Una strage ignorata - Sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48 978-88-6140-172-3 [PDF]

Con questo volume la Fondazione Argentina Altobelli e la Fondazione di studi storici Filippo Turati vogliono ricordare u

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Italian Pages 313 Year 2014

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Table of contents :
Premessa
di Maurizio Degl'Innocenti

1 . La Sicilia negli “anni difficili” : un lungo dopoguerra
tra lotta politica, conflitti sociali e risorgenza criminale
(1943-48 )
di Pierluigi Basile
1 . L’alba di una nuova stagione politica:
Liberazione, separatismo e autonomia regionale
2 . Un’isola in rivolta: proteste, conflitti sociali
e “risorgenza criminale”

2 . Sicilia 1 944-48: la mafia e le vittime del movimento
sindacale nelle carte della prim a Commissione Antimafia
di Diego Gavini
L’Antimafia: un’esperienza complessa
I lavori della Commissione Parlamentare
La strage di sindacalisti nelle relazioni conclusive

3 . I sindacalisti uccisi, nei documenti e nella memoria
di Dino Paternostro
Schede biografiche
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Una strage ignorata -  Sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48
 978-88-6140-172-3 [PDF]

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t i TATO FINORA APRE/TATO

Fondazione Argentina Altobelli • Fondazione di studi storici Filippo Turati

Una strage ignorata sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48

— *

Con questo volum e la Fondazione Argentina Altobelli e la Fondazione di studi sto rici Filippo Turati vog lio no ricordare una pagina tragica e buia della storia d ’ Ita lia : l ’uccisione per mano della mafia di decine di sindaca­ listi a g rico li in S icilia tra il 1944 e il 1948. Uno stillicidio impressionante, ma anche una pagina sostanzialmente a n co ra non s c ritta d e lla s to ria del n o s tro P a e s e ,c h e ha v is to co m e protagonisti quadri e militanti sindacali del comparto agricolo che hanno lotta­ to, pagando con la vita, per l’em anci­ pazione dei la vo ra to ri de lla te rra e d e lle loro fa m ig lie . Il loro esem pio rappresenta una delle pagine più alte della coscienza civile nella storia d’Ita­ lia vissuta, peraltro, in un clima di indif­ ferenza se non di ostilità. Nella ricor­ renza del XX anniversario della costitu zio n e d e lla Fondazione A rgentina A lto b e lli, rid a re voce a quei ca d u ti rappresenta un doveroso omaggio alla loro memoria, perché neN’oblio non si p e rp e tu i l ’o ltr a g g io di cui fu ro n o vittime.

In copertina: manifesto in occasione dello sciopero indetto dalla CGIL il 12 aprile 1948, per protestare contro l ’uccisione dei sindacalisti in Sicilia.

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Fondazione Argentina Altobelli

Fondazione di studi storici Filippo Turati

Una strage ignorata sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48 Copyright © 2014 Fondazione Argentina Altobelli Agra Editrice e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6140-172-3

Coordinamento editoriale Fabrizio De Pascale Copertina Luigi Rossi Stampa C S R - Roma (Settembre 2014) Distribuzione Agra Editrice srl

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Volumepresentato a Roma il 26 settembre 2014 con il patrocinio del Senato della Repubblica presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani

Una strage ignorata sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48

^QgA: editrice

Prefazione

Questo volume nasce dalla feconda collaborazione cultu­ rale tra la Fondazione “Argentina Altobelli” e la Fonda­ zione di studi storici “Filippo Turati”. La collaborazione tra le due Fondazioni, nelle investigazioni storiografiche su temi e figure che hanno caratterizzato la storia del sin­ dacalismo e del socialismo, ha già all’attivo risultati par­ ticolarmente significativi. Fra questi si segnala la storia di Argentina Altobelli: dirigente del Partito Socialista Italia­ no, segretaria della Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra fino al 1926, incredibilmente dimenticata e fi­ nalmente restituita alla memoria collettiva con un volume rigorosamente documentato che ne ricostruisce pensiero e azione, in politica e nel sindacato. E già si annuncia la prossima partecipazione ad un convegno internazionale di studi che si terrà a Milano il 21-22 ottobre 2014 su Welfare, le donne e i giovani in Italia e in Europa, dall’Ot­ tocento ad oggi. Con questo nuovo volume si recuperano, dalle prigio­ ni dell’oblio, altre vite e altre storie: quelle dei sindacali­ sti agricoli siciliani sterminati dalla mafia tra il 1944 e il 1948.

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La Fondazione “Argentina Altobelli”, in occasione del settantesimo anniversario del Patto di Roma, con il qua­ le i lavoratori socialisti, comunisti e democristiani costi­ tuirono la Confederazione Generale Italiana del Lavoro, e sollecitata dal settantesimo anniversario della legge sul­ la concessione delle terre incolte ai contadini, che avviò la stagione di lotte per la riforma agraria, ha ritenuto di promuovere una ricerca sulla rinascita del movimento contadino e sulle occupazioni delle terre nel secondo do­ poguerra. Dalla ricognizione è emersa una pagina insan­ guinata: quella della Sicilia, dove la ripresa del movimen­ to bracciantile e l’occupazione dei latifondi fu ostacolata dagli agrari e dalla mafia con una pianificata azione ter­ roristica che falcidiò la prima linea dei capilega e dei diri­ genti sindacali. Quella pagina insanguinata, ripresa da un manifesto elettorale del 1948, fu ben presto collocata in polverosi fascicoli giudiziari e scomparve dal ricordo. Da qui l’intento della Fondazione “Argentina Altobelli” di esplorare il versante siciliano della straordinaria storia del sindacalismo agricolo italiano, e in particolare la dram­ matica vicenda dei sindacalisti colpiti a morte dal piombo mafioso, coinvolgendo la Fondazione di studi storici “Fi­ lippo Turati”, in virtù del suo patrimonio archivistico e della sua autorevolezza. Ancora una volta la collaborazione è stata proficua, co­ me testimonia questo primo volume. Alcuni risultati van­ no qui evidenziati. Innanzitutto si recupera una vicenda rimasta ai margini della grande storia italiana, confinata nell’ambito della storia siciliana. E stata anche una sfida scientifica: trasformare la storia locale in storia nazionale, ricomprendere nel quadro storico generale quelle vicende particolari che hanno una visibilità esclusivamente terri­

Prefazione

toriale e rimangono ignote alla opinione pubblica. Così come ignorato è rimasto fin qui il profilo biografico dei sindacalisti siciliani uccisi dalla mafia, così come lo è stato l’impatto che quelle stragi ebbero nel processo di rinnova­ mento sociale e nello sviluppo del movimento antimafia nelle istituzioni e nella società civile. Il breve tratto del quadriennio 1944 — 1948 era già stato ampiamente disboscato dalla storiografia, che però si era limitata a individuare nella strage di Portella delle Ginestre e nell’autonomia regionale i fatti decisivi dell’e­ poca. Incuneandosi tra le pieghe di questi grandi eventi, nel volume si recuperano altri elementi esplicativi della storia di quel periodo: dalla forza propulsiva che le stra­ gi ignorate ebbero nella presa di coscienza collettiva del fenomeno mafioso, al legame nell’impegno sindacale tra lotta per la riforma agraria e rivendicazione della auto­ nomia, all’obiettivo mafioso di spezzare l’unità del movi­ mento bracciantile ma anche di annullare la capacità di mobilitazione popolare del Sindacato. Sono partiture di storia locale che, con questo volume, diventano finalmen­ te parti essenziali dell’insieme storico globale. Nel film dedicato alla figura di Placido Rizzotto1 a un certo punto si assiste alla scena in cui il giovane Segreta­ rio della Camera del Lavoro corleonese elenca le date, i nomi, i luoghi degli eccidi dei sindacalisti compiuti dalla mafia. Se quella lista troverà un giorno spazio anche nei manuali scolastici e universitari di storia e nella produ­ zione storiografica interna ed estera, sarà merito di que­ sto volume che l’ha recuperata e la presenta alla colletti­ vità come documento fondamentale della storia dell’Italia l P. Scimeca (regia di), Placido Rizzotto, Casa di produzione Arbash, Italia 2000 9

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contadina, annodato a quel filo rosso dell’Unità e della Liberazione. Del resto, sotto questo profilo, le implicazioni storio­ grafiche del volume evidenziano che anche sul versante sindacale la Sicilia è stata un laboratorio interessante, da studiare e analizzare. Presentando questo volume, dun­ que, non si può non dar conto ai lettori del retroterra identitario e delle origini culturali che i sindacalisti agri­ coli uccisi dalla mafia incarnavano e rappresentavano; non si può non gettare uno sguardo a quel particolare la­ boratorio sociale siciliano; non si può non dire da quale storia essi provenivano e quale nuova storia essi intende­ vano scrivere. Si tratta di questioni qui solo accennate ma che auspicano nuove ricerche, nell’ambito della preziosa collaborazione tra la Fondazione “Argentina Altobelli” e la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”, dirette a evidenziare che la storia del sindacalismo siciliano non fu marginale e divergente rispetto alla grande storia del sin­ dacalismo italiano ed europeo, semmai ebbe una sua tipi­ cità. La ricerca storiografica ha ormai da qualche tempo ac­ certato che in nessun altro paese europeo il movimento bracciantile ha avuto una forza e una risonanza politica e sociale tanto ampia e incisiva come in Italia2. Raccontan­ do l’epica dell’Italia contadina dal Risorgimento alla Re­ pubblica, lo storico Aldino Monti ha interpretato le lotte agrarie che percorsero le campagne italiane dagli anni ’80 dell’Ottocento agli anni ’50 del Novecento come elemen­ to dominante della storia del movimento dei lavoratori 2 Cfr. R. Zangheri, Introduzione a Le btte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra 1901-1926, Feltrinelli, Milano 1960

io

Prefazione

italiano e come momento culminante nel processo di for­ mazione dell’identità nazionale3. I braccianti siciliani e la loro quotidiana guerra contro il latifondismo certamente compaiono nel racconto, e non a caso Monti rileva l’effi­ cace ruolo del movimento dei Fasci Siciliani dei Lavora­ tori. Tuttavia, la Sicilia dei braccianti dette un contributo specifico e originale allo sviluppo del movimento dei la­ voratori in Italia e alla formazione dell’identità italiana. La specificità storica è stata ben rappresentata da Mau­ rizio Degl’Innocenti il quale ha evidenziato che nella campagna siciliana «la lotta contro il latifondo era prio­ ritaria, ed aveva una sua originalità nella rivendicazione della affittanza collettiva, dove cooperazione e leghismo coincidevano»4. Per questa via si costituiva nell’Isola un movimento riformista che scendeva in lotta sotto la guida accorta di Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto, Nicco­ lò Alongi5. Siamo agli albori del Novecento e Alongi, Pa­ nepinto e Verro appartenevano a quella generazione che aveva vissuto e si era formata nell’esperienza dei Fasci dei Lavoratori. L’eredità storica del movimento fasciante era così assunta da quel socialismo riformista di campagna che dalle Società Operaie di Mutuo Soccorso si organizza­ va adesso nelle leghe di resistenza. Una specificità antropologica, invece, emerge dram­ maticamente dalle stragi ignorate — e molte delle quali ancora impunite - cui è dedicato questo libro. I fram3 Cfr. A. Monti, Ibraccianti, Il Mulino, Bologna 1998

4 Con

l’affittanza collettiva, una cooperativa di braccianti assumeva collettivamente in affitto una più o meno ampia porzione di terra impegnandosi a pagare il relativo canone al proprietario e sottraendosi così all’intermediazione parassitarla e mafiosa del gabelloto (M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano,

Guida Editori, Napoli 1983, p. 189). 5 Ivi, p. 197

li

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menti di memoria, gli episodi di vita e di lotta fino alla morte, gli avvenimenti storici e politici qui ricostruiti, ri­ portano in vita i caratteri storici e antropologici distintivi del movimento bracciantile siciliano nel contesto del sin­ dacalismo italiano ed europeo. Il sangue versato dai sin­ dacalisti agricoli siciliani trucidati dalla mafia nel secondo dopoguerra è il simbolo di questa specificità, consistente nel fatto epico che il sindacalismo agricolo siciliano, a dif­ ferenza di quello italiano ed europeo, è stato costretto a battersi contemporaneamente su due fronti: contro il pa­ dronato agrario che negava i diritti sociali e contro la ma­ fia che negava i diritti individuali. Al perverso connubio tra latifondismo e mafia, con le sue conseguenze econo­ miche e le sue complicità politiche, il sindacalismo agri­ colo siciliano contrappose le armi morali e politiche del coraggio e della riforma; sfidando, nel tavolo della con­ certazione, l’arroganza conservatrice del padronato e la brutalità armata della mafia che colpiva alle spalle i sinda­ calisti ogni qualvolta essi riuscivano ad alzarsi dal tavolo con una riforma conquistata. È questo il filo rosso che lega la storia del sindacalismo siciliano dal Risorgimento alla Repubblica. E non a ca­ so la mattanza dei sindacalisti sterminati dalla mafia non comincia e termina nel secondo dopoguerra; non a caso Verro, Panepinto e Alongi finirono trucidati in agguati mafiosi prima e dopo la Grande guerra; non a caso, an­ cor prima che fosse proclamato il Regno d’Italia, a San­ ta Margherita Belice era assassinato con tre colpi di fucile sparati nel buio della notte del 3 marzo 1861 il repubbli­ cano e garibaldino Giuseppe Montalbano, che si era bat­ tuto per la suddivisione ai contadini degli ex feudi Aquila, Ficarazzi e Calcara usurpati dalla principessa Giovanna 12

Prefazione

Filangeri. E, infine, non a caso la strage di Portella del­ le Ginestre è preceduta dalla feroce repressione crispina dei Fasci e dagli eccidi di Giarratana (1902), Castelluzzo (1904), Grammichele (1905) dove, sotto Giolitti, peri­ rono decine di poveri braccianti siciliani uomini, donne, bambini. Tirare fuori dal dimenticatoio storico lo sterminio dei sindacalisti agricoli uccisi dalla mafia tra il 1944 e il 1948, dunque, significa innanzitutto integrare la memo­ ria collettiva della Repubblica con la biografia coraggiosa dei braccianti e capilega siciliani e con la loro eccezionale, duplice lotta contro il latifondismo e contro la mafia; con la lunga e sanguinosa vicenda del sindacalismo siciliano e con le sue specifiche connotazioni storiche e antropologi­ che; con quella certa idea del lavoro maturata in Sicilia e fondata sulla riforma democratica del sistema sociale ed economico regionale e nazionale. Ma qui non si tratta soltanto di restituire alla patria dei vivi il ricordo e l’esempio della patria dei morti: da Giu­ seppe Montalbano, eliminato nel 1861, a Carmelo Bat­ taglia, ucciso il 24 marzo 1966. II protagonista di questo libro, infatti, è il Sindacato agricolo siciliano, un pezzo della sua storia, la sua funzione e il suo ruolo nella società italiana. Il periodo qui trattato è particolarmente denso di si­ gnificativi eventi storici e comprende anni interessanti, decisivi: la Liberazione, l’Autonomia siciliana, la Repub­ blica, la Costituzione. Dal punto di vista della storia del sindacalismo, sono gli anni della Cgil unitaria che riuni­ sce i lavoratori socialisti, repubblicani, democristiani, co­ munisti, azionisti e dal 1947 anche quelli socialdemocra­ tici. Sotto il profilo della storia economica emergono due 13

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questioni: quella agraria e l’altra dei Consigli di gestione delle fabbriche. È opportuno esaminare rapidamente tali aspetti, dal punto di vista siciliano. La storiografia ha generalmente marginalizzato il rap­ porto tra la Sicilia e la Resistenza, dimenticando l’appor­ to dei tanti siciliani alla lotta di liberazione: da Camillo Pantaleone, il mitico “Partigiano Orione” della Brigata Osoppo, socialista e poi dirigente regionale di primissi­ mo piano della Uil siciliana, a Pompeo Colajanni, il fa­ moso “Comandante Barbato”, comunista, liberatore di Torino con la X I Divisione Garibaldi. Né va dimentica­ to l’antifascismo siciliano, perseguitato e colpito dalla Dittatura con ben 2.292 anni di confino erogati dai tri­ bunali speciali; commentando la natura di quest’antifa­ scismo siciliano, Sandro Pertini scriverà che esso realizzò «una particolare forma di opposizione alla dittatura: non lotte armate ed eroismi, ma il silenzioso coraggio della speranza»6. È questo silenzioso coraggio della speranza, sopravvis­ suto al regime fascista, che anima la ripresa della vita sin­ dacale in Sicilia dopo lo sbarco anglo-americano. Essa comincia a organizzarsi ancor prima che il 3 settembre 1943 un decreto dell’Amgot (l’Amministra­ zione Militare Alleata) sopprimesse i sindacati e le cor­ porazioni fasciste proclamando la «libertà di organiz­ zazione e di scelta di ciascun gruppo di lavoratori dei loro rappresentanti»7. E prende forma attorno al princi­ pio «Terra e lavoro» deliberato al primo Congresso delle 6 S. Pertini, Prefazione al volume di S. Carbone, L. Grimaldi, Il popolo al confino. La persecuzionefascista in Sicilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma 1989, p. IX 7 Si veda l’articolo non firmato La costituzione della camera del lavoro della provincia di Palermo, in «Sicilia Liberata», 5 settembre 1943

Prefazione

Camere del Lavoro dell’Isola nell’ottobre 1944. Intanto, il 19 ottobre 1944, era stata varata dal ministro dell’Agri­ coltura e delle Foreste Fausto Gullo, coadiuvato nel ruo­ lo di sottosegretario dal democristiano Antonio Segni, la legge n. 279 relativa alla Concessione ai contadini delle ter­ re incolte. Da qui si diparte lo straordinario movimento dell’occupazione delle terre nell’Isola, diretto dalla Cgil unitaria siciliana, in linea con l’epocale lotta braccianti­ le che i socialisti siciliani avevano combattuto nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Altro fatto generalmente poco considerato dalla sto­ riografia è che quelle occupazioni incarnano un’emozione storica particolare: la continuità con le lotte del passato, animata dal mito delle lotte socialiste dei Fasci dei Lavo­ ratori e delle lotte per la terra combattute nel Biennio ros­ so siciliano. Nei ricordi dei braccianti siciliani del secondo dopoguerra era sopravvissuta l’immagine del movimento sindacale socialista e riformista che in Sicilia si era oppo­ sto a Crispi, a Giolitti, al fascismo, pagando per questo un prezzo elevato in termini politici e di vite umane. Agli occhi delle masse contadine siciliane, i socialisti restava­ no gli eredi di “bandiera rossa”, dell’“inno dei lavoratori”, della resistenza allo squadrismo mafioso. Un sentimento mitico che trova una conferma nella realtà storica concre­ ta con i risultati elettorali del Partito Socialista Italiano in Sicilia alle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituen­ te, dove i socialisti addirittura superano notevolmente il Partito Comunista Italiano8. Certamente anche il Partito 8 Nella Sicilia orientale il Psi ebbe 105.373 voti mentre il Pei 62.500; nella Sicilia occidentale il Psi prese 126.140 voti e il Pei 87.354; i separatisti si fermarono complessivamente a 164.627 voti. Si veda F. Fonte, D al separatismo all’autonomia regionale, Isspe, Palermo 2010, p. 138; evidentemente la percezione sentimentale 15

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Comunista Italiano penetrerà nella socializzazione politi­ ca siciliana. Tuttavia il voto dei lavoratori siciliani espri­ meva innanzitutto, di là dalle appartenenze dei partiti, un’adesione alla Cgil unitaria considerata erede legitti­ ma di quella Cgdl unitaria siciliana che, alla vigilia della Marcia su Roma, si era battuta contro la mafia e per la distribuzione della terra «all’insegna del riformismo so­ cialista e del nascente popolarismo cattolico»9. In questo senso andrebbe approfondito anche l’apporto elettorale dei braccianti cattolici che pur associati alla Cgil unitaria votarono per la Democrazia Cristiana, ben rappresenta­ ta all’interno del Sindacato siciliano. Del resto non tutta la Chiesa siciliana era schierata con l’arcigno Cardinale Ruffini, agguerrito conservatore. Monsignor Giuseppe Petralia, per esempio, direttore del settimanale diocesano di Palermo “Voce Cattolica”, sostenendo «la tesi di Pa­ store al congresso del giugno 1947 che difendeva l’unità sindacale»10, assunse ufficialmente una posizione contra­ ria a quella del suo Cardinale che auspicava la fuoriuscita dei lavoratori cristiani dalla Camera del Lavoro e la fon­ dazione di un sindacato confessionale. Anche i lavoratori siciliani che seguiranno Giuseppe Saragat nella scissione di Palazzo Barberini, pur votan­ do per il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, furono parte attiva della Cgil unitaria siciliana e continuarono a riconoscersi in quel socialismo riformista che aveva diret­ e politica della lotta per la terra era indubbiamente più emozionante e mobilitante della percezione della lotta per l’indipendenza 9 G. C. Marino, Storia delLi mafia, Newton Compton, Roma 1997, p. 38 10 F. M. Stabile, La Chiesa nella società siciliana, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta - Roma 1992, p. 279; giova ricordare che Mons. Petralia ruppe il silenzio della Chiesa siciliana sulla strage di Portella delle Ginestre pubblicando un articolo di condanna sul settimanale che dirigeva

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Prefazione

to le lotte dei braccianti e che adesso organizzava l’occu­ pazione dei latifondi. Esaminando i flussi elettorali della socialdemocrazia, infatti, Giovanni Sabbatucci ha dimo­ strato che la scissione ebbe inizialmente un seguito non trascurabile nell’elettorato operaio e contadino11. Se si analizzano le percentuali delle elezioni regionali siciliane del 1947 e del 1951 si nota che socialisti, socialdemocra­ tici e comunisti ottengono complessivamente una percen­ tuale del 34,6% nel ‘47 e del 34,4% nel ‘51 mentre la De ottiene il 20,5% prima e il 31,2% dopo.12 Nella Sici­ lia della feroce eliminazione dei sindacalisti, dunque, l’e­ mozione dei braccianti fu più forte della paura e dimostra la riluttanza dei lavoratori siciliani a trasferire sul piano sindacale le divisioni di carattere politico. Purtroppo la Sinistra politica non fece tesoro di questo dato di fatto storico e ben presto anche l’esperienza della Cgil unitaria sarà travolta da logiche diverse da quelle sindacali, cala­ te dall’alto e originate dalla complicata situazione inter­ nazionale. Tuttavia va evidenziata l’unitarietà delle masse nelle lotte bracciantili dirette da capilega e dirigenti della Cgil unitaria nell’epoca dell’occupazione dei latifondi. Da queste lotte verrà quella riforma agraria del 1950 che «di­ struggendo il latifondo, demolì l’arcaica struttura su cui il ceto sociale della grande proprietà terriera aveva per secoli costruito le proprie fortune parassitane»13. Nella letteratura storica sulla riforma agraria è domi­ nante l’interpretazione della riforma “incompiuta” o “fal­ lita” e certamente, dal punto di vista economico, non si 11 G. Sabbatucci, Il riformismo impossibile. Storie del socialismo italiano, Laterza, Roma - Bari 1991, pp.79-91

12 Cfr. F. Fonte, op. cit., p. 139 13 S. Turone, Storia del Sindacato in Italia, Laterza, Roma - Bari 1992, p. 176 17

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può dire che alla riforma seguì quell’auspicata moderniz­ zazione dell’agricoltura siciliana e nazionale. Sotto il pro­ filo politico, invece, l’avere a un certo punto accantonato quell’idea siciliana di lavoro agricolo fondata sul passag­ gio della conduzione privata del latifondo a quella col­ lettiva, da attuare attraverso la cooperazione, segnò una sconfitta per i partiti politici della Sinistra i quali, in quel medesimo torno di tempo, subirono anche l’archiviazione della riformatrice esperienza dei Consigli di Gestione del­ le fabbriche. Dal punto di vista storico-sindacale, però, la riforma provocò quella radicale trasformazione della società con­ tadina siciliana rappresentata dalla fine del blocco agrario che aveva fino allora condizionato la vita collettiva dell’I­ sola. I braccianti siciliani, sotto la guida della Cgil uni­ taria e delle sue componenti socialiste, comuniste, azioniste, repubblicane, socialdemocratiche e cattoliche, tra il 1944 e il 1948, seppero affrontare e vincere la sfida cui furono chiamati. In conseguenza la società siciliana, e con essa quella nazionale, è potuta andare avanti. Significati­ ve, in proposito, le considerazioni di Pierluigi Bertinelli, storico segretario generale della Uisba - Uil, svolte qual­ che anno fa in un seminario nazionale della Fondazione Argentina Altobelli. Dopo avere ricordato commosso di avere vissuto il momento in cui l’allora Ministro socialista del Lavoro Giacomo Brodolini annunciava, nell’aula del Municipio siciliano di Avola, all’indomani dell’ennesima strage di braccianti, il varo dello Statuto dei Lavoratori, Bertinelli affermava di rivedere in quel fatto la storia siciliana come storia italiana, il sacrificio della lotta riformista, l’ennesi­ ma grande trasformazione del mondo del lavoro italiano 18

P refazione

generato dalla Sicilia, il significato storico e politico del sacrificio di Rizzotto e degli altri. Aggiunse che le lotte contadine siciliane andavano proiettate nella prospettiva di una grande riforma democratica della società italiana; una riforma sociale, politica, economica, intellettuale alla quale i contadini siciliani avevano dato una potente spal­ lata con le loro rivolte. Concluse che al termine di quel ciclo di lotte il latifondo era stato definitivamente annien­ tato, nonostante le stragi mafiose14. La lotta e la morte dei sindacalisti siciliani sterminati dalla mafia non furono, dunque, vane e ancora oggi essi “vivono” (per parafrasare Piero Calamandrei) in quell’ar­ ticolo 44 della Costituzione italiana. Michelangelo Ingrassia Coordinatore del Comitato Scientifico della Fondazione Argentina Altobelli

14 II testo della conferenza è ancora inedito; chi scrive ne conserva gelosamente una

Premessa

Con l’iniziativa promossa dalla Fondazione “Argentina Altobelli”, nell’ambito di una convenzione sottoscritta con la Fondazione di studi storici “F. Turati”, si vuole ri­ cordare una delle pagine più tragiche e più buie della sto­ ria d’Italia, e cioè l’uccisione di decine di quadri e mili­ tanti sindacali in Sicilia dal 1944 al 1948. L’articolazione del presente volume prevede un saggio affidato a Pierluigi Basile sul lungo e difficile dopoguerra siciliano dopo la caduta del fascismo: dalla amministra­ zione alleata alla ricostruzione di un tessuto democratico politico e sindacale, dal separatismo all’autonomia regio­ nale, dalla insorgenza contadina alla esplosione della cri­ minalità mafiosa e del banditismo, sullo sfondo dei gran­ di mutamenti su scala internazionale e nazionale segnati dalla guerra fredda e dalla fine prima dei governi ciellenistici, poi del Tripartito con il confinamento all’opposizio­ ne delle sinistre comunista e socialista, fino allo scontro frontale del 18 aprile 1948, e alle ripercussioni all’interno del movimento sindacale. Un secondo saggio, affidato a Diego Gavini, è sui lavo­ ri della commissione parlamentare sulla mafia. Nella sua 21

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laboriosa gestazione, iniziata nel 1963 e protrattasi per dodici anni, i lavori prodotti dalla Commissione parla­ mentare, supportati da elaborati anche di notevole inte­ resse e da una ricca documentazione di varia provenienza, costituiscono pur sempre l’espressione più significativa della presa di coscienza da parte della classe dirigente del fenomeno mafioso nella sua evoluzione. Vi si evidenzia, tra l’altro, lo scarso rilievo dato alla stagione dei sindacali­ sti uccisi dalla mafia. In entrambi i saggi, con l’accentuata specificità regio­ nale dei fatti qui considerati, se ne conferma anche l’in­ cidenza sul contesto nazionale. Oggi il problema della criminalità organizzata presenta caratteri assai distanti da quelli tipici della Sicilia del feudo, ma il controllo del ter­ ritorio continua a costituirne un requisito fondamentale, confrontandosi e interagendo con i gruppi di interesse esistenti. Da molti anni il contrasto da parte delle istituzioni è assai più efficace rispetto all’immediato dopoguerra quan­ do l’azione repressiva apparve a dir poco modesta, come attestò l’impunità per mandanti e assassini che accompa­ gnò la serie di omicidi e di intimidazioni a danno di qua­ dri e militanti sindacali, ma il rapporto tra criminalità, potere economico, politica e istituzioni drammaticamen­ te emergente in quegli anni, appare un problema aperto, su cui ancora oggi i pareri sono divisi. La struttura associativa, politica e sindacale, se e quan­ do indirizzata aH’allargamento degli spazi di cittadinanza, ha costituito da sempre un ostacolo, tra i maggiori, al fe­ nomeno mafioso. Alla fine del conflitto mondiale, la tra­ ma associativa si andò dispiegando sul territorio, spesso fragile, e dunque particolarmente esposta, ma tale da su­ 22

P rem e ssa

scitare speranze e, con esse, da mobilitare le anime. Per così dire, la società siciliana, prevalentemente rurale, sem­ brava conseguire una sua “autonomia”, che si accompa­ gnava a un anelito di riscatto da una condizione spesso di atavica miseria: l’occupazione e la distribuzione delle terre incolte e mal coltivate, tradizionale rivendicazione socia­ lista a partire dalla fine dell’800, e poi sempre ripresenta­ tasi all’indomani dei conflitti mondiali, nella pur debole prospettiva economica, rivestiva un alto valore simbolico, oltre a suscitare neH’immediato attese ineludibili di occu­ pazione e di elevazione sociale. Con la successiva riforma agraria (1950), sotto la pres­ sione del movimento contadino, fu il tramonto del feu­ do. E questo segnò una svolta di portata storica. In Sicilia 500.000 ettari di terreno passarono di mano, senza tut­ tavia innervare un’economia rurale valida. L’esodo dalle campagne negli anni del miracolo economico fu travol­ gente. Sul piano politico, gli esiti del 18 aprile 1948 sta­ bilizzarono nuovi equilibri, sancendo la supremazia della Democrazia cristiana, a Roma e al governo dell’Isola. Tutto ciò non avvenne in maniera indolore. È diffici­ le ipotizzare che dietro le morti dei sindacalisti fosse ope­ rante un’unica mente, e tantomeno un piano organizza­ to, ma resta significativo il fatto che esse si verificarono con più intensità in prossimità delle elezioni. Numerosi furono a cadere i militanti comunisti, o comunque quelli ad essi assimilati sotto la spregiativa tipologia del socialcomunismo, in uso perfino sulla stampa cosiddetta di opinione. In ogni caso, è da registrare la sostanziale coin­ cidenza dell’uccisione di tre dirigenti socialisti —Li Puma, Cangialosi e Rizzotto —nell’imminenza delle elezioni del 1948. 23

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Nel complesso lo stillicidio continuo delle uccisioni di quadri e militanti sindacali nella Sicilia del dopoguer­ ra fu impressionante, e ancor oggi non può non suscitare un moto di ribellione nell’animo del cittadino, così come non può suscitarlo il lungo elenco d’impunità per i delitti commessi. Abbiamo dunque ritenuto opportuno affidare a un pubblicista competente come Dino Paternostro, il compito, tutt’altro che facile, di ricostruirne le circostan­ ze, al di là dall’anonimato delle fredde statistiche, e di re­ cuperarne la memoria, in vero in troppi casi labile. Al di là delle ambiguità, sempre possibili, e perfino di qualche concessione retorica con cui i fatti furono raccon­ tati, che pure ci è ben chiara, è indubbio che nel comples­ so la vicenda dei quadri e dei militanti sindacali che nelle campagne siciliane lottarono per l’emancipazione delle proprie famiglie e per quelle dei compagni pagando ciò con la vita, rappresenti una delle pagine più alte della co­ scienza civile nella storia d’Italia, per giunta vissuta in un ambiente spesso duro nell’indifferenza o addirittura osti­ le. Restituire dunque voce a quei caduti, sia pure in modo ancora troppo lacunoso, ci è parso non solo un doveroso omaggio, perché nell’oblio non si perpetui l’oltraggio di cui furono vittime, ma anche un richiamo e un ammo­ nimento, indirizzato soprattutto alle giovani generazioni, e non solo, per la tutela e il consolidamento del bene co­ mune. Si può e si deve. Nelle finalità del presente volume non è certo la riscrit­ tura della storia della mafia (e della Sicilia) tra il 1944 e il 1948, ma nella seconda parte del volume abbiamo voluto ugualmente presentare una sezione documentaria, frutto parziale di una attenta e più ampia ricognizione presso enti pubblici e privati, tra i quali ci pare doveroso ricorda­ 24

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re l’Archivio centrale di Stato, grazie alla competenza del­ la dottoressa Caterina Arfé, l’Archivio di Stato di Palermo e di Trapani, l’Archivio della CGIL e quello della Camera dei deputati. A tutti vanno i nostri ringraziamenti. Maurizio Degl’Innocenti Presidente della Fondazione di studi storici Filippo Turati

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La Sicilia negli “anni difficili” : un lungo dopoguerra tra lotta politica, conflitti sociali e risorgenza criminale (1943-48)* di Pierluigi Basile

1 . L’A L B A D I U N A N U O V A S T A G I O N E P O L I T I C A : L IB E R A Z IO N E , S E P A R A T ISM O E A U T O N O M IA R E G IO N A L E

Tra il 1943 e il 1948 l’isola visse un periodo denso di eventi, carico di emozioni e grandi rivolgimenti sociali, politici ed economici che in parte anticiparono il corso della storia nazionale, per altri versi tracciarono percorsi propri. «Erano anni difficili»: così iniziava una delle testi­ monianze su quella fase storica raccolta dalla giornalista Giuliana Saladino e pubblicata in un noto saggio di “me­ moria collettiva”15. E «Anni difficili» era pure il titolo di un fortunato film di Luigi Zampa, ambientato e realizza­ to proprio nella Sicilia del 1947. Come il presente saggio proverà a dimostrare si trattò senza alcun dubbio di una (*) Questo saggio è dedicato ad Antonella Azoti, che nel 1946 perse il padre, il sindacalista Nicolò ucciso dalla mafia a Baucina (Pa), ma non ha mai perso la voglia di lottare e la speranza di una Sicilia migliore, e per questo da diversi anni dedica ogni sua energia per raccontare ai tanti giovani che incontra la sua importante storia.

15 G. Saladino, Terra di rapina, Sellerio, Palermo, 2001, p. 68. La prima edizione del libro però è uscita nel 1977 a Torino per l’editore Einaudi. 27

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stagione difficile ma anche decisiva per il futuro della Si­ cilia e di tutta la Nazione. Tutto ebbe inizio il 10 luglio 1943, giorno dello sbarco degli anglo-americani sulle coste dell’isola. Cominciava così la cosiddetta “operazione Husky”, uno dei momentichiave del secondo conflitto mondiale. La battaglia per la Sicilia si sarebbe conclusa più di un mese dopo (17 agosto) quando, vinta la strenue resistenza opposta dal­ le truppe italiane e da quelle tedesche16, questo estremo lembo d’Italia veniva definitivamente conquistato dall’e­ sercito Alleato ed entrava in un lungo dopoguerra, men­ tre nel resto del paese ancora si combatteva. Al di là degli aspetti militari il successo dell’operazio­ ne, coronato da una lenta ma costante avanzata degli oc­ cupanti che risalivano l’isola divisi in due tronconi (gli americani sbarcati a occidente e gli inglesi invece nella zona orientale) avvenne mentre si sgretolavano le basi di massa del fascismo e il consenso verso il regime veniva minato dalle difficili condizioni di vita dei civili, colpiti da fame e bombardamenti, e da una crescente sfiducia verso gli esiti del conflitto17. Una autorevole testimonian­ za di questa “crisi morale” si trova nella relazione inviata dal prefetto di Palermo al Ministero dell’Interno l’8 mar­ zo 1943. Qui il rappresentante del governo manifestava a 16 Sugli aspetti più propriamente militari vedi A. Santoni, Le operazioni in Sicilia e in Calabria (luglio-settembre 1943), a cura del ministero della Difesa, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma, 1983. Sono comunque numerosi i testi dedicati all’operazione Husky. Tra questi sicuramente vanno ricordati R. Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli alleati in Italia, 1943-1944 (trad. it. di C. Lazzari), Mondadori, Milano, 2008; C. D ’Este, 1943. Lo sbarco in Sicilia, Mondadori, Milano, 1990. 17 M. Patti, La Sicilia e gli alleati. Tra occupazione e Liberazione, Donzelli, Roma, 2013, pp. 65-66.

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Roma, senza censure e filtri, la sua più viva apprensione per quanto stava avvenendo sotto i suoi occhi: Lo stato d’anim o della popolazione, a seguito degli ul­ timi bom bardam enti, è molto scosso; e qualche grave com m ento contro i Capi dello Stato è stato fatto. In Via Alloro la sera dell’8 marzo vi è stata una sem i­ som m ossa di donne contro le Autorità. Frasi piuttosto offensive sono state pronunciate. Quella calma, più volte prospettata dalle autorità locali, non è esistita m a piuttosto si è notato un senso di aperta ri­ bellione. La popolazione sopporterebbe con più calma le incur­ sioni se non fosse esasperata dalla deficienza degli ap­ provvigionamenti. I servizi lasciano m olto a desiderare. [...] La popolazione nota tutto quanto sopra accennato, protesta altamente contro le autorità locali per questo così deplorevole disinteresse che fomenta il m alanim o contro il Regime. [...] II pubblico di ogni ceto dim ostra ormai stanchezza e sfiducia in m odo sempre più palese.18

Se questo era lo stato d’animo degli abitanti di una grande città come Palermo, sempre più spesso funestata dai bombardamenti aerei nel corso del 194319, non mol­ 18 Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASPA), Prefettura di Palermo Gabinetto (d’ora in poi PG), 1941-45, b. 652, f. “Situazione politica ed economica della provincia”, Relazione del prefetto di Palermo al Ministero dell’Interno sullo stato della popolazione nella città di Palermo, 8 marzo 1943. 19 Sui bombardamenti nel capoluogo si veda pure il volume Memoria del 9 maggio 1943, che contiene il catalogo della mostra fotografica e documentaria delle distruzioni prodotte a Palermo dai bombardamenti del 1943 (a cura di Adriana

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to diverse erano le condizioni e il morale nelle campagne. Anche qui, man mano che il conflitto procedeva, le già misere condizioni del popolo subivano un continuo peg­ gioramento. E per cogliere, nel pieno dell’operazione di invasione dell’isola, il morale di uno dei tanti contadini possiamo affidarci al racconto rievocativo di un braccian­ te proveniente da un paesino della provincia di Ragusa, che con la sua autobiografia, fatta di sguardi semplici e crude parole, ha fissato anni dopo la memoria di quegli straordinari avvenimenti. Così ad esempio l’uomo ricor­ dava la fuga dei soldati italiani («tutte l’italiane che c’erino lasciaro il focile»), l’ostilità dei tedeschi, sempre più astiosi verso la popolazione civile («Li tedesche avevino la popolazione contraria»); infine rievocava l’attesa degli americani, che in un paradossale rovesciamento delle par­ ti da invasori erano ben presto diventati liberatori. Dice infatti l’autore: tanto era il piacere che trasevino li americane che nean­ che sentevino paura. Pare che li americane non botavino bom be m a butavino celate, di quanto era stubita la popolazione in quei ciorne. [...] Recoddo che era il 20 luglio del 1943, che fu l’ultima ciornata che i tedesche erino in quella zona. L’italiane erimo tutte sicuro che venire l’amiricane eri lo stesso che venire il Signore colla M adonna affare arrechire a tutte. E quinte, erino tutti sodisfatte che perdim m o la querra. Così, i tedesche ebiro la peggio.20

Chirco) corredato da saggi e testimonianze, pubblicato da Edizioni Salvare Palermo, Palermo, 2008. 20 V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino, 2008. Rabito (1899-1981) nato a Chiaramonte Gulfi, piccolo paese in provincia di Ragusa, prima bracciante poi 30

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Lo spettacolo piuttosto frequente di soldati americani che a stento si fanno largo tra ali di folla in giubilo nelle polverose strade dei centri siciliani era la manifestazione più vistosa della gioia incontenibile per la fine dei bom­ bardamenti e la cessazione delle ostilità. Ma i motivi di questa calorosa accoglienza sono legati anche alla for­ te presa del “mito americano” tra i contadini, laddove il Nuovo Mondo rappresentava per tanti di loro - come magistralmente raccontato da Carlo Levi nel 1945 in Cri­ sto si è fermato a Eboli - una sorta di paradiso e di terra promessa21. Questa diffusa suggestione veniva alimentata da un ponte immaginario che legava le centinaia di mi­ gliaia di siciliani emigrati sin dall’Ottocento ai loro paesi natali. Tali legami, mai recisi e sempre custoditi nel tem­ po, tornavano a giocare adesso un ruolo importantissimo: infatti l’esercito americano era formato da moltissimi figli di immigrati, i quali tornavano da liberatori nelle terre la­ sciate dai padri e dai nonni e rappresentavano, agli occhi minatore in Germania e infine ritornato in Sicilia, ha partecipato sia alla Prima che alla Seconda guerra mondiale; egli scrisse dal 1968 al 1975 la sua autobiografia, che ha vinto il “Premio Pieve - Banca Toscana” nel 2000. I brani citati sono tratti dal capitolo X V (Hannu trasuto li amiricane), rispettivamente dalle pp. 284-286. 21 Si rileggano in proposito le parole di Levi, riferite ai contadini della Basilicata che ebbe modo di conoscere ed osservare direttamente grazie alla sua esperienza al confino: «il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini, una doppia natura. E una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore, e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno. Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una. E lo è, nel solo modo possibile per loro, un modo mitologico. Per la sua doppia natura, come luogo di lavoro essa è indifferente [...]; come paradiso, Gerusalemme celeste, oh! Allora, quella non si può toccare, su può soltanto contemplarla, di là dal mare, senza mescolarvisi» (Id., Cristo si èfermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1 9 9 8 ,1 ed. 1945, p. 108). 31

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della popolazione affamata che otteneva da loro cibo e al­ tre forme di assistenza, come la prova del riscatto possibi­ le e del sogno divenuto realtà22. Sia durante il corso delle operazioni militari in Sicilia che subito dopo la liberazione avvenivano svolte impor­ tanti, che ebbero un enorme impatto sulle vicende na­ zionali e suirimmaginario collettivo. Più ancora del 25 luglio, che con l’arresto di Mussolini segnava la fine del Ventennio fascista, fu l’8 settembre a rappresentare uno spartiacque decisivo, colto chiaramente dalla gente. La notizia della firma dell’armistizio fece rapidamente il giro dell’isola, seminando tra tutti la speranza di una prossima fine del conflitto. Ecco ad esempio cosa appuntava nella sua pagina di diario l’arciprete di San Giuseppe Jato, pae­ se a pochi chilometri da Palermo: 8 settembre Nel giorno della festa della Natività di M aria SS. - alle ore 20 - giunge attraverso la radio la notizia deirarm istizio concluso il tre settembre tra l'Italia e le Nazioni Unite. Lo scampanio festoso e prolungato delle cam pa­ ne ne dà l’annunzio a tutto il popolo che si riversa alla Chiesa Piccola per ringraziare la Vergine SS. della Prov­ videnza che tanto visibilmente ha protetto il nostro pa­ ese e i nostri soldati lontani.

9 settembre Tutto il giorno è consacrato al ringraziamento per l’ar­ mistizio compiuto. Alle ore 9.30, si trasporta processio-

22 A. Crisantino, Breve storia della Sicilia. Le radici antiche dei problemi di oggi, Di Girolamo, Trapani, 2012 , p. 227 32

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nalmente il quadro della M adonna alla Madrice, dove alle 10.30 viene celebrata la messa solenne di ringrazia­ mento alla presenza di tutte le autorità cittadine e del Tenente Americano Pasquale Fiorella. Al termine della messa si canta il Te D eum di ringra­ ziamento e si impartisce airim m ensa folla che gremisce letteralmente il tempio, la benedizione solenne del SS. Sacramento. [...] C on la benedizione solenne in Chiesa ha termine la memorabile giornata che ha visto il prim o annuncio della pacificazione della Patria, nella preghiera e nella speranza che la Vergine SS. conduca - al più presto a com pim ento l’opera intrapresa nel giorno della Sua N atività23.

Come emerge nitidamente in questo breve resoconto bastava un timido segnale di pacificazione per scatenare l’euforia popolare. Giunti al quarto anno di guerra le sof­ ferenze legate agli stenti e le macerie, unite all’ansia del­ le famiglie per i tanti soldati sparsi nei più remoti fronti, erano motivi più che sufficienti per cercare un filo di luce al fondo di un orizzonte che ancora appariva buio e im­ perscrutabile. Il 1943 segnava dunque una cesura importante, non soltanto per la storia siciliana quanto per il corso degli eventi nazionali e per gli stessi esiti del conflitto. L’aspetto che va certamente segnalato —come fa la studiosa Mano23 La nota è tratta dalla Cronistoria della Parrocchia del SS. Redentore in San Giuseppe Jato , voi. I (ottobre 1941 -dicembre 1961) scritta dal sacerdote Antonino Cassata (1918-1993) e oggi conservata presso l’Archivio storico dell’Arcipretura di San Giuseppe Jato. Per avermi consentito la consultazione di tale prezioso documento debbo ringraziare l’arciprete don Filippo Lupo e il dott. Roberto Cajola. 33

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eia Patti - è che lo sbarco consentì alla Sicilia di vivere un dopoguerra «anticipato»: Il dopoguerra della Sicilia, occupata prima della firma dell’armistizio, è in qualche misura un dopoguerra «an­ ticipato», che ci permette di osservare prima che altrove dinamiche, relazioni, vissuti che saranno comuni alla storia del Sud liberato prima della Liberazione. L’isola fu infatti il primo pezzo d’Italia - ma anche d ’Europa - conquistato, occupato e amministrato dagli angloamericani; fu il prim o territorio italiano occupato a tornare airamm inistrazione del Regno del Sud, nel feb­ braio ’44. Per queste ragioni, essa rappresentò per gli alleati il «laboratorio» in cui sperimentare l’operatività di politiche d ’occupazione da estendere a tutti i territo­ ri occupati in Europa, pianificate prim a dell’invasione e via via elaborate nel corso dell’occupazione stessa cer­ cando di conciliare, perlomeno idealmente, il principio dell’autodeterminazione dei popoli con le necessità del controllo militare24.

All’indomani della liberazione e fino al febbraio 1944 la Sicilia finì sotto il controllo delPAllied Military Go­ vernment of Occupied Territory (Amgot), dipendente dal 24 M. Patti, La Sicilia e gli alleati cit., pp. 5-6. Sul 1943 si deve segnalare pure l’importante e recente convegno su Lo sbarco in Sicilia e il mondo nuovo, tenutosi il 28 e 29 novembre 2013 a Palermo: la svolta del ’43 in Sicilia veniva inquadrata nella dimensione mediterranea ed europea del conflitto, mentre la guerra nell'isola veniva vista nei suoi diversi aspetti (memoria collettiva, bombardamenti alleati, violenze tedesche). Invece sull’“‘altro dopoguerra” (come lo definì per la prima volta E. Forcella nel contributo inserito nel volume M. Occhipinti, Una donna di Ragusa, Feltrinelli, Milano, 1976) vissuto dalle regioni del Mezzogiorno si veda L'altro dopoguerra. Roma e il Sud, 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Franco Angeli, Milano, 1985. 34

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quartier generale alleato del Mediterraneo guidato dal ge­ nerale inglese Alexander, che in qualità di comandante delle forze di occupazione, era il governatore militare del territorio occupato. Sottoposto al governatore era il ca­ po dell’amministrazione, maggiore generale lord Rennell Rodd, coadiuvato da due ufficiali, il commodoro C.E. Benson, capo degli affari civili della Ottava armata britan­ nica, e il colonnello Charles Poletti. Quest’ultimo, capo de­ gli affari civili della Settima armata americana, sfruttando la sua abilità politica, insieme alla sua “italianità” e alla fede antifascista, diverrà presto la figura chiave della struttura amministrativa alleata: se da luglio a settembre infatti am­ ministrò la parte occidentale attorno al capoluogo Palermo, mostrando grande attivismo, dal 24 ottobre al 10 febbraio, ovvero quando l’isola diveniva la Region I del Governo mi­ litare alleato, in qualità di governatore passava ad estendere la sua zona di influenza su tutta la Sicilia25. Compiti principali dell’Amgot erano garantire la sicu­ rezza nelle retrovie, per evitare che le truppe combattenti fossero coinvolte in problemi amministrativi e di polizia, far rispettare la legge e mantenere l’ordine tra la popola­ zione civile, infine ristabilire condizioni di vita accettabi­ li. Il controllo delle funzioni amministrative era addato a sei divisioni speciali dirette da altrettanti ufficiali alleiti (legale, finanziaria, annonaria, sanitaria, di pubblica sicu­ rezza, proprietà del nemico, alle quali si aggiunsero istru­ zione e tutela dei monumenti)26. I Civil Affairs Officers 25 Sul cursus di Charles Poletti e in particolare sulla carriera neH’amministrazione alleata in Italia si veda M. Patti, La Sicilia egli Alleati cit., pp. 93-105. 26 R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50% in «Storia d’Italia. Le Regioni daH’lJnità a oggi», La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino, 1987, pp. 485-486. Per avere una panoramica più completa e ampia 35

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(Cao) assunsero le funzioni di organizzatori e controllori delle amministrazioni locali, subito dopo l’entrata delle truppe combattenti nei paesi loro assegnati e procedettero alla nomina, più spesso alla riconferma, di amministratori provinciali e comunali. Questa fase, molto caotica e delicata, si apriva all’in­ segna dell’incertezza e del difficile rapporto tra comuni­ tà locali e forze occupanti. La ricerca della stabilità, nei grandi come nei piccoli centri, si rivelò così ben presto un obiettivo difficile da conseguire. E come è facile supporre in un tale clima occuparsi simultaneamente di epurazio­ ni del personale coinvolto con il passato regime, selezio­ nare gli individui da destinare agli enti locali o agli enti pubblici, operare una ristrutturazione complessiva della macchina amministrativa statale, diventava una missione complicatissima. A questo bisognava aggiungere un altro aspetto im­ portante, ovvero l’assenza di una uniformità di vedute tra gli alti comandi alleati sulle modalità e le prospettive da perseguire. Da una parte infatti gli inglesi optavano per un self-government che mirava a mantenere ogni funzio­ nario al proprio posto e governare attraverso l’apparato esistente, limitandosi a controllare e consigliare secondo il modello de\YIndirect Rule, già sperimentato nelle colo­ nie dell’impero britannico; dall’altra gli americani, i quali puntavano ad instaurare un rapporto diretto tra le forze di occupazione e la popolazione, rifiutando la mediazio­ ne politica e sostenendo invece la necessità di una larga epurazione seguita da un massiccio intervento di persosull'occupazione alleata in Italia si rimanda al classico contributo D.W. Ellwood,

L'alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia, 1943-1946 (trad. it. di A. Tasca), Feltrinelli, Milano, 1977. 36

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naie militare, specie nei più bassi ranghi della gerarchia27. Un segno tangibile della prevalenza del modello proposto dagli inglesi sarebbe stata nel novembre ‘43 l’istituzione della Commissione alleata di controllo (Acc), un com­ plesso organismo burocratico-militare che, secondo quan­ to stabilito nell’“armistizio lungo” siglato il 29 settembre, aveva il compito di controllare e consigliare l’amministra­ zione italiana nei territori in cui erano cessati i combatti­ menti. In realtà la scelta degli alleati sembrava già chiara sin dall’insediamento dei Cao, i cui responsabili si resero tuttavia subito conto di quanto fosse complicato operare selezionando all’interno della società locale gli interlocu­ tori più adatti per affidare loro le redini del potere. Per centrare gli obiettivi essenziali dei comandi alleati biso­ gnava scegliere, tra quello che le mille realtà locali offriva­ no, e individuare coloro che, almeno all’apparenza, fosse­ ro dotati di una adeguata auctoritas, risorsa essenziale per gestire ordine pubblico e approvvigionamenti evitando conflitti e tensioni. Nello stesso tempo i “candidati” ide­ ali avrebbero dovuto mostrare patente di sincero antifa­ scismo, per segnare una reale svolta rispetto ai tempi e gli uomini appena vinti. Al primo posto, tra i gruppi e ceti sociali che agli occhi delle forze occupanti parvero possedere tali requisiti, vi era l’aristocrazia terriera, vista specie dagli inglesi come la saniorpars, ovvero la storica depositaria del governo dell’i­ sola. Difficilmente però si sarebbe potuto vedere in essa un gruppo di antifascisti, se si pensa - come pure sottoli­ nea Salvatore Lupo - che gli agrari «avevano usufruito del regime per riconquistare il potere perduto nel dopoguerra 27 R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50) cit., pp. 487-490. 37

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precedente, nonché in qualche caso per sottrarsi a respon­ sabilità penali nei processi contro la mafia»28. Nella particolare congiuntura storica apertasi nel 1943 le élites agrarie siciliane, come sempre interessate a gio­ care un importante ruolo politico nella nuova epoca che cominciava, furono tra le prime a codificare un proprio “manifesto”. Nell’opuscolo del conte Lucio Tasca (Elogio del latifondo siciliano2*’) infatti non si trova soltanto un esaltazione quasi fuori dal tempo della storia, sospesa tra il romanticismo nostalgico e la mitologia arcadica, di un universo e un sistema che sapeva ancora di antico regime e feudalità. Qui infatti si può leggere in controluce l’e­ spressione di una revanche latifondista che, anche appro­ fittando della nuova centralità assegnata alle estensioni ce­ realicole nella situazione dominata dal conflitto, chiedeva maggiore spazio e riconoscimento. Questi temi e accenti, ripresi dalla tradizionale vulga­ ta sicilianista30, avevano già trovato una loro traduzione politica nell’aspirazione ad una Sicilia libera e indipen­ dente per opera di personaggi come Andrea Finocchiaro Aprile, un ex deputato nittiano, che a pochi giorni dallo sbarco aveva costituito a Palermo un Comitato per l’indi­ pendenza della Sicilia (da cui sarebbe nato il “Movimento per l’indipendenza siciliana”), insieme ad altri esponenti del ceto politico prefascista e appunto ad aristocratici co­

28 S. Lupo, Quando la mafia trovò l'America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008 , Einaudi, Torino, 2008, p. 145.

29 L. Tasca Bordonaro, Elogio del latifondo siciliano, Flaccovio, Palermo, 1944. Tasca data la pubblicazione dell’opuscolo al 1941 ; in realtà però non esistono copie precedenti a quella del 1944.

30 Sulle radici culturali e le motivazioni storiche del sicilianismo rimando alFormai classico studio G .C . Marino, IJideologia sicilianista, Palermo, 1972. 38

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me il Tasca31. Tale soluzione infatti consentiva agli agrari, quando il paese era ancora spaccato in due dal conflitto, di marcare la loro (come detto solo presunta) distanza dal fascismo, presentato come un male importato dal “conti­ nente”. Nello stesso tempo presentando le proprie rivendi­ cazioni politico-economiche nelle vesti di un progetto complessivo di rivincita e di rinascita rispetto alle stori­ che ingiustizie subite dall’isola, gli agrari/separatisti sep­ pero sfruttare «il disorientamento della società siciliana in un’eccezionale caduta del sistema politico e un insieme di fattori “esterni” favorevoli»32, per esercitare una diffusa egemonia culturale: tale messaggio infatti mostrò di ave­ re una buona presa sull’opinione pubblica, specie nelle prime fasi del post-liberazione e tra alcune categorie (ce­ ti medi e studenti in città, piccola borghesia e proprietari nelle campagne33), e consentì di cementare la società lo­ cale idealmente in un solo “fronte patriottico”, dietro il quale i grandi proprietari, gruppi conservatori e notabila­ to prefascista cercarono riparo dalle spinte progressive che il “vento del Nord” rischiava di scatenare anche sull’isola. La carta del separatismo veniva lanciata sul tavolo de­ 31 Sul separatismo siciliano si vedano S. Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, G. Denaro Editore, Palermo, 1967; E Paterno Castello, Il movimento per l ’indipendenza della Sicilia. Memorie del duca di Careaci, Flaccovio, Palermo, 1977; S. Nicolosi, Sicilia contro Italia. Il separatismo siciliano, Tringale Editore, Catania, 1981; M. Cimino, Un inchiesta sul separatismo siciliano, Istituto Gramsci siciliano, Luxografica, Palermo, 1988; G .C . Marino, Storia del separatismo siciliano. 1943-1947', Editori Riuniti, Roma, 1993. 32 G .C . Marino, Storia del separatismo siciliano. 1943-1947c it., p. 27.

33 Per una analisi delle caratteristiche sociali dell’eterogenea galassia separatista e un quadro complessivo sulla sua dirigenza maggiore e i suoi quadri periferici, si veda il saggio di ricerca di A. Corselli e L. De Nicola Curto, Indipendentismo e indipendentisti nella Sicilia del dopoguerra, Vittorietti, Palermo, 1984. 39

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gli Alleati, sottoforma di un memorandum indirizzato al generale Alexander, lo stesso giorno in cui avvenne l’en­ trata a Palermo della Settima Armata americana. Qui si esponeva l’aspirazione della Sicilia ad essere elevata a Sta­ to sovrano e indipendente a regime repubblicano, con­ fidando molto sul consenso di Inghilterra e Stati Uniti. Stesso argomento venne poco tempo dopo riproposto al generale Rennell. In entrambi i casi però nella risposta si evidenziava il divieto assoluto di svolgere attività politica e ufficialmente non si offriva alcuno spazio di manovra al­ le mene indipendentiste. Non mancarono tuttavia e furono piuttosto vistose, le contraddizioni nel comportamento dei vertici delle forze armate anglo-americane, tanto da alimentare sin da allora la teoria di un tacito accordo sottobanco tra Alleati e se­ paratisti. Così ad esempio nonostante lo stesso conte Tasca, tra i primi e più accaniti sostenitori del separatismo, fosse stato diffidato da Rennell in persona dallo svolgere pro­ paganda, nel settembre questi veniva scelto da Charles Poletti come primo sindaco di Palermo, a capo di una giunta composta da rappresentanti di diverse correnti an­ tifasciste, ma con una prevalenza degli indipendentisti34. E se si osservava anche il resto dei paesi e delle provin­ ce la scelta operata nel capoluogo non sembrava un caso isolato: come infatti fece notare pure il capitano dell’intelligence militare americana W.E. Scotten, in un famo­ so rapporto del 23 ottobre 1943, il dato che appariva rilevante agli occhi dei siciliani era che l’Amgot si fosse circondata di amici e consiglieri separatisti e avesse «as34 R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50) cit., p. 505. 40

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segnato cariche pubbliche o a veri e propri separatisti o a simpatizzanti»35. L’ambiguo atteggiamento degli Alleati sembrò nei pri­ mi mesi dare speranza al nascente separatismo. L’impres­ sione poi, per quanto effimera, che attorno alla scelta di una Sicilia libera si fosse raccolto un larghissimo fronte, capace di infrangere in un sol colpo le barriere sociali e quelle ideologiche, dimostrò nell’estate del ‘43 la capaci­ tà attrattiva del messaggio di Finocchiaro Aprile. Questi, unendo grande abilità oratoria e capacità di convogliare insieme confuse spinte popolari e oscure manovre reazio­ narie, seppe raccogliere e rappresentare un coacervo di umori, risentimenti e rivendicazioni, dove confluivano gli effetti negativi della guerra e le pesanti incertezze sul fu­ turo, e riuscì a proiettarli nell’orizzonte di un aggressivo “localismo” che offriva a tutti protezione e sicurezza. Col passare della prima ondata emotiva/istintiva di adesione quasi di massa al separatismo e la rimozione dei divieti agli altri partiti antifascisti di svolgere liberamen­ te attività politica —sancito dall’ordine n. 17 firmato da Poletti il 10 gennaio 194436 - si sarebbe via via ridimen­ 35 Memorandum del capitano W.E. Scotten, The Problem of Mafia in Sicily, 29 ottobre 1943, Foreign Office 371/37327, citato ora in appendice a R. Mangiameli, Le allegorie del buongoverno. Sui rapporti tra mafia e americani in Sicilia nel 1943 , «Annali ’80 del Dipartimento di Scienze storiche della Facoltà di Scienze politiche di Catania», 1980. 36 II testo dell’ordine (una copia si trova conservata in ASPA, PG, 1941-45, b. 652, f. “Situazione politica ed economica della provincia”) recitava: art. 1 II popolo italiano in Sicilia è da ora in avanti autorizzato a partecipare ad attività politiche che non siano fasciste, purché esse non conducano a disordini ed a manifestazioni di piazza, che turbino l’ordine pubblico. Sono pertanto consentite le assemblee pacifiche, le riunioni dei comitati politici, la pubblicazione e la distribuzione di opuscoli a carattere politico ed ogni altra attività della stessa natura. Art. 2 In particolare si diffidano gli ex detenuti politici a non partecipare ad attività politiche, che possano o tendano a dar luogo a turbamenti e disordine dell’ordine pubblico.» 41

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sionato il predominio del Mis e la prospettiva dell’indi­ pendenza fu vittoriosamente contrastata dall’opzione au­ tonomista, lanciata dalle principali forze democratiche in fase di riorganizzazione. Il colpo definitivo ai sogni di indipendenza si ebbe poco tempo dopo l’ordine del go­ vernatore Poletti, con il ritorno della Region I all’ammi­ nistrazione italiana. Contestualmente a questo passaggio, avvenuto nel febbraio 1944, venne istituito a marzo l’Alto Commissario per la Sicilia, «voluto dagli alleati per rac­ cordare il nuovo apparato da essi creato nell’isola e la vec­ chia macchina amministrativa statale», ma che appariva pure «uno strumento di self-government e la prefigurazio­ ne di un’autonomia regionale»37. Da questo momento le formazioni politiche (democristiani, azionisti, comunisti e socialisti) e gli esponenti del liberalismo prefascista come Enrico La Loggia, i quali nell’ottobre 1943 costituendo un “Fronte unito sicilia­ no unitario” avevano fatto professione di fede unitaria al governo Badoglio, cominciarono a premere per dare una interpretazione in senso autonomistico dell’istituto commissariale. L’aggregazione di un largo ed eterogeneo fronte autonomista tra fine 1943 e inizio 1944 sembrò comunque - almeno in quelle prime battute - più che il frutto di una maturazione improvvisa la scelta operata dalla classe politica isolana che andava emergendo o rie­ mergendo dalle macerie del Ventennio e mirava da una parte a contrastare la minaccia separatista e dall’altra a strumentalizzarla per aumentare la sua forza di contratta­ zione nei confronti delle autorità centrali38. 37 R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50) cit., p. 533. 38 Ivi, pp. 534-536. 42

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Le premesse dunque della scelta autonomista erano davvero molto lontane dall’approdo finale. Si pensi ad esempio all’impostazione “riparazionista” espressa da La Loggia, che col suo opuscolo coevo Ricostruire affidava allo Stato il compito di lanciare un vasto piano di ope­ re pubbliche a titolo di riparazione per i torti subiti dalla Sicilia nel periodo unitario, ma non poneva affatto il pro­ blema del decentramento amministrativo. Per non parlare poi della almeno iniziale diffidenza e delle preoccupazio­ ni con cui a sinistra comunisti e socialisti guardavano alle tendenze autonomiste, per il pericolo che l’isola potesse rimanere ostaggio di forze reazionarie e lontana dalle di­ namiche scatenate altrove dal movimento antifascista e dalla sezione forte della classe operaia nazionale39. Persi­ no la nascente Democrazia Cristiana, pur legittimata a riprendere le tematiche autonomiste grazie all’eredità del popolarismo di Sturzo, mantenne gli accenti piuttosto te­ nui rispetto a questo tema, forse perché preoccupata dal contesto segnato dal pericolo di isolamento dal resto del partito e dalle tendenze centrifughe in atto all’interno del movimento cattolico isolano40. Con il Regio Decreto Legge 18 marzo 1944 n. 41 e l’Alto Commissariato si apriva pertanto un cammino che avrebbe condotto al 15 maggio 1946, quando lo Statuto 39 Sulle origini e ragioni della “scelta autonomista” del Pei vedi A. Guiso, Tra regionismo e nazione: la questione del separatismo nella politica del PCI in Sicilia (1943-194/), in «Ricerche di storia politica», anno 11-1999, 1. Interessante anche leggere al riguardo la posizione del leader dei comunisti siciliani, Girolamo Li Causi, nel suo racconto autobiografico: Id., Terra di frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-60 , a cura di D. Romano, La Zisa, Palermo, 2008. 40 Sulle origini della De in Sicilia si rimanda al volume P. Hamel, Nascita di un partito. Il processo di aggregazione del partito democratico cristiano, Flaccovio, Palermo, 1982; inoltre si veda pure il testo a cura del Comitato regionale Spes,

Sicilia De, 1943-1953, Palermo, 1953. 43

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speciale, elaborato da una Consulta regionale istituita alla fine del ‘44, divenne legge dello Stato italiano. Fu merito delle principali forze politiche, che intanto in aprile anche fuori dallo Stretto, in seguito alla nota “svolta di Salerno”, avevano saputo superare lo stallo provocato dalla pregiu­ diziale istituzionale, rimandata alla fine della guerra, co­ stituendo il primo governo di unità nazionale, composto dai partiti liberale, azionista, comunista, socialista e de­ mocristiano. Da febbraio a dicembre 1945 la Consulta divenne il primo fondamentale banco di prova per misurare la ma­ turità politica e la capacità di elaborazione della classe di­ rigente emersa (o riemersa) nell’immediato dopoguerra: la posta in gioco era infatti molto alta, poiché la sintesi tra le diverse matrici ideologiche e culturali doveva non soltanto essere adeguata rispetto alla sfida di porre solide .fondamenta all’istituzione autonomistica, ma doveva es­ sere capace di dare risposte soddisfacenti ai problemi po­ sti dall’eccezionaiità della congiuntura e alle più generali esigenze di rinascita e ristrutturazione complessiva dello Stato nazionale. La strada percorsa insieme, per quanto tortuosa e non priva di motivi di contrasto, condusse ad una soluzione che nelle premesse culturali appariva figlia dello sposalizio tra la migliore tradizione del pensiero me­ ridionalista (da Colajanni, Salvemini a Nitti e Gramsci) arricchito col regionalismo di Sturzo e la citata tendenza riparazionista di La Loggia. Se nell’impostazione formale dello Statuto speciale fu decisivo il contributo di giuristi esperti come Giovanni Salemi, l’ispirazione democratica di fondo era in buona sostanza attribuibile alla funzione positiva svolta dai grandi partiti nazionali (De e Pei su tutti), che dell’autonomia regionale assunsero il patroci­ 44

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nio, consentendole di superare le resistenze oltre lo Stret­ to e di vincere le notevoli difficoltà dei primi anni41. Col ritorno alla politica e la rinascita della democrazia dunque lentamente in Sicilia, come altrove nelle aree libe­ rate, i partiti cominciarono, oltre che ad operare ai vertici delle istituzioni regionali o degli organismi nazionali (ad esempio i Comitati di liberazione nazionale), a radicarsi in tutto il territorio isolano e a ricostruire un organizza­ zione interna. I muri delle città furono presto rivestiti di manifesti di propaganda d’ogni sorta, mentre per le strade presero a circolare opuscoletti, fogli e le prime riviste. Gli appelli erano anche molto differenti, come differenti era­ no le categorie di persone alle quali si rivolgevano. In par­ ticolare però a scendere tra i primi nell’agone si segnala­ vano separatisti, qualunquisti, democristiani e le sinistre. Per i primi ricorrevano sempre gli stessi slogan, che nei loro cortei e con i colori giallo e rossi della bandiera dei Vespri, proclamavano “la Sicilia ai siciliani”; i seguaci di Giannini preferivano rivolgersi a impiegati e universitari; conciliante e trasversale era il messaggio e il tono usato dai cattolici democratici, mentre infine più netto e forte risaltava l’appello di socialisti e comunisti, che chiamava­ no a raccolta i lavoratori per organizzarsi e lottare per i propri diritti, come recitava il testo di un manifesto della 41 Cfr. F. Renda , I caratteri speciali di uno Statuto speciale. Considerazioni sulle origini e la natura dell’autonomia siciliana, in Aa. Vv., L’Autonomia regionale siciliana tra regole e storia, «Quaderni a cura del servizio studi legislativi e promozione culturale dell’A.R.S.», Palermo, 1993, pp. 329-367. Per un inquadramento storiografico del problema delle origini dell’autonomia e delle sue premesse culturali si veda anche R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50) cit., e ancora G. Giarrizzo, Sicilia politica, 1943-1945. La genesi dello Statuto regionale, in Consulta Regionale Siciliana (1944-1945), I, Saggi introduttivi, Edizioni della Regione Sicilia, Palermo, 1975, pp. 7-116. 45

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Federazione provinciale del Psi rivolto «Alle popolazioni di Brancaccio, Ciaculli, Corso dei Mille, Giardina, Gua­ dagna, Santa Maria di Gesù», popolose borgate di Paler­ mo: «Lottare per la libertà! Ecco perché il Partito Sociali­ sta chiama i lavoratori nella vita politica: lottare per dare la libertà che innanzitutto è liberazione dal bisogno av­ vilente, dal bisogno che è condanna alla schiavitù ed alla rinunzia»42. Intanto il clima di collaborazione e concordia —frut­ to della solidarietà nei primi governi unitari e del lavoro congiunto svolto attraverso i Cln o nel caso siciliano in organismi come la consulta regionale - lasciava sempre più spazio ad una contrapposizione frontale, frutto di scontri locali, strategie nazionali e condizionamenti in­ ternazionali. Le prime avvisaglie si registrarono già negli ultimi scampoli dei lavori della Consulta regionale, sul­ la questione dell’autorità nazionale che avrebbe dovuto legittimare - approvandolo - lo Statuto autonomistico: si giunse così, nel dicembre 1945, ad una netta frattura all’interno del fronte dei partiti del Cln, ove la De insie­ me a liberali e demolaburisti si erano espressi per l’appro­ vazione con decreto luogotenenziale, mentre Pei, Psiup e Pd’az avevano votato per demandarne il compito alla fu­ tura Assemblea costituente. Ma le più consistenti tensioni politiche si comin­ ciarono a registrare poco dopo, nel corso del fatidico 1946, anno in cui si tenne il referendum istituzionale e le prime consultazioni amministrative. Nel primo caso il responso delle urne in Sicilia sancì una netta preva­ 42 Una copia del manifesto, non datato, si trova ora in ASPA, PG, 1946-50, b. 764, f. “Manifesti politici”. Il fascicolo contiene copie di manifesti realizzati anche dalle altre formazioni politiche.

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lenza della monarchia sulla repubblica (64,7% contro il 35,3%), con un risultato figlio soprattutto del quasi ple­ biscitario voto per la corona nelle grandi città. Più par­ ticolareggiata la situazione del voto nei comuni: la vera vincitrice in ogni caso fu la Democrazia Cristiana, che conquistava la maggioranza in ben 85 comuni (in 59 da sola e in 26 con liste di coalizione insieme ai partiti di centro e destra). Ai social comunisti andarono 63 comu­ ni, mentre una cinquantina erano appannaggio di allean­ ze dove prevalevano di volta in volta repubblicani, demo­ laburisti, liberali e qualunquisti. Se ad una osservazione superficiale tale quadro sem­ brava confermare l’immagine di una Sicilia come un “ba­ stione conservatore”, in linea con le altre regioni del Mez­ zogiorno, ferma e immobile rispetto alla svolta epocale di quegli anni, ad un più attento sguardo si sarebbero rivela­ ti i segni di una società investita da grandi cambiamenti, che toccavano soprattutto le campagne. Le battaglie qui condotte da socialisti e comunisti infatti permise loro di affermarsi in numerosi comuni agricoli: dunque laddove le sinistre si erano subito poste alla testa del “movimen­ to contadino” e nei centri dell’interno, dove la presenza di una numerosa classe di braccianti agricoli rispecchiava un sistema economico ancora dominato dal latifondo43, 43 Significative al riguardo i dati elettorali, distinti secondo le diverse “aree agricole”, contenute in una relazione sulla situazione politica della provincia di Palermo, dove sono riportati dati su popolazione, addetti all’agricoltura e voti del Bdp nelle elezioni del 20 aprile 1947 (ora conservata in Archivio Istituto Gramsci siciliano (d’ora in poi AIGS), Fondo Michele Sala, b. 1 , f. 8). Qui si poteva misurare l’effetto di trascinamento per le sinistre dovuto al movimento contadino, che sin dal 1944 aveva consentito a socialisti e comunisti di vincere le competizioni elettorali nelle aree più interessate dalla presenza del latifondo, ovvero quella del corleonese, l’area madonita o i comuni dell’area più interna che confinavano con le province di Agrigento e Caltanissetta. 47

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l’affermazione delle forze progressiste aveva bilanciato il nettissimo predominio conquistato nelle città e negli altri comuni della provincia dal coacervo di partiti e aggrega­ zioni moderate e conservatrici (dalla Democrazia Cristia­ na, un partito di cerniera diffuso ovunque, al Movimen­ to per l’indipendenza siciliana, al Partito liberale, Fronte dell’Uomo Qualunque, monarchici e altre piccole forma­ zioni). Il primo vero decisivo test politico per l’Isola giunse co­ munque il 20 aprile 1947, quando si tennero le elezioni regionali: si giocava adesso una partita determinante per le sorti della Sicilia e dell’autonomia. E i risultati furono una grande sorpresa e una dimostrazione che gli equili­ bri e i rapporti di forza non erano ancora consolidati. Il Blocco del Popolo trionfa in tutte le province dell’isola pro­ clamava il giornale delle sinistre, «La Voce della Sicilia», presentando il risultato ottenuto dall’alleanza di socialisti e comunisti raccolti nella lista col volto di Garibaldi: la maggioranza relativa (il 29,13%), voleva dire 567.392 vo­ ti e ventinove deputati sui novanta che avrebbero costitui­ to la prima Assemblea regionale siciliana44. Si era verifica­ to un grosso balzo in avanti rispetto all’anno precedente e i consensi spostati a sinistra erano stati oltre 150.000, con un avanzamento non solo nelle agrotowns ormai divenute “roccaforti rosse” (Piana degli Albanesi e Petralia Soprana nel palermitano o Raffadali nell’agrigentino) ma persino in tutti i capoluoghi di provincia. La vera sconfitta invece fu la De, che ottenne solo 399.860 voti (20,52%), con 44 Per una analisi del voto del 1947 vedi S. Finocchiaro, Il Partito comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948). Conflitto sociale, organizzazione e propaganda tra collaborazione antifascista e guerra fredda, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2009, pp. 182-185.

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una perdita di oltre 240.000 suffragi e tredici punti per­ centuali rispetto alle elezioni per la Costituente. Tali voti erano in buona misura confluiti verso il Blocco, mentre le Destre e i separatisti rimasero stabili nelle precedenti po­ sizioni e riuscirono solo in parte ad avvantaggiarsi delle perdite democristiane45. Se «il 20 aprile siciliano fu l’inizio della guerra fra Si­ nistre e Democrazia Cristiana», come affermato da Fran­ cesco Renda46, ovviamente bisogna aggiungere che alla rottura —la quale ebbe dirette ripercussioni su scala na­ zionale - contribuì l’evoluzione dei fattori internaziona­ li e l’orientamento dominante nelle gerarchie cattoliche. Per quanto concerne il primo aspetto non si può infatti non tener conto del passaggio decisivo, avvenuto il 12 marzo ’47, quando venne enunciata la cosiddetta “dottri­ na Truman”, con la quale gli Stati Uniti si impegnavano a contenere il pericolo comunista in Occidente. D ’altra parte la grandissima parte dei vescovi, con il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini in testa, chiedeva a gran voce un radicale allontanamento della De dalle sinistre, accusate di fomentare l’odio sociale e di allontanare il popolo dalla religione47. In tale contesto maturò l’episodio della strage di Portella delle Ginestre. Il I maggio 1947, in un pianoro dove sin dalla fine dell’800, dal tempo dei Fasci dei Lavoratori, era tradizione celebrare la festa dei lavoratori, i contadini 45 Vedi l’analisi e i dati riportati in F. Renda, Storia della Sicilia, D all’Unità ai giorni nostri, III vol., Sellerio, Palermo, 2003, pp. 1316-1317.

46 Ivi, p. 1317. 47 Sulla posizione del cardinale di Palermo circa la politica e i partiti in Sicilia nell’immediato dopoguerra si veda A. Romano, Ernesto Ruffini. Cardinale arcivescovo di Palermo (1946-1967% Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2002, pp. 96-183. 49

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e le loro famiglie lì riunite vennero colpiti dalle armi dei banditi guidati da Salvatore Giuliano48. Al di là del suo tragico bilancio (11 morti e circa 30 feriti) e dell’intreccio criminale che lo provocò, quel che adesso più interessa sottolineare sono le ripercussioni sui rapporti tra le for­ ze politiche. Infatti se già all’indomani della strage il Pei, per bocca del suo segretario regionale Girolamo Li Causi, sostenne con convinzione la tesi della matrice politicomafiosa della strage, individuando nel blocco monarchico e liberal-qualunquista l’area di riferimento di esecutori e mandanti, il ministro deH’Interno, il democratico cristia­ no Mario Sceiba sottrasse lo sfondo politico all’episodio, relegandolo nella sfera delle vendette personali49. Quindi sostanzialmente si tentava a parole di negare quanto nei fatti stava avvenendo da alcuni anni e sarebbe continuato ad avvenire dopo: Portella rappresentava infatti solo l’ul­ tima cruenta tappa di uno scontro cominciato all’indo­ mani della liberazione (ma in realtà ancora più antico50) 48 Sulla strage del I maggio 1947 si rimanda ai volumi di G. Casarrubea, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, Franco Angeli, Milano, 1997; Aa.Vv., Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997). Atti del Convegno (Piana degli Albanesi, 28-30 aprile 1997% a cura di P. Manali, Salvatore Sciascia, 3 voli., Caltanissetta-Roma, 1997; F. Petrotta, La strage e i depistaggi. Il castello di ombre su Portella della Ginestra, Ediesse, Roma, 2009. 49 Cfr. S. Finocchiaro, Il Partito comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948) cit., pp. 186-189. 50 Tra gli altri lo studioso Umberto Santino (vedi la sua Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 27 e sgg.) attribuisce ai Fasci dei lavoratori, movimento politico-sindacale sorto in Sicilia neH’ultimo decennio dell’Ottocento, il primo esempio di lotta organizzata contro la mafia dove ebbe un ruolo preponderante - ma non esclusivo - il movimento contadino. Lo scontro continuò e riprese con ancora più vigore e violenza nel nuovo secolo, come testimonieranno tra l’altro le uccisioni di dirigenti di spicco come Lorenzo Panepinto (1911) e Bernardino Verro (1915), e già nel corso del primo dopoguerra conobbe momenti di forte tensione in seguito alle occupazioni di terre da parte dei contadini organizzati nelle cooperative socialiste 50

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e aveva come protagonisti da una parte il movimento contadino, che chiedeva terra e migliori condizioni per i braccianti poveri e mezzadri (in applicazione ai decreti firmati dall’allora ministro Gullo nell’ottobre 194451), e dall’altra il fronte composto da agrari e mafiosi, che aveva armato la mano dei banditi, ma già altre volte aveva fatto ricorso alla violenza contro esponenti sindacali, rappre­ sentanti politici o semplici militanti per opporsi alle loro legittime richieste. La posizione di Sceiba a Roma e la scelta del suo parti­ to, la De, che poche settimane dopo a Palermo in Assem­ blea regionale decideva di avallare la costituzione di un monocolore guidato da un proprio esponente (Giuseppe Alessi) ma sostenuto dalle forze di destra, mostrava il sol­ co incolmabile che si era ormai scavato tra scudo crociato e sinistre. I tempi si preparavano ormai per lo “scontro di civiltà” rappresentato dalle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Quel giorno il popolo italiano fu chiamato alle ur­ ne non soltanto ad eleggere il primo Parlamento della Re­ pubblica, ma anche «per fare una scelta politica decisiva, cioè se alla guida dell’Italia, uscita dalla Resistenza, fosse da chiamare il blocco progressista delle Sinistre, raccolte nel Fronte Popolare, oppure il blocco di forze al contem­ po popolari, moderate e conservatrici, capeggiato dalla Democrazia cristiana»52. La lunga campagna elettorale si svolse in un clima da crociata carico di tensioni, sospetti e condizionamenti, e cattoliche (si veda in proposito G .C . Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, De Donato, Bari, 1976, pp. 85-177). 51 Cfr. F. Renda, Il movimento contadino in Sicilia in Aa.Vv., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno dltalia dal dopoguerra a oggi, De Donato, Bari, 1979. 52 F. Renda, Storia della Sicilia, 3. D all’Unità ai giorni nostri cit., p. 1325. 51

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dove era facile scivolare dallo scontro ideologico al con­ trasto fisico, come testimoniano i tanti episodi di violenza tra militanti delle opposte fazioni e gli attacchi alle sedi di partito53. I temi della politica interna, dove bisognava elaborare le linee guida per la ricostruzione del Paese, fi­ nirono con l’intrecciarsi strettamente con gli schieramenti dettati dalla politica estera: il blocco moderato poté sfrut­ tare a pieno l’effetto di trascinamento e l’impatto emotivo del “mito americano”, che adesso si manifestava con l’ar­ rivo dei piroscafi carichi di grano e farina, a prova tangi­ bile degli aiuti promessi con il Piano Marshall, e con l’in­ vio di milioni di lettere da parte degli italo-americani che invitavano congiunti ed amici a non votare per il Fronte Popolare asservito alla Russia comunista. La Chiesa catto­ lica, per parte sua, sarebbe direttamente scesa nell’agone politico, sia attraverso i suoi sacerdoti che mobilitando le “armate” a sua disposizione (Azione cattolica, Comitati civici etc.) e la pietà popolare, per scongiurare la vittoria del materialismo ateo dei social-comunisti “senza Dio”. Questi ultimi non riuscirono a respingere l’attacco propagandistico massiccio degli avversari e per di più fi­ 53 Episodi di assalti alle sedi dei partiti di destra, ad esempio, venivano segnalati nel novembre 1947 a Caltanissetta e Palermo; in quest’ultimo caso l’improvvisa rabbiosa reazione dei circa 1.500 operai del Cantiere Navale della città, che devastarono 4 sezioni rionali del Partito monarchico e dell’Uom o Qualunque, venne scatenata dalla notizia (peraltro infondata) che il deputato comunista Pompeo Colajanni fosse stato aggredito (ASPA, PG, 1946-50, b. 811, f. “Ordine pubblico. Disposizioni di massima”, Pro-memoria, s.d). Diverse furono invece le sedi del Pei prese di mira da azioni vandaliche con scopo intimidatorio: come nella periferia di Monreale, dove nel corso della notte la targa della sezione “Accursio Miraglia” veniva portata via e sulla porta d’ingresso venne dipinta una croce di colore rosso (ASPA, PG, 1946-50, b. 764, f. “Partito Comunista Italiano”, Rapporto della tenenza dei C C di Palermo Suburbana al Prefetto, 21 marzo 1948). Innumerevoli sono pure le segnalazioni che si riferiscono a risse e incidenti nel corso di comizi pubblici. 52

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nirono sotto il tiro del “terrorismo mafioso”, che dopo Portella tornava a colpire i suoi più qualificati uomini e dirigenti impegnati sul fronte della “questione agraria”54. In rapida successione infatti venivano uccisi Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (3 marzo), Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e Calogero Cangelosi a Camporeale (15 aprile). Tre sindacalisti impegnati in altrettante “zone calde”, dove il conflitto in corso sin dal 1944 aveva già conosciuto momenti di forte attrito tra movimento con­ tadino e i proprietari dei latifondi spalleggiati dai mafio­ si. Ma il dato politico sul qual occorre riflettere rispetto a questi omicidi, come correttamente evidenziava Pio La Torre, a quei tempi ancora un giovane responsabile della Federterra, era l’azione mirata contro esponenti socialisti: Tutti e tre erano socialisti: evidentemente la scelta non era casuale. Vi era infatti la precisa volontà di intim idi­ re la componente unitaria socialista del Fronte dem o­ cratico popolare. Si voleva dire ai socialisti, agli avvoca­ ti, al ceto medio socialista alla vigilia delle elezioni: «Tu socialista non puoi stare con i comunisti, ci rimetti la pelle, devi andare con i socialdem ocratici».5’

Emblematica la vicenda di Rizzotto56 e quella della 54 Sulla storia dei sindacalisti siciliani vittime della mafia, in particolare sugli aspetti giudiziari e la documentazione legata alla loro uccisione, si veda il volume Placido Rizzotto e altri caduti per la libertà contro la mafia, a cura di M. Figurelli, L. Pantano ed Enza Sgrò, Istituto Gramsci siciliano, Palermo, 2012 . 55 P. La Torre, Comunisti e movimento contadino in Sicilia, Editori Riuniti, Roma, 2002 (I ed. 1980), p. 25. 56 Sulla figura di Placido Rizzotto si rimanda a D. Paternostro, Placido Rizzotto e le lotte popolari a Corleone nel secondo dopoguerra, La Zisa, Palermo, 1992, e dello stesso autore si veda pure II sogno spezzato, Città Nuove, Corleone, 1998. 53

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svolta del ’48 a Corleone, proprio perché la sua storia di­ venne - forse al pari della strage di Portella delle Ginestre - il simbolo di una stagione e di una epopea, poi perché le dinamiche locali sembravano confermare l’intuizione di La Torre. Nella memoria di un testimone, raccolta da Giuliana Saladino, questo in estrema sintesi il martirio del giovane: Il bracciante Rizzotto aveva ventisei anni, socialista, se­ gretario della Cam era del Lavoro di Corleone. Lo ac­ chiapparono la sera del 10 marzo 1948, lo infilarono in una macchina. “ D o v è Rizzo tto?” questo grido, scan­ dito, gridato a pieni polm oni da D i Vittorio a Paler­ mo, in piazza Politeama gremita, me lo ricordo con un brivido. Gridava scandendo “do-v’è Ri-zzo-tto” tante e tante volte, come se aspettasse risposta, e l’eco rim ­ bombava passava girava si perdeva nella piazza raggela­ ta, con decine di migliaia di persone che trattenevano il fiato e le lacrime. M olti anni dopo un frammento di giarrettiera fu riconosciuto dal padre e dalla sorella, tro­ vato tra mucchi d ’ossa in un cimitero della mafia, in una foiba di Rocca Busam bra.57

Quando ancora nulla si sapeva della sorte del povero Rizzotto, il sindaco di Corleone, Bernardo Streva, che pu­ re aveva indetto una giornata di sciopero degli impiega­ ti comunali e sospeso le lezioni nelle scuole in segno di lutto58, proprio a ridosso delle elezioni politiche decideva - seguito dalla maggioranza dei consiglieri, come lui in­ 57 G. Saladino, Terra di rapina cit., p. 49. 58 ASPA, PG, 1946-50, f. “Corleone. Ordine pubblico”, Fonogramma del questore al prefetto di Palermo, 17 marzo 1948. 54

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sediatisi nel 1946 —di abbandonare il Psi e di aderire al Psli59. Nonostante la solidarietà manifestata in tutta Italia e la reazione del sindacato, che proclamava una sospensione del lavoro di un’ora tra tutte le categorie di lavoratori an­ che nel resto del Paese «per protesta contro uccisione sin­ dacalisti siciliani»60, la lunga scia di sangue non si sarebbe arrestata. D ’altra parte le continue minacce e i morti non avrebbero fermato la battaglia dei contadini. Proseguiran­ no infatti le rivendicazioni per una legge complessiva di riforma agraria e per l’applicazione dei decreti Gullo nel­ le singole realtà territoriali, attraverso le costanti ondate di occupazioni di terre, gli scioperi, le manifestazioni e le insistenti pressioni dei partiti di sinistra e degli organismi sindacali61. Questa volta però tutto questo non si sarebbe tradotto politicamente in un risultato positivo delle sini­ stre, ormai lontane dal recente exploit del 20 aprile 1947. Per il blocco popolare-progressista infatti alla fine fu di­ sfatta. Socialisti e comunisti vennero ricacciati indietro ai risultati delle elezioni per la Costituente (20,89%), men­ tre le percentuali finali decretarono il massiccio trionfo della De (48,5% di voti alla Camera e al 48,1% al Se­ nato). Finiva adesso un epoca, segnata dal conflitto e dal difficile dopoguerra, e ne cominciava una nuova che era 59 Vedi l’ampia relazione compilata in occasione di una ispezione prefettizia sulla situazione amministrativa e finanziaria del comune di Corleone inviata allo stesso prefetto il 25 marzo 1949, ora in ASPA, PG, 1946-50, b. 926, f. “Corleone. Amm. ne comunale”. 6 0 Vedi il rapporto del capitano dei carabinieri della compagnia Palermo interna al prefetto, 12 aprile 1948, in ASPA, PG, 1946-50, b. 812, f. “Palermo. Ordine pubblico” . 61 Sulle occupazioni delle terre e le altre forme di lotta per la ripartizione dei prodotti agricoli nella provincia di Palermo esiste una ricca documentazione conservata in ASPA, PG, 1946-50, b. 811. 55

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chiamata a ricostruire il Paese e rilanciare la sua crescita dentro uno spazio democratico Occidentale ed europeo. 2 . U N ’ I S O L A IN R IV O L T A : P R O T E S T E , C O N F L I T T I S O C I A L I E “ R IS O R G E N Z A C R IM IN A L E ”

«La situazione dell’Isola all’indomani dell’occupazione era a dir poco drammatica». Con tali parole gli studiosi Salvatore Butera e Maria Teresa Dispensa sintetizzano le condizioni della Sicilia nell’estate del 1943, e continuano: il blocco pressoché totale delle attività determinato dalle operazioni belliche e le distruzioni provocate dai massicci bombardamenti che avevano preceduto e ac­ compagnato l’invasione avevano infatti portato alle estreme conseguenze la condizione già precaria in cui la Sicilia versava, fatta di cronica arretratezza economica e di un diffuso disagio sociale62. A risentire delle distruzioni e della crisi conseguente fu il comparto agricolo, che secondo il censimento del 1931 im­ pegnava il 51,5% della popolazione attiva siciliana, ed era il vero essenziale perno dell’economia isolana: all’agricoltu­ ra era infatti direttamente collegata buona parte del settore industriale e commerciale, dal momento che il tessuto pro­ duttivo di piccole e medie imprese erano tutte - eccezion fatta per le industrie estrattive (zolfo, salgemma, asfalto etc.) - impegnate nella loro trasformazione e vendita; il piccolo artigianato d’altra parte, specie nei paesi deH’interno, era in­ 62 S. Butera e M.T. Dispenza, Traccia storica dello sviluppo economico in Sicilia nel secondo dopoguerra (1943-2000% in Aspetti e tendenze dell’economia siciliana, a cura di S. Butera e G. Ciaccio, Svimez-Il Mulino, Bologna, 2002, p. 17. 56

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timamente legato ai cicli agricoli e molti pagamenti veniva­ no effettuati ancora in natura e al momento del raccolto63. L’agricoltura siciliana, oltre alle “cicatrici” causate dalla guerra che aveva lasciato dietro di sé distruzioni e abban­ doni, mostrava ancora i tratti arcaici che penalizzavano gli aspetti produttivi: prevaleva una vetusta configurazione della proprietà fondiaria (il latifondo qui conviveva con una proprietà estremamente frazionata e dispersa, priva di una organizzazione aziendale), e la coltivazione cere­ alicola, quasi esclusiva nelle zone interne ad agricoltura estensiva, rappresentava da sola un terzo della complessiva produzione lorda vendibile, mentre la restante quota era costituita da produzioni di maggior pregio (agrumi e vi­ ti) che costituivano la principale voce attiva della bilancia commerciale isolana, ma che avevano sin dagli anni Venti subito i nefasti effetti di un costante calo dei prezzi. L’in­ curia da parte dei grandi proprietari assenteisti e il basso livello di investimenti completavano un quadro depri­ mente, che spiegava i bassi livelli di reddito prò capite, di occupazione (nel 1936 solo il 34% della popolazione resi­ dente in età da lavoro contro il 43% della media naziona­ le) e la diffusa sottoccupazione dei lavoratori stagionali64. La realtà era dunque profondamente segnata da distru­ zioni, fame e miseria endemiche che colpivano gran parte della popolazione, ogni giorno alle prese con l’insufficien­ za dei beni necessari, gli alti prezzi imposti dal contrab­

63 N. Prestianni, L'economia avaria della Sicilia, Istituto Nazionale di Economia Agraria - Osservatorio di economia agraria per la Sicilia, Palermo, 1947, p. 2 1 . 64 Oltre al citato saggio S. Butera e M.T. Dispenza, Traccia storica dello sviluppo economico in Sicilia nel secondo dopoguerra (1943-2000) si veda anche S. Butera, L'economia siciliana neU'immediato dopoguerra (1943-50% in Aa.Vv., Portella delLi Ginestra 50 anni dopo (1947-1997) cit., pp. 105-121. 57

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bando, l’ansiosa attesa degli aiuti americani o dei pacchi inviati dai congiunti d’Oltreoceano65. La preoccupazione e l’ansia traspariva nei volti di tutti, come raccontava un giovane prete che nel febbraio 1944, era appena giunto a San Giuseppe Jato, paese di circa 10.000 abitanti a pochi chilometri da Palermo: Per conoscere la realtà locale feci il giro del paese e per le strade disagevoli e fangose vidi galline e qualche ma­ iale. Nelle case quasi tutte terrene a un vano notai la stalla del mulo o cavallo, la gabbia delle galline, la cuci­ na e, dietro un sipario di stoffa, letti e armadi. [...] E non era difficile accorgersi che i visi dei più non era­ no sereni ma piuttosto pensierosi. Molte famiglie in­ fatti vivevano in povertà, o in miseria. La guerra aveva peggiorato la grave situazione economica, e tutti i gior­ ni, in particolare il venerdì, donne anziane con scialle in capo, quasi a nascondere la faccia, bussavano alla porta di amici e conoscenti chiedendo viveri e vestia-

65 Negli anni del dopoguerra, in conseguenza dell’importanza assunta dalla solidarietà stabilita tra parenti lontani, poteva così capitare che dei semplici ritardi nella consegna dei pacchi inviati in Sicilia da congiunti residenti in America diventassero motivo di “pubblica apprensione”, tanto da costringere un sindaco di un paese della provincia di Palermo (Petralia Sottana) a sollecitare ripetutamente la Direzione delle poste e alla fine di allertare la prefettura, poiché - come lo stesso spiegava - «la ricezione dei pacchi è provvidenziale per mitigare le [particolari necessità di questa zona» (ASPA, PG, 1946-50, b. 812, f. “Petralia Sottana. Ordine pubblico”, Lettera del sindaco di Petralia Sottana al prefetto di Palermo, 15 gennaio 1946). 66 La citazione è tratta da una pagina del racconto autobiografico di don Onofrio Giglio, prete della parrocchia di San Francesco di Paola; il documento originale, non datato, si trova conservato presso l’Archivio parrocchiale di San Giuseppe Jato (Pa). 58

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Tra i problemi principali, rimasti insoluti sia durante il periodo di amministrazione dell’Amgot che dopo il ritor­ no all’Italia, particolarmente gravosi per la maggioranza della popolazione apparivano la mancanza di viveri ed il carovita. Queste furono le scintille per l’esplosione di un esteso malcontento, che trovò l’occasione per sfociare in alcuni gravi tumulti, i quali si susseguirono nel corso del 1944 e talvolta ebbero esiti tragici. Come successe a Partinico, grosso centro contadino del palermitano, il 30 mar­ zo 1944: qui una folla composta da migliaia di persone, che il giorno prima aveva assaltato le case dei ricchi per prelevare il frumento, si era ammassata davanti l’esattoria per tentare di bruciare gli incartamenti. La reazione della polizia, che dovette aprire il fuoco per disperderla, provo­ cò l’uccisione di un giovane, e scatenò per tutta risposta un contro-assalto della gente inferocita che colpì con una bomba un maresciallo dei carabinieri lasciandolo morire dissanguato. Uno dei casi più clamorosi fu comunque la strage di via Maqueda del 19 ottobre 1944: una manifestazione degli impiegati comunali chiedeva il pagamento delle in­ dennità per il carovita promesse e l’aumento dei salari. A questi, nel corso del corteo, si unirono donne, disoccu­ pati, artigiani e tutti si diressero verso Palazzo Comitini, allora sede della prefettura. Appena giunti davanti il pa­ lazzo, già presidiato da circa 70 uomini delle forze dell’or­ dine, il viceprefetto chiese l’intervento dell’esercito. Un reparto della divisione Aosta prontamente intervenne, aprendo il fuoco sulla folla anche con l’uso di bombe a mano, causando così la morte di 26 persone e il ferimen­ to di altre 156. Fu chiamata la «strage del pane» e per essa fu aperto un processo che però si concluse senza ricono­ 59

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scere le responsabilità dei militari67. Il contesto sociale in­ candescente e l’instabilità politica di quel frangente spin­ sero l’Alto Commissario Salvatore Aldisio, pochi giorni dopo la strage, a indirizzare a tutti i prefetti dell’isola una nota di indirizzo riservatissima sulla situazione generale dove veniva manifestata la preoccupazione che tutto po­ tesse precipitare nel caos: Da diverse parti della Sicilia, mi viene segnalato che ca­ tegorie d’impiegati e di operai, spesso senza consultare i dirigenti delle loro organizzazioni e senza avere avviato attraverso gli organi di tutela e di rappresentanza del la­ voro alcuna trattativa, ricorrono con una estrema legge­ rezza all’arma dello sciopero. [...] Il Paese è ancora in guerra; il Paese è distrutto. Se ca­ pi e gregari delle varie categorie, attraverso la manifesta espressione di un particolarismo esasperato, tentassero di arrestare la faticosa marcia di ripresa lanciandosi nel­ la poco deliziosa situazione anarcoide del 1919-20, che maturò la “marcia su Roma”, sappiano essi chiaramente e nettamente che ciò non è consentito. L’arma dello sciopero è Yextrema ratio a cui si deve ri­ correre in casi estremamente gravi, anzi per ora non vi si deve ricorrere affatto [...] Non si può nelle attuali delicate condizioni della vita pubblica lanciare città e provincie in agitazioni che pos­ sono avere epiloghi amari e luttuosi come quello di Pa­ lermo. [...] Se necessario si arrestino e si propongano per il confi67 Per una ricostruzione della strage, del contesto in cui maturò e dei suoi effetti, rimando a M. Patti, La Sicilia egli alleati cit., pp. 195-201.

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no coloro che si adoperano a fare artificiosamente salire i prezzi, perché in quest’ora difficile e buia, l’azione di costoro riveste i caratteri di un’attività estremamente delittuosa. L’ordine pubblico deve essere ad ogni costo mantenuto, e le popolazioni debbono essere confortate dall’assistenza vigilante delle autorità, seguita da esempi di energia. Circa la condotta da adottare verso il separatismo che, a parte la sua natura antistatale, specie in quest’ultimo tempo tenta di sfruttare ogni disagio della popolazio­ ne, è necessario seguirne la azione con particolare ocu­ latezza ed intervenire energicamente. Non deve essere consentita alcuna propaganda tendente a staccare l’Iso­ la dal resto del Paese, né alcuna sobillazione comunque camuffata. [...] è necessario che si intensifichi l’opera per il recupero del grano ai “Granai del popolo”. Le riserve vanno rapidamente esaurendosi ed il conferi­ mento è fermo. E necessario intensificare questa attivi­ tà. [...] E grave, gravissimo. Ogni provincia deve fare il massi­ mo sforzo, altrimenti giorni neri e bui ci si preparano. Grano ancora ce n’è. Guai a coloro che restano sordi a questo appello. Su di essi cadrebbero le estreme respon­ sabilità di fatti, che, come è facile immaginare, sarebbe­ ro purtroppo tragici e definitivi68. Come si può desumere leggendo questo documento il livello di allarme era altissimo e si assisteva, specie nel biennio 1944-45, ad un vero e proprio contagio della ri68 1 attera riservatissima dell’Alto Commissario Salvatore Aldisio ai prefetti della Sicilia, 25 ottobre 1944, in ASPA, PG, 1941-45, b. 652, f. “Situazione politica ed economica della provincia”. 6i

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volta che aveva trasformato l’isola in una polveriera pron­ ta in ogni momento ad esplodere. Le tante e profonde cause del disagio sociale si intrecciavano tra di esse, por­ tando ad una pericolosa condizione di malessere sfociata in rivolte in tutta la Sicilia. Da una parte le folle di impie­ gati e disoccupati che nelle strade delle città protestavano al grido di “pane, pasta, lavoro”. Dall’altra, a cavallo tra il 1944 e 1945, a surriscaldare una atmosfera già roven­ te giunsero le rivolte antileva del “Non si parte” e quel­ le contro gli ammassi del grano, che assunsero carattere di massa e in alcuni casi - come a Piana degli Albanesi, Palazzo Adriano, Ragusa o Comiso - videro la partecipa­ zione di intere comunità e portarono alla costituzione di effimere repubbliche indipendenti. Il caso di Piana, dove la repubblica proclamata da Giacomo Petrotta e altri gio­ vani (perlopiù studenti renitenti alla leva) col benestare di gerarchie ecclesiastiche e fascisti visse per 50 giorni prima di essere repressa con l’intervento dell’esercito, dimostra­ va come nel confuso intreccio insurrezionale si potessero mescolare le rivendicazioni più elementari e spontanee con la strumentalizzazione di chi invece puntava a sovver­ tire e sobillare gli animi inseguendo precise strategie poli­ tiche69. Il fallimento dei “granai del popolo”, che dovevano far fronte al fabbisogno alimentare, nonostante le reiterate pressioni da parte delle autorità militari anglo-americane e degli Alti Commissari, dimostrava invece l’estrema diffi­ coltà dell’affermazione e del riconoscimento di un gover­ 69 Sulla “repubblica contadina” di Piana si rimanda ai volumi Testimonianze da una repubblica contadina. G. Petrotta e igiovani di Piana degli Albanesi, a cura di A. Lanza, Centofiori, Palermo, 1978; o ancora F. Petrotta, La repubblica contadina di Piana degli Albanesi del 1945 , La Zisa, Palermo, 2007.

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no nazionale, capace di amministrare il territorio e i suoi abitanti nel periodo compreso tra il collasso dello Stato fascista, il governo militare dei liberatori/occupanti e il passaggio al nuovo sistema democratico70. In questo vuo­ to si inserivano le dinamiche di autodifesa attivate dal lo­ calismo delle comunità locali e i tcprbidi interessi dei pro­ fittatori, dai grandi proprietari ai piccoli coltivatori. Nelle tante piccole “società dei mulini” le condizioni di estrema difficoltà spingevano ampi strati della popolazione verso forme di “ribellismo primitivo”71 e di eversione contro uno Stato visto come rapinatore delle risorse locali. In tale quadro era lecito attendersi —come bene ha messo in lu­ ce il ricercatore Francesco Di Bartolo - che all’interno del contesto municipale e dell’ambito comunitario, smussate le conflittualità sociali (o quelle ideologiche), prevalessero le forme di collaborazione tra figure diverse e talvolta rap­ presentate come contrastanti come i contadini, i banditi ed i mafiosi72. La documentazione archivistica testimonia tale situa­ zione e lascia intravedere il fondo di complicità e ambi­ valenze con la quale venivano nella periferia recepite e applicate (sarebbe meglio dire disattese) le disposizioni ufficiali emanate dalle diverse autorità ed uffici. Così ad esempio il sindaco di Piana degli Albanesi, scriveva al pre­ fetto di Palermo il 19 dicembre 1944:

70 Sulla difficile gestione dell’emergenza alimentare nella Sicilia occupata si veda M. Patti, Il pane americano. La politica degli ammassi in Sicilia (1943-1945), in «Zapruder. Storie in movimento», 2 0 1 1 , 26, pp. 26-43. 71 Si veda in proposito E. J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolte sociali, Einaudi, Torino 1966. 72 Cfx. F. Di Bartolo, Una complessa relazione tra gruppi: contadini, banditi e mafiosi nella crisi del secondo dopoguerra, «Snodi», 5, 2010 , pp. 43-63. 63

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Sono dolente comunicare a V.E. il fallimento completo ed assoluto del conferimento del grano di cui al decreto dell’Alto Commissario per la Sicilia [...]. Gli organismi politici locali, il Clero, e l’Amministrazione Comunale, in tutti i modi, hanno fatto appello al popolo onde ottenere sia pure un qualche risultato, an­ che per non registrare il fallimento anzidetto che duo­ le ed accora. Ma tutto è riuscito vano. Il popolo, come generalità riconosce si, la necessità e la delicatezza del momento e per generoso istinto, volentieri risponde­ rebbe all’appello, se non avesse la sensazione che i gran­ di quantitativi di grano da seme, trattenuti dalle gran­ di aziende e che viceversa alimentano il mercato nero, vengono lasciati indisturbati73. Se qui le parole del sindaco sembrano, nel tentativo di trovare una scusante alla diffidenza del popolo, voler giustificare un atteggiamento diffuso, ancora peggiore era il caso di Alia dove il primo cittadino in persona, oltre a proteggere col silenzio e le artificiose lungaggini burocra­ tiche i tanti agricoltori (specie quelli più facoltosi), si ri­ fiutava di denunziare la produzione della propria azienda nonostante i ripetuti solleciti da parte delle forze debor­ dine74. Per superare le reticenze e le resistenze non di rado si giunse a ordinare dei rastrellamenti da parte delle forze

73 l attera del sindaco di Piana degli Albanesi B. Di Fiore al prefetto di Palermo, 19 dicembre 1944, in ASPA, PG, 1941-45, b. 681, f. “Piana degli Albanesi. Ammasso grano”. 74 Vedi quanto veniva denunciato dal Generale Amedeo Branca all’Alto Commissario in una relazione datata 30 agosto 1944, in ASPA, PG, 1941-45, b. 681, f. “Alia. Ammasso grano”.

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dell’ordine, costrette a cercare casa per casa gli eventua­ li quantitativi di frumento “imboscato”. Non erano rari i casi in cui una compatta e rabbiosa reazione popolare però riuscì a mettere in fuga i malcapitati carabinieri e a vanificare tali operazioni. Fu quello che avvenne a Castel­ lana Sicula la mattina del 10 settembre 1944: tutto co­ minciò da una semplice perquisizione in casa di un con­ tadino eseguita da un vicebrigadiere dei carabinieri e due militari, e dalle urla di una anziana vicina di casa la qua­ le «si dava a schiamazzare, gridando che tali operazioni erano degli intollerabili soprusi che si voleva spogliare la povera gente del residuo del loro raccolto che era costa­ to sudore di sangue»75. La dimostrazione spontanea che ne seguì, composta da una folla di circa 400 persone, era causata - come veniva riferito dagli stessi organi di polizia in un rapporto ufficiale —da «la nota riluttanza di tutti i produttori a conferire il grano ai “Granai del Popolo” per il noto motivo del basso prezzo»76. Era inutile cercare delle scusanti ideologiche, maga­ ri vedendo dietro tali vicende l’ombra del complotto se­ paratista. A ulteriore dimostrazione semmai di quanto sostenuto dal Di Bartolo, ovvero della prevalenza di un ribellismo localista sulle appartenenze sociali o ideologi­ che, si può citare il racconto entusiastico di quella rivol­ ta fatto da Mimi Carapezza77. Egli, che rivendica ancora a distanza di tempo di esserne stato uno degli animatori,

75 Vedi il resoconto fattone da un funzionario di P.S. e trascritto dal questore Garbo in una nota inviata alla prefettura il 16 settembre 1944, in ASPA, PG, 1946-50, b. 812, f. “Petralia Sottana. Ordine pubblico”. 76 Ibidem. 77 M. C"arapezza, Fame di terra, sete di giustizia e libertà. Da seminarista a comunista, ISPE Archimede editore, Palermo, 2006, pp. 25-28. 65

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sarà infatti per diversi decenni in quella zona esponente di punta di quel Pei, che fu la più sincera (se non l’unica) formazione a sostenere apertamente e decisamente i “gra­ nai del popolo”, come pure confermava —senza contrad­ dire interamente la tesi di Di Bartolo - il caso di Andrea Raia. Costui si era posto alla testa del Partito comunista sin da quando nel maggio 1944 era sorta la sezione nel paese di Casteldaccia, centro agricolo poco distante da Palermo. In rappresentanza del partito era stato nominato membro del “Comitato comunale di controllo sui granai del popo­ lo” e in quel ruolo si era presto distinto per l’atteggiamen­ to intransigente e per le ardite richieste che minacciavano di ostacolare gli illeciti commessi a danno del conferi­ mento pubblico del grano. Tutto ciò provocava la reazio­ ne degli amministratori comunali, i quali prospettando alle superiori autorità le possibili nefaste conseguenze del­ le sue proposte («potrebbero suscitare un giustificato ma­ lumore tra i produttori e preparare quello stato d’animo favorevole allo scoppio di disordini e tumulti»), ne chiese­ ro a gran voce la sostituzione78. La storia poi ebbe dei ri­ svolti drammatici quando intervennero i capi della mafia locale, interessati insieme ai primi a proteggere i traffici illeciti e difendere i produttori inadempienti: venne co­ sì decretato l’omicidio di Raia (5 agosto 1944)79, prima 78 ASPA, PG, 1941-45, b. 681, f. “Casteldaccia. Ammasso grano e magazzinieri”, Lettera del funzionante sindaco di Casteldaccia Pietro Lomonaco al prefetto di Palermo, 18 luglio 1944. Alcuni documenti sull’attività di Raia e sul suo omicidio si trovano pure in ASPA, PG, 1946-50, b. 803, f. “Casteldaccia. Amm.ne comunale”. 79 In seguito a tale omicidio veniva aperto un procedimento penale, che si sarebbe però concluso nel luglio 1945 con una sentenza del giudice istruttore che non individuava elementi di colpevolezza nei confronti degli unici due imputati (i fratelli Tomasello). La documentazione di questo processo (AIGS, Fondo Avv. 66

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vittima di una lunga scia di sangue provocata dalla ma­ fia, che in tutta la Sicilia reagiva con violenza contro chi - sindacalisti, dirigenti di partito, militanti - considerava in quel frangente suoi pericolosi nemici. Mafia a parte per l’ordine pubblico complessivo l’an­ damento delle cose nell’isola non sarebbe migliorato nemmeno negli anni successivi. Il 1946 ad esempio ap­ pariva contrassegnato da continue agitazioni che coin­ volsero le più diverse categorie di lavoratori: se nelle zone interne delle provincie di Caltanissetta, Agrigento ed Enna si sollevarono gli zolfatai, che chiedevano aumenti sa­ lariali e un miglioramento delle condizioni di lavoro, nei maggiori centri urbani e le agrotowns dell’isola si sussegui­ rono manifestazioni e incidenti nei quali protagonisti era­ no netturbini, metallurgici, dipendenti pubblici e operai mischiati a gente comune80. Non mancavano nemmeno episodi più eclatanti. Si­ gnificativo quanto avvenne a Caccamo, dove una “caccia al grano” sfuggito all’ammasso si trasformava repentina­ mente in una vera e propria guerra nelle contrade limi­ trofe al paese. Così per piegare la resistenza opposta da gruppi di insorti, i quali erano dotati di armi automatiche e bombe a mano ed avevano ucciso alcuni agenti pren­ dendone altri in ostaggio, lo Stato dovette intervenire schierando sul terreno un piccolo esercito composto da 520 militari, 180 agenti di polizia con 8 autoblindo81. Rieia (d’ora in poi FR), b. 1 , f. “Uccisione di Raia Andrea - Casteldaccia 5 agosto 1944”), come quelle relative ai processi istruiti per altri sindacalisti vittime di mafia, sono state donate all'Istituto Gramsci Siciliano di Palermo, dove sono attualmente conservate e sono liberamente consultabili. 80 Cfr. S. Finocchiaro, II Partito comunista nella Sicilia del dopoguerra (1943-1948) cit., pp. 129-140. 81 Vedi in proposito la documentazione archivistica conservata nel fascicolo, ASPA, 67

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L’economia del grano e il mercato nero non solo rappre­ sentarono dunque un ottimo misuratore per comprende­ re il difficile governo nel dopoguerra siciliano e le enor­ mi distanze tra il centro e le periferie della politica. Ma la loro importanza è confermata anche da un altro aspet­ to, strettamente connesso alla gestione di queste risorse: la diffusione del banditismo e per l’appunto la risorgenza mafiosa. Come infatti sottolinea Rosario Mangiameli il mercato nero attrae l’attenzione di vecchia e nuova mafia e il con­ trollo del contrabbando «richiama a un ruolo centrale il latifondo e rivitalizza la catena di solidarietà che corre tra gabellotti, soprastanti, banditi»82. Così le aree caratterizza­ te dalle grandi estensioni cerealicole, in particolare quelle comprese nelle province occidentali (Palermo, Agrigento, Trapani e Caltanissetta), storiche zone interessate dall’in­ sediamento mafioso e dal fenomeno banditesco, divengo­ no il set naturale dove si svolge il romanzo criminale di alcuni personaggi noti e molti altri meno noti. Lo dimo­ strano le vicende tutt’altro che esemplari di don Calogero Vizzini, quella di Michele Navarra e dei suoi corleonesi, e ancora quella di tanti altri padrini e “uomini d’onore”, e lo testimonia Salvatore Giuliano, soprannominato “il re di Montelepre”, ovvero il capo di una delle tante bande attive in Sicilia. Il problema della presenza di numerose e pericolose bande era stato sollevato sin dalla Liberazione. Nell’otto­ bre 1944 il capo della polizia, trasmettendo un rappor­ to del Comitato provinciale di controllo per i granai del PG, 1946-50, b. 812, f. “Caccamo. Ordine pubblico”.

82 R. Mangiameli, La regione in guerra (1943-50) cit., p. 548. 68

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popolo all’Alto commissario Aldisio, faceva il punto sulle condizioni dell’ordine pubblico nella provincia di Paler­ mo83 e si esprimeva in questi termini allarmati: la zona appariva infestata da bande armate che con sequestri, abi­ geati e furti seminavano il terrore nelle campagne. Tra le bande più agguerrite e organizzate si segnalava la banda Turrisi di San Mauro Castelverde, una banda Russo e la banda Giuliano operante nella zona di Montelepre. A proposito di quest’ultimo bandito vai la pena forse di ricordare Xincipit della sua carriera. Ovvero l’episodio che da un piccolo trafficante di grano fece nascere il fuori­ legge, in pochi anni divenuto un personaggio di fama in­ ternazionale e ancora oggi neH’immaginario collettivo ri­ masto a simboleggiare il banditismo postbellico siciliano: Il giorno 2 settembre 1943 una pattuglia composta dall’appuntato dei carabinieri Rocchi Renato, dal cara­ biniere Mancino Antonio, e dalla guardia giurata Baro­ ne Giuseppe e Mangiaracina Vincenzo perlustravano la località “Quarto Molino” agro del comune di San Giu­ seppe Iato, per la repressione dei delitti annonari. Verso le 12 la pattuglia procedeva al fermo di un giova­ ne il quale proveniente dal Comune di San Cipirello, percorreva la trazzera denominata “Iato”, trasportan­ do abusivamente, con un cavallo, due sacchi di grano del peso complessivo di chilogrammi 101. Il giovane a mezzo della carta di identità da lui stesso esibita ve­ niva identificato per Giuliano Salvatore di Salvatore, 83 Attività delle bande armate nelle Madonie, il Capo della polizia all’Alto commissario per la Sicilia, 26 ottobre 1944, in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Affari generali, 1944-45, b. 110 , f. “Sicilia. Ordine e sicurezza pubblica nell’isola. 1945”, cit. in Patti, pp. 183-188.

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contadino, da Montelepre. [...] Il carabiniere Manci­ no, attinto al torace da un colpo di pistola esploso dal Giuliano, si abbatteva sul terreno, mentre il feritore, raggiunto di corsa un vicino folto canneto, riusciva a deliguarsi (sic)84. Dalla “macchia” alla formazione di una banda dedita a rapine, rapimenti e ogni altra sorta di violenze e illegalità non passò molto tempo. Ma il salto di qualità venne fatto quando il bandito, nell’estate 1945, accettò l’investitura di guerrigliero per la causa dell’indipendenza siciliana: da adesso e fino alla sua morte, avvenuta nel 1950, indossan­ do i panni di colonnello dell’Evis (l’Esercito volontario per l’indipendenza siciliana), avrebbe scagliato una vio­ lenta offensiva contro lo Stato italiano ed i suoi uomini, provocando la morte di un numero ancora imprecisato di giovani agenti di polizia e carabinieri, vittime di aggua­ ti tempestivi, assalti alle caserme e azioni in perfetto stile militare. Tutto questo mentre, in uno sconcertante ballet­ to fatto di emulazione, competizione e complicità, i ver­ tici della polizia e del Tribunale di Palermo (ovvero Ciro Verdiani e il procuratore generale Emanuele Pili) usavano rendere amichevoli visite a Giuliano85. Con la citata strage di Portella e l’attacco alle sedi dei 84 Sentenza della Corte di Assise di Cosenza contro Giuliano Salvatore per l’omicidio del carabiniere Antonio Mancino, commercio illegale di grano e altri reati, emessa il 24 luglio 1947, pp. 1-2. Sono numerosi i libri dedicati alla storia e al mito Giuliano; tra questi uno degli ultimi pubblicati G. Casarrubea e M.J. Cereghino, La scomparsa di Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente, Bompiani, Milano, 2013, mentre meno recente è il volume L. Galluzzo, Meglio morto. Storia di Salvatore Giuliano, S.F. Flaccovio, Palermo, 1985. 85 S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2004, pp. 230-231. 70

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partiti di sinistra e Camere del Lavoro di Monreale, Cinisi, Carini, Partinico Borgetto e San Giuseppe Jato (Io maggio-22 giugno 1947), si sarebbe passati ad una nuova fase: Simone Gatto, in un articolo significativamente inti­ tolato Banditismo, mafia e blocco agrario del 1949, avreb­ be parlato a questo proposito dell’«inizio del periodo “an­ ticomunista” del banditismo [...] caratterizzato da una più stretta alleanza con la mafia e con la grande proprietà terriera, dai proclami e dalle lettere di Giuliano (ripro­ dotti senza risparmio di titoli e di commenti dalla stampa conservatrice dell’Isola), dalla sistematica soppressione di 39 organizzatori sindacali protrattasi sino alla immediata vigilia del 18 aprile ’48»86. Giuliano e i suoi uomini, dunque, sparando contro la­ voratori inermi e contro chi (i partiti di sinistra e sinda­ cati) stava allora sostenendo l’epica lotta del movimento contadino, irrompeva con estrema ferocia sulla scena del­ la “questione agraria”, che come abbiamo già visto del do­ poguerra sicuramente fu senza dubbio il nodo più impor­ tante, visti gli attori sociali coinvolti e l’entità della posta in gioco. Un ruolo di primo piano in questa storia era ovvia­ mente rivestito dalla mafia, storica antagonista del movi­ mento contadino. Tale organizzazione criminale, dopo gli anni di silenzio (ma non di inattività) seguiti agli arresti e ai processi degli anni Venti al tempo del prefetto Mori, sin dallo sbarco degli Alleati aveva nuovamente mostrato chiari segni di vitalità.

86 S. Gatto, Banditismo, mafia e blocco avario, «Lo Spettatore Italiano», ottobre 1949, ora in Id., Lo Stato brigante, Celebes Editore, Palermo, 1978, pp. 56-57. 71

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Il problema della “risorgenza” mafiosa apparve ben presto con nettezza agli occupanti/liberatori, come dimo­ stra ampiamente anche la documentazione archivistica. Così ad esempio in un rapporto delle autorità alleate della provincia di Agrigento ad esempio si affermava: «Come risultato della confusione generale dell’occupazione e del­ la caduta del fascismo, la mafia vede un’opportunità di re­ cuperare parte del vecchio potere»87. Uno dei documenti più interessanti sullo stato della mafia all’indomani dello sbarco era il Report on thè Problem o f Mafia in Sicily, redatto dal capitano Scotten che il 29 ottobre 1943 tra l’altro appuntava: Tutti i contatti da me avuti con la popolazione siciliana durante la mia recente visita portano alla conclusione che, fin dalla occupazione dell’isola e dalla disfatta del fascismo, la mafia ha dato evidenti segni di un’ampia ripresa. [...] La mafia, dopo 15 anni di relativa inattività, non ha ancora riacquistato la sua vecchia potenza, la sua orga­ nizzazione è ancora smembrata e localizzata, e la gente non si trova ancora sotto l’incubo della paura e del si­ lenzio che la mafia sa bene come imporre. Ma questa paura sta tornando rapidamente e una volta esplosa, il problema per la polizia si complicherà notevolmente. Secondo i miei informatori, la mafia sta rifornendosi di armi moderne, di equipaggiamenti sottratti nei campi di battaglia, gran parte dei quali, incluse mitragliatri­ ci, mortai da trincea e persino mezzi leggeri, mine da 87 II brano è citato in Renda, Storia della Sicilia. Dall'Unità ai giorni nostri, III voi., p. 1237. 72

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terra, radio da campo e munizioni, si pensa siano nelle sue mani, nascoste in cantine e in pozzi specialmente vicino al monte Etna88. Quel che appariva chiaro allora agli occhi di questi os­ servatori stranieri, era che il disordine postbellico - come già successo nel precedente dopoguerra — aveva contri­ buito a rivitalizzare i ranghi della criminalità organizzata, «dando alla mafia nuove opportunità di arricchimento e di controllo dei meccanismi del potere locale» e «soprat­ tutto, inserendola a pieno titolo nel processo di riaggrega­ zione politica iniziato all’indomani dello sbarco, in primis grazie alla sponda separatista»89. La collaborazione della mafia allo sbarco alleato, attra­ verso la mediazione dei servizi segreti americani, è ipotesi assai suggestiva, tanto da venire codificata in una sorta di canone interpretativo ripreso da media e pubblicistica e da essere affermato in ambito istituzionale persino dalla Com­ missione parlamentare antimafia nella sua relazione del 199390. Tuttavia la tesi del complotto è già stata ampiamente confutata sin dagli anni Ottanta e ancora dai più recenti studi che invece, sulla base della documentazione archivi­ stica e alla luce di un sereno ragionamento critico, hanno 88 Alcuni passi del memorandum sono citati in Renda, pp. 1241-1243. 89 M. Patti, La Sicilia egli alleati cit., p. 1 12 . 90 Si segnalano tra le più note pubblicazione di questo filone M. Pantaleone, Mafia e politica. 1943-1962 , Einaudi, Torino, 1962; N . Tranfaglia, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani. 1943-1947\ G. Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a PorteIla della Ginestra, Bompiani, Milano, 2005; E. Costanzo, Mafia e alleati. Servizi segreti americani e sbarco in Sicilia, da Lucky Luciano ai sindaci «uomini d'onore», Le Nove Muse, Catania, 2006. 73

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spinto a vedere nella mafia una forza vitale e pronta già pri­ ma dello sbarco ad accogliere gli Alleati e tentare di usarli per sfruttare tutte le opportunità che col crollo del regime fascista e la fine della guerra si aprivano91. I fattori decisivi per la rinascita mafiosa erano lega­ ti soprattutto alle capacità della malavita organizzata di sfruttare al meglio il dato congiunturale che caratterizzava l’estate 1943 (caos e disordine in seguito alla dissoluzio­ ne dello Stato, lo sbandamento degli eserciti, lo sbarco e i combattimenti) per riacquistare potere e negoziare dun­ que da una posizione di forza con gli alleati. Tali dinami­ che sono visibili in diverse località fin dai primi istanti dell’arrivo delle truppe di liberazione e avvengono a Casteldaccia come a Villalba, senza una premeditata regia ma evidentemente seguendo una istintiva strategia messa in atto dai mafiosi di volta in volta. Così ad esempio avveniva nel primo caso, dove i due fratelli Tomasello, «temibili pregiudicati [...], ex confi­ nati, nonché maggiori esponenti dell’alta maffia» come li definisce la polizia, in base al racconto fatto da uno di es­ si, agivano così:

91 M. Patti, La Sicilia egli alleati cit., pp. 106-107. Per gli studi precedenti si vedano R. Mangiameli, Le allegorie del buongoverno. Sui rapporti tra mafia e americani in Sicilia nel 1943 cit.; S. Lupo, Storia della mafia cit., pp. 225-237; Id., Quando la mafia trovò l'America. Storia di un intreccio intercontinentale. 1888-2008 , Einaudi, Torino, 2008, pp. 138-154; E Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 , 3 voli., Sellerio, Palermo, 1987, III, pp. 77-98. Ad esempio per confutare la leggendaria storia, riferita da Michele Pantaleone, dove si suggerisce il coinvolgimento di Lucky Luciano e don Calò Vizzini nel facilitare le operazioni di sbarco e l’avanzamento degli americani nella Sicilia occidentale, Renda si limita semplicemente a riportare i numeri delle perdite subite dall’esercito americano (2.237 morti e 5.946 feriti), e confrontarli rispetto a quelle inglesi impegnate sul fronte orientale (E Renda, Storia della Sicilia. Dall'Unità ai giorni nostri cit., Ili, pp. 1230-1234). 74

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Quando in Luglio [...] sono entrati in Casteldaccia gli Americani al Comune si costituì un Comitato del­ la salute pubblica cui faceva parte mio fratello France­ sco. La stessa sera mattina di quel medesimo giorno ci siamo portati al mulino di PIRAINO assieme a tanti altri e gli stessi proprietari per attendere gli Americani e nello stesso tempo abbiamo impedito con tutti i mezzi che saccheggiatori asportassero il rimanente del grano e della farina nonché i motori e le cinghie ed altro mate­ riale appartenente al mulino92. Degli ex confinati dal fascismo quindi, vittime dello spietato Mori, si presentavano agli occhi dei liberatori co­ me antifascisti perseguitati e nello stesso tempo mostrava­ no la loro capacità di mantenere e gestire l’ordine anche in una situazione di grave instabilità e di improvviso col­ lasso delle istituzioni statali. Ancora più emblematica per comprendere il ruolo della mafia in questo primissimo dopoguerra, oltre che per esplorare le proiezioni politiche delle sue scelte, è poi la vicenda di Villalba, paesino della zona interna nella provincia di Caltanissetta, che ha co­ me protagonista assoluto quel Calogero Vizzini, ritenuto a quel tempo “il padrino dei padrini” e l’autorità più emi­ nente dell’onorata società siciliana93. Egli, in virtù di una auctoritas costruita nel corso del precedente dopoguerra, 92 Verbale di interrogatorio di Onofrio Tomasello, 13 agosto 1944, in AIGS, FR, b. 1 , f. “Uccisione di Andrea Raia - Casteldaccia 5 agosto 1944”. 93 Su Calogero Vizzini, a parte i lavori di Michele Pantaleone come il citato Mafia e politica del 1962 (che hanno contribuito a farlo conoscere presso il grande pubblico), si veda il ritratto che ne fa G .C . Marino, Ipadrini. Da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano, da Calogero Vizzini a Stefano Bontade, fatti, segreti, e testimonianze di Cosa Nostra attraverso le sconcertanti biografie dei suoi protagonisti, Newton Compton, Roma, 2006, pp. 195-246. 75

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quando fu un abile leader delle affittanze collettive, e rin­ novata dall’unanime riconoscimento dai suoi concittadi­ ni, rappresentò agli occhi degli alleati una risorsa capace di pacificare la comunità e fungere da tramite con le forze locali. Fu sulla base di tali elementi, più che in virtù del suo “martirio antifascista”, che gli americani lo scelsero come sindaco. Un destino comune ad altri mafiosi, amici di mafiosi o presunti tali. Anche in questo caso richiama­ re le “teorie complottiste” serve a ben poco, ma soprattut­ to non aiuta a comprendere i reali motivi di tali scelte. Il problema centrale per gli alleati, subito dopo la li­ berazione dei paesi siciliani, restava quello di attivare un processo di mediazione con le forze locali al fine di ga­ rantire l’ordine e soprattutto un regolare funzionamento degli ammassi. Come abbiamo già visto tra le forze locali la mafia si pose subito in prima fila cercando di inserir­ si nello spazio creatosi tra il crollo dello Stato e l’instau­ razione deH’amministrazione alleata. La situazione era di non facile soluzione nonostante le dichiarazioni ufficiali, come sostenuto anche dalla studiosa Manoela Patti, la quale infatti scrive: La politica dell’Amgot nei confronti della mafia appa­ riva dunque piuttosto contraddittoria, stretta com’era fra la consapevolezza dell’opportunismo mafioso e, per così dire, dello spessore criminale dell’organizzazione e la necessità di non disperdere le proprie energie in una lotta difficile e a danno dei propri obiettivi.'“

94 M. Patti, La Sicilia egli alleati cit., p. 1 12 . 76

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Se da una parte va sottolineata la scelta degli alleati, dettata spesso dalla difficoltà di individuare interlocutori “validi” all’interno delle comunità locali, non si può ta­ cere la rilevanza che l’onorata società assunse nella nuova turbolenta fase politica. I casi citati lo dimostrano, ma la vicenda di Calogero Vizzini ci racconta qualcosa di più. Ovvero molti “uomini d’onore” in quel frangente non si limitarono a ricoprire un ruolo di primo piano nella rior­ ganizzazione della macchina politico-amministrativa. Ma la mafia, i suoi uomini più rappresentativi per essa, parve fare una scelta di campo molto netta, tanto che essa «per la prima e l’ultima volta [...] anziché inserirsi in un appa­ rato di potere, sembra[va] voler contribuire direttamente a un’ipotesi politica»95. La scelta di Calogero Vizzini, Mi­ chele Navarra, Giuseppe Genco Russo, Paolino Bontate, Gaetano Filippone, Pippo Calò di transitare nelle file del Movimento per l’indipendenza siciliana non fu dunque una questione di pura coincidenza, quanto per l’appunto una ponderata opzione. L’informazione circa l’esistenza di un asse molto stretto tra mafia e separatismo circolava già tra le autorità alleate sin dai primi mesi del governo militare: così ad esempio lo stesso Lord Francis Rennel, capo del Governo Militare Alleato di Occupazione, in un ampio rapporto sulla situa­ zione siciliana, soffermandosi sul separatismo e la mafia, metteva in evidenza i più che probabili rapporti tra i due elementi («Suppongo che la mafia sia ora sicuramente as­ sociata al movimento per l’indipendenza siciliana»); an­ che l’OSS (Ufficio dei Servizi Strategici americano da cui 95 S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2004, p. 227. 77

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sarebbe nata la CIA) in una appendice al documento re­ datto l’ i l gennaio 1944 (Report on Condition in liberated Italy n. 1) evidenziava come tra i leader principali del Mis vi fossero - accanto all’aristocrazia, i grandi proprietari fondiari latifondisti e professionisti e politici mediocri —i «capi massimi e intermedi della mafììa»; ancora nel testo si segnalava come questi elementi furono sempre attestati su posizioni reazionarie e conservatrici, nettamente con­ trari rispetto ad ogni progresso civile ed economico delle classi medie e basse, e mirassero ad una restaurazione in Sicilia di un regime semifeudale incentrato sul potere di poche famiglie e sul predominio del latifondo nell’econo­ mia siciliana96. Come altre volte nella storia siciliana la classe degli agrari, costituente un gruppo piccolo ma agguerrito, non aveva esitato in alcun modo a ricorrere alla mafia per tute­ lare i propri interessi, che vedeva minacciati dall’avanzata del movimento contadino97. Tutto ebbe inizio in seguito all’emanazione, il 19 ottobre 1944, dei cosiddetti decreti Gullo, dal nome del ministro all’agricoltura: le agitazioni dei contadini miravano alla loro applicazione e investiro­ no via via tutta l’isola. I decreti prevedevano una diversa regolamentazione degli allora vigenti rapporti agrari: uno riguardava la mezzadria impropria (i prodotti non sareb­ bero stati più divisi a metà tra le parti bensì al 60% per il mezzadro e al 40% per il concedente, e qualora il con96 Entrambi i documenti sono citati in F. Renda, Storia della Sicilia. Dall'Unità ai giorni nostri cit., Ili, pp. 1237-1240.

97 Sul movimento contadino in Sicilia si rimanda al classico lavoro di Francesco Renda {Il movimento contadino in Sicilia, in Aa.Vv., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d'Italia dal dopoguerra a oggi, De Donato, Bari, 1979) che rappresenta insieme un saggio scientifico, ma anche la testimonianza diretta da parte di uno degli allora massimi dirigenti dello stesso movimento. 78

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cedente avesse apportato la sola nuda terra allo 80% al mezzadro e 20% al concedente); un altro riduceva al 50% il canone convenuto per le terre date in affitto; un terzo prorogava di anno in anno i contratti agrari; un quarto relativo alla concessione delle terre incolte ai contadi­ ni riuniti in cooperativa non aveva nulla di rivoluziona­ rio e non era nemmeno una invenzione bolscevica, dato che a proporlo era stato già nel 1920 il ministro di allora, Achille Visocchi, capo del dicastero delfagricoltura quan­ do primo ministro era Francesco Saverio Nitti. Pertanto in seguito ai decreti in Sicilia e nelle altre re­ gioni meridionali tutti gli strati di contadini si trovarono impegnati nel confronto e scontro con le classi agricole dominanti circa il miglioramento dei patti agrari di mez­ zadria e di affitto e concessione delle terre incolte. E così tra 1945-50 a dominare la scena politica e sociale dell’i­ sola furono le grandi manifestazioni per conseguire tali obiettivi. I soci delle cooperative interessate alla concessione di terre incolte o mal coltivate furono in Sicilia 100.310 (su un totale in Italia di 246.576). Fu, come sostiene France­ sco Renda, una «vera e propria febbre sociale ed ebbe una diffusione endemica», che toccò tutte le province ma spe­ cialmente quelle dove più esteso era il latifondo, e fu un movimento “popolare nazionale” poiché coinvolse i con­ tadini ma anche il resto della popolazione98. La barriera opposta dai grandi proprietari e dai mafiosi a tutela dei 98 F. Renda, Storia della Sicilia. D all’Unità ai giorni nostri cit., Ili, pp. 1268-1269. Da sottolineare anche la presenza femminile nel “movimento contadino”; su questo aspetto si rimanda al volume di A. Lanza, Sono stata orsa a Brauron. Storie di lotte contadine alfemminile in Sicilia, prefazione di Renate Siebert, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999. 79

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latifondi era ben visibile ai contadini. Nonostante infatti talvolta le commissioni istituite presso i tribunali, cui la legge affidava il compito di valutare le richieste di conces­ sione delle terre, dessero il loro consenso, questi non di rado trovavano sull’aia ad aspettarli gli uomini d’onore e i loro scagnozzi armati di tutto punto. Era quanto avveniva alla fine del 1946 nelle campagne vicine a Corleone, più precisamente nell’ex feudo Ridocco, che l’organizzazione criminale guidata dal medico Michele Navarra aveva af­ fidato ad Antonino Governali in qualità di campiere/soprastante". Quest’ultimo mostrò subito di non gradire la presenza dei nuovi assegnatari, e così, dopo aver minac­ ciato alcuni contadini di una cooperativa di Campofiori­ to, colpiva due fratelli - che si rifiuteranno poi di quere­ larlo per timore di rappresaglie - provocando loro delle contusioni100. A San Giuseppe Jato, in quello stesso periodo, il sinda­ co in persona, lo studente comunista Biagio Ferrara, era costretto a chiedere al prefetto di voler disporre l’invio dei carabinieri delle stazioni vicine al fine «di proteggere l’im­ missione dei contadini nei feudi ed i lavori di divisione ed aratura», dal momento che il campiere Carmelo Lo Bue, «noto maffioso di Corleone, armato dello schioppo ed a cavallo», aveva pesantemente intimidito i soci della coo­ perativa locale concessionaria del feudo Palastanga.'01 Agli innumerevoli episodi di aggressioni, alle minacce

9 9 D. Paternostro, I Corleonesi. Storia dei golpisti di Cosa Nostra, L’Unità, Roma, 2005, p. 71. TOO Nota del questore al prefetto di Palermo, 25 gennaio 1947, in ASPA, PG, 1946-50, b. 812, f. “Campofiorito. Ordine pubblico”. lOl Lettera del sindaco di San Giuseppe Jato al prefetto di Palermo, 22 novembre 1946, in ASPA, PG, 1946-50, b. 813, f. “San Giuseppe Jato. Ordine pubblico”.

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e alle ripetute violenze a scopo intimidatorio messe in at­ to, vanno ovviamente aggiunti gli omicidi, commessi nei cinque anni tra il 1944 al 1948, il periodo più intenso e tragico per la lotta contro il latifondo e quello in cui la “repressione mafiosa” raggiunse il suo picco di crudeltà, abbattendo insieme a uomini impegnati in prima fila nel sindacato, nella politica e nelle istituzioni, anche gente inerme, semplici contadini, donne e bambini. Mai la lotta sociale ha avuto tanti martiri quanti la lot­ ta per l’occupazione delle terre incolte o mal coltivate, come pure, è il caso di aggiungere, mai lotta sociale e politica è stata così ricca di conseguenze. Fra i risultati raggiunti vi furono, in primo luogo, le conquiste economiche e sociali. La terra non rimase lontana dal possesso di chi la lavorava, non era tanta e non sempre di buona qualità; fu anche amara e ingra­ ta, non sempre diede quanto sperato, anzi spesso non restituì neppure il ricevuto. Ma fu terra benedetta, per­ ché a lungo desiderata; terra libera, perché conquistata con una lotta aspra; terra amata con tenerezza, perché irraggiata da un fiducioso avvenire102. Come afferma Renda dal sangue e dal sacrificio di tutti loro la lotta alla mafia avrebbe ottenuto dei risulta­ ti storici, come furono le leggi di riforma agraria varate tra 1949-50. Ed è significativo ricordare come molti anni dopo, grazie all’approvazione della legge del 13 settembre 1982 n. 646 che dispone la confisca dei beni ai mafiosi e di quella approvata nel 1996 che ne consente il riutilizzo 102 F. Renda, Storia della Sicilia. Dall'Unità ai giorni nostri cit., Ili, p. 1270. 81

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per fini sociali (n. 109), la prima cooperativa di giovani sorta nelle terre liberate dalla mafia sia stata intitolata nel 2001 a Placido Rizzotto103. Era ancora una volta il segno che il coraggioso sindacalista corleonese ucciso nel 1948 aveva definitivamente vinto la sua battaglia.

103 SulPimportante esperienza delle cooperative aderenti al progetto Libera Terra, di cui fa parte la citata “Placido Rizzotto”, si veda il contributo di N. Mignemi,

Seminare le terre di mafia. Le cooperative di Libera Terra in Sicilia come esperienza di sviluppo locale, Fondazione Angelo Frammartino, borse di studio 2009/2010. Il saggio è consultabile al seguente indirizzo U RL: http://www.angeloframmartino. org/images/stories/Niccol_Mignemi_-_Seminare_le_terre_di_mafìa.pdf.

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Sicilia 1944-48: la mafia e le vittime del movimento sindacale nelle carte della prima Commissione Antimafia di Diego Gavini

Il 12 dicembre 1962, con 478 voti favorevoli e 35 contra­ ri, la Camera dei Deputati approvava la legge con cui ve­ niva istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia104. La votazione portava a termine l’iter aperto nel 1958 dalla presentazione del disegno di legge che vedeva come primi firmatari Simone Gatto e Ferruccio Parri105, del gruppo socialista. Allo stesso tempo chiudeva un dibattito di più ampia durata e complessità, avviato nel 1948 dal deputato comunista Giuseppe Berti, il primo a chiedere l’istituzione di un’inchiesta che andas­ se in questa direzione106, e proseguito nel tempo con in­

104 Vedi AC, III legislatura, 12 dicembre 1962, pp. 35953-35954. La legge (n. 1720) entrava in vigore il 20 dicembre 1962. Costituita da quattro articoli, la legge prevedeva in particolare che «La Commissione, esaminate la genesi e le caratteristiche del fenomeno della mafia, dovrà proporre le misure necessarie per reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause». 105 AC, III legislatura, doc. n. 609. 106 In particolare l’.On Berti presentava un disegno di legge con cui si chiedeva l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla situazione dell’ordine pubblico in Sicilia. Vedi AC, I legislatura, 14 settembre 1948, p. 2005; per una ricostruzione dei passaggi parlamentari che avrebbero portato alla nascita dell’Antimafia vedi anche il primo capitolo della Relazione conclusiva a firma F. Carraro, in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, Doc. XXIII, n. 2, VI Leg. 83

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tensità altalenante, legata al dispiegarsi di eventi crimina­ li ed alle parallele denunce di collusione mafiosa lanciate dalla sinistra nei confronti della Democrazia Cristiana e delle formazioni conservatrici siciliane. Intorno alla discussione sulla costituzione di una Com­ missione Antimafia, evolse e prese forma un dibattito pub­ blico di interpretazione e lettura del fenomeno mafioso for­ temente determinato dalle immagini e dalle culture veicolate dai grandi partiti di massa. In ambito democristiano si ripresero filoni diversi propri dell’età liberale, mettendo insieme le riflessioni di classici co­ me Leopoldo Franchetti, Giuseppe AJongi, Giuseppe Pitrè, Antonino Cutrera, Napoleone Colajanni e Gaetano Mosca, ed aggiornandole rispetto alla contingenza degli eventi107. La mafia di questa narrazione non era una entità criminale, o perlomeno non specificatamente criminale, bensì un dispo­ sto culturale e antropologico intriso di elementi premoderni e presente solo nelle più arretrate zone dell’Isola. Una menta­ lità, prima di tutto, destinata però a perdere la sua partita con la modernità, e che anzi già soccombeva all’incedere di questa sui binari della riforma agraria, degli investimenti della Cassa del Mezzogiorno e della crescente industrializzazione. Ovviamente, nella complessità e nell’ampiezza del mon­ do della Democrazia Cristiana, questo discorso finiva per 107 Relativamente al pensiero degli autori citati, confronta in particolare: L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Tipografia Barbera, Firenze, 1877; P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Guida Editori, Napoli, 1979; G. Alongi, La maffia nei suoi fattori e nelle sue manifestazioni: studio della classi pericolose della Sicilia, Fratelli Bocca, Roma, 1886; G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone&Lauriel, Palermo, 1889; A. Cutrera, La mafia e i mafiosi. Origini e manifestazioni: studi di sociologia criminale, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1 984; N. Colajanni, Nel regno della mafia, Rizzoli, Milano, 2013; G. Mosca, Che cose la mafia, in «11 giornale degli economisti», luglio 1901, pp. 232-63.

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essere sfumato in accenti diversi, da posizioni più avanzate di denuncia108 ad un adeguamento, negli ambienti più con­ servatori, agli stereotipi della più retriva cultura sicilianista informata di quello che Paolo Pezzino avrebbe definito il paradigma mafioso. Un discorso che prendeva le mosse dalle riflessioni dello studioso del folklore Pitrè, il quale denuncia­ va l’invenzione della mafia quale creazione volta alla denigra­ zione dell’Isola109. Nel fronte socialcomunista si poteva avvertire la presen­ za di questi influssi, i quali venivano però superati da un’e­ laborazione che prendeva le mosse dall’analisi classista della società unendola all’esperienza del dopoguerra e delle lotte contadine. Quella dei residui feudali era la categoria applicata nella descrizione di una mafia intesa quale borghesia agraria che, nella persistenza del sistema latifondista, non era riuscita ad intraprendere un percorso di trasformazione in senso capi­ talista della struttura agricola isolana110. Questa «borghesia impedita nel suo sviluppo», come l’avrebbe descritta anco­ ra nel 1976 Pio La Torre nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia,111 diventava, nella mitologia delle sinistre, il braccio armato al servizio delle forze della conser­ vazione nella loro lotta per la sopravvivenza rispetto al fronte portatore di progresso, ovvero le masse popolari con i loro partiti-guida. 108 Gir. «Cronache sociali», settembre 1949, n. 15. Attivo anche un gruppo di giovani cattolici legati al democristiano D ’Angelo, che si raccolse intorno alla pubblicazione del periodico «Sicilia domani» durante gli anni Sessanta. 109 P. Pezzino, Stato violenza, e società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di), Storia d ’Italia. La Sicilia, Einaudi, Torino, 1987. HO Cfr. E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino, 1947. m Doc. XXIII, n. 2 , VI leg. 85

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Queste opposte visioni non possono essere considerate solo teoriche e non possono certamente essere minimizzate nel loro impatto e nella loro consistenza: come è ben noto, i partiti di massa furono eccezionali agenti ideologici nella formazione della cultura e della mentalità di ingenti fasce di popolazione, mettendo in campo tutte le proprie forze e le proprie energie in questa battaglia. La questione-mafia, una volta legata alle implicazioni economiche, sociali e politiche, diventava un altro terreno su cui portare lo scontro e investi­ re la propria elaborazione. A questa contrapposizione culturale, che riguardava dun­ que non solo la concezione della mafia ma più ampiamente l’idea di progresso intorno a cui incardinare le politiche da applicare all’Isola, si aggiungeva la già accennata contrappo­ sizione politica a carattere nazionale: il discorso sulle misure di prevenzione e repressione del fenomeno correva parallelo alla polemica sulle collusioni, sulle infiltrazioni nelle ammi­ nistrazioni comunali e sulle morti rimaste impunite. Questo scontro aveva l’inevitabile effetto di cristallizzare le posizioni e rendere sempre più distanti gli opposti imma­ ginari e le forze poste in campo. Esemplificativo in tal senso fu proprio il percorso che avrebbe portato alla costituzione dell’inchiesta parlamentare, con le resistenze, gli ostacoli e le variazioni che per anni l’avrebbero caratterizzato. Alla fine, come è stato già ampiamente sottolineato nel­ le poche ricostruzioni storiche sulla nascita dell’Antimafia, a sbloccare la situazione e dare l’opportunità di affronta­ re perlomeno il tema della istituzione dell’Inchiesta, fu un cambiamento politico della portata della nascita del “centrosinistra” 112 . •

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112 Cfr. S. Lupo, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini 86

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Nel momento di maggiore freschezza del dibattito, pre­ cedente al cosiddetto “centro-sinistra organico”, oltre alle riforme di più ampio respiro solitamente ricordate, come l’i­ stituzione della scuola media unificata e la nazionalizzazione delle industrie elettriche, il Psi impose fra i punti program­ matici l’avvio della Commissione Antimafia113. Decisivo, in tal senso, fu il precoce avvio dell’alleanza Dc-Psi in Sicilia sotto la presidenza D’Angelo: nel marzo del 1962 l’Assem­ blea Regionale Siciliana votava un ordine del giorno in cui si chiedeva al Parlamento di avviare la costituzione dell’in­ chiesta sul fenomeno mafioso114. Con il pronunciamento dell’Ars, veniva meno un pilastro che la De aveva sempre er­ to contro l’ipotesi di una Commissione Parlamentare, ovve­ ro l’autonomia della Regione rispetto al tema, e si apriva ine­ sorabilmente la strada alla risoluzione presso le due Camere nazionali. La nascente alleanza Democrazia Cristiana-Partito Socia­ lista non valeva comunque a rassicurare pienamente la De su un terreno considerato scivoloso, nonostante gli stessi espo­ nenti del Pei si affrettassero a cambiare toni e dichiarazioni dai banchi del Parlamento, pur di incassare un risultato rite­ nuto favorevole. La lentezza con cui prese concretamente avvio l’inchie­ sta e il ruolo giocato dai vertici De in questi ritardi, come emerge anche da documenti d’archivio, ne sono la dimostra­

ci giorni nostri, Donzelli, Roma, 1996, pp. 240-45; N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari 1943-2000, Laterza, Roma, 2001; F. Frangioni, Le ragioni di una sconfitta: la prima commissione antimaia (1963-68), I.S.R.Pt, Pistoia, 2008; F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri. Voi. Ili, Sellerio, Palermo, 2003, pp. 138194. 113 Vedi G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma, 2005, pp. 223-28. 114 Un impegno a carattere nazionale, in «Avanti!», 31 marzo 1962, p. 1 . 87

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zione.115 La legge fu approvata dal Senato in aprile, ma dalla Camera dei Deputati solo a dicembre; per nominare i com­ ponenti della Commissione si attese fino al febbraio 1963: a quel punto, nonostante le pressioni di personalità come Fer­ ruccio Parri, fu facile evitare la convocazione fino allo scio­ glimento delle Camere incorso a maggio con cui si chiudeva la III legislatura116. D’altronde, le ritrosie della De erano comprensibili. Una certa permeabilità nel partito siciliano era un fatto notorio; i malfunzionamenti delle amministrazioni siciliane, in parti­ colare della Palermo del “sacco” edilizio, erano sotto gli oc­ chi di tutti117; le morti di sindacalisti e le vicende legate alla banda Giuliano ancora vividi. Il Partito Comunista per anni aveva fatto di tutto que­ sto un terreno di scontro politico: l’Inchiesta parlamentare, con l’attenzione rivolta ad essa, rischiava di esasperare i toni ed essere controproducente sul piano elettorale. Allo stesso tempo, le basi di un’alleanza coi socialisti, mal digerita da di­ versi settori della De, erano fragili, e sulla carta non garanti­ vano la direzione che avrebbero preso le indagini.

115 Sugli ostacoli frapposti all’avvio dell’Inchiesta nel corso della III Legislatura, vedi: Istituto Sturzo, Fondo Democrazia Cristiana, Serie Gruppo Senato - Atti dei Presidenti, se. 7, f. 16. 116 In una lettera del 22 marzo 1963, il capogruppo democristiano del Senato, Silvio Cava, si rivolgeva ai membri de designati a far parte della Commissione, indirizzandoli a ostacolare i tentativi di Parri di riuscire a convocare l’Antimafia «per la evidente inopportunità della convocazione nella fase più accesa della lotta elettorale». In Ivi. 117 Sui processi di speculazione urbanistica vissuti dal capoluogo siciliano vedi T. Cannarozzi, Palermo: le trasformazioni di mezzo secolo, in «Archivio di studi urbani e regionali», n. 67/2000, Milano, Ed. Franco Angeli. 88

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L’ A N T I M A F I A : U N ’ E S P E R I E N Z A C O M P L E S S A

Non appaia ridondante questa iniziale digressione sulla nascita dell’Antimafia, necessaria a recuperare e sottolinea­ re alcuni temi centrali per la comprensione di un’esperienza che non può essere ridotta ad un giudizio semplicisticamen­ te negativo, così come troppo spesso avvenuto118. Da un la­ to infatti le implicazioni politiche e la sedimentazione di un contrasto innanzitutto ideologico e culturale avrebbero mi­ nato alle basi la possibilità di un’unitaria e diretta azione vol­ ta a contrastare il fenomeno mafioso e le sue manifestazioni, compresi innanzitutto i legami con i pubblici poteri. Dall’al­ tro, viceversa, si avviava, sul piano della discussione pubblica e della riflessione politica ed intellettuale, un ampio dibattito su un tema comunque complesso come quello della crimina­ lità mafiosa, questione controversa fin dalle sue origini che affondavano, a livello politico, al tramonto dell’esperienza di governo della Destra storica119. L’avvio dell’Inchiesta segnava già di per sé un evento epocale sotto questo punto di vista e quello che prendeva vita era un enorme sforzo conoscitivo a cui erano chiamati a collaborare non solo le forze politiche, ma anche larghi strati delle istituzioni e delle amministrazio­ ni. Come avrebbe ricordato Francesco Renda: La lunga durata fu segno che l’inchiesta parlamenta­ re percorse il proprio cammino tutto in salita. N on fu 118 Giudizi in questo senso arrivarono già alla chiusura dei lavori nella IV legislatura. Fra le prese di posizione più note: E. Biagi, La Commissione Antimafia è riuscita a non sapere e a non dire proprio niente, in «La Stampa», 26 marzo 1968, p 1; M. Pantaleone, Antimafia: occasione mancata, Einaudi, Torino, 1969; più recentemente F. Frangioni, Le ragioni di una sconfitta, cit. 119 Cft. G. C. Marino, L’opposizione mafiosa. Mafia e politica, baroni e' Stato, Flaccovio, Palermo, 1996, III ed.

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facile, infatti, amalgamare la diversità non formale ma sostanziale dei diversi punti di partenza. La presenza di una Com m issione parlamentare impegnata ad indaga­ re e a controllare la mafia lungo il corso di quattro le­ gislature non fu però un male. Tenne la questione, in principio sconosciuta e quasi aliena alla maggioranza del paese e del Parlamento, sempre presente nell’agenda politica nazionale120.

Mi limito a queste brevi considerazioni non essendo questa la sede per approfondire il tema ed i suoi particola­ ri aspetti. Quello che mi preme sottolineare, dato l’obiettivo dell’intervento, è la complessità della vicenda nel suo insie­ me, premessa necessaria per comprendere anche l’andamen­ to delle singole indagini che in seno alla Commissione pre­ sero luogo. Ovviamente fra queste rientra anche l’oggetto di questo studio, ovvero l’analisi delle modalità con cui l’An­ timafia affrontò la vicenda dei sindacalisti protagonisti delle lotte per la terra e vittime della mafia negli anni del dopo­ guerra. Esperienza che naturalmente va compresa in un in­ trecciarsi di eventi ed attori da analizzare nel loro insieme: la presenza Alleata, l’esperienza del separatismo, il recupero dei partiti, il percorso verso l’Autonomia, il ruolo delle cosche mafiose121. Il periodo 1944-48 è cruciale nella formazione di quella che sarebbe stata la Sicilia degli anni a venire. La ricostru­ zione ed il giudizio su questi anni rappresentavano necessa­ riamente un tema di rilevante importanza per le forze par­ titiche che sedevano in Commissione, perché si trattava di 120 F. Renda,

Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri> cit., p. 1382.

121 Su questi aspetti vedi S. Lupo, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, cit.

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passare al vaglio le scelte politiche compiute; scelte le cui conseguenze lasciavano spazio alle più aperte polemiche. Nel momento in cui i commissari si mettevano al lavoro l’Autonomia della Regione Sicilia appariva agli occhi dei più uno strumento in gran parte fallimentare, crocevia di corruzione e malfunzionamenti più che valore aggiunto per il progres­ so dell’Isola. La mafia, ritenuta da sedimentate convinzioni messa all’angolo negli anni del fascismo, si proponeva con forza nella vita della regione, e non solo in quella crimina­ le. Le varie questioni apparivano collegate fra di loro e alle scelte compiute nell’immediato dopoguerra. La Commis­ sione diventava, perlomeno su questo campo, il luogo in cui verificare, anche di fronte all’opinione pubblica, le decisio­ ni e gli indirizzi assunti. Questo aspetto, come si cercherà di dimostrare, è probabilmente il più importante nei risvol­ ti dei lavori dell’Antimafia. A prescindere dalle acquisizioni effettivamente raggiunte, la partita, nel suo atto conclusivo, si sarebbe infatti giocata nello spazio della rappresentazione pubblica, nella capacità di egemonizzare la narrazione e l’in­ terpretazione dei fatti storici. I LA V O R I D E L L A C O M M IS S IO N E P A R L A M E N T A R E

Nonostante la rilevanza delle questioni appena citate, queste non vennero affrontate in ampi dibattiti in sede di Commissione. Nelle sedute plenarie le discussioni più acce­ se e costanti si consumarono, naturalmente, su temi contin­ genti ed avvertiti come più urgenti: le indagini sul Comu­ ne di Palermo, l’esito dei processi di Bari e Catanzaro fra il 1968 e il 1969, la strage di viale Lazio nel dicembre 1969, la sparizione del giornalista Mauro De Mauro nel 1970, l’ele­ zione di Vito Ciancimino a sindaco di Palermo nello stesso 91

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anno, l’uccisione del procuratore Pietro Scaglione nel 1971, la latitanza del boss Luciano Leggio chiusasi nel 1974, solo per citare i fatti più noti ed eclatanti. Una eccezione da questo punto di vista fu l’audizio­ ne del segretario della Cgil siciliana Ugo Minichini, svolta nell’ottobre del 1963, nel corso della quale il rappresentan­ te sindacale presentò ai commissari un promemoria in cui si ripercorrevano gli anni del movimento contadino per l’oc­ cupazione delle terre, si ricordavano le vittime di quella sta­ gione e si denunciavano le difficoltà dei percorsi processuali relativi a quelle morti122. Per il resto, i temi del 1944-48, ed in particolare le vicen­ de legate alla strage di sindacalisti, vennero affrontati nelle ricerche dei singoli sottocomitati d’indagine, entrando in es­ si attraverso diversi filoni: quello giudiziario, quello sociolo­ gico e quello dell’analisi delle strutture rurali. Da un punto di vista giudiziario, la Commissione ha ac­ quisito una serie di incartamenti relativi alla morte dei diri­ genti delle Camere del Lavoro Placido Rizzotto e Accursio Miraglia, pubblicandoli nei propri volumi123. Il perché del­ la scelta di questi due nomi è da ricondursi, molto sempli­ cemente, al fatto che le indagini sui due omicidi furono le uniche, rispetto a quelle sugli altri sindacalisti assassinati, a giungere in tribunale. Peraltro in entrambi i casi, dopo lunghi e tormentati per­ corsi processuali, non si sarebbe arrivati all’individuazione giudiziaria dei colpevoli.

122 II promemoria e pubblicato in Doc. XXIII, n. 3, voi. 3, Tomo 1 , VII leg., pp. 193-352.

123 Gli atti dei procedimenti penali sono raccolti in Doc. XXIII, voi. 4, Tomo XVI e Doc. XXIII, voi. 4, forno XXII

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Diverse invece le modalità cui si giunse ad acquisire e stu­ diare le carte dei processi. Le acquisizioni su Rizzotto, pro­ babilmente il nome rimasto maggiormente nella memoria collettiva fra le vittime della mafia nel dopoguerra, non na­ scevano da un’indagine specifica sul sindacalista corleonese, ma derivavano dalla documentazione raccolta su quello che è ritenuto il suo assassino, il capomafia Luciano Leggio, sulla cui figura la Commissione investì notevoli sforzi124. In un’ottica di analisi in sé del procedimento processuale, si affrontò invece il caso di Accursio Miraglia. I documenti relativi al sindacalista di Sciacca, ucciso agli inizi del 1947, vennero infatti studiati dal deputato del Pei Mario Assenna­ to membro, insieme al democristiano Elkan, del sottogrup­ po di indagine sugli “Affari giudiziari”. Gruppo di lavoro che aveva il compito di studiare pro­ cessi di mafia per analizzarne eventuali peculiarità e arrivare a definire le possibili lacune e problematiche nell’azione di contrasto investigativo-giudiziaria che si risolveva spesso in assoluzioni per insufficienza di prove125. Dai verbali della Commissione emerge come Assennato si soffermò con particolare dovizia sul processo-Miraglia, elevandolo ad esempio negativo dell’azione della Magistra­ tura nel campo dei delicati procedimenti di mafia, in parti­ colare, come riportato nel verbale sommario, sottolineando 124 Fra gli atri dedicati dalla Commissione Antimafia alla figura di Luciano Leggio, vedi: Relazione sulla indagine svolta in merito alle vicende connesse alla irreperibilità di Luciano Leggio (relatore on. Malagugini), Doc. XXIII, n. 2 , V leg., Relazione sull'indagine riguardante casi di singoli mafiosi (relatore on. Della Briotta), Doc. XXIII, n. 2 -ter, V leg.; Relazione suU'indagine svolta in rapporto alla vicende delle

bobine relative alle intercettazioni telefoniche connesse airirreperibilità di Luciano Leggio ed alle dichiarazioni del Procuratore generale dottor Carmelo Spagnuolo al settimanale «IlMondo» (relatore on. Mazzola), Doc. XXIII, n. 1 , VI leg.,

125 Per un approfondire il tema della storia dei processi di mafia vedi G. Di Lello, Giudici, Sellerio, Palermo, 1994. 93

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«come il mancato collegamento logico fra i vari indizi ab­ bia dato luogo ad una drastica svalutazione delle risultanze emerse»126. L’indagine sociologica non fu seguita invece direttamente dai commissari dell’Antimafia che su questo campo preferi­ rono affidarsi a competenze esterne. Il gruppo incaricato di condurre l’analisi, coordinato dal deputato della De Giusep­ pe Veronesi, dopo aver promosso una tavola rotonda preli­ minare all’inizio dei lavori127, decise di investire del compito della ricerca un gruppo di studiosi coordinati dal professor Franco Ferrarotti128. Nella relazione finale preparata da Ferrarotti veniva ri­ tagliato uno spazio di rilievo all’analisi delle dinamiche che avevano portato all’eccidio di sindacalisti. Partendo dal pre­ supposto che una delle «manifestazioni oggettive» dell’at­ tività mafiosa sta nella «capacità di limitare il diritto di proprietà»129, particolare interesse era dedicato alla reazione della mafia alla riforma agraria e, in prospettiva più ampia, al contrasto posto alle forze sociali protagoniste di quel proces­ so. Quindi, come veniva sottolineato, «Se le risultanze globa­ li della ricerca (che sono state condotte oltre il livello strut­ turale anche a quello psicologico-individuale) consentono di denunciare la pericolosità di orientamenti intesi a ridurre la mafia a delinquenza comune, nulla, come l’uccisione dei sin­ 126 Doc. XXIII, n. 2 , VII leg., Voi. II, seduta del 19 maggio 1965. 127 La tavola rotonda si svolse il 21 giugno 1965 e vide la partecipazione, fra i membri della Commissione di Donato Pafundi, Girolamo Li Causi, Simone Gatto, Ferruccio Parri e Giuseppe Veronesi; vennero chiamati ad offrire il proprio contributo di studiosi Paolo Sybos Labini, Rosario Romeo, Leonardo Scrofani, Tullio Seppilli e don Giuseppe Gemmellaro. Per approfondimenti vedi Doc. XXIII, n. 1 , voi. 1 , VII leg., pp. 31 -99. 128 La relazione conclusiva è pubblicata in Doc. XXIII, n. 1 , voi. 1 , VII leg., pp. 123-251.

129 Ivi, p. 128. 94

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dacalisti, può dare la conferma più inconfutabile del caratte­ re sociale e politico del potere mafioso»130. Le conseguenze di quella catena di delitti erano giudi­ cate «incalcolabili» da Ferrarotti, perché «la mafia ha osta­ colato il consolidarsi delle istituzioni e della coscienza democratica»131. Significativo certamente anche il forte ac­ cento posto dal gruppo di indagine sul ruolo delforganizzazione sindacale, soprattutto nella sua fase unitaria, nel pano­ rama socio-politico siciliano: La lotta sanguinosa condotta dalla mafia contro le for­ ze sindacali trova spiegazione - a giudizio del gruppo di ricerca - nel fatto che il trasformismo politico, co­ me strumento per vanificare ogni program m a politico e ogni possibilità di rinnovamento, perde l’efficacia nel cam po sindacale, ne è riprova il fatto che, tra i sin­ dacalisti uccisi figurano — secondo quanto si è potuto apprendere - anche elementi di notoria ispirazione cat­ tolica. Il sindacato rappresenta, nella situazione sicilia­ na, un determinante strumento di rottura delle vecchie strutture132.

Completando questa rapida panoramica, è da sottoline­ are come se è possibile ricostruire una parte del lavoro del gruppo degli “Affari giudiziari”, anche per Feco che ebbe sul­ la stampa a causa delle frizioni fra Commissione e Magistra­ tura siciliana133, e ancor meglio le indagini sociologiche, non 130 Ivi, p. 130. Corsivo presente nell’originale. 131 Ibidem. 132 Ibidem. 133 Fra gli altri vedi Fermo atteggiamento dei magistrati palermitani, in «Giornale di Sicilia», 3 dicembre 1965 e Mafia, Antimafia e giustizia in Sicilia, in «L’Ora», 3 95

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è invece al momento ricostruibile l’attività di un altro Co­ mitato che si interessò molto da vicino all’oggetto di questo intervento. Ovvero il Gruppo di indagine sulle strutture so­ ciali, costituito nella seconda fase dell’attività dell’Antimafia, durante la presidenza di Francesco Cattanei, coincidente con la V Legislatura. Il Gruppo nasceva con una doppia finalità investigativa: quella storica e quella legata alla contingenza degli eventi. Da un lato si guardava dunque al passato, facendo esplicito rife­ rimento ad uno degli intenti indicati dalla legge costitutiva dell’Antimafia, ovvero la comprensione della «genesi del feno­ meno mafioso»; in una consolidata visione della mafia come fenomeno pre-moderno, la campagna assurgeva infatti al luo­ go d’origine e di naturale espansione della “Onorata società”, e quindi rappresentava il luogo storico per eccellenza da inda­ gare per trovare risposta ai diversi interrogativi134. Dall’altro le indagini sulle “strutture rurali”, come venivano definite, erano stimolate da vicende più recenti come l’omicidio dell’assessore socialista Carmine Battaglia a Tusa, nella provincia di Messi­ na. Dopo aver teorizzato la fine della mafia di campagna, or­ mai trasferita nella più redditizia e avanzata economia urbana, un delitto come quello di Tusa, nel 1966, che si inseriva in una più ampia catena di omicidi nelle campagne del messine­ se, stimolava le domande sul perché di tale persistenza dell’a­ zione mafiosa nel mondo rurale135. In questa ottica di lungo periodo, fra i temi centrali di indagine che si ponevano da-

dicembre 1965. 134 Sulla tradizionale contrapposizione fra vecchia mafia agricola e nuova criminalità urbana e sul superamento di questo tema dalla ricerca a partire dagli anni Ottanta, vedi S. Lupo, Storia della mafia, cit. 135 Sull'omicidio Battaglia vedi G. F. Polara, Un assessore socialista ucciso a colpi di lupara, in «L’Unità», 25 marzo 1966.

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vanti al Comitato vi era «l’analisi e valutazione di un impor­ tante momento storico-sociale, caratterizzato dalla lotta per la riforma agraria, la frantumazione dei latifondi e l’occupa­ zione delle terre, dal 1945 in poi. Tale periodo rappresentò una svolta nell’evoluzione della mafia, qualificata da gravissi­ me manifestazioni criminose (uccisione di sindacalisti, inti­ midazione, connivenze con il banditismo), da chiare interfe­ renze nelle attività politiche e sindacali»136. Al momento però, non è possibile aggiungere molto al­ tro su quelle che furono le indagini sulle «strutture rurali». Il gruppo infatti, al pari di altri costituiti sotto la presidenza Cattanei, per quanto riuscì ad ultimare al termine della legi­ slatura la propria relazione (su cui certamente si lavorò per i tre anni in cui il Comitato fu attivo, come si deduce dai ver­ bali dell’Antimafia), non fu in grado di presentarla in tem­ pi adeguati per essere discussa in sede di Commissione e lì approvata. La sua definizione veniva così rimandata a quella che sarebbe stata l’ultima legislatura di questa prima Com­ missione Antimafia, che si consumava sotto la presidenza di Luigi Carraro. Con la nuova direzione impressa in quest’ultima fase, si abbandonò la prassi perseguita da Cattanei di pubblicare di volta in volta le relazioni settoriali approvate, in attesa della relazione conclusiva. Con Carraro presiden­ te la linea divenne quella di recuperare il materiale acquisi­ to dai vari gruppi ancora aperti, definirlo, aggiornarlo e poi infine utilizzarlo esclusivamente come base di lavoro per la relazione finale. Il lavoro a suo tempo approntata dal gruppo per le “strut­ ture rurali” giace quindi attualmente nell’Archivio del Sena­ 136 Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V legislatura (relatore on. Cattanei), Doc. XXIII, n. 2-septies, V leg. 97

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to non ancora consultabile; insieme alla relazione, i verbali del gruppo di indagine e tutti i documenti che non furono utilizzati nella stesura della relazione conclusiva e quindi non allegati a questa. Un limite per le finalità di questa ricerca? Ritengo che sia così solo in parte. Certamente lo è dal punto di vista strettamente conoscitivo, ma tale mancanza è estremamente signifi­ cativa per quello che è il centro di questo breve intervento, ov­ vero l’analisi delle raffigurazioni veicolate dalle istituzioni e dai partiti, le verità che si sono cercate di raggiungere, ma anche le verità che si è cercato di trasmettere. Come si vedrà nella parte conclusiva, la stesura delle rela­ zioni conclusive diventa il momento in cui le risultanze ac­ quisite lasciano il passo ai messaggi che si vogliono veicolare: l’impianto conoscitivo diventa secondario rispetto alla costru­ zione di immaginari legati alle culture e agli obiettivi politici. La mancanza di una diffusione pubblica dei documenti, come nel caso di quelli accumulati dal gruppo per le “strutture rura­ li” (che, peraltro, a differenza di altri casi non arrivarono all’o­ pinione pubblica neanche attraverso calibrate fughe di notizie) permetteva ancora più facilmente di giocare su questa discre­ panza. Tornando poi più strettamente sui documenti, potrebbe colpire, da quanto emerso finora, anche un altro elemento. Ovvero una certa minimizzazione con cui venne trattata la ricostruzione della stagione dei sindacalisti uccisi dalla mafia negli anni delle lotte per la terra, con le loro morti rimaste impunite. Potrebbe stupire soprattutto il fatto che il Partito Comunista e gli ormai due partiti socialisti, benché avessero contato il più alto numero vittime fra le proprie fila, non ne abbiano fatto un terreno di battaglia così come sarebbe inve­ ce avvenuto rispetto alla strage di Portella della Ginestra, su 98

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cui fu scritta una relazione settoriale e su cui vennero raccol­ ta una mole documentaria assai rilevante. Un impegno consumato in particolare dai commissari del Pei, che avrebbe portato ad una sostanziale riscrittura della prima relazione Berardinetti e aperto anni di dibattito fra Commissione e i ritrosi uffici del Ministero delFInterno. Miraglia, Rizzotto e tutti gli altri erano ferite meno pro­ fonde rispetto ai morti di Portella? In apparenza sì. A ben ve­ dere però, vi era una differenza fondamentale: benché quelle vittime fossero rimaste impunite da un punto di vista giu­ diziario, la strategia dietro la loro strage era tutto sommato chiara (piuttosto poteva essere differente la valutazione po­ litica), così come sostanzialmente palesi erano gli attori di quegli eventi. Non casualmente, nella stessa relazione con­ clusiva del Pei si arrivava a concludere che di fronte al mo­ vimento contadino «era, infatti, inevitabile che il gabellotto, messo con le spalle al muro dai contadini, reagisse con tutta la violenza di cui erano capaci le cosche mafiose delle quali egli era espressione. Da qui la lunga catena degli eccidi di dirigenti contadini commessi in quegli anni».137 Diverso il caso di Portella: le vicende della banda Giulia­ no, benché per un periodo avessero incrociato lo stesso terre­ no delle lotte contadine, erano più complesse, più ampie, ed avevano lasciato in piedi una serie di enigmi che rendevano il terreno dello scontro politico ancora molto fertile ad anni di distanza138.

137 Doc. XXIII, n. 2, VI leg., p. 574. 138 Relativamente ai linguaggi e alla simbologia legati alla memoria di Portella della Ginestra, vedi S. Cruciani, M. P. Del Rossi, M. Claudiani, (a cura di), Portella della

Ginestra e il processo di Viterbo. Politica, memoria e uso pubblico della storia (19472012), Roma, Ediesse, 2014. 99

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LA S T R A G E D I S IN D A C A L IS T I N E L L E R E L A Z IO N I C O N C L U S I V E

La Commissione Antimafia chiudeva i suoi lavori nel corso della VI legislatura, agli inizi del 1976, sotto la presi­ denza di Franco Carraro. Anni di lavoro e tensioni costanti avevano segnato in profondità la Commissione, acuendo­ si ulteriormente nella fase finale dalla gestione di Carraro, incapace di moderare i difficili equilibri interni fra forze di maggioranza e minoranza. Dopo gli anni della presidenza Cattanei, in cui la Commissione si era scontrata con una crescita della pericolosità sociale di Cosa Nostra, resa evi­ dente da episodi come l’uccisione del procuratore Scaglio­ ne e della scomparsa di Mauro De Mauro, ma cercando comunque di ritagliarsi un ruolo di attenta osservatrice dei fenomeni in corso, incomprensioni, contrasti e differen­ ti prospettive di lavoro caratterizzarono invece l’ultima fase dell’Inchiesta. In questo clima, anche di fronte ad un’opinione pubbli­ ca che arrivava all’appuntamento del termine dei lavori con un senso di stanchezza e frustrazione, vennero meno le basi per delle conclusioni condivise ed unitarie. Il che si tradusse nella presentazione di una relazione conclusiva a firma Car­ raro, e di due Relazioni di minoranza, una del Pci-Sinistra Indipendente, una del gruppo Movimento Sociale ItalianoDestra Nazionale.139 Fra i limiti e gli aspetti negativi che hanno certamente caratterizzato la lunga esperienza della prima Commissione Antimafia, l’elaborazione di tre diverse relazioni conclusi­ ve rappresenta, a mio avviso, il lascito più negativo dell’In­ chiesta nel suo complesso, in particolare per le contraddi­ 139 Le relazioni sono raccolte in Doc. XXIII, n. 2, VI leg. lOO

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zioni insite in quest’operazione. Ovvero il non tener conto di relazioni settoriali approvate unitariamente nel corso de­ gli anni, sebbene in certi casi con ampia fatica (mi riferisco in particolare alla relazione sul Comune di Palermo140), e il non considerare le proposte di carattere sociale e legislativo avanzate unitariamente141. Non può infatti non emergere un paradosso se le diverse parti giunsero a segnalare le stesse so­ luzioni per reprimere le manifestazioni maliose, ma propo­ nendo analisi diversi del problema. Paradosso che si comprende solo nel conflitto dei diffici­ li equilibri politici: come più volte ribadito, si decise infatti di superare le risultanze che potevano emergere da migliaia e migliaia di documenti accumulati, e porsi di fronte all’are­ na pubblica sul piano della divisione progettuale e culturale, da cui la necessità di politicizzare fortemente le conclusioni dell’Inchiesta. Questo approccio valse anche, e forse soprattutto, per la ricostruzione degli anni seguiti allo sbarco Alleato. Lasciata in parte ai margini dalle indagini e dalle discussioni dei tre­ dici anni di attività, ora tornava ad avere una centralità per i motivi accennati nei passi introduttivi di questo intervento, ovvero per la portata delle scelte politiche allora compiute. Il confronto fra la relazione di maggioranza e quella della minoranza comunista esemplifica gir obiettivi che si perse­ guivano nella stesura delle conclusioni. In entrambi i casi si tentò di ricostruire una verità che fosse la propria, che desse 140 La relazione è pubblicata in Doc. XXIII, n.2 -ter, V leg. 141 Mi riferisco al documento approvato il 6 agosto 1963 (pubblicato in Doc. XXIII, n. 2, voi. 2, VII leg., pp. 97-99), che sarebbe stato la base della legge del 31 maggio 1965 n. 575 recante «Disposizioni contro la mafia», ed alle proposte conclusive approvate unitariamente e inserite difatti nella Relazione di maggioranza (i verbali di discussione e gli schemi redatti sono pubblicati in Doc. XXIII, n. 1 , Voi. 1 , VII leg., pp. 1017-1171). IO!

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valore a progetti e disegni di più lungo corso. Le ricostruzio­ ni tennero conto in ambedue i casi degli stessi passaggi (lo sbarco Alleato, la ripresa del fenomeno mafioso, l’esperienza separatista, il movimento contadino, il percorso verso l’Au­ tonomia), ma declinandole in maniera opposta, seppur trac­ ciando alcuni interessanti punti di contatto. In entrambe le relazioni il punto di partenza era costi­ tuito dall’arrivo degli Alleati nell’Isola come il momento di svolta per le cosche mafiose (il «nodo del 1943» veniva defi­ nito nella relazione del Pei), duramente represse sotto il regi­ me fascista, ed ora in grado di tornare ad espandersi142. Per i commissari del Partito Comunista il nesso di questo passag­ gio non era casuale, ma dovuto alle scelte compiute dagli an­ glo-americani. Scriveva infatti La Torre, estensore principale del documento: «un rinnovato alimento la mafia lo ricevette dal modo in cui avvenne la liberazione della Sicilia nell’esta­ te del 1943. Nella loro manovra, gli agrari, all’inizio si in­ contravano con le forze di occupazione angloamericane che, anche in Sicilia, si appoggiavano a gruppi sociali conservatori. C’è infine l’utilizzazione, da parte dei servizi segreti ame­ ricani, del gangsterismo siculo-americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia e l’insediamento di sindaci mafiosi in numerosi centri dell’Isola»143. La necessità bellica, ma non ovviamente l’aspetto politi­ co-sociale di una sotterranea alleanza mafia-Alleati, veniva riconosciuta anche da Carraro affermando che il noto gan­

142 Sul tema Alleati-mafia vi è un’ampia letteratura. Segnalo, come punto attuale d’arrivo della ricerca, il recente saggio di M. Patti, La Sicilia e gli alleati. Il Sud tra occupazione e Liberazione (1943-1945), Donzelli, Roma, 2013. Sulla questione mafia-fascismo un punto di riferimento è Mafia efascismo, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 63, 2008. 143 Doc. XXI11, n. 2 , VI leg., p. 572. 102

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gster Lucky Luciano «una volta accettata l’idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli ele­ menti dell’esercito americano che sarebbero sbarcati clande­ stinamente in Sicilia per preparare all’occupazione imminen­ te le popolazioni locali»144. Il Pei poteva dunque cogliere l’occasione politica di porre sotto accusa gli americani; la De preferiva piuttosto “spor­ care” parzialmente l’immagine del suo punto di riferimento internazionale, pur di presentare le condizioni dell’espansio­ ne del fenomeno mafioso legate a fattori esterni. Da rilevare come questa presa di posizione abbia rappresentato una ca­ ratteristica di lungo corso dell’Antimafia: in una successiva edizione, sotto la presidenza di Luciano Violante, sarebbe infatti stata ripresa ed esplicitata con ancor più veemenza145. Siamo comunque in tutti e tre i casi molto distanti da quanto avrebbe successivamente scritto, molto saggiamente, lo storico Francesco Renda, invitando a guardare alle forze sociali presenti sull’Isola in grado di garantire quegli spazi di agibilità alla mafia nel lungo periodo, e non solo alla ripresa di un determinato momento di per sé non decisivo146. Tornando alle due relazioni del 1976, la narrazione pro­ seguiva con la ricostruzione dell’esperienza separatista, dei suoi contatti con gli Alleati e del temporaneo incontro con la mafia. In entrambi i documenti c’è proprio in questo fran­ gente il momento di più significativo contatto, per il mes­ 144 Ivi, p. 116. 145 Vedi Relazione sui rapporti tra mafia e politica (relatore on. Violante) in Doc. XXIII, n. 2, XI leg.

146 F. Renda, Storia della mafia, Sigma, Palermo, 1997, pp. 228-29. 103

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saggio che si vuole veicolare: il riconoscimento del ruolo es­ senziale dei partiti antifascisti nel momento in cui riescono ad acquisire la necessaria agibilità politica. In una lettura unitaria, il pericolo separatista venne argi­ nato e superato sul piano sociale dal movimento contadino, assimilabile sul piano etico alla Resistenza, e sul piano più strettamente politico grazie alla scelta di intraprendere la strada dell’Autonomia. Proprio su questi due piani si andava a consumare, nell’ottica comunista, il tradimento democristiano. La scel­ ta di rompere l’alleanza postfascista, che in Sicilia si tradus­ se dopo Portella della Ginestra nell’accordo con le forze di destra, portava la De ad essere in balia delle cosche mafiose, infiltrate nei partiti clientelari e reazionare147. L’esclusione dal governo dell’Isola delle forze sane della si­ nistra, espressione delle masse popolari e quindi naturalmen­ te antitetiche alla mafia (nella lettura sempre classista della mafia intesa quale borghesia agraria), equivaleva all’abbandonare la Regione alla corruzione e agli interessi più retrivi. Da qui anche le cause della degenerazione dell’Autonomia regionale. Il prezzo del tradimento dell’alleanza antifascista doveva essere pagato anche sul piano della memoria. Nella relazione del Pei veniva a mancare ogni riferimento alla presenza cat­ 147 Scriveva La Torre nella Relazione di minoranza: «Il voto del 18 aprile, in Sicilia, vide tutte le forze conservatrici e parassitane fare quadrato intorno alla Democrazia cristiana. Si creò un clima di terrore per ricacciare indietro il movimento contadino che aveva osato mettere in discussione il dominio del blocco agrario. Il voto per la D C da parte di queste forze fu una ipoteca consapevole che si volle mettere sulla politica di quel partito [...]. Ecco, allora, la risposta all'interrogativo angoscioso del perché delFinquinamento mafioso della Regione. La Regione Siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l’espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso». In Doc. XXIII, n. 2 , VI leg., p. 575.

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tolica nel movimento sindacale per l’applicazione dei decreti Cullo, ed anzi la Democrazia Cristiana veniva presentata co­ me nemica delle forze contadine, in quanto espressione di quel governo che avrebbe contrastato il movimento e lascia­ to impunite le sue vittime: Il fatto grave è che l’apparato dello Stato si com portò sempre in m odo da garantire l’im punità degli assassini e dei mandanti. La questione è decisiva e merita una spiegazione politica. Occorre, a questo fine, risponde­ re all’interrogativo: verso quali forze politiche si orien­ tarono le cosche mafiose dopo il tram onto del M ovi­ mento separatista? Una parte si orientò verso i vecchi esponenti del trasformismo politico siciliano (libera­ li, monarchici, e qualunquisti). U na parte, invece, si orientò verso la Dem ocrazia cristiana148.

La riflessione nella relazione Carraro era speculare. In­ nanzitutto veniva rivendicato il ruolo decisivo e progressista delle forze cattoliche nelle lotte sociali per la redistribuzione delle terre. Il che non si traduceva solo nella presenza stessa fra i dirigenti sindacali che diedero voce a quel movimento, ma ricadeva in una prospettiva di più ampia durata. Questa aveva origine nel ruolo del Partito Popolare nel primo dopo­ guerra e si sarebbe concretizzata nel secondo dopoguerra con la Democrazia Cristiana quale protagonista principale della realizzazione della riforma agraria. Carraro metteva anche in risalto la capacità degli espo­ nenti democristiani di intraprendere per primi il percorso politico dell’autonomia isolana, facendosi interpreti delle 148 Ivi, p. 574. 105

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profonde rivendicazioni del popolo siciliano. Tradendo alcu­ ne difficoltà, il presidente dell’Antimafia giustificava le man­ chevolezze del proprio partito nel non aver saputo imprime­ re la corretta via alla autonomia regionale. Carraro descriveva un circolo vizioso che prendeva le mosse da un ricatto a cui la De non potè non soccombere, vedendosi costretta ad allearsi con le forze conservatrici iso­ lane espressioni effettive delle cosche mafiose: Le forze del blocco agrario non esitarono a tentare un ricatto nei confronti del partito che proprio in quel tempo emergeva alla direzione della Nazione e che era interessato, come si è visto, a conquistarsi il consenso dei ceti medi e della borghesia emergente. Lo sposta­ mento delle preferenze e dei voti mafiosi che si veri­ ficò in questo periodo e negli anni immediatamente successivi non fu certo l’effetto di sollecitazioni o di collusioni, ma fu tuttavia la causa di una grave distor­ sione, perché insieme ad altri fattori, d’importanza indubbiamente maggiore, concorse a piegare in altra direzione la politica di sviluppo democratico e d’im­ pianto riformistico che era stata iniziata in Sicilia. [...] I voti e le speranze di quei tempi fervidi d’entu­ siasmo e di rinnovamento non si realizzarono a pieno, anzitutto perché l’impianto e la gestione del nuovo istituto, rifiutando le alleanze e i consensi che ne ave­ vano permesso la fondazione, offrirono nuovo spazio a un sistema di potere fondato sul clientelismo, sulla corruzione e sulla mafia149.

149 Ivi, pp. 123-24. 106

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Dalle due relazioni appena analizzate emergono dunque una contrapposizione politico-culturale, ma anche, appunto, un tratto comune: l’idea della mafia come di una forza pre­ moderna, da sconfiggere e superare attraverso un progresso che è portato dai grandi partiti popolari, sebbene una mo­ dernità di segno diversa. Come ha sottolineato Salvatore Lupo, vi fu un compro­ messo nello «scaricare» il passato e «soprattutto lo stato libe­ rale cui viene addebitato ogni male con comune vantaggio delle due forze antirisorgimentali, cattolici e comunisti»150. In questo che nelle radici si caratterizzava quindi come un incontro-scontro, a soccombere fu in particolare la posi­ zione socialista, schiacciata fra una alta tradizione nel terreno dell’antimafia e la scomoda alleanza con la DC. Venuta me­ no la formula del centro-sinistra nella fase conclusiva della VI legislatura, il Psi si asteneva rispetto alla relazione Carraro e votava a favore delle risultanze comunista151; la sua vo­ ce risultava però ininfluente, così come era rimasta sbiadita sostanzialmente lungo tutto l’arco dell’esperienza dell’inda­ gine. Le difficoltà incontrate dai socialisti in sede di Com­ missione ricordavano pienamente le difficoltà incontrate in molti altri campi della vita istituzionale, una volta avviato il centrosinistra: ad amplificarle i fuoriusciti membri del Psiup, che dai banchi dell’Antimafia avrebbero mantenuta propria la combattività delle lotte socialiste in Sicilia. In questo contesto a conservare viva la propria peculiari­ tà, e con essa il proprio sguardo sul passato, anche se con un impatto del tutto secondario rispetto a quello della De e del

150 S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 244. 151 Vedi S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007.

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Pei, era il Movimento Sociale152, che ebbe in Commissione, come suo punto di riferimento centrale lungo le tre legisla­ ture, Angelo Nicosia. L’Msi si sarebbe reso protagonista della seconda relazione conclusiva di minoranza, esemplificando in essa il proprio tentativo di contrapporre al disegno della modernità dei par­ titi antifascisti, la propria visione nostalgica e reazionaria153. Compresa la ripresa di un disposto culturale che individua nel sistema elettorale democratico un terreno fertile per l’e­ spansione delle cosche maliose: «ai partiti politici è connessa la formazione dei corpi elettorali. Basta un ripetuto scam­ bio di favori e protezioni attraverso le basi elettorali che una qualsiasi volontà maliosa, organizzandosi nell’organizzazione partitica, assurga a forza di potere»134. Ci si potrebbe peraltro chiedere, fra parentesi, se il relatore rivolgeva questa preoc­ cupazione anche nei confronti del proprio partito. In una relazione tutta incentrata sulla critica a queste for­ mazioni e al coevo sistema istituzionale, l’attacco prendeva le mosse dalla “gestione” del fenomeno mafioso. L’Msi get­ tava sulla bilancia delle considerazioni finali la rivendicazio­ ne della sostanziale riuscita dell’azione repressiva del prefet­ to Mori sulla mafia, collegandola ovviamente al più ampio impegno del Regime, e contrapponendola alla ripresa della criminalità nel dopoguerra. E, con essa, alla corruzione del 152 La relazione della minoranza di destra è stata sostanzialmente snobbata dalla storiografia, a differenza delle altre due a cui si è attinto a piene mani. Una eccezione in questo senso è rappresentata, nel campo della pubblicistica, da A. Caruso, Longanesi, Milano, 2008. Testo, di scarso valore scientifico, pienamente ispirato dai tre relatori del gruppo Msi-Dc, Angelo Nicosia, Giorgio Pisano e Giuseppe Niccolai. 153 Sull’esperienza storica del Movimento Sociale Italiano vedi M. Tarchi, D alM si adAn: organizzazione e strategie, Bologna, 11 Mulino, 1997.

154 Doc. XXIII, n. 2, VI leg., p. 965. 108

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sistema politico. Corruzione che coinvolgeva appieno i par­ titi dell’arco costituzionale, egualmente attori protagonisti, e quindi egualmente colpevoli, della vita repubblicana155. In questa raffigurazione, lo sbarco Alleato e il percorso che portarono all’istituzione della Regione, luogo della cor­ ruzione politica per eccellenza, subirono nella Relazione gli attacchi più duri. Il potere regionale viene garantito da uno spirito au­ tonomistico assurdo, quando si parla di inchiesta. Fatti successivi al periodo di acquisizione dei documenti, oggi a disposizione dell’opinione pubblica, confermano che la Regione siciliana è una istituzione dove i modi di ammi­ nistrare e di governare sono quelli diretti a demoralizza­ re il popolo anziché ad esaltarlo. In una colossale osmosi politico-amministrativa senza precedenti Regione sicilia­ na e Comune di Palermo registrano le più stupefacenti esibizioni del «capriccio di coloro che hanno il potere», del tutto estese nel giro di poco tempo all’intero territorio nazionale. Basta soffermarsi nel groviglio di disposizioni nazionali, regionali e comunali in materiale edilizia, per rendersi conto del terreno fertile per ogni attività delit­ tuosa156. Allo stesso tempo, la stagione della lotte contadine, in cui le forze sociali che sarebbero confluite nella destra ne­ ofascista non ebbero alcun ruolo, semplicemente non veniva menzionata. In questo caso, dove non si poteva raccontare la propria verità, si sceglieva di selezionare la memoria da tra­ smettere. 155 Su denunciati collegamenti e collusioni fra mafia e partiti politici nell’ambito della politica regionale, prendendo spunto dalla biografia di Luciano Leggio, si basa in particolar modo la parte a firma Giorgio Pisano: in Doc. XXIII, n. 2 , VI leg., pp. 993-1060. 156 Ivi, p. 967.

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I sindacalisti uccisi, nei documenti e nella memoria di Dino Paternostro

Tra il 1945 e il 1946 ebbero inizio in Sicilia le lotte per la terra, che continuarono fino al 1950 ed anche oltre, coin­ volgendo centinaia di migliaia di contadini poveri, specie della parte centro-occidentale dell’Isola. Ad incoraggiar­ le fu il tentativo dei governi di unità nazionale, compo­ sti da tutti i partiti antifascisti, di dare risposte concrete al bisogno di terra e libertà delle popolazioni meridio­ nali. Infatti, il 19 ottobre 1944 fu emanato dal ministro dell’agricoltura dell’epoca - il comunista Fausto Gullo il decreto n. 279, che riconosceva ai contadini riuniti in cooperative il diritto di ottenere in concessione le terre incolte e mal coltivate degli agrari. Il provvedimento legi­ slativo coglieva il bisogno fondamentale dei contadini di poter accedere alla terra, considerata strumento di eman­ cipazione sociale. Nella Sicilia del secondo dopoguerra, la struttura della proprietà fondiaria era ancora caratte­ rizzata dal prevalere del latifondo. Ancora nel 1946, la proprietà che superava i 50 ettari era pari al 39,3% della superficie agraria siciliana, mentre appena 282 proprieta­ ri possedevano il 10,6% della superficie agraria dell’isola. in

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Secondo i dati del censimento del 1936, i 4/5 della popo­ lazione addetta all’agricoltura non possedevano neanche un pezzo di terra o ne possedevano talmente poca da po­ tersi considerare povera. I contadini, quindi, incoraggiati dal nuovo quadro le­ gislativo, cominciarono ad associarsi in cooperative e a presentare le domande di concessione per i feudi incolti o mal coltivati. Le loro richieste, però, rimasero inevase per me­ si e mesi sui tavoli delle Commissioni provinciali, che avrebbero dovuto esaminarle. Fu per protestare contro questi ritardi che decisero di occupare simbolicamente le terre, rivendicando l’emanazione dei decreti prefettizi di concessione. Rapidamente, il movimento di occupa­ zione delle terre incolte fu presente in tutte le province, ma si sviluppò più intensamente nella Sicilia centro-oc­ cidentale, a prevalente coltura latifondistica. Vi parteci­ parono piccoli proprietari, ma l’anima del movimento fu costituita da braccianti senza terra e da contadini po­ veri, più combattivi e numerosi. Organizzatori di queste lotte furono i partiti democra­ tici e i sindacati, appena ricostituitisi. In primo luogo, il Pei e il Psi, le Camere del lavoro della Cgil, che allora ave­ va al suo interno ancora la componente democristiana e la componente laica (Psdi, Pri), la Federterra, e in alcuni casi anche la De. Già il 10 ottobre 1945, a Santa Caterina Villarmosa, circa 1.500 contadini organizzarono la «marcia su Caltanissetta», per attirare «l’attenzione delle autorità sull’opportunità e l’urgenza di concedere le terre incol­ te..., prima che passasse l’epoca della semina», racconta

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3 . 1 s in d a c a listi u c cisi, nei d o c u m e n ti e nella m e m o ria

Michele Pantaleone157. Una simile iniziativa di protesta fu organizzata, nell’autunno ‘46, dai contadini di Piana degli Albanesi, che si recarono a cavallo e a piedi fino a Palermo, percorrendo un tragitto di circa venti chilome­ tri. Si mobilitarono anche i contadini di Corleone, di San Giuseppe Jato e di San Cipirello. Memorabile fu «la ca­ valcata», organizzata dal dirigente comunista e segretario della Camera del lavoro Accursio Miraglia, che si svolse nel settembre del 1946 a Sciacca (Agrigento). Migliaia di contadini di Sciacca e del circondario manifestarono per le strade del paese «la loro volontà di lotta, la loro volontà di rinnovamento, per la rinascita e il riscatto della nostra terra», avrebbe scritto Michelangelo Russo nel 1985. Eccone il racconto a Danilo Dolci di un contadino che vi aveva partecipato: La sera del sabato si disse che si doveva fare una caval­ cata dentro il paese, per dare a capire quanto popolo aveva appresso lui (Accursio Miraglia), che voleva la terra [...] L’indomani all’orario che si organizzaro­ no, vennero tutti i contadini; quando loro passarono, il prim o che era davanti, era lui... dietro di lui tutta la massa. C ’erano da Menfi, M ontevago, Santa M argheri­ ta, Sam buca, Burgio, Caltabellotta, Lucca, Ribera, Calamonaci, Villafranca, tutti a cavallo. Erano allegri, chi faceva voci, chi faceva fischi, se incontravano quelli che erano contrari. I più ricchi quella m attina balconi non ne hanno aperto nessuno. C ’erano anche ragazzi a ca­ vallo col loro padre. Accursio M iraglia pareva Orlando

157 Michele Pantaleone, M afia e politica, Einaudi Torino 1972; id., A cavallo della tigre, Flaccovio Palermo 1 984.

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a cavallo, era un piacere vedere questa potenza d ’uom o a cavallo, era una persona da guardarlo, era un amore a guardarlo, la sua presenza era amorosa. I bambini but­ tavano qualche fiore, c’era il popolo a massa per lui... Era lunga la cavalcata... era una cavalcata che non fi­ niva mai, su due file... Le guardie facevano chiasso che volevano che si scioglievano presto. C ’erano quattro o cinquemila muli, poi tutte le biciclette. Chi ce Favevano nel cuore, salutavano e battevano mani, c’erano lì i mariti e i figli e le mogli che stavano sulla passata, aspettando di vederli. Poi al cam po sportivo lui disse quattro parole per spiegare perché era stata fatta la ca­ valcata, lui era molto contento e fece applauso alle per­ sone e ringraziò il popolo. E poi li fece sciogliere»158.

Dopo queste prime lotte, le prefetture cominciarono ad emanare i primi decreti di concessione delle terre in­ colte, ma i grossi latifondisti ostacolarono in tutti i modi (legali ed extra-legali) le procedure di assegnazione, para­ lizzando il lavoro delle commissioni provinciali che ave­ vano il compito di esaminare le domande. Nelle campa­ gne siciliane, quindi, si respirava un clima tutt’altro che tranquillo. Di fronte all’aperto ostruzionismo degli agra­ ri, i contadini esasperati protestavano e sfogavano la loro rabbia, intensificando le invasioni dei feudi incolti o mal coltivati. Ma gli agrari, spalleggiati dai campieri e dai gabellotti mafiosi, intrecciarono l’ostruzionismo legale col terrorismo extra-legale. Gli atti terroristici contro i diri­ genti del movimento contadino cominciarono il 16 set­ tembre del 1944, con l’attentato a Girolamo Li Causi, se­ 158 D. Dolci, Spreco, Einaudi, Torino 1962. 114

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gretario regionale del PCI, durante un comizio a Villalba, il “feudo” di don Calò Vizzini. Proseguirono nel ‘45 e nel ‘46, con gli assalti alle Camere del lavoro, le intimidazioni e i pestaggi dei suoi dirigenti e con i primi omicidi. Prima di Azoti, infatti, erano già caduti Andrea Raja a Casteldaccia, Nunzio Passafiume a Trabia, Agostino D ’Alessandria a Ficarazzi, Giuseppe Scalia a Cattolica Eraclea, Giu­ seppe Puntarello a Ventimiglia Sicula, Gaetano Guarino a Favara, Pino Camilleri a Naro, Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia ad Alia, Giuseppe Biondo a S. Ninfa e Paolo Farno a Comitini. Ma non sarebbe finita lì. Sotto il piombo della mafia, negli anni successivi, sarebbero ca­ duti altri sindacalisti come Accursio Miraglia a Sciacca, Epifanio Li Puma a Petralia, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Salvatore Carnevale a Sciara. Si arrivò a circa 50 caduti per mano mafiosa. “Fu una vera e propria guerriglia contro i lavoratori, nel cui corso caddero a decine non solo gli attivisti e i dirigenti sinda­ cali, ma quegli elementi che, in qualche modo, solidariz­ zavano con la lotta popolare contro il feudo», scrisse la Cgil siciliana nel famoso documento presentato alla pri­ ma Commissione antimafia nell’ottobre 1963. «Nelle sue lotte —si legge ancora nel documento - la Cgil si è trovata sempre circondata dalla solidarietà di tutti i siciliani, ma non ha trovato mai, purtroppo, un efficace sostegno da parte delle autorità dello Stato”. All’inizio del 1947 si era consumata a Roma la scissio­ ne di Palazzo Barberini. Giuseppe Saragat con i suoi se­ guaci aveva abbandonato il Partito socialista, legato al Pei da un patto di unità d’azione, dando vita al Partito socialdemocratico, filo-occidentale ed anticomunista. In Sicilia, ii5

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però, la scissione aveva avuto poco seguito e il movimen­ to contadino era rimasto unito. Le sinistre, per contrap­ porsi con maggiore forza all’offensiva agrario-mafiosa, de­ cisero di presentarsi unite all’appuntamento elettorale del 20 aprile 1947, per eleggere la prima Assemblea Regiona­ le Siciliana. Anche la mafia partecipò attivamente a quella campagna elettorale, intensificando gli attacchi al movi­ mento contadino e popolare. Ancora una volta, quindi, si ripropose lo scontro che aveva già insanguinato le cam­ pagne e tante cittadine siciliane: da un lato le forze che difendevano gli interessi delle masse contadine, dall’altro chi quegli interessi voleva reprimerli in tutti i modi. A so­ stegno delle forze conservatrici e reazionarie si schierò an­ che l’apparato statale, cosicché, se nella Sicilia occidentale gli agrari potevano contare sulla mafia, nella parte orien­ tale dell’Isola, «nella Sicilia senza mafia», si affidarono alla “Benemerita”. Il 17 marzo, a Messina, durante uno scio­ pero contro il carovita i carabinieri spararono —al grido di “Avanti Savoia!” —sulla folla radunata davanti alla Prefet­ tura, causando la morte di due manifestanti ed il ferimen­ to di altri 15 persone. Ma anche a livello internazionale il clima stava diven­ tando sempre meno favorevole alle sinistre. Il 12 marzo 1947, infatti, era stata divulgata la “dottrina Truman”, secondo cui era interesse degli Stati Uniti d’America op­ porsi all’espansione delle forze di sinistra nell’area di sua influenza. Fu la “guerra fredda” tra U.S.A. ed U.R.S.S., le due maggiori potenze mondiali. E l’Italia, come stabilito negli accordi di Yalta del ’45, doveva rimanere legata agli Stati Uniti d’America. Mafiosi, agrari e forze politiche di centro-destra, dunque, pensarono fosse necessario e ur­ gente arrestare la preoccupante ascesa dei social-comuni­ 116

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sti in Sicilia. A qualunque costo e con qualunque mezzo. Specie dopo il 20 aprile 1947, dopo i risultati elettorali per la prima elezione dell’Assemblea Regionale Siciliana. Nonostante l’imponente schieramento di forze a loro contrarie, infatti, la scelta di unità fatta dai partiti della sinistra risultò vincente. Il Blocco del Popolo, che riuni­ va comunisti, socialisti ed un gruppo considerevole di in­ dipendenti di sinistra, riuscì a conquistare 591.580 voti (30% del totale), ottenendo 29 dei 90 seggi parlamentari: la maggioranza relativa dell’Assemblea. La DC, da par­ te sua, aveva ottenuto il 21% dei voti e 20 seggi, mentre nelle elezioni del 2 giugno ‘46 era riuscita a raggiunge­ re il 33,62%. La vittoria del Blocco del Popolo fu dovuta in larga misura all’impegno e alla mobilitazione del mo­ vimento contadino. Buona parte dei voti, infatti, fu rac­ colta nelle campagne, dove i lavoratori della terra si era­ no ribellati alla mafia e ai proprietari terrieri. Non a caso, nelle liste social-comuniste erano stati candidati diversi dirigenti, che avevano guidato queste lotte. La risposta delle forze reazionarie fu la strage di Portella delle ginestre del 1° maggio 1947, che nelle intenzioni degli organizza­ tori forse doveva essere anche una forte provocazione alle sinistre per stimolarne la reazione violenta e poterla così mettere fuorilegge. I dirigenti del Pei, del Psi e della Cgil non caddero nella provocazione. Dal punto di vista politico, però, la partita doveva es­ sere chiusa. E il 13 maggio 1947, il presidente del con­ siglio dei ministri Alcide De Gasperi aprì la crisi di go­ verno, con l’intenzione di escludere dalla maggioranza comunisti e socialisti, rompendo così quell’unità nazio­ nale antifascista su cui si era cercato di ricostruire l’Italia. De Gasperi da poco era rientrato da un viaggio negli Stati

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Uniti, durante il quale aveva chiesto aiuti consistenti per la ricostruzione dell'Italia post-bellica. Il 9 giugno la crisi si concluse con la fine dei governi di unità nazionale e la formazione di un governo di centro-destra. Comunisti e socialisti erano fuori dalle “stanze dei bottoni”. Un’ope­ razione analoga avvenne in Sicilia. Il nuovo parlamento, eletto il 20 aprile, si insediò il 25 maggio. Il Blocco del Popolo aveva vinto le elezioni, ma per governare avrebbe avuto bisogno di formare una coalizione con i 20 deputa­ ti democristiani. Una soluzione che apparve subito impraticabile, per le profonde divisioni tra la sinistra e la De, specie dopo la strage di Portella. E si arrivò quindi alla costituzione di un governo di centro-descra, presieduto dal democristia­ no Giuseppe Alessi. Nonostante la “normalizzazione” politica sia nazionale che regionale, la “lunga strage” non si fermò. In Sicilia la strategia di attacco contro i partiti della sinistra e il mo­ vimento contadino e democratico continuò senza sosta. Probabilmente, per prevenire il pericolo di un eventua­ le successo delle sinistre nelle elezioni per il primo Par­ lamento della Repubblica italiana, fissate per il 18 aprile 1948. Da qui gli assassinii in rapida sequenza di Epifa­ nio Li Puma (2 marzo 1948), Placido Rizzotto (10 marzo 1948) e Calogero Cangialosi (1 aprile 1948). Un messag­ gio chiaro: chi si fosse messo con la sinistra politica e sin­ dacale sarebbe morto. Il 22 novembre 1950, l’Assemblea regionale siciliana approvò la legge di riforma agraria. Non era la legge so­ gnata dal movimento contadino, ma comunque smaltellò il feudo in Sicilia. E fu smantellato, insieme ai privilegi e all’oppressione che portava con sé. Nell’immediato, tut­ 118

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tavia, questo non ebbe effetti positivi per il movimento contadino. Gli agrari, prima degli scorpori, ebbero il tem­ po di mettere in vendita la terra migliore, che fu acqui­ stata, in gran parte, dai campieri e dai gabellotti mafiosi. Il “patto” mafia-agrari-Dc costituì una sorta di “atto fon­ dante” della democrazia malata in Sicilia. La prima riuscì ad accaparrarsi fette importanti di ex feudi, spiccando poi il volo verso la città; i secondi poterono investire nell’edi­ lizia cittadina i capitali delle vendite, dando un notevole impulso alla speculazione delle aree edificabili; mentre la terza consolidò il suo sistema di potere nell’Isola. Qualche anno dopo, per migliaia di contadini poveri espulsi dal­ le campagne, l’unica possibilità di sopravvivenza rimase quella di farsi una valigia, legarla con un filo di spago ed andare a cercare lavoro al Nord o all’estero. S C H E D E B IO G R A F IC H E

I primi omicidi (1944-46): Andrea Raja, Nunzio Passafiume, Agostino D ’Alessandria, Giuseppe Scalia, Giuseppe Lo Cicero, Giuseppe Puntarello, Gaetano Guarino, Pino Camilleri, Giuseppe Biondo, Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, Paolo Farina, Pietro Macchiarella Quello di Andrea Raja fu il primo delitto mafioso del secondo dopoguerra in Sicilia. Raja venne assassinato a Casteldaccia, un comune della fascia costiera vicino a Pa­ lermo, il 5 agosto 1944. Era membro per conto del Pei della Commissione co­ munale per il controllo dei granai del popolo. Puntiglioso nello svolgere il suo ruolo, si scontrò ben presto con l’am119

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ministrazione comunale. Nonostante i tentativi delle au­ torità di ridimensionare il significato dell’assassinio, trat­ teggiando la figura dell’attivista politico-sindacale come quella di un poco di buono, donnaiolo e spesso “alticcio”, alla fine, lo stesso maresciallo della stazione dei carabinie­ ri di Casteldaccia non potè esimersi dallo scrivere “che la uccisione del Raia sia stata determinata dalla attività da lui svolta in favore dei granai del popolo e per la propa­ ganda contraria che gli faceva l’Amministrazione C om u­ nale e specialmente il Sindaco al quale era pervenuta la 12 0

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notizia che il Raja aspirava a sostituirlo nella carica”159. Significativo quanto dichiarò agli inquirenti la madre del Raja, (Rosalia Tomasello), che notava come subito do­ po il misfatto accorsero sul posto tra i primi “i temibili e pregiudicati e maffiosi Tomasello Francesco ed Onofrio dimoranti nelle vicinanze dell’abitazione del Raia, i qua­ li con contegno cinico, senza chiedere alla Tomasello che cosa fosse successo, dissero: “È morto, possiamo andare”, allontanandosi senza neppure salutare”.160 I fratelli Toma­ sello furono denunciati come presunti autori del delitto Raja, ma assolti per insufficienza di prove al processo. Il 7 giugno 1945, a Trabia, un comune a pochi chi­ lometri da Casteldaccia, venne assassinato un sindacalista della Cgil, Nunzio Passafiume, perché - secondo il gior­ nalista de “L’Ora” Marcello Cimino — “aveva diffuso in paese idee di uguaglianza e giustizia e in molti [avevano cominciato] a dargli ascolto”. “Come dimostrano le suc­ cessive cronache sindacali e i risultati elettorali —aggiunse il cronista - i mafiosi di Trabia, dopo quel delitto, vissero abbastanza tranquilli per diversi anni”. “Il 10 settembre 1945 fu assassinato Agostino D ’Alessandria, fu Agostino e di Santospirito Agnese. Nato a Ficarazzi (Palermo) il 7 febbraio 1901, fino al 1930 ave­ va fatto la guardia campestre a Bagheria, dall’agosto 1945 era diventato campiere dell’acqua irrigua del consorzio S. Elia di Ficarazzi, ed aveva assunto la segreteria della loca­ 159 Rapporto giudiziario del maresciallo della stazione C C di Casteldaccia alla pretura di Bagheria, del 10 settembre 1944 (Archivio di Stato di Palermo, Prefettura, serie Gabinetto). 160 Ibidem. 12 1

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le Camera del lavoro. “La sua azione sindacale e politica -sostenne il giornalista Cimino - aveva toccato uno dei punti più sensibili del potere mafioso nella zona dei giar­ dini: l’acqua di irrigazione. D ’Alessandria era un guardia­ no di pozzi e conosceva dal di dentro l’ingranaggio della sopraffazione esercitata dai padroni dei pozzi a danno dei coltivatori. Quando cominciò a denunciare il sistema lo invitarono a lasciar perdere quel tasto ma non se ne die­ de per inteso e continuò la sua campagna riuscendo ad eliminare alcuni fra i più sfacciati abusi. Fu allora che gli spararono”. Il giorno successivo al delitto, l’ i l settembre, in una nota della questura di Palermo alla prefettura e all’alto commissariato per la Sicilia, anche in questo caso cominciò l’opera di depistaggio e di ridimensionamento della portata dell’omicidio. “Ritiensi che movente del de­ litto siano i modi autoritari e gli abusi commessi dal D ’A­ lessandria”, si legge nella nota.161 Fu il figlio Agostino, che la sera del delitto era insieme alla vittima in corso Umber­ to I a Ficarazzi, a ribadire invece che il padre, nella qualità di guardiano dei pozzi, “era rigoroso nella distribuzione dell’acqua e non permetteva abusi”. Anche in questo caso il processo a carico di ignoti fu chiuso senza colpevoli. Il 18 novembre a Cattolica Eraclea (Agrigento) cadde in un agguato terroristico-mafioso Giuseppe Scalia, sti­ mato attivista della sinistra politica e sindacale tra i fon­ datori della Cooperativa agricola “La Proletaria”. Quel giorno di novembre, verso le 19.00, nel grosso comune agricolo dell’agrigentino, Scalia stava passeggiando col vice-sindaco Aurelio Bentivegna davanti alla sede della l 6 l Archivio di Stato di Palermo, Prefettura, serie Gabinetto, Busta 819. 122

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Camera del Lavoro. Ha scritto Calogero Giuffrida: “Al­ cuni sicari della mafia lanciarono al loro indirizzo bom­ be a mano, che colpivano mortalmente Giuseppe Scalia e ferivano il Bentivegna. Data la buona fama di Giuseppe Scalia, agricoltore laborioso, e la grande notorietà di cui il Bentivegna godeva per la sua attività politica, svolta sin dal marzo 1944 alla testa del movimento proletario pae­ sano, fu opinione generale che la causa del delitto doveva ricercarsi nella cricca reazionaria, forse nella speranza di sedare il movimento socialista”.162 Come al solito, le in­ dagini da parte delle forze dell’ordine furono “svogliate”. Non interrogarono né il vice-sindaco Aurelio Bentivegna, da tempo nel mirino della mafia, e nemmeno i familiari di Scalia. Sia l’omicidio che il tentato omicidio rimasero, quindi, impuniti. Il 25 novembre 1945, a Mazzarino (Caltanissetta), fu assassinato Giuseppe Lo Cicero; e il 5 dicembre 1945 il segretario della sezione del Partito comunista di Ventimi­ glia (Palermo), Giuseppe Puntarello. Il 7 marzo 1946, invece, si attentò alla vita di Anto­ nino Guarisco, di 50 anni, segretario della Camera del lavoro di Burgio (Agrigento). Nella circostanza rimase uc­ cisa una donna incinta che si trovava a passare per caso, Tommasa (Masina) Perricone in Spinelli. Guarisco fu er­ roneamente inserito nei tanti elenchi di caduti nella lotta contro la mafia, ma rimase solamente ferito. Il suo nome figura anche nel famoso manifesto elettorale del Fron­ 162 Cfr. Calogero Giuffrida, Delitto di prestigio, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 2005.

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te democratico popolare (comunisti e socialisti) dei 36 sindacalisti assassinati dalla mafia, affisso una settimana prima delle elezioni politiche del 18 aprile 1948163. Insie­ me a quello di Guarisco c’erano anche i nomi di Vincen­ zo Cucchiara, anch’egli solamente ferito il 25 novembre 1946 ad Aragona (Ag), e di Giovanni Saverino, a sua volta ferito il 1° dicembre 1946 a Ioppolo (Ag). L’erro­ re, da imputare quasi certamente all’infuocato clima della campagna elettorale del 18 aprile 1948, fu denunciato dal ministero dell’interno con una nota del 26 luglio 1948. “Nell’elenco delle persone indicate come morte nel noto manifesto elettorale - vi si legge —risultano comprese le seguenti che, invece, sono vive e godono di ottima salu­ te: Antonino Guarisco, Vincenzo Cucchiara e Giovanni Saverino”164. Il caso di Guarisco merita qualche considerazione ul­ teriore. Guarisco aveva un passato politico anarchico e di opposizione al regime fascista, durante il quale veniva continuamente sorvegliato dalla polizia. Già il 31 gennaio 1930'65 era compreso “nell’elenco delle persone da arre­ stare in determinate contingenze” e sottoposte alla “revi­ sione della corrispondenza a lui diretta”166. Nel 1942 fu arrestato e condotto nelle carceri di Palermo. Il 16 maggio 1946, ad essere ucciso a colpi di rivol­ tella fu il sindaco socialista di Favara (Agrigento), Ga­ 163 Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero Interno 1948, manifesto busta 33.

164 Nota del Ministero deU’interno del 26.7.1948 (Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero Interno! 948, busta 33, doc. 14).

165 Prefettura di Palermo, nota n. 02283 del 31.1.1930 (Archivio Centrale dello Stato, Roma, casellario politico centrale, epe 2559, Guarisco Antonino). 166 Prefettura di Palermo, scheda n. 06740 dell’ 1.3.1930, Ibidem.

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etano Guarino. Era un farmacista, che si era schierato apertamente con i contadini ed i minatori del suo paese, appoggiandone le rivendicazioni e le lotte. Nelle elezioni comunali del marzo 1946, la sinistra aveva ottenuto un successo esaltante e Guarino era stato eletto sindaco. Ma subito dopo l’insediamento, alcuni mafiosi gli avevano consigliato di essere “tollerante con gli uomini di rispet­ to”. Il neo-sindaco aveva risposto che non avrebbe ceduto mai ad alcuna pressione. I responsabili del suo omicidio, seppur facilmente intuibili, non furono mai arrestati (né quelli materiali, né i mandanti). Per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi, rifiutando­ si per sempre di tornare a Favara. Il 28 giugno del ’46, cadde un altro sindaco socialista, Pino Camilleri di Naro (Agrigento). Camilleri aveva ap­ pena 27 anni, ma nonostante la giovane età, era già rico­ nosciuto come capo contadino in una vasta zona a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento. Fu assassinato a colpi di lupara, mentre da Riesi (Caltanissetta) si recava a cavallo verso il feudo “Debella”, di cui i contadini chie­ devano l’assegnazione, nonostante le intimidazioni e le minacce da parte dei gabelloti mafiosi. Il 22 ottobre 1946, a Santa Ninfa (Trapani), fu as­ sassinato Giuseppe Biondo, un mezzadro iscritto alla Federterra, che aveva preso parte attivamente alle lotte per la ripartizione dei prodotti agricoli in base ai decreto Gullo. Per ritorsione, era stato sfrattato illegalmente dal pro­ prietario della terra, che egli conduceva a mezzadria. Ma Biondo si ribellò all’ingiustizia e, coraggiosamente, 125

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al momento dei lavori autunnali, ritornò sulla terra per coltivarla. Il padrone considerò “tale comportamento un affronto da far pagare con la morte”, scrive Umberto San­ tino, nella sua Storia del movimento antimafia del 1995. Dalla provincia di Trapani, alla provincia di Palermo, il giorno dopo - 23 ottobre 1946 —il segretario della se­ zione comunista di Corleone, Michele Zangara. La mat­ tina, insieme ad altri dirigenti politici e sindacali della sinistra Zangara aveva guidato l’occupazione dei feudi “Rubina” e “Sant’Ippolito”. I campieri mafiosi avevano reagito rabbiosamente, sparando dei colpi di fucile contro i contadini. Ma questi risposero coraggiosamente al fuo­ co e si scatenò una vera e propria guerriglia. Chiamati da Zangara, intervennero i carabinieri, i quali, piuttosto che bloccare i mafiosi, arrestarono quattro contadini, ai quali sequestrarono un moschetto, una pistola con relative mu­ nizioni e una bomba a mano. Ma dovettero rilasciarli nel giro di qualche ora, per la reazione minacciosa di circa 4 mila contadini, che circondarono la zona rastrellata. Di notte, la porta della sua abitazione fu fatta segno da alcu­ ni colpi di arma da fuoco e poi data alle fiamme. La mattina del 31 ottobre 1946 i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, rispettivamente di 40, 44 e 25 anni - tutti e tre contadini poveri —stava­ no coltivando un piccolo appezzamento di terra, che da diversi anni conducevano a terraggio, in contrada “Mon­ tagnaratta” a Misilmeri. Con loro, quella mattina, c’era­ no anche Andrea e Salvatore, entrambi figli di Giovanni, di 15 e di 12 anni. “AH’improwiso, irruppero sul fondo ben tredici banditi armati. Ordinarono ai due ragazzi di 126

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allontanarsi e uccisero - sparando loro un colpo alla nu­ ca - i tre fratelli Santangelo”.167 Chi erano i fratelli Santangelo? Perché questa feroce azione terroristica contro di loro? A tentare una spiegazione dobbiamo aiutarci con la voce popolare, raccolta da qualche giornale dell’epoca. “I fratelli Santangelo sono stati uccisi per terrorizzare tutti i contadini della zona... Quelli del feudo sono i mandanti dell’eccidio”, scrisse Marcello Cimino. Una tesi rafforzata dalla constatazione che, poche settimane prima del delit­ to, i contadini di Belmonte Mezzagno aderenti alla Federterra, tra cui i tre fratelli Santangelo, avevano dato vita ad una cooperativa per chiedere l’assegnazione del feudo “Gulino”, cui erano interessati anche i contadini di Misilmeri. Proprio il 2 novembre, a Misilmeri, avrebbe dovuto tenersi una riunione di contadini per organizzare l’occu­ pazione del feudo Gulino. Ma la riunione saltò proprio a causa di quel triplice omicidio, che sconvolse l’opinione pubblica. «Appare dunque abbastanza evidente che pro­ prio questo, mandare a monte l’azione sul feudo, fosse il vero scopo del terroristico eccidio», è il commento di Ci­ mino. Il 28 novembre, a Comitini (Agrigento), ad essere uc­ ciso fu il contadino comunista Paolo Farina, mentre sta­ va ritornando a piedi dalla vicina Aragona, dove si era re­ cato per provare a creare un collegamento tra i contadini del suo paese e quelli del più grosso centro della zona, in modo tale da rendere più efficace la lotta per la terra.

167 G. Scolaro, Storia del movimento antimafia siciliano dai Fasci siciliani a ll’omicidio di Carmelo Battaglia, Capo ¿ ’Orlando 1997. 127

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L’ 11 gennaio 1947, a Canicattì (Agrigento), accadde un episodio incredibile. Antonino Mannarà, segretario della Camera del lavoro, venne fatto segno di numerosi colpi di pistola. Questi, però, con grande prontezza di spirito, riuscì a rispondere al fuoco e a far fuggire gli as­ salitori. Paradossalmente, ad essere accusato di “strage” fu il dirigente sindacale, che dovette difendersi dall’accusa in tribunale. “Ho difeso davanti alle Assise di Agrigento il segretario della Camera del Lavoro di Canicattì, Manna­ rà, imputato del delitto di strage da cui la Corte lo man­ dò completamente assolto”, avrebbe raccontato Lelio Bas­ so, avvocato e parlamentare socialista. “Per dare maggior forza alla sua denuncia - spiegò Basso - la polizia aveva cercato di dipingere il Mannarà a tinte fosche. Tra l’altro, aveva scritto nel suo rapporto: “Che il Mannarà sia un elemento pericoloso e capace di commettere i delitti da lui consumati in quell’occasione in mezzo alla folla, arma­ to di pistola, lo dimostra il fatto che in tutto l’ambiente di Canicattì è temutissimo, motivo per cui tempo addie­ tro lo stesso subì due attentati che evidentemente mirava­ no a toglierlo di mezzo”. Ma “ogni capolega di contadini, ogni segretario di Camera del Lavoro siciliana sanno -de­ nunciò il deputato socialista - che la fredda morte può ghermirli ad ogni angolo di strada, perché il regime feu­ dale si difende con mezzi ancora barbarici, contro l’avan­ zata del mondo moderno, perché il regno della mafia non perdona a coloro che vogliono dare ai contadini la co­ scienza dei diritti scritti nella Costituzione. E tutti sanno che cosa significhino queste croci lungo il faticoso cam­ mino dell’ascesa democratica delle masse lavoratrici sici­ liane. Solo la polizia non se ne è ancora accorta. Per essa i tanti sindacalisti caduti non sono vittime della prepoten­ 128

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za del feudo e della ferocia della mafia, ma sono essi stessi dei prepotenti e dei malvagi, degli “elementi pericolosi e capaci di commettere delitti”, sono in ultima analisi, delle vittime della propria violenza”. E si chiese: “Quale prez­ zo di sangue dovrà pagare ancora il movimento contadino siciliano, perché la verità si faccia strada anche presso l’au­ torità?”. Meno fortunato fu il dirigente comunista di Ficarazzi (Palermo) Pietro Macchiarella, che intorno alle 21,30 del 16 gennaio 1947 venne ucciso dalla mafia dei giardi­ ni, lungo la stradella tra “Ficarazzelli” e Villabate. La voce popolare e i giornali indicarono come mandante dell’o­ micidio il noto mafioso Francesco Paolo Niosi, ma a suo carico non si riuscì ad aprire nemmeno un processo. D ’al­ tra parte, già il giorno dopo l’omicidio, i carabinieri si erano premurati di rassicurare la prefettura, la questura, la procura della repubblica e l’ispettorato generale P.S. della Sicilia, con questa frase telegrafica: “delitto commesso ra­ gioni interessi privati”.168 Quasi una risposta a “La Voce della Sicilia”, che invece titolava: Terzo omicidio politico a Ficarazzi. Sempre il 17 gennaio 1947, in un comunicato stampa, la prefettura di Palermo annunciando l’arresto del presun­ to assassino di Macchiarella, il pregiudicato Francesco Pa­ olo Niosi, precisava ancora che “il movente del delitto è esclusivamente dovuto a interessi privati”.169

168 Archivio di Stato di Palermo, Prefettura, serie Gabinetto, busta 862. 169 Ibidem. 129

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Nicolò Azoti Nicolò Azoti era nato a Ciminna il 13 settembre 1909, da Melchiorre e da Orsola Lo Dolce. Ad otto anni si tra­ sferì con tutta la famiglia nella vicina Baucina, dove mise radici. Fin da piccolo mostrò spiccate doti musicali, tan­ to che il maestro Francesco Genovese lo inserì nel corpo bandistico di Baucina. Mostrò interesse anche per il can­ to, lo sport e la caccia, ma il mestiere che gli dava da vi­ vere fu quello di ebanista. Partecipò alla seconda guerra mondiale e alla colonizzazione dell’Africa. Nel 1939 spo­ sò Domenica “Mimi” Mauro, da cui ebbe due figli. Nei difficili anni del dopoguerra, la sua attenzione fu attrat­ ta dalle misere condizioni dei contadini, che cominciò ad organizzare nella Cgil, battendosi per la riforma agraria. Il 10 luglio del ’46 a Baucina c’era stata una sommossa popolare «con il conseguente scassinamento, saccheggio ed incendio di tutto il materiale contenuto in quel no­ stro UCSEA, ed anche del locale magazzino ammasso del Consorzio Agrario»170. Nicolò Azoti, falegname, comunista, divenne segre­ tario della Camera del lavoro, fondò l’ufficio di colloca­ mento e progettò la costituzione di una cooperativa agri­ cola. Fu inevitabile, quindi, lo scontro con gli agrari e i gabellotti mafiosi, specie dopo che si mise in testa di far applicare la nuova legge sulla divisione dei prodotti agri­ coli con le percentuali del 60% al contadino, e del 40% al padrone. Prima le lusinghe: «Lascia perdere tutto - gli disse un giorno un gabellotto - e ti daremo la terra e il frumento che vuoi!». Poi le minacce: «Tu ci stai rovinan­ do, ma te la faremo pagare cara!». E gliela fecero pagare la 170 Archivio di Srato di Palermo, Prefettura, serie Gabinetto, busta 812, f 2 . 131

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sera del 21 dicembre 1946, con 5 colpi di pistola spara­ tigli alle spalle, mentre stava rincasando in compagnia di due amici. Nicola Azoti morì due giorni dopo, all’ospeda­ le civico di Palermo, per le gravissime ferite riportate. Francesco Pedalino, segretario della Federterra di Pa­ lermo, inviò il seguente telegramma il 25 dicembre al mi­ nistro degli Interni, alla Cgil nazionale e al ministro delle Finanze: “Bieca reazione agrari invermigliato sangue ope­ raio Natale 1946. Mano infame sicario armata proterva agraria assassinava 21 dicembre compagno Azoti Nicola segretario camera lavoro Baucina. Assassini catena contro dirigenti sindacali Sicilia mostra azione delittuosa orga­ nizzata agrari indebolire fronte contadino et governo de­ mocratico repubblica”.171 Lo stesso giorno di Natale un rapporto della legione territoriale carabinieri, gruppo Palermo esterno, infor­ mava che a Baucina vi era stata una sola richiesta di terre incolte, che aveva interessato il feudo “Traversa” di pro­ prietà di un certo Gianbalvo di Palermo, tenuto in gabel­ la dall’avvocato Biagio Varisco. Ma la Commissione aveva respinto la richiesta avanzata dalla cooperativa di contadi­ ni di Baucina, per cui l’ex feudo era rimasto al gabellotto Varisco. La cooperativa non era stata fondata da Nicolò Azoti, precisava il rapporto, ma da un cugino del Varisco di no­ me Ferdinando. «Sembra, pertanto, che in ogni caso, la reazione del Varisco, cui si vorrebbe attribuire il mandato all’omicidio, doveva essere rivolta al cugino e non al se­ gretario della camera del lavoro di Baucina»172. 171 Ibidem, busta 862, f. 1 . 172 Ibidem, f. 2. 132

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Ma la moglie di Azoti, Domenica Mauro, aveva di­ chiarato ai carabinieri che il marito sul letto di morte ave­ va fatto i nomi degli assassini. E, tra questi, anche quello di Biagio Varisco che alcuni giorni prima l’aveva «rimpro­ verato per i fastidi procuratigli per la vertenza del feudo “Traversa”, perché lo avrebbe costretto “a spendere molto denaro” e quindi aveva minacciato di fargliela pagare.173 Le forze dell’ordine, quindi, furono “costrette” a tentare di fermare il Biagio Varisco, che però si rese irreperibile. «Fra gli altri presunti autori del delitto - aggiungeva il rapporto dei carabinieri - vi sarebbero altresì tre indivi­ dui —identificati—due dei quali, del movimento separati­ sta, avrebbero agito per movente tuttora ignoto, mentre il terzo avrebbe ucciso per ragioni di interesse»174. In una nota della prefettura di Palermo del 26 dicem­ bre, il prefetto Vittorelli precisava che «il presidente della cooperativa Varisco Ferdinando si era valso... dell’opera del segretario della Camera del Lavoro, cioè dell’Azoti»175. Quindi, poteva essere questo aiuto dato alla cooperativa ad avere armato la mano dei killer. A proposito dei quali, il prefetto aggiunge che «secon­ do informazioni raccolte presso la vedova sembra che tra i presunti autori del delitto non sarebbero estranei altri tre individui, due dei quali identificati per Pinello Salvatore di Giuseppe di anni 49 e La Barbera Salvatore fu Fran­ cesco di anni 41, entrambi del posto, in atto irreperibili, i quali avrebbero agito per motivi non ben definiti»176. Il prefetto informava anche che la sera di Natale il presunto 173 Ibidem. 174 Ibidem. 175 Ibidem, f. 4. 176 Ibidem. 133

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mandante Biagio Varisco era stato fermato dalla polizia a Palermo. Nonostante tutto, la giustizia “ingiusta” del tempo non riuscì nemmeno celebrare un normale processo e l’inchiesta per la morte di Nicolò Azoti fu archiviata in istruttoria, dopo che il gabellotto, indicato come man­ dante dell’omicidio, ebbe tutto il tempo di costruirsi un falso alibi. A far conoscere al grande pubblico la storia di Nico­ lò Azoti è stata la figlia Antonella, che all’epoca del delit­ to aveva quattro anni. Cosa abbia provato quella bimba, svegliata nel cuore della notte da cinque colpi di pistola, che le avrebbero ucciso il padre, lo ha raccontato in modo straordinariamente efficace e tragico nel suo libro-diario, con cui nel 2004 ha vinto la ventesima edizione del pre­ mio “Pieve-Banca Toscana”. La sera del 21 dicembre 1946 è una data che Antonella non ha mai più dimenticato. «Dormivo e già sognavo racconta nel suo libro-diario177 —quando spari improvvi­ si mi fecero trasalire: mi ritrovai seduta in mezzo al tetto nella stanza buia e, prima ancora che io potessi invocarla, grida strazianti mi ferirono le orecchie... e il cuore. Era lei, la mamma, che aveva riconosciuto nei lamenti prove­ nienti dalla strada, la voce di papà, e gli chiedeva: “Cola, Cola, chi ti ficiru?”. “Mimi, mi spararu!”. [...] Mi alzai e mi accostai allo spiraglio... ammiccai con difficoltà... e da quello spiraglio vidi la mamma tendere le braccia, pro­ tesa dal balconcino a petto, quasi a volere raggiungere a volo papà mentre continuava a gridare con la voce stroz­ 177 A. Azoti, A voce alta. Il riscatto della memoria in terra di mafia, edizioni “Terre di mezzo”, Milano, 2004.

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zata. Papà arrivò trascinandosi a fatica per la breve salita che lo separava da casa e, sorretto dalla mamma, si abban­ donò sul letto dove un attimo prima io dormivo beata. Vidi qualcosa di rosso... ma non era il mio cappottino». Antonella aveva quattro anni quando il padre tornò a Baucina chiuso in una bara di legno, ma ricorda bene il pianto e la disperazione della giovane moglie, Domenica Mauro di trentuno anni, e del fratello Pinuccio di sei. E il prete non volle fargli neanche il funerale in chiesa, perché era un “morto ammazzato”. Solo una spruzzata d’acqua benedetta lungo il corso, e via, incurante delle implora­ zioni della vedova. Antonella, vestita di nero come il fra­ tellino e la madre, pianse disperatamente il papà morto, che continuava a morire tutti i giorni nei discorsi della gente: «Ma chi glielo faceva fare?», «Si poteva fare i fatti suoi!», «Si sarebbe potuto godere la famiglia!», «Picchi si misi nta politica?». «Io non capivo molto, ero troppo pic­ cola, ma mi avevano fatto credere che sicuramente mio padre era stato colpevole di qualcosa, anche se non sapevo di cosa, e arrivai anch’io a colpevolizzarlo», racconta ades­ so che di anni ne ha 62 ed è una maestra elementare in pensione. Aggiunge: «C’è voluto del tempo, molto tem­ po, prima che riuscissi a capire. E tutto da sola, perché neppure mia madre, che pure ci parlava spesso di papà, del suo carattere, delle sue doti, neppure lei riusciva a spiegarci perché un uomo, che non aveva fatto nulla di male, che anzi si era impegnato per qualcosa di buono, per qualcosa di giusto e di utile per la società, lui, nostro padre, suo marito, fosse stato ucciso». Nella vita di Antonella la “svolta” avvenne 36 anni do­ po, all’indomani della strage di Capaci, in mezzo a tanta gente, con le lacrime agli occhi, che scriveva un biglietto 135

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o lasciava un fiore davanti all’albero Falcone. «Mi feci co­ raggio, presi il microfono e gridai: la mafia non uccide so­ lo adesso, ha ucciso anche mio padre, Nicolò Azoti, il 21 dicembre 1946, e prima e dopo di lui ha assassinato tanti altri sindacalisti, che lottavano insieme ai contadini per la libertà e la democrazia in Sicilia», racconta emozionata. Fu sommersa dagli applausi. E, da allora, grazie al corag­ gio testardo di sua figlia, che nel frattempo si era sposata ed aveva avuto a sua volta due figli, il sindacalista di Baucina, morto a 37 anni in uno sperduto Comune del feudo e subito dimenticato, tornò nuovamente a vivere nel ri­ cordo della gente.

Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia Pochi lo ricordano, ma, nel secondo dopoguerra, anche Alia, in provincia di Palermo, ebbe la sua strage. Anche in questo piccolo centro della Valle del Torto, i decreti Gullo, che davano il diritto alle cooperative contadine di chiedere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate degli agra­ ri, avevano creato entusiasmo e voglia di lottare. Infatti, la riunione, alla quale parteciparono molti contadini, era stata convocata per discutere dell’occupazione dei feudi “Rigiu­ ra” e “Vaccotto”, tutti e due nelle mani di gabellotti mafio­ si. Il pomeriggio del 22 settembre 1946 i contadini si erano riuniti nella casa del segretario della locale Camera del lavo­ ro, al piano terra in Via Montemaggiore. Di Maggio, che ne fungeva anche da sede per discutere delle terre incolte e per procedere alla nomina di una nuova segreteria. Dopo una lunga ed animata discussione, nuovo segretario della Federterra venne eletto all’unanimità Salvatore Costanza, mentre il Di Maggio restò presidente della Camera del la­ voro. Le cariche di vicesegretario, cassiere e consigliere ven­ 136

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nero affidate ad altri. La riunione fu sciolta per riconvocarsi successivamente, verso le 20,30. A quell’ora, infatti, torna­ rono a riunirsi i nuovi eletti alle cariche della Federterra per redigere il verbale della riunione precedente, effettuare la consegna della cassa e prendere conoscenza delle leggi che regolavano l’assegnazione delle terre incolte o mal coltiva­ te. Si recarono alla Camera del lavoro anche altri lavoratori, che avevano redatto le domande per ottenere il premio del­ la repubblica. Circa un’ora dopo fu la strage, terribile. All’improv­ viso, “qualcuno” dalla strada lanciò delle bombe a mano nella casa, mentre “altri” spararono dei colpi di lupara. Due contadini, Giovanni Castiglione, nato a Comitini (Agrigento), contadino, vicesegretario della Lega dei con­ tadini, e Girolamo Scaccia, nato a Alia l’ 11 giugno 1896, bracciante, morirono sul colpo, Gioacchino Gioiello di 19 anni e Filippo Ditta di 29 anni furono feriti grave­ mente, mentre altri cinque persone rimasero ferite lieve­ mente. In un telegramma del 25 settembre alla prefettura di Palermo, il tenente dei carabinieri Caruso comunica­ va: “delitto presumesi commesso per odio verso segreta­ rio camera lavoro Maggio Giuseppe”.178 Piantonati i due morti e trasportati all’ospedale civico di Palermo i feriti, i militari dell’arma effettuarono un attento sopralluogo, a seguito del quale «veniva rinvenuta, sulla strada ed a cir­ ca 70 metri dalla soglia della Camera del lavoro, la cuffia con tutto il congegno di sicurezza automatico (2° sicura) di una bomba a mano tipo Breda”.179 In un rapporto del 31 ottobre 1946 alla prefettura di Palermo i carabinieri 178 Archivio di Stato di Palermo, Prefettura, serie Gabinetto, busta 812, foglio 2 . 179 Ibidem 137

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della legione territoriale di Palermo scrissero che «le stesse indagini facevano... stabilire che da qualche tempo fra i contadini della “Federterra” di Alia fermentava un certo malumore contro il loro segretario Maggio Giuseppe, ri­ tenuto per la sua età e perché incompetente, incapace a ben svolgere le mansioni deH’incarico coperto”.180 Nelle ore successive all’attentato furono effettuati quattro fermi di persone indiziate, subito trasferite alla questura di Palermo. Furono effettuate anche delle per­ quisizioni domiciliari, nel corso delle quali furono seque­ strate ben cinque bombe a mano.181 Sulla strage, però, calò il silenzio e nessun colpevole venne assicurato alla giustizia. Per il carattere terroristico la strage di Alia può ritenersi anticipatrice di quella che si sarebbe consumata il 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra. In effetti, il paese rimase sconvolto da tanta ferocia. Pur avendo con­ sapevolezza del durissimo scontro sociale in corso, i con­ tadini e l’opinione pubblica non pensavano che si potesse arrivare a tanto, cioè a sparare nel mucchio, provocando una strage, pur di tenere a freno la “fame” di terra della povera gente.

Accursio Miraglia “Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio!”, so­ leva dire Accursio Miraglia. Una frase presa in prestito dal romanzo di Ernest Hemingway Per chi suona la campana, ma che sentiva come sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle sorelle e ai compagni del partito e del sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabellotti mafiosi lo minacciavano 180 Ibidem, foglio 4. 181 Idem.

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o gli facevano arrivare l’invito a farsi i fatti propri. In quei primi anni del secondo dopoguerra, Miraglia era dirigen­ te del Partito comunista e segretario della Camera del la­ voro di Sciacca, un grosso paese marinaro in provincia di Agrigento. Si era messo in testa di far applicare anche nel suo paese i decreti Gullo sulla concessione alle cooperati­ ve contadine delle terre incolte o mal coltivate. E il 5 no­ vembre 1945 aveva costituito la “Madre Terra”, una coo­ perativa di centinaia di braccianti e contadini poveri, alla quale riuscì a fare assegnare diversi ettari di un terreno re­ lativamente fertile. Nel settembre del ’46 organizzò una famosa “cavalcata”, che vide sfilare migliaia di contadini a cavallo e che si concluse con un imponente comizio. Per la proprietà latifondista e per i gabellotti mafiosi costitui­ va una sfida inaccettabile. Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza di sera, Mi­ raglia era appena uscito dai locali della sezione comunista per tornare a casa. A “scortarlo” c’erano quattro compa­ gni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due, invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono in­ dietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti contro Miraglia. Aquilino si acquattò dietro una porta, mentre il La Monica «poté... distingue­ re, nei limiti di visibilità consentitigli dalla sua vista mio­ pe, che un uomo di corporatura esile, il quale vestiva con un pastrano abbottonato ed era a capo scoperto, o por­ tava un berretto, standosene in piazzetta Lazzarini sotto 139

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la lampada ad arco della pubblica illuminazione e retro­ cedendo, quindi, verso via S. Caterina, sparava, con ar­ ma automatica, in direzione della via Orfanotrofio, men­ tre un altro uomo, che non sparava, gli era vicino e con lui s’accompagnava. Dopo avere esploso numerosi colpi, lo sparatore ed il suo compagno si dileguavano per via S. Caterina».182 Probabilmente, insieme a questi due uomini ce nera un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. La Monica «ritornò indietro e vide un giovane, piut­ tosto esile, di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga, dalla quale fece par­ tire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pub­ blica, e, dopo aver sparato, si allontanò di corsa verso l’u­ scita del paese. La stessa scena fu vista da Aquilino», scri­ ve Umberto Ursetta, nel volume Nelle foibe della mafia. Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti”, uscito come supplemento de “L’Unità”. Probabilmente, insieme a questi due uomini ce nera un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. Miraglia morì riverso sulla porta della propria abitazio­ ne, tra le braccia della giovane compagna russa, Tatiana Klimenko, che lo abbracciava, gridando dalla disperazio­ ne. Erano appena suonate le 22,00. Di corsa, erano arri­ vati La Monica e Aquilino. Poco dopo, arrivarono anche quattro carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni, Mira­ glia morì “in piedi”, perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadi182 Requisitoria del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Palermo al processo per l’assassinio di Accursio Miraglia, 8 agosto 1947 (Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno, sindacalisti uccisi dalla mafia, ufficio di gabinetto, busta 33, anno 1948).

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ni. E questo lo capirono bene a Sciacca, dove il dirigente sindacale era benvoluto ed amato da tutte le persone one­ ste. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, in Sicilia, erano già caduti altri capilega. Il delitto Miraglia, però, fece scalpore non solo nell’Isola, ma anche nell’in­ tero Paese. A Sciacca arrivarono i dirigenti sindacali e po­ litici della sinistra, dal segretario regionale del Pei Giro­ lamo Li Causi al sottosegretario alla giustizia del governo di unità nazionale Giuseppe Montalbano. Il funerale non potè tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i citta­ dini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infi­ ne, l’ 11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’in­ tera popolazione. I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. In Sicilia, il 9 gennaio, in segno di protesta e di solida­ rietà la Cgil dispose la sospensione del lavoro di un’ora, dalle 11.00 alle 12.00183. Tutti i treni merci e viaggiatori si fermarono per dieci minuti. A S. Giuseppe Jato circa 300 lavoratori parteciparono alla manifestazione indet­ ta dalla Camera del lavoro per commemorare Miraglia. Gli oratori, tra cui un certo Carmelo Pedalino, “diceva­ no ai presenti di tenersi preparati, e se necessario armarsi per non lasciarsi cogliere alla sprovvista da altri eventi”, 183 I lavoratori della zona di Cefalù, in provincia di Palermo, sospesero il lavoro per un’ora, dalle 11.00 alle 12.00, dando vita a numerose manifestazioni di cordoglio, come comunicava alla prefettura il comandante della compagnia dei carabinieri Mario Monizio, con nota del 9 gennaio 1947 (Archivio di Stato Palermo, Accursio Miraglia, busta 819).

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destando “vivo risentimento» tra gli aderenti ai partiti di centro-destra”.184 In Italia, l’astensione dal lavoro fu di cinque minuti, mentre in tutte le fabbriche suonarono le sirene. Dalla Camera del lavoro al cimitero, la bara fu portata a spalla dai contadini. Era una giornata d’inverno, fredda ed uggiosa, ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre arrivò davanti al portone d’ingresso del cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. “Un ti vosiru benidiciri l’omini, ma ti binidiciu Diu”, esclamò un anziano contadino. Oltre ad essere segretario della Camera del lavoro, membro del Comitato federale del PCI di Agrigento e membro della Commissione dell’assegnazione delle terre incolte, Miraglia era anche direttore dell’Ospedale civico di Sciacca, proprietario di una piccola industria del pesce, amministratore di una fornace per la produzione di lateri­ zi e direttore del teatro “Rossi”. Un personaggio pubblico di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva passare sotto silenzio. A condurre le indagini sul delitto fu la polizia, che fer­ mò un certo Calogero Curreri, indicato da La Monica e Caracappa (i due militanti comunisti che la sera del 4 gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia) come fa­ cente parte del commando dei killer. Altri testimoni (tra cui la compagna di Miraglia e le sorelle Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabellotto Carmelo Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti dell’assassinio. In appena nove giorni di indagi­ ni, gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabili­ 184 Legione territoriale dei carabinieri di Palermo, Tenenza di Partinico, nota del comandante della tenenza del 16.1.1947, Archivio di Stato Palermo, Accursio Miraglia, busta 813. 143

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tà di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono formalmen­ te accusati dell’omicidio, individuandone la causale “nel contrasto, anzi nell’odio, che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il Miraglia” per essersi battuto a favore dei contadini. La direzione delle indagini fu assunta direttamente dall’ispettore generale di P.S. per la Sicilia Ettore Messana, che partecipò direttamente all’arresto di Rossi e Curreri, condotti nel carcere di Sciacca185. Non si potè arrestare il Di Stefano perché ricoverato nell’ospedale di Sciacca. Qualche giorno dopo, fu lo stesso ispettore Messana a far tradurre il cavalier Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo. Durante il viaggio, però, il detenuto accusò un improvviso malore e fu fatto sostare nel famigerato ospe­ dale di Corleone, diretto dal capomafia del luogo Michele Navarra. Qui, il dott. Dell’Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava che il Rossi “era affetto da enterorraggia in atto”. Una patologia sospetta, ma “provvidenziale”, che ne consigliò il ricovero nella clinica Orestano di Palermo, evitandogli così l’onta del carcere. Ma i colpi di scena non finiscono qui. Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della Repubblica di Paler­ mo le “carte” dell’inchiesta, che, dopo appena 39 giorni dalla denuncia, ordinò la scarcerazione degli imputati per mancanza di elementi concreti di colpevolezza. “In effetti, gli indizi raccolti a loro carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta in sede processuale”, osserva Umberto Ursetta. Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l’ispet­ tore Messana ebbe troppa fretta di chiudere l’indagine, 185 Relazione sull’omicidio di Accursio Miraglia dell’Ispettore generale Tommaso Pavone del 5 ottobre 1947 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, ministero dell’interno, ufficio di gabinetto, busta 33 anno 1948).

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presentando “denuncia contro alcuni individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova, allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare quindi il delitto impunito”.186 La decisione della Procura di Palermo suscitò molte proteste. L’on. Li Causi e l’on. Montalbano presentaro­ no un’interrogazione parlamentare, chiedendo energica­ mente le indagini fossero riaperte in maniera più appro­ fondita. E qui fu un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri arrestarono nuovamente Calogero Curreri, ma stavolta insieme a Pellegrino Marciarne e Bartolo Oliva. I primi due, interrogati dagli inquirenti, confes­ sarono il delitto ed indicarono quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta, il cavaliere Velia e il gabellotto Carmelo Di Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno. Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando le forze dell’ordine di averle estorte con violenze e torture. Il giudice, quindi, prosciolse tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, denunciando per torture e sevizie il commissario Giuseppe Zingone, il marescialle dei CC Gioacchino Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente, però, anche il procedimento penale contro i “torturatori”, avviato dalla Procura di Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento. Ma, se non ci furono violenze, gli imputati dell’assassinio Miraglia non avrebbero dovuto essere assolti. E, nel dubbio, s’imponeva almeno la riaper­ tura delle indagini. Invece niente. Sulla vicenda calò un 186 Umberto Ursetta, Nelle foibe della mafia. Accursio M iraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma, 2005. 145

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colpevole silenzio, che dura fino ad oggi. “Mio padre era ricco, ma lasciò la sua famiglia povera”, dice il figlio Nico Miraglia. E aggiunge: “Per lui i soldi avevano un valore, perché gli consentivano di fare opere di bene. Mia madre mi raccontava che all’orfanotrofio dei marinai, gestito da padre Arena, donava mille lire per ogni orfano ricoverato, mentre al convento del “Boccone del povero” ogni giorno faceva avere il pesce ed altri ge­ neri di prima necessità”. Ma, grazie al “grande cuore” di Sciacca, la vedova e i suoi 3 figli (oltre a Nico, Maria Rosa e Nemesi) tirarono avanti. “A mia madre, che non capiva niente di gestione dell’industria del pesce e che non par­ lava bene l’italiano, per un anno intero - racconta anco­ ra Nico - i pescatori vendettero a prezzo equo il migliore pesce. E i dipendenti lavorarono con molta abnegazione per rilanciarne l’attività”. Come mai Accursio Miraglia incontrò una donna rus­ sa con cui visse more uxorioì “Mia madre - spiega Nico —era figlia del cugino dello Zar di Russia, costretta ad an­ dare in esilio dopo la rivoluzione d’Ottobre, all’età di 12 anni. Per alcuni anni lavorò in una compagnia di rivista. Negli anni ‘30 capitò a al teatro Massimo di Palermo, do­ ve fu contattata da mio padre per degli spettacoli a Sciac­ ca. Poi scattò l’amore e mamma Tatiana rimase per sem­ pre con papà Accursio”. Una bella storia tra la nobile russa e il comunista anar­ chico. Si, perché in gioventù Accursio Miraglia era stato un anarchico. Questa passione politica scattò a Milano, dove era stato mandato a dirigere il servizio cambi del Credito Italiano. Fece parte del gruppo anarchico di Por­ ta ticinese. Dopo qualche mese, però, la banca lo licenziò per “incompatibilità politica” e il ragioniere Miraglia tor­ 146

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nò a Sciacca. Ma già si era in pieno fascismo e Accursio Miraglia fu schedato e continuamente tenuto sotto con­ trollo. Nella prima scheda “riservata” del 20 febbraio 1925 Miraglia veniva etichettato come “anarchico”. “Riceve sempre giornali sovversivi ai quali si abbona, fra cui “Il pensiero anarchico edito a Cortona —L’adunata dei re­ frattari (anarchico) ecc. ecc. Si associa agli altri anarchi­ ci locali: Gulino Paolo, Aversa Calogero ed altri”187. Con una nota al ministero dell’interno della prefettura di Agrigento del 1929, il Miraglia venne inserito nell’elen­ co “delle persone di questa provincia da arrestarsi in de­ terminate contingenze”.188 La stessa prefettura, con una nota del 1934, dove il Miraglia veniva per la prima volta definito non più anarchico ma “comunista”, propose al ministero dell’interno di disporne la cancellazione dal­ lo schedario dei sovversivi “avendo dato sicure prove di ravvedimento”.189 E la direzione generale della Pubblica Sicurezza, con una nota di appena 11 giorni dopo, diede il nullaosta alla cancellazione del nome di Miraglia dallo schedario dei sovversivi.190 In realtà, alla Liberazione Mi­ raglia era in prima linea a fondare con altri la sezione co­ 187 Prefettura di Girgenti, Scheda Accursio Miraglia del 20.02.1925 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, Casellario Politico Centrale 3309). 188 Prefettura di Agrigento, nota n. 04619 Div. Gab. Del 26.12.1929 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, Casellario Politico Centrale 3309).

189 Prefettura di Agrigento, nota n. 0716 dell’8 febbraio 1934 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, Casellario Politico Centrale 3309). 190 Ministero dell’Interno, Direzione Generale della PS., nota n. 9696/41438 del 19.2.1934 (Archivio Centrale dello Stato, sindacalisti uccisi dalla mafia, Casellario Politico Centrale 3309).

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munista e la Camera del lavoro di Sciacca, di cui divenne segretario. Una scelta che avrebbe pagato con la vita.

Portella della Ginestra Quella mattina del 1° maggio 1947, il pianoro di Por­ tella della Ginestra traboccava di contadini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Erano lì, con le loro famiglie, per passare una giornata in allegria, per ri­ cordare la festa del lavoro. Una festa “politica”, a cui li ave­ va abituati il medico socialista di Piana degli Albanesi, Ni­ cola Barbato, mitico capo dei fasci contadini di fine ‘800. Era stato lui, circa 60 anni prima, ad “inventare” questo raduno popolare, per parlare delle conquiste del lavoro. Il ventennio fascista aveva interrotto quell’appuntamento annuale. Ma, adesso, dopo la Liberazione e la nascita della Repubblica, i contadini erano di nuovo lì, attorno al “sas­ so” di Barbato, per riprendere il loro cammino e sognare “il riscatto del lavoro”. Avevano le bandiere rosse e tanta voglia di battere la miseria e la povertà, in cui li costringevano a vivere gli agrari e i gabellotti mafiosi. Tra l’altro, quel gior­ no, avevano un motivo in più per festeggiare. Appena dieci giorni prima - il 20 aprile 1947 —la lista del Blocco del Popolo, composta da comunisti e socialisti, aveva ottenuto un successo storico nelle prime elezioni per l’Assemblea Re­ gionale Siciliana, conquistando 567.392 (29,13%), contro i 399.860 (20,52%) della De. Erano quasi le dieci e gli altoparlanti annunciava­ no l’imminente arrivo dell’oratore che avrebbe parlato ai contadini e alle loro famiglie. C era molta attesa per il comizio che si sarebbe svolto da lì a qualche minuto. Nell’attesa, Giacomo Schirò, segretario della sezione so­ cialista di San Giuseppe Jato, salì sul “sasso” di Barbato, 148

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coperto di bandiere rosse, e iniziò a parlare. All’improvviso dei rumori sordi: Ta-pum... ta-pum... ta-pum. I con­ tadini guardarono il cielo ridendo: “I giochi d’artificio... i giochi d’artificio... è cominciata la festa!”. Ma non era la festa, erano colpi di armi da fuoco, sparati ad altezza d’uomo. Sicuramente di mitra, forse anche lo scoppio di qualche granata... il finimondo. Urla, pianti, gente che fugge, muli imbizzarriti. Infine, decine di corpi straziati per terra: undici morti (la dodicesima vittima morì qual­ che giorno dopo) e ventisette feriti. La strage di Portella della Ginestra. Sul pianoro di Portella, falciate dal piom­ bo della mafia e degli agrari, i nomi dei caduti sono stati scolpiti per sempre sulla lapide posta nel luogo del massa­ cro: Vincenza La Fata, 8 anni; Giovanni Grifo, 11 anni; Giuseppe Di Maggio, 12 anni; Serafino Lascari, 14 anni; Giovanni Megna, 18 anni; Castrenze Intravaia, 19 anni; Vito Allotta, 20 anni; Francesco Vicari, 22 anni; Vita Dorangricchia, 23 anni; Margherita Clesceri, 37 anni; Gior­ gio Cusenza, 42 anni; Filippo Di Salvo, 47 anni. In poche ore, la notizia della tragedia di Portella fece il giro d’Italia. E l’Italia intera rimase sbigottita. In un ango­ lo del cuore interno della Sicilia, a sangue freddo, erano stati assassinati uomini, donne e bambini. Un fatto inau­ dito, intollerabile. Tutti i leader della sinistra arrivarono a Piana, a San Giuseppe, a San Cipirello. Il 3 maggio fu proclamato lo sciopero generale nazionale, con una im­ ponente manifestazione a Palermo, fioccarono le inter­ rogazioni parlamentari. Sott’accusa finirono gli agrari, la mafia e la banda Giuliano, che non avevano esitato a sparare sulla folla inerme, ma anche ambienti politici e “pezzi” dello Stato, ugualmente interessati a bloccare le lotte contadine e l’avanzata delle sinistre. A minimizzare 149

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l’accaduto, nella seduta del 9 maggio 1947 dell’Assem­ blea Costituente, pensò il ministro degli interni, Mario Sceiba: «Non c’é movente politico. Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortu­ natamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari». Sceiba mentiva. Sapeva benissimo delle trame sicilia­ ne e, in qualche modo, ne era pure uno degli artefici. Tra l’altro, la violenza contro i contadini e la sinistra politica e sindacale non si fermò a Portella. Infatti, scrive Umberto Santino nella Storia del movimento antimafia: “L’8 maggio 1947 a Partinico venne ucciso il contadino Michelangelo Salvia. Il 22 giugno si ha una serie di attentati con bom­ be e colpi di arma da fuoco contro le sezioni comuniste di Partinico, Borgetto e Cinisi, alle sedi della Camera del lavoro di Carini e San Giuseppe Jato e alla sezione sociali­ sta di Monreale. A Partinico ci sono due morti: Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono”191. Nel 1949, al pro­ cesso di Viterbo, furono soltanto il “Re di Montelepre” e la sua banda ad essere condannati quali esecutori dell’or­ renda strage di Portella della Ginestra. Troppo poco. Du­ rante un’udienza Gaspare Pisciotta aveva lanciato una terribile accusa: “Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella del­ la Ginestra. Prima del massacro incontrarono Giuliano”. Ma non si riuscì mai a provarlo. “Portella della Ginestra, i suoi morti e i suoi feriti sostiene il giornalista Carlo Lucarelli —non sono soltan­ to un fatto locale, che per quanto feroce e impressionante interessa un determinato periodo di storia della Sicilia. 191 Editori Riuniti, Roma 2009. 150

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Portella della Ginestra rappresenta il primo atto della stra­ tegia della tensione in Italia, il primo laboratorio di depistaggio, insabbiamento e copertura da parte di organi dello Stato, di trame segrete e guerre intestine tra gli stessi apparati di sicurezza, il primo esempio di collaborazione concreta tra mafia e politica, il primo esperimento dell’in­ gerenza di uno Stato straniero nella limitata sovranità na­ zionale italiana”. Nella strage c’entravano davvero i servizi segreti di uno Stato straniero? Che a Portella della Ginestra Salva­ tore Giuliano e la sua banda abbiano sparato sui conta­ dini in festa non ci sono dubbi. Al riguardo, infatti, c’é anche una sentenza della magistratura. Che Giuliano sia stato affiancato dalla mafia è un’ipotesi credibile. Anche perché, “senza il consenso della mafia di Piana degli Al­ banesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, Giuliano non avrebbe potuto sparare a Portella della Ginestra”, sostiene lo storico Francesco Renda. Che i mandanti della strage possano essere stati gli agrari, con la complicità di “pezzi” dello Stato e della politica, è anch’essa una tesi plausibi­ le, su cui concordano tutti gli storici che si sono occupati della vicenda. Il punto su cui, invece, c’é ancora una forte polemica tra gli storici attiene al coinvolgimento o me­ no dei servizi segreti americani. A dirsi convinti di que­ sto coinvolgimento sono gli storici Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia. “Possiamo considerare la strage di Portella l’atto culminante compiuto dalle forze dominanti (gli Stati Uniti e i suoi servizi segreti, l’associazione mafiosa siciliana, una parte del gruppo dirigente del partito cattolico) per fermare la possibile, o probabile, avanzata delle forze di sinistra italiane», è la tesi dello storico to­ rinese, che sull’argomento nel 2004 ha pubblicato il vo­ 151

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lume Come nasce la Repubblica, dove vengono analizzati diversi documenti dei servizi segreti americani192. Questa tesi, però, è fortemente contestata da Francesco Renda, secondo cui i documenti trovati negli archivi dei servizi segreti americani non dimostrano proprio niente: “Dalle notizie riportate in questi documenti, la tesi “Portella strage di Stato” manca di conferma anche solo indi­ retta. Non risulta contestata, invece, la tesi Portella della Ginestra strage terroristica di matrice politica-mafiosa e banditesca tutta italiana». Renda, tra l’altro, è stato quasi un testimone oculare della strage. Quella mattina di mag­ gio, infatti, era lui l’oratore che doveva recarsi a Portella. “Ma arrivai un po’ in ritardo -racconta - e davanti ai miei occhi si presentò quella immane tragedia”. Renda ricor­ da anche che, subito dopo la strage, i contadini di Piana volevano farsi giustizia da soli, minacciando di uccidere i mafiosi del loro paese. “Li convinsi - dice - che quella sarebbe stata la provocazione che cercavano per mettere fuorilegge i comunisti”. Alla tesi della provocazione crede pure lo storico Giu­ seppe Carlo Marino. Con la strage - sostiene nella sua Storia della mafia —si volevano “indurre i comunisti, in tutto il Paese, a una risposta di proporzioni tali da pre­ starsi ad essere interpretata come l’avvio di una insurre­ zione nazionale, sì da giustificare un intervento repressivo adeguato al caso e chiudere per sempre la partita con il Pei mettendolo fuorilegge”193.

192 Bompiani Milano 2004. 193 Newton Compton, Milano 1997. 152

3. ! sin d a c a listi u c cisi, nei d o c u m e n ti e nella m e m o ria

Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono Il 22 giugno 1947, un “commando” terroristico prese d’assalto a colpi di mitra e di bombe a mano la sede della Camera del Lavoro di Partinico, che allora ospitava an­ che la sezione del Pei. In quella strage furono assassinati i dirigenti sindacali Giuseppe Casarrubea nato il 1 otto­ bre 1899 a Partinico (Palermo), falegname, comunista, e Vincenzo Lo Iacono, nato a Partinico il 12 novembre 1909, contadino, e ferite altre quattro persone, che si tro­ vavano davanti la sede sindacale. Dopo la strage, la CGIL nazionale dichiarò uno sciopero nazionale di mezz’ora e le fabbriche si fermarono in tutta Italia per protestare con­ tro il fatto di sangue, attribuito al tentativo della mafia e delle forze politiche neo fasciste di impedire il cammino della nuova Italia repubblicana. La matrice terroristica dell’attentato fu sottolineata anche dal quotidiano “L’U­ nità” del 24 giugno 1947, che riportava in prima pagina il titolo Sanguinose aggressioni fasciste in Sicilia e un ar­ ticolo di fondo di Pietro Ingrao sulle Forze del disordi­ ne. L’Assemblea Costituente sospese i lavori ed espresse la condanna contro i mandanti e gli assassini. Lo stesso ministro dell’Interno Mario Sceiba, anche se indicava nel bandito Giuliano la pista su cui indagare, informava De Gasperi sulla natura terroristica degli attentati del 22 giu­ gno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si rivolgeva al Governo siciliano parlando apertamente di “minaccia terroristica”. Gli assalti del 22 giugno rappresentarono la diretta prosecuzione della strage di Portella della Ginestra, come dimostrarono i giudici di Viterbo che unificarono le indagini giudiziarie relative ai due gravi fatti e li esamina­ rono come unico episodio di una stessa manovra stragista. “Dopo l’assalto alla Camera del lavoro in cui mio pa­ 153

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dre perse la vita (allora avevo poco più di un anno) io e mia madre restammo soli”, ha raccontato in una strug­ gente lettera del 22 settembre 2002 Giuseppe Casarrubea, insegnante e dirigente scolastico per 40 anni. Adesso è in pensione, ma continua a dedicare il suo tempo al­ la ricerca storica sul movimento contadino e sulla catena di stragi e omicidi del secondo dopoguerra. È autore di diversi saggi storici e, da qualche anno, insieme a Mario Cereghino, ha costruito un imponente archivio che con­ tiene documenti desecretati dei servizi segreti americani, inglesi e sloveni. Ecco come prosegue il suo racconto: «Abitavamo in una piccola casa a Partinico, in via La Perna, che ricordo ancora benissimo, come gli inverni, il vento furioso che scuoteva le porte e filtrava attraverso le fessure; le notti in cui ero accucciato con lei, che mi da­ va, col suo respiro caldo, una certezza interiore che non ho mai smarrito: mi teneva abbracciato come se avesse paura che qualcuno le togliesse l’unica cosa che le era ri­ masta, anche questa indifendibile. Le notti della mia in­ fanzia sono state notti di continui soprassalti e di persi­ stenti certezze: i soprassalti della violenza che sentivamo attorno a noi per l’uccisione di mio padre; la certezza che i mandanti e persino i killer erano ancora liberi, e maga­ ri ci guardavano di giorno commiserandoci; il soprassalto del trauma che accompagnò mia madre dopo la tragedia, lo scuotimento che la travolse lasciandole addosso i segni dell’ angoscia e della paura; la certezza del suo affetto e le sue mani sempre protese verso di me, come un tesoro da custodire in uno scrigno. Ma c’è in questa memoria la lu­ ce solare delle estati, i fichi secchi della vicina stesi al sole, la vita quotidiana delle famiglie della borghesia di Partiti­ co.... L’alba era segnata dal rituale dei carri che si usciva154

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no dalle stalle e s’attaccavano ai cavalli, dal rumore delle ruote che lentamente scorrevano lungo i selciati e si allon­ tanavano verso le campagne. Poi ci eravamo trasferiti da mia nonna, anche lei vedova, a pochi metri dalla sede del PCI/Cam era del Lavoro presa d’assalto quel giorno, e do­ ve mio padre era stato portato dopo la strage in cui aveva perso la vita anche un altro militante sindacale com uni­ sta: Vincenzo Lo Iacono. Ricordo quando le due povere donne andarono a Viterbo nel 1950-’51, perché erano state citate come testimoni al processo che si doveva te­ nere in quella città. Ero rimasto solo, per qualche tempo, con mia nonna e di quel processo non ho altro ricordo che il regalo che mi portò mia madre quando finalmente fu di nuovo con me. Ai giudici disse: “Voi che mi state 156

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interrogando ne sapete più di me. Cosa volete che vi dica io? Consegnatemi gli assassini e i mandanti dell’uccisione di mio marito”. Allora erano stati convocati anche i feriti presenti a Portella, in quanto il processo per le due stragi era stato unificato». Le vedove Casarrubea e Lo Iacono rimasero alcuni giorni a Viterbo, poi ritornarono deluse a Partinico. «I giudici non ci consegnarono nessun mandante; assol­ sero i mafiosi e presero atto che i principali testimoni che avrebbero potuto dire la verità erano stati già am­ mazzati - si disse - in regolari conflitti a fuoco. Ma le stragi non si cancellano col passare del tempo, la no­ stra memoria è scritta sulla nostra pelle e nessun morto va in prescrizione».

Vito Pipitone Vito Pipitone, contadino, socialista, nato a Marsala (Trapani) il 27 marzo 1908, era vice-segretario della Confederterra della sua città, dove fu assassinato l’8 novem­ bre 1947. Lasciò la moglie, Filippa Di Dia, e quattro figli: Pietro di 8 anni, Maria Pia di 6 anni, Antonio di 4 anni e Melchiorre di 2 anni. Ecco come racconta l’omicidio il giornale “L’Unità”: “ Sabato sera alle 19, mentre si recava a casa dai genito­ ri..., il compagno Vito Pipitone, vicesegretario della Confederterra di Marsala, è stato d’improvviso aggredito e ri­ petutamente colpito dalle scariche di fucili mitragliatori. Ridotto in fin di vita, egli è stato rapidamente trasportato all’ospedale dove è stato inutilmente sottoposto a un inter­ vento chirurgico. La sera di domenica è morto. [Pipitone] doveva partire domenica stessa per Salemi, per rappresen157

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tarvi i contadini del luogo e trattare l’assegnazione ai mez­ zadri di alcuni lotti del feudo Giudeo”194. L’attentato ma­ fioso contro il dirigente sindacale avvenne la sera di sabato 8 novembre 1947. Pipitone morì la sera dopo, il 9 novem­ bre. L’assassinio del sindacalista marsalese fu il 19° della lunga serie di delitti sanguinosi consumati dalla reazione degli agrari e della mafia in Sicilia. Per quanto possa sem­ brare strano, allora la prima città a reagire contro l’omici­ dio del sindacalista non fu Marsala ma Palermo, la capitale dell’Isola. Ce lo racconta ancora “L’Unità”: “È veramente indescrivibile l’agitazione che regna fra le masse contadi­ ne e fra i lavoratori della città dopo questo ultimo spargi­ mento di sangue. Non appena si diffondeva a Palermo la notizia dell’efferato omicidio gruppi di cittadini iniziavano una dimostrazione al grido di “Giustizia contro gli assas­ sini“. Le jeep della polizia intervenivano contro i dimo­ stranti con colpi di sfollagente, infierendo anche contro un bambino a calci sul ventre. I poliziotti arrestavano diverse decine di dimostranti trasportandoli alla Questura. La folla si recava in corteo alla Questura per chiedere l’immediato rilascio dei fermati. Dopo diverse tergiversazioni, i funzio­ nari si decidevano a operare il rilascio. A tarda sera gruppi di dimostranti manifestavano ancora per le principali vie della città”195. L’organo ufficiale del Partito comunista, oltre a dare notizia dell’assassinio di Pipitone e delle prime rea­ zioni nella città di Palermo, fece anche delle significative ri­ flessioni. “Nessun uomo onesto può più porre in dubbio scrisse —che vi sia oggi in Sicilia un vero e proprio piano di aggressioni armate contro i lavoratori e i loro organizzatori 194 “L’Unità” , 195 Ibidem.

novembre 1947.

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[...]. Domenica scorsa a S. Giuseppe Jato, il ventinovenne Calogero Caiola, piccolo proprietario locale, colpevole di aver denunciato alcuni degli autori materiali dell’eccidio di Portella della Ginestra, nonostante le diffide che aveva rice­ vute dalla mafia locale, è stato ucciso a tradimento. Sabato scorso veniva accoltellato a Caltanissetta, nei pressi di piaz­ zetta Badia, un comunista, e il 25 ottobre al segretario della Confederterra di Terrasini, compagno Maniaci, veniva fra­ cassato il cranio e crivellato il corpo”. “Allora - fu la denun­ cia de “L’Unità” —le autorità dissero che “era escluso il mo­ vente politico”. Cosa diranno ancora oggi/i favoreggiatori degli assassini, i loro giornali, le autorità complici col Go­ verno di De Gasperi e di Sceiba alla testa, coloro che ten­ gono man forte all’offensiva criminosa degli agrari dì fronte allo sdegno della popolazione? Un primo esempio dell’at­ teggiamento dei dirigenti democristiani è stato offerto og­ gi dal Presidente della Regione, on. Alessi, che ha ricevu­ to una folta delegazione di deputali del Blocco del Popolo. Nessuna deplorazione, nessuna espressione di rammarico, di cordoglio o di indignazione. Alessi si è dimostrato di una indifferenza incredibile. Ha ascoltato freddamente. Poi ha parlato lui. Ha chiacchierato per due ore sugli spostamen­ ti della polizia, sui normali provvedimenti burocratici, ma non si è impegnato a prendere nessun provvedimento con­ creto. Infine, congedati i rappresentanti del popolo, ha ri­ cevuto cordialmente il noto mafioso Farina”. Quando fu assassinato, Vito Pipitone aveva 39 anni. Nei mesi precedenti si era messo alla testa di centinaia e centinaia di contadini per occupare i feudi di “Rammincalle” e “Giudeo”, in territorio di Mazara del Vallo, tra Mar­ sala e Salemi, gestiti da gabelloti mafiosi, che sfruttavano i braccianti agricoli, facendoli lavorare 10-12 ore al giorno, 160

3. i sindacaiisti uccisi, nei documenti e nella memoria

in cambio di poche lire. La famiglia non lo scoraggiava, an­ zi era orgogliosa del suo operato. Soltanto l’anziana madre cercava di fermarlo, perché temeva per la sua vita. Quando 10 uccisero, vi furono persone che udirono gli spari e videro due uomini scappare. Le indagini, però, non portarono a nulla e l’inchiesta fu chiusa con un nulla di fatto. Ai fune­ rali del sindacalista parteciparono almeno 5.000 persone. Quando, quel pomeriggio dell’8 novembre ‘47, Vito uscì di casa, il figlio Antonio voleva a tutti i costi uscire con lui. 11 dialogo tra padre e figlio l’ha raccontato il prof. Giovanni Lombardo il 7 novembre 2009, presso il centro sociale del quartiere Sappusi a Marsala, durante l’iniziativa di “Libera” per ricordare il sindacalista e pubblicata sul sito “vittimemafia.it”. «Papà, vengo pure io dai nonni. Amunì, mi porti supra ‘a canna da bicicletta», gli chiese Antonio. «No, è tar­ di e c’è friddu. E p o i.. .vaili e tornu», rispose il padre. «Vogghiu vèniri», insistette Antonio. «No, ricciolino mio, stai a fare compagnia alla mamma. Arrivederci. Ci vediamo, ‘nni videmu». M a Antonio e i suoi fratellini non videro più il padre. Lo rivide una sola volta la madre, l’indomani all’o-

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\ / spedale, e le spirò tra le braccia. “Quella sera - ha raccon­ tato ancora il prof. Lombardo - mentre pedalava nel buio, Vito Pipitone probabilmente stava pensando al lavoro del giorno dopo. Doveva andare al feudo “Giudeo” per trattare la suddivisione delle terre incolte ai contadini. “Non sarà facile —pensava —perché i grossi proprietari non volevano saperne di rispettare i Decreti Gullo sulle terre incolte e mal coltivate”. E mentre continuava a pedalare, gli torna­ vano in mente le minacce ascoltate dai mafiosi, che veni­ vano chiamati “i salernitani”. ..”. Ormai da più di due anni le leghe contadine, organizzate dai comunisti, dai socialisti e, in parte, dai democristiani, combattevano la loro “batta­ glia” perché la “legge Gullo” venisse applicata. Utilizzavano le “occupazioni delle terre” come forma di pressione verso le Commissioni circondariali, che dovevano decidere que­ ste concessioni e che procedevano in maniera molto lenta, frenate dalle pressioni dei grandi proprietari. «Noi non sap­ piamo veramente cosa pensasse Vito mentre pedalava len­ tamente lungo la trazzera - ha spiegato Lombardo - [...]. Sappiamo che ricevette un colpo di fucile frontale, alla pancia. Fu lasciato lì agonizzante sulla stradella». «Tre sere prima di recarsi a spartire le terre a Giudeo, e dopo che ne­ gli anni e nei mesi precedenti era stato ad occupare prima e spartire poi quelle di Ciavolo, di Rinazzo, di Favarotta, e due sere prima di subire l’attentato che l’uccise, Vito Pipitone fu convocato a Rampingallo, tra Bellusa e Salemi, da tal Cordaro, uno della cosca dei Licari. Ne ebbe punta­ to il revolver. Vito Pipitone lo sopraffece, lo sbattè a terra, lo disarmò e si portò l’arma: “ Veni ‘0 Jureu a pigghiaritillaP (“Vieni al Giudeo a riprendertela” —n.d.a.), fu la sfida. Quello, o altri per esso, se la ripresero a Bèrbaro, dove, il 7 di Novembre del 1947, sullo scuro della sera, fu aggredito 162

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a fucilate»196. Così si ammazzavano i sindacalisti allora. E il Ministero dell’Interno, con una nota del 10 aprile 1948, ebbe l’ardire di precisare che “dalle indagini restò escluso il movente politico, e fu ritenuto che l’attentato, dovuto ad errore di persona, fosse stato predisposto nei confronti del futuro cognato dell’ucciso Russo Giuseppe. Responsabili non identificati nonostante attive indagini”197.

Epifanio Li Puma Come si può ammazzare un padre a sangue freddo, davanti al figlioletto di soli 13 anni, che guarda con gli occhi sbarrati dal terrore? Eppure, quel 2 marzo 1948, in contrada «Albuchia», territorio di Petralia Soprana, i sica­ ri della mafia ammazzarono Epifanio Li Puma, socialista, nato a Raffo, borgata di Petralia Soprana (Palermo), il 6 gennaio 1893. Il dirigente sindacale stava arando con i muli un appezzamento di terra di proprietà del cognato, emigrato in America, insieme ai suoi figli Santo di 19 an­ ni e Giuseppe di 13. Erano circa le 14.30. Ecco come ha ricostruito quei drammatici istanti Santo Li Puma nel vo­ lume biografico Epifanio Li Puma: “Due uomini a piedi si approssimarono improvvisamente davanti a loro. Epifa­ nio fermo le mule e rispose tranquillamente ad alcune do­ mande che i due gli formularono. “Epifanio Li Puma tu sei?”. “Si, io sono”. “Questa terra di chi é?”. “Di mio co­ gnato che si trova in America”. “E questo ragazzo chi è?”. “Mio figlio”. “E quello che zappa dall’altro lato? “. “Mio 196 N. Marino, Fame di terra e sete di libertà, Cartogram Service, Trapani, 2009, pp. 135-6. 197 Ministero dell’interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Dir. Polizia, Archivio Centrale dello Stato, Sindacalisti uccisi dalla mafia, Busta 33, scheda 28.

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figlio”. [...] Uno di loro, senza aggiungere altro, spianò il fucile e fece fuoco contro Epifanio che stramazzò per terra. L'altro sicario si avvicinò al corpo di Epifanio e gli esplose alcuni colpi di pistola alla testa per essere sicuro che la missione di morte fosse compiuta in maniera sicu­ ra. Poi, con sguardo freddo e truce, rivolse l'arma contro Giuseppe che... indietreggiò di due passi, ma questa vol­ ta il sicario fu bloccato dal compagno che gli disse: Lassalu stari!». Poi andarono via a passo svelto.198 Attirato dal rumore degli spari, arrivò Santo, che rima­ se paralizzato dal terrore nel vedere il corpo del padre per terra in un lago di sangue. I due fratelli urlavano, chie­ devano aiuto. Dopo un po’ arrivarono alcuni contadini e Santo potè correre a Raffo, la frazione di Petralia Soprana dove i Li Puma abitavano, per avvertire la madre, i pa­ renti, gli amici e i compagni del sindacato. Strazianti le urla e le parole di Michela, moglie di Epifanio, dal 1922: «L’ammazzaru, l’ammazzaru! U sapia ca avia a finiri accussi! Mi parrava l’arma, m’ha parratu sempri ca putia succediri na cosa di chista! U sapia! U sapia! Li disonesti, i mafiosi l’ammazzaru!». Il fratello e il cognato di Epifa­ nio si recarono in contrada «Albuchia», dove arrivarono il giorno dopo. Arrivarono anche i carabinieri, poi il pre­ tore. Quindi, il corpo di Li Puma fu trasportato nella ca­ mera mortuaria del comune di Ganci per gli accertamenti medico-legali. Infine, fu restituito ai familiari che lo por­ tarono a Raffo. L’assassinio di Epifanio Li Puma destò molto scalpore non solo nelle Madonie, ma in tutta la Sicilia. Il sindaco socialista di Petralia, Aldo Ferrara, sollecitato da Pasquale 198 Edizioni Arianna, Ceraci Siculo, 2008. 165

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Macaiuso, ex sindaco e dirigente della sinistra, decise di allestire la camera ardente in municipio. Nel pomeriggio del 4 marzo, la salma di Li Puma fu trasportata a Petralia Soprana, nei locali del municipio e piantonata dalle guardie. Come al solito, l’arciprete del paese si rifiutò di celebrare i funerali religiosi, che poterono tenersi solo gra­ zie all’umanità e all’apertura mentale del frate cappuccino Francesco Libbrizzi, che, “senza esitazioni, assumendosi ogni responsabilità, offri la sua piena disponibilità a cele­ brare la Santa Messa dei funerali del povero Epifanio”, col consenso della stessa Curia di Cefalu. Imponente il cor­ teo funebre, a cui parteciparono migliaia di contadini. “Si snodò un lunghissimo corteo, organizzato dalla Cgil, che sventolava una infinità di bandiere rosse”. Intervennero per ricordare Li Puma e il suo impegno a favore dei con­ tadini Pasquale Macaiuso, il sindaco Ferrara, l’on. France­ sco Musotto, socialista, e il leader dei comunisti siciliani Girolamo Li Causi. Le indagini sull’omicidio di Epifanio Li Puma gira­ rono subito a vuoto, nonostante che ai funerali fossero stati apertamente denunciati i mandanti dell’omicidio, nessuno pagò per la morte. Eppure non mancarono te­ stimonianze precise, come quella del fratello Mario, che qualche mese prima aveva sentito di persona il marchese Enrico Pottino esclamare: “La prossima volta che Epifa­ nio va nel suo terreno lo ammazzo”. E poi, qualche set­ timana dopo: “A Michele (fratello di Epifanio - ndr) lo perdono perché, in un certo senso, lo considero un picciriddu (bambino - ndr), ma Epifanio non posso asso­ lutamente perdonarlo”. Segnali di morte inequivocabili, rispetto ai quali i contadini di Raffo provarono a proteg­ gerlo, eleggendo segretario della lega Ascenzio Li Puma. 166

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Un’elezione solamente formale, che aveva l’obiettivo di far credere ai mafiosi e ai padroni che Epifanio non fosse più al vertice del sindacato. Inutilmente. La magistratura e le forze dell’ordine non riuscirono nemmeno ad imbastire un processo. E il fascicolo sull’as­ sassinio del dirigente sindacale madonita fu archiviato con la classica frase “ad opera di ignoti”. Non si volle in­ dagare sulle minacce ricevute da Li Puma e sugli scontri col marchese Enrico Pottino per la divisione dei prodotti e per l’assegnazione di parte dei suoi feudi alla cooperati­ va contadina “Madre Terra”. “Dopo quell’omicidio - ha scritto ancora Santo Li Puma - attorno alla buffetta di casa Li Puma il posto di Epifanio restava sempre libero. Nessuno pensava o si sentiva di occuparlo. Il vuoto della sedia, in un certo senso, colmava la sua assenza fisica. Al­ cune sere, a cena, l’ora in cui la famiglia si riuniva al com­ pleto, nei momenti di maggiore rievocazione, l’appetito sembrava svanire e nessuno si sentiva di rompere quella sorta di indugio psicologico che si creava. Praticamente era come se mancasse quella sorta di “benedizione” reci­ proca che Epifanio, con molta severità, dava e pretendeva dai congiunti: farsi il segno della croce”. Epifanio e la mo­ glie Michela avevano 10 figli: Santo, Concetta, Damiana, Pietro, Carmelo, Giuseppe, Maria, Leonardo, Antonio, Lucia.

Placido Rizzotto e la memoria A Corleone, dove era rimasta viva una tradizione so­ cialista, i contadini e le loro organizzazioni politiche e sindacali accelerarono la costituzione delle cooperative agricole e delle leghe, per avere al più presto gli strumenti che potessero rendere operative i decreti Gullo. Era rima167

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sta in funzione la vecchia cooperativa “Unione Agricola”, fondata ai tempi di Bernardino Verro, e ne furono costi­ tuite altre due: la “SACLA” e la “Bernardino Verro”. Fu su queste cooperative e sulle organizzazioni politiche e sindacali delle sinistre (Psi, Pei e Cgil) che ricadde il peso della costruzione e della direzione del movimento conta­ dino nella lotta per la terra, che presto divenne lotta con­ tro gli agrari e contro la mafia. A guidarlo, furono alcuni dirigenti della vecchia guardia come Vincenzo Schillaci, Luciano Rizzotto, Gioacchino Gervasi, Michele Zangara e Benedetto Barone, insieme a giovani dirigenti come Placido Rizzotto, Peppino Siragusa, Peppino Lo Monaco e Peppino Di Palermo. Sotto la loro guida, nel ’46 vi furono le prime occupa­ zioni delle terre, che ebbero un carattere essenzialmente simbolico e miravano a fare pressione sulla Prefettura af­ finché applicasse i decreti Gullo. I primi feudi da occupa­ re, scelti nel corso di affollate assemblee, furono quelli di Donna Giacoma, Drago, Rubina, Sant’Ippolito, Gristina e Saladino, tutti sotto il controllo di campieri e gabellotti mafiosi. A piedi o sopra i muli, sui carri o con altri mez­ zi di fortuna, i contadini si avviavano la mattina all’alba verso le località stabilite e là piantavano le bandiere rosse, simbolo della loro voglia di riscatto. Poi, l’oratore di tur­ no spiegava il valore di quelle lotte, che avevano l’obiet­ tivo di spezzare il latifondo e dare la terra a chi sapeva e voleva lavorarla. Tra i contadini di Corleone, stava diventando ogni giorno più popolare il nuovo segretario della Camera del lavoro, Placido Rizzotto199. Era nato a Corleone il 2 199 Per una biografìa completa del sindacalista, cfr. D. Paternostro, Placido 169

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gennaio 1914 da Carmelo e Giovanna Moschitta, prima di partire per la guerra, era un semplice contadino semi­ analfabeta. Dopo l’8 settembre del ’43, buttata la divisa militare, scelse di salire sulle montagne, con i partigiani delle Brigate “Garibaldi”, per combattere contro il nazi­ fascismo. Per mesi aveva vissuto tra le montagne innevate della Carnia, nel Nord-Est, dividendo il pane e la paura con altri giovani come lui, convinto di battersi per la cau­ sa giusta. In Carnia aveva imparato tanto. Aveva impara­ to che gli uomini non nascono ricchi o poveri, padroni 0 schiavi, ma tutti uguali e tutti liberi. Aveva imparato, però, che per affermare il diritto all’uguaglianza e alla li­ bertà bisognava organizzarsi e lottare, anche a rischio del­ la vita. Quanti giovani vide morire accanto a lui, su quelle montagne! Tanti. Troppi. E fu per loro il suo primo pen­ siero quando la guerra finì e l’Italia ebbe il suo 25 apri­ le. A Corleone Rizzotto era tornato nel 1945. Insieme a questi ricordi, aveva portato nuove idee, quelle imparate nei mesi trascorsi sui monti, al fianco di quei giovani con 1 capelli biondi e i fazzoletti rossi. Lo chiamavano “il ven­ to del nord”. Il suo soffio faceva paura ai padroni ed ai gabellotti mafiosi, ma riempiva di speranza i polmoni dei contadini, perché insegnava a non abbassare la testa da­ vanti ai “signori”. Che i contadini rialzassero la testa non poteva piace­ re al barone Cammarata, al cavaliere Paternostro, al com­ mendatore Bentivegna e agli altri grossi latifondisti di Corleone. E neppure alla mafia. Qualcuno di loro si era pure illuso di non fare applica­ Rizzotto e l’antimafia sociale a Corleone e in Sicilia, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2 0 11 .

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re in Sicilia i decreti Gullo, ma il movimento contadino la pensava diversamente. E, in corteo e con le bandiere rosse, sempre più spesso “calpestavano” quelle terre, ri­ vendicandone la concessione. Ma il 23 ottobre 1946, nel corso dell’occupazione dei feudi Rubina e Sant’Ippolito, attorno al colle Sant’Oliva, i campieri mafiosi reagirono rabbiosamente, sparando dei colpi di fucile contro i con­ tadini. Questi risposero al fuoco e si scatenò una vera e propria guerriglia. Chiamati dal segretario della sezione comunista, Michele Zangara, intervennero i carabinieri, i quali, invece di fermare i mafiosi, arrestarono i contadini Antonino Iemmola, Antonino Scaturro, Gaetano Mura­ tore e Salvatore Puerio, tutti militanti di sinistra, ai qua­ li sequestrarono un moschetto, una pistola con relative munizioni e una bomba a mano. Ma dovettero rilasciarli nel giro di qualche ora, per la reazione minacciosa di cir­ ca 4 mila contadini, che circondarono la zona rastrella­ ta. Appena fu notte scattò la rappresaglia mafiosa: “alcuni colpi d’arma da fuoco furono sparati contro l’abitazione di Michele Zangara, alla cui porta si tentò di appiccare il fuoco”200. Neanche quest’altra intimidazione riuscì a fer­ mare il movimento contadino, che aveva già ottenuto in concessione 50 ettari di terra del feudo Donna Giacoma per la cooperativa “SACLA” ed altri 50 del feudo Drago ne avrebbe ottenuto, il 17 novembre 1947, per la coope­ rativa “B. Verro”. A galvanizzarlo avevano contribuito anche una serie di successi elettorali. Il 2 giugno 1946, alle elezioni per l’Assemblea Costituente, la sola lista socialista aveva otte­ 200 G. C. Marino,

Storia del separatismo siciliano, Roma, Editori Riuniti, 1979, p.

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nuto 3.497 voti (45.35%), più di quelli del Movimento Indipendentista Siciliano (1.163, 15.08%) e della De­ mocrazia Cristiana (1.155, 14.97%) messi insieme. Nelle successive elezioni amministrative del 6 ottobre 1946, la sinistra conquistò il Comune col 63.11% dei voti, eleg­ gendo sindaco il socialista Bernardo Streva e portando per la prima volta in consiglio una donna, Biagia Birtone, militante comunista. Le sinistre confermarono il successo un anno dopo, alle elezioni regionali del 20 aprile 1947, quando la lista del Blocco del Popolo conquistò 3.413 voti, pari al 44.41%. Una percentuale ancora più alta di quella ottenuta a livello regionale, dove pure aveva avu­ to la maggioranza relativa. Fu allora che la controffensiva degli agrari e della mafia contro il movimento contadino e le sinistre si scatenò rabbiosamente in tutta la Sicilia, nel quadro del disegno di “normalizzazione” del Paese. Ne­ gli anni passati, erano già stati assassinati diversi dirigenti sindacali nei comuni del feudo. Adesso, però, si trattava di alzare il tiro. La strage di Portella della ginestra fu un segnale preciso. A Corleone, tra la fine del ‘47 e gli inizi del ’48, il “sa­ lotto Navarra” era molto frequentato. L’attivismo delle cooperative contadine, della Camera del lavoro e dei par­ titi di sinistra dava fastidio agli agrari e ai gabellotti ma­ fiosi, che non perdevano occasione per lamentarsene col Padrino. Ma in quel periodo don Michele Navarra non ricevette solo visite “locali”. Con le elezioni politiche alle porte e col “vento del Nord”, che in Italia soffiava ancora forte, il Mezzogiorno e la Sicilia erano diventate trincee importanti per fermare i “rossi”. Consigliato anche dal suo amico don Calò Vizzini, il capomafia corleonese ca­ pì che adesso bisognava far quadrato attorno alla Demo­ 172

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crazia Cristiana, per indebolire il più possibile la sinistra. Ma capì anche che non bastavano più azioni dimostrati­ ve. Occorreva qualcosa di più “forte”. Dividere la sinistra, per esempio, approfittando della scissione di Palazzo Bar­ berini, e intimidire in maniera diretta quei dirigenti, che costituivano l’anima del movimento contadino. In primo luogo i socialisti, che rappresentavano la forza maggiorita­ ria della sinistra. Stavolta, però, era necessario che Don Michele scen­ desse in campo in prima persona, con tutta la sua influen­ za e il suo peso. Cominciò con ravvicinare amministrato­ ri e consiglieri comunali, dirigenti delle cooperative e del sindacato. A tutti diede lo stesso consiglio: «Vedete quello che ha fatto Saragat a Roma? Lui è una persona ragione­ vole, ha capito che non si può stare con i comunisti». E qualche risultato arrivò. Un giorno, il sindaco Bernardo Streva, l’assessore Giovanni Di Carlo e il consigliere Giu­ seppe Lodato, tutti socialisti, comunicarono di avere ade­ rito al partito socialdemocratico. Nessuna certezza che la scelta fosse stata forzata da don Michele. Certo è che dal capopolo comunista Michele Zangara, in un pubblico co­ mizio, furono apostrofati come «voltafaccia e traditori». Navarra, soddisfatto di questi primi risultati, si permet­ teva pure di ironizzare su qualche dirigente socialista, che non si decideva a fare il “gran salto”. «Tu che sei una pirnici lagnusa?», gli diceva, guardandolo negli occhi. Tra i socialisti, chi l’inquietava di più era quel giovane appena tornato dal Nord, Placido Rizzotto. Aveva prova­ to ad avvicinarlo, ma non c’era stato niente da fare. Al­ lora, cominciò a far spargere la voce che questo Rizzot­ to «non si faceva i fatti suoi». Ma Placido non ci badava. “Dopo che mi ammazzano non hanno risolto niente. Do­ ’ 73

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po di me quanti ne spunteranno di segretari della Camera del lavoro! Non é che ammazzando me, finisce...”, ripete­ va agli amici, che gli consigliavano prudenza. A metterlo in guardia era pure il vecchio padre, Carmelo, che non riusciva più a dormire la notte. E, non potendolo far de­ sistere dall’impegno sindacale, gli raccomandava pruden­ za. “Se qualcuno dice che ti vuole parlare, chiedi mezz’ora di permesso e vieni a dirlo a me», gli ripeteva sempre. Il vecchio Rizzotto conosceva bene i mafiosi, sapeva di cosa fossero capaci, ma Placido minimizzava. “A me la gente mi rispetta, pure il dottore Navarra!” “Stai attento -repli­ cava l’anziano genitore- che quando il diavolo t’alliscia, è segno che vuole l’anima!”.201 La sera del 10 marzo 1948 fu l’ultima sera per Placido Rizzotto. La lotta politica contro le sinistre a livello nazio­ nale in vista delle elezioni politiche del 18 aprile, si tra­ duceva in Sicilia nell’obiettivo di decapitare il movimento contadino. Con ogni mezzo, anche ricorrendo all’assas­ sinio. L’esempio era arrivato qualche giorno prima —il 2 marzo 1948 - da Petralia Sottana, sulle Madonie, dove era caduto sotto i colpi della lupara il capolega Epifanio Li Puma. Anche Navarra a Corleone decise di passare dal­ le parole ai fatti. L’incarico di “chiudere” la partita con Rizzotto lo diede al suo uomo di fiducia, a quel Luciano Liggio, che, con la sua ferocia, incuteva paura agli stessi picciotti. Certi metodi e certi atteggiamenti da gangster Liggio li aveva appresi da mister Vincent, l’americano. Da lui aveva imparato ad apprezzare di più il mitra che la lu­ para. Lo “sciancato”, come sottovoce lo chiamavano per il morbo di Pott che l’affliggeva, col sindacalista ce l’aveva a 201 Cfr. D. Dolci, Spreco, Torino, Einaudi, 1960, pp. 173-179. 174

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morte. Proprio Rizzotto, infatti, qualche mese prima l’a­ veva umiliato al “Piano del Borgo”, davanti alla villa co­ munale. Alcuni studenti corleonesi in odore di mafia ave­ vano provocato un gruppo di ex partigiani di passaggio, ironizzando sui loro fazzoletti rossi. Rizzotto era interve­ nuto e, piuttosto che difendere i paesani, si era schierato con gli amici partigiani, con gli “estranei”. Non solo, ma si era pure permesso di alzare le mani su Lucianeddu, “ap­ pendendolo” materialmente alla grata in ferro della villa comunale. Il compito di attirarlo in trappola fu affidato a Pasqua­ le Criscione, gabelloto del feudo Drago, che del sindaca­ lista era vicino di casa. Infatti, quella sera di marzo, Cri­ scione si avvicinò a Rizzotto, che stava in compagnia di Ludovico Benigno, suo amico e compagno di partito, tro­ vando un pretesto per attaccare discorso. Insieme, accom­ pagnarono Benigno nella sua casa al Ponte Nuovo, poi scesero per via Bentivegna a fare due passi. Fino all’altezza di via San Leonardo. Che cosa poi sia successo, è un testimone oculare a raccontarcelo. Uno che il suo segreto se l’era tenuto den­ tro per 57 anni. “Sì, ho visto con i miei occhi il sequestro di Placido Rizzotto”202, confessa Luca, un pensionato di 80 anni. E aggiunge tutto d’un fiato, quasi a volersi li­ berare d’un peso: “Allora, la sera di quel 10 marzo 1948, ero un ragazzo di appena vent’anni. Stavo percorrendo via Bentivegna per tornare a casa, ero arrivato all’altezza di via San Leonardo, proprio davanti alla chiesa, quan­ do vidi alcune persone che discutevano animatamente, 202 D. Paternostro, “Quella sera vidi gli assassini di Rizzotto”, “La Sicilia”, 6 marzo 2005. 175

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quasi litigando. Tra queste, riconobbi Rizzotto, lo sentii urlare “Adesso basta, lasciatemi andare!”. Ma quelli non lo lasciarono andare. Anzi, l'afferrarono a forza e lo tra­ scinarono dentro una macchina scura col motore già ac­ ceso. Allungai il passo, spaventato, rientrai a casa e non dissi niente a nessuno, nemmeno a mio padre. Questa è la prima volta che parlo di quella sera, di quella terribile sera di marzo, in cui sparì il segretario della Camera del lavoro”. Il volto rugoso di Luca adesso si fa pensoso, gli occhi si inumidiscono. “La gente penserà che sono stato un vigliacco - dice - e forse lo sono stato davvero. Allora, però, personaggi come Luciano Liggio e i suoi “compari” tenevano nel terrore tutti i corleonesi. Ed io avevo solo vent’anni”. La sua, anche se dietro la garanzia dell’anoni­ mato, è una testimonianza preziosa. Ci indica, infatti, il luogo preciso dove avvenne il sequestro del sindacalista, che la sera stessa fu ammazzato e buttato nel ventre scuro di Rocca Busambra. Il padre Carmelo lo aspettò per tutta la sera e per buo­ na parte della notte. Poi andò a letto, senza dormire. Chi non riuscì nemmeno a posare le spalle sul letto fu la ma­ dre, Rosa Mannino. Lo attese tutta la notte senza poter riposare, andando dalla seggiola alla finestra di cucina, sentendo suonare tutte le ore, scendendo anche in istrada per vedere se venisse suo figlio. Ma il figlio non arrivò. All’alba fu Carmelo Rizzotto ad uscire di casa. Col cuo­ re in gola, si recò a casa del genero, Giuseppe Di Paler­ mo, e insieme cominciarono la “via crucis” alla ricerca di Placido. Fecero il giro dei suoi amici. Bussarono a casa di Peppino Siragusa, ma questi riferì di averlo lasciato la se­ ra prima in compagnia di Vincenzino Benigno. Di corsa a casa di Benigno, allora. E qui la prima doccia fredda: 176

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“L’ho lasciato ieri sera con Pasquale Criscione, dopo che mi avevano accompagnato a casa”, disse. Sentendo il no­ me di Criscione, gabelloto del feudo Drago, già preso di mira dal movimento contadino, che ne aveva chiesto e ottenuto l’assegnazione in base ai decreti Gullo, Carmelo Rizzotto e Peppino Di Palermo trasalirono, cominciarono a pensare male. Comunque, si recarono a casa di Criscio­ ne per chiedere notizie, ma il padre di questi, con finto candore, disse che il figlio da giorni pernottava in campa­ gna. Non era vero. Mentre il padre di Placido e il cogna­ to si recavano alla stazione ferroviaria per vedere se il loro congiunto fosse per caso partito per Palermo, la madre in­ contrò Pasquale Criscione proprio vicino casa. Tra i due vi fu un drammatico colloquio. “A che ora u lassasti?”. “Al­ le 10,10”. “E unni?”. “A lla punta alla sfrata di M arsala”. “E chi ti disse?”. “Cavia a viniri a manciari”. “Nun lu vit­ ti cchiù, ma dda faccia di veleno si fici bianca e trimava”, avrebbe poi raccontato mamma Rizzotto. Dopo che per l’intera giornata aveva disperatamente cercato notizie del figlio, la sera Carmelo Rizzotto fece ciò che mai avrebbe creduto di saper fare. Varcò la soglia della caserma dei Carabinieri per denunciare la scomparsa del figlio. Ma non si limitò solo a questo. All’ufficiale che l’ascoltava, lui, che una qualche dimestichezza con le cose di mafia doveva avercela, perché, durante il Fascismo, era stato in galera, a seguito di una retata del prefetto Mori, raccontò tutto ciò che sapeva delle cosche mafiose locali. Fu la rottura dell’omertà, lo strappo doloroso con la men­ talità siciliana del “cu é orbu, surdu e taci, campa cent’an­ ni mpaci”. Ma, mentre a casa Rizzotto si consumava il dramma, in paese si sparse la voce che un bambino, Giu­ seppe Letizia, di appena 12 anni, che il padre aveva la­ 177

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sciato in contrada Malvello a custodire il gregge proprio la notte del 10 marzo, era morto improvvisamente, dopo una brevissima quanto strana malattia. Nel delirio aveva raccontato di una terribile visione: l’uccisione di un con­ tadino in campagna. “L’Unità” e la “Voce della Sicilia”203 pubblicarono articoli in cui esplicitamente si sosteneva che il Letizia avesse assistito all’assassinio di Placido Rizzotto. Inquietante la circostanza che il ragazzo, curato in ospedale dal dott. Michele Navarra e dal dott. Ignazio Dell’Aria, subito dopo fosse morto. E che, qualche gior­ no dopo, proprio Dell’Aria, “apparentemente senza alcun motivo, si affrettò a chiudere lo studio, salire su una nave e rifugiarsi in Australia”.204 Secondo il vice-brigadiere dei CC, Agostino Vignali, al pastorello, “fatto ricoverare da “amici” presso il locale ospedale dei Bianchi, venne pro­ pinata una iniezione venefica al suo stato e quindi morì senza riprendere conoscenza”.205 Come per altri delitti di mafia, in quei giorni a Corleone fu messa in giro la voce che anche Rizzotto fosse stato assassinato “per una que­ stione di donne”. In questo caso, la donna era Leoluchina Sorisi, di cui si raccontò che, nei giorni successivi al delit­ to, aveva giurato che avrebbe “mangiato il cuore” a chi le aveva ucciso Placido. Nella riunione dell’esecutivo nazionale della Cgil, svol­ tosi a Palermo il 31 marzo 1948, il segretario generale Giuseppe Di Vittorio sottolineò: “Il rapimento del com­ pagno Rizzotto non è stato abbastanza valutato anche da noi stessi sindacalisti. Oggi più che mai bisogna rivolgere 203 L’Unità del 13 marzo 1948; La Voce della Sicilia n. 28 del 21 marzo 1948. 204 M. Nese, Nel segno della mafia. Storia di Luciano Liggio, Rizzoli, Milano, 1975, p .3 5 . 205 Cfr. La M afia in Corleone, cit., p. 169.

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un forte appello alle masse. Occorreva da tempo inizia­ re una grande campagna di stampa per denunciare questi delitti. Ogni giorno dobbiamo fare articoli di tre, quat­ tro colonne, appelli alla stampa per chiedere al Governo che fine ha fatto Rizzotto. Questo mistero attorno ad un uomo che improvvisamente scompare eccita la sensibilità delle masse, ma noi finora non abbiamo fatto nulla per creare quest’atmosfera”.206 In sostanza, Di Vittorio ammi­ se che la Cgil aveva sottovalutato i fatti di Sicilia e non aveva fatto abbastanza per denunciare all’opinione pub­ blica nazionale la gravità del sequestro Rizzotto e della lunga catena di delitti, che, dal 1944 in poi, aveva visto cadere tanti contadini e dirigenti sindacali. Nonostante le denunce e le manifestazioni di protesta della Cgil e dei partiti di sinistra, nessuno avrebbe mai saputo più niente di Rizzotto, se, nell’estate del ’49, una “gola profonda” ante litteram, Giovanni Pasqua, relegato nel famigerato carcere dell’Ucciardone, non fosse diven­ tato improvvisamente loquace, indicando gli assassini del sindacalista in Luciano Liggio, Pasquale Criscione, Vin­ cenzo Collura ed altri. A Corleone, proprio in quei gior­ ni, era arrivato un giovane capitano dei carabinieri per assumere il comando delle squadriglie antibanditismo. Si chiamava Carlo Alberto Dalla Chiesa e, come Rizzotto, aveva fatto il partigiano. Dopo alcune battute, proprio lui e i suoi uomini riuscirono ad arrestare Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, che, il 4 dicembre 1949, interrogati nella caserma di Bisacquino, fecero clamorose rivelazioni. Ammisero, cioè, di aver partecipato al sequestro di Pia­ 206 il verbale della riunione dell’esecutivo nazionale della Cgil, del 31 marzo 1948, Ap. Archivio Storico e Centro di Documentazione della C G IL , Roma. 179

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cido Rizzotto, in concorso con Luciano Liggio, che poi avrebbe ucciso la vittima con tre colpi di pistola. Ma, da­ vanti ai giudici, entrambi ritrattarono, sostenendo che quelle confessioni erano state estorte dai militari con la violenza. E quindi, il 30 dicembre 1952, la Corte d’Assise di Palermo assolse tutti gli imputati per insufficienza di prove. Una decisione sorprendente, se si pensa che i giu­ dici diedero credito alla tesi delle confessioni estorte con la violenza, ma non denunciarono per violenza i carabi­ nieri che le avevano estorte. E ancora più sorprendente, se si pensa che i familiari di Rizzotto avevano riconosciuto come appartenenti al sindacalista assassinato alcuni indu­ menti e alcuni resti scheletrici, che i carabinieri avevano recuperato in una foiba di Rocca Busambra. La sentenza di primo grado, l’ 11 luglio 1959, fu confermata anche in appello e divenne definitiva il 26 maggio 1961, quando la Cassazione respinse il ricorso, proposto dal pubblico mi­ nistero. Sul piano politico, dopo l’assassinio Rizzotto, anche a Corleone la D.C. vinse nettamente le elezioni del 18 aprile ’48, raccogliendo ben 3.148 voti (+ 28.94% rispet­ to alle regionali dell’anno precedente). A subire un crol­ lo fu il Blocco del Popolo, che ottenne solo 1.780 voti (-22.70% rispetto alle regionali). Ma, dopo un periodo di sbandamento, le lotte per la terra ripresero impetuose. Nell’autunno del 1949, a Corleone era arrivato un gio­ vane studente universitario, Pio La Torre. Scese dalla sua “topolino” grigia, salutò il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, e cominciò a bussare alle porte dei contadini poveri. Diceva loro: “La terra è di chi la lavo­ ra, la libertà di chi sa conquistarla. Torniamo sui feudi, ariamoli, seminiamoli”. E tornarono sui latifondi incolti, 180

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li ararono e li seminarono, incuranti degli sguardi torvi degli agrari e delle minacce dei mafiosi. La mafia capì che per il latifondo era la fine. E, dopo un momento d’incertezza, fatti i dovuti sondaggi e assicu­ ratesi le necessarie garanzie, decise d’investire sul futuro. Il 5 luglio 1950 consegnò nel cortile De Maria, a Castelvetrano, il cadavere ancora caldo di Salvatore Giuliano, mollò gli agrari. A Castelvetrano, in quella notte tra il 4 e il 5 luglio, insieme a Giuliano e Pisciotta, c’era un terzo uomo, l’uomo dal “berretto floscio”, come lo definì il ca­ pitano Perenze nel suo rapporto. Quell’uomo, secondo la tesi del giornalista di “Epoca” Pietro Zullino, era Luciano Liggio, il vero assassino di Giuliano.207 Le grandi ondate migratorie, che, nel decennio 19551964, privarono Corleone di ben 7.095 abitanti. Senza la presenza del movimento contadino, lentamente la città si trasformò in quella “Tombstone” (pietra tombale), che l’avrebbe consacrata “capitale della mafia”. Liggio, stan­ co di essere il “picciotto” di Michele Navarra, decise di mettersi in proprio, sostenendo interessi in contrasto con quelli del capo. E, il 2 agosto 1958, se ne liberò crivellan­ dolo di colpi, lungo la SS 188, tra Corleone e Prizzi. Fu la “guerra” tra liggiani e navarriani. Una guerra totale, senza esclusioni di colpi, che provocò decine di morti in ogni angolo di strada, in ogni piazza, in ogni contrada del ter­ ritorio di Corleone. Si concluse solo nel 1963 con lo ster­ minio dei navarriani e l’incoronazione di “Lucianeddu”, che potè spiccare il volo a Palermo, accompagnato da fe­ roci luogotenenti come Calogero Bagarella, Totò Riina e Bernardo Provenzano. 207 Cfr. M. Nese, Nel segno della mafia, cit., pp. 44-57. 181

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Nel 1960, con uno dei suoi ultimi atti prima della sconfitta nelle elezioni amministrative d’autunno, l’am­ ministrazione di sinistra, guidata dal sindaco socialista Gioacchino Gervasi, provò ad onorare la memoria di Placido Rizzotto, deliberando di intitolargli la strada che porta all’ospedale. Ma le amministrazioni democristiane che la seguirono “dimenticarono” quell’atto e intestarono la strada al sacerdote don Giovanni Colletto. Per tanti an­ ni a Corleone non si parlò più di Rizzotto. Sarebbe tocca­ to alle generazioni studentesche degli anni ’70, ai figli e ai nipoti dei contadini degli anni ’50, ricordare il sindacali­ sta assassinato dalla mafia. Nel 1977, un gruppo di questi ragazzi diede vita al cir­ colo popolare “Placido Rizzotto”, che finì in pochi me­ si, stritolato dall’opposizione congiunta dei mafiosi e dei “benpensanti”.208 Cinque anni dopo, nel marzo 1983, la Camera del lavoro di Corleone e il gruppo giovanile di “Corleone alternativa”, organizzarono insieme alla segre­ teria della Federbraccianti-Cgil siciliana una manifesta­ zione significativa per ricordare il 35° anniversario dell’as­ sassinio di Rizzotto.209 L’iniziativa si svolse in due giornate (il 26 e 27 marzo)210 con lo slogan «La nostra memoria 208 Promotori del circolo furono Nino Gennaro, Enzo Cuppuleri, Enzo Briganti, Pino Grizzaffi ed altri.

209 Tra i giovani di “Corleone alternativa” c’erano Calogero Cuppuleri, Nino Gennasa, Maria Petranella e tanti altri. Io (allora ero nella segreteria provinciale della Federbraccianti-Cgil) fui incaricato di scrivere la prima biografia su Placido Rizzotto, frutto di testimonianze orali e delle ricerche sui giornali dell’epoca. Ne venne fuori un ciclostilato di poche pagine, che comunque servì a far conoscere il giovane capolega che la mafia aveva deciso di far tacere per sempre. 210 In quell’occasione, il 26 marzo si tenne a Corleone un dibattito a cui parteciparono Andrea Gianfagna, segretario generale della Federbraccianti, Pietro Ancona, segretario generale della Cgil siciliana, Nino Buttitta, preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, Francesco Renda, storico del movimento

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per il nostro futuro» e fu una tappa fondamentale per far riscoprire alle giovani generazioni il significato delle lotte contadine e il tributo di sangue pagato da alcuni loro di­ rigenti. Negli anni successivi, la memoria di Rizzotto non è più stata cancellata. Infatti, il 13 marzo del 1988 per ricordare il 40° anniversario dell’assassinio venne a Corleone Antonio Pizzinato, allora segretario generale della Cgil nazionale, insieme a Luigi Colajanni, segretario pro­ vinciale del Pei, e a Nino Buttitta, segretario provinciale del Psi. Il 10 marzo 1996, la Cgil e l’amministrazione co­ munale di Corleone, guidata dal sindaco Pippo Cipriani, inaugurarono un busto bronzeo di Rizzotto nella piazza del municipio, opera dello scultore corleonese Biagio Go­ vernali. Nel 1998, in occasione del 50° anniversario, infi­ ne, la Camera del lavoro e il Comune di Corleone hanno organizzato una tre-giorni (8-9-10 marzo), conclusa con un comizio di Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil211. In quell’occasione fu sottoscritto un appello per­ ché si consentisse al regista siciliano Pasquale Scimeca di realizzare il film su Placido Rizzotto, a cui la speciale commissione cinematografica, presso il Ministero dello spettacolo, non aveva riconosciuto il valore culturale na­ zionale, negandogli il contributo. E l’appello non cadde contadino, e Carmelo Di liberto, segretario generale della Federbraccianti di Palermo. Il 27 marzo, in quella che sarebbe stata piazza Falcone e Borsellino, tenne un comizio Ottaviano del Turco, allora segretario generale della Fiom-cgil. 211 L’8 marzo erano presenti il ministro Anna Finocchiaro, Marco Vitale, Stefano Zamagni, Nicola Cipolla, Emilio Miceli e Gianni Bisiach; il 9 marzo Sergio Cofferati, Giancarlo Caselli, don Luigi Ciotti, Francesco Renda, Umberto Santino e Giuseppe Casarrubea; il 10 marzo Nando Dalla Chiesa e Giuseppe De Lutiis. La sera del 9 marzo, nei locali del cinema Martorana, Paola Gasmann, Ugo Pagliai e Carlo Rao tennero un recital di poesie dell’impegno civile. Per l’occasione, le Poste italiane autorizzarono un annullo speciale.

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nel vuoto. Il film “Placido Rizzotto” è stato realizzato e proiettato nelle sale cinematografiche d’Italia, con succes­ so di critica e di pubblico. Su iniziativa dell’allora sindaco di Corleone Giuseppe Cipriani, parlamentare dei Demo­ cratici di Sinistra, l’Assemblea Regionale Siciliana ha ri­ conosciuto a Placido Rizzotto e a tutti gli altri sindacalisti assassinati dalla mafia nel secondo dopoguerra lo status di «caduti per la libertà e la democrazia in Sicilia»212. Cof­ ferati è tornato nuovamente a Corleone per ricordare il 54° anniversario dell’assassinio di Placido Rizzotto il 10 marzo del 2002. Dal 2005, sulla nuda pietra di Rocca Busambra, ac­ canto ad una delle famigerate foibe, dove si pensava che Luciano Liggio e i suoi scagnozzi avessero buttato il cor­ po senza vita di Placido Rizzotto, è stato costruito un “al­ tare”. Un piccolo “altare laico”, realizzato con due targhe volute dalle Camere del lavoro di Corleone, di Palermo e di Firenze, dall’Arci e dai giovani volontari toscani, che lavoravano sui terreni confiscati alla mafia, al fianco dei soci della cooperativa sociale “Lavoro e non solo”. Questi giovani hanno voluto cospargere l’ingresso della foiba con alcune manciate della terra di “Drago” confiscata alla ma­ fia. È stato anche questo un modo laico per “benedirlo”, per dire che non è stato vano il sacrificio del sindacalista corleonese. Dal 10 marzo del 2007, 59° anniversario dell’assassi­ nio di Placido Rizzotto, il Rapporto Dalla Chiesa del 18 dicembre ’49 sull’omicidio del giovane sindacalista corle­ onese, con tutti i suoi allegati, è stato donato dall’Arma 212 II riconoscimento è contenuto

nella L.R. n. 20 del 13 settembre 1999 “Nuove norme in materia di interventi contro la mafia e di misure di solidarietà in favore di vittime della mafia e dei loro familiari”.

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dei Carabinieri all’Archivio storico della Camera del la­ voro di Corleone. A consegnare il fascicolo è stato il ge­ nerale Arturo Esposito, comandante dei Carabinieri del­ la Regione Sicilia, insieme al tenente colonnello Michele Sirimarco, comandante del reparto territoriale CC di Monreale, al colonnello Vittorio Tomasone, comandante provinciale CC di Palermo, e al capitano Matteo Gabelloni, comandante della compagnia carabinieri di Corleone. Quel vecchio fascicolo di un centinaio di fogli ingialliti, con la firma autografa di Carlo Alberto Dalla Chiesa, non ha più nessun valore giudiziario, ma mantiene intatto tut­ to il suo valore storico-culturale e adesso costituisce uno dei “pezzi pregiati” della raccolta di documenti della Cgil di Corleone, insieme ai registri della cooperativa “B. Ver­ ro”, costituita nel 1945, ad alcune foto d’epoca, ad alcuni decreti di concessione di terre incolte e mal coltivate della zona del Corleonese. Dal 2009 in poi, su invito della Camera del lavoro, i bambini della Scuola elementare di Corleone hanno de­ dicato delle poesie a Placido Rizzotto, che il 10 marzo di ogni anno hanno letto ad alta voce, in piazza Garibaldi, davanti al busto del sindacalista assassinato dalla mafia. Definire un eroe Placido Rizzotto e dei criminali Totò Riina e Bernardo Provenzano potrebbe sembrare sem­ plice, ma a Corleone ancora non lo è. Che abbiano co­ minciato a farlo i bambini delle elementari, col sostegno dei loro insegnanti e delle loro famiglie, è il segno di una piccola rivoluzione culturale in atto, che il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, ha voluto sottolineare. “Le pa­ role del giovane sindacalista - ha scritto, rivolgendosi agli alunni delle elementari - sapevano “aprire loro la vista”, come ha scritto uno di voi: riuscivano cioè a toccare la 185

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coscienza di quegli uomini e donne che non avevano po­ tuto studiare, rendendoli consapevoli delle ingiustizie di cui erano vittime, dei diritti negati ai loro figli. Alla ma­ fia proprio questo non andava giù: la capacità di Placido di parlare con le persone, di farle riflettere, di stimolar­ le all’impegno per cambiare le cose. Uccidendolo, hanno voluto far tacere per sempre quelle parole di dignità e spe­ ranza. Non si aspettavano certo che, fin da subito e poi ancora oggi, a così tanti anni di distanza, le stesse parole avrebbero trovato non una, ma cento, mille nuove voci. Fra cui anche le vostre”.213 Ed ha aggiunto: “ricordare an­ cora le lotte contadine e i protagonisti che le animarono, ricordare gli ideali che accomunarono uomini come Pla­ cido Rizzotto e migliaia di contadini poveri, armati solo della fede nell’avvenire, non è solo un omaggio alla me­ moria, ma il modo migliore per guardare al futuro della nostra terra. Senza questi dirigenti e militanti di base (uo­ mini e donne il più delle volte rimasti sconosciuti), che operavano ogni giorno con impegno e passione politica nei paesi e nelle borgate dell’Isola, non sarebbe nato quel movimento contadino organizzato, che ha avuto la capa­ cità battersi contro la mafia, spezzare il latifondo, aprire spazi di democrazia e di libertà ed avviare la modernizza­ zione della Sicilia”.2'4 Grazie alla legge Rognoni-La Torre del 13 settembre 1982, che ha consentito di confiscare ai mafiosi i beni il­ lecitamente accumulati, integrata dalla legge di iniziativa 213 L. Ciotti, Prefazione al volume Gli alunni delle elementari di Corleone ricordano Placido Rizzotto. Raccolta di poesie dedicate al sindacalista corleonese il 10 marzo degli anni 2009, 2010 e 201 7, a cura della Cgil di Corleone, Corleone, maggio 2011, p. 5. 214 D. Paternostro, Introduzione all’Antologia di un’epopea contadina. Iprotagonisti delle lotteper la riforma agraria in Sicilia , citato, p. 18.

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popolare n. 109 del 1996, promossa dairassociazione “Li­ bera”, che ha reso possibile l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, neH’ultimo decennio sono nate diverse coope­ rative sociali di giovani, a cui i comuni hanno assegnato terreni e fabbricati da gestire. Una significativa esperienza nel campo dell’uso sociale dei beni confiscati è in corso tra i comuni della zona del Corleonese, i quali, d’intesa con la Prefettura di Palermo, hanno costituito nel 2001 il Consorzio “Sviluppo e Legalità”, per avere uno strumento che da più forza ai singoli comuni aderenti e garantisce trasparenza nell’assegnazione dei beni confiscati. A Corleone, una delle cooperative assegnataria di be­ ni confiscati è stata intitolata a “Placido Rizzotto”. Gra­ zie a questa cooperativa e alle cooperative “Lavoro e non solo” e “Pio La Torre”, da alcuni anni decine di giovani contadini di questo territorio hanno un lavoro dignitoso ed una giusta retribuzione, riuscendo a produrre beni ali­ mentari biologici, come il grano, la pasta, l’olio, la passata di pomodoro e le lenticchie, che hanno in più la vitamina “L” della Legalità. Grazie ad un accordo etico ed econo­ mico con la catena di ipermercati Coop, questi prodotti vengono da qualche anno commercializzati in tutta Ita­ lia. Recentemente, queste cooperative hanno costituito il Consorzio “Libera Terra Mediterraneo” per fare un salto di qualità nella commercializzazione dei loro prodotti. E, sulla base di precisi protocolli di produzione biologi­ ca, stanno riuscendo a coinvolgere alcune piccole aziende contadine, che conferiscono il loro grano a condizioni più convenienti di quelle offerte dal mercato. Altri piccoli ma significativi segni, che indicano una nuova direzione di marcia, sono dati anche dalle iniziative per la diffusione della legalità democratica, a cui partecipano rappresen­ 187

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tanti delle istituzioni, sindacalisti, scrittori, giornalisti ed operatori sociali. Rientra in tale contesto la visita nei luo­ ghi-simboli della mafia e deU’antimafia, come la villa del boss di Cosa Nostra, Totò Riina, a Corleone, oggi sede della Caserma della Guardia di Finanza, il covo di Mon­ tagna dei Cavalli, dove 1’ 11 aprile del 2006 venne arre­ stato il boss mafioso Bernardo Provenzano, il giardino di San Giuseppe Jato dove venne ucciso il piccolo Giusep­ pe Di Matteo, il pianoro di Portella della Ginestra, luogo della terribile strage del 1947, la Casa-Memoria “Felicia e Peppino Impastato” e la Casa dei “ 100 passi” confiscata al boss Gaetano Badalamenti, a Cinisi. Particolare atten­ zione viene dedicata alla storia del movimento contadino siciliano, che è stato il primo vero movimento antimafia di massa. “L’obiettivo principale del progetto - dice Calogero Parisi, presidente della coop “Lavoro e non solo” e diri­ gente di Arci Sicilia —è diffondere una cultura fondata sulla legalità e sul senso civico, che possa efficacemente contrapporsi alla cultura del privilegio e del ricatto, che contraddistingue i fenomeni mafiosi nel nostro Paese, di­ mostrando che, in quei luoghi dove la mafia ha spadro­ neggiato indisturbata, è possibile ricostruire una realtà sociale ed economica fondata sulla legalità e sul rispetto della persona. Il protagonismo dei volontari contribuisce alle attività di animazione territoriale, fondamentale per il potenziamento delle relazioni e della rete sul territorio”.215 E questo loro ruolo da qualche anno ha avuto anche un importante riconoscimento istituzionale, condiviso da tutte le forze politiche. Il Comune di Corleone, infatti, 215 D. Paternostro, Corleone, la pazzia etica, “La Sicilia, 20 agosto 2006, p. 31. 188

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ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria a tutti i vo­ lontari, che vengono a lavorare sui terreni confiscati alla mafia, al fianco dei soci della cooperativa “Lavoro e non Solo”. È la dimostrazione di come, a differenza che nel passato, a Corleone l’antimafia cominci ad unire, sia sul piano politico-istituzionale, sia sul piano socio-culturale. Si può ben dire che «oggi i giovani delle cooperative so­ ciali assegnatarie di beni confiscati... rappresentano gli eredi più autentici del movimento contadino siciliano e dei suoi martiri”.216 In questi anni, la Cgil e i familiari di Rizzotto hanno chiesto ripetutamente allo Stato di fare di tutto per ritro­ vare i resti del sindacalista assassinato, sia cercandoli negli archivi del tribunale dove probabilmente sono stati smar­ riti (o trafugati?), sia effettuando nuove ricerche nella foi­ ba di Rocca Busambra. Nel 2009, la stessa Procura della Repubblica ha autorizzato il Commissariato di Polizia di Corleone a recuperare altri resti umani dal fondo di un’al­ tra foiba di Rocca Busambra, che si riteneva fosse quella dove effettivamente la sera del 10 marzo 1948 fu buttato il corpo di Rizzotto. I resti recuperati sono stati inviati al laboratorio della polizia scientifica di Roma. La Procura ha pure autorizzato la riesumazione del cadavere di Car­ melo Rizzotto, padre del sindacalista assassinato, decedu­ to nel 1967, da cui è stato prelevato il materiale organico necessario per effettuare un’attendibile comparazione del DNA. E finalmente, il 9 marzo 2012 è arrivata la notizia tanto attesa. In una conferenza stampa, svoltasi presso la Questura di Palermo, la Polizia ha potuto confermare che 216 D. Paternostro, L'antimafia sociale per lo sviluppo nella legalità, dall’intervento al convegno internazionale di Parigi “Sicile(s) d ’aujourd'hui”, organizzato il 4-5 giugno 2010 dall’università Sorbonne Nouvelle-Paris 3. 189

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quelli recuperati a Rocca Busambra sono davvero i resti di Placido Rizzotto: “Stante i risultati biologici - si legge nella relazione - e considerato che nessun altro apparte­ nente alla famiglia Rizzotto risulta scomparso; che nello stesso luogo ove sono state ritrovate le ossa umane, sono stati recuperati altri oggetti consistenti in parte di una cintura, alcune fibbie e finimenti in cuoio, confermando quanto storicamente ricostruito sulle modalità dell’occul­ tamento del cadavere di Placido Rizzotto, che sarebbe sta­ to gettato nella foiba insieme al mulo sul quale era stato trasportato; che nella foiba il personale operante ha recu­ perato anche una moneta da dieci centesimi di lira in uso nel periodo della scomparsa; si ritiene che le ossa umane recuperate nella foiba di Rocca Busambra, il cui profilo genetico di paternità è compatibile con quelle esumate di Carmelo Rizzotto, siano proprio quelle del corpo di Pla­ cido Rizzotto, ucciso dalla mafia e gettato nella foiba per occultarne per sempre il cadavere”. Un avvenimento straordinario, che ha dato un signi­ ficato particolare al 64° anniversario del suo assassinio. Grazie alle forze di polizia e alla caparbietà con cui la Cgil e i familiari di Rizzotto, tra cui il nipote Placido Jr., non hanno mai smesso di chiedere allo Stato verità e giustizia, finalmente il capolega corleonese ha una tomba nel ci­ mitero di Corleone, dove chi vuole può portare un fiore, versare una lacrima e rinnovare l’impegno di lotta contro la mafia, per il lavoro e lo sviluppo nella legalità. Sull’onda di un’emozione che ha percorso l’Italia intera, centinaia e centinaia di cittadini hanno chiesto che a Rizzotto fossero concessi i funerali di Stato. E il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 16 marzo 2012, ha deliberato di concederli. Sono stati celebrati il suc­ 190

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cessivo 24 maggio, nella Chiesa Madre di Corleone, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, della segretaria generale della Cgil Susanna Camusso e di migliaia di cittadini e di lavoratori prove­ nienti da tutt’Italia. “Io non ti ho conosciuto personal­ mente - ha detto in chiesa alla fine della cerimonia, con voce commossa, il nipote Placido Rizzotto Jr. - ma solo attraverso le parole appassionate dette da quanti ti han­ no vissuto accanto. Nonno Carmelo, che ha lottato per ottenere giustizia ed avere restituito il corpo del figlio. Nonna Rosa sempre vestita di nero per quel figlio che non tornò più. Non ho avuto una tua carezza, però ho avuto un grandissimo dono: l’orgoglio di portare il tuo nome! Questo mi ha fatto, spesso, sentire quel figlio che non hai potuto avere». E Susanna Camusso ha aggiunto: “Placido Rizzotto, soldato e partigiano, segretario della Camera del lavoro, era mosso da un profondo senso di giustizia e aveva compreso una verità che ancora oggi è il pilastro della lotta contro la mafia e che Pio La Torre tradusse in legge: le mafie si sconfiggono colpendole al cuore nei loro interessi economici. [...] Oggi a Corleone la Camera del lavoro tiene vivo non solo il ricordo, ma la memoria di Placido Rizzotto, nell’impegno quotidiano per la legalità e nell’incontro con quelle nuove generazioni che scelgono di dedicare le loro vacanze al lavoro nei campi confiscati alle mafie, per sostenere quelle cooperative, eredi delle lotte dei brac­ cianti, che continuarono e continuano in Sicilia e nel Pa­ ese a far vivere Rizzotto e a chiedere giustizia per tutti gli assassinati di mafia”. Dopo aver assistito ai funerali di Sta­ to per Placido Rizzotto, il presidente Napolitano è andato a Portella della Ginestra. 191

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Calogero Cangialosi (Archivio fotografico Cgil Camporeaie)

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“È stato giusto - ha sottolineato il Capo dello Stato tornare al punto di partenza. E il punto di partenza è Portella della Ginestra, il punto di partenza è la terra di Corleone, la terra di Placido Rizzotto. Così abbiamo chiuso l’arco, e ci auguriamo fortemente che non si debba mai più riaprire una storia di brutali omicidi e di feroci stragi di mafia”.

Calogero Cangiatosi Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che di­ scutevano animatamente tra loro. In quei giorni, in pae­ se, che con i suoi quasi 8 mila abitanti era un importante comune del latifondo della provincia di Trapani, proprio al confine con la provincia di Palermo (di cui avrebbe cominciato a far parte dal 1949, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la “lezione” che la povera gente avrebbe potuto dare a “lor signori”, i padroni del feudo. Anche alla Camera del lavoro quel­ la sera si era parlato di questo, ed anche dell’applicazio­ ne dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e della concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e mal coltivate degli agrari. Poi, Calogero Cangia­ tosi, quarantunenne segretario della Camera del lavoro, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. “Calogero, aspetta che ti ac­ compagniamo noi”, gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il di­ rigente sindacale, che era già nel mirino della mafia. L’o f­ ferta di una “scorta”, insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del 193

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lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangialosi abitava con la moglie, France­ sca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appe­ na 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangialosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimase­ ro, invece, Calandra e Natoli. Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangialosi fu porta­ to nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allat­ tando la piccola Vita, seduta su una sedia, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era immobile sul letto, col corpo perforato da decine di proiet­ tili. Urla, scene di disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allo­ ra Camporeale faceva ancora parte della provincia di Tra­ pani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. “Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irri­ conoscibile”, avrebbe poi raccontato la moglie. Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui par­ teciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di 194

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Cangialosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto a Camporeale, in Sicilia, per onorare il compagno di partito, 36° sindacalista assas­ sinato dalla mafia negli anni del secondo dopoguerra, ap­ pena qualche giorno dopo Rizzotto a Corleone e Li Puma a Petralia Sottana. Disperazione e rabbia si toccavano con mano. “La sera del 16 aprile ’48 - racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo - al comi­ zio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scom­ parvero tutti dalla piazza per paura dei contadini”. Ed ac­ cadde un “miracolo”: il 18 aprile il “Fronte Democratico Popolare”, composto dal Psi e dal Pei, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47. Fu l’ultimo regalo di Caloge­ ro Cangialosi ai suoi contadini. Per l’omicidio la giustizia “ingiusta” di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo. Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capoma­ fia Vanni Sacco e i suoi “picciotti”, si procedette contro “ignoti”, che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio. Cangialosi era nato a Camporeale nel 1906. Il 19 set­ tembre 1935 si era sposato con Francesca Serafino. Al momento del decesso lasciò quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Era un contadino di poche parole, ma pensava che, per il loro futuro e per quello di altri figli di povera gente, valesse la pena di “forzare l’alba”, perché nascesse “il sol dell’avvenire ”. Calogero conosceva bene don Se­ rafino Sciortino, grosso proprietario terriero, di cui era 195

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mezzadro. E quando Cangialosi gli disse senza mezzi termini che il grano bisognava dividerlo a 60 e 40 (60% ai contadini, 40% ai proprietari), questi fece scattare la “punizione”. Un giorno don Serafino invitò Cangialosi a casa sua per un “ragionamento”, ma ad attenderlo c’erano Vanni Sacco e i suoi uomini, che lo sequestrarono, con l’inten­ zione poi di ucciderlo, come la mafia di Corleone aveva fatto con Rizzotto. Fortunatamente, qualcuno avvisò i contadini della Camera del lavoro del luogo in cui Ca­ logero era tenuto prigioniero e un “commando” di com­ pagni, armati di lupare, riuscì a liberarlo. Qualche mese dopo, non fu più così. Ecco come ne parla la figlia Fran­ cesca: “Ero piccola allora. Avevo appena 11 anni. Ricordo che quando mio padre tornava a casa, si avvicinava sem­ pre ai nostri lettini e, se eravamo scoperti, ci copriva con tanta tenerezza. Questo lo ricordo perché, a volte, io face­ vo solo finta di dormire. Mio padre era una persona buo­ na, che faceva bene a tutti”. La vedova, Francesca Serafino, che, dagli anni ’60 abi­ ta a Grosseto con i figli, ha rievocato così le ore dram­ matiche, immediatamente successive alla morte del mari­ to, nell’intervista rilasciata il 24 maggio 2003 a Gabriella Ebano, non ha dimenticato che tennero in casa il corpo del marito morto per ben quattro giorni, fino a quando il magistrato non si decise a recarsi da Trapani a Camporea­ le per il sopralluogo di rito. E non è riuscita a dimentica­ re neppure che il parroco del paese non voleva nemmeno autorizzare la celebrazione dei funerali in chiesa. “Ma mio marito era socialista, non era comunista!”, dovette dirgli, ingenuamente, Francesca per convincerlo. Gli assassini del marito non è disposta a perdonarli: 196

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“Come si può perdonare... forse il Signore può perdona­ re”, ha detto alla scrittrice, che ha inserito l’intervista nel volume Felicia e le sue sorelle.™ “Quando me lo hanno portato via —povera anima del Paradiso! —io non avevo niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da sfamare”, racconta. E aggiunge: “Il sangue di mio marito, le ferite, guarda quanti buchi! Quando è morto gli cambiavamo le camice e lui buttava sempre sangue... le ferite le baciavamo tutte io e mia suocera, il sangue usciva, usciva, passava a fiumi il sangue... Que­ sta cravatta la portava il giorno che morì: guarda quanti buchi! Uno, due, tre, quattro, cinque! [...] Sono stata co­ stretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, ed io non sapevo più come aiutarli”. “Mio marito —dice ancora —era iscritto al partito socia­ lista e allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo sin­ cero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cer­ cato di ottenere una pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, ci trasferimmo a Grosseto, dove abitiamo tutt’ora”. Ma attingiamo ancora ad altri “fotogrammi” dei ricor­ di di Francesca: “Legge non ne hanno fatta. Il processo per mio marito non l’hanno fatto! Io sono andata al mio paese, dalla legge, e ci ho detto così: “A mio marito lo hanno ucciso e io voglio giustizia!”. Mi rispose il mare­ sciallo: “Signora, se ne vada a casa, a noi non si comanda! 217 G. Ebano, Felicia e le sue sorelle, Ediesse, Roma, 2005. 197

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Comanda la mafia! A chi ha ucciso suo marito gli hanno dato quattro tumuli di frumento”. Quattro tumuli di fru­ mento per ammazzare una persona! Allora io, non con­ tenta, con i miei fratelli... andai ad Alcamo a ripetere la stessa cosa: “Voglio la legge, che a mio marito l’hanno uc­ ciso!”. La stessa cosa che a Camporeale: “Signora, a noi si comanda. Comandano loro, la mafia! Suo marito l’hanno ucciso per quattro tumuli di frumento”. Come mi dissero al mio paese, mi dissero ad Alcamo”. Non c’era legge e non c’era giustizia, allora, nei paesi del feudo, dominati dagli agrari e dalla mafia. E nessuno pagò per il delitto Cangialosi. Né il capomafia di Camporeale, Vanni Sacco, né don Serafino Sciortino, di cui Cangialosi era mezzadro. “Un giorno - ha raccontato ancora la vedeva a Gabriella Ebano —lo chiama uno —io ero davanti la por­ ta, seduta al sole con mio marito —e gli dice: “Calogero, ti vuole parlare don Serafino, ma non passare nella strada principale, vieni dalla campagna”. Ed io ho detto a mio marito: ”Ma che cosa vuole questo?”. Io allattavo la bambi­ na piccola, che aveva tre mesi. Mio marito avvisò tutti i compagni del Partito socialista, della sezione. (Forza Signore, forza per raccontare...) Mio marito tardava e i compagni stavano in pensiero. Allora tutti armati di scopette [fucili] andarono in questa casa di campagna a cercare mio marito e arrivati bussarono: “Noi vogliamo Cangialosi!”. E quelli risposero che Cangialosi non c’era. “Non c’è? Chissà cosa succederà!?”. E mentre i compagni aspettavano, lì, sotto il portone, dentro le stanze c erano i mafiosi... “Se tu ti levi dal partito ti mandiamo in America, l’America Argentina, o se vuoi ti facciamo la cavalla, se tu abbandoni la politica”. Ma mio marito rinun­ ciò a questa offerta... Erano tutti dentro le stanze, i mafio­ 198

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si, e chiamarono don Serafino. Mio marito me lo raccon­ tò dopo. Intanto i compagni della sezione lo aspettavano. “Mandate Cangialosi, altrimenti succederanno cose brutte stasera!”. Il proprietario di questo appartamento fece uscire la moglie. Chissà che dovevano fare! Ma quando lui capì, fe­ ce chiamare la moglie che era da una parente e fecero an­ dare fuori mio marito, nella campagna. Ma se non usci­ va, avevano pronta una macchina per portarlo via come Rizzotto”. “Questo è avvenuto quattro giorni prima che l’uccidessero”, ricorda Francesca.

La scelta documentaria, necessariamente sintetica, si articola in quattro sezioni, in relazione alla fonte archivistica: Sindacato, Stampa politica, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta, Ministero degli Interni. Nei limiti delpossibile, sugli eventi più significativi si è dato conto delle diverse posizioni sul campo.

Il sindacato

Il sindacato si trova in prima linea, colpito direttamente. La CGIL attribuisce la successione dei fatti ad un “piano terro­ ristico” messo in atto da ’’ceti retrivi e parassitari latifondi­ sti e grandi gabellotti” (.2 maggio e 24 giugno 1947, marzo 1948). Sul concetto del “banditismo organizzato” e del “ter­ rorismo agrario” torna con sempre maggiore insistenza via via che i livelli di mobilitazione aumentano e gli appelli al Governo sifanno più pressanti. Il movimento si sente sotto attacco, e cerca di reagire per con­ trastare il rischio di un arretramento, anche perché, dopo qualche incertezza e ritardo iniziali, testimoniati dal fatto che nelle carte degli organi direttivi della CGIL non ci sono riscontri documentali sugli omicidi dei sindacalisti nelperio­ do 1944-46, si avverte come, pur nella considerazione degli eventuali costi impliciti nella contrapposizione frontale con il grande proprietario in quanto avversario storico per la sua natura parassitaria e financo della particolare asprezza delle relazioni nelle campagne, non ci si trovi comunque di fronte alle modalità conosciute della lotta di classe. La posta in giuoco è, per così dire, anche di civiltà, viscerale, 203

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e spesso è per la vita stessa. Non è un caso l'uso frequente del concetto di “terrorismo”0 di “banditismo”. L’attesa, 0 la speranza, è riposta innanzitutto nella svolta del clima politico favorito dall’auspicato successo elettorale del­ le sinistre, che risulterà invece vanificato il 18 aprile 1948. Gli appelli al Governo e alle Autorità, pur costanti, appaio­ no contenitori vuoti: sul campo, come è unanimemente rico­ nosciuto, l ’amministrazione dell’attività giudiziaria si rive­ la carente. Le esigenze dell’aspra battaglia politica in corso, sembrano prevalere. Resta la protesta, che si accompagna alla manifestazione di forme di concreta solidarietà alle famiglie colpite. Emerge nitidamente l’esigenza primaria di contra­ stare l ’arretramento del movimento a fronte dell’azione in­ timidatoria. Insomma, la lotta ha spesso impronta difensiva. Assume particolare significato la riunione dell’Esecutivo del­ la CGIL a Palermo del 31 marzo 1948, del cui verbale si riportano alcuni stralci. La convocazione è diramata dopo il sequestro e l ’uccisione di Rizzotto, e vi partecipano i di­ rigenti sindacali siciliani, ma in assenza delle componenti di minoranza. Il resoconto dei dirigenti siciliani fornisce un quadro abbastanza completo della realtà sindacale nell’Iso­ la. Nel complesso, emerge la consapevolezza della debolezza organizzativa (Emanuele Macaiuso), al punto che si ritiene vana anche l ’arma dello sciopero (Li Causi), mentre dal so­ pralluogo nelle zane interessate dagli omicidi, come a Corleone, i contadini risulterebbero addirittura “terrorizzati dai mafiosi del posto” (Dalla Chiesa). Né ci si nasconde la realtà omertosa “determinata dalla paura e dal terrore instaurato dai feudatari del posto” (Parodi). In un’ottica di apprezza­ bile solidarietà la CGIL assume l ’impegno di inviare quadri dall’Italia continentale, stanzia fondi per la famiglia della vittima, si fa carico della pubblicazione e affissione dei ma­ 204

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nifesti di protesta, arriva a mettere una taglia sugli assassi­ ni di Rizzotto. Roveda preannuncia l ’invio di una Topolino Fiat come aiuto concreto. In vero, dopo un passo fatto presso il Governo da D i Vittorio, per un momento si crede di avere avuto assicurazione circa l ’assunzione di misure più idonee a contrastare lo “stato di terrore instaurato dai latifondisti agrari in Sicilia” ( “p er la prima volta misure serie”). Esse consisterebbero nell’invio di un ispettore generale dei CC.RR, nella sostituzione del Que­ store, nello stanziamento di una taglia. D i Vittorio ne attri­ buisce il merito “all’atteggiamento fermo della CGIL”. Ma l ’attesa fiduciosa finisce presto. Tutto viene vanificato dall’o­ micidio di Cangialosi, avvenuto il 1 aprile. Il Comitato Ese­ cutivo si riconvoca il 6 aprile 1948 in un clima assai più critico verso l ’azione governativa, dove le accuse di collusione alla De si fanno ancora più dirette. Alla vigilia del voto del 18 aprile si va consumando il dram­ ma interno all’organizzazione. Già all’indomani della vit­ toria della D C e della sconfitta delle sinistre, che tra l ’altro portano ad un decisivo ridimensionamento della forza socia­ lista anche nell’Isola, il Consiglio nazionale delle Acli si di­ chiara per “un sindacalismo veramente libero e democratico nel quale tutti i lavoratori possano ritrovarsi per collaborare al comune sforzo di ricostruzione del paese”, e a sua volta il segretario della DC, Taviani, auspica “un 18 aprile sindaca­ le”. L’11 giugno 1948 viene siglato un accordo tra De, PSLI e Pri per un’”alleanza per l ’unità e l ’indipendenza del sin­ dacato”. La rottura definitiva dopo la proclamazione dello sciopero generale di protesta contro l ’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 non è che la logica conseguenza di una crisi proveniente da lontano, rispetto alla quale le vicende sicilia­ ne hanno avuto una qualche influenza. 205

Va dato atto, comunque, che, dopo le prime incertezze, il sindacato confederale generale contribuisce più di ogni altro a fare del fenomeno mafioso un problema nazionale. È la CGIL a chiedere al Governo e all’Assemblea costituente di “nominare una Commissione Parlamentare d ’inchiesta che faccia piena luce sulla rete di omertà e di complicità”, per restaurare la “legalità repubblicana”. Più di ogni altro esposta negli uomini e nelle strutture alle rappresaglie e alle intimidazioni della criminalità organiz­ zata, fin da subito si fa paladina della legalità e dell’agibili­ tà democratica, a beneficio di tutti. Per certi aspetti, occorre precisare, manifestando una sensibilità che non è dato trova­ re nelle stesse istituzioni. Non è poco. Più difficile è valutare l ’incidenza dell’azione sindacale nell’ambito delle relazioni interpersonali in una società come quella siciliana. Sollecitato da Mario Assennato a “porre a fuoco il tema dell’organizzazione sindacale” nella sua Inchiesta sociologi­ ca sulla mafia in Sicilia nell’ambito dei lavori della Com­ missione parlamentare, Franco Ferrarotti risponde: “le orga­ nizzazioni sindacali hanno un ruolo di prim’ordine perché hanno un ruolo di strumento di solidarietà interindividua­ le abbastanza nuovo e hanno costituito, in certe situazioni, un’azione di rottura; non cè stata continuità. In altre parole, noi vediamo che ci sono organizzazioni fragili che si galva­ nizzano in momenti cruciali e poi subentra la grande apatia quotidiana” (Senato della Repubblica/Camera dei Deputa­ ti, legislatura VII. Disegni di leggi e relazioni, Documenti, Rapporto definitivo del prof. Franco Ferrarotti, presentato il 18 maggio 1967, pag. 120). Certo nel 1944-48 “la discontinuità” si avverte, e costa anche un prezzo elevato. In quanto alla sua traduzione in strutture, esperienze consolidate, valori condivisi, percezione

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del ben comune, e tutto ciò a livello sociale diffuso, è un altro problema, da affrontare nel lungo periodo e in presenza di più soggetti impegnati in tal senso con un’azione sinergica. (MDI)

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C O M IT A T O D IR E T T IV O R I S T R E T T O D E L L A C .G .I .L . D E L 2 M A G G IO 1947

(Archivio C.G.I.L. Comitato Direttivo 2 maggio 1947)

Sono presenti, Lizzadri, Massini, Pilia, Parodi, Giannitelli, Buschi, Baldelli, Cappugi e Casanti, per la Confederterra Zini e Vidimarchi per i poligrafici. BALDELLI apre la riunione informando i convenuti del­ le ultime notizie pervenute dalla Segreteria della C.G.I.L. e riassume la situazione. MASSINI Informa della seduta che è in corso all’Assem­ blea Costituente sugli incidenti di Portella della Gine­ stra e sulle informazioni che sono state portate dall’on. Li Causi: Pare accertato che si tratti di una premeditata aggressione organizzata scientificamente che ha per ca­ ratteristica una crudeltà ed una efferatezza mai raggiun­ ta prima d’ora. Fra i morti si notano infatti un vecchio di settanta anni, una donna incinta ed un bambino di tre anni. La risposta del Governo alla interrogazione dell’on Li causi non è stata ritenuta soddisfacente da parte dei de­ putati comunisti, socialisti, repubblicani e democristiani. BRUSCHI ritiene che è inutile illustrare la situazione e che si debba scendere immediatamente al campo pratico delle proposte. LIZZADRI espone la situazione rilevando che si presen­ tano per la C.G.I.L questi problemi: 208

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1° se essa deve prendere o meno posizione sull’incidente 2° se essa deve fare una manifestazione o meno 3° se si debba fare una manifestazione uguale per tutta l’I­ talia o differente in Sicilia. Risolti questi problemi si studierà il modo e le modalità dell’esecuzione della manifestazione stessa. Il suo parere e che la C.G.I.L debba prendere posizione con una manifestazione che deve essere uguale per tutta l’Italia al fine di completamente dimostrare la solidarietà di tutti i lavoratori italiani con i lavoratori siciliani. Sulle forme e sui modi della manifestazione desidera ascoltare il parere dei convenuti ma ritiene inoltre che alla fine della riunione si debba fare un ordine del giorno che deve essere portato al Governo da parte di una delegazione della C.G.I.L. MASSINI rileva che data l’agitazione e l’impressione che l’avvenimento ha prodotto fra tutti i lavoratori la C.G.I.L. sia ormai nelle condizioni di dover prendere l’indirizzo della manifestazione altrimenti si vedrebbe su­ perata dalla situazione stessa. Si riserva di esporre il suo giudizio sulla forma e sui modi della manifestazione CAPPUGI ritiene che si debba fare immediatamente un vibrato ordine del giorno di protesta per i fatti di Sicilia e che tale ordine del giorno sia a dimostrare non solo lo sdegno dei lavoratori italiani ma anche la ferma volontà a che fatti simili non abbiano a ripetersi; osserva tuttavia che è contrario ad ogni manifestazione che comprenda lo sciopero perché non ritiene uno sciopero giustificato in quanto non è determinato contro chi lo sciopero sareb­ be rivolto. Lo sciopero verrebbe a colpire, in ultima anali­ 209

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si, tutto il sistema democratico in Italia e di conseguenza ritiene che un ordine del giorno vibrato ed energico sia sufficiente per calmare i lavoratori. È però una manifesta­ zione di lutto in Sicilia in quanto è la terra dove ha avuto luogo l’affronto; ma è contrario assolutamente a fermare la produzione del restante dell'Italia. Che oltre all’ordine del giorno che deve essere portato al Governo da parte di una delegazione della C.G.I.L. siano riuniti i consigli del­ le leghe di tutta Italia nei quali vengano deliberati analo­ ghi ordini del giorno. BRUSCHI rileva che la situazione si aggrava di giorno in giorno. Osserva che sei o sette mesi fa, quando avven­ ne l’uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, il Comitato Direttivo stesso avrebbe stabilito che tutta l’organizzazione sindacale sarebbe insorta qualora si fosse verificato il ripetersi di un analogo fatto, il peso dell’organizzazione sindacale si sarebbe fatto sentire in Italia. Ora questi fatti si ripetono e l’ultimo di essi l’ecci­ dio di Portella della Ginestra è di una gravità eccezionale e testimoniano dell’insufficienza del Governo e dell’insuf­ ficienza anche della C.G.I.L. Noi non siamo qui a sancire giornate di lutto ma siamo un organo di lotta e siamo qui per stabilire le forme del­ la nostra protesta ed è tempo che il Governo comprenda che non si può impunemente offendere il popolo in ta­ le maniera se noi non diamo prova di una immediata ed energica reazione siamo noi stessi colpevoli in quanto non facciamo comprendere al Governo ed a tutto il paese la gravità della situazione. È personalmente contrario a fare due manifestazioni distin­ te per la Sicilia ed il restante d’Italia: Si deve infatti far com­ 210

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prendere ai lavoratori siciliani che essi non sono soli ma in Sicilia è tutto il proletariato italiano e bisogna dare la mani­ festazione nella quale l’organizzazione sindacale chiaramen­ te fa presente che è conscia della non occasionalità di simili incidenti e che è pronta a difendersi anche da sola qualora il Governo non dia quella prova della necessaria energia; è personalmente per una giornata di sciopero generale e vuo­ le che si esamini la possibilità che tale sciopero sia esteso ai pubblici servizi. Le manifestazioni di neo-fascismo e di rea­ zione sono a tal punto che si esigono tale risposta. PARODI rileva che la Costituente ha già fatto una ma­ nifestazione di notevole importanza approvando un ordi­ ne del giorno di vibrata protesta e sospendendo i lavori per mezz’ora e non è possibile che la manifestazione del­ la C.G.I.L. organizzazione direttamente interessata della questione possa limitarsi soltanto ad un ordine del gior­ no e tenere nella questione un contegno del tutto passivo. Nel tempo pre-fascista avremmo avuto ben altra reazione, ora non l’abbiamo soltanto perché le masse hanno fidu­ cia nell’organizzazione sindacale ma se noi limiteremo la nostra azione non eviteremo manifestazioni sporadiche di malcontento doppiamente dannose non perché non da­ ranno una prova della possibilità di reazione delle masse operaie, perciò noi dobbiamo assumere la direzione del­ la manifestazione e dobbiamo lanciare la parola d’ordine che la C.G.I.L. invita i lavoratori all’astensione dal lavoro perché la loro astensione sia invito al Governo a prende­ re efficaci provvedimenti. Se la C.G.I.L. non assumesse la direzione della manifestazione essa darebbe prova di non saper fronteggiare il malcontento delle masse. [...] 211

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GIANNITELLI osserva che bisogna anzitutto distinguere dall’azione che deve esercitare la C.G.I.L. a quella che de­ vono svolgere i partiti politici. Rileva che si deve precisare se sia una questione di carattere politico o una questione di carattere sindacale A suo giudizio l’azione politica è già stata sufficientemente svolta in sede di Assemblea Costi­ tuente. Rimane da esaminare se si tratta di una questione sindacale. A suo giudizio è una questione di carattere pret­ tamente sindacale in quanto l’eccidio è stato compiuto il 1° maggio festa del lavoro e ciò giustifica ogni eventuale intervento e azione della C.G.I.L. Non ritiene giusto però che si debba ricorrere allo sciopero e si associa alle proposte di Cappugi e di Zini e sarebbe anche lui per una manife­ stazione differente fra la Sicilia ed il continente. Mentre in Sicilia potrebbe anche decretarsi un’astensione dal lavoro sarebbe d’opinione che per il restante d’Italia potrebbero convocarsi comizi di lavoratori nel tardo pomeriggio al fine di manifestare la protesta delle organizzazioni sindacali. In via conciliativa si potrebbe studiare la possibilità dell’asten­ sione dal lavoro generale in tutta Italia solo al momento dei funerali delle vittime mentre per la Sicilia potrebbe anche decretarsi mezza giornata di sciopero. [•••] CAPPUGI osserva che lo sciopero si traduce in uno scio­ pero di carattere politico che si rivolge contro il Gover­ no e potrebbe anche travolgerlo; è in fondo questo quello che si prefiggono le forze reazionarie italiane. Poiché lo sciopero ha un carattere politico in quanto diretto contro il Governo non ritiene che si debba dichiarare lo sciopero. Se voi volete infatti che il Governo vada in mano alle for­ ze reazionarie dovete far sì che esso non si senta contrario 212

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alle masse operaie. Questa in fondo è una prova dell’efficienza dell’unità sindacale. Siamo sul punto di decidere se dobbiamo o non dobbiamo far degli scioperi politici e torna sul tappeto la questione dell’articolo 9 che i de­ mocristiani affronteranno in sede di Congresso. A tutti è noto l’atteggiamento che sul suddetto articolo e sulla con­ cezione generale dei sindacati hanno i democratici cristia­ ni e di conseguenza non può assolutamente associarsi alle dichiarazioni di sciopero. [•••] LIZZADRI dichiara che dal punto di vista sindacale l’or­ ganizzazione darà prova di inefficienza e di incapacità se non si metterà alla testa della manifestazione e del mal­ contento che è sorto spontaneamente in tutta Italia e se non sarà all’altezza di adottare provvedimenti adeguati alla gravità degli avvenimenti; ricorda che in un caso di minore importanza verificatesi due anni or sono, la Segre­ teria Confederale, con circolare a firma dei tre segretari invitò le organizzazioni a reagire con la massima energia davanti a provocazioni di questo genere. Non ritiene che manifestazioni di carattere solidaristico siano sufficienti a dimostrare la compattezza e la capacità di reazione delle organizzazioni sindacali. Le manifestazioni solidaristiche devono aver luogo ma non possono costituire il centro della manifestazione. L’unica arma che ha l’organizzazione per dimostrare la propria efficienza è lo sciopero, ad esso la situazione costringe di dover ricorrere. Deve essere uno sciopero anzitutto che abbia come caratteristica la decisa volontà dei lavoratori di non tollerare episodi simili. Lo sciopero deve essere fatto nella giornata di sabato. [...] 213

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LIZZADRI riassume la discussione rilevando che la mag­ gioranza è ormai dell’opinione che la manifestazione di protesta debba assumere la forma dello sciopero e tale sciopero deve essere dichiarato nella giornata di sabato e chiede quindi che si entri a discutere nelle modalità tecni­ che di attuazione di questa decisione. Sulle modalità tecniche dello svolgimento dello sciopero intervengono Giannitelli, Cappugi, Lizzadri e Buschi. A conclusione della discussione Lizzadri propone l’acclu­ so ordine del giorno che viene votato favorevolmente da Buschi, Parodi, Massini, Pilia e Lizzadri. Votano contro Baldelli, Cappugi, Casanti e Giannitelli.

ORDINE DEL GIORNO Il Comitato Direttivo ristretto della C.G.I.L. convoca­ to d’urgenza il due maggio 1947, sotto la presidenza del Segretario generale Oreste Lizzadri per discutere in me­ rito al barbaro eccidio di Portella della Ginestra, eccidio consumato ai danni di pacifici inermi lavoratori riuniti per festeggiare il primo maggio CONSTATATO Che l’eccidio è la conseguenza dei delitti perpetra­ ti in Sicilia contro le organizzazioni sindacali —delitti rimasti per la maggior parte ancora impuniti - e dalla volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue l’organizzazione dei lavoratori, mentre invia un rive­ rente e commosso pensiero alle vittime innocenti e alle loro famiglie INVITA Il Governo democratico a colpire e con la severità ri­ 214

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chiesta dalla efferatezza del delitto, esecutori e mandanti - in segno di protesta e solidarietà

DELIBERA L’astensione dal lavoro in tutta Italia per domani saba­ to 3 maggio dalle ore 11 in poi con l’esclusione dei servizi pubblici e dei pubblici esercizi indispensabili. Le Camere del Lavoro organizzeranno nelle ore e nei luoghi più con­ venienti comizi di protesta.

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C O M IT A T O E S E C U T IV O D ELLA C.G.I.L. D E L 24 G I U G N O 1947

(Archivio C.G.I.L. Documenti Comitato Esecutivo Verbale 24 giugno 1947)

Presenti Di Vittorio, Santi, Pastore, Lama, Della Chiesa, Bucci, Cuzzaniti, Canini, Buschi, Massini, Bosi, Noce, Bibolotti, Maglietta. Assenti giustificati Bitossi, Maniami, Morelli. Parri, Roveda, Invernizzi. È pure presente una delegazione siciliana composta dai compagni SALA-LEPROTTI La Segreteria Confederale - esaminata la situazione ve­ nutasi a creare in Sicilia in seguito agli avvenimenti che hanno funestato ancora una volta il nobile popolo sicilia­ no —ha votato il seguente ordine del giorno da inviare al Capo dello Stato. Al Presidente dell’Assemblea Costituen­ te, al Presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno. “Il comitato Esecutivo della C.G.I.L., interprete del sentimento di orrore e di rivolta morale del popolo italia­ no contro i nuovi attentati criminali compiuti in Sicilia dal banditismo organizzato dai ceti latifondisto reazionari ai danni di pacifici cittadini e di libere organizzazioni sin­ dacali e democratiche, eleva la vibrata protesta dei lavora­ tori di tutta Italia. Il Comitato Esecutivo rileva che i nuovi attentati com­ piuti contemporaneamente in numerose località della provincia di Palermo la sera del 23 giugno e nel corso dei quali dei cittadini sono stati assassinati o feriti a causa del­ le loro opinioni politiche, fanno parte di una lunga cate­ na di delitti consumati contro i contadini siciliani ed i lo­ ro esponenti: catena che comprende l’assassinio barbarico 216

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di ben sei segretari di Camere del lavoro e la carneficina del 1° maggio a Piana della Ginestra. Il Comitato Esecutivo afferma che se tale catena di ef­ ferati delitti contro i lavoratori siciliani e le loro organizza­ zioni democratiche continua e si aggrava, ciò è dovuto so­ prattutto alla impunità di cui hanno goduto e godono gli esecutori materiali ed i mandanti dei delitti stessi che, per la loro malvagità disonorano un popolo civile. Tale impu­ nità rivela la vasta rete di complicità estesa a talune autori­ tà locali, che hanno organizzato i latifondisti e gli altri ceti privilegiati sfruttatori della Sicilia, nonché la loro precisa volontà di impedire l’applicazione delle leggi Gullo e Segni e di annientare col terrore l’anelito dei contadini siciliani alla conquista della terra, alla giustizia sociale ed al rinnova­ mento democratico e repubblicano della Sicilia. Il Comi­ tato Esecutivo esprime ai contadini ed a tutti i lavoratori manovali ed intellettuali della Sicilia la piena e fraterna solidarietà dei lavoratori di tutte le altre Provincie d’Italia. In segno di protesta contro il terrorismo antidemo­ cratico in Sicilia e le altre forme di reazione agraria che si vanno manifestando in altre regioni del mezzogiorno d’Italia, in segno di monito ai nemici del popolo fau­ tori di fascismo e di reazione il Comitato Esecutivo de­ cide la sospensione del lavoro compresi i servizi pubblici in tutta Italia dalle ore 10 alle 11 per oggi mercoledì 26 giugno. Sono esclusi dalla sospensione del lavoro solo il movimento dei treni e i servizi pubblici più indispens­ abili. Tutti i negozi e gli esercizi pubblici sono invitati a rimanere chiusi durante la manifestazione di sospensione. La protesta del personale della radio si esprimerà con la sospensione delle trasmissioni per cinque minuti, dalle ore 8.00 alle ore 8.05. 217

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Durante la sospensione tutti i lavoratori si riuniranno nei luoghi di lavoro per manifestare la loro protesta e vo­ tare degli ordini del giorno da trasmettere alle autorità lo­ cali e al Governo. Facendo proprie le rivendicazioni formulate dal­ la Camera del lavoro di Palermo, e cioè lo scioglimento di tutti i partiti neofascisti, la rapida punizione di tutti i responsabili materiali e mandanti dei crimini consumati contro i lavoratori, e la soppressione dei giornali di provo­ cazione neo fascista - e tenuto conto che il Governo Si­ ciliano le ha accolte — il Comitato Esecutivo chiede al Governo Italiano di accoglierle a sua volta e di prendere misure urgenti e adeguate per stroncare definitivamente il banditismo agrario fascista in Sicilia ed instaurare anche in quella nobile regione le libertà democratiche, che la Repubblica Italiana deve garantire a tutti i suoi cittadini. A tal fine il Comitato esecutivo domanda al Gover­ no e dalla Assemblea Costituente di voler nominare una Commissione Parlamentare d’inchiesta che faccia piena luce sulla rete di omertà e di complicità, che ha reso pos­ sibile fino ad ora il perpetuarsi di una situazione di terrore contro i lavoratori siciliani, proponga le riforme sociali più urgenti e le misure appropriate per instaurare la le­ galità repubblicana in Sicilia ed eviti al popolo italiano la sciagura di una guerra civile. Il comitato esecutivo dichiara che i lavoratori ital­ iani sono pronti a collaborare attivamente col Governo nell’azione di annientamento del banditismo politico e si riserva di riesaminare la situazione siciliana alla luce dell’azione che sarà svolta dal Governo e dai risultati che saranno conseguiti”. La seduta viene tolta alle ore 23,50 218

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S E G R E T E R IA C O N F E D E R A L E . C O M U N IC A T O STAMPA 18 M A R Z O 1 9 4 8

(Archivio CGIL Segreteria Generale 18 marzo 1948fase 175 “Corleone: rapimento segretario Camera del lavoro”)

La Segreteria Confederale ha esaminato l’aggravarsi della situazione in Sicilia, in seguito al rapimento del segreta­ rio della Camera del Lavoro di Corleone Rizzotto Placi­ do. La Segreteria Confederale, rendendosi interprete del sentimento di profonda indignazione delle masse po­ polari italiane, contro l’efferato delitto che rappresenta la continuazione di una lunga catena di crimini rimasti tutti impuniti quantunque notoriamente consumato da sicari assoldati dai grandi latifondisti siciliani, ha deciso di inviare al Governo una vibrata protesta con la richiesta che siano prese misure appropriate per scoprire immedia­ tamente e punire gli assassini ed i loro mandanti. La Se­ greteria Confederale, mentre assicura i lavoratori siciliani della più completa solidarietà di tutti i lavoratori d’Italia, ha deliberato di convocare nei prossimi giorni a Palermo il Comitato Esecutivo confederale per esaminare la situa­ zione siciliana in rapporto a questi crimini contro la per­ sona umana e le più elementari libertà sindacali e demo­ cratiche e per prendere i provvedimenti che risulteranno necessari. Infine la Segreteria della Cgil ha deciso di in­ viare un primo aiuto finanziario alla famiglia del Rizzotto ed a quella del capolega dei contadini Vincenzo Li Puma, assassinato sul campo mentre lavorava pochi giorni orsono a Petralia Fontana. Alla convocazione dell’Esecutivo si è dichiarato contrario il rappresentante della corrente de­ mocristiana Dr. Cuzzaniti. 219

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SEGRETERIA GENERALE. M O ZIO N E POPOLARE PE R IL R A P I M E N T O D E L S E G R E T A R I O D E L L A C A M E R A D E L L A V O R O DI C O R L E O N E , 20 M A R Z O 1948

(Archivio CGIL Atti e Corrispondenzafase. 175)

on.A.De Gasperi Presidente del Consiglio dei Ministri on. R.Pacciardi V.presidente Consiglio dei Ministri on. M. Sceiba Ministro delFInterno La Segreteria Confederale, interprete deH’emozione profonda da cui si sentono colpite le masse lavoratrici di tutta Italia per il rapimento e la scomparsa del segretario della Camera del Lavoro di Corleone Placido Rizzotto, chiede al Governo misure eccezionali adeguate perché si­ ano scoperti i responsabili questo nuovo crimine consu­ mato contro la persona umana e contro la libertà di or­ ganizzazione dei lavoratori siciliani e perché lo scomparso venga al più presto ritrovato. Le qualità personali del Rizzotto - uomo di alto equi­ librio ed universalmente stimato - non consentono alcun dubbio sulla natura politico-sociale del delitto e quindi sulle persone che potevano avere interesse a fare scompa­ rire od a sopprimere il Rizzotto. La Segreteria Confederale rileva che si tratta di un nuovo crimine che succede ad altri efferati delitti, consu­ mati contro organizzatori sindacali della Sicilia e che sono rimasti sinora tutti impuniti. Non vi è dubbio che questa impunità costituisce un in­ 220

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coraggiamento ai criminali a perseverare nella loro azione sanguinaria che disonora il nostro Paese; si tratti degli ese­ cutori materiali o della classe sociale che li sovvenziona e li arma nella difesa di interessi egoistici ed antinazionali. La Segreteria Confederale rileva dall’esito costantemente nega­ tivo sia delle azioni di polizia che delle istruttorie esegui­ te dalla magistratura per far luce sui responsabili di questa lunga catena di delitti, che esiste nell’Italia una situazione di carattere straordinario la quale esige misure di carattere egualmente eccezionali. Né si può allegare l’insufficienza di mezzi d’indagine e di repressione, se è vero che in altre Regioni d’Italia si è potuto disporre d’ingentissime forze di Polizia, per compiere arresti di cittadini che non hanno commesso alcuna colpa grave se non quella di partecipare a scioperi di carattere sindacale dovuti all’estrema miseria ed all’abbandono di quelle popolazioni. Preoccupata della gravità innegabile della situazione più ancora delle conseguenze che potrebbero derivarne se permanesse in Sicilia l’attuale stato di carenza della leg­ ge e della giustizia, la segreteria Confederale, ritenendo di adempiere ad un suo dovere di tutela, oltre che delle mas­ se lavoratrici, della libertà umana e dell’ordine interno del Paese, chiede a codesta on. Presidenza del Consiglio di essere convocata con tutta urgenza ad una riunione alla quale, oltre al sig. presidente del Consiglio, partecipino gli altri Ministri interessati al mantenimento dell’ordine pubblico, al fine di esaminare i provvedimenti da adot­ tarsi per porre termine ad uno stato di cose estremamente pericoloso, che offende la coscienza e la dignità nazionale. Distinti saluti. La Segreteria Confederale 221

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SEGRETERIA GENERALE. M O ZIO N E POPOLARE PER IL R A P I M E N T O D E L S E G R E T A R I O D E L L A C A M E R A D E L LAVO RO DI C O R L E O N E

(Archivio CGIL Atti e Corrispondenzafase 175)

Roma, 27 marzo 1948 on. A. De Gasperi Presidente del Consiglio dei Ministri on. R. Pacciardi V.presidente Consiglio dei Ministri on. M. Sceiba Ministro dell’Interno

Con riferimento alla precedente comunicazione in data 20 marzo, relativa al rapimento del segretario della Camera del Lavoro di Corleone Placido Rizzotto, la Se­ greteria Confederale deplora con la massima energia il fatto che nessuna notizia si sia ancora avuta sulla sua sorte e che nemmeno uno solo dei colpevoli sia stato scoperto ed arrestato. La Cgil non può tollerare che un vero e proprio terrore venga impunemente esercitato da parte dei latifondisti e dei loro agenti siciliani contro gli esponenti delle Orga­ nizzazioni Sindacali. Essa chiede che il Governo intervenga a ristabilire fi­ nalmente la giustizia ed a garantire l’incolumità dei lavo­ ratori e dei loro dirigenti sindacali. Comunichiamo che il Comitato Esecutivo della Cgil si riunirà a Palermo mer­ coledì prossimo 31 marzo, per esaminare con gli organiz­ 222

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zatori sindacali siciliani la situazione determinatasi nell’I­ sola in seguito al rapimento del Segretario della Camera del Lavoro di Corleone e per prendere le misure sindacali che dovessero risultare necessarie per assicurare l’incolu­ mità dei dirigenti sindacali, che costituiscono un aspetto fondamentale delle libertà democratiche sancite dalla Co­ stituzione.

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R IU N IO N E D EL C O M IT A T O E S E C U T IV O D ELLA C.G.I.L., P A L E R M O 31 M A R Z O 1 9 4 8 - L’ I N T E R V E N T O D I DI V I T T O R I O E A L T R I

(Archivio C.G.I.L. Documenti Comitato esecutivo —rapimento Rizzotto)

Presenti Di Vittorio, Tersa Noce, Clemente Maglietta, Pa­ rodi, Dalla Chiesa, Bosi Ilio, Cesare Massini, Bulleri, San­ ti, Bitossi, membri del CE della CGIL. E i segretari della CGIL Regionale di Palermo sigg. Macaiuso, Sanso, Sala, Roberit, Gullo segretario della CdL di Agrigento, Saitta segretario Provinciale dei lavoratori del commercio, Leone segretario responsabile della CdL di Trapani, Fiorentino segretario Camera del lavoro di Messina, Cristaldi, Cipolla segretario regionale della Confederterra, Di Giorgio segre­ tario della CDL di Enna, Di Cara segretario della CDL di Messina, Marion della Confederterra, Romano della CDL di Siracusa, Gagioppo dell’Esecutivo della Confedeterra, Basile dell’Esecutivo regionale della CGIL. [...] Di Vittorio comunica che i democristiani non aderisco­ no alla protesta sui fatti di Sicilia, anche i saragattiani non intervenendo dimostrano di non aderire alla protesta.

ODG 1. Situazione siciliana (rapimento compagno Rizzotto) 2 Minoranze e loro posizioni [•••] DI VITTORIO In merito alla questione siciliana Di Vit­ torio ritiene necessario ascoltare i compagni siciliani. La CGIL dovrà prendere una netta posizione poiché è inam­ missibile che siano stati uccisi 35 rappresentanti dei la­ 224

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voratori senza che il Governo sia intervenuto, è evidente che ne è complice. Il Comitato esecutivo della CGIL è venuto in Sicilia per poter meglio svolgere la sua azione. Il rapimento del compagno Rizzotto non è stato abbastan­ za valutato anche da noi stessi sindacalisti. Oggi più che mai bisogna rivolgere un forte appello alle masse. Occor­ reva da tempo iniziare una grande campagna di stampa per denunciare questi delitti. Ogni giorno dobbiamo fare articoli di tre o quattro colonne, appelli alla stampa per chiedere al Governo che fine ha fatto Rizzotto. Questo mistero attorno ad un uomo che improvvisamente scom­ pare, eccita la sensibilità delle masse, ma noi finora non abbiamo fatto nulla per creare quest’atmosfera. Si è ripe­ tuto un caso simile a quello della scomparsa di Matteotti (benché la personalità sia diversa). In quel periodo mal­ grado ci fosse il fascismo, Mussolini non ha potuto evita­ re d’arrestare i complici (anche se in un secondo tempo li ha liberati). Oggi invece il Governo democristiano non si è degnato di far questo. MACALUSO Parla della situazione venutasi a creare in Sicilia dalla liberazione ad oggi e denuncia cronologica­ mente tutti i fatti. Prima aggressione caso Li Causi, che venne ferito durante un comizio indetto dal Comitato Nazionale di Liberazione. Qualcuno dei colpevoli ven­ ne arrestato, ma in seguito vennero tutti rilasciati, ed ora sono quattro anni che si attende che venga fatto loro il processo. Questo fu il via per i gabellotti e per la mafia che si sentirono incoraggiati e protetti dall’Autorità. L’ag­ gressione contro Li Causi avvenne perché egli accusa que­ sta gente. Da allora s’iniziò la serie degli eccidi che tutti conosciamo. In primo tempo per questi assassini, dato 225

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che le nostre organizzazioni sindacali non erano molto forti. Non vi furono proteste di massa. Con l’assassinio del compagno Miraglia, si assistè ad una manifestazione grandissima in Sicilia e in tutta l’Italia. Vi fu un grande sciopero in tutta l’Isola, mai verificatosi sino ad allora. Poi il 1 maggio 1947, l’eccidio di Portella della ginestra, che fu non solo un’indignazione della masse siciliane, ma di tutto il popolo italiano. Quando si iniziò la campagna per l’occupazione delle terre incolte, i nemici crearono il terrore. Anche qui gli assassini di Miraglia, in un primo tempo arrestati, furono poco dopo liberati. Da allora la situazione si è aggravata sempre più Sceiba venne a Palermo e dichiarò che era un assassinio comune e non politico - quello di Portella della ginestra. Ebbene da quando Sceiba fece le sue dichiarazioni sull’assassinio del compagno Maniaci —orfano dei genitori —che a 14 anni fece un piccolo furto, per cui scontò qualche mese. Sceiba dichiarò che egli era stato ucciso per i suoi prece­ denti penali e che perciò non si trattava di fatto politico. Il compagno Pipitone venne assassinato la sera prima che si prendesse possesso delle terre incolte. Anche per questo caso la Polizia dichiarò che si trattava di questioni famigliari. Per l’assassinio del compagno Li Puma, la Polizia non fe­ ce nulla. Quando venne Bitossi nessuno era stato inter­ rogato e ancor meno arrestato. Poi avvenne la scomparsa del compagno Rizzotto che era un elemento onestissimo. Egli ha avuto urti con i gabellotti (Riscione, etc.) per ave­ re assegnato terre incolte alla Cooperativa di cui era Pre­ sidente. In tale occasione furono arrestati dei lavoratori. Ci furono vittime tra i carabinieri (durante la ricerca dei colpevoli). Persino un colonnello fu ucciso. Vi fu anche 226

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il sequestro di alcuni commercianti e del prof. Sarestano, che venne sequestrato e poi ucciso. Queste colpe ricadono tutte sul Governo. La responsabilità è dei partiti che fanno parte del governo nero. Che sulla situazione ne fanno una speculazione po­ litica elettorale. La lotta sta diventando sempre più dura, difficile, specialmente alla base. Nelle piccole CdL i diri­ genti della CdL di Palermo (sic!) si sono recati dal Prefet­ to per avere notizie del compagno Rizzotto, ma il Prefetto ha risposto che non vi è nulla di nuovo. La verità è che la Polizia non ha fatto assolutamente nulla da quando è par­ tito Bitossi da Palermo. CRISTALDI II feudalesimo in Sicilia è più che mai esi­ stente. Vi è una campagna di odio da parte del gover­ no che crea un’atmosfera torbida di rissa. Chiede che la C.G.I.L. faccia un’inchiesta, prenda l’iniziativa e chieda al Governo perché le sue stesse leggi sulla riforma agraria non vengono applicate (specie in Sicilia) Cristaldi prose­ gue affermando che in Sicilia c’è il governo del feudalesi­ mo, il Governo della mafia. Perché il governo nazionale lo permette? Parlando del caso Rizzotto, dice che ciò è stato possibile anche perché in Sicilia ci si è ormai abituati a questi fatti. Dice che non basta la sola stampa a prende­ re posizione contro questi eccidi. Propone di fare molti manifesti che siano affissi in ogni località, anche nei più piccoli centri. Al fine di far conoscere a tutta la popola­ zione cosa sta avvenendo. La C.G.I.L. propone Cristal­ di, dovrebbe lanciare un premio a chi trova i responsabili della sparizione. Né il governo regionale, né quello nazio­ nale hanno accennato al fatto Rizzotto e non hanno speso neanche una parola di cordoglio per quanto è accaduto. 227

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Propone: 1° un’inchiesta economico-sociale in Sicilia; 2° caso compagno Rizzotto, lanciare un manifesto con una taglia per chi trova gli assassini. [•••] GULLO È d’accordo con Cipolla su molti punti e prose­ gue: chi fa la campagna elettorale in Sicilia? La Mafia! La fa con le sembianze della D.C. ma dietro c’è la mafia! An­ che i preti in Chiesa non fanno che propaganda politica. Racconta anche lui alcuni fatti che fanno rabbrividire. In Sicilia la situazione è tale, egli prosegue, che bisogna far di più di quanto finora la C.G.I.L. ha fatto. E d’accordo con Cipolla per la richiesta di quadri. Chiede aiuti e soccorsi per le famiglie dei caduti. Anch’egli propone di fare dei ma­ nifesti con l’effige delle vittime. Lo sciopero —dice —non darebbe quell’effetto che vorremmo. Propone che si diano delle giornate lavorative a favore del Sud, per la Sicilia. SAITTA Occorre rivedere i metodi di lotta nel nostro pae­ se: Non è più il caso di fare scioperi in Sicilia perché i no­ stri organizzatori e le masse sono arretrate. Facciamo un appello alla C.G.I.L - abbandona l’argomento - ed entra in altre argomentazioni. Per la richiesta di quadri, è d’ac­ cordo solo in parte con Cipolla, Dico che i quadri e gli eroi dobbiamo formarli in Sicilia. Idealizzare i nostri morti, popolarizzarli e idealizzarli nelle masse. Riguardo alla stampa propone: 1) giornali murali; 2) giornali settimanale. Biso­ gna avere mezzi di lotta che oggi ci mancano. Ci troviamo in una situazione qui in Sicilia, egli prosegue, peggiore di quando c’era il fascismo. [...]

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DI VITTORIO Ringrazia i compagni siciliani che hanno dato ampie informazioni sulla situazione della Sicilia. [...] DI VITTORIO - Afferma che il problema siciliano è problema nazionale, occorre perciò accelerare il progresso rivoluzionario, data l’arretratezza della Sicilia, per assur­ gere a nuova vita. Bisogna aiutare la Sicilia - è d’accordo nel dover idealizzare i martiri. Non dobbiamo rassegnarci, ma imporci con il nostro peso al governo. Dobbiamo ga­ rantire l’incolumità ai compagni con la nostra forza, fa­ cendo applicare le leggi emanate che non sono rispettate. Noi aiuteremo con ogni mezzo possibile, ma i compagni siciliani debbono soprattutto contare sulle proprie forze organizzandosi. Noi non possiamo accettare - prosegue Di Vittorio —certe proposte fatte da alcuni compagni che sono qui riuniti: Bisogna soprattutto organizzare le mas­ se. Può darsi, anzi è probabile che l’indignazione popolare esploda un giorno o l’altro. Organizzare le masse per far rispettare le leggi, mediante una lotta, mobilitando conta­ dini e non contadini, ceti medi, industriali etc. per isolare i mafiosi ed i grandi proprietari terrieri. Questa egli afferma è una via maestra. Prosegue dicendo: siamo tutti responsabili, noi e voi, di non aver sfruttato abbastanza i fatti dei 35 compagni uccisi. E d’accordo per la stampa di cartoline raffiguranti i martiri. Propone di fare dei quadri che dovrebbero circolare in tutta Italia, nella C.d.L. raccogliendo fondi per la rinascita della Sici­ lia e per il rinnovamento di essa. Sul caso del compagno Rizzotto, che è molto differente dagli altri, Di Vittorio di­ ce che bisogna far qualcosa di nuovo, di più importante. Il fatto che su 35 caduti, non un solo colpevole è stato 229

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arrestato e che il governo non si sia degnato, non solo di rispondere, ma non fare neanche un cenno sul caso Riz­ zotto, sta a significare che è alleato alla mafia. Propone: 1) appello sul caso Rizzotto; 2) un’ora di sospensione di lavoro in tutta Italia (per i ser­ vizi pubblici, tenendo conto del disagio che ne derive­ rebbe alla popolazione, propone di fare uno sciopero della durata di Va d’ora, facendo un o.d.g. che chieda al Governo quali provvedimenti abbia preso per colpi­ re i rapitori di Rizzotto e per trovare la salma; 3) premio di mezzo milione a chi trova il cadavere del compagno Rizzotto e/o gli assassini; 4) Spese di manifesti a carico della C.G.I.L. e aiuti ai fa­ miliari dei caduti [-.] DI VITTO RIO - Legge un o.d.g. sull’atteggiamento delle minoranze che viene discusso precisato e redatto e approvato poi all’unanimità: Il C om itato Esecutivo della C .G .I.L . riunitosi a Paler­ m o il 31 marzo 1948 D E P L O R A Vivamente l’atteg­ giamento dei membri della Segreteria e del C .E . stesso della corrente sindacale democristiana, ai quali si sono accodati esponenti delle correnti minori, repubblicana e del P.S.L.I., che si sono rifiutati dimostrativamente di partecipare alla riunione di Palermo, che ha avuto lo scopo principale di esprimere la solidarietà di tutti i la­ voratori italiani ai loro fratelli siciliani che sono vittime di un sanguinoso terrorismo latifondista e mafioso, e di chiedere al Governo misure adeguate per scoprire e pu­ nire i colpevoli della catena di assassini premeditati e di numerosi dirigenti sindacali dell’Isola, e per garantire le 230

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libertà sindacali e l’incolumità di coloro che difendono gli interessi e le legittime aspirazioni sociali dei la vora­ tori siciliani.

Il C.E. è sicuro che i lavoratori italiani di qualsiasi corren­ te saranno unanimi nel biasimare la mancata partecipa­ zione di Pastore, Cuzzaniti, Parri, Canini e Morelli, alla riunione di Palermo, ciò che dimostra in loro una scar­ sa sensibilità verso la lotta dei lavoratori siciliani e verso il martirio e lo spirito ammirevole di sacrificio dei loro esponenti sindacali.

Il C.E. decide di deferire alla prossima riunione del C.D. la situazione venutasi a creare in seguito all’atteggiamento delle minoranze, affinchè si prendano decisioni sul caso. [•••]

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C O M I T A T O D I R E T T I V O D E L L A C . G . I . L . D E L 6 A P R I L E 1948

(Archivio C.G.I.L. Segreteria Generale.Atti e Corrispondenza 1948. Organizzazione e Uffici periferici. “La protesta della Cgil per la si­ tuazione in Sicilia". 6 aprile 1948, fase. 15)

Sono presenti Di Vittorio, Bitossi, Lama, Bitossi, Cuzzaniti, Dalla Chiesa, Maglietta, Invernizzi, Parodi, Parri, Roveda, Bosi, Burchi, Bibolotti, Noce, Morelli. Assenti: Canini e Mariani.

ORDINE D EL GIORNO 1) Situazione determinatasi in Sicilia in seguito ai noti ec­ cidi; 2) Inchiesta sulla F.I. 3) Varie Si apre la discussione sul 1° punto all’odg. DI VITTORIO: informa i membri dell’esecutivo assenti alla riunione di Palermo, di quanto deliberato dal Comi­ tato esecutivo in quell’occasione. Si sofferma a descrivere lo stato di terrore instaurato dai latifondisti agrari in Sicilia e la situazione nella quale sono costretti a svolgere la loro attività i dirigenti sindacali si­ ciliani, la cui sorte è sempre in pericolo per il banditismo agrario. Dopo aver ricordato le decisioni prese a Palermo dal Co­ mitato esecutivo (fissazione manifestazione nazionale di protesta, richiesta punizione colpevoli, ricovero dei figli dei caduti a spese della C.G.I.L, stanziamento di un mi­ lione per rintracciare assassini) si sofferma a riferire il col­ 232

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loquio da lui avuto col Presidente del Consiglio e col Mi­ nistro degli Interni, ai quali è stata richiesta l’emanazione di provvedimenti di natura tale da porre fine alla catena di delitti che si susseguono per effetto della impunità de­ gli assassini dei 35 sindacalisti siciliani. Ritiene che i provvedimenti presi dal Governo che per la prima volta ha preso misure serie 8 invio di un ispettore generale dei CCRR, sostituzione del Questore, stanzia­ mento 4 milioni di taglia) siano dovuti all’atteggiamento fermo della C.G.I.L. L’altro assassinio compiuto dopo la riunione del Comita­ to Esecutivo di Palermo ci costringe a riesaminare la si­ tuazione ed a stabilire se debbono essere confermati o ri­ veduti i provvedimenti presi a Palermo. Propone quindi che il comitato esecutivo fissi una so­ spensione di lavoro di una mezza giornata per una mani­ festazione nazionale di protesta, durante la quale si dovrà informare l’opinione pubblica sulla gravità estrema della situazione che trascende la portata stessa dei delitti, assu­ mendo carattere di delitto politico sociale da parte dei ce­ ti reazionari dell’isola, ai danni di tutti coloro che tentano di migliorare le condizioni dei lavoratori della terra. [•••] Il Comitato Esecutivo della C.G.I.L. rinnova la sua vibra­ ta protesta ed esecrazione per le uccisioni che in Sicilia si ripetono con ritmo preoccupante a carico di liberi cittadi­ ni e contro dirigenti sindacali. La C.G.I.L., riaffermando i diritti insopprimibili della libertà e la improrogabile esigenza di imporre in Sicilia il rispetto alla vita umana invita il Governo Nazionale e dell’Isola ad intensificare la già intrapresa lotta contro il 233

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banditismo siciliano. Si richiedono disposizioni eccezio­ nali per assicurare all’opera delle forze preposte in Sicilia alla tutela dei diritti dei cittadini, risultati maggiori di quelli conseguiti in passato; perché i mandanti ed autori degli esecrandi delitti ricevano un serio e decisivo moni­ to, il Comitato Esecutivo della C.G.I.L. invita i lavoratori italiani a sospendere il lavoro per un’ora nella giornata di lunedì 12 corrente dalle ore 10 alle ore 11. Pastore, Parri, Canini, Cussaniti, Morelli. Le correnti di minoranza hanno dichiarato la loro opposizione acchè allo sciopero partecipino i servizi pubblici; come si sono dichiarati contrari alla pubblicazione di alcun manifesto.

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