Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault
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Zitiervorschau

Peter Sloterdijk

Caratteri

filosofici Da Platone a Foucault

RaffaelloCortinaEditore

RajfaelloCortinaEditore IVI I l\l I IVI A

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n grande pensatore contemporaneo si confronta con i maestri che hanno scandito la riflessione teoretica of­ frendo uno sguardo d’autore sulla storia della filosofia, da Platone a Foucault passando per Aristotele, Agostino, Descar­ tes, Kant, Hegel, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Husserl, Wittgen­ stein, Sartre. Con ritmo agile e grande efficacia, Peter Sloterdijk dipinge alcuni fra i più incisivi “caratteri filosofici” dall’antichità al xx secolo, fornendo una prospettiva inedita sui massimi pensatori d’Occidente. Come succulenti Peter Sloterdijk è p ro fesso re “spuntini”, i suoi ritratti stuzzica­ di E stetica e Filosofia alla Staatlich e H och sch ule no la nostra vocazione intellettua­ für Gestaltung di Karlsruhe. le e ci introducono ai più raffinati Nelle nostre edizioni “piatti” filosofici... ha pubblicato Derrida egizio (2007) , Il furore di Dio (2008) e Devi cambiare la tua vita [2010).

€ 11,00

www.raffaellocortina.it

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Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

Peter Sloterdijk

Caratteri filosofici Da Platone a Foucault

Raffaello CortinaEditore

www.raffaeIIocortina.it

Titolo originale Philosophische Temperamente. Von P laton b is Poucault

© 2009 Diederichs Verlag, München in der Verlagsgruppe Random House GmbH Traduzione Luca Guzzardi Copertina Studio CReE ISBN 978-88-6030-383-7 © 2011 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2011 Stampato da Nuove Grafiche Artabano, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 0 1 2 3 4 5 2011 2012 2013 2014 2015

In d ice

Prefazione.......................................... 7 Platone................................................. 11 Aristotele............................................. 27 Agostino...............................................31 Bruno................................................... 37 Descartes............................................. 41 Pascal................................................... 47 Leibniz................................................ 51 K an t.....................................................57 Fichte................................................... 63 H egel................................................... 69 Schelling.............................................. 77 Schopenhauer...................................... 83 Kierkegaard......................................... 85

M arx .............................

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Nietzsche............................................ 99 H usserl............................................... 105 Wittgenstein........................................111 Sartre.................................................. 115 Foucault.............................................. 119 N ote.................................................... 125

P re fa z io n e

A metà degli anni Novanta avevo studiato con la casa editrice Diederichs un progetto che allora era apparso in primo luogo audace: una storia della filosofia alter­ nativa, che avrebbe dovuto passare in rassegna le gran­ di tappe del pensiero europeo antico e moderno nella forma di antologie dedicate agli autori più significativi. Indubbiamente, all’epoca l’idea era stata alimentata dal desiderio di lanciare un segnale intellettuale anticiclico contro la sfrenata banalità che in Germania caratteriz­ zava gli ultimi anni del XX secolo. L’aspetto innovativo dell’impresa stava nella decisione di dare la parola ad autori paradigmatici. Per noi, come editori e mediatori di fonti filosofiche primarie, si trat­ tava di rifuggire dall’egemonia della letteratura secon­ daria, che da tempo cerca con tutti i mezzi di far sì che la parola viva dei pensieri originali scompaia ovunque dietro la cortina impenetrabile prodotta da commenti e commenti di commenti. Facendo sì che i lettori si acco­ stassero ai testi medesimi, intendevamo garantire a un pubblico più vasto la possibilità di accedere al pensiero filosofico originario e, non ultimo, mettere a disposizione anche degli studenti delle facoltà di filosofia un’alterna­ tiva alle “Introduzioni” che imperversano in ogni dove.

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PREFAZIONE

Era mia convinzione, e lo è ancora, che non ci dovreb­ be essere alcuna introduzione alla filosofia; invece, fin dal primo momento la disciplina filosofica va concepita dapprima come modo di pensare e di conseguenza co­ me modo di vivere. Grazie alla proficua collaborazione tra editore e cura­ tore il progetto prese rapidamente forma e riuscì a con­ vincere non pochi studiosi di altissimo livello: costoro si dichiararono disposti a intraprendere la selezione e la presentazione dei testi originali. Nel giro di pochi an­ ni nacque una collana che rappresenta, come minimo, una biblioteca filosofica in nuce. Ben presto quei libri hanno trovato il modo di raggiungere i lettori e, soprat­ tutto attraverso la loro riproposizione in edizione ta­ scabile, hanno conquistato un pubblico assai vasto. Dei volumi pianificati, solo due - l’antologia heideggeriana e l’“Adorno-Reader”, che per altro mi stavano partico­ larmente a cuore - non hanno visto la luce a causa di difficoltà giuridiche. E stata un’esperienza sconvolgen­ te vedere come gli eredi di Heidegger e di Adorno uti­ lizzassero il loro monopolio per impedire una selezione dei loro testi da parte dei maggiori esperti. La raccolta delle prefazioni ai singoli volumi proposta in questo libro ha provocato un effetto originariamen­ te non voluto, che ora, però, ottiene una certa plausibi­ lità: con mia stessa sorpresa, mi pare che dai quadretti dei vari pensatori qui riuniti emerga, per così dire, un aggregato di senso compiuto - non una storia della filo­ sofia, bensì una galleria di studi caratteriali e di ritratti intellettuali che mostrano quanto Nietzsche cogliesse nel giusto osservando che tutti i sistemi filosofici sono sempre stati una sorta di libro di memorie e di confes­ sioni del loro autore. La scelta dei pensatori era innega­ bilmente legata a una certa inevitabile dose d’ingiusti­

PREFAZIONE

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zia. Evitando selezioni casuali, si teneva a metà strada fra necessità e arbitrio. Il titolo di questa raccolta allude inequivocabilmen­ te alla nota sentenza di Fichte: quale filosofia si scelga dipende da quale genere di uomo si sia. Con ciò Fichte intendeva: gli animi servili scelgono un sistema natu­ ralistico che giustifica il loro atteggiamento riverente, mentre gli individui di fiere convinzioni afferrano un si­ stema della libertà. Questa osservazione non è oggi più o meno vera di allora. Negli studi che seguono spero di essere riuscito a mostrare che la scala dei temperamen­ ti filosofici si estende ben oltre la contrapposizione ti­ pologica fra soggetti vigliacchi e soggetti fieri. È tanto vasta quanto l’anima illuminata dal Logos, di cui Era­ clito diceva: per quanto lontano si vada, è impossibile raggiungerne i confini.

P lato n e

Nel celebre aforisma 344 della Gaia scienza, “In che sen­ so anche noi siamo ancora devoti”, l’antiplatonico Frie­ drich Nietzsche ha eretto un monumento al fondatore dell’Accademia ateniese che fa onore a lui tanto quanto si rivela problematico per noi: “Si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede me­ tafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina [...]. Ma che succe­ de, se proprio questo diventa sempre più incredibile?”.1 La storia della filosofia europea si può immaginare come una staffetta in cui un fuoco acceso da Platone (e da alcuni suoi predecessori, in particolare Parmenide e Eraclito) è stato portato attraverso le generazioni. L’im­ magine della corsa con la fiaccola compiuta dal pensie­ ro attraverso i millenni è tollerabile in nome delle va­ lutazioni più contrastanti, a prescindere dal fatto che si concepisca tale corsa come nient’altro che una storia della verità oppure semplicemente come una storia dei problemi, o ancora - come Nietzsche suggerisce - sol-

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tanto come una storia dei nostri errori più persistenti.2 A buon diritto, nell’Introduzione al proprio commen­ tario al Simposio (De amore), Marsilio Ficino - figura chiave del neoplatonismo fiorentino del XV secolo - ha definito Platone philosophorum pater? Di fatto la filosofia europea, nella sua tradizione idea­ listica, era, per così dire, la conseguenza di una patristica platonica; complesso di teoremi e sentenze che, in ultima istanza, sembravano sgorgare da un’unica fonte testimo­ niale, istruiva veri e propri processi. I capolavori plato­ nici hanno agito come una banca del seme delle idee, che ha poi fecondato moltissime intelligenze, spesso ol­ trepassando enormi distanze temporali e culturali. Ciò non vale solo per l’Accademia di Atene, che ha saputo preservare ininterrottamente per quasi un millennio (387 a.C.-529 d.C.) la propria attività didattica come model­ lo della “scuola” europea; la dottrina di Platone doveva dimostrarsi prodigiosa quanto a traducibilità, destinata a brillare in lingue e culture straniere in un modo che si potrebbe definire evangelico: di ciò la ricezione romana e araba,4 e in seguito anche quella tedesca, forniscono gli esempi più importanti. Quanto a significato, questi vengono superati soltanto dallo sciogliersi del platoni­ smo nella teologia cristiana. Ciò che un tempo Adolf von Harnack ha chiamato grecizzazione o secolarizzazione della teologia cristiana - quella gnostica, repentina, non meno di quella quella cattolica, graduale - resta in larga misura nel segno del divino Platone.5Da ultimo, alcune fra le teosofie speculative dell’Islam trascinan o fino ai giorni nostri numerosissimi motivi platonizzanti. Con ciò il Corpus Platonicum è più di una raccolta di scritti classici fra gli altri; rappresenta l’atto costitutivo per l’intero genere della filosofia idealistica europea co­ me stile di scrittura, come dottrina e come forma di vi-

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ta. Costituisce una nuova alleanza dell’intelligenza con gli individui nella città e nell’impero; diffonde la buona novella della penetrabilità logica di questo grigio mon­ do. Come evangelo del buon fondamento di tutte le co­ se aggancia saldamente la ricerca della verità a un devo­ to razionalismo - e si sono rese necessarie niente meno che le rivoluzioni della civiltà del XIX e del XX secolo per strappare tali ancoraggi; tra le fasi di questa operazione ricordiamo la metafisica schopenhaueriana della cieca volontà cosmica, il prospettivismo e il finzionalismo di Nietzsche, l’evoluzionismo materialistico delle scienze naturali e sociali e infine le odierne teorie del caos. Nel­ la sua classica forma di scuola, la dottrina platonica in­ tendeva trasmettere in termini teorici una direttiva per la vita spirituale: si trattava, nel vero senso della parola, di una religione del pensiero, che si credeva capace di riunire ricerca e costruzione sotto un unico tetto. Alcuni storici delle religioni ritengono di poter mostrare che, per taluni aspetti, la dottrina di Platone rappresentava addirittura un’attualizzazione di tradizioni sciamaniche. Da tempo immemorabile esse conoscevano le ascensioni celesti dell’anima e il salutare commercio con gli spiriti dell’aldilà; sotto questo profilo, il luogo ultraterreno di Platone, ove le idee rimangono sospese su se stesse, non sarebbe altro che un cielo logicizzato, mentre l’ascen­ dere del pensiero alle idee sarebbe semplicemente un viaggio dell’anima in chiave più moderna, a bordo delle navicelle del concetto.6 Con il suo sofisticato ottimismo gnoseologico e la sua etica della vita cosciente, il platonismo è stato, per così dire, il Super-io del razionalismo europeo, sul punto di estendere la propria influenza al mondo intero. Anche se la generosa ricerca platonica della vita buona nella collettività buona sembra soffrire sin dall’inizio del di­

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fetto di essere pura utopia, tuttavia ha dato la misura e l’indirizzo rispetto alle più alte pretese del desiderio fi­ losofico: l’amicizia con la verità ha interpretato se stes­ sa come cura per la pace della città e del mondo e come impegno per la loro continua rifondazione dallo spirito della conoscenza di sé. Quanto Nietzsche asserisce cir­ ca il filosofo come medico della cultura, stando alle sue intenzioni, si applica indubbiamente già a Platone. Era inevitabile che ambizioni di tal fatta venissero liquidate come eccessive; si è persino voluto riconoscere in esse la manifestazione di quella che, nel XX secolo, sarebbe stata chiamata tentazione totalitaria. Tuttavia, la scoperta platonica dell’esistenza di un le­ game comunque problematico tra saggezza personale e ordine pubblico conserva la sua validità. E anche se la filosofia, come nell’età tardo-antica (essenzialmente già a partire da Alessandro Magno), è caduta in una profon­ da depoliticizzazione, essa ha però mantenuto - come una prima psicoterapia - un’indiscutibile competenza nelle questioni della pace interiore; la quale ha potuto fungere da pagamento anticipato per la pace esterna: un placido e più potente faro in un mondo a soqquadro. La tradizione platonica, d’accordo in ciò con la dottrina stoica e poi con quella epicurea, ha definito il filosofo un esperto della ricerca della pace nell’anima. Se fino a oggi abbiamo motivo di ricordare gli inizi della filosofia presso i Greci, lo dobbiamo soprattutto al fatto che proprio la filosofia ha costituito il mezzo at­ traverso cui la scuola, potere indiretto su scala planeta­ ria che ancora ci domina e ci confonde, ha cominciato a imporsi alle società cittadine nel loro fiorire. Con il fi­ losofo entra in scena un tipo esigente di educatore, che si propone non più soltanto di far crescere la gioventù di città costretta ai paletti delle convenzioni, bensì di

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plasmarla secondo criteri meditati e artificiali nonché, per la loro forma, universali. Con la coppia Socrate-Platone si afferma una nuova idea di educazione: i due si distinguono dal convenzio­ nalismo e dall’opportunismo degli insegnanti di reto­ rica e dei sofisti appellandosi a una rinnovata e ampia opera di plasmatura dell’individuo. Paideia o educa­ zione come formazione dell’uomo per un grande mon­ do imperiale, latente o manifesto, non solo costituisce un concetto base della filosofia antica, ma designa pu­ re il programma della filosofia come prassi politica. In esso si può cogliere il fatto che la nascita della filosofia era conseguenza dell’emergere di una nuova forma del mondo rischiosa e carica di potere - oggi la chiamiamo forma delle culture cittadine e degli imperi. Questa ha imposto un nuovo addestramento dell’individuo, mirato a renderlo idoneo alla città e all’impero. A tale riguardo è lecito ritenere che la filosofia classica abbia rappresen­ tato un rito d ’iniziazione logico ed etico per una élite di giovani uomini (in rari casi anche di donne); sotto la guida di un maestro di studi avanzati, costoro dovevano giungere a superare la mera impronta fin lì lasciata su di loro da famiglia e stirpe in favore di un’umanità statale e imperiale lungimirante e magnanima. Sicché la filosofia è, sin dal suo esordio, un’iniziazione alla grandezza, al­ la ricerca del superamento della grandezza, al tentativo di raggiungere la grandezza assoluta; si presenta come scuola della sintesi universale; insegna a compendiare nel pensiero, in una totalità ben strutturata, molteplicità e immensità; introduce in una vita sottoposta a un carico intellettuale e morale sempre maggiore; scommette sulla possibilità di trovare una risposta alla crescente comples­ sità del mondo e alla smisurata altezza di Dio attraverso un continuo sforzo mirato all’ampliamento dell’anima;7

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invita a trasferirsi nel nuovo, più imponente edifìcio: la casa dell’essere; vuol fare dei propri allievi gli abitanti di un’Acropoli logica; risveglia in loro l’impulso di trovarsi ovunque a casa propria. Per lo scopo di questo esercizio, la tradizione greca ci offre il termine sophrosyne (tem­ peranza), quella latina il concetto di humanitas. Poiché la scuola filosofica antica è anche paideia, introduzio­ ne nella temperanza adulta, che significa umanità, essa compie una sorta di rito di passaggio verso l’allevamento dell’individuo “magnanimo”, idoneo alla città e all’im­ pero.8Sarebbe incauto interpretare i valori della paideia e della humanitas solo come ideali caratteriali apolitici. Che dal sapiente tutti gli uomini siano riconosciuti affini - davvero questa dottrina non è altro che un’ingenuità umanitaria, sorta da un’eccessiva dilatazione dell’etica familiare?9 Una rievocazione dell’età d’oro della cultu­ ra ginnasiale europea tra il 1789 e il 1945 può chiarire come tutti gli stati nazionali d’Europa abbiano puntato su un’istruzione pubblica di tipo umanistico per creare le condizioni affinché i loro giovani svolgessero un ruo­ lo nel quadro di programmi nazional-imperiali. A tal punto filosofia e educazione, già nell’antichità, danno rilievo agli individui, che l’accento di ogni “lavoro in sé” cade anzitutto e per lo più sull’impegno attivo dei singoli per “l’umanità statale” . Solo con l’estremo ap­ profondirsi della spaccatura tra potere e spirito, come nell’età imperiale di Roma, la pratica filosofica ha finito per conformarsi al modello del saggio libero e indipen­ dente, che ha voltato le spalle alle potenze mondiali. La filosofia classica ha prospettato ai suoi adepti la pos­ sibilità di conquistare la serenità entro un cosmo caotico; saggio diviene chi riesce a vedere nel caos la maschera del cosmo. Chi scruta nelle profondità trovandovi l’ordine guadagna, complessivamente, capacità commerciale: nes­

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sun luogo, nell’essere, gli è più del tutto estraneo; sicché l’amore per la sapienza è l’Alta Scuola della capacità di andare in esilio. Avendo qualificato il saggio, con spirito ironico non meno che programmatico, come kosmopolites, cioè cittadino del cosmo, la filosofia ha promesso la supremazia su un universo che aveva già la forma di un desolato mercato delle divinità, degli usi e delle opinio­ ni - e contemporaneamente un campo di battaglia su cui molteplici stati combattevano per l’egemonia. Si è data troppo scarsa attenzione alla circostanza che Platone, na­ to nel 427 a.C., abbia trascorso tutta quanta la giovinez­ za nel periodo della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.); la sinistra distanza del filosofo dalla realtà empirica e la tanto biasimata tendenza idealistica a rifiutare il pu­ ro dato risultano più facili da capire, se si tiene presen­ te che, in gioventù, l’autore non aveva conosciuto quasi altro mondo che quello stravolto dalle passioni belliche. In termini moderni, quindi, la filosofia classica si qua­ lificherebbe come disciplina di orientamento; se volesse farsi pubblicità, potrebbe farlo soprattutto con la pro­ messa di superare la confusione dei rapporti dati attra­ verso un ordinato recupero di fondamenti sicuri - in termini odierni si parlerebbe di riduzione della comples­ sità. Il filosofo come liquidatore della cattiva moltepli­ cità aveva il volto di una guida misterica, che accompa­ gnava gli allievi nella regione delle prime ragioni da cui guadagnare ampie, soddisfacenti panoramiche. Ogni ascesa a posizioni più elevate ha però il suo prezzo. Se il filosofo si voleva proporre come inedito tipo d’uomo guidato dalla ragione, doveva arrogarsi il diritto di isti­ tuire nuovi criteri per la transizione all’età adulta nella città e nell’impero. Di fatto, il senso di tale transizione si è modificato radicalmente nel passaggio delle società tribali a forme politiche e imperiali.

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Chi, nell’Atene del V e del IV secolo a.C., avesse vo­ luto entrare nell’età adulta, avrebbe dovuto prepararsi ad assumere il potere in una misura storicamente pres­ soché sconosciuta - o, come minimo, a far sue le preoc­ cupazioni del potere. In quanto docenti della transizione all’età adulta alle condizioni poste da città e impero, gli educatori filosofici divennero le levatrici nel parto, gra­ vido di rischi, di individui più potenti, gettati in mondi più vasti. Affinché queste nobili nascite non dessero vi­ ta a mostri, era necessaria un’arte capace di bilanciare l’egemonia mediante una nuova temperanza. Sin dalle più antiche culture tribali, la nascita simbo­ lica alle soglie dell’età adulta viene affrontata in termini di iniziazione rituale. A tale tradizione si collega inevita­ bilmente la moderna paideia-, essa rappresenta qui - an­ che come sua avversaria - un’erede dello sciamanesimo, purché con tale nome non ci si limiti a indicare una te­ rapeutica arcaica, ma si intenda contemporaneamente abbracciare le competenze richieste per l’iniziazione dei discepoli ai misteri della vita adulta. Nella polis aperta al mondo è però divenuto impossibile assumersi com­ piti iniziatici semplicemente con tecniche sciamaniche; la litigiosa città democratica non privilegia più la trance. Dopo Socrate e Platone non può più valere come adulto soltanto colui di cui gli antenati o le divinità della stirpe si sono impossessati. Le forme cittadine richiedono un nuovo tipo di adulti cui gli dei non si avvicinino troppo - ciò significa al tempo stesso: essi stimolano una forma d’intelligenza che passa da tradizione e ripetizione a ri­ cerca e “ricordo”. Rivelazioni ed evidenze ora non na­ scono più attraverso le estasi, bensì tramite conclusioni: la verità stessa ha imparato a scrivere; asserzioni conca­ tenate conducono a essa. Sicché nella dottrina platonica il senso della memoria muta radicalmente: ciò che noi

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dovremmo a ogni costo ricordare, stando a Platone lo abbiamo dimenticato con la caduta in questo mondo; ciò che qui impariamo a memoria è confuso o privo di utilità. Il “ricordo” di un sapere prenatale, a priori o pu­ ro renderà superflua, in futuro, la mitologica e rapsodica cultura della memoria: così ha inizio la rivoluzione del sapere attraverso Va priori. Con una qualche libertà, le procedure platoniche si possono paragonare a una psicoanalisi in cui ci ricordia­ mo non di una scena archetipa rimossa, bensì di archeti­ pi confusi e di essenze matematiche ottenebrate. Se tali memorie possano giungere a completa trasparenza, diffi­ cile dirlo con certezza. In ogni caso, per Platone pensare in quanto esseri umani significa non condividere più la totale lucidità del cielo. I mortali, finché esistono in que­ sti corpi, pagano il loro tributo alla differenza di tutte le differenze: poiché hanno solo una conoscenza confusa della maggior parte delle cose, subiscono la spaccatura fra la trasparenza di lassù e la vista offuscata di quaggiù. Siamo condannati a fare i conti con un supplemento di oscurità. La filosofia, dopotutto, è un’impresa che mira a rischiarare il crepuscolo che abitiamo. Coerentemente, il discorso filosofico ha cominciato a respingere i miti e le opinioni tramandate; anziché a narcosi fiabesche e a entusiasmi rapsodici, esso aspirava a uno stato di sobrietà “critica”, che da sempre è stato considerato il clima di lavoro dell’autentica pratica fi­ losofica; ovviamente il platonismo, con la sua dottrina delle belle ossessioni e della sobria ebrietas (ovvero so­ bria ebbrezza), ha pur sempre stretto un compromesso della critica con l’entusiasmo, per quanto tali concessioni possano risultare estranee all’asciutta essenzialità delle scuole successive. In quanto opera di chiarificazione, la filosofia non poteva far altro che abolire l’incanto delle

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vecchie concezioni religiose dell’anima e i rozzi miti degli dei; però, nella misura in cui i suoi adepti chiedevano di impegnarsi su un bene altissimo e incondizionato, essa ha posto contemporaneamente in opera un nuovo in­ cantesimo attraverso l’universale vivente. Solo laddove tale più elevato incanto è fallito - quasi con l’impressione che la pratica argomentativa crei più problemi di quanti ne risolva - sono sorte la scepsi e l’inerzia analitica; poi, la riflessione continua e intensiva ha potuto divenire persino sintomo di malumori schizoidi; questi, al posto delle radiazioni che promanano dal Vero-Buono-Bello e si dirigono per ogni dove, vedono solo desolanti toni di grigio. Di fatto, già la filosofia tardo-antica ha fornito gli argomenti per provare disgusto e noia nei suoi con­ fronti. In ciò, l’accademismo degli antichi è imparentato con quello dei nostri contemporanei. Nella sua ottimistica infanzia, l’educazione filosofica intendeva operare niente meno che una trasformazione dell’anima o dello spirito degli individui; si proponeva di tramutare confusi bimbi di città in maturi cittadini del mondo, barbari interni in civilizzati abitanti dell’im­ pero, ebbri detentori di opinioni in temperanti amici del sapere, schiavi malinconici delle passioni in perso­ ne capaci di un sereno autocontrollo. All’esordio della pedagogia europea c’è stato un tempo in cui la parola scuola aveva abitualmente il significato di scuola della raffinatezza. Di quest’ambizione insita nel progetto filo­ sofico originario la moderna espressione educazione re­ stituisce appena qualcosa; nemmeno la concezione che attualmente abbiamo della filosofia - se con ciò s’inten­ de il funzionamento di una facoltà piuttosto scontrosa e i discorsi senza fine di una subcultura d’invidiosi atle­ ti del pensiero - riesce a evocare la solenne serietà del piano platonico: prendere le mosse da una scuola capa-

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ce di ridefinire il senso dell’essere uomini. Va a inculo di storici delle idee come Paul Rabbow e Pierre I luiloi l’aver protestato contro il fraintendimento intellctlua listico e cognitivistico moderno della filosofia antica, per ricordarne invece il costante pathos autoeducativo. Una filosofia che non avesse agito come esercizio di tra sformazione (askesis) sarebbe stata considerata dai suoi antichi sostenitori una fonte del sapere sospetta. Dioge­ ne di Sinope chiese ad Alessandro Magno di non frap­ porsi fra lui e il sole e con ciò venne raggiunto lo scopo dell’esercizio. In questo senso, le sagge pantomime del cinismo sono all’altezza della gaia loquacità del platoni­ smo. All’uomo di Sinope appartiene la metà di tutto ciò che l’espressione “dottrina non scritta” può significare. Indubbiamente, da Socrate e da Platone in poi la fi­ losofia mira al disinganno. Di conseguenza, le nuove scuole premono contro le sempiterne abitudini della semiveglia. La temperanza è sempre la condizione più moderna e meno probabile; le vecchie ubriacature col­ lettive non hanno ancora perso la loro forza. In effetti, i filosofi ateniesi non avevano alle spalle unicamente i loro colleghi arcaici - gli sciamani e gli iatromanti, gli indo­ vini-guaritori dell’antichità greca - ma anche i rapsodi omeridi e i poeti-teologi dei culti dionisiaci. Rompere con loro ha costituito la missione storica della filosofia. Dopo Socrate tutti i filosofi sono nouveaux philosophes-, devono essere nuovi, in quanto sono coinvolti nella ri­ voluzione dei media della cultura scritta e della retorica cittadina. Di conseguenza, agiscono come rappresentanti di un rivolgimento epocale negli antichi rapporti di sa­ pere. Reagiscono al fatto che in futuro ogni pensatore dovrà diventare scriba del proprio pensiero. I discorsi dell’essere, di Dio e dell’anima - ontologia, teologia, psi­ cologia - penetrano nelle righe che scandiscono il pro-

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gredire dei testi in prosa, ponendosi d’ora in poi anche come omografìa, teografìa e psicografìa. Le righe dello scritto filosofico sono vie discrete alla verità; sono le au­ tostrade di dati dell’antichità all’informazione assoluta. Presto, però, le righe si moltiplicano; le “vie” si allunga­ no indefinitamente in maniera preoccupante, così spesso da far dubitare che gli amici della sapienza acquisiscano ancora sapere durante la loro esistenza; non potrebbe darsi che questi bizzarri amanti dell’argomentazione posseggano infine soltanto biblioteche, e nessun lume? Come al solito, mentre il filosofo in quanto autore precede queste lunghe ed erte vie, emerge una nuova forma di autorità. E Tessere-autore, che si fonda sulla potenza psicagogica dello scritto. La famigerata polemi­ ca di Platone contro i poeti non è la manifestazione di un’avversione priva di senso artistico per le belle parole; è l’espressione di un’inevitabile concorrenza mediolo­ gica fra i nuovi discorsi temperanti su Dio, l’anima e il mondo da una parte e, dall’altra, l’antica arte rapsodica capace di indurre in trance nonché l’inebriante e con­ turbante teologia-teatro. Platone si spacciava, per così dire, per un intermediario di Dio che, attraverso di lui, annunciava il comandamento: “Io sono un Dio privo d’immagini; non avrai altri dei che cantano o poetano all’infuori di me”. Ora a fare la vera musica non sono più suono e verso, bensì l’argomentazione in prosa e l’indi­ rizzo dialettico dei pensieri. Sicché l’opera di Platone non segna unicamente la soglia epocale fra oralità e scrit­ tura; si situa pure al confine tra la più antica tradizione di pensiero musicale-rapsodica e la nuova acquisizione prosaico-comunicativa del sapere. Ciò che affascina nel testo platonico è che in esso - di­ versamente dai trattati aristotelici e dalla letteratura ac­ cademica nel suo insieme - si può ancora leggere, di

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regola, la prossimità con il modo di parlare dei saggi cantori e dei drammaturghi devoti. Per più di duemila anni il suono della filosofia rimarrà ancorato al tratta­ to-dissertazione in prosa, finché in età moderna (dopo un qualche preludio nella filosofia del Rinascimento, segnatamente con Giordano Bruno), con autori come Novalis, Nietzsche, Valéry, Sartre, prosa poetante e di­ scorsiva si riavvicineranno. Visto nel complesso, il mas­ siccio della filosofia classica fra Platone e Husserl è una delle più violente conseguenze della cultura scritta. In ciò sta una delle ragioni per cui proprio oggi - al crepu­ scolo di una rinnovata rivoluzione dei media - la nuo­ va lettura della nostra tradizione filosofica promette di divenire fruttuosa. Il mondo moderno compie, stando alla sua autointer­ pretazione, un ampio esperimento antiplatonico. Esso sembra divenuto possibile solo perché si è potuto rinun­ ciare alla fondazione del sapere e dell’agire nell’idea di sommo bene tipica dell’Europa preindustriale. Il prag­ matismo tecnologico dominante dell’età moderna ha ot­ tenuto campo libero solo dopo che le inibizioni metafisi­ che poste sulla via di una sperimentazione morale e fisica illimitata erano state rimosse o, come minimo, indeboli­ te. Sotto questo profilo, si può capire perché nella mo­ dernità regni sovrana una disinibizione antimetafisica. In essa sono intrecciate in maniera ambivalente liberazione e destabilizzazione. Le conseguenze dell’emancipazione dal fondamento metafisico - i decostruttivisti direbbe­ ro: dal fondamento-illusione - hanno doppiamente va­ lore; l’autorizzazione alla progettazione illimitata viene pagata con la scoperta di un’abissalità interiore. Se c’è oggi, da parte di così tanti contemporanei, un disagio profondamente radicato nella modernità, ciò ha a che fare indubbiamente con l’esperienza contraddittoria

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del continuo incremento di potenza e dell’inarrestabile perdita di sicurezza. Ove regna l’ambivalenza, i bilanci positivi riescono difficili. Cresce sempre più il numero di quanti, con motivi via via più fondati, dubitano che l’esperimento planetario dell’età moderna si possa an­ cora presentare come competizione globale; intanto, si è fatto evidente l’incremento dei rischi e delle perdi­ te. Se si volesse dare un nome alla regola che presiede all’ecologia dello spirito moderno, si dovrebbe mettere in chiaro perché la modernizzazione porti inevitabilmen­ te con sé un progresso nella coscienza dell’instabilità. Se si facesse in modo che tutti gli attori e gli spettatori del gioco moderno chiarissero tale aspetto, sarebbe anche evidente per loro come mai non si possa capovolgere questa tendenza con una fuga per tornare agli antichi fondamenti. Il fondamentalismo, che in qualsiasi par­ te del mondo odierno scaturisce dalla sfiducia nei con­ fronti della modernità, non può offrire altro che una struttura ausiliaria per chi è in cerca d’aiuto; si limita a produrre sicurezze apparenti ma è incapace di offrire soluzioni definitive; a lungo andare, manda in rovina le società infestate dalle droghe della falsa certezza. Come antidoto contro la tentazione fondamentalista conviene tornare ancora una volta a consultare il libro del sapere filosofico europeo e a seguire, pagina dopo pagina, riga dopo riga, le vie del pensiero classico - finché la brevità della vita ci consentirà di osare tali ripetizioni. La massima “Tornare a pensare” presuppone l’esorta­ zione a leggere di nuovo. Ogni “nuova lettura” che porti frutto si avvantaggia di quella rifrazione angolare e di quello slittamento delle prospettive che sono impliciti nel nostro guardare retrospettivamente alla tradizione, purché si scelga consapevolmente di essere contempo­ ranei degli attuali rivolgimenti nei rapporti di sapere

PLATONE

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e di comunicazione dell’emergente civiltà telematica planetaria. Non pochi segni indicano che le generazio­ ni odierne stanno attraversando un periodo di rottura nella forma del mondo, che per profondità e ricchezza di conseguenze non pare meno significativa di quella provocata dalla filosofia classica duemilacinquecento anni fa. Così, uno studio di quell’antica rottura potreb­ be ispirare anche l’intesa sull’attuale. Oggi non conseguiremo un sapere migliore senza par­ tecipare alle avventure che ci attendono nella revisione della nostra stessa storia. Un nuovo stato di aggregazio­ ne dell’intelligenza strapperà informazioni inedite an­ che alle vecchie scuole del sapere filosofico. Tornare a leggere Platone: ciò può significare mettersi a lavorare con Platone - e nonostante Platone11- all’aggiornamen­ to della nostra intelligenza.

A risto te le

Nel IV secolo a.C. il genio del pensiero scientifico eu­ ropeo si è fatto conoscere per la prima volta in monu­ mentale completezza. Stupefacente per la quantità dei suoi interessi, la mole dei suoi scritti, l’acume delle sue distinzioni concettuali, il busto di Aristotele si erge in mitica potenza all’ingresso dell’Alta Scuola europea del sapere. Guardando alla sua opera di pensiero e scrittu­ ra, s’impone l’idea che ciò che dal Medioevo in poi sa­ rebbe stata chiamata università sia stato prefigurato in un unico personaggio. Il cervello di Aristotele costituiva, per così dire, il senato accademico di un’università do­ tata di svariate facoltà. In lui s’incontravano - già sotto la presidenza della dottrina filosofica delle cose prime, detta pure teologia - le scienze della natura e quelle del­ lo spirito (posto che sia lecito parlare in maniera tanto anacronistica) in tutta la loro estensione. Di alcune di­ scipline - per esempio, la logica - Aristotele è stato in­ sieme pioniere e perfezionatore. Non fa meraviglia che la storia dell’università europea, nella prima metà della sua esistenza - quella medievale, lunga quattrocento anni -, sia stata allo stesso tempo la storia degli studi aristotelici latinizzati. Quando, in questo periodo, un teologo scoliasta si voleva richiamare all’autorità del grande Gre-

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co, lo poteva fare, senza rischio di venire frainteso, con questa locuzione: ut ait philosophus, cioè “come dice il filosofo”. Mai a un pensatore è stato reso un omaggio pari a quello tributato a Aristotele con questa formu­ la. Portata a termine l’evasione del pensiero moderno dalle prigioni dell’autoritarismo scolastico, fu di nuovo il nome di Aristotele - ora con un accento negativo - a marcare la tendenza; l’espressione “La fama: fu que­ sto il suo errore! ” potrebbe assurgere a parola d’ordine di un’indipendenza noncurante dei rischi nella nuova esplorazione di campi del sapere fin troppo assoggettati a vizi di scuola e sclerotizzati nelle loro formule. Guardando all’intera opera di Aristotele è facile ri­ conoscere che la “vita teoretica” - il tanto invocato bios theoretikos dell’antico amante del sapere - non può ve­ nire frainteso nel senso di un “tempo libero” moderna­ mente concepito. Ciò che in seguito i Romani avrebbero comunemente chiamato vita contemplativa spesso non era altro che la vita activa dell’indagine filosofica. La teo­ ria stessa si fonda sull’ascesi, sull’esercizio infaticabile, sull’impegno quotidiano su tutte le forze logiche e mora­ li. Certo l’ascesi intellettuale non è priva di un particolare piacere: quando, nella Metafisica, Aristotele dichiarava che tutti gli uomini tendono per natura alla conoscen­ za, generalizzava ciò che per lui era un’esperienza per­ sonale incessante, elevandola a tesi antropologica: nel suo movimento senza posa, l’intelletto attivo gode di se stesso. In questo narcisismo gnoseologico diviene ma­ nifesta una piccola somiglianza con Dio. Persino nelle sue più aride enumerazioni e nelle sue distinzioni più laboriose, il lavoro intellettuale di Aristotele testimonia un legame originario fra sapere e felicità. Talvolta ci si è chiesti se, in quanto educatore e mae­ stro di sapienza, Aristotele non si fosse compromesso,

ARISTOTELE

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non avendo ostacolato Alessandro (il cosiddetto “Gran­ de”). In questa domanda traspare la convinzione che la filosofia giunga al suo obiettivo solo quando ha trasfor­ mato qualsiasi volontà di potenza e superato ogni ambi­ zione maniacale. Ciò significa misurare lo scienziato con il metro del sapiente. La sapienza in senso entusiastico ed esoterico non era cosa di Aristotele. Per lui, il concet­ to di temperanza racchiudeva le umane possibilità. Da lui si potrebbe senz’altro imparare come intraprende­ re a regola d’arte ricerche logiche o empiriche, ma non come avvenga che ci si consuma in passioni confuse per rinascere in illuminato autocontrollo. Aristotele non è riuscito a fare del suo brillante e selvatico allievo quel re dei filosofi che Platone aveva visto in lui: dopo anni di frequentazione del più grande pensatore del suo tempo, in Alessandro rimaneva viva la convinzione che ci fosse qualcosa di più alto della filosofia. Per Aristotele, d’altra parte, c’era qualcosa di più importante del compito di tenere filosoficamente al guinzaglio il figlio, affamato di grandezza, di una testa coronata. Le avventure di Ales­ sandro in Egitto e in India potevano attizzare il fuoco di paglia dell’imperialismo macedone; per lui, logico e scienziato, le espressioni di curiosità di Alessandro, che dovevano essere portate avanti come tutto ciò che co­ stituiva la politica grande e piccola, erano all’ordine del giorno. In decenni laboriosi, Aristotele aveva creato un intero regno del sapere, la cui storia successiva, se la si volesse raccontare in maniera compiuta, come minimo farebbe parte dell 'epos delle scienze europee sino alle soglie della modernità. Una volta che il suo autore fu passato a miglior vita, l’impero aristotelico in libri doveva disintegrarsi nei re­ gni dei diadochi delle singole discipline. Come presso­ ché nessun pensatore prima di lui, Aristotele si era reso

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conto che l’edificio del sapere può essere consolidato solo come opera comune di svariate generazioni e che l’intelligenza come ricerca deve affermarsi e perfezionar­ si nel tempo. Da lui gli studiosi successivi hanno potuto imparare quale atteggiamento tenere davanti al succeder­ si delle generazioni scientifiche: consapevole gratitudine nei confronti dei predecessori, orgoglio discreto - ove giustificato da contributi nuovi e originali - con i poste­ ri. Sicché, anche per quanto riguarda la tradizione del sapere, Aristotele è un uomo della medietà. Tanto come naturalista quanto come studioso di etica ha celebrato il miracolo dell’essere nella continuità e nella normalità.

A g o stin o

Agli occhi dei posteri, Agostino è l’unico pensatore, fra quelli dell’era paleocristiana, cui sia stata dedicata un’ana­ lisi spirituale e psicologica minuziosa - probabilmente, si tratta anzi del personaggio dell’antichità cui è stata da­ ta in generale la più chiara visibilità: l’unico nella storia universale prerinascimentale di cui possediamo, per così dire, una gigantografia. Tale precario privilegio di chiara visibilità non significa che Agostino, benché palesemen­ te legato a concezioni antiche del mondo e dell’umani­ tà, abbia anticipato alcune tendenze dell’individualismo moderno o aspetti della moderna “cultura del ritratto”. Non è neppure un esistenzialista ante litteram. Che attra­ verso i propri scritti egli si sia consegnato senza riserve al mondo dei contemporanei e a quello dei posteri, non ul­ timo grazie a un’opera epocale come le Confessioni, che ne hanno fatto il fondatore di una letteratura impronta­ ta alla messa a nudo di sé, è conseguenza di un processo teologico, che il vescovo di Ippona ha intentato e vinto contro se stesso. Se di lui possediamo un’immagine così toccante e concreta, capace di restituirne la figura umana e intellettuale con perfetta profondità di campo, lo dob­ biamo soprattutto alla circostanza che Agostino stesso ha cercato di raccogliere gli indizi del proprio cambia-

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mento di vita e delle sue inclinazioni peccaminose come prove d’accusa contro se stesso, gettandole nel fuoco purificatore della confessione. E divenuto visibile e tale è rimasto, poiché si è preso sul serio come esempio di uomo che con l’aiuto di Dio ha finito col prendere Dio ancor più sul serio di se stesso. “Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuo­ va; tardi ti ho amato! ” Quest’abito di rinuncia a sé tra­ disce in quale misura Agostino - sebbene egli, in quan­ to teologo filosofo, sia rimasto obbligato fino all’ultimo alle direttive platoniche - si fosse allontanato dai mo­ tivi ellenistici della pratica filosofica originaria. Infatti, mentre l’ellenismo filosofico riceve la sua impronta dal sollevarsi dell’anima conoscente agli elevati concetti che essa osserva, nel discorso agostiniano su Dio e sull’uomo va imponendosi un’ambivalenza che non cessa di radicalizzarsi. Proprio quando conferisce i più alti ricono­ scimenti all’interiorità umana come vaso che contiene le tracce di Dio, Agostino si fa contemporaneamente trascinare in un vortice irresistibile che porta all’abbas­ samento dell’uomo sotto una maestà trascendente. A tale riguardo, la sua opera non segna unicamente, nella progressiva grecizzazione del Cristianesimo, quella fase latina in cui si è creduto di riconoscere il principio del­ la prima dogmatica. Il fenomeno Agostino è divenuto ineluttabile entro la storia delle idee e delle mentalità, giacché con lui il pensiero più toccante dell’antichità - l’interpretazione platonica dell’amore come nostalgia per il bene intuito precedentemente l’esistenza - si è visto superato da una nuova e più cupa interpretazione cari­ ca di conseguenze: un vero e proprio capovolgimento. Per i platonici la discesa dell’anima spirituale nei corpi porta a un offuscamento della memoria, da cui l’anima incarnata si solleva nella misura in cui sa corrispondere

AGOSTINO

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alla propria vocazione a purificare e affinare dentro di sé il ricordo del bene. L’anima dell’agostinismo, dalle tinte assai meno solari, è invece macchiata da un’irri­ mediabile corruzione. Così, il suo lavoro per ricordare il bene supremo finirà nella disperata presa di coscien­ za dell’impossibilità di tornare con le proprie forze alla condivisione indistrutta della luce del bene. Questa svolta agostiniana - impossibile decidere se abbia il carattere di una scoperta (cioè di una conoscen­ za) o di un’invenzione (ossia di una proiezione) - porta alla catastrofe cristiana della filosofia. Apre un millennio contrassegnato da una malinconia più o meno palese, in cui la ragione umana non si riprenderà mai più dal trauma della propria unilaterale separazione dal som­ mo bene. Tuttavia, solo nel segno di questa irreparabile separazione da parte umana il motivo di un amore uni­ lateralmente raccolto in Dio può divenire soverchiante. Laddove la reciprocità è andata perduta e Tesser degno di amore dell’uomo si è dissolto nel nulla, ha inizio il re­ gno della Grazia. La filosofia ha saputo pensare la gra­ tuità e il dono; il regno della teologia, tuttavia, si stabili­ sce attraverso la Grazia come nuovo concetto chiave. La dottrina della Grazia serve a dare assistenza dogmatica all’umano senso di spaesamento sotto Dio. Agostino ha aperto le cataratte attraverso cui fluiscono nel pensiero europeo quelle che da allora sono energie masochistiche primarie; con una radicalità che lo ha davvero elevato al rango di una potenza superiore, ha innalzato l’umanamente inguaribile a motivo principale della propria interpretazione della realtà. Da quel giorno, semplicemente, l’amore non guarisce più, a meno che non si trat­ ti di amore divino, ripristinato e gratuitamente elargito attraverso Cristo; ma anche in quanto tale, l’amore ap­ pare segnato dalle ombre di una tormentata predispo-

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sizione al particolare; infatti, ora l’amore di Dio non ha più il carattere di un’inclinazione benigna che concede di essere condivisa universalmente e senza condizioni, bensì quello di una concessione della Grazia che cala dall’alto in maniera fortemente selettiva. Ove, infine, entra in scena l’uomo che ama solo uma­ namente - cioè l’egoista, che deve avere in mente sem­ pre solo se stesso e le proprie voglie - il tardo Agostino vede di regola lo stigma della perdita e la traccia di una colpa originaria che affonda più in profondità di qual­ siasi possibilità di cancellazione e di ogni successo cui l’uomo possa ambire. Si potrebbe dire che in questo modo Agostino abbia liberato la filosofia dalla sua anti­ ca costituzione maniacale e l’abbia posta sotto il patro­ cinio della depressione. Anche per lui l’uomo è già una passione vana; il motivo di tale vanità, però, non è, come sarà poi per gli esistenzialisti, la struttura assurda della conditio humana. L’uomo di Agostino conduce una vi­ ta perduta e sprecata, in quanto la macchia del peccato originale lo ha escluso da principio dal sentimento di protezione in Dio, sicché egli deve resistere fino all’ulti­ mo nell’incertezza della guarigione. Nell’opacità di Dio, stando a Agostino, l’insalvabile per l’uomo si salda in eterno con l’incerto. Ovviamente, per pochi esiste anco­ ra la pienezza della salvezza e il libero accesso alla gloria dell’Origine. Ma la naturale partecipazione dell’anima spirituale umana all’eccellenza del bene incondizionato non basta più a darle una ragione sufficiente per spin­ gerla a salvarsi autonomamente né a prospettarle il suo sicuro ritorno nel sommo bene. Nella sfera agostiniana anche i più devoti hanno ragione di dubitare sino all’ul­ timo della propria salvezza. Considerati questi scorci nella selettività di Dio, l’ot­ timismo intellettuale degli Elleni è condannato a nau­

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fragare. Sotto la malinconica meditazione di Agostino, l’autosufficienza di Dio cresce sino a diventare per l’uo­ mo fortezza inespugnabile, dove viene accolto soltanto chi, per un insondabile atto della volontà divina, sin da principio è rimasto nel novero dei non-perduti. L’ope­ razione fondamentale masochistica di Agostino scaturi­ sce dall’identificazione con un Dio verso il quale l’anima umana ha sempre torto e a cui deve dare incondizionata­ mente ragione, anche quando essa appartenga ai reietti. Così come un giorno Pascal scommetterà sull’esi­ stenza di Dio data la certezza della Rivelazione, Agosti­ no scommette sulla rassegnazione incondizionata data l’incertezza dell’elezione divina. La sua genialità psico­ logica si manifesta nel fatto che egli ravvisa nell’uomo un essere che, non disposto a rassegnarsi, mira all’autoaffermazione in rivolgimenti e postazioni di ritirata sempre nuovi. Proprio questa osservazione (che l’uomo non si arrende mai del tutto e senza secondi fini) ispira a Agostino il processo-tipo intentato contro le proprie velleità giovanili nonché contro le illusioni della maturi­ tà, quando aveva cercato di salvare la pelle rifugiandosi nel filosofismo cristiano. Come pubblico ministero di Dio, il terribile vescovo patrocinava la parte dell’accu­ sa contro di sé e contro tutti gli altri compagni di sven­ tura nella troppo umana autoreferenzialità. Lui, impu­ tato del peccato e della ribellione originali, metteva a nudo se stesso in tutti i nascondigli di una caparbietà incapace di rassegnarsi. Con ciò metteva allo scoperto che nell’interiorità dell’uomo abita non solo la verità, ma anche la causa della disperazione, la malignità nar­ cisistica, la corruzione lontana da Dio, l’impronta del separatismo satanico. L’opera cui ora Agostino dava inizio non era altro che quell’inquisizione fondamentale contro l’amor pro-

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prio dell’uomo che sarà fra le costanti della storia del­ la mentalità dell’Occidente antico: anche il verdetto di Fichte contro l’io finito entusiasta di se stesso, anche la schellinghiana analisi della libertà umana egoistica­ mente abusata, anche il detto di Dostoevskij sull’uomo come bipede irriconoscente, anche i più tardi teoremi di Sigmund Freud sull’autoerotismo umano, anche la critica di Jacques Derrida contro la parola che sente par­ lare se stessa, anche le lagnanze neoconservatrici contro l’individualismo di massa dei giorni nostri - tutto ciò appartiene alla storia dell’inquisizione antinarcisistica divulgata da Agostino e dai Padri della cattolicità. L’as­ sioma del processo contro l’uomo diviso e presuntuoso recita: deve riuscire sgradito a se stesso chi deve pia­ cere a Dio. La verità della verità è che essa deve essere terribile per le vittime. La modernità ha scoperto che l’uomo può riuscire sgradito a se stesso anche senza Dio. Verità e depres­ sione si dispiegano in una correlazione reciproca, che si può pensare senza il sadismo smisurato di Dio e senza la smisurata sua Grazia. I contributi di Agostino all’inter­ pretazione della separatezza dell’uomo dal fondamento buono e le sue acute decostruzioni delle umane auto­ protezioni sono ciò che garantisce ai classici cristiani un inesauribile pubblico di lettori postcristiani.

B ru n o

Nella magnifica sequenza di filosofi rinascimentali che hanno cominciato a sottrarre il pensiero europeo mo­ derno all’egemonia dell’onnipotente scolastica cristia­ na, si staglia imponente il profilo carbonizzato di Gior­ dano Bruno. Dal rogo romano, nel febbraio del 1600, il suo nome, ammantato di scelleratezza panteistica e di audacia cosmologica, è registrato agli atti dei martiri dello spirito libero moderno. Il suo destino postumo ha serbato un po’ del bagliore diafano e della cattiva sorte della sua vicenda personale. Dà l’impressione che i suoi sostenitori e interpreti abbiano razzolato nelle sue ceneri più di quanto abbiano letto i suoi scritti. In effetti, la storia del pensiero ha conosciuto pochi autori la cui fortuna sia stata determinata in tale misu­ ra da proiezioni e monopolizzazioni per gli interessi di simpatizzanti trasognati. Sicché la storia della ricezione di Bruno è - con rare eccezioni - la storia di una benin­ tenzionata debolezza di lettura; così, alcuni fra i suoi posteri bisognosi di sostegno hanno messo in bocca a Bruno ciò che lui avrebbe detto se solo fosse stato colui che si sarebbe voluto che fosse. Cercatori d’alleanze di ogni tendenza l’hanno utilizzato ai propri fini, a comin­ ciare dai gruppi di liberi pensatori, dagli anticlericali e

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dai panteisti; più di recente, un certo pietismo cattolico ha cercato di avvicinarsi a Bruno. Ci si spinge ad appa­ rire condannati al rogo insieme a lui, sì da sfruttare la sua aura di vittima. Tali atti d’invadenza sono forse un meccanismo tipico della storia dei filosofi dissidenti. In quanto motivati dalla mancanza di buonafede, essi si spiegano in gran parte con la circostanza che, dal XIX secolo, il latino è stato declassato a lingua morta fra gli europei istruiti, sicché i principali scritti latini di Bru­ no hanno giaciuto per lungo tempo sepolti come in una tomba. Chi intenda esporsi alla potenza e alla grandez­ za del pensiero bruniano nelle sue più imponenti mani­ festazioni deve anzitutto sforzarsi di liberare dalla sua cripta latina Bruno “il mago”, l’artista della memoria, il materiosofo, l’ontologo delle immagini e il maestro di metamorfosi che procedono in tutte le direzioni, sì da ripensare i suoi spunti alla luce del linguaggio odierno. Va a merito di Elisabeth von Samsonow (spronata non da ultimo dai lavori di Frances A. Yates, vera e propria autorità degli studi rinascimentali) l’aver cominciato a offrire al pubblico tedesco la possibilità di leggere alcuni scritti latini di Bruno che da lunghissimo tempo giace­ vano dimenticati. La sua opera documenta un aspetto misconosciuto nel mito della “Nuova era”: illustra il sor­ gere della modernità dallo spirito di una filosofia dell’im­ maginazione. Dopo la riscoperta delle dottrine bruniane circa la capacità costitutiva del mondo propria della “fantasia”, l’indolente tendenza degli storici delle idee a costruire il pensiero moderno a partire unicamente da Descartes si fa più discutibile che mai. Bisogna tornare all’universo di Bruno, Shakespeare e Bacon per ritrova­ re la chiave di tesorerie in larga misura sconosciute agli albori dell’età moderna. Come pochi altri pensatori pri­ ma di lui, Bruno si è immerso nella cosmodinamica dei

BRUNO

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ricordi. Con le sue intuizioni circa la natura e la funzio­ ne della memoria egli può assurgere a contemporaneo di quanti oggi si piegano a esaminare il cervello umano come se fosse l’asilo dei misteri dell’Universo. Avendo sottolineato il carattere artistico di ricordo e memoria, rappresenta il primo filosofo dell’“arte” della modernità. E arrivato il momento di soffiar via le ceneri dai mano­ scritti di Bruno, così che si sprigioni ciò che solo fa onore a un pensatore che era altresì maestro di prosa italiana e latina: la vivida letteralità dei suoi pensieri autentici.

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D e sc a rte s

Poche età nella storia del pensiero sono divenute estra­ nee all’uomo di oggi quanto il XVII secolo, che i libri di storia di solito presentano come il periodo di fondazione della filosofia moderna. Di fatto, è pressoché impossibi­ le per i figli o i pensatori di epoche più tarde calarsi in un tempo in cui figure come Francis Bacon, René De­ scartes e Thomas Hobbes erano ancora “filosofi nuo­ vi”. Abbagliati dalla potenza storica degli impulsi che si sono associati ai nomi di questi grandi, riusciremo ap­ pena a guardare nuovamente in maniera spregiudicata a un’epoca in cui ciò che in seguito sarebbe stato noto comunemente con il nome di “progetto della moderni­ tà” era poco più che un animato scambio di lettere fra qualche dozzina di corrispondenti. Le illusioni ottiche della storia fanno apparire ciò che all’inizio era semplicemente un superbo presentimento dell’intima connessione fra potere e metodo come irru­ zione nell’epoca della presa di potere tecnologica. Al­ le meraviglie di quello stesso XVII secolo appartengono anche le doti quasi-mitiche dei suoi autori eminenti; i loro tentativi sono stati riconosciuti come atti fondati­ vi e i loro programmi come svolte epocali. Ben presto quest’abito mitologico è stato zelantemente adottato dal

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conservatorismo nemico della modernità, sicché il nome di Descartes è potuto assurgere a simbolo della frivola deviazione di un’umanità troppo sicura di sé dall’ordine delle cose voluto da Dio. Non per nulla la Restaurazione del X IX secolo ha voluto annoverare Descartes - le cui opere, nel 1663, erano state incluse dalla Chiesa Catto­ lica nell’Indice dei libri proibiti - fra i progenitori della Rivoluzione francese, come se vi fossero solamente due o tre passi dalla fondazione del pensiero nel principio del Cogito alla disgregazione di tutte le cose. Ovviamente, il mondo di Descartes non è quello della rivoluzione bor­ ghese, bensì quello delle guerre fra le varie confessioni cristiane. Anche il pathos con cui nei suoi scritti fonda­ tivi tracciava la distinzione fra certezze e probabilità era alimentato dalla lezione - con tanto di supporto visivo che la guerra civile religiosa impartiva ai contemporanei. Infatti, cosa è stata la Guerra dei Trent’anni fra partiti confessionali (che si è svolta tutta quanta nel periodo di attività di Descartes) se non la lotta delle mere proba­ bilità che dai seminari teologici erano balzate sui campi di battaglia? Contro questi servizi armati del fanatismo delle pro­ babilità Descartes ha professato la sua fede nell’evidenza assoluta e nel passo sicuro e pacifico del proprio metodo. Laddove metodo ed evidenza hanno ottenuto la supre­ mazia, come il filosofo lasciava intendere, il furore ar­ mato della fede e la presunzione delle posizioni dovreb­ bero sgombrare il campo, e ciò che rimarrebbe dopo la fine della guerra delle imprecisioni non potrebbe ideal­ mente essere che l’avanzata pacifica di tutti gli spiriti amanti della verità sulle strade rese sicure della ragio­ ne regolata e capace di legare insieme le cose; la grande idea di Descartes era trasferire il pensiero in uno spazio che non conoscesse liti.

DESCARTES

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Nella storia del pensiero non c’è alcun altro autore per cui la parola “metodo” sia carica di tante promesse come per Descartes. Nelle armoniche del nuovo pensie­ ro della precisione risuonano, chiaramente percepibili, vibrazioni pacifiste: esso è sinonimo, insieme, di sicurez­ za di sé e solidarietà, di generosità e spirito d’iniziativa. Nel suo concetto di metodo Descartes ha reso universal­ mente nota la propria condanna della zavorra dogmatica delle università aristoteliche. Con eleganza e senza auto­ ritarismi, la riflessione cartesiana ha respinto le pretese della tradizione e dei suoi professori: chi ha la forza di cominciare daccapo non deve più dialogare con i morti; chi volta pagina è temporaneamente sollevato dal col­ loquio con la storia. Con questa convinzione, il nuovo filosofo non trovava più gusto a partecipare ai tornei di argomentazioni di un’impotente e autoreferenziale cul­ tura sorboniana che aveva perso da tempo il contatto con le arti e con le botteghe di artigiani e commercian­ ti. Con la parola “metodo” Descartes ha spalancato le porte al futuro, e questo si è rivelato un tempo in cui le rafforzate capacità umane esigevano di essere poste su un nuovo fondamento logico e morale. E stato come se con ciò Descartes avesse forgiato un’autonoma nobiltà di metodo a fianco della vecchia nobiltà di sangue e spada e della più giovane noblesse de robe - nobiltà di meto­ do che reclutava i suoi membri in tutti gli strati, purché i suoi appartenenti si fossero trovati pronti a giurare su chiarezza e distinzione. Il carattere antifeudale di questo gruppo di nuovi individui “capaci” era indubitabile sin dall’inizio. Anche se Descartes, nobile filosofante, non ha mai fatto sorgere il minimo dubbio circa la sua dop­ pia coscienza nobiliare (quella ereditata e quella che si era forgiato da sé), le generazioni successive di intellet­ tuali borghesi hanno riconosciuto in lui un loro alleato

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naturale. Dalla cartesiana nobiltà di competenza è sorta quella classe di spiriti pensanti in maniera autonoma e spregiudicata che dalla prima età moderna hanno costi­ tuito il fermento critico della vita intellettuale europea. Ancora oggi, e non senza motivo, il mito del carattere nazionale razionalistico dei francesi si richiama ai pri­ vilegi cartesiani della distinzione. Come evento nella storia del pensiero, Descartes se­ gna una radicale riforma monetaria della ragione. In un’epoca d ’inflazione galoppante dei discorsi - inne­ scata da sfrenati meccanismi allegorici e dal proliferare dei giochi di parole dei teologi - egli ha creato un nuo­ vo criterio di lavoro per i discorsi dotati di senso, basato sul sistema aureo dell’evidenza. La necessaria penuria di tale valore risulta dalla condizione che a proposizio­ ni vere debbano sempre far seguito da una parte orien­ tamenti buoni e dall’altra macchine utili. “Non essere utile ad alcuno significa non avere alcun valore”, spie­ gherà l’autore del Discorso sul metodo. Se il nome di Descartes è rimasto controverso per secoli, lo si deve soprattutto al fatto che come pochi altri simboleggia la vittoria degli ingegneri sui teologi. Ha spianato la strada a un pensiero che si apre senza riserve al compito epocale della costruzione delle mac­ chine. A buon diritto le forme d’intelligenza che non si dedicano alla costruzione di macchine si sentono smi­ nuite o disconosciute dagli stimoli cartesiani. Come in­ ventore del mito analitico, Descartes ha, per così dire, creato la metafisica della costruzione delle macchine, cominciando a scomporre tutto quanto l’ente nei più piccoli elementi semplici e cercando di esporre le rego­ le che presiedono alla loro composizione. Vincolando interamente il pensiero al moto di andata e ritorno di analisi e sintesi, ha dato alla ragione una forma adatta

DESCARTES

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all’ingegneria e le ha tolto il vecchio ozio contemplati­ vo. Ora i pensieri divengono forme interiorizzate di la­ voro e persino la vita dello spirito viene indirizzata al­ la produzione di cose utili. Tuttavia, sarebbe sbagliato credere che la convinzione meccanicistica cartesiana di fondo avrebbe dovuto portare per forza a una spaccatu­ ra con la tradizione teologica. Proprio nel nuovo inizio metodologico del pensiero scientifico il fondare si rive­ la come attività propriamente metafisica. Ma poiché nel grande razionalismo filosofico soltanto Dio può offrire il fondamento dei fondamenti, la filosofia moderna di tipo cartesiano rimane sospesa fra teologia e teoria delle macchine. Non per niente i grandi architetti di sistemi dell’idealismo tedesco hanno celebrato in Descartes il loro precursore. Per costoro come per l’eminente fran­ cese l’atto del fondare coincideva con la devozione del pensiero. Ma che la coscienza fosse stata portata nella funzione del fondare era proprio ciò in cui consisteva la modernità dell’approccio trascendentale. Solo con la dissoluzione della posizione fondamentale della filosofìa della coscienza, nel XX secolo, l’universo di Descartes è stato completamente consegnato alla storia. La sua ope­ ra rimane testimonianza attuale di quel sovrapporsi di scienza e meditazione che oggi più che mai conferisce al pensiero filosofico la sua precaria dignità.

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P a sc a l

Per chi, attraverso autori come Goethe e Nietzsche, è stato educato a un pensiero di affinità e ostilità elettive nel corso delle epoche, la Pascal-Renaissance del XX se­ colo si presenta come uno degli eventi di ricezione più coerenti nella recente storia delle idee. Dall’ovvio al ne­ cessario c’è solo un passo, ed era inevitabile che, durante la prima metà del secolo, i pensatori dell’esistenzialismo cristiano e non cristiano subodorassero in Pascal l’ani­ ma gemella. I suoi malumori non hanno forse precorso il nostro tempo? La sua malinconia non era già quella tipica di una più tarda modernità stanca di lumi? E il suo discorso sull’uomo non era anch’esso congeniale all’esperienza che di se stessa aveva una civiltà che, nel secolo appena trascorso, come mai prima di allora aveva insegnato all’uomo cosa significa aver paura: di se stes­ so così come della degenerazione dei suoi progetti per il raggiungimento di scopi elevati? Se Pascal, con indimenticabile prodezza linguistica, parlava dell’uomo come di una canna pensante, chi mai non avrebbe potuto vedere in ciò l’emblema della no­ stra rinnovata fragilità? E se trattava l’uomo come un re spodestato, chi non avrebbe pensato ai grandi pro­ getti sociopolitici del nostro tempo e alla fine delle so-

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vratensioni demiurgiche? Fra le maschere di carattere della nostra epoca si trovano il creatore di storia detro­ nizzato e il fiturgo (ossia il creatore della natura) ridi­ colizzato - due figure che paiono uscite dalle sentenze antropologiche pascaliane. Tuttavia, la sua stupefacente accessibilità - almeno in alcune parti dell’opera - non si può attribuire solo alla circostanza che i suoi accenti protoesistenzialistici avrebbero facilitato appropriazioni proiettive grazie a più tardi spiriti affini. Pascal entra pure nello spettro degli interessi revisio­ nistici radicali, cui preme ripensare in termini decostruzionisti, a partire da posizioni di fondo vitalistiche o di critica del soggetto, la cattiva sorte cui è andata general­ mente incontro la storia delle idee platonico-cristiana. Nietzsche ha mostrato come, proprio di fronte alle più grandi personalità del Vecchio Mondo, tale rapporto di ostilità elettiva sia inarrestabile: con una potenza figurati­ va che sfiora la violenza, l’arcidecostruzionista Nietzsche ha sfidato a duello su un campo di battaglia transepocale i fondatori della moralizzata concezione metafisica del mondo: Socrate, Paolo e Agostino. In questo scontro fra titani, Pascal viene evocato come compagno d’armi, giacché in lui Nietzsche scorge la reincarnazione più al­ ta, sul terreno della modernità, del genio agostiniano. Come il suo eminente predecessore, Pascal rappresenta quel tipo d’intelligenza che è abbastanza orgogliosa da essere permeabile a umiliazioni. Solo facendosi carico di pretese sufficientemente elevate lo spirito può ritro­ varsi di fronte all’esperienza del fallimento in sé. Traen­ do ispirazione dalle intuizioni agostiniane circa l’umana condizione di lacerazione, Pascal ha preso le mosse da una nuova misurazione delle dimensioni della grandez­ za e della miseria dell’uomo. Qui egli non solo ha ini­ zialmente smascherato la correlazione di conoscenza e

PASCAL

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interesse ancora presente nelle attuali costellazioni di­ scorsive, ma ha pure messo in luce la classica dialettica fra accrescimento del potere ed esperienza sempre più intensa dell’impotenza. In ciò più profondo e discreto di Descartes, Pascal è assurto a progenitore della mo­ dernità. Ma, mentre il primo si rivolge ai suoi lettori con spirito mattutino [morgendlicher Stimmung] e con innovazioni programmatiche, il secondo è piuttosto un autore per lettori notturni e un complice delle nostre lacerate riflessioni intime. L’avversione prolungata di Nietzsche per il melanco­ nico matematico cristiano è un’attestazione tanto elo­ quente quanto (entro certi limiti) meritata delle forze di questo autore. In Pascal, Nietzsche ha scoperto ciò che è maggiormente degno di stima in un uomo di spirito: quel senso di rettitudine intellettuale che potrebbe an­ che rivolgersi contro i propri interessi: fiat veritas, pereat mundus. Ma allo stesso tempo vede in lui ciò che identi­ fica con il pericolo più grande: l’inclinazione al miserabilismo, ad abbandonarsi a una debolezza affermativa. Se il non cristiano vuole farsi convincere dal paradosso di Cristo, dovrà guardare soprattutto ai passi in cui Pascal pronuncia la sua ultima parola sulla condition humaine: di fatto, con il suo discorso del désir de dominer nella Quattordicesima Provinciale, Pascal non ha forse antici­ pato il teorema nietzscheano della volontà di potenza? Se invece si tratta di recuperare, per l’uomo del fu­ turo, le possibilità di un amor proprio metafisicamente incontaminato, allora Pascal non è un alleato, bensì un degno avversario che molto può insegnare. Egli resta compagno irrinunciabile di tutti coloro che vogliono che la comprensione di sé preceda l’amore di sé. Con intensità quasi arcaica, Pascal incarna il conflitto fondamentale della modernità: la contraddizione tra spirito

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operativo e spirito meditativo. Se il moderno sistema delle scienze potesse avere qualcosa come una coscien­ za, Pascal dovrebbe esserne la cattiva coscienza, giac­ ché la sua opera testimonia come acume e profondità potrebbero essere una cosa sola. Con Thomas Hobbes, Jean-Baptiste Racine e John Milton, il busto di Pascal si erge all’ingresso del mondo moderno come una figu­ ra oscura, attraversata dalle crepe delle sue riflessioni. Le ombre del suo temperamento pensoso hanno avuto tempo di calare sui posteri. I suoi paradossi hanno im­ presso sulla letteratura francese un marchio durato sino a oggi; se Jean-Paul Sartre era ostinatamente insofferen­ te verso se stesso per affrancarsi dall’inerzia del suo esser-così, se Michel Leiris dichiarava di avere la fortuna di esprimere la propria cattiva sorte, tali manifestazioni e atteggiamenti si muovono entro uno spazio plasma­ to, fra l’altro, dalla generosa dialettica pascaliana. Se la storia del pensiero degli ultimi secoli consistesse in un resoconto delle congiunture dell’assurdo, il posto che Pascal vi occuperebbe sarebbe assicurato per sempre: è stato il primo dei segretari filosofici della disperazio­ ne moderna.

L e ib n iz

Dall’inizio del XIX secolo la percezione pubblica della filosofia in Germania viene modellata soprattutto attra­ verso due ruoli funzionali o maschere di carattere: quel­ la del docente universitario e quella del libero scrittore. Con l’idealismo tedesco, una costellazione di professori è venuta a occupare il firmamento della grande teoriz­ zazione; ora, nello stato tardo-feudale, idealisti di ruolo suggellavano l’unità precaria di trono e filosofia. Con fi­ gure del rango di Kant, Fichte e Hegel, il tipo dell’ordi­ nario di filosofia giungeva a posizioni dominanti nella repubblica dei dotti; il principato teorico gnosticizzante retto da Schelling ha offerto un modello per futuri profeti in cattedra. In netto contrasto tipologico e ideoecologico con ciò, gli autori filosofici hanno sviluppato, soprattutto nel periodo immediatamente successivo al marzo 1848 e in età guglielmina, nuove strategie per la comunione letteraria e politica con il loro pubblico at­ traverso i mercati delle idee a loro contemporanei. Come liberi scrittori, Schopenhauer, Stirner, Marx e Nietzsche hanno fatto il possibile per battere i professori con la filosofia degli autori. Se si guarda retrospettivamente al fenomeno Leibniz con questi occhiali tipologici, la sua figura appare cu-

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riosamente arretrata ed estranea al contesto. Il genio leibniziano, osservato dal punto di vista dei ritratti e dei quadri d ’insieme del XX secolo, cade in una lacuna tipologica in cui diviene pressoché invisibile - e se il pensiero contemporaneo non ha ancora saputo ripro­ porre in modo convincente un rapporto fruttuoso con l’opera del filosofo e scienziato, ciò è accaduto soprat­ tutto perché esso non comprende più il tipo Leibniz in quanto tale. Per capire opera e temperamento teorico del grande erudito alle condizioni che lui stesso ha implicitamente dettato, è necessario ricostruire il luogo tipologico ovve­ ro il campo su cui il massiccio leibniziano si erge in tutta la sua monumentale e multiforme maestosità. Nel cam­ po teorico di Leibniz si fondono due forze plasmatrici, che bisogna opportunamente evitare di ricondurre alla forma professorale o a quella letteraria dell’attività filo­ sofica. La prima matrice della leibniziana arte del sape­ re è la magia come scienza universale del Rinascimento, insieme con le sue propaggini barocche. L’universalismo di Leibniz, erroneamente promosso a “questione di ge­ nio” da una storia della filosofia romantizzante, indica in verità lo sgorgare di un ideale epistemologico-magico che dal XV secolo in poi si è fatto valere in numerose e potenti incarnazioni. Il fenomeno Leibniz è in succes­ sione tipologica con il mago del Rinascimento e con lo scienziato universale del barocco; tra i precursori che hanno modellato il polivalente entusiasmo per il sapere della prima modernità brillano i nomi di Giovanni Pico della Mirandola, Girolamo Cardano, Giordano Bruno, Athanasius Kircher; lo stesso Leonardo da Vinci va in­ serito nel sistema di parentele di queste personalità che tutto possono, tutto provano, tutto compiono. Era compito dello sviluppo scientifico della prima

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche LEIBNIZ

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modernità indirizzare su binari istituzionali questi im­ pulsi “faustiani”, le cui varianti selvagge tendono a sbia­ dire in ciarlataneria tipicamente moderna. Non a caso, fra gli obiettivi più importanti che Leibniz ha dovuto porsi come organizzatore scientifico c’era quello di da­ re un indirizzo transpersonale, fondando nuove acca­ demie, al progresso delle conoscenze. Dov’era magia doveva essere il Politecnico. L’incivilimento dell’uni­ versalismo attraverso l’accademizzazione richiederà sì, infine, la suddivisione in facoltà e la specializzazione, ma in Leibniz stesso la potenza dell’antico enciclopedismo magico permane discretamente eppure caparbiamente all’opera. Depone a favore dei suoi successi come ispi­ ratore delle moderne organizzazioni scientifiche il fatto che, subito dopo la sua morte, i posteri stentassero già a capirne il temperamento e il tipo. In quanto ultimo dei dottori faustiani, e insieme il più brillante e il più freddo, ha spianato la strada alla marcia trionfale di una scienza non faustiana. L’enigma tipologico di Leibniz non si esaurisce nel rimando alla sua posizione sovrana nella storia, ormai al crepuscolo, deU’enciclopedismo filosofico-scientifico; non indica soltanto la condizione del pensiero filosofico prima del definitivo differenziarsi delle varie scienze. Capire Leibniz prendendo le mosse da concetti filosofici moderni è difficile anche perché la maggior parte della sua attività intellettuale si è dispiegata in contesti pre- o semimoderni. Non senza secondi fini, i ritratti di Leibniz nelle storie della filosofia ufficiali lo mostrano mentre indossa la sfarzosa parrucca di corte. Questo dettaglio del suo aspetto fisico mostra in maniera essenzialmente vincolante la sua posizione sulla scena teorica dell’epoca. Di fatto, Leibniz è l’intellettuale di corte per eccellenza, e ciò non solo in funzione occasionale e opportunistica

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- come accade per esempio con Descartes, rimasto per alcuni mesi a disposizione della regina Cristina di Sve­ zia come compagno di conversazioni, o con Voltaire, corrispondente di Federico di Prussia o di Caterina la Grande. In Leibniz si condensa una fase della storia intellettuale europea oggi in larga misura dimenticata. Nel gioco intellettuale delle parti, egli interpreta solita­ mente il diplomatico che ama l’argomentazione, il cor­ tigiano della teorizzazione, il cameralista e consigliere del sovrano, il rispondente e il corrispondente. A stento si riesce a capire qualcosa dei caratteristici esercizi spi­ rituali di Leibniz, se non si tengono presenti le allean­ ze di corte, come sempre problematiche, fra potere e spirito, che erano alla base del suo agire pragmatico. Leibniz è il principe dei consulenti di corte, l’esemplare più elevato di una dimenticata arte della segreteria, che fra i signori degli stati territoriali e i loro dottori tesseva singolari rapporti saturi di teoria. Unicamente in tale contesto divengono comprensibili, nel profilo dell’at­ tività leibniziana, i tratti che non vogliono adattarsi ad alcun cliché filosofico posteriore: Leibniz come creatore di progetti e suggeritore nella politica estera degli stati minori, parte in causa e rappresentante in questioni di competenza delle teste coronate, autore di memoranda e arringhe in complicati affari giuridico politici, legitti­ mista e storiografo in questioni della casa di Hannover. L’effetto Leibniz ha potuto aver luogo in tutta la sua specificità solo perché questo intellettuale impegnato su molteplici fronti coincide con lo studioso universale: quel miracolo di poliatletica spirituale in cui l’intellet­ to del pensatore, felicemente irrequieto, avido di capa­ cità e concentrato in una pluralità di centri, esercitava il suo influsso in ogni direzione. Come un Re Sole del pensiero, Leibniz ha dato fondo a ogni energia in innu-

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merevoli comparti della ragione. Se mai il concetto di una filosofia di corte ha avuto un senso, ciò è avvenuto nel suo caso. Con buon diritto, nell’opera di questo fi­ losofo-diplomatico il concetto di prospettiva svolge un ruolo fondamentale. La sua serenità si ergeva a difesa di un mondo in cui le guerre di gabinetto della ragione potevano ancora venire arginate da un’incrollabile fidu­ cia nell’armonia. Nel loro ottimismo disciplinato, i suoi saggi metafisici rivelano un autore che sapeva di aver as­ sunto un incarico di rappresentanza diplomatica. Nella Teodicea Leibniz non si limita a sostenere la perfezio­ ne del mondo di Dio contro le obiezioni che l’infelicità umana vi oppone; con il brillante formalismo dei suoi argomenti, testimonia pure l’eccellenza di una condizio­ ne in cui Dio può schierare a difesa del proprio mondo come migliore dei mondi possibili il migliore degli av­ vocati possibili. Competenza in attività di ogni genere: secondo Leibniz è questa la maniera più sicura per imi­ tare Dio - colui che tutto lega insieme e tutto compie nella limitatezza dell’uomo. Definendo la soggettività umana attraverso un’atti­ vità competente e conoscente perfettibile all’infinito, Leibniz dà il suo contributo alla formazione del sog­ getto moderno in quanto imprenditore dell’ente nella sua globalità. La luminosità e l’amicizia spassionata del mondo leibniziano si fondano sulla circostanza che al suo soggetto è ancora lecito muoversi senza scrupoli come agente di una divinità assennata entro un Universo dalle molteplici prospettive, pieno di misteri che meritano di venire indagati. Nei mondi postleibniziani il rapporto di lealtà fra soggetto ed essere sembra distrutto e con la comparsa degli esistenzialismi, delle filosofie della vita e delle teorie dei sistemi il fraseggio ottimistico fra ragio­ ne soggettiva e oggettiva è andato perduto. Da allora,

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i soggetti si trovano coinvolti in guerre totali fra diver­ si tipi di ragione; in quanto agenti, sono agli ordini di maestà non comprese. Per la storia futura dell’umani­ tà sarà importante rigenerare con mezzi postleibniziani un principio deH’ottimismo (o almeno un principio del non pessimismo). In caso di successo, chi se la sentireb­ be di escludere che le prossime generazioni troveranno in Leibniz una delle fonti d’ispirazione più importanti?

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Con l’opera critica di Immanuel Kant ha inizio quell’azio­ ne parallela tra Rivoluzione francese e filosofia tedesca di cui già i contemporanei avevano notato il carattere di combinazione epocale. Di fatto, in entrambi i movimen­ ti (così come nella loro comune premessa: la Rivoluzio­ ne industriale ed economico-finanziaria dei secoli XVII e XVIIl) si compie il passaggio repentino a quell’epoca borghese che da allora si è guadagnata il diritto di por­ tare il nome di mondo moderno. Borghese la filosofia di Kant lo è per più di un aspetto: anzitutto si tratta di una filosofia civile, giacché rivendica l’emancipazione del pensiero filosofico dal controllo messo in atto dalla teo­ logia della religione positiva e rivelata. A tale programma Kant è rimasto fedele con consequenzialità esistenziale: quando, nel dies academicus, il corpo docente e quello studentesco dell’Università di Königsberg si trasferivano dall’Aula Magna alla chiesa per esibire, in tale occasione, l’unità della comunità accademica e di quella religiosa, Kant si premurava, in segno di protesta, di uscire dalla fila prima di raggiungere il portone di entrata della cap­ pella e, girandovi attorno, di imboccare la strada verso casa. Qui borghesia significa: nell’alternativa vichiana tra filosofia civile e monastica, scegliere quella civile; fino

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a che punto Kant prendesse sul serio tale questione, lo mostra non da ultimo la circostanza che, nello staccarsi da forme tradizionali di trascendenza monacale ed en­ tusiastica, egli cercava ostinatamente un soprasensibile borghese; e credeva di scoprirne il focus in quel libero agire morale dell’individuo che, senza essere motivato dal successo o dalla speranza, compie il giusto per me­ ro rispetto della legge morale - e per rispetto verso se stesso in quanto soggetto eminente di tale libertà prima di ogni altro ente. Il pensiero di Kant è borghese per un secondo motivo: esso si articola al confine tra la comune degli accademici e il pubblico in genere e, anche nelle sue parti tecnicamente più difficili, fa appello - almeno potenzialmente al consenso criticamente ottenuto, che deve risultare dal colloquio su oggetti pubblici fra gli individui razionali. Se Kant si presenta come scrittore, lo fa nell’aspettativa francamente ingenua che l’assemblea della società bor­ ghese attorno al Libro profano si ripeta anche con la ri­ cezione dei suoi scritti. Qui “borghesia” assume il signi­ ficato di “repubblicanesimo dotto”. Il momento storico di Kant, dunque, non coincide soltanto con la data di nascita della società borghese in senso politico; la sua opera cade pure nell’età d’oro dell’era Gutenberg; re­ cita una parte nella Geniezeit kantiana documentando come il “leggere da sé” della Riforma si sia dispiegato nel “pensare da sé” dell’idealismo classico. C ’è poi un terzo senso in cui il pensiero di Kant è de­ terminato da una fondamentale borghesia: Kant non concepisce la posizione dell’uomo nel mondo né come cosmopoliteia nel senso dell’antica dottrina della sapien­ za né come creaturalità sottomessa a Dio nel senso del­ la teologia medievale; l’uomo kantiano è radicalmente congenere, perciò cittadino del mondo. Ovviamente,

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il mondo-polis di Kant non è, al contrario dell’antico, il risultato di una trasposizione delle rappresentazioni d’ordine della città sull’Universo; esso scaturisce piut­ tosto dall’applicazione dell’idea di libertà e autonomia alla totalità degli esseri dotati di ragione, ossia il genere umano su scala universale o globale così come gli euro­ pei non potevano fare a meno di concepirlo dopo l’epoca delle scoperte e delle colonizzazioni. L’essere cittadino del mondo in senso kantiano finisce quindi col diven­ tare la prosecuzione della santità cristiana con i mezzi del diritto borghese e di quello internazionale. A ogni individuo razionale si richiede non solo di fungere da elemento utile della propria società nazionale ma anche e soprattutto di preservarsi come funzionario della spe­ cie dotata di ragione; trovare la forma di vita politica di tale specie è un compito che rimane sospeso all’infinito dinanzi a coloro che sono capaci di ragione. I “cittadi­ ni del mondo” di Kant sono santi in finanziera e, come i loro predecessori nelle arene romane, devono impie­ gare la propria vita per realizzare il regno della ragione. Non a caso fra i neokantiani si trovavano anche socialisti logici e teocrati logici: i santi del “come se” del mondo moderno. Sono gli atleti della coesistenza razionale con tutti gli altri membri della specie. La pax kantiana riuni­ sce la comunità mondiale degli individui razionali quasi come in una chiesa minimalista. E la chiesa dei soggetti maggiorenni, che recitano le loro teorie critiche come se si trattasse di confessioni. Sotto le ceneri della bene­ volenza scettica, covano in Kant le braci del fondamen­ talismo della ragione. Nella loro religione civile, i santi devono trasformarsi in giuristi e gli eroi in parlamentari. Infine, la borghesia di Kant va discussa sotto un quar­ to rispetto: Kant è il cofondatore di un nuovo genere fi­ losofico, l’antropologia, il cui compito è parlare dei fon-

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damenti pre- ed extraborghesi dell’umanità dalle vette borghesi: essa tratta dell’uomo nella sua determinatezza in quanto specie e della sua condizione in quanto ente di natura. Da Kant in poi essere antropologo significa non interpretare più l’uomo in maniera diretta attraverso il non umano (l’animale) e attraverso il sovraumano (la divinità). L’antropologia in stile moderno diviene pos­ sibile solo dacché si è tenuto conto del fatto che l’uomo è quell’iperbolico animale domestico che - purché ac­ cetti ragione - deve prendersi cura da se stesso del pro­ prio allevamento. Non può più venire determinato da una presunta disciplina disposta da Dio o da un ipote­ tico dettato di una natura immediata; per usare un ana­ cronismo, è condannato all’educazione di se stesso. Ciò vale tanto più in quanto la predisposizione al male radi­ cale si trova anche e soprattutto nell’uomo emancipato. Per Kant il paternalismo divino è tanto insopportabile quanto l’invadenza della natura istintuale del soggetto e, a suo parere, il concreto emanciparsi su entrambi i fronti pone l’uomo soltanto nella medietà borghese in quanto luogo della libertà: da nessun’altra parte l’indi­ viduo può dedicarsi con successo alla propria vocazione all’autoformazione spontanea. La passione di Kant è riportare le passioni ai rapporti di massa borghesi e abolire ogni cristallizzarsi in inces­ santi autoaffermazioni. Egli rappresenta il pensatore più rilevante della modernità poiché proprio tale epoca ha voluto imparare a presentarsi nelle fogge di una finitez­ za civilizzata. Non per niente nel vocabolario di base del pensiero kantiano troviamo la parola confini. Dopo Kant, quel pensiero che conosce non il modo per cancellare la metafisica, bensì quello per sostituirla, si chiama pensie­ ro postmetafisico. Di fatto, il mondo moderno apre l’era della sostituibilità - o, in termini attuali, dell’equivalenza

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funzionale. La sostituzione della metafisica messa in at­ to dallo stesso Kant ha l’aria di un buon affare: anziché condividere ricchezze apparenti come incerto vassallo dell’assoluto, il maestro di Königsberg ha deciso di ge­ stire come padrone di casa autonomo un patrimonio fatto di chiarificazioni. Talvolta questo atteggiamento è stato scambiato per rassegnazione di fronte a pretese maggiori; eppure, nel cuore degli impulsi kantiani i trat­ ti caratteristici della rassegnazione non svolgono alcun ruolo. La sua bussola punta ostinatamente verso la so­ vranità e, come un saggio uomo d’affari che riorganizza il proprio patrimonio in un periodo di crisi, Kant ritira i suoi depositi dall’impresa della metafisica, che ormai non merita più credito, sì da investirli nei più solidi affa­ ri di accresciuta chiarezza. Servirsi del proprio intellet­ to come di un patrimonio inalienabile in un mondo ove il rischio di espropriazione è onnipresente: con questa massima Kant manifesta lo slancio con cui è disposto a imbarcarsi nell’avventura della chiarezza contro ogni istigazione alla povertà di pensiero e alla depressione.

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La filosofia è un’impresa destinata a rimanere senza frut­ to, se non riesce a destare a se stessa l’uomo nella sua globalità: nessun filosofo della modernità, a parte Martin Heidegger, ha insegnato questo concetto con altrettanto vigore e profondità di principi quanto Johann Gottlieb Fichte. Dopo di lui, al nucleo del pensiero occidenta­ le non è più giunto nessuno che, con una svolta tale da trasformare radicalmente l’esistenza, non si fosse pre­ liminarmente liberato della credenza nel predominio delle cose prima e fuori di lui. Devi cambiare la tua vi­ ta: è questo il cantus firmus di tutto il pensiero nel segno della moderna idea di libertà. Cambiare se stessi signi­ fica però soprattutto rinunciare a spiegarsi attraverso le circostanze. Fichte ha mostrato che cosa significhi insegnare l’idealismo in età borghese. Nei suoi “detti e scritti” si dispiega con sublime eloquenza, potenza delle distinzioni e lealtà fanatica a una vertiginosa idea di fondo, la nuova teoria della dignità della soggettività che trasforma ogni cosa. Nella potenza del suo discorso, la dottrina di Fichte illustra l’unità d’azione di analisi e appello, di argomento e iniziazione. Come studioso di logica, egli è sempre stato anche psicagogo; in quanto filosofo teoretico, è sempre stato anche agitatore e mae­

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stro di esercizi spirituali. Il creatore della “dottrina della scienza” ha lasciato ai posteri gli stimoli disorientanti di un profetismo argomentativo; così ha prodotto l’immagine complementare e vivace di quel calcolare letargico o sportivo con scorte di problemi, che dal XIX secolo in poi è inseparabile dalla fabbrica devitalizzata dell’istru­ zione superiore. Quando, a proposito di Fichte, si parla di genialità, s’intende molto più del mero riferimento al virtuosismo nazional-pedagogico dei Discorsi alla nazione tedesca, che il filosofo aveva tenuto a Berlino, a rischio della propria vita, sotto gli occhi della forza di occupazio­ ne francese. In quelle conferenze si era palesata la sua consapevolezza epocale di uomo che pareva sapere che contro uno spirito universale a cavallo poteva trovare rimedio soltanto uno spirito universale sul pulpito. Se Bonaparte era apparso sulla scena mondiale come fon­ datore di un impero borghese, sul palco delle idee Fichte aveva contrapposto la sua fondazione di un impero del­ lo spirito. In quest’antitesi trovano la loro causa ogget­ tiva alcuni cliché, tuttora in voga, circa la competizione tra materialisti francesi e idealisti tedeschi. La missio­ ne di esortatore di Fichte, da lui stesso scoperta e con­ temporaneamente giustificata, si radicava nel principio della sua stessa filosofia, secondo cui afferrare la libertà significa niente meno che una risurrezione dei morti di quei morti che, a suo parere, noi siamo già sempre, finché, intontiti dalla parvenza di un essere oggettivo e indipendente prima di noi, viviamo nell’idolatria della realtà esterna. Negli occhi dell’iracondo docente della libertà, il mondo borghese è, nel complesso, un regno dei morti: infatti, sui pensieri, sui motivi e sulle opere della stragrande maggioranza degli individui si allunga il velo dell’accecamento dogmatico e ontologico. Seguen-

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do il detto di Fichte, sarebbe più facile spingere chi vive nell’incantesimo di questo mortifero misconoscimento di sé a considerarsi un pezzo di lava caduto dalla luna anziché un uomo! Con l’irremovibile intervento di Fichte emerge poten­ temente, in tutte le sue conseguenze, un dilemma della comunicazione critico-morale nelle società moderne: come riusciranno a intendersi vivi vitali e morti in vita? Come possono mai rivolgersi agli alienati i non aliena­ ti? E i vivi non devono sempre dubitare di chi è irrime­ diabilmente morto? Sin dagli esordi della filosofia non vi è stata società, in Europa, che non abbia dovuto fare i conti con le provocazioni di una élite di vivi autentici, capaci di vera comprensione. La guerra civile fra spiri­ to filosofico e senso comune è una costante della storia del pensiero dell’Europa preindustriale. Ma laddove i sapienti “antichi” si chiudevano nella rassegnazione di­ nanzi all’immodificabile stupidità dei molti, i moderni, in quanto illuministi, devono passare al contrattacco pe­ dagogico. Con Fichte il fondamentalismo della vitalità cosciente raggiunge un rigore intransigente. Di fatto, sotto lo sguardo luciferino del filosofo l’in­ tera sfera sociale si presenta per la prima volta come mondo alienato - popolato da creature il cui poter es­ sere libere è stato tagliato alla radice dalle loro supersti­ zioni circa l’autonomo “essere precedente” delle cose: l’uomo alienato trascorre i propri giorni come schiavo del suo stesso asservimento a un complesso massivo e preordinato di fatti. Per lui la cosa indipendente è il si­ gnore; dove domina la cosa, regna la morte. Tuttavia, La dottrina della scienza - insieme con il suo supplemen­ to morale, Introduzione alla vita beata - è la tromba lo­ gica il cui suono chiama alla risurrezione dai sepolcri dell’oggettivismo. Chi vi presta orecchio può decidere

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risolutamente di aderire al partito della libertà. Il sog­ getto risorto può avvertire l’impulso a offrirsi volonta­ rio nella campagna della modernità morale, mediante la quale Xancien régime degli ostacoli interni ed esterni dell’umanità dev’essere rovesciato definitivamente; al suo posto dovrà sorgere e sorgerà un regno della liber­ tà che accompagna la ragione, non ancora realizzato in terra. Il futuro, così com’è proiettato dall’idealista, sarà morale e ragionevole, oppure non sarà affatto. Per Fichte non è ammissibile dubitare circa il convergere della ri­ surrezione logico-morale dei soggetti con la rivoluzio­ ne politica della collettività. Secondo la sua convinzio­ ne, anche l’epoca del peccato portato a compimento e dell’ostinata perseveranza nelle loro posizioni di tutti i veicoli d’errore deve avere la possibilità di giungere a termine, così come Formai superata costituzione feuda­ le della società, che ha sperimentato il proprio meritato tramonto nella Rivoluzione francese. Come scopritore della soggettività alienata, Fichte apre un’era di vigorosi progetti filosofici di emancipa­ zione, con i quali è stata chiamata in causa la grande politica dell’autenticità: laddove c’era alienazione, deve instaurarsi l’autenticità - si tratti dell’autenticità del col­ lettivo politico, che esamina e governa se stesso, oppure di quella di Dio, che prende forma in insegnanti strari­ panti e imprenditori morali. Impegnati per far nascere un mondo migliore: così suona l’imperativo categorico dell’idealista. Di fatto, ovunque la speranza si mantenga viva, le società moderne, a dispetto delle loro autonomie sistematiche, potrebbero costituire finalmente qualcosa come un’identità razionale, posto che non si abbia mai trascurato di frequentare Fichte, come alleato esplici­ to e implicito. Guardando retrospettivamente all’epo­ ca della grande politica morale, è facile riconoscere co­

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me tali speranze fin troppo elevate abbiano trascinato l’umanità in un ciclo di entusiasmi e disillusioni foriero di violenza. A quanto pare, dopotutto non siamo con­ dannati a essere liberi, bensì a chiarire le nostre illusioni circa la portata dei sogni libertari. Se il nostro tempo, a torto o a ragione, da più parti è definito come un’epoca di pensiero postmetafisico, ciò è reso possibile, fra l’al­ tro, dal fatto che, nel ricordare il processo bicentenario delle filosofie eroiche della libertà, abbiamo perso la fi­ ducia nella competenza profetico-morale di “maestri del pensiero” pronti all’uso della violenza. Certo, sarebbe eccessivo addossare ai grandi filosofi le colpe delle di­ sfatte della modernità. Tuttavia bisogna chiedersi che cosa vi sia di vero nel sospetto suscitato da un qualsiasi grande pensatore che sostenga la tesi: “Chi, nell’età del­ la tecnica, semina illusioni, raccoglie guerre mondiali”. Di fatto, per noi l’epoca delle ideologie o delle religio­ ni secolari è culminata in una scuola della disillusione: il privilegio maniacale della grande filosofia della storia consistente nella volontà di orientare il movimento del mondo basandosi unicamente sulla bussola di ragione e libertà si è infranto contro la forza delle circostanze. Perciò, una nuova cautela analitica o decostruttivistica - poco importa se essa segua vie psicologiche o semiologiche - deve trarre le proprie conclusioni dalle ombre di quelle ideologie che, in quanto entusiasmi che hanno ottenuto un potere planetario, sono coinvolte nella storia della caduta del mondo moderno. Giustamente, questa scepsi acquisita a caro prezzo - la si potrebbe chiama­ re postillusoria - può comprendere anche l’opera e la fama di Fichte, perché è lui il vero padre della sublime fallacia per cui la vita del genere umano avanza secon­ do un piano prestabilito, che dovrà sicuramente adem­ piersi perché deve farlo e non può evitarlo. Il significato

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sempre attuale di Fichte (lui stesso non si spaventereb­ be certo di fronte a un’espressione come immortalità!) non risiede dunque su di un piano storico-profetico. L’unità necessaria, da lui postulata, di ragione, morali­ tà e corso del mondo non impressiona più nessuno fra i nostri contemporanei. Per altro, ci siamo allontanati infinitamente dallo spirito di sacrificio tipico dell’ideali­ smo, per cui la persona dev’essere consumata in quanto medium di una ragione sovrapersonale. La grandezza di Fichte si mostrerà soprattutto a coloro che riusciranno a trovare la pazienza per immergersi nelle sue analisi, im­ pareggiabili quanto a lucidità, delle strutture della sog­ gettività. Solo dopo Fichte la domanda “Cosa significa in generale essere un io?” è divenuta una provocazione del pensiero essenziale. Perciò, Fichte rimane un ovvio alleato di tutti coloro che, anche sotto l’impressione della riforma tecnologica in atto di tutti i concetti di mondo e di vita, intendono orientarsi in base alla non indifferen­ za del fatto che io possa fare esperienza di me come un io. Proprio quando le sovratensioni delle dottrine del­ la soggettività autonoma sono state superate, risplende in tutta la sua chiarezza il mistero di come sia possibile l’egoità nella distratta totalità mondana. Nel bagliore di tale mistero non si spegneranno mai del tutto i lam­ pi dell’intelligenza fichtiana. L’io di Fichte è un’azione che stabilisce una legge morale: laddove l’io fa esperien­ za di sé, ciò significa che è impossibile essere poveri di spirito. Anche sotto l’ipotesi che Dio sia un concetto privo di senso, dall’egoità descritta con gli strumenti di cui Fichte ci ha dotati promana un impulso esistenziale imprevedibilmente ricco di conseguenze. Io devo pren­ dere il fatto della mia esistenza in quanto me stesso con tanta leggerezza e serietà come se il mio esser-io fosse l’ultima opportunità di Dio.

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Si dev’essere alla fine per poter dire la verità: questa con­ vinzione si trova intessuta ovunque nell’opera di Hegel, come un filo che è impossibile districare. Con essa Hegel ha elevato ad altezza monumentale il motivo di fondo della dottrina platonica della conoscenza: conoscere si­ gnifica ricordare; comprendere vuol dire ricostruire. Il pensatore, il cui sistema è stato a buon diritto definito il compimento della metafisica occidentale o platonico­ cristiana, è per sua essenza il metafisico del compimento. Dopo Hegel, pensare filosoficamente significa portare a casa il raccolto dell’ente; tuttavia, per definizione, a casa giunge solo ciò che nell’insieme può rendersi “casalin­ go”: lo spirito. In Hegel tale spirito prende tempo; esso ha una storia e la fa; scavalcando teste e salendo gradini entra nell’ultimo focolare domestico, presso se stesso; il vino della verità viene ricavato da vendemmie tardive. I momenti caratteristici di Hegel sono dunque l’autunno e la sera, la sua figura di pensiero preferita è la conclusio­ ne, il colore più intimo il grigio del crepuscolo. Sotto il suo sguardo, ogni contrada diviene un Occidente, ogni opinione deve entrare in un tabellone dei punteggi. Il sapere definitivo sorge a tarda ora, quando il concetto dell’esperienza vissuta si stacca per disporsi in bilanci

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per l’eternità. Aver vissuto è tutto. Sarà stata una vita ben spesa quella vissuta sino alla fine, se Tessersi lasciati alle spalle l’esistenza equivale a dire che lo spirito è giunto al pieno possesso di sé. Tale aspirazione a raccogliersi in pienezza indica che anche lo spirito di Hegel, nono­ stante tutta l’apertura appena guadagnata nei confron­ ti del divenire, termina in un tempo alla fine dei tempi. Se il divenire significa una scuola, questa deve porta­ re al termine degli studi; se è un processo, in esso non si può evitare il momento della sentenza. In questo senso, Hegel è il pensatore della maturità; la sua fenomenologia così come la sua enciclopedia offrono programmi per una ragione che deve seguire un certo curriculum. Solo in nome della maturità il senso storico e quello metafi­ sico si possono riportare a un comune denominatore. Quando lo spirito comincia a espandersi attraverso le epoche, ciò è solo per maturare in esse e prepararsi alla fine dei tempi e al tempo dopo la fine. Il nostro attac­ camento al provvisorio deve passare, finché tutto si sia trasformato in cenere e sapere. Con Hegel si svela il se­ greto della filosofia classica: pensare metafisicamente ha sempre significato pensare per compimenti. Hegel ave­ va il coraggio di dare una risposta autoreferenziale alla domanda sull’istante del compimento; ed essa suona: adesso. Per mezzo della dialettica la grandiosità riceve metodo. In virtù del suo sistema, Hegel credeva di es­ sersi immedesimato nel cuore atemporale del tempo. Lo spirito che parla attraverso la sua opera ha trovato una ragione per sostenere questa tesi: “Il mio tempo è matu­ ro; il processo planetario è stato messo agli atti nella sua globalità; oggi rimane da portare a termine ciò che ho cominciato tempo fa, quando mi dedicavo intensamen­ te all’Oriente”. Dov’era passione, ora è archivio. Tutto il pensiero precedente, pensato dal tardo hic et nunc di

HEGEL

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Hegel, appare come una preparazione e una continua­ zione per qualificare come assoluto il pensiero per sé. Se l’istante del compimento del sapere esiste, esso divide i tempi in un “finora” e in un “adesso e per sempre”. Il poter-essere-adesso è una funzione dell’essere-alla-fine. Ma laddove, attraverso Hegel, la metafisica si esprime in così elevata compiutezza, essa diviene altresì matura per venire interrogata da spiriti della contraddizione: possono mai semplici uomini, possono mai intelletti fi­ niti “essere alla fine” in un qualche senso importante? Possono costoro, spinti da ragioni che siano più di pre­ sunzioni esorbitanti, pensare di se stessi che proprio lo­ ro annunciano e incarnano la fine? Ciò che rende incantevole e terrificante la metafisica di tipo hegeliano è che essa trova ancora la forza di ri­ spondere a questa domanda con un Sì risoluto. Tale Sì divide la moltitudine dei mortali in coloro che partecipe­ ranno e coloro che non parteciperanno al compimento: una partizione dell’umanità che si può ritenere equiva­ lente a quella fra gli individui che comprendono Hegel e quelli che non ci riescono. Di conseguenza, Hegel e i suoi sarebbero quelli che partecipano al compimento del sapere. Sarebbero divenuti puntelli finiti dell’infinito giunto a sé, al riparo dell’interminabile fine della storia. Se anche la maggioranza dei mortali volesse aderire al provvisorio e se le loro esistenze volessero vegetare nella cupa foschia e nell’ostinazione, per il filosofo del compi­ mento rimane fuor di dubbio che il circolo autointerpre­ tativo dello spirito abbia preferito chiudersi in individui più elevati. Nella prospettiva di Hegel, tali eccezioni a quella “bassa statura” che rappresenta la norma umana sono giustamente individui della storia universale, in quanto funzionari e soggetti del compimento del mon­ do e del sapere. Dal punto di vista del compiere e del

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portare a compimento, il grande uomo di pensiero e il grande uomo d ’azione si coappartengono. In una scena onirica della sua Fiaba d’inverno, Heinrich Heine descri­ veva una figura mummificata che lo seguiva passo passo con una scure in mano: interrogato, il personaggio aveva tradito la propria identità con queste parole: “Io sono l’azione che corrisponde ai tuoi pensieri”. Nel sogno non diversamente che nella realtà, Hegel avrebbe potuto af­ frontare Napoleone il conquistatore e legislatore con la sentenza: “Io sono il pensiero che corrisponde alla tua azione” . Ciò significa semplicemente che, “nell’essenzia­ le”, la storia politica universale è giunta alla conclusione attraverso lo stabilirsi dello stato di diritto borghese post­ rivoluzionario. In esso prospererebbe il lento lavorio dello spirito per la libertà di tutti sino a fatto compiuto; il riconoscimento di tutti da parte di tutti verrebbe for­ malmente ultimato con l’acquisizione, da parte di cia­ scuno, dello status di cittadino. Evidentemente, nella misura in cui tale conquista doveva essere documenta­ ta con “nomi e cognomi”, Hegel era disposto a legare il nome del violento condottiero corso al proprio. Di fatto, su entrambi - malgrado notevoli differenze fra l’impero francese e la Prussia hegeliana - grava un presagio co­ mune: il definitivo affermarsi dello stato costituzionale. Dal punto di vista della storia universale, code civil fa rima con filosofia del diritto. Lo scintillare dei nomi di Hegel e Napoleone allo scontro decisivo nel pretenzioso racconto a lieto fine offerto dalla storia evidenzia come, dopo la Logica hegeliana, il singolare si riconcili con il generale: esaurendosi del tutto nelle loro missioni appa­ rentemente scollegate, i “grandi” recitano la loro parte nell’epopea dell’evento universale della libertà e della verità; portando all’estremo le proprie forze nell’arena dell’agire e pensare adeguato ai tempi, i singoli si tra­

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sformano in cristalli dell’assoluto; la loro vita risplende limpida sotto un cielo dei significati più elevati. Avere significato vuol dire qui: essersi conquistato, in quanto casuale, un posto necessario nel tutto. L’individuo emi­ nente è sempre un lavoratore nella vigna dei compimenti. Nella dottrina dei grandi, Hegel esprime l’essenza della propria teologia del particolare; sostituisce la nobiltà di spada del feudalesimo con una nobiltà di senso per la storiografia filosofico-borghese. Come, secondo la tra­ dizione giovannea, la parola si è fatta carne per fare da mediatrice fra Dio e il mondo, così nella dottrina hege­ liana del particolare lo spirito del mondo si fa individuo e abita in mezzo a noi - e perché non proprio nella forma di condottieri, classici e professori? Tanto meglio per i contemporanei, se sono in grado di percepire la magni­ ficenza a cavallo o in cattedra - da non dimenticare le fiere del libro, dove, per altro, tutto gira attorno all’of­ ferta al pubblico. Il “grande” viene visto unicamente al­ la luce del suo significato; brucia e si disintegra nel suo compito storico, senza lasciar scampoli di sé, per rima­ nere soltanto figura in quella costellazione. Se il picco­ lo resta inesprimibile, giacché di lui - tolto il suo vano desiderio di celebrità - non c’è nulla di importante da dire, il grande si trasforma invece in pura preminenza. Egli si fa tutto opera, forma alienata, semplice crocevia di forza e attimo. Si eleva a una forma superiore nel cor­ po trasfigurato delle sue azioni e produzioni. Si può dire che gli effetti del pensiero hegeliano sia­ no smisurati nel senso più pieno del termine. Hegel ha fatto scuola e antiscuola; ha suscitato a un tempo istinti di conservazione e di ribellione. Il suo indecidibile es­ sere in bilico tra il fluidificare e lo stabilire ogni cosa ha consentito a rivoluzionari e sclerotici di fare riferimento a Hegel in modo plausibile. Se nella mente di Lenin si

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sono trovate idee sovversive e calcificazioni sclerotiche, esse provenivano entrambe dall’eredità del maestro. Già in Hegel, soprattutto all’epoca del suo incarico berline­ se, non è mai stato davvero chiaro se tutto scorre o è fis­ so. Accanto ai pensatori d’ordine, che volevano traman­ darsi in eredità il regno hegeliano come se si trattasse di una monarchia costituzionale, sono entrati in scena cori eccitati di insoddisfatti con anni di studio alle spal­ le, che hanno rifiutato invece di trascorrere il resto dei loro giorni come pensionati dell’idealismo compiuto. Da Hegel in poi si può negare che, nell’essenziale, la storia sia giunta al termine. Nel mondo resta ancora molto da fare: sarà questo il grido di battaglia della “po­ litica razionale” posthegeliana; c’è ancora del non detto nella dimora del Sé: tale sarà il motto delle invenzioni discorsive posthegeliane. Nuove stelle danzanti voglio­ no ancora nascere, ignote a qualsiasi retrospettiva. Un interesse propulsivo verso ciò che è rimasto da fare si è ridestato; il non ancora realizzato, il non ancora libera­ to, accampa la sua pretesa di godere di una considera­ zione culturale e filosofica. La riconciliazione esige ora di essere pensata come assai più estesa di quanto sia di­ sposto a credere un idealista. Tutto il pensiero che, alla maniera di Hegel, data dopo Hegel, pare interessato a rinviare il compimento, finché sia stata resa giustizia an­ che ai “grandi” che per ora restano non riconciliati - si tratti del proletariato, delle donne, del corpo, del nostro pianeta, dei folli, dei bambini o degli animali. Ciascuno di questi temi è divenuto soggetto di un peculiare mille­ narismo. Il gioco fra negazione del compimento e rinvio della riconciliazione in nome di un gruppo non emanci­ pato modella le battaglie di idee del XIX e del XX secolo, sul versante marxista così come su quello esistenzialisti­ co - per citare solo i due posthegelismi più forti. In tut-

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te queste imprese l’ora del compimento è stata sospesa e spostata a un secondo tempo - la storia stessa è dive­ nuta gioco di guerra per rivendicazioni ritardate. Tutti i giovani hegeliani sono irredentisti ontologici. Troppe malattie, troppa alienazione increspano il mondo, per­ ché gli intellettuali che condividono malattie e alienazio­ ne possano abbandonarsi alle luci della festa. Infine, la partita della critica contro l’asserzione del compimento doveva venir portata sino al punto in cui lo stesso tema del compimento veniva a logorarsi. Il mondo moderno si concepisce come l’essenzialmente mai-compiuto e la sua teoria deve degnarsi di corrispondervi. Dunque, nessun istante nel tempo è ormai adatto a rappresentare Vadesso del presente compiuto. Il rinvio spodesta il pre­ sente; l’essere viene concepito come tempo. L’interesse per l’identità viene superato da quello per la differenza; il disperdere prende il sopravvento sul raccogliere; nel cuore della presenza il rimandare gioca già il suo gioco. Ha inizio un’era per cui progetti e crediti significano più di retrospettive e somme; in essa il bisogno teorico non può più compiacersi in vedute d ’insieme crepuscolari di ciò che è stato raggiunto. Di fatto, la ragione postmetafisica è condannata a essere orientata al futuro. Il futuro è ciò con cui il pen­ siero puro e semplice non chiude mai i conti. Se vi sia salvezza nel domani, rimane incerto per l’uomo di oggi. Non ci si dovrà piuttosto salvare dai salvatori anche in futuro? Dopo tutti gli esperimenti hegelizzanti nel rea­ le, sappiamo che cure grossolane ed entusiastiche non giovano a un mondo malato. Non pochi metafisici delu­ si ammettono ora il loro risentimento contro una realtà ingrata e irredimibile. Come medici rassegnati, tendono a dimettere questo mondo, l’incorreggibile, e a lasciarlo procedere verso il declino. Eppure, l’ira di questi soc-

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corritori impotenti non ha troppo peso. Ci si può chie­ dere se mai sia lecito ai filosofi, dopo tutto quello che è successo, considerarsi ancora medici della cultura. Do­ vrebbero rassegnarsi ad apparire in una luce peggiore di coloro che non possono nemmeno essere d ’aiuto? Non sono forse stati sostituiti presso il pubblico da al­ tri soccorritori, da altri guaritori - e ciò per motivi che, per il momento, si possono difficilmente infirmare? Che altro potranno fare, in futuro, i pensatori ancora affa­ scinati dalla mafia del compimento, se non mettere in guardia i loro clienti da loro stessi? Non si tratta ora di maturare verso l’immaturità? Ricordarsi di Hegel e del­ la brillante miseria dei suoi successi potrà essere utile per comprendere perché, nella contesa sul metodo dei medici universali, anche in futuro alcuni filosofi, tanto posthegeliani quanto non-hegeliani, avranno da dire la loro, sia pure con modestia assai maggiore.

S c h e llin g

Ciò che più di ogni altra cosa ha forgiato l’immagine di Schelling è stato il suo scintillante mito giovanile. Con una sicurezza di sé che appare diabolica, attorno al 1800 un ventenne si pose alla testa della filosofia tedesca, che all’epoca, in certo modo come supplemento spirituale della Rivoluzione francese, rappresentava l’avanguardia del pensiero universale. In una prosa abbacinante, il gio­ vane Schelling abbozzò una serie di schizzi di sistema che compivano un’ascensione celeste della ragione spe­ culativa di fronte allo sconcerto dell’opinione pubblica. Sembrava aver scoperto un procedimento per parlare dall’assoluto come da un posto sicuro. Quali che fossero gli oggetti che il giovane toccava, al suono energico delle sue parole ogni cosa si trasformava in alto volo e tempe­ sta speculativa. Quasi che si dovesse dar prova che final­ mente un complice di Dio era di nuovo in mezzo a noi. Schelling ha spinto all’estremo il tono della definitività e ha elevato a rango di procedimento l’oscillare fra punti di vista estremi. Compiuto il salto dalla fichtiana filosofia della coscienza alla filosofia della natura, venne inseguito dalla fama d’incosciente, anzi d’inconseguente; eppure, doveva sfuggire alla maggior parte dei suoi critici che in tale svolta vi era la plausibilità di un metodo. Così, non

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CARATTERI FILOSOFICI

faceva meraviglia che, sin dagli albori della sua carriera, Schelling avesse suscitato non solo simpatie ammirate, ma anche scetticismo e diffidenza ostili. Non è corretto asserire che, per riprendere la malevola definizione di Hegel, Schelling abbia compiuto la propria formazio­ ne di fronte a una platea di spettatori; è però vero che il giovane autore, sopraffatto dal proprio slancio, si esi­ biva di fronte a un pubblico in cui, durante la recita dei suoi pezzi di bravura, molti lo fissavano con sguardo da lucertola d’impassibile mediocrità. E tuttavia, finché Schelling potè considerarsi semidio della prima gene­ razione romantica, tutto ciò aveva scarsa importanza. La sua fanfara evangelica della natura attiva e creatrice in noi suonava irresistibile. La sua opera giovanile, per lo più elaborata all’epoca della felice configurazione tra Schelling e Goethe benevolo, rispecchia un momento pleromatico universale - testimonia un singolare man­ dato conferito all’intelligenza nella pienezza della sua epoca. Sarà pure che questo momento schellinghiano è irreparabilmente caduto nel passato; tuttavia, da lui è emersa una definizione del problema in cui può rico­ noscersi anche il pensiero contemporaneo. Infatti, nel­ la sua svolta verso la filosofia della natura, Schelling ha scoperto il tema di quel passato della coscienza come condizione di possibilità, senza il quale non esistereb­ bero le categorie d’inconscio e di evoluzione cognitiva, determinanti per il pensiero della modernità. Solo in virtù dell’atteggiamento mesmerico-magico le conqui­ ste di Schelling in vista della modernità logica riman­ gono legate all’orizzonte romantico; in sostanza, Schel­ ling porta avanti una storia naturale della libertà come embriologia della ragione. Di fatto, come un ginecolo­ go entusiasta, il giovane filosofo ausculta il ventre della natura, gravida di spirito, per certificare al suo interno

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il battito cardiaco dell’autocoscienza non ancora sboc­ ciata. Proprio l’assistenza da lui prestata per far nascere la coscienza da ciò che ne è ancora sprovvisto ha fatto sì che Schelling maturasse le intuizioni che lo avrebbero reso il primo dei grandi teorici dell’arte nella modernità. C ’è poi un secondo mito schellinghiano: l’offusca­ mento della sua indole geniale in vecchiaia. Si è creduto di scorgere, nel tardo Schelling, la tristezza dell’ange­ lo caduto e si è cercato di interpretare la sua parabola come l’inevitabile discesa dopo le impareggiabili vette dell’esordio. Alcuni si sono spinti a meditare su quale immagine di Schelling sarebbe stata tramandata se, co­ me Novalis, l’eroe dallo spirito traboccante fosse peri­ to alla fine della giovinezza. In effetti, lo Schelling degli anni più maturi ha reso la vita difficile a tutti coloro che si limitavano a cercare la venerazione dell’eroe. E inne­ gabile che la seconda metà della sua esistenza sia nel se­ gno di un crescente appesantimento. Esso non ha però il carattere della decadenza, bensì testimonia una gran­ diosa conquista della serietà e un progresso trionfale nel prendere coscienza delle difficoltà. In decenni di vita ap­ partata, Schelling è riuscito a chiudere la parentesi scin­ tillante della sua apparentemente precoce maturazione e a trasferire i fondamenti del suo pensiero entro strati problematici in cui nessun pensatore idealista si era inol­ trato prima di lui. L’orribile che risiede nel fondamento del mondo gli si presentò allora alla vista, ed egli rico­ nobbe la malinconia come ciò che v’è di più profondo nella natura. In indagini rimaste senza eguali per la loro densità e per la luce nera che emanano, meditò sul ma­ le come potenza universale del tutto peculiare; andò a fondo nell’esaminare, in quanto maligna forza motrice che manda avanti il mondo, l’inquietante potere in vir­ tù di cui ciò che è basso riesce a porsi come più elevato;

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rimuginò sui motivi infondati [Ungründe] di Dio con una costanza che pareva intonarsi meno alla Monaco d’inizio XIX secolo che all’Alessandria del III secolo d.C. Se si volesse racchiudere in una locuzione la direzione in cui colpivano i lavori più maturi di Schelling, si do­ vrebbe parlare di conquista della frammentatezza [Ge­ brochenheit]. L’opera tarda di Schelling rappresenta il primo grande monumento eretto a uno sforzo razionale postnarcisistico. La sua riflessione si immerge nella fi­ nitezza e nella storicità della ragione; concede spazio al presentimento che la presa della filosofia sull’uno-tutto non colga mai l’essenza del reale e l’apertura del divenire. In molti aspetti, soprattutto laddove mette in evidenza la priorità del futuro nella trama temporale, questo pen­ siero lascia presagire il nuovo inizio del domandare filo­ sofico con Heidegger. L’opera tarda di Schelling è stata costruita in processi laboriosi, per così dire sotterranei, lontano dalle eccitazioni giornalistiche quotidiane del Vormärz e oscurate quasi del tutto dalle trionfalistiche seduzioni hegeliane. Così, ha potuto formarsi l’impres­ sione errata che il vecchio Schelling non rappresentas­ se che un relitto classico, che sarebbe rimasto legato a posizioni superate dallo spirito del tempo. A rafforzare tale convinzione contribuì l’insucces­ so delle sue lezioni berlinesi sulla filosofia della rive­ lazione, allorché Schelling, ormai sessantacinquenne, naufragò di fronte a un pubblico dapprima affascinato e poi annoiato dalle sue evasioni teosofiche e storiosofiche. Al misconoscimento di tali interventi ha concor­ so non poco lo stesso Schelling, in particolare perché aveva trovato a malapena la forza per portare a termine un trattato e, quasi colto da una paura tardiva di fronte alle sue prodezze giovanili, si era nascosto in un inter­ minabile tentennamento davanti al completamento dei

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capolavori progettati. Inoltre, lo stile della sua maturi­ tà andava offuscandosi e contorcendosi, e aveva ormai smarrito quella “sonora certezza della vittoria” che ne aveva caratterizzato la prima predicazione. Nello stile del tardo Schelling, con la sua meravigliosa complessità e i suoi chiaroscuri malinconici, si manifesta il diffìci­ le commiato dal sogno epocale dell’onnipotenza della ragione. La prosa schellinghiana più matura mostra il volto doloroso di un idealismo che doveva mobilitare le sue forze migliori per ritrarsi entro i confini di riflessio­ ni avviate al tramonto dell’esistenza. Tuttavia, per lui, il tenersi a freno da sé dell’idealismo era la condizione necessaria per un’apertura del pensiero al futuro. E qui che ha inizio la filosofia del non-ancora. Nel suo grandioso prender congedo dagli sfarzi ec­ cessivi della ragione possiamo riconoscere, per la prima volta in maniera autentica, il sigillo del pensiero contem­ poraneo. Massimiliano di Baviera, l’allievo più in vista di Schelling, ha precorso l’idea divenuta “classica” nel suo tempo, facendo incidere sul monumento del filo­ sofo, morto nel 1854, le parole: “Al primo pensatore della Germania”. Il neokantismo e il neohegelismo da una parte e il movimento fenomenologico inaugurato da Husserl dall’altra non sono riusciti a sconfessare in­ teramente il giudizio del re. Con la multiformità della sua opera e le difficoltà del suo itinerario intellettuale, Schelling ha dato ai posteri un’idea di quale sia il prez­ zo della maturità.

Sch o p en h au er

Schopenhauer è stato il primo grande pensatore a uscire dalla chiesa della ragione occidentale. Insieme a Marx e ai giovani hegeliani è stato colui che ha portato a ter­ mine la rottura rivoluzionaria nel pensiero del X I X se­ colo nella forma più rigorosa. Con lui ha avuto inizio la lunga agonia del buon fondamento; è stato lui a conge­ dare risolutamente i teologi greci ed ebraico-cristiani. Per lui Yens realissimum aveva cessato di costituire un essere spirituale divino giustificato razionalmente. Con la sua dottrina della volontà, la teoria del fondamen­ to del mondo era balzata da un devoto razionalismo, com’era sin dai tempi di Platone, a un riconoscimento dell’a-razionale modellato da terrore e meraviglia; per primo, Schopenhauer ha stabilito la natura a-razionale, energetica e istintuale dell’essere. Sicché in lui scorgiamo uno dei padri del secolo della psicoanalisi; un domani potrebbe ancora rivelarsi lontano patrono e parente di un’epoca caratterizzata dalla teoria del caos e dei siste­ mi. Animato dal più profondo rispetto, ha spalancato le porte d’Europa alle dottrine sapienziali asiatiche, e in primo luogo al buddhismo: proprio in ciò, sul lungo periodo, potrebbe consistere il suo più importante ef­ fetto nella storia del pensiero. Può darsi che la dottrina

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schopenhaueriana della rassegnazione della volontà, cui la brama di vivere del genere umano si dovrebbe piegare, suoni ancora più sconcertante alle orecchie dell’attuale “Primo Mondo” che a quelle dei suoi contemporanei (cioè i positivisti progressisti e i rivoluzionari universa­ li della fede nell’umanità); comunque, essa ci ricorda ancora oggi che non sarà un ulteriore incremento della sfrenata brama di vivere a risolvere i problemi generati dal suo libero corso. Da Schopenhauer potrebbe veni­ re il motto “Solo la disperazione ci potrà salvare”; lui, però, non avrebbe parlato di disperazione, bensì di ri­ nuncia. Per i moderni, “rinuncia” è la parola più diffi­ cile al mondo. Schopenhauer l’ha urlata contro il mare in burrasca. Dopo di lui le questioni dell’etica restano più che mai radicalmente aperte.

K ie rk e g a a rd

Storicismo ed evoluzionismo - le due eredità che l’Otto­ cento ha lasciato al XX e al XXI secolo - hanno impresso nelle convinzioni nutrite dai posteri l’insulsaggine che ogni pensiero sia il prodotto del suo tempo. Chi l’accetta pare dapprima aver fatto un buon affare, poiché lo sto­ ricismo libera gli individui dal peso abnorme della philosophia perennis e offre loro la possibilità di viaggiare nel tempo con bagaglio più leggero. Basta porsi in cima all’evoluzione per consolarsi dello svantaggio del rela­ tivismo: la sua stessa superabilità. Il pensiero storico vuole sostituire la sovranità assoluta, ma illusoria, ga­ rantita dalla metafisica, con la sovranità relativa di quel pensiero che può ritenersi avanzato. Da Kierkegaard, però, possiamo imparare che lo storicismo è un trucco per guadagnare a metà prezzo il punto di vista postme­ tafisico. Per lui il pensiero radicale non è figlio del pro­ prio tempo; è ammissione della propria data di nascita. La principale caratterizzazione con cui i pensato­ ri moderni hanno cercato di contrassegnare il proprio posto nel susseguirsi delle posizioni filosofiche epocali e dei sistemi è indubbiamente la datazione “dopo H e­ gel”. A essa si è saldata una duplice suggestione. Per gli uni la formula “dopo Hegel” indica l’idea che nell’opera

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hegeliana si compia ciò che aveva preso avvio nell’aper­ tura greca. Da lì in poi la storia della filosofia potrà veni­ re presentata sistematicamente come epos del concetto che passa attraverso se stesso. Se, però, la storia dello spirito è allo stesso tempo la sostanza della storia uni­ versale, il compimento dell’una implica pure la conclu­ sione dell’altra. Dopo la lunga peregrinazione dello spi­ rito dalla Ionia a Jena ha inizio un’interminabile festa in cui i frutti delle lotte storiche possono essere goduti in maniera contemplativa e leggera. Porsi “dopo Hegel” significa qui ergersi a epigoni grati e illuminati in un mondo la cui costruzione è essenzialmente terminata. D ’altra parte, “dopo Hegel” sta pure a indicare la pro­ testa contro un idillio da filosofia della storia - perché l’immediata esperienza di vita della maggior parte degli individui è che, per quanto li riguarda, il razionale non è ancora reale e il reale non è ancora razionale. Tale obie­ zione porta alla posizione dei giovani hegeliani nel senso più ampio del termine. A Hegel costoro rimproveravano essenzialmente nient’altro che l’eccessiva fretta. Pur ri­ conoscendo criticamente l’opera del maestro, vi vedono però non l’ultimo, bensì il penultimo capitolo della storia. Insistono su una distinzione: il compimento della teoria non coincide con la sua realizzazione pratica; piuttosto, d’ora in poi bisognerà, continuamente e sino a nuovo or­ dine, “passare” dalla teoria alla pratica. Questo gruppo di posthegeliani rimandava l’istante del compimento a una scadenza successiva, finché da ultimo anche le esigenze di quei grandi, che lo spirito di Hegel aveva saltato a piè pari, avessero ottenuto soddisfazione: il proletariato, le donne, gli emarginati, i popoli che hanno subito la colo­ nizzazione, quanti soffrono di malattie mentali e di ne­ vrosi, le minoranze discriminate e, per finire, persino l’in­ tera natura ridotta in schiavitù. Tutte queste istanze sono

KIERKEGAARD

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soggetti possibili e motori dell’avanzamento della storia nella misura in cui, in virtù della loro infelicità informata, pongono nuove questioni che devono venire soddisfatte attraverso lavori storici e lotte, prima che possa soprag­ giungere l’affaticato hic et nunc della posterità. Perciò, la parola d’ordine del posthegelismo insoddisfatto suona: “La lotta prosegue!”. Per chiudere, resta ancora del la­ voro da svolgere. La teoria che continua a lottare si pone come teoria critica: porta la fiaccola della verità attraver­ so un mondo non ancora vero; rende globale il punto di vista della parte insoddisfatta su una totalità apparente­ mente intatta. La sua data di nascita è il periodo di pas­ saggio dall’anticipazione teorica al compimento pratico: dopo Hegel - prima del regno della ragione. Se si prendesse come unico punto di riferimento la cronologia, da Kierkegaard non ci si potrebbe aspetta­ re altro che una variante del pensiero posthegeliano. In realtà, egli ha complessivamente rotto con lo schema metafisico del compimento, collocandosi in un tempo che non ha più nulla in comune con i finali di partita, protratti all’estremo, dell’illuminazione e della fine della storia. Sicché, Kierkegaard ha dato al porsi “dopo He­ gel” tutt’altro senso: esso non indica la coscienza appa­ gata della riflessione assoluta portata a compimento né implica i rinvìi del compimento di marca criticista. Per un pensiero nel tempo dell’esistenza non si tratta di oc­ cupare una qualunque posizione lasciata libera da He­ gel. Piuttosto, il suo nome rappresenta il massiccio della metafisica nel suo insieme, da cui il pensiero esistenziale cerca di affrancarsi, non appoggiandosi più all’oggettivo, ma tenendo aperta l’abissalità della propria soggettività. Chi progetta consapevolmente di rompere con Hegel deve respingere allo stesso tempo l’eredità platonica e la maggior parte della teologia cristiana.

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

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La riflessione esistenziale di Kierkegaard fa scopri­ re a lui e ai suoi contemporanei il bisogno di datazio­ ni più profonde: se la soggettività è la verità (e la non verità), si tratta di posizionarsi in un senso distruttivo dopo Platone e in un senso che rinvia all’assurdo dopo Cristo, e tuttavia nello stesso tempo di Cristo. Platone aveva fondato la filosofia come metafisica, instillando in essa l’eccezionale pretesa di superare l’incompiuto nel compiuto, il finito nell’infinito. Questi superamenti fi­ losofici avevano la qualità di sublimi regressioni in cui l’intelletto esistente indietreggiava a tentoni verso intui­ zioni pre-esistenziali. L’atto di fondazione metafisico - il trascendere - significa appunto: sottrarsi al tempo per riguadagnare l’origine nell’assoluto. Kierkegaard ha messo radicalmente in questione questa tendenza della filosofia; per lui è impossibile elevarsi all’intemporale seguendo il filo luminoso dei concetti. Il tentativo dello spirito umano di tornare a dimorare in Dio, continuamente rinnovato dai tempi di Platone e della Patristica in poi, gli appare una carriera proditoria, cui gli indivi­ dui si lasciavano spingere nell’età metafisica del mondo - non ultimo sotto il segno dell’autorità cristiana. Ma tornare, dopo ogni slancio, al proprio intimo dissidio e dubbio interiore è la verità della soggettività. Per Kier­ kegaard ciò si manifesta in particolare nell’atto di cre­ dere, con cui l’uomo, ponendosi alla sequela di Cristo, si eleva sopra l’abisso dell’incredibilità delle dottrine cristiane. Solo un Cristianesimo metafisicizzato e gon­ fiato a sacrale folclore del potere ha potuto convincersi che la tradizione dei martiri, dei santi e dei padri della teologia converge in una somma di prove cui il singo­ lo credente possa guardare rassicurato come il filosofo che contempla i suoi archetipi. Per Kierkegaard, invece, anche oggi l’individuo rimane abbandonato a se stesso

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di fronte al mito cristiano. Se decide di seguire Cristo, ciò non avviene affatto perché un gran numero di po­ tenti, di isterici e di conformisti lo abbiano preceduto su questa via. La fede ha valore unicamente in virtù di una decisione per la fiducia, per la quale, in ultima ana­ lisi, non è possibile fornire motivazioni ausiliarie ester­ ne. Per Kierkegaard credere non significa cedere a un comodo istinto di imitazione nel quadro della Chiesa e dell’Impero, bensì fare una scelta in considerazione del non credibile. In tali scelte fatte “come se fosse la prima volta” Kierkegaard scopre il pulsare del tempo dell’esi­ stenza aperto al futuro. Con lui si dischiude la possibilità per ciò che, essenzialmente nuovo, sarebbe valido non solo in base a una rassomiglianza con modelli eterni. In questo senso è lecito ritenere che, con lui, abbia inizio il pensiero della modernità radicale, sospesa nella spe­ rimentazione. Per primo Kierkegaard ha varcato l’epo­ ca del dubbio, del sospetto e della decisione creatrice.

A ia r x

Il destino degli scritti di Marx avrebbe potuto indurre un commentatore della sua epoca all’equivoca osserva­ zione che tutta la storia sia storia di lotte fra interpreti. La furia interpretativa, stando alla sua origine, è un furor theologicus e ha dato il meglio di sé nel clima dei mono­ teismi militanti. Ciò giunge alla massima evidenza nella storia del Cristianesimo, che da 1800 anni amministra un sottile fascicolo di scritti, il cosiddetto Nuovo Testa­ mento, con una volontà di servire e comprendere dota­ ta di un’impareggiabile avidità di potere. L’esempio del Cristianesimo offre un documento straordinario della sovranità degli interpreti sul testo: una sovranità che fa la storia universale. I tratti monumentali del Cattolicesi­ mo romanizzato incarnano il tipo ideale di una dittatura ermeneutica burocraticamente moderata; in esso l’unità di monarchia vescovile e violenza esegetica viene valu­ tata con attenzione e portata alle estreme conseguenze. Auctoritas, non veritas, facit legem. E l’interprete e non il testo a dettar legge. Nella prima Roma, e non nella terza, risiede il partito che in verità ha sempre ragione. L’in­ terprete è colui che porta la Parola al linguaggio: questa regola non vale unicamente per l’antica materia testuale nello splendore della sua luce evangelica, adatta a fare

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da massa di fondazione per le chiese; si può anche appli­ care a scritti paraevangelici di tempi più recenti. Talvol­ ta i tre “grandi” - Marx, Nietzsche e Freud, che a loro modo hanno trasposto le penombre del XIX secolo nel XX - sono stati evocati pronunciandone i nomi uno in fila all’altro, quasi senza prender fiato; si è voluto stabi­ lire un denominatore comune: il loro messaggio disan­ gelico. Essi rappresentano, soprattutto per i sostenitori dell’umanismo cristiano, i portatori di quelle tre inva­ denti “cattive novelle” circa le forze fondamentali della realtà umana con cui, da allora in poi, i cittadini della modernità devono fare i conti: la sovranità dei rappor­ ti di produzione sulle finzioni idealistiche; la sovranità delle funzioni vitali ovvero della volontà di potenza sui sistemi simbolici; la sovranità dell’inconscio ovvero del­ la natura istintuale sull’autocoscienza umana. Come un coro a tre voci, i Disangelisti paiono annunciare un so­ lo e identico destino: Voi siete prigionieri di strutture e sistemi! La verità vi renderà tutt’altro che liberi. Sotto questo profilo Marx, Nietzsche e Freud, i messaggeri oscuri, sarebbero portatori di verità che, lungi dall’elevare e legare, sciolgono e opprimono. Guardando più da vicino, è facile notare come i tre autori abbiano esercita­ to un influsso completamente diverso da quello di araldi dell’intrappolamento o del decentramento dell’uomo. Al contrario, tutti loro, ciascuno a suo modo, sono stati fatti oggetto di un seguito che si potrebbe definire apostoli­ co, se l’espressione non fosse già caduta troppo univo­ camente sotto il paradigma cristiano. Come Nietzsche e Freud, Marx è divenuto l’artefice di testi e tendenze in cui s’impone in tutta la sua forza la legge della sovranità dell’interprete. Tutti e tre hanno cercato e trovato let­ tori agili, che nei loro scritti hanno riconosciuto spunti per la costruzione di carriere nonché pretesti per col­

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pi di stato, costituzioni di società e rivoluzioni radicali dei modi di vivere e di pensare. Da ultimo, le loro ope­ re testimoniano nell’insieme il moderno magistero dei non professori: annunciano in quale misura, a partire dal XIX secolo, l’università si sia straniata dagli intelletti più creativi. Quanto agli interpreti dei maestri moder­ ni, vale anche per loro che gli imperi, le chiese e le scuo­ le di tali strutture siano i loro principali datori di lavoro —e laddove si riesca, come nel marxismo autorizzato, a fondere queste tre istanze in un unico potere centrale dell’esegesi, i funzionari che spiegano i classici godono degli sfrenati privilegi di un clero unito all’aristocrazia. Nel sistema totalitario la sovranità del secondario può porsi docilmente sotto il baldacchino dei testi del mae­ stro. Dove il potere è in mano alle sette, fedeltà e tradi­ mento divengono indistinguibili. Sino a poco tempo fa, anche fra i marxisti occidentali era tutt’altro che insoli­ to fantasticare che il maestro stesso avrebbe accolto con plauso alcune deviazioni dalle sue dottrine. Come una delle ultime figure paterne della verità, Marx ha instilla­ to nei suoi figli la convinzione che anche il contraddire il proprio padre venga dal padre stesso. La chiesa mar­ xista intendeva muoversi liberamente nella storia come processo-unità di Padre, Figlio e Critica. Io interpreto, dunque io sono qualcuno; un’interpretazione adeguata ai tempi conquista accessi a posizioni nello spazio di po­ tere. Ovunque si carichino testi sacri o classici dell’irra­ gionevole pretesa di fondare regni, chiese o scuole, gli interpreti si assicurano posti eccellenti nelle gerarchie. La grande storia non è forse da sempre il dominio dei soldati del senso? Se si accetta che figure come Lenin e Stalin, Mao Tse Tung e Poi Pot rappresentino interpreti sui iuris di Marx, il marxismo, colto attraverso il prisma dei suoi usurpatori più privi di scrupoli, sarebbe stato

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senz’altro il sorprendente complesso di potere interpre­ tativo della moderna storia delle idee. Non a caso Stalin, a suo tempo pontefice massimo in carica della dottrina marxista, ha potuto credere di essere superiore al suo rivale romano ponendo la sinistra domanda su quante divisioni disponesse il Papa. Dopo la débàcle politico-economica delle dittature marxiste degli interpreti in così tanti Paesi - i quali pre­ tendevano semplicemente di costruire un secondo mon­ do —non si può fare a meno di chiedersi quanti lettori abbia avuto Marx; e, tra loro, quanti buoni lettori. Vi sono certamente stati anche in precedenza, soprat­ tutto nei marxismi occidentali, tentativi ingegnosi di difendere Marx contro i suoi amanti armati. Dagli anni Venti del secolo scorso è divenuto bon ton, fra gli intel­ lettuali di sinistra, considerare Marx un grande incom­ preso, alle cui autentiche intenzioni soltanto una gnosi critica poteva indicare la via. Qui il vero Marx veniva messo a confronto con il Marx concreto; l’elaboratore di analisi dei sistemi con l’utopista; lo studioso delle strut­ ture con l’ideologo umanista. In tali nicchie di ambigua ironia, l’autore del Capitale è riuscito a sopravvivere fino agli anni Settanta del secolo scorso come dissidente di una catastrofe che portava scritto il suo nome. Scompar­ so il corpo-fantasma ideologico dell’Unione Sovietica, si pone nuovamente la questione se gli scritti di Marx debbano avere la possibilità di venire sgravati dalla storia della loro ricezione. Si giungerà a un’assoluzione perché si proverà che altre erano le loro intenzioni? Dovrebbe­ ro forse invitare a una lettura rinnovata, quasi che le pri­ me ondate interpretative fossero “corrotte” come mere proiezioni e prevaricazioni da parte di autoproclamatisi falsi apostoli? Di fatto, gli scritti sono lì, sempre e come per la prima volta, confrontabili con una terra oppressa

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eppure liberata, da cui gli occupanti si sono allontanati. Certo nessuno dei pochi viaggiatori nelle nuove regioni testuali crede più che queste possano immediatamente illuminare i rapporti della società avanzata del denaro e dei media. Passerà almeno una generazione prima che Marx venga letto nei suoi testi come talvolta già oggi si leggono gli autori a lui più prossimi, e cioè Fichte, He­ gel, Feuerbach e Kierkegaard: come figura del destino ai finali di partita della metafisica, che sembra in certo modo essersi “compiuta” nelTidealismo tedesco e che, in modo piuttosto sinistro, si mantiene comunque in vita nei suoi presunti eredi postmetafisici. Si noterà poi che lo strato filosofico-concettuale, nelXopus di Marx, rappresenta uno stato di aggregazione evoluto dell’idea fichtiana di alienazione. In tal senso si può dire che il marxismo è stato una “nota a piè di pagina” dell’ideahsmo tedesco e che ha impiantato una metastasi del pen­ siero gnostico dell’alienazione nel campo intellettuale del XX secolo. Il futuro buon lettore farà attenzione, nei testi di Marx, a quei concetti e a quelle metafore che, ai tempi, amman­ tavano d’incognito, in maniera adeguata, i sogni più lun­ ghi della metafisica classica - in particolare, il fantasma onnipervasivo dell’autoeducazione per delega del sog­ getto storico e il motivo criptoteologico del recupero dell’originaria pienezza di sé attraverso i “produttori” in un mondo liberato dal denaro. Queste figure fondamentali della finzione filosofica marxiana di una “ragione proletaria” affiorano non appena ci si impratichisca, nelle sue opere, con quella mescolanza di curiosità e pacatezza che è divenuta possibile soltanto dopo lo smorzarsi del­ la “guerra di religione” esegetica. Con Günter Schulte - cui si deve l’opera più profonda tra gli ultimi lavori sul critico messianico dell’economia - possiamo ripetere la

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domanda: “Conoscete M arx?”, e ci convinceremo con lui che non si può parlare di conoscenza di Marx finché i suoi nuovi lettori non parteciperanno all’avventura di una “critica della ragione proletaria”.12 Una rinnovata conoscenza di Marx non ha solo il senso di portare fra la gente, caparbiamente per l’ennesima volta, un classico compromesso della critica sociale in un tempo lontano dalla critica. Seguire le ispirazioni marxiane significa piut­ tosto imbarcarsi nel “racconto di fantasmi” dei concetti, che più che mai, come violenza fatta stato, spirito fatto tecnica e denaro fatto rete universale, succhiano la vita degli individui. Senza dubbio la futura fama di teorico di Marx sarà legata ai suoi contributi come evocatore del “lavoro morto”. Il nucleo della sua critica dell’economia politica è negromanzia: come eroe che scende nel regno dei morti per lottare con le ombre del valore, Marx ri­ mane tremendamente attuale anche per il presente. Il non-morto che si aggira come valore monetario fra gli uomini e che, come ridente comunicatore, sottrae tempo e anima ai vivi, già oggi, quasi senza pretesti, regna sovra­ no sulle società avanzate. Lavoro, comunicazione, arte e amore fanno qui parte per intero dei finali di partita del denaro. Essi costituiscono la sostanza dell’odierna era dei media e del vissuto. Poiché il denaro richiede tempo per acquistare valore, anche la cosiddetta grande storia pro­ cede a mo’ di spettro. Tendenzialmente, tutta la storia è divenuta storia dell’acquisizione di valore; è un gioco in cui si gioca sempre alla proroga. Tuttavia, essa non è più il colloquio dei vivi con i morti circa la bontà del mon­ do, bensì la sempre più profonda penetrazione dei vivi da parte del fantasma economicizzato. Dalla soggettività umana del nostro tempo spunta sempre, messa a nudo, l’anima monetaria: si va organizzando una società di ac­ quirenti comprati e di magnaccia prostituti in rapporti di

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mercato globalizzati. Il laissez-faire del liberalismo classi­ co si dispiega nel succhiare e lasciarsi succhiare postmo­ derno. La telecomunicazione si distingue con crescente difficoltà dal televampirismo. Televisori e telesucchiotti attingono da un mondo liquefatto, che quasi non sa più che cosa sia la vita solida o indipendente. Non potrebbe darsi che ci aspettino tempi in cui chi non voglia parlare di vampirismo dovrebbe tacere anche di filosofia? Se le cose stessero davvero così, per Marx sarebbe comunque il tempo della seconda possibilità.

N ie tz sc h e

Scandalo per i democratici e follia per i professori, il no­ me di Nietzsche, come sempre, fa battere più forte il cuo­ re di artisti e revisionisti. E la sua stessa opera a fornire la ragione della disparità di trattamento cui la ricezione nietzscheana era destinata, prendendo dagli uni più di quanto essi siano disposti a dare e dando agli altri più di quanto essi possano momentaneamente ricevere, sicché questi ne rimangono affascinati, mentre quelli esitano. Se da una parte Nietzsche ha sepolto le concezioni tradi­ zionali del mondo circa la serietà morale, dall’altra vi ha però introdotto una serietà estetica che risulta di diffìci­ le comprensione anche a coloro che amano invocarla a propria discolpa. L’unica cosa su cui amici e avversari di Nietzsche concordano è definire la sua opera come una sorta di metafisica per artisti; vi riconoscono - nel bene e nel male - un punto di svolta nella storia delle idee verso una concezione estetica del mondo. Ciò che risulta dif­ ficile ad ambedue le parti è dare una risposta decorosa alla questione donde tale visione estetica del mondo, cir­ condata da lodi e avvertimenti, tragga il suo peso evolu­ zionistico. Si citi pure a volontà la formula della giustifi­ cazione estetica dell’esistenza; finché non si sia chiarito in quale misura l’estetico in generale possa essere preso

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in considerazione come ragione per giustificare ciò che vi è di più serio, la vita umana nella sua totalità, si otter­ rà solo di attuare un gioco linguistico apparentemente pericoloso. Visione estetica del mondo non significa per Nietzsche dare libero corso all’incoscienza; essa non ri­ sponde neppure alla richiesta di un’etica a metà prezzo per artisti e per altri “mai adulti”. I disertori abituali del principio di realtà non trovano soddisfazione in Nietz­ sche. Infatti, sotto la cifra dell’estetico Nietzsche scopre un altro orizzonte di “casi seri” [Ernstfälle], di cui nulla sa la cultura tradizionale del “caso d’emergenza” [Ernst­ fall] bellico insieme con i suoi stereotipi classicisti. Per i giovani maschi delle città antiche e degli stati naziona­ li moderni è certo questione abbastanza seria il doversi tener pronti a difendere con la propria vita l’esistenza e le pretese di prestigio della patria. Eppure, Nietzsche guarda oltre l’orizzonte dell’emer­ genza militare e statale; alla ricerca del suo divenire in modo esemplare, Nietzsche scopre la serietà della lotta per l’autogenesi che l’individuo deve sostenere contro se stesso e contro il proprio destino. Con estrema acutezza egli fa luce sul fatto, sino a ora quasi mai appositamen­ te esaminato, che il compito di far uscire la propria vita dall’amorfismo della materia grezza e di farne un’opera sui generis può assumere il carattere di una lotta per la vita e la morte. Sicché, in ultima istanza, Nietzsche è più psicagogo che psicologo, anche se il suo genio, incline a ragionare “sull’anima”, sembra ergersi all’ingresso del XX secolo (in quanto secolo propriamente psicologico) come la statua di un guardiano dall’aspetto monumen­ tale; lo stesso Sigmund Freud, araldo della psicologizzazione, per tutta la vita non perse occasione di negare di aver conquistato il proprio territorio attraversando la soglia di Nietzsche.

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In quanto psicagogo della modernità, egli è la guida nella bella tentazione di trarre grandi creazioni viven­ ti dal materiale offerto da talento e carattere. A quanto pare, in tal modo Nietzsche non si è limitato a divulgare una razionalizzazione delle proprie difficoltà esistenziali. Egli reagisce con i suoi impulsi pedagogico-psicologici ai mutamenti epocali dei rapporti educativi nel mondo moderno. Sotto un profilo socialpsicologico si potrebbe definire la modernità come l’impossibilità di educare gli individui alla fine: ci sono ancora diplomi scolastici, ma non c’è più maturità. Sicché genitori e insegnanti “non la finiscono più” con i loro allievi - e precisamente per­ ché lo stesso mondo pronto e finito, cui l’opera di ade­ guamento educativo vorrebbe appoggiarsi, per parte sua è crollato a causa di un processo di dinamicizzazione. L’educazione come rima fra mondo e gioventù va a vuoto - e chi realmente intendesse far valere i suoi risul­ tati reali già come prodotti finali sarebbe indubbiamen­ te uno di quegli “ultimi uomini” sui quali battevano gli sproni del disprezzo nietzscheano. Ciò che in lui emerge come concezione estetica del mondo è in verità un ro­ busto programma psicagogico per un’epoca di strategie postclassicistiche in vista della crescita umana. Si tratta di una reazione alla necessità, in cui si trovano i moderni, di superare l’orizzonte della loro precedente educazione. Il famigerato discorso nietzscheano del superuomo, in questo contesto, non indica altro che l’esortazione a crea­ re un io-opera d’arte che si forma autoplasticamente, a partire dal semilavorato che madri e insegnanti inviano nel mondo. Da tale programma segue coerentemente il passaggio dalla priorità della conoscenza di sé a quella della realizzazione di sé. A qualcuno ciò parrà forse esagerato; pensi allora che, un secolo dopo Nietzsche, persino i sindacati predicano

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la necessità di una formazione permanente. Una volta privato il concetto di superuomo del fattore genial-religioso, si giunge automaticamente al concetto di società della conoscenza. In essa, però, sarebbe svanito il tipi­ co pungolo nietzscheano: lo stimolo a un’individualiz­ zazione divina. Possiamo restituirgli la sua punta acu­ minata solo con un ritorno a concetti elitistici radicali, che non possano venire neutralizzati nemmeno da un mercato deregolato del superuomo o dell’arte. Di ciò oggi non c’è la minima traccia, posto che si percepisca­ no nei tiranni dell’arte e negli dei autogeni dell’attuale star System globale più i pagliacci che sono che le incar­ nazioni che vorrebbero essere. Ciò premesso, Nietzsche, maestro inerme del pen­ siero pericoloso dell’allevamento dell’umanità al supe­ ramento di se stessa, può rappresentare un autore ad­ domesticato; dopotutto, anche lui ha reclamato per sé il titolo di pagliaccio in uno dei passi più esposti della sua opera. Data questa premessa - e solo data questa premessa - si può scoprire nel teorema del superuomo un pensiero di utilità e di urgenza capitali. Esso indica che la cultura attuale deve trovare un sistema educativo e autoeducativo capace di plasmare, in numero suffi­ cientemente elevato, individui adatti al mondo globale. Senza una tale rivoluzione dell’educazione e dell’allevamento di sé, l’umanità odierna non ha alcuna possi­ bilità di risolvere i problemi prossimi venturi. Sarebbe importante far convergere l’emergenza autoeducativa e quella ecologica. Quanto a Nietzsche, in un passo deci­ sivo ha definito il suo lavoro come una trasvalutazione di tutti i valori. La rilevanza di questa formula per una rivoluzione culturale è tutt’altro che esaurita, anche se le interpretazioni offerte finora - inclusa l’autointerpretazione nietzscheana - rimangono insoddisfacenti.

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L’antico motivo cinico del “riconiare la moneta” era sta­ to ripreso da Nietzsche per mettere in opera una svolta anticristiana; il nietzscheano sogno di riforma, com’è no­ to, consisteva nell’innescare una controrivoluzione della salute in opposizione al morbus metaphysicus che, con le sue inibizioni, aveva ammaliato il mondo occidentale fin dai tempi di Socrate e di Paolo. Chi vuole riconiare la moneta deve riscrivere i testi - quello platonico non meno di quello neotestamentario. L’effetto più signifi­ cativo di Nietzsche deriva forse dal talento con cui attri­ buisce ai testi sacri, facendone serissime parodie, signifi­ cati inaspettatamente opposti. Ha suonato testi antichi dando loro nuove melodie e, secondo melodie antiche, ha creato testi nuovi. Il suo genio parodistico ha fatto saltare tutti i generi tradizionali del discorso in toni al­ ti e bassi. Come fondatore di una religione dell’opera buffa ha tenuto una versione inedita del Discorso della montagna e ha scritto daccapo le tavole del Sinai; come Anti-Platone ha tracciato, per l’anima che voglia elevarsi, percorsi terreni di potenza e di forza. È lecito dubitare che alla sua riscrittura dei testi e dei percorsi delle for­ ze arriderà complessivamente il successo. Incompiuto e più attuale che mai rimane però l’abito della tentazione di Nietzsche: dare una nuova formulazione dello spirito delle leggi morali in corrispondenza con l’età odierna. Forse, dall’arte nietzscheana della parodia si può impa­ rare qualcosa circa il compito di riscrittura delle tavole su cui rimarranno incise le regole per la sopravvivenza di quell’industrioso animale che è Homo sapiens. Tra­ svalutazione dei valori e fedeltà alla terra potrebbero risultare lo stesso compito.

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Alla domanda capziosa su quanta certezza sia neces­ saria all’uomo per orientarsi nel pensiero, alcuni dei fondatori del filosofare moderno - Descartes, Fichte e Husserl in particolare - rispondono con l’ambizio­ sa tesi che ci vorrebbe niente meno che la certezza as­ soluta. Con questa pretesa viene lanciato il progetto, ripreso più volte daccapo dal processo della moderni­ tà, di una filosofia come scienza rigorosa. In essa l’idea della filosofia come originario esercizio di rigore trova la sua tappa conclusiva. In quanto scienza prima e al di sopra delle scienze, il pensiero rigoroso per eccellenza vuole dimostrare che i fenomeni oggettivi, nella loro to­ talità, sono costruiti da operazioni della coscienza. Se la domanda posta inizialmente è capziosa, lo è perché suggerisce di soppiatto che il tentativo di conquista in­ condizionata della certezza comporta un momento di bisogno estremo, di vera e propria miseria esistenzia­ le. Cercare una certezza incondizionata significherebbe perciò ammettere una fatale incertezza. La tranquilla quiete della certezza ottenuta affonda le proprie radi­ ci in un suolo di abissale precarietà: con tale sospetto, dacché esiste la moderna interrogazione metafilosofica circa i motivi profondi, deve imparare a vivere anche

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l’aspirazione filosofica a una pausa per l’anima pensante. Qui diviene riconoscibile come, attraverso il progetto di scienza, faccia valere i suoi diritti anche sul terreno della modernità quello che dall’antichità greca in poi è uno dei motivi più influenti della filosofia: mostrare all’intelligenza la via della salvezza. Nella titanomachia occidentale fra irrequietezza e quiete i partigiani della certezza assoluta si battono sul fianco della sacra immo­ bilità, come se volessero ammettere, con il Padre del­ la Chiesa: il nostro cuore è inquieto finché non riposa nell’evidenza. Gli spiriti dell’età moderna si dividono sulla questione se l’evidenza sia effettivamente raggiun­ gibile e se essa, una volta ottenuta, sia adatta a guarire la psicosi ontologica dell’animale inquieto. Tra i medici-filosofi universali del XX secolo, a E d ­ mund Husserl, fondatore della fenomenologia, spetta uno status assai peculiare. Maestro di lucida introspe­ zione, si ritirò con i suoi allievi in un sanatorio teoretico, ove all’ordine del giorno non c’erano altre misure che esercizi di chiarificazione nell’aria purissima di descri­ zioni minuziose. Sulla montagna incantata husserliana gli studenti apprendevano, anzitutto e in ultima istan­ za, l’arte, fatta di sacrifici, di essere semplici degenti; si esercitavano nelle dolci sofferenze della pazienza feno­ menologica in vista di ciò che, in apparenza, era noto e saputo da lunghissimo tempo. Come guadagno della degenza viene prospettato l’esame della quotidianità della soggettività. Chi abbia mai trascorso un periodo in quel singolare sanatorio dell’evidenza ha una qualche cognizione deü’opprimente atmosfera di precisione, di cui neppure si sognavano gli ingenui spiriti materiali che vivevano, fra sé e sé spensieratamente preoccupati, nelle pianure della vita pratica. C ’è una daimonia dell’essere espliciti alla quale ha accesso solo chi si abbandona al-

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le exercitationes spirituales delle descrizioni eseguite e compilate a regola d’arte. Chi entra nel tempo del puro esercizio descrittivo è, per così dire, tratto fuori dal fluire della vita, e gli ogget­ ti della meditazione fenomenologica si raccolgono sulla scrivania del pensante in sublimi nature morte. Hanno cessato di essere oggetti del cosiddetto mondo reale che s’incontrano ingenuamente per divenire figure nel film assoluto dell’intenzionalità. Per l’intera durata del suo esercizio, il descrittore esce dal tempo divoratore della vita vissuta in direzione della morte e si affida al presen­ te della coscienza assoluta. Prendendo spunto dalla sua capacità visiva, la fenomenologia intraprende il compito tanto sconcertante quanto seducente di mettere nuova­ mente a tema ciò che, noto da lungo tempo, è già stato visto mille volte, quasi che debba sorprendersi di come esso discenda dalla coscienza creatrice nell’istante del coglimento originario. Come pressoché nessun pensato­ re prima di lui, Husserl ha portato l’unità di pensiero e scrittura a sintesi gestuale. Per lui, la scrivania - purché vi abbia preso posto un vero filosofo - è la finestra sul mondo delle essenze; osservare e scrivere si dimostrano qui attività convergenti. In quanto esercizio infaticabile della mano che scrive, l’annotazione delle visioni feno­ menologiche tradisce il suo nucleo calligrafico. Della fi­ losofia, praticata come atto di ragione descrittiva, viene rivelata la natura profonda di burosofia; essa si mette in opera come attività di un intelletto che si è preso una vacanza dall’atteggiamento naturale. La sedia del filo­ sofo, che si immerge in asciutta estasi nelle sue descri­ zioni, sorregge un sedente osservante; dal portapenne del pensatore cola l’inchiostro dell’evidenza originaria: i suoi tratti di penna serbano sulla carta, come luce coa­ gulata, le intuizioni viventi. La scrivania del meditante

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è il luogo al quale costui si compiace di lasciare che il mondo sia presente nella sua globalità. Come teatro pri­ vilegiato per la tematizzazione di tutto ciò che appare, la scrivania del filosofo assurge a belvedere trascendentale. Solo per lui questo poteva trasformarsi in un processo di revisione contro i giudizi erronei della ragione fret­ tolosa, abituata a procedere, nella vita quotidiana così come nella scienza, verso autoillusioni gravide di con­ seguenze. In tale processo, la fenomenologia deponeva tanto contro la cecità alle essenze del relativismo e dello psicologismo volgari quanto contro la cecità alla sogget­ tività dell’oggettivismo scientista. In ultima istanza, la scrivania del fenomenologo è un altare cui officia il pen­ satore in quanto mero funzionario dell’assoluto; qui il filosofo presta servizio come vicario di un Dio limpido. Tuttavia, il ritiro del fenomenologo alla scrivania dell’introspezione universale non è riuscito, nell’insie­ me, a modificare il corso del mondo moderno. Come mossa da una forza più alta, l’evoluzione scientifico-tec­ nica moderna, nella sua tendenza fondamentale, si dirige verso stati sempre più ampi di naturalismo e relativismo. I guardiani fenomenologici dell’ente, che in quanto occhi di Dio si sono esercitati nella concezione fenomenolo­ gica, si sono trovati sempre più esclusi e superati da un processo di ricerca che indirizza la civiltà moderna ver­ so un naturalismo tecnologico integrale. Le psicologie dell’inconscio dell’epoca avevano già minato il progetto di una scienza integrale delle azioni della coscienza co­ stitutiva del mondo, e dagli sviluppi della cibernetica e dei rapporti di capitale globalizzati è più che mai venuto un nuovo mondo di fatti cui soggiace un modo d’essere non riferibile alla coscienza. Il “mondo della vita” della modernità appare sempre più infarcito di oggetti tecnici che offrono alla coscienza solo una superficie: tali super-

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fici di tasti e segni, fra le quali ci sono apparati di estrema complessità rivolti ai loro utenti, non si possono quasi più considerare fenomeni nello specifico senso del ter­ mine, essendo caratterizzati dal fatto che in essi l’essen­ za del fenomeno è venuta meno. Ciò che è tecnico per essenza non si presenta più, al cospetto della coscienza, in quanto fenomeno. Considerato l’ambiente tecnico in cui opera, la fenomenologia si pone come testamen­ to filosofico del mondo pretecnico. Ancora per Martin Heidegger, l’allievo più originale di Husserl, che avreb­ be tradito il maestro sotto più di un rispetto, la tecnica restava una grandezza metafisicamente sospetta; in essa percepiva un prodotto dell’ingiustizia fenomenologica e credeva di riconoscervi un evento ontologico erroneo. Dal pensiero heideggeriano come da quello husserlia­ no si può ricavare che l’impossibilità di giungere a una filosofia della tecnica sul terreno di una teoria che, in base alla convenzione “vetero-occidentale”, muove dal primato della corrispondenza fra pensiero ed essere. E certamente, dell’epocale forza suggestiva dello sguardo fenomenologico dà un’ulteriore testimonianza indiret­ ta l’odierna teoria dei sistemi (per così dire, promossa a fondazione teorica del mondo tecnico), in cui il soggetto trascendentale - al quale è stato dato un nuovo formato nella figura dell’osservatore osservato - ritorna ossessi­ vamente. Ma l’attuale tensione verso un pensiero basa­ to sulla teoria dei sistemi non rivela una perpetuazione tecnicamente adeguata di motivi husserliani? Nella sua forma originale, l’opera di Husserl - che non a caso si conclude con il richiamo, rimasto isolato, a un eroismo della ragione cui dev’essere dato nuovo stimolo - tiene desto il ricordo della grandezza e dei limiti della cultura europea della razionalità.