo il quale, recuperando e rafforzando la sua vena paternalistica, sottrae terreno tanto al socialismo quanto al liberalismo. I movimenti politici liberali sembrano dunque collocarsi sulla diIn lingua italiana vi sono almeno due interessanti volumi che trattano questo tema: P. POMBENI (a cura di), La trasformazione politica nell’Europa liberale. 1870-1890, Il Mulino, Bologna 1986 e N. MATTEUCCI, P. POMBENI (a cura di), L’organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti nell’Europa liberale, Il Mulino, Bologna 1988. Particolarmente interessanti sono i saggi di W. J. Mommsen e E. J. Feuchtwanger contenuti in quelle raccolte, alle cui analisi storiche si fa anche in seguito riferimento. 1

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fensiva e per la salvaguardia dello status quo. Il fatto che vi possa essere una sorta di “regressione” una volta che si siano raggiunti alcuni dei fondamentali obiettivi per i quali si è nati, può, con buoni argomenti, essere forse considerato un processo storico consueto quando si guarda ai movimenti e alle leadership politiche. Tuttavia, se si guarda alle idee politiche, si deve riscontrare come in quel periodo vi furono una serie di conseguenze molto rilevanti per il liberalismo, e delle trasformazioni profonde nella tradizione liberale. Vi fu l’affievolirsi della dottrina del costituzionalismo, che non sembrava più esercitare né fascino né appeal elettorale. Vi fu la perdita di fiducia nella “pubblica opinione”, che già da Locke era stata ritenuta l’elemento capace di limitare il potere dello stato e salvaguardare i diritti degli individui, che ora veniva invece vista come sempre più facilmente influenzabile dai socialisti e dalle idee ostili ai liberali 2. Vi fu l’abbandono, graduale ma deciso, delle dottrine del libero scambio, e una sempre maggiore accettazione, se non anche un’esplicita richiesta, dell’intervento statale a sostegno dell’economia e degli interessi del capitalismo nazionale – cosa che peraltro portò molti liberali a sostenere il colonialismo e a guardare al nazionalismo, i quali per molteplici motivi si rivelarono strumenti utili per contrastare l’avanzata socialista. In sintesi il liberalismo abbandonò sia il principio di non interferenza dello stato sia la fiducia nel principio dell’armonia degli interessi, e dunque dell’idea che il mercato, e con esso la società, siano in grado di autoregolarsi. Naturalmente gli eventi storici ebbero un ruolo importante. L’Ottocento, il secolo borghese, aveva assistito a una crescita economica e a uno sviluppo del mercato ininterrotti, che avevano rappresentato un vantaggio non solo per gli imprenditori ma anche per la gente comune, per il popolo in generale. A quel lungo periodo di imponente crescita seguì la grande depressione del 1873-96, la quale mise in discussione la fiducia delle classi sociali (e del liberalismo stesso) nella capacità del mercato di autoregolarsi, e forse più in generale mise in crisi la fiducia nel mercato come miglior sistema per produrre ricchezza3. Si levarono Come noto le preoccupazioni che Alexis de Tocqueville espresse in La démocratie en Amérique riguardo ai pericoli della tirannia della maggioranza furono poi fatte proprie da John Stuart Mill ed ebbero così grande circolazione in Gran Bretagna. 3 Riflessioni interessanti su come il liberalismo, per affermarsi prima e sopravvivere poi, abbia bisogno di uno sviluppo e una crescita ininterrotti, di un ottimismo del progresso, sono sviluppate in G. ORSINA, La globalizzazione dal volto umano. L’ideologia dell’internazionalismo liberale, in G. Orsina, (a cura di) Culture politiche e leadership 2

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voci contro le speculazioni capitaliste che avrebbero causato la crisi, anche se in realtà essa era soprattutto una crisi congiunturale, dovuta anche al fatto che nella maggior parte dei paesi europei non vi era più abbondanza di prodotti pre-industriali da sostituire con i nuovi manufatti. La conseguenza fu che anche la Gran Bretagna, la quale gradualmente aveva perso la sua preminenza economica per l’affermarsi di nuovi attori, spinse verso forme di protezionismo, e inoltre si ebbe una crescente tendenza al colonialismo “formale”, ossia all’occupazione militare e preventiva di territori per trarne possibili vantaggi economici futuri. Elementi entrambi antitetici rispetto al liberalismo, anche perché portavano con sé la propensione al controllo statale dell’economia, e il fatto che spesso fossero stati voluti dalla borghesia è l’indice di come quel ceto, che aveva pochi anni prima promosso le grandi riforme liberali, avesse per tanti aspetti cessato di essere liberale. A guardare la crisi di quegli anni sembrerebbe potersi considerare ben fondata la tesi, resa celebre da Weber e poi riarticolata da Schumpeter, secondo la quale lo sviluppo del capitalismo industriale non avrebbe necessariamente portato con sé il trionfo (o il rafforzamento) della libertà e della democrazia, ma avrebbe al contrario prodotto un suo indebolimento. Questa perplessità riguardo alle difficoltà che lo sviluppo creato dalle politiche liberali sembra portarsi dietro pare essere confermata da un altro interessante elemento. A caratterizzare quegli anni fu anche, e forse soprattutto, un radicale cambiamento nella visione del capitalismo, il quale fu sommerso da una grande impopolarità. Fu allora che ebbe origine il “mito”, poi ripreso dallo stesso Marx, secondo il quale la rivoluzione industriale e il capitalismo avrebbero fatto peggiorare le condizioni di vita di ampie fasce della popolazione, strappate da una idilliaca vita nelle campagne per essere sfruttate e abbrutite nelle fabbriche delle nuove realtà industriali. Si trattava di una convinzione diffusa, anche per via della descrizione che la letteratura dell’epoca ne diede, alla quale anche molti liberali credettero e che arrecò non pochi danni all’immagine del liberalismo. Una convinzione della quale solo in anni più vicini a noi i pensatori liberali hanno saputo rivelare l’infondatezza4. Negli anni della rivoluzione industriale infatti il tenore di nell’Europa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 55-158, il quale, pur concentrandosi sull’internazionalismo liberale del secondo dopoguerra, svolge considerazioni rilevanti anche per la teoria politica liberale. 4 Il riferimento è ad F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, Routledge & Kegan Paul, London 1954 (trad. it. Il capitalismo e gli storici, Bonacci editore, Roma 1991). La tesi

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vita delle classi più povere crebbe costantemente, e più che lo strappare alle campagne delle popolazioni più o meno felici di vivere lì, si diede una speranza di vita a una parte della popolazione destinata altrimenti a morire di fame. Ovviamente negli anni della rivoluzione industriale vi erano molte reali situazioni di grande povertà e degrado, ma sicuramente ben inferiori a quelle delle epoche precedenti. Ciò che avvenne in quegli anni fu semplicemente che quelle situazioni divennero visibili, e che una società diventata più ricca grazie allo sviluppo capitalistico divenne anche più sensibile al tema della povertà e vide ciò che prima era invisibile e assai più grave, nonostante la mitizzazione che era stata fatta riguardo ai presunti scrupoli morali della società preindustriale5. L’età del capitalismo non solo aumentò i redditi reali e la quantità e qualità di beni a disposizione delle classi lavoratrici, ma per la prima volta seppe individuare dei mali sociali, renderli pubblici e per quanto possibile affrontarli, anche tramite l’azione delle autorità pubbliche. Il mito del capitalismo che impoverisce i lavoratori si venne dunque a creare per vari motivi, ma tre di essi sono particolarmente interessanti6. Un primo motivo è appunto che si vennero meglio a conoscere situazioni prima “invisibili”, e considerate sino ad allora come qualcosa di “naturale” da chi le conosceva, e si attribuì l’esistenza e la responsabilità di tali situazioni alla rivoluzione industriale e al capitalismo. Un secondo motivo riguarda invece il progresso e la percezione che di esso si ebbe: il fatto che il miglioramento economico (e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori) di quell’epoca fosse costante e (relativamente) lento, fece dimenticare che il progresso non è qualcosa di automatico e scontato, e che nelle epoche precedenti a un tale miglioramento non si era affatto assistito. Vi è poi un terzo motivo, legato al fatto che i “libri blu” delle commissioni parlamentari furono compilati prevalentemente per iniziativa dei Tories, i quali non soltanto sostanzialmente ignoravano le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, ma erano anche condizionati da una sorta di disprezzo aristocratico nei confronti degli industriali e fecero di quell’occasione una “crociata parlamentare contro le fabbriche”, che negli anni successivi fu utilizzata centrale si trova peraltro esposta già in F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, The University of Chicago Press, Chicago 1944 (trad. it. La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995 p. 65). 5 Tesi interessanti a questo proposito si trovano in G. HIMMELFARB, The Idea of Poverty: England in the Early Industrial Age, Knopf, New York 1984. 6 Il riferimento è sempre a F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, op. cit. e in particolare al saggio di Hayek ma anche a quelli di T.S. Ashton e V. H. Hutt.

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dai politici socialisti e che condizionò una lunga stagione storiografica. In realtà, sempre facendo riferimento alla Gran Bretagna, il rapporto tra la borghesia imprenditoriale e la vecchia aristocrazia terriera è un caso molto interessante e fortemente esplicativo dell’evoluzione del liberalismo. La classe imprenditoriale, già nel momento del suo trionfo alla metà del secolo, aveva intrapreso un cammino che la avrebbe portata a rimodellarsi sull’immagine dell’aristocrazia che stava soppiantando e che avrebbe, in un lungo processo, portato al “declino dello spirito industriale”7. Gli imprenditori che avevano dato vita alla rivoluzione industriale non solo si diressero piuttosto velocemente ad adottare lo stile di vita dei “landed gentlemen”, ma si dimostrarono anche propensi a sostituire la rischiosa attività imprenditoriale con il più comodo ideale della “passive property”. Questo fenomeno era forse indice di una naturale propensione umana a collocarsi, se possibile, al di fuori delle dinamiche della concorrenza e del mercato, o meglio in un mercato protetto. Naturalmente esso non poteva non avere conseguenze rilevanti riguardo alla visione dei compiti dello stato, che diveniva sempre più incaricato di difendere le posizioni acquisite 8. Di fatto gli ideali del vecchio liberalismo tendevano a scomparire, o quantomeno a ridursi in modo molto consistente, e i ceti che in precedenza avevano appoggiato il liberalismo (tra cui anche il crescente numero di appartenenti alle cosiddette professioni borghesi, medici, avvocati, impiegati pubblici ecc.) sembravano gradualmente farsi assorbire dal neo-conservatorismo paternalista e nazionalista9. Il nazionalismo diventava di fatto, anche in Gran Bretagna, l’arma con cui i “liberali” pensavano di combattere il socialismo, il modo con cui sottrargli il consenso popolare, ma naturalmente era un qualcosa che non aveva niente a che fare con i vecchi ideali liberali. Se da una parte vi fu il riposizionarsi di alcuni liberali sul conservatorismo paternalista e il nazionalismo, in funzione antisocialista, L’espressione è in M.J. WIENER, English Culture and the Decline of the Industrial Spirit, 1850-1980, Cambridge University Press, Cambridge, 2nd ed. 2004 [1981]. 8 Cfr. Ivi, in particolare pp. 14 e ss. 9 Uno dei primi ad accorgersi di questo fenomeno fu Herbert Spencer, che lo denunciò in un celebre saggio dal titolo The New Torism il quale inizia con queste parole: «most of those who now pass as Liberals, are Tories of new type», in H. SPENCER, The Man Versus the State, 1884 (trad. it. L’individuo contro lo stato, Bariletti Editore, Roma 1989). Su questa trasformazione del liberalismo si veda W.H GREENLEAF, The British Political Tradition: II, The Ideological Heritage, Meuthuen, London-New York 1983, in particolare pp. 198 e ss. 7

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dall’altra comparvero i “liberali progressisti”, i quali ritenevano che il liberalismo per sopravvivere dovesse guardare ai movimenti socialisti e al cambiato clima dell’opinione pubblica. Essi si fecero portabandiera non solo delle doverose riforme democratiche, ma anche di cambiamenti sociali da realizzare con l’intervento politico. Ai loro occhi le politiche dell’età del laissez-faire non rappresentavano più una soluzione praticabile; le politiche del “vecchio” liberalismo, la sua fede nel progresso basato sul miglioramento dei singoli individui, da conseguire con l’istruzione e con l’allargamento graduale della partecipazione, dovevano essere sostituite da un programma di riforme sociali capace di garantire a tutte le classi sociali uno standard minimo di sicurezza economica. Il New liberalism 10, che forse oggi verrebbe chiamato “liberalismo sociale”, fu prima di tutto una corrente di pensiero, capace però di influenzare fortemente i diversi partiti politici. Il “fondatore” ne fu in un certo senso Thomas H. Green, il quale sostenne il dovere dello stato di assistere quanti non ce la facevano da soli, anche se mantenne sempre la fiducia dei “vecchi” liberali nella responsabilità individuale. Fu con i suoi insegnamenti che si introdusse in Gran Bretagna la filosofia idealistica di stampo tedesco11, e l’idea che i diritti degli individui non possono esistere se non come diritti che emergono all’interno della società, e non che sono ad essa preesistenti, con un chiaro ribaltamento del ragionamento lockiano. Queste tesi avrebbero portato i successivi esponenti del New liberalism a identificare nello stato un’entità etica, con dei precisi obblighi morali nei confronti dei cittadini, idea prima aliena alla filosofia politica britannica, che in alcuni autori giunse sino a una concezione organicistica basata su una personale interpretazione Alla influenza del nuovo liberalismo è soggetta come noto anche una parte molto importante della filosofia contemporanea. La letteratura sul nuovo liberalismo, che annovera tra i suoi più importanti esponenti, oltre a Green, Bernard Bosanquet, Leonard T. Hobhouse, John A. Hobson, David Ritchie solo per citare i nomi più noti è molto ampia; tra le opere più rilevanti si vedano i numerosi scritti di Michael Freeden, in particolare, nonostante gli anni, M. FREEDEN, The New Liberalism. An Ideology of Social Reform, Clarendon Press, Oxford 1978, e il suo più ampio e ambizioso lavoro M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Clarendon Press, Oxford 1996 (trad. it. Ideologie e teoria politica, Il Mulino, Bologna 2000), dove pagine importanti sono dedicate al nuovo liberalismo e alle trasformazioni della teoria liberale. Alcune considerazioni interessanti sul nuovo liberalismo sono svolte anche nella prima parte di R. BELLAMY Rethinking Liberalism, op. cit., che peraltro prende anche in esame l’italiano Guido de Ruggiero. 11 Sull’argomento si veda almeno D. BOUCHER, A. VINCENT, British Idealism and Political Theory, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000. 10

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dell’evoluzionismo darwiniano12. A giudizio dei nuovi liberali era un dovere l’innalzare tutti i membri della collettività a condizioni di vita dignitose, e questo poteva essere fatto solo con il ricorso all’intervento diretto dello stato. Nonostante non vi fosse sempre accordo tra i vari pensatori sull’entità di tale intervento e vi fosse una differenza di vedute su quanto vi dovesse essere di responsabilità individuale e quanto di responsabilità collettiva, il nuovo liberalismo si caratterizzava appunto per la sua impronta di filosofia legata all’idealismo, la qual cosa lo portava a rifiutare l’opposizione tra stato e individuo, che era invece stata uno dei caratteri più importanti del liberalismo britannico. Anche dove lo stato non veniva concepito come un’entità morale esso era visto come lo strumento imprescindibile per rimuovere gli ostacoli che gli individui si trovano davanti alla loro autorealizzazione, cosa che porterà a preconizzare, già con Green, il concetto di libertà positiva, sul quale si tornerà più avanti13. La distanza teorica dal socialismo, o almeno dal socialismo di ispirazione non marxista, era dunque piuttosto modesta, ed infatti vi furono anche tentativi dichiarati di coniugare liberalismo e socialismo. A partire dalla fine dell’Ottocento la corrente del New liberalism era decisamente preponderante e salvo alcune significative eccezioni – la più importante era probabilmente quella di Herbert Spencer e dei suoi seguaci14 – i “vecchi liberali” erano ormai scomparsi dalla circolazione o erano considerati figure magari rispettabili ma assai marginali nel dibattito politico ed economico15. Il principale obiettivo dei New Cfr. M. FREEDEN, The New Liberalism, op. cit. capitolo 3. A giudizio di Hayek il «declino della dottrina liberale, iniziato dopo il 1870, è strettamente connesso a una reinterpretazione della libertà come disponibilità (da ottenere attraverso l’azione dello Stato) dei mezzi necessari al raggiungimento di una vasta gamma di fini particolari», F.A. VON HAYEK, New Studies in Philosophy, Economics and the History of Ideas, Rouledge & Kegan Paul, London 1978 (trad. it. Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma, 1988, p. 149). Si tratta del saggio Liberalism, scritto nel 1973 per la Treccani. Questo saggio è stato anche ripubblicato in italiano singolarmente, dalla casa editrice Rubbettino nel 2012, con una introduzione di L. Infantino. 14 Sul liberalismo di Spencer un importante punto di riferimento A. MINGARDI, Herbert Spencer, The Continuum International Publishing Group, New York 2011, mentre interessanti considerazioni su come egli intendesse la proprietà privata si trovano in A. MINGARDI, Il tema della proprietà nel pensiero di Herbert Spencer, «Il Politico» LXXII, n. 2, 2007, pp. 63-96. 15 Una considerazione analoga può essere fatta per i “liberisti” italiani, la cui condizione è ben descritta da una celebre frase di Piero Gobetti: « Di fronte alle assurde pretese e alla dogmatica grettezza (qualità per eccellenza anti-liberali) a cui filosofi sedicenti libe12 13

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liberal era “permeare” con la loro influenza intellettuale i partiti politici, in particolare il partito liberale, e indubbiamente la loro strategia diede buoni frutti16. Il partito liberale continuava a dichiararsi favorevole ai princìpi del libero mercato e del libero scambio, e a parole accettava l’intervento pubblico in economia solo come eccezione alla regola, ma la realtà era ben diversa. Nelle vittorie elettorali dei liberali, e nel grande cambiamento interno di quel partito, c’è molto dell’influenza del New liberalism, ma anche del sostegno popolare che si ottenne grazie all’appoggio dei sindacati e al movimento laburista, che solo successivamente avrebbe scavalcato il partito liberale divenendo uno dei primi due partiti del sistema bipolare britannico17. L’influenza del nuovo liberalismo non caratterizzò solo la politica britannica precedente la Prima guerra mondiale, ma esercitò un ruolo determinante anche nel periodo tra le due guerre. In particolare due figure chiave nell’evoluzione della politica britannica sono riconducibili all’influenza del New liberalism e rappresentano la naturale evoluzione di quelle teorie. Una è John Maynard Keynes, con la sua idea della mixed economy, secondo la quale lo stato organizza gli investimenti e il consumo, ma lascia la produzione ai privati – la quale cosa dovrebbe da sola bastare a preservare la libertà individuale. L’altra è William Beveridge, l’autore del famoso rapporto del 1942 che porta il suo nome, da cui prese il via la costruzione del welfare state in Gran Bretagna, secondo il quale il governo ha il dovere di eliminare povertà e disoccupazione, garantendo salario minimo e asrali ci hanno assuefatto, potremo con tranquilla convinzione di equità cantar le lodi agli onesti scrittori di economia che, se ebbero il torto di non salvare dalle antipatie universali la dottrina di cui erano rimasti modesti depositari, non si stancarono tuttavia di divenire i predicatori inascoltati. (...) La chiusa setta dei liberisti può ben dire di avere salvato per parecchi decenni la purezza dell’idea e preparato in sede economica la formazione di condizioni psicologiche favorevoli a una rinascita liberale. L’educazione inglese, se non li salvava da un tono molesto ai più e tuttavia assai spesso finemente ironico, dava ai loro costumi morali e letterari un senso austero di dignità, una coscienza severa di ossequio alle leggi e alle libertà, che li assisteva costantemente nella loro critica e contribuiva a renderli impopolari in una terra di dannunziani e di tribuni che guardava come straniere le loro figure riservate di persone educate e ammodo», P. GOBETTI, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1964 [1924], pp. 53-54. 16 A giudizio di Hayek fu proprio la promessa di una “maggiore libertà” l’arma propagandistica con la quale i socialisti riuscirono a “rendere ciechi” molti liberali e a “usurpare così il vecchio partito liberale britannico”, cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 75 e ss.). 17 Un libro ancora oggi classico sull’argomento è G. DANGERFIELD, The Strange Death of Liberal England. 1910-1914, Transaction Publisher, New Brunswick 2011 [1935].

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sistenza sanitaria, sulla base dell’idea, caratteristica della riflessione dei nuovi liberali, che “un uomo affamato non è libero”. Molti degli esponenti del New liberalism confluirono poi nella Fabian Society, guidata dai coniugi Sydney e Beatrice Webb, che come noto era un’associazione apertamente socialista. Già in alcuni nuovi liberali, in particolare Hobson e Ritchie, era possibile trovare consistenti tracce di positivismo e la fiducia nelle capacità delle giuste riforme di cambiare la società. I fabiani non solo radicalizzarono questi aspetti, cercando apertamente una convergenza tra liberalismo e socialismo, ma aggiunsero delle tonalità religiose a quella che divenne una fede nella capacità della scienza di cambiare la società. I fabiani erano apertamente positivisti, facendo riferimento alle idee di Comte, e in questo si distinguevano dagli esponenti del New liberalism, i quali non avevano la stessa illimitata fiducia nella scienza e nell’idea che le raccomandazioni dei tecnici facessero virtualmente scomparire la politica dall’orizzonte delle scelte necessarie per la società, sostituendola di fatto con il “tecnocratismo”. La posizione estrema, e a lungo dominante, dei fabiani fu lo sbocco ultimo di una grande trasformazione che era gradualmente avvenuta nella filosofia politica britannica, e che aveva profondamente trasformato il liberalismo nei suoi compiti e nei suoi concetti chiave. Per comprendere una tale trasformazione bisogna risalire indietro nel tempo, ben prima del periodo del New liberalism, che fu in realtà anch’esso un esito di quella trasformazione. Una prima importante variazione all’interno della tradizione liberale si ebbe ad opera della scuola dei “radicali” detti benthamiani. L’utilitarismo era una tradizione di pensiero ben radicata in Gran Bretagna, e a essa sono anche riconducibili importanti aspetti della riflessione di liberali quali David Hume e Adam Smith18. Lo stesso utilitarismo di Bentham19 è ben ancorato nella tradizione individualista, Pagine importanti a questo riguardo sono quelle del secondo capitolo di N.P. BARRY, On Classical Liberalism and Libertarianism, Macmillan, London 1986 (trad. it. Del liberalismo classico e del libertarianismo, Elidir, Roma 1993). 19 Le opere di Bentham a cui si fa qui riferimento sono principalmente due. Il Fragment of Government, del 1776, nel quale, attraverso la critica dell’opera di William Blackstone, i celebri Commentaries on the Law of England, del 1765-69, egli traccia la sua visione del diritto come basata sul principio dell’utilità ed individua nella felicità del maggior numero il criterio per definire giuridicamente giusto ed ingiusto, cosa che gli consente di dare una giustificazione del governo in base alla sua capacità di soddisfare i bisogni degli individui. La seconda opera è Introduction to Principles of Morals and Legislation, del 1789, nella quale tra le altre cose si identificano le due categorie di piacere e dolore come alla base della condotta umana e come criterio guida per il legislatore. Tutte le opere di 18

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e infatti la stessa utilità è definita come il piacere (principio che dà la felicità) dell’individuo, e le utilità individuali sono ritenute non contrastanti ma tra loro complementari, in virtù della convinzione che gli egoismi individuali sono tra loro compatibili e dell’idea (sviluppata poi da alcuni seguaci di Bentham) che si prova felicità anche dalla felicità degli altri. La complementarietà delle utilità individuali consente di collocare Bentham e molti utilitaristi all’interno della tradizione liberale britannica, anche per via della visione delle interazioni umane, non solo quelle economiche, come giochi a somma positiva; di qui anche la difesa del libero mercato operata con forza da Bentham e i suoi seguaci. Dalla interpretazione dell’utilità come sempre individuale discende l’intera interpretazione della società, che non è contrapposta agli individui proprio perché costituita dagli individui. Qui l’utilitarismo ricorda l’individualismo metodologico contemporaneo, per il suo vedere solo degli individui dietro concetti considerati astratti, quali società, governo, chiesa ecc.. Tuttavia, proprio a partire da questa concezione, emergono alcune novità rispetto al liberalismo precedente. Se infatti dietro ad entità collettive venivano visti sempre gli individui, il loro operare era giudicato non solo fallibile, ma anche, per usare un’espressione molto ricorrente negli scritti di Bentham, come guidato da “sinistri interessi”. Partendo da qui gli utilitaristi propugnavano una serie di radicali riforme al fine di realizzare la massima felicità del maggior numero (la qual cosa veniva considerata come l’unico principio legittimo sia della morale individuale che per l’azione pubblica), a cui i “sinistri interessi” si contrapponevano. Una tale posizione sarebbe anche ascrivibile al liberalismo classico, poiché la felicità del maggior numero è considerata compatibile con la libertà in virtù della conciliabilità delle diverse utilità individuali, se non fosse che tali riforme venivano propugnate, come ha notato Hayek, sulla base di un razionalismo estraneo alla tradizione liberale inglese, un liberalismo di tipo continentale, o costruttivistico, contrapposto alla tradizione whig perché caratterizzato dall’idea che sia possibile una «intenzionale ricostruzione dell’intera società secondo i princìpi della ragione»20. L’idea di Bentham è che i piaceri e i dolori individuali siano suscettibili di misurazione e dunque di una sorta di calcolo da parte del legislatore, che sarebbe così in grado di produrre leggi tali da realizzare, Bentham sono state raccolte in 11 volumi da John Browing nel 1843, e sono liberamente consultabili, insieme all’ampia e utile prefazione, nel sito della Liberty Fund. 20 F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 34).

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secondo una sua nota espressione, “the greatest possible happiness of the greatest number”, la maggiore felicità possibile del maggior numero di persone. Si ritiene insomma che il “dolore” procurato da una legge ad alcuni sia misurabile e comparabile con il “piacere” che la stessa legge procura ad altri, e che il principio di maggioranza (Bentham è sostenitore del suffragio universale) sia lo strumento idoneo per individuare le leggi che massimizzano il piacere in termini sociali. Ciò che però appare evidente, ma che tuttavia non parve chiaro a Bentham, è che se si ritiene che il piacere possa essere razionalmente misurato e si possa calcolare quanto dolore si conferisce agli uni in cambio del piacere che si dà agli altri, allora è lo stesso concetto di individualità che viene meno, sia per chi subisce la scelta sia per chi la fa. Per chi subisce la scelta della maggioranza perché si delega alla società nel suo complesso la determinazione di cosa e quanto sia il dolore che un provvedimento può causare agli individui, come se l’“intensità del dolore” non fosse riconducibile all’individuo ma ad una qualche misurazione oggettiva. Mentre per la maggioranza che approva la scelta l’elemento individuale viene meno poiché viene meno l’idea che la felicità debba andare individualmente cercata nel rispetto della libertà altrui, e di fatto si affida la “realizzazione” della felicità ad un atto di spoliazione. Se infatti si ritiene che alcuni provvedimenti siano in grado di ridistribuire e massimizzare razionalmente la felicità all’interno della società, togliendone un po’ agli uni per conferirla agli altri, è chiaro che si minano le basi individualistiche della determinazione di cosa sia la felicità. Se poi si affida, come sembra voler fare Bentham, la “razionalità” del calcolo a una scelta elettorale è facile immaginare quali siano le potenziali conseguenze; basta infatti pensare a quanto le persone siano solitamente propense ad attribuire un grande valore a ciò che le riguarda, ossia ai vantaggi che una legge può loro procurare, e a sottostimare gli svantaggi, o il dolore, per mantenere il termine benthamiano, che una tale legge provocherebbe agli altri. Un tale calcolo può dunque apparire molto facile (alla luce della considerazione “il mio vantaggio mi procura una grande felicità, mentre chi lo paga ne ha un dolore molto limitato”), ma ben poco razionale. Insomma, Bentham, probabilmente senza volerlo ed inconsapevolmente, nega alla felicità e al dolore la loro dimensione individuale, per collocarli in una nuova dimensione sociale. Infatti per sostenere un autentico individualismo che, con la sua idea che ogni essere umano è unico e irripetibile, è il fondamento della filosofia liberale, non basta dire che si guarda al piacere dei singoli, se poi non si ammette che solo gli individui stessi sanno in cosa questo piacere consiste.

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Inoltre, non solo il concetto della massima felicità per il maggior numero, da realizzare per via politica “razionale” e con scelta elettorale, non ha in linea di principio nessuna connessione logica con la tradizione liberale classica, ma se si apre la strada all’idea che il raggiungimento della felicità sia attribuibile a una qualche forma di redistribuzione razionale, anziché alla scelta e all’operare individuale, gli esiti per l’individualismo (inteso anche come responsabilità individuale), così caro a Bentham, appaiono decisamente devastanti. Insomma, le conseguenze teoriche dell’idea che sia possibile una misurazione di piaceri e dolori appaiono decisamente destabilizzanti per la teoria liberale. Se infatti riteniamo che sia possibile aumentare il totale del piacere all’interno di una comunità, e riteniamo di saperlo fare con una sorta di calcolo razionale, allora ogni limitazione dell’interventismo statale è di fatto esclusa. Non vi sono infatti più reali impedimenti a compiere quel salto logico che consente di vedere lo stato non più come un’entità che ha il compito di garantire la libertà degli individui con leggi universali e astratte, quale era nella tradizione liberale, ma come uno strumento capace, una volta eliminati i “sinistri interessi”, di realizzare la felicità degli individui. Questa concezione può dunque essere a buon diritto considerata come un antecedente logico delle contemporanee teorie a sostegno delle politiche di welfare, prima fra tutte l’idea che la progressività della tassazione a fini redistributivi sia giustificabile poiché una maggiore sottrazione a chi ha molto procura ben meno dolore della felicità che conferisce a chi è beneficiario, avendo poco, di quell’operazione. Una tale idea può naturalmente avere il suo fascino e la sua valenza politica, ma, pur senza occuparci, per ora, delle sue possibili conseguenze e della sua effettiva realizzabilità, è chiaro che non può trattarsi del coronamento della tradizione liberale, bensì di princìpi appartenenti ad altre tradizioni di pensiero, che possono anche essere ritenute “migliori” del liberalismo ma che non necessariamente sono compatibili con esso. Bentham infatti cessa di essere liberale, o meglio apre la strada a conseguenze non liberali del suo pensiero, non quando ritiene che importanti scelte pubbliche vengano fatte da individui guidati da “sinistri interessi” (convinzione che anzi trova d’accordo molti liberali) ma quando ritiene che la cosa da fare non sia eliminare quegli interessi limitando il potere statale, ma eliminare (politicamente) quelle persone portatrici di quegli interessi al fine di realizzare tramite la legislazione, e dunque lo stato, la felicità del maggior numero. Il passo per giungere a una felicità compiutamente calcolata e assegnata dallo stato stesso appare piuttosto breve, non ap-

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pena queste idee vengano astratte dallo spirito liberale che pervadeva ampiamente gli scritti e le intenzioni di Bentham. Con Bentham avvenne dunque, per la prima volta in modo estremamente chiaro, un qualcosa che caratterizzerà gran parte del liberalismo britannico negli anni avvenire: pensatori di inclinazione e sentimenti liberali non si resero conto di come le nuove idee “liberali” stessero aprendo le porte ad una profonda modificazione del liberalismo, negandone alcuni cardini. Ed è per molti versi possibile sostenere che questo avvenne anche con Keynes e con Beveridge, autori che (solo) nelle intenzioni e aspirazioni rimanevano almeno in parte liberali e che forse, più o meno consapevolmente, reputavano la cultura e la prassi liberale britanniche sufficientemente forti da poter amalgamare al proprio interno, senza troppi danni, scelte e decisioni politiche non molto liberali 21. Ma quelli che essi reputavano provvedimenti contingenti (le politiche di debito pubblico supportate da Keynes), o scelte politiche gestibili con spirito liberale (il sistema di welfare come ideato da Beveridge, che doveva essere su base assicurativa e tale da mantenere la responsabilità individuale) furono progressivamente, e verrebbe da dire inevitabilmente, interpretate dai loro successori e dai politici in senso sempre più collettivista, e portarono ad un grande cambiamento culturale e politico nella patria del liberalismo. Cosa che conferma ancora una volta una delle poche leggi certe che si ricavano dallo studio della politica, per la quale quando si concede una nuova funzione o un nuovo compito al potere politico è pressoché impossibile che esso lo interpreti come qualcosa di provvisorio. Tornando a Bentham e ai suoi seguaci, va detto che l’estraneità rispetto alla tradizione liberale classica delle “nuove” idee liberali spesso non fu capita, o comunque venne quasi sempre sottovalutata. Questo per una serie di motivi importanti, primo fra tutti il fatto che il liberalismo si andava convincendo, a torto o a ragione, della propria inadeguatezza davanti a una serie di problemi apparentemente nuovi, e Per una ricostruzione di questi aspetti della vicenda politica britannica, e delle sue implicazioni per il liberalismo, rimando a A. MASALA, Margaret Thatcher e i paradossi di una leadership liberale, in G. Orsina, (a cura di) Culture politiche e leadership nell’Europa degli anni Ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 227-266. Una interessante analisi di come le idee economiche abbiano “ideologizzato” la politica britannica e le istituzioni britanniche è K.R. HOOVER, Economics as Ideology. Keynes, Laski, Hayek, and the Creation of Contemporary Politics, Rowman & Littlefield Publishers, Oxford 2003, che mette a confronto le figure e l’influenza di Keynes, Hayek e Harold Laski. 21

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che dunque sembravano richiedere un adeguamento radicale della teoria liberale. Ma la sottovalutazione del cambiamento che le nuove idee comportavano per la tradizione liberale avvenne anche per altri due motivi, tra loro collegati: il primo è che queste idee vennero incorporate nella tradizione liberale da autori che si dichiaravano liberali e che infatti avevano nella loro produzione pagine autenticamente liberali 22 e il secondo è che il liberalismo in Gran Bretagna si presentava ormai come un fatto acquisito, una sorta di filosofia nazionale. Ma proprio a causa di questo successo l’idea liberale “al potere” si trovava di fronte al problema del passare dall’ideale alla sua realizzazione, e la realizzazione pratica implica sempre il confronto con casi specifici e concreti che inevitabilmente stemperano, se non trasformano, l’ideale. E non vi sarebbe in questo niente di male, se non fosse che a un certo punto questo processo sfugge di mano e si sposa con un razionalismo non conciliabile con l’ideale liberale. Il fatto che in Gran Bretagna, ben più che negli altri stati europei, il liberalismo si fosse imposto come filosofia dominante rese il processo di modificazione delle conquiste liberali più lento ma, forse proprio per questo motivo, più penetrante e profondo. Liberali come Bentham che aprivano alle riforme, pensavano di poterlo fare tranquillamente proprio perché il liberalismo aveva trionfato e il clima rimaneva fortemente individualistico. In una situazione come questa non si pensava a ciò che in prospettiva avrebbe potuto modificare il credo liberale, non si avvertivano i rischi di quelle aperture teoriche ad altre tradizioni di pensiero, poiché questo avveniva in un ambiente favorevole al liberalismo. Naturalmente la cosa non poteva durare a lungo, e si è visto come puntualmente avvenne che man mano che quelle idee furono riprese e sviluppate in un ambiente e in un contesto storico meno favorevole al liberalismo, questo fu lentamente ma ineluttabilmente sopraffatto da teorie politiche diverse da esso. La questione del liberalismo di Bentham è piuttosto dibattuta. Senza addentrarvisi si può sicuramente ricordare che scritti quali Defence of Usury, del 1787, composto da tredici lettere indirizzate ad Adam Smith, con il quale fortemente simpatizzava, sono decisamente liberali, ma che al contempo è possibile nelle opere principali trovare molti passaggi sicuramente non liberali (ad esempio quando tratta della sua dottrina dell’organizzazione della giustizia), e la stessa cosa può essere detta della sua attività come propugnatore di riforme legislative. L’opinione di chi scrive è che Bentham avesse come unico vero obiettivo la realizzazione della felicità del maggior numero, e che, non senza una qualche incoerenza, tale obiettivo gli sembrasse talvolta raggiungibile con politiche ispirate al liberalismo (che come si è detto era allora la filosofia dominante, e dunque impregnava le premesse del ragionamento di Bentham) e talaltra con forme di dispotismo illuminato. 22

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Forse a questo percorso si può trovare una sorta di “nobile giustificazione”. Si è detto come il liberalismo, che originariamente era un credo rivoluzionario e universale, con il tempo diviene l’ideologia di una sola classe, quella borghese. Forse nell’accollarsi le riforme “popolari” c’è l’aspirazione di tornare a essere un credo universalmente valido, il rifiuto dell’idea che il liberalismo possa giustificare lo sfruttamento e la povertà di alcuni. Vi era l’idea che si dovesse andare oltre il vecchio liberalismo: come si erano estese a tutti le libertà civili e politiche ora bisognava estendere a tutti le nuove “libertà economiche”. Ma anche laddove si accetti una spiegazione di questo tipo rimane il fatto che i liberali non si resero conto dell’enorme cambiamento teorico che stava avvenendo all’interno della teoria liberale, e non videro che con il tempo la conseguenza non poteva che essere uno snaturamento del liberalismo stesso e il riproporsi, in forma nuova e più pericolosa, di tutti quei problemi che il liberalismo come ideologia e come movimento politico aveva cercato di risolvere. Le implicazioni non liberali della teoria benthamiana vennero messe in luce anche da alcuni contemporanei, come ad esempio Thomas B. Macaulay, il quale fece notare23 come l’utilitarismo di Bentham aprisse la porta alla giustificazione di atti arbitrari da parte della maggioranza (e dunque alla violazione di un altro principio liberale, quello del rispetto delle minoranze), e come non fosse possibile tener conto dell’intensità del dolore che viene provocato ad alcuni individui nel tentativo di realizzare la maggiore felicità dei più. Di quelle critiche terrà conto John Stuart Mill, che riproporrà in maniera forte il tema classico del liberalismo riguardo ai limiti del potere, potenzialmente oppressivo, della maggioranza sulla minoranza. Tuttavia anche la sua riflessione si muoverà sull’asse dell’utilitarismo benthamiano, e non solo farà scomparire definitivamente dall’orizzonte del liberalismo britannico la riflessione sui diritti naturali degli individui, ma soprattutto, distinguendo tra sfera pubblica e sfera privata, e tra produzione e distribuzione della Cfr. T.B. MACAULAY, Utilitarian Theory of Government, Longman and Roberts, London 1829. Come noto Macaulay è anche autore della celebre History of England, che a giudizio di Hayek fu un lavoro storico di incomparabile influenza. Su Macaulay, e in generale per una trattazione critica dell’utilitarismo, si rimanda a B. LEONI, Il pensiero politico e sociale nell’Ottocento e Novecento, in E. Rota (a cura di) Questioni di storia contemporanea, vol. II, Marzorati, Milano 1953, pp. 1121-1338; ora in B. Leoni, Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala, con prefazione di A. Masala e introduzione di L.M. Bassani, Liberilibri, Macerata 2008, pp. 13-208 (da cui si cita), p. 55 e ss. a cui si fa riferimento anche nel seguito di questa trattazione. 23

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ricchezza, aprirà le porte al New liberalism dando un colpo decisivo alla tradizione del liberalismo classico, della quale viene pure considerato uno degli ultimi grandi esponenti 24. La quale cosa è sostenibile esclusivamente a patto di prendere in considerazione solo una parte della sua riflessione, quella magistralmente sintetizzata nella sua opera più celebre, On liberty25, e di ignorarne una parte altrettanto importante (a partire dal saggio Principles of Political Economy) nella quale propone l’utilizzo delle “leggi dell’etica” nella distribuzione della ricchezza 26, guardando apertamente al pensiero socialista, e all’utilizzo dei metodi delle scienze fisiche per arrivare alla spiegazione dei fenomeni politici, come già il suo maestro Bentham27. L’idea di Mill secondo la quale una volta che i beni sono stati prodotti possono essere redistribuiti come meglio si crede, ignorando grossolanamente che una redistribuzione collettiva secondo i criteri etici non può non avere conseguenze sulla produzione futura, non è solo una leggerezza dal punto di vista dell’analisi economica e sociale, ma una pietra tombale su tutto il liberalismo classico; una pietra tombale resa estremamente più pesante dal fatto che a porla era stato un pensatore per molti aspetti autenticamente liberale e che aveva scritto pagine cristalline a difesa della libertà individuale. In estrema sintesi, vi è un lungo percorso che inizia già nella prima metà dell’Ottocento e porta al radicale cambiamento del liberalismo nella sua patria di origine28. È un percorso che parte dalla rivoluzione Come noto la letteratura sull’argomento è estremamente vasta; ai fini di questa analisi è particolarmente interessante W.H. GREENLEAF, The British Political Tradition: II, The Ideological Heritage, op. cit., p. 103 e ss. 25 J.S. MILL, On Liberty, Longman, London 1859 (trad. it. Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1995). 26 J.S. Principles of Political Economy, Longman, London 1871 (trad. it. Princìpi di economia politica, UTET, Torino 1983). Come noto in quell’opera, originariamente scritta nel 1848 e poi negli anni variamente modificata, nonostante la difesa della competizione e del laissez-faire come pratica generale, Mill sostenne che il miglior modo di distribuire la ricchezza prodotta fosse quello di dividerla tenendo conto delle energie e degli sforzi di coloro che l’avevano prodotta, cosa che non avrebbe costituito una sovversione del sistema di proprietà individuale ma un suo miglioramento; si veda la p. 657 dell’edizione on line della Liberty Fund. 27 Su quest’ultimo aspetto, e su quanto si sarebbe poi radicato il positivismo nella Gran Bretagna dell’Ottocento W.H. GREENLEAF, The British Political Tradition: I, The Rise of Collectivism, op. cit., pp. 237 e ss. 28 Una delle migliori opere a questo riguardo, a giudizio di chi scrive, è S. LETWIN, The Pursuit of Certainty. David Hume, Jeremy Bentham, John Stuart Mill, Beatrice Webb, Liberty Fund, Indianapolis 1998 [1965]. Nella sua articolata analisi la Letwin mostra 24

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utilitarista di Bentham e dalla sua concezione della politica come tecnica “perfetta” e della legge come prodotto della logica umana. Passa per John Stuart Mill, per la sua fede “positivista” nel progresso e per la sua tesi che si debbano tenere distinti produzione e distribuzione della ricchezza, usando poi princìpi etici oggettivi come guida non solo per quella redistribuzione ma soprattutto per creare in quel modo una società più giusta. Una concezione questa che viene poi estremizzata dal New liberalism, il quale, anche a causa dell’influenza dell’idealismo tedesco, apre a concezioni di stato etico, al dovere dello stato di realizzare la libertà dei propri cittadini. E giunge infine nel Novecento alla connotazione scientista e fideistica, che ha la sua massima espressione nella Fabian Society, ultimo e logico approdo di quel lungo percorso. È possibile delineare una sorta di continuità tra l’utilitarismo britannico (l’idea di Bentham che fosse possibile “calcolare” piaceri e dolori individuali, nonché l’idea dei suoi successori che si possa dare alla convivenza, oltre che all’economia, la forma che si vuole) e le forme di scientismo e di behaviourismo più vicine a noi, che nel primo capitolo si è visto essere il principale bersaglio critico di importanti filosofi politici. Guardando a quella grande trasformazione nel pensiero politico è possibile comprendere perché gli stessi fabiani potessero, come anche faceva Keynes, dichiararsi liberali. Rimane tuttavia difficile attribuire a quelle teorie, che hanno contribuito forse anche più dello stesso laburismo alla nascita e allo sviluppo del collettivismo in Gran Bretagna, un rapporto con il “vecchio” liberalismo, e diventa dunque difficile, come si vedrà meglio in seguito, accogliere l’idea che le critiche che sono state analizzate nel primo capitolo possano essere rivolte a tutta la tradizione liberale. Quello che si ebbe nel liberalismo britannico fu innanzitutto un cambiamento che riguardava l’idea stessa di politica, i suoi compiti e le sue responsabilità. Da coloro che ancora si professavano liberali alla politica veniva ora attribuita la capacità di riorganizzare il mondo seguendo dei modelli razionali (usare il meccanismo legislativo per realizzare ogni tipo di riforme sociali), e venivano ad essa attribuite anche delle finalità etiche, con la conseguente responsabilità di un cambiamento morale della società. Al di là di quanto siano condivisibili quelle finalità, rimane il fatto che una tale concezione della politica non aveva niente a che fare con la vecchia concezione del liberalismo, per il quale il comcome gradualmente negli autori esaminati e nell’intera cultura britannica la politica si trasforma da “arte” in “tecnica” e infine, con Beatrice Webb, in una fede nel progresso, in una religione che ha l’intento morale di cambiare l’uomo.

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pito della politica e del governo era esclusivamente quello di garantire la vita, la proprietà e la libertà degli individui, che dovevano essere lasciati liberi di fare le proprie scelte, traendone i vantaggi e pagandone le conseguenze. E al di là del fatto che questo cambiamento possa piacere, o possa essere ritenuto come un fatto “politicamente” necessario per evitare il socialismo da una parte e il nazionalismo che diede luogo al fascismo dall’altra, rimane il fatto che le ultime fioriture del nuovo liberalismo non sembravano avere alcun rapporto di gemmazione dal liberalismo classico, il quale appariva ormai definitivamente tramontato.

2. La teoria etica e sociale dell’Ordoliberalismus A riproporre in maniera originale, durante gli anni della Seconda guerra mondiale, il problema della crisi della tradizione liberale è anche una delle grandi figure del liberalismo del Novecento, Wilhelm Röpke. La sua riflessione è particolarmente interessante ai fini di questa ricerca, poiché in essa si ritrovano molte delle critiche che nel primo capitolo abbiamo visto essere state rivolte al liberalismo, in particolare l’idea che esso fosse “affetto” da razionalismo e che fosse corresponsabile della crisi etica della cultura occidentale. Egli sostiene l’idea della crisi “etica” della tradizione liberale, per così dire, “dall’interno”, ossia dichiarandosi liberale e proponendo delle (nuove) soluzioni liberali per uscire da quella crisi. Anche Röpke, come i New liberals, addebita le colpe del liberalismo all’età del laissez-faire per poi, al pari di Voegelin e Hallowell, individuare la via d’uscita in un recupero dei valori cristiani. Il suo è un tentativo per molti aspetti teoricamente grandioso e carico di conseguenze politiche, e che rimane nelle intenzioni dell’autore sicuramente liberale, quantomeno perché, se egli da un lato vede negli errori del “liberalismo storico” una delle principali cause della crisi della sua epoca, dall’altro indica in un rinnovamento radicale della teoria liberale stessa l’unica via d’uscita da quella crisi. Negli anni della Seconda guerra mondiale Röpke scrive due importanti opere, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart29 e Civitas Humana30 nelle quali, tenta di individuare le radici profonde che avevano W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, Zürich 1942 (trad. it. La crisi sociale del nostro tempo, Einaudi, Torino 1946). 30 W. RÖPKE, Civitas Humana. Grundfragen der Gesellschafts- und Wirtschaftsreform, Zürich 1944 (trad. it. Civitas Humana. I problemi fondamentali della riforma sociale del 29

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portato a quella che considera una “crisi della civiltà”, testimoniata dalla guerra, e al “vuoto spirituale” di un uomo sempre più disumanizzato. La posizione di Röpke è quella di un credente, per l’esattezza di un luterano che guarda con attenzione alla chiesa cattolica, il quale ritiene che la crisi della civiltà sia stata causata dal relativismo e dall’agnosticismo della scienza, e che l’effetto di questi due elementi sia risultato dirompente a causa della perdita di autorità della chiesa. La crisi dell’Occidente è dunque causata prima di tutto dalla secolarizzazione e dalla “scristianizzazione” del mondo, che ha sostituito la religione con il razionalismo. La nascita dell’errore razionalistico è “nel modo di pensare quantitativo matematico-scientifico introdotto da Cartesio”, il quale “rende ciechi davanti alle esigenze della vita” e culmina in quello che Röpke chiama il “culto del colossale”31. Le origini della crisi, che ha il suo atto finale nella Seconda guerra mondiale, vanno poi ricercate nella rivoluzione francese, o meglio nell’aver erroneamente identificato le idee della rivoluzione con la democrazia e il liberalismo32. Le “aberrazioni del razionalismo” hanno prima di tutto fortemente condizionato “la storia sociale e spirituale della Francia” e si sono poi propagate all’Inghilterra e al resto del mondo, contagiando anche la teoria liberale33. Röpke ritiene che ormai da due secoli il liberalismo, sia politico sia economico, stia percorrendo vie errate, tanto da diventare anch’esso una forma di razionalismo. L’errore di quello che egli chiama “liberalismo storico” (ma talvolta anche “liberalismo economico” o “liberalismo del laissez-faire”) non è stato nell’individuare la capacità di autogoverno e autoregolamentazione dei mercati in regime di concorrenza, che anzi resta una delle sue grandi scoperte, ma nell’aver considerato la concorrenza una macchina perfetta, “basata solo sulla condotta razionale degli uomini”. È stato insomma un fraintendimento, una cattiva comprensionostro tempo, Rizzoli, Milano 1947). 31 W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, op. cit. (trad. it. cit. p. 62). 32 Ivi, (trad. it. cit. p. 55 e ss.). In un altro scritto osserva: «la confusione tra il potere del popolo e la sua libertà, che è alla base del giacobinismo, trova rispondenza nella confusione di liberalismo e democrazia. Può quindi capitare che si renda a torto responsabile il liberalismo di cose che in verità vanno a carico della democrazia»,W. RÖPKE, Die Krise des Kollektivismus, München (trad. it. La Crisi del collettivismo, La Nuova Italia, Firenze 1951, ora in Umanesimo liberale, a cura di M. Baldini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, p. 118). 33 Cfr. W. RÖPKE, Civitas Humana… op. cit. in particolare il primo capitolo della prima parte, ora anche in W. RÖPKE, Democrazia ed economia. L’umanesimo liberale nella civitas humana, a cura e con introduzione di S. Cotellessa, Il Mulino, Bologna 2004, capitolo 2.

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ne, non dei vantaggi della concorrenza e della sua capacità di produrre un buon ordine, ma dei requisiti di cui la concorrenza necessita per potersi realizzare e poter dispiegare i suoi benefici effetti. Si è ritenuto infatti che la concorrenza si sviluppasse da sola, come un automatismo spontaneo, a patto che si lasciassero gli individui totalmente liberi di agire come più ritenevano opportuno. Si è sposata dunque una concezione della libertà assoluta e senza limiti, dimenticando che una libertà senza vincoli degenera inevitabilmente nella “peggiore delle servitù”. Ciò che il liberalismo storico ha perso di vista sono i “necessari limiti e le condizioni sociologiche” da porre alla libertà dei mercati. Il mercato infatti per poter funzionare ha bisogno di condizioni extra-economiche, e il sistema di concorrenza ha bisogno di “qualità etiche” e “riserve morali” che si trovano all’infuori dell’economia stessa34. E naturalmente Röpke, da credente, era convinto che fossero i precetti del Cristianesimo ad aver fornito il fondamento etico necessario al mercato35. Alla base della crisi del liberalismo vi è dunque il “falso uso della ragione”, e l’erronea idea che fosse possibile avere un buon ordine sociale con il solo appello alla ragione e senza un “sicuro orientamento spirituale”. Il liberalismo è diventato razionalistico quando ha iniziato a ignorare tutto questo e ha posto alla base del funzionamento dei mercati e del sistema di concorrenza un “individuo atomizzato” e totalmente libero. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento è divenuto “dottrinario” perché non ha più saputo attribuire la giusta importanza agli elementi extra-economici necessari alla stessa economia di mercato, alla sua “cornice” che è giuridico-istituzionale ma anche culturale ed etica, poiché il mercato non può ben funzionare se non in una società in Sempre in Civitas Humana scrive: «non si è voluto capire che l’economia dei mercati abbisogna di un forte inquadramento morale-politico-istituzionale (un minimo di onestà in affari, un forte Stato, un’intelligente “polizia dei mercati”, un diritto profondamente meditato e conforme alla costituzione economica), ove essa non voglia andare in rovina e distruggere in pari tempo la società nel suo complesso, attraverso una sfrenata economia fondata su interessi particolari», e poi aggiunge: «mentre oggi sappiamo (e sempre si sarebbe potuto saperlo) che l’economia basata sulla concorrenza conferma le qualità etiche e pertanto presuppone delle riserve morali all’infuori dell’economia stessa, si è stati abbastanza ciechi in passato per credere che fosse invece essa ad esprimere da sé elementi morali», W. RÖPKE, Democrazia ed economia, op. cit., pp. 64-65. 35 Su questo aspetto del pensiero di Röpke si veda la raccolta di saggi curata da Carlo Lottieri, W. RÖPKE, Il Vangelo non è socialista, a cura e con introduzione di C. Lottieri, Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli 2006 e in particolare il saggio che dà il titolo alla raccolta. 34

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cui vi siano dei valori condivisi36. La concorrenza infatti non è solo la divisione del lavoro e il mercato, ma uno “speciale istituto” assai delicato, che va organizzato e mantenuto in vita “con ogni sforzo”. Il liberalismo ha scoperto gli effetti benefici e morali della concorrenza, ma si è poi dimenticato che essa deve essere “onesta, genuina e pura” e questo può avvenire solo grazie ad una “decisa volontà” che si oppone agli istinti potenzialmente predatori degli imprenditori, e ai loro tentativi di creare (ad esempio) situazioni di monopolio. L’errore “tragico” del liberalismo storico fu dunque pensare che la divisione del lavoro e il mercato imponessero da soli, “naturalmente e autonomamente”, “solidarietà e onestà”. E dunque credere che per avere i benefici della concorrenza, ossia per avere azioni che vanno nella direzione dell’interesse comune, bastasse “fare appello soltanto scientificamente alla ragione”. La vecchia dottrina liberale dell’armonia, ingenuamente ottimistica, ha dimenticato quanto fosse delicato il meccanismo della concorrenza e quanto esso abbisognasse di requisiti extra-economici, giuridici e soprattutto morali. E dimenticando tali requisiti ha naturalmente cessato di sorvegliare su di essi, favorendo non solo la degenerazione e il crollo dell’economia di mercato, ma anche quello della stessa civiltà occidentale37. Il mercato libero e la concorrenza, al contrario di quanto pensava il liberalismo storico, non sono un automatismo perfetto, un risultato spontaneo del comportamento umano, ma “un prodotto artificiale straordinariamente fragile” il quale necessita di uno stato attivo, che “provveda al mantenimento della libertà di mercato e della concorrenza” non solo con la produzione di diritto e di politiche finanziarie, ma anche con “direttive spirituali ed etiche”38. Quello disegnato di Röpke rimane nelle intenzioni sempre uno stato liberale, con compiti limitati. Uno stato che non “ingerisce in ogni cosa” e non si “immischia in tutto”, ma è «un arbitro robusto il cui compito non è né prender parte al gioco né prescrivere ai giocatori tutte le mosse, ma di vegliare con assoluta Il punto è ben colto in S. COTELLESSA, Introduzione, a W. Röpke Democrazia ed economia. L’umanesimo liberale nella civitas humana, a cura di S. Cotellessa, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 31-34. 37 Cfr. W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, op. cit. (trad. it. cit. pp. 150163). Più avanti Röpke aggiunge che per combattere il collettivismo dilagante bisogna tornare al vero insegnamento liberale, al vero sistema di concorrenza, superando tutti gli errori del capitalismo storico. Per questo bisogna ad esempio agevolare un’esistenza basata sulla proprietà, che rende realmente liberi, e praticare quella che definisce, con un’espressione divenuta assai popolare, ma forse piuttosto infelice, la “terza via” (pp. 220 e ss.). 38 Ivi, (trad. it. cit. pp. 284-285). 36

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imparzialità e incorruttibilità per la più stretta osservanza delle regole del gioco e della correttezza sportiva»39. Nella sua riflessione insomma si ripresenta l’idea, pure ricorrente nel liberalismo classico, che lo stato è un tassello indispensabile per l’ordine sociale. E probabilmente non si forza il suo pensiero se si sostiene che Röpke vuole in realtà anche dire che lo stato liberale (che non esorbita dalle proprie funzioni) è in grado di dare le “giuste direttive spirituali ed etiche”, e che una delle cause della degenerazione del liberalismo storico è stata proprio il dimenticare il ruolo fondamentale dello stato e della politica e il ritenere che fosse possibile avere un’economia libera senza lo stato. Un altro errore del liberalismo storico è stato il non aver dedicato abbastanza attenzione ai difetti del principio di concorrenza, il quale non può e non deve essere applicato a tutti i settori della produzione e a tutti gli aspetti della vita dell’uomo. L’averlo fatto ha avuto come conseguenza il creare condizioni inumane di vita e di lavoro, forme di esistenza contrarie alla natura umana, alle quali, inevitabilmente, gli individui si sono infine ribellati, facendo crollare il capitalismo stesso40. Più o meno inconsapevolmente si è creata una situazione in cui doveva essere l’uomo ad adattarsi all’economia, e non viceversa. Nell’introduzione di Civitas Humana, attribuisce al “vecchio pensiero liberale capitalistico” la responsabilità di non essersi accorto che l’economia di mercato rappresenta “soltanto un breve settore della vita sociale, incorniciato e contenuto in un campo più largo”, nel quale gli uomini non sono agenti economici concorrenti, ma semplicemente “uomini che non vivono di solo pane, membri di famiglia, vicini di casa, membri di comunità religiose” ecc. L’economia di mercato riguarda dunque solo un ambito ristretto dell’esistenza umana, e se accanto ad essa non vi sono, sani, gli altri “settori” della vita umana (“i settori dell’autoapprovvigionamento, dell’economia statale, della pianificazione, dell’abnegazione e della schietta umanità all’infuori degli affari”) essa inevitabilmente si corrompe e “avvelena” tutte le altre “zone della società”. «Il principio individuale nel nocciolo dell’economia di mercato deve essere controbilanciato, entro la cornice, dal principio sociale umanitario, se vogliamo che entrambi Ivi, (trad. it. cit. p. 241). Su questo punto si veda anche M. BALDINI, Introduzione a RÖPKE Umanesimo liberale, a cura di M. Baldini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. 40 Qui e nelle opere successive Röpke distingue tra il sistema di concorrenza e il capitalismo, considerando quest’ultimo la degenerazione razionalistica dell’economia di mercato. In Civitas Humana arriva a definire il capitalismo la “forma guasta ed arrugginita” assunta dall’economia di mercato negli ultimi cento anni. 39

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sussistano nella nostra società moderna e se nello stesso tempo vogliamo vincere i pericoli mortali della riduzione a massa e proletariato»41. Quella di Röpke è insomma la perorazione a favore di un liberalismo solidale, che, nella migliore tradizione del Cristianesimo, esalta il principio di sussidiarietà e quello di responsabilità. Una visione conosciuta come “economia sociale di mercato”, o anche come Ordoliberalismus42, che avrebbe attecchito soprattutto nella Germania degli anni del secondo dopoguerra, e sarebbe stata politicamente impersonata dal ministro dell’economia Ludwig Erhard43. Dal “catastrofico errore” teorico dell’aver considerato il mercato come un mondo a sé stante, che non ha bisogno di una cornice etica oltre che giuridica, sono dunque discesi gli errori storici del capitalismo, i quali consistono prima di tutto nell’aver lasciato campo libero a uno sviluppo industriale basato sulla grande impresa, che ha alla lunga portato all’alienazione dell’uomo e alla conseguente “ribellione delle masse”44. Al pari della democrazia pura anche il capitalismo “non attenuato” è insostenibile, perché gli uomini non possono “durevolmente sopportare” la “tensione spirituale, nervosa e morale” a cui li costringe la mancanza di sicurezza e l’instabilità che derivano da un sistema di mercato. Così come la democrazia, per non degenerare nel dispotismo, deve poter contare su princìpi estranei all’autorità statale, altrettanto W. RÖPKE, Civitas Humana… op. cit. (trad. it. cit. p. 37-38). Il nome Ordoliberalismus viene dalla rivista “Ordo”, fondata nel 1948 da Walter Eucken e Franz Böhm, e della quale Röpke fu uno dei principali collaboratori. 43 È interessante osservare come Michel Foucault, nella sua per molti versi assai interessante ricostruzione delle idee liberali contemporanee, consideri di fatto l’Ordoliberalismus come la principale corrente liberale del secondo dopoguerra. Foucault sviluppa un’analisi delle origini storiche e delle problematiche teoriche del liberalismo, nonché del suo fondamento nella dottrina dell’homo œconomicus, e giunge poi a definirlo come una «riflessione critica sulla pratica governamentale». A suo giudizio il liberalismo «non prende le mosse dall’esistenza dello stato», «non deriva da una riflessione giuridica più di quanto non derivi da un’analisi economica”, e «non è nato dall’idea di una società politica fondata su un legame contrattuale», M. FOUCAULT, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979, Gallimard, Paris 2004 (trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 263-265). Si tratta, nonostante alcune imprecisioni, di un’analisi di sicuro interesse, anche se, soprattutto tenendo conto dei punti sopra brevemente citati, desta una certa sorpresa il fatto che arrivi a considerare il liberalismo di Hayek e Mises quasi come una “appendice” dell’Ordoliberalismus, cfr. in particolare p. 77. 44 Il riferimento è naturalmente alla celebre opera La rebelión de las masas, J. ORTEGA Y GASSET, La rebelión de las masas, 1930 (trad. it. La ribellione delle masse, SE, Milano 2001), più volte richiamata da Röpke. 41

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l’economia di mercato, per non divenire insopportabile, deve lasciare spazio a sfere non influenzate dal mercato medesimo, e che rendano la vita dell’uomo più solidale e tollerabile45. Röpke ritiene dunque che l’economia di mercato possa funzionare solo in una società “morale”, che tenga fermi alcuni princìpi e valori, ma anche che si basi su un equilibrio tra le diverse “anime della società” e che non veda differenze troppo esasperate nel tenore di vita delle persone: «l’economia di mercato di una società atomizzata, livellata, dominata dallo spirito di massa e dalla concentrazione, è ben diversa dall’economia di mercato di una società in cui la proprietà sia largamente distribuita, di una società di uomini la cui esistenza sia solidamente radicata e articolata in quelle vere comunità (a cominciare dalla famiglia) che danno all’individuo una grande solidità morale; di una società che possa contare su un vasto ceto medio indipendente, e sia distribuita in giusta misura fra la città e la campagna, l’industria e l’agricoltura» 46. Se dunque da un lato Röpke non nega che i mercati abbiano la capacità di autoregolarsi e dirigere gli sforzi individuali verso il bene comune, dall’altro ritiene che perché ciò possa avvenire vi debbano essere una serie di circostanze “sociologiche” favorevoli, da ricercare nella cultura e nei valori della società, oltre che nel diritto e nelle istituzioni. In una delle sue ultime opere ritornerà con decisione su questo punto, scrivendo: «economia di mercato, meccanismo dei prezzi, libera concorrenza; d’accordo. Ma non bastano. Essi possono operare in una struttura sana o malata della società. Dall’una o dall’altra condizione dipendono non solo la misura della felicità, del benessere e della libertà, ma anche il destino dell’economia di mercato, [il quale…], con il suo meccanismo dell’offerta e della domanda, si decide al di là dell’offerta e della domanda»47. Pur non negando la grandezza del meccanismo a “mano invisibile”, Röpke di fatto finisce con il ritenere che esso sia in verità una conseguenza dei comportamenti etici delle persone, e forse anche di un’etica che può in qualche modo essere garantita, se non anche inculcata, dallo stato. Insomma, la mano invisibile del mercato rischia di dipendere dalla mano, ben poco invisibile, dello stato. Emblematico a tale proposito è il passo in Civitas Humana in cui critica la “filosofia del laissez-faire” dello “storico liberalismo economico” e la sua idea che W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, op. cit. (trad. it. cit. p. 144). W. RÖPKE, Jenseits von Angebot und Nachfrage, Zürich 1958 (trad. it. Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un’economia umana, Edizioni Via Aperta, Varese 1965, p. 47). 47 Ivi, (trad. it. cit. pp. 48-49). 45 46

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l’economia di mercato possa rappresentare un «cosmo a sé stante, non legato a nessun presupposto sociologico-morale, un ordre naturel, di fronte al quale gli uomini hanno soltanto il compito negativo di levar di mezzo tutti gli ostacoli»48. Definisce poi quella posizione un “razionalismo zoppicante” e attribuisce al liberalismo storico la responsabilità di aver collaborato “assiduamente e ciecamente” alla grande crisi spirituale culminata nella Seconda guerra mondiale. Ad essere condannata senza appello è dunque la teoria della mano invisibile di Adam Smith, che ritiene il bene comune raggiungibile dagli “egoismi liberi da ogni freno”, ignorando “ciecamente” che vi sono delle fondamentali condizioni e premesse “politico-sociologico-morali”, le quali sono necessarie al mercato e alla vita dell’uomo. Questa idea “teologico-metafisica della ragione divina che guida ogni cosa per il meglio” ha portato a un insensato ottimismo riguardo alla “naturale bontà e ragionevolezza dell’uomo” che a sua volta ha condotto al “deplorevole scadimento del liberalismo” e alla sua trasformazione in una dottrina razionalistica, al pari dello stesso socialismo 49. Un condanna senza appello di quello che il Röpke chiama liberalismo storico, ma tanto dura da portarsi dietro, a ben vedere, anche alcuni elementi irrinunciabili per il liberalismo classico.

3. Le idee e le loro conseguenze Assai diversa da quella di Röpke era l’idea che della crisi del liberalismo aveva Ludwig von Mises. Dopo il trionfo del New liberalism in Gran Bretagna e il trionfo delle ideologie nazionaliste in tutta Europa, Mises era uno dei pochissimi liberali “di vecchia scuola” rimasti in circolazione nel periodo tra le due guerre mondiali, e se si vuole studiare il liberalismo del Novecento quella di Mises è una figura imprescindibile50. Proprio seguendo la riflessione di Mises si può cercare una Ivi, (trad. it. cit. pp. 102-103). Ivi, (trad. it. cit. p. 110). 50 Una completa ricostruzione della vicenda umana e scientifica di Mises è J.G. HULSMANN, Mises. The last Knight of Liberalism, Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL) 2007, mentre I. KIRZNER, Ludwig Von Mises: The Man and His Economics, Intercollegiate Studies Institute, Wilmington 2001, ricostruisce in maniera approfondita le sue idee economiche. In lingua italiana si segnala L. INFANTINO, N. IANNELLO (a cura di), Ludwig Von Mises: le scienze sociali nella grande Vienna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. 48 49

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risposta ad alcune domande sulla crisi del liberalismo, che è anche un modo per cercare di definire meglio quali siano i caratteri fondamentali della teoria liberale, e come essi fossero stati persi a partire dalla fine dell’Ottocento. Le sue idee più importanti giunsero a maturazione tra gli anni Venti, quando la sua vita si svolse tra Vienna e Ginevra, e il 1940, quando emigrò negli Stati Uniti 51. Nel nuovo mondo non ebbe un particolare successo accademico, come d’altro canto non lo aveva avuto in Austria, ma le sue idee ebbero circolazione e successo52. In America Mises portò a compimento la sua riflessione, scrisse nuove opere e ripubblicò in inglese, rivedendole talvolta in maniera profonda53, le sue opere più importanti scritte in tedesco anni addietro, opere che nel mondo di lingua inglese ebbero dei riconoscimenti che non avevano avuto in precedenza. Ecco perché, nonostante le idee più importanti di Mises fossero maturate prima della guerra, egli può essere considerato come il primo autore da cui parte la rinascita del liberalismo post Seconda guerra mondiale. La vicenda umana e intellettuale di Mises dimostra quanto il liberalismo venisse ai suoi tempi apertamente rinnegato. Nonostante le sue opere e le sue competenze gli avessero dato un ruolo importante alla Camera di commercio di Vienna (istituzione che di fatto aveva una Gli anni americani sono analizzati nel dettaglio in W.H. PETERSON, Mises in America, Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL) 2009. 52 Va in particolare ricordata la profonda influenza che Mises ebbe sul più importante pensatore libertario americano, Murray N. Rothbard, e tramite lui su tutto il movimento libertario. Proprio Rothbard decise di dare il nome del suo maestro al think tank da lui fondato, il Ludwig von Mises Institute, che ha sede a Auburn in Alabama ed è il più importante istituto per la promozione e la diffusione delle idee libertarie. Sul pensiero libertario in lingua italiana si dispone di due importanti lavori: C. LOTTIERI, Il pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri, Macerata 2001 che offre una accurata analisi della filosofia libertaria e dei suoi problemi, e P. VERNAGLIONE, Il libertarismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 che propone una dettagliata ricostruzione del pensiero dei principali autori e tematiche. Entrambi peraltro dedicano ampio spazio all’influenza di Mises sul movimento libertario. Da segnalare anche la bella antologia, e la relativa introduzione, N. IANNELLO, La società senza stato. I fondamenti del pensiero libertario. Antologia a cura di Iannello, Rubbettino-Leonardo Facco, Soveria Mannelli 2004 e un numero speciale di «Nuova civiltà delle macchine» integralmente dedicato al libertarismo e al confronto tra esso e il pensiero liberale, AA.VV. Liberalismo e anarcocapitalismo. La Scuola austriaca di economia, «Nuova civiltà delle macchine», anno XXIX, n. 1-2, 2011. 53 Questo è soprattutto il caso del capolavoro di Mises, Human Action, pubblicata in inglese nel 1949. Rispetto alla versione originale Nationalökonomie: Theorie Des Handelns und Wirtschaftens, del 1940 la versione inglese, riscritta da Mises, fu notevolmente arricchita. Le traduzioni delle altre opere rimasero invece piuttosto fedeli agli originali. 51

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funzione assai rilevante di consulenza per i funzionari ministeriali) e notevole autorevolezza, non solo egli non riuscì mai ad avere una posizione stabile all’interno delle università di lingua tedesca54, ma addirittura frequentare il suo (pur prestigioso) seminario privato all’Università era qualcosa di “pericoloso” per i giovani che ambissero ad una carriera universitaria. Egli stesso racconta come all’inizio di ogni corso ritenesse utile specificare che non era necessario iscriversi formalmente, che si poteva seguire il corso anche senza essere iscritti, proprio perché sapeva che un’iscrizione formale avrebbe creato problemi a molti studenti 55. Più in generale nell’ambiente accademico le sue opere incontrarono indifferenza se non anche aperta ostilità56. Mises era infatti considerato dai suoi contemporanei come l’esponente di un liberalismo ormai superato, l’ultimo rappresentante di un filone di pensiero, quello del Classical liberalism, che sembrava definitivamente esaurito. Carl Menger, il fondatore della più importante tradizione continentale del liberalismo classico, la Scuola austriaca, sarebbe vissuto sino al 1920 ma era ormai da anni improduttivo perché, a giudizio di Mises, vittima di una depressione che lo portava a vedere come imminente il crollo della civiltà occidentale e come inutile il continuare la battaglia per il liberalismo57. Eugen von Böhm-Bawerk, economista che aveva fornito fonA Vienna ottenne la libera docenza nel 1913 e divenne nel 1918 privatdozent, ossia professore autorizzato a insegnare ma non incardinato nell’università, e dunque non pagato se non dai modesti contributi dei suoi studenti. In Austria non andò mai oltre questa qualifica, mentre in Germania una sua chiamata in cattedra non fu mai seriamente presa in considerazione. 55 Al seminario privato di Mises parteciparono alcuni grandi studiosi del Novecento, peraltro di orientamenti e idee molto diversi tra loro. Tra i più conosciuti frequentatori abituali del seminario si ricordino almeno Gottfried Haberler, F. A. von Hayek, Felix Kaufmann, Rudolf Klein, Fritz Machlup, Oskar Morgenstern, Alfred Schütz e E. Voegelin. A ricostruirne le vicende è lo stesso Mises, cfr. L. VON MISES, Notes and Recollections, Spring Mills, Penn., Libertarian Press 1978 [scritto nel 1940, con il titolo Erinnerungen, ma pubblicato postumo per volontà dell’autore] (trad. it. Ricordi, in Autobiografia di un liberale. La Grande Vienna contro lo statalismo, prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996), cap. 9, che indica anche i nomi dei 26 studiosi che presero stabilmente parte al suo seminario privato. 56 Ivi, (trad. it. cit. p. 127), ma a ricordarlo è anche Hayek nella premessa all’edizione del 1978 di Socialismo, cfr. L. VON MISES, Socialismo, Rusconi, Milano 1990, pp. 23-29. 57 Riferendosi a Menger, Mises scrive: «credo tuttavia di sapere che cosa lo abbia scoraggiato e ridotto precocemente al silenzio. La sua mente lucidissima aveva intuito quale via stesse imboccando lo sviluppo dell’Europa e del mondo intero. Egli vedeva ormai queste superbe civiltà correre precipitosamente verso l’abisso. Menger ebbe il presentimento di tutti gli orrori che oggi stiamo vivendo.[…] Ma sapeva anche che la sua era 54

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damentali contributi riguardo alla teoria del capitale58, una penetrante critica della teoria marxiana del valore59 e che aveva rivestito importanti cariche politiche, era prematuramente scomparso nel 1914. Un altro importante esponente della cosiddetta seconda generazione della Scuola austriaca, Friedrich von Wieser, nonostante avesse dato contributi di rilievo alla teoria dei valori soggettivi60, coniando anche l’espressione “teoria dell’utilità marginale”, non solo non aveva saputo trarre implicazioni politiche dalla teoria economica, ma aveva anche seguito quello che sembrava essere il destino di una intera generazione di liberali in tutti i paesi europei, ossia il rifiuto del Classical liberalism a favore di un nuovo liberalismo, in cui la vecchia e “caotica” libertà ormai “passata di moda” doveva essere sostituita da un nuovo “sistema di ordine”61. E proprio la figura di Wieser è emblematica di come nei paesi di lingua tedesca, ben prima dell’avvento del nazismo, anche coloro che si dichiaravano liberali fossero ormai statalisti, se non anche seguaci del socialismo di stato62. una battaglia inutile e disperata, e questo lo fece piombare in un tetro pessimismo che gli paralizzò le forze», L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. pp. 63-64). 58 E. BÖHM-BAWERK Kapital und Kapitalzins, II 1884 (trad. it. La teoria positiva del capitale, UTET, Torino 1957) 59 E. BÖHM-BAWERK, Zum Abschluss des Marxschen Systems, 1896 (trad. it. La conclusione del sistema marxiano, in AA.VV., Economia borghese ed economia marxista, Firenze, La Nuova Italia 1971). Per una ricostruzione della figura di Böhm-Bawerk e per inquadrarne la sua collocazione nella Scuola austriaca si rimanda a L. INFANTINO, Individualismo, mercato e storia delle idee, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, capitolo 5. 60 F. VON WIESER, Der natürliche Wert, Gustav Fischer, Jena 1889. 61 L’idea è contenuta in F. VON WIESER, Theorie der gesellschaftlichen Wirtschaft, Gustav Fischer, Jena 1914. A giudizio di Hayek Wieser era diventato sostanzialmente “un fabiano”, cfr. la sua introduzione ai L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. p. 34). Hayek fu allievo di Wieser, nei suoi confronti mantenne sempre un atteggiamento di stima e gratitudine, ma a livello scientifico, nonostante anche il suo liberalismo sia a tratti “compromissorio”, se ne differenziò radicalmente. 62 A mettere in luce le affinità, ma anche le “significative divergenze” tra gli esponenti della Scuola austriaca è stato R. CUBEDDU, Mises nell’orizzonte della Scuola austriaca, in L. Infantino, N. Iannello, (a cura di), Ludwig von Mises… op. cit. pp. 319-338. L’autore richiama in particolare la continuità tra Menger e Hayek, rimarcando invece le differenze tra il fondatore della Scuola austriaca e Mises, e dunque anche con il pensiero libertarian, profondamente influenzato da Mises. La tesi opposta, ossia della maggiore continuità tra Menger e Mises e della “distanza” di Hayek, è invece sostenuta da J.T. SALERNO, Mises and Hayek Dehomogenized, in «Review of Austrian Economics», vol. 6, n. 2, 1993, pp. 113-146, mentre L. INFANTINO, L’ordine senza piano, Armando, Roma 2008 tende a privilegiare l’idea di una forte continuità tra i tre principali esponenti della Scuola austriaca.

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A questa assenza di liberalismo nel mondo di lingua tedesca Mises attribuisce le maggiori responsabilità per lo scaturire della Prima guerra mondiale, la quale a suo giudizio fu il risultato dell’ideologia diffusa da tutte le cattedre tedesche, tanto che furono i professori di economia a preparare “spiritualmente” alla guerra63. La filosofia del libero scambio aveva per un breve periodo trionfato anche nella Germania dell’Ottocento, ma cessò definitivamente con la Sozialpolitik di Bismarck e a livello intellettuale si ebbe l’accettazione delle idee della Scuola storica, che rese popolari politiche che si dimostrarono disastrose e spinsero inevitabilmente verso la guerra. I pensatori liberali erano scomparsi, i marxisti ebbero la meglio e lo stesso termine “borghese” divenne infamante64. Così venne meno anche l’accettazione di quello che è il principio decisivo contro la guerra: la divisione internazionale del lavoro. L’attuazione del programma liberale a livello internazionale “rende impossibili” le guerre perché crea la dipendenza reciproca a livello economico, accrescendo la produttività, mentre il protezionismo, diffusosi non solo in Germania, è la negazione del principio della divisione del lavoro, e ha appunto come esito finale la guerra65. In Germania, dopo la breve parentesi nell’Ottocento, il liberalismo scomparve o venne completamente stravolto nel suo significato, tanto che nel 1927 Mises scrive che «per liberalismo si intende qualcosa che contraddice la definizione di liberalismo»66. Chi si definisce liberale si rifiuta di schierarsi apertamente a favore della proprietà privata e caldeggia invece provvedimenti socialisti o interventisti, sostenendo che si tratterebbe di uno sviluppo del liberalismo. Naturalmente gli errori non furono solo nel mondo culturale tedesco, tanto che Mises si spinge a sostenere che forse la guerra si sarebbe evitata se il principio del libero scambio non fosse stato abbandonato anche dalla Gran Bretagna. In Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus, indubbiamente una delle sue opere più importanti, Mises osserva come a dominare in tutta Europa siano la mentalità L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit., capitolo 7. L. VON MISES, The Historical Setting of the Austrian School of Economics, Auburn (AL) Ludwig von Mises Institute 2003 [1963] (trad. it. in Autobiografia di un liberale. La Grande Vienna contro lo statalismo, prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, pp. 195 e ss.). 65 Cfr. L. VON MISES, Liberalismus, Gustav Fischer, Jena 1927 (trad. it. Liberalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, in particolare capitolo 3). 66 Ivi, (trad. it. cit. pp. 565 e ss.). 63 64

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e le idee socialiste, e non solo tra i partiti socialisti e tra quelli che si dichiarano “gradualisti”, ma anche tra i partiti e i pensatori che si professano avversari del socialismo. Al punto che nessuno osa più sostenere apertamente la proprietà privata, che la parola capitalismo è completamente discreditata e non esiste più «alcuna opposizione di principio al socialismo»67. E nel 1927 Mises aggiunge come già «dal XIX secolo, il liberalismo fu contrastato da nemici potenti, che alla fine sono riusciti ad annullare gran parte delle sue conquiste. Oggi il mondo non vuol più saperne di liberalismo. Fuori dall’Inghilterra il termine stesso “liberalismo” è addirittura pronunciato con disprezzo»68 e la maggioranza dei liberali inglesi sono liberali solo di nome, poiché sono in realtà “socialisti moderati”. La situazione non cambia negli altri paesi, e i governi sono ovunque in mano a “politici antiliberali”. Negli Stati Uniti ha trionfato il New Deal di Roosevelt, e il termine liberal indica ormai gli interventisti radicali, se non anche i socialisti, tanto che Mises commenterà sconsolato: «il vecchio liberalismo ha perso perfino il suo nome»69. In precedenza si è sostenuto come all’utilitarismo si possa imputare l’inizio del processo di trasformazione della teoria liberale in Gran Bretagna, tuttavia Mises non attribuisce all’utilitarismo come teoria alcuna responsabilità nel processo di decadenza del liberalismo. Egli infatti definisce apertamente il suo come un liberalismo utilitarista e rimarca in particolare come la teoria utilitarista spieghi in maniera “empirica” l’esistenza della società a partire dal comportamento degli individui, tramite il principio dell’armonia degli interessi. Questo gli consente di vederla come contrapposta alle teorie metafisiche (soprattutto quella di derivazione marxista che aveva trionfato in Germania, ma anche la dottrina dei diritti naturali viene considerata una teoria metafisica) che si propongono di dare una forma alla società in base a dei fini ritenuti giusti, e che considerano i problemi politici come problemi etici. Per Mises la scoperta dell’armonia degli interessi e del principio della cooperazione sociale ha spazzato via le teorie metafisiche; i concetti di giusto, di bene, gli stessi valori, riguardano e indirizzano le L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus, Gustav Fischer, Jena 1922; prima traduzione inglese ampliata Socialism, Jonathan Cape, London 1936 (trad. it. Socialismo, Rusconi, Milano 1990, p. 43). 68 L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 27). Aggiunge poi che «nella stessa Inghilterra oggi si intende per liberalismo qualcosa che ha più analogia con il torysmo e con il socialismo che non con il vecchio programma dei libero scambisti», pp. 27-28. 69 L. VON MISES Interventionism… op. cit. (trad. it. cit. p. 259). 67

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scelte individuali, ma non riguardano la società, per spiegare la quale l’unico concetto da utilizzare è l’utile70. Nella sua visione il liberalismo è una teoria scientifica della società, nel senso che è capace di spiegare la società a partire da fenomeni reali, dalla reale interazione tra gli individui. E il suo è un liberalismo utilitaristico per un duplice motivo: da un lato studia l’individuo che agisce per il proprio utile, perché in termini sociali il bene coincide con l’utile; dall’altro giustifica la libertà in termini di utilità, nel senso che la libertà serve a massimizzare l’utile degli individui, e questa non è solo la sua funzione ma anche la sua giustificazione ultima. La libertà, come anche la proprietà e la tolleranza, non vengono giustificati perché giusti, ma perché utili, e dunque capaci di consentire la creazione di una società in cui ogni individuo ha la possibilità di realizzare i propri fini soggettivi, i quali si possono realizzare cooperando con gli altri. Guardando alla riflessione di Mises rispetto al tema dell’utilitarismo possiamo fissare due punti importanti. Il primo, che emerge soprattutto nella sua opera più celebre, Human Action, del 1949, è appunto che egli sposa l’utilitarismo perché ritiene che l’uomo agisca sempre per il proprio “utile”, ossia agisca sempre per passare da una situazione ritenuta peggiore a una ritenuta migliore. Il secondo è che noi non possiamo assolutamente sapere in cosa consista l’utile degli individui, in cosa consistano gli scopi degli individui né quali essi siano. Ma una tale concezione dell’utile non esclude affatto i valori, i concetti di giusto e ingiusto, i quali sono anzi proprio ciò che guida le azioni degli individui, i cui “fini ultimi” sono sempre destinati a rimanere fuori dalla nostra conoscenza e da ogni esame razionale; tutti i fini sono razionali, perché sono frutto della scelta individuale, e solo l’individuo sa quello che vuole, quello che è bene per lui71. Qui sta l’enorme differenza rispetto alla filosofia di Bentham, secondo il quale l’utilità è una grandezza oggettiva e misurabile. Indubbiamente con Bentham c’è una forte affinità, legata all’idea che per entrambi la giustificazione della libertà è nel fatto che L. VON MISES, Human Action: A Treatise on Economics, Yale University Press, New Haven 1949 (trad. it. L’azione umana, Milano, Il Sole 24 Ore, 2010, ristampa dell’edizione dell’UTET 1959, curata da Tullio Biaggiotti, introduzione, e pp. 169 e ss.). 71 Come si vedrà meglio nel capitolo successivo questo tema viene sviluppato nell’ultima grande opera di Mises, Theory and History, Yale University Press, New Haven 1957 (trad. it. Teoria e storia, prefazione di D. Antiseri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009). Al problema della razionalità e al connesso paradigma dell’homo œconomicus, dedica una articolata analisi critica, peraltro non limitata ai soli aspetti economici, S. CARUSO, Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, Firenze 2012. 70

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essa massimizza le utilità degli individui. Tuttavia per Mises bene e male esistono solo a livello individuale, e non possono essere né conosciuti né tantomeno “calcolati” a livello sociale, perché solo l’individuo sa cosa è bene per lui, quali sono i suoi veri scopi e obiettivi. Per questo le uniche scelte politiche lecite, l’unico tipo di struttura sociale che è ragionevole promuovere, è quella in cui gli individui hanno la possibilità di perseguire i propri fini, quella che massimizzi non la felicità per il maggior numero, creata da scelte collettive, ma la cooperazione sociale, che si basa sul principio dell’armonia degli interessi e che è il solo strumento che gli individui hanno per raggiungere la loro felicità. Mises non ignora questa differenza tra il suo utilitarismo e quello di Bentham, che però continua a considerare un pensatore liberale, salva la necessità di chiarire il malinteso riguardo al concetto di felicità72. Tuttavia, al di là della questione di quanto l’equazione che talvolta Mises ha fatto tra liberalismo e filosofia utilitaristica fosse opportuna anziché foriera di equivoci73, rimane il fatto che il suo liberalismo è la dimostrazione che non necessariamente l’utilitarismo deve avere uno sbocco non liberale. Liberalismo e utilitarismo diventano incompatibili solo nel momento in cui si ritiene possibile, come faceva Bentham, calcolare le utilità individuali al fine di poter realizzare la “felicità del maggior numero”, poiché in tal modo si apre la strada alla costruzione della “società buona”, realizzata per via politica e con criteri etici; una società che, al di là delle buone intenzioni, poco o nulla ha a che fare con il liberalismo. E infatti si deve osservare che se Mises non rivolge critiche a Bentham ne rivolge invece di molto dure a Mill, il quale a suo dire mescolò idee liberali e socialiste, sino a divenire «il grande «Tutti gli attacchi diretti contro la formula di Bentham sono stati centrati intorno ad ambiguità o malintesi concernenti la nozione di felicità; essi non hanno intaccato il postulato che il bene, qualunque esso sia, debba essere distribuito sul maggior numero possibile». Il problema consiste dunque nella definizione di benessere, che se non viene lasciata alla scelta dell’individuo può diventare qualunque cosa e «giustificare ogni varietà di organizzazione sociale», come ad esempio fanno coloro che sostengono che la schiavitù è il miglior modo per rendere felice la popolazione nera, L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 802). 73 A questo proposito Lorenzo Infantino ha voluto sottolineare come Mises dopo le sue prime opere abbia di fatto sostituito il termine utilitarismo con quello di prasseologia, termine che fa riferimento alla sua teoria dell’azione umana, volontaria, consapevole e rivolta alla realizzazione di fini, cfr. L. INFANTINO, Prefazione a L. von Mises, I fallimenti dello stato interventista, con prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, pp. 13 e ss. 72

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avvocato del socialismo»74. E la riflessione di Mill mostra ancora una volta come l’utilitarismo cessi di appartenere al liberalismo classico nel momento in cui si ritenga possibile un processo di redistribuzione della ricchezza, da attuare con criteri etici. Se Mises, e con esso gran parte del liberalismo classico, rischia di “idealizzare” il comportamento degli uomini che operano nel mercato, egli ci ricorda bene come i socialisti facciano l’errore opposto, quello di pensare che gli uomini siano malvagi quando agiscono nel mercato e poi miracolosamente diventino buoni e altruisti, oltre che omniscienti, quando hanno responsabilità politiche. Un problema che ripropone l’importanza della spiegazione di un ordine sociale che sia costruito sulla base del perseguimento degli interessi, e che abbia un fondamento giuridico anziché etico. Mises, guardando alla “ineluttabile interdipendenza dei fenomeni di mercato”75, trova la soluzione al problema dell’ordine nel fenomeno della cooperazione sociale spontanea, che consente di interpretare le azioni umane senza riferirsi ai concetti di bene e male, giusto e ingiusto, e dunque può dare una spiegazione di tipo “puramente scientifico e razionale”76, senza aver bisogno di fare riferimento all’etica e alle buone intenzioni degli uomini. Mises è ben consapevole di vivere in un periodo in cui il vecchio liberalismo veniva abbandonato e denigrato, nonché considerato come il responsabile ultimo di guerre e crisi “morali”. Ma è proprio in una tale epoca che egli ne rivendica con grande forza i meriti storici e le positive conseguenze etiche, ed attribuisce, quasi ribaltando quelle tesi, all’aver abbandonato il liberalismo la crisi del suo tempo. A suo dire, nonostante un programma liberale non abbia mai avuto una piena realizzazione, nell’età in cui il liberalismo è stato dominante gli effetti da esso sprigionati hanno radicalmente cambiato il mondo, dando luogo a un tenore di vita mai raggiunto prima e, rispetto al passato, straordinariamente diffuso. Mises lega insieme in maniera inscindibile le idee liberali con la pace e il progresso economico, vedendo questi ultimi come una logica conseguenza della diffusione delle prime. Le invenzioni che hanno consentito il progresso sono state possibili perché gli economisti hanno spazzato via la mentalità pre-capitalistica77: il liberalismo ha dato luogo L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 264). L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 2). 76 Ivi, (trad. it. cit. p. 150). 77 Ivi, (trad. it. cit. p. 8), dove scrive anche: «ciò che comunemente è chiamata “rivoluzione industriale” fu il risultato della rivoluzione ideologica determinata dalle dottrine 74 75

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al miglioramento delle condizioni di vita tramite la crescita economica e lo sviluppo tecnologico, cosa che ha reso possibile anche per gli strati più bassi della popolazione una serie di “lussi” che in passato neanche i re si potevano permettere78. Le politiche economiche liberali vengono però abbandonate e sostituite da politiche interventiste e protezioniste, e lo stesso avviene più in generale per le idee liberali, abbandonate a favore di quelle socialiste e nazionaliste. Diviene una moda denigrare l’età del liberalismo e, con essa, tutta la civiltà occidentale. La tesi di Mises secondo la quale le guerre e i totalitarismi sono la logica conseguenza delle idee e delle politiche interventiste adottate dagli stati che avevano abbandonato il laissez-faire è una tesi forte e, soprattutto allora, controcorrente. Come prima cosa bisogna allora comprendere quali, a suo giudizio, siano state le cause del declino del liberalismo. Tali cause sono sostanzialmente riconducibili a due: una è più “contingente”, ed è una “colpa” interna al liberalismo, un errore strategico dei pensatori e dei politici liberali. Un’altra è più complessa e, per così dire, “strutturale”, poiché fa riferimento a dei rischi insiti nell’economia di mercato e nel processo di concorrenza. Una prima causa del declino del liberalismo è l’eccessivo ottimismo dei vecchi liberali rispetto alla direzione che, a loro giudizio, avrebbe inevitabilmente dovuto prendere lo sviluppo della società. Essi erano convinti a priori che la società sarebbe progredita verso il meglio, e che il liberalismo, politico ed economico, fosse una conquista definitiva. Questa convinzione era basata su una visione positiva delle capacità mentali degli uomini di comprendere razionalmente i problemi sociali, e dunque di riconoscere razionalmente le migliori soluzioni offerte dalla scienza ai problemi sociali. E per i liberali classici, come per Mises, le soluzioni giuste sono solo quelle basate sulla cooperazione spontanea a cui solo il libero mercato può dare luogo. In questo senso non si dovevano temere le idee sbagliate, perché al vaglio della ragione umana esse sarebbero state presto identificate come soluzioni erronee. Emblematica a questo proposito era la posizione di Menger, il quale, ricorda Mises, era convinto che «nella scienza non c’è mezzo più sicuro di far vincere definitivamente un’idea che quello di dar libero corso a qualsiasi indirizzo contrario»79. degli economisti». 78 Questo proposto da Mises è peraltro un punto classico del liberalismo, che si ritrova già in Locke. 79 L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. p. 68). Sulla “illusione

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Questa fiducia dei liberali nell’affermarsi presso la maggioranza delle “buone” idee era, secondo Mises, in un certo senso una condizione imprescindibile, poiché il «postulato ultimo e più profondo cui si ispira il liberalismo è che sono le idee che costruiscono l’edificio sociale della cooperazione umana e che, sul fondamento di idee false e distorte, è impossibile erigere una struttura sociale durevole»80. La via da seguire era, doveva essere, solo quella del convincere le persone della necessità delle politiche liberali, e non quella dell’ammorbidimento di quelle politiche e del compromesso con idee diverse. L’aver abbracciato la democrazia è stato per il liberalismo non una costrizione ma una scelta logica e doverosa81. I liberali sostengono il sistema rappresentativo poiché esso consente di cambiare pacificamente i governi, e solo in una tale situazione di pace l’economia di mercato può operare. Essi non basavano, al contrario dei radicali, il «loro ottimismo sul futuro dell’uomo, sulla mistica fiducia nell’infallibilità delle maggioranze, ma sulla credenza che il potere di un sano e logico argomento sia irresistibile»82. Pensavano che le masse avrebbero accettato le idee proposte dagli intellettuali, da una minoranza colta, e da qui si aspettavano il costante miglioramento della condizione umana. E questo per un certo periodo indubbiamente avvenne, e la “grandezza del XIX secolo” è consistita proprio nel fatto che le idee degli economisti classici divennero la “filosofia dominante”, riuscendo a trasformare la società divisa in ceti in una società di uomini liberi83. Questa credenza, e questo ingenuo ottimismo, portarono i liberali a non contrastare adeguatamente la diffusione di idee sbagliate e pericolose. Per Menger, come per molti altri liberali classici, bisognava lasciare arrivare le idee sbagliate alle loro estreme conseguenze, ed essi non solo lasciarono il campo libero alla diffusione di idee contrarie al liberalismo, ma non si curarono neanche della divulgazione delle loro idee, nella convinzione che un’idea giusta si sarebbe affermata comunque e in ogni circostanza: era solo un problema di tempo. Ma l’ottimidei vecchi liberali” si veda anche L. VON MISES Human Action, op. cit., (trad. it. cit. pp. 833-835). 80 L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. pp. 215-216). 81 Su come il compromesso di Mises con la democrazia non sempre sia teoricamente inappuntabile si vedano R. RAICO, Mises on Fascism. Democracy and Other questions, in «Journal of Libertarian Studies», vol. 12, n. 1, 1996, pp. 23-52 e R. CUBEDDU, Mises nell’orizzonte della Scuola austriaca, op. cit. 82 L. VON MISES, The Historical Setting… op. cit. (trad. it. cit. p. 202). 83 L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 211).

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smo ingenuo che l’umanità fosse sempre illuminata dalla ragione è stato smentito dalla storia, e per Mises è stato proprio questo l’errore fatale del liberalismo. Egli constata amaramente come le masse non abbiano dimostrato la capacità di saper pensare “logicamente”, e abbiano seguito le parole d’ordine del socialismo e dell’interventismo, preferendo un “vantaggio momentaneo” a un “maggior guadagno permanente”84. Il liberalismo insomma non sarebbe stato sconfitto sul piano delle idee, superato da idee politiche migliori, ma dall’incapacità di molti di riconoscere alcune idee come sbagliate e pericolose, e dall’incapacità dei liberali di contrastare questo errore, dall’aver abdicato al compito di indurre gli uomini, le maggioranze, a “pensare correttamente”. Qui emerge in tutta la sua drammaticità il problema della democrazia, e del suo potenziale conflitto con il liberalismo. Andando oltre il ragionamento di Mises, ma con continuità rispetto ad esso, si potrebbe identificare il problema nella tentazione delle democrazie, soprattutto in una fase di non piena maturità, di sollevare costantemente nuove e talvolta insensate aspettative tra i cittadini, per poi scaricare su qualcun altro, sovente il sistema di mercato, le colpe della mancata realizzazione di ciò che era stato in qualche modo promesso. Rispetto a quelle promesse facili, il ruolo dei liberali è decisamente più ingrato, e consiste spesso nel dover convincere le persone a rinunciare a scorciatoie, a soluzioni semplicistiche e immediate in vista di migliori equilibri futuri. Un compito per niente facile, ma tuttavia imprescindibile, e che forse il liberalismo classico aveva davvero per lungo tempo negligentemente abbandonato. Resta poi il fatto che (al di là di quanto si condividano le idee di Mises, e anche al di là di quanto si ritenga possibile trovare un’unica soluzione scientificamente valida ai problemi umani) la storia ha dimostrato che gli uomini possono essere irragionevoli, possono essere traviati da idee sbagliate, e che la democrazia intesa come semplice conta delle differenti opinioni porta con sé molti pericoli. E per questo è difficile non condividere la sua idea secondo la quale la democrazia non è un bene da godere senza preoccuparsene, ma è un traguardo che va difeso e conquistato con strenui sforzi85. Si veda anche L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. pp. 98 e ss.). Si veda ad esempio la pagina conclusiva di Burocrazia, in cui Mises scrive: «democrazia significa autodeterminazione. Ma come possono gli individui prendere decisioni circa le questioni che li riguardano se essi sono tanto poco interessati a farsi, per mezzo di una riflessione personale, un giudizio indipendente sui problemi politici ed economici fondamentali? La democrazia non è un bene di cui la gente possa godere senza preoccu84

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Il secondo ordine di fattori che hanno portato al declino del liberalismo è più complesso, e non può essere ricondotto a delle colpe specifiche dei liberali, ma a quelle che potremmo forse definire le interazioni del capitalismo con alcune inclinazioni dell’uomo. Per Mises è innegabile che il capitalismo, ossia l’economia di libero mercato, porti al benessere generale e a grandi vantaggi per la società nel suo complesso, ma è altrettanto vero che esso incontra tanti nemici diversi nel suo percorso86. Il suo nemico più naturale è il governo, sempre restìo a riconoscere la libertà individuale, perché la sua naturale tendenza è quella di controllare tutto. I lavoratori dal canto loro possono facilmente diventare nemici del capitalismo, perché non è immediato comprendere come da esso venga in realtà un miglioramento del benessere generale, e così tendono ad attribuirgli, complice la propaganda socialista o nazionalista, una serie di mali sociali di cui invece, secondo Mises, esso non può essere considerato responsabile. Ma nemici del capitalismo sono anche un folto gruppo di imprenditori, che hanno avuto successo in passato e che ora preferiscono vedere i loro successi garantiti dalla connivenza con lo stato, e dunque da politiche protezioniste e interventiste. Il punto centrale della riflessione di Mises è che l’economia di mercato crea il benessere generale quando realizza quella che è stata chiamata la “società aperta”, che è una società dinamica dove ogni processo produttivo, ogni risultato raggiunto, può essere messo in discussione da nuove idee, nuove invenzioni, nuove tecnologie. Il liberalismo e il capitalismo hanno avuto il grande merito di abolire le discriminazioni della società basata sullo status, e di rendere possibile per ognuno il competere con tutti gli altri per qualsiasi posizione all’interno della società. Ma proprio per questo motivo quel tipo di società diventa non più utile e rischiosa dal punto di vista egoistico degli imprenditori che hanno già avuto successo, e dei lavoratori che hanno conquistato una loro nicchia se non di privilegio almeno di tranquillità; ed ecco che queste categorie di persone, paradossalmente tanto più folte quanto maggiore è stato il successo del capitalismo, invocano l’interventismo per proteggersi dalla competizione e da quella “società aperta” che in precedenza ha consentito loro di raggiungere la posizione in cui si trovano. Il parsene affatto. Essa, al contrario, è un tesoro che deve essere difeso giorno per giorno e che deve di continuo essere conquistato con strenui sforzi», L. VON MISES, Bureaucracy, Yale University Press, New Haven 1944 (trad. it. Burocrazia, introduzione di D. Fisichella, Rusconi, Milano 1991, p. 151). 86 Cfr. L. VON MISES, Interventionism… op. cit. (trad. it. cit. p. 365 e ss.).

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ragionamento di Mises lo si capisce ancora meglio se si guarda anche ai “rischi” del progresso tecnologico, il quale potrebbe “danneggiare” gli interessi acquisiti degli imprenditori, dei proprietari e dei lavoratori, presi singolarmente. Naturalmente se si cede alla tentazione di fermare il mercato e il progresso la conseguenza è danneggiare gli interessi di tutti, e di fatto annullare la grande conquista del liberalismo, ossia l’aver abolito i privilegi delle corporazioni e un tipo di società in cui la libertà e il cambiamento erano apertamente osteggiati87, tanto che Mises si spinge a dire che le politiche contemporanee legano gli innovatori quanto a suo tempo aveva fatto il sistema delle corporazioni nel medioevo88. È un’aspirazione naturale degli uomini (anche di quelli che hanno avuto successo nella società libera, e grazie proprio alla sua esistenza), o almeno di una gran parte di essi, quella di non volere che i risultati ottenuti, e la conseguente posizione sociale, siano messi in discussione da nuovi attori emergenti, più innovativi e capaci. Ed è una convenienza forte per i politici quella di offrire loro “protezione”, magari creando nemici esterni o contrapposizioni tra le classi sociali. Molte di queste osservazioni verranno riprese e sviluppate in maniera organica in una delle ultime opere di Mises, The Anticapitalist Mentality, dove si trova una compiuta analisi delle cause che portano molte persone ad avversare il capitalismo. Ma anche in questo libro, come nelle altre opere di Mises, la parte “critica” è sempre corredata da una pars construens, ossia da una definizione del capitalismo e dei suoi meriti. Questa è un’importante caratteristica degli scritti di Mises, che nelle sue opere non si limitò mai alla semplice critica delle teorie da lui avversate, critica che lasciata a sé stessa sarebbe stata tutto sommato sterile, ma offrì sempre in maniera chiara e diretta i motivi della sua adesione al liberalismo e al capitalismo (due termini che nella sua riflessione tendono a diventare sinonimi). Così anche The Anticapitalist Mentality inizia ricordando come la società liberale sia un sistema dove ogni individuo «è libero di modellare la sua vita secondo i propri piani»89, con i soli limiti imposti a tale libertà dal proprio corpo e dalla naturale scarsità di risorse. Una tale società si distingue radicalmente da quella divisa in caste, anche e soprattutto nella modalità di produzione e distribuzione della ricchezza. A determinare il processo produttivo non sono Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 366 e ss.). L. VON MISES, Bureaucracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 30). 89 L. VON MISES, The Anticapitalist Mentality, Van Nostrand, Princeton 1956 (trad. it. La mentalità anticapitalistica, prefazione di L. Infantino, Armando, Roma 1988, p. 24). 87 88

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infatti gli aristocratici, che dall’alto del loro diritto di nascita possono in ultima analisi decidere cosa e quanto deve essere prodotto, ma sono invece i cittadini comuni, i consumatori. Nel mercato i veri sovrani, coloro che veramente controllano il processo produttivo, non sono infatti gli imprenditori, i quali spesso, ma in maniera del tutto erronea, vengono assimilati a ciò che nella società divisa in caste erano gli aristocratici, ma i consumatori. Gli imprenditori se vogliono aver successo devono appunto riuscire a soddisfare le richieste e le esigenze dei consumatori, “piegandosi” alle loro preferenze e “obbedendo” ai loro “ordini”. La società di mercato dunque premia i produttori in base all’unico valore che è disposta a riconoscere: la capacità di soddisfare i consumatori, di contribuire al benessere degli altri. In questo sta la sua grandezza, ma anche quella che forse potremmo chiamare la sua “crudeltà”. Infatti se da un lato ognuno ha la possibilità di realizzare, qualora le sue capacità e la sua fortuna glielo consentano, qualunque obiettivo si prefigga, è anche vero che ognuno è responsabile dei propri fallimenti e delle proprie sconfitte. Mentre in una società divisa in caste, o comunque in una società non libera, si può trovare consolazione ai propri fallimenti additandoli all’ingiustizia del sistema, questa è una consolazione che non può essere offerta a coloro che siano disposti a riconoscere onestamente come funziona la società di mercato. Ed è proprio dal rifiuto del voler riconoscere i propri limiti e le proprie responsabilità, i propri fallimenti, che nasce l’odio per il capitalismo. Esso non riconoscerebbe i meriti autentici, attribuirebbe ad altri riconoscimenti che spetterebbero a noi; l’odio per il capitalismo è in fondo l’odio nei confronti di coloro che hanno saputo realizzare ciò che noi non abbiamo saputo raggiungere90. Una reazione che si può facilmente identificare da parte degli intellettuali, cui raramente il mercato è disposto a riconoscere il valore e la posizione che meritano, o che sono convinti di meritare, ma che è a ben vedere presente in un gran numero di categorie sociali, compresi gli uomini d’affari. Ecco allora che la realizzazione di quella che viene definita l’età del laissez-faire fu l’opera quasi miracolosa di una piccola élite, che dovette spesso affrontare prima di tutto l’ostilità dell’aristocrazia terriera, che si vide spodestata dei propri privilegi e costretta ad aumentare i salari dei lavoratori delle campagne91, e poi l’avanzata del Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 32 e ss.). Interessante a questo proposito sarebbe anche un confronto con le note tesi di H. SCHOECK, Der neid und die Gesellschaft, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau 1966 (trad. it. L’invidia e la società, Liberilibri, Macerata 2005). 91 L. VON MISES, The Anticapitalist Mentality, op. cit. (trad. it. cit. pp. 51 e ss.). e Eco90

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socialismo e delle politiche protezioniste e interventiste dei governi nazionalisti, che rappresentano agli occhi di Mises soltanto una diversa gradazione della medesima, sbagliata, soluzione. A ben guardare Mises riconosce l’esistenza di un tipo di problemi sui quali, come si è visto, aveva a lungo ragionato anche Röpke. L’incertezza è riconosciuta come uno dei grandi problemi del genere umano. Il rischio di perdere ciò che si è ottenuto con il proprio lavoro, ma anche di vedere come inutili le competenze che si sono faticosamente acquisite col tempo, e la prospettiva di dover quindi ricominciare da zero, lo stesso modificarsi continuo del mondo che ci circonda, dei suoi valori oltre che dei suoi meccanismi di produzione sono per l’uomo causa di preoccupazione, di paura, e può sembrare in un certo senso naturale ricorrere al potere politico per fermare questi cambiamenti, o almeno per limitarli e renderli più “umani”. Vi è tuttavia una grande differenza tra Mises da una parte e la maggior parte degli altri liberali del suo tempo, Röpke primo fra tutti, dall’altra. I secondi infatti vedono (quasi) solo l’aspetto drammatico di questi cambiamenti, spesso rimpiangono un’economia e una vita di tipo rurale, o un mercato fatto di piccole imprese che ai loro occhi avrebbero valori più “sani” e uno stile di vita più “umano”92. In un certo senso vorrebbero salvare il capitalismo con la condanna del contemporaneo capitalismo finanziario, degenerato e inumano, che avrebbe distrutto un capitalismo “sano” e rispettoso dei singoli individui. Ma la conseguenza è che essi accettano l’idea, o quanto meno aprono le porte ad una tale accettazione, che debba essere la politica a risolvere questi problemi, a limitare il mercato, ad indirizzarne il processo per avere un capitalismo che non sia contrario alle diverse esigenze umane. Mises invece, pur non negando l’esistenza di alcuni di questi problemi, non smette mai di ricordarci come la ricchezza di cui disponiamo sia stata creata dal mercato e solo da esso, e come una tale creazione sarebbe vanificata dal controllo politico. Non smette di ricordarci come anche la condizione dei lavoratori più umili nelle società occidentali contemporanee sia infinitamente migliore che nel passato93, e nomic Policy. Thoughts for Today and Tomorrow, Chicago, Regnery/Gateway, Inc., 1979 [1940] (trad. it. Politica economica. Riflessioni per oggi e per domani, Liberilibri, Macerata 1995 pp. 11 e ss.). 92 Su come questi temi fossero dibattuti anche all’interno dell’Internazionale liberale nel Secondo dopoguerra si veda G. ORSINA, La globalizzazione dal volto umano… op. cit.. 93 Va però rilevato come Mises non sembra rendersi conto che i bisogni e le soddisfazioni degli uomini dipendono sì dalle condizioni materiali, da fattori “oggettivi”, ma

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questo solo grazie al progresso, il quale non è una variabile indipendente ma al contrario non si può avere senza la libertà e il libero mercato94. Non si può negare che Mises dia una visione del mercato a tratti utopica. Egli vede il mercato come il regno di una uguale libertà e di eguali opportunità, privo di abusi e di reali contrapposizioni tra gli individui. Ignora in sintesi tutta una serie di critiche al mercato e a quella che è stata definita la società di massa, critiche che possono essere combattute con buoni argomenti, ma certamente non ignorate. Se si deve riconoscere che questa visione idilliaca del mercato rappresenta un limite “interno” della riflessione di Mises, si può anche argomentare come le cose stiano diversamente se si guarda alla situazione generale dei suoi tempi. Come si è detto egli fu per molti anni l’unico esponente del “vecchio” liberalismo, l’unico ad argomentare ancora apertamente a favore del mercato e dell’era del laissez-faire. Ecco che allora, se possiamo rimproverare a Mises di avere talvolta una visione parziale della società di mercato, una critica speculare e anche più radicale deve essere rivolta agli altri pensatori che ai suoi tempi si dichiaravano liberali. Il liberalismo in quegli anni non aveva infatti solo accettato alcune delle critiche rivolte al mercato che Mises, consapevolmente o no, preferiva ignorare, ma si era anche rassegnato a ritenere che esse fossero sempre colpa dei meccanismi interni del mercato e che fossero unicamente risolvibili con un maggiore intervento della politica e della coercizione volta a indirizzare il mercato verso altre direzioni. Facendo questo il liberalismo aveva compiuto un grave errore scientifico e si era snaturato. In primo luogo il liberalismo aveva compiuto un errore da un punto anche dalla percezione che essi hanno. Non basta ad esempio che le condizioni di vita migliorino in termini assoluti, bisogna anche che ci sia una percezione del miglioramento in chi vive la quotidianità, percezione che si ha anche comparativamente a quanto è migliorata la situazione degli altri. Se la mia situazione migliora meno di quanto è migliorata quella degli altri, posso avere la sensazione di stare peggio, e questo nonostante ci sia stato un miglioramento rispetto alla mia situazione precedente. Tenere conto di questo aspetto psicologico è una difficoltà con la quale Mises, e con lui il liberalismo classico, non sembra sempre essere riuscito a fare bene i conti. 94 In Theory and History Mises sosterrà chiaramente come a suo giudizio una civiltà sia il prodotto di una data visione del mondo. Se infatti i manufatti sono materiali, i modi per produrli sono mentali, sono cioè il risultato di idee che nascono nella mente dell’uomo. Ribadirà anche che le idee politiche hanno bisogno del consenso delle masse, le quali potrebbero rifiutare le buone idee, ma se scelgono idee peggiori è anche colpa dei sostenitori delle buone cause non essere riusciti a presentare le idee nel modo giusto. L’evoluzione in questo senso dipende anche dalla capacità di generare “diffusori” delle buone idee, L. VON MISES, Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. pp. 397 e ss).

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di vista scientifico perché si era precluso la possibilità di vagliare l’ipotesi che molte delle colpe attribuite al mercato fossero in realtà colpe della politica, colpe ad esempio di regole, magari approvate da politici che si dichiaravano liberali, scritte non per salvaguardare una società liberale ma, al contrario, per tutelare gli interessi di una classe sociale detentrice della ricchezza e contraria alla concorrenza, sia che essa provenisse dal mercato interno sia che provenisse da quello esterno. Pensiero liberale e interessi della grande borghesia detentrice della ricchezza non necessariamente coincidono, tuttavia la maggior parte dei liberali contemporanei di Mises, non essendo capaci di affrontare adeguatamente questo nodo, si preclusero di ragionare sulla possibilità che molti dei mali della società fossero in ultima analisi il frutto di scelte politiche non liberali, e non di meccanismi interni e inesorabili del mercato. In secondo luogo il liberalismo si era snaturato, per un duplice motivo. Per un verso aveva cercato (quasi) soltanto in un incremento della politica e della coercizione la soluzione a quelli che si ritenevano nuovi problemi sociali, negando così la natura del liberalismo stesso, che è una teoria della limitazione del potere politico, e non del suo aumento. E per un altro si era completamente dimenticato di come il mercato e la libertà fossero i primi, se non gli unici, creatori di ricchezza e benessere, ritenendo che in fondo essi si potessero avere, più o meno automaticamente, con il progresso e con la redistribuzione operata per via politica. In Mises dunque c’è in parte una visione “romanzata” del capitalismo, in cui sembra che egli ignori, ad esempio, che spesso i capitalisti sono individui inclini a usare la frode per evitare la stessa concorrenza. Ma una tale posizione più che una dimenticanza potrebbe anche apparire come una scelta, funzionale a ricordare che in un gran numero di casi i comportamenti scorretti degli operatori di mercato si hanno perché esiste una connivenza con la politica, e che quei comportamenti hanno spesso successo proprio perché trovano una politica che li incentiva. Se è vero che gli individui non sono mai perfetti (per usare un eufemismo) questo vale non solo per quando essi operano nel mercato, ma anche per coloro che si trovano a detenere il potere politico. Se questa imperfezione appare dunque come un elemento strutturale (nel senso che non può essere eliminato) sia del mercato sia della politica, bisogna allora chiedersi in quale caso esso produca meno danni, e bisogna anche chiedersi se in casi come questi le “imperfezioni” siano da attribuire al

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mercato oppure alla politica che le rende possibili95. La riflessione di Mises ha il compito di ricordare tutto questo, e per tale motivo quelli che possono sembrare dei suoi limiti interni hanno una loro giustificazione e una loro “utilità”. In un’epoca in cui il mercato veniva considerato come l’epicentro di tutti i mali era necessario che qualcuno ricordasse, magari anche in maniera apologetica e apparentemente acritica, quelli che ne erano i meriti, le realizzazioni dell’età del laissez-faire, e che tenesse vivo non solo, o non tanto, il ricordo di ciò che il liberalismo aveva fatto, ma il meccanismo sul quale esso si regge e le positive conseguenze che da esso si generano. Era necessario in sintesi che qualcuno mantenesse viva l’anima del liberalismo quando questo veniva così ferocemente condannato e i suoi meriti storici venivano dimenticati, e questo poteva essere fatto solo “esaltando” il liberalismo con una contrapposizione netta e quasi virulenta rispetto agli attacchi a cui era soggetto. In un certo senso Mises fa, da economista e da storico, e dunque in conformità ad argomentazioni scientifiche, per quanto criticabili, quello che Ayn Rand aveva fatto come scrittrice: dare al mercato e al liberalismo quella radicalità, quella “sacralità” e quella narrazione mitica delle quali in quel momento storico esso aveva bisogno. A questo lo indussero forse delle esperienze personali, delle battaglie che aveva dovuto personalmente combattere96, ma si può indubbiamente argomentare come una difesa del capitalismo e del liberalismo che ne esaltasse i meriti era qualcosa di cui la tradizione liberale classica in quel momento aveva bisogno per ritrovare, o ridisegnare, una sua identità.

4. Moralità e armonia degli interessi La sostanza delle idee di Mises era condivisa da pochi altri liberali classici sparsi per il mondo. In Italia si può ricordare Luigi Einaudi, Un esempio classico a questo proposito è quello dei monopoli, che i pensatori liberali e soprattutto il libertario Rothbard hanno dimostrato essere nella assoluta maggioranza dei casi, se non sempre, monopoli “legali”, ossia monopoli che esistono a causa di un erroneo operare del potere politico, e non come naturale conseguenza delle dinamiche del mercato. Cfr. M.N. ROTHBARD, Man, Economy and State, William Volker Fund, Princeton 1962, capitolo 10. 96 Hayek nell’introduzione a L. VON MISES, Notes and Recollections, op. cit. (trad. it. cit. p. 37) scrive «oggi mi sembra di capire come a certe affermazioni estreme sulle quali non potevo seguirlo […] egli fosse spinto anche dalle caratteristiche della battaglia che dovette combattere». 95

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in Gran Bretagna Lionel Robbins, che chiamò alla London School of Economics Hayek (il quale ricorda che era diventato liberale proprio a seguito della lettura di Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus di Mises, lettura che aveva allontanato dal socialismo anche Röpke), e negli Stati Uniti alcuni economisti dell’Università di Chicago e soprattutto un pugno di brillanti polemisti e saggisti che si erano opposti al New Deal di Roosevelt e che erano conosciuti come la “Old Right”97. Nonostante l’esistenza di queste figure, ritenute prestigiose ma sempre in posizioni minoritarie e isolate, avesse mantenuto in vita il ricordo dei meriti di quella che era stata chiamata l’età del liberalismo, si può certamente sostenere che lo spartito dominante nelle riflessioni dei pensatori liberali a partire dalla fine dell’Ottocento fosse il supposto “dato storico” del fallimento di quello che è stato definito il liberalismo del laissez-faire. Un fallimento che aveva avuto come conseguenza per il liberalismo la perdita di fiducia in sé stesso e nell’idea che i mercati, e con essi la convivenza civile in generale, fossero capaci di autoregolarsi senza l’intervento “generatore” del potere politico. A questo proposito la posizione di Röpke, e la sua forte critica al “liberalismo storico” come espressione del peggior razionalismo, è estremamente interessante. Non solo nei sui scritti egli rivolge al liberalismo delle critiche piuttosto simili, e spesso non con minore asprezza, a quelle che si sono analizzate nel primo capitolo, e che provenivano da pensatori non appartenenti alla tradizione liberale, e come loro sembra convinto che il liberalismo fosse la causa della crisi “etica” dell’Occidente, ma appare anche sostanzialmente incapace di contrastare una tesi comparsa sempre negli anni della guerra e destinata ad esercitare una straordinaria influenza. Il riferimento è all’opera The Great Transformation, di Karl Polanyi98, e alla nota tesi per la quale nella nascita e nel funzionamento dei mercati non vi sarebbe nulla di spontaneo, poiché essi non sarebbero affatto un approdo naturale della società bensì una costruzione del potere politico e non esisterebbero senza di esso. Sia pur con analisi, posizioni e soprattutto con finalità diverse, se non anche opposte (Polanyi voleva “demolire” il liberalismo, Röpke voleva Tra essi vanno almeno ricordati Albert Jay Nock, Frank Chodorov, John T. Flyn, H. L. Mencken e Felix Morley. Su di essi si può vedere L.M. BASSANI, Albert Jay Nock e i libertari americani: i “fedeli attardati della grande tradizione”, saggio introduttivo a A.J. Nock, Il nostro Nemico, lo stato, Liberilibri, Macerata 1995. 98 K. POLANYI, The Great Transformation, Holt, Rinehart & Winston Inc. New York 1944 (La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2000). 97

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“redimerlo”), i due convergono sul fatto che il mercato non è in grado di autoregolarsi, che non è frutto di un processo spontaneo e “naturale”, ma che invece per funzionare necessita dell’intervento della politica o anche della religione, e comunque di una “struttura” che non è esso a produrre. La posizione di Röpke è emblematica poiché egli, studioso dai sentimenti autenticamente liberali, tenta di riformare il liberalismo come sembrava che i suoi tempi richiedessero, ossia su basi “etiche” e di fatto rinunciando a quello che viene chiamato il meccanismo a mano invisibile (che dal canto suo Polanyi era convinto di aver definitivamente abbattuto), il quale rimaneva sostanzialmente accessorio e vincolato all’esistenza di requisiti esterni. In questo Röpke ereditava il fondamento delle riflessioni dei New liberals britannici, nonché, sia pure con molte maggiori concessioni al liberalismo classico, la loro idea che fosse necessario rifondare il liberalismo. La sua, al pari di quella di John Stuart Mill, è una figura allo stesso tempo grandiosa e tragica per il liberalismo classico. È grandiosa nella sua autentica difesa della libertà individuale, della proprietà privata e del governo limitato, nel solco del più autentico liberalismo. Ed è tragica nel suo indicare la necessità di un quadro di valori morali e criteri etici esterni al mercato, senza i quali né il mercato né l’ordine liberale possono essere dati. Per questo motivo, e partendo dalla constatazione della genuina inclinazione liberale di Röpke, leggendo i suoi saggi si acuisce la sensazione che davvero il liberalismo si trovasse in uno stato di profonda decadenza e fosse corresponsabile di quella crisi di valori culminata nella guerra. Considerando la profondità della sua critica al liberalismo, quando ci si confronta con il pensiero di Röpke ci si trova davanti a due ipotesi interpretative, e conseguentemente ad un’interessante questione teorica da dirimere. La prima ipotesi è considerare Röpke un liberale che, come egli stesso dichiarava, criticava solo una degenerazione “storica”, e dunque contingente, della tradizione liberale, una tradizione ai suoi occhi bisognosa di una ampia “ristrutturazione”, ma i cui assunti fondamentali mantenevano la loro validità. La seconda è invece considerare quelle sue critiche tanto profonde da mettere in discussione gli stessi assunti fondamentali della tradizione liberale, che non andrebbe dunque semplicemente restaurata dopo una serie di accidenti storici, ma radicalmente rifondata. Decisamente il problema è di non semplice

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soluzione99, sia perché negli scritti di Röpke si trovano passi a favore di entrambe le interpretazioni (cosa in verità non rara nei cosiddetti “classici”), sia perché una risposta a questa domanda richiederebbe una precisa delimitazione dei margini della tradizione liberale, una delimitazione che ad oggi non si ha ancora, e forse non si avrà mai definitivamente. Qui non si pretende di risolvere questo problema rispetto alla figura di Röpke, ma usarlo per un interrogativo più ampio, che è alla base del prosieguo di questo lavoro. Che la “mano invisibile” per il suo operare abbia bisogno di circostanze favorevoli, di una sorta di “buona fede”, o anche moralità, degli individui, era una convinzione anche di Smith e dei filosofi scozzesi, che infatti non mancarono di indicare come l’interesse egoistico degli uomini possa condurre a conseguenze pericolose qualora non sia inquadrato all’interno di buone istituzioni sociali. Il problema è però come si possa arrivare alle buone istituzioni, e anche all’adesione degli uomini a dei valori compatibili con quelle istituzioni e dunque con il meccanismo a “mano invisibile”. Il problema che sorge con Röpke è che quel meccanismo sembra passare decisamente in secondo piano, e sembra essere quasi la conseguenza del comportamento coscienzioso degli uomini. In questo senso egli sembra disinnescare quel meccanismo riguardo al problema della nascita delle buone istituzioni e anche riguardo alla nascita dei valori a cui gli individui devono aderire. Come meglio si vedrà in seguito, Röpke va in una direzione diversa rispetto a una riproposizione più ampia, e certo non semplicemente limitata all’ambito dell’economia, che caratterizzerà la rinascita del liberalismo classico nel secondo dopoguerra. Questo è un punto centrale sul quale è opportuno soffermarsi. Fermo restando che ogni liberale classico è non solo felice dell’esistenza di valori morali condivisi, ma ritiene la loro presenza come un requisito indispensabile per la sopravvivenza di una società liberale, rimane il fatInteressante a questo proposito è mettere a confronto le diverse opinioni di due studiosi che hanno recentemente curato la riedizione di alcuni saggi di Röpke in italiano. Silvio Cotellessa ricorda come Röpke non può certo essere etichettato come un “neoliberale”, e come sia soprattutto la parte della sua riflessione sui limiti del mercato ad essere attuale. Il punto è ben colto in S. COTELLESSA, Introduzione, a W. Röpke, Democrazia ed economia, op. cit. Lottieri invece mette in luce non solo gli aspetti schiettamente liberali del pensiero di Röpke (elementi peraltro non negati da Cotellessa) ma anche la vicinanza del suo liberalismo a quello della Scuola austriaca e per certi versi a James Buchanan. La stessa espressione “terza via” «ha causato molte incomprensioni, ma non implica affatto un affievolimento del suo liberalismo», C. LOTTIERI, Introduzione a W. Röpke, Il Vangelo non è socialista, a cura di C. Lottieri, Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli, 2006, p. 17. 99

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to che il liberalismo è stato un tentativo di dare ragione della possibilità dell’ordine sociale a partire non da criteri etici ma dalla naturale compatibilità e convergenza dei comportamenti di individui che perseguono il proprio interesse, e che interagiscono con gli altri per soddisfare i propri desideri. Riprendendo una celebre espressione di Smith possiamo dire che la benevolenza del macellaio e del birraio che ci forniscono buona merce al miglior prezzo non disturba affatto il meccanismo di mercato100, ma è proprio nel fatto che essa non è necessaria per il buon funzionamento di quel meccanismo che sta la vera portata della teoria liberale. Il principale problema del liberalismo sembra dunque essere quanto si ritiene che il meccanismo a mano invisibile, l’armonia degli interessi, sia importante, e quanto si sia disposti a metterlo a fondamento della tradizione liberale101. Infatti se si ritiene che esso debba avere un fondamento in una moralità preesistente allora si è disinnescata gran parte della esplosiva capacità del liberalismo di spiegare il formarsi e il mantenersi di un ordine sociale. Quel meccanismo non è più qualcosa in grado di spiegarci il formarsi di un ordine, ma al contrario viene esso stesso spiegato come una conseguenza di un altro ordine preesistente. In sintesi l’ordine di mercato non può più essere un esempio di come si forma un ordine sociale, di un meccanismo che, pur necessitando di alcune circostanze favorevoli e talvolta dell’intervento della politica, ha nell’economia un caso specifico di una teoria più generale e applicabile all’intera società, ma è invece il prodotto di una cultura e di un diritto che devono essere creati e conservati dalla religione o dallo stato. Röpke dichiara di credere ancora all’utilità del meccanismo a mano invisibile, Non si deve infatti dimenticare che a quella che è forse la più celebre frase di Smith («non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione del proprio interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro interesse, e non parliamo mai dei nostri bisogni ma dei loro vantaggi») contenuta ne An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, vanno affiancate le importanti riflessioni della sua prima grande opera, The Theory of Moral Sentiments, che ha appunto l’obiettivo di mettere in luce i sentimenti di reciproca vicinanza tra gli essere umani. 101 Una interessante e articolata riflessione sul valore, anche morale, della free market economics, è E. COLOMBATTO, Markets, Morals and Policy-Making. A new defence of freemarket economics, Routledge, London- New York 2011. Una difesa delle “virtù” del meccanismo a mano invisibile anche nelle nostre economie complesse e globalizzate e D. LAL, Reviving the Invisible Hand. The Case for Classical Liberalism in the Twenty-First Century, Princeton University Press, Princeton 2006. 100

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ma ha completamente disinnescato la possibilità che esso sia un elemento chiave per spiegare il nascere e l’evolversi di un buon ordine sociale, e così facendo sposa la visione di un liberalismo che non crea un buon ordine sociale ma in qualche modo ne è un prodotto. Forse con termini moderni lo si può chiamare embedded liberalism, o magari, più polemicamente, liberalismo di stato. Ma al di là del nome che gli si vuole dare è evidente che esso presenta un elemento di forte diversità rispetto al liberalismo classico. In questo senso la posizione del liberale Röpke è emblematica anche delle critiche rivolte al liberalismo ed analizzate nel primo capitolo. Anch’egli infatti sembra far dipendere il futuro della libertà, e della stessa civiltà, da una serie di valori morali che devono essere presenti nell’animo umano e che non hanno niente a che vedere con la libertà dell’uomo di poter agire per perseguire i propri obiettivi e i propri interessi, e vede quella libertà possibile solo se quei valori esistono e sono sentiti come propri da tutti gli uomini. Solo all’interno di una “società buona” la libertà degli individui è possibile e ha senso, e la società è buona solo quando gli individui hanno assimilato dei valori morali. La posizione di Mises è invece radicalmente diversa, e ci introduce a come il liberalismo classico si muova in una logica completamente differente, seguendo la traiettoria opposta. Per la tradizione liberale infatti non si può sostenere che serva la “società buona” per consentire agli individui di essere liberi, ma che una buona società, ossia una società che lascia gli individui liberi di agire in un quadro di regole di rispetto reciproco, sia in grado di generare quei valori morali di cui essa ha bisogno. Non serve dunque una “società buona” perché l’individuo possa essere libero, ma serve invece, se si passa il gioco di parole, una “buona società”, che consenta agli individui di essere liberi, perché i valori morali possano essere generati e rispettati.

Capitolo Terzo LA CRITICA DEL TOTALITARISMO

A partire dagli anni precedenti la Seconda guerra mondiale il liberalismo era dunque considerato, da diversi autori e per diverse ragioni, soggetto a una crisi interna profonda, e talvolta anche come la causa, o la concausa, di una più ampia crisi della civiltà occidentale. Gli stessi pensatori liberali erano, sia pure con giudizi molto diversi, sempre consapevoli della crisi del liberalismo e talora essi stessi, come nel caso di Röpke, inclini ad attribuire al liberalismo rilevanti responsabilità riguardo alla crisi del loro tempo. Che il liberalismo, politico, economico e filosofico, fosse in disfacimento era, in effetti, un fatto che andava soltanto costatato, così come era già allora un dato storico assodato che alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’età del laissez-faire e delle politiche liberali fosse cessata da vari decenni. A questo punto viene però da chiedersi come fosse possibile, se veramente le politiche liberali erano da tempo scomparse, considerare proprio la filosofia politica liberale alla radice della crisi della civiltà occidentale. Così nelle riflessioni di alcuni studiosi liberali iniziò a farsi strada l’idea che fosse necessario ragionare compiutamente sulla tesi che la causa della crisi si dovesse al contrario cercare proprio nella conclamata assenza di liberalismo. Il primo ineluttabile passaggio per vagliare questa tesi non poteva che essere quello di fare i conti con le tante idee che ritenevano che le politiche nazionaliste culminate nel fascismo e nel nazismo non fossero altro che la prosecuzione, la logica e necessaria conclusione, dell’età del capitalismo, e che ad esse l’ideologia socialista si contrapponesse frontalmente. Proprio negli anni della guerra matura dunque l’idea che per recuperare il vero significato del liberalismo fosse necessario mostrare come sia il socialismo sia il nazionalismo di fascisti e nazisti fossero non solo la negazione del liberalismo, ma appartenessero in fondo ad uno stesso genus, ossia fossero delle teorie politiche

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che da un punto di vista liberale avevano più consonanze che differenze. Ecco che allora un passaggio chiave nel percorso di ripensamento e rinascita del liberalismo del Novecento è lo studio del totalitarismo. L’analisi del modo in cui si sono affermati i regimi totalitari e di come essi sono stati debolmente contrastati dalle democrazie diventa per i pensatori liberali l’occasione di fare i conti con i cambiamenti interni alla teoria liberale e riflettere su quale ne sia la vera essenza. Con questo stesso problema si confrontano tre opere scritte negli anni della guerra: Omnipotent Government di Mises; The Road to Serfdom di Hayek; The Open Society and its Enemies di Karl Popper. Nonostante esse (in particolare l’opera di Hayek, che come noto fu anche riproposta con notevole successo in versione condensata dal Reader’s Digest) fossero riuscite a richiamare una discreta attenzione, non si può certo sostenere che le implicazioni di quelle riflessioni fossero state comprese immediatamente nella loro vera portata. A dimostrarlo è ad esempio l’idea, esaminata in precedenza, estremamente radicata negli anni del dopoguerra secondo la quale la filosofia politica era in crisi perché, all’opposto del passato, davanti al grande e tragico momento di disfacimento nella storia umana essa non aveva saputo fare i conti con il male che si affacciava nella storia e non aveva saputo produrre opere importanti e innovative. Pur senza voler essere enfatici si deve ammettere che la filosofia politica liberale quelle opere importanti e innovative le seppe produrre, e con esse avviò una riflessione su quali fossero le cause della crisi della civiltà, un ripensamento e una revisione della propria teoria politica e anche una ridefinizione del suo rapporto con la teoria democratica. Cose certo non facili, e ovviamente non compiutamente ascrivibili alle tre sole opere citate, le quali tuttavia segnarono un importante momento di svolta per la tradizione liberale. Bisogna anche rilevare come quelle tre opere affondassero le proprie radici in riflessioni metodologiche di ampio respiro, che erano già chiare nella mente degli autori prima della loro stesura, e che ebbero una veste grafica definitiva solo negli anni Cinquanta in altri tre libri. The Counter-Revolution of Science di Hayek, del 1952 e The Poverty of Historicism di Popper, del 1957, sono opere scritte prima della guerra e poi rivisitate e pubblicate in forma di libro in quegli anni, mentre Theory and History di Mises, anch’essa del 1957, è l’ultima grande opera di questo autore, e porta alla logica conclusione alcune riflessioni della sua lunga attività scientifica. La pubblicazione di queste ultime opere porta idealmente a termine un percorso di ripensamento delle “responsabili-

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tà” del liberalismo, e apre le porte a una nuova fase in cui la teoria liberale ambisce a proporsi come un sistema di idee e di ricette economicopolitiche adatte ad affrontare le sfide del mondo post-bellico.

1. Lo stato onnipotente Nel confrontarsi con il disastro del totalitarismo il liberalismo fa i conti con sé stesso e con quella che ritiene essere una modificazione del proprio ideale, modificazione che lo ha reso, e ha conseguentemente reso la civiltà occidentale, vulnerabile davanti all’affermarsi delle ideologie totalitarie. Sostenere che il totalitarismo si sia affermato per una debolezza teorica del liberalismo è l’opposto dello scaricare le colpe su altri o del cedere al relativismo, ma rappresenta invece una tappa fondamentale nel percorso di ripensamento della tradizione liberale. Una posizione radicale nell’individuare le colpe del liberalismo è quella di ritenere che l’origine dei sui errori fosse nell’aver ceduto all’idea che l’interventismo in economia non fosse solo inevitabile ma potesse essere anche giusto. In opposizione alla tesi socialista, secondo la quale nazismo e fascismo non erano altro che l’ultima fase del capitalismo (tesi peraltro sostenuta negli anni della Prima guerra mondiale a proposito dell’imperialismo), alcuni pensatori liberali sostengono che i totalitarismi si sono affermati proprio nel momento in cui si è abbandonato, da parte degli stessi politici liberali, il libero mercato a favore delle politiche interventiste, e dunque che i totalitarismi, tra i quali va incluso anche il comunismo, non sono altro che l’esito logico delle politiche interventistiche antiliberali. Questa tesi è presente con particolare incisività nell’opera di Mises. In precedenza si è accennato all’importanza di Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über den Sozialismus, un’opera che già nel 1922 poneva il problema della reale possibilità della pianificazione e discuteva delle sue implicazioni totalitarie, per quanto allora il fenomeno del totalitarismo non fosse ancora comparso nella sua piena drammaticità. Si è anche osservato come una caratteristica del pensiero di Mises sia quella di indicare una stretta continuità tra le idee interventiste e protezioniste e i totalitarismi, sia di destra che di sinistra. A suo giudizio è proprio dalla crisi delle idee liberali e dall’affermarsi dell’interventismo statale che si genera la nascita dei totalitarismi, poiché anche quei pensatori e quei partiti che formalmente si opponevano ad essi in realtà ne con-

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dividevano le idee di fondo e ne avevano preparato il terreno. Le due guerre e i totalitarismi sono stati la conseguenza logica ed inevitabile dell’abbandono del libero mercato e dell’affermarsi dell’interventismo e del protezionismo in economia; Lenin, Mussolini, Hitler hanno potuto trionfare nei loro paesi perché in realtà i loro nemici condividevano le idee che essi sostenevano. Mises espone queste tesi in Omnipotent Government, in cui sostiene anche che le due democrazie anglosassoni che combattono la Germania di Hitler stanno in realtà adottando il suo stesso modello, ossia il controllo dello stato sull’economia, controllo che viene sempre maggiormente richiesto dall’opinione pubblica. Le diverse ideologie interventiste si erano affermate dichiarandosi liberali e l’antiliberalismo si è fatto strada conquistando l’opinione popolare «mascherato da vero e genuino liberalismo»1; così chi oggi si dichiara liberale in realtà sostiene “programmi interamente opposti” ai princìpi del liberalismo classico, e chi invece si dichiara liberale e progressista, convinto di essere un vero democratico, in realtà confonde la democrazia con il socialismo. È anche a causa di questi fraintendimenti, di questo autodichiararsi liberale da parte di chi liberale non era, che quando si sono avuti i risultati disastrosi delle politiche interventiste si è potuto dare la colpa al capitalismo, e il “vecchio” liberalismo, ormai pressoché scomparso, si è visto attribuire colpe non sue, a iniziare dalla responsabilità per la guerra. A dimostrazione della sua tesi Mises presenta un’idea semplice ma forte al contempo, che va dritta alla definizione del totalitarismo. Il totalitarismo è l’idea dell’onnipotenza dello stato, ed è la logica conseguenza della tendenza a far gestire tutti i problemi umani dal governo. Il grande errore all’origine del totalitarismo fu abbandonare l’economia di mercato, ossia abbandonare l’idea che la società sia fondata sulla cooperazione sociale, idea che rappresenta l’unico giusto antidoto per i totalitarismi. Nel loro negare l’idea della cooperazione sociale per sostituirla con l’organizzazione statale i totalitarismi ci appaiono tutti sotto la medesima luce, discendenti da una medesima origine, e tra loro presentano solo differenze di grado. Concetto che Mises esprime con molta fermezza: «l’evento più importante nella storia degli ultimi cento anni è la sostituzione del liberalismo con lo statalismo. Lo statalismo si presenL. VON MISES, Omnipotent Government. The Rise of the Total State and the Total War, Yale University Press, New Haven 1944 (trad. it. Lo stato onnipotente. La nascita dello stato totale e la guerra totale, introduzione di V. Zaslavky, Rusconi, Milano 1995, p. 13). Su questi aspetti si veda anche L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. pp. 268 e ss.). 1

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ta in due forme: il socialismo e l’interventismo. Entrambe hanno in comune il fine di subordinare incondizionatamente l’individuo allo stato, cioè all’apparato sociale di costrizione e coercizione»2. E tra capitalismo e statalismo non possono esistere terze vie, si deve scegliere o l’uno o l’altro, poiché una “mescolanza” tra i due princìpi “non è realizzabile”. Questa analisi conduce anche a vedere il nazismo come nient’altro che “socialismo di tipo tedesco”, ossia un socialismo che mantiene “nominalmente” la proprietà privata e gli scambi di mercato, ma che in realtà nulla lascia alla proprietà se non un’esistenza formale, poiché la subordina completamente alla “grandezza della nazione”3. Mises fu dunque uno dei primi pensatori, insieme ad Halévy4 ed Hayek, a saper leggere i totalitarismi sotto una stessa luce, cosa che in quegli anni appariva come un “sacrilegio”, ma che in realtà anticipò le valutazioni di una ricerca storica più matura5. Nell’analisi del totalitarismo Mises si dedica al caso specifico della Germania, e per farlo ripercorre anche le vicende del liberalismo in quel paese. Nonostante a suo giudizio non vi sia stato un grande contributo teorico della Germania al liberalismo, nell’Ottocento le idee liberali si diffondono e si radicano, e ancora durante la prima metà degli anni sessanta la maggioranza di coloro che si occupavano di politica era liberale. Comprendere come il liberalismo sia tramontato in Germania, e come esso sia stato sostituito da un’ideologia totalitaria, che a suo giudizio non ha niente a che vedere con le idee e le antiche istituzioni tedesche, diventa allora la grande domanda a cui Mises si propone di rispondere nel suo lavoro. E lo fa guardando prima alle cause teoriche, e poi a una serie di condizioni e di eventi storici. L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 69). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 84 e ss.), ma anche un manoscritto preparato su commissione del National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti nel 1940 e pubblicato solo nel 1988, L. VON MISES, Interventionism: An Economic Analysis, The Foundation for Economic Education, Inc. Irvington, New York 1988 (trad. it. in I fallimenti dello stato interventista, con prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, p. 254 e ss.). 4 Il riferimento è naturalmente a E. HALÉVY, L’ère des tyrannies; études sur le socialisme et la guerre, Gallimard, Paris 1938 (trad. it. L’ era delle tirannie, introduzione di Gaetano Quagliariello, Ideazione, Roma 1998). 5 Su questi temi si vedano V. ZASLAVKY, Introduzione a L. von Mises, Lo stato onnipotente. La nascita dello stato totale e la guerra totale, introduzione di V. Zaslavky, Rusconi, Milano 1995, N. IANNELLO, Mises davanti allo Stato onnipotente, in Infantino, L. Iannello, N. (a cura di), Ludwig von Mises… op. cit., pp. 259-282. e A. VITALE, Omnipotent Government: alle radici del realismo politico di Mises, in L. Infantino, N. Iannello (a cura di) Ludwig von Mises… op. cit. pp. 297-318. 2 3

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Guardando alla teoria del liberalismo Mises offre una spiegazione del declino del liberalismo tedesco quasi opposta a quella fornita da Hallowell, esaminata nel primo capitolo di questo lavoro. Mentre Hallowell guarda a un mutamento interno della tradizione liberale tedesca, imputabile prevalentemente all’abbandono del diritto naturale e all’influenza del Romanticismo, in Mises non si trova traccia di tutto questo6. A suo giudizio le cose iniziano a cambiare nella seconda metà degli anni Sessanta dell’Ottocento, quando si diffonde lo statalismo. Tale statalismo non è quello tedesco di matrice idealista, hegeliano, che egli ritiene troppo “astratto” per esercitare una vera influenza sulle questioni pubbliche. Così come era successo nel caso del liberalismo anche lo statalismo, cioè l’idea che sia compito dello stato «di guidare i cittadini, di tenerli sotto tutela»7, arriva dall’esterno, dal positivismo e dal socialismo utopista pre-marxista8. Come qualche decennio prima i tedeschi si erano convinti della bontà delle idee liberali, influenzati da correnti di pensiero esterne, ora succedeva altrettanto per lo statalismo: si riteneva il liberalismo superato e lo statalismo la novità da importare, uno statalismo basato sull’applicazione dei metodi e dei concetti delle scienze naturali per la soluzione dei problemi sociali. Iniziò così una critica “emotiva” del liberalismo, come d’altra parte si è visto avvenire anche in Gran Bretagna, e la nuova moda divenne soppiantare l’economia di mercato. Il liberalismo affermatosi in passato era in realtà molto fragile, e la sua caduta fu facilitata dal fatto che la filosofia tedesca non aveva mai compreso a fondo il significato e le implicazioni dei princìpi della cooperazione sociale e della divisione del lavoro. Agli occhi dei tedeschi la vita sociale era caratterizzata dalla conflittualità. E questo si rispecchiava sia nell’idea che gli interessi delle diverse nazioni fossero inevitabilmente tra loro confliggenti, sia in quella che il bene della società potesse essere servito solo tramite il sacrificio degli individui, vedendo la legge morale come la necessaria limitazione che si deve imporre all’uomo nell’interesse degli altri e della collettività9. Questo è un punto centrale della riflessione di Mises, dalla quale appare chiaramente come, se non si crede al principio liberale dell’armonia degli interessi, secondo il quale utile e morale in ultima In particolare Hallowell vede una responsabilità della filosofia kantiana, che Mises invece esclude categoricamente. 7 L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 69). 8 Qui Mises cita anche Hayek, sulla cui analisi si tornerà fra breve. 9 Ivi, (trad. it. cit. pp. 198-201). 6

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analisi coincidono, emerga un inevitabile antagonismo tra interesse individuale e interesse collettivo, tra nazione e “società nella sua interezza”, antagonismo destinato a sfociare alla fine in una qualche forma di conflitto. Ecco perché solo se si considera l’economia di mercato l’unica fonte di cooperazione sociale si può combattere il totalitarismo10. In Germania mancò una comprensione profonda di questo fatto, e con l’affermarsi della Scuola storica dell’economia, uno dei grandi mali della storia tedesca, la teoria economica (che per Mises coincide con la teoria del libero mercato) di fatto scomparve dalle università tedesche11. Una delle conseguenze fu l’accettare, anche da parte del popolo, l’idea della necessità dell’intervento statale e di politiche interventiste e assistenzialiste, ritenute necessarie per sanare la “naturale” conflittualità che accompagna i rapporti umani. Nella vicenda storica tedesca Mises vede il saldarsi di tutte le forze ostili al liberalismo e al capitalismo, le quali avevano trovato la loro linfa intellettuale nei “socialisti della cattedra”, intorno al militarismo degli Hohenzollern. Nonostante fosse stato lo sviluppo del capitalismo ad aver portato al miglioramento delle condizioni di vita delle masse, si sostenne che tale miglioramento si era avuto solo grazie alla legislazione sociale, peraltro resa possibile dal fatto che, nonostante le tariffe protettive e i cartelli della Germania, la Gran Bretagna mantenne ancora a lungo il regime di libero scambio. La propaganda contro il “capitalismo ingiusto”, da un lato garantì la riconciliazione delle masse con il sistema delle caste tramite lo stato interventista, e dall’altro portò all’assoluta lealtà del proletariato tedesco all’esercito e all’approvazione unanime ed entusiastica delle masse alla guerra del Kaiser. Questa sorta di blocco sociale creato dalla Sozialpolitik, basato sostanzialmente sull’inganno ma anche sulla mancata comprensione dei fenomeni economici, rimase invariato negli anni e venne rafforzato dalla propaganda riguardo alla presunta ingiustizia del Trattato di Versailles, ingiustizia che Mises, contrapponendosi radicalmente alle note tesi di

Su questo aspetto si veda anche L. VON MISES, Interventionism… op. cit. (trad. it. cit. pp. 377 e ss.). 11 Legata a questo problema è la celebre disputa sul metodo (Methodenstreit) che contrappose Menger e Gustav von Schmoller. Sull’argomento si veda L. VON MISES, The Historical Setting… op. cit. (trad. it. cit. pp. 193 e ss.). Per una ricostruzione della vicenda si rimanda a R. CUBEDDU, Tra Scuola austriaca e Popper, ESI, Napoli 1996, pp. 51-86 e a B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, The University of Chicago Press, Chicago 2004, pp. 64-82. 10

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Keynes12 (che pure qui non viene espressamente citato), ritiene del tutto inventata, tanto più che la Germania pagò solo una parte delle riparazioni di guerra e lo fece con soldi presi a prestito dall’estero che poi si rifiutò di restituire13. La crisi e l’inflazione che seguirono alla guerra non furono per Mises colpa dell’ingiustizia del trattato, ma dell’“ignoranza economica” dei socialisti della cattedra e dei pregiudizi mercantilisti diffusi in Europa. Il non aver saputo riconoscere questo fatto, e l’assenza di ogni “resistenza intellettuale”, portò alla facile vittoria di Hitler, la quale si pone come una logica conclusione, poiché «i princìpi fondamentali dell’ideologia nazista non differiscono dalle ideologie sociali ed economiche generalmente accettate»14, non solo in Germania. Le vittorie di Hitler e Mussolini pertanto non sono altro che la logica conseguenza delle politiche interventiste, le quali portano inevitabilmente a forme di totalitarismo che, se pure declinate differentemente a seconda delle diverse caratteristiche nazionali, sono sempre la negazione della libertà degli individui e hanno come esito uno scontro bellico15. Guardando al caso del nazismo Mises porta alle estreme conseguenze la sua riflessione sulla crisi del liberalismo. Innanzitutto egli giudica assimilabili il sistema sovietico e quello nazista, i quali, nonostante si combattano, sono entrambi forme di socialismo e non differiscono, nella loro essenza antiliberale, quanto a filosofie e princìpi primi16. I Il riferimento è naturalmente a J.M. KEYNES, The Economic Consequences of the Peace 1919 (trad. it. Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007). 13 L. VON MISES Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. pp. 291 e ss.). 14 Ivi, (trad. it. cit. p. 306). 15 Alla luce della critica del totalitarismo e dell’assimilazione di fascismo e socialismo come due varianti di quello stesso fenomeno, appare piuttosto insensato l’uso fatto da parte di alcuni marxisti, tra cui anche Herbert Marcuse, nel suo noto saggio H. MARCUSE, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung 1934 (trad. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-65, Einaudi, Torino 1963), di alcune frasi di Mises per “dimostrare” la continuità tra liberalismo e fascismo. Questo naturalmente non porta a negare che nel 1927 Mises, come in realtà fecero anche molti democratici e antifascisti di allora, avesse commesso un grave errore a scrivere «non si può negare che il fascismo e tutte le tendenze dittatoriali analoghe siano animate dalle migliori intenzioni, e che il loro intervento per il momento abbia salvato la civiltà europea. I meriti acquisiti dal fascismo con la sua azione rimarranno in eterno nella storia», L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 263). Affermazioni peraltro in contraddizione non solo con lo scritto che stiamo ora analizzando ma con lo stesso libro del 1927. 16 «I bolscevichi hanno stabilito il precedente. Il successo della banda di Lenin incoraggiò la cricca di Mussolini e le truppe di Hitler. Tanto il fascismo italiano che il nazismo tedesco adottarono i metodi politici della Russia sovietica», L. VON MISES Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 248). 12

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due sistemi non hanno alcuna diversità riguardo alla “visione filosofica di base”, e le (secondarie, da un punto di vista liberale) differenze tra loro sono dovute solo alle diverse condizioni economiche, poiché «il modello russo era inattuabile in Germania, la cui popolazione non poteva vivere in uno stato di autarchia»17. La stessa equiparazione vale anche tra il programma economico dello stato corporativo del fascismo italiano, e il “programma del socialismo delle gilde britannico”, diffuso in Gran Bretagna già dalla Prima guerra mondiale ed esposto nelle opere dei coniugi Webb. Ma Mises va molto oltre questo paragone, che troveremo ampiamente sviluppato nell’opera di Hayek. Egli infatti ritiene che non esista di fatto opposizione culturale al nazismo poiché esso non è altro che l’applicazione ai “problemi speciali della Germania” di ideologie sociali ed economiche che sono ormai ovunque accettate18. E tali idee consistono nei “dogmi” per i quali il “capitalismo è un sistema di sfruttamento ingiusto”, che va sostituito con “il controllo dello Stato sull’economia” in modo da poter porre fine a questo sfruttamento, anche fissando, con la collaborazione dei sindacati, prezzi e salari per migliorare il tenore di vita dei cittadini. Riguardo al commercio la necessità è ridurre al minimo le importazioni, quasi mirando all’autarchia, e va dunque escluso un ritorno al libero scambio, all’economia libera, al gold standard. Riguardo a questi dogmi imperanti «non c’è alcuna differenza tra i liberali inglesi e il partito laburista inglese da un lato, e i nazisti dall’altro», e il fatto che gli inglesi definiscano questi princìpi una evoluzione, un prodotto naturale, del liberalismo, mentre i nazisti più correttamente li definiscano anti-liberali non cambia la sostanza della loro comune visione, così come non rappresenta un grande cambiamento il fatto che in Germania i dissidenti rispetto a quei dogmi non sono ammessi mentre in Gran Bretagna sono derisi. La conclusione di Mises è un giudizio disarmante riguardo alla fragilità del mondo occidentale davanti al nazismo: «chiunque manchi del coraggio o della perspicacia di attaccare queste premesse non è in condizioni di criticare le conclusioni che da esse traggono i nazisti»19. Ed è un giudizio perfettamente coerente con la sua convinzione che tra capitalismo ed economia controllata non ci possono essere vie di mezzo, o si sceglie un modello o l’altro, e la scelta è dicotomica. Da un punto di vista scientifico le dottrine del nazismo, come tutte le dottrine del controllo statale dell’economia e del mercantilismo, sono perfettamente 17 18 19

Ivi, (trad. it. cit. p. 249). Ivi, (trad. it. cit. p. 306 e ss.). Ivi, (trad. it. cit. p. 308).

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confutabili, cosa che Mises stesso rivendica di avere fatto. Tuttavia i “validi princìpi” su cui quelle critiche si basavano, e che egli vede coincidere con il liberalismo classico, sono stati abbandonati e definiti in maniera sprezzante “ortodossi”. E così anche un paese come la Gran Bretagna, che combatte con le armi contro il nazismo, imita il sistema di gestione economica dei nazisti, e «la “non-ortodossia” di Fabiani e di Keynes, ha avuto come esito la confusa accettazione dei princìpi del nazismo»20. Il problema del nazismo è dunque il “problema mondiale” nel senso che tutti gli stati hanno ormai accettato come “ricetta tipica della nostra epoca” la pianificazione, e se non c’è più nessun partito politico disposto a sostenere il liberalismo, la democrazia e il capitalismo l’alternativa può essere solo tra il modello di pianificazione tedesco, il nazismo, e il modello di pianificazione russo, il bolscevismo21. Da questa analisi Mises trae prima di tutto, e come si è già visto in precedenza, la conclusione che solo il libero mercato può far emergere l’armonia degli interessi, e che solo da tale principio può emergere una situazione di pace tra le nazioni e tra i popoli, mentre il controllo statale dell’economia genera inevitabilmente conflitti. Ma trae anche una conclusione più articolata, che riguarda le ragioni della sconfitta del liberalismo, una teoria politica che egli considerava non confutata da un punto di vista scientifico, ma appunto storicamente sconfitta. Mises parte dalla considerazione che gli uomini abbiano abbandonato liberalismo e capitalismo a favore di socialismo, nazionalismo e interventismo perché si sono convinti che questi ultimi siano in grado di renderli più ricchi, di far conseguire meglio l’obiettivo del benessere generale22. Il problema è dunque che, nonostante le teorie economiche sulle quali la dottrina liberale si basa siano “inconfutabili”, non necessariamente gli uomini sono in grado di comprendere bene i propri interessi e il fatto che essi si possono realizzare solo tramite la cooperazione pacifica. Insomma, il progetto liberale non si realizza perché «la gente manca della capacità Ivi, (trad. it. cit. p. 314). Ivi, (trad. it. cit. pp. 332 e ss). 22 In apparenza Mises sembra ritenere che gli uomini siano sostanzialmente interessati solo a veder crescere il loro tenore di vita, e sembra non prendere in considerazione il problema delle varie esigenze “non materiali”, di natura assai diversa, che sempre accompagnano l’esistenza umana. In realtà si tratta di una interpretazione erronea del suo pensiero, indotta dal fatto che egli, in ragione del suo estremo soggettivismo, era convinto che questo tipo di problemi riguardassero solo la sfera personale di ognuno, nella quale si è giudici insindacabili, e per questo preferiva astenersi dal trattarli, e a maggior ragione riteneva che dovesse essere lo stato deputato a risolverli. 20 21

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mentale di assimilare i princìpi dell’economia valida»23. La possibilità che, nonostante tutti gli sforzi che si possono fare, le masse non accettino, o abbandonino, il principio dell’armonia degli interessi e il principio di libertà che da esso consegue, è sempre in agguato, come è dimostrato anche dalla storia dei paesi anglosassoni, ove il liberalismo aveva avuto una vita ben più lunga e radici ben più profonde che non in Germania. Questo concetto Mises lo esprime con particolare forza, e pessimismo, nell’altro libro pubblicato nel 1944, Bureaucracy. Nonostante in Gran Bretagna e negli Stati Uniti la common law avesse a lungo offerto una valida protezione contro l’arbitrio amministrativo e a difesa delle libertà individuali «l’esperienza degli ultimi decenni ha chiaramente messo in evidenza che nessuna precauzione giuridica è troppo forte per resistere a tendenze alimentate e sostenute da un’ideologia potente. Le idee popolari dell’interferenza dello Stato negli affari economici e le idee del socialismo hanno infranto le dighe erette da venti generazioni di Anglosassoni contro la marea dell’arbitrio governativo»24. È questa una conclusione cui Mises arriva anche in altri saggi, ma che in queste due opere, scritte negli anni della Seconda guerra mondiale, suona molto più amara e pessimistica. Tuttavia anche qui, seppure in tono minore, si può trovare l’indicazione di quella che per Mises è l’unica via di uscita: l’armonia degli interessi è un principio che non sempre la ragione umana sa riconoscere ed accettare come vero, ma questo non vuol dire che un tale riconoscimento non possa avvenire. Ecco che allora per “salvare” il liberalismo non servono tanto le riforme costituzionali, ma “sane ideologie”25. Al processo scientifico che porta alla scoperta delle corrette teorie sociali ed economiche, quelle liberali, deve dunque accompagnarsi la capacità di diffondere e far affermare quelle idee, le quali devono essere accettate dagli intellettuali e, tramite la loro influenza, estese non solo ai governanti ma anche alle persone comuni26. Ciò in cui crede Mises è il potere delle idee, delle conseguenze delle idee, e nonostante il comprensibile pessimismo davanti agli eventi storici egli non perse mai la convinzione che le idee “giuste” prima o poi si sarebbero affermate. Ivi, (trad. it. cit. p. 563). L. VON MISES, Bureaucracy, op. cit. (trad. it. cit. p. 32). 25 L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 169). 26 Questo concetto verrà ribadito con forza anche in L. VON MISES, Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 833), in cui si legge: «la prosperità della società umana dipende da due fattori: la capacità intellettuale degli uomini eccezionali a concepire sane teorie economiche e sociali e l’abilità di altri uomini a rendere queste ideologie gradite alla maggioranza». 23 24

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A questo proposito può essere molto interessante un confronto con la posizione di Strauss, confronto da incentrare sulla domanda se sia meglio una dottrina utilitaristica alla Mises, secondo la quale se gli individui sbagliano è perché non hanno saputo riconoscere i propri interessi, ma che mantiene come convinzione di fondo il principio dell’armonia degli interessi, ossia della naturale assenza di conflitto, oppure una dottrina alla Strauss, in base alla quale gli individui devono essere educati alla virtù, e solo in questo modo possono superare la loro natura animale e conflittuale. Come prima cosa si deve rilevare che in realtà anche Mises, a suo modo, guarda a quello che in senso lato è il problema dell’educazione, che per lui diventa il problema del far capire agli uomini quali siano i propri interessi, del metterli in grado di riconoscerli correttamente. Mises non propone dunque un’educazione alla virtù, ma una sana “ideologia”, la quale non è altro che un insieme di princìpi e di valori, corredati da fatti che vanno riconosciuti e che sono in accordo con la natura umana prefigurata dal suo utilitarismo. Il dilemma diventa dunque capire se sia meglio la fiducia di Mises nell’armonia degli interessi o la fiducia di Strauss nel fatto che gli uomini possano essere educati da chi sa riconoscere i giusti valori, concependo questo processo come una sorta di “lotta” contro la natura umana. Le diverse filosofie di fondo di Strauss e Mises sono ben esemplificate dal problema degli ebrei davanti al nazismo. Si è vista in precedenza l’idea di Strauss per la quale il liberalismo ha fallito perché non ha saputo porre un freno alla discriminazione privata che taluni cittadini tedeschi operavano nei confronti degli ebrei. Per Strauss se non si pone un freno alla discriminazione privata essa è destinata prima o poi a trasformarsi in discriminazione politica. Il ragionamento di Mises si pone su un piano diverso. A suo giudizio nel libero mercato non esiste discriminazione, o meglio il consumatore è libero di discriminare pagandone il costo, ma questo si chiama libera scelta e non discriminazione27. La vera discriminazione si può avere solo con l’interventismo, che è il promuovere tramite la coercizione dello stato gli interessi di alcuni a discapito degli interessi di altri, come avviene con i dazi sui prodotti stranieri, oppure con l’impedire l’accesso degli ebrei ad alcune professioni, ad esempio quella medica. In realtà tali discriminazioni sono delle violazioni anche dei diritti dei consumatori, che non possono 27

Ivi, (trad. it. cit. pp. 252 e ss.).

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più scegliere quali prodotti comprare, o da quale medico farsi curare. La vera discriminazione è dunque solo quella legale, e consiste anche nell’impedire a chi lo vuole di farsi curare da un medico ebreo, ed essa può esistere solo laddove vi siano politiche interventiste, e mai dove vi è il libero mercato. Infatti nella Germania nazista è successo che per attuare la discriminazione contro gli ebrei si sono dovute fare delle leggi che imponevano la discriminazione, ad esempio proibendo di acquistare nei negozi degli ebrei, e questo perché nonostante le campagne di odio promosse dai nazisti i cittadini tedeschi continuavano ad andare in quei negozi. Per sbarazzarsi della concorrenza degli ebrei fu dunque necessario attuare una discriminazione legale contro di loro, cosa che poteva essere fatta solo in uno stato interventista che negava la libertà di mercato. Anche riguardo a una questione così delicata, e che lo coinvolgeva direttamente in quanto ebreo scappato dal nazismo, Mises non cessa di vedere il problema in termini di contrapposizione tra una società in cui l’economia è libera e una in cui vi è l’intervento statale; quest’ultima porta inevitabilmente a politiche discriminatorie, le quali vanno a discapito sia delle minoranze discriminate sia dei consumatori. La discriminazione dunque non è il risultato del razzismo, ma «dell’interventismo e della politica che favorisce il produttore meno efficiente a danno del consumatore»28. La sua battaglia per il libero mercato travalica dunque il “problema economico”, e diventa il problema stesso della società. Se si riconosce ai governi il diritto di modificare il sistema di libero mercato allora non è possibile garantire la libertà dei cittadini e la pace tra i popoli. La soluzione di Strauss è molto diversa, perché richiede l’“innalzamento” della natura umana. Il suo definire quella liberale come la “soluzione economica del problema politico” è una definizione assai brillante, che indubbiamente colpisce il lettore. Tuttavia egli forse non aveva appieno compreso come la “soluzione economica” non è solo l’incremento della ricchezza, ma l’idea che se si ritiene che qualcuno possa meglio guidare il processo economico e con esso la convivenza civile verso dei fini ritenuti più giusti e più nobili è molto più probabile che si arrivi al totalitarismo che non alla virtù. Mises per alcuni aspetti sembra essere un bersaglio perfetto per Strauss, poiché sembra concentrarsi (quasi) esclusivamente sugli aspetti materiali della vita, sul benessere delle persone. Tuttavia a ben guardare nelle sue pagine è possibile 28

Ivi, (trad. it. cit. pp. 256).

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trovare molto di più, poiché da esse emerge chiaramente l’idea che il totalitarismo è possibile solo laddove si negano i diritti degli individui in nome di un ideale o di una “virtù” superiore, che qualcuno pensa di poter riconoscere per il bene degli altri. Indubbiamente resta in piedi la critica più corrosiva di Strauss, ossia quella per la quale se gli individui non acquisiscono anche nella loro vita privata, nelle loro convinzioni profonde, il rispetto per gli altri, ogni tutela formale contro le discriminazioni sarà destinata prima o poi a cadere. Tuttavia anche rispetto a questo problema Mises sembra darci delle indicazioni, ad esempio quando ricorda che storicamente furono necessarie discriminazioni legali contro gli ebrei, poiché senza di esse i tentativi di emarginarli dalla società non avrebbero funzionato. Ma quello di come sia possibile fortificare nella natura umana il rispetto per gli altri (cardine non solo del liberalismo ma della stessa libertà occidentale) è un tema assai complesso sul quale si dovrà tornare in seguito.

2. La mentalità collettivista e la via della schiavitù Molti dei temi trattati da Mises si ritrovano in The Road to Serfdom di Hayek, un libro che al suo apparire nel mondo anglosassone ebbe un enorme impatto. L’essenza del suo messaggio – la mentalità totalitaria, intesa come il principio di organizzazione statale che si contrappone al libero operare degli individui, si sta gradualmente ma inesorabilmente affermando anche nei paesi liberi che combattono il totalitarismo – penetrò, debitamente semplificata 29, nel profondo della società americana ed ebbe vasta eco anche in settori della popolazione non usi a confrontarsi con la teoria politica liberale. Motivo per il quale viene spesso considerata, probabilmente a ragione, come la più importante opera del liberalismo del Novecento. Ma al di là della sua importanza legata all’impatto “popolare”, e al di là di alcune semplificazioni contenute nell’opera (probabilmente volute dall’autore proprio al fine di facilitare la divulgazione del suo messaggio) in essa si trova veramente un passaggio importante della rivisitazione della teoria liberale e della sua rinascita, passaggio che può essere compreso appieno solo se si legge quest’opera insieme alle altre riflessioni che Hayek andava articolando Come noto del libro di Hayek fu fatta un’ottima sintesi nel Reader’s Digest, che contribuì molto alla diffusione delle sue tesi centrali. 29

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in quegli stessi anni. Nel libro di Hayek si trovano molti dei temi sviluppati da Mises, con consistenti corrispondenze ma anche con articolazioni differenti, soprattutto per quanto concerne il tema che più conta, ossia l’origine del “male” totalitario. Il primo importante argomento rispetto al quale vi è una forte convergenza con Mises, e dunque una divergenza rispetto alle tesi di Hallowell, che Hayek criticò in una recensione30, è l’idea che fu l’elemento socialista e non quello “tedesco” a consentire alle idee dei nazionalsocialisti di prevalere. Anche per Hayek la chiave per interpretare il nazismo non è la reazione al socialismo, ma al contrario proprio la continuità con le politiche socialiste e soprattutto con la mentalità socialista, diffusa da lungo tempo in quel paese31. Il socialismo per Hayek non è altro che un caso specifico di un genere più ampio, il collettivismo. L’essenza del socialismo non è infatti tanto negli ideali di eguaglianza e giustizia sociale che esso propone, ma nel metodo che si vuole usare per raggiungere quegli scopi, e questo metodo si basa sull’abolizione dell’impresa e della proprietà privata dei mezzi di produzione, a favore di un sistema di pianificazione economica. I fenomeni totalitari sono dunque per Hayek espressione del collettivismo, il quale è «l’insieme dei metodi che possono essere usati per raggiungere una grande varietà di scopi», e il socialismo non è altro che «una specie di questo genere»32. In Germania il liberalismo era stato “spazzato via” dal socialismo e il nazismo si andò ad innestare in un paese in cui erano ormai «praticamente tutti socialisti»33. Sino al 1870 le idee liberali provenienti La recensione, pubblicata nel 1944, è ora contenuta in F.A. VON HAYEK, The Fortunes of Liberalism. Essays on Austrian Economics and the Idea of Freedom, edited by P.G. Klein, Liberty Fund Indianapolis 1992, pp. 199-200; in essa viene in particolare criticato un uso ambiguo del termine positivismo e una grave confusione del concetto di “formal law”. 31 Nell’ultima e ampliata edizione di The Road to Serfdom, il curatore Bruce Caldwell pubblica una nota di Hayek del 1933, la quale sarebbe poi stata rielaborata in un saggio del 1938, “Freedom and economic system”, ed infine sviluppata nel libro del 1944. In quella nota emerge chiaramente come già nel lontano 1933, quando il regime di Hitler era appena agli inizi, Hayek fosse convinto che il nazismo, nonostante la persecuzione nei confronti dei marxisti, fosse un genuino movimento socialista, e le sue idee fossero il risultato delle tendenze antiliberali iniziate alla fine dell’età di Bismarck. Si sostiene inoltre, già allora, che le altre nazioni stanno seguendo la strada della Germania, e che l’aumento del ruolo dello stato e l’ammirazione per la pianificazione portano inesorabilmente in quella direzione. 32 F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 81). 33 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 53 e ss.). 30

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dalla Gran Bretagna erano riuscite ad esercitare una discreta influenza (anche) nella politica tedesca, ma a partire da quella data esse iniziarono gradualmente a regredire ovunque, e proprio in Germania si ebbe lo sviluppo e il “perfezionamento” delle idee socialiste34. Tali idee, pur non essendo originarie della Germania, trovarono nei territori di lingua tedesca (Hayek include anche l’Austria) il terreno ideale per il loro sviluppo. Infatti non solo si radicò, ben prima che negli altri paesi europei, un grande partito socialista, ma tutta la politica tedesca fu pervasa dal dibattito sulle idee socialiste e plasmata da esse. Venne promossa la crescita di sindacati e cartelli, e si diffuse il mito dell’inevitabile trasformazione in senso monopolistico del capitalismo, tutte cose che con il tempo arrivarono anche nelle altre nazioni europee. A partire dall’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento la Germania divenne un paese “esportatore” di idee, o meglio di un’unica idea, la quale assunse forme e gradazioni diverse a seconda di chi la rielaborava35, ma sempre mantenendo fermo il principio della necessità dell’organizzazione in contrapposizione al libero agire degli individui. I pensatori tedeschi, forti dei grandi successi economici e scientifici raggiunti dalla Germania durante l’Ottocento, esercitarono una grande influenza sul resto del mondo occidentale, ma si trattò di un’influenza che metteva in discussione le basi stesse di quel mondo, le quali pure erano state per un periodo accettate dalla Germania e la avevano resa grande. Gli ideali occidentali di liberalismo, democrazia, pace e libero mercato divennero sempre più disprezzati dai tedeschi, e questo disprezzo contagiò anche il resto dell’Occidente, che importava le idee tedesche e che gradualmente si convinse che i propri ideali politici non fossero altro che dottrine inventate per favorire interessi egoistici, di cui bisognava iniziare a vergognarsi. L’origine del totalitarismo che nega la civiltà occidentale va dunque per Hayek cercata nel socialismo, o più precisamente in un tipo di mentalità che è generata dal socialismo e che ha la sua caratteristica fondamentale nella negazione degli ideali del liberalismo. Questa mentalità attecchisce in Germania, dove con il tempo assume tinte diverse dal socialismo tradizionale, e da lì comincia la sua espansione verso Occidente. Nel dodicesimo capitolo, intitolato Le radici socialiste del nazismo, Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 67-69). Il periodo in cui si concretizza questo processo sono gli ultimi venticinque anni dell’Ottocento e i primi venticinque anni del Novecento. 35 Qui Hayek cita insieme autori come Marx, Hegel, List, Schmoller, Sombart e Mannheim. 34

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Hayek osserva come si tratti di un grave errore considerare il nazionalsocialismo come una semplice “rivolta contro la ragione”, come un movimento senza retroterra intellettuale36. Le sue dottrine sono invece «il compimento di una lunga evoluzione di pensiero»37, peraltro non peculiare della Germania38, dove quelle idee divennero maggioritarie solo dopo il 1914, per l’effetto combinato del domino della cultura socialista, dell’isterismo post-bellico e dell’assenza di una forte borghesia liberale. Fu dunque l’unione delle forze anticapitalistiche, ossia l’unione di socialismo radicale e conservatore, a spazzare via ogni forma di liberalismo e a consentire la vittoria di Hitler. Il nazionalsocialismo affonda dunque le radici nel trionfo della mentalità socialista consolidatasi già nei primi anni del Novecento, e trova poi una serie di “maestri” intellettuali, di formazione socialista e marxista, che seppero spianare la strada alla dottrina hitleriana39. Werner Sombart contrappose alla civiltà commerciale della Gran Bretagna la cultura “eroica” della Germania e l’idea che lo stato non è fondato sugli individui, i quali davanti ad esso hanno solo doveri e non diritti. Johann Plenge vide nel principio di organizzazione la vera essenza del socialismo (tradito da Marx, che sposò un “concetto astratto” di libertà), che finalmente si realizzava grazie alle necessità imposte dalla guerra, e attribuì al popolo tedesco il diritto di guidare gli altri popoli in virtù delle sue superiori capacità organizzative. Walter Rathenau, che pure sarebbe “inorridito” davanti al totalitarismo, influenzò profondamente le concezioni economiche che poi furono alla base dell’economia del nazionalsocialismo. Paul Lensch ricostruì storicamente le politiche economiche tedesche dai tempi di Bismarck, giudicandole come il raggiungimento delle precondizioni per la realizzazione di un socialismo che si sarebbe attuato su base nazionale. Oswald Spengler vide come un’unica realtà le due concezioni, pure tra loro nemiche, del vecchio spirito prussiano e del socialismo, unite nel combattere l’Inghilterra e nel compito di far risolvere alla Germania la vera questione mondiale, ossia se debba essere l’industria a governare lo stato o viceversa. Arthur Su questo si veda anche F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, Routledge, London-New York 1973-79 (trad. it. Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986, pp. 344 e ss.). 37 F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 222). 38 Tra gli autori da ascrivere a questo movimento di pensiero Hayek cita in particolare Thomas Carlyle, Houston Stewart Chamberlain, Auguste Comte e Georges Sorel. 39 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 224-236). 36

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Moeller van den Bruck vide nella Prima guerra mondiale la lotta tra il principio liberale e quello socialista, e nel Terzo Reich l’obiettivo di dare ai tedeschi un socialismo “adatto alla loro natura” e non corrotto dalle idee occidentali. Ferdinand Fried sostenne, nel suo libro dal titolo La fine del capitalismo, come vi fosse stata una guerra «con le armi dello spirito e dell’organizzazione» 40 ben prima che si combattesse la guerra vera e propria. Il fatto “inquietante” che libri simili sulla fine del capitalismo fossero popolari negli anni immediatamente precedenti la guerra anche nelle democrazie anglosassoni è per Hayek un’ulteriore conferma della sua tesi di fondo, sinteticamente espressa nel titolo del tredicesimo capitolo: I totalitari tra noi. Egli osserva come nei regimi democratici vi sia una forte somiglianza con quello che era il clima della Germania venti anni prima, in particolare la «venerazione per lo stato» e «l’entusiasmo per l’“organizzazione” di ogni cosa (ciò che ora chiamiamo “pianificazione”)»41, che porta a far convergere contro il liberalismo le idee economiche della destra e della sinistra. Già nell’introduzione Hayek avvertiva come Stati Uniti e Gran Bretagna rischiassero di ripercorrere, senza rendersene conto, la strada percorsa dalla Germania. Se all’origine vi è la diffusione delle idee socialiste riguardo alla guida dell’economia, idee maturate in Germania ma presto ammirate e importate da tutti gli altri paesi occidentali, il punto di svolta è però rappresentato, anche nelle democrazie anglosassoni, dalla Prima guerra mondiale. L’organizzazione della nazione nata per scopi difensivi viene mantenuta anche in tempo di pace, nella convinzione che sia funzionale a un miglioramento e ad una razionalizzazione della produzione economica42. A giudizio di Hayek la Germania, l’Italia e la Russia hanno solo percorso più velocemente una strada che è stata intrapresa anche dalle democrazie occidentali, e quei regimi sono «prodotti di un’evoluzione di pensiero alla quale anche noi abbiamo partecipato»43. L’affermarsi della mentalità collettivista ha segnato – anche nei paesi democratici, dove nessuno più dubita che si debba andare verso un sempre maggiore controllo dell’economia da parte dello stato – la fine del “vecchio” liberalismo. Si tratta di un percorso che ha avuto Ivi, (trad. it. cit. p. 236). Ivi, (trad. it. cit. p. 238). 42 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 47). Ma si veda anche pagina 257, in cui viene trattata come emblematica la figura di Harold Laski. 43 Ivi, (trad. it. cit. p. 56). 40 41

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una grande accelerazione dopo il 1931, ma che era iniziato almeno un quarto di secolo prima con il progressivo abbandono del laissez-faire. Ciò che è avvenuto è una serie di mutamenti talmente imponenti da rappresentare «una completa svolta nella direzione dell’evoluzione delle nostre idee e dell’ordine sociale» 44. Hayek non ha esitazioni nell’individuare alla base di questa svolta un cambiamento nel modo di concepire l’economia, e nell’attribuire ad essa un ruolo ben più importante della semplice produzione di beni e di ricchezza. È questo un punto particolarmente importante. A suo giudizio la libertà personale e politica non è mai esistita e non può esistere senza la libertà in campo economico, ed è un grave errore ritenere che vi possano essere fini “puramente economici”, distinti dalle altre finalità della vita. In senso più ampio è anche un errore ritenere che esista un “movente economico”: esistono i fattori economici, che condizionano i nostri tentativi di raggiungere determinati fini, ma ciò che sta dietro non deve essere definito come “movente economico” ma come «il desiderio di poter conseguire fini non specificati» 45. Ecco perché, se non esiste un movente economico distinto dagli altri fini della vita, non si può essere liberi se non c’è libertà anche economica, perché se si è controllati nelle “faccende economiche” si è controllati sempre. Il problema della pianificazione è dunque che, in un mondo di risorse scarse, non sono più gli individui ma è il pianificare a decidere che cosa è importante e cosa è marginale, quali fini vanno soddisfatti e quali no. Controllando l’allocazione dei mezzi esistenti, sempre limitati, per raggiungere i fini, l’autorità decide anche quali fini possono essere realizzati; semplicemente chi controlla i mezzi controlla anche i fini, e dunque «determina quali fini debbono essere realizzati, quali valori debbano venire considerati come superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare» 46. A queste considerazioni di Hayek si potrebbe poi aggiungere che il problema della scarsità non riguarda solo i beni materiali, ma anche il tempo, le idee e le facoltà logiche degli uomini. La soluzione del problema della scarsità materiale, ammesso che sia raggiungibile, non sarebbe quindi la soluzione del problema della scarsità nella sua interezza, e non risolverebbe da sola il problema della convivenza umana. Ecco perché alla luce di queste considerazioni diventa difficile sostenere, con Strauss, 44 45 46

Ivi, (trad. it. cit. p. 58). Ivi, (trad. it. cit. p. 141) Ivi, (trad. it. cit. p. 144).

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che il liberalismo sia solo “la soluzione del problema politico con mezzi economici”, poiché esso andrebbe più adeguatamente considerato come un tentativo di affrontare e risolvere senza l’uso della coercizione l’inevitabile problema della differenza tra gli uomini e di come soddisfare le loro differenti aspirazioni. Per Hayek il liberalismo, definito in contrapposizione al collettivismo, è un credo che racchiude le idee che sono a fondamento della civiltà occidentale. Storicamente dallo sviluppo del commercio è germogliato «un sistema nel quale gli uomini possono almeno tentare di foggiare la loro propria esistenza, nel quale gli uomini possano avere l’opportunità di conoscere e scegliere tra diverse forme di vita» 47. Così la libertà economica si ha come un “sotto-prodotto inintenzionale e imprevisto” della libertà politica, e che essa fosse così importante, che gli “sforzi spontanei” degli individui potessero dare luogo a una forma di ordine sociale, lo si capì solo dopo averla sperimentata grazie alla presenza di un potere politico non eccessivamente opprimente. Il liberalismo nasce dunque nel momento in cui ci si rende conto che la concorrenza è il mezzo migliore per coordinare e indirizzare gli sforzi umani, poiché essendo in grado di eliminare la necessità del “controllo sociale intenzionale”48 essa è un metodo non solo alternativo ma anche incredibilmente più efficiente della coercizione. Qui Hayek inizia a illustrare le conseguenze in termini di ordine sociale di quelle che erano le sue conclusioni riguardo alla teoria economica, intraprendendo un percorso che arriverà a maturazione nei decenni successivi e che, passando anche per lo studio del pensiero politico e della filosofia del diritto, avrà come esito una rifondazione del liberalismo classico. Nei suoi scritti economici49 egli era giunto alla conclusione che in una società complessa, basata sulla divisione del lavoro e sulla conoscenza dispersa, solo la concorrenza, imperniata sul meccanismo dei prezzi, è un sistema in grado di utilizzare in maniera efficiente le diverse conoscenze individuali, mettendo gli attori econoIvi, (trad. it. cit. p. 60). Ivi, (trad. it. cit. p. 84). 49 Il riferimento è soprattutto al saggio Economics and Knowledge, pubblicato per la prima volta in «Economica» nel 1937 e poi ripubblicato in F.A. VON HAYEK, Individualism and Economic Order, op. cit. Tuttavia, come si vedrà meglio in seguito, molte delle sue intuizioni si potevano ricondurre ai suoi studi sul funzionamento della mente umana, che troveranno in F.A. VON HAYEK, The Sensory Order, Routledge, London 1952 (trad. it. L’ordine sensoriale, Rusconi, Milano, 1990) la loro più importante formulazione. 47 48

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mici in condizione di adattarsi alle azioni degli altri. Qui, sia pure in maniera non ancora del tutto matura, egli ha chiara l’idea che questo meccanismo di coordinamento spontaneo, scoperto in economia, è in realtà una spiegazione di come sia possibile un ordine sociale, e che esso è la vera essenza della teoria liberale. In quest’opera però, più che definire il liberalismo, egli si concentra su come il totalitarismo ne rappresenti l’esatta negazione, proprio per il suo ritenere indispensabile un qualche tipo di organismo centrale che garantisca quel coordinamento, ritenuto altrimenti irrealizzabile. In un certo senso il totalitarismo si è venuto a creare (anche) per una sorta di “errore intellettuale”, perché non si è capito come funziona il meccanismo di mercato, e perché non si sono comprese le conseguenze indesiderate cui avrebbe portato una politica collettivista, ossia non si è capito che lo sforzo di “foggiare il nostro futuro” secondo alcuni ideali avrebbe prodotto esiti diametralmente opposti a quelli desiderati. E Hayek sottolinea con forza che la vittoria delle teorie sulla pianificazione non è qualcosa di inevitabile e necessario, dovuto ai cambiamenti storici e alle trasformazioni tecnologiche. Essa è il risultato dell’affermarsi delle idee socialiste ed è quindi il prodotto di una scelta politica deliberata, di un errore umano50. L’idea di Hayek è che la comprensione delle vere origini del totalitarismo avrebbe portato alla “distruzione di molte illusioni”, ed egli sembra propenso a riconoscere la buona fede di molti socialisti, come dimostra anche la dedica del suo libro “ai socialisti di tutti i partiti”, animati da buoni propositi ma incapaci di prevedere, o magari incapaci di accettare come inevitabili, le conseguenze della loro ideologia. Ed infatti sostiene anche che in Inghilterra molti indietreggerebbero dalle loro posizioni se davvero capissero cosa il socialismo veramente significa, o se fossero in grado di accettare il fatto che il “socialismo democratico” è in realtà un’utopia irrealizzabile51. Anche Hayek infatti, come Mises prima di lui, non ritiene possibile una “terza via” che tenga insieme, combinandole, pianificazione e concorrenza. Sebbene egli ritenga che la concorrenza possa “sopportare”, e anzi necessiti, di un “certo carico di regolazione”, rimane comunque convinto che essa sia un principio “alternativo” alla pianificazione, e che tentare di mescolare i due princìpi produrrebbe un risultato peggiore che affidarsi all’uno o all’altro. I due princìpi del mercato e della pianificazione non sono dunque soggetti a 50 51

Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 91 e ss.). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 77-78).

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una qualche forma di mediazione tra loro: «non ci sono altre possibilità che queste: o un ordine governato dalla disciplina impersonale del mercato, o un ordine diretto dalla volontà di pochi individui»52, e tutti coloro che mirano a distruggere il primo, ad esempio ipotizzando una terza via, inevitabilmente favoriscono l’affermarsi della pianificazione e dunque spingono, magari inconsapevolmente e senza volerlo, verso la strada del totalitarismo. Ecco perché il programma del partito laburista britannico «rappresenta un’esperienza sconvolgente» e «non è distinguibile dai sogni che dominarono il dibattito in Germania venticinque anni fa»53. Hayek muove anche una serie di critiche precise alle “illusioni” della pianificazione, o meglio alle illusioni che i fautori della pianificazione tendono ad avere. È ad esempio un’illusione ritenere che i regimi totalitari – che sono sempre forme di collettivismo e di dittatura – siano cattivi perché guidati da uomini cattivi e che se invece vi fosse una dittatura guidata da uomini virtuosi essa potrebbe produrre buoni risultati. A dover essere messa in discussione non è la “base morale del collettivismo”, le convinzioni morali che soggiacciono alle scelte del sistema collettivista, ma il sistema collettivista stesso. Per perseguire i loro obiettivi i collettivisti devono generare un meccanismo di potere di alcuni uomini su tutti gli altri, in dimensioni mai viste prima, e il loro successo dipenderà solo dalla capacità di creare un tale potere. Il potere collettivistico assume forme e dimensioni che il cosiddetto “potere economico” degli individui privati non assumerà mai, poiché esso non sarà mai né un potere sull’intera vita di una persona né un potere “esclusivo e completo” nelle mani di singoli individui. Anche sotto questo aspetto dunque si ripropone la dicotomia insanabile tra la pianificazione, che necessita inevitabilmente di un potere assoluto ed esteso a tutto, e il mercato libero, il sistema di concorrenza, che è «il solo sistema adatto a minimizzare, mediante il decentramento, il potere dell’uomo sull’uomo»54. Un’altra interessante critica è mossa all’illusione che la pianificazione avverrà davvero come ci aspettiamo che avvenga, ossia come noi vorremmo che venisse realizzata e per conseguire i fini che riteniamo importanti e giusti 55. Finché rimane sul piano delle aspirazioni l’idea 52 53 54 55

Ivi, (trad. it. cit. p. 256). Ivi, (trad. it. cit. p. 257).. Ivi, (trad. it. cit. p. 201).. Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 103 e ss.).

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di pianificazione unisce tutti gli “idealisti sinceri”, ma la realtà è che tra gli scopi degli individui esiste sempre un “contrasto latente”, destinato inevitabilmente a venire alla luce nel momento in cui si realizza concretamente la pianificazione. Infatti ognuno di noi ha una visione ristretta della società, e vuole cose diverse da quelle che vogliono gli altri; tuttavia il fatto che ciò che si ritiene soggettivamente importante non coincida quasi mai con quello che gli altri ritengono importante emerge solo nel momento in cui si devono fare le scelte per pianificare, e non lo si capisce quando la pianificazione è solo un’aspirazione. Il fatto è che il benessere e la felicità non possono essere misurati con un unico metro di giudizio, e che non esiste e non potrà mai esistere «un codice etico completo in cui a tutti i differenti valori umani sia assegnato il posto ad essi dovuto»56, ma quando si propone la pianificazione, e quando poi la si realizza, si agisce come se un tale codice esistesse. L’individualismo ci rivela come le scale di valori che esistono nelle menti degli uomini siano parziali e tra loro diverse e spesso incompatibili. Ecco perché a ogni individuo deve essere consentito, almeno entro certi limiti, di vivere secondo i propri valori e in accordo con le proprie preferenze, di essere giudice ultimo dei propri fini, cosa che non può avvenire con la pianificazione. Qui emerge con chiarezza uno dei punti di forza dell’individualismo metodologico57: la società non è un’entità che ha desideri e aspirazioni, semplicemente perché a esistere non è la “società” ma sono solo gli individui che la compongono, con le loro peculiarità e le loro diversità, che inevitabilmente vengono alla luce nel momento in cui vi sono decisioni collettive. Talvolta vi può essere accordo su alcuni risultati da raggiungere, ma difficilmente vi è lo stesso accordo su come raggiungere quei risultati e come ripartire i costi e i profitti. Il fatto che Hayek sia convinto che non si possa fare a meno di decisioni collettive per tenere in piedi l’ordine sociale non toglie forza all’uso di questo Ivi, (trad. it. cit. p. 107). Sull’individualismo metodologico un’ampia trattazione è L. UDEHN, Methodological Individualism. Background, History and Meaning, Routledge, London-New York 2001. Il tema ha suscitato grande interesse anche nel dibattito scientifico italiano, in particolare si segnalano E. GALEOTTI, Individuale e collettivo. L’individualismo metodologico nella teoria politica, Franco Angeli, Milano 1988, D. ANTISERI, L. PELLICANI, L’individualismo metodologico. Una polemica sul mestiere dello scienziato sociale, Franco Angeli, Milano 1992, R. CUBEDDU, Il liberalismo della scuola austriaca. Menger, Mises, Hayek, Morano, Napoli 1992, capitolo 2, R. DE MUCCI (a cura di), L’individualismo metodologico: genesi, natura, applicazioni, Borla, Roma 1993. 56 57

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argomento contro il collettivismo, che è la tendenziale riduzione di ogni scelta a una decisione collettiva, e nel prossimo capitolo di questo lavoro si vedrà come tale ragionamento sia estremamente rilevante anche per quanto riguarda il tema della democrazia. La riflessione sul fatto che gli uomini hanno obiettivi e scale di valori diversi, rispetto ai quali un unico piano non sarà mai appagante, non riguarda solo l’aspetto dell’insoddisfazione individuale, a cui inevitabilmente ogni forma di pianificazione conduce. Tale rilievo introduce infatti una serie di considerazioni su cosa sia la giustizia e su cosa possa far considerare uno stato giusto, considerazioni che rappresentano per certi versi una risposta indiretta alle critiche di tutti coloro che ritenevano che il liberalismo non si occupasse di questioni etiche, e che proprio da questa sua carenza fosse discesa una sorta di debolezza davanti al totalitarismo. Una parte assai importante della riflessione di Hayek, che qui si confronta su terreni poco battuti da Mises. Trattando dei sistemi liberi come contrapposti a quelli totalitari, Hayek li definisce come sistemi politici basati sul principio della sovranità della legge, ossia su un insieme di vincoli e norme che limitano il potere del governo, ne limitano i poteri coercitivi, e dunque rendono possibile per gli uomini programmare le proprie azioni e prevederne le conseguenze, proprio perché la discrezionalità degli organi amministrativi è ridotta al minimo. Le regole di un “governo della legge” non possono che essere “regole formali”, ossia regole che non hanno il compito di realizzare i desideri e i bisogni di persone determinate, e che proprio per questo non favoriscono alcune persone a discapito di altre. Esse sono anche “regole strumentali”, ossia regole che tutte le persone possono usare per i loro fini, per fare piani individuali, e sono imparziali proprio perché possono operare in circostanze che non sono previste in anticipo e in tutti i particolari, e perché il loro effetto sugli individui e sui loro fini non è conosciuto in anticipo. Al contrario, quando lo stato pianifica, le regole sono fatte per persone specifiche e per fini specifici, e sono uno strumento che il legislatore usa per i propri scopi nei confronti degli individui. In questo caso non sono più gli individui a fare i propri piani, in un quadro di regole conosciute e conoscibili, ma è lo stato che fa piani per loro. Così facendo lo stato si trasforma in un istituzione “morale”, ossia in «una istituzione che impone ai suoi membri le proprie idee su tutte le questio-

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ni morali»58, che impone le sue opinioni morali, qualunque esse siano. In questo senso ogni stato collettivista, a iniziare da uno stato nazista, è uno stato “morale”, e in questa eccezione uno stato liberale non è uno stato morale. La pianificazione dunque implica la discriminazione, la scelta da parte dello stato riguardo ai bisogni particolari delle diverse persone. E ogni norma che miri ad un ideale sostanziale, ad esempio all’uguaglianza materiale o alla giustizia distributiva, è una norma che porta verso la distruzione della sovranità della legge: uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale sono incompatibili. E come logica conclusione Hayek sottolinea con forza che la morale è sempre un fatto individuale, e che esiste solo se a decidere è l’individuo e non lo stato. Solo quando l’individuo è responsabile dei propri interessi può decidere, con un’azione morale, di sacrificarli, ma «non abbiamo il diritto di essere altruisti a spese di altri e non c’è merito nell’essere altruisti se non abbiamo altra scelta»59. In questo senso un movimento politico che promette l’esonero dalle responsabilità individuali è “antimorale”, qualunque siano i suoi fini. Qui Hayek richiama anche le antiche virtù dei popoli anglosassoni: «l’indipendenza e la fiducia in sé stessi, l’iniziativa individuale e la responsabilità locale, l’affidamento del successo all’azione volontaria, la non interferenza verso il prossimo e la tolleranza verso ciò che è diverso e stravagante, il rispetto per gli usi e la tradizione, e una sana diffidenza verso il potere e l’autorità»60. Si tratta di virtù che l’avanzata del collettivismo sta distruggendo, causando la perdita di fiducia nella civiltà britannica, poiché se la democrazia britannica abbandona l’ideale della libertà allora ammette che la sua civiltà non è degna di essere conservata. Bisogna al contrario ritrovare quell’orgoglio ed essere così un riferimento per chi in Italia e in Germania non vuole il totalitarismo, non vuole “schemi grandiosi di organizzazione sociale”, ma vuole solo la protezione contro lo “stato mostro”. Per vincere nella “guerra delle ideologie” bisogna dunque riacquistare la fede nei valori tradizionali, e il coraggio morale di difendere gli ideali e i valori che hanno reso le persone “libere e rette, tolleranti e indipendenti”. Passaggi questi che forse sarebbero piaciuti anche a filosofi come Strauss, e che furono di ispirazione per Margaret Thatcher61. 58 59 60 61

F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 128). Ivi, (trad. it. cit. p. 269). Ivi, (trad. it. cit. p. 273). Su questo si veda A. MASALA, Margaret Thatcher… op. cit.

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3. Storicismo e razionalismo La tesi centrale di The Road to Serfdom è che l’Occidente si è incamminato verso il totalitarismo nel momento in cui ha abbandonato il principio della libertà economica e l’idea che un sistema di libertà individuale basato sulla concorrenza sia in grado, di più e meglio di ogni altro, di coordinare le azioni e gli sforzi degli individui. L’idea liberale è stata abbandonata a causa del prevalere della mentalità collettivistica, la quale si sta affermando anche nei paesi liberi, paesi che sarebbero sulla medesima strada e solo a un altro stadio del percorso, poiché in essi quella stessa mentalità che è alla radice del totalitarismo si è affermata solo in grado diverso rispetto alla Germania e alla Russia, ma la differenza è appunto di grado e non di sostanza. Come si è detto vi sono alcune differenze ma anche grandi somiglianze con la riflessione di Mises, e una forte convergenza tra i due per quanto riguarda la tesi di fondo della medesima origine di socialismo e nazismo e per quanto riguarda la preoccupazione che la mentalità che soggiace al totalitarismo si stia diffondendo anche nei paesi democratici che durante la guerra combattevano contro i paesi con regimi totalitari. Hayek riprende anche una delle idee che Mises aveva sviluppato con maggiore convinzione e forza, in base alla quale è grazie alla libertà economica, al suo aver liberato le energie individuali, che si è avuto lo “sviluppo meraviglioso” della scienza. Ma dal progresso scientifico, o meglio dalla illimitata fiducia in tale progresso, egli vede una serie di conseguenze estremamente rilevanti proprio per comprendere le origini di quella mentalità che ha portato al totalitarismo, e nell’indagare le origini e la provenienza ultima di tale processo è egli a spingersi più in là di Mises, dimostrando quanto l’influenza tra i due fosse reciproca. È questa una delle parti più rilevanti della riflessione di Hayek, che lo tenne occupato per vari anni prima e dopo la guerra, e che assunse la forma di una vera e propria investigazione in chiave di storia intellettuale della relazione tra il metodo scientifico e i problemi sociali dai primi dell’Ottocento sino ai suoi tempi. È quello che un importante studioso di Hayek ha chiamato the abuse of reason project62, un progetto che non verrà mai completato nella sua interezza, e di cui The road to Serfdom rappresenta una tappa importante, dettata anche dalla volontà di scrivere una opera divulgativa che fosse di ammonimento agli alleati riguardo 62

Cfr. B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit., capitolo 11.

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ai rischi di mantenere il controllo statale dell’economia anche dopo la vittoria contro i regimi totalitari. In The Road to Serfdom Hayek fissa con chiarezza un punto poi sviluppato in Capitalism and Historians63: capitalismo e industrializzazione, resi possibili dallo sviluppo della libertà individuale, portarono ad un innalzamento del tenore di vita mai visto prima, e fecero anche venire alla luce una serie di “difetti” del sistema sociale – in primo luogo la grande povertà di parte rilevante della popolazione – che prima erano ben più gravi ma che non si conoscevano, e che proprio a causa di questo vennero erroneamente individuati da molti come una colpa del capitalismo. Grazie al nuovo tenore di vita non solo si “scoprirono” queste situazioni e si iniziò a considerarle intollerabili dato il livello di civiltà raggiunto, ma si ritenne anche che il processo per migliorare le condizioni di vita fosse troppo lento, e che una nuova e più razionale organizzazione della società avrebbe potuto spazzare via gli ostacoli al progresso. Fu questo il grande errore all’origine della mentalità che poi avrebbe generato il totalitarismo, poiché si ritenne che fosse possibile organizzare razionalmente l’intera società e si scambiarono per ostacoli da spazzare via quelli che in realtà erano i princìpi che avevano reso possibile il progresso. È questo uno dei grandi temi su cui Hayek rifletterà per tutta la vita, ed è significativo che esso venga articolato anche nella sua lezione in occasione del conferimento del premio Nobel per l’economia, The Pretence of Knowledge64 , e nel suo ultimo lavoro, quasi un testamento intellettuale, The Fatal Conceit: the Errors of Socialism65. Il liberalismo divenne dunque vittima del suo stesso successo; poiché non si era più disposti a sopportare alcuni mali sociali venne meno la fiducia nel capitalismo e si considerarono erroneamente come definitive le acquisizioni fatte in termini di sviluppo economico e di meccanismi che avevano portato al progresso tecnico – tema, come si è visto, sviluppato anche da Mises. Le nuove esigenze della società sembravano essere ostacolate solo dall’attaccamento ai vecchi princìpi liberali, ed emerse la volontà di sostituire il vecchio principio dell’inCfr. F.A. VON HAYEK (ed.), Capitalism and Historians, op. cit. e The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 62 e ss.). 64 Il discorso fu tenuto l’undici dicembre del 1974, e fu poi ripubblicato in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. 65 F.A. VON HAYEK, The Fatal Conceit: the Errors of Socialism, (edited by W.W. Bartley, III) Routledge, London-New York 1988 (trad. it. La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi, Milano 1997). 63

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dividualismo con il principio dell’organizzazione, proponendo una “ristrutturazione totale” della società e una sostituzione della “macchina” nella sua interezza, con la conseguente imposizione degli ideali tecnologici alla sfera sociale. È stato questo il grande cambiamento che ha mutato gradualmente ma profondamente la civiltà occidentale, e che ha portato con il tempo a sostituire il principio liberale con quello collettivista e totalitario. Il “problema umano” (per parafrasare il linguaggio straussiano) non era più come utilizzare al meglio le forze spontanee, a partire da individui liberi ed uguali di fronte alla legge, ma quello di «rimpiazzare il meccanismo impersonale e anonimo del mercato con la direzione collettiva e “consapevole” di tutte le forze sociali verso mete intenzionalmente scelte»66. Così facendo si è dimenticato che è stata proprio la “sottomissione” alle forze impersonali del mercato a rendere possibile la crescita della civiltà, e che solo grazie a ciò è stato possibile per gli uomini costruire qualcosa di molto più grande di ciò che essi potevano progettare e anche comprendere pienamente67. Certamente può essere difficile accettare di sottomettersi razionalmente a forze che non si capiscono completamente, che non si possono controllare con la sola volontà umana, e che portano a risultati i quali non sono frutto di decisioni consapevoli e premeditate. Ma alla base della filosofia hayekiana è proprio l’idea che non tutto può essere conosciuto e organizzato in maniera razionale e consapevole, e che le “forze della società” non possono essere padroneggiate come le “forze della natura”. Organizzare, o meglio ancora “subordinare” l’intera società, alla “supremazia di un unico fine”, salvo i casi particolari di guerre e calamità, è inconciliabile con la libertà individuale. A questo tema, che come si è detto investe il problema delle autentiche radici del totalitarismo, è dedicato integralmente The Counter-revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason68, un volume pubblicato nella sua versione definitiva nel 1952, anche se alcuni dei saggi che lo compongono avevano visto la luce nel decennio precedente69. Alla F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 66-67). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 261 e ss.). 68 F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, The Free Press, Glencoe 1952 (trad. it. L’abuso della ragione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008). 69 In particolare il primo saggio, quello più importante, dal titolo “Scientism and the Study of Society”, aveva visto la luce tra il 1942 e il 1944, dunque negli stessi anni di The Road to Serfdom. 66 67

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base dell’argomentazione hayekiana c’è il problema della “tirannia” del metodo. Quando, a partire dai primi anni dell’Ottocento, le scienze naturali raggiunsero risultati mai visti prima, gli studiosi delle altre discipline, abbagliati da quei successi, si convinsero che bastasse imitare il metodo delle scienze naturali per conseguire uguali avanzamenti anche nelle loro discipline. Hayek lo chiama “pregiudizio scientista”, o semplicemente “scientismo”, ed esso non è altro che una “imitazione pedantesca” del metodo e del linguaggio della scienza70. Si tratta in realtà di un atteggiamento veramente antiscientifico, poiché applica in maniera acritica un metodo e dei modi di pensare a dei campi che non gli sono propri, e così facendo trasferisce anche gli obiettivi delle scienze naturali alle scienze sociali. E qui sta il vero problema, perché in questo modo si pensa che il compito delle scienze sociali possa essere quello di un controllo cosciente dell’intera società, e anche di una ricostruzione consapevole e razionale dell’intera società e delle istituzioni sociali che la sorreggono. Questa idea è diventata estremamente diffusa, se non anche dominante, tra chi si occupa di scienze sociali ma anche nel modo di pensare di gran parte della gente comune. Prima di analizzare perché questo sia un grave errore intellettuale, che arresta la vera ricerca scientifica nelle scienze sociali, e quali siano le devastanti conseguenze generate da un tale errore, che rischia di mettere in pericolo la stessa sopravvivenza della nostra civiltà, può essere utile, invertendo l’ordine espositivo di Hayek, vedere dalle riflessioni di quali autori un tale errore si sia generato e in quali correnti di pensiero si sia successivamente articolato. Il positivismo si affermò in Francia ai primi dell’Ottocento, e Hayek individua, dopo aver citato altre figure importanti prima di lui, in Saint-Simon la figura chiave e di svolta nella tradizione positivistica, che ha poi la sua piena realizzazione negli scritti del suo discepolo Auguste Comte71. Con Saint-Simon e Comte nasce quello che allora veniva chiamato fisicismo, e che nella Vienna degli anni Venti del Novecento, in cui Un confronto su come Hayek e Strauss vedevano il problema dello scientism è R. CUBEDDU, Lo scientism nelle critiche di Hayek e Strauss, op.cit. 71 L’idea (paradossale) di Comte era che si dovesse cessare di considerare l’uomo antropomorficamente, per trattarlo come se conoscessimo di lui solo ciò che conosciamo della natura esterna. La vera osservazione sarebbe solo quella esterna all’osservatore, mentre quella interna non esisterebbe. Qui Hayek vede in nuce la frenologia e il metodo behavioristico, cfr. F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. pp. 306 e ss.). 70

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aveva vissuto anche il giovane Hayek, sarebbe stato sviluppato con il nome di “fisicalismo” dal Wiener Kreis72. Il fisicalismo, già nelle aspirazioni di Saint-Simon e Comte, non fu solo l’impiego del linguaggio e dei metodi delle scienze naturali, e della fisica in particolare, per risolvere tutti i problemi umani, ma fu soprattutto l’aspirazione ad unificare tutta la scienza per farne la base della morale. La stessa morale, e con essa la politica e la filosofia, dovevano diventare scienze positive73, e le stesse decisioni politiche non devono essere altro che il risultato di dimostrazioni scientifiche indipendenti dalla volontà umana. Nel giornale “Organisateur”, nel quale è spesso impossibile distinguere se a scrivere fosse Saint-Simon o Comte, compare per la prima volta in maniera compiuta l’idea che il sistema politico deve essere completamente riorganizzato in modo da imprimere a tutto un indirizzo scientifico, in una società diretta da coloro che svolgono le attività produttive (gli industriali) e nella quale gli ingegneri sono il simbolo della nuova unione tra potere temporale e spirituale. Esso è l’esempio dell’illusione degli scienziati di poter estendere la tecnica scientifica oltre i limiti delle proprie specifiche competenze e di estenderla alla soluzione di tutte le questioni umane. Questo atteggiamento mentale, questa aspirazione alla organizzazione scientifica di ogni aspetto della vita, è incompatibile con il principio di libertà individuale, incompatibilità che peraltro SaintSimon percepisce meglio dei suoi eredi socialisti, e la stessa libertà di coscienza diventa un ostacolo alla riorganizzazione sociale. Alla base vi è l’incapacità di concepire l’esistenza di una associazione politica senza qualcuno che la governi, e l’idea che ogni società abbia bisogno di essere organizzata in modo cosciente e sulla base di un potere spirituale fondato su un codice morale che è «deliberata costruzione umana»74. Hayek definisce le opere di Saint-Simon e dei suoi seguaci come il “vecchio testamento” del socialismo, e da esse emerge l’idea che esista una “legge di sviluppo” dell’umanità75 e la promessa della futura scomparsa Il termine fisicalismo fu coniato da Neurath. Sul rapporto tra Neurath e il Wiener Kreis, si veda R. CUBEDDU, Tra Scuola austriaca e Popper, op. cit., pp. 303-330. 73 F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. pp. 218 e ss.). 74 Ivi, (trad. it. cit. p. 247). 75 L’idea è che l’evoluzione del genere umano segua leggi scientifiche, e che dunque sia possibile fare predizioni riguardo a tale evoluzione. La parte dinamica della sociologia di Comte diventa la filosofia della storia, ed è possibile scrivere una storia astratta, senza nomi e senza popoli, poiché esistono leggi intellegibili dello sviluppo delle conoscenze dell’intero genere umano. Hayek osserva anche come l’idea che la specie umana possa 72

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di ogni antagonismo e sfruttamento, da realizzare secondo gli ultimi e più radicali sansimoniani (da cui peraltro Comte dissentiva76) con l’abolizione della proprietà privata. L’idea centrale di quella dottrina ebbe influenza, spesso indiretta ma certamente forte e pervasiva, in tutta Europa. A parte la Francia stessa, in cui intorno al 1840 tutti i movimenti socialisti avevano una base comune proprio nelle idee di Saint-Simon, un incontro per così dire naturale fu con il “genio organizzativo” della Prussia, e la Germania fu il paese in cui il sansimonismo esercitò maggiore interesse, anche nel mondo artistico e letterario. La combinazione con l’elemento tedesco ebbe una grande importanza, e tramite Thomas Carlyle e la sua idea della filosofia della storia approdò anche in Gran Bretagna. Lo stesso John Stuart Mill riconosce esplicitamente l’influenza che su di lui ebbero quelle idee, e Hayek vede proprio nell’influenza del sansimonismo e in particolare nella critica della proprietà privata la «lontana scaturigine delle simpatie socialiste di J.S. Mill»77, poi maturate per via della più profonda influenza di Comte. Proprio le idee di Comte seguirono un loro percorso in parte diverso, se non anche quasi inverso, rispetto a quelle di Saint-Simon, raggiungendo direttamente la Gran Bretagna e poi penetrando, tramite gli scrittori inglesi, in Germania, paese più di ogni altro aperto al positivismo. Un gioco di influenze molto articolato, che a dire dello stesso Hayek non è possibile ricostruire del tutto e che spesso progrediva nonostante si ignorasse la provenienza originaria di quelle idee. Particolarmente importante è poi la relazione tra Comte ed Hegel, a cui Hayek dedica il saggio conclusivo del volume. Nonostante Comte fosse più giovane di Hegel di ventotto anni egli era arrivato a maturare le sue idee fondamentali molto precocemente, e per questo i due possono essere considerati contemporanei. Più che l’influenza del primo sul secondo, che pure ci deve essere stata, ad Hayek preme sottolineare come molti esponenti del pensiero socialista, in particolare Feuerbach e Marx, presentino una combinazione del pensiero di entrambi e come in alcuni casi quella che viene considerata un’influenza hegeliana abbia in realtà una provenienza comtiana. Hegel e Comte sono accomunati attuare il controllo del proprio sviluppo e possa così trascendere sé stessa sia la radice della sociologia della conoscenza di Karl Mannheim. 76 L’idea di Comte era che la proprietà privata non andasse abolita ma che i ricchi dovessero essere i depositari dei capitali pubblici per realizzare il bene comune, cfr. Ivi. (trad. it. cit. p. 328). 77 Ivi, (trad. it. cit. p. 280).

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dall’idea che sia possibile scrivere una storia universale del genere umano e del suo sviluppo necessario secondo leggi prestabilite, ed entrambi ricercano le leggi dello sviluppo della mente umana, nella convinzione che essa sia capace di spiegare sé stessa e le leggi della sua evoluzione passata e futura. Entrambi vedono insomma il contenuto essenziale della storia come la «crescente estensione del controllo cosciente dell’uomo sul proprio destino»78. In una tale concezione della storia e dell’uomo non vi è posto alcuno per la libertà. Per Comte la libertà è nient’altro che la “razionale sottomissione” alle leggi naturali dello sviluppo, e per Hegel è soltanto la “cosciente accettazione della necessità”. Poiché, per entrambi i pensatori, lo sviluppo storico deve sempre risultare intellegibile, la conseguenza è ritenere che in esso operino solo forze che possiamo pienamente comprendere. E poiché tutto è espressione della ragione cosciente l’inevitabile approdo è un assoluto positivismo, morale e giuridico. Si potrebbe definire tale approccio come il rovesciamento della mano invisibile di Smith, e dunque dell’intera tradizione dell’ordine spontaneo che sta a fondamento del liberalismo classico. Si tratta per alcuni aspetti di un’eredità cartesiana, di un razionalismo che non sa precisare i limiti della ragione umana e che non sa comprendere che l’interazione degli individui dà luogo a “strutture di relazione” che nessuna mente individuale sa pienamente comprendere, e che per questo motivo non possono essere previste e controllate nel proprio sviluppo. Da questo connubio tra positivismo francese e hegelismo tedesco, passato per Feuerbach e Marx, discende il fondamento del totalitarismo del ventesimo secolo, che presenta diverse varianti ma ha uno stesso fondamento. Quella di Hayek si potrebbe definire come una grande indagine sull’influenza delle idee e sulle conseguenze che alcune concezioni filosofiche (sbagliate) possono produrre nella storia dell’uomo. Anch’egli, al pari di Mises, ha forte la consapevolezza che le idee, quelle giuste e quelle sbagliate, hanno conseguenze, e anch’egli ritiene un dovere contrastare le idee sbagliate e arrestarne la diffusione tra la gente, come si proponeva di fare sia con The Counter-Revolution of Science sia con The Road to Serfdom. Nell’opera del 1944 Hayek aveva mostrato come la conseguenza “politica” della diffusione di quelle idee sbagliate, di quell’abuso della ragione, fosse stata la demolizione dell’individualismo a favore del collettivismo, e il conseguente affermarsi del totalitari78

Ivi, (trad. it. cit. p. 355).

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smo. Nella prima parte di The Counter-Revolution of Science egli mostra invece come e perché quello che chiama scientismo non sia altro che la mancata comprensione, o meglio una erronea spiegazione, dei meccanismi che stanno a fondamento dello sviluppo del genere umano. Il punto da cui prende avvio l’analisi di Hayek è la differenza tra mondo della scienza e mondo dei nostri concetti e delle nostre sensazioni. La scienza studia le cose, i fenomeni, indipendentemente da quello che gli uomini pensano di essi, o da come gli uomini agiscono nei loro confronti. Tuttavia il modo in cui gli uomini percepiscono il mondo esterno e gli altri uomini, e il modo in cui la loro mente organizza i dati relativi a tale mondo (di cui essi diventano parte) sono anch’essi dei dati, che vanno spiegati poiché sono a fondamento delle azioni degli uomini. La grande differenza tra scienze naturali e scienze umane è proprio nel fatto che le prime si occupano di “cose”, che sono ciò che sono e in quanto tali possono essere studiate, mentre nelle seconde le “cose” sono quello che gli agenti pensano che siano. Il campo di studio specifico delle scienze sociali è dunque costituito non, come per le scienze naturali, da rapporti tra cose, ma da rapporti tra uomini e cose o tra uomo e uomo. I “fatti” sociali non sono dunque fatti empirici, e non devono essere trattati e studiati alla stregua di fatti empirici; bisogna dunque evitare di reificare quelle che sono solo entità astratte, costruzioni della mente umana, come ad esempio la società, il sistema economico o lo stato, perché ad esistere, ad avere realtà, sono solo gli individui. Oggetto delle scienze sociali sono dunque le opinioni, i punti di vista, le credenze e le azioni delle persone79, e la comprensione di queste cose può avvenire non con l’osservazione dall’esterno, come per gli oggetti delle scienze fisiche, ma in ragione del fatto che abbiamo una struttura mentale simile a quella degli agenti che osserviamo. L’approccio è dunque, come noto, quello dell’individualismo metodologico, e il metodo viene definito da Hayek, riprendendo il linguaggio di Menger, “compositivo”: si prendono le mosse dalle idee e dalle credenze che determinano l’azione degli individui, per vedere come dalla loro composizione emergano dei fenomeni complessi. Ecco che allora l’oggetto delle scienze sociali «è costituito dalle azioni umane ed il loro fine è di spiegare gli effetti inintenzionali o non programmati di Qui Hayek fa anche apertamente riferimento a Human Action di Mises, e attribuisce proprio al soggettivismo misesiano, in base al quale gli oggetti dell’attività economica non si definiscono in termini oggettivi ma solo facendo riferimento agli scopi umani, i progressi ottenuti nella scienza economica. Ivi, (trad. it. cit. p. 59 nota 7). 79

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esse»80. Se infatti i fenomeni sociali producessero un qualche ordine solo nel momento in cui vi fosse una “intenzionalità cosciente”, allora non vi sarebbe alcuna ragion d’essere per le scienze sociali teoriche, e tutto si ridurrebbe a problemi di psicologia. Ma poiché un ordine di qualche tipo emerge sì come risultato delle azioni dei singoli, ma senza essere stato “coscientemente programmato” da alcun singolo individuo, nasce il problema di una loro “spiegazione teorica”. All’individualismo metodologico si contrappone il collettivismo metodologico, connesso allo scientismo, che tratta certi “insiemi” (società, economia, industria, classe, nazione ecc.) «come oggetti dati, in sé stessi compiuti, le cui leggi possiamo scoprire osservando il loro comportamento come “insiemi”»81. Il collettivismo metodologico cerca dunque delle regolarità empiriche di comportamento degli “insiemi”, dei fenomeni sociali, pretendendo che quelle che sono solo teorie provvisorie, modelli costruiti dalla mente umana per spiegare la connessione tra singoli fenomeni, abbiano un’esistenza reale e possano essere osservati come si osserva una roccia o un animale. Hayek lo definisce “realismo ingenuo”, ed esso non è altro che l’errore della reificazione, o dell’antropomorfismo: attribuire realtà a quelle che sono solo teorie astratte, modelli costruiti nelle scienze sociali per spiegare le interazioni tra gli uomini. In continuità con questa concezione si pone anche una delle due (opposte) varianti dello storicismo, quella che vede la storia come lo strumento per una scienza teorica dei fenomeni sociali82. Questa forma di scientismo ribalta la vecchia e corretta concezione storicistica, che invece vedeva le istituzioni come il risultato non intenzionale delle azioni individuali, e presenta la storia come uno studio empirico della società da cui possono emergere generalizzazioni e leggi di comportamento. Questo tipo di storicismo è soggetto allo stesso tipo di errore del collettivismo metodologico, poiché anch’esso non ha una teoria che consenta di spiegare gli “insiemi”, di spiegare quelle strutture di relazione che non esistono nella realtà, e che non sono direttamente osservabili indipendentemente da una teoria che le spieghi e le ricostruisca83. Ivi, (trad. it. cit. p. 49). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 97). 82 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 133 e ss.). 83 «In altre parole, questi insiemi non esistono per noi altro che in rapporto alla teoria per mezzo della quale li costituiamo, alla tecnica mentale per mezzo della quale possiamo costruire le connessioni fra gli elementi osservati e analizzare le implicazioni che questa particolare combinazione comporta», Ivi, (trad. it. cit. p. 125). 80 81

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Quando uno storico scientista parla, ad esempio, di una battaglia, o quando un collettivista parla della società, essi non si rendono conto che quelle parole fanno riferimento a strutture di fenomeni individuali, che possiamo capire solo quando capiamo le intenzioni degli individui che agiscono. E il “pregiudizio empiristico” ha portato a invertire quella che è la corretta procedura di comprensione delle totalità storiche a partire dalle singoli parti, dagli elementi che la compongono. Quella “scorciatoia” che vuole portare a comprendere gli “insiemi” come oggetti reali è sbagliata, ma ha fatto presa sull’immaginazione collettiva ed è oggi dominante. Essa è passata per Hegel e Comte, e poi per Marx, Sombart, Spengler, e ha trovato nel marxismo il suo miglior veicolo. La mancanza della teoria “compositiva” dei fenomeni sociali ha dunque dato luogo ad una interpretazione “pragmatica” per la quale tutte le istituzioni sociali sono frutto di un disegno deliberato. Questo pregiudizio scientista è il capovolgimento della tesi di Smith, riproposta in tempi più recenti da Menger84, e sposata da Hayek, per la quale l’uomo in società promuove continuamente fini che non rientrano nelle sue intenzioni, e le più importanti istituzioni che servono il benessere umano sono sorte, per usare la celebre espressione di Menger, «senza che una comune volontà abbia presieduto alla loro nascita»85. Le istituzioni (linguaggio, mercato, denaro, morale ecc.) sono dunque un prodotto dell’azione umana, ma non di un progetto intenzionale, sia al momento della loro nascita sia per quanto riguarda la loro sopravvivenza, e non possiamo dare per scontato che se ne possa uguagliare o migliorare il funzionamento con un’organizzazione deliberata. È certamente possibile comprendere il funzionamento delle forze spontanee e tentare di usarle per migliorare le istituzioni stesse, ma una cosa è pensare di influenzare i processi spontanei, un’altra è pensare di sostituirli con un’organizzazione fondata solo sulla ragione cosciente e sul controllo consapevole. Il processo di civilizzazione non è il frutto esclusivo di un disegno di una ragione cosciente, ma un processo in cui gli individui, che non comprendono fino in fondo il loro ruolo, con le loro interazioni Va tuttavia osservato che nelle Untersuchungen Menger rifiuta di attribuire quella tesi a Smith, e la riconduce invece a Burke e Savigny, cfr. C. MENGER, Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften und der politische Oekonomie insbesondere, Leipzig 1883 (trad. it. Sul metodo delle scienze sociali, Liberilibri, Macerata, 1996, pp. 187-189]. Su questo tema si tornerà nel quinto capitolo di questo lavoro. 85 La frase è anche citata in F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. p. 144). 84

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e con la combinazione inconsapevole delle loro conoscenze, raggiungono qualcosa di molto più grande di quello che una mente singola può pensare e realizzare. Nella visione di Hayek dunque l’interazione spontanea è superiore all’azione consapevole, e il tentativo di assoggettare tutti i processi spontanei (non consapevoli) ad una guida consapevole equivale a limitare ciò che l’uomo può realizzare86. Questa richiesta di controllo consapevole è l’aspetto caratteristico del pensiero contemporaneo ed è, come si è detto, un “abuso della ragione”, ragione erroneamente abbagliata dai successi delle scienze naturali. Qui nel pensiero di Hayek emerge anche in maniera chiara, anche se non del tutto matura, come sia una pericolosa illusione pensare di poter controllare e dirigere l’intero processo sociale con la produzione di nuove norme, come se bastasse produrre una nuova norma per raggiungere i fini desiderati. L’errore consiste nell’incapacità di capire che, data la conoscenza limitata, solo la sottomissione a norme generali può far convivere ordine e libertà. L’accettazione di norme formali è l’unica alternativa alla guida di una volontà singola, e quelle norme non sono state necessariamente create razionalmente e per precisa volontà umana, e dunque non possono essere con leggerezza modificate e sostituite da altre più efficienti. Ma in epoca contemporanea il predominio della mentalità scientista ha fatto dimenticare questo elemento, e la popolarità della pianificazione, con il conseguente affermarsi del totalitarismo, è la più chiara espressione di questo errore. Negli stessi anni anche Popper87, un altro celebre viennese scappato dal nazismo, rifletteva su quale fosse il fondamento gnoseologico del totalitarismo, giungendo, in maniera indipendente, a conclusioni simili a quelle di Hayek. Popper aveva criticato sin da giovanissimo88 il Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 151 e ss). Esaustive ricostruzioni del pensiero di Popper sono S. GATTEI, Karl Popper’s Philosophy of Science: Rationality Without Foundations, Routledge, London-New York 2009, che si sofferma in particolare sugli aspetti metodologici, D. ANTISERI Karl Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999 e J. SHEARMUR, The Political Thought of Karl Popper, Routledge; London-New York 1966 (trad. it. Il pensiero politico di Karl Popper, introduzione di R. Cubeddu, Società Aperta, Milano 1997), i quali analizzano anche il suo ruolo all’interno della tradizione liberale. 88 Popper ci offre una ricostruzione dei suoi anni giovanili e del suo rapporto con il Wiener Kreis in K.R. POPPER, Unended Quest. An Intellectual Autobiography, The Library of Living Philosophers, Inc. 1974 (trad. it. La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Armando, Roma 1997, pp. 93 e ss.). 86 87

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positivismo, schierandosi contro il Circolo di Vienna e il suo tentativo di ridurre la metafisica a una “chiacchiera insensata” e condannò duramente il tentativo, che aveva in Ludwig Wittgenstein il suo principale esponente, di adottare come unico metodo valido in tutti i campi del sapere umano il metodo delle scienze naturali, secondo l’idea della “non esistenza dei problemi filosofici”. Come noto, nella sua celebre Logik der Forschung89, propose per contro il suo criterio di falsificabilità, e l’idea che spesso le stesse scoperte scientifiche hanno il loro momento iniziale in un’attività puramente speculativa e dunque, per così dire, in idee “metafisiche”. Ad essere fondamentale per il progresso scientifico non è dunque l’accumulazione di dati, di osservazioni, ma l’eliminazione, in modo quasi darwiniano, di teorie tramite altre teorie migliori, che abbiano una capacità esplicativa maggiore delle precedenti. Il metodo non è dunque induttivo, poiché non si passa mai dai fatti alle teorie, ma è il metodo critico, che prevede la confutazione, o falsificazione, di alcune teorie e la loro sostituzione con altre migliori, per quanto anch’esse provvisorie. Ed è un metodo unico, ossia valido per le scienze naturali quanto per le scienze sociali. Non è naturalmente tra gli obiettivi di questo lavoro riprendere le tesi di Popper riguardo alla ricerca scientifica, le quali peraltro, rappresentando uno dei principali passaggi contemporanei nel campo della filosofia della scienza, sono assai note. Quelle tesi sono state accennate poiché esse nel percorso scientifico di Popper rappresentano, pur con le dovute distinzioni, ciò che le tesi sulla conoscenza dispersa avevano rappresentato per la riflessione di Hayek. Infatti come Hayek passò alla critica dello scientismo e del totalitarismo dopo essere arrivato a delle conclusioni che riteneva definitive nel campo dell’economia, allo stesso modo Popper approda alla critica dello storicismo, che nella sua riflessione è la critica del totalitarismo, dopo essere giunto ad una conclusione riguardo a quello che a suo giudizio era il metodo corretto per la ricerca scientifica, ed è egli stesso a dirci che i suoi studi sullo storicismo e il totalitarismo “scaturiscono” dalla sua teoria della conoscenza90. L’importanza della critica al totalitarismo avrà un peso diverK. POPPER, The Logic of Scientific Discovery, London 1959 (trad. it. La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1998). Il saggio fu pubblicato originariamente in tedesco nel 1934 e nacque proprio dal confronto con gli esponenti del Wiener Kreis, tanto che a lungo Popper fu scambiato per un appartenente al Circolo. Il libro venne poi rivisto e pubblicato in inglese nel 1959, con il titolo The Logic of Scientific Discovery. 90 The Poverty of Historicism e The Open Society «scaturirono dalla teoria della 89

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so nel percorso scientifico di questi due autori, e soprattutto la diversa “origine” di quella critica, che si rispecchia naturalmente nella diversa formazione dei due, avrà delle conseguenze molto profonde riguardo alle loro posizioni “politiche”. Tuttavia è innegabile che riguardo a questo aspetto tra i due vi siano fortissime convergenze, e anche che questi scritti di Popper rientrino a pieno titolo nel percorso di rinascita del pensiero liberale. Popper sviluppa un’articolata analisi critica dello storicismo, da lui definito come «una interpretazione del metodo delle scienze sociali che aspiri alla previsione storica mediante la scoperta dei “ritmi” o dei “patterns” delle “leggi”, delle “tendenze” che sottostanno all’evoluzione storica»91. Lo storicismo è ricondotto alle diverse teorie della filosofia della storia, e dunque in ultima analisi all’idea che sia possibile individuare delle leggi che guidano lo sviluppo della storia umana, uno sviluppo ineluttabile che può essere “profetizzato” ma non arrestato o cambiato. La trattazione dello storicismo e del suo rapporto con il totalitarismo si trova in The Poverty of Historicism92 e in The Open Society and its Enemies93. Il primo è un testo pubblicato in forma di libro solo nel 1957, ma il cui nucleo originario esisteva già alla metà degli anni Trenta, e fu esposto anche in un seminario alla London School of Economics, su invito proprio di Hayek, il quale nel 1944 promosse anche la pubblicazione su «Economica», rivista da lui diretta, di un ampio saggio che porta lo stesso titolo del libro. In effetti i debiti di Popper nei confronti di Hayek sono enormi, poiché come noto fu sempre quest’ultimo, nei difficili anni della guerra, a rendere possibile la pubblicazione di The Open Society and its Enemies, e poi la chiamata di Popper alla London School, consentendogli così di abbandonare la Nuova Zelanda dove si trovava in una situazione di grande isolamento intellettuale. E conoscenza della Logik der Forschung e dalla mia convinzione che le nostre concezioni, spesso inconsce, sulla teoria della conoscenza e i suoi problemi centrali (“Che cosa possiamo conoscere?”, “Fino a che punto la nostra conoscenza è certa?”) sono decisivi per il nostro atteggiamento riguardo a noi stessi e alla politica», K.R. POPPER, Unended Quest… op. cit. (trad. it. cit. p. 131). 91 K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, Lowe and Brydon, London 1957 (trad. it. Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23). 92 K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit.. 93 K.R. POPPER, The Open Society and its Enemies, I, The Spell of Plato, II, The high tide of prophecy. Hegel, Marx and the aftermath, Routledge & Kegan Paul, London 1945 (trad. it. La società aperta e i suoi nemici, I, Platone totalitario, II, Hegel e Marx falsi profeti, Armando, Roma 1996).

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indubbiamente il debito umano di Popper nei confronti di Hayek, oltre che l’amicizia tra i due, rende più complicato decifrare quali siano le effettive, e profonde, divergenze tra i due, poiché Popper evitò accuratamente di criticare apertamente alcune posizioni di Hayek che non condivideva per non apparire ingrato nei confronti di una persona a cui tanto doveva. Per Popper alla categoria dello storicismo appartengono tutte quelle filosofie che ritengono che esistano delle leggi che determinano e guidano interamente la storia umana, e che tali leggi possono e devono essere scoperte dagli uomini. Esistono differenze di vedute sul come scoprire queste leggi, sulla possibilità o meno di mutuare i metodi delle scienze naturali e della fisica in particolare (tesi antinaturalistiche o pronaturalistiche), e anche sul grado di precisione della scoperta, ma la caratteristica comune e dominante è l’idea che il percorso intrapreso dalla storia umana è inevitabile, non può essere cambiato. Ecco che allora gli uomini non potranno e dovranno fare altro che armonizzarsi a quel cambiamento, a quello “sviluppo sociale”, assecondandolo il più possibile, o dovranno anche addirittura, e un po’ paradossalmente, «adattare il proprio sistema di valori, in modo da conformarlo ai mutamenti imminenti»94, così da poter poi “ottimisticamente” considerare ogni cambiamento come un “mutamento in meglio” perché porta ad un avvicinamento ai valori che abbiamo adottato. E questo dovere vale anche per la politica: una volta elaborate le previsioni riguardo alla storia sarà possibile “determinare” il compito della politica, la quale, secondo il linguaggio di Marx, non dovrà fare altro che alleviare le doglie del parto alla storia. Popper ritiene la tesi centrale dello storicismo, secondo la quale esiste un corso storico predeterminato e inevitabile, il quale può essere scientificamente predetto, una tesi completamente errata da un punto di vista scientifico. Per Popper il corso della storia non è immutabile, e non può essere predetto, o meglio “profetizzato”, con metodi pseudoscientifici. Egli sviluppa tutta la sua argomentazione in linea con le sue ricerche riguardo alla logica della scoperta scientifica, mostrando come i tentativi di scoprire le leggi della storia non hanno niente a che vedere con il metodo scientifico, ma sono anzi una “grave incomprensione” del metodo della scienza. L’identificazione di tali leggi dovrebbe infatti avvenire con delle “profezie storiche”, le quali sono qualcosa di com94

K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit., (trad. it. cit. pp. 66-67).

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pletamente diverso dalle previsioni scientifiche95. Tuttavia gli storicisti non si rendono conto della differenza tra le due cose, non si rendono conto del fatto che le profezie storiche “incondizionali” non possono essere derivate da previsioni scientifiche “condizionali”, e non si rendono conto che una tendenza è qualcosa di qualitativamente diverso da una legge. Alla radice dell’errore vi è la convinzione olistica che sia possibile comprendere la “totalità” dei fenomeni storici, del mondo, quando invece la conoscenza scientifica è sempre e inevitabilmente una conoscenza “necessariamente selettiva”96. E naturalmente se crolla la concezione olistica e si ammette che non si può conoscere il mondo e la società nella sua totalità, come conseguenza crolla anche l’altra grande aspirazione che affianca lo storicismo, ossia l’utopismo: se non si può conoscere la società nella sua totalità tanto meno la si può trasformare secondo un proprio ideale. Contro le tesi storiciste Popper si batté anche in quella che, almeno nel campo della filosofia politica liberale, è la sua opera più nota, The Open Society and its Enemies, in cui lo storicismo viene contrastato in nome della libertà individuale e della possibilità per l’uomo di costruire il proprio futuro senza “dipendere dalla storia”. Se in The Poverty of Historicism Popper mostra come l’approccio storicistico sia un metodo erroneo, che non produce dei risultati scientificamente apprezzabili, in The Open Society and its Enemies ripercorre le origini antiche dello storicismo, e della mentalità che sottostà ad esso, e le tappe che ne caratterizzano il percorso. Sono pagine ormai classiche, per quanto non poco controverse, in cui Popper mostra come Platone, in contrapposizione all’individualismo del suo maestro Socrate, elabori, con il suo approccio di “ingegneria utopica”, un concetto già presente in The Poverty of Historicism 97, una precisa filosofia della storia che si pone a fondamento di una teoria politica totalitaria. E non meno note sono le pagine del Questo tema verrà sviluppato in un saggio del 1948, Previsione e profezia nelle scienze sociali, successivamente pubblicato come sedicesimo capitolo di K.R. POPPER, Conjectures and Refutations, Routledge and Kegan Paul, London 1969 (trad. it. Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972). 96 Cfr. K.R. POPPER, The Poverty of Historicism, op. cit., (trad. it. cit. pp. 87 e ss.). in cui Popper scrive: «se desideriamo studiare qualcosa siamo costretti a sceglierne alcuni aspetti. Non ci è possibile descrivere od osservare un pezzo intero del mondo, o un pezzo intero della natura, anzi, nemmeno il minimo pezzo intero, poiché la descrizione è sempre necessariamente selettiva», p. 88. 97 Si confronti il capitolo 21 di The Poverty of Historicism, op. cit. e K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. I, pp. 44 e ss.). 95

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secondo volume, dedicate a Hegel e Marx “falsi profeti”. Se quella di Hegel è, all’opposto di Platone, una versione ottimistica dello storicismo, volta a giustificare l’ordine costituito e l’affermarsi sulla scena politica dello stato Prussiano, quella del marxismo è senza dubbio «la più pura, la più elaborata e la più pericolosa forma di storicismo»98. Popper riconosce – come aveva fatto anche per Platone, ma non ugualmente per Hegel – grandi meriti a Marx, non solo per la carica “umanitaria” della sua riflessione e per la sua onestà intellettuale, ma soprattutto per il suo aver saputo individuare, o mettere in maggiore rilievo, importanti problemi sociali dei quali la scienza non si può non occupare, cambiando così definitivamente le stesse scienze sociali e i loro compiti. Ma nonostante questi meriti Marx è il peggior nemico della società aperta, ed egli fu veramente un falso profeta, che realizzò il più grande tentativo storicistico mai compiuto di individuare le leggi ineluttabili della storia umana, negando così che gli uomini potessero essere i creatori del proprio destino, e vedendoli come semplice prodotto della società – cosa peraltro in parte vera, ma solo nella misura in cui è la stessa società ad essere prodotta dagli individui. Questo determinismo sociologico del marxismo, che ha naturalmente tutti i difetti tipici dello storicismo individuati da Popper già dagli anni Trenta, ha avuto un successo e una diffusione molto superiore a tutte le altre filosofie della storia, e ha nella sociologia della conoscenza di Karl Mannheim, assai popolare negli anni in cui scriveva Popper, la sua espressione “scientifica” più pericolosa, che rischia addirittura di portare alla negazione della stessa possibilità di ogni discussione scientifica razionale99. Gli errori e le responsabilità che Popper attribuisce allo storicismo sono molto simili a quelli che abbiamo visto in precedenza essere stati individuati dall’analisi di Hayek. Anche per Popper infatti lo storicismo è ineluttabilmente legato al collettivismo, e cade nell’errore di quello che egli chiama il “tribalismo”, ossia nel veder scomparire gli individui, nel considerarli nulla al di fuori della “tribù”, ovvero del gruppo sociale al quale appartengono. E in questo modo – anche se bisogna ammettere che Popper si esprime su questo punto in maniera meno netta di Hayek – si cade nell’errore della reificazione, ossia nell’attribuire esistenza e K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. II, p. 97). Secondo la sociologia della conoscenza «l’habitat sociale del pensatore determina un sistema completo di opinioni e di teorie che gli appaiono come indubbiamente vere o assolutamente evidenti» e tra i diversi sistemi di opinioni creati dai diversi habitat si crea una totale incomunicabilità, cfr. K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. II, p. 254). 98 99

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realtà a quelle che sono solo costruzioni della mente umana per spiegare le interazioni tra gli individui, i quali ultimi sono l’unica realtà veramente esistente. Il totalitarismo emerge dunque dallo storicismo, e le due varianti del comunismo e del nazismo hanno appunto quella stessa origine. Popper giunge anche a considerare nazismo e comunismo come la riproposizione in forma moderna della dottrina storicistica del “popolo eletto”, una dottrina che nella storia ha assunto varie forme e giustificazioni, e che si ripropone ai suoi tempi sia nella teoria nazista della “razza eletta” sia in quella marxista della “classe eletta”100. Infatti «entrambe queste teorie fondano le loro previsioni storiche su di un’interpretazione della storia che porta alla scoperta di una legge del suo sviluppo»101. Inoltre Popper pone in luce, più convintamente di Hayek, come uno dei principali danni dello storicismo, delle “metafisiche storicistiche” sia un “danno etico”, di deresponsabilizzazione delle persone, che vengono appunto sollevate “dal peso delle loro responsabilità”. Le metafisiche storicistiche danno infatti sfogo alla insoddisfazione nei confronti di un mondo che non è mai conforme ai nostri “ideali morali” e ai nostri “sogni di perfezione”, facendo così da supporto ad una “rivolta contro la civiltà”. E «lo storicismo stesso è, in larga misura, una reazione contro il peso della nostra civiltà e la sua richiesta di responsabilità personale»102. Ma è anche proprio da questo danno etico che scaturisce la tragedia politica del totalitarismo, ed è anche per questo che nello storicismo può essere visto il più importante alimento dei moderni totalitarismi nazista e comunista. Con The Poverty of Historicism e ancor più con The Open Society and its Enemies Popper, dopo aver demolito lo storicismo, e la sua convinzione che tutto nella storia umana sia prevedibile una volta che si sono individuate le leggi dello sviluppo storico, sposa l’individualismo metodologico, e difende con una grande opera l’idea schiettamente liberale per la quale il futuro non è predeterminato, ma dipende dalle scelte degli uomini. L’analisi di Popper dunque converge fortemente con le conclusioni che Hayek aveva raggiunto in The Road to Serfdom, a «Al popolo eletto il razzismo sostituisce la razza eletta (nel senso di Gobineau), considerata come lo strumento del destino e alla fine destinata a dominare la terra. La filosofia storicista di Marx sostituisce al popolo eletto la classe eletta, considerata come lo strumento per la creazione della società senza classi e, nello stesso tempo, come la classe destinata a dominare la terra», Ivi, (trad. it. cit. I, p. 29). 101 Ivi, (trad. it. cit. I, pp. 29-30). 102 Ivi, (trad. it. cit. I, p. 24). 100

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tal punto da spingerlo a premurarsi che fosse chiaro l’anno in cui aveva finito di scrivere The Open Society and its Enemies per essere sicuro che qualcuno non pensasse che si trattasse di un plagio dell’opera hayekiana103. Ed è poi lo stesso Popper a mutuare completamente il linguaggio hayekiano dichiarando che tra gli obiettivi delle sue due opere vi era il tentativo di «generalizzare il metodo della teoria economica (teoria dell’utilità marginale) in modo da poter essere applicata alle altre scienze sociali teoriche»104, e che anche a suo giudizio «il compito principale delle scienze sociali teoriche […] consiste nel delineare le ripercussioni sociali, non intenzionali, che seguono alle azioni umane intenzionali»105.

4. Individuo e storia Mises avrebbe certamente sottoscritto le considerazioni di Hayek e Popper riguardo all’applicazione della teoria dell’utilità marginale alle scienze sociali teoriche e alla definizione del loro compito principale come il delineare le conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali. Tuttavia nei suoi scritti non si trova una trattazione organica del positivismo e della filosofia della storia come fondamento del totalitarismo, con la parziale eccezione della sua ultima grande opera, Theory and History106 , scritta nel 1957 all’età di settantasei anni. È un’opera che solo in parte risente della riflessione di Hayek (il rapporto con Popper è Cfr. J. SHEARMUR, The Political Thought of Karl Popper, op. cit., (trad. it. cit. p. 41), secondo il quale Popper rimase “sconcertato” quando si rese conto di quanto la sua opera fosse giunta e conclusioni simili a The Road to Serfdom, e chiese all’editore di inserire l’anno in cui il lavoro era stato ultimato perché non si pensasse che Hayek fosse l’ispirazione del suo lavoro e che egli non avesse menzionato la fonte. 104 K.R. POPPER, Unended Quest… op. cit. (trad. it. cit. p. 134). Per un interessante confronto tra The Road to Serfdom e The Open Society si veda A. O’HEAR, Hayek and Popper: The Road to Serfdom and The Open Society, in E. Feser (ed.) The Cambridge Companion to Hayek, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 132-147. 105 La frase è contenuta nel citato saggio Previsione e profezia nelle scienze sociali, K.R. POPPER, Conjectures and Refutations, op. cit. (trad. it. cit. p. 580), e si tratta naturalmente di una parafrasi della nota affermazione di Menger, che Hayek aveva poi fatto propria. A soffermarsi sulle somiglianze tra i due filosofi è stato in particolare R. CUBEDDU, Tra Scuola austriaca e Popper, op. cit., capitoli I e IV della parte seconda, nei quali si pone anche in luce come fosse stato Hayek a sensibilizzare Popper riguardo all’importanza di Menger. Alcune differenze sono invece messe in luce da J. GRAY, Hayek on Liberty, 3rd ed., Routledge, London-New York 1998 [1984], pp. 100-115. 106 L. VON MISES, Theory and History, op. cit. 103

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invece assai più controverso107), e che può essere compresa appieno solo con riferimento al complesso della riflessione di Mises e in particolare alla sua teoria dell’azione umana, che qui trova una serie di ulteriori delucidazioni. Il punto di partenza della riflessione di Mises è quello che egli chiama dualismo metodologico, e che si basa sulla constatazione che «non sappiamo come gli eventi esterni – fisici, chimici e psicologici – influenzino i pensieri, le idee, i giudizi di valore degli uomini»108. Come conseguenza il regno della conoscenza umana è diviso in due, da una parte vi sono gli eventi esterni, ossia la natura, e dall’altra il pensiero, ossia l’azione umana. Rispetto agli eventi esterni, e dunque rispetto agli stessi stimoli che da essi provengono, gli uomini reagiscono in maniera diversa tra loro, se non anche in modo diverso a seconda del momento in cui si trovano ad agire, e non è possibile sapere perché determinate condizioni del mondo esterno producono una data reazione in una mente umana, così come non è possibile scoprire il legame tra un evento esterno e le idee che esso produce nella mente. Non esistendo nelle reazioni umane delle regolarità certe non possono esistere per gli uomini degli schemi “stimolo-risposta”, e da questo fatto discendono varie conseguenze, la più importante delle quali è sicuramente che le previsioni delle scienze sociali non potranno mai essere uguali a quelle delle scienze naturali. Le azioni umane sono entro certi limiti prevedibili, ma il tipo di previsione è completamente diverso da quello che si ha nelle scienze naturali. L’esperienza ci insegna che in passato sono esistite delle regolarità verificabili, ma non c’è certezza per le previsioni future, e ogni evento storico osservato può essere descritto e compreso solo con riferimento alle circostanze di tempo e di luogo in cui è avvenuto. Esistono sì degli eventi storici ricorrenti, ma essi possono essere constatati solo a posteriori, solo dopo che sono già avvenuti e non sono come le costanti per le scienze naturali, perché nelle scienze sociali non esistono costanti di quel tipo. In fisica la distinzione tra costanti e variabili ha senso, in economia vi sono solo variabili e nessuna costante, dunque non ha neanche senso parlare di variabili. Tra le conseguenze vi è anche il fatto che nel campo dell’azione umana la statistica descrive Su come l’approccio metodologico dei due, nonostante le differenze, non sia inconciliabile, si veda F. DI IORIO, Apriorism and Fallibilism: Mises and Popper on the Explanation of Action and Social Phenomena, in «Nuova Civiltà delle Macchine», anno XXVI, n. 4, 2008, pp. 5-32. 108 L. VON MISES Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. p. 47). 107

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cambiamenti, nel campo delle scienze naturali essa descrive regolarità, e in questo senso le due scienze sono completamente diverse. Mentre le scienze naturali studiando un evento che si è verificato una volta sola lo possono considerare un esempio di applicazione di leggi generali, al contrario gli uomini non si comportano mai secondo uno stesso schema, e dunque non è possibile arrivare a quelle leggi generali109. Alla radice della differenza tra le due scelte vi è appunto il dualismo metodologico. A differenza degli oggetti inanimati l’uomo sceglie, e le sue scelte sono determinate da pensieri e idee, sui quali le scienze naturali non hanno nulla da dire. L’uomo agisce intenzionalmente in vista di fini che ha scelto, e la vita è una sequenza infinita di atti di scelta. L’essere umano punta sempre a raggiungere una situazione migliore, ossia ricerca la felicità, la quale è il fine, mentre tutto il resto sono i mezzi utilizzati per raggiungere quel fine. E inoltre, e qui si vede l’estremo “soggettivismo” di Mises, ogni individuo è il solo arbitro di cosa per lui è la felicità, che ha come conseguenza il fatto che il fine ultimo perseguito dal singolo uomo è “al di là di ogni esame razionale”110. Gli altri sono “fini intermedi”, sono fini provvisori, sono passaggi nel percorso volto a realizzare la propria idea di felicità, e dunque sono essi stessi mezzi. Ora, mentre il giudizio sulla capacità di un mezzo di produrre un dato effetto è suscettibile di discussione, la valutazione del fine ultimo non lo è, e bisogna stare attenti a non scambiare conflitti sul disaccordo della scelta dei mezzi per conflitti su valori. La scelta dei mezzi è un problema tecnico, un fatto di ragione, la scelta del fine ultimo è un problema personale, un fatto “di cuore e volontà”111. L’uomo dunque agisce per raggiungere quella che reputa la propria felicità, ossia agisce sempre per cercare di passare a una situazione ritenuta migliore di quella in cui si trova, e agisce in conformità ai propri giudizi di valore. Tali giudizi di valore non sono altro che “atti mentali” dell’individuo, costituiscono la “molla” delle azioni individuali, ed essendo frutto della scelta dell’uoCfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 134 e ss.). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 59), in cui egli propone l’esempio del martire, il quale sceglie il martirio come mezzo più adatto a raggiungere il fine religioso che si è posto. 111 Nel capitolo dodicesimo Mises, in contrapposizione ad un uso distorto del termine psicologia, battezzerà con il nome “timologia” (che definisce anche come una branca della storia) la conoscenza dei giudizi e delle volontà degli uomini, e la definirà come il risultato di introspezione e di esperienza storica, poiché essa studia il contenuto di pensieri, giudizi e desideri degli uomini. Ribadirà che i fini ultimi, i giudizi di valore, non possono essere confutati con il ragionamento, e che ragionamento e razionalità si usano solo riguardo ai mezzi. 109 110

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mo (nonostante vengano tratti a partire dall’ambiente sociale in cui esso vive) non sono mai “sbagliati”112. Il tema della soggettività dei giudizi di valore ci introduce al problema del totalitarismo. Totalitarie sono infatti quelle teorie che sostengono l’esistenza di valori “assoluti ed eterni”, i quali possono essere scoperti come si scoprono le leggi della fisica. Mises si colloca all’estremo opposto di questa posizione; non solo ritiene che tali valori non esistano e non possano essere scoperti in quel modo, ma ritiene anche impossibile ridurre la nascita e la trasformazione delle idee a fattori fisici, chimici o biologici. Inoltre pensieri e idee, generati da processi sconosciuti che si verificano nel corpo dell’essere umano, sono cose “reali” per quanto “intangibili e immateriali”, e sono «fattori che provocano cambiamenti nel regno delle cose tangibili e materiali»113. Quello di Mises è quasi un “ribaltamento perfetto” della teoria marxista, che infatti viene criticata per la sua convinzione che “le forze produttive materiali” esistono e basta, sono come cadute dal cielo ed obbligano gli uomini a determinati rapporti di produzione indipendenti dalla loro volontà, determinando quella che Marx chiama la sovrastruttura114. Il ritenere che possa essere l’appartenenza di classe a determinare i pensieri degli uomini è un grave errore che Mises chiama “polilogismo”, una teoria che nega l’uniformità della struttura logica della mente, la quale differirebbe nei membri delle diverse classi115. Al contrario per Mises gli strumenti e le macchine che servono gli uomini sono prodotti della mente umana, la quale è – se si vuole adottare il linguaggio marxista –la struttura, mentre quelle creazioni sono la sovrastruttura. Le azioni sono guidate dalle ideologie, che non sono immutabili, ma sono prodotti della mente che “aggiustano” o “sostituiscono” i prodotti precedenti. L’origine di nuove idee è una creazione umana, i dati ultimi della storia sono le azioni e i pensieri degli uomini. E alla critica del marxismo segue la critica di tutte le filosofie della storia, le quali sono un tentativo di «evitare ogni riferimento all’indiviUn simile ragionamento Mises lo applica, come noto, anche alle scelte politiche, le quali hanno come scopo ultimo il raggiungimento di determinati fini. Studiando le scelte politiche l’economista non giudica il fine che esse vogliono raggiungere, non ne giudica il valore, ma valuta soltanto se quelle scelte sono adatte a raggiungere i fini che si propongono, se producono effetti indesiderati e quali. 113 Ivi, (trad. it. cit. p. 141). 114 Ivi, (trad. it. cit. pp. 156). 115 Ivi, (trad. it. cit. p. 76 e p. 166). 112

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dualità e all’irrazionalità»116, cosa naturalmente impossibile per la filosofia misesiana, per la quale i dati ultimi sono individuali e irrazionali. Per Mises la storia è l’opposto di quello che essa è per gli storicisti, essa è sempre storia dell’umanità, è storia di idee degli uomini, le quali «generano le istituzioni sociali, i cambiamenti politici, i metodi tecnologici di produzione e quelle che vengono chiamate le condizioni economiche». E il punto finale della ricerca storica «è un uomo che ha avuto un’idea»117, anche se non sappiamo chi è, perché sono le idee i dati ultimi della storia. Ma naturalmente, come per ogni esponente della Scuola austriaca, la storia non è la conseguenza voluta e lineare, consapevole, delle azioni umane: la storia è fatta dalle azioni umane, ma il processo storico non è programmato dagli individui, è il risultato inintenzionale delle azioni di tutti gli individui, e nessun uomo può pianificare la storia. L’errore dello storicismo, che Mises considera una teoria epistemologica per la quale l’unica conoscenza, a parte quella delle scienze naturali, è fornita dalla storia, consiste proprio nel fatto che non ha capito che la storia è fatta di fenomeni complessi, di conseguenze non volute, e che i fatti storici vanno interpretati alla luce di questa consapevolezza. E a limiti ed errori altrettanto gravi va incontro quello che Mises, come Hayek, chiama scientismo. Le scienze naturali non sanno nulla delle cause finali, poiché sono guidate dalla sola categoria della causalità, mentre al contrario il campo delle scienze dell’azione umana è il perseguimento di fini da parte dell’uomo, ed è dunque il campo teleologico. Ripercorrendo, come già aveva fatto Hayek, gli errori di Comte, del neopositivismo e del panfisicalismo, Mises osserva come il moderno comportamentismo non sappia spiegare perché gli uomini si comportino in modo diverso davanti allo stesso stimolo. Il suo errore è voler studiare l’uomo “dall’esterno”, studiarlo «semplicemente come una reazione a una determinata situazione», evitando «puntigliosamente ogni riferimento al significato e allo scopo» e dimenticando così che «una situazione non può essere descritta senza analizzare il significato che l’uomo studiato trova in tale situazione»118. E la condanna finale dello scientismo ci dà un altro esempio della prosa tagliente e perentoria di Mises: «le scienze naturali devono astenersi dall’occuparsi delle cause finali perché non sono in grado di scoprirne nessuna e non perché pos116 117 118

Ivi, (trad. it. cit. p. 224). Ivi, (trad. it. cit. p. 227). Ivi, (trad. it. cit. pp. 280-281).

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sano dimostrare che non esiste alcuna causa finale»119. E se non è possibile lavorare sulla comprensione delle “cause finali”, delle aspirazioni e degli obiettivi degli uomini, non si può avere alcun tipo di progresso nello studio delle vicende umane. Essendo i giudizi di valore i dati ultimi nell’analisi dell’azione umana è impossibile usare i metodi delle scienze naturali, perché il tipo di conoscenze è qualitativamente diverso e perché giudizi di valore non costituiscono il punto di arrivo bensì di partenza per la riflessione umana. In fondo storicismo e scientismo cadono nello stesso tipo di errore, cercare di spiegare i fenomeni umani senza far veramente riferimento all’uomo, alle sue scelte, al perché delle sue scelte e ai suoi obiettivi, soggettivi e talvolta “irrazionali” per gli osservatori esterni, ma sempre determinanti e “giusti” per l’uomo che agisce. Non sapendo partire dalla spiegazione dell’azione umana, non sono neanche in grado di comprendere che il compito delle scienze sociali è quello di spiegare come l’agire degli uomini si combina in modo spesso imprevisto ed imprevedibile, dando luogo a creazioni che non sono frutto della volontà umana, ma di una tale combinazione di azioni volte a perseguire fini personali. Tale approccio è diventato a tal punto prevalente nelle scienze sociali, in cui ormai si ritengono reali solo le azioni di gruppo, che Mises contrappone al termine “scienze sociali” quello di “scienze dell’azione umana”, come unico corretto approccio allo studio delle scienze dell’uomo in società. La società non è un soggetto reale, che può pensare e agire, sono solo gli individui ad esistere e solo essi, pensando ed agendo, costituiscono i fatti sociali. Il collettivismo, sinonimo di totalitarismo, è la conseguenza politica di questo errore gnoseologico di fondo, poiché ribalta questa posizione, poiché considera reale la società e non gli individui, i quali sarebbero solo una immagine illusoria, una sorta di “fantasma”. Esso ritiene quindi che le scienze sociali si debbano occupare solo delle “attività di gruppo”, poiché l’individuo ha importanza “solo come membro di un gruppo”, e dunque esclude dall’analisi tutte quelle azioni che non sono riconducibili ad un gruppo, ossia esclude ogni azione dell’individuo come singolo. Tuttavia, se si escludono le azioni individuali non solo non si riesce a comprendere perché un individuo decide in alcuni casi di agire nella categoria del gruppo, ma si escludono tutte quelle azioni in cui un individuo non agisce in azioni di gruppo, che è un’altra categoria fondamentale delle scienza sociali. E in realtà le stesse attività 119

Ivi, (trad. it. cit. p. 282).

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di gruppo sono nient’altro che attività individuali, ossia di individui che formano gruppi con l’obiettivo di raggiungere i loro fini: «non esiste un fenomeno sociale che non derivi dalle attività di vari individui», e «per studiare i gruppi sociali in modo adeguato e completo si deve partire dalle azioni degli individui»120. In conclusione, «il modo migliore di sbagliarsi sul significato della storia e dell’evoluzione della civiltà è quello di concentrare l’attenzione sui fenomeni di massa e trascurare i singoli uomini e le loro imprese. Nessun fenomeno di massa può essere adeguatamente studiato senza analizzare le idee sottostanti. E nessuna nuova idea proviene dalla mitica mente delle masse»121. È questo il drammatico errore gnoseologico che secondo Mises ha portato all’affermarsi del collettivismo in politica, ossia del totalitarismo, il quale è anche una conseguenza dell’uso della filosofia della storia in chiave di propaganda politica. Infatti il modo in cui interpretiamo la storia trasforma le idee degli uomini, dalle quali come si è visto dipende l’azione umana. La “comprensione delle epoche precedenti” è un importante elemento costitutivo delle ideologie che determinano l’azione, e dunque lo stesso cambiamento storico. Ed è stata proprio una comprensione erronea, se non volutamente falsa, della storia una delle cause del cambiamento in senso totalitario del mondo contemporaneo.

5. Dalla ‘società buona’ alla ‘buona società’ Anche se nelle opere di Hayek, Mises e Popper non si trova una trattazione sistematica della crisi della teoria politica contemporanea come analizzata nel primo capitolo, è possibile sostenere che anche a giudizio dei pensatori liberali una tale crisi esisteva ed era stata causata dal neopositivismo e dallo storicismo imperanti nelle scienze sociali, e che ad essi bisognava guardare per comprendere i totalitarismi. Furono anzi proprio i pensatori liberali a porre in maniera forte il problema già negli anni Trenta, e dunque prima che esplodesse la moda dell’idea della “morte” della filosofia politica – ad ulteriore conferma del fatto che considerare il liberalismo corresponsabile della crisi della civiltà occidentale e della nascita del totalitarismo poteva essere solo il frutto di una visione distorta di ciò che era il liberalismo, o meglio la conseguen120 121

Ivi, (trad. it. cit. p. 292). Ivi, (trad. it. cit. p. 297).

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za di una mutazione della tradizione liberale stessa, come si è cercato di argomentare nel capitolo precedente. Qui si cercherà da un lato di capire se le posizioni dei tre autori sin qui analizzati siano davvero tra loro speculari, o se invece non vi siano differenze degne di essere rilevate, e dall’altro di scoprire se negli esponenti della Scuola austriaca fosse emerso in quegli scritti un concetto di giustizia e di morale da contrapporre al trionfo del totalitarismo, e di che tipo di concetto si trattasse. Quando si confrontano le posizioni di Mises e Hayek salta indubbiamente agli occhi una maggiore radicalità delle tesi e del modo di esprimersi del primo. Certamente le due analisi convergono fortemente, e anche riguardo al problema chiave dei rischi del totalitarismo nei paesi liberi l’argomento di Hayek è lo stesso di Mises, ma vi è almeno una differenza importante. Mises focalizza prevalentemente la sua attenzione sull’interventismo dello stato in economia, e ne deriva quasi come un meccanismo automatico il prodursi da esso del socialismo e del nazismo, avvicinandosi poi al problema del positivismo e dello storicismo in maniera decisa, ma solo in seconda battuta. In Hayek invece questo “automatismo” tra interventismo e totalitarismo non si trova con la forza che vi è nella riflessione di Mises, ed egli infatti preferisce ragionare sulla mentalità che sottostà agli interventi statali. Si tratta forse di una sfumatura, poiché anche Mises attribuisce un grande peso al ruolo delle idee, ma è una sfumatura che da un lato rende il libro di Hayek più penetrante riguardo al pericolo dell’affermarsi di quella mentalità anche nei paesi liberi, e forse ne spiega il grande successo di pubblico, ma da un altro lo rende più “compromissorio” rispetto ad Omnipotent Government. Mises è infatti estremamente intransigente nel dire che da ogni forma di interventismo discendono rischi concreti per la libertà, mentre Hayek sembra disposto, come poi farà più ampiamente in The Constitution of Liberty122 , ad accettare, come la quasi totalità dei liberali a lui contemporanei, si pensi ad esempio ad Einaudi, che alcuni interventi dello stato si giustifichino e siano anche utili. La quale cosa rende la sua posizione più flessibile e “spendibile” politicamente, ma non risolve l’eterno problema di come distinguere in maniera certa quali interventi dello stato in economia siano “liberali” e accettabili, e quali no. Né chiarisce come quella scelta potrebbe avvenire e chi sarebbe in F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, Routledge and Kegan Paul, London 1969 (trad. it., La società libera, SEAM, Roma 1996). 122

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grado di farla correttamente. La posizione “aprioristica” di Mises per la quale ogni intervento statale ci spinge verso il totalitarismo è forse inaccettabile per un decisore politico, ma ha una forza “morale” che la posizione hayekiana non ha. Comprendere il significato e il perché di una tale differenza tra i due autori è una questione rilevante anche per capire quale fondamento può essere dato al liberalismo. Innanzitutto vi sono alcune differenze123 riguardo al problema dell’impossibilità del calcolo economico in una economia pianificata, la quale impossibilità rappresenta per molti versi il fondamento della critica del totalitarismo. Mentre Mises ritiene quel calcolo scientificamente impossibile e condanna come un errore accertato, scientificamente certo, ogni tentativo di pianificazione e dunque ogni forma di totalitarismo, Hayek sembra prediligere la superiorità del sistema di mercato rispetto all’inefficienza della pianificazione, che è un sistema non in grado di usare in maniera piena le informazioni disperse tra diverse persone all’interno della società. A questa diversa impostazione scientifica (di due pensatori che come si è visto “nascono” economisti e che poi si rendono conto che è possibile applicare le conclusioni raggiunte in economia al campo più vasto di tutte le scienze sociali e della teoria politica) si può certo ricondurre buona parte della differenza nei toni e nelle conclusioni dei due autori, ma vi è anche un altro punto complementare a questo, che in parte è venuto in luce quando si è analizzato nel capitolo precedente il modo in cui i due autori vedono le origini della crisi del liberalismo. Per Hayek con il capitalismo vengono alla luce problemi, primo fra tutti la condizione di miseria di una parte ampia della popolazione, che prima esistevano ma non si vedevano, o meglio non erano percepiti come un problema sociale, e rispetto a quei problemi emerge la necessità di fare qualcosa “subito”, nel senso che non si è più disposti ad aspettare i tempi lunghi del progresso economico. Da un lato Hayek, come anche Mises, è consapevole che l’interferenza dello stato al fine di dare una risposta immediata a quei problemi rischia di compromettere il processo di mercato, e vede anche chiaramente come da quella aspirazione, di per sé buona e legittima, si generi lo scientismo, ossia la convinzione che sia possibile risolvere tutto con il solo uso della ragione umana. Ma Hayek è anche consapevole, molto maggiormente di Mises, che se non si soddisfa almeno una parte Cfr. su tutti R. CUBEDDU, Il liberalismo della scuola austriaca, op. cit., pp. 281 e ss. e P.J. BOETTKE, Hayek and Market Socialism, in E. Feser (ed.) The Cambridge Companion to Hayek, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 51-66. 123

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di quella aspirazione, che naturalmente può essere soddisfatta solo con l’intervento dello stato, vi possono essere serie conseguenze per il capitalismo e per la stessa democrazia, che rischiano di essere travolti dal malcontento per qualcosa che non è più ritenuto essere tollerabile. In questo egli si confronta fortemente con la storia britannica (come noto Hayek si era trasferito alla London School of Economics su invito di Lionel Robbins praticamente dal 1931, all’età di trentadue anni124) più di quanto non faccia Mises, il quale in un certo senso, in virtù del suo essere cresciuto e maturato in un ambiente molto diverso da quello britannico, ed appartenendo ad una generazione diversa, forse percepiva meno questo problema e più o meno consapevolmente tendeva a confrontarsi meno con la esigenza pratica della democrazia di soddisfare le richieste dei propri cittadini per non crollare ed essere magari sopraffatta dal totalitarismo. Hayek è dunque maggiormente consapevole che “senza Keynes” le democrazie sarebbero state distrutte più facilmente, e che una serie di interventi dello stato, per quanto scientificamente “sbagliati”, potevano essere giustificati, potevano essere necessari per salvare il liberalismo stesso. Questa consapevolezza in Hayek convive, non senza difficoltà, con un’altra, quella per cui è necessario combattere contro le idee “sbagliate”, contro l’intervento dello stato che è alla base della mentalità totalitaria. Quest’ultima idea è invece totalmente dominante in Mises (nonostante anch’egli abbia forte la consapevolezza della necessità del consenso per la sopravvivenza del liberalismo), e rende da un lato più radicale e dall’altro quasi più “dogmatico” il suo ragionamento. In modo un po’ paradossale si potrebbe dire che Mises, per una questione generazionale, sente l’influenza del positivismo e del razionalismo, e forse in un certo senso egli dà al suo liberalismo una forma che risente di quella influenza, ossia della convinzione che sia possibile dare dimostrazioni certe, scientifiche, anche negli studi sociali125. Questa è una idea a cui arrivano anche altri pensatori liberali, ma a caratterizzare Nel 1931 Hayek tenne alla London School quattro celebri conferenze sul ciclo economico, che rappresentarono la sua presentazione alla Scuola. Per una assai dettagliata ricostruzione di questa e delle altri fasi della vita di Hayek si veda A.O. EBENSTEIN, Friedrich Hayek. A Biography, Palgrave, New York 2001 (trad. it. Friedrich von Hayek. Una biografia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009). 125 Era questa in fondo anche la critica che gli muoveva Hayek, cfr. F.A. von HAYEK, Hayek on Hayek. An Autobiographical Dialogue, edited by S. Kresge and L. Wena, The University of Chicago Press, Chicago 1994 (trad. it. Hayek su Hayek, Ponte alle Grazie, Firenze 1996, p. 105), sulla quale si tornerà nel quinto capitolo. 124

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Mises è il modo in cui esprime e dà forma alle sue scoperte, espresse in termini di verità scientifiche assolute, e questo nonostante egli attacchi spesso, come Hayek, l’uso del metodo delle scienze naturali per gli studi sociali. Ma da un altro punto di vista si può anche legittimamente sostenere, come si è fatto nel capitolo precedente, che Mises assumesse una posizione intransigente in contrapposizione alla negazione continua che ai suoi tempi veniva fatta dei meriti e della qualità del capitalismo. Egli era ben consapevole che il capitalismo per funzionare ha bisogno della giusta mentalità e di una serie di circostanze che lo rendono possibile. Il problema però è che già dall’Ottocento si sosteneva troppo spesso che il capitalismo e il libero mercato funzionano male, o che non funzionano per nulla, e per ribaltare quella prospettiva bisognava ricordarne i meriti, ed è quello che Mises vuole fare con le sue opere. Se la maggiore consapevolezza delle necessità “pratiche” per la sopravvivenza della democrazia porti sempre buone ragioni alla “flessibilità” di Hayek contro la “rigidità” di Mises è dunque un problema di non semplice soluzione, e spesso legato anche alle circostanze storiche specifiche. È certamente possibile sostenere che il liberalismo, per sopravvivere o per affermarsi, abbia bisogno di entrambe queste posizioni, che possono più o meno facilmente convivere. Emerge però il problema del capire se una tale differenza tra l’anima intransigente e quella flessibile del liberalismo, esemplificata da questi due autori, possa essere definita come una differenza di grado o come una differenza di sostanza. In fondo Mises e Hayek vedono entrambi distintamente che con la pianificazione non c’è più libertà (non solo economica), e uno dei grandi temi del liberalismo diventa anche “decidere” cosa sia pianificazione e cosa no, o meglio decidere quale e quanta interferenza “economica” ha il risultato di negare la libertà. Il fatto della negazione della libertà è certo, bisogna vedere quando si arriva a ciò. E questo indipendentemente dal fatto che l’economia come la società è un “animale vivo” e che sa adattarsi per sopravvivere anche quando la libertà viene (parzialmente) negata – che è poi il problema di quanto quelle riflessioni valgano anche per il welfare state. Per capire quanto la differenza tra i due sia qualitativa e quanto quantitativa bisogna allora guardare più in dettaglio alla “flessibilità” hayekiana, cercando di capirne i limiti e le ragioni. Indubbiamente non si può negare che Hayek, già in The Road to Serfdom, faccia varie “concessioni” ad una funzione positiva dello stato, accettando che vada oltre la semplice protezione della vita, della libertà e della proprietà degli individui. In Hayek si trova infatti una

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critica dell’età del laissez-faire e del suo immutabile e “dogmatico” rifiuto dell’intervento dello stato nel funzionamento dei mercati126. È vero che tale critica è molto più blanda che nei suoi contemporanei, ma essa è presente, e Hayek sostiene ad esempio che dove è impossibile creare le condizioni per la concorrenza bisogna ricorrere ad altri mezzi (statali), che la concorrenza è compatibile con delle limitazioni sul lavoro e con un ampio sistema di servizi sociali, che alcuni servizi che non si ripagherebbero sul mercato vanno forniti dallo stato, e che dunque «in nessun sistema che possa venir difeso con argomenti razionali si può sostenere che lo Stato non faccia nulla»127. C’è tuttavia da rilevare come queste “concessioni” vengano fatte in misura molto minore rispetto a (quasi) tutti i pensatori liberali del suo tempo, e con uno spirito diverso. In un’epoca in cui ogni tentativo di negare che lo stato potesse avere un ruolo positivo nell’economia e nello sviluppo della società veniva ridicolizzato, egli dedica la sua riflessione a mostrare come la maggior parte degli interventi dello stato siano dannosi, come quelli che sono ritenuti fallimenti del mercato, ad esempio i monopoli, siano spesso frutto di accordi politici, organizzati dallo stato, tra capitalisti e sindacati, e come tutti gli stati contemporanei abbiano abbandonato il compito di produrre regole che consentano al mercato libero di funzionare a favore della produzione di norme volte a controllare minuziosamente il mercato e a introdurre meccanismi di pianificazione. Egli non solo lancia un allarme riguardo agli eccessivi compiti che ha assunto lo stato, ma ribalta l’onere della prova, ossia parte dal presupposto che lo stato non funziona meglio del mercato e non sa far funzionare meglio il mercato quando “interagisce” con esso, e che dunque si debba provare la necessità dell’intervento statale, e non si possa assolutamente presumerne che esso porti sempre, o prevalentemente, a risultati positivi. Cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 83 e ss.). Ivi, (trad. it. cit. p. 87). Interessante è anche la premessa alla prima edizione, scritta da John Chamberlain, secondo il quale «Hayek non è un devoto del laissez-faire; egli crede in un sistema di libera impresa. Schema che è compatibile con standard di salario minimo, standard di assistenza sanitaria, un minimo di assicurazione sociale obbligatoria. Ed è anche compatibile con certi tipi di investimenti statali», Ivi, (trad. it. cit. p. 39). Popper dal canto suo, in una lettera del 1946 a Carnap, “difende” l’amico, riferendosi a The Road to Serfdom, in questi termini: «egli non è certamente un difensore del capitalismo sfrenato. Al contrario, insiste sul bisogno di un sistema di “previdenza sociale”, di una politica anticiclica ecc.», K.R. POPPER, After the Open Society. Selected Social and Political Writings (eds. J. Shearmur, P.N. Turner), Routledge, London 2008 (trad. it. Dopo la società aperta, Armando, Roma 2009, pp. 183-184). 126 127

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Questo è una punto importante che differenzia Hayek dalla maggior parte dei pensatori liberali della sua epoca, le cui posizioni abbiamo visto nel capitolo precedente ben esemplificate dalla riflessione di Röpke. È vero poi che in Hayek non si trova, come invece in Mises, una difesa aperta della controversa età del laissez-faire, e a tratti sembra anche che egli ne condividesse in parte la condanna diffusa tra gli stessi liberali, tuttavia vi sono alcuni passi che mostrano come egli riflettesse su quali fossero le responsabilità riguardo ad alcuni errori di quell’epoca. In particolare un passaggio interessante è quello in cui sostiene che i socialisti sansimoniani hanno contribuito a dare al capitalismo continentale la forma che ha, ossia quella di un capitalismo monopolistico e finanziario, basato sulle grandi banche, le società per azioni, le grandi imprese spesso legate allo stato. Con i loro “vasti piani di organizzazione industriale” essi prepararono la strada alla nascita dei grandi cartelli che poi avvenne con l’intervento dei governi, in particolare quello di Napoleone III, “imbevuto di idee sansimoniane”, idee che poi esercitarono la loro influenza anche su Bismarck128. Indubbiamente non si tratta di una riflessione organica volta a “rivalutare” l’età del laissez-faire come esperienza storica, riflessione che invece è possibile trovare in misura maggiore in Mises; tuttavia anche questi accenni sono indicativi riguardo a dove a giudizio di Hayek si dovrebbero cercare le cause del discredito del laissez-faire nella sua fase finale, e più controversa, e sul fatto che alcune trasformazioni del mercato non fossero la logica evoluzione di un processo ma la conseguenza del diffondersi delle idee di chi non credeva nel libero mercato ma nell’intervento dello stato per trasformarlo. Le sue critiche sembrano insomma volte all’età del laissezfaire, ad alcuni suoi errori, e non certo al principio del laissez-faire. Una lettura di questo tipo spingerebbe verso un “riavvicinamento” tra gli scritti di Mises e quelli di Hayek, ma per comprendere meglio il problema nella sua interezza è utile guardare ad alcune differenze con Popper. Per quanto riguarda le analisi di Hayek e Popper129 si è posto in luce quanto forti fossero le convergenze tra i due sulle responsabilità dello scientismo e dello storicismo per l’affermarsi del totalitarismo, sui pericoli che essi rappresentavano anche per la civiltà, e si è anche detto come Popper condividesse quello che per Hayek, in linea con 128

F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. pp. 295

e ss). Un esaustivo ed interessante confronto tra il liberalismo di questo due pensatori è C. HAYES, Popper, Hayek and the Open Society, Routledge, London-New York 2009. 129

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l’impostazione che ne aveva dato Menger, era il compito delle scienze sociali e l’importanza della teoria dell’utilità marginale per tali scienze. Anche nel loro atteggiamento verso il marxismo vi sono poi dei punti di convergenza; certamente in Hayek non si trova quella sorta di “ammirazione” che ne ha Popper130, ma entrambi gli riconoscono un ruolo importante, per quanto nefasto, e riconoscono “oneste intenzioni” ai socialisti, con i quali si propongono di dialogare. Per quanto riguarda però l’interventismo statale, e dunque il tema della possibilità di usare lo stato per risolvere problemi o accelerare il processo di soluzione dei problemi, le cose si complicano. Si è detto come, nonostante alcune difficoltà e “concessioni” all’interventismo, l’esito logico del fallibilismo hayekiano sia la fiducia nel libero mercato e la difesa dello stato minimo. Hayek infatti delinea in maniera chiara dalla sua impostazione gnoseologica lo scaturire dei totalitarismi, che vede nascere (al pari di Mises) soprattutto a causa dall’intervento statale nell’economia, intervento che una volta iniziato tende sempre a degenerare e a portare con sé un cambiamento nella mentalità dei cittadini. Per quanto riguarda Popper invece, nonostante egli avesse dei presupposti gnoseologici simili a quelli di Hayek e arrivasse ad una identica condanna del totalitarismo, non è possibile sostenere che nella sua riflessione si trovi una eguale preoccupazione per l’interventismo statale, che ai suoi occhi non sembra necessariamente essere una delle (con)cause del totalitarismo131. In Popper si trovano infatti, già negli scritti esaminati in questo capitolo, aperture molto maggiori e più convinte all’interventismo. Si pensi ad esempio al suo importante concetto di utilitarismo negativo, in base al quale è possibile almeno individuare alcuni mali evidenti (quelli sui quali siamo tutti d’accordo) della società e operare per rimuoverli con il meccanismo statale, che di fatto si propone come uno strumento adatto se non alla massimizzazione del piacere almeno alla minimizzazione del dolore. La riflessione sull’utilitarismo negativo ha sì la “qualità” liberale di respingere l’utilitarismo “positivo”, In una lettera del 1943 a Rudolf Carnap, commentando la critica radicale che aveva fatto di Marx ne The Open Society and its Enemies, Popper scrive «malgrado il mio atteggiamento critico ho un debole per Marx, e lo ammiro come pensatore. Inoltre nel libro dichiaro chiaramente di dovere molto all’influenza di Marx», K.R. POPPER, After the Open Society… op. cit. (trad. it. cit. p. 170). 131 Interessanti considerazioni a questo proposito vengono sviluppate in J. SHEARMUR, The Political Thought of Karl Popper, op. cit., (trad. it. cit. pp. 42-43). 130

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ossia l’idea che sia possibile instaurare il bene (ed infatti il concetto è sviluppato in opposizione all’utopismo), ma pare di fatto ampiamente riconciliabile sia con il welfare state sia, almeno in parte, con lo stesso socialismo, poiché non vi sono ragioni di principio contro l’idea che vi possa essere una pianificazione per la sua realizzazione. E considerazioni analoghe, forse anche più radicali, potrebbero essere svolte riguardo all’idea popperiana di “ingegneria gradualistica”, che si oppone alla “ingegneria utopica” di Platone che ha portato alla mentalità totalitaria, ma che egli stesso sembra a tratti propenso a vedere come una forma di pianificazione. E a questo proposito è significativo un passaggio in una nota di The Open Society132. In un primo momento, quando ancora non aveva letto The Road to Serfdom, Popper sostiene che l’ingegneria utopica corrisponde in larga misura «a quella che Hayek chiama pianificazione “centralizzata” o “collettivistica”», aggiungendo che Hayek sarebbe favorevole ad una “pianificazione per la libertà”, la quale appunto potrebbe prendere la forma della sua “ingegneria gradualistica”. Successivamente si rende conto dell’errore di attribuire ad Hayek una tale terminologia133, ma la nota rimane assai indicativa di come Popper non vedesse una relazione diretta tra la pianificazione, in qualunque forma, e la genesi del totalitarismo. In realtà è tutto il rapporto tra il socialismo (non marxista) e Popper ad essere piuttosto controverso. In una lettera del 1947, in cui rispondeva alla domanda di Carnap se si considerasse ancora socialista, egli indica le convinzioni che ancora condivide con i socialisti, e queste sono la necessità di una perequazione dei redditi “di gran lunga maggiore” di quanto non vi sia in ogni stato da lui conosciuto, e di esperimenti politici ed economici “ragionevolmente coraggiosi”, anche se critici. E poi aggiunge: «non vedo perché tali esperimenti non potrebbero arrivare fino all’esperimento della “socializzazione dei mezzi di produzione”, a patto che (a) vengano consapevolmente affrontati i considerevoli e seri pericoli sollevati da tali esperimenti e vengano adottati i mezzi per farvi fronte (b) venga abbandonata la mistica e ingenua idea che la socializzazione sia una sorta di panacea». E dopo aver criticato più in dettaglio la convinzione dei socialisti che la socializzazione sia una panacea, ed espresso la convinzione che essa «possa peggiorare le cose piuttosto che migliorarle» aggiunge: «in altre parole non sono né a favore della sociaSi tratta della quarta nota al capitolo 9, K.R. POPPER, The Open Society op. cit. (trad. it. cit. I, p. 378). 133 Si veda l’aggiunta a quella stessa nota, inserita dopo aver letto The Road to Serfdom. 132

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lizzazione né contro. Mi rendo conto che la socializzazione potrebbe migliorare determinate questioni, ma potrebbe anche peggiorarle. Tutto dipende da come si affrontano queste cose»134. A queste considerazioni vanno poi aggiunte le note e più recenti aperture di Popper sui temi dell’interventismo, tanto che egli in anni più vicini a noi non si è opposto alla sostanziale assimilazione del suo pensiero fatta da alcuni esponenti del socialismo moderato135. Il problema non è dunque quanto Hayek (e Mises) da una parte e Popper dall’altra si differenzino riguardo alla “quantità” di interventismo statale, ma la ben più complessa questione legata alla domanda se quelle due posizioni gnoseologiche così simili possano davvero portare ad esiti differenti riguardo alla possibilità e l’utilità di una pianificazione statale. Infatti mentre Hayek sembra escludere a priori una tale possibilità, assimilando la pianificazione al totalitarismo e indicando lo stesso interventismo come un momento di una degenerazione verso il totalitarismo, Popper non sembra escludere una tale possibilità con altrettanta chiarezza, e rivendica l’utilità della pianificazione, sia pure entro certi limiti e mantenendo fermi degli obiettivi liberali. Ed è proprio sulla possibilità di mantenere ferma la salvaguardia della libertà individuale nel momento in cui si accetta la pianificazione e l’interventismo che i due differiscono, e non è una differenza da poco. Se questa differenza ha origini complesse e non è certo facile da spiegare, si può tuttavia almeno sostenere che il diverso punto di partenza e i diversi interessi dei due pensatori abbiano inciso. Hayek come formazione è un economista, e vede innanzitutto nel campo dell’economia quali possano essere le cause del totalitarismo, ossia come esso sia un impossibile e dannoso tentativo di controllare razionalmente per intero, e dunque di modellare, il destino dell’uomo. Il fenomeno viene prima e più chiaramente in luce nell’ambito economico, ma la spiegazione è la stessa per tutte le scienze sociali, ed infatti è solo dopo aver raggiunto risultati che ritiene definitivi nel campo dell’economia che il suo interesse si rivolge alla teoria politica. Popper invece nasce e rimane per tutta la vita un filosofo della scienza, per quanto interessato alle ripercussioni delle sue teorie nei diversi campi della vita umana. Egli sviluppa le sue fondamentali riflessioni sulla logica della scoperta scientifica e partendo da esse approda ad una articolata critica del totalitarismo e delle sue K.R. POPPER, After the Open Society… op. cit. (trad. it. cit. pp. 187-188). Il riferimento è ad esempio a Bryan Megee in Gran Bretagna e a Luciano Pellicani e Giancarlo Bosetti in Italia. 134 135

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lontane origini, in termini di errore scientifico, ma il suo interesse per la teoria politica rimane abbastanza marginale, e le sue conoscenze nel campo dell’economia limitate. Forse a motivo di ciò egli non vede con la stessa chiarezza di Hayek come il processo storico che essi, insieme, avevano visto svilupparsi nelle diverse correnti di pensiero che erano alla base del totalitarismo poteva essere analizzato con la stessa chiarezza nel campo dell’economia, non compiendo così appieno quella che nel pensiero di Hayek era l’equazione tra il totalitarismo e la pianificazione, la quale ultima nella riflessione di Popper rimane una ipotesi pericolosa ma forse, con le adeguate cautele, in parte percorribile. Ma vi è anche un altro elemento da considerare, il quale risulta di fondamentale importanza non solo per spiegare il diverso esito cui giunge la riflessione di Popper, ma per inquadrare appieno l’originalità di Hayek e Mises rispetto al problema del totalitarismo. Quando Popper sostiene la possibilità, e anche la necessità, di un utilitarismo negativo e di una ingegneria sociale gradualistica lo fa sulla base di convinzioni etiche, che innesta sul fallibilismo, usato come metodo per realizzare un determinato programma sociale. Egli, anche se nei suoi scritti non si trova una trattazione articolata di questo problema, ritiene che in base ad un’etica condivisa sia possibile individuare delle priorità sociali e operare per soddisfarle. E queste priorità sono molto vicine a quelle del pensiero socialista, e consistono sostanzialmente nella necessità di migliorare le condizioni di vita dei poveri, cosa che può essere fatta tramite lo stato, che applica criteri etici di giustizia. Le cose stanno diversamente per gli altri due autori trattati. Certamente è possibile trovare anche in Hayek preoccupazione per le condizioni dei poveri e forse anche apprezzamento per alcuni dei valori del socialismo, ma questo apprezzamento non arriva, nonostante talvolta si intravedano delle tentazioni in questa direzione, all’idea che il problema possa essere risolto con un programma statale fondato su valori etici, e questo perché è completamente diversa l’idea di giustizia, e dunque del ruolo dell’etica, rispetto a Popper, differenza che esiste anche rispetto a Mises. In precedenza si è accennato a come anche Mises riflettesse a suo modo sul tema dell’etica, e lo facesse con riferimento al concetto di cooperazione sociale (e armonia degli interessi), analizzato nel capitolo precedente. Già in Socialism136 egli aveva osservato come la contrapposizione tra azione egoistica e altruistica avesse origine in una concezione 136

Cfr. L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 439 e ss. e 500 e ss.).

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sbagliata della società, poiché l’uomo non ha il potere di decidere se le sue azioni servono al suo bene o a quello dei suoi concittadini. I sistemi di etica anti-utilitarista (che nel suo linguaggio significa anti-liberale) elevano altruismo e sacrificio a valori morali assoluti, dipingendo rinuncia e sacrificio di sé stessi come buoni in sé, e condannando l’etica richiesta dalla vita sociale sotto il capitalismo per mettere al suo posto standard di condotta morale adatti al socialismo. In realtà si tratta di un grave errore, poiché l’uomo che vive in società adatta le sue azioni alla società, e lo fa per sue finalità personali. Facendo propri i fini sociali non rinuncia alla realizzazione dei suoi desideri a favore di quelli di un “universo mistico”, ma al contrario accetta la società perché la vita sociale lo aiuta a realizzare i suoi desideri, e se rifiutasse questa adesione (con comportamenti antisociali) i vantaggi potrebbero essere solo transitori e con la distruzione della società danneggerebbe sé stesso. Dunque l’opposizione tra motivazione egoistica e altruistica ha origine in una concezione sbagliata dell’interdipendenza sociale, e «nella società basata sulla divisione del lavoro e sulla cooperazione, gli interessi di tutti i membri sono in armonia e da questo fatto fondamentale della vita sociale deriva che in ultima analisi l’azione fatta nell’interesse di me stesso e l’azione fatta nell’interesse degli altri non entrano in conflitto, dal momento che gli interessi degli individui alla fine coincidono»137. Così ad esempio, aggiunge in Liberalism, dimostrando funzione e necessità della proprietà privata se ne dimostra la legittimità etica, poiché «tutto ciò che serve a tenere in piedi l’ordinamento sociale ha un valore etico; tutto ciò che lo danneggia è immorale»138. In Theory and History Mises osserva come nella cooperazione sociale l’uomo deve rinunciare ai comportamenti incompatibili con la vita in società, e che proprio da quella incompatibilità emerge il concetto di giusto. La giustizia si riferisce dunque alle relazioni sociali tra uomini, e «il criterio ultimo di giustizia è il fatto di contribuire al mantenimento della cooperazione sociale». Un comportamento giusto è solo quello che preserva la cooperazione sociale; non si deve dunque pensare a come «organizzare la società secondo i postulati di un’idea preconcetta e arbitraria di giustizia», ma ad organizzare la società in modo che gli individui possano raggiungere i fini che desiderano conseguire attraverso la cooperazione sociale. L’utilità sociale è «l’unica norma di giustizia», e 137 138

L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 439-440). L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 66).

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dovrebbe essere «l’unica guida della legislazione»139. Il riferimento alla cooperazione è dunque fondamentale, ed essa è l’unica alternativa alla coercizione, caratteristica del collettivismo. Solo la società libera può funzionare nonostante i suoi membri siano in disaccordo sui giudizi di valore, e il “mondo degli affari” è al servizio non solo delle maggioranze ma anche delle minoranze. È solo dopo Mandeville che si smette di cercare uno scopo e una giustificazione dell’uomo e della società nella provvidenza, e che si considerano gli eventi umani dal punto di vista dei fini degli attori, e non di Dio o della natura. Mandeville mostra che egoismo e ricerca del benessere sono incentivi alla civiltà, e pensatori come Smith e Bastiat adottano quello schema. Il fatto che essi si riferiscano a Dio non ne altera il meccanismo, poiché non affermano nulla sui fini che Dio vuole realizzare con l’evoluzione storica. Essi non “indovinano” gli scopi della provvidenza, e nonostante il loro credere in Dio e il loro continuo riferirsi ad esso si occupano dei fini umani, e non della provvidenza divina. Seguendo Mandeville si trova dunque la soluzione al problema del come sia possibile che azioni considerate immorali producano effetti positivi, e la risposta è nell’idea che ciò che comporta vantaggi non va respinto come moralmente cattivo, ma che «sono cattive soltanto le azioni che producono cattivi risultati»140. Tuttavia l’opinione pubblica aderisce ancora a idee che non tengono conto delle riflessioni di Mandeville, e questa è una delle circostanze che hanno consentito l’imporsi del totalitarismo. Per Mises il trionfo del marxismo in Germania, da cui poi è scaturito il nazionalsocialismo, si spiega con la mancata comprensione del principio della divisione del lavoro e della teoria della cooperazione sociale che da essa deriva, o in altre parole con la teoria dell’armonia degli interessi. Infatti, come si è detto in precedenza, trattando dell’affermarsi del nazionalsocialismo in Germania, Mises osserva come i filosofi tedeschi abbiano sempre respinto gli insegnamenti di quella che lui chiama l’etica utilitaristica. Essi non hanno capito il significato della cooperazione sociale e della divisione del lavoro, e hanno ritenuto che l’individuo possa servire il bene della società solo con il sacrificio, e che la legge morale debba essere una limitazione imposta all’uomo nell’interesse di altri: «ai loro occhi vi è un conflitto insolubile tra i fini dell’individuo e quelli della società. Essi 139 140

L. VON MISES Theory and History, op. cit. (trad. it. cit. p. 99). Ivi, (trad. it. cit. p. 207).

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non videro che l’individuo deve praticare la moralità per il benessere proprio non per quello di qualcun altro o per quello dello stato o per quello della società», ossia per ordine di una qualche “entità mistica” che ordina all’uomo come comportarsi. E «il risultato logico di questa filosofia è la credenza in un antagonismo irrimediabile fra l’interesse di ciascuna nazione e la società umana nella sua interezza»141. In sostanza in Mises si trova una equazione tra giusto e utile, ed una riflessione simile, svolta in maniera più articolata, si trova anche in Hayek. Egli definisce sistemi politici liberi quelli basati sulla “sovranità della legge”, su regole “formali” e “strumentali” che non realizzano i desideri delle persone ma rendono solo possibile prevedere le conseguenze delle proprie azioni. A quei sistemi si oppongono i paesi ad economia pianificata (tra cui anche la Germania nazionalsocialista), nei quali le regole hanno fini specifici e “ordini” che il legislatore impartisce agli individui per modellare la società; non sono più gli individui a fare piani, è lo stato che li fa per loro. In questo senso ogni stato collettivista è una istituzione “morale”, nel senso che impone ai cittadini le sue idee su questioni morali, mentre uno stato liberale non è uno stato morale, e tra sovranità della legge e pianificazione, anche quella volta a realizzare l’uguaglianza materiale o la giustizia distributiva, vi è incompatibilità. Da quelle considerazioni emerge come Hayek rifletta sul concetto di giustizia, concetto che a suo giudizio coincide con quello di imparzialità. Una regola è “giusta” quando consente agli uomini di fare previsioni riguardo al comportamento dei propri simili, e quando può essere usata da individui che non conosciamo per scopi che non ci sono noti, proprio perché non ha il compito di realizzare i fini degli individui, ma quello di rendere possibile il loro perseguimento da parte di ogni individuo142. A causa dei diversi valori e dei diversi fini che gli individui hanno, non possono esistere degli standard morali tali da poter consentire di individuare criteri condivisi per la pianificazione e la redistribuzione. Ecco perché l’unico standard morale che possiamo utilizzare, l’unico L. VON MISES Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 201). Cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 155 e ss.). Uno stesso ragionamento si può applicare anche alla concorrenza, che è “giusta” perché è “cieca”, perché non ha il compito di realizzare i fini specifici degli individui, ma solo quello di consentire il loro perseguimento. E sempre in questo senso la disuguaglianza che deriva dal mercato, essendo una disuguaglianza determinata da forze impersonali (e dove il caso gioca un ruolo importante quanto quello dell’abilità), è molto più sopportabile e più “giusta” di quanto non sia la disuguaglianza che esiste inevitabilmente anche in un regime di pianificazione, e che è determinata dal volere di una qualche autorità. 141 142

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standard giusto perché imparziale, è quello fornitoci dalla concorrenza. Alla base di questa concezione sta la convinzione di Hayek che la pretesa che ogni scelta avvenga in base a un esame completo delle sue conseguenze, e non secondo una norma generale, derivi dall’incapacità di capire che, data la inevitabile limitatezza della conoscenza umana, solo la sottomissione a norme generali può far convivere ordine e libertà. L’accettazione di norme formali è l’unica alternativa alla guida di una volontà singola, e quelle norme non sono state necessariamente create da una volontà razionale. Su queste considerazioni egli torna anche in The Counter-Revolution of Science, osservando come «la pretesa che ogni azione debba venir giudicata in base ad una completa ricognizione di tutte le sue conseguenze, e non secondo qualche norma generale, deriva dall’incapacità di comprendere che la sottomissione a norme generali, espresse in termini di circostanze immediatamente accertabili, è il solo modo in cui per l’uomo, con il suo limitato sapere, la libertà può coesistere con il minimo indispensabile di ordine»143. L’alternativa è sempre tra sottomissione a una “volontà singola” e l’accettazione di norme formali, le quali non sono mai completamente costruite con un processo unicamente razionale, ed il rifiutare le stesse norme morali con la sola giustificazione che non sono prodotto diretto di una dimostrazione razionale «equivale a distruggere uno dei fondamenti della nostra civiltà»144. Già da questi abbozzi si può osservare come quella sulla morale e sulla giustizia fosse una riflessione radicale e articolata, che Hayek andrà chiarendo meglio negli anni successivi e sulla quale si tornerà in seguito, ma che già in questi scritti appare piuttosto chiara e delineata. Una riflessione che naturalmente, nonostante sia svolta prevalentemente in riferimento ad aspetti economici, va ben al di là di tali aspetti: nel quadro della riflessione hayekiana non esistono moventi economici – e in un certo senso non esistono neanche semplici problemi economici – ma soltanto i desideri e i fini degli uomini, che hanno bisogno di strumenti economici per poter essere realizzati. Ora si può forse sostenere che le riflessioni di Mises e di Hayek riguardo alla giustizia rappresentino il ribaltamento del concetto di giustizia come trattato dai filosofi che sono stati analizzati nel primo capitolo, e di una concezione “classica” della giustizia in generale. Per 143 144

F.A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science… op. cit., (trad. it. cit. p. 160. Ivi, (trad. it. cit. p. 161).

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quegli autori infatti la giustizia è un attributo, un contenuto, che deve essere proprio delle leggi e dello stato, i quali si caratterizzano appunto per il riferimento a valori etici. Sono infatti l’etica e la morale il vero antidoto al totalitarismo, che è inteso come la negazione dei valori e della giustizia e al quale deve essere data una risposta in termini di valori. Per Hayek è invece proprio l’idea che lo stato e le leggi debbano avere un contenuto morale (etico) ad aprire la strada al totalitarismo. Il problema non è quali siano i valori morali, i contenuti della morale di cui lo stato si vuole fare portatore, ma è se lo stato possa veramente farsi portatore di una morale, e quali siano le conseguenze di una tale scelta, indipendentemente dalla morale che si vuole proporre. Infatti nel momento in cui lo stato compie degli atti morali, promulgando leggi con un contenuto morale o organizzando la vita economica secondo criteri morali, vi è sia l’imposizione di un’opinione morale ai cittadini sia il venire meno dell’imparzialità della legge, che non è più uno strumento neutrale che consente agli uomini di realizzare i propri fini ma diventa un tentativo di realizzare dei fini ritenuti buoni. Ma poiché i valori morali degli uomini sono diversi, e poiché non vi è modo di identificare in maniera certa dei valori morali, dei contenuti della morale, che siano condivisibili da tutti, uno stato morale e delle leggi morali non sono altro che l’imposizione della morale di alcuni a tutta la società, e la soppressione dei valori morali che non sono corrispondenti a quelli scelti dallo stato, ossia dalle persone che compiono le scelte in nome dello stato. Ecco che allora lo stato non deve essere morale, ma deve essere “giusto”, dove giusto nel linguaggio hayekiano significa imparziale, non fautore di un contenuto morale, qualunque esso sia. Le sole regole giuste in questa accezione sono quelle che consentono agli individui di vivere secondo i propri valori e consentono loro di perseguire i propri fini, senza avere né privilegi né danni da una norma. Ora questa visione della morale e della giustizia, che si trova, seppur in misura diversa, sia in Mises sia in Hayek, e a cui è anche strettamente legata la riflessione sull’origine del totalitarismo, non è solo una sorta di ribaltamento rispetto alla concezione tipica dei filosofi analizzati nel primo capitolo, ma sembra essere anche incompatibile con la posizione popperiana dell’utilitarismo negativo e dell’ingegneria sociale gradualistica, che ha come proprio sfondo la realizzazione di valori etici. Qui peraltro viene al dunque il nodo del relativismo del pensiero liberale. Si è visto come soprattutto Mises ritenga che non si debbano esprimere giudizi sui fini ultimi degli uomini, o meglio ritenga che la

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scienza non lo debba fare, poiché essa deve solo valutare se quei fini possono essere raggiunti e a quali costi. È una posizione che autori come Strauss avrebbero dal loro punto di vista ritenuto relativistica, ed è forse difficile negare che vi sia un relativismo di fondo se guardiamo al problema da una prospettiva straussiana. La questione ha però una doppia sfaccettatura. Da un lato bisogna infatti chiedersi se abbia ancora senso definire relativistiche queste posizioni una volta che si sia compreso quale sia l’argomentazione di Hayek e Mises riguardo al problema della la giustizia, o se invece non sia più relativistica una società che affida ad alcuni uomini (non importa se una maggioranza o una leadership) la capacità di decidere per tutti, di volta in volta, cosa sia eticamente giusto, e lasci aperta la possibilità di ridefinire il “giusto” al cambiare delle maggioranze o delle leadership. Da un altro punto di vista poi, bisognerebbe “utilitaristicamente” chiedersi se nel momento in cui si vuole arrivare a condannare dei valori e dei fini come “malvagi”, sia meglio condannarli con riferimento ad altri valori “buoni” (come ad esempio pensava Strauss), che probabilmente lasceranno indifferente chi non li condivide, oppure con argomentazioni razionali che mostrano tutte le disastrose conseguenze del perseguimento di quei valori e di quei fini. Possiamo dialetticamente combattere dei valori in virtù di altri valori, ritenuti più “buoni” e magari “universali”, ma, a parte la risorsa ultima della violenza, che non è una strada praticabile per un filosofo politico, per ottenere il nostro scopo di far cambiare idea a chi ha valori diversi non bisognerebbe sottovalutare la “semplice” soluzione misesiana di usare l’analisi scientifica, che consente di far vedere le conseguenze dell’adesione ad alcuni valori, come il miglior modo per combattere valori “negativi” e far prevalere il valore della libertà. In conclusione quella di Mises e Hayek è anche una riflessione sulla giustizia, sull’etica e sui valori, ma in una prospettiva completamente innovativa, che ritiene un grave rischio l’idea che lo stato debba realizzare dei valori etici, qualunque essi siano, per tutta la comunità, anche perché una volta che si accetta di attribuire allo stato questo compito non possiamo mai essere sicuri di quali saranno i valori che i politici ci convinceranno di dover realizzare, e non sapremo mai quali saranno le conseguenze indesiderate di un tentativo che in sé stesso potrebbe anche essere condivisibile. Seguendo questo filo interpretativo si potrebbe anche sostenere che il modello di società fondata su valori etici abbia in parte trovato una sua realizzazione nella società del welfare state, un modello di “so-

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cietà buona” che si affermerà a partire dagli anni del dopoguerra. Di un tale modello, basato appunto su fondamenti etici, i liberali classici avevano presentato una critica con gli scritti che abbiamo analizzato, proponendo non una “visione” (per usare il linguaggio di Wolin) della società buona, ma la visione di una buona società, ossia di una società che non esprime dei valori etici ma che è buona perché consente a ognuno di perseguire ciò che ritiene giusto, in un quadro di regole formali che salvaguardino un uguale diritto degli altri. Come si è visto questa idea viene elaborata anche a partire dalla critica del totalitarismo, ma la grande domanda è quella se si debba o meno rivolgere una parte di quelle stesse critiche anche al modello democratico.

Capitolo Quarto LIBERALISMO E DEMOCRAZIA

Analizzando le vicende della teoria liberale a partire dalla fine dell’Ottocento si può avere talvolta la sensazione che essa proceda quasi ad un’osmosi con la teoria democratica, accettando il principio della legittimità del potere autorizzato dal popolo come il cardine del giusto ordine politico. E infatti sono stati molti i pensatori che hanno richiamato la continuità tra le due tradizioni di pensiero e che hanno visto il liberalismo non solo come uno dei fondamenti della democrazia, ma anche come una sua logica prosecuzione1. Se però l’unione tra liberalismo e democrazia sembra aver funzionato e aver prodotto, e continuare ancor oggi a produrre, dei discreti risultati in termini pratici, questo non può indurre ad assimilare due tradizioni di pensiero che sul piano teorico sono molto diverse. Se in alcuni importanti casi la democrazia è storicaIn Italia una tale tesi è stata fatta propria da Norberto Bobbio, il quale in Liberalismo e democrazia (N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Franco Angeli, Milano 1991) non solo ha sostenuto che le due tradizioni sono conciliabili, ma che per molti aspetti la democrazia è la “naturale prosecuzione” del liberalismo. Egli però indica tale prosecuzione solo se si intende la democrazia «nel suo significato giuridico-istituzionale e non in quello etico», e dunque «in un significato più procedurale che sostanziale» (p. 26). La compatibilità si ha insomma quando si intende la democrazia come formula politica (ossia come idea della sovranità popolare), ma non quando si guarda all’ideale ugualitario che essa propone. L’idea di Bobbio è comunque che «lo sviluppo della democrazia è diventato il principale strumento per la difesa dei diritti di libertà» (p. 31), e dunque le due tradizioni, che hanno un punto di partenza comune nell’individuo, in ultima analisi si intrecciano naturalmente. Più problematica la posizione di un altro maestro degli studi politologici in Italia, Giovanni Sartori, per il quale nonostante a partire dalla metà del XIX secolo l’ideale democratico e quello liberale si siano “fusi” e “confusi”, rimangono tra i due alcune differenze sostanziali, cfr. G. SARTORI, Democrazia. Cos’è. Rizzoli, Milano 1993, p. 203 e ss. e soprattutto G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited. I. The Contemporary Debate, II, The Classic Issues, Chathman House Publisher, Chathman (N.J.) 1987, in particolare vol. II, capitolo 13, nel quale mostra la sua netta preferenza per la democrazia liberale. 1

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mente stata l’immissione del demos nello stato liberale, bisogna anche riconoscere delle importanti differenze teoriche; se infatti il liberalismo è una teoria della limitazione del potere, la democrazia è una teoria della legittimazione del potere, e non si tratta di una differenza da poco, ma di una diversa visione, carica di conseguenze, di quale sia il problema politico fondamentale e su quale possa essere il ruolo dello stato. Limitazione e legittimazione del potere naturalmente sono tutt’altro che incompatibili, ma, sia a livello pratico sia teorico, con il trionfo della democrazia le cose per il liberalismo si semplificano e si complicano al contempo. Si semplificano perché, almeno in teoria, le persone nei confronti delle quali si esercita il potere (i cittadini) sono anche coloro che controllano il potere, che hanno la possibilità di cambiare chi lo amministra, e il ricambio di uomini e di partiti, di minoranze che diventano maggioranze, gioca solitamente a favore del governo limitato. Ma le cose per un altro verso si complicano, perché è possibile che un potere che dispone di una legittimazione così forte tenda sempre più ad espandersi e a ritenersi legittimato a fare qualunque cosa, purché autorizzato da una maggioranza di cittadini. La qual cosa rischia di far dimenticare quale sia la ragione e l’importanza della limitazione del potere, qualunque ne sia la legittimazione. In sostanza, per quanto possa anche apparire paradossale, la limitazione di un potere sovrano con una legittimazione “esterna”, ossia di provenienza diversa rispetto ai soggetti sui quali il suo potere si applica, è un percorso concettualmente (anche se non empiricamente) più semplice e lineare rispetto alla limitazione di un sovrano che attinge dall’oggetto della sua sovranità la sua legittimazione. Rivendicare la necessità di limitare il potere di un monarca assoluto è qualcosa di concettualmente molto diverso dal rivendicare la necessità di limitare un popolo che governa sé stesso. Ed è un problema così diverso dal precedente da porre l’interrogativo se basti, per limitare questo potere democratico, una semplice “rimodulazione” degli strumenti del costituzionalismo e della divisione dei poteri, in una realtà in cui legislativo ed esecutivo non soltanto hanno la stessa fonte di legittimità, ma sono uno espressione dell’altro. Nelle “vecchie” monarchie il potere legislativo dei parlamenti, espressione della società (o di una parte di essa), limitava e condizionava il potere esecutivo del sovrano, espressione della “volontà divina” e della tradizione, mentre nelle democrazie l’esecutivo è espressione del parlamento, o quando non lo è direttamente è comunque anch’esso espressione del voto popolare. Rimane il principio

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dell’indipendenza del potere giudiziario, anche se è lecito domandarsi se l’autonomia nell’applicazione della legge sia un criterio ancora sufficiente in un sistema in cui il diritto è interamente, e mutevolmente, prodotto solo con il processo legislativo. Si tratta dunque di cambiamenti anche concettuali di notevole portata, che pongono il problema della possibilità di ritenere ancora utile e applicabile il principio della divisione dei poteri nelle democrazie contemporanee. La teoria liberale dovette fare i conti, faticosamente, con questi cambiamenti, stretta tra l’avanzamento di un sistema politico che finalmente riconosceva al popolo nella sua interezza il diritto di scegliere i propri governanti e i propri organi legislativi, e la preoccupazione per l’agire di parlamenti e governi che, sentendosi espressione della volontà popolare, non accettano di buon grado una limitazione di ciò che il popolo può fare nel governare sé stesso. Intorno a questi problemi ruoteranno molte delle riflessioni degli esponenti del Classical liberalism, i quali spesso non esiteranno a mettere in luce i limiti e i “rischi” della teoria democratica, nonché le sue reali differenze rispetto alla teoria liberale. Riflessioni che rappresentano un passaggio chiave per il ripensamento e la rinascita del liberalismo classico nel secondo dopoguerra, anche perché attraverso il nodo del rapporto con la teoria democratica passa il problema di cosa sia la libertà, di come essa debba essere definita e in fondo di quanto sia compatibile con una concezione liberale della libertà. Ed è proprio dalla definizione di cosa sia la libertà per i liberali che bisogna partire, per procedere poi all’analisi delle possibili diverse varianti della democrazia e da lì arrivare all’analisi del rapporto necessario, ma al contempo conflittuale, tra democrazia e liberalismo, come visto da alcuni importanti pensatori liberali.

1. L’idea di libertà Anche per i dibattiti suscitati, un’importante distinzione dalla quale è necessario partire è quella tra libertà negativa e libertà positiva (ri)proposta da Berlin nel 19582. Nell’enuclearla egli marca la differenza tra la tradizione liberale e la tradizione democratica, e leggendone le I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit.. A questa distinzione si è già accennato nel primo capitolo, per la critica rivoltale da Strauss. Una interessante analisi del concetto di libertà, e del diritto degli individui alla libertà, è I. CARTER, Libertà uguale, Feltrinelli, Milano 2005. 2

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considerazioni come un’analisi delle diverse interpretazioni del termine libertà otteniamo un utile criterio di distinzione tra le due tradizioni, le quali, basandosi su valori e obiettivi diversi, hanno conseguentemente anche attribuito significati diversi a quella parola3. Berlin definisce la libertà negativa come “libertà da”, ossia come il non subire interferenza da parte di altre persone nei confronti del proprio agire. Si tratta dunque di una libertà intesa come “non coercizione”, giacché «la coercizione implica una deliberata interferenza di altri esseri umani all’interno dell’area in cui potrei altrimenti agire. Si può parlare di mancanza di libertà politica soltanto se qualcuno ci impedisce di raggiungere un obiettivo»4. Si tratta in tal senso di individuare un’area nella quale gli altri non hanno il diritto di interferire con il nostro agire, un’area della “vita privata” distinta dalla sfera dell’“autorità pubblica” e da essa inviolabile. La delimitazione di un tale confine è un problema che rimane aperto, e in realtà Berlin non ha dato particolari suggerimenti su come risolvere una questione che ha come principale difficoltà il fatto che le azioni umane sono quasi sempre interdipendenti, e dunque ogni azione ha ricadute sociali. Quello che però egli ha fatto è stato enucleare con precisione un punto di vista sulla libertà che ha caratterizzato la tradizione liberale, e che consente di distinguere questa tradizione da quella democratica. La tradizione democratica, infatti, è caratterizzata da un’altra concezione della libertà, che si sviluppa in direzione diversa e talvolta opposta alla concezione della libertà negativa. La libertà democratica è una libertà positiva, una libertà che risponde alla domanda «“Da chi sono governato?” o “Chi deve dire che cosa devo e che cosa non devo essere o fare?”»5. In tal senso la concezione di libertà positiva è la concezione dell’autogoverno: sono libero quando partecipo alla scelta dei governanti e quindi quando partecipo, sia pure indirettamente, al processo di creazione delle leggi a cui anch’io sarò sottoposto. La libertà positiva è autodeterminazione, o autonomia nel senso etimologico del Berlin parla di due concetti di libertà, ma a questo proposito M. BARBERIS, Libertà, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 118 e ss., ha opportunamente messo in luce come ciò che egli ci propone sia in realtà non una distinzione tra due concetti di libertà, bensì tra due concezioni della libertà. Se infatti leggiamo il suo scritto con l’intenzione di individuare effettivamente due diversi concetti del termine libertà, dobbiamo constatare che esso non riesce a dimostrare l’esistenza di due diversi concetti, e che, lette in questa prospettiva, le sue considerazioni appaiono per tanti aspetti superate. 4 I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 12). 5 I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 23). 3

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termine (dare leggi a sé stessi). È dunque una concezione che si concentra più sull’origine che sul contenuto della libertà stessa, ed è una riproposizione in veste moderna di ciò che Constant aveva chiamato la “libertà degli antichi”6. La diversità tra le due concezioni è dunque molto marcata, e Berlin la riassume in questo passaggio: [...] non vi è nessuna connessione necessaria fra libertà individuale e principio democratico. La risposta alla domanda “Chi mi governa?” è logicamente distinta dalla risposta alla domanda “Fino a che punto il governo interferisce con me?”. È in questa differenza che consiste, in ultima analisi, il grande contrasto tra due concetti di libertà negativa e libertà positiva. [...] Il nesso tra libertà individuale e democrazia è molto più labile di quanto sia apparso a molti difensori di entrambe. Il desiderio di essere governato da me stesso, o comunque di partecipare al processo con cui la mia vita dev’essere controllata, può essere altrettanto profondo di quello di disporre di uno spazio libero di azione e forse è storicamente anteriore. Ma l’oggetto dei due desideri non è lo stesso. Anzi, la differenza è tale che ha portato in ultima analisi al grande conflitto di ideologie che domina il nostro tempo. Perché è questo - la concezione “positiva” della libertà: non libertà “da” ma libertà “di”, di vivere un’unica forma prescritta di vita - che i seguaci della concezione “negativa” dipingono a volte come niente di più di uno specioso travestimento della brutale tirannide.7

Proprio in questo conflitto tra valori, considerato insanabile perché non si possono trovare criteri di decisione che soddisfino tutti i valori, risiede per Berlin il fondamento della libertà individuale. Tale libertà consiste appunto nella possibilità di scelta e di ricerca della propria felicità conformemente a ciò che soggettivamente si ritiene essere il bene. È proprio dal pluralismo dei valori dunque che discende il valore della libertà, la quale si pone come l’unica possibilità di convivenza del pluralismo stesso. Berlin dunque esprime delle riserve sul fatto che la democrazia debba essere considerata necessariamente una teoria capace di salvaguardare la libertà individuale. Se una coercizione è autorizzata dal poCome noto la trattazione di Berlin deve molto alla classica distinzione di Constant tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, B. CONSTANT, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, 1819 (trad. it. La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Introduzione di G. Paoletti e con un Profilo del liberalismo di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 2001). Importanti considerazioni non solo su Berlin e Constant ma anche sull’evoluzione delle diverse anime del liberalismo si trovano in P.P. PORTINARO Profilo del liberalismo, in B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2001. 7 I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 23-24). 6

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polo, e quindi legittimata democraticamente, non cambia il fatto che di coercizione si tratta. Il pregio dell’analisi di Berlin allora non consiste prevalentemente nell’averci dato un criterio per distinguere due diversi concetti di libertà, tanto più che negli anni successivi la sua elaborazione dei due concetti verrà efficacemente criticata sia dai fautori della libertà negativa che da quelli della libertà positiva8, ma consiste nell’aver indicato un criterio di distinzione per due tradizioni che, dal punto di vista teorico, appaiono assai diverse. Ribadendo la sua distinzione tra i due concetti di libertà, infatti egli scrive: «non si tratta di due interpretazioni diverse di un unico concetto, ma di due atteggiamenti profondamente divergenti e inconciliabili nei confronti dei fini della vita. E questo va comunque riconosciuto, anche se in pratica è spesso necessario trovare un compromesso tra i due, perché entrambi avanzano pretese assolute, che non possono entrambe essere soddisfatte completamente»9. Quella tracciata da Berlin è una distinzione preziosa, ma tutto sommato solo introduttiva a quello che è senza dubbio uno dei temi principali della riflessione politica contemporanea, ed è forse possibile sostenere che non vi sia alcun importante pensatore liberale che non si sia soffermato sull’argomento. Guardando agli esponenti del liberalismo classico una posizione interessante, non solo per la sua radicalità, e nonostante sia formulata in un’analisi che per alcuni versi può sembrare semplicistica, è indubbiamente quella di Mises. Egli, già nel 1922, sostenne con particolare vigore l’idea che la libertà possa essere compresa solo in termini di relazioni con gli altri, definendola come un “concetto sociologico”, poiché essa non si può applicare fuori dal contesto sociale, e non esiste prima della nascita stessa della società10. La riflessione di Mises parte dal dato che gli uomini nella loro vita dipendono da alcune “condizioni naturali” e che la volontà e le azioni degli individui sono concepibili solo all’interno dei limiti fissati da tali leggi di natura. Rispetto a questi limiti non ha senso parlare di libertà, poiché essi sono dati oggettivi che non possono cambiare e ai quali gli uomini devono sottomettersi. Anche all’interno della vita associata vigono alcune “leggi di natura”, ed è anche rispetto ad esse che la libertà va compresa. Su tutti si vedano M.N. ROTHBARD, The Ethics of Liberty, Humanities Press, Atlantic Highlands (N.J.) 1982 (trad. it. L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata 1996) e C.B. MACPHERSON, Democratic Theory. Essays in Retrieval, Clarendon Press, Oxford 1973. 9 I. BERLIN Two Concepts of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 70). 10 Si veda il nono capitolo di L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 218 e ss.). 8

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Per Mises il dato caratterizzante della società capitalistica è che gli uomini vivono nella società in una dipendenza reciproca, in cui le azioni di ognuno influenzano quelle degli altri, e adattarsi (entro certi termini) alla volontà altrui è una necessità, così come per gli altri è una necessità adattarsi alla nostra volontà. Nella società capitalistica, basata sulla cooperazione, la dipendenza tra gli individui non è mai unilaterale, e «nessuno dipende dagli altri più di quanto gli altri dipendono da lui»11. Da qui si arriva alla definizione della libertà12, la quale «è l’adattamento dell’individuo alle necessità della vita sociale, cosa questa che implica, da una parte, la limitazione della libertà dell’individuo nei confronti degli altri, e, dall’altra, la limitazione della libertà degli altri nei confronti dell’individuo»13. Il doversi adattare alla volontà degli altri, o meglio alle necessità della vita sociale, è dunque visto come una “legge di natura”, una necessità oggettiva che, in quanto tale, non nega la libertà degli individui, poiché questo avviene in un rapporto di reciprocità, in cui anche gli altri si devono adattare alla vita sociale e dunque, entro una certa misura, alla nostra volontà. Un elemento di grande rilievo è che nella società capitalistica è possibile stimare il “giusto valore delle azioni” tramite il calcolo monetario, ed è proprio la possibilità di legare l’azione al profitto che pone un limite all’azione arbitraria. Quel legame infatti sancisce la dipendenza dalla cooperazione sociale di tutti gli appartenenti alla società, dei datori di lavoro come dei lavoratori, dei produttori come dei consumatori, sancisce cioè l’esistenza di un sistema in cui la dipendenza è reciproca. In una società capitalista tutti sono impegnati a “produrre per i bisogni altrui”, e così datore di lavoro e lavoratore sono entrambi inseriti nel quadro della vita sociale e soggetti alle sue regole, in un rapporto di dipendenza reciproca che non consente azioni arbitrarie, se non in violazione di quel rapporto di mutua dipendenza. La libertà consiste dunque nel fatto che l’uomo è «indipendente dal potere arbitrario dei suoi simili»14, e una tale libertà è il risultato dello sviluppo sociale realizzatosi con il capitalismo. Una tale libertà non poteva esistere nelle società precapitalistiche, nelle quali gli individui dovevano conquistarsi il favore personale del sovrano, del detentore Ivi, (trad. it. cit. p. 226). Importante è anche ricordare che per Mises la libertà è sempre “libertà esteriore”, poiché quella interiore non può a suo giudizio rientrare nei limiti di uno studio scientifico. 13 Ivi, (trad. it. cit. p. 226). 14 Ivi, (trad. it. cit. p. 228). 11 12

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del potere politico. Nella società capitalistica invece non si riconosce un tale rapporto personale con il sovrano, e le relazioni tra gli uomini, grazie al calcolo monetario, diventano “concrete e impersonali, calcolabili e fungibili”. Solo dopo averla conquistata nei rapporti economici gli uomini cominciano a “desiderare” la libertà nelle altre sfere della vita, e si battono contro ogni comportamento arbitrario dello stato e dei suoi funzionari. Il movimento liberale guida questa lotta contro il potere arbitrario dello stato e in generale per una riduzione del potere dello stato sugli individui. Così per i liberali la libertà diventa “libertà dallo stato”, e il movimento liberale diventa consapevole che lo stato non è pericoloso (o almeno è meno pericoloso) solo se obbedisce a norme “chiare, inequivoche e universali”, che permettono all’individuo di calcolare le conseguenze delle sue azioni, perché sa come esse verranno interpretate dai funzionari. In conclusione, scrive Mises, «perché un uomo possa essere libero non è sufficiente che egli possa fare tutto quello che non nuoce agli altri senza esserne impedito dal governo o dalla forza repressiva dei costumi. Egli deve anche essere in condizione di agire senza il timore di conseguenze sociali impreviste. Solo il capitalismo garantisce questa libertà, riportando tutte le relazioni reciproche al freddo principio impersonale di scambio: do ut des»15. All’opposto di questa sua concezione delle libertà Mises colloca l’idea socialista, in base alla quale il proletariato non sarebbe libero poiché deve lavorare per guadagnarsi da vivere. Questa è una tesi “grossolana” e sbagliata, perché il dover lavorare non è altro che una regola sociale, una scelta dettata dalla natura delle cose, è cioè una di quelle leggi naturali che vanno solo constatate e che non rappresentano una limitazione della libertà. Essa rappresenta inoltre una scelta degli individui, che preferiscono lavorare al fine di soddisfare più bisogni “di quanto non facciano animali vaganti per i campi”, e il fatto che altri individui privilegiati, i proprietari, non abbiano bisogno di lavorare e possano vivere senza doversi conformare a quella regola «è un vantaggio derivato dall’esistenza della società, che non nuoce a nessuno – nemmeno ai non possidenti»16. L’unico modo per diminuire la dipendenza degli uomini dalle “condizioni naturali” è quello di aumentare la produttività del lavoro, ma poiché il socialismo produce il risultato opposto esso non farà 15 16

Ivi, (trad. it. cit. p. 229). Ibidem.

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altro che rendere l’individuo meno “libero”. Quest’ultima riflessione sul socialismo riporta ad un aspetto del pensiero di Mises accennato in precedenza, e che qui potremmo sintetizzare nella considerazione che egli non sembra mai essere preoccupato del problema della diseguaglianza sociale, e che anzi vede proprio nell’esistenza di diseguaglianze il motore dello sviluppo e del cambiamento17 e dunque di miglioramento per tutti gli individui. In realtà questo aspetto si configura come un punto debole della sua riflessione, per il semplice fatto che anche il benessere è un concetto relativo, che viene percepito in relazione alla situazione degli altri. I miglioramenti in termini assoluti, garantiti dal capitalismo, possono dunque essere facilmente percepiti come insufficienti da chi vede un miglioramento molto superiore per altri membri della società, e anche il fatto che non sempre si hanno tutti i miglioramenti desiderati, o almeno non nei tempi previsti o voluti, si presta al facile successo di una propaganda denigratoria nei confronti del capitalismo. Dimenticando così anche l’ammonimento di Mises per il quale il progresso è sempre conseguenza di un processo delicato e basato sul rispetto della libertà individuale. Mises dunque, da un lato ricorda opportunamente come l’economia non sia un gioco a somma zero, e come la crescita di un attore economico non avvenga a discapito degli altri, ma anzi favorisca la crescita complessiva, ma da un altro punto di vista egli non si rende bene conto delle conseguenze di qualcosa che pure intuisce, ossia del fatto che se gli altri crescono (più o meno meritatamente) più di me io soffro, mi ribello, e questo nonostante la crescita degli altri giovi anche a me e alla società nel suo complesso. Questo fatto non solo rappresenta uno degli eterni dilemmi del capitalismo, ma è anche una delle principali giustificazioni della democrazia, la quale è (anche) il Mises riassume con grande chiarezza il suo pensiero in una lettera (inedita) mandata il 24 febbraio del 1955 a John van Sickle, nella quale scrive: «Inequality of wealth and income is an essential feature of the market economy. It makes the consumers supreme in giving them the power to force all those engaged in production to fill the wishes of the consumers in the best possible and cheapest way. It shifts control of the material factors of production into the hands of those who know how to employ them to the best advantage of the consumers. It makes competition work. It is progressive in the best sense of the term and benefits all strata of the population». E a conclusione della lettera aggiunge: «all declarations in favour of free enterprise, private initiative, democracy and so on, are vain if one does not openly endorse the principle of wealth and income inequality». La lettera è conservata nell’archivio della Foundation for Economic Education di Irvington, New York. 17

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tentativo, non semplice, di avere una crescita che sia equa. Le democrazie hanno trovato una risposta con lo stato sociale, ma la potenziale contraddittorietà con l’idea di Mises, per la quale la diseguaglianza non solo è necessaria alla crescita ma è anche un fatto naturale da accettare come tale, è qualcosa su cui i liberali devono riflettere. E forse proprio partendo da questo aspetto si può vedere in che termini per Mises si pone il “problema” della democrazia, un problema teorico di cui egli vede chiaramente l’importanza, anche se non sa sempre affrontarlo in tutta la sua profondità. Nella sua definizione di cosa sia la libertà Mises ha chiaramente prospettato un’idea liberale, forse per alcuni aspetti un po’ ingenua, di società capace di autoregolamentarsi e nella quale i processi democratici non sembrano destinati ad avere un ruolo di grande rilievo. Nella società liberale come concepita da Mises sostanzialmente non esistono prevaricazioni ma soltanto relazioni di dipendenza reciproca, tra individui liberi, che trovano un loro equilibrio. Le stesse diseguaglianze sono il risultato di un processo di cooperazione sociale in cui non esiste l’arbitrio, e vanno dunque considerate alla stregua di fatti, che vanno accettati come tali e non giudicati negativamente o positivamente. Teorie quali il socialismo, che vedono negli equilibri della società capitalistica basata sulla cooperazione sociale l’esistenza di ingiustizie o la negazione della libertà, sono per Mises teorie erronee, non scientifiche, perché non tengono conto delle leggi naturali che sono alla base della società. Il problema è qui capire come classificare la teoria democratica alla luce delle idee di Mises. È infatti innegabile che se il liberalismo pone come unico principio l’uguaglianza davanti alla legge, escludendo la possibilità che possa esistere ogni altra forma di uguaglianza, la democrazia ha invece tra i propri obiettivi non solo la realizzazione dell’uguaglianza politica, ma anche di un certo grado di uguaglianza sociale, garantendo uguali condizioni di partenza, uguali opportunità ecc.. La domanda allora è quanto una tale teoria politica sia compatibile con il principio di cooperazione sociale, e dunque con la libertà, come intese da Mises, e più in generale come alla luce delle sue riflessioni vada considerato il rapporto tra liberalismo e democrazia. Per alcuni versi Mises considera la democrazia come un qualcosa di estremamente limitato, che riguarda solo l’ambito dell’assetto istituzionale e organizzativo dello stato, e gli contrappone il liberalismo inteso invece come «un’ideologia che abbraccia la vita sociale nel suo

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insieme»18. La democrazia consente di cambiare i governi senza il ricorso alla violenza, e questo la rende uno strumento di grande importanza, ma senza il liberalismo essa è “un guscio vuoto”19. I problemi sorgono nel momento in cui si ritiene che la sovranità democratica sia il dominio illimitato della volontà generale, e il legislatore si sente libero da qualsiasi limitazione, ritenendo che tutta la legge dipenda dalla sua volontà e ponendosi al di sopra di quelle che Mises aveva definito le “condizioni naturali” della vita sociale. A questo proposito Mises ribadisce in tutte le sue opere che il regime democratico di per sé non garantisce affatto una migliore soluzione dei problemi, che «la democrazia non è divina», che «le maggioranze non sono meno esposte all’errore e all’insuccesso più di quanto non lo siano re e dittatori», e che il fatto che la maggioranza ritenga vero qualcosa «non prova la sua verità»20. La democrazia si basa infatti sull’assunto che le masse siano buone e ragionevoli, ma essa di per sé non può certo impedire che le maggioranze siano vittime di idee sbagliate21, tanto più che se la si definisce governo dei migliori si deve anche ammettere che i “migliori” in democrazia sono coloro che riescono a convincere i propri concittadini di essere degni di ricoprire l’incarico, ma non necessariamente alla capacità di convincere corrispondono le qualità per governare22. Alla luce di queste critiche Mises mostra nei confronti della democrazia nel suo complesso un atteggiamento ambivalente. Da un lato ribadisce quella che a suo avviso è la superiorità dell’ordine di mercato, più “democratico” della stessa democrazia 23. Una delle più note idee di Mises, già illustrata in precedenza, è infatti che in un ordine basato sulla proprietà privata la produzione deve piegarsi alla voL. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 271). L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 99 e ss.). 20 L. VON MISES Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 71). Assai interessante è anche una considerazione svolta nell’altra opera del 1944, Bureaucracy, nella quale Mises scrive: «la democrazia rappresentativa non può seguitare a vivere se una grande parte degli elettori continuano a figurare sul libro paga dello stato. Se i membri del parlamento non si considerano più mandatari dei contribuenti ma rappresentanti di coloro che ricevono salari, stipendi, sussidi e altri benefici del Tesoro, la democrazia è spacciata», L. VON MISES, Bureaucracy, op. cit. (trad. it. cit. pp. 104-105). 21 Cfr. L. VON MISES Human Action, op. cit., (trad. it. cit. p. 186). 22 Cfr. L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 79). 23 Questa convinzione, pur con diverse sfumature, è espressa in quasi tutte le opere di Mises, si veda in particolare L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. pp. 31 e ss.), Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. pp. 76) e ss. e L. VON MISES The Anticapitalist Mentality, op. cit. (trad. it. cit. pp. 24 e ss. 18 19

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lontà del consumatore, il quale è il vero “sovrano”. In una società di mercato ognuno serve i propri concittadini, ed è al contempo servito da essi. In particolare i produttori, ossia i capitalisti tanto denigrati dal socialismo, sono al servizio dei consumatori, poiché solo soddisfacendo le loro esigenze possono produrre profitto e sopravvivere. Il mercato è insomma una democrazia dove ogni spicciolo è un voto e in cui i rappresentanti hanno un mandato perentorio e immediatamente revocabile; è una democrazia in cui a essere sovrani sono sempre i cittadini/consumatori. Da un altro punto di vista, però, Mises riconosce alla democrazia un ruolo essenziale. Se infatti ci dice che può succedere che la democrazia fallisca, ossia si avvii al declino non riconoscendo i migliori, egli sostiene anche, sia pure implicitamente, che non esiste alcuna forma politica alternativa alla democrazia che si possa proporre come una soluzione percorribile. Egli parte dal principio del liberalismo classico in base al quale lo stato ha per definizione una funzione coercitiva, poiché per garantire la pace deve essere pronto a reprimere chi la minaccia. Il liberalismo, che per Mises deve essere basato sui princìpi dell’etica e dell’economia utilitarista, sa che i governi rimangono tali e possono assolvere questa loro fondamentale funzione solo con il consenso della maggioranza. In questo senso la democrazia, ossia un governo che si regge sul consenso della maggioranza, è l’unico vero mezzo per prevenire le rivoluzioni e le guerre civili, e in questo senso si può sostenere che Mises la ritiene un principio irrinunciabile24. Alla luce di queste considerazioni, e nonostante si sia visto che Mises nella sua definizione di cosa sia la libertà delinei un modello politico nel quale la teoria democratica non trova spazio, bisogna anche ammettere che per certi versi egli arriva anche a riconciliare democrazia e liberalismo. Infatti egli individua in maniera chiara la grandezza e il limite della democrazia. L’importanza della democrazia ha origine nel dato che senza il consenso della maggioranza non solo non si può governare a lungo, ma non si può neanche avere una pace stabile, essenziale affinché la libertà umana si possa effettivamente realizzare. Il suo limite, o meglio la sua difficoltà, consiste nel fatto che non sempre le persone (e le masse) sono ragionevoli, ma al contrario sono spesso inclini a condividere idee “facili” ma non per questo scientificamente corrette. Le idee socialiste e interventiste sono “facili” in questo senso, poiché sembrano fornire una soluzione immediata e giusta a dei pro24

Su questi temi si veda L. VON MISES Human Action, op. cit., (trad. it. cit. pp. 145 e ss.).

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blemi reali e presenti, e per questo vengono sbrigativamente prese per buone da molte persone. In realtà quelle idee sono tanto potenti nella denuncia dei problemi, dei mali individuali o sociali, quanto insoddisfacenti nell’individuazione delle giuste soluzioni. Ecco che allora la democrazia è necessaria e pericolosa allo stesso tempo: è necessaria perché senza essa, senza il consenso della maggioranza, non c’è pace e dunque non c’è quella libertà che Mises utilitaristicamente ritiene essenziale alla felicità umana; è pericolosa perché è facile preda di analisi semplicistiche e, nella visione di Mises, scientificamente sbagliate, irrealizzabili oppure realizzabili con una tale quantità di conseguenze indesiderate da renderle non più gradite. Il liberalismo si trova così a dover affrontare la necessità e i rischi della democrazia, e lo deve fare tenendo a mente gli errori del passato, ossia accettando il fatto che non è per niente scontato, e anzi neanche probabile, che gli individui sappiano riconoscere le idee giuste, e che queste non si affermano per il semplice fatto di essere tali. Ma al contempo il liberalismo rivendica la necessità della democrazia, poiché senza essa è impossibile lo sviluppo pacifico della libertà, la quale ha bisogno della garanzia del potere coercitivo dello stato. Per Mises dunque il liberalismo “crede” nella democrazia perché crede che «l’unico fondamento del potere è la signoria sulle menti degli uomini e per giungere a tale signoria sono ammesse solo armi spirituali», e dunque «lotta per la democrazia persino in quei casi in cui esso, per un tempo più o meno lungo, può temere di raccogliere solo svantaggi dalla democrazia»25.

2. Democrazia classica, rappresentativa e totalitaria Un’altra fondamentale questione per poter affrontare il confronto tra democrazia e liberalismo è provare a capire quali siano i “margini” della teoria democratica, e prendere in esame i problemi che possono sorgere, da un punto di vista liberale, a seconda di quale tra le diverse definizioni, o diverse varianti, della teoria democratica si accetti. Una delle riflessioni più note su come la democrazia possa assumere significati diversi e anche contrastanti si trova nella celebre opera di Jacob L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy26. Talmon esordisce L. VON MISES, Die Gemeinwirtschaft… op. cit. (trad. it. cit. p. 107). J.L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, Secker & Warburg, London 1952 (trad. it. Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino, Bologna 1967). 25 26

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asserendo che «accanto alla democrazia di tipo liberale nel diciottesimo secolo sorse dalle stesse premesse una tendenza verso quella che noi definiremo democrazia di tipo totalitario», e che «secondo la prospettiva più ampia e valida della metà del ventesimo secolo, la storia degli ultimi centocinquant’anni sembra una preparazione sistematica per il grave conflitto tra democrazia empirica e democrazia liberale da una parte e democrazia totalitaria e messianica dall’altra, conflitto in cui consiste la crisi mondiale contemporanea»27. Talmon dunque individua due correnti del pensiero democratico: la prima, di “orientamento liberale”, riconosce un ruolo limitato per la politica, che è solo una delle sfere nelle quali gli individui e le collettività si esprimono; la seconda è la corrente del “pensiero democratico totalitario”, che ritiene esistere un’unica e assoluta “verità politica”, che deve essere riconosciuta e perseguita da tutti gli uomini e che sarà necessariamente totalizzante, poiché dovrà abbracciare “l’intera sfera dell’esistenza umana”. Naturalmente queste due diverse correnti fanno capo a due differenti concezioni della libertà: nel primo caso la libertà si sostanzia come “assenza di coercizione”, mentre per la democrazia totalitaria vi può essere vera libertà soltanto quando si consegue un “fine assoluto e collettivo”. Dalla concezione della democrazia totalitaria discende quello che Talmon chiama il paradosso della libertà. Tale paradosso consiste nel ritenere la libertà compatibile con un “unico modello di esistenza sociale”, cosa che presuppone l’esistenza di un fine immanente alla ragione e alla volontà umane, il cui raggiungimento porta anche alla garanzia della libertà. A causa di ciò le forme estreme di sovranità popolare sono divenute, nella loro essenza, la esatta realizzazione di questo fine assoluto. Dalla difficoltà di conciliare la libertà con l’idea di un fine assoluto nascono tutti i particolari problemi e le antinomie della democrazia totalitaria. Tale difficoltà si potrebbe risolvere soltanto pensando non nei termini degli uomini come sono di fatto, ma come essi intendevano essere, e sarebbero, nelle condizioni a loro adatte. Finché essi non realizzano l’accordo con tale ideale assoluto, essi possono essere ignorati, costretti all’obbedienza o portati ad essa dalla paura, senza che ciò comporti una reale violazione del principio democratico. Nelle condizioni che si vogliono raggiungere, si sostiene che il conflitto tra libertà e dovere svanirebbe, e con esso la necessità della coercizione. Il problema pratico consiste, naturalmente, nel vedere se la costrizione sparirebbe perché tutti hanno imparato ad agire in

27

Ivi, (trad. it. cit. p. 7).

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armonia, o perché tutti gli avversari sono stati eliminati.28

La concezione della democrazia totalitaria ha secondo Talmon, qui vicino alle idee di Hayek, un passaggio cruciale nel diciottesimo secolo, quando si affacciò l’idea che le consuetudini dovessero «essere completamente sostituite da ideali uniformi progettati deliberatamente», e «il razionalismo sostituì alla tradizione il principio dell’utilità sociale come criterio fondamentale su cui si basano le istituzioni e i valori sociali»29. A questo processo si affianca il declino della religione e della sua autorità, con la conseguente sostituzione di quella che era l’etica religiosa con una “moralità sociale e laica”, e trasforma lo stato nell’unica “fonte e garanzia di moralità”. In tal modo esso si andò progressivamente estendendo, senza più limitazioni, in tutti quegli aspetti della vita che prima erano propri di altre sfere, come appunto quella religiosa. «Ora doveva esserci un solo schema per tutte le attività: la nazione»30. Nella sua articolata analisi Talmon mostra come l’idea della democrazia totalitaria si sia snodata nel diciottesimo secolo, trovando prima in Rousseau e poi nei diversi momenti della Rivoluzione francese la sua espressione più compiuta, teoricamente più elevata e politicamente più pericolosa. Quella di Talmon è, probabilmente a ragione, una delle trattazioni più conosciute sui pericoli di una certa forma di democrazia, anche per il suo andare diretto e senza esitazioni al problema, definendola già nel titolo del libro come “democrazia totalitaria”. Egli vide chiaramente come la mentalità totalitaria potesse innestarsi sul meccanismo democratico e farlo proprio, o meglio usarlo per i propri fini, ma non fu l’unico a intravedere il rischio che il meccanismo democratico potesse essere asservito alla negazione della libertà individuale. In un’analisi assai diversa da quella di Talmon, Schumpeter, nel suo noto lavoro Capitalism, Socialism and Democracy31, sostenne la tesi in base alla quale la democrazia, che pure è nata dal capitalismo, non sia con esso compatibile, mentre potrebbe rivelarsi compatibile con il socialismo, il quale diverrebbe una sorta di evoluzione della stessa democrazia32. Non si vogliono qui ripercorrere quelle note tesi, ma si vuole Ivi, (trad. it. cit. pp. 9-10). Ivi, (trad. it. cit. p. 10). 30 Ivi, (trad. it. cit. p. 12). 31 J.A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, George Allen and Unwin, London 1950 [1942] (trad. it.: Capitalismo, socialismo e democrazia, ETAS, Milano 2001). 32 La seconda parte del libro, dal titolo Può il capitalismo sopravvivere? Inizia con una 28 29

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sostenere che nella quarta parte del suo lavoro, dal titolo Socialismo e democrazia, nonostante egli presenti solo due modelli della democrazia, ve ne sia in realtà un terzo, non enunciato esplicitamente ma che rispecchia bene i dubbi di un liberale di fronte al meccanismo democratico. Partendo dalla “demolizione” della dottrina classica Schumpeter si prefigge di elaborare una definizione esclusivamente procedurale ed empirica, in cui la democrazia venga descritta come un metodo di scelta (approvazione) dei detentori del potere, indifferente a qualunque valore. L’analisi è particolarmente interessante perché considerare la democrazia come un semplice meccanismo di votazione e di selezione dei governanti è in realtà una cartina di tornasole per vedere se quel meccanismo sia sufficiente a definire la democrazia, o se sia necessario tentare di fornirne una nuova e diversa definizione, cosa che egli fa, anche se non lo dice esplicitamente, analizzando il modello della democrazia liberale. Quella che Schumpeter chiama “concezione classica” della democrazia è trattata nei primi due capitoli della quarta parte di Capitalism, Socialism and Democracy, ed è di notevole rilevanza ai fini di questo lavoro perché sintetizza bene le preoccupazioni di un liberale davanti alla democrazia. La democrazia classica si basa sulla credenza che esista un “bene comune” in grado di “offrire risposte precise ad ogni domanda”, e che esso possa essere realizzato guardando a quella che è la volontà popolare. Ma se il carattere saliente della democrazia classica è la realizzazione “dell’anima popolare”, nel rispetto di date procedure, gli esiti che ne derivano possono tranquillamente essere diversissimi tra loro a seconda delle circostanze, e dunque possono anche essere lontanissimi non solo dagli ideali liberali, ma anche da quegli ideali che comunemente si è soliti attribuire alla democrazia – si pensi agli esempi proposti di esiti “democratici” come la caccia alle streghe, l’antisemitismo e la persecuzione dei cristiani. Ma anche senza spingersi sino alla “realizzazione dell’anima popolare”, e limitandosi alla concezione etimologica della democrazia domanda e una risposta secche: «può sopravvivere il capitalismo? No, non lo credo», e poco più avanti aggiunge che «il rendimento attuale e potenziale del sistema capitalistico […] mina alla base gli istituti sociali che lo proteggono e crea inevitabilmente condizioni in cui esso non potrà più vivere, e che ne indicano come erede apparente il socialismo», Ivi, (trad. it. cit. p. 59). Poi conclude quella seconda parte sostenendo di aver dimostrato che «fattori oggettivi e soggettivi, economici ed extraeconomici […] preparano non soltanto la distruzione del capitalismo, ma la nascita di una civiltà socialista. Tutti puntano in questa direzione. Il processo capitalistico non soltanto distrugge la propria impalcatura istituzionale, ma crea le condizioni del sorgere di un’altra. Distruzione non è forse il termine esatto: dovrei parlare di trasformazione» (trad. it. cit. p. 167).

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come “governo del popolo”, Schumpeter nota come tale definizione abbia «tanti significati quante sono le combinazioni fra tutte le definizioni possibili del concetto di popolo»33, e dunque come, qualunque sia la (auto)definizione di popolo, alcuni soggetti siano in ogni caso destinati a rimanere fuori da quella definizione e naturalmente dal processo democratico. Anche in questo caso le categorie tagliate fuori, pur nel rispetto delle procedure democratiche (si lascia che sia il popolo ad autodefinirsi), possono essere diversissime tra loro, e non è detto che l’esito sia “democratico”. A essere tenuti fuori dalla comunità politica possono essere gli stranieri, i minorenni, le donne, o anche gli appartenenti a una determinata fede religiosa, come nei casi di comunità politiche che appunto si autodefiniscono sulla base di un forte sentimento religioso. Esclusioni ancora oggi esistenti, o latenti, in maniera diversa e in diverse parti del mondo, e l’esclusione di queste categorie così diverse tra loro dalla comunità politica va naturalmente valutata in maniera diversa (basti ricordare come l’esclusione di un minore sia una situazione solo transitoria). Tuttavia rimane sempre in piedi il problema di fondo, ossia il diritto di una comunità ad autodefinirsi tale, e dunque il suo diritto di poter escludere chi non rientra in quella definizione. Emerge dunque come la stessa (auto)definizione di cosa sia il popolo, la stessa appartenenza al popolo, sia una questione “di opinione e di gradi”. Da questo problema in un certo senso “primordiale” della democrazia, emerge come il semplice criterio della maggioranza, e dunque della legittimità della scelta in ragione esclusivamente del criterio di titolarità (una scelta è legittima se è compiuta da chi è titolato a compierla, e in democrazia è il popolo) possa creare a un liberale non poche perplessità. Infatti anche in questo caso si possono avere, pur nel perfetto rispetto formale della democrazia come volontà popolare, esiti totalmente contrastanti non solo con la libertà individuale, ma anche con quelli che di solito si ritengono i valori della democrazia. Tuttavia, se si riconosce l’esistenza di valori superiori che non possono essere “intaccati” dal meccanismo democratico, e dunque se si decide di preferire a una scelta a maggioranza che li nega un regime non democratico che li garantisce, allora bisogna anche accettare come legittima, ad esempio, l’idea di un socialista che ritenendo il capitalismo un male da abbattere ad ogni costo è disposto ad accettare metodi non democratici pur di eliminarlo. Insomma, se si accetta la democrazia come un metodo 33

Ivi, (trad. it. cit. p. 253).

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utile per salvaguardare quei valori di libertà che si ritengono ad essa connessi, non si sa come comportarsi nel momento in cui quel metodo non si rivela utile ma dannoso, e lasciare il campo a metodi alternativi, non democratici, per salvaguardare quei valori, apre la strada a chi con valori opposti ai nostri si sentirà ugualmente legittimato a non accettare l’esito della votazione democratica. Schumpeter mostra dunque come il rapporto tra democrazia e libertà sia decisamente più complesso di quanto solitamente, e superficialmente, si ritiene. Egli riesce bene a esprimere i dubbi che un liberale può avere davanti ad un regime democratico: se la democrazia è una teoria della legittimazione del potere, e se essa arriva alla conclusione che qualunque potere e qualunque scelta sono legittimi se provenienti dal popolo, perché un tale regime dovrebbe essere necessariamente conciliabile con il liberalismo, che invece è una teoria della limitazione del potere? Il problema in definitiva è che Schumpeter è convinto, come tutti i liberali, che il bene comune non esista, o meglio che non esista un bene comune unico per l’intera comunità, ma che diversi gruppi e diversi individui abbiano una idea diversa di cosa sia il bene comune. Bisogna però anche rilevare che la riflessione “liberale” di Schumpeter è in realtà incompiuta, e questo almeno per due motivi. Il primo è che la tradizione liberale è convinta che un bene comune esista, ma che esso non sia un bene comune “sostantivo”. Per i liberali l’unico bene comune, e non è poco, è rappresentato dalle regole, ossia da norme tali da consentire a ognuno di ricercare il proprio bene, e non tali da ipotizzare l’esistenza di un unico bene da ricercare collettivamente. Schumpeter nega l’esistenza di un unico bene comune sostantivo, e vede le diverse concezioni individuali di bene, ma non si rende conto che da una tale considerazione deve inevitabilmente derivare una diversa visione delle norme che regolano la società e del compito di tali norme, le quali devono essere neutrali rispetto ai fini e comprensibili con riferimento all’idea di giustizia di Hayek che è stata affrontata nel capitolo precedente. Da questo mancato passaggio, dal non derivare dalla diversità umana una diversa concezione del diritto e dell’organizzazione della società, discende anche, e si tratta del secondo elemento dell’incompiuto liberalismo di Schumpeter, il suo ritenere possibile il socialismo. In questo senso l’opera di Schumpeter è l’esatto ribaltamento delle idee di Mises, poiché egli ritiene non solo possibile la realizzazione del socialismo, ma lo ritiene anche un sistema economico potenzialmente più razionale ed efficiente del capitalismo.

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Tuttavia, nonostante queste diversità rispetto alla tradizione del liberalismo classico, Schumpeter con la sua “estremizzazione” della teoria democratica riesce bene a far vedere quali sono i suoi limiti da un punto di vista liberale. Il problema è infatti quello di capire se il tipo di democrazia “pura” che presenta Schumpeter, e che non contiene i limiti che invece impone la dottrina liberale, sia veramente rappresentativo della teoria democratica o se invece non sia possibile proporre una visione della democrazia con caratteristiche diverse. È difficile negare che in questa prima parte della sua riflessione egli fornisca una rappresentazione unilaterale, a tratti quasi caricaturale, della “dottrina classica della democrazia”, dominata dalla volontà generale come concepita da Rousseau e dal bene comune come concepito da Bentham34. Bisogna tuttavia ammettere che Schumpeter presenta, se pure in maniera estremizzata, il risultato di quella che a lungo era stata l’idea della democrazia. La teoria democratica era stata originariamente elaborata nel mondo antico (dove non aveva sempre goduto di buona fama), e poi per interi secoli se ne erano quasi perse le tracce. E la ripresa e riproposizione di quella antica tradizione, che avviene convintamente per la prima volta solo con Rousseau, non sorge sotto i migliori auspici poiché nel pensiero del grande ginevrino c’è il tentativo utopico, disperato ed irrealizzabile, di riproporre i caratteri salienti della democrazia degli antichi, per usare la nota espressione di Constant. Ma quel tentativo, applicato in un mondo ormai completamente diverso, e che aveva “assaporato” la libertà dei moderni, non poteva che produrre conseguenze disastrose e aspettative assai pericolose. Quando Schumpeter, facendo riferimento alla “filosofia settecentesca”, definisce il metodo democratico come «quell’insieme di accorgimenti costituzionali per giungere a decisioni politiche, che realizza il bene comune permettendo allo stesso popolo di decidere attraverso l’elezione di singoli individui tenuti a riunirsi per esprimere la sua volontà»35, offre una versione corretta del meccanismo democratico, il quale in linea di principio non è in contrapposizione con gli albori della riflessione sulla democrazia in epoca moderna, che condensa in sé l’utopia antiliberale rousseauviana – realizzare in tempi moderni la “libertà” degli antichi – con gli eccessi razionalistici di un È anche interessante notare come nella riflessione di Schumpeter siano totalmente assenti riferimenti a tutti quei pensatori che si sono confrontati con la dottrina democratica per indicarne i limiti e con l’intento di trovare un insieme di istituzioni sì democratiche ma anche capaci di tutelare la libertà individuale. 35 Ivi, (trad. it. cit. p. 261). 34

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certo utilitarismo, che ritiene piaceri e dolori individuali “calcolabili”, al punto da collocarli in un ambito extra-individuale che coincide con il piacere voluto dal maggior numero. Dopo aver criticato la concezione classica della democrazia, intesa come “governo del popolo” e realizzazione del “bene comune” attraverso la “volontà popolare”, Schumpeter si propone di sostituire a essa una concezione nuova ed empirica, secondo la quale il popolo non governa ma produce un governo, ossia investe e autorizza a governare dei propri rappresentanti. Egli dunque (ri)definisce in modo completamente procedurale la democrazia: «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare»36. L’essenza della nuova definizione di democrazia è allora non più nella capacità del popolo di autogovernarsi, ma nell’autorizzazione che il popolo conferisce a governare, scegliendo tra più proposte concorrenti, e nella competizione tra le élites che fanno queste proposte per ottenere il voto popolare. In tale schema il popolo potrà creare il governo e anche abbatterlo, ma esclusivamente con lo strumento della non rielezione; infatti, il governo è espressione della volontà della maggioranza e non della volontà del popolo, la quale ultima non può essere in nessun caso realmente rappresentata e dunque non ha “diritto” di revocare la fiducia al governo prima della fine del mandato. Dalla competizione tra élites concorrenti, e passando per il voto popolare, emergerà una leadership, che “renderà attuali” alcune delle “volizioni di gruppo” presenti nel paese. I politici eletti non avranno il compito di realizzare la volontà popolare, che nella realtà non esiste, ma quello di governare lo stato. Nella visione di Schumpeter essi realizzeranno alcune delle aspettative dei propri elettori per un tornaconto personale, poiché sono individui che perseguono egoisticamente il proprio utile, che per un politico è la rielezione, e per fare questo sono portati a soddisfare i propri elettori, ossia a realizzare alcune delle istanze della democrazia. In un meccanismo che assomiglia a quello della mano invisibile di Smith, il politico serve i suoi elettori, gli dà ciò che essi vogliono, per raggiungere il proprio fine politico, la rielezione, così come un commerciante vende ai propri clienti ciò che essi vogliono con il solo obiettivo di guadagnare danaro. L’uomo politico “commercia” in

36

Ivi, (trad. it. cit. p. 279).

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voti come l’uomo d’affari commercia in beni37. Da questa teoria della democrazia come semplice meccanismo di selezione della leadership origina una delle parti più note della riflessione di Schumpeter, che vede la democrazia compatibile con diversi regimi politici, tra cui anche quello socialista38. Al di là di quanto questa fosse una convinzione profonda di Schumpeter, o di quanto essa fosse solo una provocazione per far riflettere39, rimane il fatto che egli ha individuato i grandi rischi per la libertà non solo nella teoria classica della democrazia, ma anche nella sua definizione della democrazia come teoria della scelta della leadership. Tuttavia vi è un’altra parte della riflessione di Schumpeter, meno dibattuta e certamente un po’ più criptica, nella quale egli, sia pur non esplicitamente, dà una ulteriore definizione della democrazia. Infatti, dopo averci dato la prima definizione così empirica e neutrale della democrazia come meccanismo di scelta delle élites, Schumpeter fissa anche i requisiti per il buon funzionamento della democrazia. È questa una parte assai interessante della sua riflessione, poiché in essa emerge una concezione della democrazia non come semplice meccanismo di scelta dei governanti, ma come un meccanismo caratterizzato da alcuni requisiti che gli danno una “sostanza” liberale, ossia che ne fanno un modello di democrazia liberale. La caratteristica fondamentale di questo modello è l’esistenza di un reale meccanismo di concorrenza: la democrazia sarà tale solo se la concorrenza per il comando sarà, in analogia con quanto avviene in economia, una “libera concorrenza per un voto libero”; si avrà dunque democrazia se, «almeno in linea di prinCome noto queste riflessioni ispireranno sia la teoria economica della democrazia di A. DOWNS, An Economic Theory of Democracy, Harper & Row, New York 1957 (trad. it. Teoria economica della democrazia, Il Mulino, Bologna 1988) sia la Public Choice School, cfr. J.M. BUCHANAN, G. TULLOCK, The calculus of consent, University of Michigan Press, Ann Arbor 1962 (trad. it. Il calcolo del consenso, Il Mulino, Bologna 1998). Per una attenta ricostruzione e un utilizzo critico dell’opera di Buchanan e delle scuole di pensiero che si sono sviluppate a partire dalla sua riflessione, si veda A. VANNUCCI, Governare l’incertezza. Scelte pubbliche e cambiamento istituzionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. 38 Si veda in particolare il paragrafo dedicato a La democrazia nell’ordine socialista, nel capitolo XXIII, J.A. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy op. cit. (trad. it. cit. pp. 306 e ss.). 39 Si confronti su questo la premessa alla seconda edizione del libro, nel 1946, Ivi, (trad. it. cit. pp. XLI e ss). È anche opportuno sottolineare che nella sua analisi Schumpeter si era posto il problema se il socialismo potesse o meno essere compatibile con la democrazia, dando però per certo, con riferimento al caso dell’Unione Sovietica, che esistono regimi socialisti non democratici. 37

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cipio, ognuno è in grado di porre la sua candidatura al comando politico», la qual cosa implica «un grado notevole di libertà di discussione per tutti», chiarendo in tal modo «il rapporto esistente tra democrazia e libertà individuale»40. Schumpeter delinea la sua definizione di democrazia avendo particolare riguardo a spiegare quali siano le condizioni che ne consentono l’esistenza e in quali contesti essa si sia meglio sviluppata storicamente. Già dal primo importante elemento, la “libera concorrenza per un voto libero”, si può intuire come per definire la “vera” democrazia egli faccia un preciso riferimento a dei valori appartenenti alla dottrina liberale, ed è possibile tentare di rileggere le caratteristiche e le condizioni di buon funzionamento della teoria competitiva con questa chiave interpretativa, ossia cercando di capire quanto vi sia di liberale nella dottrina della democrazia di Schumpeter. Il regime democratico “ben funzionante” implica infatti per Schumpeter un riferimento forte alla libertà, che è innanzitutto libertà per tutti di votare e di candidarsi divulgando le proprie idee che tutti devono essere liberi di poter conoscere. Perché la democrazia sia garantita nel tempo è necessario che anche queste condizioni siano garantite nel tempo; ciò implica che se una leadership regolarmente (democraticamente) eletta si ripropone di far venire meno quelle condizioni, necessariamente non vi è più la democrazia. Questo comporta, anche se Schumpeter evita di fare questa considerazione, che non si giustifichi più l’idea, espressa all’inizio della quarta parte del libro, secondo la quale è perfettamente possibile che un regime pratichi democraticamente la caccia alle streghe; infatti le “streghe” andrebbero necessariamente incluse tra coloro che, come gli altri, devono poter essere liberi di far conoscere le proprie idee perché vi sia la democrazia. Questo porta anche alla considerazione che il modello di democrazia di Schumpeter assume come presupposto necessario l’esistenza della libertà; egli tenta di descrivere tutto in termini di procedura e di osservazione empirica, ma la sua democrazia per poter esistere deve necessariamente promuovere e tutelare le libertà politiche, senza le quali non vi è democrazia. E a questo proposito è possibile leggere le condizioni che consentono il funzionamento del regime democratico con il fine di individuare delle precise implicazioni per una difesa più ampia della libertà individuale, e capire così quale sia agli occhi di Schumpeter la relazione tra democrazia e liberalismo. 40

Ivi, (trad. it. cit. p. 281).

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Tra queste condizioni, che Schumpeter indica come storicamente esistite, la prima «è che il materiale umano – il personale delle macchine politiche, che eletto al parlamento, di qui sale a funzioni di governo – sia di qualità sufficientemente elevata»41. La “garanzia reale” dell’esistenza di un tale personale è data dalla presenza di uno strato sociale cui “venga naturale darsi alla politica”, che sia capace di attrarre e assimilare al proprio interno (cioè formare, dotandoli di tradizioni e ideali) nuovi elementi; di fatto un tale establishment assume tutte le caratteristiche di una vera istituzione, atta a formare il personale politico. Essa esiste nel paese di più antica tradizione liberale, l’Inghilterra, mentre non attecchì in un altro paese con delle forme istituzionali liberal-democratiche, ma senza una forte tradizione in tal senso: la Germania di Weimar. Appare così chiaro che, perché si possa creare questo establishment, che è poi il presupposto per avere una qualche forma di “governo dei migliori”, è necessario un humus liberale. Se vogliamo una buona classe dirigente serve una tradizione liberale. Un’altra condizione necessaria al successo della democrazia, «è che il raggio effettivo della decisione politica non sia eccessivamente esteso»42. Questo significa che molti argomenti, pur riguardanti funzioni dello stato (ad esempio l’amministrazione della giustizia), non devono rientrare nel processo di decisione politica, ossia le decisioni non devono essere prese secondo il metodo democratico, proprio in virtù del loro riguardare questioni tecniche difficilmente accessibili alla comprensione sia degli elettori sia dei parlamentari. È chiaro che anche questa condizione rientra nel modello liberale di democrazia, e che dunque con essa Schumpeter fa rientrare tra i requisiti del buon funzionamento di quel modello quegli elementi che guardano al bilanciamento tra poteri e alle garanzie di libertà individuale come essenza della vera democrazia. Questa condizione pone infatti il problema dei limiti istituzionali dell’esercizio del potere politico e degli spazi di autonomia e libertà che rispetto ad esso devono essere tutelati. Vi è poi un’ultima condizione43, denominata dallo stesso SchumIvi, (trad. it. cit. p. 299). Ivi, (trad. it. cit. p. 300). 43 Le condizioni sono in tutto quattro, e la terza riguarda l’esigenza di una «burocrazia esperta, dotata di prestigio, di una buona tradizione, di un forte senso del dovere e di un non meno forte esprit de corps», capace di «guidare e, se necessario, istruire gli uomini politici a capo dei ministeri». Ivi, (trad. it. cit. p. 302). Si tratta di un requisito che può essere variamente interpretato, ma anch’esso può benissimo essere visto nella sua funzione 41 42

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peter “autocontrollo democratico”. Esso consiste nell’accettazione da parte di tutti i cittadini delle decisioni politiche prese dalla leadership seguendo le forme prescritte dalla legge. Perché ciò avvenga tali decisioni non devono essere prese «senza tener conto delle esigenze di altre categorie o della situazione nazionale»44. L’opposizione dal canto suo dovrà “mantenere in limiti ragionevoli la battaglia politica”, e gli elettori dovranno “rispettare la divisione del lavoro fra sé e gli uomini politici che eleggono”, astenendosi dal tentare di influenzarlo in momenti diversi da quello elettorale. Presupposto di tutto questo è “un grado notevole di tolleranza” e quindi “un profondo rispetto delle opinioni altrui”. Per l’autocontrollo democratico è necessario un “carattere” e “abitudini” nazionali che non nascono né si sviluppano dal metodo democratico, ma che devono preesistere ad esso. E anzi «basta riflettere sulla situazione presente per convincersi che il governo democratico funziona in modo soddisfacente solo se tutti gli interessi importanti sono praticamente unanimi nell’attaccamento non soltanto al paese, ma anche ai princìpi strutturali della società», e che la democrazia può «cessare di funzionare quando siano in gioco interessi o ideali intorno a cui il popolo rifiuta di scendere a patti» 45. E poi, tracciando una conclusione generale, aggiunge: «ho insistito sul fatto che una democrazia non può funzionare in modo soddisfacente se la grande maggioranza del popolo, in tutte le sue classi, non è decisa ad attenersi alle regole del gioco democratico, e questo implica, a sua volta, un accordo di fondo sulle basi della struttura istituzionale della società» 46. È difficile negare che questa sia la descrizione di una democrazia tipicamente liberale, dove “l’attaccamento ai princìpi strutturali della società” implica un rispetto delle minoranze attuato evitando di attribuire alla politica un ruolo eccessivamente ampio, che inevitabilmente andrebbe a ledere interessi considerati vitali da alcune minoranze e la sfera di libertà dei singoli. I princìpi liberali dunque, se pure non esplicitamente dichiarati, sono impliciti e fondamentali nel discorso di Schumpeter. Se la democrazia non può funzionare bene, o addirittura non può esistere, senza l’autocontrollo democratico, e se esso è inatdi freno degli “abusi” della politica. Anche se in realtà il punto è piuttosto controverso, perché nella sua analisi del socialismo Schumpeter pone l’efficienza della burocrazia come un requisito della possibile realizzazione e del buon funzionamento di un sistema socialista. 44 Ivi, (trad. it. cit. p. 303). 45 Ivi, (trad. it. cit. p. 304). 46 Ivi, (trad. it. cit. p. 310).

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tuabile quando la politica assume un ruolo così ampio da mettere inevitabilmente in discussione interessi vitali di una parte dei cittadini, è chiaro che si sta anche dicendo che lo stato deve circoscrivere la sua azione entro limiti fissati dal valore del rispetto della libertà individuale. Se dovessimo prendere per buone queste considerazioni, Schumpeter andrebbe inserito a pieno titolo tra i teorici del liberalismo oltre che della democrazia, ricoprendo peraltro in queste teorie un posto di tutto rispetto, sia per aver spiegato a quali condizioni le élites siano funzionali alla democrazia e siano affidabili rispetto ai fini democratici, sia per averci ricordato che, non potendo essere la democrazia realizzazione della volontà popolare ma soltanto l’autorizzazione a governare, diventa assai arduo sostenere il “primato della politica” e l’idea che ogni decisione riguardante il vivere civile debba essere presa a maggioranza. In tal senso l’insegnamento di Schumpeter sembra essere questo: se dalla “democrazia competitiva” si tolgono tutte quelle circostanze che ne consentono il buon funzionamento – e che consentono di definirla come una democrazia che accetta i valori fondamentali del modello liberale – rimane soltanto una procedura totalmente vuota, un meccanismo neutro assoggettabile a qualunque ideale, e dunque anche al socialismo. Schumpeter e Talmon procedono nella loro indagine con metodi e finalità diverse (il primo è un’economista, mentre il secondo è uno storico), ma ciò che qui conta rilevare è che le loro analisi convergono su uno stesso risultato: la democrazia di per sé stessa non è necessariamente compatibile con la libertà, poiché essa si presta ad essere assoggettata ad obiettivi tra loro diversi e talvolta contrapposti. Sia che si consideri la “democrazia totalitaria” come parte integrante della tradizione occidentale (Talmon), sia che la si consideri come una delle possibili diramazioni di un modello “neutrale” e per questo compatibile con ogni tipo di valore (Schumpeter), ciò che ne consegue è che il legame tra liberalismo e democrazia risulta indebolito, e più frutto di fortuite circostanze storiche che di una vera necessità teorica.

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3. Democrazia e rule of law Per chiarire il rapporto tra liberalismo e democrazia è estremamente rilevante la figura di Hayek, che rifletterà su questo tema per tutta la sua vita di studioso. In questa sede si concentrerà l’attenzione su come egli abbia tentato di conciliare le due tradizioni di pensiero, sia pure cogliendone distintamente la diversità. Infatti, nonostante mostri una forte propensione a individuare una convergenza tra liberalismo e democrazia, nonché ad accettare non solo come inevitabili ma anche come giusti molti dei compiti dello stato sociale, Hayek sembra avere chiara la consapevolezza che occorre tenere distinte le due tradizioni, e che sia stato un grave errore ritenere che la democrazia dovesse essere considerata sotto ogni aspetto il completamento del liberalismo. Si può pensare che questa consapevolezza sia espressa da Hayek già nella relazione inaugurale della Mont Pèlerin Society, che come è noto fu una associazione da lui fortemente voluta proprio per promuovere la rinascita e lo sviluppo della tradizione liberale. Riferendosi alla fondazione di questa associazione, che è ancora oggi un importante punto di riferimento per tutti gli studiosi liberali, egli sostiene che la “convinzione fondamentale” che lo ha guidato è quella del grande “compito intellettuale” di far rinascere il liberalismo. Un compito che «comporta la necessità di purgare il pensiero liberale tradizionale da certe causali aggiunte che si sono unite a esso nel corso del tempo, nonché l’esigenza di affrontare alcuni problemi reali che un liberalismo troppo semplificato ha eluso o che sono diventati evidenti solo da quando esso si è trasformato in un credo statico e rigido» 47. È possibile ipotizzare che le “casuali aggiunte” alle quali Hayek si riferiva fossero principalmente quelle della tradizione democratica, ritenuta da molti parte integrante, se non addirittura coronamento, della tradizione liberale. A quell’idea Hayek si era decisamente opposto sin dal 1944, quando aveva scritto: «non c’è giustificazione alcuna per l’idea che, sino a che il potere viene conferito con la procedura democratica, esso non possa essere arbitrario; il contrasto suggerito da questa affermazione è completamente falso: non è la fonte ma la limitazione F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, Roudedge & Kegan Paul, London 1967 (trad. it. Studi di filosofia, politica ed economia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998, p. 276). La relazione fu tenuta il primo aprile del 1947, appunto la data di fondazione della Mont Pèlerin Society. 47

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del potere che impedisce ad esso di essere arbitrario» 48. Gli studi sulle diverse correnti del liberalismo lo condussero così a tracciare una netta distinzione tra quello che chiamò il “vero” individualismo di origine anglosassone, ossia una teoria della società che spiega i fenomeni sociali a partire dalle azioni individuali, e il “falso” individualismo di origine francese, basato su una illimitata fiducia nella ragione individuale e sul conseguente disprezzo di qualunque cosa non fosse da essa progettata49. Entrambe le concezioni entrarono a far parte del programma del liberalismo del diciannovesimo secolo, ma in realtà la seconda delle due correnti apparteneva alla tradizione democratica (o quanto meno ne aveva subito una determinante influenza) e l’aver dato anche ad essa il nome di liberale impedì a lungo di comprendere come in realtà i due princìpi non fossero solo diversi, ma anche per certi versi antagonisti. Alcuni anni dopo Hayek riassumerà così tale principio: Liberalismo e democrazia, sebbene compatibili, non sono la stessa cosa. Il primo è interessato alla limitazione del potere di governo, la seconda si preoccupa invece di chi deve detenere tale potere. Si coglie meglio la differenza, se consideriamo i rispettivi contrari: l’opposto del liberalismo è il totalitarismo, mentre l’opposto della democrazia è il governo autoritario. Di conseguenza, è possibile, almeno in linea di principio, che un governo democratico possa essere totalitario e che un governo autoritario possa agire sulla base di princìpi liberali. Il secondo tipo di liberalismo a cui ho fatto riferimento sopra, è in effetti diventato democraticismo piuttosto che liberalismo e, chiedendo che il potere della maggioranza sia illimitato, è diventato essenzialmente antiliberale50. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 122). Il riferimento è F.A. VON HAYEK, Individualism: True and False, Blackwell, Oxford 1946 (trad. it. Individualismo: quello vero e quello falso, prefazione di D. Antiseri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997). 50 F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit. p. 296). Questo passo è stato anche commentato da Norberto Bobbio, che ha visto nell’opera di Hayek, senza peraltro risparmiarle critiche, la “summa della dottrina liberale contemporanea”. A suo giudizio Hayek distingue chiaramente liberalismo e democrazia, privilegiando nel primo nettamente l’aspetto economico su quello politico (caratteristica che in verità sembra più propria di Milton Friedman che di Hayek). Cfr. N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, op. cit., pp. 62-64. Alcuni anni più tardi Hayek tornerà su questo stesso concetto, scrivendo: «il liberalismo si interessa alle funzioni del governo e, in particolare, alla limitazione dei suoi poteri. Per la democrazia il problema centrale è quello di chi debba dirigere il governo. Il liberalismo esige che ogni potere – e quindi anche quello della maggioranza – sia sottoposto a limiti. La democrazia giunge invece a considerare l’opinione della maggioranza come il solo limite ai poteri governativi. La diversità tra i due princìpi emerge nel modo più chiaro se si pone mente ai rispettivi opposti: per la democrazia il 48 49

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La democrazia può dunque assumere varie forme, e quando, come spesso è accaduto, diventa democrazia illimitata, essa può diventare oppressiva quanto e più di qualunque regime non democratico, poiché la “oppressione arbitraria” esercitata da una maggioranza non è migliore di una analoga oppressione realizzata da chi non detiene il potere democraticamente. Tanto che alcuni anni più tardi Hayek si spingerà a dire: «devo confessare che preferisco un governo non democratico soggetto alla legge ad un governo democratico senza limitazione (e quindi essenzialmente arbitrario). Mi sembra che il governo soggetto alla legge costituisca quel valore più alto che, secondo le speranze del passato, i difensori della democrazia avrebbero dovuto salvaguardare»51. Proprio dopo aver chiarito come la democrazia possa essere oppressiva e arbitraria, e una volta raggiunti dei risultati che gli parvero definitivi in termini di teoria gnoseologica, Hayek dedica i suoi sforzi a delineare un modello di stato che fosse conseguente rispetto alle conclusioni cui era giunto riguardo all’inevitabile limitatezza della ragione e della conoscenza umana. Ne emerge un modello di stato liberale, il quale ha un fondamento e una funzione diverse rispetto al modello di stato democratico che si andava affermando in Europa negli anni successivi alla guerra. Hayek aveva già dalla metà degli anni Quaranta compiuto importanti passi in direzione del chiarimento del rapporto tra liberalismo e democrazia, e di quale fosse un modello adeguato per uno stato liberale. In The Road to Serfdom egli aveva mostrato come i regimi totalitari siano il frutto dell’idea che la ragione possa costruire e modificare a suo piacimento le istituzioni sociali e politiche, e dell’idea, già propria dello storicismo, che lo sviluppo storico segua determinate leggi, le quali possono essere scoperte e assecondate dalla razionalità umana. Ma in quell’opera sono già presenti alcune importanti indicazioni riguardo a come debba essere concepito lo stato perché si abbia un ordine politico liberale. Il punto di partenza è lo stesso su cui si basa la critica del totalitarismo: non esiste un unico metro per misurare il benessere e la felicità umane, non esiste un “codice etico completo” con cui catalogare governo autoritario, per il liberalismo il totalitarismo. Nessuno dei due sistemi esclude necessariamente l’opposto dell’altro: infatti una democrazia può benissimo esercitare un potere totalitario, ed è al limite concepibile che un governo autoritario agisca secondo princìpi liberali» F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 158-159). 51 La citazione è dal saggio Whither Democracy? ora in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 170).

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i diversi valori umani, i quali sono individuali e soggettivi 52. I socialisti però ragionano come se tale codice esistesse, come se i “fini sociali” non fossero il risultato della coincidenza di fini individuali, che si raggiungono a partire dall’accordo degli individui, ma qualcosa di qualitativamente diverso, che può essere oggettivamente identificato e deve essere realizzato dallo stato. Questa credenza ha portato appunto alla pianificazione, alla richiesta di un “dittatore economico”, che rappresenta una tappa fondamentale verso il totalitarismo. Tale credenza rappresenta anche una grande insidia per la democrazia, che “può funzionare” solo se accetta che il controllo deliberato nella vita della società deve essere limitato ai campi in cui vi è un effettivo accordo individuale, mentre nei (molti) campi in cui tale accordo non c’è «le cose devono essere lasciate al caso». Se al contrario la democrazia si fa dominare dalla dottrina collettivistica essa si distrugge, o meglio diventa semplicemente uno strumento a disposizione del totalitarismo. Essa infatti è soltanto un mezzo, un congegno che può essere utile per salvaguardare la libertà e la pace, ma che può anche sopravvivere sotto una qualche forma di totalitarismo, contribuendo a negare la libertà stessa. A partire dal principio liberale per il quale non è la fonte ma la limitazione del potere che impedisce ad esso di essere arbitrario, Hayek individua i limiti del potere democratico. A caratterizzare lo stato liberale è il principio della sovranità delle legge, la rule of law, in base al quale il governo è limitato da norme stabilite in anticipo rispetto alla sua azione e che rendono per i cittadini possibile prevedere il modo in cui la coercizione verrà usata. Si è liberi se si obbedisce solo alla legge, mentre l’idea che non vi siano limiti al legislatore, purché esso sia espressione della sovranità democratica, rappresenta un serio pericolo per la libertà. La piena legittimazione non risolve il problema della potenziale arbitrarietà delle norme, perché anche la norma più arbitraria può essere perfettamente legale. La sovranità della legge implica dunque dei limiti alla legislazione e al potere dei parlamenti democraticamente eletti, in base al principio del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo53. Questo tema verrà più compiutamente sviluppato in The Constitution of Liberty54 , un’opera nella quale Hayek propone una definizione del problema del rapporto tra democrazia e liberalismo nei termini propri della filosofia politica, ossia chiarendo il rapporto tra la liber52 53 54

F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. pp. 106 e ss.). Ivi, (trad. it. cit. pp. 134 e ss.). F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit..

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tà individuale e la libertà politica e mostrando come questi due tipi di libertà possano confliggere. Infatti «scegliere il proprio governo non garantisce, necessariamente, la libertà […e] diverrebbe inutile discutere il valore della libertà se qualsiasi regime approvato dal popolo fosse per definizione un regime di libertà»55. Il compito che si prefigge Hayek è dunque di comprendere quale tipo di ordine politico garantisca la libertà individuale, per mostrare come questo tipo di regime non solo chiarisca alcuni nodi problematici nel rapporto tra liberalismo e democrazia, ma sia una risposta alla domanda classica della filosofia su quale possa essere considerato il miglior regime politico. Il punto di partenza non poteva che essere nella definizione della libertà, la quale per Hayek è sempre la libertà negativa, ed è definita in relazione alle altre persone. La libertà è assenza di coercizione imposta da altri uomini, laddove la coercizione è «il controllo di un individuo sull’ambiente o le attività di un altro, il quale, per evitare mali peggiori, è costretto ad agire non in base a un piano coerente che si è prefisso, ma per servire i fini di un altro»56. La coercizione è considerata un male perché trasforma gli individui in mezzi per fini di altri individui, sopprimendoli in quanto “esseri pensanti”. Tuttavia la coercizione non può essere completamente eliminata da una società libera, la quale, comunque, ne “esige” un grado minimo, se non altro perché la stessa limitazione della coercizione ha bisogno di una qualche forma di coercizione se vuole essere realizzata57. La risposta classica del liberalismo, concentrare il potere di coercizione nello stato e limitarlo a quando si rende strettamente necessario, per Hayek si deve attuare con «norme generali note a tutti, cosicché quasi mai l’individuo sia sottoposto alla coercizione se non si è messo da sé in una situazione in cui sa che la dovrà subire»58. Una tale delimitazione della coercizione sulla base della sua prevedibilità ha l’obiettivo di eliminare ogni elemento di incertezza e dunque di arbitrarietà delle norme, poiché nel momento in cui è prevedibile la coercizione assume le caratteristiche di un “dato”, consentendo agli individui di conoscere per tempo le conseguenze delle proprie azioni. Quando la coercizione è perfettamente determinata assume quasi la Ivi, (trad. it. cit. p. 42). Ivi, (trad. it. cit. p. 49). 57 Sul modo di concepire la libertà in relazione al diritto si veda R.L. CUNNINGHAM (ed.), Liberty and the Rule of Law, Texas A&M University Press, College Station 1979, p. 318 e ss. e I. CARTER, Libertà uguale, op. cit. 58 F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 49). 55 56

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configurazione di una legge della natura, di un ostacolo fisico, e così non può più, coerentemente alla definizione iniziale per la quale essa è sempre una relazione tra uomini, essere considerata una negazione della libertà59. A negare la libertà, nella visione di Hayek, è infatti solo l’arbitrio degli altri uomini, il fatto che le regole rispetto alle quali si fanno previsioni di vita possano essere cambiate a piacimento da una élite o da una maggioranza. Nel momento in cui questo non può avvenire le regole, per quanto imperfette, sono stabili, “affidabili”, e assumono così il profilo di dati fisici conoscibili e prevedibili, ai quali è possibile conformare il proprio comportamento senza che vi sia l’arbitrio dell’uomo riguardo alle loro conseguenze, e dunque senza che vi sia coercizione. Si tratta di una definizione non del tutto soddisfacente del rapporto tra libertà e coercizione, poiché, come si vedrà meglio in seguito, non tiene debitamente conto del fatto che regole “stabili”, ma comunque fissate dall’uomo (magari anche in processi culturali impersonali), possono essere fortemente negatrici della libertà individuale, e questo ben al di là del fatto che siano conosciute e con conseguenze prevedibili. Tuttavia, per quanto insoddisfacente, una tale definizione ha indubbiamente il pregio di affrontare di petto il problema di come la democrazia, e il diritto dei parlamenti di cambiare in continuazione le norme, possa essere arbitraria da un punto di vista liberale, e dunque di come vi sia sempre un potenziale conflitto tra liberalismo e democrazia. Nonostante Hayek distingua la “democrazia illimitata” (totalitaria) da un sistema democratico “autentico” (limitato), del quale in molti luoghi della sua opera tesse le lodi60, la sua argomentazione è sostanzialmente critica verso il sistema democratico in generale, non considerato sufficiente, da solo, a garantire la libertà e la formazione di un ordine politico liberale. Liberalismo e democrazia sono ai suoi occhi due teo«Almeno finché non riguardano me personalmente, ma sono fatte in modo da essere applicabili in modo uniforme a tutte le persone che si trovino in circostanze analoghe, le norme relative alla coercizione non sono affatto diverse da qualsiasi ostacolo naturale che si faccia risentire sui miei piani. In quanto si limitano a dirmi cosa accadrà se faccio qualcosa o qualcos’altro, le leggi dello Stato hanno per me lo stesso valore delle leggi naturali; e io posso servirmi delle mie cognizioni di esse per raggiungere i miei scopi, così come mi servo delle mie cognizioni delle leggi naturali». Ivi, (trad. it. cit. p. 197). 60 Egli indica tre caratteristiche della democrazia particolarmente importanti e positive: 1 - è l’unico mezzo pacifico per cambiare il governo sino ad ora scoperto; 2 - è stata storicamente una buona garanzia per la libertà individuale; 3 - è un metodo per “educare” le maggioranze e formare l’opinione pubblica (il riferimento è naturalmente a Tocqueville). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 153-155). 59

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rie profondamente diverse; se il primo «è una dottrina su cosa la legge dovrebbe essere», la democrazia è invece «una dottrina sul modo di stabilire cosa sarà la legge». Per un liberale la democrazia è solo uno strumento, un metodo di decisione, ma non certo un “criterio assoluto” sul contenuto della decisione medesima, contenuto che invece per il democratico sarà comunque buono, o quantomeno lecito, per il fatto di essere voluto dalla maggioranza. Ecco che allora «non c’è alcuna necessaria connessione tra la democrazia e un’opinione su come dovrebbero essere usati i poteri della maggioranza»61. Da ciò consegue che «la democrazia non è un valore ultimo o assoluto e deve essere giudicata da quanto realizzerà. Probabilmente è il miglior metodo per raggiungere certi fini, ma non è un fine in sé»62. Il vero fine, per un liberale, non è infatti la possibilità di “dare leggi a sé stessi”, ma è l’avere determinate norme di condotta alle quali tutti obbediscono e che possiedono i requisiti per la tutela della libertà individuale, per l’emergere di un ordine di tipo liberale. La democrazia insomma, con la sua idea che «gli sforzi di tutti debbano essere guidati dall’opinione della maggioranza o che la società sia tanto migliore quanto più si conforma ai princìpi comunemente accettati dalla maggioranza, è, di fatto, un capovolgimento del principio attraverso cui si è sviluppata la civiltà»63. Hayek distingue dunque la democrazia dal liberalismo facendo riferimento al principio dello “sviluppo sociale spontaneo”, e a una “superiore saggezza” di quel principio rispetto al meccanismo delle decisioni di maggioranza, le quali «sono necessariamente inferiori a quelle che i più intelligenti membri del gruppo adotteranno dopo aver ascoltato tutte le opinioni; sono il risultato di un pensiero meno profondo e di solito rappresentano un compromesso che non soddisfa pienamente nessuno»64. I processi sociali spontanei della tradizione liberale sono dunque migliori di quanto è in grado di “escogitare la saggezza individuale”, e vi è una contrapposizione latente tra il “processo sociale”, che può ad esempio prendere la forma di decisioni giudiziali, e l’imposizione del volere della maggioranza, che «differisce radicalmente dal libero sviluppo da cui emergono usi e istituzioni, perché il suo carattere coercitivo, monopolistico ed esclusivista distrugge quelle forze autocorIvi, (trad. it. cit. p. 150). Ivi, (trad. it. cit. p. 152). 63 Ivi, (trad. it. cit. p. 156). Su questi temi si veda anche il già citato saggio Whither Democracy?, F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 168-179). 64 F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 157). 61 62

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rettive per effetto delle quali in una società libera i tentativi sbagliati saranno abbandonati e quelli giusti prevarranno»65. Guardando ai processi spontanei Hayek delinea dunque un modello di ordine liberale che, almeno dal punto di vista teorico, si presenta come alternativo e in parte incompatibile con altre forme di produzione dell’ordine, o più precisamente con quell’unica alternativa rappresentata dall’idea che un buon ordine sociale possa nascere e modificarsi esclusivamente tramite la volontà umana. Idea che può assumere colorazioni e gradazioni assai diverse, ma che comunque accomuna la democrazia e il socialismo. In questo senso, alcune delle critiche gnoseologiche proposte nei confronti del totalitarismo, analizzate nel capitolo precedente, potrebbero in parte essere riproposte nei confronti della democrazia, ossia nei confronti della convinzione che sia possibile (questa volta con l’opinione della maggioranza e non tramite la scienza) determinare con una scelta umana razionale e deliberata quale sia il miglior modello di società, e quale sia la direzione nella quale lo sviluppo umano deve andare. Se la critica di Hayek investe più radicalmente il socialismo, non può tuttavia lasciare fuori la democrazia, la quale, da questa prospettiva, ha con il socialismo solo una differenza di grado e non di sostanza. Tuttavia se questa può essere la conclusione teorica cui si può giungere guardando al diverso fondamento gnoseologico che Hayek individua per il liberalismo da una parte e per il socialismo e la democrazia dall’altra, bisogna indubbiamente rilevare come egli cerchi decisamente un punto d’incontro con la teoria democratica. E si può sostenere che questo viene cercato, non senza alcune difficoltà, anche nella parte centrale del libro, ossia nell’analisi della rule of law e della sua relazione con la libertà individuale. Dopo aver definito la coercizione come un rapporto tra uomini, e averla qualificata come ineliminabile all’interno della società66, Hayek Ivi, (trad. it. cit. p. 157). A criticare i concetti di coercizione, libertà e rule of law come intesi da Hayek, fu Ronald Hamowy, il quale riteneva tra le altre cose che quel concetto di libertà fosse «fundamentally incompatible with the one which forms the basis of a consistent libertarianism», R. HAMOWY, Hayek’s Concept of Freedom: A Critique, in «New Individualist Review», n. 1, pp. 28-32, 1961, p. 31. L’articolo fu scritto da Hamowy quando questi aveva appena iniziato il dottorato proprio sotto la supervisione dello stesso Hayek, e fu pubblicato nella «New Individualist Review», una rivista fondata da lui e altri studenti e destinata a diventare un luogo di discussione di grande importanza per il rinascente pensiero liberale. Sempre su quella rivista Hayek replicò al suo studente, ripubblicando poi quella sua risposta in F.A. 65 66

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sostiene che essa può essere evitata se all’individuo viene assicurata una “sfera privata” entro la quale gli sia possibile sfuggire alle interferenze del potere politico. Tale sfera può essere delimitata e garantita efficacemente solo tramite norme generali che «regolano le condizioni in cui gli oggetti e le circostanze diventano parte di una sfera garantita di una persona»67. Tale diritto, che ha il suo perno nella proprietà privata, non è stato concepito da una mente umana, ossia non è stato “deliberatamente progettato”, come non lo sono stati il denaro, il linguaggio e molte abitudini e convenzioni sociali. Il requisito fondamentale di un diritto che sia garanzia di libertà è dunque quello di avere norme che siano generali, astratte e applicabili a tutti. Hayek appare consapevole del fatto che anche norme con tali caratteristiche potrebbero dare luogo a forti limitazioni della libertà, tuttavia sostiene che questo sia altamente improbabile e che la principale garanzia perché non avvenga «è che le norme vadano applicate a chi le pone e a chi le esegue - cioè ai governanti come ai governati - e che nessuno abbia il potere di accordare deroghe»68. Alle norme generali e astratte Hayek contrappone le leggi intese come “comandi specifici”, che sono i principali strumenti di oppressione e che consentono che degli uomini governino su altri uomini. Anche dove Hayek non lo dice esplicitamente è chiaro che la sua preoccupazione verte sul fatto che i regimi democratici ritengano possibile modellare la società secondo i VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit. pp. 607612). Alcuni anni dopo Hamowy tornò approfonditamente sugli stessi temi, confermando le sue critiche, R. HAMOWY, Freedom and the Rule of Law in F. A. Hayek, in «Il Politico», xxxvi, n. 2, 1971, pp. 349-371. Per una ricostruzione di quelle critiche si veda A.O. EBENSTEIN, Friedrich Hayek. A Biography op. cit. (trad. it. cit. pp. 386 e ss.). 67 F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 194). 68 Ivi, (trad. it. cit. p. 212). In realtà questa argomentazione è particolarmente debole se si pensa proprio a quello che è il fondamento della riflessione hayekiana e in generale della Scuola austriaca, la teoria dei valori soggettivi. Se infatti si accetta l’idea che siano gli uomini a poter stabilire leggi generali e astratte, non si potrà anche negare che ciò che per alcuni è un’utile limitazione della libertà per altri potrebbe essere una limitazione inaccettabile. Nel momento in cui sono i primi (maggioranza) a creare quella regola, non basta certo il fatto che anche loro vi siano soggetti per risolvere il problema. Ciò che è debole nel ragionamento di Hayek è la mancanza di un criterio oggettivo per definire quali regole, indipendentemente dalla loro generalità, astrattezza e imparzialità (intesa appunto come applicabilità a tutti), garantiscano la libertà e quali no. Si tratta di una debolezza di cui risente in generale anche la teoria dell’evoluzione spontanea, poiché niente garantisce che a sopravvivere siano quelle regole che tutelano la libertà e non delle altre che non la tutelano affatto. Su come questi problemi della teoria hayekiana siano stati più volte messi in luce si veda A.M PETRONI, L’eredità di Hayek, in «Il Politico» anno LVII, n. 3, 1992, pp. 377-391, che richiama in particolare le osservazioni di Buchanan.

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propri desideri, e che per realizzare tale obiettivo siano inclini a usare i “comandi specifici”. Tali comandi non hanno quelle caratteristiche fondamentali per un buon ordine che invece hanno le norme generali e astratte le quali sono le uniche, conformemente ai problemi riguardo alla divisione della conoscenza, in grado di rimediare alla nostra “costituzionale ignoranza”, e all’impossibilità di conoscere le circostanze a cui queste norme andranno applicate. L’utilizzo di norme generali e astratte consente dunque anche di fare previsioni corrette rispetto al comportamento delle altre persone, caratteristica essenziale per definire un ordine, e anzi essenza stessa di un ordine sociale, il quale si ha quando «gli individui non solo utilizzano in modo efficace le loro conoscenze ma […] possono anche prevedere, con una certa sicurezza, la collaborazione che possono aspettarsi dagli altri»69. Perché possano darsi queste condizioni è necessario che vi sia un qualche potere che le garantisca e che risulta essenziale per il mantenimento dell’ordine spontaneo e del diritto che nasce con la selezione culturale. Il potere e la politica non costruiscono il diritto e l’ordine, ma hanno un ruolo fondamentale nel preservarli e anche nel promuoverli. È questo un punto essenziale della riflessione di Hayek, poiché da esso emerge come egli da un lato, già nel 1960, guardi alla superiorità dei processi sociali spontanei rispetto agli ordini costruiti, ma da un altro ritenga essenziale l’intervento del legislatore, e della volontà umana, perché tali processi possano avere una vera realizzazione. L’uomo non può dunque programmare il modo in cui si realizzerà l’ordine sociale, ma può “produrre” le condizioni per la formazione di quell’ordine e della sua salvaguardia o rinnovamento. E creare le condizioni perché un ordine possa stabilirsi e rinnovarsi è appunto il compito, tutt’altro che marginale, del legislatore, il quale deve garantire all’ambiente sociale quella “regolarità” che consentirà la formazione di un ordine a partire dall’azione di individui intelligenti che perseguono il loro fine e che sanno su quali “circostanze del proprio ambiente” possono contare70. A questo punto si tratta di capire come si possa definire e inquadrare la rule of law in questo complicato processo di formazione di un ordine spontaneo, e quale sia la relazione tra rule of law e democrazia. Dopo aver delineato, con particolare attenzione al costituzionalismo americano e al Rechtsstaat tedesco, la nascita e la storia della rule of Law, 69 70

F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 212). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 217-218).

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Hayek torna al problema centrale della relazione tra esso e la libertà individuale, sviluppando in maniera organica alcune delle osservazioni fatte in precedenza. Il problema è naturalmente quello della limitazione del potere dell’autorità, in relazione al quale si definisce la rule of law stessa: «in quanto significa che le pubbliche autorità non devono mai esercitare la coercizione su un individuo se non quando applicano una norma nota, la rule of law costituisce una limitazione di tutti i poteri dello Stato, inclusi i poteri del legislativo. È una dottrina di quello che dovrebbe essere la legge, dei caratteri generali che dovrebbero possedere le leggi particolari»71. Data questa definizione Hayek affronta la questione centrale, ovvero quale sia il fondamento della rule of law, e distinguendolo dalla semplice legalità delle norme sostiene che questa da sola non è sufficiente a garantire la libertà: «se una legge desse alle pubbliche autorità l’illimitato potere di agire a loro piacimento, tutti gli atti di queste sarebbero legali, ma non sarebbero certo sotto la rule of law. La rule of law, pertanto, è qualcosa di più del costituzionalismo: esige che tutte le leggi si conformino a certi principi»72. Questa distinzione dal “semplice” costituzionalismo è essenziale, perché fa della rule of law un principio di limitazione imposto a tutta la legislazione e la politica nel suo complesso, e non a singoli e specifici aspetti, ossia fa di esso un principio generale a cui conformarsi, e non uno strumento da applicare meccanicamente. Hayek si rende bene conto di come in una democrazia “il legislatore più alto” non possa avere un limite al proprio potere, poiché egli potrà sempre abrogare le leggi che è lui stesso a dover approvare, e probabilmente, nonostante non lo dica esplicitamente, pensa anche a come questo fatto metta in scacco la tradizione del costituzionalismo. Da qui emerge una definizione più completa della rule of law, che ne chiarisce anche il suo fondamento: essa «non è propriamente un governo del diritto esistente, ma un principio relativo a ciò che la legge dovrebbe essere, una dottrina metagiuridica o un ideale politico, e sarà efficace soltanto finché il legislatore se ne sentirà vincolato. In una democrazia quindi non prevarrà se non diventerà parte della tradizione morale della comunità, un ideale comune condiviso e indiscutibilmente accettato dalla maggioranza»73. La rule of law sembra quasi essere una sorta di costituzionalismo Ivi, (trad. it. cit. p. 271). Nella traduzione italiana si è reso rule of law con “governo della legge”; qui si è invece deciso di lasciare il termine inglese. 72 Ivi, (trad. it. cit. p. 271). 73 Ivi, (trad. it. cit. p. 272), corsivo aggiunto. 71

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“potenziato”, ossia un costituzionalismo che non guarda solo al patrimonio delle norme scritte, costituzionali, per garantire la libertà, ma soprattutto alla “tradizione morale” che deve soggiacere non solo a quelle norme ma all’intero operare della politica. Essa è naturalmente qualcosa di diverso dai processi sociali spontanei, ma è strettamente collegata e funzionale ad essi, poiché li rende possibili. Qui Hayek sembra in un certo senso privilegiare la rule of law come nota caratterizzante del liberalismo, e questo ha una conseguenza importante. Essendo la rule of law perfettamente compatibile con la democrazia, e potendone addirittura rappresentare il fondamento e l’essenza, il concentrarsi su di essa consente ad Hayek di “disinnescare” il potenziale conflitto tra processi sociali spontanei e processi democratici, che come si è detto si basano su due princìpi assai diversi tra loro e che appaiono per alcuni versi incompatibili. La rule of law è per certi aspetti il coronamento del costituzionalismo, il quale è a sua volta uno dei cardini della democrazia, e il guardare convintamente ad esso consente ad Hayek da un lato di mettere in luce alcune differenze e contrapposizioni importanti tra liberalismo e democrazia, ma da un altro marca fortemente il suo tentativo di conciliare le due tradizioni, facendo del liberalismo il fondamento della democrazia. D’altro canto questa sorta di “compromesso conflittuale” tra liberalismo e democrazia era da Hayek convintamente cercato anche sul terreno economico. Già in alcune pagine di The Road to Serfdom (alle quali si è accennato nel capitolo precedente), guardando al problema della “sicurezza economica”, emerge da un lato come Hayek fosse convinto che si trattasse di un problema ineludibile anche per il liberalismo, ma da un altro punto di vista emerge come esso rappresenti anche un terreno privilegiato per capire quali debbano essere i limiti del potere democratico perché esso sia compatibile con il liberalismo. A giudizio di Hayek un certo grado di sicurezza economica (ad esempio un minimo di sostentamento contro gravi privazioni fisiche) è una richiesta legittima in società sviluppate, ed essa può essere garantita senza danneggiare la libertà altrui. La sua convinzione è che essa possa essere dispensata fuori dal mercato, ad esempio con un sistema di assicurazioni sociali realizzato con il contributo statale. Al contrario la sicurezza economica “assoluta”, come quella di un reddito minimo garantito, è incompatibile con la libertà. Il rischio della diminuzione del reddito è infatti inseparabile dal sistema di concorrenza; se le remunerazioni cessassero di dipendere dalla loro utilità reale, inevitabil-

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mente non potrebbero che dipendere dalle scelte dell’autorità, con tutto ciò che ne consegue in termini di rischi per la libertà, compresa quella di scegliere la propria occupazione. Insomma, o l’individuo condivide scelta e rischio, o perde entrambe. Questo non vale solo per i sistemi socialisti, ma entro una certa misura anche per le democrazie, e Hayek mette il dito nella piaga quando osserva che nel momento in cui si garantisce la protezione del lavoro e della sicurezza economica ad alcune persone inevitabilmente si crea un contrasto tra chi ha quel privilegio e chi non lo ha, e che tanto più si cerca di acquisire quella sicurezza interferendo con il mercato tanto più grande diventa quel divario. Per quella via inoltre si affaccia un sistema di valori sociali nuovo, in cui è la sicurezza economica garantita per via politica a conferire dei privilegi, uno status negato agli altri. Proprio per evitare questi mali, che sembrano tipici della democrazia quanto del socialismo, la sicurezza deve essere dispensata fuori dal mercato e la concorrenza fatta funzionare senza ostacoli. Se infatti «una certa sicurezza è essenziale per preservare la libertà»74, non si può esaltare la sicurezza a discapito della libertà, la quale ha un prezzo, e per difenderla bisogna essere disposti a fare duri sacrifici, anche materiali. Al problema della “libertà nello stato assistenziale”, è dedicata anche la terza parte di The Constitution of Liberty, la parte del libro che ha attirato le più dure critiche di alcuni pensatori liberali, a iniziare da Mises75. Qui Hayek indica una serie di compiti, dalla sicurezza sociale all’istruzione, di cui è bene che uno stato liberale, finanziandosi con la tassazione, si faccia carico. Egli sostiene dunque che vi siano tutta una serie di servizi e beni pubblici che lo stato deve fornire, purché il suo operare sia conforme a princìpi generali e non sia qualcosa che una F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 189). A questo proposito Mises scrisse: «It was the great merit of Professor Friedrich von Hayek to have directed attention to the authoritarian character of socialist schemes. Now Professor Hayek has enlarged and substantiated his ideas in a comprehensive treatise, The Constitution of Liberty. In the first two parts of this book the author provides a brilliant exposition of the meaning of liberty and the creative powers of a free civilization. Unfortunately, the third part of Professor Hayek’s book is rather disappointing. Here the author tries to distinguish between socialism and Welfare State. Socialism, he alleges, is on the decline; the Welfare State is supplanting it. And he thinks that the Welfare State is under certain conditions compatible with liberty. Professor Hayek has misjudged the character of the Welfare State», L. VON MISES, Liberty and its Antithesis, in «Christian Economics» 1 agosto 1960, p. 3. La recensione è anche citata in A.O. EBENSTEIN, Friedrich Hayek. A Biography op. cit. (trad. it. cit., p. 389). 74 75

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maggioranza impone alla minoranza senza al contempo imporlo anche a sé stessa. Questa idea sarà ribadita, con uguale vigore, anche in Law, Legislation and Liberty, in cui si indicherà come possibile e giusto un reddito minimo per coloro che non riescono a inserirsi nel mercato. L’idea di Hayek è insomma che molti compiti possano e debbano essere svolti dallo stato76 senza che questo lo porti ad interferire nel processo di mercato (catallassi), e che il raggio di tale azione debba essere considerato “relativo”, ossia variare a seconda delle condizioni economiche della società e delle convinzioni in essa prevalenti. In Law, Legislation and Liberty, un lavoro nel quale è molto più robusta la prospettiva spontaneistica, Hayek sembra nutrire una sfiducia maggiore nei meccanismi democratici, e soprattutto nella mentalità a cui essi hanno dato luogo. La quale cosa lo porta a denunciare il rischio di una sorta di latente tendenza totalitaria nelle democrazie contemporanee in maniera forse ancora più netta che in The Road to Serfdom77. In passaggi che risentono dell’influenza di Bruno Leoni egli identifica come principale responsabile di tale trasformazione della democrazia uno dei massimi giuristi contemporanei, che fu suo insegnante negli anni viennesi, Hans Kelsen78. La sua dottrina del positivismo giuridico «Lungi da propugnare uno “stato minimo”, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo debba usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti - o non possono esserlo in modo adeguato - dal mercato», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 416-417). 77 «La maggior parte della gente non è ancora disposta ad affrontare la lezione più allarmante della storia moderna, e cioè che i maggiori crimini dei nostri tempi sono stati perpetrati da governi che avevano l’appoggio entusiastico di milioni di persone, guidate da impulsi morali. Non è assolutamente vero che Hitler o Mussolini, Lenin o Stalin facessero appello soltanto ai peggiori istinti dei loro popoli: essi esercitavano un certo fascino nei confronti di quei sentimenti dominanti anche nelle democrazie contemporanee. Qualunque sia stata la delusione provata dai sostenitori più maturi di questi movimenti quando si resero conto degli effetti delle politiche che avevano sostenuto, non c’è dubbio che le masse dei movimenti comunisti, nazionalsocialisti o fascisti comprendevano molti uomini e donne ispirati da ideali non molto diversi da quelli di alcuni dei filosofi sociali più influenti nei paesi occidentali», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 344). 78 Nel saggio La costituzione di uno stato liberale, pubblicato per la prima volta nel 1967 nella rivista “Il Politico”, diretta da Leoni, Hayek scrive: «l’interpretazione corrente della separazione dei poteri si basa […] su un ragionamento tortuoso e la rende un ragionamento totalmente vuoto; solo il corpo legislativo deve approvare le leggi e non deve possedere nessun altro potere, ma qualsiasi cosa decida è legge. Questo sviluppo si è avuto dalla crescita del governo democratico interpretato come governo illimitato, e dalla filo76

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è vista come un tipico esempio di mentalità razional-costruttivistica, che ha distrutto il concetto di norme di condotta generali e astratte, proprio del liberalismo classico, per sostituirlo con l’idea di un diritto che deve essere volto a realizzare fini particolari. Come se non bastasse, una tale concezione si è anche appropriata del termine liberale, dando luogo a incredibili equivoci79. Rispetto a questa sorta di degenerazione della democrazia, e alla conseguente perdita di fiducia nei suoi confronti, Hayek si ripropone di salvarne “l’ideale autentico”, che consiste nel considerare la democrazia come un mezzo per prendere decisioni politiche accettabili da tutti e per cambiare pacificamente i governi, ma non per imporre dei fini agli individui80. Il principale problema della democrazia, la sua “grande tragedia”, è che in essa tutto il potere è concentrato in un’unica assemblea rappresentativa, responsabile sia dell’emanare leggi sia del dirigere il governo, e che come conseguenza il governo ha cessato di essere soggetto alla legge, poiché è espressione di quello stesso parlamento che produce le leggi. Nelle moderne democrazie dunque il potere legislativo e quello esecutivo non sono più rigidamente separati, come vorrebbe la tradizionale dottrina liberale, ma sono di fatto la stessa cosa. Questa situazione si è venuta a creare a causa di una «tragica illusione» che ha indotto a credere «che adottando procedure democratiche si potesse rinunciare

sofia giuridica ad esso congeniale, il positivismo giuridico, che tenta di uniformare tutto il diritto alla volontà espressa di un legislatore», F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 111-112). 79 Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 238 e ss.). Si vedano anche i riferimenti nel saggio dedicato appunto agli errori del costruttivismo in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 24-25). 80 Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 472 e ss.). Più avanti aggiunge: «non soltanto pace giustizia e libertà, ma anche la democrazia è un valore essenzialmente negativo, una norma procedurale che serve come protezione dal dispotismo e dalla tirannia. […] Tuttavia, anche la democrazia […] è oggi minata dal tentativo di darle un contenuto “positivo”. Sono quasi certo che la democrazia illimitata ha i giorni contati. Se si vogliono mantenere i valori fondamentali della democrazia, la si deve adottare in una forma diversa, o si perderà, prima o tardi, la possibilità di sbarazzarsi di un governo oppressivo. [...] Il vero valore della democrazia è di servire come una precauzione sanitaria atta a proteggerci contro qualsiasi abuso di potere», al contrario però essa è oggi diventata «la causa principale di un aumento progressivo del potere e del peso della macchina burocratica», pp. 506-510. Si veda anche F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 168 e ss.) in cui scrive anche «tutta la democrazia che conosciamo oggi in Occidente è più o meno una democrazia illimitata», p. 169.

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a tutte le altre limitazioni del potere»81. Questo ha dato luogo alla nascita di una “mostruosa istituzione”, ossia di un potere assoluto che non riconosce altre leggi e limitazioni oltre a quelle che egli stesso emana82. Un parlamento onnipotente di questo tipo, anche se autorizzato dalla maggioranza dei cittadini, significa «la morte della libertà individuale», poiché «possiamo avere o un parlamento libero o un popolo libero. La libertà personale richiede che qualsiasi autorità sia limitata da princìpi durevoli, sostenuti da una approvazione generale»83. Tutto questo è aggravato dal fatto che le maggioranze parlamentari sono in realtà una somma di minoranze, ognuna delle quali persegue proprie finalità e interessi con potere di scambio e ricatto sugli altri componenti della maggioranza84. Proprio per questo suo essere particolarmente soggetto ai gruppi di interesse il sistema democratico necessita di severe limitazioni, che consentano di salvaguardare la libertà personale. Si tratta di una degenerazione del vero ideale della democrazia, e ciò che è avvenuto è che «si è creato, sotto il falso nome di democrazia, un meccanismo in cui non decide la maggioranza, ma dove ogni suo membro, per perseguire i suoi propri scopi, deve prestarsi a molte corruzioni al fine di ottenere l’appoggio della maggioranza. Per quanto ammirevole sia il principio delle decisioni a maggioranza per questioni che necessariamente concernono tutti, il risultato dell’applicazione di tale F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 374). Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 410). Hayek scrive anche: «spero verrà il giorno in cui la gente considererà con lo stesso orrore l’idea di un insieme di uomini, pur autorizzati dalla maggioranza dei cittadini, dotati del potere di ordinare quanto gli aggrada, come oggi aborrisce molte forme di governo autoritario». 83 Ivi, (trad. it. cit. p. 476-477). 84 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 383). Interessante a questo proposito è anche un saggio del 1973, Economic Freedom and Representative Government, nel quale Hayek si mostra assai pessimista riguardo alla possibilità di conciliare capitalismo e democrazia. A suo giudizio, anche in una società in cui la maggioranza della popolazione è favorevole al libero mercato, i partiti e il governo saranno sempre ostaggio di minoranze, le quali magari si dichiareranno favorevoli al mercato, ma poi in pratica chiederanno sempre eccezioni per la propria situazione, e il governo non potrà fare a meno di soddisfare questi interessi speciali. E la “radice del male” a suo avviso è sempre il potere illimitato delle assemblee legislative, un potere che la maggioranza si trova costretta a dover usare in modo diverso da come la maggioranza dei cittadini vorrebbe. «Ciò che noi chiamiamo la volontà della maggioranza è così, in realtà, una mistificazione delle istituzioni esistenti, ed in particolare dell’onnipotenza dell’assemblea legislativa sovrana che, attraverso la meccanica del processo politico, sarà portata a fare cose che la maggior parte dei suoi membri non vuole veramente, semplicemente perché non esistono limiti formali ai suoi poteri», F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 123). 81 82

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procedura alla distribuzione di un bottino estorto ad una minoranza dissenziente non può non essere totalmente riprovevole»85. Quello che propone Hayek, per tentare di rimediare a questa deriva totalitaria della democrazia e farla tornare al suo significato originale, è una grande riforma istituzionale che realizzi una vera separazione dei poteri e che distingua tra diritto, inteso come insieme di “regole di condotta” generali, astratte e imparziali, e “comandi”, intesi come atti del governo volti a risolvere questioni specifiche e particolari86. Il diritto dovrebbe essere prodotto da un’assemblea autonoma, che ha solo quello scopo e che dovrebbe essere eletta con meccanismi che ne garantiscano la assoluta autonomia87. Tale assemblea dovrebbe emettere solo norme generali, norme di “mera condotta”, vincolanti anche e soprattutto per il potere politico, sulla base del principio che «l’esercizio della legislazione, nel suo vero significato, dovrebbe sempre essere un impegno ad agire in base a princìpi generali, mai il decidere come agire in casi particolari»88. Tali assemblee sarebbero dunque volte non a realizzare la volontà della maggioranza riguardo ai fini concreti, ma dovrebbero basarsi sull’opinione del popolo su cosa sia giusto e cosa no89, facendo così F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 512). Nel 1976 aveva anche scritto: «l’accordo da parte della maggioranza circa la spartizione del bottino conquistato schiacciando la minoranza di concittadini, o decidendo quanto si debba prendere loro, non è democrazia – o almeno non è quell’ideale di democrazia che ha una qualsiasi giustificazione morale. La democrazia in sé stessa non è egualitarismo. Ma la democrazia illimitata è destinata a diventare egualitaria», F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 174). Questo è anche, come si vedrà, uno dei principali argomenti di Leoni nella sua critica della democrazia. 86 Sempre ne La costituzione di uno stato liberale scrive «legislazione democratica e governo democratico sono probabilmente due obiettivi entrambi desiderabili, ma porre queste funzioni nelle mani dello stesso organo distrugge la tutela della libertà individuale che la separazione dei poteri intendeva fornire», Ivi, (trad. it. cit. p. 113). 87 L’idea è far votare ogni cittadino una sola volta nella vita, a quarant’anni, per eleggere un suo coetaneo che rimarrà in carica quindici anni (ogni anno si eleggerebbe un quindicesimo dell’assemblea) e che al termine del mandato potrà avere cariche esclusivamente onorifiche, cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 486 e ss.). L’obiettivo è naturalmente anche quello di evitare collusioni con l’altra assemblea e con i partiti politici. 88 Ivi, (trad. it. cit. p. 411). 89 Sulla importante distinzione tra volontà e opinione si veda Ivi, (trad. it. cit. p. 118 e ss.) e F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 112 e ss. e 103), in cui scrive: «dall’esigenza che l’opinione della maggioranza debba prevalere non consegue affatto che la sua volontà per questioni particolari debba essere illimitata». Come noto sull’importanza della pubblica opinione il riferimento di Hayek è A.V. DICEY, Lectures on the Relations 85

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assumere al diritto da esse prodotto un carattere prettamente negativo. A conclusone del suo ragionamento Hayek propone anche di sostituire l’inflazionato termine “democrazia” con quello di “demarchia”, che collegando i termini demos e archein richiama l’idea di un governo del popolo attraverso leggi permanenti, ossia attraverso l’opinione e non la volontà particolare90. Le odierne assemblee parlamentari manterrebbero invece i propri compiti attuali di controllo su governo e legislazione ordinaria (incluso fissare annualmente l’ammontare delle imposte per finanziare l’operare del governo), ma senza mai poter interferire con l’assemblea legislativa vera e propria e rimanendo vincolate alle norme che essa crea. Essenziale è il non lasciare che siano le assemblee parlamentari, di fatto investite del potere esecutivo, a fissare le norme che limitino il loro stesso potere e il proprio campo d’azione: «è illusorio aspettarsi da chi deve la propria posizione al potere di distribuire doni di legarsi le mani con norme inflessibili che aboliscano tutti i privilegi speciali. Lasciare il diritto nelle mani dei governanti eletti è come lasciare il gatto a custodia del bricco di latte»91. Vi dovrebbe infine essere un altro organo, questo semi-permanente, che si dovrebbe occupare, se e quando necessario, di modificare la costituzione, nella quale andrebbero fissate con precisione le differenze e i diversi compiti delle due assemblee, indicando anche le diverse proprietà che devono avere i due tipi di diritto. Nel caso in cui dovessero poi sorgere delle controversie tra le due assemblee riguardo alle proprie prerogative e competenze, sarebbe compito di questa corte costituzionale dirimerle92. Al di là del se e quanto tale proposta di riforma risulti convin93 cente , essa rappresenta comunque un grandioso tentativo di ripristiBetween Law and Public Opinion in England, London, McMillan 1905 (trad. it. Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 1997). Questo è naturalmente molto importante anche per quanto riguarda la trattazione della rule of law e del concetto di ordine spontaneo, cfr. anche A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Costitution, London, Mcmillan 1915. 90 F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 412-414) e F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 102-107). 91 F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 405). 92 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. pp. 493-495). 93 Per una analisi sistematica delle difficoltà presenti in questo ed altri aspetti del pensiero di Hayek si veda J. GRAY, Hayek on Liberty, op. cit., capitolo 6, che, nonostante non tenga conto delle critiche successive al 1984, anno della prima edizione, è ancora oggi una delle trattazioni più rilevanti.

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nare un’autentica divisione dei poteri e di individuare un meccanismo atto a limitare il potere di coercizione del governo facendo riferimento a princìpi stabili e che esso non può mutare. La proposta di Hayek rappresenta per certi versi l’approdo ultimo del liberalismo classico, il tentativo estremo di limitare i compiti dello stato senza però negarne la necessità, e senza negare l’opportunità che esso abbia vari compiti oltre al garantire vita, libertà e proprietà. In questo Law, Legislation and Liberty è il compimento della riflessione sulla rule of law contenuta in The Constitution of Liberty, ma nonostante rappresenti forse la risposta più brillante del liberalismo al problema dei limiti del governo essa non risolve una serie di questioni a cui anche l’opera precedente andava incontro. La principale è forse che, per Hayek, la libertà è qualcosa che viene tutelato finché il legislatore si sente vincolato a certi principi, che si suppone rimangano dominanti nell’opinione della gente. Egli infatti, ancora in Law, Legislation and Liberty scrive: «ciò che di prezioso abbiamo non è un particolare insieme di istituzioni, facilmente trapiantabili, ma anche un insieme meno tangibile di tradizioni. In tal modo si può vedere come la degenerazione di queste istituzioni può persino essere un risultato necessario del loro meccanismo, quando la logica intrinseca di tale meccanismo non è controllata dalla supremazia di una concezione generale e prevalente della giustizia»94. Insomma, la rule of law continua ad essere, nella sostanza, «una dottrina metagiuridica o un ideale politico, e sarà efficace soltanto finché il legislatore se ne sentirà vincolato»95. Come tutela ultima della libertà non rimangono dunque tanto le istituzioni, quanto soprattutto la speranza che i princìpi diffusi e prevalenti nella società siano princìpi che salvaguardano la libertà, e che ad essi i legislatori si conformino. Vi è poi almeno un’altra difficoltà, connessa alla precedente. Il delegare la modifica e la produzione di norme di condotta ad un’assemblea eletta, sia pure con criteri “speciali” e destinata esclusivamente a questo compito, non può essere una garanzia certa che vengano prodotte veramente norme di condotta e non leggi volte a costruire società più “etiche”. Meccanismi complessi di elezione, come quelli pensati da Hayek, possono rendere questa possibilità più remota, ma non possono certo escludere che in quell’assemblea si costituisca una maggioranza che abbia appunto quelle finalità. Che una simile difficoltà si presen94 95

F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 376). F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 272).

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tasse comunque nel momento in cui una tale assemblea fosse frutto di un’elezione fu fatto rilevare ad Hayek, già nel 1963, da Bruno Leoni96, ma l’austriaco non tenne in grande conto tale osservazione. Egli non tenterà mai di divincolare completamente la tutela della libertà individuale dalla scelta dell’uomo, per ancorarla a princìpi da esso immutabili. Certamente non è detto che una tale operazione sia effettivamente realizzabile, e soprattutto non è detto che possa portare al risultato sperato, tuttavia essa sarà uno dei più importanti orizzonti teorici del liberalismo contemporaneo, esplorato dai Libertarians, i quali però finiranno per muoversi in una prospettiva assai diversa da quella hayekiana e sostanzialmente anarchica. Nell’ambito del liberalismo classico del Novecento, la posizione di Hayek rimane probabilmente la più coerente e quella che si è spinta più avanti di tutte nella ricerca di limiti invalicabili per il potere politico, e proprio per questo nella prospettiva di un compromesso solido e teoricamente ben fondato con la democrazia. Oltre quel limite rimane solo la tradizione Libertarian, con “l’intermezzo” purtroppo breve, a causa della prematura scomparsa, ma teoricamente molto significativo, di Leoni.

4. Liberalismo o scelte collettive? Nella riflessione di Bruno Leoni97 si trova una delle più dure critiche liberali alla democrazia e al concetto di rappresentanza politica, basata su un potente parallelo tra i meccanismi democratici di produzione del diritto e la pianificazione. Un binomio, quello tra legislazione e pianificaSi veda la lettera dell’otto maggio 1963 pubblicata in M. QUIRICO, Hayek e Bruno Leoni: due lettere inedite su diritto e libertà, in «Il Politico», LXI, n. 2, 1996, 183-196. 97 La letteratura su Leoni è ormai diventata molto vasta, e negli ultimi anni sul suo pensiero in Italia, oltre a numerosi articoli, si sono pubblicati quattro libri: A. MASALA, Il liberalismo di Bruno Leoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, E. BAGLIONI L’individuo e lo scambio. Teoria ed etica dell’ordine spontaneo nell’individualismo di Bruno Leoni, ESI, Napoli 2004, C. LOTTIERI, Le ragioni del diritto. Libertà individuale e ordine giuridico nel pensiero di Bruno Leoni, Rubbettino-Facco, Soveria Mannelli 2006 e A. FAVARO, Bruno Leoni. Dell’irrazionalità della legge per la spontaneità dell’ordinamento, ESI, Napoli 2009. Da ricordare anche la pubblicazione della raccolta di saggi AA.VV. La teoria politica di Bruno Leoni, a cura di A. Masala, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 e la riedizione di molte delle sue opere, alcune delle quali erano state nel tempo completamente dimenticate e la divulgazione del suo pensiero anche all’estero, grazie anche all’opera del think-tank che porta il suo nome, Istituto Bruno Leoni, diretto da Alberto Mingardi. 96

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zione, a cui viene radicalmente contrapposto un modo diverso e liberale di operare le scelte, rispettando la libertà individuale. Leoni si muove ancora dentro le coordinate del Classical liberalism, in particolare in quello di impianto austriaco, portandolo però alle estreme conseguenze, e ponendosi in questo modo come un crinale rispetto al pensiero Libertarian, che negli anni in cui egli scriveva iniziava a definirsi come una tradizione di pensiero autonoma rispetto al liberalismo classico. Prima di analizzare la critica della legislazione e della rappresentanza, che è poi la critica della stessa democrazia, può essere interessante vedere brevemente quali siano le definizioni di libertà e di democrazia che propone Leoni, perché è proprio a partire da esse che si può meglio comprendere il fondamento della sua critica. La libertà, in modo del tutto simile a come già avevano fatto gli esponenti della Scuola austriaca, è definita in modo prettamente negativo, e si identifica con l’assenza di costrizione da parte di altri individui98. Il tentativo di “migliorare” questo concetto di libertà, attribuendogli un significato positivo (la libertà di), ossia intendendola come effettivo potere di realizzare e ottenere ciò che si vuole, si basa sull’idea di libertà come “dominio della ragione”, ed è fortemente criticato da Leoni, che ripropone anche la distinzione di Hayek tra “individualismo irrazionalistico”, di tipo anglosassone, e “individualismo razionalistico”, di tipo francese99. Il primo tipo di individualismo si caratterizza per essere la conseguenza di una collaborazione spontanea fra singoli individui, mentre quello francese è una conseguenza diretta dell’influenza del razionalismo cartesiano che, con la sua illimitata fiducia nella ragione umana, rischia di portare alla trasformazione dell’individualismo in una dottrina opposta, di tipo collettivistico. Con la sua volontà di organizzare l’intera società secondo un piano deliberato l’individualismo razionalistico si pone come antitetico a quello irrazionalistico, poiché nega il valore delle istituzioni spontanee, non vede la contrapposizione tra libertà individuale e potere statale e finisce per considerare la libertà come libertà dal bisogno, la qual cosa sfocia nel tentativo di rendere il più possibile uguali, anche economicamente, gli individui. La “libertà positiva” dell’individualismo razionalistico pretende di essere una forma di libertà “politica”, nel senso che attribuisce alla politica il compito Si veda in particolare il secondo capitolo di B. LEONI, Freedom and the Law, Van Nostrand Company Inc., Princeton 1961 (trad. it. La libertà e la legge, Introduzione di R. Cubeddu, Liberilibri, Macerata, 1995). 99 B. LEONI, Il pensiero politico e sociale, op. cit.. 98

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di realizzare positivamente la libertà degli individui, ma essa si basa su una concezione errata della libertà, che è invece assenza di coercizione e dunque non impedimento a realizzare i propri obiettivi, ma non può essere qualcosa che qualcun altro realizza per noi. Da queste due tradizioni dell’individualismo discendono dunque due idee di libertà che non sono solo diverse, ma anche incompatibili, e da qui hanno origine due diverse forme di democrazia. La libertà positiva del razionalismo cartesiano può dare vita a una forma di democrazia illimitata, che si contrappone a quella che per Leoni è la “vera” democrazia liberale, di origine anglosassone, capace di rispettare e salvaguardare la libertà individuale. Infatti nel mondo anglosassone vi sono limiti, scritti e non scritti, all’operare del parlamento, e la «teoria di questi limiti è stata giustamente condensata nella frase: rispetto delle minoranze. Come disse Lowell, una comunità può essere considerata un “tutto”, se in essa non vi siano degli “irriconciliabili”. […] Questa è realmente la grande differenza fra una democrazia dove le minoranze sono rispettate e una democrazia dove non lo sono. Nella prima possiamo dire che il sistema maggioritario è soltanto uno strumento, una sorta di inevitabile artifizio che non intacca il principio della comunità come un tutto. Nella seconda, la regola della maggioranza è una sorta di principio supremo: il risultato può essere che la seconda non sia una comunità democratica, per la semplice ragione che essa non è neppure più una comunità. In questo caso la maggioranza vittoriosa e la minoranza sconfitta sono simili a due eserciti sul campo di battaglia» 100. Vi è dunque una grande differenza tra questi due tipi di democrazia, che Leoni chiama inglese e francese. La prima è fortemente influenzata da un individualismo che si caratterizza per la tutela delle minoranze dissenzienti, e per questo motivo preferisce rifarsi al concetto di opinione pubblica, estraneo al meccanismo statale e più idoneo a rappresentare tutta la collettività, appunto senza esclusione delle minoranze. La democrazia di tipo francese è invece caratterizzata dall’influenza della dottrina egualitaria e finisce per sacrificare l’individualismo e la libertà a favore dell’uguaglianza. Sulla base di queste considerazioni Leoni ritiene il socialismo compatibile con il secondo tipo di democrazia, quello che distrugge la comunità “come un tutto”, ma non con il B. LEONI Democracy, Socialism and Rule of Law, (VI Meeting della Mont Pèlerin Society, Venezia, 6-11 Settembre 1954) (trad. it.in B. Leoni, Il pensiero politico moderno e contemporaneo, op. cit., p. 424). Il riferimento è a L. LOWELL, Public Opinion and Popular Government, New York 1913. 100

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modo anglosassone di concepire la democrazia. Il socialismo è infatti sempre “coazione”, una coazione «presumibilmente non accettabile da una minoranza dissenziente»101, e per questo motivo una democrazia che si basi sul solo principio della maggioranza, indipendentemente da quanto la minoranza ritenga lecita quella decisione, può arrivare al socialismo, mentre una democrazia che si basi sul rispetto delle minoranze, sul principio della comunità come un tutto, sui limiti del potere del parlamento, non sarà compatibile con il socialismo. L’essenza della democrazia anglosassone è dunque nella limitazione del potere per tutelare le minoranze attraverso le garanzie costituzionali, e attraverso il richiamo alla pubblica opinione. Quando tali garanzie vengono meno il criterio della maggioranza diventa l’unico criterio per operare le scelte politiche, un criterio rafforzato dal diffondersi delle dottrine socialiste, le quali tendono a identificare la maggioranza con il popolo e a usare il potere legislativo per realizzarne la volontà. Il diritto incondizionato della maggioranza a legiferare è però incompatibile con il rispetto della libertà individuale, tipica dell’individualismo inglese, mentre è compatibile con l’uguaglianza economica come intesa dai socialisti, poiché la maggioranza non è neanche tenuta al rispetto dei beni economici della minoranza. Leoni indaga il rapporto tra liberalismo e democrazia anche guardando agli insegnamenti di Tocqueville, Lord Acton e Herbert Spencer, giungendo a considerare le due teorie incompatibili oppure conciliabili a seconda di come s’intenda il secondo termine. Se si accetta quello che per Lord Acton è il vero principio democratico, ossia «che il popolo non debba essere costretto a fare ciò che non vuole», allora liberalismo e democrazia si completano a vicenda. Se invece si intende questo principio, come già si faceva durante la Rivoluzione Francese, nel senso «che al popolo non si debba mai chiedere di tollerare ciò che ad esso non piace» 102 , allora la democrazia apparirà inconciliabile con la libertà individuale. Ma è anche dalle riflessioni di Rousseau che si può comprendere come la democrazia sia incompatibile con la libertà individuale nel caso vi siano “maggioranze intolleranti” o “minoranze ribelli”. Quando il ginevrino parla di unanimità e volontà comune si riferisce in realtà alla necessità che tutta la comunità deve essere d’accordo almeno su alcuni princìpi fondamentali, e che «qualora una decisione della maggioran101 102

B. LEONI Democracy, Socialism and Rule of Law op. cit. (trad. it. cit. p. 428). B. LEONI, Il pensiero politico e sociale, op. cit., p. 95.

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za non sia accettata liberamente ma solo subita da una minoranza, nel modo in cui si possono subire coercizioni per evitare il peggio da parte di rapinatori o ricattatori, la libertà individuale – nel senso di assenza di coercizione esercitata da altri – è incompatibile con la democrazia, intesa nel senso di potere egemonico del numero»103. Già da queste considerazioni si inizia a intravedere chiaramente il grande tema affrontato da Leoni, ossia come il processo legislativo, che nelle democrazie dipende sempre “dal potere del numero”, si possa in molti casi rivelare incompatibile con la libertà individuale. Le critiche alla legislazione, e con essa alla stessa democrazia, sono contenute prevalentemente in Freedom and the Law. Alla base del lavoro di Leoni vi è la convinzione, fondata su una constatazione storica, che la legislazione non esaurisce il diritto e che non è né l’unico né il miglior modo di produzione del diritto. La legislazione è il modo di produrre diritto nelle democrazie contemporanee, e l’abuso di questo strumento, con la conseguente negazione di ogni altra modalità di produzione del diritto e dell’ordine, è la nota caratterizzante dei nostri tempi, sulla quale i liberali hanno il dovere di riflettere. Leoni vede dunque, più distintamente di Hayek, la potenziale contrapposizione tra la libertà e la democrazia, o meglio ancora tra la libertà e l’elemento caratterizzante dei regimi democratici, il diritto prodotto dai parlamenti. Egli punta il dito contro il fenomeno dell’“inflazione legislativa”, in un epoca in cui gli uomini si sono, colpevolmente, abituati a considerare la legislazione come il metodo più sicuro e veloce, se non l’unico metodo, per risolvere qualunque problema. Proprio questa convinzione ha portato alla produzione di un numero eccessivo di leggi, di cui diventa impossibile conoscere il contenuto e di cui non si è mai sicuri che un tale contenuto non sia negato da altre leggi o non possa essere negato domani da una nuova legge. Questo processo sta facendo perdere agli individui quella omogeneità di sentimenti e convincimenti giuridici che in altre epoche era esistita, e che aveva consentito di rendere prevedibili le azioni umane. Non ci si fida più delle convenzioni esistenti, e la legislazione, da processo (non tanto di produzione ma) di razionalizzazione e chiarificazione del diritto che si proponeva di essere, si è trasformata nel suo opposto: un processo autodistruttivo che conduce gli individui a non rispettare più le convenzioni e i patti stabiliti. Partendo da questo presupposto Leoni estende al terreno del di103

B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 114).

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ritto, in maniera chiara e innovativa, le critiche che gli austriaci avevano rivolto al socialismo sul terreno economico, ossia usa gli strumenti concettuali presenti nella critica della pianificazione come sviluppata da Mises e Hayek per criticare la legislazione. Le riflessioni degli austriaci sull’impossibilità di un’economia centralizzata, che non può tener conto dei prezzi, ossia delle informazioni provenienti da coloro che devono usufruire dei beni, appare a Leoni come un caso particolare di una teoria generale, valido anche nell’ambito del diritto per quella forma di produzione “centralizzata” di norme che è la legislazione. Infatti, così come la pianificazione rende impossibile il calcolo economico, e dunque l’attribuzione di un valore ai beni, in maniera analoga la legislazione, con i suoi continui e arbitrari cambiamenti, dovuti al variare delle maggioranze parlamentari, impedisce agli individui di distinguere tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è, e rende impossibile, o quantomeno rischioso, fare progetti di lungo periodo. Uno dei principali problemi delle democrazie è dunque quello della certezza del diritto, e Leoni critica la convinzione di Hayek secondo la quale leggi generali, astratte e scritte (Hayek avrebbe detto applicabili a tutti) possono essere sufficienti a salvaguardare la rule of law e con essa la libertà individuale. Anche delle leggi con tali caratteristiche non sono a giudizio di Leoni in grado di garantire la certezza del diritto nel lungo periodo, poiché una nuova legge si può sempre sostituire con facilità ad un’altra precedente e “certa” sino al giorno prima. Inoltre, ed anche questo è un punto sottovalutato da Hayek, leggi con quelle caratteristiche non sono di per sé in grado di assicurare la libertà individuale dalle interferenze delle autorità statali e dei parlamenti, i quali possono creare leggi tanto certe in senso formale, ossia scritte e formulate in modo preciso, quanto tiranniche e negatrici della libertà individuale104. Alla conferenza della Mont Pèlerin Society del 1957 Hayek sostenne che l’unico modo di garantire la libertà economica e politica consistesse nel fissare regole generali e uguali per tutti, facendo riferimento al sistema della rule of law. Questa argomentazione fu già allora considerata insufficiente da Leoni, secondo il quale è «possibile immaginare una regola perfettamente eguale e generale, che tuttavia non garantisce alcuna “libertà” agli individui nel senso in cui noi la intendiamo […]. Mirando a limitare la discrezionalità dei funzionari pubblici, il prof. Hayek sembra avere in grande sospetto il potere esecutivo (e non dico che abbia torto); ma che cosa diremo del potere legislativo? Questo rilievo me ne suggerisce un altro: il prof. Hayek concepisce le regole generali come mutevoli? Una regola perfettamente chiara, generale ed eguale può venire abolita domani, e sostituita da un’altra non meno uguale e generale, che a sua volta può essere sostituita dopodomani. Si presenta così il problema della certezza della regola. […] [Il] sistema della common law, 104

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Nella sua analisi Leoni si riferisce anche alle riflessioni sul diritto nel mondo antico, la quale cosa ci restituisce anche il problema della democrazia nella sua reale dimensione storica e teorica, non legata alle contingenze del momento. Leoni risale alle affermazioni di Catone il Censore sulla creazione del diritto come processo collettivo, che nessun uomo da solo sarebbe in grado di realizzare, arrivando a proporre un parallelo con le critiche della pianificazione fatte da Mises. Quelle critiche a suo giudizio ricordano proprio le parole di Catone sull’impossibilità per un unico uomo di creare ciò che solo generazioni di uomini in molti secoli sono in grado di fare. In particolare egli nota come Catone usi un’argomentazione sulla conoscenza analoga a quella di cui si serve Mises per criticare l’economia pianificata, e a questo proposito scrive: «il fatto che le autorità centrali di un’economia totalitaria non conoscano i prezzi di mercato quando fanno i loro piani economici è solo un corollario del fatto che le autorità centrali non abbiamo mai una conoscenza sufficiente dell’infinità di elementi e di fattori che contribuiscono alle relazioni sociali fra gli individui in ogni momento e ad ogni livello»105. La difesa che gli economisti come Mises hanno fatto del libero mercato può essere considerata valida anche per la formazione spontanea (non “centralizzata” nella sola opera dei parlamenti) del diritto, mentre un processo basato esclusivamente sulla legislazione rischia seriamente di essere incompatibile con il libero mercato e con la libertà individuale. Già i greci e i romani avevano capito che per essere veramente liberi dall’interferenza del potere politico bisogna essere in grado di poter prevedere le conseguenze delle proprie azioni in vista delle leggi future. La certezza di lungo periodo conta quanto e più di quella a breve termine, magari garantita da una legge fatta per risolvere un problema specifico, e solo la prima consente l’esistenza della rule of law e della libertà individuale, la quale è “libertà dall’interferenza” di chiunque, pubbliche autorità incluse. Un importante insegnamento proviene dallo implica una certezza che il sistema continentale non possiede; i giudici inglesi sono infatti vincolati al precedente, mentre i corpi legislativi non lo sono. […] Sono sufficienti gli aspetti formali della regola (la sua generalità e la sua eguale applicabilità) invocati dal prof. Hayek, a garantire le libertà economiche e politiche dei cittadini? Non dimentichiamo che queste libertà sono state nell’ultimo cinquantennio profondamente limitate […] ad opera del potere legislativo, […] proprio per mezzo di regole generali», B. LEONI, Intervento sul tema “Concetto di intervento e limiti della discrezionalità nella coercizione amministrativa”, (X Congresso della Mont Pèlerin Society, Saint Moritz, 2-8 settembre), in «Il Politico», n. 3, 1957, pp. 708-709. 105 B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 101).

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jus civile romano, che era solo in minima parte un diritto scritto, ma era ben più certo del diritto prodotto per via legislativa. Gli antichi romani, pur non conoscendo la certezza della legge scritta, erano perfettamente in grado di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni e quindi si sentivano sicuri nel progettare il proprio comportamento futuro. Per loro la certezza del diritto consisteva soprattutto nell’impossibilità che un’assemblea legislativa o un qualunque altro potere fosse in grado di cambiare arbitrariamente e improvvisamente le regole vigenti, rendendoli incapaci di prevedere le conseguenze delle loro azioni. Sotto questo profilo le relazioni giuridiche del mondo romano erano simili alle relazioni economiche proprie del libero mercato: in entrambe manca la costrizione e l’intervento arbitrario e imprevedibile di un’autorità. Nel modo di produrre diritto degli antichi romani, a cui in tempi moderni si avvicina il sistema di common law britannico, non c’è un potere in grado di imporre, seppure con procedure prestabilite, nuove regole da un giorno all’altro, ma il diritto viene invece scoperto con un’indagine spassionata dei giureconsulti. Le corti di giustizia accertano il “diritto vivente”, trascurando i princìpi astratti e badando invece ai casi particolari; il diritto che si cerca è quello creato nello stesso modo in cui si forma il linguaggio e in cui avvengono le transazioni economiche nel libero mercato – tramite le libere azioni dei cittadini, ossia tramite il comportamento quotidiano della gente comune, e non tramite un “piano” imposto dall’alto. Quel modo di concepire e produrre il diritto va oggi completamente scomparendo a causa dell’affermarsi della legislazione e del suo “mito” fondante, la rappresentanza politica. E le critiche che Leoni riserva alla rappresentanza non sono affatto più morbide di quelle rivolte alla legislazione. Come prima cosa la rappresentanza politica viene definita un’illusione, o meglio viene definito totalmente illusorio il fatto che possa essere “resa presente” la volontà degli elettori con il meccanismo dell’elezione dei rappresentanti. I rappresentanti non potranno infatti prescindere dalla libera interpretazione della volontà di chi li ha delegati, e inoltre si troveranno anche a dover affrontare problemi che non esistevano al momento dell’elezione e rispetto ai quali né hanno idea di quale sia la volontà degli elettori né hanno avuto modo di dire loro come si sarebbero comportati davanti a quei problemi106. Questo «È ovvio che le questioni in gioco nella vita politica sono troppe e troppo complicate e che molte di esse sono sconosciute sia ai rappresentanti sia ai rappresentati. In queste condizioni, nella gran parte dei casi non si potrebbero dare istruzioni», Ivi, (trad. it. cit. 106

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si traduce nella discrezionalità dell’operare dei “rappresentanti” e della produzione delle leggi, e conduce al paradosso che, con un capovolgimento della classica domanda aristotelica (devono governare gli uomini o le leggi?), vi sia il governo degli uomini proprio perché si governa con le leggi107. Leoni ha ben presenti sia le critiche della teoria “classica” elitista di Mosca, Pareto e Michels, sia quella sorta di prosecuzione dell’elitismo che si è avuta nella scienza politica moderna, che studiando il ruolo di lobby e gruppi di pressione, legandoli poi al fenomeno del log rolling (baratto dei voti), ha messo in luce alcuni importanti debolezze della rappresentanza democratica108. Quelle debolezze e difficoltà della rappresentanza, accompagnate da una “mitizzazione” della democrazia che ha esteso enormemente l’ambito delle decisioni politiche, la fanno apparire a Leoni potenzialmente esplosiva. Al punto che egli, parafrasando una celebre frase di Hobbes riguardo allo stato di natura, sostiene che nelle moderne democrazie «ci troviamo di fronte a una potenziale guerra giuridica di tutti contro tutti, condotta per mezzo della legislazione e della rappresentanza»109, e che solo riducendo drasticamente il peso e la funzione di questi due elementi tale guerra potrà essere scongiurata. Leoni giunge dunque a ritenere da un lato impossibile una vera rappresentanza, e dall’altro a vederla come un meccanismo che, basandosi sulle decisioni collettive prese con la regola di maggioranza, ha inevitabilmente un esito coercitivo nei confronti della parte “perdente” p. 136). Queste difficoltà si manifestano a prescindere dal metodo con cui si scelgono i rappresentanti, anche se gli elementi coercitivi presenti nella votazione accentuano il fenomeno. 107 A questo proposito Lottieri opportunamente commenta: «alla visione aristotelica delle norme generali che è ripresa da Hayek (e nella quale non vi è grande interesse per il contenuto delle leggi stesse), Leoni oppone una concezione più individualistica, che punti a salvaguardare la libertà e quindi il diritto di proprietà», C. LOTTIERI, Le ragioni del diritto, op. cit., p. 31. 108 Leoni stesso aveva dato un contributo originale e innovativo a quel filone di studi, che sarebbe poi stato grandemente arricchito dalla riflessione di James Buchanan e Gordon Tullock, cfr. B. LEONI, The Meaning of “Political” in Political Decisions, in «Political Studies», n. 3, 1957, pp. 225-239 (trad. it. Natura e significato delle “decisioni politiche”, in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria del diritto, a cura e con introduzione di M. Stoppino, con una nuova prefazione di Giorgio Rebuffa, Facco-Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009 [1980], pp. 97-121), e B. LEONI, Political Decisions and Majority Rule, in «Il Politico», n. 4, 1960, pp. 724-733 (trad. it. ora in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria del diritto, op. cit. pp. 123-137). 109 B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 23).

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dell’elettorato. Ed è per questo che i sistemi rappresentativi che combinano elezione e rappresentanza finiscono per essere «incompatibili con la libertà individuale, nel senso di libertà di scegliere, autorizzare e istruire un rappresentante»110. In contrapposizione al principio della rappresentanza politica Leoni propone un’appassionata difesa del ruolo dei giudici, i quali, per il loro modo di operare e per i limiti entro i quali sono confinati, si prestano ad essere considerati i veri rappresentanti del popolo, molto più rispettosi della libertà individuale di quanto non lo siano le assemblee legislative111. Infatti nelle votazioni a maggioranza dei parlamenti la rappresentanza si palesa come “falso mito”, poiché «il “popolo” non ha alcun mezzo per giudicare la maggior parte delle leggi fatte dai propri rappresentanti»112. Leoni ribadisce qui la sua idea secondo la quale libertà individuale e democrazia possono sempre essere in “fondamentale conflitto”, e giunge a domandarsi «se l’individuo sia obbligato ad accettare tutte le limitazioni che “la democrazia” può imporre alla libertà individuale […] semplicemente perché l’individuo è una minoranza, cioè viene a trovarsi di fronte a quel “popolo” che è validamente “rappresentato” dal legislatore»113. A suo avviso dunque «una riformulazione dei concetti di “democrazia” e “popolo” e di “rappresentanza del popolo” è realmente necessaria non solo per sottoporre a giudizio le relazioni fra “libertà” e “democrazia”, ma anche per decidere qual è la funzione reale del giudiziario, nei confronti di quella del legislativo, in una libera società moderna»114, al fine di evitare che usando il termine Ivi, (trad. it. cit. pp. 138-139). Sull’impossibilità per la democrazia rappresentativa di far coesistere scelte collettive e libertà individuale si veda R. CUBEDDU, Friedrich A. von Hayek and Bruno Leoni, in «Journal des Economistes et des Etudes Humaines», vol. IX, n. 2\3, 1999, pp. 343-370, pp. 360-361. 111 Alla critica della rappresentanza, oltre che Freedom and the Law, è dedicato anche B. LEONI, A “Neo-Jeffersonian” Theory of the Province of the Judiciary in a Democratic Society, in «UCLA Law Review», n. 4, 1963, pp. 965-984 (trad. it. Una teoria “neo-jeffersoniana” della funzione del potere giudiziario in una società democratica, ora in B. Leoni Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica, Introduzione di Mario Stoppino, Milano, Società Aperta 1997, pp. 73-96), un confronto con S. HOOK, The Paradoxes of Freedom, University of California Press, Berkeley 1962, un saggio a difesa della democrazia e del principio di maggioranza, e dunque della produzione del diritto esclusivamente per via legislativa, nel quale si attacca anche il controllo di legittimità costituzionale delle leggi, sulla base del principio della sovranità (illimitata) del parlamento. 112 B. LEONI, A “Neo-Jeffersonian” Theory… op. cit. (trad. it. cit. p. 79). 113 Ivi, (trad. it. cit. pp. 83-84). 114 Ivi, (trad. it. cit. p. 90). 110

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“democrazia” non si faccia altro che riproporre in versione moderna ed aggiornata i vecchi dispotismi. La libertà individuale si va dunque sempre più riducendo a causa dell’eccessivo sviluppo della legislazione e del conseguente incremento del “processo amministrativo”, nel quale ai funzionari è attribuito un potere incontrollabile. A partire da questa critica Leoni sostiene come il diritto possa formarsi con un processo diverso e più simile al modo in cui avviene lo sviluppo scientifico e al modo in cui si formano, ad esempio, il linguaggio, le mode e l’arte. Alla legislazione, ossia alla creazione e all’imposizione del diritto in modo coercitivo da parte di maggioranze variabili e contingenti, si contrappone un processo che privilegia, come nelle scoperte scientifiche, la libertà individuale e «la convergenza di azioni e decisioni spontanee da parte di un grande numero di individui»115 per adottare quelle che si ritengono le soluzioni migliori. Questa concezione, per la quale il diritto è qualcosa che non va prodotto (decretato), ma qualcosa di preesistente che va scoperto tramite l’opera dei giudici, caratterizzò a lungo la storia romana, e oggi ne rimane un’eredità nei paesi anglosassoni. Il processo davanti ad un giudice, a differenza del procedimento legislativo, è molto più assimilabile al procedimento dell’economia di mercato. Esso, infatti, si fonda su una sorta di collaborazione tra tutte le parti in causa per cercare di scoprire quale sia la volontà delle persone in una serie di casi simili e così risolvere il caso concreto sollevato dalle parti, sulla base del principio del precedente vincolante. Al contrario la produzione legislativa dei parlamenti non ha niente di simile a un tale tipo di cooperazione, e appare a Leoni più come un diktat di maggioranze vincenti su minoranze perdenti, uno scontro in cui ci sono vincitori e vinti, vincolati da decisioni altrui. L’affermarsi di questa concezione del diritto può avere come esito «la distruzione graduale della libertà individuale di scelta nella politica come nel mercato e nella vita privata». Alle scelte individuali si sostituiscono sempre più spesso le scelte collettive, basate su “procedure rigide e coercitive”, sul prevalere della maggioranza sulla minoranza, e questo inevitabilmente porta alla «eliminazione progressiva degli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda e offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento»116. L’abuso della legislazione sta dunque portando da un lato alla riduzione 115 116

B. LEONI, Freedom and the Law, op. cit., (trad. it. cit. p. 10). Ivi, (trad. it. cit. p. 144).

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della libertà individuale, e dall’altro alla perdita del senso del diritto e della giustizia da parte dei cittadini, che si abituano a ritenere giusto solo ciò che è frutto dell’operare dei parlamenti. Il compito del diritto dovrebbe al contrario essere prevalentemente negativo, ossia avere l’obiettivo non di realizzazione qualcosa che vuole la maggioranza, ma di tutelare e proteggere la libertà dei singoli individui, identificando quella che è la loro volontà comune, condivisa da tutti. Scoprire la volontà comune è anzitutto scoprire che cosa la gente non vorrebbe che le venisse fatto, scoperta assai più semplice del determinare cosa la gente vorrebbe fare. In ogni società infatti le convinzioni riguardo alle cose da non fare sono molto più omogenee di quelle sulle cose da fare, e su tali questioni si può dire che non esistano minoranze. Questo diritto, a giudizio di Leoni, può essere identificato sulla base del principio di una semplice “regola aurea”, contenuta nel pensiero di Confucio prima ancora che nel Vangelo: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Un principio prettamente negativo, e per questo adatto più di ogni altro a connotare la libertà. La riflessione di Leoni è dunque tutta volta ad individuare i limiti della democrazia, o forse bisognerebbe dire della politica in generale, la quale basandosi su decisioni prese da alcuni e valide per tutti contiene in sé un ineliminabile elemento di coercizione. E a partire dalla constatazione dei limiti della democrazia egli indica la strada per ridurre il più possibile la sfera delle decisioni collettive, per arrivare ad un sistema che, guardando all’insegnamento del diritto romano e della common law, sia veramente in grado di tutelare la libertà individuale. Bisogna dunque, nell’economia, nel diritto e nella politica, ridurre “la vasta area” delle decisioni collettive, per cercare di «stabilire uno stato di cose simile a quello che prevale nell’ambito del linguaggio, della common law, del libero mercato, della moda, del costume, ecc., dove tutte le scelte individuali si adattano reciprocamente e nessuna è mai messa in minoranza». L’area in cui si ritengono necessarie le decisioni collettive è dunque oggi colpevolmente sovrastimata, e per contro «l’area in cui gli adattamenti individuali spontanei sono stati ritenuti necessari o convenienti è stata circoscritta ben più severamente di quanto non sia consigliabile se vogliamo conservare il significato tradizionale dei grandi ideali dell’Occidente»117. Ogni volta che si sostituisce, senza una vera necessità, la regola di 117

Ivi, (trad. it. cit. p. 145).

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maggioranza alla scelta individuale, la democrazia si pone in contrasto con la libertà individuale, e per questo bisogna sottrarre alla sfera delle decisioni collettive tutte quelle decisioni che non sono tra loro incompatibili, e che devono rimanere tra le scelte individuali. Per fare questo Leoni prospetta una sorta di “rivoluzione” con la quale molte delle norme che ora sono leggi scritte passino nell’area delle leggi non scritte, con l’obiettivo di riformare il diritto per farlo diventare, o tornare ad essere, «un processo principalmente, se non esclusivamente spontaneo, come il commerciare, il parlare o il trattenere relazioni complementari da parte di individui con altri individui»118. Questo non vuol dire che si possa fare completamente a meno della legislazione, ma che essa dovrebbe essere considerata residuale rispetto al diritto prodotto per via giurisprudenziale. Lo strumento della “rivoluzione” di Leoni è dunque la netta separazione del potere giudiziario dagli altri poteri, restituendogli il compito di “scoprire” il diritto che si forma spontaneamente dalle azioni di individui liberi. Alla legislazione e ai suoi difetti vanno sostituite il più possibile le soluzioni giurisprudenziali, le quali sono più idonee a scoprire il diritto perché si realizzano tramite «una specie di collaborazione ampia, continua e per lo più spontanea fra giudici e giudicati allo scopo di scoprire qual è la volontà della gente […] una collaborazione che può essere paragonata per molti aspetti, a quella che esiste fra tutti i partecipanti ad un mercato libero»119. Le decisioni giudiziarie infatti, al contrario della legislazione, non sono decisioni astrattamente pianificate, ma vengono prese solo su richiesta degli interessati, sono valide principalmente nei confronti delle parti in causa e solo occasionalmente nei confronti di terzi ed infine fanno riferimento a decisioni simili precedenti. Esse sono dunque rivolte a scoprire la volontà comune delle parti, ossia quella «volontà che emerge dalla collaborazione di tutte le persone interessate, senza ricorso alle decisioni di gruppo e ai gruppi di decisione»120, in un processo analogo a quello che si verifica nell’economia, nelle scoperte scientifiche, nella moda, nell’arte e nel linguaggio. Processi nei quali emergono spontaneamente le merci che più soddisfano i bisogni, le invenzioni più efficaci e le parole che più delle altre corrispondono a certi scopi (che risultano più intelligibili ecc.), e vengono adottate spontaneamente dalla collettività. 118 119 120

Ivi, (trad. it. cit. p. 147). Ivi, (trad. it. cit. p. 25). Ivi, (trad. it. cit. p. 151).

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Quella di Leoni è dunque una potente e corrosiva critica della democrazia, fondata sui falsi miti della rappresentanza e della legislazione, e sulla inevitabile coercizione delle decisioni collettive. Rispetto alle decisioni collettive, delle quali pure ammette che non si può fare completamente a meno, Leoni tenta una doppia operazione di riduzione. Da un lato tende a vederle (almeno quando sono in numero eccessivo) come potenzialmente inconciliabili con la libertà individuale e a considerare ineliminabile la coercizione in ogni tipo di decisione politica, e per questo propone la limitazione del numero delle decisioni politiche, che devono essere mantenute solo ove strettamente necessarie. Da un altro punto di vista egli cerca sempre più di individuare come possibile una produzione del diritto, e dunque una modalità di operare scelte “politiche”, che non abbia come elemento caratterizzante la coercizione, ma che si basi su processi di accordo spontanei e sul concetto di scambio. Egli tenta dunque di superare l’elemento coercitivo presente nella politica e nel diritto, sostituendo alle decisioni di gruppo delle decisioni frutto di una volontà comune intesa come libera adesione da parte degli individui e basata, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, sullo scambio di pretese e di poteri, un’idea che caratterizza più distintamente una seconda e più originale fase della sua riflessione. Freedom and the Law rappresenta un importante momento nel cammino verso la sua fondazione filosofica di una concezione del diritto e della politica in cui non vi sia spazio per la coercizione. Ma in quest’opera vi è soprattutto la critica della democrazia (che si identifica prevalentemente con la legislazione) la quale «non costituisce un’appropriata alternativa all’arbitrio, ma spesso concentra gli ordini vessatori dei tiranni o di maggioranze arroganti contro tutti i processi spontanei di formazione di una volontà comune»121. La sua convinzione è dunque che sia necessario ridurre risolutamente le norme emanate dal potere legislativo e concepite come esito di decisioni collettive, per rivalutare il diritto che nasce spontaneamente nel popolo e viene scoperto per via giurisprudenziale, con un processo che ricorda da vicino quello del mercato come descritto dagli austriaci, nel quale sono i consumatori a dettare la produzione di ciò di cui hanno bisogno. La democrazia e la legislazione sono inevitabili, ma è anche inevitabile che esse comportino un grado di coercizione, il quale nelle nostre democrazie ha raggiunto un grado non più compatibile con la libertà individuale. In questo senso 121

Ivi, (trad. it. cit. p. 171).

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la democrazia ha fallito, ed essa va ampiamente ristrutturata e ridotta in alcune delle sue funzioni principali.

5. La necessità della democrazia I pensatori liberali riflettono dunque su cosa sia la tradizione democratica e cosa invece la tradizione liberale, o meglio ancora riflettono sul se e quanto i valori del liberalismo siano (debbano necessariamente essere) anche i valori della democrazia. Il problema è in parte racchiuso nella definizione della democrazia, ossia nel fatto che essa possa essere intesa al contempo come un sistema politico (meccanismo elettivo) e come un sistema di valori, frutto dell’evoluzione della civiltà occidentale122. Indubbiamente il sistema di valori della democrazia comprende anche il rispetto della libertà individuale, tuttavia può avvenire sia che il sistema politico, l’elezione, dia risultati che possono portare alla negazione della libertà individuale, sia che i valori che dovrebbero caratterizzare la democrazia risultino suscettibili di una interpretazione e di una evoluzione non favorevole alla tutela della libertà individuale123. Entrambe le cose sono possibili, e di fronte a questi rischi la concezione della democrazia che fa riferimento ai valori liberali si trova indifesa. Nel primo caso, se si negasse il meccanismo politico di scelta a maggioranza, la democrazia porrebbe fine a sé stessa. Nel secondo caso, se si tentasse di negare l’evoluzione verso alcuni valori anziché altri, la democrazia perderebbe gran parte della sua attrattiva e probabilmente si trasformerebbe in qualcosa di diverso. L’essere un sistema politico flessibile rispetto agli ideali da realizzare è infatti sia la forza sia la debolezza della democrazia. È la sua forza perché la ha resa un sistema in un certo senso “universale”, o come si direbbe oggi esportabile, poiché il meccanismo della maggioranza che sceglie il governo è compatibile anche con valori e tradizioni che non siano quelli del mondo occidentale. È la sua debolezza perché essendo la maggioranza ad avere il titolo per decidere quali sono i valori da reaSu questi temi un ottimo punto di riferimento è, nonostante gli anni, G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited op. cit., II, in particolare il primo e secondo capitolo. 123 Alcune interessanti considerazioni sul rapporto tra democrazia e libertà si trovano in A.O. HIRSCHMAN. The Rhetoric of Reaction. Perversity, Futility, Jeopardy, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1991 (trad. it. Retoriche dell’incertezza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Il Mulino, Bologna 1991). 122

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lizzare, la democrazia rischia di essere compatibile, seguendo il ragionamento di Schumpeter, sia con il liberalismo sia con il socialismo, e può dunque anche diventare una democrazia totalitaria. Vi è certamente il principio del rispetto delle minoranze, che è fondamentale quanto il meccanismo della scelta a maggioranza, e che garantisce una buona valvola di sicurezza per la libertà degli individui. Tuttavia il fatto che si debba consentire a chi è minoranza oggi di essere maggioranza domani non impedisce necessariamente alla maggioranza attuale di governare seguendo princìpi che neghino la libertà come intesa dal pensiero liberale, e che ad esempio comportino che l’uguaglianza politica si trasformi anche in uguaglianza economica, a discapito della libertà. In sintesi, la libertà politica è necessaria, ma essa non è sufficiente al liberalismo, che ritiene essenziale anche la libertà individuale e quella economica, vedendo questi diversi tipi di libertà come un’unica cosa inscindibile. La democrazia dunque non sembra poter sempre difendere adeguatamente i valori del liberalismo, o almeno alcuni di essi. Si possono ritenere quei valori a fondamento della democrazia stessa, tuttavia, nel momento in cui si adotta il meccanismo democratico, o essi sono già presenti e prevalgono, oppure si rischia di non essere in grado di fare nulla per impedire che vengano sostituiti da altri e ben meno liberali valori. Se dal punto di visto pratico la convivenza tra democrazia e liberalismo continua a essere ritenuta indispensabile, è anche vero che dal punto di vista teorico non se ne nascondono le difficoltà e anzi si individuano importanti elementi di frizione tra le due tradizioni, poiché così come è possibile la libertà (intesa come non interferenza) senza democrazia (intesa come autodeterminazione, autonomia), è anche possibile la democrazia senza la libertà. I valori liberali dunque non sono necessariamente i valori della democrazia, e questo anche se si sostiene che se essi non ci sono la democrazia fallisce e che, senza i valori del liberalismo, del modello democratico rimane ben poco, ossia rimane una procedura che può essere assoggettata ad una delle tante forme che il totalitarismo ha saputo assumere nella storia. Tuttavia, al di là di questa consapevolezza, rimane in sede teorica e storica sia la domanda sul se e quanto il meccanismo democratico riesca davvero a far radicare e germogliare i valori liberali di cui ha bisogno, sia l’interrogativo sul cosa si possa fare affinché la democrazia mantenga fermi i valori liberali. Il confronto con la tradizione democratica si pone in tal senso, per molti autori liberali del secondo dopoguerra, anche come un punto di osservazione privilegiato sui fondamenti della teoria liberale stessa.

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La comprensione di quali fossero gli errori del passato da imputare alla tradizione democratica e quali a quella liberale era infatti il presupposto necessario per rifondare e far rinascere un liberalismo ormai da tempo considerato in declino, e che per questo doveva far chiarezza su quali fossero i propri concetti fondamentali e quali gli strumenti più idonei ad attuarli in un mondo in continuo mutamento. Per questo il rapporto con la teoria democratica si pone, quanto e forse più che il rapporto con il totalitarismo, come uno degli elementi dirimenti per la (ri)definizione e la rinascita del liberalismo classico. Nel delineare quel rapporto si è guardato alle riflessioni di alcuni dei più importanti pensatori liberali del Novecento, tentando di porre in luce come esse si snodino intorno a due principali nuclei tematici, tra loro strettamente interconnessi. Il primo è la definizione della libertà, o meglio ancora il tentativo di identificare quale sia, per un liberale, la “vera” idea di libertà, e cosa rappresenti invece un’estensione indebita di quel termine ad altri concetti potenzialmente contrastanti con la libertà individuale. Il secondo è la distinzione tra democrazia liberale e democrazia illimitata, che è poi anche l’analisi di quali siano le condizioni di compatibilità tra le due tradizioni di pensiero, ma anche di quali siano le inevitabili dissonanze e cosa la tradizione liberale possa fare per tentare di dirimerle. L’analisi di questi due punti si rivela essenziale per capire in che termini il rapporto tra democrazia e liberalismo abbia condizionato la nuova fisionomia della rinascente tradizione del liberalismo classico. Per quanto concerne il significato della parola libertà, e dunque la concezione che sta dietro quella parola, si è detto come il punto di partenza obbligato sia rappresentato dalla distinzione tra la libertà positiva e la libertà negativa, una distinzione che si è visto essere stata riproposta con forza nel 1958 da Berlin. Pur non priva di problemi, quella distinzione ha il pregio di mettere bene in luce il fatto fondamentale che la libertà individuale è qualcosa di diverso dalla libertà politica. La libertà dei liberali è la prima, è la libertà negativa, ossia è il diritto che gli individui hanno di tentare di realizzare i propri obiettivi, la propria felicità, in un percorso che può essere pieno di ostacoli, anche insormontabili, ma che non accetta che tra tali ostacoli vi sia il potere di un’autorità che decide se e come gli individui siano liberi di intraprendere il percorso che sono loro a scegliere. Il ruolo dell’autorità sarà dunque quello di fissare delle regole che impediscano alla libertà di diventare licenza, ossia di impedire che l’esercizio della propria libertà da parte di una persona ostacoli e blocchi l’esercizio di un’analoga libertà altrui. Il principio

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che si difende è che nessuno può interferire con la libertà degli altri di perseguire i propri fini, purché questo lo si faccia senza nuocere alla libertà altrui, e l’autorità si giustifica proprio per prevenire, e sanzionare, il tentativo di alcuni di impedire ad altri di esercitare la propria libertà, di interferire (coercitivamente) con essa, decidendo al loro posto cosa è giusto e cosa deve essere realizzato. Ora questa idea di libertà va incontro a non poche difficoltà, e la discussione intorno ad esse rappresenta un passaggio assai interessante della filosofia politica contemporanea, che non è qui possibile ripercorrere124. Quello che si vuole fare è invece analizzare meglio quali siano gli elementi caratterizzanti di quell’idea di libertà “negativa”, per vedere poi come essi forniscano i binari sui quali si instrada la rinascita del liberalismo classico. Il primo punto da ricordare, che abbiamo visto essere stato messo in luce da Mises, Hayek e Leoni, è che la libertà riguarda sempre un rapporto tra persone. Questo importante aspetto si comprende meglio guardando alla negazione della libertà, ossia alla coercizione, la quale è sempre qualcosa che altri uomini esercitano su di noi. Essa è allora strettamente connessa al concetto di potere, inteso come la capacità di indurre o costringere gli altri a fare cose che non farebbero se non ci fosse il nostro intervento. In questo senso si è liberi solo quando si è liberi dalla coercizione, dall’interferenza esercitata da altre persone, e non da altri ostacoli pure importanti ma non riconducibili alla volontà umana. Un ostacolo “naturale”, non imposto dalla volontà umana, può limitarci fortemente e renderci incapaci di raggiungere i nostri obiettivi, anche più della coercizione esercitata da altri uomini, ma non è la negazione della libertà. Se una condizione di indigenza mi impedisce di abbandonare il luogo in cui mi trovo, o se me lo impedisce un ostacolo fisico o una malattia, la conseguenza può essere una limitazione della mia capacità di agire anche peggiore della limitazione imposta dall’arbitrio di altri uomini, ma in quei casi non si può dire che non sono libero di agire, infatti non ho la capacità, o la possibilità, di raggiungere il mio obiettivo, ma continuo ad essere libero. Il fatto che nei casi limite riportati come esempio non cambi molto in termini pratici per la realizzazione dei propri obiettivi, non può negare l’importanza della distinzione tra la libertà e quella che potremmo forse chiamare impossibilità fisica. Sull’argomento si veda ad esempio la raccolta di saggi I. CARTER, M. RICCIARDI (a cura di), L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996. 124

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Quello che qui preme mettere in evidenza, al di là delle difficoltà e dei limiti connessi a questo concetto di libertà, è che tale idea di libertà è logicamente distinta dalla libertà positiva che è a fondamento della democrazia, ossia dall’idea che la libertà si realizzi nella scelta di un governo. Una libertà che può avere tra le sue possibili implicazioni la convinzione che dopo le elezioni gli individui rimangano liberi, qualunque sia l’esito della scelta e qualunque decisione prenda il governo eletto a maggioranza. Che la democrazia possa essere totalitaria, o meglio, più propriamente, che possa produrre esiti totalitari, era purtroppo una constatazione che in quegli anni i pensatori liberali avevano davanti agli occhi. E si tratta in fondo della constatazione che se è vero che senza democrazia non c’è libertà (politica) non è vero che con i meccanismi democratici la libertà viene garantita automaticamente, ossia che i meccanismi democratici da soli non sono in grado di renderci certi che la libertà degli individui sia al sicuro dai soprusi altrui, maggioranze o minoranze che siano. Nel capitolo precedente si è visto come i pensatori liberali, in particolare Mises e Hayek, fossero profondamente preoccupati della possibilità che i germi della mentalità totalitaria si stessero diffondendo anche nelle democrazie. In questo capitolo si è affrontato un problema contiguo ma diverso, legato a quanto la democrazia in sé sia un sistema vulnerabile al totalitarismo o quanto sia invece necessaria alla difesa della libertà individuale. E la risposta a questo problema è che la democrazia è entrambe le cose, è “pericolosa” per la libertà ed è essenziale per poterla mantenere. Ecco perché i pensatori liberali riflettono su come rafforzare la vena liberale della democrazia, su cosa serva per radicarla, e le loro riflessioni, pur tra loro diverse, si muovono intorno a uno stesso nucleo tematico. Autori come Schumpeter, Mises e Hayek, pur nella loro diversità, concordano sia sul fatto che della democrazia non si può fare a meno sia sul fatto che essa funziona bene e riesce a salvaguardare la libertà quando ci sono tradizioni, istituzioni e sane idee che la sorreggono. Questo è vero innanzitutto per Mises, l’autore che più distintamente di tutti fornisce un insegnamento sul potere delle idee, sul fatto che le idee hanno conseguenze. Se infatti a suo giudizio il liberalismo è l’unica “filosofia politica” in grado di fornire una corretta spiegazione dell’ordine sociale (è l’unica posizione “scientificamente corretta”), è anche necessario che una tale filosofia sia riconosciuta dal popolo perché possa essere a fondamento dello stato. Per Mises la pace è un bene ne-

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cessario alla libertà e al conseguente benessere, e per questo egli ritiene la democrazia necessaria, poiché essa è consenso del popolo e solo con il consenso vi può essere pace. L’unica strada per salvaguardare la libertà e assicurare lo sviluppo sociale è convincere i cittadini della necessità di una politica liberale, ma se al governo vi sono “uomini spregevoli”, che non hanno in nessuna considerazione la libertà degli individui, la colpa è degli intellettuali che hanno consentito il successo di quegli uomini. Ecco perché «ciò di cui il mondo ha bisogno non è una riforma costituzionale, ma sane ideologie»125, e chiunque voglia instaurare un governo giusto deve cominciare offrendo appunto sane ideologie. La soluzione è dunque nel potere delle idee, forse la si potrebbe definire come la soluzione “classica” dell’educazione, facendo anche ammenda degli errori di un liberalismo che aveva ritenuto che bastasse l’acquisizione di risultati scientificamente validi per risolvere i problemi, una tentazione che pure negli scritti di Mises talvolta affiora126. Una spiegazione scientifica giusta (come è ad esempio l’economia di mercato secondo gli austriaci) si afferma infatti non (solo) quando è tale, ma quando è accettata come tale, quando la comunità la accetta127. Di questo Mises (e come lui Hayek) si rende perfettamente conto, e per questo riflette sul potere delle idee, un tema che si pone parallelamente a quello della correttezza scientifica. I liberali sono consapevoli di come una società aperta consenta il riconoscimento delle teorie giuste meglio delle altre società, ma essa esiste, e si può perpetuare, se la gente ritiene che funzioni, se la accetta come migliore soluzione. E perché la accetti non basta dire che è scientificamente migliore, ma si richiede l’impegno costante perché venga riconosciuta come migliore, perché le persone L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. p. 169). Si veda a questo riguardo quanto detto a proposito di Mises nel secondo capitolo. 127 Di questa idea era convinto anche un altro importante pensatore, Michael Polanyi (fratello di Karl, autore di The Great Transformation) secondo il quale le stesse conoscenze scientifiche per poter fiorire e affermarsi hanno bisogno di un determinato contesto culturale, senza il quale è come se non esistessero. Questa tesi è sostenuta, oltre che nel suo libro M. POLANYI, Personal Knowledge, University of Chicago Press, Chicago 1958 (trad. it. La conoscenza personale, Rusconi, Milano 1990), anche in due saggi degli anni Sessanta, The Republic of Science: Its Political and Economic Theory del 1962, e The Growth of Science in Society, del 1967, che si trovano nella raccolta di saggi M. POLANYI, Knowing and Being, University of Chicago, Chicago 1969 (trad. it. Conoscere ed essere, Armando, Roma 1988, pp. 81-120). Per un confronto tra Hayek e Polanyi si veda R.T. ALLEN, Beyond Liberalism: The Political Thought of F. A. Hayek & Michael Polanyi, Transaction Publishers, New Jersey 1998 e M. QUIRICO, Collettivismo e totalitarismo: F.A. von Hayek e Michael Polanyi (1930-1950), Franco Angeli, Milano 2004. 125 126

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ne vedano i vantaggi e la accettino come giusta. In questo senso per Mises, come anche per gli altri autori, una società liberale è sempre una conquista da compiere, e da compiere con le armi della convinzione e della democrazia. Schumpeter ha un pensiero per molti versi assai diverso da quello di Mises, perché non ha la stessa fiducia sul ruolo delle idee, e non crede che il liberalismo sia una sorta di “verità” filosofica e scientifica, ma crede anzi che il futuro sia del socialismo, ritenuto compatibile con la democrazia. Tuttavia egli elabora anche quello che abbiamo chiamato il modello di democrazia “ideale”, che consiste in una serie di condizioni necessarie perché la democrazia funzioni come democrazia liberale, e queste condizioni sono riconducibili alle tradizioni e alle idee politiche liberali dell’establishment, e a una loro assimilazione da parte della popolazione. Sintetizzando all’eccesso, ma non in maniera scorretta, si può dire che anche per Schumpeter la democrazia per funzionare bene ha bisogno di convinzioni liberali diffuse, di una cultura liberale, o per usare il linguaggio di Mises di una “sana ideologia” liberale. E questo perché, se liberalismo e socialismo sono incompatibili, agli occhi di Schumpeter la democrazia sembra quasi stare in mezzo ai due: quando essa è di ispirazione socialista è incompatibile con il liberalismo, quando è di ispirazione liberale è incompatibile con il socialismo. Ma di per sé essa sembrerebbe essere compatibile con entrambi, e per questo a un pensatore di convinzioni liberali essa può apparire come un pericolo o come un antidoto, a seconda di quali siano le idee prevalenti nella società. Il discorso di Hayek si muove solo apparentemente su un piano diverso. Egli infatti focalizza la sua attenzione nell’ambito del diritto, ma come si è visto deve infine ammettere che la stessa rule of law è in realtà un ideale “metagiuridico”. Attribuendo alla rule of law il carattere di un’ideale egli sembra anche ritenere che sostanzialmente non vi siano modi o tecniche certe per mantenerla, e che essa sia affidata appunto alla “fede” che gli uomini (o più precisamente i governanti) hanno in essa, e dunque da un lato a una serie di circostanze storiche più o meno fortuite128, e da un altro alla capacità di affermarsi della cultura liberale. Qui egli sembra essere molto vicino a quella concezione di “regole prudenziali” di Oakeshott, tuttavia non si può dimenticare che l’intento di Hayek era quello di indicare dei limiti certi per garantire la libertà e che dunque egli si muoveva su un piano diverso rispetto a quello più eminentemente filosofico e descrittivo nel quale si muoveva l’inglese. Per un confronto tra Hayek e Oakeshott si veda S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo. 128

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Che anche Hayek, nonostante tutti i suoi sforzi di trovare soluzioni “tecniche” alla difesa della libertà, arrivi alla conclusione che la principale salvaguardia per la libertà sia rappresentata da convinzioni liberali diffuse, è avvalorato anche dal fatto che egli non riesce a dare vere indicazioni precise né sul contenuto né su come debba nascere e mantenersi la rule of law. Le indicazioni sui requisiti necessari perché si possa parlare di rule of law (generalità, astrattezza, imparzialità), ai quali si aggiungono altre importanti considerazioni sulla “durata” delle norme (certezza di lungo termine), sulle garanzie processuali, sui limiti del potere discrezionale della pubblica amministrazione e altro ancora, non risolvono il problema del trovare un fondamento stabile per la libertà individuale, e sembrano comunque subordinate a quella fiducia dei politici nella rule of law come ideale metagiuridico. Anche la delimitazione di una sfera privata, garantita dalla legge e distinta dalla sfera pubblica, a tutela della libertà individuale, non sembra raggiungere il risultato sperato, sia perché è lo stesso Hayek ad accorgersi che sono ben poche le azioni compiute in una sfera che non hanno ripercussioni nell’altra, sia perché rimane sempre il problema di chi e come debba delimitare l’ampiezza di questa sfera privata. Ciò che continua a mancare nella sua riflessione, come anche, seppure in diversa misura, in quella di tutti liberali del Novecento, è un criterio per delimitare in modo sicuro il raggio di intervento dello stato e il possibile contenuto delle sue azioni, e questo forse perché quel criterio è impossibile da trovare con un grado adeguato di certezza. Se esistono beni e servizi che deve produrre lo stato, sia pure mantenendosi esterno rispetto al mercato, ossia senza interferire con il processo della catallassi, in un sistema democratico (anche se non di democrazia “totalitaria”) la scelta di quali e quanti debbono essere tali beni pubblici e tali servizi sarà comunque affidata a meccanismi di scelta democratica, con tutti gli inconvenienti che ne possono conseguire. Il fatto che ci si debba attenere a princìpi generali e astratti infatti non potrà certo impedire che il numero di servizi che deve fornire lo stato diventi virtualmente infinito, e che di conseguenza la tassazione e l’intervento statale assumano livelli che un pensatore liberale non sarebbe stato disposto ad accettare. Il problema di tutto il Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate” della società, Vita e Pensiero, Milano 1999, mentre interessanti considerazioni su Oakeshott e la tradizione liberale si trovano nel secondo capitolo di G. GIORGINI, Liberalismi eretici, op. cit.

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liberalismo classico è dunque il problema del non poter fornire una teoria esaustiva sui limiti dell’intervento pubblico e della tassazione, lasciandoci solo delle indicazioni che possono anche essere considerate importanti – come ad esempio l’idea che conti la “natura” ma non il volume delle attività pubbliche129 – ma che tuttavia ottengono il risultato sperato solo in presenza di circostanze storiche e culturali “favorevoli”, le quali non è detto che si mantengano nel tempo. Il liberalismo non è dunque in grado di tracciare in maniera chiara una linea che determini quali interventi sono legittimi e quali no, e nel momento in cui accetta il compromesso con la teoria democratica capisce che vi sono ragioni che impediscono allo stato della teoria democratica di autolimitarsi, ma non sa come affrontarle. Il compromesso con la teoria democratica lo porta ad accettare come inevitabile la legislazione dei parlamenti, su un arco di temi virtualmente illimitato, o del quale almeno non si possono dare indicazioni certe riguardo ai limiti nei quali la legislazione dovrebbe essere circoscritta. Hayek cerca di superare il problema con riferimento alla rule of law, la quale tuttavia emerge come il risultato di un atteggiamento prudenziale dei politici che non è dato sapere perché mai dovrebbe verificarsi e poi mantenersi nel tempo. Va tuttavia anche osservato che se tutto questo rappresenta dal punto di vista teorico una grave insufficienza, e in un certo senso anche una contraddizione rispetto ai suoi presupposti gnoseologici, è anche ciò che ha reso il liberalismo di Hayek “vincente”, o almeno più “spendibile”, dal punto di vista empirico, poiché oggi sembra assai improbabile, se non impossibile, che nel mondo occidentale solo una delle due tradizioni, liberale e democratica, sopravviva eliminando l’altra. Se il compromesso è dunque necessario è allora possibile dire che Hayek offre buoni argomenti per sostenere che esso deve essere spostato a favore del liberalismo, senza il quale la democrazia stessa si troverebbe di fronte a gravi pericoli. Ed in fondo questa può essere la valutazione conclusiva sull’utilità della riflessione liberale davanti alla democrazia. Il liberalismo non ha trovato una “formula magica” per essere sicuri che la democrazia sia una democrazia liberale, semplicemente perché una tale formula non può esistere. Il coUna tesi simile era già stata sostenuta in Italia da Luigi Einaudi; per una attenta ricostruzione e analisi del suo pensiero politico si rimanda a A. GIORDANO, Il pensiero politico di Luigi Einaudi, Name Edizioni, Genova 2006 e P. SILVESTRI, Il liberalismo di Luigi Einaudi, o del Buongoverno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 129

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stituzionalismo, che trova nella riflessione di Hayek il suo ultimo e più radicale approdo, è uno strumento utile che non va rifiutato, anche se si deve ammettere che esso non basta. Sarebbe sbagliato concludere che The Constitution of Liberty rappresenta solo una riproposizione senza novità degli elementi del liberalismo classico, come appunto i limiti costituzionali e l’imparzialità e astrattezza delle norme. Quest’opera segna infatti un momento di svolta nel pensiero liberale, che dalla fase di contenimento delle teorie socialiste e di alcuni “eccessi” delle teorie democratiche, che lo avevano caratterizzato per un lungo periodo, torna a cercare una propria strada, ossia qualcosa che lo contraddistingua come tradizione di pensiero autonoma e originale, che si caratterizzi per una propria risposta ai problemi della filosofia politica e non solo come soluzione a contrario. A questa rinascita Hayek dà un contributo fondamentale, non solo riproponendo le tematiche del costituzionalismo e dello stato di diritto, ma proponendo una teoria della conoscenza originale e fondante per la riflessione politica e introducendo, insieme a Mises (nonostante la diversità di alcuni presupposti), nel dibattito del dopoguerra l’eredità di Menger, dalla teoria dei valori soggettivi alla nascita non intenzionale delle istituzioni sociali. Tutte tematiche che verranno da Hayek approfondite in Law, Legislation and Liberty e che costituiranno un importante riferimento e momento di confronto per gli altri autori liberali. Queste idee a livello filosofico sono la ripresa della teoria dell’ordine spontaneo, che è una spiegazione dell’ordine che mette in discussione non tanto la democrazia come mezzo per prendere le decisioni, ma la democrazia come capacità di spiegare l’ordine, e dunque in ultima analisi ne contesta la legittimità oltre certi limiti, e ne riduce l’ambito di applicazione, a favore di una diversa spiegazione. A questo è dedicato l’ultimo capitolo di questo lavoro, ma già con l’analisi della riflessione di Leoni si sono iniziati ad intravvedere alcuni importanti tasselli. Come si è visto il tratto saliente di Freedom and the Law è rivalutare la possibilità che la formazione spontanea del diritto (che, lo ricordiamo ancora, è uno dei casi di nascita ed evoluzione spontanea e culturale delle istituzioni) possa funzionare ed essere efficiente anche senza l’intervento del legislatore, indicando nel diritto romano e nella common law degli esempi storici di una tale efficienza. Leoni individua questa possibilità, e ne fa il cardine per la tutela della libertà individuale nel campo del diritto, prima e più incisivamente di Hayek, che

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vi approderà con convinzione soltanto dalla fine degli anni Sessanta130. Ecco perché Freedom and the Law, prima ancora che una critica della legislazione e della rappresentanza, è una critica distruttiva della democrazia, ossia dell’opportunità di cercare le soluzioni ai problemi comuni agli individui tramite scelte collettive, ossia tramite il potere politico. La sua visione della politica e del diritto è indubbiamente debitrice alla tradizione austriaca, ma si deve anche rilevare che per alcuni aspetti si allontana dall’idea che della politica e dello stato avevano Mises e Hayek. Leoni tenta infatti di sottrarre la formazione del diritto ai politici e alla logica della maggioranza, ricollocandolo (quasi) interamente in un processo di evoluzione spontanea. Egli sembra non solo riconoscere che un ordine sociale possa nascere indipendentemente dal potere politico (statale), ma sembra quasi supporre che possa esistere ed evolversi senza scelte collettive, ossia senza coercizione e con un processo di adattamento spontaneo degli individui rispetto a quelle che appaiono le migliori soluzioni. La radicalità di Leoni riguardo a questo punto consente di inquadrare bene come per il liberalismo classico il grande problema della modernità non è altro che una progressiva cessione della sovranità individuale a favore delle scelte collettive. E questo avviene, più che con il totalitarismo, con la democrazia, con la giustificazione che essa sa fornire per il fatto che le scelte collettive vanno considerare legittime in quanto approvate dalla maggioranza. Il liberalismo, per poter rinascere come teoria politica con una propria dimensione e originalità rispetto (anche) alla democrazia non può evitare di mirare a ridimensionare la cessione della sovranità individuale, e dunque a ridurre le scelte collettive per tornare a decisioni comuni che non sono frutto dell’imposizione di una maggioranza. Leoni ha ben chiara questa consapevolezza, forse anche più di Mises e Hayek, i quali però ci ricordano che questo può essere fatto solo con strumenti democratici, ossia con il consenso popolare, e che ciò che bisogna fare è conquistare le menti, lanciare una sfida intellettuale che offra un’alternativa all’idea che le scelte fatte a maggioranza sono sempre non solo, o non tanto, la migliore soluzione, ma anche una soluzione comunque legittima.

Su come la riflessione di Leoni abbia influenzato quella di Hayek si rimanda a J. SHEARMUR, Hayek and After. Hayekian Liberalism as a Research Programme, Routledge, London-New York 1996, in particolare pp. 88-91. 130

Capitolo Quinto LIBERALISMO E MODELLI DI ORDINE

Il liberalismo contemporaneo sembra essere dominato da due diverse correnti: da una parte quella neo-contrattualistica, che ha in Rawls, considerato l’artefice della rinascita della filosofia politica, il suo principale esponente; dall’altra la tradizione del Classical liberalism, che negli anni del dopoguerra ha ripensato i propri fondamenti e si è risvegliato da un lungo letargo. Per capire queste due diverse anime del liberalismo bisogna tornare indietro e guardare quale sia l’originaria risposta alla più “classica” tra le domande della filosofia politica: come sia possibile il formarsi di un ordine sociale. Per farlo si devono confrontare i due principali modelli di ordine che nascono con l’avvento della ‘modernità’: il modello hobbesiano e il modello di quella tradizione che ha il suo iniziatore in Mandeville. Questi due modelli di ordine1 partono da un dato antropologico comune: la messa in discussione del paradigma aristotelico della naturale socievolezza dell’uomo, e il conseguente problema di come possa nascere la società a partire da un individuo insocievole. Mentre Hobbes, in ragione di un individualismo “esasperato”, indica come possibile solo una soluzione “artificiale” al problema della convivenza civile, Mandeville, non condividendo cause e conseguenze dell’insocievolezza Inutile dire che questi due modelli non esauriscono di certo la casistica riguardo alla ricerca del fondamento dell’ordine sociale, neanche per quanto riguarda la sola sfera del liberalismo classico. Basti pensare a tale proposito agli importanti tentativi di un recupero dei temi aristotelici in funzione liberale di D. RASMUSSEN, D. DEN UYL, Liberty and Nature: An Aristotelian Defense of Liberal Order, Open Court, Chicago, 1991, o al recupero delle tematiche etiche e del diritto naturale proposto ad esempio in T.R. MACHAN, Classical Individualism. The Supreme Importance of each Human Being, Routledge, London-New York 1998. 1

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umana, indica per la prima volta la possibilità della nascita “non intenzionale” e spontanea delle istituzioni sociali. Verrà dunque indagato il percorso della tradizione che parte da Mandeville, cercando di illustrare come le moderne teorie sull’ordine della Scuola austriaca rappresentino l’ideale sviluppo, non senza elementi di novità, del modello dell’autore de The Fable of the Bees. Un modello che, se portato alle sue estreme conseguenze teoriche, può anche condurre alle negazione della necessità delle scelte collettive, e dunque della politica come tradizionalmente intesa. A partire dalla distinzione tra le due diverse anime del liberalismo, o meglio tra le due diverse “fondazioni” della teoria liberale, sarà anche possibile tentare di capire da un lato quanto vi sia di nuovo nella rinascita del liberalismo classico nel secondo dopoguerra, e dall’altro quanto le critiche che su diversi piani abbiamo visto essere state mosse a quella tradizione fossero davvero da attribuire ad essa. La spiegazione dell’ordine inintenzionale è infatti assai diversa dalle altre soluzioni liberali, e il non aver sempre tenuto ben distinte queste diverse spiegazioni, o forse il non aver capito tutte le implicazioni che si generano da esse, potrebbe aver talvolta portato ad attribuire al liberalismo classico responsabilità non sue, magari muovendo critiche sulla base di categorie che sono difficilmente comprensibili nell’ambito di quella tradizione.

1. Il liberalismo tra Hobbes e Mandeville Il problema dell’ordine è forse il più classico tra i problemi della filosofia politica. In prima ed elementare istanza l’ordine può essere definito come una condizione di pace e sicurezza, tale da rendere possibile la vita civile associata. A questa definizione va tuttavia aggiunto un altro elemento caratterizzante, che fa capo all’idea di ordine come delicato sistema di comunicazione sociale. Cercando di legare i due concetti si può dire che si ha una situazione di pace quando gli uomini seguono regole di condotta chiare, dotate di autorità e (relativamente) condivise, ossia tali da consentire di avere aspettative ragionevoli riguardo ai comportamenti altrui. La filosofia politica classica, da Aristotele a Grozio, ha risolto il problema dell’ordine considerando l’uomo un animale politico dotato di socievolezza, ossia un essere che trova nella vita politica la sua dimensione naturale. Una tale concezione subisce quasi un ribaltamento nel Seicento ad opera di Hobbes, che presenta gli individui totalmente

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privi dell’impulso naturale alla socievolezza, non nel senso di a-socialità, ossia di non ricerca dei propri simili, ma nel senso di anti-socialità, ossia di ricerca dei propri simili con l’intenzione di sottometterli e dominarli. Una tale rottura radicale comporta un ripensamento della filosofia politica sin dai suoi elementi basilari, e in particolare del problema dell’ordine e dell’origine della società. Ripensamento che Hobbes attua proprio a partire dalla riconsiderazione della natura umana. La critica dell’uomo come animale politico viene proposta da Hobbes nelle sue tre più importanti opere politiche2 con diretto riferimento al luogo aristotelico3. Se nel caso delle formiche e delle api vi è corrispondenza tra bene comune e bene individuale, perché gli insetti si presentano come le cellule di un unico organismo e dunque stanno insieme e agiscono per istinto, non così avviene per gli uomini che sono invece condotti nella loro ricerca del bene individuale ad un’inevitabile competizione. L’uomo compete per l’onore e la dignità, e la sua aspirazione è la superiorità e il dominio sugli altri. Mentre l’animale identifica il proprio bene con il bene della specie, l’uomo è sempre e soltanto individuo singolo, che trova la sua realizzazione distinguendosi e superando i suoi simili. C’è dunque una incessante ricerca dell’altro, dettata dal bisogno di soddisfare le proprie passioni di onore e dominio, ma tale ricerca non porta mai al costituirsi di una società “naturalmente”, ma solo al conflitto4. Come già aveva osservato Adam Smith5, in termini hobbesiani dove c’è natura non c’è società e lo stato di natura non potrà mai essere una forma di società. La guerra di tutti contro tutti nello stato di natura è dunque al contempo la dimostrata impossibilità dell’uomo di essere naturalmente socievole ma anche il momento di nascita dell’io, che prende coscienza di sé confrontandosi e scontrandosi con gli altri uomini. Nello stato di natura l’uomo è dominato dalle passioni, a loro volta connesse alla ricerca della felicità, la quale è però irraggiungibile, poiché a fronte di desideri illimitati i mezzi e le capacità sono sempre limi-

Cfr. T. HOBBES Elements i, XIX, 5; De Cive ii, V, 5; Leviathan ii, XVII. ARISTOTELE, Politica I, 2 4 Come noto una soluzione opposta, in senso libertario, del problema di Hobbes è lo stato minimo di R. NOZICK, Anarchy, State and Utopia, Blackwell, Oxford 1970 (trad. it. Anarchia, stato e utopia, introduzione di S. Maffettone, Le Monnier, Firenze 1981). 5 A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, a cura di A. Zanini, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, pp. 435-436). 2 3

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tati6. La sua inclinazione è dunque un’aspirazione senza posa ad avere sempre più potere, e tale desiderio di potere è conseguenza della paura e dell’impulso dell’uomo alla propria conservazione. In questo modo Hobbes giunge a mostrare come la ricerca della propria conservazione collochi inevitabilmente l’uomo in una spirale distruttiva e in una situazione di guerra di tutti contro tutti. Lo stato di natura è dunque il frutto di una visione individualistica esasperata: ogni individuo è dotato di un “diritto su tutto”, ossia della libertà assoluta di compiere qualunque azione reputi utile al fine della propria autoconservazione, secondo un giudizio assolutamente insindacabile, frutto dell’utilizzo della propria ragione soggettiva e rivendicabile in virtù della propria forza. Una tale rappresentazione è probabilmente il frutto del modo che Hobbes aveva di guardare alla realtà storica in cui viveva, età in cui guerre civili e religiose sconvolgevano l’Europa. A spaventare Hobbes sembrano soprattutto essere le ripercussioni politiche delle teorie luterane del libero esame delle scritture e dell’universale sacerdozio, le quali, se prese alla lettera, possono essere vere dottrine anarchiche che conducono alla dissoluzione di ogni legame tra gli uomini. Se si concede agli uomini di agire secondo coscienza significa che ognuno diventa giudice di ciò che è bene e di ciò che è male, in una situazione di “anarchia di significati”7, nella quale è impossibile comunicare. Infatti, se ognuno è giudice insindacabile di ciò che è “razionale” (qui da intendersi come giusto), la conseguenza inevitabile è la distruzione dell’ordine sociale inteso come sistema di comunicazione8. La realizzazione di un ordine sociale a partire dagli individui è dunque impossibile non perché essi siano “mostri” intenzionati a distruggere gli altri, ma semplicemente perché non si può avere fiducia negli altri, non si può supporre che, anche solo per un problema di comunicazione, essi rispetteranno i patti9. De Cive, i, I, 6. S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 369), il quale però non tratta nella sua analisi dell’elemento religioso. 8 A questo proposito potrebbe essere assai interessante un’analisi delle considerazioni svolte da Hobbes in Elementi i, XIII sugli usi del linguaggio. 9 Interessante è anche l’attualizzazione che del problema della cooperazione sociale in Hobbes fa Rawls guardando ai problemi sollevati dalla teoria dei giochi, cfr. J.J. RAWLS Lectures on the History of Political Philosophy, edited by Samuel Freeman, Harward University Press, Cambridge (Mass) 2007 (trad. it. Lezioni di storia della filosofia politica, nota all’edizione italiana di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 80 e ss.). mentre sull’importanza del problema della cooperazione sociale per la teoria liberale spunti interessanti si trovano in G. CEVOLANI, R. FESTA, Giochi di altruismo. L’approccio evoluzionistico alla coo6 7

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Tutto questo induce Hobbes a trovare l’unica via d’uscita non nella natura degli uomini, ma nell’artificio che essi, utilizzando una ragione non più schiava delle passioni, possono creare. Poiché con i suoi presupposti antropologici Hobbes ha negato non solo ogni possibile inclinazione naturale alla società in termini di benevolenza verso il prossimo, ma anche ogni possibile coincidenza tra bene privato e bene pubblico, l’ordine può essere creato solo in termini interamente artificiali, ovverosia politici. Quello che fa Hobbes è individuare una passione più forte delle altre, la paura della morte violenta, rispetto alla quale tutti gli uomini sono uguali (tutti possono essere uccisi e tutti possono uccidere), e legarla ad una razionalità differente dalla razionalità soggettiva, ad una ragione oggettiva, che si manifesta nella capacità di individuare i mezzi indispensabili al raggiungimento della pace10. Questa ragione è in realtà il frutto delle leggi di natura11, che non sono, come nella tradizione storica e cristiana, leggi di coscienza, ma regole di opportunità, regole di esperienza per evitare la distruzione. A partire da qui si realizza il patto sociale, che intercorre tra tutti gli individui (“di tutti con tutti”) i quali rinunciano totalmente al loro diritto naturale su tutto e istituiscono un sovrano a loro esterno. Il sovrano, non entrando nel patto, rimane di fatto l’unico detentore dell’originario diritto su tutto, diventando così unico interprete, tramite le leggi positive, del giusto e dell’ingiusto e creando in tal modo quell’ordine, inteso come unità di significati (e dunque possibilità di comunicazione), che risultava impossibile concepire quando tutti mantenevano il loro diritto naturale di giudicare il bene e il male. Dato che gli uomini sono talmente diversi da non poter essere mai d’accordo su cosa è bene e cosa è male, l’unica alternativa all’anarchia è un potere assoluto e insindacabile, che metta fine alle dispute tra i sudditi. La “condivisione dei significati” si ha solo quando c’è un potere che la impone, che impone di parlare uno stesso linguaggio, che attribuisce alle parole uno stesso significato. In questo senso il sovrano può essere visto come “un grande definitore”12, e la ragione e il bene comune, più che associarsi alla verità, si associano alla certezza. Il potere del sovrano deve perazione umana, saggio introduttivo a M. Ridley, Le origini della virtù. Gli istinti umani e l’evoluzione della cooperazione, IBL Libri, Torino 2012. 10 Si veda N. MATTEUCCI, Alla ricerca dell’ordine politico, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 125 e ss. 11 De Cive, ii, II e III e Leviathan i, XIV e XV. 12 S. WOLIN, Politics and Vision… op. cit. (trad. it. cit. p. 373).

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perciò essere assoluto, ma esso non produce mai una trasformazione qualitativa dell’uomo e non tenta mai di trasformare la società in organismo: l’ordine politico rimane nella dimensione esteriore ed è sempre concepito per servire un fine individuale dei sudditi13. Al sovrano è addirittura affidata l’interpretazione delle scritture, ma, nonostante ciò, egli non entra nella coscienza dei suoi sudditi, e anche l’interpretazione delle scritture è da intendersi come una “necessità tecnica”. In tal modo Hobbes sembra voler tentare di risolvere il suo primo problema: come salvare gli uomini dall’anarchia senza ricadere in quell’organicismo che la “sua” modernità e il suo “liberalismo” avevano ormai negato e superato. Ma il sovrano assoluto trova al suo potere un limite assai interessante ai fini di questa ricerca, poiché apre le porte all’analisi di un modello opposto a quello di Hobbes, inaugurato dalla riflessione di Mandeville. Nel trattare i doveri dei sovrani14 Hobbes sembra anche voler mostrare come in realtà l’ordine sia una delle opzioni possibili e non una necessità logica, poiché lo stato di natura, che nell’esperienza storica è la guerra civile, è sempre in agguato. Per questo motivo il sovrano, che come tutti gli uomini persegue la sua utilità, ossia il mantenimento del potere, sarà indotto a governare bene, ossia a seguire quella “legge naturale” che gli impone un comportamento congruo alla possibilità di auto-conservarsi come sovrano, e in tal senso il mantenimento dell’ordine sembra affidato proprio ad un perseguimento razionale del proprio interesse da parte del sovrano. La ricerca dell’utilità personale si presenta come il tratto caratterizzante del pensiero di Mandeville, ma ha in questo autore una valenza completamente diversa da quella che assume in Hobbes, anche perché assume un significato politico in riferimento alle azioni di tutti gli individui e non solo a quelle del sovrano. L’utilità di Mandeville favorisce infatti una sorta di selezione naturale delle istituzioni, le quali non sono deliberatamente create dagli uomini, non sono frutto di un patto sociale. Questo, a giudizio di Hayek, ne fa l’iniziatore di una nuova tradizione di pensiero del liberalismo, fondata su una nuova soluzione del problema di come sia possibile l’ordine sociale15. In Hobbes, come si Cfr De Cive, ii, XIII, 3 «lo Stato, infatti, non è stato istituito in vista di sé stesso, ma in vista dei cittadini». 14 De Cive ii, XIII e Leviathan ii, XXX. 15 A Mandeville Hayek aveva dedicato pagine importanti già nel saggio Individualism: true and false, ma torna organicamente sul tema in Dr Bernard Mandeville, del 1966, poi inserito in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 271-289). Un’ampia 13

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è visto, essendo la situazione naturale una guerra di tutti contro tutti, la soluzione al problema della convivenza civile va cercata nella politica, nell’artificio: il contratto sociale pone fine alla guerra e, in un certo senso, alla “naturalità” dell’uomo. Mandeville condivide la posizione di partenza di Hobbes, il suo “anti-aristotelismo”, ma cerca di farvi fronte con un paradigma completamente diverso dal contrattualismo, di cui propone una critica durissima16. Egli infatti esclude categoricamente la possibilità che le società si possano essere formate da un patto tra gli individui, cosa che ritiene illogica poiché un tale patto sarebbe pensabile solo da individui che vivono già in una società regolata da norme. Non può essere un contratto a dare origine alla società, poiché per stipularlo gli individui dovrebbero già vivere in società, e dunque essa dovrebbe già esistere. Per Mandeville gli elementi essenziali per la stipulazione di un contratto (il linguaggio e la ragione) sono essi stessi dei prodotti del vivere sociale, e non si può pensare che esistano se non esiste già, prima del contratto, la convivenza civile e dunque la società. Per spiegare l’origine dell’ordine sociale Mandeville inizia con l’indicare la natura umana come caratterizzata dal self-love (amore di sé), che è il centro di tutte le passioni, l’impulso di autoconservazione dell’io e della specie, a cui si riconnette anche il self-liking (preferenza di sé), ossia l’amare il proprio io a preferenza degli altri. L’individuo di Mandeville ha anch’esso, come quello di Hobbes, bisogno del confronto con gli altri, e in particolare ne ricerca l’approvazione e la lode17, senza che ciò dia luogo ad una socievolezza “naturale” di tipo aristotelico. Infatti la ricerca dei propri simili è sempre in funzione di un vantaggio personale e non frutto di un’inclinazione positiva nei loro confronti. In Mandeville, e qui sta la grande differenza con Hobbes, la socializricostruzione di come le riflessioni di Mandeville, Hume e Smith siano a fondamento del liberalismo di Hayek è C. PETSOUAL, Hayek’s Liberalism and its origins. His Idea of Spontaneous Order and the Scottish Enlightenment, Routledge, London-New York 2001. 16 Tale critica è contenuta nel terzo e nel quarto dialogo tra Cleomene e Orazio, ossia nel gruppo dei quattro dialoghi che costituiscono la seconda parte di The Fable of the Bees, B. DE MANDEVILLE, The Fable of the Bees. Part II 1729 (trad. it. Dialoghi tra Cleomene e Orazio, a cura di G. Belgioioso, Milella, Lecce 1978, pp. 88 e ss). Una attenta ricostruzione del problema si trova in L. INFANTINO, L’ordine senza piano, op. cit., pp. 27 e ss. e al secondo capitolo di quel volume si rimanda anche per la ricostruzione complessiva delle origini della teoria dell’ordine spontaneo. 17 Cfr. B. DE MANDEVILLE, The Fable of the Bees, or, Private Vices, public Benefits 1725 (trad. it. La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici, a cura di T. Magri, RomaBari, Laterza, 1987, p. 32).

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zazione si ha perché l’uomo, con l’evoluzione e il progresso, si accorge di quali siano i vantaggi della vita associata: prima con il difendersi dal pericolo comune delle bestie feroci e poi con l’invenzione delle lettere e il bisogno di un governo e di leggi scritte a garanzia dello scambio. In tal modo la cooperazione tra gli uomini si impone non grazie alla ragione e al contratto, ma come un fatto “naturale”: l’uomo, partecipando alle relazioni sociali esclusivamente per soddisfare i suoi scopi, acquisisce la capacità di vivere in società perché ne vede immediatamente i vantaggi, e non perché vi è condotto artificialmente da un potere politico. La capacità di vivere in società viene dunque acquisita in modo inconsapevole, come capacità di fare previsioni circa eventi futuri e grazie alla forza dell’esperienza che induce, sempre per il proprio utile, a tenere dei comportamenti che rendono possibile la coesistenza pacifica18. Le norme sociali dunque, qualunque sia la loro apparente giustificazione, nascono in ragione di una funzione pratica, quella di consentire le interazioni tra gli individui, di rendere prevedibili le azioni altrui, e le stesse regole morali sono regole che hanno una loro origine nella sfera dell’utile. Tutte le norme, anche quelle della morale, sono il prodotto inintenzionale delle interazioni umane, e mutano nel tempo al mutare di tali interazioni19. Gli uomini interagiscono tra loro perché non sono autosufficienti, perché hanno necessità degli altri per soddisfare i propri bisogni, e da questa interazione, in modo imprevisto e non programmato, nascono le regole di comportamento, le norme sociali, le stesse regole morali – nasce un ordine, il quale non è programmato da alcuna mente umana, ma è il risultato delle azioni “egoistiche” degli individui che ricercano il soddisfacimento dei propri bisogni. Uno degli aspetti più rilevanti della riflessione di Mandeville è nel fatto che l’uomo, perseguendo il suo interesse privato, rende prevediCfr. T. MAGRI, Introduzione a B. Mandeville, La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari 1987, “La società produce, attraverso l’adattamento dei bisogni e delle capacità degli individui ai suoi vincoli interni e alle sue regolarità, le forme di comportamento individuale che la sostengono, ed elimina (mediante sanzioni non soltanto politiche, ma anche e soprattutto sociali […]) i comportamenti con essa incompatibili”, p. xxiii. Queste considerazioni sono sviluppate da Mandeville soprattutto nella seconda parte di The Fable of the Bees, in particolare nei dialoghi iii, e v. 19 In un certo senso le norme di Mandeville possono anche ricordare le “regole universali di condotta” che secondo Michael Oakeshott costituiscono il “bene comune” di un sistema politico liberale, Cfr. M. OAKESHOTT, On Human Conduct, Clarendon Press, Oxford 1975 (trad. it. La condotta umana, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 211-213). 18

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bile il proprio comportamento; l’individuo sa che se vuole raggiungere i suoi obiettivi deve conformare il suo comportamento a certe regole, rendendo le sue azioni prevedibili dagli altri uomini. Il grande merito di Mandeville è dunque aver mostrato come la ricerca del proprio interesse personale sia in realtà, oltre che l’origine di una prosperità che deriva dal libero scatenarsi delle passioni individuali, anche un vantaggio per gli altri individui, proprio perché un tale operare, per raggiungere il suo scopo, deve porsi come trasparente e intelligibile per tutti. Il perseguimento del proprio interesse e del soddisfacimento dei propri bisogni (che possono essere realizzati solo attraverso le altre persone) sono dunque alla base della nascita della società, ed essi sono anche la ragione della grandezza della costruzione sociale. Qui Mandeville, destando grande scalpore tra i suoi contemporanei, sostiene infatti che il benessere della società non ha niente a che fare con i comportamenti virtuosi degli individui e anzi, secondo il famoso sottotitolo di The Fable of the Bees, “vizi privati pubblici benefici”, sono proprio i comportamenti privati non virtuosi e il perseguimento dei propri interessi egoistici a garantire la ricchezza della “grande società”20. È l’esistenza del lusso e del superfluo che rende una società ricca, e se ogni individuo decidesse di vivere in maniera parca e parsimoniosa, consumando solo ciò che gli è strettamente necessario, la conseguenza sarebbe la povertà generalizzata. La “grande società” di Mandeville è dunque “incompatibile” con i comportamenti virtuosi (o quantomeno con l’eccesso generalizzato di alcune virtù) degli individui, e in essa vi è un’alchimia in base alla quale il “bene” (prosperità) scaturisce dal “male” (vizio). Gli stessi comportamenti “morali” o “virtuosi” hanno per Mandeville un movente “egoistico”. L’uomo desidera, e dunque ricerca con i suoi comportamenti l’apprezzamento degli altri, la loro stima e approvazione, cerca la “gloria” che solo la considerazione dei suoi simili gli può dare. Per questo motivo i comportamenti virtuosi, come il coraggio o lo stesso altruismo, non sono altro che comportamenti con finalità egoistiche, comportamenti volti a ottenere ciò che egoisticamente si desidera, ossia a conquistare un riconoscimento degli altri verso il nostro io. Una delle principali conseguenze della teoria dell’ordine che ha A sostenere che l’idea che i vizi privati possano produrre pubblici benefici non sia poi “tanto scandalosa” è stato Dario Antiseri, che ricorda anche questa frase dalla Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino «multae utilitates impedirentur si omnia peccata districte prohiberentur», D. ANTISERI Introduzione a F.A. VON Hayek, Individualismo: quello vero e quello falso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1997, pp. 5-34, p. 17. 20

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inizio con Mandeville è che non ha più senso guardare alla politica come elemento necessario per la nascita di un ordine sociale, e questo nonostante essa mantenga un ruolo fondamentale per la conservazione dell’ordine medesimo. Guardando a questo fondamentale problema si chiarisce anche la diversità rispetto a tradizioni di pensiero cha fanno parte della famiglia liberale, ma che non hanno nella teoria dell’ordine spontaneo il loro elemento caratterizzante. Un contributo importante alla comprensione di questo aspetto, che conferisce una forte alterità e autonomia al liberalismo spontaneistico rispetto a tutte le altre spiegazioni del problema dell’ordine, è il noto libro di Albert O. Hirschman, The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism before its Triumph21, nel quale, in maniera talvolta semplicistica ma sicuramente efficace, si illustra un percorso di storia delle idee riguardo al “come si fece ricorso agli interessi per fronteggiare le passioni”. Il punto di partenza di Hirschman è il Rinascimento, quando con Machiavelli emerge definitivamente che non basta più affidarsi alla morale filosofica o ai precetti religiosi per porre un freno alle passioni umane, potenzialmente distruttive, e si realizza definitivamente che è necessario partire dalla natura dell’uomo per individuare una soluzione al problema dell’ordine. Bisogna insomma individuare delle alternative alla semplice richiesta di obbedienza ai comandi di natura religiosa, i quali da soli non sono più in grado di garantire l’ordine. Oltre alla soluzione basata sulla repressione delle passioni, e dunque sulla coercizione di un ordine che si legittima in quanto esiste (soluzione che ovviamente ha nel patto hobbesiano la sua articolazione più avanzata), Hirschman espone due altre soluzioni, basate sull’idea del controllo delle passioni tramite altre passioni, due soluzioni che appaiono tra loro simili, ma che sono in realtà ben diverse. Una soluzione è quella che abbiamo appena illustrato, e che Hirschman definisce “frenante”, poiché consiste nell’“imbrigliare” le passioni, anziché reprimerle. È l’idea di «trasformare in qualcosa di costruttivo le passioni disgregatrici», e Hirschman individua in Pascal e Vico dei precursori della “mano invisibile” di Smith, e in Mandeville il primo pensatore che compiutamente ritiene possibile usare le passioni a profitto del bene pubblico. L’altra soluzione si distingue dalla precedente perché A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests. Political arguments for Capitalism before its Triumph, University Press, Princeton, Princeton 1977 (trad. it. Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979). 21

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vuole trovare una spiegazione razionale al freno delle passioni e far così sparire quella che veniva vista come una sorta di “alchimia” ingenua che caratterizzava il pensiero di Mandeville e di Smith. Emerge qui il concetto del divide et impera, ossia il principio che alcune passioni possano fungere da contrappeso per le altre passioni, e che questo meccanismo possa poi anche applicarsi al potere politico. Pioniere, forse inconsapevole, di questa idea è Bacone, che anticipa le riflessioni di Spinoza e soprattutto di Hume22, ed è proprio quest’ultimo, che vede la ragione come completamente schiava delle passioni, a sostenere che solo con l’avidità, una passione più potente delle altre, è possibile frenare le altre passioni23. Il meccanismo, dopo essere stato applicato agli individui, viene riproposto nella sfera statale, con il noto principio della separazione dei poteri, del checks an balances, che trova la sua massima espressione nell’America del Federalist24. E questa soluzione sembra poter coniugare il bilanciarsi delle passioni con la dottrina del contratto sociale. A giudizio di Hirschman la parte più importante di questa soluzione, la sua grande “rivoluzione”, riguarda il mutamento del concetto di “interesse”, il quale dopo essere stato a lungo denigrato assunse infine una nuova e positiva connotazione, legata all’idea di cura degli affari umani. L’interesse si colloca così come una terza categoria, a metà strada tra ragione e passione, prendendo il meglio da entrambe, e diventando «una base realistica per dare alla società un ordine vivibile»25. È grazie ad esso che l’operare degli uomini diventa costante e dunque prevedibile, come in passato lo era l’agire delle persone virtuose, risolvendo quello che era il principale nodo problematico di Machiavelli come di Hobbes. Con Hume si ha poi l’identificazione tra interesse e denaro, e l’identificazione della cupidigia come passione “universale”, a cui fare riferimento per interpretare e prevedere i comportamenti umani. Ma il desiderio di Come noto l’importanza di Hume per la tradizione liberale è stata enorme, e va ben al di là degli aspetti messi in luce da Hirschman. In lingua italiana si vedano almeno L. INFANTINO, Ignoranza e libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, pp. 107 e ss. e A. PANEBIANCO, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Il Mulino, Bologna 2004, a cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche. 23 Su questo si veda anche A. PANEBIANCO, L’autonomia e lo spirito. Azioni individuali, istituzioni, imprese collettive, Il Mulino, Bologna 2009, che riprende e rende attuale il tema del rapporto tra ragione e passione, dedicando grande attenzione a Hume. 24 Sulla rilevanza delle vicende, sia storiche sia di riflessione teorica, americane per la tradizione liberale si veda L.M. BASSANI, Dalla rivoluzione alla Guerra civile. Federalismo e stato moderno in America 1776-1865, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. 25 A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. pp. 41). 22

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guadagno, oltre che essere una passione “costante”, è anche “inoffensiva”, e l’accudire i propri interessi appare come passione innocua se paragonata alle altre. Così si arriva lentamente al declino dell’ideale aristocratico e all’idea del “dolce commercio”, esaltato da Montesquieu anche per il suo impatto culturale, per la sua capacità di “ingentilire” le nazioni e gli individui. Il commercio porta alla pace tra le nazioni, e Montesquieu indica chiaramente le favorevoli conseguenze politiche dell’espansione economica. La ricerca dell’arricchimento tramite il commercio è dunque una passione “calma”, capace di trionfare sulle altre, assai più turbolente, e facendo leva su quella passione sorge la «speranza che in tal modo il capitalismo avrebbe represso, e forse anzi atrofizzato, le componenti più disastrose e disgregatrici della natura umana»26. Rispetto a questa visione dell’interesse come strumento per disinnescare i pericoli delle passioni Smith ha un approccio molto diverso, poiché nella sua riflessione non vi sono tanto da sventare i pericoli delle passioni umane, ma c’è l’esaltazione dei vantaggi e dei benefici a cui può portare la volontà di perseguire il proprio guadagno, la passione per il raggiungimento del proprio benessere27. Per questo nella sua riflessione le conseguenze politiche dell’espansione economica, fondamentali in Montesquieu e nei suoi seguaci, non sono più così rilevanti. Egli infatti non è alla ricerca dei “freni” al potere del sovrano, delle istituzioni capaci di limitarlo, ma ha una nuova e diversa visione dell’ordine politico. L’economia non è importante in quanto capace di limitare la politica, ma perché a partire da essa si arriva alla teoria dell’armonia degli interessi, all’idea che il bene pubblico emerge dalla libera ricerca dell’interesse personale. La sfera economica può fare da sola, non ha bisogno della politica e il progresso politico non è più, come lo era invece in Montesquieu, né un requisito pregiudiziale né una conseguenza necessaria, o almeno probabile, del progresso economico. La politica è Ivi, (trad. it. cit. p. 54. Nella terza parte del suo volume Hirschman dedica attenzione all’idea, prevalentemente sviluppata da Ferguson e Tocqueville, per la quale l’aspirazione alla tranquillità e al privilegiare i propri interessi personali, favorita dal commercio e dai progressi materiali, potrebbe favorire il deterioramento dello spirito civico (lasciando lo spazio politico in mano a chi è interessato per indole ad acquisire il potere) e dunque il dispotismo. Si tratta in un certo senso del ribaltamento della tesi di Montesquieu, per il quale invece il progresso economico porta al progresso dell’arte politica. In un certo senso è anche la dimostrazione che alcuni maestri del liberalismo avevano già affrontato alcuni dei temi che nel primo capitolo abbiamo visto essere stati sviluppati dai critici del liberalismo. 27 Cfr. A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. pp. 75 e ss). 26

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anzi il luogo dove regna, secondo una locuzione ripresa da Hirschman, la “follia” umana, che interferisce con l’ordine, e il progresso economico si può avere solo se tale “follia” non supera certi limiti (in realtà piuttosto ampi). Per Smith la “follia” va combattuta costantemente ed egli, al contrario di Montesquieu, non ritiene che l’era del commercio possa liberare l’umanità dagli eccessi di una politica sbagliata, la quale si trasforma in meglio grazie allo sviluppo economico, ma pensa che la politica si debba affrontare e limitare costantemente in ogni epoca e in ogni circostanza storica, poiché essa nel processo di formazione di un ordine ha un ruolo decisamente residuale. L’analisi di Smith è in realtà molto più problematica di quanto non sia qui possibile testimoniare, basti pensare alla sua ambivalenza, richiamata anche da Hirschman, nei confronti del progresso materiale e del nascente capitalismo, che genera anche “mollezza del lusso” e corruzione, e che è tutt’altro che in grado di controllare le altre passioni, o si pensi a quanto egli fosse “sospettoso” nei confronti dei capitalisti e dei mercanti, potenzialmente capaci di rovinare il capitalismo e il mercato28. Ma forse anche in ragione di questo egli mantiene ferma l’idea che la politica non vada “addomesticata”, magari con gli strumenti dello sviluppo economico, in modo che ci se ne possa servire solo quando lo si ritiene opportuno, ma che vada invece sempre e il più possibile limitata, poiché non è essa l’origine dell’ordine e perché è sempre fatta da uomini imperfetti, che se sono pericolosi nelle transazioni volontarie del mercato a maggior ragione lo sono nelle decisioni coercitive della politica. Ed è proprio Smith a mettere per primo bene in luce come sia la complicità con la politica a offrire la possibilità agli uomini d’affari di sottrarsi alla concorrenza, impedendo così al mercato di dispiegare i suoi benefici effetti. Anche Smith dunque ragiona sulle passioni, e anch’egli vede la brama di onore come fondamentale, ma, al contrario di Hobbes e di Rousseau, vede la spinta al profitto economico come una parte di tale brama, come il desiderio di essere considerati in maniera positiva dagli altri. In questo senso egli ragiona sulle origini “non economiche” dell’attività economica. La sua convinzione è che ambizione, amore del potere e desiderio di essere rispettati possono essere tutti soddisfatti con il miglioramento economico, e per questo non ha più senso conSu questo si veda anche A. PANEBIANCO, Il potere, lo stato, la libertà, op. cit., pp. 7071, che riporta dei passi da A. SMITH, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations 1776 (trad. it. La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1987). 28

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trapporre le passioni tra loro, o contrapporle agli interessi. Nella sua riflessione passioni e interessi coincidono, sono sinonimi. Il grande cambiamento creato dalla riflessione di Smith è dunque nell’idea che l’interesse generale sia favorito dal lasciare “libero perseguimento” dell’interesse personale, e che è tramite il perseguimento del proprio interesse che si ottiene non il “bilanciamento” delle passioni, ma l’ordine sociale. Smith ripropone la tesi centrale di Mandeville, la articola e ne espunge i paradossi, trasformandola in un principio generale con una capacità esplicativa dell’ordine senza precedenti. A questo proposito è anche opportuno affrontare la questione del rapporto tra Mandeville e Smith, che si sostanzia in un duplice problema. Da un lato vi è la questione di quanto Mandeville avesse compreso con esattezza la portata della propria intuizione riguardo al meccanismo delle conseguenze inintenzionali come origine dell’ordine, o quanto invece fosse stato Smith a sviluppare quella che era solo una intuizione “rudimentale”. Dall’altro vi è il problema della diversità tra l’“oltraggioso” Mandeville e il ben più “compassionevole” Smith – cosa che peraltro richiama il vecchio problema della doppiezza di Smith, ossia della (supposta) differenza tra le sue due principali opere – poiché per il primo la ricerca dei propri simili è sempre, dichiaratamente, in funzione di un vantaggio personale, mentre per il secondo sembra poter essere il frutto di un’inclinazione positiva nei loro confronti. Ritornando al libro di Hirschman si può osservare come egli individui una serie di limiti nel pensiero di Mandeville. Come prima cosa ricorda i continui richiami a “l’avveduto regimento dell’Abile Politico” come condizione perché i vizi privati si trasformino in pubblici benefici, e in secondo luogo sottolinea come il “meccanismo” di Mandeville rimanga sostanzialmente “misterioso” e come egli riesca a dare una spiegazione adeguata del suo funzionamento, della trasformazione dei vizi privati in benefici pubblici, solo con riferimento al caso della “passione” per i beni materiali, e del lusso come caso specifico. Per Hirschman è solo con Smith che l’indagine sull’emergere dell’ordine porta a risultati più chiari, e questo soprattutto grazie al fatto che ai termini passione e vizio vengono sostituiti quelli di vantaggio e interesse, superando così «gli spigoli del provocatorio paradosso di Mandeville», e trasformando l’idea di “imbrigliamento” in uno dei pilastri del liberalismo. Tuttavia è poi lo stesso Hirschman a ricordare da un lato, stranamente solo con una nota, il fatto che l’operare del politico per Mandeville vada inteso più come un aiuto alla ricerca di un adeguato quadro legale e istituzio-

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nale, in lenta evoluzione, che come una serie di regolamentazioni quotidiane29, e dall’altro che nonostante Smith rifiutasse con forza i paradossi di Mandeville, egli avesse “proposto pensieri analoghi”30. È infatti indiscutibile, se non si legge solo la prima parte di The Fable of the Bees ma anche la seconda, i quattro dialoghi tra Cleomene e Orazio, che le tesi di Mandeville hanno una articolazione molto ampia e che si trovano già trattati molti dei temi poi sviluppati da Smith31. In un certo senso poi, forse un po’ provocatoriamente, si potrebbe anche sostenere che i “paradossi” di Smith non sono in realtà inferiori a quelli di Mandeville. È noto come il medico olandese quasi si diverta a proporre il paradosso di una società che diventa ricca e ben funzionante solo se basata sul vizio, contrapposto al moralismo che conduce alla miseria32. Ma a ben riflettere non è meno ironico il fatto che dopo una lunghissima trattazione sui “sentimenti morali” degli uomini, sul fatto che essi soffrono quando vedono gli altri soffrire, che provano autentica simpatia per il prossimo, Smith faccia infine intendere che tutto questo ha ben poca rilevanza per la formazione dell’ordine. Infatti il perseguire il proprio interesse è uno strumento assai più efficace e certo dell’affidarsi ai sentimenti altrui, la qual cosa è anche la conclusione di Mandeville rispetto ai vizi degli uomini, e si potrebbe anche dire che in fondo se un uomo ricerca gli altri esseri umani per la “simpatia” che prova nei loro confronti lo fa pur sempre per soddisfare una propria esigenza. In conclusione, leggendo insieme i due autori si può sostenere che essi hanno dimostrato come, indipendentemente dal ritenere la natura umana viziosa o compassionevole, il perseguimento dei propri scopi conduce inconsapevolmente gli uomini a cooperare, e a rendere così possibile anche per gli altri il raggiungimento dei propri fini nel modo più efficiente. Ciò che si trova in Smith più distintamente che in Mandeville è la convinzione che i mutamenti sociali, e in un certo senso la società stessa, trovino il loro fondamento proprio in fatti economici, ossia nel Qui Hirschman richiama anche N. ROSENBERG, Mandeville and Laissez-faire, in «Journal of the History of Ideas», vol. XXIV, n. 2, 1963, pp. 183-196. 30 Cfr. A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests… op. cit. (trad. it. cit. p. 83). 31 Alcune significative differenze tra i due tuttavia emergono dalla lettura di G. KENNEDY, Adam Smith: A Moral Philosopher and His Political Economy, Palgrave, New York 2010. 32 È nota la fulminante conclusione de La favola delle api: «chi vuole tornare all’età dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà», B. DE MANDEVILLE, The Fable of the Bees: or, Private Vices, public Benefits op. cit., (trad. it. cit. p. 21). 29

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commercio e soprattutto in quel fatto fondamentale che è il principio della divisione del lavoro, che dà luogo al fenomeno della cooperazione sociale. In questo senso Mises è il vero prosecutore del pensiero dello scozzese, come dimostrano peraltro le sue convinzioni utilitaristiche33 e la sua insistenza sul concetto di divisione del lavoro come fondamento della società. Mises infatti, come si è visto in precedenza, definisce apertamente il suo come un liberalismo utilitarista, nel senso che guarda esclusivamente all’esperienza34. Egli parte dal rifiuto di quelle che definisce le teorie metafisiche della società, ossia dal rifiuto di ogni teoria che guardi a Dio o alla natura per spiegare l’ordine sociale, attribuendo così all’ordine una forma determinata che esiste perché la società raggiunga dei fini ritenuti buoni, e che ha come logica conseguenza la subordinazione dell’individuo alla società, e il sacrificio dell’individuo a favore dell’organismo sociale. La teoria utilitarista, come intesa da Mises, è invece capace di spiegare in maniera “empirica” l’esistenza della società, a partire dagli individui e dal loro comportamento, guardando alla cooperazione sociale spontanea tra gli individui che si ha in base al principio dell’armonia degli interessi e che rende privo di senso il “sacrificio” dell’individuo a favore della società. Per Mises tra l’individuo e la società non c’è contrapposizione, ognuno perseguendo il proprio interesse contribuisce, come aveva rilevato Smith, al benessere degli altri. Il fatto che Smith dia una qualche forma di connotazione religiosa alla mano invisibile (altro problema controverso) non inficia il principio dell’armonia degli interessi, e Mises definisce la sua formula teistica come “un accessorio” che non le fa perdere il suo carattere scientifico35. Naturalmente questo tipo di utilitarismo di Smith e Mises è l’opposto dell’utilitarismo “razionalistico” di Bentham, il quale ritiene che esista un bene sociale oggettivo e che esso possa essere riconosciuto e poi massimizzato tramite la legislazione, ossia tramite la progettazione e creazione di un ordine giuridico che abbia quel fine36. Queste due diverse varianti di utilitarismo non sono sempre state adeguatamente Sull’importanza dell’utilitarismo nella tradizione liberale, e sulla distinzione tra due diversi tipi di utilitarismo, si veda N.P. BARRY, On Classical Liberalism, op. cit., capitolo 2. 34 L. VON MISES, Kritik des Interventionismus: Untersuchengen zur Wirtscaftspolitik und Wirtschaftsideologie der Gegenwart, Gustav Fischer, Jena 1929 (trad. it. in I fallimenti dello stato interventista, prefazione di L. Infantino, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, pp. 165 e ss.). 35 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. 167 e ss., pagine in cui viene anche citato Menger). 36 A questo proposito si rimanda a quanto detto nella prima parte del terzo capitolo. 33

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distinte, e indubbiamente il compito non era facilitato, oltre che da alcune innegabili somiglianze e da comuni radici filosofiche, da alcune vigorose critiche rivolte da Smith al capitalismo, nonché dalla convinta difesa del laissez-faire da parte di Bentham il quale si dichiarava liberale, e veniva per molti aspetti a ragione considerato tale. E forse proprio un fraintendimento riguardo alle posizioni dei due, e più precisamente l’aver attribuito a Smith posizioni che invece erano solo di Bentham, è alla base delle dure critiche rivolte da Menger a Smith e “ai suoi allievi”, ritenuti fautori di un «liberalismo unilateralmente razionalistico», che guarda solo alle «creazioni positive dei poteri pubblici» e ignora «l’importanza delle formazioni “organiche” per la società»37. Ma al di là di tale “fraintendimento” è proprio con la riflessione di Menger che la teoria dell’ordine spontaneo di Mandeville e Smith viene “rivitalizzata” e arricchita, in una nuova stagione in cui era ormai il mondo di lingua tedesca a dare a quella tradizione di pensiero, che nel mondo anglosassone si era ormai pressoché spenta, nuova linfa. E Menger conferisce a quella tradizione anche nuova capacità esplicativa grazie alla scoperta della teoria dell’utilità marginale (espressione come noto coniata solo successivamente da Wieser), la quale fondando il valore dei beni sulla loro relazione con i bisogni degli uomini, e non su un intrinseco valore degli oggetti materiali, le fa fare un salto qualitativo, risolvendo alcune aporie ancora presenti in Smith e aprendo una nuova stagione della tradizione dell’ordine inintenzionale. Ad accentuare la continuità di questa tradizione di pensiero è stato soprattutto Hayek, che abbiamo visto essere convinto sostenitore dell’idea che Mandeville sia stato il fondatore di una nuova tradizione di pensiero, e che ha considerato The Fable of the Bees la prima formulazione di una teoria capace di spiegare la nascita e l’evoluzione spontanea, ossia “non programmata”, di importanti istituzioni sociali, che poi Menger avrebbe indicato negli esempi concreti di linguaggio, denaro, diritto, morale e dello stesso stato38. E a suo giudizio questa tradizione passa per Hume, Tucker, Ferguson, Smith, Burke, poi per Humboldt e Savigny, e viene definitivamente rivitalizzata da Menger, il quale «è stato il primo in epoca moderna a far rivivere l’individualismo C. MENGER, Untersuchungen... op. cit. (trad. it. cit. p. 188). A giudizio di Hayek la “tesi centrale” di Mandeville è racchiusa in questa frase della seconda parte di The Fable of the Bees: «spesso attribuiamo all’eccellenza del genio umano, e alla profondità della sua penetrazione, ciò che in realtà è dovuto alla lunghezza del tempo, e all’esperienza di molte generazioni», cfr. F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 281). 37 38

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metodologico di Smith e della sua scuola»39. Delineando questa continuità nel percorso di ricerca riguardo alla formazione dell’ordine Hayek realizza una sorta di “operazione culturale”, attribuendo una coerenza e una continuità di intenti a pensatori tra loro lontani nel tempo e talvolta anche nelle intenzioni. Indubbiamente tra gli appartenenti a questa tradizione di pensiero vi sono delle differenze importanti, che Hayek sembra avere colpevolmente sottovalutato. Può darsi che questo sia avvenuto perché la sua intenzione era quella di valorizzare il più possibile una “scuola” di pensiero, e che egli pensasse che marcarne la continuità fosse in qualche modo un elemento “nobilitante”. Ma rimane il fatto che questa “operazione” ha una sua logica di fondo, poiché indubbiamente questi pensatori ragionano tutti intorno ad un medesimo problema fondamentale, che è quello di come sia possibile che un ordine nasca e funzioni senza una volontà deliberata. Per quanto le differenze tra loro siano rilevanti Hayek agisce correttamente rimarcando l’originalità e la distanza rispetto ad altre soluzioni del problema dell’ordine sociale, e questo di per sé appare un fatto sufficiente a giustificare il suo aver deciso di lasciare in ombra le differenze tra gli appartenenti alla tradizione dell’ordine spontaneo.

2. Ordine e conoscenza Dopo i lavori “classici” ora trattati uno dei più importanti e originali contributi alla teoria della nascita inintenzionale dell’ordine è sicuramente proprio quello di Hayek40. La sua opera rappresenta proF.A. VON HAYEK, Individualism: True and False, op. cit., (trad. it. cit. p. 43 nota 3), a suo giudizio inoltre Menger «probabilmente è stato anche il primo a far notare il collegamento tra le teorie che concepiscono la società e le istituzioni come una creazione deliberata [design theories] e il socialismo». Interessante è anche il recupero all’interno di questa tradizione degli scolastici della Scuola di Salamanca, in particolare Luis de Molina e Juan de Lugo, per limitarsi ai due soli nomi citati anche da Hayek. A tale proposito studi importanti sono A.A. CHAFUEN, Christians for Freedom. Late-Scholastic Economics, Ignatius Press, San Francisco 1986 (trad. it. Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell’economia di mercato, Liberilibri, Macerata 1999) e J. HUERTA DE SOTO, La Escuela Austriaca: mercado y creatividad empresarial, Editorial Síntesis, Madrid 2001 (trad. it. La Scuola austriaca. Mercato e creatività imprenditoriale, a cura di P. Zanotto, prefazione di R. Cubeddu, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 64 e ss). 40 Sull’argomento si vedano, tra gli altri, J. GRAY, Hayek on Liberty, op. cit., in particolare pp. 34 e ss. e N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna 1992, in particolare pp. 187 e ss. 39

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babilmente la più profonda e articolata rivisitazione degli assunti fondamentali del liberalismo, e il suo tentativo di vedere sotto una stessa luce e ricondurre a unità tutti gli aspetti della vita associata (diritto, politica, economia) lo pone in una posizione di assoluto rilievo tra i filosofi politici del Novecento. La sua produzione scientifica continua a rappresentare un autentico punto di svolta per le scienze sociali, e il liberalismo contemporaneo ha trovato in essa quella linfa che sembrava aver perduto nella prima metà del secolo. Negli scritti di Hayek si trova la critica di quello che, da Mill in poi, viene da lui considerato uno snaturamento della tradizione liberale. A tale critica segue una riproposizione della tradizione liberale classica, che però non rappresenta un semplicistico ritorno al passato, bensì il recupero, sotto nuova veste e con nuovi strumenti concettuali, di alcuni elementi di quella tradizione, che vengono arricchiti di nuove considerazioni e utilizzati per la costruzione di una teoria capace di spiegare e valutare i fenomeni sociali complessi. Che l’opera di Hayek non fosse una mera riproposizione di vecchie teorie, ma contenesse importanti elementi di novità, non fu in realtà colto immediatamente; quando Hayek venne definito, a più riprese, come un “magnificent dinosaur”41, la critica sembrava proprio voler indicare il fatto che egli fosse portatore di concezioni ormai antiquate e superate dai tempi, senza cogliere invece quanto di nuovo vi fosse nella sua riflessione. Una sorta di svolta nella valutazione dell’opera di Hayek si ha però verso la metà degli anni Settanta. Quanto nel 1974 gli venne attribuito, all’età di settantacinque anni, il premio Nobel per l’economia, a molti sembrò trattarsi di un riconoscimento “alla carriera” per un vecchio economista ormai in pensione, appartenente alla nobile ma minoritaria schiera di liberali classici, un oppositore di Keynes sconfitto dalla storia prima ancora che dalla teoria economica. Non era così, e gli anni immediatamente successivi lo dimostrarono. Non fu così dal punto di vista storico, poiché le idee di Hayek furono riconosciute apertamente come dirette ispiratrici delle politiche dominanti nel mondo anglosassone negli anni Ottanta, ossia di quelle ricette liberali trionfanti in Inghilterra con il governo Thatcher e negli Stati Uniti con la presidenza Reagan. E non fu così da un punto di vista teorico, poiché da quel momento la sua opera cominciò ad essere sempre più studiata e tenuta in considerazione. A questo va anche aggiunto che il conferimento del Nobel 41

Cfr. A. QUINTON (ed.), Political Philosophy, Oxford University Press, Oxford 1967, p. 2.

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diede ad Hayek la forza di superare una grave crisi personale e dare una veste definitiva ad alcuni dei suoi studi più importanti, consentendogli di concludere, alla soglia degli ottant’anni, la trilogia Law, Legislation and Liberty, il cui ultimo libro, nonostante la maggior parte dell’opera fosse «in forma quasi definitiva sin dalla fine del 1969» 42, venne dato alle stampe nel 1979. Tale opera rappresenta il principale contributo di Hayek alla filosofia politica, e contiene la sua spiegazione di come sia possibile che all’interno di una società si formi un ordine complesso e di cosa possa essere fatto per mantenerlo e migliorarlo. La riflessione di Hayek su questo tema si sviluppa con notevole coerenza a partire sin dai primi scritti degli anni Trenta, e si delinea come un percorso in cui delle intuizione avute nel campo dell’economia e della psicologia vengono estese al campo della politica e del diritto. Non si tratta naturalmente di una riduzione di questi due elementi all’economia e alla psicologia, né tanto meno di una “soluzione del problema politico con mezzi economici”, per riprendere la definizione di Strauss. Ciò che invece elabora Hayek è la spiegazione di come sia possibile passare da conoscenze disperse e soggettive a un sistema che coordina tali conoscenze e le convoglia in direzione di un ordine oggettivo e complesso. La sua è dunque innanzitutto una riflessione teorica, che si basa su assunti gnoseologici e che gli permette di individuare un meccanismo che, anche se viene scoperto in economia, consente di comprendere come in tutti i fenomeni sociali sia possibile sfruttare al meglio conoscenze limitate e fallibili e passare dalla soggettività all’oggettività43. Il saggio centrale, che segna l’inizio della riflessione hayekiana sul problema della conoscenza e dell’ordine è Economics and Knowledge44, del 1937, a cui seguiranno alcuni anni più tardi The Use of Knowledge in Society e The Meaning of Competition45. Hayek stesso definisce Economics and Knowledge «il contributo più originale che io abbia F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 367). L’importanza degli scritti economici di Hayek è analizzata in F. DONZELLI, Introduzione, in F.A von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione, Il Mulino, Bologna 1988, che mette bene in luce come le opere successive si pongano in stretta continuità con essi. 44 F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, in «Economica», February 1937, pp. 43-68 (trad. it. Economia e Conoscenza in F.A. von Hayek Conoscenza, mercato, pianificazione, cit. pp. 227-252). Sull’importanza di questo saggio nella “trasformazione” del percorso scientifico di Hayek si veda B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit., pp. 205 e ss. 45 Si tratta di due saggi poi confluiti in F.A. VON HAYEK, Individualism and Economic Order, University of Chicago Press, Chicago 1948 (trad. it. parziale in F.A. von Hayek Conoscenza, mercato, pianificazione, cit.). 42 43

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dato alla teoria economica» e «l’evento decisivo della mia biografia intellettuale»46, e dichiara di aver scritto tale saggio quando, dopo aver curato un importante volume sulla pianificazione economica47, iniziò ad occuparsi di questioni filosofiche e metodologiche, le quali gli sembrarono essere a fondamento delle differenze politiche tra il mondo libero e i sistemi totalitari. In quei saggi Hayek si oppone alla teoria economica neoclassica, allora dominante, ed elabora una teoria gnoseologica che gli consente di far risalire i fenomeni sociali, non solo economici, agli individui e a come essi acquisiscono e utilizzano la conoscenza. Egli concentra l’attenzione su come sia possibile utilizzare una conoscenza che è dispersa tra i vari attori economici poiché considera la coordinazione di tali frammenti di conoscenza il problema centrale dell’economia. Il carattere particolare del problema di un ordine economico razionale è determinato precisamente dal fatto che la conoscenza di circostanze di cui ci dobbiamo servire non esiste mai in forma concentrata o integrata, ma solamente sotto forma di frammenti sparpagliati di conoscenza incompleta e spesso contraddittoria che tutti gli individui possiedono separatamente. Il problema economico della società, perciò, non è meramente un problema di come allocare risorse “date”, se “date” è preso nel senso di date ad una singola mente che risolve deliberatamente il problema posto da questi “dati”. Si tratta piuttosto del problema relativo a come assicurare il migliore uso di risorse note a ciascuno dei membri della società, per fini la cui importanza relativa è nota solo a questi individui. O, in breve, si tratta del problema di come utilizzare la conoscenza che non appartiene a nessuno nella sua totalità.48

F.A. VON HAYEK, Hayek on Hayek… op. cit. (trad. it. cit. pp. 114-115). F.A. VON HAYEK (ed.), Collectivist Economic Planning: Critical Studies on the Possibilities of Socialism, Routledge, London 1935 (trad. it. parziale Pianificazione economica collettivistica, Einaudi, Torino, 1946). 48 F.A. VON HAYEK, The use of Knowledge in society in «American Economic Review», XXXV, n. 41 September 1945, pp. 520-530 (trad. it. L’uso della conoscenza nella società, in F.A. von Hayek Conoscenza, mercato, pianificazione, a cura e con introduzione di F. Donzelli, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 277-292, pp. 277-278). 46 47

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La tesi di Hayek è che, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, «la conoscenza scientifica non è la somma di tutto il sapere», e «non costituisce l’unico tipo di conoscenza rilevante» 49. Accanto ad essa esiste infatti una conoscenza pratica, che riguarda fatti particolari e che può essere posseduta solo dai singoli individui; è un tipo di conoscenza della quale la teoria neoclassica non tiene conto, e questo rappresenta un gravissimo errore poiché induce a ritenere che il compito dell’economia sia stabilire come meglio allocare risorse che sono date e conosciute50. Tale concezione, e quindi tale errore, è lo stesso di coloro che ritengono possibile la pianificazione economica, la quale si basa sulla presunta capacità di concentrare tutta la conoscenza in un’autorità centrale che ha poi il compito di utilizzarla per il raggiungimento di un ipotetico bene comune. Rispetto a tale impostazione Hayek attua un ribaltamento, poiché indica come il vero problema della teoria economica non sia l’allocazione di risorse date e conoscibili, ma la divisione della conoscenza, vale a dire di come sia possibile che una conoscenza inevitabilmente frammentaria e dispersa tra tutti gli individui, possa essere utilizzata “socialmente”, ossia possa essere sfruttata al meglio da tutti per raggiungere i diversi obiettivi che ognuno si prefigge51. È un problema che a ben vedere riguarda tutti i fenomeni sociali e non solo l’economia52, la quale però è la disciplina che più di ogni altra si è avvicinata «a dare una risposta al quesito centrale di tutte le scienze sociali, e cioè in che modo la combinazione di frammenti di conoscenza, di cui dispongono individui diversi, può portare a risultati che, per poter essere ottenuti consapevolmente, richiederebbero un grado di conoscenza e di informazione in Ivi, (trad. it. cit. p. 280). Di grande importanza è anche la critica di Hayek alla teoria dell’equilibrio economico generale, si veda ancora F. DONZELLI, Introduzione, op. cit., pp. 16 e ss. 51 Scrive Hayek: il «problema della divisione della conoscenza […] è totalmente analogo, o almeno di pari importanza a quello della divisione del lavoro. A differenza però di quest’ultimo, che ha sempre rappresentato uno dei principali argomenti d’indagine fin dall’inizio della nostra scienza, quello della divisione della conoscenza è stato totalmente trascurato; nonostante ciò, mi sembra che esso costituisca il problema veramente centrale dell’economia quale scienza sociale», F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, op. cit. (trad. it. cit. p. 246). 52 La relazione tra teoria economica e filosofia politica nel pensiero di Hayek è analizzata in R. CUBEDDU, Friedrich A. von Hayek, Borla, Roma 1995, pp. 66 e ss. e in A.O. EBENSTEIN, Hayek’s Journey. The Mind of Friedrich Hayek, Palgrave Macmillan, LondonNew York 2003, pp. 89 e ss. 49 50

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colui che fosse chiamato a prendere le decisioni che, in realtà, nessuna persona potrà mai possedere»53. Il “problema economico” consiste dunque nell’individuare il miglior modo di utilizzare le conoscenze disperse e frammentarie, come ad esempio quelle legate a circostanze di tempo e di luogo che solo i singoli, e mai nessuna autorità, possono conoscere e che solo da essi possono essere sfruttate al meglio. Se la centralizzazione di queste conoscenze (e dunque la pianificazione economica) è impossibile, il vero problema sarà allora dato dalla capacità di un «rapido adattamento ai cambiamenti»54 che avvengono rispetto a quelle circostanze, cambiamenti a cui solo i singoli individui, gli unici a possedere quelle conoscenze, saranno in grado di fare fronte. Il sistema più adeguato a consentire la trasmissione e lo scambio di informazioni è il sistema dei prezzi di mercato, i quali sono definiti da Hayek come segnali che consentono agli individui di coordinare le proprie azioni e li guidano nel raggiungimento dei loro obiettivi. In una situazione di conoscenza dispersa, il sistema dei prezzi è dunque l’unico sistema che consente a tutti di utilizzare delle informazioni importanti e non possedute da nessuno singolarmente nella loro totalità, informazioni che fanno riferimento a dati e situazioni che cambiano in continuazione, e solo quel sistema è in grado di far registrare con rapidità quei mutamenti consentendo agli agenti di adeguarvisi. Il sistema dei prezzi va allora inteso come un meccanismo atto a comunicare informazioni […]. Il fatto più significativo in questo sistema è costituito dall’economia di conoscenza con cui esso opera, o in altri termini da quanto poco devono sapere i partecipanti individuali per essere in grado di agire nel modo giusto. In forma abbreviata, utilizzando una sorta di rappresentazione simbolica, solo le informazioni più essenziali sono trasmesse e ritrasmesse e solo agli interessati. È più che ricorrere ad una metafora descrivere il sistema dei prezzi come una sorta di macchina per la registrazione dei cambiamenti, o come un sistema di telecomunicazione che consente ai singoli produttori di sorvegliare solo i movimenti di pochi indicatori - come un ingegnere potrebbe sorvegliare le lancette di pochi quadranti - per adattare le proprie attività a cambiamenti di cui non potrebbero sapere mai nulla di più di quanto si riflette nel movimento dei prezzi.55

53 54 55

F.A. VON HAYEK, Economics and Knowledge, op. cit. (trad. it. cit. p. 250). F.A. VON HAYEK (ed.), Collectivist Economic Planning… op. cit., (trad. it. cit. p. 284). Ivi, (trad. it. cit. pp. 286-287).

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L’efficacia del sistema dei prezzi come strumento di trasmissione di informazioni è legata alla concorrenza, la quale «è essenzialmente un processo di formazione delle opinioni», poiché «crea le opinioni della gente su ciò che è meglio e più a buon mercato»56. Tornando alcuni anni più tardi su questo argomento, Hayek definisce la concorrenza come «un procedimento per scoprire fatti che, senza ricorrere ad essa, nessuno conoscerebbe, o almeno non utilizzerebbe»57, intendendo per conoscenza «una capacità di scoprire circostanze particolari, capacità che diventa efficace solo se coloro che ne sono in possesso vengono informati dal mercato sui tipi di cose o servizi che sono richiesti, e con quanta urgenza lo sono»58. È in questa migliore capacità di rivelare e rendere utilizzabili informazioni che altrimenti rimarrebbero inutilizzabili che Hayek individua la superiorità del mercato in confronto a ogni sistema alternativo, una superiorità che accomuna il metodo della concorrenza con il metodo scientifico; entrambi infatti, prevarranno rispetto ad ogni sistema alternativo, e per entrambi la superiorità rispetto alle alternative non può essere mostrata scientificamente ma solo con riferimento all’esperienza. La concorrenza, ossia il mercato con il suo sistema dei prezzi, è dunque il metodo migliore per ottimizzare lo scambio di informazioni, ed è anche l’esempio più chiaro di come si possa formare spontaneamente un ordine, ossia di come sia possibile passare da conoscenze disperse tra gli individui, frammentarie e parziali, ad una situazione in cui tali conoscenze vengono utilizzate nel modo migliore dalla società nel suo insieme. Dall’articolo del 1937 in poi, la riflessione di Hayek sarà volta quindi a raffinare quella prima intuizione, e in particolare ad analizzare come uno stesso meccanismo di formazione di un ordine spontaneo possa essere applicato anche agli altri fenomeni sociali, quali il diritto e le altre istituzioni sociali. In particolare in Law, Legislation and Liberty egli propone una teoria dell’evoluzione dei sistemi sociali complessi che pare per molti aspetti la logica prosecuzione di quei suoi primi scritti 59. Ivi, (trad. it. cit. p. 308. F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 198). Si tratta del saggio Competition as a Discovery Procedure, di una conferenza originariamente tenuta nel 1968 e successivamente integrata. 58 Ivi, (trad. it. cit. p. 200). 59 Il tema dell’ordine spontaneo in Hayek viene inevitabilmente affrontato da tutti gli studiosi che si sono confrontati con il suo pensiero. Una panoramica esaustiva viene offerta da due raccolte di saggi: J.G. BACKHAUS Entrepreneurship, Money and Coordination. Hayek’s Theory of Cultural evolution, Edward Elgar, Cheltenham 2005 e L. HUNT, 56 57

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Nella sua analisi Hayek guarda alle intuizioni di Mandeville e dei moralisti scozzesi, ma guarda anche alla riflessione di Mises (in particolare alla critica del socialismo) e soprattutto riprende il programma di ricerca di Menger, il quale aveva mostrato come alcune delle più importanti istituzioni che servono il benessere dell’uomo, ad esempio il linguaggio, il denaro, lo Stato, fossero nate per via “organica”, ossia come frutto dell’evoluzione e non della volontà60. Menger era stato il primo ad estendere la teoria dei valori soggettivi e la teoria dell’utilità marginale, scoperte in ambito economico, alle altre scienze sociali, costruendo su quei due cardini una teoria dell’azione umana che funge da fondamento gnoseologico per le successive elaborazioni degli altri esponenti della Scuola austriaca. Se innumerevoli sono le suggestioni che provengono ad Hayek dalle riflessioni di questi due pensatori, bisogna tuttavia riconoscere che per importanti aspetti egli si differenzia da loro. Infatti non arriverà mai ad approvare il soggettivismo estremo e il razionalismo di Mises, rifiutandone nella sostanza anche la giustificazione utilitaristica delle istituzioni sociali61. Ciò che lo differenzia da Menger è invece il suo radicale P. MCNAMARA (eds), Liberalism, Conservatism, and Hayek’s Idea of Spontaneous Order, Plagrave Macmillan, London 2007. In lingua italiana un’attenta ricostruzione è P. HERITIER, Ordine spontaneo ed evoluzione nel pensiero di Hayek, Jovine, Napoli 1997, alcune interessanti considerazioni si trovano in N. MATTEUCCI, Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 145-184, che pone anche in evidenza l’importanza dei primi scritti hayekiani, mentre a concentrarsi sull’eredità della teoria hayekiana dell’ordine è S. MORONI, L’ordine sociale spontaneo. Conoscenza, mercato e libertà dopo Hayek, UTET, Torino 2005. Tra i commentatori italiani dell’opera di Hayek va poi ricordato anche Vittorio Possenti, che in V. POSSENTI, Le società liberali al bivio, Marietti, Milano 1991 (in particolare pp. 82 e ss.) colloca le riflessioni sull’ordine spontaneo nel più ampio quadro di quella che chiama la “filosofia pubblica”, che egli intende come ripensamento e dialogo critico con le concezioni classiche della democrazia e del liberalismo. Un’operazione per alcuni aspetti simile, ma con notevoli differenze in quanto ad obiettivi e prospettive, è stata portata avanti in S. BELARDINELLI, La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religione nelle società complesse, Edizioni Studium, Roma 1999, in particolare pp. 153 e ss. 60 Cfr C. MENGER, Untersuchungen... op. cit., su questi aspetti del pensiero di Menger si veda R. CUBEDDU, Il liberalismo della scuola austriaca, op. cit., in particolare pp. 27 e ss. 61 «Mises alla fine è sempre rimasto un razionalista-utilitarista. E il rifiuto del socialismo non è conciliabile con il razionalismo utilitarista. […] Mises non è mai riuscito a liberarsi da quella filosofia fondamentale al cui interno siamo cresciuti tutti: la ragione può fare qualsiasi cosa meglio della pura tradizione […] Nel caso di Mises la critica al socialismo ha continuato ad essere basata sull’errore fondamentale del razionalismo e del socialismo: ovvero che siamo tutti dotati del potere della ragione che ci permette di sistemare qualsiasi cosa razionalmente. Questo assunto è contraddittorio» F.A. VON HAYEK,

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allontanarsi dai presupposti aristotelici che ne avevano caratterizzato la spiegazione dei fenomeni sociali. In Hayek infatti viene meno ogni riferimento alla natura (e alle leggi naturali esatte come intese da Aristotele e Menger62) per spiegare la nascita e l’evoluzione delle istituzioni sociali63. La ragione della diversità della posizione di Hayek è ancora una volta individuabile facendo riferimento alle tesi di quei suoi saggi economici, ma anche di un’altra opera fondamentale che si può considerare alla base delle sue riflessioni su quali siano le condizioni per la formazione di un ordine complesso: The Sensory Order64. Anche se tale opera venne pubblicata solo nel 1952, essa fu in realtà pensata già negli anni Venti, quando Hayek era studente a Vienna, e in un certo senso fu proprio il problema di fondo poi affrontato in quell’opera che lo condusse alle riflessioni sull’importanza della divisione della conoscenza e di come essa possa essere efficacemente coordinata e utilizzata nella società65. Nella prima pagina di The Sensory Order Hayek scrive che tale opera è «il risultato di un’idea che mi venne in mente in giovane età, quando ero ancora indeciso se diventare un economista o uno psicologo. Ma benché i miei studi mi abbiano portato lontano dalla psicologia, Hayek on Hayek… op. cit. (trad. it. cit. p. 105). 62 Cfr. C. MENGER, Untersuchungen... op. cit. (trad. it. cit. pp. 248 e ss.). 63 Alcune significative differenze tra Menger e Hayek sono messe bene in luce in C. CORDASCO, Ordine e regole, in «Biblioteca della libertà», XLVI, settembre-dicembre, n. 202 online, 2011. 64 F.A. VON HAYEK, The Sensory Order, op. cit.. Ma si vedano anche altri importanti saggi in cui si palesa il collegamento tra le tesi psicologiche di The Sensory Order con la teoria politica ed economica, contenuti nella prima parte di F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit. Tra essi vi è anche Notes on the Evolution of Systems of Rules of Conduct, in cui Hayek scrive: «nella spiegazione del funzionamento dell’ordine sociale, le regole di condotta individuale devono in ogni momento considerarsi date. Tuttavia, queste regole sono state selezionate e si sono formate sulla base degli effetti che hanno sull’ordine sociale; se la psicologia non vuole accontentarsi di descrivere le regole a cui gli individui di fatto obbediscono, ma intende spiegare perché osservano tali regole, almeno gran parte di essa dovrà diventare psicologia dell’evoluzione sociale», (trad. it. cit. p. 153). 65 Su questo fondamentale aspetto della riflessione di Hayek si segnalano J. GRAY, Hayek on Liberty, op. cit.,, pp. 21 e ss, R. CUBEDDU Friedrich A. von Hayek, op. cit., pp. 47 e ss., B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit., pp. 261 e ss., G.F. GAUS, Hayek on the Evolution of Society and Mind, in Feser, E. (ed.) The Cambridge Companion to Hayek, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 232-258, E. FESER, Hayek the Cognitive Scientist and Philosopher of Mind, in E. Feser (ed.) The Cambridge Companion to Hayek, op.cit, pp. 287-314 e W.N. BUTOS (ed.), The Social Science of Hayek’s “The Sensory Order”, Emerald, Bingley 2010.

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quell’idea fondamentale concepita allora ha continuato a occupare la mia mente, i suoi contorni si sono gradualmente sviluppati ed essa si è spesso rivelata proficua nella trattazione dei problemi riguardando i metodi delle scienze sociali»66. In tale opera Hayek si occupa, attraverso una complessa analisi che non è qui possibile ripercorrere, di come la mente umana classifichi i fenomeni del mondo esterno. La sua conclusione è che è impossibile pervenire ad una piena auto-comprensione e auto-spiegazione della mente, e in particolare che è impossibile, contrariamente a quanto sosteneva il fisicalismo, dare una spiegazione esaustiva di tutti i fenomeni in termini fisici67. Da ciò consegue l’impossibilità di una spiegazione dettagliata dell’azione umana e l’inevitabile limitatezza della razionalità umana stessa. Hayek estende poi queste riflessioni dal campo della mente a tutte le altre teorie sui fenomeni complessi, e ne fa diventare la base per ogni sua critica della pianificazione sociale e di ogni tentativo di far dirigere ogni aspetto della vita e della società da parte di un unico “cervello”68. Partendo dall’analisi della mente Hayek passa quindi a dimostrare come la possibilità di un ordine sociale sia in realtà sempre connessa ad un processo evolutivo, nel quale si parte dalla classificazione di “regolarità”, ossia di fatti osservati che si ripetono nel tempo in modo uguale, per arrivare alla formazione di regole che consentano l’interazione tra individui e il passaggio a sistemi sempre più complessi. In tal modo il compito delle scienze sociali non è più, come invece almeno in parte era per Menger, trovare delle leggi universali e scoprire una sorta di ordine che si trova nella natura delle cose, ma è invece indagare come nelle diverse menti umane viene percepito e conosciuto il mondo esterno, con un processo di classificazione che è anch’esso soggetto all’evoluzione. Gli scritti di Hayek sono dunque volti a mostrare l’impossibilità della pianificazione, sia economica sia “politica”. Tutta la sua critica della mentalità che egli chiamò prima scientismo e poi coF.A. VON HAYEK, The Sensory Order, op. cit., (trad. it. cit. p. 5). Hayek in sostanza si contrappone alla posizione propria di Aristotele, poi fatta propria da Locke, in base alla quale tutto passa prima per i sensi e solo dopo per la mente. La posizione di Hayek è invece molto più vicina a quella di Kant. 68 «Sebbene il cervello possa essere organizzato secondo princìpi simili a quelli in base a cui è organizzata una società, una società non è un cervello e non può essere rappresentata come una sorta di super-cervello, perché in essa le parti che agiscono e quelle tra cui si stabiliscono le relazioni che determinano la struttura sono le stesse, e il compito di dare ordini non è assegnato a nessuna parte in cui è preformato un modello», F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit. p. 155). 66 67

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struttivismo fu sempre basata sull’idea, vero epicentro della riflessione hayekiana, che la mente non è in grado di conoscere e organizzare ogni cosa, e che il vero compito di tutte le scienze sociali, e non solo dell’economia, è quello di spiegare come sia possibile che l’uomo si adatti a ciò che non può conoscere completamente. Proprio dall’impossibilità di accentrare la conoscenza e dall’inevitabile fallibilità umana, discende per Hayek il valore della libertà individuale, unico requisito in grado di consentire il buon funzionamento della società. Nella prima parte di The Constitution of Liberty egli sostiene che il valore della libertà «poggia soprattutto sul riconoscimento dell’inevitabile ignoranza di tutti noi nei confronti di un gran numero di fattori da cui dipende la realizzazione dei nostri scopi e della nostra sicurezza. Se esistessero uomini onniscienti […] resterebbe poco da dire in favore della libertà»69. Dato che l’ignoranza è un elemento ineluttabile70, che peraltro investe anche la capacità di scegliere chi può saper operare meglio di noi, la soluzione liberale è migliore delle altre perché consiste nell’affidarsi agli sforzi “indipendenti e concorrenti” degli uomini, dai quali potranno emergere le risposte ai problemi della società. In questa prospettiva si spiegano anche le istituzioni, le quali «sono adattamenti al fatto fondamentale dell’ignoranza»71, e poiché «la libertà significa la rinunzia al controllo diretto degli sforzi individuali una società libera può utilizzare molte più conoscenze di quante non ne potrebbe contenere la mente del più saggio dei governanti»72. L’importanza della libertà in termini sociali consiste dunque nella sua capacità di realizzare il progresso sociale, il quale consiste in un “processo di adattamento” in un mondo in cui valori e idee cambiano continuamente, e in cui si fanno in continuazione nuove scoperte con conseguenze imprevedibili. Il progresso è allora la scoperta degli errori e la capacità di imparare da essi. Anche l’importanza della libertà nella riflessione hayekiana è F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 60). In una nota più avanti però Hayek osserva come forse il termine “incertezza” sia talvolta più adatto di quello di “ignoranza”, almeno quando ci si riferisce “all’ignoranza di quel che è giusto”, p. 523. 70 Su questi aspetti si veda D. ANTISERI, Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. 71 F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 61). 72 Ivi, (trad. it. cit. p. 62). Un elemento rilevante è il fatto che Hayek quando parla dell’importanza della libertà non si riferisce solo alla kantiana “libertà di penna”, ossia non limita la libertà alla sola sfera intellettuale. Altrettanto importante è infatti la “libertà d’azione”, e la libertà economica che ad essa è riconnessa, cfr. pp. 63-66. 69

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dunque da ricollegare alla teoria della conoscenza elaborata nei primi scritti di economia e psicologia. Solo se si lascia l’individuo libero di agire come meglio crede, e di decidere come sfruttare le circostanze nelle quali si trova, si avrà un tipo di ordine che consente, oltre che di sfruttare al meglio le conoscenze disperse nella società, anche di fare previsioni attendibili sul comportamento degli altri e di risolvere i nuovi problemi che di volta in volta si presentano con dei nuovi adattamenti, che tengano conto delle esperienze altrui, ossia che sappiano sfruttare gli esempi che si impongono come migliori soluzioni per i diversi problemi. Il modello di stato liberale di Hayek si basa dunque sull’idea che la libertà individuale è importante perché consente il migliore utilizzo della conoscenza nella società, e lo stesso progresso sociale ad essa legato è definibile in termini di migliore utilizzo della conoscenza. Le tradizioni e le istituzioni sono infatti il risultato dell’imitazione di comportamenti altrui che si sono dimostrati più efficaci, esse non sono il prodotto della mente umana, ma il frutto di una selezione che avviene in condizioni di libertà73. Quella di Hayek può dunque essere considerata una teoria sull’importanza dei processi evolutivi in tutti i fenomeni sociali, e le sue due opere “politicamente” più importanti, The Constitution of Liberty e Law, Legislation and Liberty, sono appunto volte ad individuare quale sia l’assetto istituzionale che consente meglio degli altri di sfruttare le conoscenze disperse e di passare da una conoscenza umana ineluttabilmente limitata e fallibile ad un ordine sociale e politico. La sua è la ricerca di quali siano le condizioni che consentono di migliorare un ordine che, se sorge da un processo evolutivo e culturale, l’uomo non deve mai rinunciare a perfezionare. E la sua soluzione consiste nell’idea che si possa effettivamente migliorare l’ordine prodotto dall’evoluzione solo migliorando le regole astratte che fanno da guida agli individui, e che sono il risultato di azioni umane non rivolte alla loro creazione. Questa idea era in parte già contenuta, come si è visto, in The Constitution of Liberty, ma giunge a piena maturazione solo nella trilogia di Law, Legislation and Liberty. Nonostante una innegabile continuità di intenti tra le due opere vi sono in realtà alcune differenze significative. Law, Legislation and Liberty si basa infatti sull’idea che il costituziona«Le nazioni, per caso, s’imbattono in strutture sociali, le quali sono in realtà il risultato dell’azione umana e non l’esecuzione di un progetto umano. Questa impostazione del problema mette in chiaro come quel che noi definiamo ordine politico sia molto meno prodotto della volontà e dalla nostra intelligenza di quanto si creda», Ivi, (trad. it. cit. p. 94). 73

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lismo e lo stato di diritto, idee che per alcuni aspetti erano alla base di The Constitution of Liberty, non si sono dimostrati una difesa sicura per la libertà e l’ordine politico liberale74. Ciò che ora guida le riflessioni di Hayek è la consapevolezza che la produzione del diritto da parte di assemblee legislative è in realtà difficilmente compatibile con il mantenimento di un ordine politico liberale. L’equiparare, pur tentando di mantenere distinte nella pratica le due cose, la legittimità di norme generali e astratte con provvedimenti governativi e amministrativi (che hanno naturalmente obiettivi completamente diversi, ma sono prodotti in ultima analisi dagli stessi organi e hanno una medesima legittimazione, ossia la volontà popolare) porta ad una perdita di consapevolezza della fondamentale distinzione tra le due, e al trionfo di una mentalità, tra i cittadini come tra gli intellettuali e i politici, inconciliabile con il mantenimento del tipo di ordine politico che egli aveva in mente75. È dunque dal senso di insoddisfazione per i rimedi pensati e proposti con The Constitution of Liberty che egli viene spinto a redigere questa nuova opera, basata sull’idea che le “credenze dominanti nel nostro tempo” sono incompatibili con gli ideali di libertà, e le ragioni sono «soprattutto queste: la perdita della fede in una giustizia indipendente dagli interessi personali; un conseguente uso della legislazione per autorizzare la coercizione, non solo per prevenire azioni ingiuste, ma per raggiungere particolari risultati a favore di specifici gruppi o persone; e la fusione nelle medesime assemblee legislative dei compiti di proclamare le regole di giusta condotta e di dirigere l’attività del governo»76. Il presupposto gnoseologico di Law, Legislation and Liberty è lo E questa consapevolezza lo induce a scrivere, in una amara considerazione collocata nella presentazione dell’opera: «nella forma in cui la conosciamo, tale divisione tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata progettata. […] Il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme costituzionali è evidentemente fallito», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 5). 75 «A dispetto del crollo dei regimi totalitari nel mondo occidentale, le loro idee di base hanno continuato a guadagnare terreno nella sfera teorica, così che tutto ciò che oggi è necessario per trasformare totalmente il sistema giuridico in un sistema totalitario è solo di lasciare che siano tradotte in pratica le idee che già dominano nella sfera del pensiero astratto», Ivi, (trad. it. cit. p. 91). Va comunque ricordato che anche in quest’opera Hayek non perde la speranza di arrivare ad un “compromesso” tra il liberalismo e la teoria democratica, e questo sembra un altro importante elemento di continuità con l’opera precedente, anche se ora gli sviluppi di quella teoria vengono guardati con una preoccupazione maggiore. 76 Ivi, (trad. it. cit. p. 6). 74

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stesso di The Constitution of Liberty: «la civiltà si fonda sul fatto per cui noi tutti traiamo vantaggi da una conoscenza che in realtà non possediamo»77, e che nessuno può possedere nella sua interezza. Nel ripercorrere la distinzione tra coloro che hanno ritenuto che l’ordine si potesse formare tramite un progetto umano e coloro che invece lo ritengono il risultato inintenzionale dell’azione umana, Hayek questa volta riconduce la distinzione già al pensiero greco, cosa che gli fa modificare la terminologia nella trattazione dell’intero problema. Guardando alla distinzione greca tra physis (per natura), nomos (per convenzione) e thesis (per decisione deliberata), giunge a definire il nomos la “legge della libertà”, costituito da regole di condotta, e la thesis “il sistema giuridico creato dalla legislazione”, costituito da regole di organizzazione. A questi due tipi di leggi corrispondono due differenti tipi di ordine78, che i greci potevano indicare con due termini diversi: cosmos era l’ordine formatosi spontaneamente, taxis era l’ordine costruito dall’uomo. I due tipi di ordine sono molto diversi, e solo relativamente conciliabili. «L’ordine spontaneo sorge dal fatto che ciascun elemento tende a equilibrare tutti i vari fattori che operano nella sua sfera, e che tutti gli elementi aggiustano le proprie azioni gli uni rispetto agli altri; è un equilibrio che andrebbe distrutto se alcune di quelle azioni fossero determinate da un altro ente sulla base di una diversa conoscenza ed al servizio di fini diversi»79. Ordine spontaneo e organizzazione possono dunque coesistere solo entro certi limiti, poiché si basano su due diversi princìpi ordinatori che possono facilmente entrare in conflitto. Il principio di organizzazione (che si incarna nell’operare del governo) coesiste con l’ordine spontaneo, ma ne deve essere comunque subordinato, infatti esso assolve delle funzioni fondamentali, ma è una parte di un ordine più generale. È una distinzione, questa hayekiana, che riprende quella classica della tradizione liberale tra stato e società, dove il primo è solo uno degli elementi, se pure uno tra i più importanti, che costituiscono la seconda. Il nomos, su cui si forma l’ordine spontaneo denominato cosmos, è Ivi, (trad. it. cit. p. 23). Qui Hayek definisce l’ordine in questo modo: «uno stato di cose in cui una molteplicità di elementi di vario genere sono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che si può imparare, dalla conoscenza di qualche partizione spaziale o temporale dell’intero insieme, a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno, aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette», Ivi, (trad. it. cit. p. 49). 79 Ivi, (trad. it. cit. pp. 66-67). Sul rapporto e la possibile coesistenza tra ordine spontaneo e ordine organizzato si veda A. ZANFARINO, Il pensiero politico contemporaneo, Morano, Napoli 1994, pp. 578 e ss. e B. CALDWELL, Hayek’s Challenge, op. cit. p. 313, 353 e ss. 77 78

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un tipo di legge equivalente a quella che in The Constitution of Liberty era la legge generale, astratta e imparziale. Esso è definito come «una norma universale di comportamento giusto, valida per un numero imprecisato di casi futuri ed egualmente per tutte le persone che si trovino nelle circostanze obiettive descritte dalla norma, indipendentemente dagli effetti che l’osservanza della norma produrrà in una situazione particolare. Queste norme delimitano i confini dei singoli campi protetti consentendo a ogni persona o gruppo organizzato di conoscere quali mezzi possono impiegare per perseguire i loro fini, e di evitare così ogni conflitto tra le azioni delle differenti persone. Tali norme sono sempre “astratte” e sono «indipendenti dai fini individuali»80, ma la novità rispetto agli scritti precedenti, oltre che in una nuova terminologia, consiste nel fatto che qui Hayek riconduce, molto più chiaramente che in passato, il nomos al diritto prodotto dai giudici, il quale ha delle caratteristiche che la legislazione non può possedere. È qui evidente l’influenza esercitata su di lui dalle riflessioni di Leoni sui pericoli della legislazione e sulle differenze tra essa e il diritto prodotto dai giudici. Il giudice che opera in un regime di common law viene ora visto da Hayek come «un’istituzione di un ordine spontaneo»81, capace di correggere i “disguidi” di un tale ordine senza interferire con esso, ossia senza operare per costruire a sua volta un ordine. Egli infatti va a valutare le aspettative che «le parti si sono ragionevolmente formate in base alle consuetudini generali sulle quali si fonda l’ordine complessivo delle azioni»82 e, dato il suo modo di operare, in esso non può esservi nulla di volto alla costruzione di un ordine. Il giudice invece opera per «mantenere e rafforzare» un ordine che non è creazione dell’uomo, ma che è emerso spontaneamente ed è basato sul fatto che le aspettative degli uomini «si adattano vicendevolmente»83. Il giudice interviene dunque solo quando non vengono osservate, o non sono abbastanza chiare ed efficienti, le regole emerse dall’incontro delle aspettative. Egli, come F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 88). Poi aggiunge «al contrario, useremo il termine thesis per indicare qualsiasi norma che sia applicabile solo a qualcuno in particolare o che serva ai fini di chi formula le norme. Sebbene queste norme possano essere ancora in varia misura generali e riferirsi ad una molteplicità di casi particolari, si trasformeranno impercettibilmente da norme nell’accezione usuale del termine in ordini particolari. Esse sono lo strumento necessario per gestire un’organizzazione o taxis», pp. 88-89. Il testo è tratto da una conferenza tenuta nel 1967. 81 F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 121). 82 Ivi, (trad. it. cit. p. 112). 83 Ivi, (trad. it. cit. pp. 148-149). 80

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anche le parti che ad esso ricorrono, non ha bisogno «di sapere qualcosa sulla natura dell’ordine complessivo, o di conoscere un qualche “interesse della società” da servire», ma deve solo sorvegliare sul buon funzionamento delle leggi medesime. Gli sforzi del giudice fanno pertanto parte di quel processo di adattamento della società alle circostanze esterne mediante cui si sviluppa l’ordine spontaneo. Egli aiuta tale processo di selezione approvando quelle regole che, come quelle che hanno funzionato bene in passato, rendono l’incontro delle diverse aspettative più verosimile che non il loro conflitto. Egli diviene così uno strumento di quell’ordine. Persino quando, nell’adempimento di questa funzione, crea nuove regole, non diviene il creatore di un nuovo ordine, ma la sua opera resta al servizio del mantenimento dell’ordine già esistente e funzionante84.

Ecco che allora le decisioni giudiziali hanno una funzione fondamentale riguardo al nomos, alla legge della libertà, che è appunto un insieme di regole che viene “scoperto” e non creato, poiché, a differenza delle regole di organizzazione, «esiste indipendentemente da una qualsiasi volontà umana»85. Anche per Hayek, come per Leoni prima di lui, il diritto non è qualcosa che è stato originariamente “inventato”, e anzi l’invenzione del diritto, ossia la legislazione, è arrivata piuttosto tardi nella storia dell’uomo. Nonostante ai nostri tempi sostenere che il diritto precede la legislazione sia considerato alla stregua di un paradosso, è innegabile che a lungo il diritto non è stato concepito come qualcosa che l’uomo può “forgiare a suo piacimento”, ed esso «è esistito per molte epoche prima che all’uomo potesse venire in mente di poterlo creare o modificare»86. Col tempo però è andata sempre più affermandosi l’attività legislativa, nei confronti della quale ora Hayek esprime molte più riserve e preoccupazioni di quanto non avesse fatto in The Constitution of Liberty 87. Ivi, (trad. it. cit. p. 149). Ivi, (trad. it. cit. p. 153). 86 Ivi, (trad. it. cit. p. 95). Nonostante non venga citato qui Hayek sembra davvero riprendere, anche nella terminologia, l’analisi di Leoni. 87 «L’intero movimento a sostegno della codificazione è stato sostenuto dalla credenza che essa aumentasse la predicibilità delle decisioni giurisprudenziali. […] Sebbene l’attività legislativa possa senz’altro aumentare la certezza del diritto su certi punti particolari, sono ora persuaso che tale vantaggio sia più che compensato dal fatto negativo di richiedere che solo ciò che viene formulato in atti legislativi debba avere forza di legge. A me sembra che le decisioni giurisprudenziali possano di fatto essere maggiormente predicibili quando il giudice è pure vincolato dalle concezioni diffuse intorno a ciò che è giusto, anche quando esse non siano suffragate dalla lettera della legge, piuttosto che non quando egli deve limitarsi a derivare le 84 85

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Tuttavia, nonostante in questa nuova fase del suo pensiero Hayek sembri privilegiare decisamente la produzione giurisprudenziale del diritto, egli non giungerà mai a negare l’importanza della legislazione come elemento di correzione e miglioramento dei processi sociali spontanei, né la necessità del governo per il mantenimento dell’ordine. Se infatti è possibile sostenere che un ordine spontaneo possa nascere senza un governo, tramite l’emergere di regole a cui dà luogo l’incontro delle aspettative individuali, il governo è però “indispensabile” per garantire che quelle stesse regole vengano osservate. In questo la funzione del governo è «simile a quella di una squadra di sorveglianza e manutenzione all’interno di una fabbrica, il cui compito non è quello di produrre alcun particolare bene o servizio che debba essere consumato dal pubblico, ma piuttosto di controllare che il meccanismo regolante la produzione di quei beni e servizi si mantenga correttamente in funzione»88. Hayek rimane poi altrettanto convinto della necessità della legislazione al fine di operare delle correzioni che con il passare del tempo si rendono indispensabili nei sistemi basati sull’ordine spontaneo, correzioni che però non può essere il giudice a operare. E qui Hayek si mostra consapevole di una serie di rilevanti difficoltà cui vanno incontro i processi evolutivi spontanei, difficoltà che già negli anni in cui completava la sua opera erano state messe in luce anche da altri pensatori liberali, in particolare da James Buchanan89. Per varie ragioni i processi evolutivi spontanei possono condurre ad una impasse da cui non possono districarsi con le proprie forze, o, almeno, da cui non riescono a correggersi abbastanza velocemente. Lo sviluppo del diritto giurisprudenziale è in certo modo una via a senso unico: quando si è già percorsa una considerevole distanza in una direzione, spesso non si può tornare sui propri passi accorgendosi che alcune conseguenze delle precedenti decisioni sono chiaramente indesiderabili. Il fatto che il diritto cosi evolventesi abbia certe proprietà desiderabili non prova che esso sia sempre un buon diritto, o che qualche sua regola non possa rivelarsi molto inadeguata. Pertanto, non significa proprie visioni solamente da quelle, tra tutte le credenze accettate, che hanno trovato espressione nella legge scritta», Ivi, (trad. it. cit. p. 146). Anche in questo caso sembra di leggere Leoni. 88 Ivi, (trad. it. cit. pp. 62-63). 89 J.M. BUCHANAN The Limits of Liberty. Between Anarchy and Leviathan, Chicago 1975 (trad. it. I limiti della libertà, Rusconi, Milano 1998, p. 92 e ss) e Freedom in Constitutional Contract, College Station, London 1977 (trad. it. Libertà nel contratto costituzionale, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 34 e ss.) Queste e altre critiche si trovano esposte in A.M. PETRONI, S. MONTI BRAGADIN, Introduzione a F.A. von Hayek, Legge, Legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994.

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che si possa interamente fare a meno della legislazione.90

La legislazione si rende allora necessaria anche perché le correzioni operate dal giudice avrebbero spesso tempi molto lunghi, non compatibili con le necessità di società evolute. Il principio del precedente vincolante è dunque visto non solo come garanzia della certezza del diritto, ma anche come un possibile ostacolo nel caso in cui si creino nuove e diverse situazioni, e più in generale può talvolta essere auspicabile avere a disposizione una nuova norma applicabile ai casi futuri91. In Law, Legislation and Liberty Hayek è dunque sì fautore di ordine basato sull’evoluzione spontanea e sulla selezione culturale92 di F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 114). In nota a questo passo Hayek commenta: «gli argomenti in favore dell’affidarsi, anche in tempi moderni, al processo graduale del precedente giudiziario e all’interpretazione dottrinale, al fine di ottenere lo sviluppo del diritto, sono stati persuasivamente presentati da Bruno Leoni, Liberty [sic] and the Law (Princeton, 1961). Nonostante la sua tesi costituisca un efficace antidoto contro l’ortodossia prevalente, la quale ritiene che le leggi si possano o si debbano cambiare solo attraverso un procedimento legislativo, non mi ha persuaso che si possa fare a meno della legislazione anche nell’ambito del diritto privato, che è il campo di cui egli in particolare si occupa». È questo l’unico passo del suo libro in cui viene citato Leoni, e non si può fare a meno di osservare che Hayek non è stato molto generoso nel riconoscere il suo importante debito nei confronti del giurista italiano. 91 Hayek inoltre non rinuncerà mai all’idea che esistano dei beni pubblici, e che essi debbano essere prodotti dallo stato, nonostante non si debba attribuire al governo “un diritto esclusivo alla fornitura di questi servizi”. Anzi il liberalismo auspicherà «che venga lasciata aperta la possibilità di intervento per l’impresa privata ogniqualvolta ciò appaia concretamente fattibile. Egli continuerà inoltre, secondo la propria tradizione, a preferire che tali servizi siano gestiti, fin dove è possibile, dalle autorità locali. […] Ma, a parte queste indicazioni, il liberalismo ha fatto ben poco per definire princìpi precisi, capaci di orientare le scelte politiche in questo vasto campo di sempre maggiore importanza» F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. p. 161). Va tuttavia osservato che anche nella sua riflessione non è possibile individuare dei criteri precisi con cui stabilire quali siano i beni pubblici, lasciando di fatto che tale scelta debba sempre essere compiuta dal potere politico, il quale, come lo stesso Hayek almeno in parte comprese, non ha assolutamente alcun interesse a ridurre i beni pubblici al numero realmente necessario. Lo stesso discorso fatto sui beni pubblici vale anche per quanto riguarda il soddisfacimento degli interessi collettivi di certi gruppi, tanto che tutta la storia dello sviluppo delle democrazie può essere vista come «la storia della lotta continua per impedire a gruppi particolari di abusare dell’apparato di governo a beneficio dell’interesse collettivo dei gruppi stessi», F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 191). 92 L’elemento della selezione culturale è molto importante nel pensiero di Hayek, e nelle pagine finali della sua opera egli lo definisce così « La cultura non è né naturale né artificiale, né trasmessa geneticamente né razionalmente progettata. È una tradizione di norme di comportamento apprese, che non sono mai state “inventate”, e di cui generalmente 90

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norme e costumi, ma è altresì convinto che una tale evoluzione possa condurre in “vicoli ciechi” o in direzioni non auspicabili. In questo senso gli interventi sia del giudice sia del legislatore possono divenire assolutamente necessari, anche se il loro ruolo non dovrà mai essere quello di progettare un ordine nella sua interezza, ma solo di operare quei miglioramenti (come eliminare le contraddizioni, o integrare parti mancanti) che di volta in volta si rendono necessari93. Un altro tema di grande rilevanza, già accennato in precedenza, è quello della giustizia sociale, cui è dedicato il secondo libro dell’opera di Hayek94. La sua tesi è che, in un sistema basato sull’ordine spontaneo e sull’economia di mercato, non ha alcun significato parlare di “giustizia sociale”, o di “giustizia distributiva”, poiché in quel sistema le situazioni, e quindi le distribuzioni di ricchezza che si vengono a creare non sono il prodotto della volontà umana, e non si può definire giusto o ingiusto ciò che non è prodotto di tale volontà. Quei termini possono dunque avere un senso solo in un ordine inteso come organizzazione, ma non come ordine spontaneo. Ecco allora che se veramente si volesse realizzare la giustizia sociale bisognerebbe cambiare il tipo di ordine sociale, e l’attività del potere politico non dovrebbe più consistere nel mantenere l’ordine con norme di condotta e produrre beni collettivi, ma appunto nel costruire un nuovo ordine considerato giusto. Solo un governo con poteri totalitari potrebbe realizzare una uguaglianza materiale o ridistribuire la ricchezza in un modo considerato “giusto”, ma un tale tentativo comporterebbe la rinuncia a quel tipo di ordine spontaneo, basato su regole generali e astratte, che Hayek ha tentato di dimostrare essere l’unico in grado di utilizzare le conoscenze disperse e frammentarie. La critica della giustizia sociale coincide dunque con la riproposizione della sua teoria gnoseologica sulla limitatezza e fallibilità della conoscenza umana. Nessuna autorità centrale (almeno in quella che gli individui non capiscono la funzione. È certamente altrettanto giustificato parlare di saggezza della cultura quanto di saggezza della natura – salvo che, forse, a causa dei poteri del governo, gli errori della prima possono essere corretti meno facilmente. […] Forse si comincia oggi a capire sempre più che l’evoluzione culturale non è il risultato di istituzioni coscientemente costituite dalla ragione umana, ma di un processo in cui la cultura e la ragione si sono sviluppate contemporaneamente. Non è probabilmente più giustificato sostenere che l’uomo pensante ha creato la sua cultura, che la cultura abbia creato la sua ragione», Ivi, (trad. it. cit. p. 531). 93 Cfr. Ivi, (trad. it. cit. p. 127). 94 Sull’argomento si veda anche il saggio The Atavism of Social Justice, risalente al 1976 e ripubblicato in F.A. VON HAYEK, New Studies… op. cit. (trad. it. cit. pp. 68-80).

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Hayek chiama “la grande società”, o la società libera) è in grado di comprendere cosa gli individui veramente vogliono, né sarebbe in grado di capire come realizzare i desideri degli individui. Il compito del governo non può essere allora tentare di soddisfare gli interessi individuali95, ma quello di «assicurare le condizioni in cui individui e piccoli gruppi trovino le occasioni favorevoli per soddisfare reciprocamente i propri bisogni»96. È solo dalla limitazione del potere arbitrario per lasciare libero campo a quello straordinario strumento per produrre ricchezza e soddisfare bisogni che è la libertà personale che si può ottenere un ordine in grado di dare a tutti la possibilità di realizzare le proprie aspettative, e «la seduzione della “giustizia sociale” minaccia di privarci di questo grande trionfo della libertà personale»97. Una minaccia, quella La critica è qui naturalmente rivolta all’utilitarismo, e in particolare a Bentham. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 187). 97 Ivi, (trad. it. cit. p. 306). Va però ricordato che Hayek non considerava questa sua analisi incompatibile con l’opera di John Rawls, poiché riteneva che egli usasse l’espressione “giustizia sociale” come un parametro per valutare gli effetti delle istituzioni sociali. Infatti egli scrive: «Prima di abbandonare questo argomento voglio sottolineare ancora una volta come il riconoscimento che in combinazioni quali giustizia “sociale”, “economica”, “distributiva” o “retributiva”, il termine “giustizia” è del tutto privo di significato, non deve indurre a fare di ogni erba un fascio. La giustizia amministrata dai tribunali è estremamente importante non soltanto come base delle norme giuridiche di mera condotta. Esiste indubbiamente un autentico problema di giustizia in rapporto alla formazione deliberata delle istituzioni politiche, problema a cui il Professor Rawls ha recentemente dedicato un importante libro. Il fatto che mi dispiace, e che ritengo sviante, è semplicemente che egli usa a tal proposito l’espressione “giustizia sociale”. Ma non ho alcuna divergenza di fondo con un autore che prima di trattare quel problema riconosce che il compito di scegliere specifici sistemi o distribuzioni giuste di beni desiderati deve essere “abbandonato perché ritenuto sbagliato di principio e in ogni caso non passibile di una risposta definitiva. I princìpi di giustizia definiscono piuttosto i vincoli che le istituzioni e le loro attività devono soddisfare se le persone che ne fanno parte non devono avere a lamentarsi. Se questi vincoli sono soddisfatti, la distribuzione che ne risulta, qualunque essa sia, può essere accettata come giusta (o almeno non ingiusta)”» [J. RAWLS, Constitutional Liberty and the Concept of Justice, in C.J. Friedrich and J.W. Chapman (eds.), Nomos, VI: Justice, Yearbook of the American Society for Political and Legal Philosophy, Atherton Press, New York 1963, p. 102]. Poi in nota aggiunge: «non credo che il libro più letto del professor Rawls, A Theory of Justice, [A Theory of Justice, Harward University Press, Cambridge (Mass.) 1971; edizione rivisitata, A Theory of Justice, Harward University Press, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Una teoria della giustizia, revisione, cura e nuova introduzione di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 2008)] contenga un’affermazione altrettanto chiara di questo che è il punto principale. Ciò potrebbe spiegare perché quest’opera sembri spesso essere interpretata - a torto, io credo - come un supporto alle richieste socialiste» F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 306 e nota). 95 96

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della giustizia sociale, che però alla fine «verrà riconosciuta essere un fuoco fatuo che ha portato gli uomini ad abbandonare molti dei valori che in passato hanno promosso lo sviluppo della civiltà»98. Un’idea, quella della giustizia sociale come un “fuoco fatuo”, che non si è dimostrata molto fortunata, dato che oggi essa è considerata da molti come l’argomento principe della filosofia politica99. Ad una tale critica della giustizia sociale corrisponde però, come si è visto, la convinzione che lo stato debba assumere tutta una serie di compiti “positivi” per migliorare la vita dei cittadini, compiti che non si limitano solo alla produzione di beni pubblici, ma anche a garantire un reddito minimo (finanziato con la tassazione e quindi “fornito fuori dal mercato”) a tutti coloro che per qualsiasi motivo non sono in grado di procurarsi nel mercato un reddito adeguato100. Hayek è per questi aspetti decisamente lontano dalle posizioni dei Libertarians, egli è un liberale classico che rivendica per lo stato alcuni fondamentali compiti. Il problema che però egli non sa risolvere è l’indicare come, una volta che i compiti dello stato non sono più solo garantire l’ordine e la sicurezza, sia possibile trovare dei criteri certi con cui individuare questi compiti, almeno nel momento in cui non si ha più fiducia nei meccanismi democratici per la loro individuazione.

Una attenta ricostruzione e valutazione dell’intera opera di Rawls (anche delle parti che Hayek non ha potuto conoscere) è S. MAFFETTONE, Rawls. An Introduction, Polity Press, Cambridge 2010. 98 F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 268). 99 Si veda ad esempio W. KYMLYCKA, Contemporary Political Philosophy. An Introduction, Oxford University Press, Oxford 1990 (trad. it. Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano 1996). In una prospettiva simile si muove anche S. VECA, La filosofia politica, Laterza, Bari 1998, con il suo peraltro pregevole tentativo di rileggere molti dei problemi della filosofia politica alla luce delle categorie rawlsiane. 100 Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 292-293, ma anche 428 e ss.) in cui il reddito minimo viene definito come “un compito necessario della Grande società in cui l’individuo non può più rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato” (p. 249).

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3. L’individualismo radicale Come si è detto la svolta in senso più marcatamente evoluzionista di Hayek fu influenzata dal pensiero di Leoni, e tale influenza è riconducibile, oltre che a Freedom and the Law, anche ad alcune riflessioni giovanili101, che l’austriaco conosceva, nelle quali egli aveva trattato molti dei temi che abbiamo ritrovato nel primo libro di Law, Legislation and Liberty, opera che sembra rappresentare per alcuni versi proprio una continuazione delle riflessioni di Leoni. Nel tracciare la distinzione tra la concezione giuridica dei Greci e dei Romani infatti Leoni parla già di nomos, physis e thesis, e ha anche già individuato la distinzione tra le diverse concezioni del diritto nel mondo greco, insistendo molto sul come la legge frutto di una decisione dell’autorità politica fosse stata introdotta tardi, e come avesse soltanto gradualmente e parzialmente sostituito il diritto consuetudinario. Inoltre con il paragonare la concezione giuridica dei greci con quella dei romani egli inizia quel lungo percorso che lo condurrà alle idee sostenute in Freedom and the Law, incentrate proprio sulla individuazione di ciò che vi è di potenzialmente totalitario nel processo legislativo in contrapposizione al diritto che si forma spontaneamente o per via giudiziale. Per alcuni aspetti Leoni sembra dunque aver già intuito, riflettendo sul pensiero antico e tenendo presenti le osservazioni della Scuola del Savigny, l’importanza di intendere la formazione del diritto come scoperta e non come decisione deliberata dagli uomini, una possibilità che Hayek svilupperà a pieno solo in una seconda fase della sua riflessione. Ma l’importanza della riflessione di Leoni per la rinascita del liberalismo classico va ben al di là dell’influenza su Hayek. Ciò che qui si vuole indagare è la riflessione del Leoni maturo, e in particolare il suo originale contributo alla teoria dell’ordine spontaneo, tentando di mettere in luce in che termini egli abbia dato a quella tradizione di pensiero un apporto importante e originale. Il riferimento è a B. LEONI, Lezioni di filosofia del diritto: vol. I, Il pensiero antico, Pavia, Viscontea 1949 (litografia), il cui contenuto era certamente conosciuto da Hayek (infatti egli ne parla nella commemorazione a Pavia per l’amico scomparso, cfr. Bruno Leoni the Scholar, in Scaramozzino, P. (a cura di) Omaggio a Bruno Leoni, Quaderni della Rivista «Il Politico», n. 7, Giuffrè, Milano, pp. 23-32; ora in The Fortunes of Liberalism.. op. cit. pp. 253-58). Tuttavia in Law, Legislation and Liberty egli non fa riferimento alcuno a quegli scritti di Leoni, che pure lo dovevano aver influenzato. Sull’argomento rimando a A. MASALA, Bruno Leoni filosofo della politica, «Il Politico», LXVI, n. 2, 2001, pp. 271- 307. 101

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Il primo passaggio da prendere in esame è il modo in cui Leoni sviluppa la critica al tentativo di assimilare le decisioni politiche a quelle economiche, o più precisamente di individuare somiglianze tra la scelta economica che avviene nel mercato e la scelta politica che avviene tramite la votazione, un tentativo che aveva avuto in Schumpeter il suo pioniere e che, come si è ricordato in precedenza, negli anni in cui scrive Leoni annoverava tanti nuovi rilevanti tentativi. Alla base della critica di Leoni vi è l’idea, indubbiamente di origine misesiana, per la quale l’economia e la politica vanno considerate qualcosa di radicalmente diverso nel momento in cui si intende quest’ultima come insieme di scelte collettive. Infatti, mentre nelle scelte economiche individuali si ha sempre qualcosa in cambio di ciò che si è dato, nella votazione politica colui che è in minoranza, e che quindi non riesce a far eleggere il candidato per il quale ha espresso la sua preferenza, non ottiene nulla in cambio del suo voto. Le scelte politiche, al contrario di quelle economiche, sono mutualmente esclusive, ogni individuo ha a disposizione solo un voto, con il quale può scegliere solo una delle alternative sacrificando tutte le altre; poiché tali scelte non possono essere articolate, tutti i procedimenti di decisione a maggioranza si fondano sulla coazione e sull’impossibilità per la minoranza di avere una contropartita in cambio del suo voto. E da ciò per Leoni deriva che solo nel caso di unanimità si potrebbe assimilare la democrazia politica alla democrazia economica. Per Leoni dunque la politica è il dominio delle scelte collettive, nelle quali la coercizione è ineliminabile102. Ma proprio a partire da questa constatazione, che si riferisce a come le scelte politiche avvengono negli stati moderni, egli matura la volontà di riflettere su come sia possibile il formarsi di un ordine sociale, domandandosi se l’elemento coercitivo debba o meno essere posto a fondamento della nascita della società. In questo modo egli si inserisce con originalità in quella tradizione che abbiano visto essere nata con Mandeville e “rinata” con Menger, tradizione che vede la nascita delle istituzioni, e in generale dei rapporti sociali complessi, non da un atto politico e da una scelta deliberata, ma da un processo di adattamento spontaneo e libero da parte dei singoli individui. Egli infatti guarda al processo di formazione ed evoluInfatti, secondo Leoni se consideriamo le decisioni politiche come «decisioni di gruppo raggiunte in base a qualche procedimento coercitivo» dobbiamo ammettere che, salvo i casi di unanimità, la coercizione «sembra essere l’unico sistema logico per ottenere delle decisioni di gruppo», B. LEONI, The Meaning of “Political” in Political Decisions, op. cit., (trad. it. cit. p. 118). 102

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zione spontanea dell’ordine come descritto dagli austriaci individuando la chiave di volta di tale processo nel concetto di scambio, che può essere applicato alla politica e al diritto in modo analogo a come viene applicato all’economia. Conseguentemente a ciò egli ricerca gli elementi propri dello scambio per questi due aspetti, ossia l’equivalente per la politica e il diritto di ciò che per l’economia sono i beni, e li individua nel potere (o meglio nel potere politico) e nella pretesa. Leoni definisce lo stato come la “situazione” in cui si trovano i poteri presenti nella società, ma questi poteri sono tra loro complementari, ossia dal loro “scambio” si ha un miglioramento per tutti coloro che partecipano al processo, come nel caso dell’economia in cui si ricava un’utilità marginale maggiore dal bene che si acquisisce rispetto a quello che si cede. Tutti gli individui hanno una certa quantità di potere politico, il quale consiste nella capacità di far rispettare la propria persona e i propri beni. Questo potere viene scambiato dagli individui dando così origine all’ordine sociale, ossia ad una situazione in cui è possibile effettuare previsioni sui comportamenti altrui e sugli esiti dei propri comportamenti. Lo stato viene allora concepito come «una situazione di potere o, se più piace, una costellazione, sovente assai complessa di poteri, i quali, cosa estremamente degna di nota, non si esercitano mai in una sola direzione, poiché coloro che obbediscono ottengono, o finiscono per ottenere a loro volta obbedienza, e coloro che comandano consentono, o finiscono per consentire, all’obbedienza, almeno in certi rispetti ed entro certi limiti, nei confronti di coloro che normalmente non comandano, ma obbediscono»103. Ecco che allora lo stesso potere politico non sarà altro che «la possibilità di ottenere rispetto, tutela o garanzia dell’integrità e dell’uso di beni che ogni individuo considera fondamentali e indispensabili alla propria esistenza: la vita, il possesso di taluni mezzi per conservare la vita, la possibilità di creare una famiglia e preservare la vita dei suoi membri e così via»104. La vita in società è dunque basata sullo scambio di potere individuale, il quale si manifesta innanzitutto come capacità di tutelare la propria libertà, e in tal senso il potere dei diversi individui è complementare. Infatti succede che si ottiene “rispetto” da parte degli altri, ossia la rinuncia da parte loro a modificare la nostra situazione senza il nostro consenso, in cambio di una nostra corrispondente rinuncia a B. LEONI, Diritto e politica, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», fasc. I, 1961, pp. 89-107; ora in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria del diritto, op. cit., p. 335. 104 Ivi, p. 338. 103

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modificare la loro situazione senza il loro consenso. A partire da questa complementarità Leoni delinea la nascita di organizzazioni sociali complesse, quali appunto lo stato, inserendo elementi nuovi e in un certo senso empirici alla teoria austriaca dell’ordine sociale. Dove il meccanismo dello scambio tra individui offre risultati più lineari è nel caso della formazione del diritto, in cui l’analogia con l’economia austriaca è ben riuscita. Leoni costruisce la sua teoria del diritto sul concetto di pretesa, che definisce come «la richiesta di un comportamento altrui considerato da chi lo richiede come probabile e corrispondente ad un proprio interesse (cioè utile), nonché come determinabile con una qualche specie di intervento, qualora esso comportamento non si verifichi spontaneamente, sulla base di un potere di cui chi pretende si considera dotato»105. Ogni individuo avanza dunque delle pretese riguardo ad alcuni comportamenti altrui, e tali pretese vengono soddisfatte perché si offre in cambio la disponibilità (e dunque si contrae il corrispettivo obbligo) a rispettare le pretese simili esercitate dagli altri. Anche qui si ha un meccanismo di scambio come quello a cui si assisteva nel caso del potere, e infatti Leoni precisa che in questo senso si ha il potere di far rispettare le pretese legittime, e che ogni volta che si rispetta un determinato schema giuridico è perché si sta verificando un rapporto di potere. Il processo è analogo a quello di uno scambio economico, nel quale tutto nasce dal bisogno che gli individui vogliono soddisfare, ossia dalla domanda, in risposta alla quale nasce l’offerta volta a soddisfare i bisogni. Nel campo del diritto l’obbligo, oggetto della pretesa, è il mezzo per soddisfare di chi esercita la pretesa e di chi ad essa si adegua. «L’adempimento dell’obbligo è – si può dire – la moneta di scambio con cui, a sua volta, colui che si adegua ad una certa pretesa fa valere la sua. Ora, se noi concepiamo l’obbligo spiegato in funzione sia della pretesa diretta che di quella indiretta, ecco che, in fondo, è molto più degno di essere considerato concetto chiave del diritto quello della pretesa che quello dell’obbligo corrispondente»106. La teoria giuridica di B. LEONI, Appunti dal corso di Lezioni di “filosofia del diritto”, op. cit. p. 228. B. LEONI, Lezioni di filosofia del diritto, raccolte da M. Bagni, Pavia, Viscontea 1959 (litografia); ora Lezioni di filosofia del diritto, prefazione di C. Lottieri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 87. Cfr. anche B. LEONI, Obbligo e pretesa nella dogmatica, nella teoria generale e nella filosofia del diritto, in Studi in onore di Emilio Betti, vol. I, Giuffrè, Milano 1962, pp. 541-567, ora in B. Leoni Scritti di scienza politica e teoria del diritto, op. cit. pp. 339-366. È importante notare come in tale analisi il ribaltamento rispetto alla teoria normativista kelseniana sia totale. Ponendo come “prius logico” del diritto la pretesa, il concetto di obbligo, fondamentale invece nella teoria kelseniana, viene a dipendere da 105 106

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Leoni affonda dunque le radici nella metodologia della scienza economica, tanto che egli scrive «gli economisti hanno fatto risalire i prezzi, come fenomeno sociale, alle scelte individuali tra beni scarsi. Propongo che anche i filosofi del diritto debbano far risalire le norme giuridiche, come fenomeni sociali, a qualche atto o attitudine individuale. Questi atti si riflettono, in qualche modo, nelle norme entro un sistema giuridico, proprio come le scelte individuali tra beni scarsi si riflettono nei prezzi di mercato entro un sistema monetario»107. Il paragone è ripreso anche riguardo alla norma giuridica, la quale non è altro che la formulazione linguistica di una pretesa giuridica, o meglio dell’incontro tra il comportamento di chi esercita la pretesa e di chi si adegua ad essa, pretendendo a sua volta qualcosa108. E di conseguenza l’ordinamento giuridico non sarà altro che «una risultante effettiva dei comportamenti e delle pretese di tutti»109. Nel mondo umano infatti l’influenza del singolo individuo sul fenomeno che viene studiato può talvolta apparire impercettibile, ma è in realtà sempre determinante. Questo vale per l’economia, ove ogni agente con i suoi acquisti influisce in modo singolarmente impercettibile sul prezzo, vale per la lingua, ove il modo di parlare di ognuno può influire in modo singolarmente impercettibile sul linguaggio, e vale per il diritto, ove sono le pretese individuali, singolarmente impercettibili, che determinano ciò che è esso: non è possibile concepire un obbligo se non esiste prima una pretesa, così come nei fenomeni economici non può esservi offerta senza che prima vi sia la domanda. 107 B. LEONI, The Law as Claim of the Individual, in «Archiv für Rechts - und Sozialphilosophie», 1964, pp. 45-58 (trad. it. ora in B. Leoni, Il diritto come pretesa, op. cit. p. 123). 108 Leoni completa così il suo paragone: « la norma giuridica corrisponde al prezzo di mercato. Il prezzo di mercato esprime la condizione alla quale la stragrande maggioranza dell’offerta (che è anch’essa una domanda) si incontra con la domanda. Nello stesso modo la norma giuridica esprime la condizione alla quale le pretese si incontrano nella stragrande maggioranza dei casi e con la maggiore probabilità […]. E solo quando una pretesa ha una grandissima probabilità di essere avanzata e di essere soddisfatta essa diventa una pretesa giuridica e si traduce in un incontro tra pretese, che può essere formulato in una norma giuridica; analogamente, solo quando il prezzo richiesto ha una fortissima probabilità di essere domandato e di essere accettato si traduce in un vero e proprio prezzo di mercato», B. LEONI, Appunti dal corso di Lezioni di “filosofia del diritto”, a cura di S. Lenghi 1966 (ciclostilate); ora in B. LEONI, Il diritto come pretesa, a cura di A. Masala, introduzione di M. Barberis e postfazione di Alberto Febrajo, Liberilibri, Macerata 2004, pp. 246. L’idea che esista un “mercato del diritto”, nel quale le regole corrispondono a quelli che nel mercato dei beni sono i prezzi, è ripresa da Leoni anche in una lettera ad Hayek, datata 7 aprile 1962 e ora pubblicata in A. MASALA, Il liberalismo di Bruno Leoni, op. cit., pp. 241-242. 109 Ivi, p. 206.

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giuridico e ciò che non lo è. Ogni individuo con il suo comportamento influisce impercettibilmente sulle norme giuridiche, e così contribuisce involontariamente al formarsi di un ordine giuridico, che poi si trova davanti nella forma di norme oggettive, le quali però non sono altro che la risultante di tutte le pretese individuali e soggettive. E dunque tutti gli individui singolarmente «concorrono a creare quell’ordinamento giuridico che è la risultante dell’intrecciarsi dei vari ordinamenti soggettivi che ognuno ha nella sua mente»110. Anche la formazione del diritto, come già la formazione dello stato, è dunque ricondotta all’azione e alle scelte dei singoli individui, e ad essere determinante, nel diritto come nella politica, non è l’elemento competitivo o coercitivo, ma quello cooperativo: gli uomini si scambiano beni (economia), pretese (diritto), poteri (politica). Da questi scambi emergono poi degli assetti politici, giuridici ed economici, i quali sono in ultima analisi il prodotto degli infiniti contributi individuali. Leoni propone dunque una risposta alla domanda classica della filosofia politica su come sia possibile l’ordine sociale, proponendo una spiegazione costruita a partire dagli individui e dai loro scambi, volti a soddisfare bisogni e a rendere prevedibili i comportamenti e le azioni umane. Egli applica al diritto e alla politica il concetto di processo sociale spontaneo in modo pratico e sino alle sue estreme conseguenze, riducendo il diritto e la politica ai loro elementi ultimi: la pretesa di un comportamento ritenuto doveroso e il potere che ognuno ha di tutelare i beni che ritiene fondamentali. E incardinando tali pretese e tali poteri sul concetto di scambio egli delinea un modello di società in cui le decisioni di gruppo, e quindi la coercizione, non rivestono più un ruolo primario. Il paragone con la teoria dell’evoluzione delle istituzioni come presentata da Menger è evidente: per Leoni anche il diritto, come tutte le più importanti istituzioni umane, è qualcosa che sorge dalle interazioni individuali, e non con l’atto di un’autorità o di una volontà deliberata. Esistono certo degli individui in posizione di vantaggio rispetto ad altri, ma nessuno potrà avere il monopolio nella creazione del diritto. Altrettanto evidente è il paragone con la teoria hayekiana della conoscenza: anche per Leoni l’ordine giuridico si crea a partire dalle azioni degli individui che non sono volte a realizzare quegli scopi, e nessuno ha una conoscenza di tutti gli elementi che compongono il sistema. Quello che avviene è che frammenti di conoscenza dispersa riescono, tramite il 110

Ivi, pp. 219.

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meccanismo di scambio delle pretese e dei poteri, a coordinarsi e a dare luogo a un ordine sociale e giuridico. Più complessa è invece l’influenza di Mises111, analizzando la quale è anche possibile vedere quali siano i limiti dell’appartenenza di Leoni alla tradizione liberale classica e quali invece gli elementi che consentono di individuare nella sua opera un’originale combinazione di anarchia e conservatorismo. Nella teoria della pretesa c’è indubbiamente l’idea di azione umana come intesa da Mises: la pretesa è individuale (e corrisponde sempre a un interesse individuale), è razionale, è soggetta a limiti naturali. C’è indubbiamente anche il paragone con l’economia, la quale è intesa da Leoni come una branca della prasseologia misesiana. La teoria di Leoni è dunque un tentativo di ricondurre la formazione del diritto alle azioni individuali, nell’analisi delle quali si fa un largo utilizzo dell’apriorismo misesiano. Tuttavia bisogna rilevare che l’apriorismo misesiano non si estende mai al di là della logica delle azioni individuali. Se infatti la norma giuridica è il risultato dell’incontro di pretese soggettive, a produrre il diritto sono solo le pretese legittime, e il requisito della legittimità può essere fissato solo ex post: ad essere legittime sono solo quelle pretese che sono reputate tali dalla stragrande maggioranza degli appartenenti a quella comunità, e che quindi hanno un’altissima probabilità di essere avanzate e soddisfatte in quell’ambito. In questo senso, l’unico modo per passare dalla soggettività delle pretese individuali all’oggettività del diritto è ricorrere alla constatazione oggettiva, empirica, ad una “verifica a posteriori”. In Leoni quando si passa dall’analisi dell’azione individuale all’interazione tra più persone, interazione che produce il diritto, si entra inequivocabilmente nel campo empirico. Ecco allora che, in ultima istanza, per Leoni il diritto è un “fenomeno storico”, e non una scienza logica (a priori) 112. L’oggettività delle pretese, che nel ragionamento di Leoni è ciò che conferisce loro giuridicità, può essere giudicata solo a posteriori, in base all’esperienza storica, e a ben guardare questa mancata estensione dell’apriorismo al di là delle sole azioni individuali è anche uno degli elementi che segna la differenza anche tra Mises e Hayek, in quest’ultimo caso A tale influenza è anche dedicato gran parte di C. LOTTIERI, Le ragioni del diritto, op. cit., che alla luce delle categorie misesiane e del confronto con la filosofia di Rothbard analizza e attualizza le tesi di Leoni. 112 «La giuridicità delle pretese può essere accertata, verificata, solo come fatto storico, e in base a una constatazione storica; non con metodi logici o scientifici», B. LEONI, Appunti dal corso di Lezioni di “filosofia del diritto”, op. cit., pp. 212. 111

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riguardo alla teoria di mercato113. Per Leoni dunque, come in parte anche per Hayek, l’ordine dipende da una scelta, da una selezione che si incarna nella tradizione, esso non può essere il risultato di capacità intellettuali ma è frutto di una tradizione morale, e la ragione non può fare meglio della tradizione. Tuttavia, proprio in questo suo richiamo così forte alla tradizione e nella sua totale sfiducia nella legislazione, ossia in ciò che per Hayek era, almeno in parte, la capacità umana di correggere e migliorare il processo di evoluzione spontanea, si può individuare un “conservatorismo profondo e filosoficamente fondato”114 che non si ritrova nella stessa misura negli altri esponenti della Scuola austriaca. Vi è poi un altro importante aspetto che segna la distanza tra Hayek e Mises da una parte e Leoni dall’altra, ossia il fatto che quest’ultimo sembra focalizzare più intensamente il rapporto tra stato e coercizione. Per i liberali classici come Mises e Hayek infatti lo stato è un apparato necessario e indispensabile di coercizione, che serve a correggere l’imperfezione umana115. Considerando un tale apparato necessario essi risolvono almeno in parte, e sia pure in maniera residuale, il problema dell’ordine sociale (o quantomeno il problema del mantenimento dell’ordine) facendo ricorso al potere politico e alla coercizione. La loro è la soluzione classica del liberalismo: si eliminano il potere e la coercizione dalla società per collocarli nello stato, il quale viene ridotto al minimo poiché il suo unico scopo è preservare il funzionamento del mercato e le libere interazioni tra gli individui. Sotto questo aspetto né Hayek né Mises, per loro stessa ammissione, sono degli anarchici, poiché non ripudiano la coercizione come tecnica sociale, non avversano lo stato ma anzi gli attribuiscono un ruolo centrale nel creare e mantenere l’ordine sociale. Per questa via, come si è visto in precedenza, essi trovano un incontro con la teoria democratica, poiché senza il consenso della maggioranza non vi può essere garanzia per la libertà. Una tale visione dello stato e della politica in un primo momento è anche propria di Leoni: lo stato è caratterizzato dai rapporti di potere, Infatti, lo stesso Hayek ha dichiarato che Economics and Knowledge, «era un tentativo di convincere Mises stesso che egli sbagliava quando asseriva che la teoria di mercato era un a priori; solo la logica delle azioni individuali era un a priori, ma nel momento stesso in cui si passava da questo all’interazione di molte persone si entrava in un campo empirico», F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 104). Leoni ha una posizione speculare a quella di Hayek, ma essa riguarda il campo del diritto. 114 L’espressione si trova, rivolta appunto a Leoni, in J.M. BUCHANAN, Freedom in Constitutional Contract, op. cit. (trad. it. cit. p. 50). 115 Cfr. L. VON MISES, Omnipotent Government… op. cit. (trad. it. cit. pp. 68 e ss.). 113

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ed è necessario per inquadrare e prevedere i comportamenti altrui. La coercizione è così caratteristica insopprimibile della politica in senso stretto, la quale è intesa come dominio delle scelte collettive. Tuttavia, quando egli si confronta con il problema classico dell’origine dell’ordine sociale la sua riflessione si delinea come un tentativo di pensare ad un ordine che si costituisca senza ricorso non solo alla coercizione, ma anche alle decisioni collettive. L’ordine sociale nasce prima e indipendentemente dallo stato, e si può evolvere facendo a meno delle scelte collettive e quindi dello stato stesso. È una concezione che si ritrova negli scritti ora analizzati come anche in Freedom and the Law, opera che si pone in totale continuità con quel modo di vedere la formazione di un ordine giuridico e sociale. Il tratto saliente della riflessione di Leoni è dunque rivalutare la possibilità che la formazione spontanea del diritto, che è uno dei casi di nascita ed evoluzione spontanea e culturale delle istituzioni, possa funzionare ed essere efficiente anche senza l’intervento del legislatore, e indicare nel diritto romano e nella common law degli esempi storici di una tale efficienza. Leoni individua questa possibilità, e ne fa il cardine per la tutela della libertà individuale nel campo del diritto, prima e più incisivamente di Hayek, e per questo la sua posizione rappresenta l’approdo estremo del liberalismo classico, oltre il quale si pongono solo le filosofie politiche per le quali non è possibile trovare una giustificazione alla necessità dell’esigenza dello stato.

4. La rinascita del liberalismo classico Pur nella diversità dei suoi autori una parte importante del liberalismo classico116 del Novecento, che va prevalentemente sotto il nome di Scuola austriaca, ha riproposto e ripensato l’idea che l’ordine sociale non sia (né sia opportuno tentare di farlo diventare) il prodotto dell’artificio umano, ma sia invece il risultato delle azioni degli uomini che non sono Interessanti ricostruzioni delle vicende del liberalismo classico del Novecento, inteso però più come ideologia (e dunque con particolari riferimenti ai suoi “addentellati” politici) che non come teoria politica, sono: N.P. BARRY, The New Right, Croom Helm, London 1987, J.L. KELLEY, Bringing the Market back in. The Political Revitalization of Market Liberalism, New York University Press, New York 1997 e R.S. TURNER, Neo-Liberal Ideology. History, Concepts and Policies, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008. Per una prospettiva storica del ruolo della Scuola austriaca si rimanda a R. RAICO, Classical Liberalism and Austrian School, Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL) 2012. 116

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coscientemente rivolte a quel fine. Il processo di produzione e selezione delle norme (che è poi in ultima analisi il processo di formazione dell’ordine sociale), è definito come un processo sociale di scoperta, denominato catallassi, e può essere esemplificato con lo scambio di informazioni tramite i prezzi nel mercato, senza però dimenticare che il mercato è solo un particolare settore della catallassi. In un tale quadro il ruolo dello stato si sostanzia nel preservare l’ordine, punendo coloro che compiono azioni contro la libertà degli altri, e nell’accelerare il processo di trasmissione della conoscenza delle norme che si creano con la catallassi. Ogni altro tipo di intervento sembra destinato ad alterare il buon funzionamento del processo, proprio come l’intervento pubblico in economia è destinato a rendere impossibile il calcolo economico da parte degli operatori economici. Questa sembra la ragione del perché un modello di ordine sociale spontaneo veda con difficoltà la possibilità di realizzare politicamente, ossia tramite un processo di scelte collettive vincolanti per l’intera comunità, obiettivi etici (tra essi la giustizia sociale), e veda invece il problema dell’ordine meglio risolto da un ininterrotto processo di selezione individuale e sociale delle norme che regolano la vita associata. Questa spiegazione dell’ordine può forse essere considerata per molti aspetti il vero fondamento del liberalismo classico, o almeno uno dei suoi fondamenti filosoficamente più forti. Infatti solo se si ritiene che l’ordine, o meglio ancora il “miglior ordine”, nasca dalla cooperazione spontanea di individui liberi si può ritenere che il potere politico abbia come unico vero compito quello di salvaguardare la libertà degli individui, facendo osservare leggi universali e astratte che siano solo volte a garantire la convivenza pacifica. La trasformazione del liberalismo classico iniziò quando i suoi esponenti cominciarono a ritenere che l’uguaglianza non dovesse essere solo formale, solo uguaglianza davanti alla legge, ma che essa dovesse assumere anche alcuni tratti di uguaglianza sostanziale, e che quindi il diritto creato dallo stato avesse il compito, almeno in parte, di dare una forma alla società. Questa trasformazione, al di là di quanto si ritenga auspicabile l’esito dell’uguaglianza sostanziale, era la negazione dell’idea che l’ordine inintenzionale produca il miglior risultato sociale. Infatti per il liberalismo classico la cooperazione sociale e la divisione del lavoro, ossia i princìpi che danno luogo all’ordine sociale, nascono proprio dalla diversità umana e dalla necessità di soddisfare le esigenze di persone diverse. Per questo motivo tentare di rendere gli uomini uguali è da un lato un obiettivo impossibile, poiché gli uomini sono diversi per natura, e dall’altro è la distruzione della possibilità di

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produzione dell’ordine proprio a partire dal dato di quella diversità, che si compone grazie alla cooperazione sociale spontanea e inintenzionale. Con la negazione alla radice di quel principio, naturalmente non esente da limiti e imperfezioni, del liberalismo classico era rimasta la forma, incarnata nei princìpi del costituzionalismo, ma non la sostanza. Quello che il liberalismo riscopre nel Novecento è l’insegnamento di Hume e dei classici: il compito del governo è mantenere la pace e l’ordine (che si sostanzia nella rule of law), non quello di perseguire un ideale di giustizia. La ricerca del giusto spetta agli uomini, singoli o raccolti in comunità volontarie, e se pensiamo di poterla affidare alla politica le conseguenze possono essere devastanti, come lo furono con i totalitarismi. In fondo è questa ricerca della società giusta costruita dalla politica, con i suoi esiti potenzialmente molto pericolosi per la libertà individuale – non certi ma possibili, e in alcuni casi storicamente realizzatisi – che i liberali denunciano, come si è visto nella critica del totalitarismo e nelle preoccupazioni per le possibili evoluzioni della democrazia. I liberali classici denunciano un modello di ordine, una concezione del ruolo della politica, qualunque siano le finalità, che si era affermata da lungo tempo, anche all’interno della stessa tradizione liberale, e arrivano alla conclusione che riproporre il modello di formazione inintenzionale dell’ordine è l’unica vera garanzia per la libertà, da cui dipendono il progresso morale e quello materiale. Aver rifiutato quel modello, e aver pensato che bastassero solo gli accorgimenti costituzionali a far sopravvivere la libertà, è stato il grave errore del liberalismo a cavallo tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, e rispetto al quale la Scuola austriaca segna un’inversione di tendenza. La riproposizione della teoria della nascita inintenzionale dell’ordine è dunque la chiave di volta per comprendere la rinascita del liberalismo classico nel Novecento. E di questa riproposizione si sono presentate in questo capitolo quelle che sono le due versioni forse più significative. Da un lato quella che è probabilmente la più conosciuta e importante, ossia la teoria hayekiana, basata sul principio della divisione della conoscenza. Da un altro lato quella che è forse la versione più radicale, ossia il sistema leoniano, basato sullo scambio di poteri e pretese individuali. Il liberalismo di Hayek trova il suo pilastro nella teoria della distribuzione sociale della conoscenza, ovvero nella spiegazione di come da una conoscenza umana irrimediabilmente dispersa e frammentaria possa nascere, in condizioni di libertà, un ordine capace di sfruttare

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socialmente quella conoscenza, consentendone un coordinamento che sarebbe altrimenti impossibile. Solo un ordine spontaneo, autogenerantesi, rende possibile utilizzare al meglio e coordinare socialmente le conoscenze e le capacità individuali, e un tale ordine ha la possibilità di esistere solo se le norme che lo regolano sono norme universali di mera condotta, che lasciano gli individui liberi di usare le proprie conoscenze e le proprie capacità per degli scopi che sono essi stessi a scegliere. Hayek, nel saggio Principles of a Liberal Social Order117, probabilmente il suo lavoro più significativo e chiaro riguardo all’ordine inintenzionale, chiama questo tipo di ordine catallassi, con riferimento ai fenomeni economici nei quali la nascita e il funzionamento di tale ordine emerge con maggiore chiarezza, mentre si è visto che in Law, Legislation and Liberty, riferendosi al diritto, propone il termine cosmos. Ma al di là dei nomi il tipo di ordine su cui egli riflette è sempre l’ordine nato per via inintenzionale, il quale è molto più “grande” ed efficiente di qualunque altro ordine costruito, progettato deliberatamente, proprio perché non ha il compito di raggiungere uno scopo preciso e particolare, considerato desiderabile da coloro che detengono il potere politico, ma ha invece la funzione di rendere tra loro compatibili i moltissimi diversi scopi individuali, senza doverli collocare gerarchicamente in ordine di importanza e componendoli in un vantaggio reciproco. Nonostante Hayek si collochi così convintamente nella tradizione dell’ordine spontaneo il suo liberalismo è certamente più “compromissorio”, o se si vuole più problematico, rispetto a quello di Leoni. Hayek è infatti più propenso a lasciare spiragli per un’azione positiva dello stato, e questo sia nel campo economico, nel quale vengono indicati una serie rilevante di interventi statali che, se ben attuati, non interferiscono con il processo della catallassi, sia nella teoria del diritto. Infatti, nonostante nei suoi scritti più maturi egli sposi più compiutamente una posizione evoluzionistica e critichi l’abuso della legislazione rivalutando il diritto prodotto per via giudiziale, egli continua a ritenere inevitabile che una parte consistente del diritto debba essere prodotto per via parlamentare. Hayek insomma cerca con convinzione una mediazione tra il principio dell’ordine spontaneo e un ruolo attivo delle scelte collettive, e dunque della ragione umana, nel processo di formazione e mantenimento dell’ordine. Il saggio, frutto di una relazione a una conferenza della Mont Pèlerin Society del 1966, fu prima pubblicato ne “Il Politico” di Leoni in quello stesso anno, e poi inserito in F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit., (trad. it. cit. pp. 295-324). 117

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Lo “spiraglio teorico” che consente ad Hayek di cercare e trovare questa mediazione è dato dalla riflessione di Menger, secondo la quale è un errore pensare di dover accettare passivamente tutto il diritto consuetudinario, ma lo si deve invece “valorizzare” nella legislazione. Hayek nella sostanza, se pure in maniera più problematica negli ultimi scritti, sottoscrive l’idea di Menger per cui «la scienza non deve mai rinunciare […] a mettere alla prova la razionalità delle istituzioni sorte per “via organica”, e a trasformarle e migliorarle, quando un’accurata indagine lo richieda, in base alla visione scientifica e alle esperienze pratiche disponibili. Nessuna epoca può venir meno a tale “vocazione”» 118. La ragione insomma, per Menger come per Hayek, non deve mai rinunciare a mettere alla prova le istituzioni e le regole nate per via spontanea, e conseguentemente a operare per migliorarle119. Si tratta di un uso “critico” della ragione, che nulla ha a che vedere con la fiducia illimitata nella ragione medesima (causa, come si è visto, del costruttivismo) ma che lascia la possibilità di un giudizio positivo sulla legislazione, sulla democrazia, come mezzo per migliorare l’ordine. Tuttavia si deve anche rilevare come l’origine, legata alla riflessione di Mandeville, dell’ordine spontaneo sia potenzialmente anarchica, e questo fatto emerge bene guardando alla riflessione di Leoni, e in particolare a come egli esprima nei confronti della rappresentanza e delle scelte collettive critiche di una durezza molto superiore a quella che pure si ritrova in Hayek e in Mises. Se la sua visione della politica e del diritto è indubbiamente debitrice alla tradizione austriaca, bisogna anche rilevare che per alcuni aspetti si allontana da essa. In Leoni si trova infatti una “radicalità” che non si riscontra negli austriaci: il suo è un tentativo di sottrarre la formazione del diritto ai politici e alla logica della maggioranza, per ricollocarlo in un processo di evoluzione spontanea staccato dalla politica. Egli sembra non solo riconoscere che un ordine sociale possa nascere prima e indipendentemente dal potere politico, ma sembra anche supporre che possa esistere ed evolverCfr. C. MENGER, Untersuchungen... op. cit. (trad. it. cit. p. 266). «L’accettazione da parte di Hayek dell’origine deliberata di certe norme fondamentali di condotta implica tuttavia l’intervento di una razionalità deliberata nel campo delle regole del gioco, considerate non più come semplice retaggio della tradizione, come condensazione di consuetudini, come oggettivazione di esperienze del passato, ma come un sistema suscettibile di essere intenzionalmente corretto quando ciò si riveli utile e ragionevole. È questo un punto della sua dottrina che smentisce l’idea di un ordine spontaneo come valore universale» A. ZANFARINO, Il pensiero politico contemporaneo op. cit., p. 578. 118 119

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si senza scelte collettive, ossia senza coercizione e con un processo di adattamento spontaneo degli individui rispetto a quelle che appaiono le migliori soluzioni. Il suo rifiutarsi, a differenza di Mises, di cercare la tutela del mercato e della libertà individuale nello stato e nella coercizione, e il suo non seguire la strada di Hayek, che si concentra nella ricerca di nuove soluzioni costituzionali per la tutela di quelle libertà, lo porta dunque, e prima della fioritura del pensiero Libertarian, a pensare alla possibilità di una politica che sia “altro” rispetto alle scelte collettive e alla necessità di individuare un principio ordinatore della società diverso dagli individui, e dunque a prospettare un diritto e una politica che siano meramente descrittive della capacità umana di autoregolarsi. Vi è dunque in Leoni una venatura anarchica, per alcuni aspetti riconducibile proprio alle origini della tradizione dell’ordine spontaneo, che non appare sopita neanche nel momento in cui egli sembra guardare alla tradizione della rule of law come a un freno al proliferare delle scelte collettive, scelte che sembrano idealmente scomparire del tutto nella sua teoria dell’ordine sociale. Nella sua riflessione vi è l’avversione radicale per lo stato come produttore di diritto, e l’idea di poter fare a meno di esso, la qual cosa è proprio ciò che differenzia gli anarchici dai liberali classici. Ed è proprio questo, a ben guardare, che gli impedisce di cercare una mediazione con la tradizione democratica e che lo distanzia dalla tradizione “storica” della Scuola austriaca, e che ci consente di vedere in lui uno dei primi momenti di passaggio a quel filone anarco-capitalista che secondo alcuni rappresenta il coronamento della tradizione austriaca e secondo altri ne è una particolare diramazione. Rimane comunque il fatto che con Leoni, almeno per quanto riguarda la produzione del diritto, il liberalismo “austriaco” finisce la sua corsa; oltre rimane soltanto il recupero del diritto naturale e la negazione di ogni funzione dello stato. Certamente in Leoni c’è, in maniera molto più marcata che negli altri appartenenti alla tradizione del liberalismo classico, la rimozione del problema di come anche la società possa essere coercitiva, e di come anche le scelte sociali che avvengono senza la rappresentanza e i meccanismi elettorali possano negare la libertà. Davanti a questo problema indubbiamente si riapre la porta all’idea di poter usare uno stato liberale, come lo concepiva Hayek, al fine di poter eliminare o almeno ridurre quel tipo di coercizione. Ma da un altro punto di vista il pensiero liberale non può dimenticare che a essere coercitive in senso stretto, a parte gli atti di criminalità, sono solo le imposizioni dello stato. Infatti il non

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rispettare una regola sociale molto diffusa, sia essa coercitiva o meno, è una scelta che può avere un costo elevatissimo in termini di emarginazione dalla società, ma è pur sempre una scelta che un individuo può compiere se è disposto a sopportarne i costi. Nel caso invece di regole fissate dallo stato il loro mancato rispetto non dà luogo ad una qualche forma di emarginazione sociale, ma ad una sanzione che viene attuata coercitivamente e che può condurre alla privazione della proprietà come a quella della libertà fisica dell’individuo. Fatto che ripropone l’antica questione di quale sia il diritto dello stato, o se si preferisce della maggioranza, di imporre e far rispettare coercitivamente regole che vadano al di là della semplice tutela della libertà individuale. Ma al di là di quale fosse la soluzione più spendibile politicamente, o quella filosoficamente più coerente, rimane il fatto che con la rinascita del liberalismo spontaneistico si torna a discutere su cosa sia veramente il liberalismo come tradizione di pensiero, al di là delle contingenze storiche e della necessità di trovare un compromesso con altre tradizioni di pensiero, e torna anche, magari indirettamente, un confronto con i temi classici della filosofia politica. In ognuno di questi autori si trova infatti un tentativo di risposta alla domanda su cosa sia un modello di ordine liberale e su cosa lo si debba fondare. Si trova cioè un tentativo di risposta a quelle domande classiche con le quali a molti sembrava che la filosofia politica del dopoguerra non si volesse più confrontare. Alla luce delle considerazioni svolte dovrebbe ormai essere chiaro come quella del liberalismo classico “spontaneistico” possa essere considerata una teoria politica compiuta, un modello di ordine che trova il suo fondamento nella libertà individuale, e dunque in quella che, parafrasando Hayek, potremmo chiamare la “trinità inseparabile” dei diritti individuali vita, libertà e proprietà120 , i quali preesistono all’associazione politica e ne sono anzi a fondamento. Questi diritti individuali non hanno niente a che fare con il diritto naturale dei classici (e neanche con quello a cui guardavano i critici del liberalismo analizzati nel primo capitolo), ma a partire da essi, e guardando ai processi sociali spontanei, si arriva a dare una risposta alla domanda su quale possa essere considerato il miglior ordine politico. Rimane ora da chiarire meglio perché questa risposta non sia relativistica e perché, guardando alla common law e alla rule of law, essa Cfr. F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. p. 136), il quale però parla di legge, libertà e proprietà. 120

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sia anzi compatibile per alcuni aspetti con alcuni degli obiettivi che si proponevano i sostenitori del diritto naturale. Come si è avuto modo di vedere, tra gli anni della Seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta molti e importanti filosofi politici ritenevano che la loro disciplina versasse in condizioni di profonda decadenza, e fosse anche in un certo senso corresponsabile della crisi che aveva travolto il mondo occidentale. A loro giudizio una delle principali ragioni di quella crisi era l’aver tentato di fondare il miglior regime sul controllo delle passioni umane, e collegavano tale tentativo con il relativismo e con il liberalismo. Un ruolo importante in questo processo era giocato da quello che Strauss chiamava il diritto naturale moderno, il quale sostituiva al dovere, fondamento del diritto naturale classico, i diritti individuali, sui quali poi veniva edificato il giusto ordine, proprio a partire dalla volontà umana. Ciò che più preoccupava molti degli autori trattati era che quei diritti fossero suscettibili di interpretazioni soggettive; infatti proprio dalla diversità delle interpretazioni poterono scaturire il relativismo e il nichilismo, da cui poi nacquero i vari totalitarismi. L’alternativa per alcuni era quella di tornare alla antica tradizione della filosofia politica, ossia ad una riflessione sul giusto ordine tale da offrire un ancoraggio sicuro e superare le degenerazioni del relativismo. La diversità di vedute su quale potesse essere un ordine giusto era notevole, ma la convinzione che un tale ordine dovesse esistere era condivisa e può essere esemplificata dalla visione straussiana del diritto naturale, il quale non è un diritto suscettibile di interpretazioni soggettive (e dunque di votazioni a maggioranza, aggiungiamo noi) volte a confermare la sua autenticità, ma è il riflesso di un ordine naturale, vero e immutabile, non creato dall’uomo ma che l’uomo, se adeguatamente educato, può riconoscere121. Ora, se guardiamo alla teoria liberale come è stata sino a qui presentata, le critiche sopra esposte possono assumere significati differenti a seconda di quale liberalismo si prenda in considerazione122. Per comprendere quali siano le difficoltà a cui va incontro una tale prospettiva può essere di grande utilità la lettura di F. MONCERI, Altre globalizzazioni. Universalismo liberal e valori asiatici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 e delle conclusioni di Ordini costruiti. Multiculturalismo, complessità, istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 122 La bibliografia sul diritto naturale e il liberalismo è estremamente ampia, una panoramica significativa in lingua italiana è offerta da F. DI BLASI, P. HERITIER (a cura di), La vitalità del diritto naturale, Phronesis Editore, Palermo 2008, e M. MANGINI, F. VIOLA, Diritto naturale e liberalismo. Dialogo o conflitto?, Giappichelli, Torino 2009. 121

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Esse probabilmente colgono nel segno se si fa riferimento a quella parte della tradizione liberale che, più o meno indirettamente, fa capo a una concezione hobbesiana dell’ordine. Tale tradizione, dopo aver posto la necessità di un principio ordinatore della società in un potere “esterno”, mira a concentrare quel potere nello stato, per controllarlo e ridurlo al minimo indispensabile. È la tradizione del costituzionalismo, ossia dello studio degli strumenti per limitare, o meglio “imbrigliare”, anche con le passioni contrastanti degli uomini, il potere politico. Per questa tradizione la democrazia, ossia la scelta a maggioranza operata dai rappresentanti, è un potente strumento di legittimazione del potere e il consenso espresso ai governanti può essere un utile collante per l’ordine sociale, il quale sarà appunto modellato dalla volontà umana. In tal modo gli uomini scelgono, o più spesso creano, non solo le istituzioni sociali che servono a fini comuni e che in quel momento storico sono ritenute più adatte di altre, ma fissano anche i criteri di giusto e ingiusto, e gli obiettivi cui la società dovrà di volta in volta tendere. Come conseguenza scompare l’ideale straussiano di un diritto naturale oggettivamente valido, e analogamente anche la filosofia politica avrà un compito diverso da quello che le attribuiva Strauss. Essa avrà come obiettivo quello di “illustrare” un ordine politico frutto della volontà umana, dell’artificio, e non più di scoprire un ordine naturale, che può sì essere riconosciuto dalla ragione ma che non è frutto della volontà umana e della scelta della maggioranza. Le cose però sono più complesse se si guarda all’altro modello liberale di ordine, quello che ha in Mandeville il suo primo esponente. Tale modello parte dal rifiuto del “costruttivismo”, ossia dell’idea che possa essere l’uomo a costruire, nel modo che ritiene più opportuno e più giusto, l’ordine politico. In tal senso molte delle critiche che Strauss rivolge, partendo da Hobbes, al liberalismo moderno, non possono in realtà coinvolgere indistintamente tutta la tradizione liberale, perché questo secondo tipo di liberalismo si basa proprio sul rifiuto di un elemento importante di ciò che Strauss criticava. Per questa parte della tradizione liberale si possono infatti individuare degli “assoluti” cui fare riferimento, che se non sono gli stessi di Strauss possono forse farci pensare ad una qualche forma di soluzione di alcuni dei problemi che egli aveva individuato. Se da una parte è vero che non si guarda ad una legge naturale come intesa da Strauss, ma a quei diritti soggettivi in senso moderno che egli tanto criticava, è anche vero che tali diritti certamente non sono ritenuti compatibili con ogni tipo di ordine politico. Essi infatti possono

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essere garantiti solo se esiste una forma precisa di ordine politico, ossia un ordine che consenta a tutti gli individui di fare le proprie scelte nel rispetto di una legge che fissa dei limiti precisi, ma anche che non consente a nessuno, neanche al potere politico, di usare la coercizione per realizzare qualcosa di diverso dalla tutela della libertà individuale. Si tratta insomma di un ordine volto a garantire la convivenza di una molteplicità di fini individuali, anche molto diversi tra loro, che non pretende di poter giudicare le diverse concezioni di cosa siano bene e male per i singoli individui. Ma nonostante questo, o forse proprio a causa di questo, non si tratta di una teoria “relativistica”. Vi è infatti la consapevolezza che non ogni tipo di regime può consentire la convivenza di concezioni diverse di cosa sia il bene, e dunque non si è neutrali o indifferenti rispetto al tipo di regime politico che può garantire l’ordine sociale. Una tale concezione non è infatti compatibile con un regime politico che ritenga lecito fissare a maggioranza il concetto di bene, poiché così scomparirebbe la possibilità per ognuno di ricercare ciò che egli ritiene sia il bene. È in tal senso è possibile individuare dei parametri di giudizio su quale sia un giusto ordine, e il primo paramento è sicuramente che un buon regime politico è quello che riduce le scelte collettive, e coercitive, al minimo, e per quanto possibile tende a farle scomparire. Quando si riducono (o eliminano) le scelte collettive volte a creare un ordine “giusto” ciò che rimane sono “buone regole”, ossia quelle norme che consentono la convivenza di fini diversi e che sono l’unico “bene comune” di cui una società deve disporre. L’emergere delle buone regole può dunque avvenire solo tenendo fermi i diritti di vita, libertà e proprietà, diritti il cui valore non è naturalmente determinabile a maggioranza. Di particolare importanza è il diritto di proprietà, indubbiamente uno degli elementi chiave della tradizione liberale classica, tanto che se questa davvero si può ridurre alla “trinità” vita, libertà e proprietà, è forse possibile sostenere che l’elemento della proprietà contiene implicitamente gli altri due. È dunque fondamentale cercare di capire perché la proprietà è così importante in questa tradizione di pensiero e, soprattutto, perché la sua tutela ancora oggi, in società complesse come le nostre, potrebbe essere un modo di risolvere controversie e di fornire quel terreno comune di dialogo di cui esse hanno bisogno. Innanzitutto bisogna chiarire esattamente in cosa consista per la teoria liberale il diritto di proprietà. Quando i livellatori, prima ancora di Locke, rivendicavano come essenziale tale diritto, lo facevano perché

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questo era il modo di rivendicare per ogni individuo il diritto ai frutti del proprio lavoro, come una logica estensione del diritto alle proprie idee, al proprio corpo e a ciò che dall’uso di essi si riesce ad ottenere. Il diritto di proprietà non aveva, contrariamente a quanto si è sostenuto123, tanto una dimensione materiale, di possesso di qualcosa, ma era la possibilità di individuare una sfera di autonomia individuale che, se rispettata, rende uguali davanti alla legge e impedisce le discriminazioni. L’uguale diritto di ogni individuo ad essere titolare di diritti di proprietà era dunque un modo di rivendicare l’uguaglianza davanti alla legge e di superare i privilegi di casta, i quali abbondavano nella Gran Bretagna del Seicento, come nel resto d’Europa. Era ad esempio un modo di risolvere le controversie e le discriminazioni di natura religiosa – il fatto che ad alcune confessioni religiose fossero impediti alcuni tipi di commercio, o che ad altre fossero riservati dei monopoli, diveniva una violazione del diritto di proprietà. Esso dava anche luogo alla libertà di esprimere le proprie idee, ad esempio stampando i testi sacri. Dichiarare “sacro e inviolabile” il diritto di proprietà così inteso, era il modo di proclamare l’uguaglianza dei diritti, primo fra tutti il diritto di esercitare i propri talenti, ed era il modo di tutelare, di rendere inviolabile, una tale libertà degli individui. La proprietà era dunque intesa in funzione della libertà, in funzione della definizione di una sfera intangibile da parte degli altri uomini e dunque delle decisioni collettive (la politica), e tale da consentire la convivenza tra persone con religione e stili di vita diversi. Quel concetto di proprietà venne ripreso e articolato da Locke, e rimase per lungo tempo il caposaldo della tradizione liberale. In tempi moderni tuttavia quel concetto di liberalismo entrò in crisi, e con esso l’idea che la tutela della proprietà fosse una buona tecnica per dirimere le controversie e assicurare la convivenza tra persone diverse per religione, razza, cultura. Questo tramonto avvenne per tanti motivi convergenti, dei quali si è a più riprese parlato in questo lavoro, ma due in particolare vanno qui brevemente ripresi. Il primo riguarda un’evoluzione interna della teoria liberale, per la quale a partire dalla fine dell’Ottocento, con la progressiva estensione del suffragio elettorale, il problema politico dominante non sembra più essere la tutela della libertà (e dunque della proprietà) ma la possibilità di soddisfare le rivendicazioni più diverse dei vari individui, le quali, La tesi è stata sostenuta in C.B. MACPHERSON, The Political Theory of Possessive Individualism: From Hobbes to Locke, Oxford University Press 1962 (trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, ESEDI, Milano 1973). 123

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gradualmente ma inesorabilmente, si trasformano da aspettative individuali in diritti sociali. Il New liberalism che si afferma in Gran Bretagna alla fine dell’Ottocento è la trasformazione del “vecchio” liberalismo in qualcosa di radicalmente diverso. La “vecchia” libertà del liberalismo classico, ancorata alla proprietà in senso lockiano, diventa la libertà negativa, una libertà che è solo non impedimento, non interferenza nella sfera privata, e viene criticata e ritenuta superata dalla libertà positiva, la quale consiste nel mettere le persone in grado di realizzare i propri desideri, fornendogli gli strumenti necessari per farlo. L’uomo è veramente libero solo se è effettivamente in grado di realizzare i propri fini, e il compito della politica è quello di farglieli raggiungere; questa sarebbe una diversa e “superiore” concezione della libertà, che supera e invera la concezione precedente. Il diritto di proprietà non è più quello dei livellatori e di Locke, ossia un diritto alle proprie idee, al proprio corpo e a ciò che tramite essi si è riusciti a creare, un diritto generatore di libertà ed estendibile a tutti gli essere umani. Esso diviene invece la proprietà di meri beni materiali, i quali esistendo in numero limitato trasformano il diritto di proprietà in un diritto “a somma zero”, che è necessario ridistribuire, poiché è possibile dotarne tutti solo togliendone una parte ad alcuni, che si ritiene ne abbiano in eccesso. Naturalmente, anche se la cosa non fu ben chiara ai pensatori che in quegli anni continuavano a dichiararsi liberali, tutto questo implicava quello che con linguaggio odierno si chiamerebbe un “meccanismo di enforcement” per rendere effettivi quei diritti, meccanismo che, estendendo progressivamente il ruolo e le funzioni dello stato, non poteva che comportare una forte limitazione della libertà degli individui. Libertà negativa e libertà positiva (se si vuole continuare a utilizzare questa terminologia, fortemente imprecisa ma sicuramente riassuntiva) erano tra loro incompatibili, perché la libertà positiva per realizzarsi aveva bisogno di negare il fondamento della libertà individuale stessa. Lo stato sociale, che nacque anche a seguito di questo cambiamento dell’idea di libertà, ha certamente raggiunto importanti traguardi, migliorando la vita di molti, ma ha anche causato dei danni rispetto al sentire comune riguardo al valore della libertà. Non facendo più discendere la libertà dall’inviolabilità della proprietà (delle proprie idee e del proprio corpo, prima ancora che dei beni materiali), e anzi slegandola definitivamente dal concetto di proprietà, ha distorto il significato del termine libertà, menomandone la capacità di essere l’elemento che sta a fondamento della convivenza civile.

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Ma oltre all’idea che la concezione della libertà negativa, basata sul diritto di proprietà e sul principio di non interferenza nella vita privata, fosse ormai superata da nuove “forme” di libertà, abbiamo anche visto come al liberalismo venisse rivolta la critica di essere una teoria relativistica, e per questo inadatta a fondare la convivenza civile. Si è già detto perché possa ritenersi sbagliato considerare il liberalismo classico, e la sua idea di ordine, relativista, tuttavia non si è ancora affrontata quella che è forse la critica più corrosiva al liberalismo. Il riferimento è all’idea di Strauss124 per la quale non è possibile per il liberalismo impedire la discriminazione “privata” di alcuni individui verso degli altri, diversi ad esempio per credo religioso, nel momento in cui tale discriminazione avviene appunto nella sfera privata, inviolabile dalla politica. Ma la conseguenza inevitabile di un tale atteggiamento è il degenerare di ogni forma di virtù, e dunque la crisi della stessa democrazia liberale. La tesi di Strauss è infatti che, contrariamente a quello che sostengono i liberali, non possono bastare delle buone regole, universali e astratte, quindi non discriminanti, perché si abbia un buon ordine politico. Quello di cui c’è bisogno è anche l’individuazione di un contenuto di queste norme, che sia volto a distinguere tra bene e male: bisogna dunque realizzare la virtù nell’animo dei cittadini prima ancora che nelle leggi. Un regime politico liberaldemocratico che proibisce le discriminazioni legali, ma consente quelle private, poiché “rispetta” ad esempio l’idea di chi disprezza determinate persone, ha delle fondamenta di sabbia ed è quindi costantemente soggetto al rischio di essere sostituito da un regime che, dando voce a tutti coloro che vogliono operare tali discriminazioni, si può macchiare dei più grandi delitti. In sintesi il liberalismo sarebbe relativista e indifferente rispetto ai buoni valori morali, e per questo inevitabilmente destinato a fallire, magari degenerando nel totalitarismo. Quella di Strauss è una critica indubbiamente rilevante, ma non rende giustizia al liberalismo. Infatti, argomentando in termini straussiani, quando in un sistema politico liberale si fa di tutto per tutelare la proprietà, stabilendo il principio che ognuno è libero di fare di ciò che ha (e tutti abbiamo almeno un corpo e una mente) quello che preferisce, non fa altro che tutelare e promuovere il valore della tolleranza. L. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, New York, Schoken, 1965 (trad. it. in Liberalismo antico e moderno, Milano, Giuffrè, 1973, pp. 285 e ss.) idea esposta nel primo capitolo di questo lavoro. Su questo aspetto del pensiero di Strauss, e in generale sul suo rapporto con il liberalismo, si veda R. CUBEDDU, Tra le righe. Leo Strauss su Cristianesimo e Liberalismo, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2010. 124

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Se si deve rispettare la proprietà altrui si deve consentire a ognuno di scambiarla con gli altri come meglio crede, e si devono anche rispettare le sue idee, e dunque il suo diritto di professarle e divulgarle, magari stampando libri e giornali. Questo è il principio inviolabile, e certo non relativistico, che il liberalismo è stato capace di promuovere. Si può certamente ritenere che sia opportuno fissare come limite del diritto di proprietà quello di un suo utilizzo che non neghi il diritto di proprietà altrui (e dunque il diritto degli altri a esprimere le proprie idee), e si può anche riconoscere che questo non sempre si può fare con chiarezza e non sempre è stato fatto in maniera adeguata. Tuttavia questa difficoltà non basta a inficiare il principio, né a negare che la virtù della tolleranza, quella virtù che Strauss indicava come fondamentale per la convivenza pacifica, sia forse la principale caratteristica del liberalismo125. Se vediamo le cose in questa prospettiva emerge un problema importante, che è quello di capire se indebolendo il diritto di proprietà non si indebolisca, inevitabilmente, anche l’ideale della tolleranza. Se si accetta l’idea, tipica della “libertà positiva” e del welfare state, che lo stato debba mettere le persone in condizione di realizzare le proprie aspettative, che sia un dovere sociale realizzare le aspettative individuali, non si può negare che questo interferisca con la proprietà, e dunque la libertà, dei cittadini, la quale va convogliata e sacrificata, almeno in parte, verso quell’obiettivo. Nei moderni stati occidentali, che hanno tutti, in misura diversa, un sistema di welfare, avviene che le aspettative individuali che lo stato dovrebbe cercare di realizzare diventano sempre maggiori e sempre più diverse tra loro, e la conseguenza è che inevitabilmente il prezzo da pagare in termini di libertà individuale cresce sempre di più. Che piaccia o no è soprattutto questo a far crescere la conflittualità sociale, poiché gli individui si rendono conto che le aspetNon è un caso che lo stesso Hayek, dopo aver in maniera sconsolata rilevato quanto il termine libertà fosse ormai diventato equivoco e abusato dai suoi stessi oppositori, avesse argomentato come solo il termine tolleranza mantenesse ancora il pieno significato del principio della libertà, cfr. F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, op. cit. (trad. it. cit. p. 60). Ed è interessante a questo proposito anche ciò che dice Mises a proposito di liberalismo e tolleranza: «Il liberalismo chiede tolleranza per ragioni di principio, non di opportunità. Chiede tolleranza anche per dottrine palesemente assurde, per folli eresie o per puerili superstizioni: chiede tolleranza per dottrine e opinioni che pure ritiene nocive e funeste per la società, per correnti di pensiero contro le quali non si stanca di combattere. E se è spinto a richiedere tolleranza non è per riguardo al contenuto delle dottrine da tollerare, ma perché sa che soltanto la tolleranza può creare e mantenere la pace sociale», L. VON MISES, Liberalismus, op. cit. (trad. it. cit. p. 94). 125

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tative di persone molto diverse sono diventate diritti sociali, e che questi diritti per essere realizzati hanno un costo che sono loro a dover pagare. Certamente si daranno un gran numero di casi complessi, che non sarà facile risolvere con l’applicazione della “formula” liberale, tuttavia rimane il fatto che quello liberale può essere visto come un coerente tentativo di soluzione del problema della conflittualità latente in ogni società. Difendendo il diritto di proprietà delle proprie idee e del proprio corpo il liberalismo classico fa al contempo due cose: nega che le aspettative individuali siano diritti sociali, e dunque che debbano essere realizzate attraverso l’uso del potere politico; riconosce ad ognuno il diritto di cercare di realizzare le proprie aspettative, e di vivere la propria vita in accordo ai propri princìpi, anche i più diversi. La forza del diritto di proprietà, inteso nel modo che si è prima illustrato, è dunque nel fatto che non impone una soluzione comune al problema della realizzazione di aspettative individuali diverse tra loro, ma lascia a ognuno la possibilità di cercare di realizzarle, con il (forte) limite di rispettare però un uguale diritto degli altri di tentare di realizzare aspettative diverse, e di vivere secondo princìpi diversi. Si può considerare la soluzione liberale parziale e incompleta, ma essa indubbiamente rappresenta un tentativo di disinnescare il conflitto esistente nelle società in cui si ritiene che tutte le diverse aspettative abbiano il diritto di essere realizzate tramite l’uso del potere politico, che è sempre coercizione e dunque limitazione della libertà. Indubbiamente non ogni tipo di conflitto è in questo modo “disinnescato”, perché ad esempio il principio del rispetto degli altri di vivere secondo le loro scelte dovrebbe valere anche per gli appartenenti a comunità che non riconoscono quel diritto ad alcuni dei propri membri (si pensi ad esempio alle donne in alcune confessioni religiose, o al reato di apostasia nella religione islamica). E tali persone non saranno facilmente disposte a far uscire dalla comunità stessa quei membri che volessero fare scelte diverse. Ma il fatto che quel principio non sia accettato pacificamente da tutti non vuol dire che non sia giusto e da ritenere “universale”. Se infatti, prendendo spunto dalla riflessione di Rothbard, si ammette, come dato oggettivo e fisico, che non è possibile pensare con la testa di un’altra persona, e che dunque non si può sapere cosa per lui è giusto e bene fare, allora bisognerà anche ammettere come una logica conseguenza che non si ha il diritto di imporre ad una persona di vivere in maniera diversa da come essa vuole, sempre che, come conseguenza di ciò, lui non impedisca agli altri di fare altrettanto. E un

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tale principio logico non può essere inficiato per il fatto che esso non viene accettato da alcune culture e da alcune correnti politiche, come anche per il fatto, non meno importante, che non sempre è facile capire se una scelta sia il frutto di una libera volontà o se invece sia il risultato di un condizionamento da parte di altri. E bisognerebbe forse riflettere maggiormente su quanto un tale principio logico dovrebbe portare al ritenere inammissibile la violazione dei diritti individuali, e questo indipendentemente dal fatto che una tale violazione provenga da individui, provenga da gruppi che ne danno una particolare giustificazione culturale (o tradizionale, o religiosa o quant’altro), o provenga infine da maggioranze politiche più o meno ampie. Proprio a partire da queste considerazioni è possibile approfondire quale sia il rapporto del liberalismo classico con l’idea di diritto naturale, guardando da una parte alla concezione evoluzionistica, che si è visto avere in Hayek il suo principale esponente, e dall’altra alle differenze con il libertarismo di Rothbard, la cui filosofia è forse il più importante, per quanto discutibile, tentativo del Novecento di fondare la libertà su un diritto naturale razionale. Se si ricordano le critiche che il liberalismo classico ha rivolto agli eccessi dell’uso della ragione, è forte la tentazione di ritenere la concezione evoluzionistica del diritto antitetica a un diritto naturale individuato o individuabile dalla ragione umana. Ma la questione è in realtà più complessa. Quando Hayek, trattando della rule of law e in generale del diritto evolutivo, critica la ragione e il diritto naturale, lo fa poiché ritiene che entrambi i termini abbiano mutato completamente i loro significati originari. Il termine “ragione”, che aveva designato anche la capacità della mente di distinguere tra il bene e il male, cioè tra ciò che era e ciò che non era in accordo con regole stabilite (ed il riferimento esplicito è a Locke) è infatti venuto a significare la capacità di costruire regole per via di deduzione da premesse esplicite. L’espressione “diritto naturale” ha così assunto il significato di un “diritto della ragione”; vale a dire un significato quasi opposto a quello originario. Da Grozio in poi, ad avviso di Hayek, tale “nuovo diritto naturale razionalista” ha finito per condividere con i positivisti la concezione secondo cui tutto il diritto era dettato, o poteva almeno essere giustificato, dalla ragione. La differenza consisteva quindi nel fatto che il “nuovo diritto naturale razionalista” differiva dal positivismo solo perché assumeva che il diritto potesse essere derivato logicamente da premesse a priori, mentre quest’ultimo lo concepiva come una costruzione deliberata, fondata sul-

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la conoscenza empirica degli effetti che si sarebbero prodotti nel tentativo di raggiungere fini umani considerati desiderabili126. La critica hayekiana del diritto naturale è dunque legata a quello che egli considera un errato uso della ragione, o meglio all’attribuire alla ragione compiti che non sono suoi. Ovviamente Hayek non era contrario all’uso della ragione, ma, riprendendo il sottotitolo di un suo libro, all’“abuso della ragione”. Egli attribuiva infatti al suo corretto uso la capacità di individuare, riconoscere, le norme che meglio servono alle necessità dell’ordine sociale, e che non sono necessariamente create dalla volontà umana (e dunque dalla ragione stessa) ma che emergono in un lungo e delicato processo come le soluzioni migliori per risolvere problemi e controversie. Estendendo tale “attitudine” hayekiana al problema del diritto naturale si può sostenere che egli non fosse contrario a un diritto naturale correttamente inteso, poiché vedeva la (corretta) idea di natura come strettamente collegata al concetto stesso di evoluzione, come appare assai evidentemente nel primo volume di Law, Legislation and Liberty. A questo proposito è interessante notare come nel suo ultimo libro, The Fatal Conceit, egli osservi che «il significato originale della parola latina “naturale” […] viene da verbi che descrivono tipi di crescita […], cosicché sarebbe legittimo descrivere come “naturale” qualsiasi cosa sia cresciuta spontaneamente e non sia stata deliberatamente progettata da una mente. In questo senso la nostra morale tradizionale, evolutasi spontaneamente, è perfettamente naturale piuttosto che artificiale, e sembrerebbe adeguato chiamare queste regole tradizionali con il nome di legge naturale»127. A giudizio di Hayek pertanto l’errore è stato quello di contrapporre naturale e artificiale, e di ritenere che il termine “naturale” andasse riferito ai semplici istinti, spesso in contrapposizione con le “regole evolute di condotte”, le quali sono invece il risultato di un complesso intersecarsi di istinto e ragione. Insomma, in termini hayekiani ha senso parlare di natural right nel momento in cui si accetta il fatto che la “naturalità” nei processi di evoluzione culturale non è né puro istinto né “artificio” inteso come progetto cosciente. E su tale base è possibile leggere molte pagine hayekiane come un tentativo di “riappacificare” il diritto evolutivo – volto a tutelare la libertà individuale e tipico della tradizione della common law – con la tradizione del natural right. Proprio la common law, che 126 127

F.A. VON HAYEK, Law, Legislation and Liberty, op. cit. (trad. it. cit. pp. 31-32). Cfr. F.A. VON HAYEK, The Fatal Conceit… op. cit., (trad. it. cit. p. 229).

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di fatto è il diritto evolutivo, può infatti essere vista come un processo storico in cui tramite l’esperienza, aiutata dall’uso della ragione, viene riconosciuta non tanto una natural law quanto un natural right. E di questa idea Hayek sembra convinto almeno dal 1966, come dimostra questo passaggio. Il liberalismo è in verità l’erede delle teorie di common law e delle più antiche teorie (pre-razionaliste) del diritto di natura, e presuppone una concezione della giustizia che ci consente di porre da una parte le regole di mera condotta, che sono implicite nella concezione del “governo della legge” e che sono necessarie per la formazione di un ordine spontaneo, e dall’altra tutti i particolari comandi imposti dall’autorità per il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione. Questa distinzione essenziale è stata resa esplicita dalle teorie giuridiche di due dei più grandi filosofi dei tempi moderni, David Hume e Imanuel Kant, ma da allora non è stata adeguatamente riformulata ed è del tutto opposta alle teorie giuridiche oggi dominanti.128

Tutto questo può forse legittimamente indurre a vedere, quanto meno, una “assenza di contrapposizione” tra diritto evolutivo e diritto naturale, se non addirittura ad annoverare Hayek tra i sostenitori di una qualche forma di diritto naturale129. Se si accetta una tale interpretazione la lezione da trarre potrebbe essere questa: ragione ed esperienza (o se si vuole storia) hanno bisogno una dell’altra; da un lato solo l’esperienza storica può dire se la ragione umana, l’operare umano, ha avuto successo o ha fallito, dall’altro la ragione umana non deve mai rinunciare a valutare e a cercare di migliorare le istituzioni sorte per via spontanea. Insomma: la ragione da sola non può pretendere di dare al diritto la forma che vuole, ma al contempo la scoperta del diritto “buono” non può essere semplicemente delegata al divenire storico, talvolta incerto e contraddittorio. In altre parole: la storia e la tradizione sono un criteIl passo è contenuto nel già citato saggio Principles of a Liberal Social Order, ora in F.A. VON HAYEK, Studies in Philosophy, Politics and Economics, op. cit. (trad. it. cit. pp. 304-305). 129 A tale questione è dedicato, come noto, E. ANGNER, Hayek and Natural Law, Routledge, London-New York 2007. Interessanti sono anche le considerazioni sviluppate in R.A. MODUGNO, Legge e natura nel pensiero politico di Murray N. Rothbard, in M.N. Rothbard, Diritto, natura e ragione. Scritti inediti versus Hayek, Mises, Strauss e Polanyi, a cura di R.A. Modugno, Rubbettino, Soveria Mannelli. 2005, pp. 25 e ss., la quale prende in esame anche le tesi di C. COVELL, The Defence of Natural Law. A Study of the Ideas of Law and Justice in the Writings of Lon L. Fuller, Michael Oakeshott, F.A Hayek, Ronald Dworkin and John Finnis, Macmillan, London 1992 e N. MATTEUCCI, Lo stato moderno, Il Mulino, Bologna 1997 [1993]. 128

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rio di valutazione migliore della pura ragione astratta, ma esse devono essere intese criticamente, ossia devono passare al vaglio della ragione. Rispetto a questa interpretazione degli scritti di Hayek, che potremmo definire di “evoluzionismo culturale spontaneo”, è interessante osservare come la soluzione libertaria di Rothbard sia diversa e per certi versi opposta. Essa consiste nel tentativo di individuare definitivamente una base razionale per la libertà e di difenderla con l’utilizzo di una ragione in grado di scoprire una natural law, assai diversa da quella che Hayek sembra aver ereditato dagli studiosi inglesi della common law ma che anzi sembra quasi assumere i tratti tipici di quello che Hayek chiamava l’“abuso della ragione”. Per Rothbard infatti è possibile scoprire, con il solo uso di una ragione umana obiettiva e guardando ad una natura dell’uomo sempre identica ed osservabile al di là di ogni condizionamento storico, un diritto naturale “universale”, al quale ci si deve razionalmente sottomettere e a partire dal quale è possibile costruire un’“etica della libertà”, razionale e logicamente vincolante130. Al di là del problema dell’“eccessiva fiducia” nella capacità della ragione umana, e della convinzione, tutta da provare, dell’esistenza di una natura umana eterna ed immutabile, c’è anche il fatto che con una legge naturale come quella di Rothbard si ripropongono gli stessi problemi che si poneva Hobbes riguardo alle diverse possibili interpretazioni e applicazioni della legge naturale. Cosa avverrebbe infatti nel caso, in realtà assai probabile, in cui gli uomini, usando la loro ragione (inevitabilmente soggettiva) arrivassero a conclusioni diverse riguardo alla natura umana e dunque riguardo alla “vera” legge naturale? Certo si potrebbe con Rothbard sostenere che prima o poi la vera legge naturale scoperta dalla “retta ragione” verrà riconosciuta da tutti, proprio perché «[Il] nostro sistema della libertà propone necessariamente una teoria etica di ciò che concretamente la legge dovrebbe essere. In breve, com’è logico per una teoria della Legge naturale, essa propone una teoria normativa del diritto – nel nostro caso del “diritto libertario”», M.N. ROTHBARD, The Ethics of Liberty op. cit. (trad. it. cit. p. 9). E più avanti aggiunge: «il diritto naturale spiega quel che è meglio per l’uomo, quali fini, in armonia con la sua stessa natura e ad essa confacenti, egli dovrebbe perseguire. Da un importante punto di vista, quindi, la legge naturale fornisce all’uomo una “scienza della felicità”», p. 25. Per una ricostruzione del diritto naturale in Rothbard si rimanda a C. LOTTIERI, Il pensiero libertario contemporaneo, op. cit., pp. 56 e ss. e P. VERNAGLIONE, Il libertarismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 200 e ss. Interessanti considerazioni sui pregi e sui limiti della concezione libertarian del diritto naturale si trovano in R. CUBEDDU, Il tempo del liberalismo, in «Biblioteca della libertà», XLVII, gennaio-aprile, n. 203 online, 2012, in particolare pp. 20-25. 130

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razionale. Ma come replicare a coloro che, convinti di aver scoperto la vera legge naturale razionale e non ritenendola fondata sulla libertà ma su un qualche tipo di “virtù”, non siano disposti ad accettare che altri si rifiutino di riconoscerla e ne ritengano legittima una sua imposizione immediata e coercitiva? Il dubbio che, accettata l’idea dell’esistenza di una legge naturale riconoscibile dalla ragione, e constatato che individui diversi possano riconoscere leggi diverse, si ricada nel peggiore stato di natura hobbesiano, appare più che legittimo. Se si ritiene che esista una legge naturale e razionale, e se, come è ovvio, non c’è un solo interprete legittimo di quale essa sia, ognuno si può sentire autorizzato ad imporla agli altri, e la stessa possibilità del confronto e forse anche di comunicazione tra gli individui potrebbe venire meno. Forse problemi di questo tipo danno la vera misura del perché nel liberalismo classico, da Hume ad Hayek, vi sia una forte opposizione ad un utilizzo della ragione in senso rothbardiano. E a partire da qui si può anche apprezzare il pregio del diritto evolutivo, che mostra come alcune soluzioni funzionino meglio di altre e che prevede un uso (limitato) della ragione per sostituire quelle norme e istituzioni che, nonostante abbiano storicamente dato cattiva prova di sé, sono per qualche motivo rimaste in vita (punto questo decisamente più controverso, ma che viene fortemente rivendicato da Menger e Hayek quando attribuiscono alla ragione il compito di mettere alla prova le istituzioni sorte per via spontanea). I risultati del diritto evolutivo – che con il linguaggio hayekiano va considerato come “un processo di scoperta” che sembra destinato a rimanere sempre “aperto” – possono forse essere visti come un progressivo avvicinamento a un qualche tipo di diritto naturale, ma molto diverso da quello di tipo rothbardiano. Alla luce di queste considerazioni la posizione di Rothbard e quella Hayek appaiono inconciliabili e non sembrano esserci molti margini di accordo se si guarda al diverso ruolo che viene attribuito all’uso della ragione. Tuttavia, se si analizza attentamente il pensiero di Rothbard si deve costatare come anche lui, riflettendo sulle possibili modalità di formazione dei “codici libertari”, non riesca a fare a meno di riferirsi alla common law e a una modalità di formazione del diritto per via giurisprudenziale, riprendendo ampiamente le idee di Leoni, per molti versi criticate ma poi in gran parte accettate nella sostanza131. Ed è proprio Cfr. M.N. ROTHBARD, For a New Liberty. The Libertarian Manifesto, Macmillan, New York 1973 (trad. it. Per una nuova libertà. Il manifesto libertario, Liberilibri, Macerata, 1996, pp. 314 e ss,) e M.N. ROTHBARD, The Ethics of Liberty op. cit. (trad. it. 131

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Leoni, che non ebbe il tempo di sviluppare molte delle sue intuizioni, a darci quella che potrebbe essere considerata la migliore definizione della concezione giuridica del liberalismo classico, la quale può forse essere definita come una “reinterpretazione empirica delle teorie del diritto naturale”132. Ma al di là delle definizioni che si vogliono adottare e delle differenze tra i suoi diversi esponenti, dovrebbe ormai essere chiaro come a partire dal secondo dopoguerra si sia delineata una “rinascita” del liberalismo classico, ossia una riscoperta di quella tradizione liberale che ha i suoi presupposti filosofici nel concetto di “ordine spontaneo”, oltre che nel diritto di proprietà in senso lockiano. Quel liberalismo, e il suo fondamento filosofico, a partire dalla metà dell’Ottocento aveva gradualmente perso di interesse e attrattiva, a favore di un liberalismo diverso, volto a costruire l’“ordine buono” sulla base di considerazioni etiche da imporre alla società. Il liberalismo classico di Mandeville e dei moralisti scozzesi rinasce attraverso la Scuola austriaca, la quale si confronta con il problema di quale sia il fondamento di una società giusta, e cerca una risposta alla domanda classica della filosofia politica su quale sia il miglior regime politico. Questo tentativo, pur non privo di limiti, non sempre è stato compreso e apprezzato in tutta la sua grandezza, e questo forse anche a causa di una visione estremamente innovativa e originale di come si debbano intendere e affrontare alcuni dei problemi classici della filosofia politica, quali il diritto, la giustizia, l’etica, la democrazia e la stessa libertà. È proprio guardando a questa originalità e a questo tentativo di innovare rispetto alle soluzioni classiche, indubbiamente grandiose ma anche talvolta incapaci di dare tutte le risposte attese, che si può cogliere l’importanza del contributo del liberalismo del Novecento. E c’è anche da chiedersi se a far rinascere la discussione intorno a quelle domande con cui sembrava che la filosofia politica non si volesse più confrontare non sia stato anche, o soprattutto, il liberalismo di matrice austriaca (nelle sue differenti ramificazioni), più che il progetto rawlsiano di riproporre ancora una volta, seppure in maniera cit. pp. 285-286). Su questi temi rimando a A. MASALA, C. CORDASCO, R. CUBEDDU, Diritto naturale o evoluzionismo? In «Nuova civiltà delle macchine», anno XXIX, n. 1-2, 2011, pp. 435-454., pp. 450 e ss. e dalla lettura dei diversi saggi che compongono quel numero monografico è anche possibile avere una dettagliata ricostruzione della continuità e delle differenze tra Classic liberalism e Libertarianism. 132 La definizione si trova in una lettera, a lungo dimenticata, a Pompeo Biondi, B. LEONI, Terrore, diritto, costituzione, in «Studi Politici», n. 2, 1957, pp. 297-300.

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nuova e seducente, la prospettiva di una morale razionale capace di costruire una sorta di civiltà universale. Al contrario il liberalismo classico non ritiene che la civiltà, o la semplice convivenza, possano essere costruiti dall’imposizione della morale o dalla ragione, ma si basa sull’idea che il buon ordine politico sia il risultato inintenzionale di azioni e scelte individuali. Esso emerge e si modifica da un continuo processo di scoperta, il quale deve sempre rimanere aperto, perché soltanto in un sistema in cui si salvaguarda e valorizza la libertà individuale è possibile trovare le soluzioni migliori per la convivenza civile. Una società veramente rispettosa della diversità umana non è una società organizzata e regolata in accordo a una sola morale, per quanto condivisa, né è una società che si propone di soddisfare i desideri di ogni singola persona. Essa è (più modestamente?) una società in cui le persone sono libere di vivere seguendo i loro princìpi e nel modo che preferiscono, ma accettando che questo riguarda solo la loro vita, e che non può essere imposto agli altri. Se si ritiene che non sia possibile tentare di difendere e promuovere una tale idea di società, e dunque i princìpi di tolleranza e libertà che le danno sostanza, allora bisogna semplicemente ammettere che l’unica soluzione è il prevalere di chi ha maggiore forza, magari anche solo numerica. Può anche darsi che in futuro si dovrà ammettere che questa è l’unica prospettiva possibile, ma certo non è la prospettiva della filosofia, o almeno non è la prospettiva della filosofia politica liberale, la quale non annovera la coercizione come una tra le possibili soluzioni del problema del miglior ordine politico.

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INDICE DEI NOMI

Acton, Lord, 218. Allen, R.T., 234. Altini, C., 23. Amoroso, L.13. Angner, E., 304. Antiseri, D., 86, 127, 140, 197, 249, 268. Arendt, H., 49, 50. Aristotele, 242, 243, 266, 267. Ashton, T.S., 59. Backhaus, J.G., 265. Baglioni, E., 215. Baldini, M., 74, 77. Barberis, M., 174, 283. Barry, N.P., 64, 256, 287. Bassani, L.M., 70, 99, 251. Bastiat, F., 39, 165. Behnegar, N., 25. Belardinelli, S., 265. Belgioioso, G., 247. Bell, D., 22. Bellamy, R., 33, 61. Bentham, J., 41, 64-72, 87, 88, 189, 256, 257, 277. Berlin, I., 18, 27, 28, 173-176, 231. Beveridge, W., 63, 68. Biaggiotti, T., 86. Bismarck, O.von, 84, 119, 121, 159.

Bobbio, N., 19, 171, 197. Boettke, P.J., 115. Böhm-Bawerk, E.von, 83. Böhm, F., 78. Bosanquet, B., 61. Bosetti, G., 162. Boucher, D., 61. Browing, J., 65. Buchanan, J.M., 101, 191, 204, 274, 286. Burke, E., 31, 139, 258. Butos, W.N., 266. Caldwell, B., 111, 119, 130, 260, 266, 271. Carlyle, T., 121, 135. Carnap, R., 21, 158, 160, 161. Carter, I., 173, 200, 232. Caruso, S., 86. Cavallaro, M.E., 13. Cevolani, G., 244. Chafuen, A.A., 258. Chamberlain, H.S., 121. Chamberlain, J., 158. Chodorov, F., 99. Colombatto, E., 102. Comte, A., 46, 64, 121, 133-136, 139, 151. Constant, B., 175, 189.

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Crisi e rinascita del liberalismo classico

Cooper, B., 45. Cordasco, C., 13, 266, 307. Cotellessa, S., 74, 76, 101. Covell, C., 304. Cristofolini, P., 13. Cubeddu, R., 12, 23, 31, 39, 45, 83, 90, 111, 127, 133, 147, 155, 265, 266, 299, 305, 307. Cunningham, R.L., 200. Dangerfield, G., 63. De Crespigny, A., 19. De Gobineau, A., 146. De Lugo, J., 258. De Molina, L., 258. De Mucci, R., 127. De Ruggiero, G., 61. Den Uyl, D., 241. Di Blasi, F., 295. Di Iorio, F., 13, 148. Dicey, V.A., 213. Donzelli, F., 260, 261, 262. Downs, A., 191. Ebenstein, A.O., 156, 204, 208, 262. Einaudi, L., 27, 67, 99, 154, 237. Emberley, P., 45. Eucken, W., 78. Fabris, A., 13. Favaro, A., 215. Febbrajo, A., 179. Feigl, H., 22. Ferguson, A., 252, 258. Feser, E., 147, 155, 266. Festa, R., 244. Feuchtwanger, E.J., 56. Feuerbach, L., 135, 136. Flyn, J.T., 99. Foucault, M., 78. Freeden, M., 61, 62. Fried, F., 122. Friedrich, C.J., 35. Fuller, T., 29.

Galeotti, E., 127. Gattei, S., 13, 140. Gaus, G.F., 266. Germino, D., 49. Giannaccari, A., 13. Giordano, A., 237. Giorgini, G., 12, 32, 236. Glaser-Schmitt, E., 49. Gobetti, P., 62, 63. Graf Kielmansegg, P., 49. Gray, J., 147, 214, 259, 266. Green, T.H., 61, 62. Greenleaf, W.H., 60, 71. Grozio, 37, 302. Gunnell, J.G., 21, 49. Haberler, G., 82. Halévy, E., 109. Hallowell, J.H., 36-44, 48, 50, 52, 53, 73, 110, 119. Hamowy, R., 203, 204. Havelock, E.A., 26. Hayek, F.A.von, 36, 45, 58, 59, 62, 63, 68, 70, 78, 82-84, 98, 99, 109-111, 113, 118-147, 151, 153-163, 167169, 185, 188, 196-224, 232-239, 246-249, 257-279, 283, 284, 286, 287, 289-293, 302-306. Hayes, C., 159. Hegel, G.W.F., 110, 120, 135, 136, 139, 142, 145. Himmelfarb, G., 59. Hirschman, A., 229, 251-255. Hitler, A., 21, 108, 112, 119, 121, 209. Hobbes, T., 11, 18, 30, 45, 223, 241247, 251, 253, 295, 297, 306. Hobhouse, L.T., 61. Hobson, J.A., 61, 64. Holmes, S., 27. Hook, S., 224. Hoover, K.R., 68. Huerta de Soto, J., 258. Hulsmann, J.G., 80. Humboldt, W.von, 258.

Indice dei nomi Hume, D., 64, 71, 247, 250, 251, 258, 289, 304, 306. Hunt, L., 265. Hutt, V.H., 59. Iacono, M.A., 13. Iannello, N., 81, 83, 109. Infantino, L., 62, 81, 82, 83, 84, 87, 93, 109, 247, 250, 256. Jhering, R.R.von, 41. Kant, I., 110, 267, 268, 304. Kaplan, A., 21. Kaufmann, F., 82. Kelley, J.L., 287. Kelsen, H., 43, 44, 209, 282. Kennedy, G., 255. Keynes, J.M., 63, 68, 72, 112, 114, 156, 259. Kirzner, I., 81. Klein, P.G., 119. Klein, R., 82. Kymlycka, W., 278. Lal, D., 102. Laski, H., 68, 122. Laslett, P., 18, 19. Lasswell, H., 21. Lenin, 108, 112, 209. Lensch, P., 121. Leoni, B., 70, 209, 210, 212, 215-228, 232, 238-239, 273-275, 279-292, 307. Letwin, S., 71, 72. Lippman W., 16, 17. Locke, J., 30, 31, 33, 34, 37, 37, 38, 57, 89, 267, 297, 298, 302. Lottieri, C., 13, 75, 81, 101, 215, 223, 282, 285, 305. Lowell, L., 217. Macaulay, T.B., 70. Machan, T.R., 242.

333

Machiavelli, N., 30, 31, 251. Machlup, F., 82. Macpherson, C.B., 176, 297. Maffettone, S., 31, 243, 278. Magri, T., 247, 248. Mandeville, B.de, 11, 31, 165, 241, 242, 246-251, 254-257, 265, 280, 291, 295, 307. Mangini, M., 295. Mannheim, K., 120, 135, 145. Marcuse, H., 112. Marx, K., 22, 46, 47, 58, 83-85, 120, 121, 135, 136, 139, 142, 143, 145, 146, 150, 160, 161, 165. Masala, A., 39, 68, 70, 129, 215, 279, 283, 307. Matteucci, N., 19, 56, 245, 259, 265, 304. McAllister, T.V., 46, 49. McNamara, P., 265. Megee, B., 162. Mencken, H.L., 99. Menger, C., 21, 82, 83, 89, 90, 111, 127, 137, 139, 147, 160, 238, 256-258, 265-267, 280, 284, 291, 306. Menger, K., 21. Merriam, C., 22. Mewes, H., 49. Michels, R., 223. Mill, J.S., 41, 57, 70-72, 88, 100, 135, 259. Mingardi, A., 12, 62, 215. Minogue, K., 19. Mises, L.von, 13, 19, 21, 44, 55, 78, 81-99, 103, 106-119, 125, 127-131, 136, 137, 147-169, 176-183, 188, 208, 220, 221, 232-235, 238, 239, 256, 265, 280, 285-287, 291, 292, 300, 304. Mises, R.von, 21. Modugno, R.A., 304. Moeller van den Bruck, A., 122. Mommsen, W.J., 56. Monceri, F., 12, 23, 294.

334

Crisi e rinascita del liberalismo classico

Montesqueu, C.de, 252, 253. Monti Bragadin, S., 274. Morgenstern, O., 82. Morgenthau, H.J., 36. Morley, F., 99. Moroni, S., 265. Mosca, G., 223. Mussolini, B., 108, 112, 209. Neurath, O., 21, 134. Nietzsche, F.W., 23, 46. Nock, A.J., 99. Nozick, R., 243. O’Hear, A., 147. Oakeshott, M., 236, 248, 304. Orsina, G., 12, 57, 68, 95. Ortega Y Gasset, J., 78. Pareto, V., 223. Pasquino, G., 19. Passerin d’Entrèves, A., 19. Pellicani, L., 31, 127, 162. Perfetti, S., 13. Peterson, W.H., 81. Petroni, A.M., 204, 274. Petsoual, C., 247. Pizzimenti, E., 13. Platone, 34, 142, 144, 145, 161. Plenge, J., 121. Polanyi, K., 99, 100. Polanyi, M., 234, 304. Pombeni, P., 56. Popper, K.R., 106, 111, 134, 140-148, 158-163, 168. Portinaro, P.P., 175. Possenti, V., 265. Quagliariello, G., 109. Quinton, A., 259. Quirico, M., 215, 234. Raico, R., 90, 287. Rand, A., 98.

Ranieri, J.J., 46. Rasmussen, D.B., 241. Rathenau, W., 121. Rawls, J., 19, 52, 241, 244, 277, 278, 308. Reagan, R.W., 259. Ricciardi, M., 232. Ridley, M., 245. Ringer, F.K., 49. Ritchie, D.G., 61, 64. Röpke, W., 36, 55, 73-80, 99-103, 105, 159. Rosenberg, N., 255. Rothbard, M.N., 81, 98, 176, 285, 301307. Rousseau, J-J., 185, 189, 190, 218, 253. Runcinam, W.G., 18, 19. Sabin, G.H., 36. Saint-Simon, H.de, 133-135. Salerno, J.T., 83. Sartori, G., 171, 229. Savigny, F.C.von, 139, 258, 279. Scaramozzino, P., 279. Schmoller, G.von, 111, 120. Schoeck, H., 94. Schumpeter J.A., 58, 185-195, 230, 233, 235, 280. Schütz, A., 82. Shearmur, J., 140, 147, 158, 160, 239. Silversti, P., 237. Simon, H., 21. Smith, A., 38, 64, 69, 80, 101, 102, 136, 139, 165, 190, 243, 247, 251-258. Smith, S.B., 23, 29. Sombart, W., 120, 121, 139. Sorel, G., 121. Spencer, H., 60, 62, 218. Spengler, O., 121, 139. Strauss, L., 17, 23-33, 44, 46, 49-53, 116-118, 124, 129, 132, 133, 169, 173, 294-296, 299, 300, 304. Talmon, J.L., 184, 185, 195.

Indice dei nomi Thatcher, M., 68, 129, 259. Tocqueville, A., 57, 201, 218, 252. Tullock, G., 191, 223. Udehn, L., 127. van Sickle, J., 179. Vannucci, A., 191. Veca, S., 244, 278. Vernaglione, P., 81, 305. Vincent, A., 61. Viola, F., 295. Vitale, A., 109. Voegelin, E., 36, 44-50, 53, 73.

335

Voltaire, 38, 45. Webb, B., 64, 71, 72, 113. Webb, S., 64, 113. Weber, M., 23, 25, 45, 50, 58. Wiener, M.J., 60. Wieser, F.von, 83, 257. Wolin, S., 17, 33-36, 50, 51, 170, 244, 245. Zanetti, G., 46. Zanfarino, A., 271, 291. Zaslavsky, V., 108, 109.

INDICE

Prefazione

9

Capitolo Primo LIBERALISMO E FILOSOFIA POLITICA

15

1. La crisi della filosofia politica

15

2. Liberalismo e relativismo

23

3. Liberalismo come economicismo

29

4. Liberalismo e positivismo

36

5. Il problema etico nel liberalismo

49

Capitolo Secondo TRASFORMAZIONI DELLA TEORIA LIBERALE

55

1. Una lunga metamorfosi

55

2. La teoria etica e sociale dell’Ordoliberalismus

73

3. Le idee e le loro conseguenze

80

4. Moralità e armonia degli interessi

98

Capitolo Terzo LA CRITICA DEL TOTALITARISMO

105

1. Lo stato onnipotente

107

2. La mentalità collettivista e la via della schiavitù

118

338

Crisi e rinascita del liberalismo classico 3. Storicismo e razionalismo

130

4. Individuo e storia

147

5. Dalla ‘società buona’ alla ‘buona società’

153

Capitolo Quarto LIBERALISMO E DEMOCRAZIA

171

1. L’idea di libertà

173

2. Democrazia classica, rappresentativa e totalitaria

183

3. Democrazia e rule of law

196

4. Liberalismo o scelte collettive?

215

5. La necessità della democrazia

229

Capitolo Quinto MODELLI DI ORDINE LIBERALE

241

1. Il liberalismo tra Hobbes e Mandeville

242

2. Ordine e conoscenza

258

3. L’individualismo radicale

279

4. La rinascita del liberalismo classico

287

Bibliografia

309

Indice dei nomi

331

Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2012

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