«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento [PDF]

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Zitiervorschau

«Un paradigma

in cielo»

Platone politico da Aristotele al Novecento Mario Vegetti

Carocci

«Un paradigma in cielo»: così Platone definisce nella Repubblica il suo modello utopico di società giusta, una sorta di stella polare per l'orientamento morale e politico dell'esistenza umana. Questo libro ricostruisce la storia delle interpretazioni antiche e soprattutto moderne del pensiero politico di Platone: un viaggio avventuroso attraverso le grandi filosofie dell'Ottocento e i conflitti politici e ideologici del Novecento, che hanno via via configurato un Platone liberale e socialista, totalitario (secondo i casi nazista o comunista), e infine persino antipolitico. Da questa complessa vicenda interpretativa c'è molto da imparare su Platone, e ancora di più sulle esperienze intellettuali della nostra modernità.

Mario Vegetti è professore emerito di Storin della filosofia antica all'Università di Pavia. Fra le sue opere principali: L'etica degli antichi (Laterza, 2007"), Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003), Dialoghi con gli antichi (Academia Verlag, 2007), un grande commento alla Repubblica ó\ Platone in sette volumi (Bibliopolis, 1998-2007) e la traduzione di questo dialogo con ampia introduzione (Rizzoli. 2006).

€ 18,50

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Mario Vegetti

«Un paradigma in cielo» Platone politico da Aristotele al Novecento

a Carocci editore

i" edizione, marzo 2009 © copyright 2009 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel marzo 2009 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino ISBN 978-88-430-4881-6 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Siamo su Internet: http://www.carocci.it

Indice

Premessa 1.

ii

Platone politico

15

I testi 15 La biografia 16 Che cosa significa "politica" in Platone? Nota bibliografica 25 2.

Alle origini dell'interpretazione

19

27

Aristotele: il canone della critica politica 27 Proclo: l'ermeneutica della spoliticizzazione 34 Medioevo e Rinascimento: dall'allegoria alla teologia Nota bibliografica 40 3.

I paradigmi della modernità

38

41

Kant: gli ideali della ragione 41 Hegel: lo "spirito del tempo" 44 Fra Kant e Hegel: liberalismo e socialismo

50

I grandi storici: Zeller, Grote, Gomperz / Platone "socialista": Pohlmann e Natorp

Nota bibliografica 4.

66

Dal Terzo umanesimo al Platone "nazista"

69

"Sotto il segno di Platone": Wilamowitz, Jaeger, Stenzel L'usurpazione nazista di Platone 76 Nota bibliografica 86

69

5-

Platone in Occidente fra le due guerre: Francia, Italia, Inghilterra 89 Il Platone politico in Francia 89 Cattolici e liberali nell'Italia fascista In terra liberal-democratica 99 E i bolscevichi? 105 Nota bibliografica 107

6.

Storicismo e ingegneria sociale: il Platone di Popper Perché Platone? 109 Diagnosi e terapie 110 Platone e lo storicismo regressivo L'ingegneria sociale utopica 114 Dopo Popper 117 Nota bibliografica 119

7.

92

109

111

Difendere Platone da Popper (oda sé stesso?)

121

Platone liberal-democratico 122 Platone utopista 128 Platone ironico 130 Ironia / Eros / Filosofia e politica Nota bibliografica

8.

142

Platone senza politica Platone impolitico

145

145

Katoikizxin

La questione della Lettera VII 152 Una replica oltre il Muro: lo Streit um Platon nella DDR Nota bibliografica 158

156

9-

I,a questione dell'utopia

161

Utopie di evasione 161 Utopia di ricostruzione 162 Dall'utopia progettuale alla teoria normativa Nota bibliografica 168

10. Platone politico, oggi

169

La polisemia platonica 169 L'eccesso ermeneutico 171 Che cosa resta? 172 Nota bibliografica 176

Indice dei nomi

177

164

Premessa

L'opera politica di Platone ha costituito, già dall'antichità e poi soprattutto fra Ottocento e Novecento, uno dei più cruenti campi di battaglia sui quali si sia scatenato il conflitto delle interpretazioni. Questo ne fa certamente un caso di prima grandezza in quella storia della ricezione e dell'efficacia dei testi filosofici che — come è ormai convinzione generale - risulta utile per la comprensione sia dell'autore interpretato sia delle culture che lo interpretano. Quando poi, come nel nostro caso, l'ampiezza del ventaglio ermeneutico è tale da risultare persino scandalosa, la sua ricostruzione storiografica diventa indispensabile per evitare il disorientamento nella lettura di quei testi o l'adozione di punti di vista in un senso o nell'altro pregiudicati; d'altra parte, questa stessa lettura non può esimersi dal fare i conti con una plurisecolare tradizione esegetica così radicalmente conflittuale. L'indagine cui è dedicato questo libro nasce per così dire "sul campo", da interrogazioni poste da un lavoro più che decennale di commento alla Repubblica. La pluralità delle interpretazioni reperibili nell'enorme letteratura relativa a questo dialogo non poteva essere considerata come una semplice questione di bibliografia specialistica e andava invece a sua volta ricostruita e interpretata come una vicenda culturale a sé, tutt'altro che priva però di influenza sulla nostra precomprensione del testo platonico. Acquisirne consapevolezza critica significava poter leggere il Platone politico non certo da un punto di vista "neutrale" (presunzione tanto ingenua quanto impossibile), ma almeno rendendosi conto delle poste in gioco nel conflitto delle interpretazioni e della loro complessa stratificazione. Qualche risultato dell'indagine, per quanto riguarda Platone da un lato, la storia delle sue interpretazioni dall'altro, viene indicato negli ultimi due capitoli del libro, ma la discussione delle vicende ermeneutiche è naturalmente presente in ogni parte di esso. 11

«UN l'ARADKJMA IN CIKI.O»

La ricostruzione della storia esegetica del Platone politico qui delineata presenta lacune che devono essere motivate. La prima, di carattere cronologico, riguarda tutto l'arco di tempo che va dal Cinquecento al Settecento (pure così ricco di discussioni intorno a Platone). Ciò è dovuto al fatto che l'interrogazione da cui sono partito concerne soprattutto le interpretazioni della modernità. Era necessario ricostruirne i presupposti antichi e umanistici, che hanno agito in modo più o meno implicito anche sugli interpreti moderni, ma ripercorrere l'intera vicenda storica avrebbe allontanato eccessivamente l'indagine dalla sua destinazione principale, le letture platoniche dell'Ottocento e del Novecento, che ancora orientano direttamente la produzione storiografica intorno al pensiero politico del filosofo. D'altra parte, ho deciso di concentrare l'attenzione su autori e opere che mi sembravano centrali e decisivi, omettendone molti altri pure significativi. È parso più interessante analizzare da vicino le ragioni e gli argomenti addotti nei testi cruciali della vicenda storiografica, piuttosto che compierne una rassegna complessiva, per così dire a volo d'uccello, come fa ad esempio il brillante libro di Melissa Lane sulla Plato 's Progeny. Solo una ricognizione stringente e documentata mi sembrava in grado di andar oltre la constatazione di una bizzarra varietà di interpretazioni, per comprenderne più a fondo collocazione e motivi e anche, eventualmente, per imparare quello che c'era da imparare ai fini di una più consapevole lettura di Platone. Infine, c'è da rilevare che l'indagine verte soprattutto sulla Repubblica. Ciò è dovuto al fatto che questo dialogo — assai più che il Politico e le Leggi - ha costituito la posta in palio più rilevante nel conflitto delle interpretazioni, relegando gli altri testi in una posizione di solito marginale o subalterna. Il titolo del libro. Un paradigma in cielo, è una citazione dal celebre passo di Repubblica ix 592b, che viene discusso nel CAP. 8. La prima occasione di questa ricerca mi è stata offerta dal compianto amico Emanuele Narducci, che mi invitò a discuterne in una giornata di studi da lui organizzata a Sestri Levante nel 2005 {Platonepolitico nel Novecento, in Aspetti della fortuna dell'antico nella cultura europea, a cura di E. Narducci, S. Audano e L. Pezzi, ETS, Pisa 2005, pp. 51-63). 12

l'RUMI'.SSA

Desidero ringraziare gli amici Walter Cavini, Franco Ferrari, Giovanni Giorgini, Francisco Lisi, Franco Trabattoni, Gherardo Ugolini e Federico Zuolo che mi hanno aiutato nel reperimento del materiale bibliografico pertinente. Ringrazio inoltre, per i preziosi stimoli offerti nella discussione, gli studenti del Laboratorio di Storia della filosofìa che ho tenuto nella primavera del 2008 all'Università di Pavia.

13

1

.

Platone politico

I testi Diogene Laerzio (iii 50-51) elenca fra i dialoghi platonici appartenenti al genere «politico» la Repubblica {Politela, o «sul giusto»), le Leggi {Nomai), il Minosse, VEpinomide, il Crìzia. Eliminiamo subito dalla lista il Minosse, certamente spurio, e VEpinomide, dovuto a Filippo di Opunte; è opportuno togliere anche il Crizia, che del resto lo stesso Diogene considera altrove (iii 60) come «etico»: si tratta probabilmente di un'appendice al Timeo, e ne condivide l'enigmatica ambiguità, dichiaratamente politica ma in effetti piuttosto fisica («fisico» lo considera in effetti Diogene) e teologica. La lista di Diogene va invece senza dubbio integrata con il Politico {Sulla regalità), che egli considera di genere «logico» (iii 59). Restano dunque tre testi inequivocabilmente "politici", ai quali potrebbero aggiungersi larghe parti del Gorgia e del Protagora, l'intero Menesseno, il Critone e la Lettera VII, se la si volesse considerare autentica. Ma, anche prescindendo da queste integrazioni, è subito evidente, già sul piano quantitativo, la parte occupata dalla riflessione politica nell'insieme delia produzione platonica. In effetti, le Tetralogie di Trasillo includono 56 dialoghi, 8 dei quali (incluse le Epistole) sono sicuramente apocrifi. Ne restano 48, e poi 45 se si sottraggono i tre testi politici. Sommando al Politico i dieci libri della Repubblica e i dodici delle Leggi, si ottengono 23 unità dialogiche, più della metà, dunque, dell'intero corpus ascrivibile a Platone. Quanto basta, a prima vista, per convincersi che i temi della politica non fossero di certo secondari nell'ambito della sua riflessione. Gli stessi titoli ne danno una testimonianza piuttosto significativa: politela significa in greco sia l'assetto "costituzionale" di una comunità politica, sia l'estensione e la composizione gerarchica del corpo civico, incluso il diritto di cittadinanza e di accesso alle cariche (di fatto, i due significati tendevano a 15

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coincidere, perché ciò che distingueva, ad esempio, una costituzione democratica da una oligarchica era principalmente questo diritto). Quanto a nomai, si tratta evidentemente dell'insieme legislativo che determina il funzionamento di un sistema costituzionale; e il Politico verte sulla definizione dei tipo d'uomo cui spetta l'esercizio di un potere efficace nell'ambito di un sistema politico che egli è chiamato a modellare. La centralità della questione politica in Platone era del resto testimoniata dall'edizione del grande filologo alessandrino Aristofane di Bisanzio (in sec. a.C.), che, a quanto attesta Diogene (in 61-2), avrebbe collocato la Repubblica al primo posto, prefigurando così anche un ordine di lettura dei dialoghi. È appena il caso di avvertire che la Repubblica, come del resto il Politico e le Leggi, non trattano solo di politica in senso stretto: ma, come vedremo, l'integrazione della politica in un più vasto quadro filosofico è un tratto tipico del pensiero platonico, e questo non altera la centralità di cui si è detto. D'altra parte, è altrettanto vero che temi politici sono quasi onnipresenti nei testi di Platone, Apologia al Lachete, dal Fedone al Fedro, oltre a quelli già menzionati come Protagora, Gorgia, Menesseno e Critone.

La biografia Sul ruolo che gli interessi politici giocarono nell'esperienza personale di Piatone disponiamo di un eccezionale documento (auto?)biografico, la Lettera VII. Com'è noto, sull'autenticità di questo testo si sono nutriti dubbi ben fondati, e la questione è probabilmente indecidibile sul piano strettamente filologico. Quello che non sembra invece opinabile è la sua attendibilità biografica: la Lettera, se non si deve allo stesso Platone, deve tuttavia venir fatta risalire a un autore a lui molto vicino, forse Speusippo o un allievo di Speusippo che poteva accedere a documenti accademici in mano al maestro. È da notare che, per quanto riguarda le vicende siracusane, il resoconto della Lettera (che ha certamente intenti apologetici circa le intenzioni che mossero Platone e gli Accademici) risulta confermato per l'essenziale da Plutarco, che poteva disporre di una documentazione indipendente. Del resto, gli storici sono in generale assai più propensi degli interpreti filosofici di Platone a riconoscere l'attendibilità del documento, perché non sono coinvolti dalla discussione sul significato politico del pensiero platonico che, come vedremo, ha dominato l'esegesi della seconda metà del x x secolo (sulla questione si tornerà nel C;AP. 8). 16

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IM.A'IONH l'Ol i I ICX)

Le inCoriiiazioni essenziali che la Lettera VII ci propone intorno all'atteggiamento platonico nei riguardi della politica possono venire così brevemente riassunte. 1. Un'iniziale propensione all'attività politica, del tutto normale in un giovane ateniese del v secolo nato in una famiglia di elevata condizione sociale e di spiccata vocazione politica, che annoverava personaggi importanti, come gli zii Pirilampe (di parte periclea), Crizia e Carmide (che avrebbero primeggiato nel regime tirannico dei Trenta): «Quando ero giovane, condivisi una passione comune a molti: pensavo, appena raggiunta la mia indipendenza, di entrare nella vita politica della città» (324b). 2. Il rifiuto del coinvolgimento nella tirannide dei Trenta, per i loro crimini, e la successiva delusione nei riguardi della democrazia restaurata, colpevole, agli occhi di Platone, del processo e della condanna a morte del suo maestro Socrate. 3. La convinzione, maturata in seguito a queste esperienze, dell'impossibilità di un intervento personale nelle vicende politiche ateniesi, e dell'estrema difficoltà di reperire "amici" intenzionati ad impegnarsi in un'impresa radicalmente riformatrice, pur «continuando ad attendere sempre il momento opportuno per l'azione». Alla fine, mi resi conto che tutte le città di adesso sono mal governate (il loro sistema legislativo è praticamente incurabile a meno di dedicarvi straordinari preparativi accompagnati dalla fortuna). E fui costretto a dire, elogiando l'autentica filosofia, che solo essa consente di individuare tutte le forme di giustizia nell'ambito sia della vita politica sia di quella personale: le generazioni umane non saranno liberate dai loro mali finché quel tipo di uomini che praticano la filosofia in modo autentico e vero sia pervenuto al potere politico oppure coloro che comandano nelle città, per una qualche sorte divina, non comincino a praticarla (326a-b).

4. Infine, la decisione di intervenire a più riprese nella politica siracusana (Siracusa era una delle maggiori metropoli del mondo greco e costituiva un vero laboratorio politico, in cui, dopo un'esperienza democratica, si era affermato un regime tirannico deprecato ma prestigioso ed efficiente, retto da Dionisio i). Con la scelta siracusana, Platone rompeva definitivamente con la politica ateniese: la città siciliana era una tradizionale nemica degli ateniesi, avendo determinato la disfatta della grande spedizione del 415/3, durante la guerra del Peloponneso, e con17

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tribuito alla loro umiliazione con la "pace di Antalcida" del 387, imposta da Sparta e dalla Persia e sostenuta da Dionisio. Le ragioni che spinsero Platone al primo viaggio a Siracusa, nel 388/7, si possono soltanto supporre: forse, una vaga speranza di indurre il tiranno ad adottare una forma di governo ispirata ai principi filosofici di giustizia, o l'intento di trovare un sostegno autorevole per la fondazione della scuola ateniese di Platone, l'Accademia. Conclusa questa esperienza con un completo insuccesso, all'Accademia Platone dedicò i successivi vent'anni della sua esistenza. Ma nel 367, morto Dionisio i, gli era succeduto il figlio Dionisio 11, che il nobile siracusano Dione - considerato da Platone come uno dei migliori allievi dell'Accademia — riteneva disponibile a recepire l'insegnamento morale e politico del maestro. Le parole con cui l'autore della Lettera spiega le motivazioni di Platone nell'accettare la pressante richiesta di Dione meritano di venire riportate per esteso, perché esse — largamente confermate come sono da molti testi dialogici - contribuiscono in modo significativo a chiarire l'atteggiamento del filosofo nei riguardi del coinvolgimento politico. Se mai si fosse dovuto tentare di realizzare le mie concezioni sulle leggi e la forma di governo, quello era il momento di provarci: convincere un solo uomo mi sarebbe bastato per mandare tutto a buon fine. Con questi pensieri e con determinazione salpai da Atene, non per i motivi che qualcuno mi attribuiva, bensì perché mi sarei vergognato troppo di apparire a me stesso come un uomo tutto parole, ma incapace di impegnarsi in qualsiasi azione [...]. Partii dunque, seguendo ragione e giustizia per quanto è possibile a un uomo, e lasciando per questo le mie non indegne occupazioni, per recarmi sotto il giogo di una tirannide certo non adatta né ai miei discorsi né a me stesso (328b, 329a-b).

La nuova spedizione (366/5) terminò con un disastroso fallimento, per la rivalità fra Dionisio e Dione e il rifiuto del tiranno di riformare il suo dominio. Lo stesso Platone riuscì a tornare sano e salvo ad Atene solo grazie al deciso intervento del pitagorico Archita, tiranno di Taranto, con il quale aveva stretto un rapporto di amicizia. Il filosofo intraprese nel 361 un nuovo e altrettanto inutile viaggio a Siracusa, ancora per le insistenze di Dione e forse dello stesso Archita. Si interrompono a questo punto, all'età di quasi settant'anni, i suoi tentativi di intervenire direttamente nella vita politica (ma non la sua riflessione sul governo, visto che attese alla scrittura delle Leggi fino ai suoi ul-

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P I A T O N H L'OI I T I C O

timi-giorni di vita). Non c'è dubbio tuttavia che Platone abbia almeno tacitamente autorizzato la spedizione militare a Siracusa nel 357, capeggiata da Dione e da altri Accademici e appoggiata da Speusippo, che si concluse con la deposizione di Dionisio 11 e con l'ascesa alla tirannide dello stesso Dione. Se fu questo l'ultimo episodio politico che coinvolse indirettamente Platone, la spedizione siracusana costituì invece l'esordio di una convulsa partecipazione dell'Accademia alle vicende delle poleis greche, e soprattutto delle loro tirannidi, nella seconda metà del iv secolo. Ma questa è un'altra storia, benché essa possa apparire indicativa dell'ispirazione che in modo esplicito o implicito Platone aveva trasmesso ai suoi allievi.

Che cosa significa "politica" in Platone? Ci siamo finora basati sull'oggettività dei dati testuali, e sulla relativa attendibilità di una (auto)biografia di cui non va comunque dimenticato l'intento apologetico. Rispondere in questa sede introduttiva alla domanda su che cosa significhi "politica" per Platone — risposta che costituisce propriamente la posta in palio nel conflitto delle interpretazioni di cui si occuperà questo libro - comporta invece il difficile sforzo di mantenersi per così dire a un grado zero dell'ermeneutica, per evitare formulazioni in qualche modo preconcette e premature. Tenteremo dunque di offrire qualche indicazione preliminare, per definire l'ambito dei problemi in gioco senza pregiudicarne il senso complessivo. 1. Ciò che interessa Platone nel campo degli "affari della città", tapolitikà, sembra essere costituito da questi aspetti: l'accesso ai ruoli di governo; la finalità del potere che essi consentono; il conseguimento del consenso; la struttura economico-sociale della città e i rapporti fra i gruppi che la compongono; la preparazione e la condotta della guerra. Platone è meno interessato nell'insieme all'ingegneria costituzionale e legislativa, nonché alle strutture istituzionali che la attuano (su cui si accentra invece, ad esempio, l'interesse storiografico di Aristotele nella Costituzione degli ateniesi), anche se questi aspetti vengono in effetti trattati nelle Leggi. 2. L'approccio alla politica ha in linea molto generale un carattere diagnostico: c'è una «malattia della città» {poleos nosema, Resp. viii 544C7). 19

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Questa malattia colpisce in primo luogo, ma non soltanto, la città democratica di modello ateniese: la critica alle più diffuse forme politiche esistenti (la democrazia, l'oligarchia e la monarchia assoluta o tirannide) è condotta nel libro vili della Repubblica e ripresa nel libro iii delle Leggi. li sintomo più evidente della crisi epocale della città, del fallimento del progetto di civiltà che i greci avevano cercato di perseguire nella loro storia, è la perdurante frattura della polis in due parti tra loro ostili e contrapposte, «la città dei ricchi e la città dei poveri» {Resp. iv 422e), ognuna delle quali risulta ulteriormente frantumata in una pluralità di nuclei di interesse privati. La massima aspirazione dell'impresa storica dei greci, la costruzione di una comunità politica unita, concorde e pacificata, non è dunque mai stata realizzata, e il suo scacco è diventato manifesto nelle vicende storiche che hanno fatto da sfondo all'esperienza personale di Platone (le staseis o "conflitti civili interni", e quelle guerre fra greci che vanno a loro volta considerate come guerre civili della comunità ellenica). Lo smascheramento della crisi, la diagnostica della malattia sono affidate da Platone non solo al "suo" Socrate, che si pone in modo esplicito - fino al processo e alla condanna - come antitesi vivente della degenerazione della città, ma anche alla testimonianza per così dire "estorta" nei dialoghi agli ideologi della politica, che essi siano democratici come Protagora, "realisti" o filo-tirannici come Polo, Callide e Trasimaco. 3. Una critica particolarmente aspra viene rivolta contro la democrazia ateniese, contro i suoi maggiori leader come Temistocle e Pericle (la cui celebre orazione funebre per i caduti in guerra, nella versione attestata da Tucidide, viene parodiata nel Menesseno), contro le procedure e i modi di vita che la caratterizzano (il sorteggio delle cariche, l'eccesso di libertà che degenera nell'anarchia). L'essenziale di queste critiche è svolto nel Gorgia e riecheggia nei libri vi e viii della Repubblica, e ancora nel libro 11 delle Leggi. Il potere democratico, vittima della ricerca del consenso, si trasforma in una pratica demagogica che è asservita ai peggiori desideri delle masse ignoranti, invece di guidarle verso il bene comune della collettività politica. 4. Di fronte a queste patologie, Platone propone diverse strategie terapeutiche, miranti a ristabilire l'armonia e la salute delle città. Si tratta in generale di una distribuzione dei ruoli di comando che rispecchi la dotazione psicologica dei diversi tipi di individuo presenti nella comunità politica. Nella Repubblica, essa dà luogo, secondo la terminologia di Dawson, a un'utopia di "basso profilo", di ispirazione dorica, nei libri 20

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FM A rONI! l'OI.NKX)

ii-iv, f a im iitopia comunistica di profilo alto nel libro v; nelle Leggi, si tratta piuttosto di una rigida delimitazione del corpo civico che assegna i ruoli di governo a un gruppo ristretto di cittadini-capifamiglia. Queste strategie avrebbero comunque lo scopo di garantire l'unità della città nella forma di una gerarchia dei ruoli sociali, della concordia interna del gruppo dirigente, dell'accettazione del suo potere da parte dei ceti subalterni. Nella Repubblica la proposta terapeutica si presenta nella forma di un argomento di tipo condizionale. Se si vuole finalmente costruire una città governata in vista della felicità pubblica, dunque unita, armoniosa e pacificata, allora occorrerà in primo luogo ridistribuire le funzioni sociali in rapporto alle capacità dei membri della comunità. Ci dovrà essere un ristretto gruppo di governo, capace di comandare in vista degli interessi generali, formato dagli individui in cui prevale il principio di razionalità {logistikòn)-, un gruppo combattente, alleato e subordinato al primo, costituito da coloro nel cui apparato psichico prevalgono le motivazioni di autoaffermazione aggressiva {thymoeidès)-, infine, un gruppo di produttori (agricoli e artigianali) e di commercianti, di cui faranno parte gli individui dominati dal desiderio di ricchezza e di piacere {epithymetikòn). La subordinazione gerarchica ma consensuale fra questi gruppi dovrà essere garantita, grazie a un'impresa di educazione collettiva, da una virtù comune, la sophrosyne o moderazione, e la loro collaborazione sarà il suggello della giustizia finalmente realizzata nella città. In base all'assioma tipicamente platonico che ciò che garantisce l'unità e la stabilità della comunità è l'armonia del suo gruppo dirigente, occorrerà inoltre che quest'ultimo sia posto al riparo dalla tentazione di esercitare il potere nel proprio interesse e non in quello generale. Se il gruppo dirigente deve dunque essere coeso e disinteressato, allora occorre che ai suoi membri sia negata qualsiasi privatezza di interessi, sia patrimoniali sia affettivi. I due "scandali" proposti nel libro v della Repubblica consistono perciò nell'abolizione della proprietà privata e della famiglia: all'interno del gruppo dirigente vigeranno sia il comunismo dei beni sia la comunione dei partner riproduttivi e l'allevamento collettivo della prole. Il gruppo dirigente andrà inoltre accuratamente selezionato e consolidato, sia attraverso attente pratiche educative, sia attraverso una politica "eugenetica" che accoppi costantemente i suoi migliori elementi, come si fa nell'allevamento degli animali di razza (questa politica comporta una menzogna dettata dalla "ragion di stato", che faccia passare la selezione riproduttiva come effetto di sorteggi casuali; una simile men21

«UN PAKADUiMA IN ClliLO»

zogna, a scopi propagandistici, era stata esposta nel libro iii, dove si trattava di far credere ai cittadini che la loro distribuzione in diversi gruppi sociali fosse dovuta a una differenza della rispettiva natura originaria, aurea per i governanti, argentea per i combattenti, bronzea e ferrea per gli altri). Tutto ciò, dice Platone, è certamente contrario al costume vigente, ethos tradizionale, ma non alla «natura» (456C), come è confermato dalla comunanza di ruoli e di funzioni fra i maschi e le femmine dei cani da caccia e da guardia. Certo, (\\xe\i'ethos andrà radicalmente cancellato insieme a tutte le leggi vigenti nelle città storiche: la misura più drastica proposta da Platone è l'iniziale espulsione dai ruoli di comando di tutti i membri della comunità che abbiano più di dieci anni e siano quindi stati educati secondo la tradizione esistente, e la loro destinazione ai lavori agricoli (VII 54ia) finché non possano venire rieducati al nuovo assetto della città. Questo, ripete a più riprese Platone, è necessario se si vuole ottenere la guarigione della città; è indubbio che si tratti di una terapia di difficile realizzazione, tuttavia non impossibile (vi 499d e passim), perché sarebbe ridicolo che si trattasse soltanto di «castelli in aria» (v 456C e passim). Quale poi sia in effetti, secondo il loro autore, lo statuto delle terapie della città delineate da Platone - progettuali, utopiche, ironiche, etiche oltre che o più che politiche — è questione controversa nel gioco ermeneutico, che va dunque almeno per ora lasciata impregiudicata. 5. Poiché la questione del potere (la domanda "a chi spetta il comando.'") è comunque centrale nelle strategie platoniche, altrettanto decisivo risulta il problema di individuare le figure cui spetti il ruolo attivo nella riforma, insomma di chi possa agire da medico della città malata, secondo l'efficace metafora su cui insiste il Politico (z96b ss.). Si tratta, secondo il libro v della Repubblica, di una élite di «filosofi», intellettuali dalle elevate doti intellettuali e morali, il cui luogo di incubazione non è arbitrario individuare nell'Accademia platonica; oppure di un singolo «vero politico» o «uomo regio», dotato di una scienza politica che gli consente di fare a meno della legislazione scritta, il cui avvento è ipotizzato nel Politico-, o ancora di un «figlio di dinasta», o insomma di un buon «giovane tiranno», disposto a convertirsi alla filosofia o meglio ad accettare il consiglio di un legislatore filosofo, di cui si parla nel vi libro della Repubblica, nel iv delle Leggi, e che forse veste i panni di Dionisio II o di Dione nella Lettera VII. Si può trattare, infine, degli astro-teologi membri del «Consiglio notturno» che deve vigilare sul rispetto della co22

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IM.A I T ) N K P O M I H ; ( )

stituzionc previsto nel libro xii delle Leggi. Su tutte queste figure, sulla loro plausibilità teorica e sulla loro possibilità politica, valgono naturalmente gli stessi interrogativi formulati nel paragrafo precedente, e il loro senso va lasciato qui altrettanto impregiudicato. 6. La questione delle strategie terapeutiche e della loro messa in opera efficace varia a seconda che si tratti di guarire una città esistente oppure di prevenire l'insorgere di patologie sociali in una di nuova fondazione. II primo caso ha a sua volta due varianti: se si tratta di una città a regime democratico, sul modello ateniese, è rilevante l'impiego degli strumenti di una buona retorica per la persuasione delle masse, cui si allude nel libro VI della Repubblica e che vengono tematizzati nel Fedro, oppure la questione dell'instaurazione, anche coercitiva, di una nuova forma di potere; nel caso di città a regime tirannico, com'era Siracusa, il problema è invece quello dell'educazione-conversione del tiranno o di un suo figlio che risulti ben disposto. Nel secondo caso, è invece decisiva l'opera del consulente legislatore nei riguardi dei fondatori della nuova città: è il compito che si assume, nelle Leggi, lo straniero ateniese verso i coloni della futura Magnesia; ed è legittimo supporre che un simile ruolo abbiano svolto, o sperato di svolgere, lo stesso Platone e i membri dell'Accademia in diverse città della Grecia del iv secolo. 7. Qualsiasi regime politico, per quanto prossimo alla perfezione, è tuttavia destinato alla crisi e alla transizione in altre forme. Questo si deve in primo luogo alla strutturale instabilità ontologica del tempo storico e a quella antropologica della natura umana, esposta - nonostante ogni condizionamento educativo - alla pressione delle componenti irrazionali dell'io, e inoltre alle contraddizioni che inevitabilmente ineriscono a tutti i sistemi di governo. Questa tesi di fondo è sostenuta in forme diverse nel libro vili della Repubblica e nel iii delle Leggi, e viene adombrata nel mito del Politico-, nel primo di questi testi, a differenza degli altri due, non si ha comunque nessun accenno ad un possibile andamento ciclico della temporalità storica. Le fenomenologia storica della Repubblica prevede dunque una decadenza dalla giustizia della «bella città» {kallipolis) alla «timocrazia» (potere dell'ambizione e della forza), all'oligarchia (potere della ricchezza), alla democrazia (potere dei desideri anarchici), fino al regime abietto della tirannide, che comporta l'universale asservimento degli uomini a un tiranno a sua volta asservito ai suoi desideri. La transizione fra i diversi regimi è dovuta alle contraddizioni 23

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interne specifiche di ognuno, e nessuna via d'uscita dalla tirannide viene esplicitamente indicata. Quello fin qui tracciato costituisce, come abbiamo avvertito, un quadro minimo e solo informativo dell'ambito su cui verte la riflessione politica di Platone, e sulle sue variabili modalità. Questo quadro risulterebbe tuttavia già deformato e fuorviante se non vi si aggiungesse una precisazione necessaria. Nessun testo platonico è destinato in modo esclusivo alla discussione delle questioni politiche, ta politikà, come lo è ad esempio la Polìtica di Aristotele, né questo sarebbe possibile in ragione dello stile d'insieme della filosofia di Platone. La politica vi presuppone comunque un'antropologia, e questa si fonda su di una psicologia. Ma la psicologia platonica può a sua volta essere di tipo fenomenologico e appunto "politico" — come lo sono dichiaratamente quella del libro iv della Repubblica e in parte anche la psicofisiologia del Timeo — oppure metafisico, ponendo allora al centro la questione dell'immortalità - come quella del Fedone, con le sue propaggini mitologiche relative al tema della reincarnazione, come accade nel libro x della Repubblica e altrove. D'altro canto, la politica è strettamente intrecciata con un'etica, perché il suo compito consiste nell'instaurazione della giustizia nel mondo umano. Ma l'etica platonica - preoccupata com'è di garantire l'assolutezza e l'oggettività del piano dei valori contro il relativismo sofistico e l'arbitrarietà del potere - non può fare a meno di prolungarsi in un'ontologia, che è primariamente quella delle idee-valori, come appunto il giusto e il buono. A sua volta, la collocazione metaempirica delle idee di valore impone la questione della loro conoscibilità, che richiede la costruzione di un'epistemologia relativa al piano noetico-ideale. La struttura della filosofia platonica può insomma venire rappresentata come un triangolo, ai cui vertici stanno verità, essere e valore (tanto etico quanto politico), e il cui perimetro può venire tracciato, secondo i casi, a partire da uno qualsiasi dei vertici. Onnipresente in Platone, la dimensione politica non può quindi venire mai isolata dagli altri ambiti che la fondano e la orientano, e questo decisivo aspetto filosofico può contribuire in sé stesso a spiegare le incertezze esegetiche e il vastissimo arco delle interpretazioni che hanno contrassegnato la tradizione vertente sul "Platone politico". Di questa tradizione, e delle sue matrici genealogiche, si tratta ora di rendere conto. 24

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IM.A IONI', l'Ol i I ICO

Nota bibliografica Per l'attribuzione della Lettera VII a Speusippo o alla sua cerchia, cfr., autorevolmente, M. I. F I N L E Y , Plato and Practical Politics, in Id., Aspects ofAntiquity, Penguin, Harmondsworth 1977^, pp. 74-87; propende per l'autenticità il recente studio di L. BRissoN (éd.), Platon. Lettres, Flammarion, Paris 1987, pp. 133-66. Tutta la documentazione sul coinvolgimento politico di Platone e dell'Accademia è raccolta e discussa in K. T R A M P E D A C H , Platon, die Akademie und die zeitgenossische Politik, in "Hermes - Einzelschriften", 66, Stuttgart 1994. Sul problema, cfr. gli scritti di M. I S N A R D I P A R E N T E . Filosofia e politica nelle Lettere di Platone, Guida, Napoli 1970, e L'Accademia antica e la politica del primo ellenismo, in G. Casertano (a cura di), /filosofi e ilpotere nella società e nella cultura antiche. Guida, Napoli 1988, pp. 89-117; cfr. recentemente M. V E G E T T I , Filosofia e politica: le avventure dellAccademia, in F. L. Lisi (ed.), The Ways ofiLife in ClassicalPoliticaiPhilosophy, Academia, Sankt Augustin 2004, pp. 69-81. Un resoconto storico delle vicende siracusane nel iv secolo è in F. M U C C I O L I , Dionisio n, C L U E B , Bologna 1999. Sulla critica di Platone ai regimi politici esistenti, cfr. L. B E R T E L L I , Platone contro la democrazia (e l'oligarchia), in CR vi, 2005, pp. 295-396; J . - F . P R A D E A U , Platon, les démocrates et la démocratie, Bibliopolis, Napoli 2005. Per il "triangolo" platonico e una sintetica presentazione dello stile della filosofia di Platone, cfr. M. V E G E T T I , Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003. La citata distinzione fra i livelli dell'utopia in Platone è di D. D A W S O N , Cities ofithe Gods. Communist Utopias in Greek Thought, Oxford University Press, New YorkOxford 1992. Un'equilibrata presentazione introduttiva del pensiero politico di Platone è in M. S C H O F I E L D , Plato. Politicai Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2006. Qui e altrove, i sette volumi di M. V E G E T T I (a cura di), Platone. Repubblica, traduzione e commento, Bibliopolis, Napoli 1996-2007, sono indicati con la sigla CR cui fa seguito il numero del volume e l'anno di pubblicazione.

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Alle origini deirinterpretazione

Aristotele: il canone della critica politica Si deve ad Aristotele la prima e più drastica operazione di isolamento dei temi propriamente politici dalla trama complessa del pensiero platonico. Condotta con precisione chirurgica, essa è imposta dal criterio di pertinenza disciplinare in base al quale Aristotele distribuisce il sapere dei suoi predecessori nella scrittura dei trattati di cui si compone l'articolata unità della sua enciclopedia. Così, la discussione condotta nel ii libro della Politica delle opinioni precedenti, e in particolare della Repubblica e delle Leggi di Platone (il Politico non viene invece menzionato), è focalizzata sugli aspetti di quelle opere che risultavano appunto di pertinenza politica, rescindendone i legami, molto stretti come si è visto nei testi platonici, con le dimensioni della psicologia, dell'etica, dell'ontologia, dell'epistemologia, della teologia. Alla fine della sua esposizione della Repubblica, Aristotele aggiunge, senza troppo nascondere il suo fastidio: «Per il resto, Socrate ha riempito il suo discorso con argomenti non pertinenti, e con discorsi sull'educazione dei governanti» {Poi. ii 6 I264b39 ss.). Che cosa resta di propriamente politico nel grande dialogo? Questo è il sommario che ne offre Aristotele: i. la comunanza di donne e figli; 2. la messa in comune delle proprietà; 3. l'ordinamento della cittadinanza in due grandi ceti, gli «agricoltori» e i combattenti, e la successiva selezione all'interno di questi di un gruppo di governo, «signore» {kyrios) della città; 4. la partecipazione delle donne alle stesse funzioni dei governanti {phylakes), guerra inclusa, e alla stessa educazione (11 6 i264b29 ss.). Questo riassunto (basato essenzialmente su parte dei libri iv e v della Repubblica) presenta un'omissione e qualche imprecisione o incertezza. L'omissione riguarda il carattere "filosofico" del gruppo di governo (i celebri filosofi-re del libro v). Essa può venire spiegata in due modi. 27

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non alternativi. Nel redigere il suo sommario, Aristotele si attiene per l'essenziale al riassunto della Repubblica che Platone stesso aveva formulato all'inizio del Timeo (i7a-i9a), nel quale già la figura dei filosofi-re era sparita: perché dunque non seguire un'omissione operata dallo stesso autore, per giunta in un'opera più tarda nella quale egli ripresentava l'essenziale del suo dialogo politico ? Si può d'altra parte ricorrere ancora una volta al criterio di pertinenza: quello che conta da un punto di vista politico è l'esistenza di una ristretta élite di governo selezionata all'interno del gruppo combattente; può apparire in questo contesto irrilevante il contenuto della sua formazione e del suo sapere (appunto quei «discorsi sull'educazione» che ad Aristotele sembravano estranei alla politica, anche se in effetti secondo Platone era proprio il sapere filosofico che legittimava il diritto al potere del gruppo dirigente). Imprecisione e incertezza riguardano invece il "comunismo" dei beni. Nella Repubblica, Platone non aveva parlato di comunione delle proprietà, ma di rinuncia alla proprietà da parte del gruppo di comando nella città; aveva inoltre esplicitamente ristretto a questo gruppo la forma di vita comunitaria. Aristotele sembra invece estendere la proprietà comune all'intero corpo sociale, anche se accenna al fatto che su questo punto Platone non avrebbe detto «nulla di preciso» circa la forma di proprietà degli agricoltori (ii 5 11643.14 ss.). Anche questa apparente incomprensione della Repubblica ha tuttavia una sua spiegazione. Ritornando nelle Le^i sul primo dialogo politico, lo stesso Platone aveva parlato di una proprietà collettiva della terra, il che poteva far pensare a un'interpretazione "autentica" della Repubblica in termini di una comunione dei beni estesa all'intero corpo sociale {Leg. v 739c-74oa). Così delimitati e compresi i contenuti politici della Repubblica, Aristotele può procedere alla sua revisione critica, non senza tributarle un elogio dall'intonazione ironica. «Una legislazione come questa presenta a prima vista un aspetto piacevole e un carattere filantropico: chi l'ascolta esporre è ben disposto, pensando che essa produrrà una mirabile amicizia di tutti verso tutti» (11 5 I263bi5 ss.). Si tratta però di un'illusione che Aristotele si impegna a dissipare, allestendo il suo formidabile dispositivo critico. Esso aggredisce il bersaglio a due livelli: propriamente politologico il primo, antropologico il secondo. Platone ha avuto certamente ragione nell'individuare come scopo della sua riforma politica l'unità della città. Ma nel perseguire questa finalità è andato oltre il segno, confondendo la desiderabile unità politica con quella che è propria della famiglia o addirittura del singolo indivi28

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l'ordine costituito come il bene supremo (ma il suo governo è considerato da Kant come «il peggior dispotismo che si possa immaginare»). Kant non ha dunque alcun dubbio - a differenza di quanto pensano molti interpreti contemporanei — circa la pertinenza del modello platonico all'ambito politico: esso rappresenta l'ideale regolativo di una «costituzione volta a fondare la massima possibile libertà umana in base a leggi tali da far sì che la libertà di ognuno coesista con quella degli altri» (lo scopo non è dunque immediatamente la massima felicità, ma questa conseguirà necessariamente e da sé a una tale costituzione). Il problema che resta aperto è semmai un altro. Kant è chiarissimo circa il ruolo valutativo e la causalità efficiente e finale del paradigma platonico rispetto alla condotta morale e alla fattualità politica. Ciò che Kant invece non dice è perché siano proprio i contenuti di quel paradigma cioè i lineamenti costitutivi della kallipolis - a svolgere il molo formale, di ideale trascendentale, che gli è stato riconosciuto. Ammesso che ogni sua realizzazione debba inevitabilmente risultare parziale e imperfetta, perché quella «norma eterna» di ogni possibile costituzione dovrebbe prevedere l'abolizione della proprietà privata e della famiglia (almeno per il gruppo di comando), il dominio di una élite intellettuale, l'esclusione della maggior parte dei cittadini dalle funzioni di governo? C'è un nesso necessario fra questi contenuti e il ruolo normativo dell'ideale platonico? A questi interrogativi, Kant non sembra interessato a rispondere (su di essi invece si concentrerà come vedremo l'interpretazione hegeliana). La sua straordinaria precisione concettuale, nel distinguere norme da fatti, neirassegnare al progetto platonico il suo ruolo ideale non immediatamente trasferibile nella prassi, ma nondimeno valutativo e orientativo rispetto alla prassi stessa - quindi tutt'altro che "chimerico" avrebbe esercitato una grande influenza sull'esegesi platonica (almeno a partire dal tardo Ottocento). Ma il suo silenzio sul rapporto tra dimensione formale e dimensione contenutistica della teoria normativa di Platone avrebbe lasciato aperto, per questa esegesi, un vasto terreno di discussione e anche di dissenso.

Hegel: lo "spirito del tempo" A differenza di Kant, Hegel disponeva di una conoscenza estesa e di prima mano dei testi platonici. Se, nonostante questo, anche la sua attenzione si concentra sulla Repubblica, con scarsi cenni sulle Leggi e sul Po44

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litico, questo è probabilmente dovuto a motivi di ordine teorico (come si avrà modo di vedere, il secondo dialogo poteva apparire troppo "demiurgico", il primo troppo dedicato a "ricette" legislative). Al pari di Kant, invece, Hegel è anzitutto impegnato a negare il carattere «chimerico» e «cervellotico» della Repubblica. Ma la strategia e il senso teorico di questa difesa di Platone dall'accusa di Brucker risultano poi radicalmente antitetici rispetto agli assunti kantiani. Se in questi prevaleva il carattere formale dell'ideale regolativo proposto da Piatone, per Hegel si tratta invece di rifiutare l'accusa in nome del carattere sostanziale dei contenuti del modello platonico, ora considerati piuttosto descrittivi che normativi-, con questo stesso gesto, risulta immediatamente negato qualsiasi carattere progettuale della Repubblica. In questa ottica, Brucker e Kant, la "chimera" e r"ideale", finiscono per risultare due facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa "vuotezza". Nella Repubblica, dice Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, Platone ha presentato un «cosiddetto ideale di costituzione politica, che è diventato proverbiale come una Chimera [...] nel senso che questa rappresentazione potrà senz'altro esistere nella mente» di un filosofo sfaccendato, e sarà attuabile a condizione che gli uomini siano eccellenti, come quelli che vivono sulla Luna, ma non sulla terra: si tratterebbe dunque di un «ideale del tutto superfluo». Se un'idea è troppo buona per esistere, aggiunge Hegel, «allora il difetto è nell'ideale stesso». Ma «quando un ideale ha in generale un'intima verità per mezzo dell'idea, del concetto, allora non è una Chimera, ma è vero; e un tale ideale non è nient'affatto qualcosa di ozioso, di fiacco \Krafiloses\, ma è il reale \^das Wirchliche]. Il vero ideale non deve [sol[\ essere reale, ma è reale» (pp. 272-4). È dunque solo un fraintendimento della Repubblica platonica che la fa considerare come un «ideale vuoto», aveva già scritto Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto {Prefazione, p. xix), scambiandola per «una fantasticheria [ Trdumerei] del pensiero astratto, per quello che spesso si è soHti chiamare un ideale» (§ 185). In effetti, appare a Hegel del tutto assurda l'idea di un filosofo-legislatore cui spetti il compito di «realizzare l'ideale nella storia», e con essa la funzione demiurgica che Platone sembrava (per un equivoco interpretativo) aver assegnato ai suoi filosofi-re. «Per una costituzione non basta la teoria, non sono gli individui a fare una costituzione: essa è qualcosa di divino, spirituale, storicamente necessario [ed. G.-J.]. Ed è qualcosa di così forte che il pensiero di un individuo non significa nulla davanti a questa potenza dello spirito del mondo [Macht des Weltgei45

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stes]^-> {LSF, p. 177). Hegel menziona due celebri esempi di re considerati filosofi: quello, negativo perché inefficace, di Marco Aurelio, e quello positivo di Federico 11 di Prussia. Egli elevò «a principio interamente universale il bene del suo Stato»; in seguito, negli stati moderni, senza bisogno di filosofi-re, si è inverato il senso autentico dell'esigenza platonica, che cioè «l'intero ambito politico dev'essere dominato da principi universali» {LSF, pp. 195-6). Neppure la filosofia può fornire consigli o "ricette" sui dettagli legislativi: «La filosofia può risparmiarsi di dare buoni consigli; Platone poteva evitare di raccomandare alle balie di non stare mai ferme con i bambini e di cullarli sempre nelle braccia» (LFD. Prefazione, p. xx): qui il sarcasmo di Hegel colpisce la minuziosità legislativa delle Leggi, come prima si era rivolto all'ambizione demiurgica del preteso creatore di costituzioni. La filosofia, se è buona filosofia, come lo è quella di Platone, non deve dunque «costruire uno Stato così come dev'essere [tuie er sein solI\i>, bensì «comprendere concettualmente lo Stato come qualcosa di in sé razionale» (ivi, pp. xxii). Non c'è dunque alcuna efficacia politica della filosofia. La sua riflessione verte sempre su realtà storico-politiche (quindi spirituali) già compiute, nella loro maturità che si avvia dialetticamente al declino: ciò che può fare la filosofia è di trasformare queste realtà in figure del sapere assoluto (nel nostro caso lo stato), ed è esattamente ciò che ha fatto Platone se lo si interpreta superando l'equivoco del carattere chimericoideale della Repubblica. Lungi dal proporre "vuoti" ideali regolativi cui la realtà si debba adeguare, Platone ha di fatto esposto l'eticità greca nella sua modalità sostanziale. La vita politica [Staatslehen] greca è ciò che costituisce il vero contenuto della Repubblica platonica. Platone non è uomo da gingillarsi con teorie e principi astratti: il suo spirito veridico ha conosciuto ed esposto il vero, il quale non poteva essere altro che il vero del mondo in cui viveva, questo unico spirito vivente e presente tanto in lui quanto nella Grecia [G.-J.: im seinem Volk\. Nessuno può saltare oltre il proprio tempo: lo spirito del proprio tempo \der Geist seiner Zeit\ è anche il proprio spirito {LSF, p. 275).

La realtà {Wirchlichkeit) di questo spirito è apparsa a Platone nella sua «verità suprema, cioè come l'organismo statuale {Staatsorganismus\y> (p. 269), in cui si attua l'weticità sostanziale» del popolo (pp. 277 s.). 46

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MODERNITÀ

Hegel identifica dunque la filosofia platonica con lo spirito comunitario della civiltà greca, che essa comprende e descrive nella sua realtà sostanziale. Naturalmente, Hegel è attento nel sottolineare che questa "realtà", immediatamente convertibile con il "razionale", non si identifica con la datità empirico-fenomenica nella sua mutevolezza; si tratta di comprenderne dunque la "verità", la sostanza, sotto la crosta di vizi e passioni individuali e transeunti {LSF, p. 274). Platone non scrive dunque una storia della Grecia, ma porta alla comprensione filosofica questo strato sostanziale della sua realtà. Agisce qui naturalmente in Hegel la precomprensione classicista e idealizzata della polis greca che egli aveva formulato negli anni di Jena, della sua «bella libertà», della «virtù antica che aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente» (una virtù che perciò egli contrapponeva al «pomposo discorrere» sulla virtù dei moderni, che pretende vanamente di opporsi al «corso del mondo»: Fenomenologia dello spinto, c. AA. V B9). Hegel deve allora ignorare che Platone stesso aveva considerato le sue proposte come contrarie ai costumi tradizionali, parà to ethos {Resp. V 4 5 2 A 7 ) , e aveva sostenuto che l'unità della polis non era mai stata realizzata, poiché la città continuava ad esser scissa in due parti, i ricchi e i poveri, contrapposti come in una scacchiera, e ognuna di esse era inoltre frantumata in una pluralità di interessi particolari (iv 422e s.). Ancora, e soprattutto, Hegel deve dimenticare l'ansiosa discussione sulla "realizzabilità" della kallipolis, che percorre i libri v e vi della Repubblica. Si profila così il sospetto di un circolo vizioso: Platone non propone un "ideale", ma comprende una "realtà": tuttavia la corrispondenza tra la filosofia platonica e questa realtà risulta possibile solo a condizione che la seconda venga a sua volta idealizzata, ed è appunto questa idealizzazione a scongiurare l'idealità della Repubblica. In ogni caso, questa coincidenza fra "razionalità" platonica e "realtà" della polis serve, nel movimento del pensiero di Hegel, ad andar oltre il classicismo segnando il limite dialettico di entrambe. Questo limite emerge chiaramente attraverso l'esposizione hegeliana dei contenuti positivi della Repubblica. Ne vengono ricostruiti con precisione i tre pilastri, quali emergono dai libri iv e v del dialogo: la suddivisione del corpo sociale in tre ordini {Stande), che Hegel considera non una deduzione platonica ma un «sistema necessario in ogni Stato» (il primo ordine viene descritto come 47

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capace di governare nell'interesse comune, quindi piuttosto con il linguaggio del libro iv che con quello del libro v, perché Hegel non desidera ovviamente sottolineare la regalità dei "filosofi"); l'abolizione della proprietà privata; la parallela soppressione della famiglia. E da notare come Hegel non abbia esitazioni nel considerare il collettivismo platonico come esteso all'intera società della polis, nonostante una secolare tradizione di "difensori" di Platone ne avesse sottolineato la restrizione ai soli gruppi di governo. Hegel non si appoggia sui riferimenti testuali, nel V libro della Repubblica e nel v delle Leggi, che avrebbero potuto giustificare questa interpretazione; l'universalizzazione del collettivismo nel conglomerato "reale" costituito dalla Repubblica e dalla polis greca è per lui decisiva in quanto rappresenta a un tempo la verità sostanziale dell'epoca e il suo Hmite dialettico. Proprietà privata e famiglia sono infatti le roccheforti del «principio della libertà soggettiva» {LSF, p. 292): ed è appunto l'esclusione di questo principio a costituire tanto «un tratto fondamentale della Repubblica platonica» {LSF, pp. 288 s.), quanto il carattere sostanziale della «stessa idea etica greca», che considerava l'individualismo come il principio della corruzione degli stati, àeWethos pubblico, del suo spirito comunitario {Gemeinsamen Geist) {LSF, pp. 278, 288, 292-5). Si tratta di un punto di vista "sostanziale" ma proprio per questo relativo al tempo, incapace com'è di accogliere quel principio della libertà soggettiva che si affaccerà solo più tardi, con il cristianesimo, sulla scena del mondo (nonostante il preludio socratico, intempestivo e perciò distruttivo) {LSF, p. 278). Questo «difetto di soggettività» segna il limite dialettico dell'epoca dei greci, e con essa della Staatverfassung platonica, che ne risulta declassata a un «rango subordinato» perché non può «soddisfare l'esigenza superiore di organismo etico», che consiste appunto nella conciliazione dialettica del principio della statualità con quello della libertà individuale: una conciliazione che appartiene solo all'epoca dei moderni, e perciò al loro pensiero. Proprietà privata e famiglia sono in questo nuovo quadro «necessarie, anzi sacre»; la seconda offre inoltre alle donne la loro «destinazione essenziale». Quanto agli Stànde, Platone ha conseguentemente negato agli individui la libertà di scegliersi il proprio ordine, affidando ai governanti l'assegnazione ad essi dei singoli cittadini; a differenza delle caste indiane, in questa destinazione non conta però la nascita {LFD, § 206). Nonostante la differenziazione hegeliana, può darsi che da questo accenno abbia origine la sfortunata definizione che Marx propose della 48

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Repubblica come «una idealizzazione ateniese del sistema egiziano delle caste» {Il capitale, libro i, trad. it. p. 410), consentendosi così di ignorare questo eventuale precedente del pensiero comunista, primitivo o utopistico che fosse, ma proprio per questo inviso al fondatore del "comunismo scientifico". Per tornare a Hegel, la forza della sua interpretazione, capace di incorporare la tradizione classicista e di confutare il sospetto di utopismo chimerico e di "vuoto" idealismo che gravava su Platone, ma insieme di superare l'una e l'altro mostrandone il limite dialettico rispetto alla modernità, avrebbe naturalmente influito sulla storia delle successive letture del platonismo politico. Ma un'influenza forse altrettanto grande della concettualità hegeliana sarebbe stata esercitata dal suo linguaggio, ancora più efficace perché capace di agire in modo apparentemente neutrale, cioè indipendente dalle opzioni filosofiche. Si tratta certo di un linguaggio in buona parte non inventato da Hegel, ma che comunque risulta potentemente codificato nell'impiego filosofico che egli ne faceva. Basterà esemplificare questo assunto con qualche parola pesante, con qualche effetto di traduzione destinato a configurare, o a sfigurare, durevolmente l'immagine di Platone. La prima di queste parole è naturalmente Staat, con cui Hegel traduce sia Politeia, come titolo della Repubblica, sia polis, che ne è l'oggetto. Una traduzione in entrambi i casi impropria. Politeia vale in greco composizione del corpo civico (dunque diritto di cittadinanza), e inoltre l'assetto costituzionale, la forma di governo della singola comunità; quanto a polis, è ben noto che il termine designa una comunità politica sovrana, ma priva degli apparati che anche secondo Hegel definiscono uno stato, come i corpi separati della burocrazia, della magistratura, dell'esercito, dell'istruzione. La traduzione occulta allora il riferimento alla dimensione specifica della politicità che è intrinseco al linguaggio greco (basti pensare a una traduzione della definizione aristotelica dell'uomo come zoon politikòn che la renda in questo modo: «l'uomo è un animale statuale»). La seconda parola è Volk. Certamente essa non traduce il greco demos, che nell'uso platonico designa sempre una parte politica e sociale della cittadinanza (così in demokratia, "potere dei poveri"); quanto a ethnos, si tratta di un termine estraneo alla dimensione della polis, e più spesso riferito alle popolazioni barbariche. È chiaro che se riferito alla comunità dei cittadini, alla koinonia politiké, Volk ne sposta la semantica dall'ambito politico a quello della consanguineità e dell'appartenenza territoriale. La terza parola, in49

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fine, è Geist. Non è necessario insistere sul fatto che essa non rende né logos (intrinsecamente connesso alla dimensione comunicativa e argomentativa del linguaggio) né nous, che designa una specifica modalità del pensiero, di tipo intuitivo e intensivo. Quando allora Hegel scrive che oggetto della Repubblica è das griechische Staatsleben, o lo Staatsorganismus, che Platone è interprete del «Gm^ vivente in lui come nel Volk della Grecia», della «sostanza etica del popolo» come «un tutto vivente organico [eine lebendig organische Ganzi», egli inscrive, anche indipendentemente dalle sue intenzioni, il pensiero politico di Platone in una rete concettuale che ne condizionerà a lungo sia l'interpretazione, sia la gamma di valutazioni contrapposte.

Fra Kant e Hegel: liberalismo e socialismo Igrandi storici: Zeller, Grote, Gomperz Con Eduard Zeller, la cui monumentale Filosofia dei greci conobbe una fortunata esistenza protrattasi per più di mezzo secolo (dalla prima edizione del 1844-52 alla quinta del 1922), il Platone poUtico entrava nel dominio della grande storiografia dell'Ottocento accademica e "scientifica" (ma non per questo neutrale o indifferente rispetto ai problemi ideologici e politici). Zeller non nasconde la profonda ispirazione hegeliana del suo approccio alla Repubblica e al pensiero politico di Platone, e ne mutua il linguaggio, rendendo sempre polis come Staat. In lui agiscono, tuttavia, anche l'influenza dell'etica kantiana e del pensiero liberale (come vedremo, tuttavia, di ambiente piuttosto prussiano-guglielmino che anglosassone). Hegel aveva ragione, secondo Zeller, innanzitutto nel negare che Platone proponesse «un inattuabile quadro di fantasia»; nella Repubblica, anzi, venivano date precise indicazioni sulla sua necessità, possibilità e realizzabilità. Per questo, «non si può mettere in dubbio che in tutte le sue proposte egli facesse veramente sul serio» (pp. 637 s., 640). Seguendo ancora Hegel, Zeller legge in Platone la reazione dello «spirito greco» di fronte al distacco dei singoli dallo stato, all'arbitrio individualistico che ne comportavano la rovina, e che si sarebbero manifestati pienamente durante quella crisi epocale che fu la guerra del Peloponneso; 50

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MOHERNITÀ

questa reazione esigeva che i singoli venissero subordinati con la forza alla compagine statale (p. 644). Ma Platone, secondo Zeller, si era spinto ben oltre la hegeliana eticità immediata della vita statale greca. L'abolizione della proprietà privata e della famiglia, il "comunismo" di beni e di affetti, nonostante che Zeller, a differenza di Hegel, ne riconoscesse ora la limitazione alla élite dirigente della polis utopica, non potevano venir considerati come espressione di quello Zeitgeist. Platone ne operava dunque una radicalizzazione estrema, appunto in senso elitario, che Zeller riporta tanto alla sua biografìa quanto alla sua filosofia. Dal primo punto di vista, agisce l'ideale aristocratico di Platone, il suo disprezzo per il lavoro manuale e le masse popolari: «da autentico aristocratico Platone disprezza troppo profondamente il lavoro materiale [...] per potersi attendere da quelli che vi si dedicano la bravura politica e militare necessaria ai suoi custodi» (pp. 592 s.). Ancora all'orientamento aristocratico vanno riportate le simpatie platoniche per l'oppressivo regime spartano, con le sue forme di vita comunitaria e di dominio dello stato sugli individui. Zeller formula così compiutamente la prima critica di carattere "ideologico" e classista a Platone, che avrebbe avuto larga fortuna nella posteriore storiografìa di orientamento marxista. Ma è poi nella filosofia che Zeller riconosce le radici più profonde della politica platonica: e precisamente in quel dualismo ontologico che contrappone le idee al mondo empirico, la conoscenza vera dei pochi alle fluttuanti opinioni delle masse. E allora, «come sarebbe possibile che una collettività corrispondente all'idea si costituisse altrimenti che attraverso il dominio assoluto di quei pochi privilegiati?» (p. 645). Di conseguenza, «Platone pensa che non ci si possa attendere che ragionevoli istituzioni statali trovino mai accesso nella massa della popolazione senza costrizione» (p. 586), e tanto meno che la «massa degli uomini si sottometta volontariamente a questo dominio» (p. 645). L'aristocraticismo sociale da un lato, quello intellettuale e filosofico dall'altro, convergono a delineare una concezione dello stato come potere assoluto dei pochi, e come oppressione delle libere individualità dei sudditi. Di qui ha origine questa «durezza della dottrina platonica dello Stato, questa innaturale e violenta repressione dell'autodeterminazione individuale, questa brutale rinuncia alla libertà personale e politica» {ibid.). Quello che in Hegel era il limite epocale dello Zeitgeist gKco, diventa dunque con il liberaleggiante Zeller un aspetto inaccettabilmente peculiare del pensiero platonico. Come Platone aveva avuto bisogno del 51

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Demiurgo per sottomettere con la forza (qui significativamente Zeller dimentica il ruolo della "persuasione" nel Timeo) la materia all'idea, così in politica egli «ha bisogno del potere assoluto per domare l'egoismo degli individui. Questa politica non può fidarsi dello spirito comune nascente dal libero movimento dei singoli» (p. 646). A proposito dei gruppi fiinzionali della polis platonica, Zeller parla una volta di «separazione in caste» (p. 625), come avrebbe fatto Marx, ma pensa soprattutto ai tre ordini medievali degli oratores, bellatores e laboratores. Il parallelo istituito da Zeller tra il modello platonico e la Chiesa medievale è illuminante. Lo storico non vi ricorre per attribuire alla città platonica un carattere "cenobitico", come si è spesso interpretato, ma per sottolineare il dominio sociale esercitato da una classe sacerdotale che rinuncia, con i "voti", agli scopi individuali e legittima il comando sulla comunità in nome di un sapere trascendente che ad essa sola è accessibile (p. 646). Ma questa cupa caratterizzazione del progetto platonico come un'oppressione violenta e illiberale non è l'ultima parola di Zeller sul Platone politico. C'è da ultimo un'apertura verso un Platone visionario e profetico, ben lontano dallo hegeliano interprete fedele dello «spirito del suo tempo» ma anzi precorritore anacronistico di un lontano futuro. Zeller ha in proposito parole davvero belle, che è il caso di riportare per esteso: Platone volle effettuare su suolo greco e in maniera greca quello che era destinato a realizzarsi in tutt'altra situazione e sotto altre premesse, perché egli anticipò arditamente le aspirazioni e le istituzioni dei futuro; possiamo dire che il suo errore non consiste nell'essersi proposto con arbitrio fantastico obiettivi irreali, ma solo nell'aver tentato di risolvere prematuramente, e perciò con mezzi impossibili, i compiti posti dalla storia, di cui egli prese consapevolezza con sguardo profetico (pp. 650 s.).

Va detto, purtroppo, che i contenuti assegnati da Zeller a questo sguardo profetico sembrano poi alquanto deludenti. C'è sì il precorrimento della parità di diritti riconosciuta alle donne. Ma c'è soprattutto l'apertura di una via che condurrà in epoca moderna all'istituzione di una "classe di funzionari", una burocrazia dotata di preparazione scientifica, che insieme a una "classe di insegnanti" prenderà il posto dei vecchi filosofi-re, e inoltre agli eserciti permanenti; ad essi si aggiunge il ceto dei produttori, che Zeller chiama anche «Terzo Stato». La modernità preconizzata da Platone sembra così assumere un aspetto decisamente

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prussiano-guglicimino, e su questo, come vedremo, la discussione era inevitabilmente destinata a riaccendersi. Ma è fin d'ora il caso di segnalare che, dopo Zeller, non solo Gomperz ma anche, un secolo più tardi, un filosofo hegeliano e liberale come Hans Georg Gadamer sarebbero tornati a riconoscere, nella proposta platonica di governo dei filosofi, «l'istituzione della moderna condizione professionale dell'impiegato e l'ideale delia sua incorruttibilità». Un Platone profeta della burocrazia moderna rappresenta, quanto meno, un modesto esito esegetico. Ancora una parola sul trattamento zelleriano degli altri testi politici di Platone. Il Politico è considerato cronologicamente anteriore alla Repubblica e viene impiegato per sottolinearne il carattere assolutistico. Quanto alle Leggi, Zeller le considerava inizialmente non autentiche, perché a differenza dell'organicismo della Repubblica esse prevedevano un'aggregazione di individui tenuti insieme da istituzioni; in seguito, le avrebbe comunque considerate come un'opera tarda e incompiuta, dedicandovi di conseguenza un'attenzione assai limitata. Di tutt'altra temperie rispetto a quella zelleriana è l'atmosfera del liberalismo, con venature socialiste, cui si richiama il grande storico scozzese George Grote (il suo Plato, and the Other Companions of Sokrates, è del 1865; la terza edizione in quattro volumi del 1888). Grote era stato allievo di James Mill, il padre di John Stuart Mill, e rimase legato al loro empirismo filosofico e al radicai movement da essi promosso. Le sue equilibrate pagine sulla Repubblica costituiscono un notevole esempio di indipendenza intellettuale e di lucidità di giudizio, in un ambiente, come quello della cultura inglese dell'Ottocento, in cui Platone non aveva incontrato una grande fortuna. Le critiche di Grote si concentrano sugli aspetti educativi e propriamente politici del modello platonico. Nella Repubblica, Platone ha descritto solo «il cervello e il cuore del grande Leviatano», cioè l'educazione e la forma di vita dei ceti dirigenti, "filosofico" e militare. Colpevolmente, Platone ha invece del tutto trascurato di discutere i modi dell'educazione popolare, sicché al terzo ceto non sembra restare altro che una «illimitata sottomissione agli ordini dei governanti sostenuti con la forza dai guardiani» (pp. 139 s.). L'assenza di un programma educativo del ceto dei produttori, e il vincolo che li costringe a esercitare un solo tipo di lavoro, ne fa «più delle macchine che individui umani» (pp. 186 s.). 53

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Sul piano politico, il sistema della Repubblica risulta avverso al libero pensiero, alle free-thinking minds. Il Socrate storico, con la sua dialettica negativa così apprezzata dai Mill, non potrebbe esistere nella città platonica, che prevede una «autorità infallibile, temporale e spirituale»: nella Repubblica Socrate si trasformerebbe così in una sorta di Dictator (pp. 211 s.). In modo abbastanza sorprendente, rispetto a tutta la tradizione critica, il "radicale" Grote è invece disposto a trovare motivi di consenso verso la struttura sociale della comunità platonica (che, va notato, egli chiama sempre Commonwealth, in significativa opposizione allo Staat degli autori tedeschi). Il "comunismo" platonico (che, nota Grote, a differenza di quello moderno non è un comunismo dei produttori) è in effetti solo parziale, limitandosi al gruppo dei guardiani. Ma, secondo Grote, si tratta per Platone solo di un second besP. pur ritenendo auspicabile una comunione universale, egli non avrebbe osato spingersi così lontano. Detto questo, l'argomento forte che spinge Platone all'abolizione delia proprietà privata e della famiglia per i governanti consiste nella richiesta di una loro dedizione assoluta alla comunità (pp. 169 ss.). Secondo Grote, Platone ha ragione (contro Aristotele e Senofonte) nel ritenere inconciliabili interessi privati e compiti pubblici (il conflitto di interessi può venire mitigato, ma non superato, dalla valutazione popolare sull'operato dei governanti). Lo scopo ragionevole di Platone consiste dunque nella «completa estinzione» della figura «of the old individuai Adam - of ali private feelings and interests» (pp. 183 s.). Nulla di assurdo neppure nel divieto dei matrimoni: per le stesse ragioni (evitare il conflitto fra interessi privati e missione pubblica) la Chiesa cattolica ha imposto ai suoi sacerdoti il celibato (Platone anzi è più indulgente, perché non proibisce i rapporti sessuali ma solo la stabilizzazione dei vincoli matrimoniali) (p. 193). C'è di più. Rispetto a Senofonte e ad Aristotele, il modello platonico propone «una concezione più ampia e più generosa dello scopo delle istituzioni politiche», perché chiede che i guardiani governino anche nell'interesse della massa popolare dei produttori, che invece Aristotele tende ad escludere dai diritti di cittadinanza (pp. 183 s.). Nei suoi contenuti sociali, la kallipolis della Repubblica sembra dunque in parte accettabile a Grote, e lo sarebbe probabilmente del tutto se fosse integrata con un adeguato programma di educazione popolare e concedesse più spazio alla libertà di pensiero e al diritto di critica. 54

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l'uttavia, la sua realizzazione, a giudizio dello storico scozzese, è impossibile. Non però per le ragioni addotte da Aristotele. Egli dà voce soltanto a radicati pregiudizi circa la famiglia e la proprietà privata, sicché «la supposta impossibilità è solo il modo di esprimere disapprovazione e ripugnanza» (p. 191). La vera ragione di questa impossibilità è un'altra. Il progetto platonico si scontra col fatto che tutte le comunità umane esistono con costumi diversi da quelli che esso propone (siamo dunque lontanissimi dalla corrispondenza allo Zeitgeist hegeliano). E, si chiede Grote, da dove viene la forza necessaria a sradicare i vecchi costumi e a generare quelli nuovi, per dare loro il first starti È solo un "pio desiderio" (una forma di quella euché che Platone deplora), la speranza formulata nel libro VI della Repubblica che questa demiurgic force possa venire da un despota convertito alla filosofia (fedele al suo peraltro salutare principio dell'autonomia dei singoli dialoghi, Grote non si riferisce qui al passo del I V libro delle Leggi, 7 0 9 6 ss., dove ci si attende che questa «forza» possa provenire da un «buon tiranno» disposto a collaborare con il legislatore filosofo). È dunque essenzialmente un problema di forza quello che secondo Grote (qui a mio avviso molto vicino allo stile di pensiero platonico) impedisce la realizzabilità del progetto. Eppure, conclude lo storico in modo del tutto originale, se mai esso fosse avviato, potrebbe funzionare (pp. 190 s.). Restiamo nell'ambiente dei Mill con il grande filologo viennese Theodor Gomperz, che tradusse in tedesco le opere di John Stuart, e che sembra da lui abbia avuto, già nel 1858, l'impulso a scrivere una storia della filosofia antica «from the point of view of the Experience philosophy»: un impulso che produsse, a partire dal 1896, la monumentale impresa dei Pensatori greci. Benché le simpatie di Gomperz - sensibile anche all'influsso del positivismo di Comte — andassero naturalmente ad Aristotele, il iii volume dell'opera è interamente dedicato a Platone, del quale viene delineato un ritratto non privo di rispetto e talora persino di ammirazione. In campo politico, Gomperz non può che apprezzare l'intenzione centrale di Platone: quella di portare al potere «l'intelligenza nutrita di scienza», un'intenzione che richiede come proprie condizioni l'abolizione della proprietà privata, la soppressione della famiglia e, con essa, l'emancipazione delle donne (un progetto verso il quale il progressista Gomperz esprime la sua «ammirazione») (pp. 432 s.). Questo insieme di 55

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CIIUO»

condizioni fa sì che Platone sia indotto a privilegiare i contenuti politico-sociali del suo progetto rispetto a quelli etici (p. 403): una posizione esegetica esattamente opposta, come vedremo, a quella di molti interpreti del tardo Novecento. Può apparire sorprendente (ma in fondo non troppo lontano dalla problematica di Grote) il modo con cui Gomperz imposta la sua valutazione critica della politica platonica. Platone non aveva dubitato della bontà e dell'utilità del suo progetto, ma piuttosto delle sue possibilità di realizzazione. Ora, osserva lo storico viennese, «la considerazione di realizzazioni effettive di cui non mancano interamente gli esempi, e il confronto spassionato di tale regime col regime tradizionale, ci permettono, credo, di rovesciare addirittura questo suo giudizio» (p. 358). A questo approccio generale, Gomperz affianca la sua risposta a una «domanda ricorrente»: Platone può essere considerato «precursore dei moderni socialisti e comunisti» ? La domanda non era così ovvia: a renderla «ricorrente» aveva contribuito probabilmente la comparsa del libro di Pòhlmann, intitolato Geschichte des antiken Sozialismus und Kommunismus nella i edizione del 1893, che tuttavia Gomperz non cita, nonché più in generale l'impetuoso sviluppo della socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento. Per cominciare da questa domanda, la risposta gomperziana è, giudiziosamente, "sì e no". Sì, perché Platone, dalla Repubblica alle Leggi, «è rimasto irremovibilmente fermo all'ideale comunista», convinto com'era (con «sano buon senso») che per mettere il potere assoluto dell'intelligenza al riparo dalla tentazione di abusarne sfruttando i sudditi non bastasse l'educazione ma occorresse garantirla con l'assenza di ogni interesse privato (p. 408): qui Gomperz concorda con Grote contro Aristotele. No, perché, a differenza del comunismo moderno, il progetto platonico non prevede la «socializzazione dei mezzi di produzione» (p. 430), e soprattutto è limitato al gruppo dirigente della nuova società, escludendone le masse popolari: un atteggiamento di disprezzo dovuto allo spirito aristocratico di Platone, sostiene Gomperz seguendo Zeller, alle sue simpatie filo-spartane, forse alla memoria delle comunità pitagoriche. Ai lavoratori non tocca dunque che l'asservimento al dominio della élite dell'intelligenza, anche se secondo Platone esso costituisce una forma di «tutela salutare per le masse» (p. 404). Ma torniamo al rovesciamento gomperziano della prospettiva platonica. Essa non appare affatto impossibile. L'argomento di Aristotele, secondo il quale se fosse stata possibile sarebbe già stata realizzata, viene 56

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«sempre ripetuto da tutti gli spiriti conservatori contro le innovazioni più radicalmente sovvertitrici», ma non regge di fronte a una visuale storica ed etnografica più ampia (p. 425): ciò che esce dal consueto non è per questo impossibile. Esperimenti simili sono stati in efiitti realizzati nel Medioevo da comunità religiose e dall'ordine dei cavalieri teutoni, gruppo guerriero alimentato da popolazioni contadine protette e tributarie. Ed esistono nell'America odierna, aggiunge Gomperz, sette come quella dei Perfezionisti che praticano il «comunismo matrimoniale» (p. 431). Anche a un ulteriore quesito Gomperz si sente di dare una risposta positiva: una volta attuato, il modello platonico potrebbe durare? Sì, se si pensa ad esempio al «dispotismo teocratico dell'Impero degli Incas» (p. 427). Questi riferimenti storici (a dire il vero alquanto eterogenei e bizzarri) assicurano comunque che il comunismo di stampo platonico non è irrealizzabile. Diverso, e più sfumato, è il giudizio sulla sua desiderabilità. Anche qui, Gomperz è disposto a riconoscere le buone ragioni di Platone. Egli desiderava garantire la potenza illimitata dell'intelligenza liberandola dalla «ottusa resistenza della stupidità»: alcune delle misure estreme da lui previste, come il bando della poesia, ricordano a Gomperz prescrizioni simili di Comte, come la distruzione dei cattivi libri (pp. 428 s.). Ma, in generale, è tutto ciò che pertiene all'individualità, con la sua tendenza incoercibile all'anarchia, a costituire impedimento alla piena realizzazione dell'ideale. Di qui viene a Platone la tendenza a negare qualsiasi autonomia del singolo, e a preconizzare, scrive Gomperz, «un'uniformità universale di tipo cinese» (curiosamente, Gomperz echeggia qui un giudizio di Athanasius Kircher, che nel 1667 aveva già accostato la Repubblica platonica alla Cina, e i filosofi-re ai suoi mandarini). Ma non si tratta affatto dello hegeliano "spirito del tempo": a Platone la coscienza liberale del x i x secolo (vengono qui indicati i nomi di Toqueville e Stuart Mill) ha contrapposto «l'ideale di Pericle», con il suo libero sviluppo dell'individualità nel contesto della polis (pp. 409 ss.). Come vedremo, questa contrapposizione era destinata ad una lunga fortuna, fino a Popper e oltre. Altrettanto riprovevole, agli occhi di questa coscienza, risulta l'avversione di Platone verso il progresso: nel suo stato ideale, non avrebbe potuto venir composto un testo innovatore come la Repubblica, e le stesse Leggi sarebbero state senza dubbio censurate dai custodi della kallipolis. Il rischio in cui Platone incorre è quello di una «ossificazione spirituale» della comunità, con l'instaurazione di una sorta di «pedantocra57

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zia» (il termine è attribuito a Miil e a Comte): e questo in stridente contrasto con l'instancabile evoluzione del pensiero critico dello stesso Platone (p. 428). Da questo punto di vista, Aristotele non aveva del tutto torto: il progetto platonico finisce per impoverire, mutilare la natura umana (p. 430), con la sua preziosa varietà di inclinazioni e sentimenti, con le sue aspirazioni al progresso e alla libertà. Quanto al controllo demografico e alle pratiche eugenetiche previste nella Repubblica, non prive di riscontri nella storia greca e in particolare spartana, Gomperz assicura con una nota di ottimismo che - sulle soglie del Novecento - suona quasi commovente: «la nostra epoca non penserà mai ad un ritorno alle pratiche crudeli dei legislatori greci» (p. 421). Sappiamo che purtroppo si sarebbe andati ben oltre quelle pratiche, e, come vedremo, Platone sarebbe stato salutato come una guida. Gomperz vede invece in Platone il precursore di novità ben più positive, che egli individua, in modo abbastanza simile a Zeller, nella moderna istituzione di un ceto di «funzionari con istruzione speciale», di eserciti permanenti, della divisione sociale del lavoro, oltre che naturalmente nell'emancipazione femminile. Ma soprattutto per il progressista Gomperz il «merito imperituro» di Platone consiste nell'aver indagato le istituzioni umane con «lo sguardo della ragione in una investigazione libera», per far breccia, illuministicamente, nel «triplice muro della tradizione, del pregiudizio e dell'abuso della forza» (pp. 437 s.). Questo merito è confermato dalle Leggi, in cui secondo Gomperz vengono meno quella «durezza del sentire», queir«esaltato idealismo» che avevano contrassegnato la Repubblica, senza tuttavia rinunciare a quanto di socialmente positivo essa aveva proposto. Grote da un lato, Gomperz dall'altro, ci consegnano dunque un Platone politico compreso con simpatia nelle sue ragioni e valutato con un certo equilibrio chiaroscurale e senza gesti di esecrazione, dal punto di vista del liberalismo progressista dell'Ottocento. Un passo piti deciso sarebbe stato compiuto, verso la fine del secolo, da storici e pensatori orientati verso il socialismo e attenti al pensiero di Marx.

Platone "socialista ": Pohlmann e Natorp I capitoli della grande opera storica di Robert von Pohlmann dedicati a Platone offrono senza dubbio una delle discussioni più vigorose e interessanti sul pensiero politico del filosofo. Che questa analisi non abbia 58

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svolto un ruolo davvero significativo nella storia dell'interpretazione di questo pensiero, si deve probabilmente a una pluralità di ragioni. La prima è la sua appartenenza ad un'opera dal titolo molto generico {Geschichte des antiken Sozialismus und Kommunismus nella prima edizione del 1893, Geschichte der Sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt nella seconda del 1912) e dai contenuti indiscutibilmente anacronistici, come la tesi della diffusa presenza del capitalismo, della grande industria e della lotta di classe nella società antica; la seconda consiste nella marginalità dell'autore (1852-1914) che fu prima storico del Rinascimento e poi dell'antichità classica (a Monaco); la terza, e principale, nell'anomalia della sua posizione complessiva. Moderatamente progressista, Pòhlmann era ostile tanto alla «democrazia radicale» (che individuava in Mill e Grò te), ritenuta incapace di superare gli egoismi di classe e la «plutocrazia» inglese (pp. 124,129), quanto al marxismo e soprattutto agli ideologi della socialdemocrazia, come Bebel e Kautski, ai quali imputava le illusioni «infantili più che platoniche» dell'avvento prossimo di un'età dell'oro, della palingenesi post-rivoluzionaria del genere umano (pp. 159 s.). La temperie culturale del Terzo umanesimo, dopo la crisi seguita alla Prima guerra mondiale, avrebbe reso decisamente inattuale la posizione, tipica di fine Ottocento, del "socialista" ma realista Pòhlmann, le cui simpatie si rivolgevano piuttosto a Fichte e a Bentham. La sua ampia analisi del Platone politico segue una doppia strategia. Da un lato, egli difende con forza la coerenza logica, la potenza intellettuale «piena di futuro» del disegno platonico (p. 134) dalla sequela delle critiche che tradizionalmente gli sono state mosse (la Repubblica è definita, kantianamente, «lo Stato di ragione», Vemunftstaat, in contrapposizione allo «Stato della legge», o delle Leggi)-, dall'altro, ne mette in luce le illusioni antropologiche, la fragilità "illuministica", rispetto alle effettive possibilità di realizzazione storica. La difesa pòhlmanniana della Repubblica dai suoi critici antichi e moderni si articola in più aspetti. Il primo tema critico è quello del potere assoluto concesso alla élite di governo. Si tratta, secondo Pòhlmann, di una misura conseguente all'esigenza di emancipare la dimensione politica e statuale dal dominio degli interessi economici delle classi sociali contrapposte, e dal controllo di maggioranze incompetenti. L'abolizione della privatezza nella vita del ceto dirigente è necessaria per subordinare l'egoismo individuale alle finalità collettive dello stato, che deve essere guidato da uomini in pos59

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sesso delle più alte conoscenze scientifiche. Non c'è in tutto questo alcun pregiudizio aristocratico, come avevano sostenuto Zeller e Gomperz, né alcun disprezzo delle masse alla maniera di Nietzsche, ma un insieme di conseguenze che derivano logicamente dalle premesse considerate desiderabili (unità, giustizia, buon governo della comunità politica) (pp. 10 ss., 49, 80). Interessante la giustificazione offerta da Pòhlmann per il controllo statale della riproduzione del gruppo dirigente al fine di evitarne la decadenza: niente di strano, egli afferma, sullo sfondo della politica matrimoniale consueta nelle grandi famiglie greche e della diffusa concezione della generazione di figli come servizio offerto alla polis (p. 23). Più ampia la risposta formulata da Pòhlmann ad una lunga tradizione critica, che va da Aristotele fino a Gomperz, secondo la quale Platone avrebbe del tutto trascurato la questione del ceto dei produttori e dei commercianti, il «Terzo Stato» della Repubblica. E bensì vero che Platone si rifiuta di delineare una legislazione in campo economico, salvo i principi generali di controllo pubblico sull'economia che consistono nel prescrivere la specializzazione delle mansioni produttive e nell'evitare gli eccessi di ricchezza e povertà (libro iv) e di indebitamento (libro viii). Sia la Repubblica (425C ss.) sia il Politico considerano infatti questo ambito troppo mutevole e complesso perché possa essere fatto oggetto di una legislazione costituzionale, e lo lasciano dunque al controllo delle apposite magistrature. Al contrario, Platone si occupa seriamente della condizione morale ed educativa del ceto dei produttori. Sarebbe stato del resto assurdo, osserva Pòhlmann, «porre la piccola comunità dei guardiani, organizzata in modo puramente socialistico e centralizzato, al centro di una società la cui intera vita sarebbe governata dal principio diametralmente opposto del Laissez-faire» (pp. 28 s.). Non ci sono pregiudizi classisti in Platone: il lavoro manuale non impedisce la moralità, la «virtù demotica e politica» di cui parla il Fedone, se è vero che anche al terzo ceto è richiesto l'accesso alle virtù collettive della moderazione {sophrosyne) e della giustizia (pp. 3 6 - 9 ) . Questa forma di moralità diffusa è del resto implicata dall'intenzione platonica, ribadita a più riprese nei libri iv e v della Repubblica, che la nuova formazione sociale debba operare per la felicità non solo del gruppo dirigente, ma del popolo intero. Si tratta in effetti, insiste Platone, di una comunità di cittadini «fratelli» (4i4e), «alleati», «liberi e amici» ( 5 4 7 C ) , legati fra di loro da una fortissima solidarietà collettiva (pp. 50 ss., 60 s.). 60

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'l utto questo implica inevitabilmente un forte impegno di educazione sociale, di soziale Pàdagogik-, come dice Pòhlmann, concordando in questo, come vedremo, con il neokantiano Natorp. Poiché il sistema platonico non è castale, e prevede la mobilità fra gruppi sociali, esso implica in primo luogo un'estensiva educazione di tutti i giovani, fra i quali selezionare i migliori (p. 54): ad essi è destinata quella poesia emendata in senso educativo secondo le indicazioni che Platone traccia nei libri II e III della Repubblica. Ma l'intento educativo di rendere i cittadini, tutti i cittadini, moralmente "migliori", è centrale nella politica platonica, dal Gorgia allo stesso Politico Nella Repubblica, è decisiva la possibilità di rendere partecipe il terzo ceto di quella sophrosyne che assicura il consenso alla distribuzione ineguale dei ruoli di potere senza ricorrere a una «repressione poliziesca di massa». A ciò sono destinate l'educazione musicale e poetica, nonché le arti figurative e il positivo influsso morale che un ambiente sociale armonioso esercita sull'insieme della popolazione {Resp. iii 40ia ss.) (pp. 55 ss.). Del resto, Pòhlmann non ha dubbi che Platone si sia «augurato la maggiore estensione possibile del comunismo» anche verso il ceto dei produttori, come risulta dai passi del libro v della Repubblica che insistono sull'ideale dell'unità sociale capace di coinvolgere «tutti i cittadini» (462b), e dalla rievocazione dell'ideale comunistico nel libro v delle Leggi, dove si auspica che essa venga estesa «quanto più è possibile» {boti malista, Leg. 739c-d) (pp. 74-9). In ogni caso, nella città platonica non saranno le masse al servizio dell'aristocrazia, ma piuttosto ['élite al potere al servizio della comunità: Platone anticipa così il principio di Bentham della «massima felicità possibile per il maggior numero possibile», ma va oltre questo principio in direzione di un comunismo la cui piena realizzazione è probabilmente impossibile, ma che deve comunque venire esteso in prospettiva all'intero corpo sociale (p. 83). Contestato così il primo nucleo di critiche al disegno platonico, Pòhlmann affronta il secondo, che nasce con Hegel e continua con Zeller: la sua è in effetti la prima confutazione dell'assioma, in apparenza inattaccabile, secondo il quale Platone, in coerenza o meno con lo "spirito del tempo", avrebbe interamente sacrificato il principio della soggettività individuale all'organicismo comunitario e statuale. Ma si tratta di un abbaglio, che scambia per organicismo statuale un'esigenza che è in realtà di solidarietà sociale. È vero che gli organi politici devono disporre della forza sufficiente a subordinare gli interessi particolari a quelli collettivi, nell'intento di armonizzare gli uni e gli altri. Ma è al61

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trettanto chiaro, dal libro iv della Repubblica, che la felicità pubblica avrà ricadute inevitabili su quella privata, degli individui, mentre al contrario è impensabile una felicità privata in un contesto collettivo in preda all'ingiustizia. La giustizia, virtù comunitaria per eccellenza, significa anche salute e benessere per l'anima di ciascuno Ì444d ss.). Pòhlmann giunge così a definire quello platonico come un «socialismo individualistico», al quale si rivolge anche «l'utopismo socialista più moderno, che pensa l'organizzazione sociale sulla base delle associazioni dei lavoratori» (pp. 111-2). Da ultimo, la questione della realizzabilità di questo progetto di "socialismo". Platone è perfettamente consapevole dello scarto che passa fra teoria e prassi, quindi dell'impossibilità di un perfetto adeguamento fra realtà e piano ideale, al quale si tratta di avvicinarsi quanto più è possibile {engytata, 473a). Ma, insiste Pòhlmann, Platone esclude che si tratti soltanto di fromme Wiinsche, «pii desideri». La possibilità di realizzazione storica del progetto, per quanto imperfetta, è garantita in linea di principio dalla sua corrispondenza ai dettati tanto della "natura" quanto della ragione. Occorre certo, per aprirle la via, una «educazione sociale di massa», a proposito della quale torna il richiamo a Fichte (pp. 114 s.). E la rieducazione morale dei cittadini richiede a sua volta che la élite dirigente disponga di una «autorità assoluta»; Pòhlmann apre significativamente la sua discussione delle Leggi citando il passo del libro IV (709d ss.) che individua nella collaborazione fra un buon legislatore e il potere assoluto del tiranno «la via più rapida ed efficace» per la trasformazione morale e politica della società: si esprimono qui le speranze suscitate nel iv secolo dallo sviluppo delle monarchie assolute. In questo senso, e malgrado le critiche alla tirannide nel libro ix della Repubblica, Platone appare un «partigiano del cesarismo», come del resto lo sono stati secondo Pòhlmann i grandi riformatori sociali da Rousseau a Saint-Simon e Lassalle. Un Platone, dunque, «pieno di futuro», come attestano le sue idee sulla democratizzazione anti-plutocratica dell'economia politica, o sull'emancipazione femminile (benché questa sottovaluti la potenza dell'istinto materno) (pp. 129-34). Ma Pòhlmann non conclude la sua analisi con questa difesa di Platone dai suoi critici tradizionali e con questi apprezzamenti positivi. Ci sono, in Platone, pregiudizi, errori ed illusioni. Per quanto egli abbia giustamente posto «lo scopo di ogni politica quando delinea l'ideale di una forma di governo che prevede la spontanea sottomissione dei suddi62

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ti, rariiioiiica composizione fra l'idea di libertà e la necessità della costrizione statale», ha poi sbagliato nell'individuare i mezzi per raggiungere questo scopo (p. 143). Gli errori di Platone si possono riassumere in quello, capitale, di avere sopravvalutato l'efficacia della politica e dell'educazione in rapporto alla vischiosità antropologica della natura umana. La creazione di un'aristocrazia dello spirito, «l'allevamento di genii», il consolidamento della classe al potere mediante il sapere e l'educazione, non sono altro che «sogni» o «fantasmi» {phantom) (pp. 138 s.). Platone sopravvaluta, illuministicamente, la valenza etica del sapere, l'efficacia psicologica delle istituzioni sociali, il potere trasformativo dell'educazione. Anticipando «l'ottimismo educativo socialista» dei socialdemocratici moderni come Bebel, Piatone coltiva dunque l'illusione che il comunismo possa sradicare le radici dei desideri individuali, dell'egoismo personale e di classe. Si può forse osservare che qui il critico non rende ragione a Platone, che all'inizio dei libro vili della Repubblica attribuiva la crisi della città giusta, una volta che questa fosse realizzata, proprio all'incoercibile ritorno di questi egoismi all'interno del gruppo dirigente - ma che pensava, nonostante ciò, che si trattasse di una battaglia degna di venire combattuta, anche se l'eventuale successo non sarebbe irreversibile. In ogni caso, Pòhlmann ritiene che la natura umana non sia in grado di reggere la fusione sociale, la fratellanza, l'armonizzazione degli interessi pubblici e privati. Dunque, egli scrive con parole che in qualche misura suonano come profetiche, lo «Stato della perfetta giustizia, della vera libertà ed eguaglianza» — così simile allo «Stato futuro del marxismo» - una volta realizzato rischia di veder rovesciate le buone intenzioni nel loro contrario: costrizione e coercizione invece che libertà, «macchina» dello stato invece che organismo solidale (p. 151). La critica non va dunque rivolta al senso del progetto platonico, ma ai mezzi per la sua realizzazione, al cattivo uso che rischia di produrne una caricatura deformante. Invece che coltivare speranze millenaristiche nell'avvento dell'età dell'oro, o affidarsi ad una aristocrazia di semidèi lasciando il popolo privo di espressione politica, conviene affidarsi, secondo Pòhlmann, allo sviluppo della civiltà che dal dispotismo orientale è gradualmente giunta fino al suffragio universale. Per questa via, il socialismo pòhlmanniano effettua la sua svolta, che consiste in un ritorno a Kant, alle spalle di Hegel e della sua tradizione. Lo stato ideale di Platone va concepito 63

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come un'idea trascendentale che non può trovare una congrua realizzazione nella storia (sarebbe in effetti, come quello "marxista", l'ultimo stato, senza ulteriori possibilità di progresso). Ma esso va perseguito appunto come un ideale limite, cui approssimarsi progressivamente, e nell'averlo concepito consiste la perdurante «potenza intellettuale» di Platone (pp. 159 s.). Ma Pòhlmann fa un passo decisivo rispetto a Kant: se questi non aveva potuto giustificare, dal punto di vista dei contenuti, le ragioni per le quali il disegno platonico andava accolto come ideale della prassi storica, è proprio in questi contenuti che il "socialismo" del nostro autore ne riconosce la validità e la "pienezza di futuro". Solo un cenno può qui venire dedicato all'ampia trattazione che Pòhlmann (anche per questo aspetto innovativo rispetto alla tradizione esegetica), dedica allo «Stato delle Leggi». In esso Platone farebbe, realisticamente, maggiori concessioni alla debolezza e all'egoismo della natura umana, rinunciando perciò al sistema di potere assoluto e al comunismo della Repubblica. L'idea di stato chiuso e di moralizzazione dell'economia politica, nonché il complessivo intento sozialreformatorisch, farebbero comunque di Platone, nelle Leggi ancor più che nella Repubblica, un diretto precursore di Fichte (p. 242). A differenza di Pòhlmann, Paul Natorp - esponente di spicco della scuola neokantiana di Marburgo — svolse un ruolo importante nella storia delle interpretazioni di Platone, del quale egli presentò un'immagine appunto ispirata a Kant nella sua Platos Ideenlehre del 1903; anche sul piano politico, il "socialismo etico" di Natorp e di altri neokantiani come Cohen (ribattezzato ironicamente "socialismo della cattedra") godette di una certa influenza nel dibattito in seno alla socialdemocrazia tedesca prima della guerra del 1914. Nel suo breve ma importante saggio del 1895, Plato's Staat unddie Ldee der Sozialpddagogik, Natorp parte dal punto di arrivo di Pòhlmann. L'idea platonica di stato è da concepire come un ideale in senso kantiano: non certo situato nell'iperuranio, ma modello di perfezione della comunità sociale che non può mai essere interamente tradotto nella realtà, ma che è in grado di orientare la volontà in direzione di un progresso illimitato (pp. 10 s.). Intesa in questo modo, quella di Platone non è una utopia nel senso di Tommaso Moro, ma appunto un ideale valutativo e regolativo della prassi. Del resto, Platone parte da un fondamento «realistico» (l'analisi della comunità economica e della società del lusso nel libro 11 della Repubblica), e altrettanto realistico è il suo inten64

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I I'AHAI)H;MI

D E L L A M O D E R N I LÀ

to riformatore (p. 17). Natorp individua nel pensiero politico di Platone due fasi: la prima, espressa soprattutto nel Gorgia, di natura «negativocritica», la seconda, che si afferma nella Repubblica, «positivo-rivoluzionaria» (p. 14). Due sono i contenuti principali della proposta rivoluzionaria di Platone. Il primo consiste nella concezione appunto "social-pedagogica" dello stato. Il suo compito dev'essere quello di superare l'egoismo degli interessi individualistici, la diseguaglianza sociale, la contrapposizione violenta delle classi, attraverso il lavoro di costruzione sociale ispirato ad una «idea morale di società» che va conseguita appunto con uno sforzo di educazione collettiva, di formazione morale dei cittadini. Stato, società, educazione formano in Platone un nesso indissolubile, che mantiene ancora nella modernità tutto il suo valore progettuale (pp. 5 ss., 21). Il secondo contenuto dell'ideale platonico è costituito dal comunismo. In parziale dissenso con Pòhlmann, Natorp riconosce la limitazione al solo gruppo dirigente della forma di vita comunistica, che non giunge dunque a fondare un nuovo ordine economico. È vero che un passo delle Leggi (v 739b ss.) sembra preconizzare un'estensione universale di questa forma di vita. In effetti, scrive Natorp, «Platone ha riconosciuto l'autentico comunismo economico come la vera conseguenza delle sue premesse» (nota 24, p. 31), ma vi ha rinunciato circoscrivendo il comunismo all'aristocrazia dirigente, senza una effettiva emancipazione dei lavoratori, perché questa gli sembrava, nel suo tempo, l'unica possibilità realisticamente praticabile (pp. 23-6), come già aveva supposto Grote. In questo modo, Platone avrebbe ripristinato una spaccatura della comunità sociale, restringendo il pieno accesso alla ragione alla classe dominante, e lasciando a quella dei produttori soltanto la sfera dei desideri e la richiesta di una passiva sottomissione. Nonostante questo limite, è indubbio secondo Natorp che il comunismo di Moro derivi da quello di Platone, e che entrambi siano all'origine del socialismo moderno (p. 6). Persino il principio della «proprietà collettiva dei mezzi di produzione» e il collettivismo socialista derivano dalle premesse di Platone, anche contro la rinuncia dello stesso Platone a svolgere coerentemente i suoi presupposti (p. 24). Alla vecchia aristocrazia si progetta oggi di sostituire una nuova aristocrazia spirituale su basi socialiste e democratiche, e nulla vieta che questa nuova aristocrazia indossi «il grembiule da lavoro». «Se questa è utopia, conclude Natorp, allora il socialismo odierno è utopistico come quello platonico» (p. 26). 65

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P A R A D I T J M A IN

CIIU.O»

Il filosofo di Marburgo crede dunque, più di quanto vi credesse Pòhlmann, negli ideali della socialdemocrazia di fine Ottocento, e proprio per questo ha un atteggiamento più critico nei riguardi dell'elitismo aristocratico di Platone; ma ciò non gli impedisce di riconoscere in lui il più potente ispiratore di quegli ideali. L'ultima parola dell'Ottocento, dopo Hegel, sembra dunque consegnare al nuovo secolo un'immagine di Platone decisamente caratterizzata in senso kantiano e socialista. Questa immagine non avrebbe tuttavia resistito a lungo: essa era destinata a venire travolta dalla crisi post-bellica e dalla simultanea svolta, classicista, neohegeliana e alla fine reazionaria, della filologia classica tedesca.

N o t a bibliografica

Su Brucker cfr. M. L O N G O , in G. Santinello (a cura di), Storia delle storie generali dellafilosofia.La Scuola, Brescia 1979, voi. 11, pp. 527-635. La Crìtica della ragion pura di Kant è citata nell'edizione del 1787; la traduzione utilizzata è quella di P. Chiodi, U T E T , Torino 1967. Per gli altri testi di Kant, cfr. Scritti politici, trad. it. di G. Solari e G. Vidari, U T E T , Torino 1955. In generale sul Platone politico nel pensiero dell'idealismo tedesco, cfr. J.-L. v i E i L L A R D - B A R O N , Piatoti et l'idéalisme allemand, Beauchesne, Paris 1979, pp. 351-69; M . I S N A R D I P A R E N T E , La "Repubblica" di Platone in Germania nel secolo di Marx, in "Belfagor", 37 (1982), pp. 617-32.

Sul rapporto fra Kant e il Platone politico, cfr. M. D ' A D D I O , Kant e la Repubblica platonica, in "Il Pensiero politico", 9 (1976), pp. 472-80; il libro di T. K. S E U N G , Kant's Platonic Revolution in Moral and Politicai Philosophy, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994, offre meno di quanto il titolo prometta. Per le Lezioni di storia dellafilosofiadi Hegel si è seguita l'edizione del 1833 curata da Michelet, e confrontata con l'edizione critica Garniron-Jaeschke, edita e tradotta a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1998; si è inoltre consultata la versione Griesheim, tradotta in G. w. F. H E G E L . Lezioni SU Platone (182^-1826), a cura di J.-L. Vieillard-Baron, trad. it. di G. Orsi, Guerini, Milano 1995. Per i Lineamenti difilosofiadel diritto si sono usati testo e traduzione a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006.

Su Hegel e Platone, c f r , , oltre le opere già citate, G. D U S O , Platone e l'eticità greca nella lettura hegeliana, in G. Movia (a cura di), Hegel e Platone, Ediz. AV, Caglia ri 2002, pp. 309-42; più in generale, i saggi raccolti in Hegel et la pensée grecque, pa J. D'Hondt, PUF, Paris 1974. 66

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I PAKAI)I(;MI

DIU.I.A

MODERNHÀ

Su Platone f ra Hegel e Marx, cfr. G. F A R I N E T T I , Il confronto di Marx con Platone (attraverso Hegel), in CR IV, 2000, pp. 497-559. Il capitale è citato nella traduzione di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970. La Filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico di E. Z E L L E R dedica al pensiero politico di Platone la sezione xi della Parte seconda, voi. iii. Essa è tradotta in italiano in E. Z E L L E R , R. M O N D O L F O , parte II, voi. 111/2, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 557-656 (che corrispondono alle pp. 892-925 della v ed. del testo tedesco). Questa edizione contiene le indispensabili note di aggiornamento redatte da M. Isnardi Parente (cfr. soprattutto pp. 564-83, 604-24). Su Zeller, cfr. G. C A M B I A N O , Stato greco efilosofiain Eduard Zeller, in "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", Classe Lettere e Filosofia, serie iii, xix, 3 (1989), pp. 1117-42. Le citazioni di G. G R O T E sono dal iv volume di Plato, and the Other Conipanions of Sokrates, Aberdeen University Press, London 1888'. Su Grote e il suo ambiente, cfr. j. G L U C K E R , Plato in England. The Nineteenth Century and After, in H. Funke (Hrsg.), Utopie und Tradition. Platons Lehre in derModerne, KònigshausenNeumann, Wiirzburg 1987, pp. 149-209; G. G I O R G I N I . Radicai Plato. John Stuart Mill, George Grote and the Revival of Plato in xixth Century England, in "History of Politicai Thought", in corso di pubblicazione, e i saggi raccolti in George Grote Reconsidered, edited by W. M. Calder iii, S. Trzaskoma, Weimann, Hildesheim 1996. L'opera di T. G O M P E R Z , Pensatori greci, è citata nella traduzione italiana del in volume. La Nuova Italia, Firenze 1953^. Su Gomperz, cfr. s. T I M P A N A R O , Theodor Gomperz, in "Critica storica", 11 (1963), pp. 1-31; la corrispondenza con Stuart Mill è pubblicata in F. H E I N I M A N N , Theodor Gomperz undJohn Stuart Mill, in "Pbilosophia", 1-4 (1938), pp. 188-94. L'opera di R. V O N P Ò H L M A N N è citata dal 11 volume della III edizione (postuma), Beck'sche Verlagsbuchhandlung, Miinchen 1925 (sostanzialmente identica alle precedenti, salvo il titolo e un'appendice critica a cura di F. Oertel). Le citazioni di Natorp sono da P. N A T O R P , Plato s Staat und die Idee der Sozialpàdagopk. Cari Heimanns Verlag, Berlin 1895. Su Natorp e l'interpretazione neokantiana di Platone, cfr. in generale K . - H . L E M B E C K , Platon in Marhurg, Konigshausen-Neumann, Wiirzburg 1994; per gli aspetti politici, cfr. l'antologia H. J. S A N D K Ù H L E R , R. D E LA V E G A (Hrsg.), Marxismus undEthik. Texten zum neukantianischen Sozialismus, Suhrkamp, Frankfurt 1970 (trad. it. Marxismo ed etica, a cura di E. Agazzi, Feltrinelli, Milano 1975).

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Dal Terzo umanesimo al Platone "nazista"

"Sotto il segno di Platone": Wilamowitz, Jaeger, Stenzel Pochi decenni separano il sereno ambiente culturale liberal-socialista di fine Ottocento dalla cupa atmosfera della Germania degli anni venti, reduce dalla sconfitta nel conflitto mondiale e dal trauma della rivoluzione repubblicana. È in questa atmosfera che si produce un "ritorno" al Platone politico - gravido di effetti fiaturi - ad opera prima di Ulrich von Wilamowitz, prestigioso cattedratico di filologia classica all'Università di Berlino, poi del Terzo umanesimo (s'intende, terzo dopo quelli del Rinascimento e dell'epoca di Goethe) di Werner Jaeger, che fu successore di Wilamowitz a Berlino, e di Julius Stenzel. Gli assunti che motivano, e orientano, questo ritorno, si lasciano riassumere in poche mosse teoriche. La prima consiste nella riattivazione della tesi hegeliana, secondo la quale Platone aveva espresso lo "spirito del tempo", conferendo forma ideale allo stato greco e alla sua «eticità sostanziale». La seconda mossa è invece anti-hegeliana: la fedeltà di Platone allo spirito del suo tempo non ne comporta affatto il limite storico, destinato a venir superato dialetticamente da altre e superiori forme spirituali: il mondo greco e la sua idealizzazione platonica costituiscono una «forma eterna» (sono parole di Jaeger in Paideia, i, p. 5), insuperabile e tuttora esemplare. Ed esemplare soprattutto per la Germania, che con i greci — e qui si delinea la terza e decisiva mossa — conserva una profonda affinità spirituale. Questa affinità può in un certo senso apparire scontata sulla base del primato europeo della filologia classica tedesca fra Otto e Novecento, ma essa viene ulteriormente e più rischiosamente giustificata. Nella stessa pagina di Paideia, Jaeger parla infatti di «affinità spirituale fissata dal destino, ancor vivo e operante in noi». Se nel discorso di Basilea del 1914 Jaeger aveva assegnato alla filologia 69

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c;iKI, U N TK I ' H A I H D U U

I;UKHUI'.

catc dai governanti per evitare rivolte popolari (pp. 79 ss.)- Nelle Leggi, con il Consiglio notturno (paragonato inevitabilmente al tribunale dell'Inquisizione) entra «per la prima volta nella storia europea l'apologia della persecuzione religiosa» (p. 92). Nell'ambito dell'operazione di "smascheramento di Platone", così diflfixsa nella cultura inglese tra le due guerre, il contributo più brillante e di ma^ior successo è però venuto dall'intelligente pamphlet di Richard Crossman Plato Today, del 1937. A detta del suo autore, il libro trovò l'approvazione di personali eminenti come Bertrand Russell e Isaiah Berlin; lo stesso Popper lo lesse certamente con interesse, pur considerandolo un po' troppo indulgente nei riguardi del filosofo. Crossman era un buon conoscitore di Platone, anche se non uno studioso di professione (nel dopoguerra sarebbe diventato deputato laburista). Nella prefazione all'edizione post-bellica del libro, Crossman riferisce dello scandalo suscitato nel suo ambierite oxoniense dalla descrizione dell'Accademia come di una schoolfor counter-revolutionaries, e della Repubblica come di uno handbook far aspiring dictators. C'è forse qualche esagerazione, perché come si è visto lo "smascheramento" di Platone era già ben avviato, ma certo quello di Crossman è il primo lavoro sistematicamente rivolto a questa operazione, e anche il più largamente diffuso. La prima parte del libro offre una ricostruzione storica del contesto sociale e degli intenti di Platone. Egli si trova di fronte ad una crisi sociale in cui divampano i conflitti di classe fra il popolo e l'oligarchia. Di fronte a questa situazione, il suo atte^iamento non è affatto idealistico bensì realistico. Piatone nutre una stima pessimistica delle capacità intellettuali e morali delle masse, e di conseguenza non crede nelle possibilità di successo del regime democratico. Quello che occorre è una dittatura, non però oppressiva sul modello spartano. La Repubblica va dunque considerata il manifesto programmatico dell'Accademia come protagonista di una benevolent dìctatorship, di un governo imparziale capace di superare i conflitti fra le classi (p. 77). Ci sono due possibilità: o l'Accademia diventa direttamente «non solo la coscienza ma il dittatore politico della società greca», oppure (come suggerisce l'esperienza siciliana), essa opera come il ^centrai advisory bureau per una rete internazionale di dittature aristocratiche»; in entrambi i casi Platone rivestirebbe il ruolo di commander-in-chirf{^p. 81 s.). Alla fine del libro, Crossman si chiede perché Platone abbia fallito. La sua politica è stata insieme «troppo ideale» (nel senso della divinizza103

« U N P A R A D I C M A I N CIF.I.O»

zione della élite) e «troppo poco ideale» (nel senso di negare alle masse ogni possibilità di autorealizzazione). Si è così prodotta una «apologia razionale della reazione», ma, secondo Crossman, la «dittatura della Destra virtuosa» non può che trasformarsi in una polite form ofFascism. La posizione platonica ha dunque prodotto una giustificazione per i despoti militari (il "cesarismo" già ascritto a Platone da molti interpreti), per i principi del Rinascimento (e si pensi all'interesse verso la Repubblica nell'ambiente della signoria viscontea), per i dittatori moderni. Ma essa, conclude Crossman riprendendo una tesi molto diffusa, ha trovato la sua realizzazione storica nella Chiesa cattolica, dove gli ecclesiastici hanno preso il posto dei filosofi-re (pp. 167 s.). Ma la nostra epoca, conclude Crossman, ha bisogno dello spirito critico, del rispetto della dignità umana propri di Socrate, non di Platone. Fra la prima e l'ultima parte del libro, Crossman immagina - e si tratta certamente delle sue pagine più brillanti - un Platone oggi, che riferisce delle sue valutazioni sulla Russia sovietica e sulla Germania nazista. Nei riguardi del comunismo, Platone avrebbe provato disgusto per la glorificazione dei lavoratori e delle masse popolari, e soprattutto per il materialismo del regime che poneva come suo fine il miglioramento delle condizioni economiche della vita (un trionfo dunque della epithymia, dell'istinto acquisitivo, che per questo aspetto avrebbe accomunato ai suoi occhi Russia ed America) (pp. 1x9 ss.). Sul piano politico, invece, Platone avrebbe provato un «appassionato interesse» per la Russia impegnata in un «tentativo consapevole di pianificare la società umana in accordo con una chiara filosofia della vita». Egli avrebbe certamente riconosciuto nei dirigenti sovietici gli eredi dei suoi filosofi-re, benché seguaci di una filosofia sbagliata, e avrebbe ammirato l'organizzazione del partito comunista per coraggio, disciplina, obbedienza ai capi. Crossman va oltre: nella comune dedizione alla «tirannia dell'ideale» egli riconosce una profonda somiglianza fra la «tempra» di Platone e quella di Lenin, per la inhumanity dell'uno e dell'altro. Ma Platone avrebbe nutrito simpatia anche per Stalin, apprezzandone soprattutto la capacità di mantenere il controllo del popolo mediante l'uso esperto di «nobili menzogne». Nell'insieme, Platone avrebbe approvato nel comunismo proprio gli aspetti più ripugnanti per il pensiero democratico: il sacrificio delle vite individuali in vista della realizzazione del «grande piano» collettivo, la soppressione delle opposizioni, la convinzione che 104

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il filosofo-re sa esattamente quello che la vita dovrebbe essere, e considera le concezioni opposte come «superstizioni bigotte» (pp. 134 ss.).

Assai meno simpatetico l'atteggiamento che Crossman attribuisce a Platone nei riguardi del nazismo. Scrivendo ad Aristotele il resoconto di una sua visita a Berlino, Platone gli racconta di aver ascoltato il discorso di un politico dall'aspetto di «hittita», apprezzandone l'abilità demagogica nel tener unito il popolo grazie all'uso spregiudicato di «nobili menzogne» di tipo razzista. Si aspettava di più dall'oratore successivo, un filosofo autore di un'opera intitolata Platone e la concezione nazionalsocialista delb Stato (in questa figura Crossman concentra probabilmente autori come Rosenberg, Bannes e Hildebrandt). Questo discorso suscita l'indignazione di Platone (che lo considera peggiore del libello del giovane Dionisio), perché riduce il modello della Repubblica a quello spartano, e Sparta alle origini razziali ariane. Vengono cosi dimenticate le critiche di Platone al regime militaristico spartano, e soprattutto si rivela la figura di un filosofo non signore, ma servo del demagogo. In conclusione, Platone caratterizza il fascismo come un regime misto fra timocrazia e oligarchia: un giudizio in fondo benevolo, perché evita la condanna del governo «hittita» come tirannide (pp. 144 ss.). Fin qui Crossman. Come si vede, grazie a lui e a molti altri autori, la cultura inglese degli anni trenta (recependo e invertendo di segno l'interpretazione platonica in voga nella Germania contemporanea) aveva preparato molta parte dei materiali polemici di cui si sarebbe nutrita la polemica di Popper, sia pure nel quadro di una più robusta impalcatura filosofica.

E i bolscevichi? Bertrand Russell, pur notando le affinità fra l'utopia platonica e i progetti dei «bolscevichi migliori», aveva tuttavia supposto che ad essi sarebbe stato inviso l'antico filosofo «borghese». Ma le cose non sono andate proprio così. Platone giungeva in Russia, alle soglie della rivoluzione, con il viatico di Pòhlmann e di Natorp (oltre che di Kautski), che l'avevano presentato come un genuino precursore del comunismo: e infatti nel 1923 Novitskii gli avrebbe dedicato un suo libro nella serie "Antenati del comunismo utopistico". Ma nel fervore dei primi anni della rivoluzione - secondo il resoconto offerto da Frances Nethercott - sono soprattutto due aspetti del Platone politico a colpire il gruppo dirigente 105

«UN I>AKAI)I(:MA IN

CIKI.O»

bolscevico. Il primo sta nell'idea di «pedagogia sociale», già cara agli studiosi tedeschi, e nel progetto di educazione collettiva dei bambini con l'intento di forgiare r«uomo nuovo»: echi di questo platonismo educativo si ritrovano tanto nel Codice della famiglia del 1918, quanto nel libro Platone educatore di Rubinstein apparso nel 1920. Il secondo aspetto riguarda la "questione femminile", nel senso di un allentamento dei vincoli coniugali e di una sessualità liberata, temi questi cari tanto a Clara Zetkin quanto ad Alexandra Kollontai. Ma questi interessi sono destinati a dileguarsi una volta chiusa la fase dell'utopia rivoluzionaria e il suo "comunismo di guerra", con l'avvento prima della Nuova politica economica di Lenin, poi del potere staliniano (anche se il giovane Stalin era stato un buon conoscitore di Platone). C'è un ritorno ai valori istituzionali della famiglia, e insieme all'ortodossia marxista-leninista: i perentori giudizi di Marx, sulla Repubblica come idealizzazione ateniese dello stato castale egiziano, e di Lenin (in Materialismo ed empiriocriticismo, del 1909) su Platone come capofila della «linea idealistica» in filosofia, tornano allora ad esercitare tutto il loro peso. Nel 1923 le opere di Platone, insieme con quelle di Kant, Nietzsche e altri, vengono escluse dalla Ubera consultazione nelle biblioteche sovietiche. Anche reagendo alla contemporanea propaganda nazista filoplatonica, il suo pensiero politico viene ora etichettato come utopismo reazionario, classista e anti-scientifico. Secondo Salomon Luria, un importante studioso della filosofia antica, Platone sarà stato il precursore della cristianità medievale, del gesuitismo, della Santa Alleanza, ma non certo del «socialismo scientifico». Una discreta e prudente riabilitazione di Platone viene semmai attuata nella matura epoca staliniana. Se ne può ritrovare una traccia nella voce su Platone della Grande enciclopedia sovietica affidata a un grande esperto come Aleksei Losev. Qui viene offerto un quadro breve ma preciso ed equilibrato della struttura sociale delineata nel Gosudarstvo {Repubblica). Alla fine, a mo' di valutazione conclusiva, viene riprodotto il giudizio di Marx, senza aggiungervi alcun commento. In conclusione della voce, l'importanzafilosoficadi Platone è individuata nella sua fondazione deir«idealismo oggettivo»; a ciò segue la rituale citazione di Lenin sulla «linea platonica». Tanta prudenza è spiegabile se si tiene conto che Losev scontò dieci anni di lavori forzati, dal trenta al quaranta, perché sospetto di simpatie idealistiche, tornando in seguito al suo insegnamento all'Università di Mosca. 106

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I N O C C I D l ' N r i ' I RA I.H D U I i

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La voce su Platone della numismatica Ljudmila Kazamanova nelVEnciclopedia storica sovietica è storicamente più articolata. Platone avrebbe cercato una via d'uscita alle contraddizioni sociali della polis sia con il progetto parzialmente comunistico della Repubblica, sia con quello di uno «stato agrario» nelle Leggi, in cui si intende ripristinare la condizione dell'Attica prima di Solone e della Sparta di Licurgo. L'autrice non ricorre alle citazioni consuete di Marx e di Lenin. La sua valutazione critica è piuttosto di stampo hegeliano: Platone non sarebbe in entrambi i casi riuscito a superare i limiti storici e sociali della polis antica. Le vicende dell'interpretazione successive al 1921 giustificano dunque la previsione di Russell; ma non nascondono del tutto l'attenzione e il favore con cui l'utopia platonica venne accolta nei primi anni della rivoluzione, come premessa per una radicale trasformazione educativa e morale della società.

Nota bibliografica Gli autori francesi citati sono A. DIÈS, Introductìon a Platon, La Républiqtie, par É. Chambry, Les Belles Lettres, Paris (1932) 1989; L. ROBIN, Platone (1935, 1968^), trad. it. Cisalpino, Milano 1988. Per gli autori italiani: G. CALOGERO, Platone, in Enciclopedia italiana (19291936), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, pp. 510-21 dell'edizione del 1949; la recensione a Paideia è in "Giornale critico della filosofia italiana", 4-5 (1934), pp. 358-71; L. STEFANINI, Platone, 2 voli. (1932,1935), 1949'' (rist. anast. Istituto di Filosofia-Istituto di Storia della filosofia, Padova 1991); M. GENTILE, La politica di Platone, CEDAM, Padova 1940. Sull'ambiente culturale di lingua inglese, oltre al saggio di Glucker citato nel CAP. 3, cfr. M. LANE, Plato 's Progeny. How Socrates and Plato Stili Captivate the Modem Mind, Duckworth, London 2001 (pp. 97-134). Le opere citate sono nell'ordine: B. RUSSELL, The Practice and Theory ofBobhevism, Alien & Unwin, London 1920; ID., Storia della filosofia occidentale, voi. I (1946), trad. it. Longanesi, Milano 1966; ID., Philosophy and Politici, in Id., UnpopularEssays, Alien & Unwin, London 1950, pp. 9-34; A. J. TOYNBEE, A Study ofHistory, voi. ni, Oxford University Press, Oxford-London (1935^) 1951; F. M. CORNFORD, Plato's Commonwealth (1935), in Id., The Unwritten Philosophy and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge (1950) 1967, pp. 47-67; B. FARRINGTON, Scienza e politica nel mondo antico (1946), trad. it. Feltrinelli, Milano i960; R. H. s. CROSSMAN, Plato Today (1937,1959^), Alien & Unwin, London 1963. 107

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l'ARAOICMA

IN

CirU.O»

Per i) "Platone bolscevico", cfr. r.

NF.Tiiiiucorr,

Russia's Plato. Plato and the

Platonic Tradition in Russian Education, Science and Ideologi (1840-1930), Ashgate, Aldershot 2000 (capp. 4-5). Ho potuto consultare le voci Platon della Grande enci-

clopedia sovietica e della Enciclopedia storica sovietica (nelle edizioni del 1976) graz all'aiuto di Adele Mazzetti.

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Storicismo e ingegneria sociale: il Platone di Popper

Perché Platone? Quando fu costretto ad emigrare in Nuova Zelanda per l'incombente minaccia nazista, il filosofo austriaco Karl Popper aveva già pubblicato il suo capolavoro epistemologico, La logica della scoperta scientifica. L'urgenza di scrivere un grande libro di storia e critica della filosofia politica, quale è The Open Society and Its Enemies, gli fu imposta dalla vicenda drammatica della storia europea di cui era insieme testimone e vittima: racconta egli stesso che il libro fu iniziato nel marzo del 1938, il giorno in cui gli pervenne la notizia dell'invasione tedesca dell'Austria. L'opera fu pubblicata nel 1944, al culmine dunque della Seconda guerra mondiale. Si trattava per Popper, nel fuoco della «lotta perenne contro il totalitarismo» (i, p. 15), cioè dello scontro delle democrazie occidentali contro fascismo e nazismo, nell'immediato, ma oltre questi anche contro lo stalinismo sovietico {ncWIntroduzione del 1959 Popper scrive infatti che se avesse riscritto il libro lo avrebbe imperniato sulla critica al marxismo), di risalire alle origini della tragedia europea, di comprenderne le radici teoriche e intellettuali. È l'autorità dei grandi uomini a giustificare i maggiori errori contro la libertà e la ragione. Non può sorprendere, quindi, che il secondo volume dell'opera sia dedicato alla critica dei profeti di questi totalitarismi, Hegel e Marx. Ma l'intero primo volume. The Speli of Plato, costituisce una spietata requisitoria contro Platone, concepito come il vero iniziatore della genealogia di tutti i totalitarismi. Anche questa non costituisce, per certi aspetti, una vera sorpresa. Come abbiamo visto, non mancavano certo nella cultura anglosassone numerosi precedenti di questa critica, cui Popper poteva attingere per costruire la sua immagine di un Platone totalitario, predecessore tanto 109

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del fascismo quanto del bolscevismo. Egli si riferisce esplicitamente a Grote, Gomperz, Toynbee (note 32 e 43 al cap. iv), Crossman (nota 2 al cap. VI). Ma certamente, nella sua lettura di Platone, Popper utilizza ampiamente anche le interpretazioni dei suoi avversari "totalitari", a partire dallo stesso Hegel. Un caso interessante, in questo senso, è costituito dalla stessa coppia concettuale società aperta/società chiusa, dove la prima indica lo spazio della libera autodeterminaziane individuale, del pensiero critico, della disponibilità al progresso intellettuale e sociale, la seconda per contro l'immobilismo della tradizione, che vincola gli individui a ruoli sociali predeterminati, l'autoritarismo paternalistico, l'organicismo collettivista, l'ostilità verso il mutamento. Popper dichiara di aver derivato i concetti di società chiusa e aperta da Bergson, pur modificandone il senso (i, p. 284). Ma negli stessi anni, in una conferenza tenuta a New York nel 1941, Leo Strauss avrebbe usato la stessa coppia in modo ben più vicino a Popper, riferendo la preferenza per la "società chiusa" al nichilismo tedesco, quella per la "società aperta" all'opposto nichilismo anglosassone di impronta liberale. Dal punto di vista della sua teologia politica, Strauss non condivideva nessuna delle due posizioni, ma certamente individuava con chiarezza il campo delle scelte e delle opposizioni al cui interno lo stesso Popper veniva consapevolmente a collocarsi. Str un fronte e sull'altro, comunque, la strada per fare di Platone il capostipite della genealogia totalitaria era stata largamente preparata. Popper affrontava però il suo rivale con un'ampiezza di analisi, una potenza di strumenti teorici, e anche un'energia confutatoria, che non avevano veri precedenti e che fanno del libro, comunque lo si valuti per i suoi contenuti e per i suoi effetti, uno snodo epocale nella storia delle interpretazioni moderne del Platone politico.

Diagnosi e terapie Da quel grande sociologo che era secondo Popper, Platone aveva perfettamente compreso i motivi del malessere sociale, dell'infelicità della sua epoca. Essi consistevano nella rivoluzione che aveva portato al crollo della società tradizionale, con la sua rassicurante fissità di valori, di costumi, di ruoli, e con la protezione che la collettività assicurava alle sorti individuali. Al suo posto, era nata una società democratica e individualista, che faceva sentire al singolo tutto il peso della responsabilità persone

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naie, dell'insicurezza, di una libertà vissuta come solitudine e precarietà (è interessante notare come queste tesi di Popper sarebbero state riprese da Eric Dodds nell'ultimo capitolo del suo grande libro del 1951, The Greeks and the Irrattonat). In luogo della solidarietà comunitaria erano insorti i conflitti economici e di classe, l'espansionismo, l'idea di un progresso dalle incerte prospettive. Di fronte a questa crisi, quella che Popper definisce la «grande generazione» - la generazione di Pericle, Erodoto, Protagora, Antistene, lo stesso Socrate - reagiva con l'esercizio della ragione critica, con l'accettazione dei rischi della libertà come unica garanzia di uno sviluppo autonomo della personalità, infine con la concezione della politica come confronto aperto sui valori e i progetti comuni (pp. 241 ss.). Platone, come altri intellettuali ateniesi alla maniera di Crizia, reagisce invece alla crisi interpretandola come una caduta dell'uomo da una condizione originaria di felicità, e ne propone dunque una terapia regressiva, che risulta, secondo Popper, peggiore del male che voleva curare, così tradendo Socrate (è qui inevitabile il riferimento al Consiglio notturno delle Leggi come Tribunale dell'Inquisizione che avrebbe processato Socrate reo di libero pensiero), in nome del presupposto che «la giustizia è l'ineguaglianza» (pp. 271 ss.). A partire da questo quadro storico, Popper svolge la sua requisitoria contro Platone secondo due principali capi d'accusa: quello di «storicismo» e quello di «ingegneria sociale utopica». È il caso di analizzarli separatamente, visto il diverso valore ermeneutico, perché il primo appare più debole e persino più pretestuoso, mentre il secondo è senza dubbio più pertinente e più ricco di prospettive problematiche.

Platone e lo storicismo regressivo Storicismo è, secondo Popper, la posizione di chi: 1. pretende di possedere una conoscenza certa delle «leggi della storia»; 2. ritiene che queste leggi determinino in modo necessario il corso del mondo; 3. considera il corso del mondo come uno sviluppo e un progresso finalisticamente orientati. L'imputazione a Platone dell'accusa di storicismo serve evidentemente a fondarne l'accostamento agli altri rei dello stesso delitto, Hegel e Marx (oltre che ad esporlo alla critica che Popper avrebbe più ampiamente sviluppato nella sua Miseria dello storicismo del 1957). Ma, per essere minimamente credibile, nel caso di Platone 111

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IN CII'I.O»

l'accusa deve lasciar cadere i punti 2 e 3, e limitarsi a discutere le conseguenze del primo. A differenza degli storicisti "integrali", Platone ritiene sì che esista una legge del mutamento storico, ma è convinto - come risulta dal libro v i l i della Repubblica - che ogni mutamento significhi decadenza e degenerazione. Egli è inoltre convinto che uno sforzo «sovrumano» di volontà possa arrestare il processo di decadenza, invertire il corso della storia in modo da orientarlo verso un ritorno alla primitiva «età dell'oro», alla passata perfezione da cui ha avuto inizio la «caduta» dell'uomo (pp. 42 ss.). Due punti vanno qui sottolineati. Il primo: Popper non vede il carattere manifestamente ironico dei miti sull'età aurea di Crono nel Politico e nel libro iii delle Leggi, con la loro animalizzazione dell'umanità; sorvola inoltre sul fatto che la primitivistica «città sana» del libro 11 della Repubblica viene sbrigativamente liquidata, per la sua condizione prepolitica e pre-filosofica, come una «città dei maiali». Il secondo: benché effettivamente nel libro v i i i dello stesso dialogo si ipotizzi l'esistenza di una kallipolis all'inizio della storia, il linguaggio dei libri v e vi colloca chiaramente in un futuro non ciclicamente regressivo la costruzione della stessa kallipolis. Basti notare le forme verbali ai futuro ad esempio in VI 499di {epeita genesetai), 50ie4 {telos lepsetai) e altrove. Comunque sia, Popper è convinto che l'intento di Platone sia quello di curare la malattia sociale del suo tempo facendo tornare indietro l'orologio della storia, risalendo cioè - anche alle spalle delle pur apprezzate culture di Sparta e di Creta - fino alle «antiche forme tribali di vita sociale» (p. 76), raffigurate appunto nel mito di Crono. Cancellate le lotte di classe, e il disagio della libertà, qui gli uomini vivono nella sicurezza offerta da un re pastorale e patriarcale, dal dominio di una casta militare che accudisce al «gregge umano», in un collettivismo tribale che fissa per sempre ruoli e funzioni di ogni singolo individuo (pp. 77 ss., 152 ss.). In questo quadro, il re-filosofo (in cui Platone si identifica) appare piuttosto un «re-sacerdote tribale», una sorta di stregone o sciamano (pp. 209, 216). Questa è in sostanza la terapia proposta da Platone per la crisi della sua epoca. Scrive in effetti Popper, andando ben oltre Hegel, che per Platone «l'individuo è il Sommo Male in senso assoluto», e il criterio morale consiste solo nell'interesse dello stato (concetto invero incongruo per una società tribale, ma come vedremo non si tratta della sola oscillazione popperiana) (pp. 152 ss.). Per argomentare questa tesi, Pop112

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per sottolinea due passi delle Leggi in cui la subordinazione dell'individuo alla comunità (se non allo stato) è espressa in modo davvero eloquente. Il primo è quello ben noto del libro v , dove Platone, riferendosi alla Repubblica, afiferma che la città migliore è quella in cui con ogni mezzo ciò che è detto privato in ogni modo viene sottratto da ogni parte della vita, e si cerca per quanto è possibile di rendere in un certo senso comune anche ciò che per natura è dell'individuo, per esempio gli occhi, le orecchie e le mani, così che sembrino vedere, udire e agire in comune

(739C).

Il secondo passo, meno spesso citato, appartiene al libro x i i e si riferisce specificamente alle attività militari, ma è facilmente estensibile all'intera vita sociale: Mai nessuno, né uomo né donna, sia senza un comandante {anarchon\, né l'anima di alcuno, sia sul serio sia per gioco, per abitudine si avvezzi ad agire da sola e di sua iniziativa, ma viva in ogni situazione di guerra e di pace rivolgendo sempre lo sguardo verso il comandante e seguendolo, facendosi guidare da lui anche nelle cose più piccola [...] e in una parola insegnare all'anima con le abitudini a non conoscere né assolutamente saper intraprendere un'azione separatamente dagli altri; la vita di tutti sia per quanto è possibile collettiva e comune a tutti [...]. L'anarchia dev'essere eliminata dall'intera vita di tutti gli uomini e degli animali soggetti agli uomini (942c-d).

C'è, come si vede, molto per giustificare alcune almeno delle asserzioni di Popper. Per altri aspetti, invece, questi - forse suggestionato dalle sue fonti, forse spinto dalla concitazione polemica — compie indebiti slittamenti teorici rispetto ai suoi stessi assunti, che prendono l'aspetto di una serie incontrollabile di derive retoriche. La prima di esse (suggerita forse da Toynbee e Crossman) consiste neirassimilare l'wolismo» tribale all'organicismo del Leviatano hobbesiano, che appartiene evidentemente alla sfera dello stato moderno (pp. 118 ss.); alla stessa sfera appartengono figure del «totalitarismo» come la polizia segreta (p. 278). Lo stesso effetto retorico trasforma lo «sciamano» tribale in forme di potere relativamente moderne come la tirannide e il dispotismo. Del resto, lo stesso Popper annovera fra i meriti del Platone «sociologo» quello di aver formulato una teoria delle élite, che anticiperebbe Pareto (p. 67), e di cui è difficile vedere il rapporto con 113

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la regressione al primitivismo tribale. Altrettanti ingredienti, come si vede, mescolati un po' alla rinfusa nella zuppa del "totalitarismo" di ogni tempo. La seconda deriva risente invece dell'influsso dei lettori nazionalsocialisti di Platone. Si parla allora di una «razza dominatrice» (dorica) che soggioga una popolazione sedentaria, avendo a riferimento la fine del libro III della Repubblica (pp. 82 s.); di un «mito del Sangue e della Terra» espresso dalla «nobile menzogna» (p. 199); infine, del re-filosofo come di un «allevatore scientifico della razza dominante» (pp. 211 s.), facendo di quello platonico uno «storicismo biologico» (p. 120), con toni che ricordano da vicino l'interpretazione di Giinther più che lo stesso "tribalismo" popperiano. La terza deriva, infine, consiste in un riuso del linguaggio proprio della critica marxista a Platone. Così il patriarcato tribale (il cui vantaggio era altrove considerato come il ritorno a una società senza classi) viene ora considerato come «il naturale governo di classe dei pochi sapienti sui molti ignoranti» (p. 129), con la sua propaganda che, sulla scorta di Farrington, mira a impedire ogni innovazione culturale. Più specificamente, la dottrina gerarchica della giustizia propria di Platone significa far consistere la giustizia stessa in un «privilegio di classe», in un «governo di classe», opposti all'egualitarismo greco che costituisce «l'arcinemico» del filosofo (pp. 134 ss.). Dal tribalismo arcaico al dispotismo statuale moderno, al dominio di razza o di classe: la panoplia dell'anti-platonismo viene dunque schierata senza risparmio di forze, con il costo inevitabile di produrre un coacervo di argomenti poco controllabile sia storicamente sia teoricamente.

L'ingegneria sociale utopica Di tutt'altro spessore, e di ben maggiore interesse, è il secondo dei capi d'accusa popperiani. Esso può venir letto indipendentemente dal primo, nel senso che i presunti contenuti "tribalistici" sono inessenziali rispetto alla struttura del disegno utopistico attribuito a Platone. Questo disegno si può definire innanzitutto per opposizione ai suoi due grandi avversari: da un lato, Marx, che rifiuta ogni forma di ingegneria sociale in nome della legalità immanente alla storia (ma Platone e Marx condi114

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STORIC'.I.SMO H I N C J K C N I ' R I A S ( ) C : i A I , i ; : I L P L A I O N E D I

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vidono invece il radicalismo dei loro atteggiamenti) (p. 230); dall'altro, invece, la forma di ingegneria sociale gradualistica, o riformistica (letteralmente piece-meal), favorita da Popper, che lavora non per il bene ultimo ma contro i mali presenti (pp. 44, 221). La struttura dell'ingegneria sociale utopica viene chiaramente individuata da Popper. C'è in primo luogo l'ordine dei fini: la teoria delle idee è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il modello dello stato perfetto, per definizione immutabile e invariante (pp. 44, 48, 55)Ciò posto, il problema dell'ingegnere sociale utopico è quello di progettare i mezzi adeguati al conseguimento della finalità così stabilita. Si tratta di una deduzione di tipo condizionale {se... allora), che non ha alcun bisogno di consenso e anzi non può ammettere il dissenso. Ogni obiezione appare irragionevole e reazionaria. Ciò che occorre, è un sistema di potere centralizzato che garantisca la realizzazione sequenziale della catena dei mezzi in vista del fine, insomma la dittatura di chi conosce il modello da realizzare ed è in grado di derivarne la pianificazione razionale dell'intera società (pp. 221 ss.). C'è in tutto questo, nota acutamente Popper, una significativa componente di estetismo: la perfezione del mondo assunto come modello rende l'ingegnere sociale utopico insofferente di fronte alla strategia riformistica consistente nel tentativo di «rappezzare» l'esistente. La politica diventa, in questo quadro, un'arte, il cui capolavoro consiste appunto nella società nuova che l'ingegnere sociale viene costruendo. La bellezza perseguita lo rende del tutto indifferente rispetto alla violenza eventualmente necessaria in corso d'opera (Popper cita il detto di Lenin secondo il quale «non si può fare la frittata senza rompere le uova»). Così, Platone parla di un pittore di costituzioni che deve ripulire la tela prima di cominciare a tracciare il suo quadro {Resp. vi 50ia): poco importa se questa ripulitura comporterà per esempio di bandire dalla città tutti gli abitanti superiori ai dieci anni (VII 54ia), oppure, come dice il Politico, di «purgarla» uccidendo o esiliando parte dei suoi cittadini (293d-e) (pp. 231 ss.). Quali sono, secondo Popper, gli errori insiti in questo pur affascinante modo di pensare? C'è, innanzitutto, l'inevitabile dogmatismo sui fini. Il fine ultimo non può che essere l'oggetto di una intuizione che è impossibile argomentare razionalmente, sicché occorre ricorrere alla forza per dirimere i dissensi. E, soprattutto, il modello risulta non mo115

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P A R A I ) I C ; M A

IN C I E L O »

dificabile nonostante l'indefinita lunghezza dei tempi necessari per realizzarlo: ogni mutamento del modello in corso d'opera renderebbe inutili e vani i mezzi fino a quel momento usati per la sua attuazione. D'altra parte, manca e mancherà sempre una base di conoscenza empirica sufficiente a prevedere gli effetti - su di una prospettiva temporale così vasta — dei tentativi di pianificazione integrale della società, sicché è impossibile prevedere razionalmente gli esiti del processo di trasformazione, che si fonda dunque appunto solo sull'assunzione dogmatica del fine ultimo. (Si potrebbe osservare che Platone ha effettivamente modificato, tra Repubblica e Leggi, l'ordine delle finalità dei suoi progetti di ingegneria sociale. Ma Popper potrebbe ribattere che Platone non ha potuto, nel frattempo, avviare il programma della Repubblica-, altrimenti sarebbe ricorso a esili e uccisioni di massa, per poi rendersi conto che tutto ciò era inutile in vista delle diverse finalità previste nelle Leggi.) Insomma, conclude Popper: per l'arbitrarietà dei fini e per l'impossibilità di controllare razionalmente la sequenza dei mezzi, è molto probabile che l'ingegneria sociale utopica porti sulla terra, invece che il cielo, l'inferno (p. 235). Su questa lucida aggressione all'utopismo platonico occorrerà evidentemente tornare. Ma, prima di congedarci da Popper, occorre dare conto del suo pungente "ritratto" di Platone. Chi era, insomma, Platone? La sua mente era lacerata, nella diagnosi popperiana, da una «lotta titanica» tra il fascino della società aperta, incarnato da Socrate, e il richiamo della tirannide rappresentato da Crizia: insomma fra «il mondo di un modesto, ragionevole individualista e quello di un totalitario semidio» (pp. 189, 273 s.). A prevalere è infine la nietzscheana «volontà di potenza» (p. 219). A partire da questo, la biografia politica di Platone può venir letta attraverso i dialoghi, alla maniera di Hildebrandt. La Repubblica testimonia di «vivissime ed esaltanti speranze di successo», cui seguono periodi di depressione (p. 218); le Leg^ puntano sulla coppia tiranno/legislatore, che adombra il rapporto fra Dionisio 11 e Platone (p. 74). Alla fine però, nota sarcasticamente Popper, Platone, che aveva sperato di fondare con l'Accademia il primo regno filosofico, si trova ad aver istituito nulla più che la prima cattedra di filosofia (p. 219). M a l'insuccesso di Platone, conclude Popper, fu purtroppo solo provvisorio. A lunga scadenza, il politico totalitario avrebbe avuto fin troppo successo, a partire dal Medioevo fino all'età moderna (p. 240). E il potenziale antidemocratico della sua «scrittura velenosa», perché affa116

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S R O R I C I S M O !•; I N G K G N U R I A S O C I A I IÌ: II, I'I A I O N B n i

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scinante (quaJ è quella del libro v i i i della Repubblica) è ancora ben lungi dall'essere esaurito (pp. 71 ss.).

Dopo Popper Popper trovò immediatamente il consenso di personaggi illustri come Bertrand Russell, Ernst Gombrich e Gilbert Ryle, che in una positiva recensione del 1952 su "Mind" ribadiva le tesi popperiane scrivendo seccamente: «Berchtesgaden e il Cremlino mantengono le promesse della Repubblica e delle Leggi». Non mancò, naturalmente, un'altrettanto immediata reazione da parte degli specialisti dell'antichità, doppiamente irritati per l'invasione di campo da parte di un incompetente e per la sua dissacrazione di un venerabile classico come Platone. Il puntiglioso libro di Levinson In Defense of Plato (1953) costituiva una minuziosa rassegna degli "errori" e delle forzature interpretative di Popper (il quale non aveva invero troppa difficoltà a replicare nell'appendice dell'edizione del 1959). In un importante saggio del 1967, Bambrough avvertiva questi critici di Popper che il tentativo di difendere Platone a questo livello (cioè tentando di dimostrare, con i mezzi di una presunta neutralità filologica, che Platone non aveva davvero sostenuto tutte le deplorevoli conseguenze che derivavano dalle sue premesse teoriche) costituiva una strategia unprofitable, troppo debole e intellettualmente priva di interesse. Poiché l'attacco verteva precisamente su queste premesse, occorreva impegnarsi in una discussione su di esse, integrando il punto di vista storico con quello filosofico. II salutare monito di Bambrough non ha trovato molti echi né nel breve né nel lungo periodo. Fra i rari tentativi di raccogliere a questo livello la sfida di Popper, si può citare un interessante saggio di Maurer del 1995 sulla questione del rapporto fra l'ideologia egualitaria delle democrazie contemporanee e il perdurante emergere di élite tecnocratiche e «meritocratiche», eredi più o meno legittime dell'waristocrazia razionale» preconizzata da Platone (che in questo modo si sottrae, secondo Maurer, all'alternativa totalitarismo/democrazia imperante n e l f i d e o logia occidentale"). E va ancora ricordata l'importante discussione di Schofield (2006) intorno alla questione dell'utopia fra Popper e Platone, sulla quale si dovrà tornare. 117

« U N P A R A D I G M A IN CIF.I.O»

Se sono rari i casi di discussione storico-filosofica sui principi regolativi del pensiero politico di Platone, auspicata da Bambrough, si può tranquillamente dire che è del tutto mancata una analoga discussione sui principi che orientano il discorso di Popper. Li si può presentare in forma di due schemi sillogistici: i. solo il pensiero liberal-democratico è accettabile; ma Platone era organicista, olista, comunitario, illiberale; dunque Platone ha torto e il suo pensiero è inaccettabile; 2. ^olo il riformismo gradualista è accettabile; ma Platone era un ingegnere sociale utopico ostile al riformismo; dunque Platone ha torto e il suo pensiero è inaccettabile. Schematizzato in questo modo, non sarebbe difficile considerare il pensiero di Popper come passibile dell'accusa di totalitarismo (così definibile secondo la formula di Bambrough: c'è una sola e accessibile guida per i problemi morali e politici; c'è un metodo univoco per decidere chi ha ragione e chi ha torto in tutti i dissensi sul bene e sul male). Comunque sia, è certo che considerare indiscutibili i principi di Popper (come propri di una sorta di "pensiero unico" inderogabile) ha prodotto una lunghissima serie di "difese di Platone" certo meno ingenue, più intellettualmente sofisticate di quella tentata da Levinson, ma forse proprio per questo ancora più rischiose sul piano ermeneutico. Credo che l'effetto devastante prodotto dalla critica di Popper non sia consistito nell'aver delineato un'immagine di Platone come un pensatore non riducibile alla tradizione del pensiero liberal-democratico (e magari cristiano), e come autore di un progetto utopico fondato su di una teoria dei valori etico-politici considerati come oggettivi e non controvertibili. L'effetto devastante sta piuttosto nell'aver prodotto, lungo tutta la seconda metà del Novecento, un'impressionante sequenza di sforzi intesi a confutare questa immagine, con la conseguenza, già temuta da Bambrough, di "sfigurare" o deformare Platone come e più dei suoi stessi critici. Di tutto questo si dirà nei capitoli successivi, ma già ora si possono individuare le linee principali di questi sforzi che, con l'intento di difendere Platone da Popper, hanno spesso finito per tentare di difendere Platone da sé stesso. La prima, minoritaria ma recentemente in ripresa, è consistita nel sostenere che Platone era un pensatore in qualche misura liberal-democratico; la seconda, più raffinata, ha elaborato la tesi che Platone non ha davvero sostenuto le tesi che Popper gli attribuisce, in tutti i sensi che si possono attribuire all'avverbio davvero. È dunque nel segno di Popper che si svolgerà la storia ermeneutica del Platone politico nella seconda metà del Novecento, e questo costi118

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tuiscc una prova indiscutibile della forza intellettuale della sua aggressione critica.

N o t a bibliografica L'opera di

K. R. P O P P E R ,

The Open Society andits Enemies, voi.

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The Speli ofPlato

(1944), Routledge & Kegan Paul, London 1966', è citata nella trad. it. La società aperta e ì suoi nemici. Armando, Roma 1973. Per

L. s T R A U s s

cfr. Il nichilismo tedesco (conferenza pronunciata da Strauss nel

1941 alla New School for Social Research di New York), trad. it. in Nichilismo e politica, a cura di R. Esposito, C. Galli e V. Vitiello, Laterza, Roma-Bari 2000. Per E. R. D O D D S

cfr. The Greeks and the Irrational, University of California Press, 1951,

cap. vili ( The Fear of Freedom) (trad. it. / Greci e l'irrazionale, Sansoni, Milano 2003). La recensione di

e il saggio di

G. R Y L E

and Enemies sono inclusi nella raccolta

R. B A M B R O U G H ,

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Plato'sModem Friends

(ed.), Plato, Popper and

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(MA)

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M. S C H O F I E L D ,

Plato. PoliticaiPhUosophy, Oxford University Press,

London 2006 (cap. 5: Utopia).

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Difendere Platone da Popper (o da sé stesso?)

Nella lunga storia delle difese di Platone da Popper, che si estende per tutta la seconda metà del Novecento, nessun interprete occidentale ha mai messo in discussione la premessa maggiore del sillogismo popperiano: che il pensiero liberal-democratico (e, in qualche variante, cristiano) sia l'unico modo accettabile di concepire la politica. Desiderando salvare Platone dalla conclusione del sillogismo (Platone aveva torto), per evitarne l'espulsione dalla "buona" tradizione occidentale, troppo gravosa da sopportare in virtù della sua perdurante auctoritas, era dunque necessario confutare la seconda premessa popperiana, secondo la quale Platone non era un pensatore politico liberal-democratico, ma piuttosto autoritario o addirittura totalitario. Le tre linee difensive escogitate in vista di questa confutazione possono venire schematizzate in questo modo. 1. La prima, e più semplice, consiste nel sostenere che Platone era veramente, in qualche modo, un pensatore liberal-democratico, dunque Popper aveva torto. 2. La seconda, più complessa e articolata, ha il suo punto forte nella tesi secondo la quale — malgrado il consenso di una millenaria tradizione esegetica che va da Aristotele allo stesso Popper - Platone non riteneva davvero che le posizioni espresse nei suoi dialoghi politici fossero in realtà desiderabili e in qualche misura realizzabili. Questa tesi si distingue in due varianti: a) i testi politici di Platone appartengono al genere letterario utopia, e non presentano alcun aspetto progettuale; b) i dialoghi politici di Platone hanno un'intenzione ironica, consistente nel sostenere il contrario di quanto appare alla superficie del testo. In un caso e nell'altro, Popper aveva torto, perché la sua critica colpisce un falso bersaglio. 121

« U N L'AKANU'.MA IN ("IHI.O»

3. Nonostante le apparenze, e il consenso pressoché unanime della tradizione esegetica, i dialoghi cosiddetti politici di Platone non appartengono affatto all'ambito della filosofia politica, avendo di mira esclusivamente i problemi della morale individuale {isipolis è al più una metafora dell'anima). Anche in questo caso, risulta che Popper ha mancato il bersaglio, attribuendo a Platone intenti direttamente politici. Si dirà in questo capitolo della prima e della seconda linea; la terza verrà discussa nel capitolo seguente.

Platone liberal-democratico La corrente interpretativa tesa a scagionare Platone dalle accuse di Popper, mostrando che il suo pensiero politico presenta in effetti elementi liberali, o addirittura democratici, ha dato prova di una sorprendente tenacia durante tutta la seconda metà del Novecento nell'ambiente culturale anglosassone, a partire da Levinson fino ai recenti studi di Monoson, Saxonhouse e Bobonich. Sorprendente per almeno tre ragioni: in primo luogo, perché questi interpreti devono sostenere un vero e proprio braccio di ferro con le evidenze testuali; poi, perché devono sfidare (o non di rado semplicemente ignorare) una tradizione secolare avversa, che va da Hegel a Zeller, da Grote a Gomperz, da Russell a Toynbee e Crossman (per non menzionare le vicende del Novecento "continentale"); infine, perché devono affrontare vigorose confutazioni, come ad esempio quelle recenti di Jean-Francois Pradeau e Lucio Bertelli (che sarebbe ingenuo considerare definitive in ragione della forte carica ideologica che motiva questa tendenza, e anche perché formulate appunto in ambiente "continentale"). È il caso di considerare da vicino, in questa sede, soprattutto il saggio di Charles Griswold del 1995, che reca il titolo emblematico Le libéralismeplatonicien, perché esso presenta la posizione liberal-democratica con il più ricco e intelligente repertorio argomentativo, costituendo così in qualche modo un crocevia di tutte le tendenze anti-popperiane. Griswold parte da un riassunto delle critiche mosse alla "provocazione" platonica: si tratta di una teoria non egualitaria, gerarchica, dipendente da una metafisica che presuppone una inaccettabile riduzione di tutti i beni umani sotto un bene unico e univoco, e inoltre di un progetto irrealizzabile e comunque per principio incapace di conseguire i risultati desiderati; insomma di una «teoria politica non liberale, ingiu122

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D l l H N l J K R i ; l ' I . A I O N i ; D A l ' O P l M Ì R ( O U A SÈ S I K S S O ? )

Sta, impraticabile e sovradeterminata» (p. 162). La prima linea difensiva appare francamente retorica: come è possibile, si chiede Griswold, che un filosofo che «ha parlato dell'amore in modo così commovente» abbia potuto credere che un regime totalitario e «spiritualmente degradante» (ma quale?, ci si può chiedere) sia in grado di rendere giustizia alla natura umana? {ibid.). Ma la strategia di Griswold è in realtà più articolata, e si dispiega nei passi che possono così venire riassunti: 1. Socrate era fuor di dubbio un difensore della libertà politica, e la sua morale consisteva in una concezione della perfezione individuale come telos primordiale dell'essere umano. In questo, Griswold si richiama implicitamente a una lunga tradizione, da Mill allo stesso Popper, che aveva contrapposto il «democratico» Socrate, fautore del libero pensiero, all'autoritario Platone, ma in modo più esplicito agli studi sxAVApologia e sul Critone di Vlastos e Kraut, che avevano ritratto un Socrate "storico" come fautore, anche se critico, del regime democratico ateniese. 2. Ma, dopotutto, questo Socrate, individualista e democratico, non è che un personaggio di Platone, e la morale che gli viene attribuita si fonda sui principi della metafisica platonica; dunque, il Socrate democratico, liberale e individualista, non è altro che l'espressione del pensiero del suo autore, e non può in alcun modo venirgli contrapposto. A questo punto, Griswold riconosce che esistono nei testi politici di Platone, e soprattutto nel modello "olistico", illiberale e anti-egualitario almeno apparentemente proposto dalla Repubblica, elementi di contraddizione rispetto a questa immagine, che tuttavia egli non considera insuperabili (pp. 165,168 s.). A questo scopo, per il successo dell'operazione diventa necessario evacuare la Repubblica dall'immagine complessiva di Platone, o almeno depotenziarne la portata contraddittoria. 3. La prima mossa in questo senso consiste in una peculiare applicazione del "principio dialogico", che viene però riferita solo a questo e non ad altri più accettabili testi platonici: «Platone può fare affermare ai suoi personaggi ogni sorta di cose senza augurarsi tuttavia né di riprenderle a proprio conto né di persuadere il lettore ad accettarle tali e quali» (p. 170 s.). L'intento di de-platonizzare la Repubblica spinge Griswold a notare come Aristotele, che «sceglie accuratamente le parole» nella sua critica alla filosofia politica di Platone nel 11 libro della Politica, attribuisca le tesi della Repubblica a Socrate e non a Platone (p. 175, nota 48: occor123

«UN NARAI>U'.MA IN C.MU.O»

re notare che purtroppo r"accurato" Aristotele attribuisce a Socrate anche le tesi dell'Ateniese nelle Leggi). 4. Ma questo unidirezionale "approccio dialogico" non basta evidentemente all'intento di rendere irrilevante la Repubblica. Il punto centrale è che la sua kallipolis, gerarchica e olistica, non può esistere. A prima vista, nulla di nuovo rispetto alla critica aristotelica. Ma la novità consiste nel fatto che in Griswold, come in molti dei "difensori" di Platone da Popper, l'asserzione di questa impossibilità non viene pronunciata contro Platone, bensì attribuita a Platone stesso. La panoplia degli argomenti usati per dimostrare questa tesi è, come vedremo, molto vasta e sofisticata. Griswold si limita però a una constatazione generale, da un lato, e al riferimento a due passi specifici della Repubblica, dall'altro. La constatazione è questa: i filosofi-re della Repubblica sarebbero sophoi, possessori di una sapienza compiuta; ma sappiamo da altri testi, come il Fedro e il Simposio (cui Griswold accosta il Politico) che questi filosofi non possono esistere, essendo per definizione il filosofo platonico amante e cercatore di sapere, non suo depositario (p. 170). Si può osservare, a questo proposito, che sebbene tanto l'acquisizione di un sapere definitivo quanto la realizzazione compiuta della kallipolis siano per Platone probabilmente impossibili, l'una e l'altra possono tuttavia costituire la finalità di un percorso che vi si avvicini «per quanto è possibile». Se è così, la kallipolis resterebbe desiderabile, anche se non realizzabile, per Platone, e questo non lo scagionerebbe dalle accuse di simpatizzare per il suo cosiddetto "olismo" gerarchico. Del resto, lo stesso Simposio sostiene che il desiderio di immortalità per gli uomini d'ingegno si traduce nella produzione di opere durature; e «la forma di intelligenza di gran lunga piti importante e più bella è quella che verte sull'ordinamento della vita pubblica e privata, i cui nomi sono temperanza e giustizia». Ne sono testimoni gli autori di «buone leggi» per le città come Licurgo e Solone (loSe ss.): si può dunque essere buoni legislatori e governanti anche senza possedere la sapienza compiuta. Quanto ai due passi chiamati a testimoniare l'impossibilità (e anche l'indesiderabilità) della kallipolis secondo lo stesso Platone, il primo compare alla fine del libro VII (54oe s.), e prevede, come atto iniziale della rifondazione della città, l'espulsione «verso la campagna» {eis agrous) di tutti gli abitanti superiori ai dieci anni, ormai troppo compromessi con i costumi tradizionali. Poiché questo passo costituisce uno dei cavalli di battaglia di tutti gli interpreti che mirano a presentare la 124

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O I F K N D K R i ; l ' I . A I O N K D A l ' O I M ' K R ( O U A SÉ S l I i S S O f )

città della Repubblica come impossibile, e/o indesiderabile, agli occhi del suo autore, è il caso di discuterne brevemente. Credo che l'affermazione platonica non contenga nulla di così assurdo da costituire un deliberato segnale di indesiderabilità. La locuzione eis agrous può venire intesa come equivalente a eis georgous: questo significherebbe soltanto l'assegnazione preliminare di tutti gli adulti al terzo ceto (salvo, s'intende, i governanti e i loro ausiliari che presiedono alla riforma), dove appunto i contadini rappresentano la parte maggioritaria. Dopo questo iniziale azzeramento della condizione sociale potrebbero cominciare i processi di seiezione secondo le attitudini, di cui il libro iii parla ampiamente. Anche se tuttavia si volesse prendere il passo alla lettera, esso non conterrebbe nulla di sorprendente. L'espulsione di gran parte del demos dalla città e la ruralizzazione dell'Attica faceva parte del programma concepito dal radicalismo oligarchico di Crizia (cfr. Diels-Kranz 88AI); e nel 385 gli spartani operarono un'analoga ruralizzazione di Mantinea (cfr. Senofonte, Elleniche V 2.5-7). quanto ciò possa apparire sgradevole a moderni palati liberali, non c'è dunque nulla di particolarmente sconvolgente per il pensiero politico greco di orientamento radicale del i v secolo. Del resto, un'analoga esigenza di «purificare» (o «purgare») il corpo civico come premessa alla riforma della città è formulata sia in Repubblica VI 50ia sia, anche più drasticamente, in Politico Il secondo passo menzionato da Griswold è quello, celebre, della fine del libro i x della Repubblica (592a-b), dove la kallipolis è considerata come un «paradigma in cielo», offerto a chi intenda fondare una città giusta nella propria «interiorità» (p. 171). Si tratta dimostrabilmente di un'interpretazione e di una traduzione improprie dei testo, ma se ne discuterà nel prossimo capitolo perché il passo è cruciale soprattutto per gli interpreti che leggono la Repubblica come opera impolitica e destinata alia moralità individuale. Veniamo comunque alle importanti conclusioni che Griswold trae dalla sua analisi. Anche ammettendo, si chiede, che la kallipolis «non sia né egualitaria né liberale, Platone ha concepito la Repubblica come un programma destinato ad essere applicato in una società?». In vista della sua dichiarata impossibilità, la risposta è chiara: Platone voleva piuttosto mostrare che «anche uno stato di cose supposto ideale soffre di gravi imperfezioni» (p. 171). Una conclusione che si avvicina molto alle tesi straussiane, di cui si dirà nel paragrafo Platone ironico, e che però non vengono esplicitamente menzionate. 125

« U N l'ARADtCJMA I N

CIIU.O»

L'analisi del Politico consente a Griswold di rafforzare e sviluppare la sua linea interpretativa. In questo dialogo il regime migliore è considerato il potere assoluto di uno o pochi uomini in possesso di un sapere politico configurato come «scienza regia»; questo regime non avrà bisogno né di conformarsi a una legislazione rigida né di ottenere il consenso dei sudditi per il cui bene esso opera. Platone è perfettamente consapevole che il modus operandi di questa forma assoluta di potere sconfina nella tirannide, quando venga detenuto da uomini sprovvisti della «scienza regia» e delle intenzioni morali che vi sono implicite, e che perciò esso è considerato con sospetto e diffidenza dalla maggior parte degli uomini. Nell'assenza (probabile) di uomini dotati del supremo sapere politico, sono allora preferibili regimi retti da una legislazione costituzionale rigida: il migliore di essi è la monarchia, cui seguono oligarchia e democrazia (la democrazia è invece il migliore fra i regimi imperfetti privi di legge, perché la frammentazione paritaria del potere fra una pluralità di individui Io rende inefficace, quindi incapace di compiere grandi mali, come invece accade quando esso è concentrato nelle mani di un tiranno). Il Politico sembra così confermare la convinzione di Griswold: Platone esporrebbe l'utopia di perfezione, il miglior regime pensabile, per mostrare come anch'esso, oltre che irrealizzabile, non è esente da difetti e da rischi. Di qui in poi, il centro della filosofia politica di Platone si sposterebbe verso la ricerca del second-best, cioè il migliore dei regimi praticabili in vista della realizzazione della perfezione individuale, abbandonando le tentazioni olistiche e gerarchizzanti (pp. 172 ss.). La città di secondo rango costituisce dunque il tema tanto del Politico quanto delle Leggi, dialoghi in cui l'idea che la miglior forma di regime realizzabile è comunque imperfetta avrebbe come risultato di «addolcire il funzionamento sociale» (p. 174). Dal privilegio della «seconda città» Griswold passa decisamente a quello della democrazia. Nel Politico, il mito di Crono indicherebbe che nel mondo disordinato in cui viviamo una "democrazia costituzionale" costituirebbe «il regime appropriato alla nostra era» (p. 180). A dire il vero, come si è visto, piuttosto che un second-best essa sembrerebbe costituire un third-worsP, e, come ha notato Rowe, proprio il suo rispetto di una legislazione considerata inviolabile avrebbe potuto motivare, secondo Platone, la condanna a morte di un riformatore alla maniera di Socrate. 126

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Ma Griswold trova tracce di simpatie democratiche anche nella descrizione del regime democratico del libro v i i i della Repubblica, dove pure esso appare come il quarto fra i regimi «degenerati» e come l'immediata anticamera della tirannide. Questo regime di «libertà di parola» {parrhesia) avrebbe permesso la critica socratica (pp. 172, 190 ss.): a ciò si potrebbe obiettare l'ovvietà che fu proprio la democrazia ateniese, qui satireggiata da Platone, a condannare Socrate a morte per crimini ideologici. Ma soprattutto, nota Grisv^^old, in questo regime nessuno è costretto a governare, e perciò esso risulta propizio ai filosofi la cui riluttanza verso il coinvolgimento politico è sostenuta nel VII libro del dialogo. Su questo punto è il caso di soffermarsi brevemente, anche perché il rifiuto dei filosofi a governare costituisce uno dei punti salienti anche delle posizioni degli interpreti straussiani, fedeli al dogma del caposcuola circa l'incompatibilità fra politica e filosofia. È vero che Platone prevede questa resistenza. Ma è altresì vero che il legislatore Platone sancisce in modo categorico la necessità di impedire in futuro la separazione fra modo di vita politico e modo di vita filosofico (v 473d), e considera l'impegno politico dei filosofi come un obbligo di giustizia, cioè come un imprescindibile dovere morale (VII 52od s.). Sulla scorta del Fedro, Griswold ritiene invece che l'apertura alla comunità possa superare i limiti della ricerca della perfezione individuale in virtù dell'amore per gli altri che include il desiderio di promuovere anche la loro perfettibilità, al di fuori dunque dalla dimensione gerarchica del comando politico (pp. 184 ss.). Si osservava all'inizio che le tesi di Griswold si situano in qualche modo a un crocevia delle interpretazioni di Platone in senso liberal-democratico. A monte, esse presuppongono, almeno implicitamente, la difesa "ironica" di Platone operata da Strauss e dalla sua scuola. A valle, esse sarebbero state seguite da una serie importante di ricerche che ne hanno sviluppato le implicazioni. Fra queste, vanno menzionate in primo luogo le rivalutazioni dei «secondi regimi» platonici, una volta dichiarata irrealizzabile e/o indesiderabile l'improponibile Repubblica. Così si è considerata la relativa rivalutazione dei regimi «legali» nel Politico come un preludio alle Leggi. E c'è stato un deciso apprezzamento delle Leggi stesse - soprattutto ad opera di Bobonich - come progetto di una «costituzione mista» che contiene apprezzabili elementi di carattere liberale e persino democratico: il prevalere degli strumenti di persuasione (espressi ad esempio nei 127

« U N PARADIGMA IN CIKI.O»

preamboli alle leggi) rispetto a quelli di costrizione; il carattere elettivo di alcune magistrature (benché non delle principali); la sparizione di un ceto di governo provvisto di un sapere assoluto o di una «scienza regia»; infine, e forse soprattutto, il ripristino della proprietà privata e della famiglia. Tutto questo renderebbe il regime delle Leggi certamente più praticabile rispetto a quello della Repubblica (è senza dubbio questo il parere del vecchio Platone), e, almeno secondo gli interpreti, anche più desiderabile di esso, nonostante l'esplicita dichiarazione di Leggi v 739, in base all'assunto secondo il quale il «primo regime» viene menzionato solo per mostrarne l'inconsistenza. Una seconda tendenza mira, più coraggiosamente, a rivalutare gli elementi "democratici" presenti nella stessa Repubblica: ne sono prova, ad esempio, gli studi recenti di Sarah Monoson e Arlene Saxonhouse. Essi prendono in sostanza alla lettera gli apprezzamenti platonici dell'anarchia democratica nel libro v i i i , come la sua "mitezza", la sua tolleranza verso la libertà di parola e di critica, la possibilità di esercitare a proprio piacimento la filosofia, e soprattutto, naturalmente, l'eguaglianza concessa a tutti. Come hanno osservato molti critici, si tratta però di aspetti certo gradevoli per un palato democratico, ma che in Platone costituiscono piuttosto una sorta di parodia comica della democrazia ateniese, nel suo anarchico rovesciamento di ogni gerarchia di valore e di merito, nella sua indifferenza per i fondamenti etici ed educativi della comunità; una commedia, peraltro, che non può se non aprire la via alla tragedia della tirannide.

Platone utopista Hans Georg Gadamer ha dedicato a Platone una serie di scritti tanto vasta quanto simpatetica. La sua interpretazione si orienta su due linee principali: da un lato, la "risocratizzazione" di Platone, nel senso di valorizzare l'aspetto dialogico, intersoggettivo, problematico della sua ricerca filosofica; dall'altro, il tentativo di riconciliare Platone e Aristotele, mostrandone la continuità in ambito sia metafisico (teoria delle idee, idea del buono) sia etico. Affrontando tuttavia gli scritti politici di Platone (con l'intento usuale di difenderli dalla critica popperiana) nel saggio Pensare in utopie (1983), Gadamer non può nascondere che essi presentano una «sfida poderosa», «una grande provocazione lanciata alla coscienza mo128

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derna cristiana e liberale dell'umanesimo che venera in Platone uno dei suoi grandi eroi»; una sfida e una provocazione che producono una tensione intollerabile fra le idee politiche estreme che vi vengono asserite, e quella che Gadamer considera Vanima naturaliter Christiana di Platone (pp. 63 s.). Si può uscire da questa impasse, secondo Gadamer, solo usando gli strumenti dell'ermeneutica letteraria, che consigliano di «non prendere alla lettera» le tesi del Platone politico. I suoi grandi testi — Gadamer non differenzia qui Repubblica da Leggi - appartengono infatti a un preciso genere letterario, quello dell'utopia, già ben affermato in Grecia, come mostrano fra gli altri Aristofane ed Euripide (p. 70). Per riprendere una distinzione tracciata da Finley, su cui si tornerà nel CAP. 9, non si tratta di utopia di ricostruzione quanto di utopia di evasione, come lo sono i racconti dell'età dell'oro, del paese di cuccagna, delle isole felici. La presunta "teoria politica" di Platone è in realtà una costruzione satirico-utopica, che rappresenta una «città nelle nuvole» (p. 74); altrove, in Platone e ipoeti (1934) Gadamer aveva scritto: «Questo Stato è uno Stato nella mente e non sulla terra [...]. Esso non vuole essere il progetto di un migliore ordinamento della realtà della vita statale» (p. 195). Per riprendere i termini di un'antica polemica, Gadamer appare così più vicino alla «Chimera» di Brucker che all'ideale regolativo di Kant, per non parlare della «realtà sostanziale» di Hegel. Qual è dunque la funzione filosofica dei "miti" narrati da Socrate nella Repubblica e nelle Leggiì «Il pensare in utopie», scrive Gadamer, «non vuole offrire l'utopico come reale o realizzabile, ma trascinare nell'incondizionato il dialogo dell'anima pensante con sé, che non può essere mai portato a compimento» (p. 82). Si tratta insomma di «giochi razionali» in cui si sperimenta il «bel rischio del pensare» (pp. 90 s.), in una ricerca aperta che non porta ad alcuna soluzione. È facile vedere come la lettura utopica di Gadamer svuoti Repubblica e Leggi di qualsiasi contenuto politico positivo. L'errore di Popper è stato quello di vedere teorie e proposte (insomma di "prendere sul serio" Platone) laddove si tratta soltanto di «miti» e di «giochi». Se qualche contenuto emerge nell'analisi di Gadamer, si tratta della scoperta platonica della giustizia nel divenire della polis, una «finzione che consente di comprendere meglio Xanima naturaliter Christiana in quanto qui viene tematizzata l'interiorità dell'anima e la giustizia che la domina» (p. 83): uno snodo, questo, che come vedremo nel prossimo 129

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capitolo avrebbe dominato la linea interpretativa intesa a spolitici/.zare Platone. Non è qui il caso di discutere ulteriormente la questione dell'utopia, che verrà tematizzata nel CAP. 9. Basteranno due osservazioni. Da un lato, Gadamer è naturalmente incline a considerare inautentica o comunque irrilevante la Lettera VII. Dall'altro, egli è costretto a ignorare i numerosi passi in cui Platone nega al disegno della Repubblica il carattere di euché, "voto" o "pio desiderio", che renderebbe ridicolo (geloion) l'intero discorso (v 45od, v i 4 9 9 C , V I I 54od). Ma si tratta di un prezzo "ermeneutico" che a quanto pare occorre pagare per rispondere insieme a Popper e alla "provocazione" platonica.

Platone ironico Il problema centrale dell'assidua riflessione che Leo Strauss ha dedicato alla filosofia politica consiste nel rapporto fira teologia e politica, sui limiti di quest'ultima di fironte alla trascendenza della Legge rivelata e sulla necessità che essa sia orientata dall'wordine unitario e totale della vita umana» prescritto dalla Legge stessa. D a questo punto di vista, Strauss conduce una strenua polemica contro il pensiero politico della modernità, da Machiavelli e Hobbes fino a Hegel, visto come il fondamento degli opposti ateismi liberale e comunista, e anche del nichilismo decisionista alla maniera di Schmitt. Scrive Strauss in Liberalismo antico

e moderno: Cominciai allora a chiedermi se rautodistruzione della ragione non fosse il risultato inevitabile del razionalismo moderno, distinto cioè da quello premoderno, specie ebraico-medievale e dalle sue fondamenta classiche (aristoteliche e platoniche). Questo studio si basava su di una premessa, sanzionata da potenti pregiudizi, che un ritorno alla filosofia premoderna era impossibile. Il mutamento di direzione [...] mi costrinse a impegnarmi in molti studi nel corso dei quali prestai sempre maggiore attenzione al modo in cui i pensatori eterodossi del passato scrissero i loro libri (p. 321).

Strauss qui allude soprattutto alle sue importanti ricerche su Maimonide, e accenna al doppio valore di queste ricerche. Da un lato, la ricostruzione di una tradizione (classico-ebraica) da giocare contro le filosofie poUtiche della modernità; dall'altro, la messa a punto (inizialmente pro130

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prio sui testi di Maimonide) di un peculiare metodo ermeneutico in grado, all'occorrenza, di unificare e "normalizzare" questa tradizione, appianandone contraddizioni apparenti, smussando spigoli concettuali, mettendola al riparo da eventuali fruizioni liberali, comuniste o "nichiliste". Si tratta in sostanza di questo: i "pensatori eterodossi" (quali Maimonide e Platone, ma non Aristotele) hanno fatto ricorso alla scrittura della dissimulazione, in modo da veicolare (esotericamente) il senso del loro pensiero a quanti fossero in grado di intenderlo, evitando al tempo stesso il rischio di incorrere nella censura e nella persecuzione da parte dell'autorità politica che da quel pensiero poteva sentirsi minacciata. La dissimulazione prende sovente la forma (decisiva, come vedremo, nella lettura straussiana di Platone) òié^ironia. V a subito osservato, a questo proposito, che l'ermeneutica straussiana della dissimulazione e dell'ironia non solo si applica ad autori medievali, ma, almeno nel caso di Platone, ripete, forse inconsapevolmente, un tratto caratteristico del loro approccio esegetico. Come si è visto nel GAP. 2, già Proclo aveva notato una reticenza dialogica in certi passi di Platone. E, di fronte alle sue tesi più imbarazzanti, Bernardo di Chartres, Abelardo, Egidio Romano, avevano parlato

di una scrittura per involucrum, in tegumentum, di un metaphorice loqui Pier Candido Decembrio aveva chiaramente sostenuto che quelle tesi andavano intese come esposte ironice, sub enigmate. Platone poneva in effetti a Strauss un rilevante problema storiografico, che Myles Burnyeat ha efficacemente delineato. Egli intraprende il diffìcile compito di mostrare che la Repubblica significa il contrario di ciò che essa dice; che Aristotele la lesse come fa Strauss, e fu d'accordo; e infine che la concezione platonica delle "cose politiche" fu conservata, nell'essenziale, dall'intera tradizione della filosofia politica classica (non escludendo Aristofane e Senofonte) attraverso gli Stoici e oltre [...]. Ma se Platone fosse quell'utopista radicale che gli studiosi normali ritengono sia stato, allora non esisterebbe qualcosa come l'unanime conservatorismo dei "classici"; nessun disastro come la perdita della sapienza antica ad opera di Machiavelli e Hobbes; nessuna persona come "il filosofo" che insegni ax gentlemen di rispettare "i limiti della politica".

Strauss conduce dunque il suo confronto con Platone — con grande maestria esegetica - nei capitoli a lui dedicati in The City and 131

« U N P A K A D I C M A IN

c;iia,0»

Man, del 1964, e nella quasi contemporanea History of

Politicai

Philosophy. Le prime, caute, mosse di Strauss per produrre un distanziamento della superficie testuale dei dialoghi dalle vere intenzioni dell'autore consistono in regole metodiche di lettura a prima vista condivisibili, e anzi pionieristiche nel campo dell'interpretazione platonica. Strauss formula in primo luogo quello che sarebbe più tardi stato definito come r"approccio dialogico": a differenza di Aristotele, Platone, assente nei dialoghi, non ha mai proposto alcuna tesi in prima persona (cM, p. 50). Vi sono, è vero, personaggi dialogici che possono essere considerati come "portavoce" dell'autore. Il primo di essi è naturalmente Socrate. Ma Socrate è stato da sempre considerato un "maestro di ironia": ora, «l'ironia è una specie di dissimulazione, o di untruthfiilness» (p. 51): una nobile dissimulazione della propria superiore saggezza. Il Socrate protagonista dei dialoghi getta intanto su di essi il sospetto della dissimulazione ironica del loro autentico significato. Ma ci sono altri "portavoce" di Platone, come lo Straniero eleatico, Timeo, l'Ateniese delle Leggi. La pluralità di questi portavoce, insieme con la dissimulazione ironica, induce a ritenere che i dialoghi intendano significare cose diverse per persone diverse: la verità per gli interlocutori o lettori in grado di intenderla, «opinioni salutari», edificanti, per gli altri (pp. 52 ss.). Al principio dell'ironia si aggiunge dunque quello dell'esoterismo: un testo filosofico costruito mediante una stratificazione di significati, superficiali e profondi, è in grado di selezionare da solo i propri fruitori, ciò che secondo il Fedro il libro "manualistico" non può fare. La terza mossa di Strauss consiste nell'avvicinare il dialogo platonico - ma qui ormai si comincia a parlare specificamente della Repubblica - alla commedia aristofanea, in particolare alle Ecclesiazuse. L'accostamento è suggerito dal «ridicolo» costantemente evocato nel dialogo, ma soprattutto da una considerazione densa di conseguenze. Ogni singolo dialogo è inevitabilmente parziale, nel senso di affrontare il suo argomento facendo astrazione da altri aspetti teorici rilevanti per l'argomento stesso. Questa inevitabile astrazione rende però impossibile la soluzione del problema posto nel dialogo; ora, sostiene Strauss, «l'impossibile [...] se trattato come possibile è nel senso più forte ridicolo o comico» (p. 62), nel senso appunto della commedia di Aristofane. Il problema diventa ora quello di identificare ciò da cui la soluzione politica del problema della giustizia fa astrazione, e che dunque la rende 132

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IM.A I O N H D A l ' O l ' I M U l ( «

D A Sl^: S T K S S O ? )

impossibile. Richiamiamo in primo luogo i caratteri fondamentali di questa soluzione secondo Strauss: si tratta di un regime di «comunismo assoluto», governato da filosofi che garantiscono che ogni energia psichica sia devoluta all'interesse della comunità, e assicurano con la persuasione e la coercizione questa dedizione anche da parte dei ceti subalterni. Qualcosa dunque, scrive Strauss riprendendo Marx ma senza citarlo, che somiglia alla «società castale egiziana» (p. 113). È vero che in linea di principio l'appartenenza ai diversi ceti non è ereditaria, ma essa tende comunque a diventarlo (per esempio, l'assimilazione ai ceti superiori dei figli della terza classe che ne siano meritevoli si rivela impossibile, perché essi hanno conosciuto i loro genitori). Questo progetto, secondo Strauss, fa in primo luogo astrazione dal corpo. La dedizione totale alla comunità può riguardare solo la mente-, la corporeità, con i suoi desideri, e in primo luogo con Veros che essa origina, è irriducibilmente privata, quindi preme in direzione opposta a quella comunitaria. La stessa uguaglianza di fianzioni politiche fra uomini e donne, essenziale nel disegno platonico, ignora la differenza corporea, e, facendo della riproduzione un compito esclusivamente politico, «mette a tacere le istanze dell'é-roj'». Perciò la comunità platonica è innaturale (pp. 109-17). Da questo deriva immediatamente Ximpossibilità della città platonica. Scrive Strauss ripetendo per questo aspetto la critica di Aristotele: «L'eguaglianza dei sessi e il comunismo assoluto sono contro natura» (p. 127); dunque, la «città giusta» (in cui Strauss riconosce la più profonda espressione àéXidealismo politico), è costitutivamente impossibile (va notato fin d'ora che Strauss non attribuisce mai esplicitamente a Platone la consapevolezza di questa impossibilità, ma le sue conclusioni, come vedremo, non lasciano dubbi in proposito). Una seconda ragione di impossibilità consiste in una contraddizione radicale: i filosofi sono necessari alla realizzazione del progetto platonico (solo essi sono in grado di orientare senza residui verso la comunità eros e desiderio); ma, come mostra il libro VII, i filosofi non intendono governare, perché sono dediti alla più alta attività concessa all'uomo, e disprezzano le vicende umane che si svolgono nel mondo della «caverna». I filosofi possono venire costretti a governare solo dalla coercizione della città, ma qui si apre un circolo vizioso: i filosofi dovrebbero convincere la città a costringerli a governare contro la loro volontà. La divaricazione tra filosofia e città conferma dunque la strutturale impossibilità della kallipolis platonica (pp. 124 s.). Essa risulta inoltre indesiderabile 133

« U N L'ARADIR.MA IN C H ' I O »

sia per i più, che ad essa dovrebbero sacrificare corporeità ed eros, sia per gli stessi filosofi, che vi si vedrebbero obbhgati a rinunciare alla loro dedizione teorica. Strauss è pronto a questo punto a trarre le sue conclusioni sia dalle premesse metodiche sulla natura ironico-dissimulativa del dialogo, sia dall'analisi delle contraddizioni strutturali che esso presenta: «Socrate chiarisce nella Repubblica quale carattere la città dovrebbe avere per soddisfare i più alti bisogni dell'uomo. Facendoci vedere [corsivo mio] che la città costruita in accordo con questa esigenza non è possibile, ci permette di vedere i limiti essenziali, la natura, della città» (p. 138). Platone è dunque consapevole di questa impossibilità; il senso del dialogo è di confutare gli aspetti "prometeici" dell'ingegneria politica (per dirla con Popper), di chiarire, mediante un esperimento intellettuale che porta al limite le sue ambizioni, come la politica non possa contendere Io spazio che spetta alla filosofia, e al di là di essa alla teologia. Nella History of Politicai Philosophy Strauss chiarisce ulteriormente questa conclusione: «La Repubblica mostra tacitamente come la città effettiva - cioè la città non comunista, che è costituita dall'associazione dei padri piuttosto che da quella degli artigiani - sia l'unica città possibile» (p. 161). II capitolo platonico della History presenta inoltre cenni al Politico e alle Leggi che confermano il quadro interpretativo straussiano. Il primo dialogo, portando ai limiti estremi la figura di un potere assoluto basato sulla scienza, e mostrandone così l'impossibilità, «mostra esplicitamente la necessità di un governo fondato sulle leggi» (p. 161). Il limite invalicabile delle possibilità della politica porta così Platone, nelle Leggi, a delineare il migliore ordinamento politico compatibile con la natura dell'uomo, e perciò possibile e desiderabile. Dunque, conclude Strauss, «le Leggi sono l'unica opera propriamente politica di Platone» {ibid.): una tesi che, come vedremo nel prossimo capitolo, sarebbe stata condivisa anche dagli interpreti "impolitici" di Platone alla maniera di Julia Annas. Platone, commenta Strauss, non è un pensatore liberal-democratico, né fascista né comunista nell'accezione marxista {HPP, p. 108). Ma certo, l'impossibilità di trasformare la «città esistente» come «associazione dei padri», l'indesiderabilità della prospettiva comunitaria, l'insensatezza della convinzione propria dell'idealismo politico che i mali dell'umanità possano venire curati con gli strumenti della politica, fanno del 134

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D l l ' l ' N U K U K l ' I . A l O N I ' . DA l'C)l>l>KR (C) D A

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Platone straussiano un filosofo più vicino al liberalismo conservatore che a qualsiasi altra opzione politica. L'analisi platonica di Strauss, va detto, procede sempre con cautela e sobrietà, anche laddove sembra ricorrere a presupposti infondati e a una lettura molto selettiva dei testi. Tuttavia, l'immensa influenza esercitata da Strauss su una larga parte della cultura americana ha fatto sì che essa si depositasse in una serie di dogmi, che avrebbero dominato la tradizione straussiana. Ecco i punti forti di questa dogmatica: i. il carattere ironico-comico, dissimulatorio, quindi l'intenzione autoconfutatoria della Repubblica, il cui senso profondo risulta opposto alle tesi esplicitamente argomentate; 2. l'impossibilità e l'indesiderabilità della kallipolis, a causa a) del suo essere contronatura perché nega le istanze della corporeità e in primo luogo dell'eroe; b) dell'irriducibile opposizione tra filosofia e politica, la cui conciliazione è invece il presupposto necessario del progetto platonico," 3. i limiti invalicabili della politica, e la sua costitutiva inferiorità rispetto alla filosofia. I tre dogmi naturalmente si intrecciano e ricorrono nei diversi autori della tradizione esegetica straussiana. Se ne isoleranno qui, a modo di esempi per la discussione, alcuni dei rappresentanti più significativi.

Ironia Brumbaugh (1989) ritiene che l'intera utopia della Repubblica sia di natura ironica, e che non ci sia alcuna giustificazione per prenderla alla lettera come la dottrina politica di Platone. Si tratterebbe semmai di una concezione socratica, non condivisibile da Platone perché ignora le parti irrazionali dell'anima (pp. 25, 36). Il traduttore e interprete iper-straussiano della Repubblica Allan Bloom (1991^) vede nell'intera opera una sfida comica ad Aristofane, una serie di absurd considerations esposte con aria seriosa (pp. 381, 392). Più articolata la riflessione di Hyland (1988), che appare il miglior contributo di questa tradizione esegetica. L'ironia rappresenta il lato negativo della natura umana, cioè quella saggezza socratica che consiste nella consapevolezza della propria impossibilità (p. 335): del resto, già Strauss aveva considerato la teoria delle idee come utterly incredible, fantastic (CM, p. 119). Così risulta "ironica" la critica alla poesia, perché anche i dialoghi platonici sono "arte", in quanto imitazione di un impossibile sapere assoluto ed omogeneo. E ironico - quindi impossibile e anche indesiderabile - è il progetto della Repubblica, 135

« U N P A R A D I G M A I N CIP.I.O»

perche esso si fonda sulla necessità della «nobile menzogna» a scopo di condizionamento retorico dei cittadini (pp. 327-35). Sul dogma dell'ironia occorre qui proporre qualche considerazione critica. L'ermeneutica ironica (dove "ironia" viene intesa, aristotelicamente, come dissimulazione intesa a significare il contrario di quel che si dice) si fonda in sostanza su due presupposti. II primo sta nel ricorso di Platone al "portavoce" Socrate, universalmente considerato "maestro di ironia". Questo presupposto è evidentemente tanto poco fondato (perché Socrate è un personaggio platonico, e dunque la sua natura ironica sarebbe un effetto, non una causa, di una decisione autoriale che rimarrebbe comunque da spiegare), quanto eccessivo, perché comporterebbe di discreditare come ironica la maggior parte dei dialoghi platonici e oltre essi dell'intera tradizione socratica. II secondo presupposto consiste in una sorta di circolo vizioso. Si selezionano affermazioni platoniche (come il bando dalla nuova città di tutti gli abitanti superiori ai dieci anni di età) che a noi possono sembrare tanto assurde da non poter neppure essere seriamente attribuite a Platone, per concluderne che si tratta di segnali della sua intenzione ironica, cioè autoconfutatoria. Tutto ciò confermerebbe il carattere di dissimulazione del testo della Repubblica, il cui senso nascosto sarebbe l'opposto di quello esplicito. Quest'ultima tesi è davvero facilmente confutabile. Perché mai Platone avrebbe esposto apertis verbis tutta una serie di tesi scandalose per l'opinione pubblica (comunanza di donne e figli, abolizione della proprietà privata e della famiglia, nudità e promiscuità delle donne nelle palestre, governo dei filosofi), e destinate ad irritare l'autorità politica (basta pensare alla violenta critica del regime democratico al potere svolta nel libro vili), per trasmettere invece esotericamente un messaggio tranquillizzante e conformista, come il programma di una democrazia moderata alla maniera di Aristotele.^ Questo serve certamente ad assolvere Platone dalla critica di Popper, ma appare davvero insostenibile. Un'eccellente critica, di questo stesso tenore, alla pretesa dissimulazione platonica compare del resto nell'importante libro del 2005 di uno straussiano revisionista come Stanley Rosen, non a caso dedicato to the genuine Leo Strauss (pp. 5, 10, 390), sul quale comunque dovremo tornare. La questione dell'ermeneutica ironica è certamente di difficile soluzione. Come ha scritto recentemente Donald Morrison, «non c'è algoritmo, né dose di bruta forza filologica, che possano dimostrare la presenza dell'ironia a chi non la vede, o il contrario». Per esempio, continua Morrison, Rowe (come tanti altri) vede ironia nel famigerato passo 136

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D l l l ì N D l - H l i l ' I . A T O N K DA I>{)1>1>);R ( O DA Sfi S ì K S S t ) ? )

sull'espulsione degli adulti nella città, mentre «io non vedo ironia in quel suggerimento, e non penso che l'abbia vista Platone» (p. 241). Occorre lasciare la cosa all'orecchio più o meno fine del lettore, come sembra intendere Morrison? Non credo. Fra la sommersione totale dei testi nella dimensione ironica, e la loro lettura strettamente letterale (altrettanto inaccettabile, perché c'è fuori di ogni dubbio ironia in Platone e nel "suo" Socrate), c'è una possibilità intermedia, segnalata probabilmente da una serie di spie testuali che occorre vagliare con attenzione analitica. Mi limiterò qui a due esempi fra i molti possibili. Introducendo nel libro v i l i delia Repubblica il "discorso delle Muse", inteso a formulare quel misterioso numero nuziale il cui errato calcolo determina la degenerazione della kallipolis primigenia, Socrate dice: «Facciamo parlare le Muse in sublime stile tragico {tragikòs), come se dicessero sul serio, mentre in realtà giocano e scherzano con noi come se fossimo bambini» (545e: si noti che l'avverbio tragikòs compare in uno scambio di battute decisamente comico in iii 4i3b). Nel Politico, dopo la narrazione mitica del "regno di Crono" (età dell'oro o paese di cuccagna che sia), ci si chiede se gli uomini di allora fossero più felici di quelli di oggi. Se usavano il tempo libero in funzione della filosofia, risponde lo Straniero, certamente sì. «Se d'altra parte, aggiunge, riempitisi di cibo e di bevande fino a sazietà, narravano tra di loro e agli animali i miti che anche adesso si raccontano su di loro», allora il giudizio negativo è fin troppo chiaro (ayzb-c). Si tratta di due esempi inequivocabili di ironia, e di ironia autoconfutatoria, nel senso di invitare a non prendere sul serio ciò che si sta per dire o è appena stato detto. Non è qui il caso di delineare una tipologia delle situazioni ironiche frequenti nei dialoghi. Basterà concludere che un prudente criterio metodico per la loro individuazione richiede di individuare in ogni caso i segnali testuali che consentono di identificarle come tali, e di evitare di scambiare per ironiche quelle tesi che al lettore possono apparire sorprendenti o inaccettabili.

Eros Il tema della censura platonica della corporeità e soprattutto dell'eros, come ragion sufficiente per far considerare impossibile (a noi e allo stesso Platone) la realizzazione del disegno utopico, circola ampiamente fra 137

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PARAt)t(:MA

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gli interpreti di orientamento straussiano, ma in particolare è posto al centro del libro di David Roochnik del 2003. La filosofia, e un dialogo filosofico come la Repubblica, argomenta Roochnik, richiedono un investimento erotico, ma la kallipolis delineata nel libro v lo sopprime; quindi se c'è kallipolis non ci può essere Re-

pubblica, ma se non c'è Repubblica non c'è neppure kallipolis (p. 69). Kallipolis, «con il suo rigido sistema di classi e la feroce restrizione di discorso, azione ed eros è infamously antidemocratio>. Ma si tratta solo di un momento dialettico all'interno del dialogo. Quello che serve - agli occhi di Platone - è un regime che permetta «la fioritura di eros. Questo regime è la democrazia». Perciò «la Repubblica di Platone, lungi dall'essere quella condanna della democrazia che normalmente la si considera, è di fatto un sostegno condizionato (o dialettico) per la democrazia stessa» (p. 77). Dunque, s'intende, Popper aveva torto. Se davvero il progetto della kallipolis contenesse la totale censura dell'eros, che Platone sa bene connaturato alla natura umana oltre che a quella filosofica, tanto da scrivere che le «necessità erotiche» sono più acute di quelle «geometriche» (v 458d), si potrebbe davvero ritenere che quel progetto ne venga qualificato come indesiderabile (soprattutto agli occhi deir"erotico" Glaucone) oltre che impossibile (anche se l'inferenza alla democrazia resterebbe in ogni caso improbabile). Ma è davvero così.^ Come aveva già notato Grote, ciò che viene messo sotto controllo pubblico nella Repubblica è soltanto la sessualità riproduttiva, perché per Platone (e per le città greche in generale) la generazione di prole, la teknopoiia, costituisce un servizio reso alla comunità. Sembra banale ricordare un fatto che Strauss e i suoi continuatori dimenticano del tutto: per Platone, e per la cultura cui appartiene, la sessualità riproduttiva non è né l'unica né la principale espressione erotica. E nella kallipolis non è prevista alcuna regolamentazione per l'eros omosessuale, salvo i limiti del buon gusto sociale indicati nel libro iii (403a-c). C'è di più: ogni tipo di rapporto sessuale fuori dall'età riproduttiva è esplicitamente autorizzato; nel caso poi di rapporti che diano luogo alla generazione di figli, la sanzione pubblica è relativa a questi ultimi, che non verranno accolti come membri legittimi della comunità, e non coinvolge i loro genitori (v 46ia-c). Si prevede inoltre, con l'entusiastico consenso di Glaucone, che sia concesso a chi si distingue per valore sul campo di battaglia di «fare all'amore con ciascuno», maschio o femmina, egli desideri (v 468b-c). Ben lungi dal costituire una struttura repressiva dell'e138

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DIMiNDKRK

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D A l ' O I ' l ' K R ( O D A Sl^; S l I i S S O ? )

ros, la kallipolis sembra dunque legittimare una promiscuità sessuale che va ben oltre i limiti della tradizione - consentita com'è dall'abolizione del vincolo matrimoniale —, una promiscuità che come si è visto scandalizzava a buon diritto i suoi primi lettori di epoca umanistica.

Filosofia e politica Nel libro VII della Repubblica, Platone prevede la riluttanza dei filosofi ad accettare responsabilità di governo nella nuova città, per non abbandonare la speculazione teorica loro cara, una riluttanza che impone alla polis in cui hanno compiuto la loro formazione di ricorrere a misure di persuasione e forse anche di coercizione per esigere che essi onorino il debito contratto nei suoi riguardi. Questa costrizione esercitata dalla città sui filosofi ha destato grande impressione, e un notevole disagio esegetico, presso gli interpreti, anche non legati alla lezione straussiana. Si può fin d'ora formulare un'osservazione che potrebbe ridimensionare il problema. Il linguaggio della costrizione viene effettivamente formulato a proposito dell'obbligo dei filosofi a ridiscendere nella «caverna» della politica {anankasteoi, 539e); ma, in un passo immediatamente successivo di solito trascurato dagli interpreti, lo stesso linguaggio {anankasteon, 54oa) ritorna a proposito dell'obbligo dei filosofi, compiuti i cinquant'anni, a lasciare il governo per dedicarsi prevalentemente allo studio delle idee e del buono. Tutto questo sembrerebbe riferirsi alla tendenza inerziale delle forme di vita politica e filosofica a separarsi l'una dall'altra e ad affermare la propria autonomia: non solo, dunque, i filosofi non vogliono abbandonare i propri studi per dedicarsi alla politica, ma, una volta assunti compiti di governo, devono venir costretti ad abbandonarli per tornare a quegli studi. Si tratta di una tendenza che il legislatore della kallipolis esclude solennemente nel libro v per garantire insieme la salvezza della città e quella della filosofia: «quei molti, la cui natura ora tende a uno di questi poli [politica e filosofia] con esclusione dell'altro, vengano obbligatoriamente {ex anankes] impediti» dal perseguire questa separazione (473d). Ma per gli interpreti straussiani è in gioco ben altro. Si tratta dei dogmi dell'incompatibilità tra filosofia e politica; della superiorità ("teologica") della filosofia sulla politica; della pericolosità di ogni pretesa filosofica di condurre la politica a superare i limiti che le sono imposti dalla sua natura "mondana". Dunque la kallipolis è impossibile 139

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(perché nessuno può costringere i filosofi che precedono la sua fondazione, e che ne sono la condizione necessaria, a lasciarsi coinvolgere dalla politica), e soprattutto indesiderabile, per gli effetti mostruosi che questo innaturale connubio è destinato a produrre. Scriveva Rosen nel 1990: «Il problema [...] del fatto se lo stato descritto nella Repubblica sia possibile, o sia da Socrate considerato possibile, è perciò di secondario interesse. Il punto decisivo è che esso è indesiderabile, e in particolare che è indesiderabile per il filosofo» (p. 19). Secondo Giovanni Ferrari (2003) la politica è inferiore all'individuo perché questi, al contrario della città, è capace di filosofia, e «la filosofia, non il regno, è il più alto achievement umano» (pp. 90,103). La Repubblica proporrebbe dunque, in ultima istanza, la rivendicazione della superiorità della vita filosofica su quella politica, della dimensione "divina", propria della prima, su quella "umana" che costituisce il limite della seconda. A questo proposito, Ferrari è indotto a compiere una singolare forzatura testuale, che merita di essere segnalata perché a mio avviso indicativa di un pregiudizio esegetico tipicamente straussiano. Nel celebre passo del libro v i sul «muretto» Socrate sostiene che chi riesce a terminare la propria vita mantenendosi «puro», al riparo dalla contaminazione della politica come appunto dietro un muretto durante una tempesta, avrà ottenuto un risultato «non da poco»; non però, aggiunge, «il massimo» {ta megista), che avrebbe potuto conseguire in un ambiente politico propizio come la kallipolis (496d-497a). Ferrari ipotizza che megiston non significhi "il migliore" {kalliston)-. un buon sistema politico rimane "il piti grande risultato umano", ma "il più bello" spetta solo all'opera divina, e alla filosofia che la contempla (perciò Platone ha preferito scrivere la Repubblica invece di cercare l'opportunità di conseguire la grandezza politica) (pp. 107-8). Ma la posizione più articolata e anche più convincente a proposito di questo ordine di problemi pare quella sostenuta recentemente da Rosen nel suo libro del 2005. Criticando Strauss, e le proprie posizioni precedenti, Rosen riconosce che sarebbe assurdo attribuire a Platone la convinzione dell'indesiderabilità e dell'impossibilità delle finalità perseguite con il progetto della Repubblica. Il messaggio del dialogo sarebbe in realtà più complesso. C'è nella filosofìa, e nello stesso Platone, una «tentazione al potere» (p. 6), scrive Rosen richiamandosi esplicitamente a Nietzsche; lo testimonia la Lettera VII, che Rosen - distinguendosi dalla maggior parte degli studiosi anglosassoni negli ultimi decenni riconosce come autentica. Ma Platone sarebbe consapevole che il go140

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O I F K N D K R K I M . A I O N K D A l ' O I M ' K R (C) D A SÉ S T K S S O ? )

verno del sapere è destinato a portare alla trasformazione della filosofìa in ideologia, e del suo potere in tirannide. In questo modo, da un lato Socrate «fonda la tradizione radicale dell'Occidente secondo cui la giustizia dev'essere perseguita mediante una costruzione dottrinale» (p. 9), i cui esiti estremi si sarebbero manifestati nel x x secolo. Dall'altro, Platone (e in questo secondo strato di significato torna ad aver ragione Strauss) «ci mostra drammaticamente come la filosofia, nel tentativo di acquisire il potere politico, è trasformata in tirannide»; ne viene che i filosofi stessi «sono destinati a soccombere appena si dedicano all'impresa di deviare dalla tradizione e di ricostruire i fondamenti di una città giusta, sia nel discorso sia anche nell'azione» (p. 10). La terapia filosofica è destinata ad uccidere il paziente, cioè la natura umana; l'wuomo nuovo» che essa si propone di creare rischia di risultare un mostro. Dunque il desiderio filosofico di potere è inevitabilmente esposto a un paradosso: acquisendo il potere esso perde la sua giustificazione a esercitarlo. Rosen non esita a forzare il testo per dipingere a fosche tinte questo paradosso. Riferendosi al passo del libro VII sull'espulsione degli adulti verso la campagna {eis agrous), lo interpreta nel senso che essi debbano venire uccisi: «un atto fondatore che ci richiede di uccidere chiunque superi l'età di dieci anni può difficilmente costituire la base della giustizia [...]. Per istituire una città giusta, è richiesto l'estremo atto di ingiustizia» (p. 244). Il senso del messaggio platonico consiste dunque neir«esprimere simultaneamente il bisogno di filosofia della politica, e il pericolo dell'una per l'altra». Con accenti che stranamente ricordano quelli di Hildebrandt, aggiunge Rosen: «La pubblicazione della Repubblica è una sorta di realizzazione surrogata delle ambizioni politiche di Platone e anche una drammatica illustrazione del fallimento dei suoi viaggi in Sicilia». Nonostante l'acuta consapevolezza platonica dei rischi della politica per la filosofia, e della filosofia per la politica, di cui il dialogo è testimonianza, l'esito storico della Repubblica sarebbe stato ben diverso: essa avrebbe costituito la causa più. influente del deterioramento in ideologia della filosofia, producendone una estrema politicizzazione (p. 229). L'analisi di Rosen (che risente certamente della discussione sulla tirannide fra Strauss e Kojève a proposito dello lerone di Senofonte) è importante e degna di riflessione. Il suo limite consiste forse nell'usate, come già Strauss, concetti come "filosofia", "politica", "tirannide" in un senso fortemente astratto, quasi si trattasse di entità storicamente e socialmente invarianti. 141

« U N l'ARAOICJMA I N c:iKI,()))

Da un punto di vista storico, ad esempio, è lecito chiedersi se davvero Platone considerasse una «mostruosità» la prospettiva di una tirannide filosofica, cioè esercitata o consigliata dal filosofo. Dopo tutto, le tirannidi del IV secolo rappresentavano un modello politico di successo e aflfascinante per Vintelligencjia greca, dopo il parallelo logoramento dei tradizionali regimi oligarchico e democratico. Basta a questo proposito ricordare il passo molto esplicito del libro i v delle Leggi. «Datemi, chiede il futuro legislatore-filosofo, una città retta da un tiranno [...] se la città deve dotarsi nel modo più rapido e migliore possibile di una costituzione che, una volta realizzata, le permetterà di godere della massima felicità. N o n c'è né ci sarà modo più rapido ed efficace di questo per stabilire una costituzione» (709e-7iob) (un passo, beninteso, che tanto gli interpreti straussiani quanto quelli "liberali" considerano ironico). Che ci sia in Platone una tensione tra filosofia e politica è comunque difficile da negare. D a un lato sta l'incolmabile distanza fra filosofo e città drammatizzata nel Gorgia e nel Teeteto-, dall'altro, il rapporto stretto, se pure conflittuale, della Repubblica, del Politico e della Lettera VII. Questa tensione riflette probabilmente la collocazione storica di Platone, un intellettuale aristocratico che si situa sul crinale fra la tradizione pitagorica e soloniana - da cui deriva la vocazione regale della filosofia - e, d'altra parte, la figura del filosofo di professione alla maniera di Aristotele (che avrebbe tematizzato questa tensione in testi come Politica VII ed Etica nicomachea x). Ma, preso isolatamente, il messaggio della Repubblica sembra in sé stesso inequivocabile: quali che siano i rischi di questo legame, la città è necessaria per la salvezza della filosofia, e la filosofia è necessaria per la salvezza della città.

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Platone senza politica

Platone impolitico La strategia consistente nel negare a Platone qualsiasi interesse e coinvolgimento, teorico o pratico, nella dimensione politica, è certamente la più rischiosa, perché costringe gli interpreti a confrontarsi con una imponente evidenza testuale, e con il consenso pressoché unanime di una plurisecolare tradizione esegetica che va da Aristotele allo stesso Strauss (con la parziale eccezione di Proclo). Questa mossa estrema, se coronata da successo, presenta tuttavia per i suoi sostenitori un doppio vantaggio: di confutare definitivamente Popper, mostrando che la sua requisitoria si rivolgeva contro un inesistente Platone politico; e di liberare lo stesso Platone dall'imbarazzante retaggio di un radicalismo politico che lo rende estraneo al rassicurante alveo del pensiero liberal-democratico. Questi vantaggi spiegano, credo, la recente diffusione della linea interpretativa de-politicizzante, nonostante le sue intrinseche difficoltà. A monte, oltre allo Jaeger "americano", che negava qualsiasi destinazione politica all'Accademia, va tuttavia menzionato un suo precursore anomalo: si tratta del grande filosofo della politica Erich Vogelin. Al pari di Strauss (da cui lo differenzia però il cattolicesimo), Vogelin è un critico della modernità, e un sostenitore della necessaria subordinazione della politica a un ordine superiore, teologicamente fondato; la tradizione classica, e in primo luogo Platone, vengono rivisitati in questa prospettiva. Nel capitolo platonico del suo monumentale Ordine e storia, Vogelin non nega affatto la centralità della politica nel pensiero e nell'opera del filosofo, descritti anzi con toni che richiamano a volte quelli di Hildebrandt, e segue da vicino il movimento dialogico della Repubblica. Nella conclusione del dialogo, egli rileva però un rovesciamento radicale di prospettiva. Il fallimento pratico dell'impegno politico di Platone, che nel libro v i viene generalizzato teoricamente con la tesi dell'impos145

«tIN PARADtCMA IN CIIUO»

sibililù clcll'azione politica del filosofo nella città ostile, trasforma il senso della (.(.politeia interiore», la buona costituzione dell'anima, che da semplice metafora delia polis diventa la descrizione di una realtà esistenziale. Commentando il passo del libro ix (592a-b) del quale si è fatto cenno e su cui tornerò alla fine del paragrafo, Vògelin scrive che «l'indagine sul paradigma di una nuova polis assume l'aspetto di un'indagine sull'esistenza dell'uomo in una comunità che trascende non solo la polis ma qualsiasi ordine politico storico. Il salto entro l'essere - verso la forma trascendente dell'ordine — c'è davvero in Platone: e correttamente età successive riconobbero in questo passo una prefigurazione della concezione agostiniana della Civitas dei» (p. 150). Si tratta di uno «spostamento definitivo verso l'anima e il suo ordine trascendente [...] unapoliteia transpolitica che si trova in cielo e che verrà realizzata nell'anima di chi la osserva» (p. 151). Vògelin configurava così la transizione della Repubblica dalla dimensione pohtica a quella morale e religiosa. Diversamente da lui, i sostenitori recenti della de-politicizzazione di Platone (che infatti non lo menzionano), ritengono che il passaggio dalla politica alla morale (con o senza uscita trascendente) non sia l'esito di un movimento dialettico della Repubblica, ma che ne costituisca la struttura complessiva: l'intero discorso politico va dunque concepito come una metafora dell'ordine morale dell'anima. Su questa via si è mossa con decisione Julia Annas, in due saggi del 1997 e del 1999. La sua argomentazione tende, in primo luogo, a indebolire il carattere politico della Repubblica, fino a metterlo radicalmente in dubbio. Interessante, ad esempio, il rifiuto di qualsiasi pertinenza pohtica alle analisi di democrazia e oligarchia nel libro viii: solo il Politico e le Leggi, che caratterizzano i due regimi come governo dei molti e dei pochi, avrebbero una qualche attinenza politica. Ma è evidentemente soltanto un pregiudizio dell'interprete che fii considerare come «impolitica» la rispettiva definizione come governo dei poveri e dei ricchi (peraltro puntualmente ripresa da Aristotele). Quanto alle «ondate» del libro v (abolizione della famiglia e della proprietà privata per il ceto di governo, condotta della guerra, potere filosofico) scrive Annas nel saggio del 1997: «Questa parte più scopertamente politica della Repubblica sembra trascurare le realtà politiche così deliberatamente che c'è sempre stato un dubbio sulla serietà degli intenti di Platone, e più in generale sui ruolo degli argomenti politici della Repubblica in rapporto all'argomento morale principale» (p. 144); e an146

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Cora: «le proposte politiche sono, se prese alla lettera, assurde; esse sembrano sia arbitrarie sia deliberatamente non realistiche» (p. 145), inoltre «brevi, insufficientemente sviluppate, marginali» (1999, p. 82). Per concludere: le idee politiche del dialogo sono presentate in such sketchy, incomplete and extreme ways da farle considerare estranee alla «seria tradizione» della filosofia politica alla maniera di Locke e di Hobbes (1997, pp. 152-3). Del resto, nulla nella biografia di Platone che ci è nota (considerando inautentica o documentariamente irrilevante la Lettera VII) ci può far pensare a un suo interesse per la politica, né questo interesse può venire attribuito all'Accademia, sostiene Annas limitandosi a menzionare la tesi di Brunt senza peraltro discutere le fonti (1997, pp. 155 ss.). Che cos'è allora la Repubblica, se il suo tema non è la polis ideale? La sua ripresa nel Timeo permette, secondo Annas, alla luce del mito di Atlantide, di formulare una prima risposta: quel mito «suggerisce con forza che nella Repubblica Platone pensi a proposito di questi dettagli [tali sarebbero l'abolizione della famiglia e della proprietà privata, o la parità fra i sessi] nello stesso modo, cioè come costruzioni immaginarie piuttosto che come seri argomenti per la discussione politica, per non parlare di proposte pratiche» (1999, p. 91)Più da vicino, Annas si riferisce al passo del libro 11 dove la ricerca della giustizia nell'individuo viene spostata all'ambito della polis, concepito come un testo uguale, ma scritto in caratteri più grandi, e quindi di più agevole lettura: il passaggio alla politica rappresenta quindi solo un percorso utile per rispondere al quesito iniziale. La via per una corretta lettura della Repubblica ci viene allora indicata dai commentatori medioplatonici come Alcinoo, che vi leggevano un testo di etica mirante a sostenere, alla maniera socratico-stoica, l'autosufficienza della virtù in vista della felicità (1997, pp. 146 ss.; 1999, pp. 84 ss.). Se questa è in effetti la tesi morale della Repubblica, come Annas cerca di dimostrare, allora la questione della desiderabilità c po-ssibiliià dello stato ideale diventa del tutto irrilevante, perché esso non è iiccc.ssario alla compiutezza della virtù e alla felicità che ne con.seguc (1999, pp. 88 s.). La delineazione della kallipolis ha perciò la sola «fun/ionc ili permettere all'individuo di formarsi un'idea di virtù che può interiorizzare e seguire nella vita» (1997, p. 145), scrive Annas con l'inevitabile riferimento al passo di ix 592a-b. La discussione sullo stato ideale non ha rilevanza politica: essa è introdotta per «illuminare l'anima» mediante la potente metafora della gerarchia delle parti, che costituisce un modello 147

«UN PARAPU'.MA IN c:iUI.(1»

|)i-r rorcliiic morale individuale; il suo ruolo, ripete Annas, è quello di «rendere rindividuo capace di conseguire un'idea di moralità che può internalizzare» nella sua vita virtuosa (1999, pp. 80 s.)La Repubblica, con il suo imbarazzante retaggio, viene così espulsa dalla storia della filosofia politica, e ridotta a un presentabile testo etico che prelude allo stoicismo; qualche interesse politico viene semmai riconosciuto al Politico e alle Leggi, dove viene meno l'analogia fra anima e città, se non altro perché essi mettono in discussione quel diritto al governo di chi possiede una expertise politica, asserito ma non argomentato nella Repubblica (1999, p. 90). Come sappiamo, del resto, questi dialoghi godono di migliore stampa perché considerati, a torto o a ragione, più "liberali" della Repubblica. Le tesi di Annas appaiono tanto forti quanto sommariamente argomentate, sketchy and incomplete per usare i termini che l'autrice riferisce alla Repubblica-, il loro successo presso una parte degli studiosi sembra dovuto più al fatto che offrono una risposta definitiva a Popper (e al Platone "cattivo maestro") che a un'intrinseca capacità di analisi del testo. Un importante sforzo per una migliore articolazione della tesi "metaforica", che non nega del tutto una valenza politica alla Repubblica ma la mette in secondo piano rispetto alla questione dell'anima individuale, è stato compiuto da Norbert Blòssner (1997) e poi da Giovanni Ferrari (2003), che discutono soprattutto i libri viii e ix del dialogo. Il primo sviluppa in modo radicale la tesi della dipendenza delle posizioni teoriche dal contesto dialogico in cui esse vengono proposte. Rilevate le contraddizioni inerenti alla pretesa omologia fra anima e città, Blòssner ne conclude che non si tratti in Platone di un vero costrutto teorico, quanto piuttosto di una «tecnica letteraria» metaforica, dotata di un grande potenziale persuasivo di fronte a interlocutori come Glaucone e Adimanto, pronti a comprendere il linguaggio della politica: lo scopo è di convincerli della connessione necessaria fra ordine morale dell'anima e fehcità (pp. 165, 212). Ad esempio, il modello dei conflitti politici, che risultano immediatamente evidenti, mira a illustrare metaforicamente i conflitti interiori dell'anima, che possono sfuggire a individui poco portati all'introspezione (p. 169, nota 462). L'approccio dialogico porta dunque Blòssner a considerare la Repubblica come un'opera non primariamente politica, ma destinata soprattutto a far luce sull'organizzazione e l'ordine dell'anima, e a convincere degli esiti eudaimonistici della giustizia (pp. 190 ss.). 148

8

IM.AI O N K

SKNZA

POLI

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Sulla base delie difficoltà presentate dal rapporto fra tipi individuali e regimi politici tracciato nel libro viii della Repubblica, Ferrari, pur ammettendo la presenza di una dimensione politica nel dialogo, nega dal canto suo la possibilità di istituire un rapporto di dipendenza causale fra città e anima (la prima non determina gli assetti della seconda, né i tipi psicologici determinano i regimi della prima), salvo che nei casi estremi del regno filosofico e della tirannide, dove in effetti c'è una corrispondenza perfetta, quanto eccezionale, tra l'assetto politico e quello psicologico degli uomini al potere. Nei casi normali, la corrispondenza è invece soltanto analogica: la ragione sta all'anima come il governo alla città (pp. 50, 61, 65 s.). In questo modo, sostiene Ferrari, «l'anima risulta radicalmente disengaged rispetto alla città» (p. 50), il che equivale a dire - alla maniera di Annas - che il regime politico è irrilevante rispetto alla «costituzione interiore» dell'anima. Il rapporto analogico permette di far comprendere meglio al lettore la struttura degli elementi posti in relazione metaforica (ad esempio l'anarchia personale dell'wuomo democratico» illumina l'anarchia della città democratica, e viceversa), benché essi non esercitino alcuna reciproca causazione. La conseguenza di questa analisi è, secondo Ferrari, che la Repubblica «è focalizzata sull'anima piuttosto che sulla città, ed esalta l'individuo al di sopra della società» (p. 89): come si è già visto, questa seconda conclusione dipende dalla tesi straussiana della superiorità della filosofia sulla politica, e quindi dell'individuo, che ne è capace, sulla città. Si deve tuttavia osservare che questi studiosi trascurano passi cruciah in cui Platone sembra istituire un rapporto non metaforico, ma di dipendenza bicondizionale, fra anima e città. C^ò in primo luogo un memorabile testo di Repubblica vi dove viene descritta rinHucnza conformante e deformante della città (in questo caso democratica) sull'anima dei giovani, che è il caso di citare estesamente. «Quando», dissi, «siedono in massa alle assemblee o ai tribunali o ai teatri o iif(>li accampamenti o in qualche altra riunione comune di folla, e con gran l'ragort' ora disapprovano, ora elogiano i discorsi e le azioni, esagerando sia nelle urla ili biasimo sia negli applausi, mentre le pietre stesse e il luogo in cui stanno fanno loro eco raddoppiando il fragore del biasimo e della lode. In tale situazione che more

se-

condo il detto - pensi possa avere il giovane? Quale privata ediiea/ioiie potrebbe resistere in lui senza venir travolta da un tal flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare dove la porta la corrente? non dirà forse che sono belle e brutte le stesse cose che pensa la folla, e non si darà allo stesso mt)di) di vita, alle stesse loro

149

«»IN

PARAI>II,A I ()NK SKN/A l'OI.n iCA

totestimonianza fugherebbe ogni dubbio circa gli intenti politici di l'ia tene e la diretta interazione tra filosofia e politica da lui praticata. A favore dell'autenticità dell'epistola, generalmente accettata nella prima metà del Novecento, militano alcune buone ragioni. Il linguaggio e la fedeltà ai testi platonici noti (in primo luogo Repubblica e Leggi) sono tali che se l'autore non fosse Platone bisognerebbe supporre l'esistenza di un suo alter ego, un «secondo Platone», come già dicevano gli antichi (e come riconoscono recentemente sia Ferrari sia Rosen). Ci sono tuttavia altrettante ragioni per dubitare della sua autenticità. La prima di esse è che la Lettera VII appartiene a un corpo di 13 epistole in cui essa risulterebbe l'unica autentica, le altre essendo da considerarsi apocrife, opera di falsari come tutti gli epistolari tramandati dall'antichità. Più specificamente, la lettera presenta, oltre a passi che il falsario potrebbe avere attinto dai testi platonici, considerazioni filosofiche che invece sembrano loro estranee, come il celebre excursus (342a-344d), e inoltre omissioni e imprecisioni narrative che difficilmente possono essere dovute all'indebolimento della memoria del vecchio Platone. Infine, c'è l'intento apologetico di giustificare, post factum, le imprese siracusane di Platone e dei suoi. Sul piano filologico, la questione dell'autenticità è probabilmente indecidibile, nonostante gli sforzi profusi dagli studiosi di opposto orientamento. C'è tuttavia una terza e interessante possibilità: che la lettera, se non è attribuibile a Platone, sia però dovuta a un suo «devoto discepolo» (Brunt), forse allo stesso Speusippo (Finley), comunque a un testimone ben informato (Bertelli), che poteva disporre di quei domestica documenta sulla cui base, secondo Apuleio, Speusippo avrebbe composto una biografìa di Platone. La Lettera VII conserverebbe in questo modo intatto il .vuo valore documentario circa gli interessi e il coinvolgimento politico ili Platone e dell'Accademia. Gli interpreti interessati alla de-politicizzazione di Platone e «ll'cspulsione della Repubblica dall'ambito politico non conoscono tiitiaviu di questi dubbi. La loro linea prevalente (chiara soprattutto in Annu.s) risulta così articolata: 1. la lettera è certamente inautentica: questo viene asserito mediante il solo riferimento al pur autorevole saggio ili lùlclstein, ignorando i pareri opposti, sia precedenti a Edelstein (per esempio Wilamowitz, Stenzel e Maddalena) sia posteriori e recenti (per esempio von Fritz, Isnardi e Brisson); 2. la lettera non ha comunque alcun valore documentario; autentica o no, essa appartiene al genere letterario epistolare, che non ha rilevanza storica; 3. il carattere di lalso o di 155

"UN PARAOICMA IN CIIU.O» liclioii tifila lei torà inficia anche il valore delle altre testimonianze relative alla politica platonica, in primo luogo quelle del Dione di Plutarco e (.li i'ilodcmo, perché ne dipenderebbero in modo esclusivo (va osservato clic gli storici attribuiscono invece a Plutarco ottime fonti indipendenti, come la lettera che l'accademico Timonide di Leucade inviò a Speusippo per informarlo degli eventi). La questione della Lettera VII è certamente destinata a restare aperta, e il suo valore documentario va comunque utilizzato con molta cautela. Ma la risolutezza dogmatica con cui gli interpreti che negano interessi politici a Platone e alla Repubblica rifiutano qualsiasi rilevanza documentaria all'epistola, a differenza della gran parte degli storici, sembra derivare più da un pregiudizio esegetico che da un'accurata analisi del problema nei suoi diversi aspetti filologici e storiografici.

Una replica oltre il Muro: lo Streit um Platon nella DDR Una sorta di replica condensata del processo a Platone originato in Occidente dall'atto di accusa popperiano ebbe luogo nella DDR, nei fascicoli del 1964 e 1965 delia rivista "Das Altertum". In veste di accusatore agisce qui Georg Mende, professore a Jena, i cui argomenti — nonostante la radicale differenza di linguaggio e di punti di vista - presentano una notevole somiglianza con quelli di Popper. Mende si propone di por fine a quella tenace Platonlegende che attribuisce alle dottrine del vecchio filosofo un valore atemporale e super partes. In realtà, Platone è stato, secondo il motto di Lenin, il fondatore deir«idealismo oggettivo», e questa filosofia ha offerto il fondamento teorico alla sua concezione politica di un'«aristocrazia dello spirito», destinata al governo, in cui altro non si esprime se non l'ideologia dell'aristocrazia schiavista greca. Dunque, conclude Mende, «Platone non ha più nulla da dire alla stragrande maggioranza degli uomini di oggi»; al più, il suo pensiero offre «un modello sperimentato ai nemici di classe del popolo». Il ruolo della difesa tocca a Rudolf Schottlaender. Come i primi difensori di Platone da Popper, egli mira ad attenuare la gravità dei capi d'accusa sollevati da Mende. Platone non è certo un fautore della democrazia socialista; tuttavia non può neppure venirgli attribuita un'ideologia da aristocratico schiavista. L'aristocrazia dello spirito che egli vuole costruire non coincide con quella di nascita, cui anzi rivolge critiche du156

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L'I.A T O N I '

SI'NZA

I>()I,1I'U;A

rissime: si tratta di una nuova élite da selezionare per valori intelleituali e morali, e con un «rivoluzionario» progetto educativo che Schottlacnder indica come uno dei maggiori meriti platonici. Egli insiste inoltre con particolare vigore sugli interessi scientifici di Platone, dalla matematica all'astronomia alla cosmologia, che vanno oltre i limiti del suo «idealismo oggettivo» e che sono rilevanti anche per la storia della formazione del «materialismo scientifico». Infine, Schottlaender ripete una mossa difensiva che ci è ben nota, la marginalizzazione della Repubblica: dopotutto, essa non è l'unica opera di Platone né il suo Hauptwerh, la critica ideologica della Repubblica non può dunque coinvolgere l'intero pensiero platonico. Un primo verdetto veniva pronunciato da Ekkehard Schwarzkopf. Egli crede che si debba confermare la caratterizzazione di Platone come ideologo dell'aristocrazia schiavista. È vero che l'aristocrazia di nascita deve venire perfezionata mediante l'educazione, ma l'educazione (e con essa anche la filosofia) resta pur sempre un privilegio di classe, da cui è esclusa la massa dei lavoratori manuali. Schwarzkopf introduce però un'interessante precisazione. Platone è l'ideologo dell'aristocrazia schiavista in quanto è un teorico critico dello sviluppo della produzione di merci. Sia pure in negativo, la sua posizione costituisce dunque un momento dialettico del processo che condurrà alla critica comunista della merce (del resto, la forma primitiva del comunismo precede quella produzione di merci di cui Platone è critico). I limiti oggettivi del pensiero platonico sono dovuti al mondo storico-sociale in cui esso si è formato (una riformulazione marxista della tesi hegeliana, dunque), dominato dall'aristocrazia schiavista come «classe necessaria». Qualche anno più tardi, il dibattito veniva portato alla sua conclusione nella densa e importante introduzione alla Repubblica scritta nel 1978 da Hans-Martin Gerlach e Giinter Schenk. Questi autori tendono in primo luogo ad escludere Platone da quel posto nella storia del comunismo utopistico che pure gli era stato riconosciuto all'inizio del secolo da socialisti come Kautski. Si tratta di un pensatore conservatore-reazionario perché teorico della diseguaglianza naturale fra gli uomini, su cui si fonda il suo progetto sociale. Altrettanto drastico è nutiirulmente il rifiuto del tentativo di Popper di stabilire una continuità fVu Platone e Marx mediante la sua «dottrina anticomunista del totulilnrismo»: la battaglia ideologica condotta da Popper contro il iiturKÌfimo U» induce a ignorare le immense differenze sociali e teoriche f'ru i due Uhi' sofì (pp. 6 s.). 157

"UN PAUADICJMA IN CIKIO» l^ipronclciido Mende, Cerlach e Schenk ribadiscono il nesso fra idealismo oggettivo e ideologia dell'«aristocrazia dello spirito». La Repubblica viene di fatto costruita mediante un processo di astrazione idealistica che però muove da forme sociali reali: la Sparta conservatrice, la gerarchia castale egiziana (qui soccorre la rituale citazione dal Capitale), l'ideologia elitaria dei Pitagorici (pp. 17 s.). Più in particolare, Platone costruisce il modello di una struttura gerarchica castale a partire dalla sua pur importante analisi della divisione sociale del lavoro. Il progetto della Repubblica era però impossibile (nei fatti, non secondo il suo autore) perché mirava a mutare la struttura della realtà storica ed economica con i soli strumenti dell'ideologia e della politica: una vana lotta per bloccare il progresso storico (qui gli autori riecheggiano Popper), lo sviluppo della produzione e dell'economia finanziaria (p. 20, 33). «La Politeia di Platone, essi concludono, doveva cosi restare un'utopia», ma un'utopia che, a differenza di quelle moderne, presenta un carattere conservatore e reazionario (p. 21). Processato in terra marxista-leninista, dunque, Platone non sfugge alla condanna. Non vengono qui messi in opera quegli strumenti di difesa che avevano consentito l'assoluzione, o almeno importanti sconti di pena per il filosofo (a patto di una qualche forma di abiura della Repubblica come testo politico) nel continente liberal-democratico, in cui l'atto di accusa era stato altrettanto aspro e perentorio. Come si è visto, gli viene anche negato il diritto d'asilo in quella preistoria utopistica del socialismo e del comunismo, che pure studiosi come Pohlmann e Natorp erano disposti a concedere. Tanta severità si deve probabilmente al fatto che il marxismo-leninismo ortodosso non avvertiva quell'esigenza di salvare l'unità della propria tradizione intellettuale che invece — come sostiene Gadamer — è una necessità vitale per l'Occidente.

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9

La questione dell'utopia

Utopie di evasione Del sognare a occhi aperti e del fantasticare. Prova di mancanza di carattere e di passività. Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto. La propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. E, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l'attenzione sul presente così com'è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà.

Sono parole di Antonio Gramsci, che delineano perfettamente il quadro mentale delle «utopie di evasione», e la loro critica. A questo quadro è stata ascritta la Repubblica di Platone da una lunga tradizione, che va da Pier Candido Decembrio (che parlava di una città votis magis quam rebus expetendd), alle «Chimere» di Brucker, fino ai «castelli in aria» di Gadamer. In questo modo, la Repubblica veniva assimilata a tutta la serie di utopie dell'età dell'oro, delle isole felici, dei paesi di cuccagna, che inizia forse con Aristofane, continua nell'ellenismo e ha naturalmente il suo compimento nelle grandi utopie dell'età moderna, da Campanella a Moro e oltre: proprio quel tipo di utopie alle quali si opponevano con decisione, su versanti diversi, sia Kant sia Hegel e la tradizione hegeliana, a cominciare da Marx, del quale è ben noto il disprezzo nei riguardi del «comunismo utopistico». Ma lo stesso Platone, quasi avesse previsto questa lettura, ha prc-so ogni precauzione per evitare che il disegno della kallipolis fosse considerato come un surrogato immaginario della realtà. In un passo decUivo, Socrate chiede una provvisoria licenza di comportarsi come il graiiiNciu* no "sognatore a occhi aperti", per anteporre la questione dclU dcitidcrMbilità a quella della possibilità. 161

"UN l'AKADKJMA IN CII'.I.O» l'.iiimii min grande grazia: concedimi una festa, alla maniera di quei pigri di mente che sono soliti banchettare con le loro fantasie quando passeggiano da soli. Costoro in effetti, prima di aver trovato in qual modo potrà realizzarsi qualcosa di ciò che desiderano, trascurano il problema per non ammalarsi a furia di deliberare intorno alla sua possibilità o impossibilità; ponendo come esistente quello che auspicano, passano senz'altro a disporre tutto il resto, e se la godono passando in rassegna tutto quel che faranno una volta che esso sia realizzato, rendendo ancora più pigra un'anima peraltro già pigra. Anch'io adesso sono preda della stessa mollezza, e desidero rinviare a più tardi l'indagine su quelle cose in quanto possibili; adesso però, postele come possibili, esaminerò, se me lo concedi, come i governanti ne regoleranno l'attuazione, e mostrerò che, una volta messe in pratica, nulla potrebbe essere più utile sia per la città sia per i difensori. Questo cercherò in primo luogo di indagare insieme con te, e in seguito affronterò quegli altri problemi, sempre che tu lo conceda (v 458a-b).

Si tratta, appunto, di un rinvio prowisorio. Platone non si stanca di ripetere che evitare la questione della fattibilità significa restare al livello delle euchai, cioè dei "voti", pii desideri, castelli in aria, e che questo sarebbe a buona ragione considerato ridicolo (cfr. ad esempio v 45od, vi 499c). La Repubblica non è dunque certamente collocabile nell'ambito delle utopie di evasione, almeno nelle dichiarate intenzioni del suo autore.

Utopia di ricostruzione Quella della Repubblica, come ogni «utopia seria», scrive Finley, non è una fantasticheria di evasione dalla realtà, ma «è concepita come un fine che si può legittimamente tentare e sperare di raggiungere»: si tratta dunque di una «utopia di ricostruzione» sociale e morale. Platone ribadisce in effetti a più riprese un vincolo incrociato tra desiderabilità e possibilità del disegno utopico, che viene espresso efficacemente con la tesi che le sue proposte sono «le migliori, se davvero sono possibili», «ottime, se realizzabili» (vi 502c). Un progetto che risultasse per principio irrealizzabile non sarebbe dunque neppure desiderabile, perché ricadrebbe nel «ridicolo» delle euchai-. di qui l'insistenza platonica sulla possibilità, o almeno sulla non impossibilità di principio, di una qualche forma di realizzazione del progetto, benché certamente, si ripete, «difficile» ( V I 499d, 502C, 504d). 162

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i.A gui'S rioNK DKI.I.'U IOIMA



Naturalmente, è inevitabile prevedere uno scarto, un déailiiffc, (ra il paradigma delineato nel discorso e qualsiasi sua possibile traduzione storica. Quel paradigma è modellato sull'ordine ideale della giustizia, c il suo inserimento nel mondo della temporalità storica ne comporta una deformazione: il filosofo-politico, «pittore di costituzioni», tenterà di riprodurre quel modello sulla tela della storia quanto più fedelmente è concesso dalla instabilità e variabilità delle circostanze (vi 50ib-c). C'è un'altra metafora pittorica che sembra in contraddizione con questa: la bravura di un pittore non sarebbe diminuita, scrive Platone, dal fatto che egli non fosse in grado di indicare l'esistenza di un uomo altrettanto bello di quello che ha dipinto (v 472d). La contraddizione è però solo apparente. Nel primo caso, il modello è antecedente al dipinto, che ne rappresenta una riproduzione inevitabilmente imperfetta. Qui invece il modello è costituito dal dipinto stesso - che rappresenta il paradigma tracciato nel discorso teorico — e l'eventuale replica, che comunque non 10 potrebbe eguagliare, va cercata fuori, nel campo dei fatti reali. Entrambe le metafore convergono dunque nel segnalare che la riproducibilità pratica del paradigma, benché possibile, non lo adegua mai compiutamente, il che non ne inficia comunque la validità teorica. Non è fuori di luogo qui pensare (come suggerivano Pohlmann e Natorp) all'ideale kantiano, cioè all'idea rappresentata in individuo (la kallipolis). Tutto ciò rende legittimo parlare, a proposito della Repubblica, di «utopia progettuale». "Progettuale", perché la sua realizzazione è desiderabile e possibile, o almeno non impossibile, benché difficile e necessariamente imperfetta. Ma ancora, almeno per certi aspetti, "utopia". Platone segnala in effetti che quel progetto è stato costruito al modo di una fiction narrativa, di un racconto mitico («come se racconta.ssinio un mito», II 376d; «la costituzione su cui abbiamo mitologizzato nel discorso», VI 50ie; e si confronti, nel Timeo, la menzione dei «cittadini c la città che ci raccontavi ieri come in un mito», 26c, con sicuro rifcrinicn(o alla Repubblica). Il disegno utopico viene così presentato come un gesto di potente immaginazione filosofica, un atto discorsivo già dotato in sé stesso di efficacia. A che cosa è destinato? In primo luogo, come ha .scritto l^urnycat, a rappresentare una possibile uscita dalle «prospettive parrocchiali dell'esistenza quotidiana», a «guidarci da qui a là» (si pensi al katoikizrin di cui si è discusso nel GAP. 8). Un atto persuasivo di immaginazione alternativa, aggiunge Schofield, quale «tentativo di prospettare come l'intera struttura della società [...] potrebbe essere costituita in modo diverso e 163

«I»N PARADIflMA IN CMU.O» migliore», pcrchc una speranza senza dimensione utopica è troppo poco ambiziosa per costruire un'alternativa alla realtà presente (pp. 199 s.). E, come si è chiesto recentemente Morrison, a chi può essere utile questa rappresentazione utopica? Certo, come egli risponde, a offrire ai filosofi nella città storica «una ragione politica per sostenere la causa della filosofia nella loro società, al fine di avvicinare o rendere più probabile il giorno in cui i filosofi vi regneranno» (p. 247). Ma, si può aggiungere, anche a convincere chi non è filosofo a credere che in una città giusta la vita sarebbe più felice per tutti, e quindi ad accettare il regno filosofico, o come qualcuno pensa — la dittatura di una élite razionale.

Dall'utopia progettuale alla teoria normativa La Repubblica è dunque certamente un'utopia progettuale, e non di evasione. Ma è probabilmente anche qualcosa di più. Nel linguaggio della filosofia contemporanea, credo si possa parlare di una "teoria normativa" sulla società giusta (non è fuori luogo qui un riferimento alla posizione di John Rawls). Il passaggio dal mythologein, dall'immaginazione mitopoietica alla teoria normativa — un passaggio che è certamente più marcato dal nostro punto di vista che da quello platonico - è segnalato dall'introduzione di alcuni criteri di validazione, appropriati alla teoria ma certamente superflui per la fiction mitica. Il primo di essi consiste nella ribadita asserzione platonica della «conformità alla natura» {katà physin) delle sue proposte (cfr. ad esempio v 455d). Questo riferimento fondativo alla «natura» presenta un doppio valore. Da una parte, esso è descrittivo, e riguarda l'ordine osservabile della realtà: per esempio, la parità di ruoli fra uomini e donne è confermata dal comportamento effettivo dei cani, fra i quali maschi e femmine collaborano agli stessi compiti nella caccia e nella guardia. D'altra parte, il riferimento alla «natura» è invece normativo, concernendo il miglior ordine possibile delle cose, quale risulta dalla comprensione dell'assetto paradigmatico del mondo noetico-ideale (cfr. ad esempio vi 484c-d). In entrambi i casi, la conformità alla natura comporta un atteggiamento critico di fronte all'esistente («sono piuttosto le istituzioni attuali, contrarie a quelle che proponiamo, a sembrare costituite contro natura», V 4 5 6 C ) , e legittima le richieste della teoria normativa. 164

9

I.A Q U K S T I O N K

UHL.I.'U L O P I A

^

Là dove invece la conformità all'ordine naruralc osserva li ile non può svolgere questa funzione (come nel caso della comunanza di donne e figli), il criterio di validazione è individuato nella coerenza interna dell'argomentazione. Che quella comunanza sia «conseguente [epomene\ al resto della costituzione, bisogna confermarlo con il logos» (v 461 e). Si tratta dunque di provare la consistenza dei diversi aspetti della legislazione con gli scopi del progetto costituzionale. Questa consistenza prende la forma di una necessità condizionale: se certi scopi complessivi (come la giustizia, la felicità, l'unità della comunità sociale) sono desiderabili, allora occorre prevedere le misure dimostrabilmente necessarie per realizzarli. La coerenza intrinseca dell'argomentazione, che ne connette gli enunciati in modo «spontaneo» o «automatico» {apò tou automatou, VI 498e), si aggiunge così al riferimento alla natura come condizione di validità della teoria normativa. Concepire l'utopia platonica anche come teoria normativa contribuisce a chiarire, da un altro punto di vista e con un altro linguaggio, la tanto discussa questione della realizzjibilità, sia pure imperfetta, del progetto utopico. Come ha mostrato Federico Zuolo, quella di Platone appartiene alla tipologia delle teorie normative che si dotano inoltre di una teoria dell'efficacia, che analizza - pur sempre in ambito infra-teorico - le condizioni necessarie e sufficienti all'attuazione pratico-storica del modello valoriale proposto. Per Platone queste condizioni di possibilità sono fondamentalmente due: 1. che i "veri" filosofi assumano il potere nelle città; oppure 2. che i dynastai, che già lo detengono, si diano a praticare la filosofia {Resp. V 473b-d) (o, in via subordinata, che accettino di seguire la guida di un filosofo legislatore, Leggi iv yoge-yiod). Un «cambiamento minimo» negli assetti di vertice del comando politico, lo definisce l'Iatonc (v 473b), che tuttavia richiede, in entrambi i casi, una serie complessa di altre condizioni preliminari. Nel primo caso, si tratta di questo: la. Occorre che siano reperibili nella città storica "veri" filosofi adatti al governo. Questo è difficile, perché la città non promuove la fortna/,ionidei filosofi, che devono dunque «autoformarsi» in condi'/.ioiii ostili (VII 52ob), e perché essa tende a corrompere quelli esistenti, la cui eventuale persistenza è dunque dovuta a una «sorte divina», theia tyrhc o theia moira (vi 492a, 493a): bisogna chiarire fin d'ora che in c|iicsti e altri simili passi "divino" equivale a "caso eccezionale, straordinariamente fortunato". 165

«UN l'ARAOICMA IN CH'IO» \h. Occoirc inoltre che questi filosofi si rendano disponibili al coinvolginiento politico, ciò che può dipendere da una «fortuita necessità» (vi 499b, 500d) o ancora da una «sorte divina» (ix 592a). ir. Occorre infine che la moltitudine cittadina si lasci convincere ad affidare loro il governo (vi 5oie s.).

Nel secondo caso, le condizioni sono le seguenti: 2/2. Che esistano uomini di potere, o loro figli, dotati di una natura ben disposta alla filosofia: questo non è probabile, ma non può essere dichiarato impossibile in tutto il corso del tempo (vi 502a). 2^. Che essi si convertano alla filosofia, o ne accettino la guida, in virtù di una qualche «ispirazione divina» (vi 499b). 2c. Che essi incontrino filosofi sopravvissuti in base alle condizioni la e ib. xd. Che la città sia «obbediente» al loro comando (vi 502a-b): questa è la condizione meno difficile, trattandosi di dynastai o anzi di tiranni, come viene precisato nel libro iv delle Leggi (yiib-c).

L'insieme di queste condizioni di efficacia mostra che l'attuazione del quadro normativo, come ribadisce a più riprese Platone, è certamente difficile ma in linea di principio non impossibile (cfr. ad esempio Resp. vi 499c). La non impossibilità comporta che, in un quadro spazio-temporale indeterminato e grande a piacere («nell'infinito tempo passato, o [...] in qualche regione barbarica a noi ignota per la sua lontananza, o nel futuro», vi 499c-d), il grado di probabilità di quella realizzazione (beninteso imperfetta) sia da considerarsi diverso da o. Oltre questa soglia teoria normativa e teoria dell'efficacia non possono spingersi. Esse non escludono l'azione politica effettiva, anzi ne mostrano finalità desiderabili e possibili; ma non costituiscono un programma politico in grado di indicare modi e tempi di azione. Se mai, l'azione politica personale può costituire una conseguenza che deriva, per motivi morali e psicologici, dalla condivisione della teoria e delle finalità che essa indica, come risulta dal celebre passo di ix 592 discusso nel capitolo precedente. Questo nesso extrateorico è chiaramente indicato nella Lettera VII ad esempio per la decisione di Platone e dei suoi "compagni" 166

9

l,A gUI'S I IONI' Dlil.l.'U lOI'lA

accademici di rifiutare il coinvolgimento politico nelle vicende ateniesi e di impegnarsi invece in quelle siracusane. Il punto di vista qui proposto permette di comprendere meglio il rapporto fra Repubblica, Politico e Leggi. Il secondo dialogo lascia in ombra l'aspetto normativo della teoria per tentare un'analisi radicale della questione dell'efficacia: come è possibile governare "scientificamente" l'esistenza storico-politica nella sua indeterminata variabilità? Vengono qui messi alla prova le potenzialità e i limiti del potere assoluto e del governo secondo le leggi, in una discussione che può essere considerata un supplemento di riflessione intorno alla configurazione di un «regno filosofico» delineata ma non approfondita nella Repubblica. , Quanto alle Leggi e alla loro "utopia legislativa", la teoria dell'efficacia introduce due nuovi vincoli: a differenza della Repubblica, la teoria normativa risulta qui applicabile in una città da costruire ex novo, cioè in una colonia in via di fondazione, e non in una città storicamente esistente; inoltre, essa deve tener conto, più di quanto facesse la Repubblica, della resistenza opposta dalla struttura antropologica di base ai tentativi di trasformazione sociale. La questione dell'efficacia reagisce così sui contenuti della stessa teoria normativa: se deve risultare realizzabile, essa deve allora modificare la configurazione delle sue finalità, e diminuire le pretese di perfettibilità, rinunciando per esempio all'abolizione della proprietà privata e della famiglia (che viene surrogata da un rigido controllo politico-sociale su entrambe). Questa riformulazione rende forse possibile una nuova "assoluzione" di Platone dalle accuse di Popper? Certamente no, perché le finalità proposte dalla teoria normativa vanno considerate desiderabili per Platone, e la teoria dell'efficacia ne mostra inoltre la potenziale realizzabilità, sia pure parziale. Se mai, la discussione dovrebbe finalmente venire spostata su un altro piano: il confronto teorico fra la teoria normativa di Platone e quella presupposta da Popper (e dai suoi stessi critici clic pure la condividono). Alle critiche di Popper a Platone potrebbero allora venire contrapposte quelle di Platone a Popper, e si otterrebbe in questo modo un livello di analisi decisamente più interessante. Al tempo stesso, però, il nesso qui proposto impedisce l'intemperante lettura politicistica dei testi platonici praticata negli anni trenta c quaranta del Novecento: leggere nei dialoghi l'immediato riflesso delle vicende politiche personali di Platone, alla maniera di Hildebrandt, è assurdo e fiiorviante, perché si tratta comunque di testi teorici, certo di pertinenza etico-politica ma non autobiografica né propagandistica né agitatoria. 167

"UN l'AltADKJMA IN CIFIO» Nola l)il)lit)^ra(ìca

I citazione di A.

GRAMSCI

è da Quaderni del carcere, voi. ii, Einaudi, Torino 1977

(p. 1131). Le opere cui si è fatto riferimento sono nell'ordine:

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168

10

Platone politico, oggi

La polisemia platonica Ventiquattro secoli di ermeneutica del Platone politico ci possono insegnare sicuramente qualcosa, tanto su Platone quanto sui suoi interpreti. Per un certo aspetto, la vastità dello spettro esegetico non ci sorprende, e non può considerarsi limitata al versante politico del pensiero platonico: già l'antichità ci ha ofiferto due immagini radicalmente divaricate del Platone teorico, scettico per l'Accademia antica, iper-dogmatico invece per il neoplatonismo. Questa ampiezza dell'arco interpretativo, che va ritenuta inevitabile e irriducibile, propone qualche utile riflessione intorno alla stessa natura della filosofia platonica. Si tratta di un "teatro filosofico", articolato in una pluralità di testi dialogici, in cui ciò che viene messo in scena non è tanto una filosofia quanto lo spazio e le forme costitutive del pensare filosofico in sé. Questo assetto peculiare degli scritti di Platone rende in linea di principio impossibile una loro unificazione sistematica, per almeno due buone ragioni: la polifonia degli interlocutori dialogici, che argomentano tesi contrapposte; e la variabilità delle situazioni dialogichc, per contesti, problemi, strategie argomentative impiegate, da cui deriva un'ulteriore variabilità delle tesi sostenute dagli interlocutori, in primo luogo dallo stesso personaggio Socrate. Questo non significa naturalmente che non siano riconoscibili tratti costanti che possono consentire l'identificazione di nuclei teorici relativamente trasversaU rispetto alle variazioni dialogiche, e ascrivibili 176 Proclo, 35-7, 39-40,131 Protagora, 20, 80,102,111

Mosse George L., 86 Movia Giancarlo, 66 Muccioli Federico, 25, 159

Quarta Cosimo, i68

Mussolini Benito, 92 Rawls John, 164 Rcnaud Francois, 143 Narducci Emanuele, 12 Natorp Paul, 58, 61, 64-5, 67, 105, 158, 163,171,175 Neschke-Hentschke Ada, 40 Nethercott Frances, 105,107 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 60, 77-8, 83, 87,106,140 Novitskii Orest, 105

Rickert Heinrich, 75 Robin Léon, 89-92,107,175 Romualdi Adriano, 84, 87 Roochnik David, 138,143,172 Roscn Stanley, 136,140-1,143,155 Rosenberg Alfred, 79, 83,105 Rousseau Jean-Jacques, 62, 83, 97 Rowc Christopher, 126,136,143, 168 Rubinsthein Matvei, 106 Rudolph Enno, 119 Russell Bertrand, 100,103,105,107,117,

Oertel Friedrich, 67 Orozco Teresa, 87

180

122,171 Ryle Gilbert, 1 1 7 , 1 1 9

INmc;iv DI'l NOMI Saint-Simon, Claude-Henri Rouvroy de, 62 Sandkiihler Hans Jorg, 67

l'oquevilk' Ak'xis (k-, 57 Toynbee Arnold Joseph, 101, 107, 109, 113,122

Santinello Giovanni, 66

Trabattoni Franco, 13

Saxonhouse Arlene, 122,128,142

Trampedach Kai, 25,159

Schelling Friedrich W. J., 79

Trasiilo, 15

Schenk Giinter, 157-9

Trasimaco, 20

Schmitt Cari, 130

Trzaskoma Stephen, 67

Schofield Malcolm, 25, 117, 119, 163,

Tucidide, 20

168,174,176 Schopenhauer Arthur, 79 Schotriaender Rudolf, 156-7,159

Ugolini Gherardo, 13

Schwarzkopf Ekkehardr, 157, 159 Senofonte, 54,102,125,131,141 Settis Salvatore, 168

Vallet George, 159

Seung Thomas K., 42, 66

Vasoli Cesare, 39-40

Singer Kurt, 77

Vegetti Mario, 25, 40,144,159, i68

Solone, 107,124

Vegetti Matteo, 143

Sordi Marta, 159

Vieillard-Baron Jean Louis, 66

Speusippo, 16,19, 25,154-6

Vitiello Vincenzo, 119

Stalin (losif Vissarionovic Dzugasvili),

Vlastos Gregory, 123,142

106

Vògelin Erich, 99,145-6,158

Stefanini Luigi, 93-6, 107, 173, 175

White Donald, 86

Stenzel Julius, 69, 72, 75-6, 85-6,155

Wilamowitz Ulrich von, 69-73, 76-7,

Strauss Leo, 37,109,119,127,130-6,138,

85-6,102,155

140-1, 143-5,172Zeller Eduard, 50-3, 56, 58, 60-1, 67, 87, Temistocle, 20 Timoleonte, 82

98,122,175 Zetkin Clara, 106

Timonide di Leucade, 156

Zimbrich Ulrike, 87

Timpanaro Sebastiano, 67

Zuolo Federico, 13, 165, 168

35