Tutti i trattati peripatetici. Testo latino a fronte
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Zitiervorschau

PIETRO

POMPONAZZI TUTTI I TRATTATI PERIPATETICI TRATTATO SULL’INTENSITÀ E SULL’ATTENUAZIONE DELLE FORME, TRATTATO SULLA REAZIONE, QUESTIONE SULL’AZIONE REALE, L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA, APOLOGIA, DISCORSO DIFENSIVO, TRATTATO SULLA NUTRIZIONE E SULL’ACCRESCIMENTO

A cura di Francesco Paolo Raimondi e José Manuel García Valverde

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Testo latino a fronte in prima edizione critica con traduzione integrale

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Direttore

GIOVANNI REALE

Quest’opera è stata realizzata in collaborazione con il Centre for Science, Philosophy and Language Research della Fondazione “Arnone – Bellavite Pellegrini”

PIETRO POMPONAZZI TUTTI I TRATTATI PERIPATETICI Testo latino a fronte

Monograf ia introduttiva, testo critico e note di Francesco Paolo Raimondi e di José Manuel García Valverde Traduzione di Francesco Paolo Raimondi

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-58-76280-6 © 2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero I edizione digitale Il Pensiero Occidentale settembre 2013

SOMMARIO Monografia introduttiva di F.P. Raimondi e J.M.G. Valverde Note

7 189

Cronologia della vita e delle opere

231

Nota editoriale

237

Trattato sull’intensità e sull’attenuazione delle forme

245

Trattato sulla reazione

575

Se l’azione reale può prodursi immediatamente per mezzo di specie spirituali

869

Trattato sull’immortalità dell’anima

923

Apologia

1107

Discorso difensivo

1539

Trattato sulla nutrizione e sull’accrescimento

2073

Note ai testi

2559

Bibliografia

2713

Indici

2771

MONOGRAFIA INTRODUTTIVA DI

F.P. RAIMONDI - J.M.G. VALVERDE

A Germana Ernst, maestra di dottrina ed esempio di squisita umanità

D’altronde anche avere una conoscenza di una questione così difficile significa conoscere non poco. Chi, infatti, ha navigato molte volte, pur avendo patito un naufragio, avrà comunque una maggiore conoscenza dell’arte di navigare di chi non ha mai navigato. Perciò bisogna affidarsi alle proprie forze per non condurre la vita da pecore; solo l’attività speculativa, infatti, ci separa dalle bestie... Per il fatto che sentiamo di avere in noi qualcosa dell’intelletto, tosto ci reputiamo pari agli dèi. Ma come gli uccelli cadono nella rete ingannati dagli uccellatori che mostrano loro uccelli falsi, così noi credendo di essere dèi, rimaniamo imbrigliati in errori inestricabili e ne restiamo miseramente prigionieri (De nutritione, II, I, 7).

I

Francesco Paolo Raimondi POMPONAZZI E LA POLEMICA ANTICALCULATORIA 1.1. La diffusione delle dottrine calculatorie in Italia Le dottrine fisiche oxoniensi e parigine si diffusero assai per tempo in Italia e forse vi trovarono precursori degni di nota come Francesco di Marchia, Francesco da Ferrara e Giovanni da Casale. Esse penetrarono facilmente in centri universitari come Padova, Bologna, Ferrara e Pavia, in parte in connessione con le grandi dispute occasionate dal nominalismo occamistico, in parte per la presenza di una forte tradizione aristotelica che, nella vivace polemica contro le nuove dottrine, non mancò di farle conoscere più agevolmente e di provocarne una più rapida diffusione. Padova costituì certamente il centro più aperto alla ricezione delle nuove idee. Se per la carenza di documenti non si può essere certi della presenza nello Studio patavino di Giovanni da Casale e di Francesco da Ferrara, non v’è dubbio che i loro scritti furono ivi oggetto di frequenti letture e commenti fin dalla seconda metà del ‘300. Sappiamo che particolare interesse suscitò la Quaestio de proportionibus motuum di Francesco da Ferrara e che ampiamente discusso fu il De velocitate motus di Giovanni da Casale, come dimostra un manoscritto copiato a Padova nel 1386.1 Che le dottrine calculatorie avessero ormai preso piede nello Studio patavino ci è altresì attestato dal codice marciano trascritto nel 1384 da Bartolomeo da Mantova, il quale ci fa conoscere le opinioni espresse da Gregorio da Rimini in materia di intensione e attenuazione delle forme.2 Nella diffusione delle dottrine mertoniane un ruolo di primo piano esercitò certamente Biagio Pelacani da Parma la cui attività universitaria si esplicò nella seconda metà del ‘300 nei centri di Pavia, Bologna e Padova. La sua intensa attività intellettuale è attestata da diversi codici marciani che riproducono il De intensione et remissione, le Quaestiones dialecticae, le Quaestiones super tractatu Thomae Bradwardini de proportionibus e le Quaestiones super tractatu de latitudine formarum.3 Ancora sostanzialmente avvolta nelle tenebre è, invece, la figura di Messinus

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o Masinus, forse di Codronco, che operò nell’ultimo scorcio del ‘300, più probabilmente a Bologna, lasciandoci, in relazione ad un commento al De tribus predicamentis di Heytesbury, un importante frammento sul moto locale, completato da Gaetano da Thiene.4 A cavallo fra ‘300 e il ‘400 operarono altresì a Padova Angelo da Fossombrone, Iacopo da Forlì e Bartolomeo da Mantova. Del primo si conservano, oltre ai trattati manoscritti De inductione formarum e De reactione, il commento al De tribus praedicamentis Hentisberi nell’edizione veneziana del 1494. Del secondo molta fortuna ebbe il De intensione et remissione formarum, stampato a Padova nel 1480 e a Venezia nel 1496. Del terzo si conosce la Quaestio de instanti et tempore, conservata da un codice marciano.5 Nel corso del ‘400 la logica mertoniana assunse una netta influenza nello Studio patavino, anche se in realtà finì col caratterizzarsi come una sorta di neoscolastica, d’impronta schiettamente nominalistica, stancamente e ripetitivamente ancorata alla metodologia dei Calculatores e soffocata dalle intricate questioni logiche sviluppate da Heytesbury nelle Regulae solvendi sophismata, dallo Strode e dal Feribrigge nelle Consequentiae, nonché dal farraginoso apparato degli insolubilia e delle obligationes che finirono col diventare oggetto di una cattedra di Sophistaria appositamente istituita. I protagonisti di maggior rilievo dei grandi dibattiti logici della prima metà del secolo furono filosofi come Paolo Veneto, Gaetano da Thiene e Paolo della Pergola. Il primo tentò di combinare l’orientamento terministico dei Calculatores con le istanze della filosofia averroistica. Il secondo si occupò a fondo di logica oxoniense nel De intensione et remissione formarum, nelle Recollectae super Consequentias Strodi e nella Declaratio super tractatu Hentisberi regularum, ma fu assai restio ad estendere alla fisica i metodi matematici dei Calculatores. Il terzo, autore anch’egli di un trattato sui Dubia in Consequentias Strodi, contribuì notevolmente alla diffusione delle dottrine calculatorie a Venezia nella Scuola di Rialto.6 D’altronde, la grande diffusione delle dottrine logiche e cinematiche dei fisici oxoniensi e parigini nella cultura accademica veneta del ‘400 ci è ampiamente attestata dai numerosi codici marciani, ancora in gran parte in attesa di attento ed esaustivo esame. Nell’immenso patrimonio degli inediti marciani sono minutamente documentati i termini del dibattito filosofico sulla cinematica e sulla logica calculatorie attraverso gli scritti di Paolo della Pergola, Gaetano da Thiene, Angelo da Fossombrone, Simone da Lendinara, Alessandro Sermoneta, Giovanni de Arculis, Giovanni Marliani, Marsilio di Santa Sofia,

I. POMPONAZZI E LA POLEMICA ANTICALCULATORIA

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Cristoforo da Recanati, Ugo Benzi da Siena, Messino, Bernardo Torni, Paolo Veneto, Girolamo Pico e Nicoletto Vernia. Numerose, naturalmente, furono le polemiche, perché le ipotesi dei Calculatores e dei Doctores parisienses non passarono dagli Studi padovano e bolognese – ed altresì da quello pavese – senza suscitare forti contrasti e violente reazioni da parte della tradizione aristotelica consolidata fin dai secoli precedenti. Accenti polemici si rinvengono già nel Pelacani sul calare del XIV secolo; essi diventano più sistematici nel Marliani in pieno secolo quindicesimo e più violenti nell’Achillini e nel Vittori agli inizi del XVI secolo.7 In tutti gli autori appare, in ogni caso, ampia e documentata la conoscenza della letteratura oxoniense e parigina, dagli scritti di Thomas Bradwardine a quelli di Richard Swineshead, da William Heytesbury a Radulphus Strode, dal Buridano ad Horen, ad Alberto di Sassonia e a Marsilio di Inghen.8 D’altronde, fin dalla seconda metà del Quattrocento, a Padova, a Pavia e soprattutto a Venezia, furono stampate le opere più importanti dei fisici inglesi e parigini, fatta eccezione per quelle del Dumbleton, che oltre tutto risulta assai meno citato nella letteratura calculatoria italiana.9 Eppure, se ci si inoltra nel panorama filosofico del Cinquecento oltre il secondo decennio, ci si accorge che le polemiche scemano quasi improvvisamente; che il vasto fermento di studi sviluppatisi intorno alla logica calculatoria subisce un’impressionante battuta d’arresto, tanto che a fine secolo perfino la più usuale terminologia calculatoria, collegata a concetti essenziali, come intensio, remissio, latitudo, etc., è pressoché divenuta desueta o, al più, trova applicazione nelle accezioni generiche di aumento, diminuzione, estensione.10 Perciò, a differenza di quanto credono il Duhem e il Thorndike, l’influenza della tradizione calculatoria sulla nascita della scienza moderna fu assai debole se non addirittura inconsistente, perché, allorché tra la fine del ‘500 e gli inizi ‘600 si compirono, soprattutto a Padova, i passi decisivi in direzione della cosiddetta rivoluzione scientifica, le problematiche dei Calculatores oxoniensi non erano più che un vago e lontano ricordo. Certo possono essere state molteplici le cause di un così rapido ed improvviso declino e probabilmente le diverse ipotesi formulabili colgono solo aspetti diversi di un processo storico nella realtà assai complesso. Si può facilmente intuire che nel corso dei primi lustri del 500, nonostante la loro straordinaria diffusione, le problematiche mertoniane giunsero, per interno esaurimento, ad una fase di estrema sclerotizzazione e persero la loro originaria genuinità e vitalità.11 Si può altresì constatare che il loro innesto nella tradizione

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MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

culturale degli Studi padovano e bolognese non fu puramente passivo o privo di contrasti o reazioni più o meno velate di rigetto. Si può pensare ad una ripresa o reazione della forte tradizione aristotelica che proprio intorno agli anni Trenta espresse, con il Balduino, una nuova fioritura di studi sulla logica posterioristica o si può arguire che una nuova stagione filosofica si sarebbe inaugurata in seguito alla traduzione di Alessandro di Afrodisia fatta dal Donato, e che la più accurata conoscenza dell’antico commentatore non avrebbe mancato di aprire – come in effetti aprì – nuove prospettive di ricerca.12 Si può infine ricordare la ben nota avversione degli umanisti alle astratte formule logiche o alle ricerche puramente fisiche, spesso accomunate in un generico averroismo.13 Ma ciò che soprattutto ci preme sottolineare è che nel processo di crisi che si è evidenziato un ruolo decisivo ebbe l’intervento critico del Pomponazzi che si espresse, tra il 1514 e il 1515, nei due trattati De intensione et remissione formarum e De reactione, con l’annessa Quaestio de actione reali, ancor oggi poco studiati. Il Duhem14 sottovalutò la portata della reazione anticalculatoria del Pomponazzi e, riconducendola entro lo schema della cieca ed arretrata avversione umanistica alle novità della fisica oxoniense e parigina, espresse un giudizio fortemente ingeneroso. In anni più recenti il Wilson,15 pur ponendo marcatamente l’accento sulle matrici metafisiche della reazione pomponazziana, non ha mancato di rilevare come lo stesso Pomponazzi si collochi entro l’ottica calculatoria di un trattamento quantitativo delle qualità. In realtà il Peretto – come più avanti si tenterà di mostrare – se per un verso cercò di ricuperare all’interno della filosofia peripatetica le dottrine calculatorie, per un altro verso intuì che la quantizzazione delle qualità non trova sufficienti giustificazioni né sul piano empirico né su quello logico-matematico. 1.2. I prodromi della reazione pomponazziana Sappiamo che il filosofo mantovano condusse un’aspra battaglia sia contro le dottrine logiche sia contro quelle fisiche elaborate dai cosiddetti latini sophistae. La sua battaglia comincia assai per tempo proprio a Padova, che, come s’è detto, poteva considerarsi uno dei centri italiani più aperti alle influenze calculatorie. All’inizio la polemica non è condotta nel corso di lezioni tenute pubblicamente nello Studio patavino, ma è contenuta entro il perimetro delle discussioni private, come quelle che tra il 1494 e il 1496 si svolsero fra il Pom-

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ponazzi, il veneziano Girolamo Donato, traduttore di Alessandro, e il rodigino Lorenzo Dal Molino, un’autentica speranza della filosofia patavina («eamque de te spem dedisti ut non solum tempestatis nostrae philosophos facile superabis, verum inter priscos connumeraberis»), spentosi prematuramente nel 1504. Una traccia di tali discussioni ci è conservata nel codice Ambrosiano (Pirelliano), contenente il De maximo et minimo ad Laurentium Molinum, databile intorno agli ultimi anni del primo insegnamento padovano (1488-1496).16 È interessante notare che nel dibattito il Peretto è coinvolto in qualità di commentista ed è invitato dal Molino a sciogliere, alla luce della filosofia averroistica, le questioni sollevate dal difficile trattato De maximo et minimo di William Heytesbury. La polemica è proseguita dal Pomponazzi negli anni del soggiorno ferrarese presso la corte di Alberto Pio di Savoia, Signore di Carpi (1496-1499). Si tratta ancora di una polemica condotta in privato, come ci è chiaramente attestato dalla lettera che egli scrive al Pio 1’8 settembre 1514 (VI Idus Septembris MDXIV), ricordando la lunga discussione avuta con lui («quare inter nos longa habita est disputatio») circa i contrasti tra le dottrine esposte dal Calculator nel De intensione et remissione formarum (il primo dei trattati che compongono il Liber calculationum) e il pensiero di Aristotele: «Trovandomi con te a Ferrara e leggendo il trattato De intensione et remissione del Calcolatore, tu eri rimasto mirabilmente affascinato dal suo ingegno. Ma sebbene le sue argomentazioni ti sembrassero tanto più impetuose quanto più vistose, tuttavia tu sostenevi che la sua posizione non concordasse affatto con le parole di Aristotele, ragion per cui tra noi ci fu una lunga disputa».17 Solo a partire dai primi anni del secondo insegnamento padovano, probabilmente in occasione della lettura e commento della Physica aristotelica, le critiche del Pomponazzi contro i proportionistae da private diventano pubbliche e trovano nelle aule universitarie consensi, ma anche reazioni di sdegno e di disapprovazione. Di questioni afferenti alla problematica de intensione et remissione formarum si hanno tracce evidenti nella Quaestio de minimis, contenuta nel lacunoso codice Laurenziano Ashburn 1048, trascritto dal discepolo Tommaso Campeggi, come reportatio di un corso sulla Physica tenuto dal Peretto nell’anno accademico 1499-1500. Lo stesso codice contiene altresì una Quaestio a quibus gravia et levia moveantur, trascritta dal Campeggi e datata 30 gennaio 1503, ma sostanzialmente coincidente con la reportatio di mano del Surian, riferita ad un corso accademico sull’ottavo libro della Physica, tenu-

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to a Padova nel 1500.18 Al medesimo periodo padovano sembrano appartenere le Quaestiones breves n.XX4, le quali, incluse nel codice Ambrosiano e trascritte da Lodovico Speroni nel 1515, hanno tutta l’aria di essere un’eco di quelle disputationes circolari in cui proseguivano e si accendevano le discussioni originatesi nel corso delle lezioni.19 Vi si trovano sviluppate tematiche di diversa natura, in parte attinenti all’intensio e alla remissio delle forme, in parte connesse alle questioni fisiche relative al moto, in parte collegate alle problematiche del De reactione. È certo, tuttavia, che la battaglia pomponazziana contro le dottrine dei Calculatores non fu ben accolta negli ambienti padovani. Lo stesso Pomponazzi, richiamando alla memoria nel Prooemium del De reactione le polemiche suscitate, superioribus annis, su tematiche forse non molto diverse da quelle affrontate nelle Quaestiones breves, esprime rammarico e disappunto per i contrasti incontrati nella vita accademica padovana, incisivamente connotata come infelicissima e contrapposta tra l’altro a quella florentissima del Ginnasio bolognese: «Ma poiché negli anni scorsi nella sventuratissima Università di Padova ho esercitato questo compito di docente, ricordo di aver detto in merito alla questione proposta qualcosa che, soppesato al presente con più attenta cura, mi sembra soddisfacente».20 Ma in realtà i contrasti e le incomprensioni non dovettero mancare neppure negli ambienti accademici bolognesi. Ce ne dà una testimonianza lo stesso Pomponazzi nella lettera ad Alberto Pio, già citata, in cui ci fa sapere che nelle disputationes circulares appena conclusesi, e quindi presumibilmente nell’anno accademico 1513-1514, ritornando sul tema del conflitto tra il Swineshead ed Aristotele, fu ridicolizzato da quasi tutti per aver sostenuto che le dottrine calculatorie, oltre che essere lontane dalla verità, si pongono in netto contrasto con l’autorità degli antichi filosofi («Sed cum in disputationibus circularibus transactis, de hoc sermo haberetur, dixissemque Calculatorem et a vero et ab antiquis philosophis longe remotum esse, quasi ab omnibus ridiculus habitus sum»).21 Nello stesso anno accademico la polemica anticalculatoria si arricchì di taluni spunti in tema de reactione che, svolti nel corso di alcune lezioni sul terzo libro della Physica, troveranno una definitiva sistemazione nel trattato del 1515: Perciò nel 1514, quando nella fiorentissima Università di Bologna intrapresi a leggere questa sezione della filosofia naturale, mi trattenni dal trattare una questione di così grande difficoltà per non essere reputato un mero ripetitore di altri; e se avessi detto qual-

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cosa di mio, avrei aggiunto distorsioni a distorsioni ed avrei reso una questione oscura ancora più oscura… Perciò, ritenendo che sia ottimo comunicare agli altri questo nostro pensiero, ho compilato questo trattatucolo.22

Sulla decisione di dar mano ai due trattati un ruolo essenziale giocarono le insistenze e le pressioni del gruppo dei discepoli più fedeli tra cui meritano particolare menzione Paolo Bartoli, nobile fiorentino, nei cui confronti il Pomponazzi ha parole di grande riconoscenza («Victus tandem praecibus Pauli Bartholi, nobilis fiorentini, cui omnia debeo, morem gessi»), e Giovanni Matteo Virgili di Urbino. Quest’ultimo curò, com’è noto, la prima edizione del De intensione et remissione nel timore che il trattato rimanesse a lungo nelle tenebre («nequaquam diutius in tenebris latitare permisimus») con grave danno per i dotti («maxima iactura viris doctioribus») e nella ferma convinzione che esso avrebbe divincolato la verità dalle intricate ambagi del Swineshead («Quia tamen fore perspeximus ut plurimum utilitatis afferret his, qui hactenus perplexis ambagibus illius Suiseth involuti, veritatem inspicere nequiverunt»).23 1.3. Il De intensione: la sua origine e la sua composizione in forma dubitativa Il De intensione et remissione è il primo dei trattati compresi nel Liber calculationum, composto intorno al 1350 e pubblicato con emendazioni del Magister Artium et Medicinae Johannes de Cipro nella rarissima edizione padovana del 1477 e successivamente nella edizione scotiana (Venetiis 1520). Pomponazzi porta a termine il suo trattato De intensione et remissione formarum il 14 agosto 1514, nel giorno della festività di S. Agostino. La data di composizione si evince dall’explicit che recita testualmente: «Explicit sectio sexta continens duodecim capitula. Et est finis totius tractatus. Ad laudem Dei omnipotentis et divi Augustini in cuius festivitate Ego Petrus, filius Joannis Nicolae Pomponatij de Mantua, finem imposui dicto tractatui anno Christianorum MDXIV. In civitate Bononiae. Annoque secundo Leonis decimi Summi Pontificis».24 La lettera di Giovanni Matteo Virgili non è datata; invece di qualche giorno successivo alla conclusione del trattato è l’epistola dedicatoria ad Alberto Pio di Carpi che reca la data 13 settembre 1514. Infine il trattato vide la luce il 10 di dicembre 1514 a Bologna per

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Hieronymum Platonidem de Benedictis con il titolo Tractatus in quo disputatur penes quid intensio et remissio formarum attendantur: nec minus parvitas et magnitudo. Con lo stesso titolo fu ristampato a Venezia nell’edizione scotiana del 1525. L’anno successivo, l’11 agosto 1515, Pomponazzi poneva fine al trattato De reactione, dedicato all’amico e discepolo Gasparo Contarini, che sarà in seguito il primo ad aprire la polemica contro il De immortalitate animae. La data di composizione si evince come al solito dall’explicit che recita: «explicit... totus tractatus Bononiae XI augusti MDXV. Anno tertio Pontificatus Leonis decimi». Probabilmente il trattato doveva essere già pronto da circa un mese, poiché la lettera dedicatoria al Contarini reca la data del 13 luglio 1515. La Quaestio de actione reali, è pronta appena qualche giorno dopo la conclusione del De reactione. Dall’explicit essa risulta terminata il 15 agosto 1515 nel giorno dell’assunzione, nella Cappella di Santa Lucia Vergine («finis impositum est per me Petrum filium Ioannis Nicolai de Pomponatiis de Mantua die xv Augusti in quo celebratur assumptio gloriosissimae Virginis Matris Dei. Anno MDXV qui fuit tertius Pontificatus Leonis Decimi in capella Sanctae Luciae Virginis»). La lettera dedicatoria a Ludovico Panizza reca la data del 12 agosto dello stesso anno. La loro stampa congiunta a Bologna in aedibus Benedicti Hectoris Bononiensis, fu pressoché immediata poiché era già pronta in data 5 settembre 1515. Entrambe furono ristampate nella citata edizione veneziana del 1525. Nei due Proemia l’autore ricorda le circostanze, cui si è già accennato, che furono all’origine della composizione dei rispettivi trattati, nonché le difficoltà che egli stesso incontrò nell’aderire alle pressioni dei discepoli e nel chiarire a sé stesso le ardue ed intricate questioni collegate alla logica calculatoria, confessando che spesso, nell’aggredirle, gli parve di essere nella condizione di colui che quanto più stringe tra le mani l’anguilla, più se la sente sfuggire: «Mi è testimone Dio che, avendo frequentemente tentato di aggredire la questione, mi capitò ciò che di solito si dice nel proverbio: ‘Chi più stringe con la mano un’anguilla, meno la trattiene, poiché più agevolmente gli sfugge’. Così anch’io, quanto più mi prefissi di capire, meno compresi».25 In entrambi i trattati la confutazione delle tesi mertoniane è condotta nello spirito di una dichiarata difesa dell’aristotelismo e della filosofia antica. Il proemio del De reactione sottolinea che i fisici oxoniensi mettendo in dubbio talune dottrine aristoteliche, hanno imbastito argomentazioni intricatissime e di difficile soluzione:

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Sull’assunto di questa proposizione, per quanto io ne sappia, nessuno dei greci, né alcuno dei nostri antichi autori ha espresso dubbi. Ma contro tale assunto i commentatori più recenti, soprattutto inglesi, hanno sollevato dubbi così sottili ed hanno elaborato argomentazioni così difficili che per quanto abbiano faticato per districarli illustrissimi dotti, a mio parere, non sono riusciti a venirne a capo.26

Analogo assunto si riscontra nel proemio del De intensione et remissione ove la difesa dello Stagirita è posta come un’istanza ineludibile dai discepoli del Pomponazzi, insoddisfatti tra l’altro di quanto già in precedenza aveva tentato di fare il milanese Giovanni Marliani. Ed anzi nel De intensione et remissione la difesa di Aristotele è subito connessa all’esigenza di ricuperare la metafisica antica contro l’orientamento prevalentemente terministico della logica calculatoria. Evidentemente tra la fine del ‘400 e i primi anni del ‘500, com’è attestato tra l’altro dagli scritti polemici del Vittori e dell’Achillini, era assai viva negli ambienti padovani e bolognesi l’istanza di arginare il dilagare delle dottrine oxoniensi che forse cominciavano ad apparire in qualche modo scolastiche e superate o comunque non più foriere di sviluppi e di prospettive nuove. Non molto ampio appare nel De intensione et remissione lo spettro delle citazioni, tratte dalla letteratura calculatoria: fra gli autori del Merton College, oltre al Calculator, che è evidentemente l’oggetto immediato della polemica, merita qualche citazione il Bradwardine del quale tra l’altro il Pomponazzi dichiara di non aver potuto leggere né il Tractatus de proportionibus, né alcun altro scritto («Ad illud de proportione maioris aequalitatis quid dicat ille venerabilis Thomas de Baduardino, ego nescio, quia nunquam vidi aliquid illius»).27 Fra i Doctores parisienses è citato Alberto di Sassonia,28 il cui Tractatus de proportionibus, divenuto ormai di uso comune, è considerato un lucido e sistematico compendio dell’aritmetica del Boezio;29 fra i filosofi italiani, influenzati dalle idee calculatorie, v’è menzione del De intensione et remissione formarum di Iacopo da Forlì, reputato vir celleberrimus (sic) et divini ingenii, di Giovanni Marliani e del conterraneo Pietro Mantovano, vir certe acutissimi ingenii, di cui è ricordato il trattato De instanti.30 Gli altri autori citati rientrano nel più tradizionale bagaglio culturale del Pomponazzi. Oltre ad Aristotele, che è evidentemente l’oggetto immediato dell’impianto apologetico, frequentissime sono le citazioni di Averroè, accanto a medici, come il Galeno del Liber complexionum o dell’Ars parva, e ad autori della tradizione cattolica, come Agostino,

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Dionigi l’Areopagita, Duns Scoto e Tommaso d’Aquino. Un’unica menzione, tra l’altro mutuata dal commento tomistico al De caelo et mundo, merita Alessandro di Afrodisia.31 Ma se insufficienti o scarni possono apparire i riferimenti alla letteratura calculatoria, si può tuttavia essere certi che il Pomponazzi ne aveva un’accurata conoscenza, com’è dimostrato dalle più frequenti citazioni che compaiono nel Tractatus de reactione, composto ad appena un anno di distanza. In ogni caso la lettura del De intensione et remissione e del De reactione è resa difficile non solo o non tanto per le abbondanti abbreviazioni, quanto per il caratteristico impianto dei trattati pomponazziani che ancora risentono del costume tipicamente medievale di passare dalle tesi alle obiezioni, alle repliche e alle contro-obiezioni e soluzioni che rendono snervante il lavoro del più tenace interprete. Ma forse questo procedimento è un tentativo di allinearsi al modello aristotelico che si realizza e si esprime più che in forma didascalica o dimostrativa, nell’andamento talvolta tortuoso di una impostazione euristica e dubitativa, come d’altronde dichiara esplicitamente l’autore sottolineando di aver preferito un procedimento «non quidem per modum certae et demonstrabilis conclusionis, sed magis per modum dubitantis et veritatem scire cupientis».32 1.4. Il De intensione e la quantizzazione delle qualità La questione fondamentale intorno a cui ruota tutto il trattato pomponazziano è ovviamente quella, di matrice prettamente calculatoria, di valutare la possibilità di procedere ad una quantizzazione delle qualità e più in concreto di stabilire in che modo è possibile misurare l’intensificarsi (intensio) o l’attenuarsi (remissio) di una determinata qualità in una scala di valori o di gradazioni che i Calculatores indicano con il termine latitudo. La latitudo, che è un termine pressoché intraducibile nella lingua volgare, indica l’estensione di una qualità o se si preferisce l’ampiezza della gamma di valori o di gradazioni che essa può assumere se si suppone che tali gradazioni vanno da un limite minimo, che è il grado zero dell’intensità o il grado massimo dell’attenuazione, al grado massimo dell’intensità che corrisponde al grado zero dell’attenuazione. Per tacita convenzione il grado sommo è solitamente fissato nella misura di 8. In realtà il tema della intensità e attenuazione delle forme nasce sul terreno dell’aristotelismo ed anzi è concepito dai Calcolatori come una sor-

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ta di completamento o di perfezionamento della teoria aristotelica dell’alterazione o cangiamento che è al centro del libro I del De generatione et corruptione. Accanto alla generazione e alla corruzione che riguardano mutamenti da una sostanza all’altra, si collocano i mutamenti quantitativi dell’accrescimento e della diminuzione, che riguardano il passaggio da una quantità all’altra, e i mutamenti qualitativi, che restano in Aristotele privi di denominazione e riguardano il passaggio da una qualità all’altra. Il progetto del Calcolatore è quello di quantizzare quest’ultimo processo, senza confonderlo con i mutamenti quantitativi, che restano quelli dell’accrescimento e della diminuzione, ma di intenderlo come un processo per cui si passa da una qualità quantificata ad un’altra qualità quantificata e viceversa, si passa cioè da una qualità più intensa ad una più attenuata o viceversa. Per la verità il problema, posto ancor prima dei Calculatores, si sviluppò nel pensiero medievale soprattutto sul terreno teologico in tema di aumento e diminuzione della carità, secondo le indicazioni fornite da Pietro Lombardo nel I Sententiarum. Nei numerosi commentari che chiosarono il testo del Lombardo prevale la tesi che l’intensio o incremento di una qualità sia spiegabile in termini di accumulazione, cioè di aggiunta o somma di parti, proprio come accade – secondo l’esempio pomponazziano – in un cumulo di pietre: come nell’accumulazione delle pietre, così che per giustapposizione di una pietra all’altra, permanendo l’una e l’altra, cresca il cumulo delle pietre, così per aggiunzione di un determinato grado di calore ad un grado precedente, permanendo entrambi i gradi, si determina quella intensità.33

Analogo concetto si rinviene anche nel Liber calculationum: «Nam capiatur caliditas summa tunc ista caliditas componitur ex partibus qualitativis ut quantitas ex suis partibus quantitativis».34 Ma il Swineshead, pur non abbandonando del tutto l’ipotesi di tale processo addizionale, introduce numerosi elementi di novità e, fondando il suo tentativo di quantizzazione delle qualità sullo spazio geometrico e sulla nozione di continuum, assimila l’intensio e la remissio rispettivamente alle nozioni geometriche di distanza e di vicinanza.35 Naturalmente tutta la problematica dipende dall’individuazione o del gradus summus o del non gradus, come punto di riferimento da cui partire nella determinazione della misura. Sicché risultano formulabili quattro ipotesi in relazione alla possibilità di misurare l’intensio e la remissio come distanza o vicinanza

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rispetto all’uno o all’altro dei due punti di riferimento individuati. Una quinta ipotesi può essere formulata in termini di mescolanza, se si misurano l’intensio e la remissio di una qualità in rapporto rispettivamente alla minore o maggiore mescolanza (admistio) con la qualità contraria. Quest’ultima ipotesi, che pure al Pomponazzi appare schiettamente aristotelica («quae videtur esse Aristotelis»), è, invece, sprezzantemente respinta dal Swineshead («Et mirum est quomodo Calculator ita spreverit eam»).36 In realtà l’interesse centrale del trattato pomponazziano si concentra sostanzialmente su due ipotesi. La prima, già respinta dal Swineshead nel Liber calculationum senza esplicito riferimento all’autore, è riconducibile ad Aristotele ed è condivisa e difesa dal Peretto. Essa assume come punto di riferimento il grado sommo ed interpreta la misura dell’intensio e della remissio rispettivamente come appropinquatio e accessum ad summum e come distantia e recessum ab eodem.37 La seconda ipotesi, che è quella fatta propria dal Swineshead, individua come punto di riferimento il non grado e, conseguentemente, determina la misura dell’intensio e quella della remissio rispettivamente come distantia a non gradu e appropinquatio allo stesso. Questa tesi, in apparenza elementare, ha in realtà implicazioni e conseguenze piuttosto complesse sul piano logicomatematico. Nella logica del Calculator, infatti, l’intensio e la remissio sono inversamente proporzionali, così che, se si indicano con i1 e i2 due qualsivoglia gradi d’intensità finita di una determinata qualità e con r1 ed r2 i corrispondenti gradi finiti di remissione, il loro rapporto può essere espresso dalla seguente proporzione: i1 : i2 = r2 : r1

La tesi del Swineshead si comprende se supponiamo che i1 e r1 rimangono costanti e che al tendere di i2 a zero, r2 tende all’infinito e, viceversa, al tendere di r2 a zero, i2 tende all’infinito. In realtà il Calcolatore rimane intrappolato nella logica zenoniana. Le sue obiezioni, o se si preferisce le sue aporie, che agli occhi di Pomponazzi hanno tutto il sapore di ragionamenti sofistici, muovono dal principio zenoniano della divisibilità all’infinito di una quantità finita. Da ciò – secondo il Calculator – derivano le seguenti difficoltà connesse al problematico rapporto tra finito ed infinito: 1) il grado sommo, che è il grado infinito dell’intensità ed è corrispondente al grado zero della remissione, è sempre in qualche modo remissus;38 2) i gradi finiti sono infinitamente distanti dal sommo e quindi sono

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tutti ugualmente remissi;39 3) non è possibile usare il grado sommo come punto di riferimento o come punto di partenza per determinare una scala di valori o gradi d’intensità (latitudo intensionis). Le medesime difficoltà si dovrebbero in realtà riscontrare in riferimento ai gradi di remissione, poiché dalla proporzione succitata risulta che il grado zero dell’intensità corrisponde al grado infinito della remissione. Ma il Swineshead aggira l’ostacolo, insistendo sul fatto che i gradi di remissione sono in rapporti di reciprocità con i gradi di intensione e che pertanto questi ultimi sono facilmente misurabili a partire dal grado zero dell’intensione, essendo finita la loro distanza da esso. Ed invero egli postula in un certo senso una qualche sfasatura fra la latitudo remissionis e la latitudo intensionis. Ciò perché la latitudo che si estende fra ciascun grado determinato e il grado zero della remissione (coincidente con il grado sommo dell’intensione) è infinita, mentre quella che si estende fra ciascun grado determinato e il grado infinito della remissione (coincidente con il grado zero dell’intensione) è finita. Ed è questa la ragione per cui a partire dal non grado risulta – secondo il Calculator – più agevole e più facilmente determinabile la mensura dei gradi d’intensio, mentre quella dei gradi di remissio è data, per ipotesi, dai corrispondenti reciproci. Naturalmente ciò significa altresì che per il Swineshead la latitudo remissionis non è uniforme, perché i gradi di remissione hanno una distribuzione più rarefatta in prossimità del grado zero della remissione (o grado sommo dell’intensione) e ne hanno, invece, una più densa in prossimità del grado infinito della remissione (o grado zero dell’intensione).40 Queste tesi sono recisamente respinte dal Peretto, il quale si muove lungo un binario parallelo, ma opposto a quello del Swineshead e ritorce contro di lui, in relazione alla scelta del non grado come punto di riferimento le medesime difficoltà derivanti dal rapporto tra finito ed infinito. Su un piano prettamente logico-matematico le sue critiche vertono sui seguenti punti: 1) occorre determinare in termini più rigorosi le nozioni di distantia e di appropinquatio; 2) va respinta l’ipotesi che il grado sommo sia in qualche modo remissus; 3) va eliminata la sfasatura fra latitudo remissionis e latitudo intensionis e va riconosciuto che esse sono sostanzialmente coincidenti, uniformi e finite; 4) vanno evitate le contraddizioni derivanti dall’ipotesi che l’intensio e la remissio sono inversamente proporzionali, riconoscendo che fra esse sussistono solo differenze aritmetiche. In apparenza il Pomponazzi pare collocarsi all’interno della logica calculatoria ed anzi potrebbe sembrare che la sua polemica con

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il Calculator si riduca – come appunto ritiene il Wilson41 – ad una pura e semplice divergenza circa il modo d’intendere la quantizzazione dell’intensio e della remissio. In realtà il contrasto è assai più radicale di quanto non appaia a prima vista ed affonda la sue radici in due opposte intuizioni filosofiche. Da una parte i Calculatores si muovono in una prospettiva terministica o nominalistica, dall’altra il Pomponazzi si richiama al più genuino aristotelismo e contrappone ai logici oxoniensi le istanze della metafisica antica. Di tale contrasto di fondo è ben consapevole il filosofo mantovano che, per un verso, accusa esplicitamente i Calculatores di riprendere le ragioni della secta nominalium sive ochamistarum42 e, per un altro verso, ricollega idealmente la propria tesi, oltre che ad Aristotele, a Platone, ad Agostino, a Dionigi l’Areopagita e a Ficino, citando a conferma alcuni luoghi tratti rispettivamente dal Filebo, dalle Confessiones, dal De caelesti hierarchia e dalla Theologia platonica.43 Il punto d’incontro fra gli autori citati è l’idea che la perfezione è il termine di riferimento ed è la mensura per sé e per l’imperfezione, secondo il principio largamente accettato, per cui summum et perfectum dicuntur esse regula perfecti et imperfecti o, se si preferisce, rectus est iudex sui et obliqui.44 Tale orientamento metafisico, risalente al neoplatonismo di Proclo e del Liber de causis, ripreso da Alberto Magno, da Tommaso e da Duns Scoto, aveva trovato recenti epigoni in Padova in Gabriele Zerbi, Domenico Grimani, Gasparo Contarini e Marco Antonio Zimara.45 Ad ogni modo, pur tenendo ferma la nozione metafisica di forma come modello o paradigma, il Pomponazzi ritiene percorribile l’ipotesi calculatoria della quantizzazione delle qualità e tenta di conciliarla con la filosofia aristotelica. Egli era, infatti, fermamente convinto che il progetto oxoniense non costituiva affatto un superamento della vecchia interpretazione aristotelico-qualitativa della natura. Ma proprio questa ostinazione a ritenere la logica calculatoria compatibile con l’impianto generale dell’aristotelismo, mostra, al di là di quanto lo stesso Pomponazzi potesse supporre e congetturare, come il programma oxoniense fosse in realtà sostanzialmente estraneo allo spirito della scienza moderna, per la cui nascita fu essenziale un’intuizione quantitativa della natura, che è tutt’altra cosa rispetto all’idea di un trattamento matematico delle antiche essenze-qualità. Ciò che comunque va ascritto a merito del Peretto, anch’egli in verità assai lontano dallo spirito della scienza moderna, è che egli ben comprese come l’applicazione della metodologia matematizzante dei Calculatores fosse sostanzialmente riconducibile alla loro origi-

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naria vocazione sofistica e dialettica e risultasse priva di un’adeguata giustificazione scientifica e di una solida ed oggettiva fondazione nella struttura stessa della realtà fisica. A differenza degli oxoniensi, che ritennero giustificate ex se le calculationes, il Pomponazzi intuì che andava, invece, posto un problema di fondazione. Ma se per un fisico moderno come il Galileo l’approccio matematizzante trova la sua fondazione e la sua giustificazione nella struttura matematicoquantitativa della natura, per l’aristotelico Peretto la questione della fondazione è naturalmente una questione metafisica. Sono questi, in realtà, i limiti oggettivi – ed anzi, storicamente oggettivi – delle posizioni teoriche del Pomponazzi e dei Calculatores. La comune accettazione di un universo sostanzialmente qualitativo tradisce il loro legame storico e culturale con una tradizione di pensiero essenzialmente medievale e spiega perché le loro dottrine non incisero significativamente sulla nascita del moderno sapere scientifico. 1.5. Il De intensione tra matematica, fisica e metafisica Entrando nei dettagli della polemica pomponazziana, possiamo dire che essa si sviluppò lungo quattro direttrici fondamentali: quella logico-matematica, quella linguistico-terminologica, quella empirica e quella metafisica. Esse si intrecciano variamente nel contesto del trattato, ma nel complesso concorrono a smantellare puntigliosamente e minuziosamente le idee centrali intorno a cui ruota la tesi swinesheadiana. Uno dei primi concetti a cadere sotto i colpi della critica pomponazziana è quello di distantia e per converso di appropinquatio rispetto al non gradus. L’obiezione del Peretto è che non si può propriamente parlare di distantia a non quanto perché la distanza, essendo un medium cadens inter ea quae distant, non può sussistere fra il quantum e il non quantum, che oltretutto, per essere fra loro opposti, non ammettono un medium. Ma anche se si pone una distanza fra il quantum e il non quantum, non si può sfuggire all’alternativa di stabilire se essa è infinita o finita. Se è infinita, come comunemente ammettono i teologi, i quali convengono che fra l’ens e il non ens vi è un’infinita distanza, ne consegue che tutte le cose sono ugualmente grandi per essere infinitamente distanti dal non quanto («Sed tunc omnia sunt aequaliter magna, quia omne quantum per infinitum distat a non quanto»). Se, invece, la distanza è finita, non è possibile immaginare sotto quale rapporto numerico essa possa essere compresa («Si vero finita, non est fingere sub quo

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numero comprehendatur»).46 Qui evidentemente il Pomponazzi rileva non solo che la mensura, nella logica calculatoria, rischia di diventare arbitraria se non addirittura indeterminabile, ma anche che essa, priva di un oggettivo fondamento, perde il carattere scientifico e rischia di inquadrarsi in una fictio. D’altro canto, il Swineshead trae dalle sue premesse le estreme conseguenze fino ad affermare che lo stesso grado sommo, in quanto finite appropinquat non gradui, è in qualche modo remissus. Contro questa ipotesi il Pomponazzi reagisce energicamente. Dire che il sommo, proprio in quanto sommo, è remissus significa fare – egli avverte – un’affermazione abominevole e parlare da uomo che ignora i termini e che non è capace né di filosofia né di alcunché di buono: «Quare dicamus quod dicere summum, qua summum est, esse remissum est in ultimo abominationis, et hominis ignorantis terminos, neque capacis nullius boni».47 Significa cadere in palese contraddizione, perché è come dire che il bianco è nero e che il vivo è morto. E combattere una tale opinione è come combattere contro chi nega il moto o la pluralità degli enti. Perciò i Calculatores sono simili a coloro che dicono solo parole magnifiche mentre in realtà, pur essendo ciechi dalla nascita, disputano e sillogizzano sui colori; possiedono le parole, ma non i concetti: «Dicunt verba magnifica, sunt tamen sicut caeci a nativitate loquentes et syllogizantes de coloribus; qui verba habent et non conceptus».48 Per demolire le loro tesi non c’è altro mezzo che sciogliere i loro paralogismi e portare alla luce le contraddizioni insite nelle loro premesse. Ora, la contraddizione di fondo del Calculator sta nell’affermare che il sommo dista dal non grado tanto quanto gli si avvicina. Una volta egli usa i termini ‘distare’ e ‘avvicinare’ in senso relativo e un’altra volta li usa in senso assoluto. In realtà il sommo, per essere intensissimo, dista al massimo dal non grado e di ciò che dista al massimo non è possibile dire anche che si avvicina, altrimenti si darebbe una distanza maggiore di quella massima. Ma questa è affermazione affatto indecorosa («quo nihil inverecundius dici potest»).49 D’altro canto – obietta il Pomponazzi – su un piano puramente logico il remissus è tale solo rispetto a ciò che è più intenso, ma in una latitudo determinata non v’è nulla rispetto a cui il grado sommo possa dirsi remissus. In realtà il Calculator ritiene che esso sia remissus rispetto alla velocità del moto, che aumenta all’infinito. Ma proprio in ciò appare manifestamente il suo errore («peccatum eius»), perché – osserva acutamente il Pomponazzi – la mensura presuppone l’omogeneità del misurante e del misurato e non c’è «comparatio

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inter aliqua nisi ut conveniunt in aliquo communi».50 Pertanto colui che commisurasse la caliditas summa con la velocitas motus commetterebbe lo stesso errore di chi, ritenendo di poter confrontare la grandezza dell’uomo con quella dell’elefante, giungesse all’erronea conclusione che il maximus homo è in realtà un parvus homo solo perché è un parvum animal rispetto all’elefante. Insomma, l’esigenza di chiarezza passa – secondo il Pomponazzi – attraverso una scelta decisiva: quella di stabilire se l’intensio e la remissio devono essere assunte pro motu o pro formis quiescentibus.51 Assumerle pro motu significa ammettere che esse costituiscano una sorta di motus in quantitate, talché l’intensio è il moto per cui la qualità «de non gradu devenit ad certum gradum; immo magis de gradu imperfecto devenit ad perfectum». Ma ciò significa ricondurre ancora una volta l’intensio all’aumento o aggiunta di parti, che di per sé è un processo infinito, con il rischio di trovarsi di fronte a solemnes difficultates,52 che sono poi quelle connesse alla vexata quaestio dell’infinito attuale o potenziale. E sono le stesse difficoltà che obbligarono il Calculator a riconoscere come remissus il grado sommo, poiché in termini puramente matematici il processo addizionale delle parti può procedere all’infinito ed è quindi sempre possibile pensare qualcosa di maggiore del sommo. Contro questo rischio il Pomponazzi si richiama al commento di Averroè al testo aristotelico del terzo libro della Physica,53 in cui si fa cenno all’infinito potenziale. Egli perciò rileva che se si pone il sommo, si dà inevitabilmente la seguente alternativa: o l’affermazione che qualcosa è matematicamente maggiore di esso («si mathematice aliquid est maius») si rivela un’operazione dell’immaginazione («idest imaginatur maius») oppure ciò che si è posto come sommo non è veramente tale («neque si imaginemur gradum intensiorem summo; tunc non imaginamur ipsum esse summum. Unde sic considerando non esset summus»). Quindi – secondo il commento averroistico – le proposizioni matematiche che hanno per oggetto la sfera dell’infinito appartengono al dominio dell’immaginazione e non a quello della realtà fisica («nam secundum Commentatorem sexagesimo commento tertij physicorum tales propositiones sunt de imaginatione et non de re»).54 Per evitare quella nominum aequivocatio che spesso è all’origine di molti paralogismi tipici dei Calculatores, l’intensio e la remisio vanno assunte pro formis quiescentibus, ovvero come soggetti suscettibili di alterazioni qualitative. Ma ciò che soprattutto il Pomponazzi rileva è che sia sul piano linguistico-terminologico sia su

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quello concettuale l’uso della terminologia matematica da parte dei Calculatores non solo non è rigorosamente coerente, ma è altresì arbitrario o – come meglio egli si esprime – metaforico. Così si parla spesso di maggiore o minore distanza, senza però aver prima determinato che cosa significhi distanza, qual è la misura atta a misurarla («scire oportet mensuram metiendi istam distantiam»)55 e, soprattutto, se nei rapporti qualitativi essa può avere lo stesso valore che ha in relazione alla nozione di luogo o se, invece, non è che una pura e semplice metafora. Qui forse il conflitto culturale e scientifico fra il Peretto e il Calculalor si manifesta in tutta la sua evidenza. Se nel Swineshead v’è un uso ingenuo e acritico del metodo matematizzante, senza alcuna preoccupazione in ordine ai presupposti ontologici, nel Peretto, invece, v’è la convinzione che esso sia arbitrariamente giustapposto o sovrapposto all’essenza qualitativa della natura. Ancorché costituire uno strumento utile alla descrizione della natura, la matematica è per il Peretto un rivestimento, una rappresentazione o immagine (figura), che, associando il qualitativo al quantitativo, vale solo ad indicarci una somiglianza o una metafora dai contorni sfumati e in qualche modo oscuri.56 Si direbbe, anzi, che talvolta le posizioni del filosofo mantovano appaiano ancor più radicali. Spesso nel contesto del suo discorso la terminologia matematica è associata a derivati dei verbi fingere ed imaginari. Ed è ancor più interessante il fatto che, richiamandosi alla nozione di materia intelligibilis,57 identificabile forse con lo spazio geometrico o più genericamente con il concetto astratto di continuum, che secondo Aristotele costituisce la materia propria degli enti matematici, deliberatamente egli usi l’espressione: materia imaginabilis sive intelligibilis.58 Ove l’aggiunta imaginabilis non è ovviamente un’aggiunta di poco conto, perché conferma che per il Peretto la matematica, pur caratterizzata dalla più alta certezza dimostrativa, è tuttavia circoscritta entro la sfera dell’intelligibile puro che, in quanto tale, è irreale e non ha ricadute né sul piano fisico né su quello metafisico. Fisica e matematica sono perciò tra loro nello stesso rapporto in cui sono la sfera della realtà e quella del pensabile (si sarebbe tentati di dire dell’immaginario). Da ciò dipende la sfasatura che sussiste fra il discorso fisico e quello matematico sul grado sommo: «Neque nos negamus quod gradus qui est summus ex natura, quin mathematice posset imaginari intensior. Sed statim sic non diceretur summus et quaestio est de relatione reali quae exigit extrema realia».59 Per di più, la matematica ci rende forse più intelligibili i rapporti qualitativi d’intensio e di remissio, ma non ci dice nulla sulla loro

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causa efficiente o su quella finale: «Sed de causa effectiva et finali non se intromittunt mathematici. Et ideo ... in eis non est bonum, idest, non considerant bonum».60 Ciò significa, per il Pomponazzi, che la metodologia matematica è qualcosa di aggiunto e di sovrapposto alla realtà fisica. Reale è la qualità e la natura rimane ancora per lui, come d’altronde per i Calculatores, un universo essenzialmente qualitativo. E, finché si rimane chiusi in questa visione aristotelico-medievale, il discorso matematico non può non apparire che un discorso infondato o, al più, metaforico. Proprio per questo il Pomponazzi tiene nettamente distinto il piano fisico da quello matematico. Gli equivoci e le contraddizioni dei Calculatores nascono dal fatto che essi hanno arbitrariamente intrecciato fra loro i due piani. Ora, la riflessione sull’intensio e sulla remissio può rimanere su un piano puramente fisico se cerchiamo di conoscerle per causam o per signum sive effectum, ma può tenersi entro i confini della matematica se l’indagine verte sulla misura, cioè per quid mensuramus quantitatem rei, sulle quantità finite e infinite, sulle relazioni fra l’uguaglianza e la disuguaglianza e sui rapporti aritmetici e geometrici. Ma, quando si leggono gli scritti dei Calculatores – osserva il Peretto – ci si accorge che essi invadono solo talvolta il piano fisico o metafisico e si occupano prevalentemente di quello matematico. Perciò le loro dottrine, se pure possono meritare il nome di scienza, sono tutt’al più scienze medie tra la fisica e la matematica e sono in tutto simili alla Perspectiva di cui si discorre nel secondo libro dei Physicorum.61 Questa stessa netta separazione e contrapposizione fra fisica e matematica è più esplicitamente e forse più incisivamente ribadita nel De reactione: «L’errore di questi autori – egli dice – proviene dal fatto che essi mettono a confronto gli enti naturali con quelli della matematica e credono che tutte le cose che si dicono in matematica si accordino con la filosofia naturale; il che è oltremodo falso».62 In ogni caso il Pomponazzi ritiene che su un piano puramente matematico i termini distantia e appropinquatio hanno il loro vero e proprio significato in relazione al luogo e che il loro uso più corretto si riferisce alla quantità, specialmente a quella discontinua. Ed invero distano fra loro le cose che non sono simultaneamente nello stesso luogo o quelle fra i cui luoghi sussiste uno spazio intermedio. Ma, preso in questa accezione, il termine distantia – e per converso appropinquatio – perde significato quando si assume come punto di riferimento il non quantum o il non gradus, poiché né l’uno né l’altro sunt in loco. La difficoltà non si elimina neppure se si passa dal piano concreto della geometria, che non prescinde dal luogo, a

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quello astratto dell’aritmetica, che invece astrae da esso. Né meno contraddittorio è l’uso del termine distantia in rapporto ad una quantità permanente come può essere quella di un piede. Ed invero fra il piede e il non quanto non esiste nessuno spazio intermedio e più in generale non esiste un medio fra l’ente e il non ente. Se, poi, si pone come termine medio una qualsiasi misura inferiore al piede, questa – osserva il Pomponazzi – più che un medium fra il piede e il non quanto, non è che uno dei termini della progressiva divisione del piede in infinite parti medie. Perciò, quando i Calculatores dicono che il piede dista dal non quanto, usano il termine distanza per sineddoche, assumendo la parte per il tutto. Allo stesso modo si dice che la casa dista da terra, benché in realtà sia a diretto contatto con la terra.63 Anche il termine appropinquatio, usato dal Swineshead come privativamente opposto a quello di distanza, genera equivoci e contraddizioni. Infatti, se la vicinanza è la totale negazione della distanza, secondo il noto principio aristotelico quod ponit habitus negat privatio, ne deriva l’assurda conseguenza che il parvum, non avendo termini intermedi rispetto al non quanto, risulta assolutamente privo di quantità. Ed è evidente che se l’impiego dei termini vicinanza e distanza rendono problematica, se non addirittura insidiosa, la possibilità di determinare la mensura della magnitudo e della parvitas in rapporto al non quanto, lo stesso accade per l’intensio e la remissio se sono intese rispettivamente come distanza e vicinanza rispetto al non grado. Per uscire dall’impasse si può supporre che i termini distanza e vicinanza abbiano un uso transuntivo che faccia riferimento alla quantità continua. Ciò perché – secondo il Pomponazzi – la quantità continua ha la proprietà di produrre una distanza (facere distare)64 fra le sue parti, le quali non solo presentano una differenza reciproca, così che l’una non si identifica con l’altra, ma sono anche distanziate secondo il luogo, come accade nelle quantità discrete. In questo senso la qualità può essere considerata per modum quantitatis65 quasi per una sorta di convenzione, se non addirittura per una vera e propria fictio, come può essere il caso del calore quando lo immaginiamo come alcunché di continuo che a partire dal non grado cresce di un certo numero di gradi che si collocano a distanza reciproca in un ordine spaziale o temporale, benché nessuno di essi sia situabile in un luogo. Ma tale uso transuntivo di distanza e di vicinanza non sembra trovare riscontro ad mentem Calculatoris perché secondo l’ipotesi del logico oxoniense esse si oppongono privativamente, come la cecità si oppone alla visione. Così l’appro-

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pinquatio è la negazione in toto della distanza e, di conseguenza, il parvum è affatto privo di grandezza continua. Si potrebbe anche supporre che il Swineshead abbia inteso l’opposizione privativa fra distanza e vicinanza in un senso puramente comparativo e non positivo, così che esse si neghino solo in parte e non in toto e si trovino nello stesso rapporto in cui sono il vedente e il semicieco. Ma anche tale ipotesi non è compatibile cum dictis Calculatoris perché questi, nel dimostrare la tesi che il grado sommo è remissus, usa il termine distare non in senso comparativo, ma in senso assoluto. Infatti, egli ritiene che il grado sommo è remissus in quanto è a una distanza assoluta dal non grado («per simpliciter distare et non per magis distare») e che non sarebbe più remissus di quanto è ora neppure se si desse un grado più intenso di esso («non esset remissior quam nunc est, sed praecise esset sub tanta remissione sicut nunc»).66 Perciò il Pomponazzi accusa il Swineshead et eum sequentes di non aver saputo dare una rigorosa definizione di distanza e di vicinanza e soprattutto di non averne fatto un uso coerente con le loro stesse dichiarazioni: «Non consequenter ad sua dicta dixisse de distantia a non gradu et propinquitate ad eundem non gradum».67 Anzi, un esempio della confusione e della contraddizione del Calculator è dato dalla difficoltà che egli ha di stabilire una mensura tanto in rapporto al grado sommo quanto in rapporto al non grado. Infatti, se si pone per ipotesi che il grado sommo è 8 e se si misurano la distanza e la vicinanza dei gradi 4 o 6 in termini assoluti, si ha l’assurda conseguenza che il grado 4, che più dista dal sommo, gli è anche più vicino, perché si avvicina al sommo di 4, mentre il grado 6 si avvicina di 2. Per evitare l’impasse, il Swineshead immaginò (finxit)68 che la vicinanza denominata da un termine minore è maggiore della vicinanza denominata da un termine maggiore e che l’opposto accade rispetto alla privazione, sicché la remissio di grado uno è maggiore della remissio di grado due. Ma anche questa affermazione – osserva il Pomponazzi – si rivela contraddittoria e ai limiti della stoltezza («est in extremo fatuitatis»),69 perché finisce con lo scambiare la remissio con l’intensio ed equivale ad ammettere che colui cui manca un dito ha un difetto maggiore di colui cui mancano cinque dita. E, anche ammesso che l’intensione e la remissione siano inversamente proporzionali, non è possibile in nessun caso che ciò che è minus remissus abbia anche maiorem remissionem. Dalle ambagi del Calculator si esce solo con una chiarificazione concettuale, intendendo la propinquitas e la distantia rispetto al sommo in termini di latituto inclusa e di latitudo exclusa, sulla base del principio

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che «unumquodque per tantum appropinquat summo per quantum est». Così il grado 6 si avvicina al sommo di 6 (cioè per quanto è la latitudo inclusa) e ne dista di 2 (cioè per quanto è la latitudo exclusa).70 Ma è questa una chiarificazione che in realtà nella prospettiva pomponazziana presuppone – come vedremo fra breve – un approfondimento dei fondamenti metafisici della logica calculatoria. Passando, invece, dal piano linguistico-terminologico a quello logico-matematico, le critiche pomponazziane mirano a stabilire i seguenti risultati: 1) il trattamento matematizzante dei Calculatores non rappresenta che un punto di vista, un modo di considerare le qualità in termini quantitativi (per modum quantitatis); 2) l’assimilazione del magnum e del parvum all’intensio e alla remissio non può prescindere dal fatto che i primi appartengono alla sfera della quantità e le seconde a quella della qualità; 3) le questioni relative alla mensura possono avere una matrice convenzionalistica e, se non sono supportate da adeguate operazioni fisiche, possono addirittura sconfinare in una fictio; 4) le relazioni matematiche sono secundo intellectae e quindi devono trovare una fondazione nella metafisica; 5) la metodologia dei Calculatores deve essere vagliata anche alla luce dell’esperienza. L’intuizione di questi limiti mostra chiaramente come solo in apparenza il Pomponazzi si muova nell’ottica matematizzante dei Calculatores. Di fatto la sua indagine matematico-quantitativa dell’intensio e della remissio non intacca affatto il fondamento solidamente metafisico-qualitativo della sua intuizione della natura. Sul piano matematico l’indagine prende le mosse dal problema della mensura. La ratio mensurandi ha il suo fondamento soprattutto nelle quantità discrete, per le quali si dà l’unità come misura minima ed indivisibile, quae est principium cuiuslibet numeri.71 Ma essa può estendersi anche alle quantità continue, che pure sono divisibili all’infinito, a condizione che sia possibile assumere una quantità minima o secundum naturam o secundum sensum o secundum institutionem.72 Secondo natura, se una determinata unità costituisce naturalmente una quantità minima; secondo il senso, se, per sottrazione di una qualunque parte, la quantità minima non è più percettibile; secondo convenzione, se, ovviamente, c’è un conveniente accordo su una determinata quantità minima, anche se questa si diversifica a seconda della diversità dei popoli e dei luoghi. D’altronde, anche oggettivamente l’unità minima delle grandezze continue muta in rapporto alla loro natura; così uno è il minimo rispetto al tempo, altro rispetto al moto, altro rispetto ai liquidi, altro rispetto alle quantità permanenti. Ma, quale che sia la scelta

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dell’unità minima, sul piano formale il grande e il piccolo rientrano nella categoria del relativo perché il loro essere si definisce in rapporto ad aliquid. E, poiché le relationes sono delle entità deboli, cioè secundo intellectae,73 per la loro conoscenza si rende necessario un fondamento. Ora il fondamento è la quantità per la sua proprietà di essere uguale o disuguale. Infatti, la disuguaglianza è la causa del grande e del piccolo, sicché il grande è ciò che contiene e il piccolo è ciò che è contenuto. Lo stesso si può dire dell’intensio e della remissio, con l’avvertenza, però, che esse hanno fondamento nella qualità. Perciò se la ratio formalis del magnum e del parvum è la disuguaglianza, che attiene alla sfera quantitativa, quella dell’intensio e della remissio è la dissomiglianza che attiene alla sfera qualitativa.74 Ma ciò che sfugge al Calculator è che sia la relazione magnum-parvum, sia la relazione intensio-remissio si spiegano in termini di excessum e di continentia o, se si preferisce, di latitudo exclusa e di latitudo inclusa. Così a è intensus rispetto a b, se include una latitudine maggiore, cioè se contiene o eccede b, ovvero se b è contenuto o ecceduto da a. Ma questa impostazione, se per un verso mira a correggere i Calculatores sul terreno della metodologia matematica, interpretando come semplice differenza aritmetica il rapporto intensio-remissio che per i fisici oxoniensi è inversamente proporzionale, per un altro verso ci riporta alla matrice metafisica ed aristotelico-platonica delle forme perfette. Sicché la remissio dipende da un difetto, ovvero da una perfezione deficiente rispetto a qualcos’altro e l’intensio dipende da una maggiore perfezione o, se si preferisce, da una maggiore partecipazione delle forme perfette o da una maggiore ricezione del loro influsso. D’altronde, proprio questi sono – secondo il Pomponazzi – i vantaggi offerti dalla scelta del grado sommo come punto di riferimento. Da esso, infatti, dipendono, sia sul piano ontologico che su quello gnoseologico, tutti i gradi della latitudo considerata. E non c’è altra ragionevole spiegazione di tale processo discensivo se non quella per cui ciò che è più vicino al proprio principio plus recipit de…. influxu e ciò che lo è meno minus recipit de influxu et virtute agentis.75 Al contrario, l’assunzione del non gradus come punto di partenza non dà alcuna giustificazione né ontologica, né gnoseologica dei gradi finiti che da esso si estendono fino al sommo. E proprio su tale impianto metafisico il Pomponazzi ritiene di poter dare un fondamento alla scala di valori astrattamente matematici dei Calculatores. Ma il Swineshead – egli dice – longe aliter sensit e non si vergognò di respingere l’opinione di Aristotele e di Platone o perché non seppe coglierne il nucleo essenziale o perché,

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se lo trovò, per la sua ignoranza non lo comprese: «Et eum non puduit negare Aristotelem et Platonem; quod fortassis fuit quia non vidit hoc ab Aristotele, vel si vidit, ex sua ignorantia neglexit, cum ipsum minime intellexerit».76 Insomma, i Calculatores caddero in apertissimi errori perché negarono anche ciò che è di per sé noto e, se parlarono con superficialità di logica e di filosofia, non ebbero in realtà alcun gusto per la metafisica: Il Calcolatore e i suoi seguaci a causa dell’ignoranza di ciò caddero in errori evidentissimi, tanto da negare principi che sono quasi per sé noti… Ma non c’è di che meravigliarsi, perché tali Calcolatori, sebbene abbiano attinto alla logica e alla filosofia, sfiorandole appena con le labbra, tuttavia non hanno avuto affatto il gusto della metafisica; perciò nessuno deve sorprendersi se sono caduti in errori manifesti.77

Si è detto che il discorso pomponazziano si sviluppa anche lungo una direttrice empirica. Naturalmente va tenuto conto dei limiti entro cui è possibile parlare di componente empirica all’interno del pensiero pomponazziano, che pure, per la sua stessa matrice peripatetica, era particolarmente attento al ruolo della conoscenza sensibile. Nel De modo procedendi in naturalibus, che è il capitolo con cui si apre la seconda sezione del De reactione, il Pomponazzi pone su due binari paralleli la conoscenza delle cose divine e quella delle cose naturali. In entrambi i casi la conoscenza dei principi precede e condiziona la ragione. Nelle cose divine i principi sono immediati, noti di per sé, non divengono oggetto della conoscenza attraverso i procedimenti discorsivi della ragione, ma sono oggetto della fede. Le ragioni che contrastano con questa non trovano una giustificazione nella realtà oggettiva, ma, se mai, denunciano la debolezza e la cecità dei nostri mezzi conoscitivi: Infatti, gli articoli di fede, che per la maggior parte non possono essere dimostrati, essendo stati ricevuti da Dio o dai Santi Apostoli, debbono essere accolti da noi senza alcuna dimostrazione, poiché non c’è dimostrazione dei principi e se contro di essi ci conducessero taluni ragionamenti, da cui non sapremmo districarci, bisognerebbe ascriverne la causa non alla ‘cosa stessa’, ma alla nostra cecità.78

Allo stesso modo bisogna procedere in naturalibus. L’esperienza e l’attestazione dei sensi sono sullo stesso piano della fides, che precede e condiziona la ragione. I sensi ci rendono accessibile ciò

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che è un principio per noi e che è l’oggetto immediato del nostro conoscere. La ragione deve essere conforme alla conoscenza sensibile e, quando è in contrasto con essa, non è affidabile. Sensus et experientia sunt statera veritatis dice il Pomponazzi richiamandosi alla Pratica di Avenzohar: Pertanto in merito alle cose della natura ritengo che si debba dire allo stesso modo. Poiché ogni conoscenza naturale viene o dal senso o dalla ragione conforme al senso… le verità che sono evidenti al senso, debbono essere accettate dal filosofo naturale senza alcuna dimostrazione e se ci sono ragionamenti che contraddicono l’esperienza, per quanto essi siano validissimi, la fiducia va prestata al senso e non alla ragione.79

Questi passi, spesso interpretati in relazione alla dottrina della doppia verità, hanno un particolare rilievo nella polemica anticalculatoria, perché in realtà il Pomponazzi intende colpire proprio quei moderni garruli vani litigiosi, che imitando i Calculatores, battagliano (digladiantur) a forza di argomentazioni razionali, senza avere il supporto o dell’esperienza o dell’autorità di Aristotele.80 Eppure, quando si rileggono con attenzione i due trattati, ci si accorge che ben poca è l’attenzione riservata al ruolo dell’esperienza. V’è sì il riconoscimento che la mensura deve avere un fondamento empirico e che l’unità di riferimento, sia essa minima o coincidente con il grado sommo, deve essere per sé nota vel ex inductione vel experimento vel auctoritate, ma si tratta di un atteggiamento ancora fondamentalmente tradizionale o aristotelico, legato al problema dell’autonomia di ciascun sapere, poiché non è opportuno che il principio posto da una scienza sia dimostrato o dipenda da un’altra scienza: «Neque inconvenit quod in una scientia suppositum tamquam principium demonstretur in alia scientia».81 Meglio, forse, si potrebbe dire che il Pomponazzi, se, per un verso, intuì che la metodologia matematizzante dei Calculatores era astratta perché non confortata da misurazioni quantitative di tipo empirico («Quare si recte considerabitur hec Calculatoris opinio est remota ab omni experientia»),82 per un altro verso, non riuscì ad intravvedere l’esperienza e l’esperimento come strumenti della ricerca scientifica. Ed anzi, i pochi passaggi, in cui il suo discorso si fa più preciso sul piano empirico-sperimentale, ci fanno chiaramente comprendere che i suoi concetti di experientia o di experimentum – che oltretutto nella letteratura del tempo sono spesso sostanzialmente coincidenti – si rivelano in qualche modo dipendenti dalle

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sue intuizioni metafisiche. Ed in effetti per lui l’esperienza coincide con la conoscenza di un modello o di una forma perfetta che funge da termine di paragone per ogni valutazione empirica. Ne consegue che la tesi del Calculator è penitus ridicula se giudicata alla luce dell’esperienza dei mechanici, dei commercianti, degli orefici e dei pittori, i quali sono soliti fare le loro valutazioni sulla base di un qualche esemplare, che «in lingua nostra vulgari appellant parangone», e misurano in rapporto ad esso ogni cosa che appartiene al medesimo genere. Così l’orefice valuta l’oro e l’argento in rapporto a tali esemplari e ne giudica il grado di purezza misurandolo accuratamente sia per rem inclusam, cioè per quanto partecipa della perfezione dell’esemplare, sia per rem exclusam, cioè per quanto non vi partecipa. Lo stesso Galeno nel Liber complexionum e nell’Ars parva ricorre al medesimo metodo, allorché suggerisce di valutare la perfezione o imperfezione di un corpo umano a seconda della somiglianza o vicinanza con il corpus temperatissimum, assunto come modello di sanità fisica.83 Qui l’intreccio tra metafisica ed esperienza empirica è del tutto evidente perché quell’exemplar, che pure è il saggio di natura empirica, ha la sua validazione in sede metafisica come causa esemplare o formale o come causa perfezionante. Questa regola, che trova le sue radici nel pensiero aristotelico, fu del tutto ignorata dai Calculatores, che perciò si macchiarono di arroganza, presunzione, ignoranza e temerità contro Aristotele: Ma questi Calcolatori ignorarono tale regola; se ne avessero avuto cognizione avrebbero tenuto un po’ più a freno la loro arroganza per aver osato contraddire un così grande filosofo. Essi in questa materia non dicono nulla di vero e, come si ripete nel proverbio, dove c’è più ignoranza, c’è più temerarietà.84

Alla regola aurea del modello perfetto, essi ne opposero una che non ci permette di essere certi della perfezione delle cose. Infatti, il metodo quantitativo ci consente sì di sapere che una certa cosa è giunta al grado sommo o che ha una determinata misura, ma non ci permette di stabilire se essa è perfetta («sed quod ista sit perfecta per illam regulam minime scietur»).85 Nella quarta sezione del Tractatus il discorso verte appunto sul piano della metafisica della partecipazione o, se si preferisce, della gerarchia degli esseri: dal magnum e dal parvum l’analisi si sposta sul perfetto e sull’imperfetto. Perfetto è ciò che, giunto a compimento in una determinata natura, non manca di nulla («perfectum est quod dicit complementum

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in una natura, ita quod nihil deficit»)86 o, in rapporto alle alterazioni qualitative che variano secondo il più e il meno, è ciò che contiene tutti i termini della variazione ed ha percorso tutta la distanza fra il minimo e il massimo. Ad esso si oppone in senso privativo l’imperfetto. Non si tratta, però, dell’opposizione privativa che sussiste fra i contrari, perché altrimenti non potrebbe darsi il calore imperfetto, in quanto il termine privativamente opposto al caldo è il freddo. L’imperfetto si oppone al perfetto in senso comparativo e ne è la negazione non in toto, ma solo in parte. Sicché il calore imperfetto possiede sì un certo grado di calore, ma non completo, non fino al termine ultimo. L’imperfetto, dunque, è secondo un certo punto di vista perfetto e secondo un altro punto di vista imperfetto: è perfetto per quanto occupa di latitudo qualitatis o – il che è lo stesso – per quanto si avvicina al grado sommo; è imperfetto per quanto manca di perfezione ovvero per quanta distanza lo separa dal sommo. Forse anche in velata polemica con il Nifo, che nelle Destructiones aveva riproposto la duplice partecipazione degli enti ai due poli opposti del grado zero dell’essere e di Dio,87 il Pomponazzi ribadisce che la perfezione si misura in rapporto alla vicinanza al sommo e l’imperfezione in rapporto alla mancanza e alla distanza da esso. E poiché negli stessi termini si è parlato dell’intensio e della remissio, si può ritenere che in una prospettiva aristotelica queste ultime siano rispettivamente assimilabili alla perfezione e alla imperfezione. I termini intensio e perfectio sono reciprocamente convertibili, come lo sono i termini remissio ed imperfectio. Tanto più che nella lingua latina – osserva il Pomponazzi – intensio deriva da intentus, che è l’atto della volontà diretta ad un fine ultimo. E in rapporto alle qualità si può affermare che in senso transuntivo l’intensio coincide con il grado ultimo e sommo.88 D’altro canto, per alcuni generi di qualità l’intensio e la remissio – e quindi la perfectio e l’imperfectio – si misurano necessariamente in termini di vicinanza o di distanza dal sommo. Si tratta di qualità che dipendono da taluni agenti naturali la cui azione o il cui effetto si spande sfericamente per un’ampiezza uniformemente difforme: sicché nel punto d’azione dell’agente naturale l’effetto è intensissimo, nel punto più remoto si ha il non grado dell’effetto e nei punti intermedi se ne hanno i gradi intermedi. Per tali qualità, come gli odori, il calore, la luminosità, che generalmente sono oggetto di uno qualsiasi dei sensi, vale il principio che quanto più esse sono vicine all’agente, tanto più ne recepiscono l’influsso. Ma la ricezione dell’influsso avviene secondo differenze aritmetiche e non – come

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ritiene il Swineshead89 – secondo una proporzionalità geometrica, perché se così fosse un agente finito produrrebbe un effetto infinito. Ed invero, dividendo in parti uguali – e più precisamente in otto parti uguali – la distanza fra il punto d’azione e il punto remotissimo, si può stabilire qual è il rapporto fra la distanza dal sommo e la ricezione dell’influsso. Si ha, infatti, che nel punto che dista di una unità dal grado sommo l’effetto è di grado 7, pari cioè all’ottava parte della latitudo e così via per gli altri punti. Insomma, fra le distanze e gli influssi sussistono differenze aritmetiche inverse, per cui se le prime diminuiscono di un’unità, i secondi aumentano di un grado. Cade perciò l’argomentazione del Calculator secondo cui, se si assume come punto di riferimento il grado sommo, l’intensio aumenta in proporzione geometrica con l’aumentare della vicinanza. Tale ipotesi, infatti, conduce all’assurda conseguenza che l’intensio aumenta indefinitamente e che lo stesso sommo è in qualche modo remissus. Per il Pomponazzi, invece, il rapporto distantia-intensio è puramente aritmetico. Così nello stesso tempo in cui si produce un eccesso di distanza rispetto ad un’altra distanza, si determina anche un eccesso di intensio rispetto ad un’altra intensio. Lo stesso Pomponazzi chiarisce il suo pensiero con un esempio. Egli ipotizza che dieci uomini siano collocati in ordine secondo la vicinanza al re e che il loro stipendio giornaliero aumenti in progressione aritmetica in rapporto alla medesima vicinanza. Così il decimo, il più vicino al re, percepisce dieci denari, il nono nove e così via. Ora, se è vero che lo stipendio aumenta o diminuisce in rapporto alla vicinanza o distanza dal re, ciò, tuttavia, non accade aeque proportionabiliter, perché il nono, che dista dal re la metà dell’ottavo, non ha uno stipendio doppio dell’ottavo. Da ciò si arguisce come siano degne solo di un ignorante le argomentazioni del Swineshead contro la tesi aristotelica. I Calculatores, anzi, appaiono al Pomponazzi come veri e propri sofisti (intricatores et involutores) che hanno confutato ciò che non hanno ben compreso: Da ciò si evince con quanta ignoranza il Calcolatore ha confutato la prima e la seconda opinione. In primo luogo perché non ha capito che cosa sia quell’avvicinarsi. In secondo luogo perché ha creduto che ciò che proporzionalmente si approssima di più è più intenso; ma questa congettura è falsa… questi Calcolatori, anzi imbroglioni e mistificatori, non hanno compreso questo principio ed hanno impugnato anche ciò che non hanno capito.90

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1.6. Le questioni annesse Nella sezione quinta del Tractatus sono affrontate talune questioni annesse (quaedam annexa) alla dottrina calculatoria, nell’evidente intento di eliminare la sfasatura swinesheadiana fra latitudo intensionis e latituto remissionis, e, quindi, di collocare la metafisica della partecipazione entro un perimetro logico più facilmente controllabile dalla ragione. Tra esse merita particolare attenzione la tesi del Calculator secondo cui l’intensio e la remissio non possono confrontarsi fra loro né in termini di uguaglianza né in termini di disuguaglianza. L’argomento è sviluppato dal Swineshead nel modo seguente. Si diano, a titolo d’esempio, un grado d’intensità 8 ed uno di remissione 4 e si supponga che la remissione aumenti e l’intensione diminuisca in modo uniforme. Si dovrebbe ritenere che al grado 6 le variazioni d’intensio e di remissio siano equivalenti. Ma non è così per il Calculator per il quale esse non sono confrontabili, non essendo aeque proportionabiliter. Infatti, posto che nel giro di un’ora l’intensio diminuisca della metà e la remissio aumenti del doppio, allo scadere della prima metà dell’ora l’intensio sarà diminuita al grado 6 secondo la proporzione 8/6=4/3 (proportio maioris inaequalitatis) e la remissio sarà aumentata al grado 6 secondo la proporzione 4/6=2/3 (proportio minoris inaequalitatis). Ne consegue che i rapporti 4/3 e 2/3 che descrivono le loro rispettive variazioni dimostrano che esse non sono aeque proportionabiliter. D’altronde, lo stesso Bradwardine nel suo Tractatus de proportionibus aveva dimostrato che non sono reciprocamente confrontabili le proporzioni maioris et minoris inaequalitatis.91 Contro queste tesi, il Pomponazzi ribadisce che fra l’intensio e la remissio sussistono differenze aritmetiche e che le loro rispettive latitudines sono uniformi anche quando esse sono in rapporti di proporzionalità inversa. Ne consegue che, assunte nel loro significato formale, nel senso cioè che l’una si dice relativa all’altra, l’intensio e la remissio sono confrontabili, poiché un qualsivoglia grado a è aritmeticamente o geometricamente più intenso di b esattamente quanto b è più attenuato di a. Ciò significa che a eccede o contiene b di tanto di quanto b è ecceduto o contenuto da a. Perciò il grado 6 è aritmeticamente tanto intenso rispetto a 4, quanto è remissus rispetto a 8. E, data l’uniformità delle latitudines lo stesso accade sul piano della proporzionalità geometrica, così che lo stesso rapporto che c’è fra 4 (a) e 2 (b) in proportione maioris inaequalitatis,

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c’è anche fra 4 (a) e 8 (c) in proportione minoris inaequalitatis. Sono naturalmente esclusi dal confronto con gli altri gradi i termini estremi, cioè il grado sommo e il non grado, perché il primo, in quanto esclusivamente intensus o perfectio, è assolutamente privo di remissione; il secondo, in quanto esclusivamente remissus o imperfectio, è assolutamente privo di intensità. Perciò il confronto è possibile solo rispetto alla latitudo qualitatis, perché praecise tanta est latitudo intensionis quanta est remissionis. Naturalmente occorre distinguere fra latitudo infinita e latitudo finita. Se la latitudo è finita, solo il grado medio ha tanta intensio quanta è la remissio; nei gradi che si collocano fra il medio e il sommo è maggiore l’intensio della remissio; nei gradi che si collocano fra il medio e il non grado è maggiore la remissio dell’intensio. Se la latitudo è infinita, qualunque grado è infinitamente attenuato e nessuno è infinitamente intenso, poiché l’attenuazione è sempre infinita, mentre l’intensità è sempre finita. Sulla base di questa istanza di netta separazione della logica del finito da quella dell’infinito il Pomponazzi conta di avere ragione dei Calculatores, che, benché ritenuti da tutti quasi dii terestres (sic), hanno in realtà reso oscuro anche ciò che è noto per sé o ciò che ben conosciamo per quotidiana esperienza: «In quibus verbis multae positae sunt conclusiones contra istos Calculatores, quae etsi sint per se notae et quotidiana experientia eas manifestat, quia tamen isti Calculatores habentur tamquam dij terestres, immo sigillatim oportet eas declarare».92 Ma per quanto possa essere interessante il tentativo condotto nel De intensione di chiudere entro la logica del finito le strategie argomentative del Calcolatore, in realtà l’aporia zenoniana che ne era alla radice, non usciva del tutto sconfitta dal tentativo perettiano di ragionare in termini di rapporti aritmetici e geometrici. È la strada giusta, ma non è ancora la soluzione definitiva. Qui veramente si ha l’impressione che la materia sfugga dalle mani del Pomponazzi proprio come un’anguilla. Ma egli è uomo di genio e la soluzione scientifica del problema gli viene lucidamente in mente nel corso del De reactione, allorché intuisce che la contraddizione insita nella logica zenoniana viene meno nel momento in cui alla infinita divisibilità del quantum corrisponde l’infinita divisibilità del tempo tra l’inizio e la fine del processo di alterazione. Ma ancor più genialmente comprende che la sommatoria delle quantità infinitesimali del procedimento zenoniano o calculatorio ha come risultato l’unità. Ma lasciamo la parola allo stesso Pomponazzi:

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Inoltre non segue che quella reazione duri per un tempo infinito, perché, per esempio, la prima durerà per un’ora, la seconda per mezz’ora, la terza per un quarto d’ora, e così via. Perciò se ciò procedesse all’infinito, non ne consegue che non finirà mai, perché sempre si dividerà il tempo in ragione di un mezzo; anzi il tempo corrispondente alla prima parte eguaglierà il tempo corrispondente a tutte le altre parti. Infatti, ogni continuo, diviso in parti proporzionali in ragione di due, è quantitativamente nella prima parte tanto quanto è l’intero aggregato di tutte le altre parti, come è evidentissimo. Pertanto non segue che, se quelle parti sono infinite, non si esauriscano, perché sempre l’una è la metà dell’altra ed è una divisione secondo la potenza e non secondo l’atto; la quale divisione secondo la potenza si esaurisce, pur essendo infinita; infatti, se io attraverso un piede, attraverso la prima parte proporzionale e la seconda e così via all’infinito posso attraversare quel piede e tali molteplici parti; altrimenti prenderebbero corpo quei sofismi di Zenone, riportati nel VI Physicorum.93

È in realtà la soluzione galileiano-leibniziana, la cui importanza non è forse colta in pieno o comunque non è ulteriormente sviluppata dallo stesso Pomponazzi. Anche la seconda questione annessa – quella cioè se l’intensio aumenta uniformiter, aeque velociter ed aeque proportionabiliter al diminuire della remissio è per il Pomponazzi essenziale per ritornare sul rapporto tra finito e infinito. Sull’argomento le tesi del filosofo mantovano e quelle del Calculator sono esattamente antitetiche. Il primo riconosce che sul piano formale l’intensio cresce uniformiter ed aeque velociter, ma non aeque proportionabiliter rispetto al decremento della remissio, il secondo sostiene il contrario. In realtà – osserva il Peretto – in tutta questa materia il Swineshead è involuto e dice cose completamente diverse fra loro: «Immo ille Calculator est tantum involutus in hac materia, ut ipsemet non audeat proferre quantae remissionis sit unus gradus. Nam modo dicit unum, modo alterum».94 L’equivoco dei Calculatores sta nel fatto che essi, anche in rapporto ad una latitudo finita, ritengono che il non gradus dell’intensione coincida con l’infinitus gradus remissionis. Anzi, generalizzando illecitamente il concetto di gradus infinitus remissionis, essi lo hanno esteso sia alle latitudines finitae sia a quelle infinitae ed hanno malamente confuso la logica del finito con quella dell’infinito. Ciò è tanto più grave se si pensa che le alterazioni delle qualità fisiche sono circoscritte entro latitudines finitae e che in queste la remissio non può essere infinita. Formatosi nell’ambiente culturale padovano, il Pomponazzi volge la di-

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scussione sul piano concreto della scienza medica. Tanto Ippocrate negli Aphorismi, quanto Galeno nell’Ars parva hanno puntualizzato che la guarigione comporta il ristabilimento della salute nella stessa misura in cui essa era andata perduta nello stato di malattia (defectus). Ora, se si suppone che il defectus sia infinito si nega la possibilità della guarigione, perché infinitum non est pertransibile. E, oltre tutto, è contraddittorio affermare che il defectus possa essere maggiore della perfezione, perché è come dire che l’uomo ha due occhi in condizioni di perfetta salute, ma al cieco ne mancano infiniti: «Quod autem defectus non possit esse maior perfectione manifestum est: quis enim intelligere posset quod homo non habet plus quam duos oculos secundum perfectionem et tamen caeco deficiunt infiniti oculi».95 Né sono da sottovalutare le altre aporie in cui rimane impigliata la logica dei Calculatores. Così in una latitudo infinita non ha senso dire che l’acquisizione del primo grado di intensio corrisponde alla perdita di un grado di remissio, perché rispetto all’infinito non si dà né il primo né l’ultimo («cum infiniti non detur primum neque ultimum»).96 D’altro canto, se al livello del non grado la remissio è infinita, tutto ciò che comincia a crescere a partire da esso dovrebbe acquisire immediatamente una qualità infinita. Non è un caso che, per contrastare l’inconsistenza delle tesi degli avversari, che non esita a definire male calculantes,97 il Peretto adduca esempi tratti dalla sfera della medicina. Ed anzi, in questo atteggiamento, nella preferenza accordata alla concretezza della filosofia naturale e della scienza medica, si rivela la sua propensione per la logica del finito contro le incertezze e le contraddizioni della logica dell’infinito, utilizzata dai Calculatores. Perciò per demolire le loro argomentazioni egli afferma che nella latitudo finita il non gradus dell’intensione coincide con il grado sommo della attenuazione, che la latitudo totale della remissio è esattamente tanta quanta è quella dell’intensio, che nel passare da un grado all’altro si acquista tanto di intensio quanto si perde di remissio ovvero non si acquista tutta l’intensio più velocemente o più lentamente di quanto si perda tutta la remissio. Anzi – aggiunge il Pomponazzi, manifestando una scoperta propensione per la teoria dell’admixtio – per essere più vicini all’opinione comune, si può dire che il non gradus di calore coincide con il grado sommo del freddo e viceversa e che il calore aumenta di tanto di quanto si corrompe il freddo. Ma i Calculatores non si resero conto che le stesse relazioni che valgono per i contrari positivi valgono anche per i termini privativamente opposti:

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ed è strano che detti Calcolatori abbiano visto ciò in riferimento ai contrari positivi e non, invece, in riferimento agli opposti per privazione. Ma la causa del loro errore sta nel fatto che essi credevano che in generale in un’estensione finita e in una infinita il non grado di intensità corrisponda al grado infinito di attenuazione; ciò che non solo è falso, ma è altresì contraddittorio.98

Pesantissimo il giudizio del Pomponazzi sul Calculator: non v’è da stupirsi se egli è caduto in errore, perché era privo di qualsivoglia scienza («Quare non est mirandum de isto calculatore quod erraverit, cum fuerit cuiuslibet scientiae expers»).99 Il Swineshead e i suoi seguaci britannici sono assimilabili ai sofisti, la cui unica scienza è quella di distruggere ogni sapere («quorum sapientia est destruere omnem sapientiam, sicut de sophystis dicit Commentator»).100 Ancor più pesante il giudizio sui suoi imitatori nostrani, che, come si è detto, si erano annidati soprattutto negli Studi patavino e bolognese: essi si dichiarano fisici, metafisici e medici, ma non hanno saputo scorgere la gran copia dei suoi errori ed anzi non si sono neppure accorti che in lui si contano più errori che le parole dette: «Sed mirum est de suis imitatoribus, qui profitentur se physicos, metaphysicos et medicos, et non viderint tantos errores in homine: nam multo plura sunt errata quam verba».101 Il Tractatus si chiude con una questione di sapore prettamente metafisico, assai dibattuta nell’ambiente padovano da Paolo Veneto in poi.102 Sorgono, infatti, aliquae dubitationes circa il rapporto tra Dio e le creature finite, proprio in relazione alla misurazione dell’intensio e della remissio in termini di appropinquatio e distantia dal grado sommo. Se, infatti nella latitudo entis il grado sommo da cui dipende la totalità dell’universo è Dio, sorge il dubbio che la perfezione degli enti finiti non si possa misurare in termini di appropinquatio tanto nel caso che Dio si ponga come perfectio finita quanto nel caso che si ponga come perfectio infinita. Molti peripatetici – e fra questi Averroé – sostennero che Dio ha una perfezione finita. Ed è verosimile che tale sia stata anche l’opinione di Aristotele. Ma essa ci conduce ad ammettere che la prima creatura eguaglia Dio in perfezione, poiché, agendo per necessità della propria natura, l’Ente Sommo produce un effetto uguale a sé stesso, esattamente come il fuoco che produce altro fuoco. Ma se la prima creatura ha la stessa perfezione divina, allora, le divinità, a dispetto di tutte le religioni e di tutte le filosofie, sarebbero due e non una. E d’altro canto, se sussistesse una qualsivoglia distanza fra Dio e la prima Intelligenza, questa non sarebbe né prima creatura né massimamente vicina a

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Dio. Il medesimo argomento sembra militare anche contro l’ipotesi che Dio abbia una perfezione infinita. Ché se i teologi ritengono contraddittoria l’affermazione che la prima creatura ha una perfezione infinita, non meno contraddittorio è affermare che essa ha una perfezione finita. Infatti, come può la creatura recepire dal sommo una qualsivoglia perfezione, se gli è infinitamente distante? E come può una creatura dirsi più perfetta delle altre o come può l’uomo ritenersi più perfetto dell’asino («enim homo non esset perfectior asino»), se tutti gli enti finiti si trovano ugualmente ad infinita distanza da Dio?103 Nella soluzione delle dubitationes proposte, il Pomponazzi si colloca, com’è suo solito, sul versante della ragione naturale o, se si preferisce sul versante dell’aristotelismo averroistico, mentre lascia più sfumata la posizione di quei peripatetici, come Tommaso e Duns Scoto, che piegarono il pensiero di Aristotele alle istanze della fede e della religione positiva. Ora l’opinione di Aristotele è che Dio ha una perfezione finita e che agisce per necessità della propria natura, poiché nelle cose eterne l’esse coincide con il posse («in aeternis non differt esse a posse»). Tuttavia la prima Intelligenza, pur essendo massimamente vicina all’Ente Sommo, non lo eguaglia (adaequetur), perché Dio non è una causa univoca come il fuoco, ma è aequivoca ed è di natura diversa rispetto alle cose create. Ed in aequivocis è impossibile che l’effetto possa eguagliare la causa. Pertanto la prima Intelligenza è massimamente vicina a Dio non in quanto lo tocca («non quia ex toto tangat»), ma in quanto fra essa e il suo fattore non v’è alcun termine medio («nihil de facto mediat vel mediare potest»). V’è sì un excessus che separa Dio dalla prima creatura, ma esso è indivisibile in atto e divisibile in potenza. Ove per ‘potenza’ il Pomponazzi intende una certa non repugnantia vel logica sive metaphysica, come quando diciamo che la retta si estende in potenza all’infinito, riferendoci ad una potenza puramente logica o metafisica, che di fatto non si traduce in atto («quae quidem potentia secundum rem ad actum deduci non potest»).104 Ma – come si è detto – altri peripatetici, come Tommaso e Duns Scoto, ritennero che non fosse questo il pensiero di Aristotele. E comunque le religioni (leges) sostengono che Dio è di infinita perfezione. Ipotesi questa che, per la verità, rende più difficile la soluzione dei dubbi proposti. Il Pomponazzi, tuttavia, non esclude di poter esporre il punto di vista – che evidentemente non coincide con il suo – di coloro che l’hanno fatta propria: «Immo hanc partem sustinendo difficilius est respondere. Existimo tamen sic pos-

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se responderi secundum opinionem tenentem Deum esse infinitae perfectionis». Si può, infatti, affermare che Dio non agisca per necessità della propria natura, ma secondo una preconcezione ed una volontà meramente contingente («secundum praeconceptionem et voluntatem mere quidem contingentem»). Perciò la prima Intelligenza ha il grado di perfezione che Dio ha inteso e voluto darle. E lo stesso si dica per tutte le altre creature prodotte da Dio: l’una è più perfetta dell’altra perché Dio le ha prodotte non sotto coazione della propria natura necessaria – ché anzi avrebbe potuto produrle più perfette – ma sulla base di idee l’una più perfetta dell’altra. E se non è ammissibile che in Dio le idee siano realmente differenti, non si può, secundum rationem, escludere in lui la pluralità delle essenze. D’altro canto, se è vero che le idee sono tutte essentialiter di pari perfezione, è altresì vero che gli enti recepiscono da Dio l’essere non secondo necessità, ma in modo contingente («secundum modum intelligendi et volendi, non quidem de necessitate, sed contingenter»). Ed in effetti, come può una creatura finita, quantumcumque perfecta, assimilarsi a Dio, dal momento che non sembra sussistere alcun rapporto e alcuna somiglianza fra il finito e l’infinto («nulla videtur posse admitti comparatio vel similitudo inter finitum et infinitum»)? Evidentemente nessuna creatura può essere perfettamente simile a Dio, ma ciascuna, avendo in Dio l’idea di sé stessa, gli è simile solo in parte.105 Si direbbe in realtà che il punto di vista di coloro che attribuiscono a Dio una perfezione infinita non pervenga ad una concludente e definitiva soluzione. Le questioni affrontate sono per la verità scottanti e moltissime dubitationes potrebbero complicare la risposta suggerita.106 Ma sembra che il Pomponazzi, non volendo respingere apertamente la tesi tomistica, voglia lasciare deliberatamente sfumate ed irrisolte le difficoltà ad essa collegate, anche se, forse per prudenza o per mettere a tacere i multi calumniatores che gli rinfacciavano di prediligere la soluzione aristotelica alle verità della fede, si cela dietro il rinvio ad una disputatio separata dal titolo Numquid sit necessarium dari ideas et an Aristoteles ponat ideas et quomodo ponuntur in Deo, di cui non mi pare si abbiano altre notizie, salvo che egli non si riferisca alla Quaestio de universalibus: Ma poiché molti calunniatori ci hanno rimproverato per aver affermato idee che non si accordano non solo con la verità della fede, ma nemmeno con il pensiero di Aristotele, noi abbiamo approntato una questione o una distinta disquisizione, in cui abbiamo esaminato se sia necessario che si diano idee, se Aristotele ne am-

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metta l’esistenza e in che modo esse siano presenti in Dio. Perciò chi vorrà avere un quadro completo del nostro pensiero in questa materia prenda visione di tale questione.107

2.1. Il De reactione: il panorama delle ipotesi interpretative Al tema della reazione, come egli stesso ci fa sapere, Pomponazzi aveva già prestato la sua attenzione fin dagli anni dell’insegnamento padovano («Quando ero a Padova ho formulato altre ipotesi per sciogliere questa difficoltà»).108 Non è escluso che egli si riferisca al primo periodo padovano quando aveva già cominciato a familiarizzare con i trattati del Calcolatore. Il De reactione è infatti il settimo dei trattati che compongono il Liber calculationum del Swineshead. La confutazione anticalculatoria del Pomponazzi è ancora una volta motivata dalla difesa dell’aristotelismo, poiché con le loro aporie logico-matematiche i Calculatores rischiano di mettere in crisi il concetto di reazione. I testi aristotelici di riferimento sono il capitolo I del III Physicorum e il capitolo X del libro I del De generatione et corruptione. Come già era accaduto per il De intensione, anche nel De reactione sono in gioco i principi del dinamismo e del divenire della fisica aristotelica. Il principio della reazione, che ovviamente non ha se non una lontana parentela con il terzo principio della dinamica moderna, è presentato da Aristotele come l’azione di un contrario su un altro contrario cui corrisponde la reazione del secondo sul primo ed è nella filosofia naturale dello Stagirita all’origine della dinamica della mistione, che costituisce il nucleo centrale intorno a cui ruota tutto il secondo libro del De generatione et corruptione. Con il De reactione dunque Pomponazzi intende ristabilire quell’equilibrio che all’interno della fisica aristotelica era stato compromesso dalle nuove teorie calculatorie. Su questo punto egli non ha perplessità di sorta. Con le loro dottrine sofistiche i Calcolatori rischiano di far crollare l’intero edificio della fisica, perché se non si ammette la reazione, si distrugge il mondo della natura e tutto l’ordine degli enti generabili e corruttibili.109 Il problema è che i Calcolatori britannici, parigini e nostrani, limitano notevolmente, se addirittura non escludono del tutto, la portata del principio di reazione. La posizione più drastica è rappresentata da Walter Burley, il quale nel commento al libro III della Fisica e nel De intensione et remissione formarum sostiene che la reazione non è possibile perché o l’agente e il paziente sono equi-

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potenti, e quindi nessuno dei due può agire sull’altro, o sono di potenza disuguale e di conseguenza l’azione proviene dalla vittoria del motore sul mosso senza che ad essa corrisponda una reazione. Dal canto suo Richard Swineshead ritiene che il principio aristotelico sia viziato da una interna contraddizione perché se due contrari si intensificano simultaneamente per mezzo di un medesimo soggetto, poiché non è possibile che all’intensità dell’uno segua la corruzione dell’altro, si cade nella contraddizione per cui lo stesso soggetto è nello stesso tempo intensificato e attenuato. Giovanni Marliani aggiunge che se si suppone che tra i due contrari opposti (es. il caldo e il freddo) ci sia un mezzo, come per esempio l’aria, questa risulta essere nello stesso tempo riscaldata e raffreddata. Sotto il profilo teorico la critica swinesheadiana si articola in quattro punti fondamentali: 1) l’agente e il reagente producono un moto locale e non un moto di alterazione; 2) tra le qualità attive e quelle passive la reazione è possibile solo tra due contrarietà diverse, ma non rispetto alla medesima contrarietà; 3) tra qualità della medesima contrarietà la reazione ha luogo rispetto a parti diverse, ma non rispetto alle stesse parti del soggetto; 4) tra contrari uniformi (cioè tali che tutte le loro parti siano perfettamente uguali), siano essi equipotenti o meno, non è possibile la reazione. Anche Iacopo da Forlì limita notevolmente il principio di reazione perché per un verso ritiene che l’azione dell’agente sia indebolita dall’influsso celeste e per un altro verso introduce una netta linea di demarcazione tra gli agenti, i quali sono distinti gli uni in attivi e gli altri in passivi, con la conseguenza di vanificare la reazione che per la fisica aristotelica consiste nel fatto che gli agenti e i pazienti agiscono e reagiscono reciprocamente l’uno sull’altro. Per la soluzione proposta da Francesco Sicuro da Nardò (il cosiddetto Neritone), che fu suo maestro in via Thomae e del quale non ci è pervenuto alcuno scritto, Pomponazzi ricorre alla memoria e ricorda che, negli anni del suo insegnamento padovano, per salvare la mistione sosteneva la necessità della reazione tra qualità della medesima contrarietà (es. il caldo del fuoco e il freddo dell’acqua) e riteneva che essa si verifica in modo accidentale per effetto di un processo sequenziale in cui interviene una qualità complementare (es. l’umido). La reazione tra qualità della medesima contrarietà è ammessa, pur con posizioni differenziate, da un gruppo di pensatori moderni, come Marsilio di Inghen, Alberto di Sassonia, Iacopo da Forlì, Paolo Veneto e Gaetano da Thiene. Essi partono dal comune presupposto che le qualità prime (caldo, freddo, umido, secco) si oppongono

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per attività e resistenza in modo tale che la qualità più attiva è la meno resistente e viceversa la più resistente è la meno attiva. In tal caso l’azione e la reazione hanno luogo tra contrari uniformi, uguali o disuguali in potenza, e in qualche caso anche tra contrari difformi, uguali o disuguali in potenza; per tali autori la reazione dipende dal gioco dei rapporti tra l’attività e la resistenza dei due contrari che intervengono nel processo. La soluzione di William Heytesbury ha in comune con quella del Calcolatore l’ipotesi che ogni qualità è tanto resistente quanto è attiva, ma si differenzia da essa per il fatto che fa dipendere la reazione dal rapporto tra l’intero e la parte e non tra l’intero e l’intero. Anche la posizione di Giovanni Marliani ha punti di convergenza e di divergenza con il Swineshead; da una parte egli nega, in accordo con il Calcolatore, la reazione tra contrari uniformi, di uguale o di disuguale potenza; dall’altra, in conflitto con il Calcolatore, ammette la reazione tra due qualità difformi o tra una difforme e l’altra uniforme, opportunamente accostate nelle loro reciproche estremità; in questo caso la reazione è possibile anche secondo qualità prime della medesima contrarietà. In realtà la posizione del Marliani si complica per via di ipotesi alternative, nelle quali ai corpi che agiscono e reagiscono si aggiungono, alle estremità opposte a quelle che entrano in contatto, dei cosiddetti ‘aiuti’ o ‘rinforzi’ ovvero altri corpi che potenziano in varia misura la capacità attiva e reattiva dell’agente e del paziente. Un caso emblematico, proposto da Marliani, è quello di un corpo tiepido (che si considera freddo di grado quattro e caldo di grado quattro), alle cui estremità opposte si aggiungono come rinforzi, rispettivamente del caldo e del freddo, corpi simmetricamente opposti per composizione del caldo e del freddo (es. l’uno caldo di grado sei e freddo di grado due e l’altro freddo di grado sei e caldo di grado due). In tutti questi casi la reazione dipende dal rapporto delle potenze in campo, ovvero dal gioco dei rapporti tra le potenze attive e le resistenze passive. Paolo Veneto e Gaetano da Thiene ricorrono all’ipotesi dell’azione reale di specie spirituali, prodotte per emissione e per riflessione dalle stesse qualità attive e passive. La loro tesi è all’origine della Quaestio de actione reali, annessa al De reactione. Pomponazzi è drastico nei confronti della loro soluzione. Le specie da essi invocate non servono a risolvere nessuna delle difficoltà teoriche, né sono in grado di spiegare la reazione; e poi – aggiunge Pomponazzi – l’idea di tali specie non è mai venuta in mente né ad alcuno dei filosofi greci, né arabi, né ad alcuno degli autori nostrani dotati di

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una qualche autorità.110 L’inconsistenza della tesi di Paolo Veneto e di Gaetano è dovuta a due ragioni: 1) perché la riflessione è propria dei corpi e non delle specie; 2) perché, quando si parla di riflessione delle specie si parla in termini di omonimia oppure in senso traslato e metaforico.111 Credere che il caldo emetta delle specie come se fossero atomi corporei che penetrano nel corpo freddo (che è una tesi democritea), significa fare un’ipotesi fantasiosa, perché – spiega Pomponazzi – non esiste nessun influsso che va dal colore al corpo colorato.112 2.2. La seconda sezione del De reactione Dopo avere tracciato il panorama delle ipotesi calculatorie, nella seconda sezione del De reactione il Peretto propone la sua soluzione, in sintonia con i testi aristotelici. La sezione si apre con un interessantissimo capitolo, in cui sono fissati i paletti essenziali entro cui deve muoversi l’indagine sul terreno della filosofia naturale. Egli stabilisce una sorta di parallelismo tra la ricerca del metafisico, o se si preferisce del teologo, e quella del filosofo naturale. Entrambe ammettono come comune il presupposto che i principi primi sono verità indiscusse e non soggette a procedimenti dimostrativi. Come sul piano teologico le verità di fede, ovvero gli articoli di fede, vanno accolte senza dimostrazione, perché il tentativo di dimostrarle le esporrebbe al rischio di argomentazioni verisimili o indistricabili, così nella filosofia naturale le verità evidenti al senso debbono essere accolte senza dimostrazione. Nell’uno e nell’altro caso ci troviamo di fronte alla insufficienza o ‘cecità’ della ragione: sul piano teologico essa deve cedere di fronte alla rivelazione proveniente direttamente da Dio o dagli Apostoli; su quello della filosofia naturale deve cedere di fronte alla certezza del senso.113 Voler provare razionalmente la reazione è come voler dimostrare in logica i principi primi per sé noti, per cui si finisce col proporre argomentazioni che confliggono con quegli stessi principi o in alternativa si finisce col negare l’evidenza del moto e della pluralità degli esseri, come fecero Parmenide e Melisso, o quella del moto, come accadde a Zenone, o quella del principio primo, come fece Eraclito.114 In ogni caso siamo di fronte ad una debolezza gnoseologica intrinseca del soggetto pensante, il quale abbandona spesso il sicuro pilastro del senso e dell’esperienza sensibile per fare affidamento su una ragione fragile che non ha, come le Intelligenze intuitive, un saldo ancoraggio alle

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verità eterne, ma è costretta ad affidarsi alla mediazione discorsiva, per lo più debole e spesso oscura. Gli esempi più tipici di questo atteggiamento sono da un lato il Marliani, che ammette la reazione, non sulla base dell’esperienza, ma di argomentazioni appena concepibili, e dall’altro il Calcolatore che, negando la reazione, nega di fatto l’evidenza del senso. Ritorneremo fra breve su questa fragilità della ragione per analizzarne il rapporto con la fede. Prima di proporre la propria soluzione in materia di reazione, Pomponazzi procede, come aveva fatto nel De intensione, ad una chiarificazione della terminologia, che non solo serve ad evitare il pericolo della nominum aequivocatio, ma contiene già in sé in nuce la soluzione. I capitoli II-VIII ruotano intorno a questo sforzo di chiarire come debbono essere intesi i termini quali ‘agire’, ‘patire’ e ‘resistere’. La questione investe il tema più ampio della generazione e della corruzione. Assumendo come punto di riferimento Averroè, Pomponazzi individua tre distinti partiti: il primo è quello di Anassagora, Anassimandro ed Empedocle, i quali, comunque intendano la generazione (o come ‘emersione di cose latenti’ o come ‘aggregazione’) e comunque intendano la corruzione (o come ‘latenza di cose percepibili’ o come disgregazione) in ogni caso riconducono l’una e l’altra al moto locale. Il secondo partito, che è quello delle tre religioni, cristiana, mosaica e musulmana (ma Averroè, aggiunge Pomponazzi, cade in errore riguardo alla religione cristiana), interpreta la generazione come una creazione o sostanziale o accidentale ad opera di un agente unico che crea tutte le cose. Il terzo partito, che è quello di Aristotele, presuppone che in ogni azione sia necessario un agente e un soggetto; l’agente produce un soggetto in atto tale quale era in potenza. La reazione in questo caso si spiega come passaggio dalla potenza all’atto; così il caldo prodotto dal freddo non è che il caldo che era in potenza nello stesso freddo.115 Ma in realtà tutto questo discorso presuppone un impianto metafisico. Il paradigma ontologico di riferimento è ancora una volta quello di una gerarchia di gradazioni della realtà. I due poli estremi, superiore e inferiore, sono da un lato il principio attivo, che è o direttamente il primo agente o ciò che agisce in virtù del primo agente, e dall’altro il principio passivo, che è o la materia prima o ciò che si risolve nella materia prima. Il primo agente è il primo motore ed agisce come la prima causa efficiente; la materia prima è il primo sostrato. La scala degli esseri che così si viene a stabilire non ammette al suo interno alcun processo all’infinito né in rapporto alle sostanze sensibili né a quelle extrasensibili. Da tale processo di azione e

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reazione Pomponazzi esclude prudentemente la generazione dell’anima intellettiva e la creazione del mondo per almeno due motivi, l’uno apparentemente di circostanza e l’altro di natura teorica: per il primo l’una e l’altra non sono oggetto dell’indagine in corso; per il secondo l’esclusione è dovuta al fatto che tra la creazione e l’azione fisica c’è solo un rapporto di omonimia.116 Stabilite tali premesse, Pomponazzi si accinge a dare la definizione generale di azione e reazione, le quali non sono nient’altro se non «due o più agenti, avvicinati l’uno all’altro, i quali tendono ad assimilarsi o in assoluto o rispetto ad alcunché, in modo tale che l’uno renda l’altro tale qual è esso stesso e viceversa»117. L’agire e il patire non sono altro che questi stessi moti per cui l’uno dei due agenti assimila l’altro e il secondo è assimilato dal primo. Più complessa la definizione del resistere, perché esso è per un verso una forma di agire e per un altro verso una forma di patire. Infatti, la resistenza in qualche modo si identifica con l’azione, perché il paziente che resiste sembra esercitare un’azione; per un altro verso sembra identificarsi con un patire, come è il caso del ferro che resiste alla compressione del dito; esso oppone resistenza alla compressione, ma non sembra esercitare un’azione. Perciò più correttamente si deve dire che il resistere non è né propriamente un agire, né propriamente un patire; e tuttavia tanto l’agire, quanto il patire sono associati al resistere, poiché questo non è altro che «un impedire o in assoluto o rispetto ad alcunché l’agente che è atto ad agire contro tale impedimento perseguito».118 Il capitolo VI mette a confronto l’azione, la passione e la resistenza nella scala degli esseri. Al vertice ci sono gli esseri eterni e in primo luogo Dio: questi sono gli esseri che possono solo agire e che non possono in alcun modo resistere o patire. Dio non resiste a nulla, perché nulla gli è contrario; Egli è atto purissimo e impassibile, privo in assoluto di ogni potenzialità. All’estremo opposto v’è la materia prima che è solo passiva, ricettiva di tutte le forme generabili e corruttibili; essa non può né agire né resistere, ma solo patire. Tra questi due poli estremi vi sono gli enti intermedi rispetto all’agire e al patire. Il primo è il caso delle cose che agiscono e patiscono, ma non resistono (es. due occhi che si fissano l’uno nell’altro); il secondo è quello delle cose che agiscono e resistono, ma non patiscono; in questo caso l’uno è agente e l’altro è paziente e non agente (es. un ferro di una determinata grandezza che cade su una mosca uccidendola o un fuoco che brucia un capello o un’ala di zanzara); il terzo è il caso di ciò che patisce e resiste

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soltanto, ma non agisce; infine il quarto è quello in cui si produce la reazione vera: essa si verifica quando le qualità contrarie agiscono, patiscono e resistono rispetto allo stesso soggetto e nella medesima contrarietà, ma non allo stesso modo.119 Ciò significa che in ogni reazione, che sia veramente tale, ciascuno dei due contrari agisce sull’altro, ciascuno dei due patisce dall’altro e ciascuno dei due resiste all’altro (es. due spade che si smussano a vicenda). Elaborati questi cardini della teoria e ricavati ben dodici corollari, Pomponazzi, a differenza di tutti i suoi predecessori, perviene ad una concezione della reazione che è, si può dire, generalizzata ed estesa al massimo, tale cioè da garantire la generalizzazione della stessa mistione. Ne consegue che la reazione è ammessa anche nei casi più contrastati dai Calcolatori. Infatti per il Pomponazzi non è assurdo che essa si verifichi anche tra due potenze uguali; queste – egli dice – non sono tali da non poter agire l’una sull’altra; anzi non sono reciprocamente eccedenti così che l’una non possa incidere sull’altra più di quanto la seconda non incida sulla prima. Cade in quest’ottica l’altro pilastro cui frequentemente si richiamano i Calcolatori: quello della impossibilità dell’azione del minore sul maggiore. Il fatto che il minore non superi o non eguagli il maggiore non significa per Pomponazzi che esso non possa agire sul maggiore. Un re potente, che combatte contro un principe debole, certamente consegue la vittoria, ma non senza che il principe gli abbia inferto qualche colpo. In proposito può essere illuminante il quarto corollario enunciato nel capitolo VI, per il quale un contrario, per quanto la sua potenza sia di modica entità, non solo può patire e resistere, ma per essere in grado di agire sul contrario, cioè per essere attivo, oltre che passivo e resistente, ha solo bisogno di una potenza maggiore e, per essere attivo e resistente e niente affatto passivo, ha bisogno di una potenza ancora maggiore. In ogni caso il principio di reazione dipende da due rapporti: da quello di contrarietà e da quello di maggiore o minore disuguaglianza tra la potenza attiva e la resistenza. La reazione si produce quando tali rapporti sussistono e cessa quando essi sono insufficienti. In breve la reazione cessa quando i due contrari si sono assimilati. Così il caldo sommo di grado otto e il freddo sommo di grado otto reagiscono fino a che le loro gradazioni non si equiparano; quando entrambi raggiungono il grado medio quattro, la reazione cessa. Lo stesso accade quando il rapporto tra la potenza attiva e la resistenza non è più di disuguaglianza, ma di uguaglianza, cioè quando il loro rapporto è pari a uno.

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Nel capitolo IX confluiscono ormai tutte le conclusioni generali. In esso la reazione è ammessa come possibile 1) tra gli enti dotati di conoscenza o che implicano una conoscenza, tanto se sono della stessa specie (l’occhio che fissa un altro occhio) quanto se appartengono a specie diverse (es. la mia mano fredda e la tua mano calda); 2) tra enti dotati di volontà, che siano della stessa specie (due amici che si incontrano) o di specie diversa (incontro tra il lupo e l’agnello); 3) tra agenti che producono un moto locale o un moto di alterazione; 4) tra contrari della medesima contrarietà, secondo parti diverse; 5) tra contrari uniformi e difformi della medesima contrarietà e per diverse parti delle qualità prime. Anche nel De reactione il tono del discorso contro i Calculatores è aspro e forse eccessivamente severo. I loro ragionamenti – dice Pomponazzi – sono astratti e privi di qualsivoglia riscontro nell’esperienza. Le accuse ricalcano in qualche modo quelle già rivolte nel De intensione. Il loro matematicismo sconfina nell’ambito dell’immaginario ed è inadeguato ad aderire alla realtà fisica. Marliani, Heytesbury, Swineshead costruiscono dei modelli matematici artefatti, fanno agire e reagire i contrari, uniformi o difformi, di uguale o disuguale potenza, con gli aiuti o senza gli aiuti, li fanno interagire con il mezzo, ne calcolano le potenze e le resistenze, ne studiano i rapporti, ma non si accorgono di non sfiorare neppure di poco la realtà concreta. Il loro errore è quello di mettere a confronto gli enti naturali con quelli matematici: a dispetto delle aporie denunciate dai Calcolatori, la reazione si verifica sempre come gioco tra dominante e dominato. A tale gioco non si sottrae neppure l’uomo. L’uomo è un animale che domina su quasi tutti gli altri e tuttavia talvolta non può difendersi dalle mosche, dalle zanzare e dalle cimici. Pomponazzi ne dà un esempio, ricordando che un medico amico gli ha fatto sapere che un tale è morto a causa dell’introduzione di una pulce nell’orecchio.120 Insomma i Calcolatori hanno elaborato dottrine prive di qualsiasi supporto teorico, perché essi sono autoreferenziali: non partono né dal senso, né dal ragionamento, né dall’autorità, ma credono solo a sé stessi e alle loro fantasiose ipotesi.121 Essendo in contrasto con l’esperienza (ex sensatis) e con i testi dello Stagirita, le loro conclusioni sono deliranti. Swineshead si rivela poco esercitato sui testi aristotelici e il suo discorso è sofistico o, ancor peggio, è simile a quello di un decapitato che parla.122 Ritornando sul tema della debolezza dell’intelletto umano nel capitolo VIII Pomponazzi respinge recisamente la dottrina averroistica della copulazione. Si tratta di un passaggio di estrema importanza

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che ci fa capire quanto sia più tenue di quel che si crede il legame tra la gnoseologia, e più in generale tra la psicologia pomponazziana, e la matrice averroistica. Lo spunto è tratto dalla problematica relativa al sapere totale. Il Peretto scrive che esso è inaccessibile all’uomo e a conferma cita Platone per il quale chi ha la pretesa di possedere un sapere universale o è uno stolto o un impostore. La copulazione averroistica di intelletto passivo e di intelletto agente è un ‘opinione fantasiosa’123 ed è impossibile non sono nell’ambito della conoscenza naturale, ma anche in termini più generali. Ma alla dimostrazione secondo cui l’uomo conosce tutto, si risponde che è la menzogna più grande di tutte le menzogne che un singolo uomo possa conoscere distintamente tutte le cose. Pertanto Platone nel III e nel X libro della Repubblica ha scritto: «Chi dice di sapere tutto o è estremamente fatuo o è un astutissimo imbroglione». Forse Averroè ha sostenuto ciò per la sua fantasiosa opinione intorno alla copulazione dell’intelletto agente con quello possibile alla fine della vita, ma tale copulazione non rientra nel corso della natura, come egli stesso riconosce nel commento 36 del III De anima, poiché non sembra possibile nell’ambito della conoscenza naturale; a mio avviso quella copulazione è impossibile, come ho detto esaminando quel commento. Ma è vero che tutte le cose sono conosciute da tutti, intendendo ‘tutti’ in senso collettivo, secondo la comune accezione; pochissime sono però le cose che sono conosciute distintamente da pochi, sebbene forse l’anima beata possa conoscere distintamente tutto nel Verbo, come promette la religione cristiana.124

L’uomo dice Pomponazzi accede in qualche modo al sapere totale, non però come singolo individuo, ma come collettività. È questo in fondo il vero significato della immortalità secundum quid: la costruzione di un sapere non individuale, ma collettivo, che si traduce nella costruzione della scienza come complesso di verità che si accrescono sì con gli apporti individuali, ma nello stesso tempo trascendono gli individui e costituiscono un grande patrimonio collettivo. E forse questa idea è più affine alla posizione di Alessandro125 di un intelletto che progressivamente si trasforma in abito, mentre la posizione averroistica è assimilata da Pomponazzi alla felicità dell’anima beata che, secondo le promesse della fede cristiana, conoscerà distintamente tutte le cose nel Verbo.

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2.3. L’esaurimento della tradizione calculatoria in Italia Si è detto che tra la fine del Quattro e i primi del Cinquecento la polemica anticalculatoria prese sempre più corpo e consistenza negli Studi padovano e bolognese. Lo Zerbi, il Grimani, il Vittori, lo Zimara, l’Achillini, il Contarini, il Politi proseguirono quell’opera di erosione critica già avviata dal Pelacani, dal Thiene e dal Marliani. Il Pomponazzi, per il suo prestigio e per la sua influenza, rappresentò la più autorevole espressione della reazione italiana alle quisquiliae suiseticae. Egli condusse la sua polemica all’interno della logica delle calculationes e ne mise allo scoperto i limiti e l’inconsistenza. I suoi trattati del ‘14 e del ‘15 infersero colpi mortali alla tradizione calculatoria che già da qualche decennio era entrata in una crisi più o meno latente. Dopo il 1520, l’editoria veneta, che pure era stata così attiva a cavallo dei due secoli, non registrò più alcun interesse per gli scritti dei grandi magistri oxoniensi e parigini, né, d’altro canto, venne alla luce alcun nuovo e significativo contributo che portasse ad ulteriori sviluppi la tecnica delle calculationes. A differenza di quanto credono il Kristeller e il Randall,126 gli aristotelici del XV e XVI secolo non svolsero affatto la funzione di conservazione e di trasmissione della metodologia scientifica maturatasi a Parigi e a Oxford nel corso del XIV secolo. Dal Pomponazzi al Galilei, in un arco di circa ottant’anni, le dottrine di derivazione mertoniana caddero in un’obsolescenza pressoché totale. Che le analisi del Peretto fossero considerate ultimative si comprende dal fatto che ben presto i suoi trattati divennero quasi l’unico punto di riferimento sulle dottrine oxoniensi. Si spiega così come sia risultata sostanzialmente fallimentare la ricerca del Lewis127 volta a rintracciare la persistenza di elementi residuali della tradizione calculatoria nel Collegio Romano e negli Studi pisano e padovano. Il quadro che ne emerge è assai interessante, perché mostra come in tema de reactione tanto il Toledo, quanto il Piccolomini e lo Zabarella dipendano quasi esclusivamente dal Tractatus pomponazziano. L’interesse per le problematiche de intensione et remissione formarum era ormai divenuto del tutto marginale e trovava spazio solo in scheletriche e parentetiche citazioni. Inoltre l’informazione su di esse appare frammentaria ed imprecisa, e comunque mai di prima mano, nei Commentaria in octo libros Aristotelis de physica auscultatione del Toledo, nel De principiis del Pereyra e nelle Metaphysicae disputationes del Suárez.128 Il quadro non muta granché riguardo alla cinematica. Assai attenuata e spesso confusa è l’eco mertoniana

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che si può rintracciare nel De motu del Buonamici. Nessuna traccia è riscontrabile nell’omonimo trattato del Borri.129 E solo a prezzo di macroscopiche forzature è possibile rinvenire un qualsivoglia riferimento nel De motu gravium et levium dello Zabarella.130 La realtà è che dopo la seconda decade del Cinquecento la tradizione calculatoria è ormai tagliata fuori dai percorsi culturali che preparano la rivoluzione scientifica. D’altro canto va detto che la storiografia più recente, soprattutto anglosassone, ha esagerato non poco sul ruolo avuto dai logici oxoniensi nella evoluzione del pensiero scientifico. Spesso non si è tenuto in debito conto l’ambiente storico e culturale in cui essi maturarono il loro pensiero o non si è valutato a sufficienza il nesso che lega le loro tendenze terministiche alle istanze della teologia occamistica, che mira a recidere ogni rapporto tra fede e ragione e a porre la ricerca teologica al riparo da ogni intrusione della ragione. Né si è esplorata a fondo la matrice teologico-occamistica della loro originaria vocazione sofistica. Estrapolati dal loro contesto teologico, storicamente determinato, gli strumenti concettuali dei Calculatores e dei Parisienses hanno finito con l’acquisire valenze positivisticoepistemologiche che assolutamente non avevano in origine. Ne è derivato pertanto l’equivoco di interpretare alla luce delle categorie della scienza moderna e contemporanea un complesso di idee e di dottrine che ha invece profonde radici nella realtà storica e culturale del Medioevo. Non è stato perciò difficile, sulla base di tali premesse e con qualche maldestra forzatura, scorgere nei fisici trecenteschi i ‘precorritori’ di quasi tutte le più rilevanti conquiste scientifiche del XVI e del XVII secolo, dall’ipotesi copernicana alla geometria analitica, dalla logica formale alle leggi del moto, trascurando il fatto che queste stesse intuizioni scientifiche si presentavano ancora come complesse e faticose in pieno Seicento. In realtà la logica calculatoria appartiene, nonostante ogni contraria apparenza, alla concezione classico-medievale dell’universo aristotelico-qualitativo. Le calculationes matematiche, elaborate in origine sul terreno della teologia, furono indifferentemente utilizzate come strumenti per la misurazione delle variazioni d’intensità delle virtù teologali e delle alterazioni delle qualità-essenze del mondo fisico. In entrambi i casi il presupposto condiviso fu la comune Weltanschauung animistica. Le qualità fisiche diminuiscono e aumentano come si attenuano e crescono da un minimo a un massimo i moti e le tensioni dell’anima, soprattutto nella sua vocazione verso il divino. Ma le calculationes non sono affatto intese come strumenti di

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misurazione oggettiva, che richiedano la messa a punto di particolari operazioni fisiche, un minimo di strumentazione tecnica, per quanto elementare, o comunque un referente empirico, quale che sia, ma sono solo strumenti concettuali astratti, quasi un ausilio offerto dalla facoltà dell’immaginazione – si pensi alla frequenza dei derivati del verbo imaginor nei testi dei fisici del Trecento – per rendere in qualche modo intelligibili i processi di trasformazione del reale.131 Esse sono perciò assolutamente prive di ogni istanza seriamente scientifica, risultano affatto giustapposte, quasi forzatamente appiccicate, in assenza di qualsivoglia giustificazione, anche solo razionale, alla struttura qualitativa del mondo fisico. Non è perciò un caso che il Pomponazzi abbia voluto e potuto ricondurle all’interno del pensiero aristotelico ed averroistico. Ma di quello stesso aristotelismo era fortemente nutrita la filosofia del Peretto, che perciò mostra di avere in comune con i Calculatores gli stessi limiti intellettuali in ordine alla matematizzazione del mondo fisico. Per quanto egli non escluda tale processo e per quanto le sue critiche siano rigorose e coerenti sul piano logico-matematico e su quello linguistico-terminologico, la sua proposta di ricondurre a differenze aritmetiche i rapporti intensioremissio non appare meno arbitraria ed ingiustificata di quanto lo sia quella dei logici oxoniensi. Egli perciò mostra di possedere dello strumento matematico un’idea non molto dissimile da quella che ne avevano i Calculatores. Se da un lato finì con l’avere ragione delle dottrine mertoniane, dall’altro la sua analisi non fece compiere alcun passo avanti al progresso scientifico. Ed anzi egli aveva ragione di denunciare il Swineshead e i suoi seguaci come dei nuovi sofisti, capaci di demolire ogni sapere, così come non aveva torto nel ritenere che quella strana commistione di finito e di infinito era all’origine delle più eclatanti contraddizioni delle loro dottrine. Certo è che difficilmente la sua polemica anticalculatoria può esser ricondotta soltanto nell’alveo della tradizionale avversione umanistica per la logica dei ‘barbari’ britanni, se non altro perché egli discute senza remore e senza pregiudizi l’ipotesi della quantizzazione delle qualità. Tutt’al più si può scorgere un atteggiamento di conservazione nella sua inclinazione per la logica del finito, sebbene egli non escluda la dimensione dell’infinito, e nelle sue pressanti insistenze sulla necessità di una fondazione metafisica. Ma ciò è in relazione al fatto che le sue istanze intellettuali erano antitetiche rispetto a quelle dell’occamismo, perché, puntando sull’ordine gerarchico delle forme e sulla nozione di perfezione finita, egli esprimeva il bisogno, tutto moderno, di non precludere all’indagine della ragione naturale la sfera della metafisica.

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3.1. Le specie spirituali e l’azione reale Di grande interesse è la Quaestio de actione reali soprattutto per il contenuto dell’articolo I che è il più ampio e il più significativo dei tre che la compongono. Essa non tocca le tematiche calculatorie se non marginalmente, anche se in un certo senso la sollecitazione ad affrontarla parte, come si è visto in precedenza, dal bisogno di approfondire il tema del potere delle specie spirituali, cui avevano fatto riferimento nella loro teoria della reazione Paolo Veneto e Gaetano de Thiene. Com’è suo solito, Pomponazzi affronta la questione da una angolatura di carattere più generale e per stabilire quale sia il ruolo e la consistenza delle species, emanate o riflesse dai corpi materiali come species spirituales o imagines delle qualità prime, estende il discorso al piano metafisico e si propone di rispondere alla domanda se le specie intenzionali o spirituali, ovvero se le immagini che esistono nella nostra mente, possano produrre immediatamente, cioè senza l’intermedio di strumenti appropriati, una cosa reale. Va subito precisato che la problematica è trattata da Pomponazzi nell’ambito della filosofia naturale proprio perché naturale è l’azione di emanazione, riflessione e incidenza che le specie qualitative hanno per Gaetano da Thiene e per Paolo Veneto nei processi di reazione. Già nel De reactione egli aveva lasciato intendere di non fare alcun affidamento sulle species teorizzate dai due filosofi veneti. Nella Quaestio la confutazione è sistematica ed anzi Pomponazzi coglie l’occasione per mettere fuori gioco la causazione magica e le dottrine avicenniane e algazeliane che ne sono all’origine. Ciò significa che in lui non c’è nessuno slittamento o sconfinamento sul terreno della magia; se egli compie, come giustamente segnala Vittoria Perrone Compagni, il tentativo di dare ad essa una ‘fondazione scientifica’, tale tentativo consiste nello svuotarla di contenuti e nel confinarla entro l’ambito della filosofia naturale.132 Pomponazzi infatti nega recisamente i presunti effetti magici della vis imaginationis avicenniana. E lo fa inquadrando preventivamente i termini metafisici della questione. Egli prende le mosse dalla individuazione di una scala noetico-gnoseologica costituita di quattro generi di enti dotati di conoscenza, per ciascuno dei quali si tratta di stabilire qual è il potere produttivo delle specie spirituali. L’ordine gnoseologico si converte di fatto nel solito ordine ontologico-gerachico di gradi di realtà, o come preferisce esprimersi Pomponazzi, in un ordine di enti disposti per essenza. Al vertice di tale ordine gerarchico

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c’è ovviamente il divino, cui fanno seguito le Intelligenze celesti che sono sullo stesso piano delle nature o essenze angeliche; poi vengono gli uomini e, infine, al gradino più basso, le bestie. Tale impianto metafisico è ovviamente di ispirazione platonico-aristotelica, ma è, si può dire, calibrato anche in funzione della religione cristiana.133 Nella concezione dei due ordini superiori (Dio e le Intelligenze), che sono di natura schiettamente metafisica, si innestano, sul tronco di matrice aristotelica, contaminazioni provenienti in parte dal platonismo e in parte dal creazionismo cristiano. Dio è ovviamente il vertice della piramide dell’essere ed è la causa della totalità dell’essere. Tuttavia nel sincretismo metafisico pomponazziano l’ente supremo è considerato, tanto per Platone quanto per Aristotele, causa agente attraverso l’intelletto e la volontà;134 Dio è in tal senso il primo pensante e il primo volente, non solo nel senso aristotelico del pensiero che pensa sé stesso o che ama sé stesso, ma, con uno slittamento verso l’artificialismo cristiano, è l’ente che pensa e vuole l’ordine delle cose naturali. Del Dio aristotelico non resta che l’ossatura scheletrica; la chiave di lettura è sostanzialmente platonicocristiana. Nel tentativo di stabilire il ruolo che le species intelligibiles hanno nella conoscenza divina, il primo passo di Pomponazzi è quello di ricollegarsi al commento 51 del libro XII della Metafisica averroistica, ove il filosofo arabo contrappone alla scientia Dei, che è causa delle cose, la scienza umana, che è causata dalle cose reali. Averroè nel libro XII della Metaphysica, commento 51, ha detto: «La scienza di Dio ha una disposizione contraria alla nostra; la nostra scienza è causata dalle cose, quella divina invece causa le cose». Ma siffatta scienza non è speculativa, poiché come si evince dal libro VI della Metaphysica e dal III De anima, la scienza speculativa non ha ad oggetto né le cose pratiche né quelle produttive; dunque essa [la scienza divina] sarà produttiva; ma chi produce per mezzo della scienza presuppone una somiglianza con ciò che è prodotto, come il costruttore di una casa, costruendo la casa ha in sé un modello somigliante della casa e nel libro VII della Metaphysica si dice che la casa che è fuori dell’anima è prodotta dalla casa che è nell’anima. Pertanto se Dio è il fattore della totalità dell’essere per mezzo della sua scienza produttiva, che non può essere senza una somiglianza con la cosa prodotta, Dio possiede un modello di tutte le cose da produrre e tale modello è la specie. Infatti, nient’altro è la specie se non il modello della cosa, ed è in questo senso che qui parliamo di specie. Dunque Dio causa tutti gli enti per mezzo delle specie di tutti gli enti.135

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Il commento averroistico contiene già in sé una prima risposta al quesito proposto. Le specie spirituali o intenzionali della mente divina sono produttive delle cose, perché la scienza speculativa divina è di per sé produttiva del reale. Ma il tema della produzione scivola inevitabilmente verso l’artificialismo. La produzione, infatti, implica l’assunzione di un modello: il produttore produce sulla base di una somiglianza con ciò che è prodotto; ciò vale per la mente umana come per la mente divina. Come la casa reale è una imitazione per somiglianza con la casa che è nell’anima, così Dio non può produrre se non sulla base di una similitudo. Ne consegue che la specie rappresenta nella mente divina il modello a somiglianza del quale l’ente supremo esercita il suo potere creativo-produttivo. Più verosimilmente di tratta di un artificialismo che ha quella forte componente esemplaristica che abbiamo già incontrata nel De intensione, il cui presupposto è che il modello perfetto ed esemplare, quindi la causa formale ed esemplare, è, secondo il principio aristotelico, iudex sui et obliqui.136 Le radici di questa concezione, forse con una più accentuata componente platonico-agostiniano-cristiana, sono già presenti nei corsi accademici. Nella Quaestio quomodo anima intellectiva sit forma hominis, la concezione del Deus gloriosus dans esse toti mundo è attribuita agli Averroistae e alla sfera delle Intelligentiae intuitive è assegnato il ruolo di causa efficiens, causa formalis, e causa finalis, senza rilevare o far emergere l’intrinseca contraddizione tra la causa formalis o exemplaris e quella efficiens.137 Nella Quaestio an anima intellectiva sit unica vel numerata Pomponazzi cita il Thomista Girolamo Moretto da Monopoli, il quale, sulla scorta di Averroè (Met., XII, comm. 16 e 17), contrappone la causa efficiens, per la quale il movens praecedit tempore ipsum effectum, alla causa formalis la quale è invece simul cum effectu.138 Le contaminazioni platonicocristiane della metafisica aristotelica sono ancor più evidenti nella Quaestio de universalibus. Qui il trasferimento agostiniano delle idee platoniche nella mente divina è pacificamente fatto passare come aristotelicamente compatibile: Le idee non sono altro che immagini e somiglianze delle cose da creare le quali si trovano nella mente divina. Ma questo modo di porre le idee non è quello impugnato da Aristotele… anzi Aristotele stesso ammette questa modalità delle idee. Per cui in Metafisica, XII, 18, in calce, Averroè dice che tutte le cose sono nel primo motore, come nel primo efficiente come un esemplare delle cose da produrre e da fare e che tutte le cose sono nella materia prima come in un ricettacolo. E ciò è evidente perché come nella mente del fattore

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particolare ci deve prima essere l’esemplare della cosa da produrre… così accade anche nella mente divina, che è creatrice di tutte le cose ed è archetipo del mondo ed agisce per mezzo del pensiero e della volontà.139

Nei corsi accademici e nei due trattati anticalculatori uno dei limiti intrinseci di tale esemplarismo metafisico di matrice platonica era stato individuato nella molteplicità delle cose reali; la molteplicità delle idee presenti nella mente divina rischia di compromettere l’unità e semplicità del Dio aristotelico. Tale problematica era strettamente legata all’altra della immediatezza (tesi cristiana) o mediatezza (tesi aristotelica) dell’azione divina sulla natura. Le specie intenzionali che sono presenti nella mente divina sono immediatamente produttive; anzi da esse dipende la totalità dell’essere reale. In ciò si accordano le prospettive metafisiche di Boezio del III De consolatione philosophiae, dell’orfismo, di Platone (soprattutto il Timeo), di Agostino (il De diversis quaestionbus octoginta tribus), dello pseudo-Dionigi del De divinis nominibus e soprattutto di Averroè (i commenti 18, 36, 39 e 51 del XII della Metaphysica). Ma è evidente che dal platonismo timaico del Dio-architetto o demiurgo, che produce ad imitazione di modelli-archetipi, si scivola quasi inevitabilmente verso il platonismo cristiano-agostiniano in cui i modelli-essenze di matrice platonica sono trasferiti all’interno della mente divina e l’attività produttiva del demiurgo è letta in termini creazionistici. Questo impianto metafisico, ora più ora meno esplicitato, è in realtà una costante del pensiero pomponazziano; esso si mantiene pressoché immutato dai corsi inediti giovanili fino alle opere della maturità. Persino le citazioni di Boezio (Dio foggia il mondo nella mente), del Timeo (gli dèi), dell’Octogintatairus di Agostino e del De divinis nominibus pseudo-dionisiano ricorrono costantemente a consolidamento dell’impianto platonico-cristiano.140 Se mai è paradossale che Pomponazzi sottovaluti tale sbilanciamento sul versante platonico o che lo ritenga compatibile con il modello aristotelico. In effetti il discrimine tra il Dio platonico e il Dio aristotelico si attenua attraverso la mediazione averroistica che fa del Dio aristotelico una causa efficiente, finale ed esemplare o formale, ove la soluzione di Pomponazzi, che sembra cavillare sulla precedenza tempore vel natura della causa efficiens, è in realtà una scappatoia poco convincente perché trasforma la causa efficiens in causa conservans, privandola di fatto della sua funzione artificialistica. La realtà è che il rapporto tra la scienza umana e la scientia Dei è più complesso di quanto

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appaia a prima vista. In un certo senso si potrebbe dire che la difficoltà di spiegare il passaggio dal singolare all’universale nell’intelletto umano è simmetricamente opposta alla difficoltà di spiegare il passaggio dalla specie universale alla realtà delle cose singole da parte dell’intelletto divino. Pomponazzi è ben consapevole che la pluralità delle specie rischia di compromettere l’unità e la semplicità dell’Atto purissimo. Egli crede di uscire dall’impasse, affermando che le specie non sono nella mente divina né sostanze, né accidenti. Ma se così è, che cosa esse sono e in che senso sono intenzionali ovvero oggetto della volontà divina? La risposta è ancora una volta mutuata da Platone, e precisamente dal Parmenide: la molteplicità sussiste in ragione della cosa rappresentata, non dell’ente che se la rappresenta.141 Ma è evidente che la soluzione del problema non può essere tale, perché la questione non è chiaramente limitata alla rappresentazione del reale, ma si estende alla sua produzione o alla sua creazione, indipendentemente dal fatto che essa sia immediata o, come vuole Averroè, mediata. Il secondo genere degli enti dotati di conoscenza è rappresentato dalle Intelligenze celesti o dalle essenze angeliche, la cui pariteticità o equipollenza è di per sé indice di una confluenza di aristotelismo e platonismo cristianizzato, tanto più che le Intelligenze non sono soltanto le Intelligenze motrici quali emergono dal libro XII della metafisica aristotelica, ma sono concepite sulla scorta del Timeo platonico come ‘gli immortali a cui Dio assegnò il compito di assistere alla generazione dei mortali’.142 Le citazioni dei testi aristotelici del I Meteororum, del II De generatione e dell’VIII Physicorum, per i quali i moti del mondo inferiore sono riconducibili a quelli del mondo superiore, sono in realtà giustapposti, perché il nucleo essenziale di tale concezione dipende oltre che dal Timeo, dal Liber de causis, per il quale le Intelligenze sono ‘piene di forme’. Sulla stessa linea è il commento 36 del libro XII della Metaphysica averroistica secondo cui le Intelligenze immateriali pensano nel loro atto intellettivo le cose materiali e le producono. In realtà però il rapporto tra le specie e le Intelligenze resta indefinito. Pomponazzi si pone in proposito la questione se le specie sono distinte dalle Intelligenze o se si identificano con esse (quest’ultima ipotesi in particolare sembrerebbe la soluzione preferita dai Peripatetici), ma di fatto il quesito resta sospeso, perché l’autore ritiene che esso esuli dall’indagine in corso.143 Di contro Pomponazzi non tralascia di passare sotto il vaglio della critica la dottrina delle Intelligenze di Algazel e di Avicenna, per i quali esse possono generare, corrompere e alterare in modo

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immediato le cose terrene. L’angelologia algazeliana e avicenniana è ormai svincolata dal rapporto con le orbite, perciò il loro numero non dipende dal numero dei corpi celesti. Nell’universo aristotelico le Intelligenze, o gli immortali di estrazione timaica, non sono elementi meramente esornativi, perché esercitano una precisa funzione nella scala ontologica perettiana. Dio, infatti, essendo un ente immobile, non può produrre il moto se non per il tramite del moto eterno degli enti intermedi. Ne deriva che a livello degli enti produttivi c’è una sorta di divisione del lavoro: Dio può produrre solo in modo immediato e la sua azione immediata è produttiva e creatrice delle sostanze-essenze («cum tamen species Dei sit immediate substantiae productiva, licet secundum Peripateticos fortassis non de novo»);144 le Intelligenze di contro producono attraverso il moto, ma la loro azione produttiva è quella di sovrintendere alla generazione e alla corruzione degli enti inferiori; cioè la loro funzione è esattamente la stessa assegnata dal Demiurgo agli immortali. Ne consegue che nel sistema averroistico-aristotelico solo Dio ha il potere produttivo-creativo. Nel sistema algazeliano-avicenniano l’attività produttivo-creativa di Dio è estesa alle Intelligenze angeliche e, in qualche misura, anche alla vis imaginationis. Il terzo genere di enti dotati di conoscenza è, secondo l’ordine delle essenze, quello degli uomini: le specie sono innanzi tutto specie intelligibili in quanto oggetto dell’intelletto speculativo. Senza di esse non possiamo pensare, né ragionare o procedere per via discorsiva. Oltre ad avere una funzione gnoseologico-speculativa, le specie ne hanno anche una di ordine pratico, perché cadono sia sotto l’intelletto speculativo sia sotto quello pratico. In quest’ultimo caso assumono la funzione di species intentionales. Nella Quaestio l’indagine sulle species intentionales si intreccia con il tema del potere dell’immaginazione, che nella concezione algazeliano-avicenniana sconfina sul terreno della magia. Pomponazzi respinge risolutamente le posizioni dell’avicennismo e sbarra la strada ad ogni forma di magismo. Egli resta saldamente ancorato al terreno concreto della filosofia naturale e, respingendo il magismo di matrice ficinianoavicenniana, esclude dalla vis imaginationis ogni elemento di extranaturalità o di preternaturalità. Per Algazel e Avicenna la realtà esterna obbedisce al comando dell’anima. Fondandosi sul principio secondo cui nell’ordine gerarchico dell’universo ciò che è inferiore e più imperfetto è sottomesso a ciò che è superiore e più perfetto, i due pensatori arabi sostengono che tutta la realtà esterna, che è ontologicamente inferiore e più imperfetta dell’uomo, è soggetta al

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suo comando. Perciò l’uomo può produrre naturalmente e intenzionalmente la pioggia, la grandine, la salute, la malattia, la generazione e la corruzione, ecc. Naturalmente non tutte le anime sono dotate di tali poteri straordinari; il potere d’intervento sulle cose è prerogativa di personalità eccezionali, quali furono i fondatori di religioni, come Mosè, Cristo e Maometto o più in generale i profeti, assimilati dagli uomini comuni alla divinità.145 La confutazione della tesi avicenniana è condotta dal Peretto a partire dalla teoria aristotelica del moto. I testi di riferimento sono il VII Physicorum, per il quale il motore coesiste con il mosso, e, più in generale, il VII e l’VIII Physicorum per i quali il moto è preceduto dal moto e la generazione è preceduta da un mutamento anteriore. In tale ottica non è concepibile che il motore, quale può essere la volontà del profeta, sia esterno alla cosa mossa. Soprattutto è inconcepibile che la natura, regolata dai suoi principi interni, possa obbedire sic et simpliciter alla volontà umana. È difficile credere, dice Pomponazzi, che le nubi obbediscano alla volontà o che da una roccia scaturisca l’acqua o che da una verga si generi all’improvviso un serpente. Il riferimento insidioso ai miracoli mosaici descritti nel Pentateuco è abbastanza evidente. Perciò Pomponazzi si affretta a precisare che tali prodigi, sebbene non siano compatibili con l’ordine naturale delle cose, sono tuttavia possibili per intervento diretto del potere divino e quindi per un miracolo. La soluzione conforme alla fede è sempre teoricamente ammessa da Pomponazzi accanto o a latere o a confronto (come accadrà più esplicitamente nel De incantationibus e nel De fato) a quella aristotelica. Di contro la tesi avicenniana è non solo vana, ma altresì impossibile.146 Il capitolo III del De incantationibus non è che la riproposizione in forma più sintetica della tesi esposta nella Quaestio: Perciò non è assurdo se l’idea, che è nella nostra mente, la quale è una specie, produca talvolta il proprio ideato secondo l’essere reale per il tramite di strumenti incorruttibili, che sono lo spirito e il sangue, quando il paziente è ben disposto.147

Ciò fa pensare che la posizione di Pomponazzi non sia sostanzialmente cambiata, passando dai corsi inediti alla Quaestio, al De incantationibus. La sua soluzione consiste nel negare alle specie intenzionali qualsiasi azione immediata e straordinaria o transitiva sulle cose. Tutto il procedimento si iscrive nell’ordine naturale e si sviluppa nei termini seguenti: l’intelletto pratico ha la funzione di muovere

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l’appetito, il quale a sua volta attiva gli strumenti corporei, come il sangue, gli spiriti e tutti gli altri strumenti che sono necessari per mettere in moto il corpo; quindi si passa dagli strumenti interni a quelli esterni; così, servendosi di questi ultimi, il costruttore della casa produce la casa fuori dell’anima sulla base del modello di casa che è nell’anima. Pertanto i Peripatetici concordi hanno ammesso che l’intelletto pratico muove l’appetito, il quale muove gli spiriti e gli altri strumenti richiesti per il moto; dallo stesso intelletto pratico non può di per sé provenire alcunché se non in tal modo. Quando dunque un artefice vuol costruire una casa, mette in moto gli strumenti interni, i quali poi mettono in moto quelli esterni e così si produce la casa.148

In questi passaggi non c’è spazio per nessun potere speciale; l’artefice particolare esercita sì un’azione sul mondo reale a partire dalle sue specie intenzionali, ma a condizione che si tenga entro l’ordine della natura. L’immaginazione che trascende l’ordine naturale resta improduttiva e le specie intenzionali che ad essa fanno riferimento restano senza effetti. Lo stesso costruttore della casa deve rispettare l’ordine naturale delle cose se vuole che il suo progetto costruttivo vada in porto. La Quaestio costituisce un ulteriore approfondimento o chiarimento della polemica anti-avicenniana, già presente nella Expositio de substantia orbis, e preannuncia la confutazione della magia che sarà condotta nel De incantationibus. Il filo conduttore che attraversa tutto il pensiero pomponazziano dal 1507 (l’Expositio) al 1520 (il De incantationibus) non è dato dal tentativo di fondare la magia come scienza, ma da quello di una sua reductio alla scienza naturale. Più precisamente per Pomponazzi la magia è espressione non di un volere arbitrario che si pone contro e sopra la natura, ma di un volere che è assoggettato al dominio della filosofia naturale. Il che, in ultima analisi, significa che la magia stessa è negata. L’impostazione perettiana non ha nulla a che fare con il tentativo ficiniano e pichiano di dare alla magia una patina di scientificità.149 Sono percorsi completamente diversi e giungono ad esiti del tutto differenti. Nei due platonici – pur nel quadro di una lettura razionalistica – permane la cornice generale della causazione magica. In Pomponazzi le cause naturali, per lo più coincidenti con la causazione astrologica, sono soggette ad un ordine necessario in cui non c’è spazio per la forma mentis del mago. Nella sexta dubitatio del capitolo IV del De incantationibus l’esclusione della causalità demonologica è dettata dall’istanza di non fare della magia e della negromanzia una scienza

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alla pari con la medicina e l’astronomia o, meglio ancora, è dettata dall’istanza di assimilare le operazioni magiche a quelle della medicina e dell’agricoltura, ovvero di quelle discipline scientifiche in cui le conoscenze naturali sono messe a frutto in operazioni riconducibili alla nostra volontà. Così recita il testo perettiano: Il sesto dubbio verte sulla prima delle modalità poste, poiché secondo tale modalità (anzi, secondo coloro che sostengono che queste cose sono prodotte dall’arte dei demoni), la magia e la negromanzia sarebbero scienze non meno della medicina e sarebbero soggette alla filosofia naturale e alla astrologia, poiché in tali arti i demoni non fanno altro che operare come le cose naturali, ovvero applicano i principi attivi a ciò che è propriamente e proporzionatamente passivo (e questo è opera della natura), in tempi determinati e sotto determinate configurazioni astrali (e questo è proprio della scienza astronomica), non essendo la scienza naturale e l’astronomia negate agli uomini, giacché essi possono produrre per mezzo dell’intelletto agente tutte le specie e riceverle tutte per mezzo dell’intelletto possibile. Infatti… queste operazioni sono ricondotte alla nostra volontà e di conseguenza [la magia e la negromanzia] saranno simili alla medicina, all’agricoltura e ad altre consimili scienze.150

La risposta alla sexta dubitatio, proposta nel capitolo VI, conferma sostanzialmente che la presunta causazione magica (se pure si può chiamare magica)151 coincide in realtà con la naturale utilizzazione delle proprietà delle erbe, delle pietre e di altre cose naturali. Se mai si tratta di stabilire come tale sapere naturale viene acquisito, cioè se esso presuppone una ingegnosità individuale oppure lo studio o l’esperienza, senza alcun ricorso all’ausilio di entità superiori come gli angeli o i demoni («ex industria sua, ut pote ex studio vel esperimento, sine adminiculo superiorum, sive sint boni angeli sive sint mali»).152 Più che una scienza, la magia naturale e demoniaca è un’arte che sfrutta le conoscenze della filosofia naturale e, solo in quanto tale, cioè in quanto è fattiva o produttiva di effetti che possono essere nocivi, illeciti o nefandi, come le fatture e le rapine, è da bandire dallo Stato ben regolamentato. Insomma la magia si iscrive in quello che Pomponazzi definisce ‘abuso’ dell’arte e della scienza e coloro che vi fanno ricorso meritano di essere puniti.153 In Pomponazzi evidentemente viene a cadere la classica concezione del mago che prende d’assalto la natura e pretende di dominarla o assoggettarla al proprio arbitrio individuale. Non c’è nessun filo che su questo fronte lega Pomponazzi a Pico, a Ficino o al Reuchlin. La

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magia è un’arte maldestra che può indurre ad un uso innaturale delle scienze fisiche. Ciò che è paradossale è che la reductio alla filosofia naturale, per via della condanna e della estromissione dallo Stato, fa sì che il filosofo mantovano si ponga, sia pure in una prospettiva razionalistica, anziché fondamentalistica, in concorrenza e non in opposizione al Malleus Maleficarum di Sprenger ed Institoris, posto che egli abbia voluto arginarne l’ideologia.154 D’altro canto nella misura in cui si riduce ad un’arte che è frutto della industriosità e ingegnosità individuale, la magia non può pretendere di avere lo statuto epistemologico della scienza, perché intorno alle proprietà individuali non sussiste la possibilità di costruzione di un discorso scientifico («Cum itaque secundus modus sit ex proprie tate individuali, ideo non potest cadere in scientiam»).155 Ritornando alla Quaestio, nel gradino più basso della scala dei soggetti conoscenti c’è il genere dei bruti, i quali non sono dotati di intelletto, né tanto meno di un intelletto pratico che metta in moto l’appetito. Tuttavia all’intelletto pratico si sostituisce in toto la facoltà dell’immaginazione, la quale, se nell’uomo è solo strumento dell’intelletto pratico, nei bruti è invece il principio motore: essa sta negli animali nello stesso rapporto in cui negli esseri razionali sta l’intelletto pratico. Naturalmente anche sul versante del rapporto con la realtà esterna c’è una differenza sostanziale con l’azione umana, perché i bruti agiscono esclusivamente per effetto del moto locale e non dispongono della manipolabilità degli strumenti esterni di cui dispone l’uomo. In questo caso la soluzione proposta da Pomponazzi è in linea con quella sostenuta da Tommaso nel De anima.156 L’ipotesi algazeliana e avicenniana è ripresa da Egidio Romano,157 il quale la amplifica e la estende alle cose stesse. Per Egidio cioè gli stessi colori, i sapori, i corpi caldi e freddi e così via hanno un potere intenzionale che si esercita sul mondo reale. La tesi egidiana sembra essere avvalorata dai medici, i quali sostengono che l’immaginazione della febbre quartana produce la febbre quartana o che la fiducia nelle capacità guaritrici del medico generi la saluti o ancora che la donna, la quale durante l’amplesso ha nella mente l’immagine di un uomo diverso dal marito, può generare un figlio che somiglia a quella immagine. Al potere dell’immaginazione accenna lo stesso Aristotele nella Historia animalium e nel De motu animalium. L’idea che l’immaginazione e l’intelligenza possiedano il potere delle cose reali è ulteriormente generalizzata da autori moderni come Paolo Veneto, Gaetano da Thiene, Alberto di Sassonia, Iacopo da Forlì, Marsilio di Inghen e dallo stesso Marliani i quali

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hanno finito con l’ammettere che le specie intenzionali «non solo possono alterare il corpo come strumento dell’anima, ma sono altresì i principi immediati di azioni reali».158 Queste generalizzazioni, se non possono essere demolite a suon di argomentazioni razionali, sono certamente improbabili159 e comunque non sono ammesse né da Aristotele né da Alessandro, il quale nel IV Meteororum spiega che gli strumenti con i quali le cose generabili e corruttibili agiscono e reagiscono sono le qualità prime. Ne dà ulteriore conferma Averroè160 richiamandosi al principio secondo cui uno solo è il modo di produzione delle cose; perciò se la generazione del caldo dipendesse dalle specie intenzionali allora ogni calore reale deriverebbe da quello intenzionale. Ma ipotesi siffatte conducono direttamente alla demolizione dell’ordine della natura. In realtà le specie intelligibili e intenzionali non sono che strumenti dell’anima; sono sì in funzione della comprensione e dell’azione, ma fuori dall’anima non hanno alcuna consistenza. Tolta l’anima – dice Pomponazzi – esse perdono la loro funzionalità: il processo cognitivo è tutto interno al soggetto pensante. Se per ipotesi non ci fossero nell’universo soggetti conoscenti, non ci sarebbero neppure le specie intenzionali. Ma se si toglie l’anima, restano comunque le qualità prime nelle loro reciproche azioni e reazioni che sono indispensabili al divenire naturale. Se si porta alle estreme conseguenze questa argomentazione, si dovrebbe concludere che per il filosofo mantovano gli intelligibili non hanno una consistenza o una sussistenza extrapsichica. Su questo punto la Quaestio non è suscettibile di fraintendimenti di sorta: Pomponazzi cita i Praedicamenta aristotelici per sottolineare che se si toglie l’anima si toglie sì il senso, ma non i sensibili, che sono di fatto le cose reali che possono essere oggetto di una conoscenza sensibile. Ma nello stesso tempo egli osserva che, tolta l’anima, non esistono più le specie. Il sottinteso è che non esiste più né l’intelletto speculativo, né quello pratico e di conseguenza neppure le specie intelligibili. Inoltre le specie non sembrano essere strumenti se non dell’anima a vantaggio della sua comprensione; ciò si evince perché sono chiamate idoli, simulacri e immagini e ciò non accade senza un’anima intelligibile e in quanto esse indicano un rapporto con un soggetto conoscente. Pertanto tutto l’essere di tali specie sembra essere in funzione dell’anima; tolta l’anima, le specie non sarebbero utili a nulla; ma tolta l’anima, ci sarebbe ancora l’azione delle qualità prime, come si evince dai Praedicamenta, nel capitolo De ad aliquid, in cui Aristotele dice che, tolto il sensibile, è tolto il senso, ma tolto

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il senso, non è tolto il sensibile. E Averroè, nel commento 125 del II De anima, dice di aver supposto che taluni sensibili appartengono al capitolo dell’azione e taluni a quello della relazione. E quelli che appartengono al capitolo dell’azione sono qualità prime; perciò le qualità prime non sono primariamente disposte nell’anima. Ne consegue che, tolta l’anima, non agirebbero meno le qualità prime, ma, tolta l’anima, non ci sarebbero le specie.161

Perciò è del tutto irrazionale162 la soluzione di Egidio. Che le specie non possano produrre un’azione immediata sulle cose è provato dal fatto che l’immaginazione, tanto negli uomini quanto nei bruti, non produce effetti. Un vecchio decrepito può immaginare quanto vuole, e quanto più intensamente vuole, l’atto sessuale, ma non è in grado di espletarlo. Così noi possiamo immaginare quanto vogliamo il caldo, ma non ci riscaldiamo se non ci avviciniamo ad una fonte di calore. 4.1. L’aristotelismo e la fede Due mi sembrano i temi ricorrenti nei trattati che abbiamo esaminato e negli altri che sono inseriti nella edizione scotiana del 1525: da un lato la preponderante presenza dell’aristotelismo, dall’altro l’affiorare qua e là, apparentemente in posizione marginale, di tematiche afferenti alla metafisica e alla teologia o più in generale alla fede. La presenza di una forte componente aristotelica, pur con i limiti di cui si è detto, non ha bisogno di spiegazioni: essa rappresenta non solo il cardine fondamentale intorno a cui ruota il travaglio esegetico e teoretico di Pomponazzi,163 ma è anche al centro della sua stessa attività professionale. Egli stesso ci dice di essere stipendiato dall’Università di Bologna per leggere e commentare i testi di filosofia naturale del grande Stagirita.164 Ed in effetti i trattati inclusi nella edizione del 1525 sono tutti afferenti alla filosofia naturale; segno evidente che essi nascono nelle aule dello Studio bolognese e sono, come dire, prodotti sul campo: rappresentano il frutto più maturo di una riflessione filosofica che affonda le sue radici fin nei primi anni dell’insegnamento padovano. Naturalmente bisogna guardarsi dal considerare tali trattati come espressione di un aristotelismo puro, coerente e rigoroso. Come si è detto, Pomponazzi muove da presupposti teoretici che non sempre, o non necessariamente, afferiscono allo stesso aristotelismo. Sicché quel mere peripatetici, che compare nel titolo della

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edizione del 1525, non deve essere inteso nel senso di un aristotelismo stricto sensu. Assai lucidamente Paul Oskar Kristeller non solo ha messo in luce come nel pensiero del Peretto risultino operanti componenti platoniche o platonizzanti, ma ha altresì rilevato che non poche sue posizioni filosofiche non sono riconducibili all’interno dell’aristotelismo.165 Un esempio potrebbe valere per tutti. Kristeller fa giustamente notare che la tesi centrale del De immortalitate animae, secondo cui l’intelletto dipende dal corpo non come soggetto ma come oggetto, è difficilmente deducibile dalla condizionale disgiuntiva aristotelica ‘se il pensare è immaginazione o non è senza immaginazione’. La soluzione pomponazziana va evidentemente al di là della semplice disgiuntiva citata. Ciò dipende dal fatto che la proposta del Mantovano ha la sua origine in un ben preciso impianto metafisico e presuppone la metafisica della partecipazione, o se si preferisce presuppone una metafisicizzazione dell’ordine gerarchico dei gradi di realtà. Solo entro questo ordine, che non è sic et simpliciter aristotelico, è possibile il gioco, meramente matematico e quasi combinatorio, dei due estremi opposti (‘non avere bisogno del corpo né come soggetto, né come oggetto’ e ‘averne bisogno sia come soggetto, sia come oggetto’) tra i quali sussiste l’intermedio (‘avere bisogno del corpo non come soggetto, ma come oggetto’). Senza i presupposti di una metafisica, in cui tra un grado e l’altro della realtà c’è partecipazione, ma anche un salto qualitativo, non si potrebbe giustificare l’anima ancipite o l’anima intellectiva in horizonte aeternitatis. D’altro canto l’idea di un intelletto privo di vincoli sostanzialistici con il soggetto pensante non è che un residuo della concezione averroistica della unità dell’intelletto agente, che nella Expositio de substantia orbis sembra essere condivisa dal Peretto. Nella gnoseologia averroistica quell’idea ha una sua motivazione logica perché strettamente connessa all’ipotesi unitista, sebbene anche in tale gnoseologia resti inesplicata l’azione cognitiva esercitata da un’entità astratta e separata dalla materia su un soggetto pensante, composto di materia e di forma. Nell’abbandonare la gnoseologia averroistica, Pomponazzi conserva come residuo il presupposto dell’assenza di vincoli sostanzialistici tra l’intelletto e il corpo (l’intelletto non ha bisogno del corpo come soggetto, ma come oggetto). Ne deriva l’insanabile contraddizione per cui da una parte l’intelletto, in quanto anima, è forma corporis, ma dall’altra non è organicamente strutturato nel corpo. Sicché non si comprende come possa un pensiero alato e astratto, privo di una localizzazione sostanzialistica e orga-

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nica entrare in contatto con la sensibilità che è al contrario radicata negli organi sensoriali. Tutte le aporie e le difficoltà della psicologia perettiana partono da questa contraddizione di fondo, che dipende da presupposti metafisici ancora sostanzialmente medievali. Si è già più volte accennato agli spunti metafisici presenti nei trattati pomponazziani e nelle reportationes accademiche. In queste ultime la riflessione metafisica sembra essere strettamente collegata alle problematiche psicologiche che occupano quasi tutto lo spazio teoretico dell’indagine filosofica del Peretto. Gradualmente, a partire dai corsi del 1504 e fino ai primi trattati a stampa, si delinea un impianto metafisico che manca di una trattazione sistematica, anche perché non è mai oggetto di un’apposita indagine teoretica. Fin dagli inediti dell’insegnamento padovano è chiaro che il nucleo metafisico del pensiero pomponazziano è quello tipicamente platonico-rinascimentale di un ordine universale gerarchizzato, concepito a specchio dell’ordine sociale gerarchizzato e ne costituisce la santificazione e la pacificazione rassicurante. Le vicissitudines etico-religiose e storico-sociali e la varietas delle forme naturali risultano inscritte in un ordine cosmico armonizzato, irrigidito in una eternità o perennità indefettibile.166 In realtà il pensiero metafisico pomponazziano si sviluppa a macchia d’olio o per innesti successivi, assumendo le diverse curvature imposte dalle istanze teoretiche di volta in volta affrontate Sull’originario troncone dell’aristotelismo, con non poche sfumature averroistiche, prevalente negli scritti giovanili, si innestano progressivamente elementi dottrinali per lo più di matrice platonico-cristiana che erodono, senza mai riuscire a debellarlo, l’impianto originario. Nel De incantationibus e nel De fato l’aristotelismo non è più l’unica chiave di lettura della realtà. Nei corsi universitari degli ultimi anni, che pure hanno ad oggetto testi aristotelici, il confronto con lo Stagirita, come ha ben mostrato Perfetti,167 è sempre più dialettico e a tratti conflittuale. In ogni caso il nucleo centrale della metafisica perettiana è costituito dalla classica piramide dell’essere con al vertice Dio, perfezione assoluta, seguito in una progressiva degradazione ontologica, dalle Intelligenze celesti all’uomo, dalle bestie agli enti inanimati fino alla materia prima. Su ciascuno di tali passaggi il sincretismo pomponazziano e la vis polemica dei suoi scritti incidono notevolmente rendendo molto flessibile la sua posizione nella evoluzione del suo pensiero. Questa sostanziale flessibilità è peraltro dovuta al fatto che per Pomponazzi la sfera della metafisica, che ha per oggetto le sostanze immateriali e separate, pur costituendo una scien-

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za, non ha la certezza della filosofia naturale, ma è oggetto di uno sforzo teoretico di tipo congetturale. Quando sfiora il terreno della metafisica – il che accade per lo più nel De incantationibus e nel De fato – il discorso procede non solo per modum dubitantis, che è una costante della metodologia ermeneutica del Pomponazzi – ma contrae il proprio rigore scientifico, aprendosi ad argomentazioni di tipo congetturale o comunque teoreticamente probabili. Nella Quaestio utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, che è del 1503-1504, Pomponazzi con il solito colorito linguaggio, proprio delle sue lezioni accademiche, si mostra scettico circa la possibilità che il nostro intelletto abbia accesso alla conoscenza delle stesse Intelligenze: «Che conoscenza ha mai l’intelletto delle stesse Intelligenze? Certo nessuna, salvo che non sia una conoscenza imperfetta e pienamente marza... noi conosciamo le sostanze astratte sotto taluni accidenti, procedendo con il discorso, con il sillogismo e con la composizione e conosciamo le stesse Intelligenze come possiamo in modo imperfetto».168 Questa convinzione sembra essere così radicata in Pomponazzi da rimanere costante fino al corso sul De partibus animalium, ove il sapere metafisico si caratterizza non per una certezza di tipo dimostrativo, ma per una certa fluidità che lo rende per lo più incerto e oscuro e in parte di tipo probabilistico e congetturale.169 Proprio per questa natura che sfugge ad una sistemazione epistemologica, nell’impianto metafisico pomponazziano coesistono e si intrecciano, talvolta fondendosi talvolta giustapponendosi e talvolta persino contrapponendosi, almeno tre componenti fondamentali: l’aristotelismo, il platonismo per lo più cristianizzante e l’emanatismo di matrice neoplatonizzante. L’aristotelismo costituisce l’ossatura portante su cui, come si è detto, si innestano contaminazioni provenienti da altri orientamenti di pensiero. Il suo nucleo dottrinale è dato dalla concezione degli enti superiori, Dio e le Intelligenze celesti. Dio è atto puro, semplice, privo di ogni potenzialità, impassibile, pensiero del pensiero, in cui il pensante e il pensato coincidono; Egli è il primo motore o motore immobile, privo di onnipotenza perché dotato di un potere di finito vigore. 170 Il tema della limitazione o meglio della finitezza della potenza di Dio, oltre ad affiorare nella Expositio libelli de substantia orbis, è posto. come sappiamo, nel De intensione in apparente equipollenza con l’ipotesi cristiana della onnipotenza infinita, ma, di fatto, è preferito ad essa in quanto più conforme al pensiero aristotelico. La dipendenza del mondo da Dio, almeno

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fino alla Expositio, è prevalentemente finalistica, più che ontologica: l’ordine universale ha la sua ratio in Dio, in quanto ente perfetto e immutabile; ne consegue che esso è l’ordine indefettibile ed eterno che è all’origine del determinismo pomponazziano. L’immutabilità e l’immobilità di Dio non sono compatibili con la creazione, perché Dio non è soggetto alla novitas e agli accidentia. Dio, cioè, non è creatore, ma ordinatore dell’universo, in quanto è il fine, cui tendono tutte le cose. Pertanto l’azione di Dio sul mondo non è immediata, ma si esercita attraverso la mediazione delle Intelligenze celesti. Nella Questio an anima intellectiva sit unica vel numerata, Dio è ancora il Deus omnino immobilis di matrice aristotelica, che non può essere causa creante, perché «dalla causa antica non può provenire immediatamente un effetto nuovo; non essendoci in essa nessuna vicissitudine delle cose, nessuna novità… sembra che da Dio possa essere immediatamente prodotta… Aristotele dimostrò che qualunque cosa egli produca, la produce per mezzo dei corpi celesti».171 Nella Expositio libelli de substantia orbis, sulla scorta del testo averroistico, si definiscono con maggiore puntualità le proprietà delle Intelligenze, che sono immateriali, incorporee, atti puri, privi di ogni potenzialità, ingenerabili e incorruttibili, non costituite in essere per mezzo di un soggetto, naturalmente inidonee a recepire la novitas o gli accidentia. La matrice averroistica nella Expositio si fa sentire nella trasformazione delle Intelligenze da cause esclusivamente finali a cause efficienti; in esse, in quanto forme immateriali (formae liberatae a materia), il fine e la causa efficiente si identificano (o si distinguono tantum ratione),172 come si identificano il pensato e il desiderato, il pensato e il pensante. Averroistica è altresì la funzione noetico-gnoseologica delle Intelligenze. Mentre in Aristotele la loro esistenza si giustifica solo in funzione del moto traslatorio degli astri, nella posizione averroistico-perettiana si delinea una distinzione tra il primo ente, che è puro pensiero di sé stesso, e le Intelligenze che pensano per mezzo della propria essenza; anche nelle Intelligenze il pensante si identifica con il pensato, ma attraverso la propria essenza esse governano il mondo inferiore. L’oggetto del loro desiderio e del loro pensiero è Dio stesso che, come fine, è causa della perennità del moto delle orbite celesti («ratio perpetuitatis motus est ipsum appetibile quod ipsae appetunt»)173. Le Intelligenze che dipendono dalla causa prima si muovono per sé in assoluto e – secundaria intentione – muovono propter aliud, in funzione degli enti inferiori o in funzione dell’ordine universale e delle cause universalissime al fine di compiacere a Dio.174

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Il Dio della tradizione cristiano-platonizzante è principio pensante e volente, la cui azione sul mondo si esercita o nella forma mediata attraverso le Intelligenze motrici di stampo aristotelico o attraverso gli spiriti buoni o malefici (angeli e demoni) o nella forma immediata, come azione diretta di Dio sul mondo. Molto scettico sulla esistenza degli angeli e dei demoni, Pomponazzi preferisce ricorrere all’ipotesi delle Intelligenze motrici, che però non hanno come nel XII libro della Metafisica aristotelica una funzione puramente motrice, ma ne hanno anche una assistenziale attraverso i moti eterni dei corpi celesti. In realtà le une e le altre Intelligenze sono in qualche modo antropomorfizzate, ma a differenza della pletora delle essenze angeliche della tradizione cristiana, quelle motrici di origine aristotelica sembrano garantire una maggiore stabilità dell’ordinamento universale. Fin dai primissimi corsi universitari il Dio perettiano non è che il Deus gloriosus della tradizione cristiana, sia pure criticamente sorvegliato da una angolatura peripatetica.175 Nella Questio quomodo anima intellectiva sit forma hominis, le Intelligenze sono aristotelicamente concepite in dipendenza essenziale dalle orbite celesti e l’orbita è concepita in dipendenza sostanziale dalle Intelligenze, ma poi tale reciproca dipendenza è letta in chiave averroistica, per cui l’Intelligenza è causa orbis in tre generi di cause, quella finale, quella efficiente e quella formale. Questo nodo dottrinale della triplicità di cause, costantemente presente dai corsi accademici fino alle opere più mature, 176 segna il discrimine o comunque il confine tra il dominio di competenza della metafisica, che è quello delle sostanze immateriali, non mosse, e quello di competenza della filosofia naturale delle sostanze materiali mosse, per le quali valgono tutte le quattro cause aristoteliche, compresa la causa materiale. Le influenze boeziano-dionisiano-agostiniane sono evidenti nella Quaestio de universalibus ove prende corpo la fusione-confusione del Dio aristotelico, ordinatore del cosmo, e di quello platonico-cristiano, ordinatore e creatore. La presenza nella mente divina delle idee-essenze o dei modelli archetipi è data come aristotelica («Aristoteles ipsemet hunc modum idearum concedit»), ma in essa le strategie platoniche di mimesi e di metessi si intrecciano e coesistono con l’artificialismo e con l’esemplarismo cristiano. Si tratta comunque di tematiche affrontate solo di sfuggita e non sufficientemente focalizzate. Il tema, come sappiamo, è ripreso nella Quaestio de actione reali, ove l’azione causatrice, ormai esplicitamente creatrice di Dio (Deus causat totum ens), mediata dall’intel-

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letto e dalla volontà (intelligendo et volendo),177 è fatta passare come dottrina aristotelica. Tuttavia la sua presunta matrice peripatetica è assai dubbia. Nel XII della Metafisica dello Stagirita infatti l’intelletto e la volontà divini sono autoreferenziali e non possono esplicarsi all’esterno, in quanto non possono avere ad oggetto se non Dio stesso come Pensiero e come Bene. Nella Quaestio il rapporto di Dio con sé stesso e con il mondo si snoda tra Dio, che conosce esclusivamente per mezzo della propria essenza, e le Intelligenze che, attraverso la propria essenza, conoscono il mondo degli enti inferiori.178 Qui cade persino la pregiudiziale aristotelica relativa alla novitas ed espressamente si ammette, come possibile, che ‘solo Dio possa creare, sia che crei fin dall’eternità, sia che crei ciò che è nuovo’.179 Dio però non è il creatore del mondo materiale, ma solo delle essenze spirituali o solo delle sostanze nella loro universalità più astratta. Anzi, ad un più attento esame, si scopre che l’azione creatrice si esaurisce su un piano puramente immateriale e spirituale. Tutto il resto non che è l’incessante generazione e corruzione degli enti materiali, cui sono preposte le Intelligenze motrici. Ne consegue che il primo piano, quello della realtà spirituale, è metafisico; il secondo, quello della perenne vicissitudine delle generazioni, rientra nella competenza della filosofia naturale. Che questo modello esplicativo possa ricevere una legittimazione all’interno dell’aristotelismo è un’operazione che può essere compiuta solo a prezzo di mirabolanti forzature. In realtà Pomponazzi si muove sul terreno del creazionismo cristiano come si evince dal fatto che l’azione divina è paragonata all’azione dell’artefice costruttore della casa, il quale riproduce la casa ‘fuori dell’anima’ sulla base di un modello paradigmatico o esemplare, che a sua volta presuppone una similitudo con le cose già prodotte. Ma se l’artefice particolare ‘produce’, Dio è fattore della totalità dell’essere; Egli ‘crea’ perché ha in sé le species ovvero le similitudines di tutte le cose da creare. Se nell’artefice particolare il modello è esterno alla mente del produttore, in Dio l’esemplare o la similitudo è interna alla mente divina. E tuttavia non è possibile parlare di creazionismo cristiano in Pomponazzi per il semplice fatto che esso non si accorda affatto con la tesi prettamente aristotelica della eternità del mondo, la quale costituisce uno dei punti saldi del suo pensiero. Il tentativo pomponazziano di superare l’impasse sulla base di uno slittamento dalla causa efficiens alla causa conservans o sulla base della distinzione tra agenti che precedono solo nel tempo e agenti che precedono solo per natura180 non è che il prodotto di

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un equilibrismo teoretico che non vale a celare la contraddizione di fondo.181 In linea di massima si può dire che dai corsi giovanili al De incantationibus il Dio pomponazziano si trasforma tendenzialmente in un Dio provvidente. Con l’avvertenza che il provvidenzialismo pomponazziano non ha un carattere assistenziale, ma coincide con la potestas ordinaria della divinità fino a sconfinare nel determinismo di stampo fatalistico.182 Meno trasparente, e perciò meno focalizzato, è l’emanatismo di matrice neoplatonica, forse dipendente dal tema della latitudo entis. L’Expositio anticipa l’impostazione del De intensione, privilegiando la via aristotelica, per la quale «in ogni genere uno è il metro e la misura di tutti gli enti che gli appartengono… per cui i peripatetici misurano tutto a partire dal grado sommo ovvero dalla perfezione e così ciò che più si avvicina ai primi principi più è perfetto».183 Questa intuizione metafisica, che è probabilmente più platonica che aristotelica e che a tratti tradisce una matrice emanatistica e neoplatonica, riconduce l’essere e l’operare degli enti superiori ed inferiori ad un rapporto di partecipazione o di influsso emanato dalla fonte divina. Nel capitolo II dell’Expositio il principio emanatistico è implicito nelle argomentazioni con le quali il Mantovano giustifica la nobiltà e perfezione della materia celeste: essa è nobilior et perfectior perché più lontana dalla potenzialità (magis remota a potentialitate) o, mutatis mutandis, perché più vicina all’ente primo («quanto aliquid distat a potentia, tanto magis appropinquat primo enti… tanto magis appropinquat ad perfectionem et ad purissimum actum qui est Deus gloriosus»).184 È esattamente la logica del De intensione che sembra presupporre, più che un ordine metafisicamente gerarchizzato, una concezione emanatistica o di irradiazione dell’influsso della perfezione divina. Qui non prevale più la mimesi della similitudo, ma la metessi o la partecipazione dell’essere e dell’essenza della divinità. La Quaestio Utrum Deus sit causa efficiens omnium rerum et non solum finalis propone la soluzione emanatistica come tutior e magis remota ab ipsa contradictione. La ragione di tale maggiore affidabilità della soluzione emanatistica sta nel fatto che essa attenua il conflitto tra l’artificialismo cristiano e l’eternità del mondo, perché l’emanazione può essere pensata come un’azione produttiva fin dall’eternità (de aeterno producente).185 Tuttavia nel De intensione l’ipotesi emanatistica ha come referente l’influsso o la diffusione meramente fisica della luminosità. L’esempio della emanazione della luminosità, come si è visto in precedenza, è di origine averroistica e ricorre al concetto di sfera di influenza al cui centro si

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posiziona la sorgente luminosa e alla estrema periferia il grado zero della luminosità; tra i due estremi tutti i punti intermedi sono più o meno luminosi a seconda che ricevano più o meno l’influsso della sorgente luminosa. Questa concezione è ripresa, sia pure in termini metaforici, nel commento al De partibus animalium, in cui si conferma l’artificialismo in una prospettiva che è insieme emanatistica e fondata sulla metessi. Il testo recita: Come un corpo luminoso produce un lume e del luminoso partecipa più ciò che più si avvicina ad esso, così anche le cose che più distano da Dio, meno partecipano della potenza divina e della onestà e della bellezza… dobbiamo arguire che è più nobile ciò che più partecipa della divinità, dell’onestà e della bellezza. Ed è così, come proveremo, cioè che la filosofia naturale, la metafisica e gli stessi filosofi tra tutti gli esseri mortali partecipano di più della divinità, dell’onestà e della bellezza.186

Ed è appunto nel quadro della latitudo entis che viene rispolverata con non poca incongruenza la tesi micro-macrocosmica. Scrive Pomponazzi: il mondo si divide in due parti, cioè in una parte eterna e in una parte generabile e corruttibile… ma poiché queste due… sono due estremi e poiché da un estremo all’altro non c’è passaggio senza il medio, si deve pervenire a qualcosa che sia in parte eterno, in parte caduco; ed è tale l’uomo, che è medio tra l’eterno e il non eterno. Per cui l’uomo è detto nesso del mondo, vincolo che collega e congiunge l’eterno e il non eterno… l’uomo è composto di due nature, una terrena e l’altra celeste.187

L’autodeterminazione dell’uomo, che è il tema centrale della Oratio de hominis dignitate di Pico, fondato sul principio dell’esse sequitur operari, mal si adatta alle tesi deterministiche del Peretto, basate sul principio opposto dell’operari sequitur esse, spesso invocato nel De immortalitate animae:188 All’uomo, che è medio, Dio ovvero la natura ha dato la possibilità di volgersi verso il mondo superiore o verso quello inferiore e si deve supporre che Dio e la natura abbiano detto all’uomo: o uomo, io ti ho posto nel mezzo tra le cose generabili e corruttibili e ti ho conferito la libertà di vedere e contemplare l’eterno e il non eterno e ti ho conferito la libertà affinché tu possa trasformarti in Dio e in bestia.189

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Infine nel tentativo di spiegare come l’uomo possa elevarsi fino a Dio e quasi indiarsi, Pomponazzi riprende in pieno il nucleo centrale della teologia cristiana: la trinità divina consiste nella produzione del mondo, nel suo governo e nella sua intellezione. E al trinitarismo divino fa riscontro il trinitarismo degli intelletti, fattivo, pratico e speculativo: Tre sono le prerogative perspicue di Dio: l’operazione e la produzione del mondo, il governo e l’intellezione dello stesso, per cui Dio prima di produrre il mondo lo ha pensato ed aveva l’idea e l’archetipo del mondo a somiglianza del quale produsse il mondo fuori della sua mente. Infatti, se non avesse pensato questo mondo, non avrebbe potuto produrlo. Conosciamo dunque Dio dalla sua creazione, dal suo governo e dalla sua intellezione del mondo. Sicché Dio ha prodotto, regge e pensa questo mondo. Lo ha prodotto per mezzo dell’intelletto fattivo, lo regge per mezzo dell’intelletto attivo e lo pensa per mezzo dell’intelletto speculativo. Ora, perché l’uomo si assimili a Dio in questi tre intelletti, Dio ha dato all’uomo l’intelletto attivo, quello fattivo e quello speculativo. Ne consegue che l’uomo è stato creato a somiglianza di Dio secondo quei tre intelletti.190

E tuttavia c’è un marcato divario tra la metafisica e la filosofia naturale del Peretto. Mentre la prima è sotto la suggestione del platonismo e tradisce ascendenze e contaminazioni cristiane, per la seconda le coordinate dell’aristotelismo sembrano più consolidate e più consistenti. Qui, anzi, Pomponazzi rivela di possedere una assoluta padronanza dei testi aristotelici non soltanto nella lettura esegetica minuziosa e capillare, attenta a cogliere ogni lieve sfumatura di ogni singolo passo, ma anche in riferimento ad una intuizione più complessiva del pensiero dello Stagirita. In tutte le problematiche affrontate, da quella sull’intensità e sulla attenuazione delle forme a quella sulla reazione, dall’immortalità dell’anima ai processi biologici dell’accrescimento e della diminuzione, insomma, passando dalla fisica alla logica, alla matematica, alla psicologia e alla biologia, Pomponazzi coglie il nucleo centrale delle questioni all’interno del pensiero aristotelico, integra i testi, ne smussa le contraddizioni più o meno evidenti, ne colma le lacune, accorda le soluzioni entro i parametri più generali dell’aristotelismo. In questo ambito veramente egli identifica ipso facto la ratio aristotelica con la ragione naturale, che prescinde da ogni precauzione di ordine religioso. Ed è entro tale ambito che Pomponazzi assume il ruolo storico di emancipazione del sapere scientifico e di separazione tra fede e ragione.191

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Questa, in fondo, è l’eredità più significativa che egli trasmette al pensiero rinascimentale e che darà i suoi frutti più fecondi agli albori dell’età moderna. Essa, per fare solo un esempio di sfuggita, è l’eredità colta da Vanini e sviluppata nella direzione di una filosofia improntata ad un razionalismo più radicale. E proprio sul terreno della filosofia naturale si apre il confronto – se non addirittura lo scontro – con il pensiero teologico-religioso. Pomponazzi non ha remore di sorta nel segnalare gli estremi di tale conflitto: le ragioni della filosofia naturale e quelle della teologia non si accordano, non sono pacificabili. Soprattutto l’obiettivo, neppure mascherato, del Mantovano è di far entrare in crisi il modello esplicativo del tomismo. L’idilliaco accordo tra la ragione e la fede appartiene ormai al passato ed anzi la sua messa in discussione segna il discrimine più profondo tra l’Età medievale e quella moderna. Purtroppo il conflitto tra l’aristotelismo e la fede si coglie solo qua e là attraverso sporadiche battute, in certi spunti anticristiani, ma non è mai oggetto di analisi esplicita;192 anzi il più delle volte Pomponazzi lascia in sospeso le questioni più compromettenti. Dopo averne fatto cenno, dice che esse esulano dalla problematica su cui verte di volta in volta il suo discorso. Si tratta evidentemente di un atteggiamento cautelativo. Egli sapeva fin troppo bene che la sua adesione all’aristotelismo non aveva mancato di destare sospetti di eresia a suo carico. Ne fa cenno egli stesso, forse in riferimento ad uno dei due periodi dell’insegnamento padovano o comunque ad un periodo di non poco anteriore alle reazioni inconsulte dei frati veneti incappucciati o alle infiammate prediche del Fiandino.193 Eppure attraverso le allusioni più o meno larvate, o più o meno esplicitate, il conflitto tra aristotelismo e fede assume nei suoi trattati dimensioni sempre più ampie. A dispetto della marea montante, che rischiava di travolgerlo, Pomponazzi si tiene fermo sulle sue posizioni ed anzi per un certo verso le irrigidisce, pur ricorrendo a formule autoprotettive e pur dichiarando – almeno formalmente – di sottomettersi al definitivo giudizio della Chiesa e delle autorità ecclesiastiche. Nel De immortalitate, tale formula ricorre una sola volta alla conclusione del libro.194 Nell’Apologia, dopo lo scoppio della tempesta, e soprattutto nel Defensorium, dopo le traversie editoriali, le formule cautelative e la prudenza si fanno più scoperte. Molto più frequenti esse sono nel De nutritione, forse per la pericolosità della stessa materia più facilmente suscettibile di sconfinare in forme di accentuato naturalismo. L’impressione complessiva che se ne ricava è che, a dispetto

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di tali formule protettive, passando dall’Apologia al De nutritione, il pensiero del Mantovano risulti più marcatamente radicalizzato. È possibile che egli non avesse consapevolezza dei pericoli cui andava incontro? È possibile che sopravvalutasse le protezioni di cui godeva nelle alte sfere del potere pontificio? Non credo né nell’una né nell’altra ipotesi. Se da un lato le formule cautelative sono di per sé indice della consapevolezza del pericolo, dall’altro non mi sembra che le procedure inquisitoriali potessero subire battutte d’arresto se non in presenza di concreti atti formali. Anche il benevolo intervento del Bembo non sembra che abbia potuto interrompere le procedure di competenza del Maestro del Palazzo Apostolico, se è vero che il cardinale Giulio de’ Medici ancora nel corso del 1518 si informava come mai il De immortalitate fosse stato dato alle stampe senza la preventiva autorizzazione. La realtà è che il Pomponazzi si muoveva ancora all’interno di una tradizione tardo-medievale in cui si era ormai delineata una relativa autonomia dell’indagine scientifica rispetto alle ingerenze della fede. D’altro canto il cardinale Caietano, ovvero Tommaso De Vio, aveva sostenuto la stessa tesi mortalistica, anche se lo aveva fatto quattro anni prima (1509)195 che il pontefice Leone X, imponesse d’autorità la soluzione della bolla Apostolici regiminis (1513). Lo stesso Alberto Magno aveva dichiarato, come afferma Pomponazzi nel Defensorium, che le credenze non si accordano con le scienze e che i principi della fede non si accordano con i principi naturali.196 Probabilmente alla luce di tale tradizione Pomponazzi poteva ritenere tollerabile, entro certi limiti, una naturale e inevitabile conflittualità tra ricerca scientifica e fede. Ciò che tuttavia stupisce è l’ampiezza che tale conflitto assume via via nelle pagine dei trattati pomponazziani. È appena il caso di segnalare che esso va ben al di là della questione relativa alla mortalità o immortalità dell’anima, come potrebbe far pensare il De immortalitate animae, in cui è escluso preventivamente il ricorso alle credenze, alla rivelazione e ai miracoli.197 Il conflitto anzi si estende ad alcuni dei nodi centrali del pensiero religioso, quali possono essere la natura e l’esistenza di Dio e il suo stesso rapporto con il mondo. Si è già accennato alla impossibilità di conciliare con la filosofia peripatetica l’idea di un Dio dotato di perfezione infinita, quale è quello della religione cristiana. L’insistenza sulla perfezione finita di Dio e sulla natura necessaria della sua azione produttivo-creativa si può dire che sia una costante del pensiero pomponazziano. Essa è presente non solo nel De intensione, ma anche nell’Apologia.198 In quest’ultima opera sembra messo in crisi il concetto stesso di crea-

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zione non solo perché Pomponazzi legittima il novum solo all’interno della dottrina peripatetica, per la quale esso non può provenire se non da una materia soggetta, ma anche perché nega la possibilità dell’atto creativo in quanto moto o alterazione non conforme ai principi dell’aristotelismo.199 L’area della conflittualità si estende anche alle materie più scabrose del pensiero teologico. L’incompatibilità dell’Eucaristia con i principi della fisica aristotelica è sottolineata più volte in chiave antitomistica: c’è una analogia – dice Pomponazzi – tra l’eucaristia e l’immortalità dell’anima; entrambe sono insostenibili in via aristotelica perché non è possibile che la forma sia separata dal soggetto.200 Lo stesso vale per la resurrezione, per l’angelologia e per la demonologia cristiane:201 non essendo le forme inseparabili dai loro sostrati non è concepibile per l’aristotelismo l’esistenza degli angeli custodi o l’assunzione dei corpi da parte di Intelligenze angeliche o demoniache;202 di conseguenza è messo pericolosamente in discussione lo stesso passo evangelico in cui si narra di demoni che infestano corpi umani o animali.203 Dall’angelologia alla profezia il passo è breve. Il bersaglio principe è sempre Tommaso che tentò di cristianizzare Aristotele;204 egli ammise accanto alla profezia naturale la profezia di origine divina e soprannaturale, che è incompatibile con l’aristotelismo. Per Tommaso le immagini e le specie sono prodotte nella mente del profeta direttamente da Dio; ma questo nei termini della filosofia naturale significa affermare che esse non sono un prodotto dell’immaginazione del profeta.205 La confutazione non risparmia neppure i testi evangelici: Aristotele non ammette che la divinazione abbia un’origine divina e Pomponazzi cita come caso emblematico l’apparizione dell’angelo che predice a Giuseppe le persecuzioni di Erode.206 Ancor più insidioso è l’accenno all’eresia di Montano, per il quale i profeti non parlano per bocca dello Spirito Santo. E per giunta il passo è seguito da un non meno ardito riferimento alla Pentecoste.207 Di contro la profezia naturale è fatta coincidere con il sapere scientifico. Gli astrologi predicono ed interpretano le geniture sulla base delle congiunzioni astrali e dei moti celesti. Haly Halbohazen predisse che il fanciullo appena nato avrebbe vaticinato perché era in possesso della scienza astrologica.208 In direzione opposta sembra muoversi il libro II dell’Apologia ove la profezia di origine divina acquista addirittura una funzione politica e rientra nel piano provvidenziale divino che sopperisce alla debolezza e alla incapacità umana di fondare e conservare lo Sta-

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to nella giustizia. Ma in realtà tutto il contesto del passo è molto equivoco; da un lato c’è un riferimento all’origine naturale e associazionistica dello Stato con il riferimento all’anthropon politikon zoon erroneamente collegato al IV Ethicorum, anziché al libro I della Politica; dall’altro allude all’origine naturale dei profeti (la natura produce siffatti profeti per il governo degli uomini) che, come fondatori delle santissime religioni, sono reputati quasi alla stregua di divinità o di esseri intermedi tra gli uomini e gli dèi, al di sotto del Dio e al di sopra dell’uomo. La stessa invenzione delle arti e della medicina sarebbero il frutto di una rivelazione divina trasmessa ai profeti nel sogno e nello stato di veglia sotto l’azione dell’estasi o del divino rapimento.209 È difficile credere che questa parentesi eccentrica, ed anzi unica, nel contesto dei trattati mere peripatetici corrisponda al pensiero di Pomponazzi. È anzi possibile che nella ambiguità del testo egli abbia voluto ricondurre, non senza un tocco di ironia, la rivelazione nei confini naturali e storico-sociologici della fisiologia delle religioni, come loro imprescindibile momento fondativo. D’altro canto che egli fosse poco propenso ad accogliere, come Tommaso, la profezia soprannaturale, si evince da tutto il contesto della stessa Apologia che su questa questione e sulla problematica dei miracoli anticipa diversi temi del De incantationibus. Solo per ragioni cautelative sono fatte salve le profezie relative al Cristo, che sono opera dello Spirito Santo, il quale talvolta, come sembra segnalare ironicamente Pomponazzi, non disdegna di manifestarsi attraverso le essenze angeliche. In ogni caso la capacità profetica è in sé bollata come fabulosa.210 Tale era quella di Apollonio di Tiana, nelle sue sfumature prefrancescane. Naturalmente non manca il contesto protettivo: la profezia naturale non distrugge la religione cristiana, perché le verità della fede non sono riconducibili alle cause naturali.211 Analogo è l’atteggiamento verso l’estasi e il rapimento: per Aristotele si tratta di forme di infermità, ma l’affermazione è attenuata con la solita cautelativa esclusione del rapimento di Mosè e di Paolo.212 Il confronto con Tommaso si sposta dalla profezia ai miracoli. Sullo sfondo c’è sempre l’assoluta incompatibilità tra aristotelismo e verità della fede. Come è indimostrabile con i principi della ratio naturalis l’immortalità dell’anima, così sono indimostrabili l’incarnazione di Cristo, la Trinità e la resurrezione. Aristotele nega le apparizioni e i miracoli.213 La definizione tomistica214 di miracolo vero come ciò che trascende le facoltà della natura è già di per sé inaccettabile nell’ambito della filosofia peripatetica. Essa è più esplici-

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tamente respinta nel De immortalitate.215 Ed in effetti alla tesi tomistica Pomponazzi contrappone i miracoli immaginari o prodotti da uomini fraudolenti, come sono i miracoli narrati da storici romani, come Livio, Eutropio, Valerio Massimo. E l’osservazione critica si estende anche ai Dialogi gregoriani.216 Nell’Apologia attenua la posizione citando a conferma della immortalità dell’anima i miracoli della resurrezione di Lazzaro e della resurrezione o epifania del Cristo nella casa dei discepoli a porte chiuse.217 In ogni caso l’area del pensiero religioso è assimilabile a quella della fantasia dei poeti; le affermazioni delle religioni sull’anima sono irrazionali. Più verosimilmente la funzione dei profeti fondatori delle religione è didascalica e pedagogica. Essi non hanno l’obiettivo di perseguire la verità, ma solo di rendere gli uomini morigerati e buoni. Perciò nel dominio della religione l’inganno e la menzogna sono di casa. Nel De immortalitate, preso atto che la tesi immortalistica è negata da Aristotele, Pomponazzi dichiara che intorno ad essa si ingannano tutte le religioni.218 Nel contempo non esita a ricorrere alla teoria dell’impostura o dei tre impostori, espressa nella forma più attenuata, per cui almeno due della tre religioni monoteistiche (la cristiana, la musulmana e la giudaica) sono false con la conseguenza che la maggior parte dell’umanità è tratta in inganno.219 Anzi, proprio in funzione dell’inganno, i profeti fondatori di religioni hanno inventato gli apologhi, che non sono altro che finzioni fantasiose e spesso oscure; il vero intento del profeta è il lucro o il desiderio di apparire, mai l’amore della verità. Al linguaggio oscuro del profeta si oppone la chiarezza del filosofo; alle finzioni del primo si oppone l’amore per la verità da parte del secondo.220 Nel De immortalitate l’apologo, in quanto finzione del politico, presenta una connotazione più positiva rispetto all’Apologia; esso è pur sempre una finzione ma non è ipso facto la fabula falsa quale può essere l’apologo sul paradiso terrestre;221 anzi il suo valore di verità è interpretato averroisticamente come non suscettibile di una valutazione; esso ha sì una funzione didascalico-pedagogica ed etica, ma ha altresì un preciso ruolo nella antropologia pessimistica del Pomponazzi perché sopperisce almeno in parte alla già nota deficienza della natura umana, immersa nella materia e poco partecipe dell’intelletto.222 Sul piano teologico il contrasto con la filosofia naturale è accentuato con una tecnica che potremmo definire di concatenazione logica delle premesse e delle conseguenze. Si tratta di una strategia che compare tanto nell’Apologia che nel Defensorium ed è così congegnata: se si ammette l’immortalità dell’anima, se ne

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debbono ammettere i presupposti teologici, cioè lo stato di innocenza, la caduta nel peccato, l’incarnazione, la resurrezione, il giudizio universale; ma nessuno di tali passaggi è giustificabile sotto il profilo della filosofia naturale. Un analogo procedimento troviamo nell’Apologia, con l’aggiunta che se l’anima fosse immortale sarebbe negata l’eternità del mondo.223 Come interpretare questo conflitto così radicale e profondo tra la filosofia naturale e il pensiero religioso in generale e cristiano in particolare? Certo sorprendono talune punte estreme della polemica anticristiana, ma forse esse non vanno lette come espressione di posizioni radicali, antireligiose o anticristiane, ma vanno inquadrate, in polemica antitomistica, nell’ottica della separazione tra fede e ragione. In fondo ciò che rende rivoluzionaria la posizione del Peretto è proprio l’esplicitazione di tale conflitto. Se negli autori del Tre e del Quattrocento esso è ancora latente, Pomponazzi lo fa esplodere alla luce del sole. Ovviamente la radicalità di questa posizione lo espone alle reazioni più o meno violente del potere religioso o lo fa apparire come miscredente agli occhi dei libertini del primo Seicento.224 La frattura con il tomismo ha le sue origini in una diversa concezione della ragione: pur ammettendo una sfera di verità che la trascende, Tommaso le riconosce una indiscutibile funzione teoretica come strumento di accertamento della verità, quanto meno preliminare rispetto alla fede. Pomponazzi paradossalmente, pur avendo insistito sul ruolo centrale della ratio naturalis nell’ambito della filosofia naturale, non ha nei confronti della ragione la stessa fiducia o le stesse certezze che aveva l’Aquinate. Uno dei pochi casi in cui questa problematica emerge in tutta la sua complessità è, come abbiamo già avuto modo di vedere, nel citato capitolo I della seconda sezione del De reactione. Qui la ragione ha un ruolo subordinato rispetto alla esperienza sensibile da una parte e rispetto alle certezza dei principi della fede dall’altro. Si tratta di un processo di decentralizzazione della ragione, che è forse un ulteriore elemento di matrice scotiana. E che non si tratti di una affermazione sporadica ce ne rendiamo conto quando Pomponazzi insiste sulle difficoltà, incertezze, oscurità e debolezze dei procedimenti dimostrativi razionali. Non a caso definisce l’intelletto umano quasi un’ombra delle Intelligenze superiori; il limite oggettivo dell’intelletto umano sta nella sua natura razionale, non intuitiva. Questo limite va ancora una volta letto all’interno della scala gerarchica delle Intelligenze dotate di pensiero e di conoscenza: al

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vertice ci sono le Intelligenze intuitive (Dio e le Intelligenze motrici), che hanno un accesso diretto e privilegiato alle verità soprarazionali. Ad un gradino più basso c’è il pensiero umano razionale che procede per mediazioni, collegamenti, deduzioni. Ed è proprio questo elemento di discorsività ciò che rende fragili e intrinsecamente deboli le conclusioni della nostra ragione umana. L’aristotelismo è sì il punto più alto di questa razionalità; ma è pur sempre l’espressione di una razionalità imperfetta. Ciò spiega la duplicità dell’atteggiamento perettiano nei confronti dello Stagirita: da un lato egli è un’autorità di massimo livello, un essenziale punto di riferimento per tutte le questioni naturali, dall’altro può essere integrato, corretto e persino confutato. Alla luce di queste considerazioni possiamo forse comprendere meglio certi aspetti del pensiero pomponazziano. Innanzi tutto possiamo escludere nella maniera più risoluta una lettura in chiave materialistica225. Essa ci pare comunque incompatibile con l’impianto metafisico che è presupposto dalle indagini di filosofia naturale: pur nel suo legame indissolubile con la materia, l’uomo resta in ogni caso un intermedio tra il mondo superiore e quello inferiore e il suo destino terreno e mondano non gli preclude orizzonti etici e speculativi che, pur con i limiti che sappiamo, lo pongono al di sopra della vita bestiale e materiale, in horizonte aeternitatis.226 D’altro canto la separazione della fede dalla ragione o della sfera religiosa da quella filosofica, anche se non manca di assumere coloriture talvolta estreme, non deve indurre a pensare che Pomponazzi si ponga fuori dalle categorie del pensiero religioso. Egli non è un ateo, né tanto meno è un miscredente.227 Il suo sarcasmo anticlericale, le sue battute salaci, soprattutto nei corsi accademici, colpiscono più i comportamenti dell’uomo di religione che la fede, o comunque ironizzano e scherniscono i procedimenti schematici e stereotipati con cui le verità della fede vengono propalate dai teologi, talvolta anche con il supporto di dimostrazioni vacillanti. Anzi il più delle volte le ragioni del teologo appaiono al Pomponazzi inconsistenti e dannose per la stessa fede; la sua polemica antireligiosa e anticristiana, che qualche volta si estende fino a compromettere il testo biblico, sia vetero- che neo-testamentario, è soprattutto una polemica contro la pretesa di dar forza di ragione a verità che sono di per sé soprarazionali; di fatto la sua polemica è volta a liberare la fede dalle fabulae che la inquinano. Ciò lo induce a scuotere un edificio ormai consolidato, a rimettere in discussione una tradizione, un complesso di credenze,

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spesso irrazionali; a mettere a dura prova la fede ingenua di un Fiandino, di un Nifo o di un Contarini, convinti di trovare nel tomismo o nella ratio aristotelica le armi per combattere e arrestare il ciclone della logica argomentativa pomponazziana, che puntava a scarnificare del superfluo e del fabuloso il tradizionale pensiero teologico. Ed è naturale che quanto più si delinea l’urto e lo scontro con posizioni cristallizzate, più frequenti – e forse anche più preoccupate – si fanno le dichiarazioni pomponazziane di fedeltà alle decisioni canoniche del potere ecclesiastico.228 Esse ovviamente – è appena il caso di rimarcarlo – sono strumentali e cautelative. La formula, di origine agostiniana, più volte ripetuta ‘credo al Vangelo, perché crede la Chiesa’, è poco convincente se ricorre solo in un contesto protettivo229. Nelle determinazioni della gerarchia ecclesiastica Pomponazzi credeva pochissimo, tant’è che a dispetto di esse si ostinava a proseguire con tenacia e fermezza la sua battaglia ideologica. «Lungi dal filosofo e dal cristiano – egli scrive – l’idea di avere un’opinione nel cuore e un’altra sulla bocca; mentirei se dicessi cose diverse da quelle che penso».230 Non c’è spazio per la dissimulazione quando si conducono battaglie di portata storica. E forse solo in un contesto troppo ostentatamente cautelativo si dichiara pronto al martirio per la difesa della immortalità dell’anima.231 Ciò in cui invece il Pomponazzi appare sincero è nella accettazione di una fede pura, deteologizzata, scrollata dalle fabulae e dalle deboli argomentazioni della ragione,232 forse neppure incapsulata nella forma canonizzata del Glaubensartikel e neppure ingenuamente fondata sulla Scrittura canonizzata. La sua è probabilmente una fede indimostrabile perché trascende la ragione, ha connotazioni in parte paoline, in parte agostiniane; le argomentazioni teologiche sono per lo più risibili: gli increduli – egli scrive – ci deridono se diciamo di credere sulla base di argomentazioni così zoppicanti.233 In fondo a che servono le ragioni per la fede? Che bisogno c’è di ragionamenti astratti? Che fede è mai la nostra, se ha bisogno di dimostrazioni? Non è forse una fede più autentica credere in ciò che non si vede?234 Questa concezione della fede è nello stesso tempo il punto di forza e il punto di debolezza del pensiero pomponazziano; è il punto di forza perché, com’è evidente, denuncia la falsità e la fragilità delle soluzioni tomistiche o comunque affini al tomismo; è il punto di debolezza, perché lascia la fede in un orizzonte sfumato, se non addirittura fumoso, in cui essa diventa inafferrabile e tutto somma-

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to incomprensibile. In questa luce assume forse maggiore verosimiglianza il ricorso alla neutralità teoretico-concettuale delle dimostrazioni relative alle materie di fede. Di primo acchito si potrebbe pensare che si tratti di un cedimento di fronte al potere ecclesiastico o di una incoerente deviazione dal percorso seguito nei capitoli precedenti. Ma non siamo di fronte né ad un’abile scappatoia né ad una fuga dalle conseguenze estreme della propria posizione filosofica né ad una soluzione di comodo. La soluzione scotiana del problema neutrum235 è probabilmente quella che meglio esprime la posizione del Peretto di fronte alle questioni teologiche; essa è presente fin dai corsi accademici del 1504, quando ancora non era emerso il conflitto con le autorità religiose. Giustamente Vittoria Perrone Compagni, in riferimento all’ultimo capitolo del De immortalitate, ha osservato che il testo non contiene «nessuna flagrante incoerenza teorica» né «una insincera (in quanto contraddittoria) sottomissione all’autorità della Chiesa». Ovviamente ciò è vero nella misura in cui non si esclude la neutralità teoretica invocata dal filosofo.236 Se non v’è dubbio che nel contesto del passo c’è una evidente sferzata ironica nei confronti di Tommaso, è però poco credibile che Pomponazzi proclami la neutralità pur ritenendo che la bilancia penda per l’una o per l’altra soluzione. Se il problema è neutro significa che né l’una né l’altra soluzione può pretendere di essere vera. Anzi la neutralità non può essere intesa se non nel senso della indimostrabilità dell’una e dell’altra soluzione o tutt’al più nel senso della pariteticità o equipollenza di entrambe le soluzioni. Altrimenti è più ragionevole supporre che la neutralità sia semplicemente una scappatoia o un furbesco stratagemma per non finire come le castagne arroste. Ma è evidente che non è questo il caso del Pomponazzi, perché il tema della neutralità è strettamente legato ai limiti oggettivi della razionalità umana, che, come si è visto, è debole, oscura e imperfetta. Si deve perciò supporre che egli fosse realmente convinto della insostenibilità delle une e delle altre ragioni. Che è quanto dire che egli era convinto di aver sì addotto argomenti a favore di una delle due tesi opposte, ma non di averla dimostrata in termini apodittici. Se si fosse convinto di avere conseguito un grado di apodittica certezza, avrebbe ricordato, come aveva fatto in altre occasioni, ai sagaci lettori il principio aristotelico per cui la dimostrazione di una tesi equivale alla dimostrazione della impossibilità della tesi opposta. D’altro canto non va trascurato che nel capitolo XV del De immortalitate egli argomenta a favore della fede e stabilisce ancora una volta un discrimine tra la ragione

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e la fede: la ragione – egli dice a chiare lettere – è incapace di dimostrare ciò che si propone di provare. Pertanto la neutralità teoretica è un ulteriore segno della insufficienza della ragione. Di fronte a tale fallimento non resta che l’approdo alla fede. Dio non ha voluto lasciare l’uomo in preda ad una incertezza così rilevante per la sua esistenza. Alle incertezze della ragione egli ha voluto sopperire con la certezza della fede, anzi della fede paolina nella promessa della vita eterna.

II

José Manuel García Valverde IL DE IMMORTALITATE ANIMAE E I TRATTATI APOLOGETICI 5.1. Pomponazzi e l’aristotelismo rinascimentale Nel dicembre del 1513 il V Concilio del Laterano, nell’ottava sezione, approvava definitivamente la promulgazione della bolla di Leone X Apostolici regiminis. Il testo ristampava la condanna del Concilio di Vienne del 1311 contro coloro che osavano negare o mettere in dubbio l’immortalità dell’anima razionale o che affermavano l’esistenza di una sola anima per tutto il genere umano; in secondo luogo la bolla pontificia ordinava di perseguire come eretici gli autori o i difensori di qualsiasi dottrina che si schierasse contro il dogma cristiano del destino dell’anima; nello stesso tempo intimava ai professori di filosofia di non esporre e anzi di confutare dette dottrine nell’ambito della loro docenza universitaria1. Fermiamoci brevemente su quest’ultima intimazione: con essa si voleva realmente obbligare i filosofi a vestire i panni dei teologi e ad essere inequivocabilmente vincolati al programma ecclesiastico di evitare la diffusione di dottrine devianti dal terreno teologicamente accettabile. La filosofia dunque doveva essere subordinata alla teologia nella esposizione, nell’acclaramento e nella difesa dei principi della dottrina cristiana; in tale ottica i Philosophi erano di fatto invitati a sostenere il dogma della immortalità individuale e a confutare coloro che si schieravano contro di esso. Alla radice della bolla c’era una tradizione, fortemente consolidata nelle Università dell’Italia settentrionale, per la quale i docenti si affidavano per lo più al commento dei testi di Aristotele per renderli intelligibili ai loro discepoli e per consentire loro di scoprire le conseguenze che derivavano dalla diretta lettura del testo dello Stagirita, come emergeva dai suoi interpreti più accreditati, tra i quali, come si sa, Averroè occupava un ruolo di primissimo piano. Questo progetto era condotto esplicitamente sul terreno della ragione naturale, non su quello della fede, la cui superiorità era riconosciuta in anticipo, così da lasciarsi libero il cammino verso la discussione filosofica.

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In merito alla questione della natura dell’anima, tra gli aristotelici italiani si era sviluppato alla fine del XV secolo un dibattito che diventò più acceso agli inizi del XVI secolo tanto da avere un peso sulla bolla di Leone X. Tra le diverse interpretazioni della psicologia aristotelica abbondavano senza dubbio quelle che derivavano dai commentari di Averroè; ma lentamente si era venuta consolidando la via alternativa proposta da Alessandro di Afrodisia, la cui Parafrasi del De anima aristotelico fu tradotta per la prima volta in latino nel 1495. In ogni caso, la gamma degli approcci ai testi del maestro fino a tutto il XVI secolo fu straordinariamente variegata ed oggi a stento si lascia inquadrare nella etichetta dell’aristotelismo rinascimentale.2 Questa varietà ermeneutica era, per lo più, il motore di una interessantissima polemica di natura esegetica e dottrinale su quale fosse stato realmente il genuino pensiero di Aristotele in tema di immortalità dell’anima. In effetti, gli uni privilegiavano i testi in cui lo Stagirita aveva segnalato in maniera esplicita il carattese speciale da lui attribuito all’intelletto rispetto alle altre facoltà dell’anima; gli altri ponevano il dito sull’indubbio carattere ilemorfico con cui aveva pensato la struttura costitutiva dell’essere del vivente; in tale prospettiva, l’anima risultava essere l’elemento perfezionante inseparabile da ciò che è perfezionato. In definitiva, si trattava di un dibattito – non esente da influenze estranee ai testi propri di Aristotele3 – che ci rimanda ad un aristotelismo vivo e dinamico. Sul corpus Aristotelicum, così come sui commentari che si erano andati accumulando sulle diverse parti nel corso dei secoli, si aprì il varco ad un vero spirito revisionista che diede luogo a nuove edizioni e a nuovi commenti. Charles B. Schmitt, già nel suo classico lavoro su Aristotle and the Renaissance,4 ha posto in evidenza proprio quanto poco corrisponda alla realtà lo stereotipo scolastico che si suole attribuire all’aristotelismo rinascimentale a fronte della flessibilità e del sincretismo del platonismo contemporaneo. Questo stereotipo, a giudizio di Schmitt, ha una duplice origine.5 Da un lato ci sono i difensori della tradizione aristotelica medievale – quelli che hanno condotto le loro ricerche sulla filosofia e sulla teologia medievali – i quali hanno posto l’accento sulla unità e continuità della cultura di questo periodo storico,6 e, forse senza volerlo, hanno finito col disegnare un quadro uniforme e compatto della cultura medievale, come un paesaggio statico, intollerante, caratterizzato da una enorme omogeneità e da una resistenza ad ogni tipo di cambiamento. Questa visione ha ovviamente investito lo stesso aristotelismo come base del pensiero medievale; sicché, alme-

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no da una prospettiva generale, si è data della tradizione aristotelica una rappresentazione di grande omogeneità che ha gravemente deformato la realtà, inclusa quella dello stesso aristotelismo medievale. Dall’altro lato, che è quello della reazione alla interpretazione precedente, capeggiata da coloro che, muovendo da un punto di vista critico nei confronti di tale stereotipo di rigidità e di intolleranza del Medioevo, hanno accentuato i caratteri innovatori della cultura moderna. A consolidare tale concezione ha contribuito da un lato la messa a confronto della immagine del mondo, unificata e omogenea, che sarebbe propria dell’aristotelismo medievale, e la nuova immagine prodotta dalla scienza moderna; dall’altro lato si è stabilita una linea di continuità senza significative rotture tra l’aristotelismo medievale e quello rinascimentale e si è schematizzato fino al punto estremo di sfigurare tutta la tradizione aristotelica. In questa linea di pensiero sono confluiti tutti coloro che, senza distinguerne le matrici storiche, hanno accusato l’aristotelismo medievale di avere difeso tutto ciò che con l’avvento della modernità si è rivelato antiquato.7 Entrambi i punti di vista, essendo tra sé contrapposti, hanno paradossalmente finito con l’imporre una artificiosa uniformità all’aristotelismo medievale e rinascimentale, passando sotto negligente silenzio l’enorme numero di questioni e dibattiti che si sono prodotti all’interno di questa tradizione e che hanno interessato ogni tipologia di aspetti, da quelli di natura meramente filologica fino a quelli dottrinali. In effetti, la tradizione aristotelica non ha avuto una diversità e un eclettismo paragonabile alla tradizione platonica8 – è indubbio che l’apporto testuale dell’una e dell’altra tradizione è ben distinto9 – ma questo non significa che tali caratteri si siano prodotti in assoluto dentro la prima; in realtà si può ben dire che l’inflessibilità che comunemente si attribuisce al sistema aristotelico ha ben poco a che fare con l’ingente patrimonio di testi di matrice aristotelica giunti fino ai nostri giorni, molti dei quali attendono ancora una edizione critica e un’analisi dettagliata. D’altro canto, a partire dal momento in cui il Corpus Aristotelicum (e con esso la tradizione aristotelica antica) è stato recuperato nella sua integrità dalla cultura occidentale, intorno ad esso si è sviluppata un’attività esegetica che è diventata febbrile proprio nel momento in cui assistiamo alla nascita di ciò che chiamiamo aristotelismo rinascimentale; il sincretismo e l’integrazione di idee e di dottrine di diversa origine si fanno onnipresenti. La capacità di lettura del testo del maestro è enormemente diversificata: in piena fioritura dell’aristotelismo

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padovano constatiamo che emergono diversi modi di affrontare la lettura e l’interpretazione di Aristotele; e si tratta di una diversità che certamente va molto al di là dell’averroismo che è solitamente attribuito con qualche eccesso di grossolanità ai filosofi che nell’Università di Padova si impegnarono nella loro attività intellettuale. Di essi, tuttavia, ora ci interessa solo Pomponazzi. La sua attività professionale fu sempre legata alla docenza universitaria: insegnò come professore laico di filosofia naturale nell’Università di Padova per venti anni (1488-1496; 1499-1511), in quella di Ferrara per appena tre anni (1496-1499), e infine per quindici anni nella Università di Bologna (1511-1525). In quel tempo l’insegnamento della filosofia naturale richiedeva inevitabilmente la lettura dei libri naturali di Aristotele, accompagnati dai commenti di Averroè. Bruno Nardi ha spiegato l’ordinamento al quale erano tenuti i professori universitari, distinti in due categorie, come gli ordinarii e gli extraordinarii. Di regola essi leggevano il De anima, la Fisica e il De caelo; nei giorni festivi leggevano il De generatione, i Meteorologici e gli scritti conosciuti sotto il nome di Parva naturalia.10 Il fatto che si leggessero gli scritti di Aristotele e i commentari di Averroè risaliva ad una lunga tradizione che affondava le sue radici nel Medioevo e che aveva fruttato nel corso del tempo una scia di dispute di opposte vedute; il professore poi doveva arricchire la propria lettura con riferimenti a queste dispute e ciò gli permetteva di introdurre nella sua esposizione autori medievali come Alberto, Tommaso, Duns Scoto, Sigieri, Jandun etc., e altri suoi contemporanei. Nello stesso tempo, specialmente nel corso del secolo XVI, vengono incorporati i commentari dell’aristotelismo greco come quelli di Alessandro di Afrodisia, Simplicio, Temistio, etc.). D’altro canto, la lettura e il commento dei testi aristotelici, così come le discussioni che si sviluppavano intorno alla loro interpretazione, si realizzavano in un ristretto ambito razionale e naturale, mettendo da parte la religione e la teologia. Di questo stampo era in campo universitario la formazione che aveva ricevuto Pomponazzi e tale fu in seguito lo svolgimento della sua attività di docente. La divisione tra fede e ragione costituiva un topos tradizionale che non era solo circoscritto all’età rinascimentale, ma aveva un chiaro precedente, come ha posto in evidenza Nardi, nelle facoltà delle Arti delle Università medievali. Possiamo trovarne riscontro in autori considerati averroisti, come Sigieri di Brabante e Jean de Jandun e anche in teologi ortodossi che contrastavano il corcordismo tomistico tra fede e ragione, come è forse il caso paradigmatico di Duns Scoto11. Pertanto le conclusioni

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del discorso filosofico dovevano essere tratte esclusivamente a partire dall’applicazione dei principi razionali, a margine della tutela e della supervisione del dogma rivelato. Quest’ultimo era riconosciuto come assolutamente vero e assolutamente indiscutibile dal punto di vista della ragione naturale; ma tale riconoscimento aveva la funzione di lasciare via libera alla discussione filosofica, che così si realizzava, questo sì, sulla base dei testi di Aristotele e della sua scuola e sulla base della natura e della esperienza. Come ha scritto Martin Pine: «Le dottrine filosofiche erano tradizioni storiche o conclusioni probabili del pensiero umano: ad esse non era riconosciuta una verità assoluta» ; in questo modo non si rischiava di cadere nella pericolosa trappola della doppia verità. Abbiamo detto che i professori universitari, nella loro attività generica di commento dei testi alla luce della ragione e dell’esperienza, potevano giungere fino ad espletare vari e distinti compiti, tra loro complementari: dovevano spiegare un determinato testo di Aristotele; dovevano esporre per lo più il commento di Averroè e dovevano anche dimostrare di avere una loro competenza nella conoscenza dei commentisti greci, arabi e latini; in questo senso, solo ad un professore accreditato per la sua padronanza dell’enorme materiale accumulato sui testi dello Stagirita era consentito di scegliere per la lettura i libri o le parti dei libri naturali di Aristotele (Pomponazzi ottenne questo privilegio nel dicembre del 1518). Durante il periodo delle lezioni, le università opponevano a ciascun professore un docente avversario o concurrens che leggeva alla stessa ora. Questa competizione mirava a garantire allo studente l’opportunità di scegliere il professore; ma per i docenti la necessità di suscitare l’interesse e le simpatie degli studenti era impellente, poiché alla fine di ciascun corso nel mese di agosto o di settembre gli studenti esercitavano un diritto di voto, le cosiddette ‘ballottazioni’ con cui chiedevano la conferma o meno del docente nel corso;13 solo dopo molti anni di soddisfacente carriera il Senato Veneto poteva permettere a un docente la lettura senza concorrente e senza il suffragio degli studenti. Pomponazzi lo ottenne nel 1504, ma senz’altro il successo e il favore degli studenti lo accompagnò fin dal conseguimento della laurea in Artibus nel 1487. Nel 1495 conseguì la laurea in medicina e fu promosso alla cattedra di filosofia naturale di Padova; il suo concorrente fu Agostino Nifo, che più tardi sarebbe stato un suo intransigente oppositore nella controversia sulla immortalità dell’anima. Nel 1496 Pomponazzi decide di trasferirsi a Ferrara alla Corte di Alberto Pio di Carpi, il quale si trovava lì in esi-

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lio. Durante il tempo della sua permanenza a Ferrara (1496-1499) gli succedette a Padova Nifo, ma con la morte di Nicoletto Vernia egli fu di nuovo richiamato a Padova e iniziò così un secondo periodo di insegnamento nell’antica Università che sarebbe durato fino al 1509, anno in cui l’Università dovette chiudere a causa del pericolo rappresentato dagli attacchi della Lega di Cambrai alla vicina Venezia. In quello stesso frangente il Duca di Ferrara invitò Pomponazzi nella Università della sua città, ove egli rimase solo un anno, perché anche qui le vicende belliche imposero una sospensione delle attività accademiche. Infine, dopo un rientro a Padova per un altro anno, il filosofo si stabilì definitivamente a Bologna, nella cui Università insegnò fino al 1525, anno della sua morte. Gli anni di Bologna furono i più produttivi per il Pomponazzi. Il De immortalitate animae (1516) produsse un grande subbuglio che obbligò l’autore a difendersi nei tre anni seguenti con due opere in risposta ad alcuni scritti polemici indirizzati contro di lui. In realtà il De immortalite conteneva gran parte delle riflessioni che egli aveva avuto modo di sviluppare nel corso di molti anni di attività di docenza e di esegesi. In poche parole, in esso era smentita la legittimazione aristotelica della teoria tomistica della immortalità dell’anima. Occorre ancora una volta fare ricorso a Nardi per comprendere in tutta la sua estensione e complessità lo svolgimento della controversia14, della quale qui è possibile tracciare solo una sintesi. Non v’è dubbio che la pubblicazione del De immortalitate animae generò una violenta reazione che causò a Pomponazzi una serie di attacchi pubblici su diversi fronti, a Mantova, a Venezia e a Bologna. Ad essi fece seguito una formale intimazione papale che lo obbligava a ritrattare le sue tesi o in alternativa ad affrontare un processo inquisitorio. Conosciamo la maggior parte di tali attacchi dallo stesso Pomponazzi, che ne fa cenno nel primo scritto in sua difesa, la Apologia (1518). Uno dei primi attacchi venne da Ambrogio Fiandino, vescovo di Mantova, che dal pulpito criticò indirettamente il Pomponazzi in un sermone del 1517. Pomponazzi ci fa sapere di aver scritto immediatamente a Fiandino spiegandogli che il suo attacco era assolutamente infondato: egli aveva sostenuto nella sua opera che l’anima è mortale solo se ci si attiene alla dottrina di Aristotele e se si intende porre la questione sul terreno della filosofia naturale; egli stesso si era incaricato di chiarire nel suo trattato che l’immortalità deve essere accettata come dogma della fede e che in tale ambito essa è al di

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sopra di ogni dubbio. Forte di questa posizione Pomponazzi invitava il Fiandino a fornirgli in modo dettagliato le sue critiche, ma non ebbe alcuna risposta. Dopo una nuova richiesta, rimasta inevasa, il filosofo decise di incontrare personalmente il vescovo che si trovava temporaneamente a Bologna. Preso frontalmente, Fiandino gli assicurò che non lo aveva accusato di nulla, che aveva recentemente conosciuto a Napoli il famoso filosofo Agostino Nifo, il quale gli aveva fatto sapere che stava scrivendo un’opera in risposta alla sua (in realtà Fiandino aveva sollecitato Nifo a scriverla). Più o meno contemporaneo all’attacco di Fiandino fu quello che proveniva da alcuni domenicani veneziani che denunciarono Pomponazzi come eretico davanti al Patriarca di Venezia, Antonio Contarini. Il Patriarca sbrigò la vicenda condannando il Pomponazzi; la condanna fu ratificata dal Senato di Venezia, che per di più decise di dare alle fiamme in pubblica piazza il De immortalitate e di vietarne la vendita. Inoltre il libro fu inviato al cardinale Pietro Bembo per le opportune misure, ma il Bembo non riscontrò in esso alcuna traccia di eresia. D’altro canto, in Bologna alcuni teologi eminenti attaccarono il libro di Pomponazzi nel corso delle loro letture, ma non scrissero nulla contro di lui. Tra costoro c’erano Vincenzo Colzade, che dirigeva la scuola domenicana di Bologna ed era maestro di Bartolomeo Spina, il quale sarà uno dei più feroci oppositori del Pomponazzi, e Pietro Manna, rinomato teologo tomista, che, pur critico nei confronti della tesi mortalistica, si limitò a tenere con lui una importante relazione epistolare centrata sul tema della immortalità. Infine, un terzo attacco venne da Silvestro de Prierio, un teologo della corte di Leone X, che probabilmente si diede da fare affinché il papa Leone X incriminasse pubblicamente il Pomponazzi. Ciò accadde il 13 giugno del 1518: Leone X ordinò al filosofo di tenere la sua attività di docente in accordo con la dottrina del Concilio del Laterano, altrimenti sarebbe stato processato. Senza dubbio l’intervento discreto del cardinale Pietro Bembo, segretario pontificio e antico amico del Pomponazzi, portò alla revoca del bando e fece abortire il processo prima che potesse cominciare; l’affettuoso ringraziamento di Pomponazzi è registrato in una lettera diretta al suo antico discepolo, pubblicata in calce alla Apologia. Ma la storia non finisce qui. Il 27 giugno del 1518, poco dopo il citato provvedimento papale, Francesco de’ Fantuzzi, ambasciatore di Bologna presso la Corte papale, conobbe il cardinale Giulio de’ Medici, il quale lo pregò di informarsi circa un libro scritto ‘contro

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la fede’ da Pomponazzi. Il cardinale voleva sapere chi ne aveva autorizzato la pubblicazione, soprattutto perché in Bologna essa era stata proibita; in realtà egli aveva già scritto al vicelegato di Bologna per avviare un’inchiesta segreta. Il Fantuzzi, preoccupato per il giudizio di Giulio de’ Medici, scrisse ai rettori dell’Università di Bologna dicendo che, se l’inchiesta non era stata ancora avviata, poteva egli stesso parlare con Pomponazzi e con il vicelegato in merito alla questione; e questo, a parere di Nardi,15 fa pensare che in realtà il libro era stato autorizzato in Bologna e che tale incidente poteva rivelarsi uno scandalo che tanto la Chiesa quanto l’Università avevano l’interesse ad evitare ad ogni costo. Ma, nonostante tutto, Pomponazzi procedette a dispetto delle difficoltà incontrate: nel 1519 la sua risposta a Nifo, il Defensorium, incontrò nuovi ostacoli da parte delle autorità ecclesiastiche. L’inquisitore, Giovanni Torfanini, e il Vicario Generale, Alessandro de Peracinis, ordinarono che insieme alla risposta fosse pubblicata una confutazione formale. Pomponazzi si rivolse allora a Crisostomo Javelli, eminente teologo domenicano, pregandolo di scrivere alcune Solutiones di risposta alle questioni sollevate nel Defensorium e di riaffermare la tesi dell’immortalità dell’anima come articolo di fede. Nella lettera a Javelli Pomponazzi ribadiva che la sua posizione non era stata pienamente compresa: che egli non aveva mai inteso dimostrare la mortalità dell’anima, ma aveva semplicemente tentato di porre in evidenza che questa era la posizione che meglio si adattava al pensiero di Aristotele e nel contempo dichiarava di accettare senza alcuna riserva l’immortalità dell’anima come articolo di fede. Javelli, convinto della fede sincera del Mantovano, accolse la richiesta e scrisse le Solutiones che garantirono la pubblicazione del Defensorium. Sul versante letterario va detto che la controversia ebbe inizio allorché Pomponazzi inviò una copia del De immortalitate al suo amico e antico discepolo Gasparo Contarini. Questi scrisse una prima replica che inviò a Pomponazzi manifestando l’auspicio che l’opera non fosse pubblicata. Il Pomponazzi pubblicò in forma anonima il trattato del Contarini, De immortalitate animae, e lo aggiunse alla propria risposta, contenuta nel libro I dell’Apologia. Nel frattempo Contarini scrisse un secondo libro, in cui replicò dettagliatamente agli argomenti che erano stati approntati contro di lui nella Apologia. In ogni caso, si deve dire che l’antico discepolo, che aveva fatto carriera come uomo di legge entro la Chiesa (otterrà il cardinalato nel 1535 per i servizi resi in favore del papa Clemente VII), manten-

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ne nei suoi scritti un tono reverenziale verso il suo maestro, per il quale, al di là della controversia, nutriva sentimenti di rispetto e di affetto. La sua posizione dottrinale sulla questione dell’immortalità era evidentemente di stampo tomista. Nel 1518 comparvero gli scritti di Agostino Nifo e di Girolamo Amidei di Lucca. Nifo, come abbiamo già detto, scrisse il suo De immortalitate animae adversus Pomponatium (Venezia, 1518) su invito di Fiandino e lo dedicò al papa Leone X; si trattava di uno scritto denso ed esteso, nonché ricco di erudizione. Pomponazzi, malgrado l’ampia produzione letteraria indirizzata contro di lui,16 scrisse solo le repliche contro il Contarini e contro il Nifo, probabilmente perché considerò che entrambi esaurivano praticamente la totalità degli argomenti che potevano essere addotti contro di lui e che, rispondendo ad essi, la sua posizione sarebbe stata esplorata nella sua interezza: ed in effetti tutto ciò che in seguito sarebbe stato aggiunto alle loro argomentazioni sarebbe stato per lo più sovrabbondante.17 5.2. Il dibattito intorno alla concezione dell’anima di Aristotele Che cos’ha quest’opera per essere all’origine di tutta questa polemica? Senza dubbio essa rappresenta il desiderio del suo autore di rendere pubblicamente nota la sua differenza in essentia con il tomismo rispetto alla interpretazione della natura dell’essere umano, e di farlo a partire da talune premesse che hanno la pretesa di essere assolutamente razionali e fermamente ancorate alla lettera degli scritti di Aristotele: da qui la sua audacia, un atto di coraggio o, come dice Vittoria Perrone, un clamoroso errore di calcolo. Pomponazzi vuole che si mettano sul tavolo le conclusioni che si debbono trarre da una lettura attenta e diretta dei testi di Aristotele, le quali conclusioni conducono ad una messa in discussione critica di altre interpretazioni degli stessi testi; sicché il De immortalitate offre al lettore interessato di oggi una opportunità, come poche, di avere una visione abbastanza completa dello stato della questione quale si era ormai delineata fin dagli inizi del XVI secolo. Pomponazzi con maggiore o minore impegno espone e critica la concezione dell’anima platonica, averrostica e tomistica e introduce un buon numero di elementi di discussione di altra origine in relazione al medesimo tema: lo stoicismo, per esempio, è presente in momenti molto ben identificabili della sua opera. E questo senza trascurare di mettere in evidenza la

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dottrina per cui in un modo o nell’altro aveva sostenuto che sulla base della sua concezione ilemorfica dell’essere umano non è possibile riscontrare nessuna via per postulare l’immortalità dell’anima. Pomponazzi afferma con chiarezza che la dottrina dell’immortalità dell’anima umana non può fondarsi sui principi dell’aristotelismo. Entro questo orizzonte interpretativo egli smantella la dottrina averroistica, ma con non minore tenacia e con un discorso ampio e sistematico si impegna in una profonda critica della dottrina tomistica sull’anima; in questo modo entra in pieno nella complessa questione della fondazione razionale del dogma cristiano, alla cui analisi dedicherà in seguito due opere, il De incantationibus e il De fato. Così sullo sfondo di una polemica centenaria, Pomponazzi affronta l’interpretazione della concezione aristotelica dell’anima. Non c’è dubbio che in questo ambito i testi di Aristotele non solo non presentano una dottrina perfettamente coerente e senza lati oscuri, ma in taluni momenti il laconismo con cui essa era espressa dava luogo a linee interpretative diverse e contrastanti intorno alla questione della separabilità dell’anima umana, salvo che questa non si riferisse alla sua manifestazione più perfetta, che è quella del pensiero. La questione aveva un carattere duplice, gnoselogico e biologico insieme. Su questo secondo piano l’anima, dal punto di vista di Aristotele non è se non il principio dell’attività di un essere vivente in quanto vivente: l’anima è, per così dire, ciò che differenzia un geranio dal vaso di creta in cui è piantato. In questo senso, nell’essere vivente, può differenziarsi, forse solo concettualmente, la materia inerte che lo compone dal principio organizzativo di detta materia che conferisce al vivente la funzionalità e gli permette di svolgere una serie di attività che vanno da una minore a una maggiore perfezione. È qui l’ilemorfismo biologico di Aristotele: una concezione che si manifesta chiaramente in questa definizione generale dell’anima, presente nel libro II del De anima: «l’anima è l’entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza» . Tutta l’attività di un organismo vivente si radica nel proprio principio animistico: tutte le sostanze viventi, dalle piante agli uomini, sono unificate, al di là della maggiore o minore complessità della loro attività, sulla base di questa definizione comune. È senza dubbio una concezione efficace, ma che a sua volta blocca, o sembra bloccare, il percorso verso la possibilità che l’anima sia un’entità diversa e separata dalla materia che essa vivifica: l’anima ha una sua entità in quanto fonte delle funzioni vitali di un essere vivente e se la sostanza di cui fa parte

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muore, muore essa stessa; questo vale tanto per la pianta quanto per l’animale e, infine, anche per l’uomo, nonostante il fatto che l’anima umana possegga una maggiore complessità dovuta alla complessità delle più perfette operazioni e attività proprie dell’essere umano. Ma ci si chiede: è puntuale Aristotele nel negare all’anima umana una sussistenza autonoma? È possibile che il pensiero e la conoscenza che ne derivano possono essere messi sullo stesso piano delle altre attività dell’anima? Indubbiamente Aristotele si era accostato a questa questione in una maniera troppo problematica. Nella maggioranza dei casi si può notare che l’anima non fa né patisce nulla senza il corpo; ciò accade, per esempio, per l’adirarsi, l’incoraggiarsi, il desiderare e il sentire in generale. Tuttavia il pensare sembra essere qualcosa di particolarmente esclusivo dell’anima; ma neppure esso può aver luogo senza il corpo se è un certo tipo di immaginazione o qualcosa che non è senza immaginazione19. Da qui la ben nota proposizione disgiuntiva con cui lo Stagirita impianta la questione della separabilità: se l’anima umana è separabile deve possedere un’attività che le appartiene propriamente e che si esplica senza il concorso del corpo e alla quale si può applicare la qualificazione di immortale. È o non è il pensiero astratto questa attività? Aristotele sembra rinviare la risposta, ma nel contempo stabilisce chiaramente la condizione dalla quale essa dipende: il pensiero ha nel suo sviluppo un ancoraggio che sia in un modo o nell’altro sensibile. Pomponazzi fissa la sua attenzione su questo testo e afferma che, sulla scorta di ciò che dice il libro III del De anima («… quando l’uomo pensa qualcosa, pensa necessariamente una qualche immagine»),20 la risposta che alla fine dà Aristotele è senza dubbio negativa. Attenendosi all’indagine gnoseologica va riconosciuto che l’attività intellettiva umana, come le altre attività della nostra anima, è vincolata al corpo; nel caso specifico è legata al corpo attraverso la sensibilità. È indubbio che l’assunto, che ha un precedente nella esegesi condotta da Alessandro sulla psicologia aristotelica già nel II secolo d. C., non ne esaurisce l’enorme complessità. Se facciamo nostra la distinzione husserliana di noesis e noema, possiamo dire, in effetti, che pensare è per un certo aspetto un fatto paradossale: è individuale, ma ha un risultato di carattere universale; è il prodotto di un processo definito nel tempo, ma può trascendere ogni limite temporale. Ogni atto conoscitivo parte da una struttura gnoseologica, la cui origine è inevitabilmente unita alla sensibilità, che non è mai comune, ma alla fine l’edificio che si erige è senz’al-

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tro unico e valido per tutti: la scienza. Teoricamente l’uomo che pensa non lo fa solo per sé stesso, ma tende a conseguire una verità che serva per tutti gli uomini in ogni momento storico. Il pensiero, in definitiva, è un’attività immanente, come tutte le altre attività che conduciamo come entità biologiche. La natura propria dell’uomo corrisponde a uno schema biologico: si tratta di un processo in cui ciascun individuo attualizza progressivamente e con continuità le potenzialità insite nel proprio essere umano, così da assicurarsi in un incessante perfezionamento le perfezioni future: non c’è niente di più biologico di questo processo. Senza dubbio, e tenuto conto di quanto si è detto, il pensiero è anche trascendente, perché offre al proprio soggetto la possibilità di elevarsi al vertice dei suoi limiti esistenziali e gli permette di proiettarsi in un ambito universale. Davanti a questa ambiguità, molti filosofi si sono posti il quesito in che misura l’atto del pensare appartiene all’individuo che lo esercita. È evidente che colui che lo realizza è ‘questo individuo’: è lui che lo consegue perfezionando e la perfezione acquisita appartiene a lui primariamente. Ma ci si chiede: può essere egli certo che questo atto lo ha realizzato egli stesso con i propri mezzi o deve condividerne la paternità con una realtà superiore? Per quanto ne sappiamo è chiaro che Aristotele si è imbattutto in questo problema e la soluzione che ha dato ha avuto l’incredibile potere di compensare la sua mancanza di chiarezza divenendo fonte inesauribile di stimolo alla riflessione altrui. Così il problema che doveva essere risolto aveva un doppio risvolto: da un lato si trattava di spiegare come è possibile che il mondo materiale agisca su di noi e produca in noi una conoscenza intellettuale, cioè, come è possibile che la realtà sensibile sia all’origine di una attività di natura immateriale; dall’altro, si doveva spiegare anche come è possibile che riusciamo a oltrepassare la conoscenza individuale e a cogliere le strutture universali, cioè come è possibile trascendere l’ambito del particolare dell’esperienza sensibile e raggiungere con essa l’universale. Aristotele risponde fondamentalmente che il passaggio dal sensibile all’intelligibile e dal particolare all’universale si realizza grazie all’intervento di un principio attivo che egli chiama poiƝtikós. È certo che lo stile del testo in cui egli parla di questo principio (De an., III, 5) è particolarmente laconico; coloro che lo hanno esaminato in tutto il corso della storia si sono chiesti se secondo Aristotele questo principio è trascendente e unico per tutti gli uomini o se piut-

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tosto si tratta di un principio individuale che appartiene in senso proprio al soggetto pensante. L’inizio del citato capitolo è chiaro, perché Aristotele segnala che questo principio è presente nell’anima umana21. Tuttavia, gli attributi che subito dopo Aristotele gli conferisce fanno pensare ad una natura trascendente: l’intelletto è descritto come separabile, impassibile, senza alcuna mescolanza e in uno stato di continua attività per la sua essenza. Molti hanno considerato che nell’ottica dello Stagirita questi attributi non possono essere pertinenti a un principio completamente immanente all’individuo pensante e per questo hanno parlato di intelletto agente trascendente. D’altra parte intorno a questo dibattito sulla trascendenza o immanenza dell’intelletto agente se ne sviluppò un altro non meno problematico e con conseguenze molto più importanti di quelle concernenti l’esclusivo ambito della gnoseologia: si deve ammettere nel pensiero di Aristotele qualche tipo di immortalità oltre quella che egli stesso attribuisce alle entità separate del libro XII della Metafisica? Oppure, per dirla in un altro modo, si deve ammettere che la natura straordinaria che si riconosce al noûs poiƝtikós si risolve in un tipo di immortalità a nostro vantaggio? Se abbiamo detto che molti parteciparono alla discussione sulla natura esterna o interna dell’intelletto agente, molti dibatterono se sul fondamento della immortalità dell’intelletto agente possiamo aspirare, dal punto di vista aristotelico, ad un tipo di immortalità individuale. La questione era difficile da risolvere. Coloro che decisero di contrastare il giudizio di Alessandro di Afrodisia poterono farlo solo enfatizzando la natura intrinseca dell’intelletto agente. Chi intraprese tale percorso pensò di affrontare Alessandro non solo sul terreno proprio del commentista del pensiero aristotelico, ma tentò anche di affrontare coloro che, come Temistio, Simplicio o, molto tempo dopo lo stesso Averroè, avevano finito con il sostenere una conoscenza collettiva e, sul suo terreno, avevano respinto in modo più o meno esplicito la possibilità della immortalità individuale. Come araldo di questa posizione si collocò S. Tommaso, ma prima di lui, tra gli arabi Avicenna aveva sperimentato un insolito salto qualitativo, quello di rendere compatibile l’immortalità individuale con la natura comune dell’intelletto agente. Strettamente legata a tale assunto, e come parte indissociabile da esso, c’era la questione dell’origine dell’anima. Già il cardinale Bessarione aveva segnalato che dal punto di vista di Aristotele si doveva stabilire una perfetta convertibilità dei termini ‘immortale’

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e ‘ingenerato’, così come dei termini ‘corruttibile’ e ‘generato’; ciò introduceva il tema della immortalità a parte post che era un’idea del tutto estranea ai principi propri di Aristotele. Pomponazzi richiama questo argomento all’inizio del De immortalitate, attribuendolo direttamente a S. Tommaso: Carissimo Maestro, quando nei giorni scorsi ci esponevi il I De caelo, giunto ad un punto in cui Aristotele si ingegna di dimostrare con numerose argomentazioni che l’ingenerato e l’incorruttibile sono convertibili,22 ci hai detto che non ritenevi per niente in accordo con le affermazioni di Aristotele la posizione di S. Tommaso sull’immortalità dell’anima, sebbene tu non dubitassi affatto circa la sua verità e solidità23.

S. Tommaso in effetti, aveva fatto ricorso all’intervento diretto di Dio per spiegare che l’anima razionale non ha la sua origine nel processo di riproduzione naturale dal quale sorgono le altre anime, ma è creata da Dio ed è da Lui introdotta al culmine di detto processo. Per questo Tommaso faceva tesoro di altri testi di Aristotele che avevano alimentato la polemica. Nel libro II del De generatione animalium, per esempio, Aristotele, dopo aver spiegato come l’anima della pianta e quella degli animali sia tratta dalla potenza della materia, affronta il problema dell’origine dell’intelletto, sottolineando che esso non può venire all’esistenza nel medesimo modo delle altre anime: «Resta, dunque, che solo l’intelletto giunge dall’esterno e solo esso è divino, perché l’attività corporea non ha nulla in comune con la sua attività».24 Su questo e su altri testi si era accesa un’ampia e complessa discussione; Pomponazzi se ne era già occupato nei suoi corsi accademici, alcuni dei quali ci sono pervenuti grazie alle reportationes dei suoi discepoli25. Egli vi ritorna nel De immortalitate animae quando crede di avere nelle proprie mani, dopo molti anni di studio, tutte le chiavi interpretative in grado di risolvere la questione. Da questo punto di vista il lettore non deve lasciarsi trarre in inganno; l’avvio dell’opera, il cui contenuto è presentato come il risultato di una occasionale discussione con un amico nel periodo di convalescenza, non è niente più che una filigrana stilistica, come lo è anche la forma iniziale del dialogo. L’opera in realtà è espressione dell’abituale schematismo della quaestio medievale, con l’esposizione sistematica di argomenti, obiezioni e conclusioni; ciò nonostante è, a nostro avviso, senz’altro significativo che l’autore faccia concessioni inziali al gusto letterario rinascimentale del dialogo, ma

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questo implica che la sua intenzione è quella di dare ampia risonanza al proprio scritto e di proiettarlo al di là dei confini ristretti del mondo accademico e universitario. Il suo coraggio (o incoscienza) sembra incontestabile: il De immortalitate, dall’inizio alla fine, è molto più di una nuova esegesi aristotelica; attraverso il tema della immortalità dell’anima si affronta il nodo delicato della relazione tra fede e ragione, o, se si vuole della relazione tra dogma cristiano e dottrina aristotelica; è questo per Pomponazzi un nodo centrale della sua riflessione filosofica. 5.3. La dottrina di Pomponazzi sull’anima; una nuova antropologia aristotelica Pomponazzi formula in positivo la propria idea della natura e del destino dell’anima a partire dalla critica che ha esercitato in precedenza sulla dottrina di Averroè e di S. Tommaso. A differenza di essi egli pensa in primo luogo che l’anima umana sia per sé stessa mortale e solo per un certo aspetto immortale o, se si preferisce, che essa sia essenzialmente mortale e solo accidentalmente immortale; a differenza di Averroè e di Tommaso, Pomponazzi sostiene che l’anima, per essere in senso pieno una forma dell’uomo, non può essere un’entità autonoma e indipendente e che l’impossibilità di tale indipendenza è evidente in tutte le sue attività – incluse quelle dell’intelletto – per le quali dipende dal corporeo e dalla materia; la sua stessa molteplicità numerica si può intendere solo come vincolata al corpo e mai fuori di esso; infine, a differenza dei due autori citati, Pomponazzi ritiene che l’origine dell’anima può solo essere collocata nel processo di riproduzione naturale e in unione con il composto del quale costituisce una parte indissociabile. Solo in questo modo si salva il testo aristotelico e anche la posizione intermedia che si attribuisce all’uomo tra gli esseri superiori e quelli meramente terreni. Rileggendo il topos platonico dell’uomo microcosmo, Pomponazzi considera l’anima umana come la più perfetta delle forme materiali, in quanto possiede attività che l’accostano a quelle proprie delle Intelligenze, le uniche entità alle quali Aristotele riconosce la natura di forme pure autosussistenti. Questo accostamento è, nonostante tutto, sempre limitato: Ma, essendo essa la più nobile delle sostanze materiali e trovandosi al confine con quelle immateriali, ha un qualche odore di

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immaterialità, ma non in assoluto. Pertanto possiede l’intelletto e la volontà, per i quali è in sintonia con gli dèi, ma in modo abbastanza imperfetto e in termini di omonimia, perché gli dèi astraggano totalmente dalla materia, l’anima, invece, conosce sempre con la materia, poiché conosce con l’immagine sensibile, con continuità, con il tempo, con la discorsività e con oscurità. Perciò in noi l’intelletto e la volontà non sono genuinamente immateriali, ma lo sono rispetto ad alcunché e in modo parziale26

Solo in questo modo può salvarsi la distanza tra quegli esseri che operano in piena indipendenza dalla materia e quelli che sono del tutto immersi nella materia; non certo attraverso un depauperamento dei primi, ma attraverso una sublimazione dei secondi per mezzo dell’attività intellettiva che solo gli uomini sono capaci di esercitare. Ora, questa attività, che in effetti è capace di penetrare le nature astratte e universali, è sottoposta ad un procedimento di attuazione progressivo che parte ineludibilmente dalle immagini che ci offrono i sensi; perciò Pomponazzi insiste sul fatto che l’intelletto necessita dell’organo corporeo, cioè necessita del senso come oggetto iniziale della sua attività, la quale non può espletarsi senza di esso; più propriamente egli dice che l’intelletto si identifica con il senso o si dà in un organo concreto come la vista si dà nell’occhio: Per questo l’intelletto può riflettere su se stesso, procedere discorsivamente e pensare in termini universali; cosa che le facoltà organiche ed estese non possono minimamente fare. Tuttavia ciò proviene dall’essenza dell’intelletto, perché, in quanto è intelletto, non dipende dalla materia né dalla quantità. Se l’intelletto umano dipende dalla materia, ciò è dovuto al fatto che è congiunto con il senso; quindi è possibile che, in quanto intelletto, dipenda accidentalmente dalla materia e dalla quantità. Per cui la sua operazione non è più astratta dell’essenza. Infatti, a meno che l’intelletto non possieda qualcosa che lo fa esistere di per sé senza la materia, la stessa intellezione non potrebbe esercitarsi se non in modo quantitativo e corporeo. Ma per quanto l’intelletto umano, come lo si è considerato, non si serva della quantità nel pensare, tuttavia poiché è congiunto al senso, non può essere totalmente libero dalla materia e dalla quantità, poiché non conosce mai senza l’immagine sensibile.27

Il testo non manca di presentare una certa confusione, perché Pomponazzi non spiega che cosa può significare ‘essere nel’ corpo senza una localizzazione determinata. Probabilmente egli vuole

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tenersi lontano dalla riduzione dell’intelletto a un principio organico, già compiuta da Galeno. Ma è abbastanza evidente che egli si esibisce in un difficile gioco di equilibrio nell’intento di incastrare Aristotele in uno schema chiuso: l’anima è essenzialmente materiale e solo in maniera accidentale e secondaria è immateriale. Tuttavia per giungere a tale risultato è costretto a minimizzare l’importanza di quei testi in cui lo Stagirita sostiene chiaramente la natura non mescolata dell’intelletto (sulla scia di Anassagora) nel senso che l’intelletto non è mescolato con gli elementi materiali o di quei passi in cui Aristotele dichiara espressamente (De anima III, 4-5) che l’intelletto è immateriale e immortale o che la sua provenienza non è di origine naturale. Pomponazzi è, senza dubbio, ben consapevole della portata di tali testi e delle difficoltà che implicano, così come è consapevole delle evidenti oscillazioni di Aristotele. Ma ritiene che quando Aristotele si esprime in quei termini lo fa in riferimento ad un intelletto ‘per sé’ distinto da quello proprio dell’uomo. L’intelletto, qua umano, dipende dalle immagini e questa dipendenza lo vincola al corpo e ne rende impossibile la separazione; l’intelletto, in quanto intelletto, invece appartiene alle Intelligenze celesti e occupa con esse la più alta gerachia dell’universo. Ora, Pomponazzi non intende approfondire nel discorso il tipo di relazione che ha l’intelletto ‘per sé’ con il nostro intelletto accidentale, ma si limita semplicemente a segnalare che l’intelletto umano è mosso alla ricezione di tutte le immagini da parte di una Intelligenza agente che non è una sua parte e che rispetto al proprio atto intellettivo ha la medesima causalità che ha il motore universale rispetto alla ricezione delle forme nella materia prima. Martin Pine ha già segnalato che qui è il punto debole del pensiero di Pomponazzi, poiché non può essere sottovalutato il tono averroistico dell’assunto per il quale la conoscenza è qualcosa di imposto più che essere il prodotto della creatività umana e, senza meno, nella tradizione peripatetica la funzione di astrarre dai sensibili le verità universali appartiene all’intelletto agente; se, come pretende Pomponazzi, l’uomo è privo di questo potere, allora manca della capacità di astrazione e di quel procedimento che è ad essa connesso: il pensiero razionale discorsivo.29 Molto probabilmente Pomponazzi doveva sacrificare sull’altare della coerenza qualcosa di così importante come la capacità creativa della mente umana, ma era il pedaggio che doveva pagare per soddisfare l’idea che l’intelletto agente è estraneo alla costituzione propria dell’uomo; in ogni

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caso era qualcosa di necessario per la tesi della integrale materialità e mortalità dell’essere umano. Senza dubbio, è molto sorprendente che Pomponazzi non si renda conto delle falle all’interno della propria tesi: l’immaterialità relativa che assegnò all’intelletto umano manca di un chiaro significato e la materialità sostanziale reca con sé l’incognita del come può l’uomo conseguire una conoscenza universale. Egli mitigò certamente – o sublimò – tali inconsistenze entro una scala nella quale all’uomo corrisponde la dignità di possedere un’anima che, non tralasciando di essere una forma materiale, è capace di assicurare al soggetto che l’accoglie la più alta attività dell’universo: il pensiero astratto. Quest’ultimo, nella versione impoverita che è propria dell’uomo, può solo pallidamente accostarsi alla pienezza delle Intelligenze. Pomponazzi nega risolutamente ogni legame ontologico tra l’umano e il divino; e in più critica apertamente Averroè per aver posto la felicità umana nella copulazione dell’intelletto agente con l’intelletto possibile e lo fa sulla base dell’esperienza quotidiana: quanti uomini si dedicano allo studio e quanti si comportano come se in essi non ci fosse alcun raziocinio? D’altro canto il nostro modo di raggiungere una conoscenza degna delle verità universali attraverso un lento e imbarazzante processo discorsivo dimostra in modo lampante, a giudizio di Pomponazzi, che la nostra natura è altra, molto diversa da quella delle Intelligenze separate, le quali possono raggiungere tale conoscenza in modo immediato e intuitivo. Ma deve essere così: da un punto di vista aristotelico, Pomponazzi pensa che l’unica mediazione possibile tra la sensibilità e l’intelletto puro e separato è quella realizzata dall’intelletto umano, ma tale mediazione non presuppone che l’anima umana sia considerata immortale; la sua attività più elevata non deriva da una liberazione dal sostrato materiale in cui nasce; non si identifica con la sensibilità, poiché opera con i concetti universali, ma meno ancora si identifica con l’Intelligenza pura, perché la sua operazione è discorsiva, mediata e dipendente dalle immagini. Pomponazzi non sviluppa una vera analisi della genesi del pensiero astratto. Alessandro di Afrodisia lo aveva fatto e non aveva riserve nello spiegare il processo intellettivo come un certo perfezionamento della capacità sensibile, del senso interno e della memoria: Perché l’uomo è generato dotato di sensi e, quando è in attività con questi, riceve le immagini. Ogni volta che vede, ascolta e percepisce con gli altri sensi e riceve da questi un’impronta, in primo luogo con la conservazione di tali impronte si abitua a ricordare e

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poi sulla base della memoria e della continua attività dei sensi intorno agli oggetti sensibili, si produce in lui una specie di passaggio, grazie all’esperienza, dal ‘questo individuale’ a quello che è ‘del tale genere e in universale’. Poiché in effetti il senso percepisce questo bianco qui e quest’altro, da tali percezioni l’uomo afferra che bianco è il colore di tal genere. E in maniera uguale accade anche per ciascuno degli altri oggetti sensibili. Ora questa comprensione, ovvero l’afferrare l’universale per mezzo della somiglianza degli oggetti sensibili individuali, è il pensare; perché riunire insieme i casi simili è già opera dell’intelletto.30

In effetti già Aristotele aveva segnalato all’inizio della Metafisica (981 a 5-15) e alla fine degli Analitici secondi (II, 19) che la scienza e l’arte sono il risultato dell’esperienza. Sulla base di questi testi e di altri dello Stagirita, Alessandro fu in grado di elaborare una teoria gnoseologica che spiegava la conoscenza umana a partire dalla sua origine nell’anima umana e senza ricorrere a nessuna istanza superiore né estranea al suo patrimonio individuale. Ma anche Alessandro dovette combattere con il capitolo quinto del terzo libro del De anima aristotelico: la sua soluzione si fondò sulla distinzione di un triplice stato intellettivo secondo cui nell’uomo dimora una potenza capace di ricevere le forme intelligibili derivate dai sensibili in modo simile all’occhio che ha la capacità di ricevere i colori31; questo intelletto materiale è l’intelletto in abito quando intorno ai sensibili si dispiega l’attività di separare le forme sensibili da tutto il sostrato materiale (cioè dalla sua individualità) e di apprendere da esse un concetto universale: «L’abito di tal sorta incomincia a formarsi nell’intelletto per un passaggio dalla continua attività intorno agli oggetti sensibili, acquisendo da essi quasi come uno sguardo capace di vedere l’universale. Quello che agli inizi si chiama ‘un pensiero’ e una ‘nozione’, quando si moltiplica, si arricchisce e si diversifica, tanto che si possa compiere questa operazione anche senza il supporto del senso, è ormai intelletto» . E infine si denomina intelletto in atto allo stato di acquisizione definitiva e comprensione della forma intelligibile estratta da parte dell’intelletto in abito. Ora, poiché l’intelletto non possiede propriamente nessuna natura, quando contempla l’intelligibile, contempla in realtà sé stesso ed è così che si produce finalmente una identificazione tra il pensato e il principio intelligente: «l’intelletto in atto pensa sé stesso; poiché diviene esso stesso ciò che pensa».33 Ma anche negli intelligibili c’è una differenza tra quelli conseguiti attraverso un processo di astrazione e gli altri che, dice Alessan-

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dro, sono intelligibili per sé medesimi, completamente indipendenti dalla materia e la cui esistenza non dipende dall’essere pensati da un intelletto. Gli intelligibili sensu stricto possono essere identificati entro la metafisica aristotelica con i motori immobili delle sfere celesti34 e conservano così un ordine ontologico che rinvia ad un’ultima istanza che rappresenta la massima perfezione dell’universo e della intelligibilità suprema. Questa entità è identificata da Alessandro con l’intelletto agente o intelletto venuto ‘di fuori’; e a dispetto della sua trascendenza e perfezione, può essere pensato dall’intelletto umano, nel quale, durante il tempo in cui è capace di raggiungere uno stato di somma attualità, assume la natura del pensato e risulta per questo tempo coronato con le caratteristiche della pienezza e della eternità del suo oggetto35. Come segnalano P. Accatino e P. Donini nella introduzione alla traduzione italiana del De anima di Alessandro, grazie a questa identificazione egli risolveva in qualche modo l’ambiguità oggettivamente presente nel De anima, III, 5: la concezione dell’intelletto che ‘viene da fuori’ che qui è presente è tale da consentirgli di risolvere in prima istanza più di una difficoltà: concedere all’uomo l’accesso alla conoscenza del divino, dare una sistemazione e una spiegazione alla problematica allusione a quel noûs thýrathen che si legge nel testo citato del De generatione animalium, II, 3. Senza smentire l’altra teoria dello sviluppo dell’intelletto umano in virtù della volontà e della forza, Alessandro vuole dare un minimo di soddisfazione ai testi aristotelici che sembrano in qualche modo riconoscere l’immortalità all’intelletto che è una facoltà dell’uomo. Ma la posizione di Pomponazzi è rispetto a questo punto meno sottile di quella di Alessandro: egli nega in primo luogo il fenomeno di autointellezione diretta, la quale è da lui attribuita solo alle Intelligenze, e respinge la possibilità di vincolare l’intelletto agente con l’anima umana; e così si imbatte in una maniera quanto meno curiosa con l’inizio del capitolo 5 del libro III del De anima, in cui Aristotele afferma che ‘nell’anima’ si dà rispetto al raziocinio un principio passivo e un altro attivo36. Anche coloro che avevano sostenuto la trascendenza dell’intelletto agente, come è il caso di Alessandro, come abbiamo visto, o dello stesso Averroè, diedero in qualche modo soddisfazione a queste parole affermando la possibilità di un vincolo transitorio dell’anima umana con quel principio trascendente. Senza entrare qui nel merito della validità ermeneutica di questa interpretazione, non si può negare che le parole di Aristotele costituivano un problema da risolvere e qualunque dottrina,

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costruita sulla base dei suoi testi, doveva affrontare gli interrogativi che ne emergevano: come conciliare l’immanenza e la trascendenza che lo Stagirita sembra dare a questo principio dell’attività intellettiva che egli chiama noûs poietikós? Senza dubbio Pomponazzi non ha remore nel sacrificare tale questione sull’altare della coerenza; l’affermazione che l’anima intellettiva umana possa considerarsi immateriale e immortale secundum quid, la quale rinvia semplicemente alla tesi che il raziocinio umano non ha un sostrato organico, non è, a nostro avviso, una risposta definitiva a un problema che ha sollevato tante divergenze nel corso della storia. Si può, infatti, tracciare, come fa Pomponazzi, una linea di così netta demarcazione nei testi di Aristotele, in modo tale da intendere tutte le allusioni all’esistenza di un intelletto imperituro ed estraneo al divenire naturale come riferite solo alle Intelligenze celesti e in nessun modo all’anima intellettiva umana? Vale la pena ricordare qui le parole di F. Nuyens, che nella sua analisi della evoluzione della psicologia di Aristotele, dopo un’esaustiva analisi dei testi dice che l’ambiguità con la quale si esprime Aristotele deve riferirsi alla sua stessa incertezza intorno alla questione della natura dell’intelletto agente e della sua corrispondenza con l’anima umana37. Senza dubbio Pomponazzi condusse una valida lettura dei testi aristotelici; a tener conto dei tentativi precedenti, va riconosciuto che egli si spinse più di ogni altro sulla tesi secondo cui il discorso aristotelico può solo supportare la natura mortale dell’anima umana nella sua integrità; ed è qui un motivo in più per segnalare la sua rilevanza storica: dobbiamo anche richiamere le parole di Ernest Renan ed affermare che Pomponazzi rappresenta realmente il pensiero vivo di un’epoca, uno spirito coraggioso che seppe adattare gli insegnamenti scolastici al nuovo tempo.38 Ma nell’ansia di offrire ai suoi discepoli e in generale ai lettori del suo tempo una solida alternativa al tomismo e nel suo zelante tentativo di cogliere i principi basilari dell’aristotelismo, ne evidenziò senza volerlo le incoerenze, quelle di una filosofia che andava perdendo a poco a poco il suo primato davanti a nuove forme di pensiero e davanti a nuove forme di spiegazione dell’uomo e del mondo. Si può dire che Pomponazzi rappresenta senza volerlo la contraddizione interna all’aristotelismo rispetto alla natura dell’intelletto e dell’attività intellettiva; una contraddizione che si manifesta perfettamente nel fatto che, nonostante avesse affermato chiaramente che la corruzione delle funzioni organiche determina la morte dell’intelletto umano, Pomponazzi non si spinse fino a sostenere apertamente la sua natura organica, ma pre-

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ferì trincerarsi dietro la formula insufficientemente esplicativa della immortalità secundum quid.39 Da questo punto di vista dobbiamo sottoscrivere l’opinone di M. L. Pine, il quale segnala che il conflitto che si manifesta in Pomponazzi ha un duplice aspetto: da un lato, quanto più analizzò l’intreccio delle funzioni animistiche più constatò la loro unità essenziale e la loro stretta continuità; in questo modo era impossibile attribuire caratteri organici e materiali alle funzioni più basse senza attribuirle anche alle più alte; ma dall’altro lato egli sapeva che, riconoscendo all’intelletto un carattere ineludibilmente organico, esteso e divisibile, il pensiero sarebbe stato chiuso entro limiti spaziali; questa impostazione aveva talune conseguenze molto pericolose, poiché, negando recisamente l’esistenza extramentale degli intelligibili (egli stesso ha affermato la loro genesi in un processo di astrazione individuale e ha negato l’unità intelletuale averroistica), come si può spiegare che una facoltà organica possa essere all’origine di una conoscenza universale e oggettiva? Come è possibile che ciò che è limitato nel tempo e nello spazio generi una conoscenza illimitata nel tempo e nello spazio? Come, infine, ciò che è costretto a percepire quest’uomo o quell’albero può aspirare a conseguire il sapere dell’essenza dell’essere uomo o dell’essere dell’albero? In questo crocevia incontriamo un Pomponazzi che non cessa di collocarsi tra un naturalismo materialistico e una tradizione peripatetica che in un modo o nell’altro finisce con l’insistere sulla natura essenzialmente immateriale della nostra mente. Ora, come non trasferire il dilemma nello svolgimento stesso della dottrina racchiusa nel De anima di Aristotele? La prova sta nelle divergenze dei suoi interpreti: questi sono tanti e così diversi tra loro, e tutti si arrogano il merito di avere dato una scrupolosa lettura del testo in coerenza con il pensiero del suo autore. Pomponazzi è uno di essi, ma non uno qualunque, poiché la sua lettura ha il potere di rappresentare uno dei modi più apprezzati di dare soluzione alle difficoltà che questo testo contiene. 6.1. L’Apologia L’Apologia è divisa in tre libri di estensione molto diversa. Il più ampio è il primo, in cui il Pomponazzi, per sviluppare il suo discorso, utilizza il modello scolastico della quaestio, come aveva già fatto nel De immortalitate: qui, però, le obiezioni non sono dettate dalle istanze interne allo stesso pensiero di Pomponazzi, come accadeva

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nell’opera precedente, ma provengono dalla penna del suo antico amico e discepolo Gasparo Contarini.40 Senza entrare nei dettagli della vicenda, che è stata molto ben delineata da autori come Étienne Gilson, Bruno Nardi, Martin L. Pine e altri,41 c’è da dire che fino alla pubblicazione dell’Apologia, nel 1518, a dispetto del clamore provocato dal De immortalitate, lo scritto di Contarini era in realtà l’unica risposta che aveva ricevuto un’estensione di rilievo. Lo stesso Pomponazzi narra nel terzo libro dell’Apologia i suoi inutili sforzi per riuscire ad ottenere da Ambrogio Fiandino, il primo oppositore del quale egli ha notizia, una relazione scritta delle critiche che aveva avanzato dal pulpito di Mantova (più tardi Fiandino si decise a prendere la penna per rispondere a Pomponazzi con un esteso trattato che ormai non meritò da parte del filosofo alcuna risposta).42 6.2. Il primo libro dell’Apologia Fermando l’attenzione sul contenuto del primo libro, si deve dire che nel corso dei dieci capitoli, preceduti da un proemio, Pomponazzi sfodera un vasto ventaglio di argomenti che, in molti casi, non fanno che chiosare quelli che già erano presenti nel De immortalitate. Ciò nonostante, la confutazione di Contarini, che Pomponazzi pretende di seguire rigorosamente, gli serve per consolidare il proposito già ben delineato nel corso del De immortalitate, specialmente nell’ultimo capitolo, di portare la discussione nello stretto alveo della esegesi aristotelica e di affermare senza ambagi la sua sincera adesione al dogma di fede della immortalità dell’anima. Il tono della risposta al suo antico discepolo è, in ogni caso, moderato e lascia trasparire l’affetto reciproco che ciascuno dei due conservava per l’altro. Un tono certamente molto diverso dalle aspre parole con le quali si chiude l’Apologia contro tutti quei religiosi (cucullati) che avevano alzato la voce contro il De immortalitate, apertamente accusati di ignoranza e di sacrilegio. Vale la pena prestare una particolare attenzione al primo dei dieci capitoli del primo libro. La ragione è semplice: in esso Pomponazzi presenta una sintesi dei grandi argomenti su cui ruota l’interpretazione che il Contarini aveva dato del De immortalitate e la sua relativa valutazione critica. In questo capitolo Pomponazzi non si limita ad una esposizione sommaria degli argomenti in cui Contarini aveva diviso la sua particolare sintesi del De immortalitate, ma inclu-

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de anche un primo approccio critico alla dottrina da cui derivano le obiezioni mosse contro di lui. Tutto ciò ci permette, in definitiva, di avere una prima visione generale di questo primo libro dell’Apologia, e nel contempo ci pone nella condizione di rappresentarci prima facie che tipo di ripercussioni ebbe fin dall’inizio il De immortalitate. Contarini riassume in quindici punti gli argomenti più importanti del Pomponazzi. Questo numero non ha nulla a che fare con i quindici capitoli in cui è diviso il De immortalitate; in effetti, Contarini non procede ad una esposizione lineare del suo contenuto, ma prende qua e là ciò che gli sembra più significativo e più rappresentativo del pensiero del Mantovano. Se seguiamo sommariamente l’articolazione del discorso di questo primo capitolo, ci imbattiamo in un primo argomento in cui il Contarini risponde all’affermazione, così importante nel De immortalitate, secondo la quale il pensiero umano non può espletarsi senza il concorso delle immagini sensibili; essa implica la natura inseparabile dell’intelletto. Tale risposta si colloca sul terreno della teoria tomistica della differenziazione tra il modus operandi dell’anima intellettiva unita al corpo e quello che l’anima possiede quando è separata da esso. Da parte sua, Pomponazzi propone una prima confutazione della risposta, facendo presa su alcune questioni che erano già state ampiamente trattate nel De immortalitate, tra le quali quella secondo cui la conoscenza delle cose singole da parte dell’anima separata è possibile solo se questa conserva il concorso delle immagini sensibili. Il secondo e il terzo argomento pongono l’accento sul modesto bagaglio di cui l’intelletto dispone affinché possa ricadere su di esso la speranza della immortalità. Il secondo insiste sul fatto che nell’insieme delle operazioni dell’anima umana sono più quelle che hanno un carattere mortale che quelle che hanno un carattere opposto. Contarini risponde che il discrimine non va posto nel numero delle operazioni che l’anima umana condivide con gli esseri viventi di condizione inferiore, ma nella operazione che la caratterizza come anima umana, ovvero, nell’intelletto. La risposta di Pomponazzi è centrata sull’analisi dell’attività dell’intelletto umano, la quale è in definitiva così oscura e si manifesta in così pochi individui, che risulta effettivamente inadeguata a supportare la differenziazione della specie umana. Il discorso calza perfettamente con le parole iniziali del capitolo VIII del De immortalitate: Inoltre, se prenderai in esame la stessa intellezione, soprattutto quella che è degli dèi – ma perché parlo degli dèi? – la stessa cono-

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scenza degli enti naturali, che soggiacciono al senso, è così oscura e debole che per essere più vicini alla verità si dovrebbe chiamare, più che cognizione, ignoranza dell’una e dell’altra, cioè della negazione e della disposizione.43 Aggiungi quanto poco tempo gli uomini dedicano all’intelletto e quanto di più ne dedicano alle altre facoltà; ciò fa sì che siffatta essenza sia veramente corporea e corruttibile e che sia quasi un’ombra dell’intelletto. E questa sembra essere la causa per cui tra tante migliaia di uomini se ne trova appena uno che sia dotto e dedito all’attività intellettuale.44

Il terzo argomento sviluppa ulteriormente la seguente questione: la scienza, che è il prodotto dell’intelletto umano, merita poco l’appellativo della immortalità, anzi ne certifica la debolezza. Contarini riconosce sì che l’attività umana è debilitata sulla terra, ma non tanto da impedirci di dimostrare che ha in sé una sua dignità e che può procedere al di là della morte nella direzione della pura attività delle Intelligenze. Pomponazzi respinge questa ottimistica visione delle cose ricordando nuovamente: «Nostra namque intellectio non ad tantum ascendit, ut ad veram immortalitatem inducat, sed tantum ad similitudinariam». Il quarto argomento tratta delle incongruenze implicite nella questione del destino post mortem dell’anima. Se, in effetti, l’anima sopravvive al corpo, si danno due possibilità egualmente insostenibili: l’una che essa ritorni ad unirsi al corpo e con ciò ricadiamo nelle favole pitagoriche, che è ipotesi inammissibile dal punto di vista aristotelico; l’altra che non si unisca al corpo e così la sua tendenza ad unirsi al corpo resterà eternamente frustrata. L’allusione al De immortalitate è chiaramente riferita al capitolo VIII e ad esso Pomponazzi ricorre in grande misura per rispondere alle obiezioni del Contarini. Questi aveva obiettato che l’unione anima-corpo non dipende da un potere naturale, ma da un potere divino, il quale la riserva esclusivamente alla specie umana. Della risposta di Pomponazzi ci sembra interessante una considerazione di tipo morale che a suo giudizio ostacola il preteso giusto ricongiungimento di anima e corpo: se infatti, diamo per certo quel ricongiungimento, poiché in questo stato nessuno può essere naturalmente felice, come ammette la posizione e come insegna l’esperienza, dove allora, mi chiedo, sarà quel riposo? L’anima dunque diventerà infinite volte da buona cattiva e da cattiva buona. L’anima buona dunque consapevole di tale destino, sarà oppressa da grandi tormenti, sapendo che alla fine

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diventerà cattiva! Il re temerà di diventare servo, il ricco mendicante, l’uomo rinomato un infame e così via discorrendo. Che misera e ridicola infelicità! Che godimento turbolentissimo! Che timore e speranza dell’eterno!45

Inoltre (quinto argomento dell’Apologia), non è sostenibile la possibilità che l’anima si separi una volta per sempre dal corpo e che non torni ad unirsi ad esso: in questo caso si dovrebbe ammettere qualcosa di veramente inaccettabile, la corrispondenza tra il finito (l’esistenza terrena) e l’infinito (la futura esistenza ultraterrena). Il sesto argomento ritorna sul tema dell’attività dell’anima svincolata dal corpo. Se si considera, come sostiene Tommaso d’Aquino, che l’anima esercita una attività propria diversa nello stato di separazione, cioè, se è capace di pensare senza il concorso di immagini, allora saremmo obbligati a sostenere insieme con il mutamento dell’attività essenziale un mutamento di specie. La risposta di Contarini si muove ancora una volta nell’ambito del tomismo con l’affermazione che nell’anima si possono avere disposizioni distinte che implicano distinti modi di intellezione, senza che questo comporti un mutamento di specie. Da parte sua Pomponazzi replica ricorrendo nuovamente ai modi ordinati di intellezione che si danno nell’universo, tra i quali il modo intermedio (il pensiero discorsivo, che procede nel tempo e presuppone le immagini sensibili) è assolutamente necessario e garantisce il ponte tra il modo intellettuale superiore delle Intelligenze celesti e il modo della percezione inferiore degli animali. D’altro canto nel settimo argomento Contarini ricorre al fatto che se l’anima si separa dal corpo, quelle funzioni che le sono proprie e che non possono essere espletate senza il concorso del corpo (le facoltà sensitiva e vegetativa) saranno inutili. E l’ottavo argomento riassume una delle obiezioni più importanti che Pomponazzi indirizzava a Tommaso nel De immortalitate, cioè, che se l’anima intellettiva poteva avere una esistenza separata, sarebbe dal punto di vista aristotelico un hoc aliquid, e quindi non potrebbe essere una forma materiale.46 Per rispondere a questo argomento Contarini si avvale di un nihil obstat dal punto di vista aristotelico basato sul fatto che anche le Intelligenze sono forme sussistenti alla pari degli atti dei loro rispettivi corpi celesti. Contro questa replica Pomponazzi sfodera un ampio ventaglio di argomentazioni tra le quali ha un peso specifico l’affermazione di Averroè per il quale solo per omonimia si può dire che l’Intelligenza è atto del corpo celeste.

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Gli argomenti nono e decimo rinviano di nuovo al tema dello stato separato dell’anima. Nel nono si interroga che ne è dell’essere del composto, che è essenzialmente l’uomo, dopo la separazione, e nel decimo si interroga sulla differenziazione numerica che per i principi aristotelici è dovuta solo alla materia soggetta. In quest’ultimo caso Contarini ricorre ancora al tomismo per affermare che nell’anima la differenziazione numerica intraspecifica è dovuta non propriamente alla materia ma alla inclinazione che è caratteristica della nostra anima. Dell’ampia risposta di Pomponazzi a questo argomento ci limitiamo a riferire qui che se l’anima individuale può sussistere separata dal corpo, come ha detto Tommaso, e con lui Contarini, e se la sua disposizione intellettiva è contrassegnata dalla dipendenza delle specie sensitive che si sono accumulate nella vita, come si potrà sostenere che la felicità ultraterrena consiste nella conoscenza che si è acquisita in questo mondo? E poi, che cosa si dirà di quelle anime che hanno abbandonato questo mondo appena dopo la nascita? Saranno esse eternamente condannate alla infelicità? L’undicesimo argomento si riferisce alla tesi difesa da Pomponazzi nel De immortalitate cioè che l’immortalità individualizzata dell’anima presuppone l’esistenza di un numero infinito in atto di anime nell’oltretomba. A ciò Contarini risponde che il principio del ricongiungimento delle anime e dei corpi impedisce tale infinità e che, anche se non ci fosse tale ricongiungimento, la tesi aristotelica della impossibilità dell’esistenza di un infinito in atto ha un’applicazione valida solo in riferimento alle sostanze materiali, non a quelle immateriali. Pomponazzi, controbatte attenendosi ad una lettura rigorosa dei testi aristotelici e in modo particolare del libro III della Fisica, in cui Aristotele nega l’esistenza di un infinito in atto per tutti gli enti. Il dodicesimo argomento verte sulla questione della impossibilità che si dia nell’alveo ristretto del pensiero aristotelico il concetto di creatio nova, che è invece proposta dal dogma della creazione dell’anima umana come atto della creazione divina. Contarini risponde sottolineando che la ragione naturale non è in grado di comprendere la creazione; nella replica Pomponazzi rinvia la questione al trattato De fato che era ancora in una fase progettuale47. Il tredicesimo argomento rinvia alla questione della convertibilità dei termini ‘ingenerato-incorruttibile’ e ‘generato-corruttibile’. Contarini contesta che l’esse separatum dell’anima intellettiva sia estraneo al continuum temporale; al che Pomponazzi replica offrendo nuovamente un’ampia esegesi di testi aristotelici.

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Infine gli ultimi due argomenti vertono intorno alla questione dell’intelletto: il penultimo per affermare che non c’è alcun segno che indichi che il nostro intelletto possa operare senza le immagini; e l’ultimo per segnalare che l’anima umana non è intellettiva se non per partecipazione, ragion per cui non è simpliciter et absolute immortale.48 La questione ci rimanda di nuovo al De immortalitate nel cui dodicesimo capitolo Pomponazzi scrive: … anche se tra ‘propriamente’ e ‘impropriamente’ non si dà un medio, tuttavia per la partecipazione delle proprietà si dà un medio, sebbene non si dia un medio tra la sostanza e l’accidente (perché non c’è nulla che non sia o sostanza o accidente). In ogni caso si suppone che qualcosa partecipi delle proprietà di entrambi; così anche il muoversi in una parte si pone come medio tra il muoversi per sé e il muoversi per accidente, come è detto nel V Physicorum.49 Perciò l’anima umana, anche se è detta impropriamente immortale (ma per la verità è mortale), partecipa delle proprietà dell’immortalità, perché conosce l’universale, ma siffatta conoscenza è molto tenue e oscura.50

Su questo medesimo punto Pomponazzi si sofferma a lungo a confutare la risposta del Contarini, la quale si sviluppa nei termini della partecipazione per cui, il medio, partecipando di entrambi gli estremi, è sempre più affine all’estremo superiore che a quello inferiore. Nel secondo capitolo del libro primo dell’Apologia, tenuto conto delle risposte fornite a quelli che erano gli argomenti principali del De immortalitate, Pomponazzi espone le conclusioni che lo stesso Contarini aveva tratto dalla sua confutazione. La prima conclusione è che la ragione naturale è di per sé sufficiente per dimostrare solidamente che l’anima umana è immateriale e immortale. La seconda conclusione è che l’anima umana si moltiplica in virtù della molteplicità dei soggetti, di modo che ciascun individuo possiede una propria anima, diversa da quella degli altri. E infine, la terza conclusione è che la via razionale è impotente per determinare lo stato dell’anima, prima dell’incarnazione, ma può ben pervenire alla conoscenza che essa sopravvive al corpo.51 Dopo aver esposto dettagliatamente ciascuna di queste conclusioni, Pomponazzi passa di nuovo alla confutazione nel capitolo terzo, non senza aver avvertito che, per quanto attiene alla seconda conclusione, quella relativa alla molteplicità delle anime, egli non ha nulla in contrario. Ma va qui ricordato che tanto nel primo ca-

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pitolo del primo libro dell’Apologia, come abbiamo visto, quanto nel capitolo VIII del De immortalitate, Pomponazzi colloca la causa della diversità nella natura della forma materiale che egli attribuisce essenzialmente all’anima umana.52 Pertanto, l’attenzione del Mantovano si indirizza verso le conclusioni prima e terza. Alla discussione è dedicato un discorso molto ampio che, in fondo, non presuppone se non il consolidamento delle argomentazioni principali che nel De immortalitate si schieravano contro la filosofia tomistica. In questo senso, la tendenza di Pomponazzi è quella di esaurire definitivamente tutte le conclusioni derivanti dalla considerazione dell’anima come forma materiale, enfatizzando e approfondendo gli argomenti che già si potevano leggere nel De immortalitate. Facciamo alcuni esempi: nel capitolo VIII del De immortalitate Pomponazzi imputava a Tommaso l’incongruenza di dire che l’anima è la forma del corpo (non il motore) e nel medesimo tempo di affermarne la natura sostanziale e separabile. A tal proposito Pomponazzi si domanda: «Come potrà accadere che sia atto e perfezione della materia, se tale atto, cioè l’atto della materia, è non ciò che è, ma ciò per cui è alcunché, come si evince dal VII della Metaphysica?». E immediatamente aggiungeva quanto segue: Se si risponde che si tratta di una peculiarità dell’anima intellettiva, l’affermazione è fortemente sospetta e arbitraria. Così anche gli Averroisti potrebbero dire che l’anima intellettiva è la forma che dà l’essere e non solo l’operare. Ma Tommaso pensa che gli Averroisti sostengono l’ipotesi opposta. Ci sarebbe anche una difficoltà circa l’essere di un composto, posto come distinto dall’essere dell’anima: ci si chiede quale è quell’essere e che cosa si corrompe. Anche se su questa difficoltà essi dicono molte cose, confesso che ho ben presenti le loro parole, ma non ne afferro il significato.53

Per questa ragione Pomponazzi pensava che la posizione dell’Aquinate fosse incompatibile con quella propria di filiazione aristotelica, di modo che sarebbe stato più opportuno vincolare la sostanzialità dell’anima con la considerazione del suo essere nel composto ut nauta navi. Nell’Apologia il Mantovano ritorna su questo punto con più forza e con un rinnovato armamentario di argomentazioni. Qui riportiamo solo alcune idee di un discorso che si estende in largo alla varie colonne della edizione del 1525. In effetti, se l’essere del composto dipende dalla forma, come è nella posizione condivisa

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da Tommaso e Contarini, la forma pone di per sé un essere differenziato: qual è l’origine di questo essere? È forse la forma causa del proprio essere nel medesimo tempo che è parte di quell’essere? Naturalmente, un’ipotesi siffatta presupporrebbe che la forma si mescoli con il proprio effetto («Si vero formam esse in esse existere, tunc causa fundabitur in suo effectu»54), ma allora non si spiegherebbe come sia possibile che l’esistenza sia posteriore alla forma, perché secondo la metafisica aristotelica l’esistenza è l’effetto della forma («si forma aliquod existit, forma in ipso existere fundabitur, quod non videtur intelligibile, quoniam existere est post formam, cum sit effectus formae» ). Anche quando ci si riferisce alla pretesa immaterialità dell’anima, sorge un considerevole numero di inconvenienti. Per esempio, se consideriamo l’immaterialità dell’anima e la associamo alla sua indivisibilità, che per un aristotelico è un postulato irrinunciabile, ci vediamo costretti a considerare ugualmente l’immortalità e l’immaterialità di tutte le sue funzioni. Ora, se le funzioni vegetativa e sensitiva sono immateriali e immortali, «continget ergo vegetativum et sensitivum a corpore separari». In questo caso, continua Pomponazzi, cadremmo in aperta contraddizione con lo stesso Aristotele, giacché non può essere immateriale ciò che dipende completamente dal corpo nella sua realizzazzione. D’altro canto: Forse si afferma che il discorso deve essere inteso in riferimento alle facoltà e non alle essenze. Ma questa soluzione non solo è impossibile, ma sembra essere anche assurda, poiché l’essenza e la facoltà sono inseparabili sia che si ammetta che la facoltà si identifichi con l’essenza, sia che sia un suo accidente. E se di nuovo si dice che le facoltà sensitive e vegetative permangono dopo la morte nell’anima, ma non svolgono la loro funzione, perché sono deprivate dei propri strumenti, che cosa si può dire di più stolto e che cosa in filosofia è più irragionevole di una facoltà che in eterno non può esercitare il proprio compito? Così il tempo accidentale sarebbe infinito, mentre quello naturale si ridurrebbe in un istante.56

E ancora rispetto alla supposta immaterialità dell’intelletto sorgono numerosi dubbi, giacché se l’intelletto umano perfeziona la materia, allora lo farà per una propria funzione essenziale, cioè, per l’intellezione: Del resto è impensabile che un soggetto perfezioni qualcosa e che non facciano lo stesso i suoi accidenti. Infatti, l’essenza si

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unisce alla materia in funzione dell’operazione. Ma forse si potrebbe replicare che l’anima umana non perfeziona la materia fino al grado intellettivo, perché l’intelletto non è atto di nessun corpo, ma la perfezione vale solo rispetto al vegetativo e al sensitivo, che sono atti del corpo fisico organico. Tale risposta sembra suggerire in molti luoghi S. Tommaso, il quale rispondendo che l’intelletto sembra essere organico, perché è atto del corpo organico, precisa che esso non è posto in atto se non per mezzo della facoltà sensitiva e della vegetativa.57 Ma a mio parere anche questa affermazione è del tutto irrazionale. Innanzi tutto perché ‘questa materia’ è essenzialmente posta in atto da ‘questa anima’, la quale, secondo la posizione, è l’intelletto; quindi realmente l’intelletto è atto del corpo.58

Per di più Pomponazzi adduce a proprio favore un altro ragionamento («quod tamen ex toto non assero, verum mihi satis probabiliter dici posse videtur»59) basato sul fatto che se si considera in linea generale che la facoltà cogitativa, secondo quanto affermava Averroè, possiede un sostrato materiale e organico («omnes affirmant ipsam esse virtutem sensitivam») e che, a dispetto di esso, è capace di mediare e di conoscere in modo universale, allora non c’è ragione per non pensare che l’intelletto abbia questo stesso carattere: che cosa impedisce che lo stesso intelletto, pur essendo materiale ed esteso in un grado più alto della stessa cogitativa, possa conoscere e sillogizzare in termini universali ma entro i limiti della materia senza allontanarsi del tutto dalla materia, per il fatto che in tutta la sua conoscenza dipende dalle immagini sensibili?60

Questi argomenti sono solo una pura campionatura del discorso prolisso che Pomponazzi imbastisce per confutare la citata prima conclusione del Contarini. Lo stesso potremmo dire della sua refutazione della terza conclusione, in cui si dice che la ragione naturale non può conoscere lo stato dell’anima prima della incarnazione. La risposta di Pomponazzi a questa questione è, in realtà, paradigmatica dell’equilibrio che in tutto il corso della polemica tiene a proposito del rapporto fede–ragione. Egli, certo, non nega che la fede sia uno strumento necessario per accedere alle verità relative al tema della immortalità; anzi, al contrario, la sua intenzione, almeno per quanto ce la espliciti, è che l’immortalità appartiene all’ambito della fede e che in tale ambito va sostenuta senza alcuna riserva. Con la medesima enfasi egli denuncia le contraddizioni in cui ca-

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dono coloro che, come Contarini, pretendono di mescolare i due ambiti e ritengono che l’immortalità dell’anima sia accessibile per via della fede e dimostrabile per via della ragione. Questo orientamento risulta molto chiaramente dalla questione che qui prendiamo in esame. Dire in effetti che la ragione naturale è importante per determinare lo stato dell’anima prima della incarnazione non presuppone in sé nessun problema; il problema sorge quando non si è consapevoli che ciò che si dice della esistenza precedente dell’anima è in manifesta contraddizione con ciò che di essa si afferma sul terreno della ragione: Il Contraddittore afferma che è evidente che le anime umane sono immateriali e moltiplicate, ma è dubbia la loro precedenza rispetto al corpo. Ma, mio dottissimo amico, coloro che sostengono che le anime sono immateriali e moltiplicate ammettono, come fanno Avicenna, Tommaso ed altri, che esse si distinguono per mezzo delle materie.61

I capitoli dal IV all’VIII trasferiscono il dibattito specificatamente sui testi di Aristotele e sulla loro esegesi. Contarini pone Pomponazzi di fronte ai testi che evidenziano l’immaterialità dell’intelletto, come fa già nel capitolo IV, in cui cita il De anima III, 4, 429 a 23 come chiaro indice del fatto che l’intelletto si differenzia nettamente dalla sensibilità.62 Pomponazzi risponde in prima istanza a questa e ad altre citazioni addotte sottolineando che esse non solo gettano un’ombra di incertezza sulla sua posizione, ma lo fanno ancor più nei confronti delle posizioni di Tommaso e di Contarini, in quanto anch’essi difendevano la tesi aristotelica che nell’anima umana talune facoltà sono in potenza di altre, di modo che nell’intellettivo c’è il sensitivo, compreso il vegetativo («…qui tenent intellectivum idem esse in homine cum vegetativo et sensitivo, ut tenet positio, non minores angustias patiuntur in illis dictis»). Ciò implica che l’intelletto costituisce un principio di attività, come il mangiare e il bere, o può essere influenzato da affezioni come quelle della sbornia, della lussuria e del delirio etc.: Si dica allora in che modo l’anima tanto decantata come immateriale e divina potrà esercitare operazioni così vili e immonde? Come potrà accadere che non si mescoli in alcun modo alla materia, pur avendo innumerevoli operazioni del tutto immerse nella materia, tanto che a stento le si attribuisce una sola operazione separata dalla materia?63

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Inoltre Pomponazzi insiste su una argomentazione ampiamente chiosata sia nell’Apologia che nel De immortalitate, cioè che l’operazione intellettiva, svincolata dalla materia, è nell’anima così debole e dubbia che sembra essere piuttosto una traccia dell’intelletto e della separazione. Nel capitolo VI Contarini esamina il contenuto e l’interpretazione delle tre citazioni più importanti sulle quali faceva affidamento la posizione pomponazziana. Si tratta delle seguenti: a) De anima, III, 5, 430 a 20: «ubi Aristoteles dicit quod solum intellectus agens est ille qui vere est immortalis et separatus; et quod non reminiscimur post mortem quia intellectus passibilis corruptibilis est, et sine hoc nihil intelligit anima»64; b) De anima, I, 1, 403 a 8: «Habet enim ibi Aristoteles: ‘Si intellectus est phantasia, aut non sine phantasia, impossibile est ipsum separari’» ; c) De anima, III, 7, 431 b 16: «ubi Aristoteles sic dicit: ‘Utrum autem ipsum non separatum a magnitudine intelligat aliquod abstractorum inferius est perscrutandum’». Su queste citazioni, indubbiamente molto importanti, su cui ruotava il nucleo centrale del De immortalitate, si sviluppa nel corso del capitolo VI un diffuso e a tratti difficile dibattito in cui Pomponazzi ricorre ad altre citazioni sempre per contrastare in sede esegetica quella interpretazione che identifica nelle parole di Aristotele due modi di operare dell’intelletto umano, tra sé molto diversi. In realtà, potremmo dire che per lui le parole del Contarini non costituiscono se non l’opportunità di protrarre la critica alla via tomista della interpretazione di detti testi aristotelici, di modo che non solo nel capitolo VI la presenza di Tommaso è considerevole, ma lo è in generale in tutti questi capitoli di indubbia natura esegetica, nei quali Pomponazzi ripete la critica già formulata apertamente nel De immortalitate: l’interpretazione tomista di Aristotele non fa altro che distorcere fino all’estremo dell’alterazione lo stesso Aristotele. Anche nel capitolo VII Pomponazzi discute altre citazioni aristoteliche addotte dal suo Contraddittore a proprio favore. È tale, per esempio, il caso delle parole che si possono leggere in Metafisica, XII, 3, 1070 a 24. Lì Aristotele parla della mente che è l’anima e dell’anima che si costituisce come forma che comincia a sussistere con il composto: «talem autem mentem, inquit Aristoteles, nihil prohibet separari»66. Da ciò si traggono due conseguenze, a giudizio di Contarini, contrarie alla posizione di Pomponazzi: la prima è che una forma separata può veramente essere forma del corpo; la seconda, che nel pensiero di Aristotele si può affermare l’eternità di una entità a parte post, senza che si dia un’eternità a parte ante. Ora, dice Pompo-

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nazzi, se si interpreta questa citzione nel senso che Aristotele affermò il cominciamento nell’esistenza di un’anima che sopravvivrebbe posterioremente alla dissoluzione del composto, allora si sarebbe contraddetto, giacché nel libro II del De generatione animalium sembra dire con chiarezza che l’intelletto precede il processo di generazione naturale e si incorpora in esso da fuori. Questa contraddizione, dice Pomponazzi, fu interpretata da Contarini come prova del fatto che lo stesso Aristotele nutrì dubbi circa la pre-esistenza dell’anima. Tuttavia, replica il Mantovano, senza negare la possibilità che Aristotele non avesse certezza assoluta su tutte e su ciascuna delle questioni che trattò nel corso della sua vasta opera, attribuire una simile contraddizione ad un filosofo della sua taglia è eccessivo, tanto più che «fuit namque Aristotelis consuetudo nihil temerarie affirmare».67 In realtà, Aristotele non ha mai dubitato se l’anima preceda o meno il corpo, poiché ha affermato senza alcuna perplessità la molteplicità dell’anima ed ha riconosciuto che senza i corpi non ci sarebbe il principio che differenzierebbe all’interno della specie quelle forme che sono le anime umane; inoltre, Pomponazzi prosegue dicendo che il nostro apprendere sarebbe un ricordare ed osserva che tutte queste ipotesi sono in aperta contraddizione con i principi fondamentali dell’aristotelismo. L’interpretazione che a lui sembra più plausibile per evitare la possibile contraddizione che sussiste tra questi testi è che in essi Aristotele sta parlando dell’intelletto in sé e non di quella versione depauperata che è nell’anima umana: Così diciamo che l’intelletto può precedere il corpo e può permanere dopo di esso, se parliamo dell’intelletto per sé. Poiché nessun intelletto ha bisogno del corpo come soggetto, non è contraddittorio che esso sia precedente e susseguente al corpo, in quanto intelletto, come ogni moto, in quanto moto, può essere accelerato e rallentato all’infinito, come è detto nel VI Physicorum, ma in quanto intelletto umano non può né precedere né seguire, è e non è nello stesso tempo con il corpo.68

Nel capitolo VIII continua il dibattito sulla interpretazione di alcuni testi di Aristotele. Il centro dell’attenzione è ora focalizzato sull’Etica a Nicomaco, da un lato, e sulla Metafisica, dall’altro. In effetti, Contarini si riferisce al fatto che, secondo Pomponazzi, Aristotele non collocò la vera felicità se non nell’attività contemplativa cui si può pervenire in questa vita: «Philosophus non posuit aliam felicitatem animae, quam scientiam speculativam quae in praesenti vita habetur»69; di conseguenza, se avesse ammesso la separabilità

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dell’anima umana, allora – secondo Pomponazzi – Aristotele avrebbe dovuto parlare di un’altra felicità diversa e conseguibile nell’altra vita; ma non lo fece affatto. A questo risponde Contarini dicendo che nell’Etica a Nicomaco Aristotele parla solo della felicità che attiene al composto e non di quella che corrisponde all’intelletto stesso. Pomponazzi, da parte sua, replica che nello stesso tempo in cui si prova che c’è una felicità esclusiva dell’anima, si distrugge la felicità del composto. Così, la ragione per la quale si dà una felicità post mortem è che tutto ciò che è a portata di mano del composto non produce quiete, ma insoddisfazione; ora, per questa stessa ragione è ben poca cosa la felicità del composto; il che sarebbe contro ciò che è affermato da Aristotele nel Etica a Nicomaco, e questo perché nessuno sembra saziarsi delle cose propriamente umane: «Quare vel non datur felicitas compositi in hoc mundo, vel oportet esse alterum mundum in quo compositum ipsum satietur».70 L’altra argomentazione di Pomponazzi è che se fosse vero che Aristotele ha ammesso la separabilità e l’immaterialità dell’anima umana, avrebbe dovuto parlare nella Metafisica della operazione dell’anima, nel luogo in cui parla delle Intelligenze celesti che sono, in effetti, le forme sostanziali. Ma Aristotele non lo fece; ciò significa che non equiparò mai la natura dell’anima umana a quella delle Intelligenze celesti. La risposta di Contarini si articola in questi termini: Aristotele non ha mai negato la possibilità che si dessero delle Intelligenze non motrici delle orbite. Pomponazzi lo contesta ricorrendo ancora una volta ai testi e in particolare alla Metafisica, XII, 8, 1073 a 35, in cui si dice chiaramente che nella natura ci sono tante sostanze quante sono necessarie; e affidandosi al commento che su questo e su altri passi aveva scritto Averroè, osserva che se alcune sostanze intellettuali muovessero le orbite e altre no, allora gli esseri del mondo sublunare non dipenderebbero dalle Intelligenze che non muovono le orbite e così si romperebbe l’ordine che lega una natura all’altra: «totusque mundus inferior non dependeret ab illo universo choro».71 Inoltre, non ci sarebbe una causa razionale capace di spiegare perché talune Intelligenze hanno potere informativo e altre no. Gli ultimi due capitoli del libro I dell’Apologia servono a testimoniare che, a giudizio di Contarini, ci sono questioni che Pomponazzi non discusse con la dovuta sufficienza nel De immortalitate; sono tali quella che l’uomo desidera naturalmente l’immortalità, e l’altra che, se si ammette la mortalità dell’anima, non ci sarebbe motivo di preferire la morte72 o ancora l’altra secondo

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cui i miracoli sarebbero realizzati dai corpi celesti. Pomponazzi protesta dicendo che su queste questioni aveva già trattato nel De immortalitate con un lungo discorso che, a suo avviso, chiariva ogni cosa. Ciò nonostante ritorna sulle questioni citate nel capitolo IX e aggiunge alcune idee che rinforzano i suoi antichi postulati. D’altro canto, il decimo e ultimo capitolo non è che un riepilogo del primo libro, in cui Pomponazzi ricambia le amabili parole conclusive del discorso del Contarini, sottolineando che il suo intento di refutare le argomentazioni esposte non è stato quello di offendere, ma solo quello di chiarire i termini della questione. Il disaccordo tra opinioni speculative, dice Pomponazzi imitando Aristotele nel libro X dell’Etica a Nicomaco, non genera inimicizia, ma è necessario per conseguire la verità: «ut enim est in proverbio, ferrum ferro acuitur».73 6.3. Il libro secondo dell’Apologia Nel libro II dell’Apologia, notevolmente meno esteso del primo, Pomponazzi affronta le critiche che al suo trattato erano state opposte da illustri tomisti del tempo, come Vincenzo Colzade da Vicenza, frate dei Predicatori, in quel tempo Rettore dello Studio domenicano in Bologna, e Pietro Manna di Cremona, teologo tomista che mantenne con Pomponazzi un importante e cruciale epistolario intorno ad alcune questioni che erano state trattate nel De immortalitate. La ragione per cui Pomponazzi teneva in gran conto le critiche di questi teologi che esercitavano la loro professione docente nella città di Bologna è da lui espressa nei seguenti termini: «Resta ora da rispondere nel secondo libro agli altri autori che, anche se si sono opposti alla nostra opinione, hanno proceduto razionalmente perché hanno spiegato le ragioni delle loro affermazioni».74 Nel caso di fra’ Vincenzo, alle cui critiche egli poté accedere grazie alla mediazione del suo amico, il conte Ludovico Nogaroli, sono trattate di nuovo alcune questioni che erano già apparse nel libro I dell’Apologia e che ora Pomponazzi affronta a partire dalla versione data ad esse dal frate citato. Accenniamo ad alcune di esse. Per esempio, alla questione secondo cui ci sono molte attività dell’anima umana che ne indicano la natura materiale e caduca, fra’ Vincenzo risponde che le facoltà vegetativa e sensitiva sono potenzialmente incluse nella facoltà intellettiva, come superiore e più perfetta e poiché: «quella intellettiva è detta più potente e più

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nobile,75 dobbiamo ritenere che essa sia immateriale e immortale in virtù delle operazioni intellettive e non di quelle vegetative e sensitive che sono incluse nella intellettiva come in ciò che è più perfetto».76 D’altro canto egli contesta altresì l’affermazione fatta da Pomponazzi nel De immortalitate secondo cui l’attività intellettiva è presente in un numero assai limitato di individui se si prendono in considerazione solo le zone climatiche abitabili.77 La risposta di fra’ Vincenzo è che dovunque si trovano uomini che non fanno un grande uso delle facoltà intellettuali, ma nessuno è così bestiale che in sé non abbia qualcosa del giudizio intellettuale. Nell’ambito della esegesi dei testi l’aristotelico Vincenzo non è d’accordo con l’interpretazione della citazione del De an., I, 1, 403 a 8, in cui Aristotele dice che se l’anima si serve del corpo come soggetto o come oggetto (è immaginazione o non è senza immaginazione), allora non può separarsi; perciò egli ripropone l’interpretazione di Tommaso, il quale afferma che lì Aristotele non sta determinando la sua posizione circa la separabilità dell’anima umana, ma sta esprimendo «quanta sit difficultas circa accidentia animae». A queste e ad altre obiezioni risponde il Peretto nel capitolo III, ripetendo alcune delle affermazioni già espresse nel libro I e che in sostanza erano già presenti nel De immortalitate. In effetti, non c’è alcun inconveniente nello stabilire la differenza specifica dell’essere umano nella sua facoltà intellettuale, sebbene egli ritenga che l’uomo sia un essere più autenticamente razionale che intellettivo. Ora, come essere razionale, l’uomo è sensitivo, vegetativo e composto di contrari («et a rationali sumitur immortalitas et ab omnibus aliis mortalitas» ); c’è da tenere in conto che non si può predicare di esso in un modo assoluto la mortalità e l’immortalità, perciò una delle due sarà predicata secundum quid e l’altra simpliciter. Così, esaminando il peso delle operazioni che l’anima umana esercita, si giunge alla conclusione che quelle che attengono ad una natura mortale contano più delle operazioni intellettuali, le quali per lo più si concretizzano nell’uomo con il concorso inevitabile delle immagini sensibili, per cui è più appropriato dire che l’anima umana è vere et simpliciter mortale e solo secundum quid immortale. Per questa stessa ragione si dà la risposta alla seconda obiezione formulata da fra’ Vincenzo: «diciamo, infatti, che qualsivoglia uomo ha qualcosa della ragione, ma si tratta di qualcosa che è mutilato e imperfetto, mentre le operazioni della vegetativa e della sensitiva sono integre; quindi non è veramente immortale ma, come si è detto, è razionale» Ancor meno Pomponazzi condivide con lui che nel De anima, I, 1

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Aristotele non esprima la propria opinione. In realtà, egli dice, Aristotele stabilisce lì qualcosa come condizione della possibilità di una scienza dell’anima («quomodo procedendum sit ad adquisitionem scientiae de anima» ), e per questo quella proposizione condizionale è assolutamente necessaria. A partire dal capitolo IV Pomponazzi affronta le critiche di Pietro Manna, la cui lettera è citata nella sua testuale integrità nel medesimo capitolo IV. I postulati presenti nel De immortalitate meritano secondo il teologo tomista diverse obiezioni. In primo luogo, dice Manna, la corruzione dell’anima impedirebbe la libertà umana, giacché in tal caso l’anima umana, come quella degli animali, sarebbe completamente sottomessa al dominio celeste. D’altro canto, se, come si segnala nel capitolo X del De immortalitate, l’intelletto agente non appartiene propriamente alla sfera dell’individuo, l’astrazione non si produrrebbe sulla base della nostra volontà e per giunta si dovrebbe spiegare il fatto che si danno forme che non informano alcun corpo, «quandoquidem apud Aristotelem nulla sit intelligentia absque corpore» . Inoltre, se, come si dice nel capitolo XIV del De immortalitate, il fine dell’uomo non è nella attività speculativa, poiché l’uomo partecipa in qualche modo della facoltà speculativa e di quella fattiva e perfettamente di quella pratica, allora la felicità non sarebbe l’ottimo perché le virtù non si praticano per sé stesse, ma in forza di qualcos’altro. Queste sembrano alcune delle obiezioni che si evincono dalla citata lettera del Manna. Ancora in questo medesimo capitolo IV Pomponazzi ci parla della obiezione mossagli in Bologna da un tal Virgilio Girardi, il quale dice che se i fatti abitualmente attribuiti ai demoni sono, come pretende il filosofo mantovano, attribuiti al potere che esercitano sulla terra i corpi celesti nelle loro diverse disposizioni, allora anche ciò che abitualmente si attribuisce all’uomo dovrebbe essere rinviato alle stesse cause esterne. A tutte queste obiezioni e ad alcune altre che non abbiamo citato Pomponazzi risponde nel capitolo V ripetendo, come egli stesso riconosce, idee già esposte in precedenza. Così, alla prima obiezione replica che, sebbene l’intelletto umano sia corruttibile, non lo è se non accidentalmente, giacché «non qua intellectus corrumpitur, sed tantum qua sensui coniunctus est» . Riguardo alla seconda obiezione, Pomponazzi sottolinea che l’intelletto agente, pur essendo principio dell’astrazione, non è certo parte di noi (la sua attività è costante e non tollera alcuna mancanza, a differenza di ciò che accade nell’intelletto umano); in ogni caso, egli dice, è in nostro

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potere applicarci all’astrazione, nello stesso modo in cui diciamo che ci riscaldiamo quando vogliamo, dato che è in nostro potere avvicinarci a ciò che ci riscalda, sebbene esso non sia parte di noi. Riguardo all’argomento secondo cui la virtù non si identifica con la felicità, a meno che questa non abbia a che fare con l’attività speculativa, Pomponazzi contesta dicendo che il fatto che la felicità della specie nel suo stato congiunto sia collocata in una vita resa degna dalle virtù morali, non significa che questa sia la felicità propria della parte più degna della specie. Per questo verso ha senso l’affermazione di Aristotele nel libro X della Etica a Nicomaco per la quale il fine ultimo deve essere cercato nell’attività contemplativa del filosofo. Infine, Pomponazzi riconosce che la questione relativa ai demoni e ai fatti prodigiosi che ad essi si attribuiscono è difficile (e doveva sembrargli insidiosa davanti alla occhiuta inquisizione che scrutava i suoi passi83), perché la prima cosa che avrebbe dovuto fare era quella di interrogarsi sulla natura di quelle entità alle quali si attribuiscono questi miracoli. Siano essi demoni o angeli buoni (dunque si ricorre alla terminologia che per essi aveva già coniato Agostino di Ippona), risulta difficile stabilire come possano conoscere i fatti contingenti e futuri che dipendono dalla volontà umana. Ci sono solo due possibilità, dice Pomponazzi: o essi conoscono quei fatti fin dall’eternità o li conoscono come recenti. Nel primo caso, la conoscenza è causa della cosa o è causata dalla cosa, (secondo il punto di vista di Aristotele e di Averroè, «in divinis namque scientia mensurat scitum, in nobis vero scitum mensurat scientiam»84). Se ne conclude che la conoscenza che le entità divine hanno dei fatti che predicono è in realtà la loro causa, perché quei fatti, per coloro che ammettono l’esistenza di tali entità, sono prodotti dal nostro potere quanto lo sono per coloro che li attribuiscono all’influsso delle sostanze divine. Ma se si concede la seconda alternativa, cioè che tale conoscenza è prodotta dai fatti, bisognerebbe attribuire ai demoni una conoscenza dei futuri contingenti e questo va contro la religione cristiana, perché solo Dio possiede tale tipo di sapere. In ogni caso, questo non è che l’inizio di un lungo discorso che occupa il resto del libro II in cui Pomponazzi porta a compimento con sufficiente ampiezza le considerazioni già svolte nel capitolo XIV del De immortalitate.

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6.4. Il libro III dell’Apologia Per concludere questo breve intinerario dell’Apologia ci resta da dire qualcosa sul libro III che, per estensione, sembra essere per lo più un epilogo di tutta l’opera. Fin qui ciò che ha caratterizzato il Pomponazzi è un discorso ponderato e rispettoso nella forma (si è già detto del rispetto e dell’amicizia che egli nutre verso l’antico discepolo Gasparo Contarini, che lo induce ad articolare un discorso moderato che prosegue nello stesso tono nei confronti dei teologi tomisti, fra’ Vincenzo e Manna), ora si passa ai toni aspri e al duro confronto. I destinatari della sua critica ora sono tutti quei religiosi, in generale di poco valore, che si sono serviti della loro maggiore vicinanza al pubblico per spargere senza scrupolo il seme dell’ingiuria e della menzogna contro di lui e contro la sua opera. Ad essi Pomponazzi dedica i momenti più accesi del suo discorso; ad essi, che lo accusano dal pulpito delle loro chiese di essere eretico, egli rivolge l’accusa di cadere più di chiunque altro nell’eresia nelle loro accuse tendenziose e frutto di ignoranza, poiché egli non ha mai negato l’immortalità dell’anima, come essi dicono. È questa la lamentela che egli rivolge a Fiandino, le cui arringhe da Mantova sono giunte alle sue orecchie per mezzo di alcuni amici che le hanno ascoltate e lo hanno avvertito: «scrissi subito allo stesso Ambrogio e gli rimproverai innanzi tutto di attribuirmi il falso, cioè di aver affermato che le anime umane sono mortali, poiché sono pronto a morire in difesa dell’immortalità dell’anima».85 Nel capitolo I, molto interessante, perché grazie ad esso conosciamo di prima mano gli inizi della polemica, Pomponazzi narra i suoi sforzi per ottenere da Fiandino una esposizione sottoscritta delle obiezioni che aveva pronunciato dal pulpito contro di lui. L’unica informazione chiara che egli riesce a ricavare è che Agostino Nifo ha elaborato un’estesa confutazione scritta in risposta al De immortalitate, e questo preannuncia il successivo episodio della storia.86 D’altro canto, nel capitolo II Pomponazzi ci porta nella città di Venezia, in cui era stata proibita la vendita del De immortalitate e si era decretato di dare pubblicamente alle fiamme il libro. E ci fa sapere che alcuni frati e predicatori veneziani lo avevano denunciato al Patriarca di Venezia, Antonio Contarini, come eretico. Il Patriarca accolta la denuncia, condannò Pomponazzi; condanna che fu ratificata dal Senato Veneto, il quale di suo aggiunse il citato rogo pubblico del trattato. Inoltre il libro fu inviato al Cardinale Pietro Bembo perché prendesse i dovuti provvedimenti; ma questi non vi riscontrò alcuna traccia di eresia.

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Infine, il terzo ed ultimo capitolo serve all’autore per prendersi la rivincita, mostrando che la definizione di eresia è data dallo stesso Tommaso nel libro IV delle Sentenze. Eretico è colui che persevera in una opinione contraria al comune parere; senza dubbio, non è questo il caso del Pomponazzi, il quale aveva chiaramente dichiarato nel De immortalitate di non aderire affatto a ciò che era stato esposto nel libro, fosse vero o falso, conforme o meno alla fede, e di avere al contrario sempre dato la sua esplicita adesione ai dettami della Sede apostolica, la quale, per altro, come lo stesso Bembo aveva affermato, non incontrava nulla di eretico nel suo libro. A partire da ciò Pomponazzi inizia un lungo discorso in cui, tra le altre cose, insiste su alcune delle questioni già trattate nel capitolo XIV del De immortalitate circa, per esempio, la ricompensa che spetta a chi agisce in conformità della virtù. In questro caso si dice che una vita virtuosa non è per sé stessa garanzia di salvezza, giacché far dono della salvezza è una prerogativa esclusiva di Dio, che la esercita attraverso la grazia. Di conseguenza, dice Pomponazzi, ciò che dipende dalla pura volontà divina non può essere conosciuto dalla creatura, salvo che Dio stesso glielo manifesti: Non dunque per ragioni puramente naturali siamo tenuti ad operare caritatevolmente per guadagnare il paradiso; che il paradiso sia conseguente alle buone azioni non si può sapere se non ce lo rivela Dio stesso. Quindi che operando caritatevolmente guadagneremo il paradiso è una conoscenza ottenuta esclusivamente dalla fede, non dunque dalla natura.87

7.1. Proposito e struttura del Defensorium Pomponazzi accenna per ben due volte nella Apologia alla esistenza di un voluminoso trattato scritto contro di lui da Agostino Nifo. La prima citazione si trova alla fine del libro II e la seconda al principio del libro III. In entrambe le occasioni Pomponazzi esprime manifestamente il desiderio che il libro giunga nelle sue mani. In concreto nel libro III, dopo aver esposto la storia delle accuse che su di lui aveva profferito dal pulpito il vescovo Ambrogio Fiandino, in Mantova, aggiunge l’episodio della conversazione che ebbe di persona con lui a Bologna, nel corso della quale, il Fiandino, oltre a negare di aver mai detto nulla contro di lui, gli riferì di aver consegnato al Nifo il suo De immortalitate animae e che dopo pochi giorni il Suessano aveva messo su un grosso volume che già era nelle mani degli

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editori. Così Fiandino, lavandosene le mani, liquida la faccenda rinviando Pomponazzi alla lettura del libro: «Inter te et Augustinum vertatur controversia».88 Questa è la risposta di Pomponazzi: Allora io dissi ad Ambrogio di non credere che la faccenda mi sarebbe dispiaciuta, perché sapevo che nessuno, se non un dotto come Agostino, avrebbe potuto compilare un volume. Perciò se egli mi dimostrerà di essere caduto in errore, ringrazierò dapprima Dio e poi sarò eternamente grato ad Agostino che mi avrà liberato da così grande cecità. Se, come spero, sarò io a dimostrare che egli è in errore, procurerò a me stesso una gloria maggiore; perciò, comunque vadano le cose, ne trarrò profitto.89

Certo non dobbiamo lasciarci ingannare dal tono amabile di queste parole con cui Pomponazzi sembra apprezzare la figura di Agostino Nifo, antico collega nella Università di Padova. Confrontiamole con gli aggettivi qualificativi che egli attribuisce al suo oppositore nel corso del Defensorium: non c’è effettivamente occasione in cui Pomponazzi non lo attacchi con vero astio; lo accusa di contraddirsi ad ogni pie’ sospinto, ironizza continuamente sulla sua presunta perizia esegetica, gli lancia invettive che vanno molto al di là dell’ambito strettamente accademico e scivolano sul terreno dell’insulto personale. Pomponazzi, inoltre, dice di non aver mai letto un libro di Nifo, fatta eccezione di questo al quale egli è obbligato a rispondere: Ma sarebbe stato suo compito dimostrare ciò più con le argomentazioni, come si conviene ad un filosofo, e soprattutto onoratissimo, quale egli pretende di essere. Che poi debbano essere reputate così profonde, così perfette e così copiose tutte le cose che si trovano nei suoi libri né lo affermo né lo nego. Dio e la mia coscienza sono testimoni che non ho mai letto nulla di costui se non soltanto questo trattato al quale sono chiamato a rispondere90.

Forse in questo frammento sta la chiave dello stile acido che Pomponazzi tiene in buona parte dell’ampio svolgimento del Defensorium. Siamo ben lontani dalla riverenza con cui si rivolge al Contarini nel libro I dell’Apologia, e in generale agli altri oppositori da lui apprezzati: il suo tono è equiparabile a quello con cui nel libro III dell’Apologia tratta il gruppo dei fratres et praedicatores che avevano promosso in Venezia il divieto e il pubblico rogo del De immortalitate. In sostanza, dopo la lettura del Defensorium non ci si può sottrarre alla impressione che Pomponazzi sia stato abbastanza

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contrariato nel suo compito di rispondere al Nifo. E a dispetto di ciò egli dovette lavorare con difficoltà e forse pressato dal tempo; infatti l’edizione originale del De immortalitate di Nifo vide la luce in Venezia il 27 ottobre del 1518 e il Defensorium, sebbene sia stato pubblicato a Bologna il 18 maggio 1519, era già stato terminato nel gennaio dello stesso anno a giudicare dalla data che compare nell’epistola dedicatoria. Il compito dovette essere estenuante, perché Pomponazzi si impegnò in una confutazione completa del già esteso scritto di Nifo; il che fa del Defensorium una delle opere più ampie di quelle che sono uscite dalla sua penna. Ma le difficoltà vennero non solo dalla natura propria del lavoro, ma anche dalle autorità ecclesiastiche che ne bloccarono la pubblicazione. L’inquisitore Giovanni Torfanini e il Vicario Generale, Alessandro de Peracinis, ordinarono che insieme alla risposta al Nifo fosse stampata una confutazione formale della tesi mortalistica.91 Pomponazzi scrisse allora a Crisostomo Javelli, teologo domenicano, pregandolo di scrivere talune Solutiones di risposta alle questioni suscitate nel Defensorium le quali riaffermassero l’idea della immortalità dell’anima come un articolo di fede. Nella lettera a Javelli Pomponazzi protestava, ancora una volta, dicendo che la sua posizione non era stata ben compresa: precisava di non aver mai tentato di dimostrare la mortalità dell’anima, ma di avere semplicemente cercato di porre in evidenza che questa era la posizione che meglio si accordava con la dottrina di Aristotele; dichiarava altresì di accettare senza riserve di nessun tipo l’immortalità dell’anima come articolo di fede. Javelli, convinto della sincera fede del Mantovano, accolse la petizione e scrisse le Solutiones che garantirono la pubblicazione del Defensorium.92 Ma, ritornando al tema della motivazione dell’opera, Martin L. Pine ha sostenuto la tesi che l’enorme reputazione di cui godeva Nifo come commentista di Aristotele, lo rendeva un oppositore di primo piano e questo obbligava Pomponazzi a rispondergli.93 Ma dal testo che abbiamo citato in precedenza si evince che tale reputazione non era granché rispettata da Pomponazzi già prima che i suoi occhi si posassero sullo scritto di Nifo. È indubbio che la lettura della confutazione nifiana lo urtò profondamente. D’altro canto è anche vero che Nifo esibiva uno stile farraginoso accompagnato dalla pretesa di seguire passo passo la discussione così come si era sviluppata nel De immortalitate del 1516 e finiva col deviare su un terreno più insidioso. Non a caso la formula ‘coniecturabiliter et iis quae Aristoteles dixit non adversando’ consente a Nifo di giungere ad una piena postulazione pseudo-esegetica del dogma cristiano

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della immortalità dell’anima con tutti gli elementi inclusi nel destino post mortem: i premi e i castighi, il fuoco eterno, le delizie del Paradiso, etc. Tali deviazioni ripugnavano al Pomponazzi proprio perché egli aveva sempre giurato e spergiurato che il dogma di fede della immortalità dell’anima non era per lui oggetto di disputa alcuna. La sua unica intenzione era, anzi, precisamente quella di liberarlo da ciò che poteva riuscirgli pernicioso e perniciosa era per quel dogma l’operazione condotta da Nifo, che in un modo o nell’altro lo aveva assimilato alla dottrina aristotelica. C’è nella parte conclusiva del Defensorium un ultimo interessantissimo passo di Pomponazzi contro tutti coloro che lo accusano di aver compromesso il dogma della immortalità; vale la pena di ricorrere alle sue parole: In merito a ciò che egli dice a proposito dei Cattolici abbiamo già protestato che riconosciamo senza alcun dubbio qualunque cosa affermi la Sacra Scrittura, e aggiungiamo che le ragioni naturali e tutto ciò che è stato detto da Aristotele in contrasto con quella Scrittura è vano, cassato e di nessun valore. Ma l’oggetto della disputa non è questo. L’interrogativo posto è che cosa ha pensato Aristotele e che cosa si può sostenere con la ragione naturale. Come, infatti, dice Girolamo nel prologo Super librum Iob, uno è il compito dell’interprete, un altro è quello del vate.94 Infatti, per mandato di Leone X e del Senato bolognese sono tenuto a leggere, interpretare e stabilire secondo il mio giudizio che cosa ha pensato Aristotele e che cosa si può sostenere sulla base dei principi naturali e sono costretto da un giuramento di illustrare fedelmente il pensiero di Aristotele intorno a questo e ad altri quesiti. Obbedisco ai mandati e osservo il giuramento. Non è frutto del nostro arbitrio dire ‘Aristotele ha stabilito questo e non quello’, ma il giudizio è assunto sulla base delle sue ragioni e delle sue parole. Infatti, è necessario giudicare secondo le sue ragioni. Ma a quelle che sono le ragioni della fede, in cui è nostro dovere credere, come ha detto Agostino, nessuno crederà se non volendo.95 Poiché credere in queste cose dipende dalla nostra volontà, io credo in esse, le predico e le osservo e sono pronto a patire per esse la crocifissione con il Signore Gesù, nostro Salvatore, a negare me stesso e ad asservire il mio ingegno al servizio del mio Signore. Ma le altre cose non sono in nostro potere. Date le premesse, se si concede la conseguenza, non è in nostro potere dissentire dalla conclusione. È bensì in nostro potere non prenderle in considerazione, ma non è in nostro potere, una volta concesso l’antecedente, di negare il conseguente. Lungi dal filosofo, e ancor più da un Cristiano, avere un’opinione nel cuore e un’altra sulla bocca. È, dunque, mio compito interpretare Aristotele così come mi sembra che Aristotele abbia pensato o come non ha

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pensato in alcun modo. Mentirei se dicessi diversamente da ciò che penso e sarebbe uno scandalo per i discepoli: non mi ascoltino o proibiscano di ascoltarmi. Non voglio mentire, ma ancor meno voglio essere infedele; queste cose sono scandalo per i buoni, non per i malvagi. Perciò scongiuro questi uomini che nelle taverne o nelle conventicole di uomini volgari mi accusano di eresia di mettere ormai fine ai loro latrati, poiché essi commettono un’eresia più grande nell’accusare un innocente. Essi conducono una vita conforme e coerente con i loro discorsi. Sono uomini scelleratissimi, adulatori, detrattori, invidiosi, gonfi, pieni di ogni genere di vizi.96

Per ciò che si riferisce alla polemica che suscitò il De immortalitate queste parole possono essere intese come un testamento conclusivo. Molti si sono domandati perché Pomponazzi non rispose ad altri insigni personaggi che avevano alzato la voce e avevano impugnato la penna contro di lui, come è il caso di Bartolomeo Spina. Nelle parole citate è implicita, crediamo, una più che convincente risposta alla domanda. Pomponazzi non voleva ormai più controbattere. Molto verosimilmente egli riteneva che con l’Apologia, che era uno scritto ampio, avesse già sufficientemente sviscerato tutto quanto poteva aver lasciato in sospeso nel De immortalitate. In effetti il Defensorium rinvia per molti aspetti alla discussione già affrontata nell’opera precedente. Pertanto le ragioni che furono alla base di quest’ultima opera apologetica vanno individuate non solo nel contenuto espresso dallo scritto di Nifo, ma anche e soprattutto nella pressione che sul Pomponazzi esercitarono altri che erano sicuramente bramosi di vederlo in bella mostra, solo ad affrontare la tempesta da lui stesso suscitata e stanco di combattere. L’esempio di Fiandino è significativo. Dopo essersene lavate le mani, come abbiamo detto in principio, ed avere lasciato il Nifo come unico contendente, non ebbe alcun riguardo a scrivere in seguito un trattato contro il De immortalitate. È anche possibile che gli amici stessi di Pomponazzi lo stimolarono attivamente a rispondere. In ogni caso è certo che Nifo poteva rappresentare agli occhi del Peretto il profilo di un peripatetico rinomato che lo provocava alla disputa sul terreno stesso della tradizione peripatetica: un incentivo a risolvere una volta per tutte il dibattito là dove Pomponazzi riteneva che si doveva intavolare, cioè sul terreno razionale e naturale. Ma, sfotunatamente per lui, Nifo nella sua opera andava molto al di là. Tuttavia non è da escludere che Pomponazzi concluse insistendo in modo appropriato che la scienza e la fede sono cose così distinte che non possono condividere alcun oggetto o se lo fanno, lo fanno

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– citazione di S. Tommaso alla mano – in maniera impropria.97 Nel Defensorium, come prima che nell’Apologia, Pomponazzi non fa un solo passo al di là di ciò che era contenuto nel capitolo XV del De immortalitate; in realtà, non possiamo che constatare che in generale egli non ritratta affatto ciò che aveva pubblicato nel 1516; tutt’al più spiega, chiarisce o sviluppa le idee che erano già presenti nell’opera con la quale si era aperto il dibattito. Per questo è, a nostro avviso, molto interessante ristampare questi scritti e sottrarli alla prigione in cui sono stati sepolti dopo la loro ultima edizione del 1525, alla quale hanno dovuto ricorrere gli specialisti e coloro che erano interessati alla polemica che caratterizzò senza dubbio il secolo XVI. Se fissiamo brevemente la nostra attenzione sulla struttura dei contenuti dell’opera, possiamo dire che Pomponazzi conduce una refutazione completa o quasi completa del De immortalitate di Nifo. Occorre ricordare che questa opera, oltre a formulare una risposta all’originale De immortalitate di Pomponazzi, conteneva una grande varietà di argomenti tratti dalla tradizione aristotelica, da Averroè e da S. Tommaso, notevolmente differenti l’uno dall’altro. Nifo, tra l’altro, non aveva alcuna difficoltà a volgere a proprio vantaggio gli argomenti a favore dell’immortalità dell’anima della tradizione platonica, così che la sua opera è carica di riferimenti eruditi. Come abbiamo già detto, Nifo segue solo parzialmente il discorso di Pomponazzi nel De immortalitate e in una buona parte dell’opera segue una esposizione propria e indipendente.98 L’intento di Pomponazzi è invece quello di procedere ad una confutazione sistematica del libro di Nifo; ciò lo induce a citarne continuamente il testo, sia in maniera diretta, sia indiretta, tanto che le citazioni dirette possono talvolta occupare intere colonne. Ne consegue che la lettura del Defensorium risulta a volte ripetitiva, poiché ripetitivo era anche lo scritto del suo oppositore. Nifo aveva articolato la sua confutazione su due idee molto puntuali. In primo luogo cercava di dimostrare che, sebbene Pomponazzi si presentasse come portatore della interpretazione più rigorosa e più coerente del pensiero di Aristotele intorno all’anima, il risultato di questa pretesa era ben lontano di essere accertato: Pomponazzi non si era rivelato nel De immortalitate un autentico aristotelico, e non lo era in primo luogo perché aveva frainteso, e talvolta aveva scopertamente alterato, le principali citazioni aristoteliche sulle quali si concentrava il dibattito sulla immortalità dell’anima; per di più lo aveva fatto estendendo questo medesimo errore interpretativo fino ai grandi luminari dell’aristotelismo, come Te-

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mistio, Simplicio, Averroè e lo stesso S. Tommaso. D’altro canto, la seconda grande idea sulla quale si regge lo scritto nifiano è che lo svincolamento, così fortemente rimarcato, del dogma di fede della immortalità dell’anima dal discorso aristotelico e razionale non era se non un clamoroso errore di Pomponazzi: per il Suessano era fuori di dubbio che Aristotele aveva difeso l’immortalità dell’anima e che sullo stato post mortem aveva conservato un doveroso silenzio perché, a suo avviso, non si può in materia imbastire un discorso né scientifico, né probabile. Ora, il fatto che Aristotele non si sia spinto a scrivere sul destino futuro dell’anima, non significa che non si possa farlo in modo congetturale e senza andar oltre una lettura aristotelicamente accettabile. Proprio questa disparità di piani in cui si muove Nifo nella sua confutazione è criticata da Pomponazzi in molte occasioni: l’intento di Nifo di chiudere ad ogni costo il pericoloso abisso apertosi tra la fede e la ragione sul tema della immortalità dell’anima ha come risultato, secondo il Pomponazzi, un embrione incoerente e profondamente contrario alla lettera di Aristotele. Su questa incoerenza egli insiste di volta in volta nel Defensorium dicendo che la sua interpretazione è la più coerente di tutte. Dall’inizio dell’opera è presente l’idea che per i principi della filosofia non è ammissibile che ciò che possiede manifeste operazioni corporee, come il sentire e il vivere, possa separarsi dal corpo se non a rischio di frustrare le sue principali facoltà sub specie aeternitatis. Se questo accade, non si verifica nell’alveo della filosofia naturale, ma postula un miracolo divino: «Deus potest quod natura non potest».99 La ragione naturale e i principi naturali sono il terreno più ostile alla immortalità dell’anima. In più, Pomponazzi dice molto chiaramente – prima contro Nifo, ma in generale contro tutti coloro che pretendono di subordinare il dogma dell’immortalità, come è postulato nelle Sacre Scritture, alla filosofia naturale – che l’unica via per affermare coerentemente l’idea dell’immortalità dell’anima è quella della fede e solo quella della fede100. I testi di Aristotele, pertanto, debbono rimanere al margine. Non c’è dunque da stupirsi che Pomponazzi ponga un grande interesse e una grande attenzione nel respingere tutti i testi che Nifo adduce come prova conclusiva che Aristotele fu effettivamente sostenitore della immortalità dell’anima. Questo dibattito esegetico costituisce uno degli elementi interessanti del Defensorium, poiché è un completamento prezioso di tutto ciò che Pomponazzi aveva detto prima intorno a quei testi così compulsati da coloro che sostenevano che all’interno dell’aristotelismo fosse difendibile qualche

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forma di immortalità, sia di tipo individuale che collettico. A questa materia abbiamo dedicato un’analisi dettagliata nell’Introduzione della nostra edizione del De immortalitate di Nifo: già lì abbiamo chiaramente messo in evidenza che, a differenza di quanto Pomponazzi dichiarava, in Aristotele non c’è alcuna contraddizione se i passi, in cui si riferisce ad un intelletto per natura non mescolato, impassibile, sempre in atto e venuto da fuori, si intendono riferiti non all’intelletto umano, ma ad un intelletto per se, identificabile con una delle Intelligenze celesti.101 In questo modo, tutto lo sforzo esegetico impiegato da Pomponazzi nel corso di un gran numero di pagine è teso a dimostrare che per Aristotele l’anima intellettiva, come forma informante del corpo umano, costituisce una unità indissociabile dalle anime, sensitiva e vegetativa, e, in quanto tale, è dipendente dal corpo: anche se essa non ha una collocazione organica nel corpo, ma è la più perfetta delle forme materiali, necessita senza dubbio delle immagini della facoltà sensitiva per espletare il procedimento intellettivo. Così intesa l’anima non è separabile. Il capitolo V del Defensorium è da questo punto di vista molto interessante, poiché presuppone un compendio di tutte le argomentazioni precedentemente formulate da Pomponazzi, tanto nel De immortalitate quanto nella Apologia per dimostrare che l’anima umana non può essere in alcun modo equiparabile a quella della Intelligenza, sempre dal punto di vista della filosofia aristotelica. Qui nuovamente appare chiara l’esigenza della indipendenza assoluta dal corpo come caratterizzante l’attività di una sostanza separata; nuovamente abbiamo l’affermazione che se l’anima umana si separa, rappresenta la sostanza più vile dell’universo, poiché in tal caso sarebbe l’unica sostanza che non potrebbe operare in alcun modo. La prova della oggettiva dipendenza dell’intelletto umano dal corpo è data dalla necessità che esso ha di rappresentarsi gli universali nelle cose singole. Questa dipendenza non si dà nelle Intelligenze, perché esse, pur movendo il corpo celeste, non ricevono nulla da esso. Il contrario è per l’intelletto umano: «perciò propriamente l’Intelligenza non dipende da quel corpo celeste, ancor meno dipende Dio dalle creature. Ma l’intelletto umano è effettivamente mosso dalle immagini sensibili e queste non hanno il loro essere effettivamente dall’intelletto umano; perciò è assai difforme la loro somiglianza».102 Per concludere con una affermazione ripetuta molte volte nel corso del Defensorium: «Quare si anima est forma naturalis, ut Aristoteles opinatus est, ex solo divino miraculo potest stare sine subiecto».103

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7.2. La gnoseologia di Pomponazzi e il problema della causa e dell’origine del pensiero umano La concezione dell’intelletto agente, come viene espressa nel De immortalitate animae, è stata considerata da alcuni insigni rappresentanti della critica moderna come un punto debole di quest’opera e, in generale, della psicologia di Pietro Pomponazzi. Ricordiamo brevemente che nel capitolo X del citato trattato sono interpretati i passaggi aristotelici che parlano della natura immortale, non mescolata e continuamente in atto dell’intelletto; rispetto a tali passi Pomponazzi sostiene che simili qualità non possono essere riferite a quella versione depauperata della capacità intellettiva che corrisponde all’intelletto dell’essere umano, ma si riferiscono all’intelletto per se, il quale si identifica con l’intelletto agente, esplicitamente considerato come una delle Intelligenze celesti e, perciò, ontologicamente e radicalmente separato dall’essere umano. Così egli si esprime a tal proposito: In quel luogo, infatti, Aristotele dice che solo l’intelletto agente è veramente immortale e sempre in atto, l’intelletto passivo, invece, non lo è, perché talvolta pensa talvolta no; perciò non possiede un’operazione perpetua, né un’essenza perpetua. A tale argomentazione si replica dicendo che l’intelletto possibile è immortale rispetto ad alcunché, ma l’intelletto attivo è in sé stesso veramente immortale, essendo una delle Intelligenze; né esso è una parte dell’anima umana, come Temistio e Averroè credettero, ma ne è solo il motore.104

E poco oltre, parlando più specificatamente della causalità che questo intelletto agente ha nel processo conoscitivo umano, Pomponazzi scrive: Così l’intelletto umano, che sta al genere degli intelligibili nello stesso rapporto in cui la materia sta al genere dei sensibili, come ammettono anche Temistio e Averroè, si muoverà per ricevere tutte le specie da qualcosa che non è una sua parte, né è ad esso congiunto; e questo è chiamato ‘intelletto agente’, proprio come ciò che muove in generale la materia si chiama ‘motore naturale’.105

Una delle posizioni più critiche nei contronti della gnoseologia di Pomponazzi, così come è espressa in questi testi, è quella di Martin L. Pine, che denuncia l’insufficienza e la superficialità di questa spiegazione: «This brief treatment is not expanded and presents a serious problem of Pomponazzi».106 Si tratta, dice Pine, di un passo di indu-

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bitabile tono averroistico in quanto implica che la conoscenza umana è più un’imposizione esterna che un risultato autonomo frutto dello sforzo e delle facoltà di cui disponiamo.107 Già prima Giovanni Di Napoli aveva posto l’accento sul fatto che la coerenza interna del pensiero di Pomponazzi intorno all’anima umana lo obbligava a privilegiare certi aspetti della psicologia aristotelica e a trascurarne altri. Tenuto conto che nello Stagirita ci sono due idee chiare difficilmente conciliabili (l’anima è una forma sostanziale del corpo e l’intelletto è immortale e non si origina nel processo di riproduzione naturale), Pomponazzi poteva solo delegittimare l’interpretazione di Averroè, che si fondava sulla seconda idea, a rischio di lasciare in ombra la stessa dottrina aristotelica dell’intelletto.108 Sebbene nel suo caso si parli effettivamente di un intellectus e di un intelligere, il desiderio di integrare tutte le facoltà dell’anima in una unità formale e di considerare l’anima esclusivamente come forma del corpo, lo obbligarono ad escludere dalla sua costituzione ogni entità sopraggiunta, di carattere immateriale e imperituro. Ed è questo il punto in cui confluisce da un lato l’esegesi che Pomponazzi fa di tutti i passi in cui Aristotele parla delle peculiari caratteristiche dell’intelletto, tutti passi ben noti, dall’altro parla della sua dottrina dell’anima intellettiva, che, avendo la natura di forma materiale, lega necessariamente l’attività intellettiva alle immagini sensibili. Tra questi testi aristotelici riveste un ruolo speciale il celebre capitolo V del III De anima. Pomponazzi sostiene che qui Aristotele afferma che solo l’intelletto agente è propriamente immortale ed è sempre in atto; così facendo, egli allontana irrimediabilmente l’intelletto agente dalla natura intellettiva umana, che può ben identificarsi con quell’altro intelletto possibile che talvolta è in atto e talvolta non lo è. Se, in effetti, l’intelletto possibile non ha una attività costante, vuol dire che non ha una essenza costante: «intellectus possibilis est secundum quid immortalis, sed ipse agens vere immortalis est, cum sit una Intelligentiarum»109. Da qui trae origine la critica pomponazziana a coloro che, come Temistio o Averroè, pensarono che l’intelletto agente può essere in qualche modo, sia pure transitoriamente, una parte dell’anima umana. Il contrasto tra la nostra facoltà intellettiva che necessita delle immagini sensibili per porre in moto un processo intellettivo che non conduce alla contemplazione degli universali se non in maniera parziale e imperfetta e la natura non deperibile attribuita all’intelletto agente, induce Pomponazzi a concludere che quest’ultimo non è in alcun modo parte dell’anima umana e che il suo vincolo con i processi

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intellettivi umani è analogo a quello che ha il motore universale con la materia prima: «ciò che nella materia prima trae dalla potenza all’atto le forme nella loro esistenza, non è qualcosa che appartiene alla materia prima né qualcosa che è congiunto ad essa nel suo essere, ma è il motore universale, che può essere chiamato ‘natura agente’».110 In questo modo, il tipo di causalità che ha l’intelletto agente rispetto all’intelletto possibile sembra una specie di predisposizione universale alla ricezione delle forme. Tutto il processo che conduce dalle immagini sensibili alla specie intelligibile, cioè il processo di astrazione che si dà nell’ambito delle facoltà intellettuali umane, è svincolato da Pomponazzi da questo intelletto agente, a dispetto del fatto che nella tradizione peripatetica questo è stato considerato il vero motore dell’attività che conduce dalle specie sensibili interne ai concetti universali. Ora, è un fatto evidente che questo processo astrattivo sia ‘dentro’ l’anima umana; quindi questa attività e il potere di espletarla debbono essere in qualche modo presenti in essa. Nel De immortalitate non sembra esserci una risposta convincente agli interrogativi su come si trovi questo potere nell’anima umana, quale che sia la sua origine e come si attualizzi. L’intelletto umano, che nella scala ontologica si trova nel punto medio tra le entità puramente materiali e le Intelligenze, non può svincolarsi mai dalla materia per la sua stessa natura di forma materiale, ma può, a causa della sua maggiore perfezione rispetto alla maggior parte delle forme materiali, trascendere in qualche modo la conoscenza puramente sensoriale e afferrare le strutture universali, sebbene in una maniera imperfetta e impropria: esso partecipa della divinità di una Intelligenza in quanto è capace della sua stessa attività, sebbene in maniera imperfetta e perciò può effettivamente raggiungere una certa conoscenza universale, ma non può rappresentarsela se non nelle immagini singolari. Ciò che Pomponazzi mette bene in chiaro in passi come quelli citati in precedenza è che tra l’intelletto umano e l’Intelligenza non c’è alcun tipo di identità ontologica, ma solo una certa affinità, in ogni caso insufficiente per garantire che l’anima intellettiva sia separabile e superi la corruzione del sostrato corporeo. Ora, tenuto conto dei testi in cui Aristotele esplicita chiaramente la dipendenza oggettiva del nostro pensare dalle immagini, pretendere che per tale possibile identità l’anima intellettiva abbia qualche tipo di immortalità, quale che sia, e supporre che questa immortalità sia propria della psicologia aristotelica, equivale a dire che Aristotele si è apertamente contraddetto. L’unica consolazione che si deduce da un approccio meramente naturale al tema

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dell’immortalità consiste nel prendere atto che la nostra natura è capace di approssimarsi più delle altre anime all’attività e allo stato di pienezza degli enti superiori: questo è, in sintesi, ciò che racchiude la formula del secundum quid così ricorrente nel corso dell’opera: l’anima umana può essere equiparata in un modo improprio e restrittivo alle Intelligenze. Perciò Pomponazzi in termini quasi conclusivi scrive: Ma, essendo essa la più nobile delle sostanze materiali e trovandosi al confine con quelle immateriali, ha un qualche odore di immaterialità, ma non in assoluto. Pertanto possiede l’intelletto e la volontà, per le quali è in sintonia con gli dèi, ma in modo abbastanza imperfetto e in termini di omonimia, perché gli dèi astraggono totalmente dalla materia, l’anima, invece, conosce sempre con la materia, poiché conosce con l’immagine sensibile, con continuità, con il tempo, con la discorsività e con oscurità.111

Ma Pomponazzi non è disposto nel De immortalitate ad andare molto al di là di questo discorso, di natura più descrittiva che esplicativa del processo gnoseologico che conduce dalla immagine al concetto. Taglia alla radice la presenza dell’intelletto agente nell’anima per salvaguardare la tesi della integrale mortalità, ma lo fa senza esplicitare da dove procede l’attività che fa sì che l’anima possa, dopo tutto, astrarre il concetto: per quanto debole sia questa attività, non se ne può negare l’esistenza, tanto più che in essa risiede realmente la dignità umana ed è ciò per cui l’uomo si distingue dagli animali. Certamente, Pomponazzi si allinea con Alessandro nel separare l’intelletto agente dalla costituzione psichica di ciascun individuo, ma non intende seguirlo quando questi afferma che nell’intelletto passivo, oltre la pura capacità di ricevere le specie intelligibili c’è anche una attività che lo induce ad estrarre tali specie dalle specie sensibili già liberate dal loro vincolo materiale. Questa attività giunge ad un processo intellettivo il cui itinerario può condurlo fino alla cattura del primo intelligibile, che è Dio; in tal modo dal punto di vista di Alessandro l’anima umana può raggiungere una immortalità transitoria. Come segnala Vittoria Perrone Compagni questa forma di immortalità non potrebbe essere estranea alla immortalità secundum quid dello stesso Pomponazzi,112 però nello stesso tempo c’è da tener ben chiaro che egli non è disposto ad accettare che l’anima umana possa avere una qualche connessione con l’intelletto agente: lo impedisce la dipendenza sensitiva e perciò egli insiste sulla passività dell’intelletto umano.

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Dopo appena due anni dalla comparsa del Tractatus de immortalitate animae, a metà della lunga polemica che sollevò l’opera, Pomponazzi si vide costretto a scrivere un’Apologia, stampata nel 1518; nel primo libro di quest’opera egli ci fa sapere che Contarini aveva dato una sua particolare interpretazione del noûs poietikós del citato capitolo V del III De anima. Per Contarini le parole di Aristotele sono così oscure che possono essere piegate in direzioni diverse e tra loro distinte. Ma nessuna interpretazione è così chiara da darci la certezza che Aristotele ha pensato proprio questo. In ogni caso, non sembra che da ciò che è scritto in quel passo si possa dedurre che l’anima sia mortale, ma piuttosto il contrario.113 Una prima interpretazione che si può dare alla frase ‘solo questo è immortale ed eterno’114 è che essa può essere applicata all’intelletto possibile, di modo che quelle parole servirebbero senza dubbio come un forte argomento a favore dell’immortalità dell’anima. Esse possono altresì riferirsi all’intelletto agente ed in proposito si dovrebbe fare una distinzione: o intendiamo che l’intelletto agente sia una parte dell’anima o supponiamo che esso si identifichi direttamente con Dio: Se ammettiamo la prima alternativa, egli dice, è evidente che la citazione milita a favore della immortalità. Sebbene il Contraddittore non lo dica esplicitamente, credo tuttavia che il suo ragionamento deduttivo sia il seguente: se supponiamo che l’intelletto agente e quello possibile sono parti dell’anima, sia che esse siano parti essenziali sia che siano facoltà, è chiaro che se uno di essi è eterno lo sarà anche l’altro. Se invece supponiamo che l’intelletto agente non sia parte dell’anima – il Contraddittore dice di preferire questa seconda alternativa – ne consegue non meno evidentemente che l’intelletto possibile è immateriale e in questo caso non si distorce il senso letterale del testo.115

Per Contarini l’intelletto possibile è realmente immortale in forza della sua sostanza, ma è mortale per ciò che in esso risulta recepito, poiché è certo che in esso talvolta c’è qualcosa e talvolta no, e che non è sempre in atto. Perciò, in ragione di una tale modalità di essere, non è sempre lo stesso: «namque intelligens est intellectum, cum itaque non semper idem intelligat, quoquomodo non semper est idem intellectus».116 In compenso, il contrario accade nell’intelletto agente, giacché esso è solo atto e non riceve nulla ed è sempre il medesimo. Per giunta è facile osservare che da quelle parole di Aristotele si deduce che l’intelletto possibile è immortale e ciò in ragione del fatto che egli conclude chiedendosi perché dopo la

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morte non abbiamo ricordi: «si secundum eius sententiam anima est mortalis, vana est inquisitio, cum quod non est recordari non possit».117 In effetti, solo se si ammette l’immortalità dell’anima, la domanda è non solo pertinente, ma anche necessaria: se l’intelletto possibile sussiste dopo la morte, sembrerebbe conveniente che dopo la morte abbiamo ricordi. La risposta di Aristotele si interpreta in questo modo: non abbiamo ricordi perché la memoria è la facoltà dell’intelletto passivo ed è organica e corruttibile; il ricordo è sempre ricordo di dati singoli, che non possono darsi senza il senso. In definitiva, Contarini attribuisce l’errore di Pomponazzi ad una confusione terminologica: egli afferma – scrive il Contraddittore – che l’intelletto possibile è corruttibile per il fatto che in quel testo si dice che l’intelletto passivo è corruttibile senza rilevare la differenza tra l’intelletto possibile e quello passivo. Vale la pena accostarsi con qualche dettaglio alla risposta che Pomponazzi dà a questa interpretazione, poiché attraverso la risposta potremo congetturare con più chiarezza qual è la concezione della gnoseologia del De immortalitate e quale funzionalità possiede ciascuno dei suoi elementi. In primo luogo egli si incarica di mettere in risalto quali sono gli scogli logici e semantici in cui si imbatte detta interpretazione del De anima III, 5. In effetti, se ci atteniamo all’avverbio con cui si apre la proposizione prima citata («solo questo è immortale») e supponiamo che il vero soggetto sia l’intelletto possibile, allora ‘solo’ questo sarebbe immortale e non l’intelletto agente; cosa che nessuno sarebbe disposto ad ammettere. Se poi il referente è l’intelletto agente e non quello possibile e se a dispetto di tutto si considera immortale l’intelletto possibile, perché mai Aristotele ha affermato in modo così deciso che solo l’intelletto agente è immortale? D’altro canto, proprio rispetto a questa mancata discriminazione dei termini Contarini critica Pomponazzi, il quale si difende sottolineando che la contraddizione sussiste anche nel caso distinguessimo tra intelletto passivo e intelletto possibile, perché se con la morte scompare, come si è detto, l’intelletto passivo, che è del tutto necessario per l’attività dell’intelletto possibile, ci troviamo nella posizione di ammettere che l’intelletto possibile avrà dopo la morte una esistenza completamente oziosa: «sed quod tale est nihil est, quoniam in natura nihil otiosum reperitur. Ergo post mortem non remanet anima».118 Rispetto alla questione della reminiscenza Pomponazzi articola una risposta anche più estesa. A suo parere è assurdo supporre che,

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quando Aristotele nega che dopo la morte abbiamo dei ricordi, si riferisca a un tipo di reminiscenza basata sulla facoltà sensitiva; se fosse così, la soluzione sarebbe banale, perché è evidente che con la corruzione del corpo la facoltà sensibile scompare completamente; ma ciò non trova riscontro nella frase seguente del testo, quando Aristotele afferma che «senza questo l’anima non pensa nulla»,119 è evidente – dice Pomponazzi – che si tratta della conoscenza del passato che alberga nell’intelletto possibile, di modo che sono possibili solo due interpretazioni: o Aristotele sostiene che l’intelletto possibile, a causa della corruzione dell’intelletto passivo, non pensa assolutamente nulla e in questo caso l’anima dopo la morte sarà del tutto priva di operazione, oppure ritiene che l’intelletto possibile non può conoscere le cose singole, ma può conoscere gli universali. Quest’ultima interpretazione si scontra di nuovo con la lettera del testo: «nam absolute et absque aliqua determinatione dicit: ‘Et sine hoc nihil intelligit anima’». D’altro canto, è evidente che quando Aristotele dice che l’intelletto possibile talvolta pensa e talvolta non pensa, il contenuto della sua intellezione non può essere altro che quello della scienza stessa, per cui tale esclusione dalla conoscenza post mortem è esclusione non solo delle cose singole, ma anche, e a maggior ragione, degli universali; di conseguenza con la scomparsa e la corruzione dell’intelletto passivo l’intelletto possibile non potrebbe avere alcun tipo di conoscenza; questo – osserva Pomponazzi – è evidente se ricorriamo alla nostra stessa esperienza quotidiana, poiché chiunque di noi sa che la scienza acquisita, se non è esercitata, cade nell’oblio. Insomma, il testo può salvarsi nella misura in cui interpretiamo che lì Aristotele non fa altro che distinguere l’intelletto possibile dall’agente riguardo all’immortalità. Fino a questo punto Aristotele non fa alcuna distinzione; nel momento in cui attribuisce all’intelletto la separabilità e l’immortalità, si dimostra senz’altro favorevole a tale attribuzione. È ora il caso di accertare un po’ più le cose: L’intelletto agente è veramente immortale, perché è sempre in atto e si identifica con la sua scienza; perciò possiede anche un’azione e un essere perpetui. Quello possibile invece, non essendo atto di alcun corpo, in quanto intelletto, non ha bisogno nella sua operazione di un organo come soggetto e quindi sembra essere immortale; perciò dopo la morte sembra che possa avere una reminiscenza se estendiamo il termine ‘reminiscenza’ alla intellezione delle cose passate.120

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È così che la questione della reminiscenza torna al suo vero senso. Aristotele può riferirsi solo all’intelletto possibile; in realtà, egli segnala l’esatto significato che ha l’attribuzione ad esso dell’immortalità: esso è immortale solo in modo relativo (secundum quid), proprio per il suo vincolo con l’intelletto passivo, che si identifica con la sensibilità, senza la quale non può pensare nulla in assoluto, né di universale né di particolare: «quare corrupto passivo nihil possibilis intelliget, et sic nihil operabitur; quare neque erit, quandoquidem impossibile est aliquid esse sine opere». È qui l’esegesi che Pomponazzi fa del capitolo V del III De anima, oggetto della polemica. Si tratta di una concezione tripartita dell’intelletto: l’intelletto agente, che non è parte dell’anima umana, l’intelletto possibile, che potrebbe ben identificarsi con l’anima intellettiva e, infine, l’intelletto passivo, che in questo testo è direttamente identificato da Pomponazzi con la facoltà sensitiva. Questa lettura del controverso passo aristotelico è assai poco originaria di Pomponazzi; in realtà egli non fa altro che riplasmare l’interpretazione che Averroè aveva ritenuto più appropriata al testo: per il filosofo di Cordova non c’è dubbio che quando Aristotele si riferisce a un intelletto che è separato e non mescolato può solo riferirsi all’intelletto agente. Più completa di quella di Pomponazzi è senza dubbio la sua spiegazione dell’intelletto passivo; abbiamo visto come Pomponazzi segnala che è un errore ritenere che questa mancanza di memoria dell’oltretomba possa attribuirsi semplicemente alla facoltà sensitiva: per lui è più adeguato parlare della facoltà remomerativa che si dà effettivamente nell’intelletto. Averroè, da parte sua, dice a tal proposito che l’anima sensitiva ha tre facoltà interne che sono «ymaginativa et cogitativa et rememorativa»:121 queste tre facoltà, se sono ben disposte e se collaborano tra sé, possono far sì che sia rappresentata l’immagine singolare, incluso il caso che non si abbia di essa una sensazione diretta e attuale: è qui la fonte della memoria. Sicché dice Averroè: «Et intendebat hic per intellectum passibilem formas ymaginationis secundum quod in eas agit virtus cogitativa propria homini»122. L’intelletto materiale riceve dall’intelletto passivo le immagini – dice Averroè – una volta che queste sono state differenziate da parte della facoltà cogitativa e così l’intelletto passivo è del tutto necessario nel processo intellettivo: è poi ben detto che senza di esso non si produce alcun ricordo e di conseguenza, l’intelletto materiale, cioè l’intelletto possibile o l’anima intellettiva non può pensare nulla: «sine virtute ymaginativa et cogitativa nihil intelligit intellectus qui dicitur materialis». Ciò com-

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porta una interpretazione determinata in quanto il gioco dei pronomi presenti nell’ultima proposizione del capitolo, la cui traduzione latina è presentata da Pomponazzi nei termini di ‘Et sine hoc nihil intelligit anima’ – naturalmente la traduzione è di per sé una proposta interpretativa importante,123 poiché non potremmo dimenticare che il testo greco originale dice: «kai; a[neu touvtou oujqe;n noei`», dove il soggetto è sottinteso – ha dato luogo, come si sa, ad una infinità di interpretazioni nel corso della storia.124 In ogni caso, tanto Pomponazzi quanto Averroè concordano nel sottolineare che il soggetto non può essere in questo caso l’intelletto agente, scontrandosi in questo modo con la lettura di altri interpreti come Simplicio o Temistio. Per essi è più probabile l’interpretazione che fa riferimento alla dipendenza del nostro pensare dalle immagini sensibili. Resta ancora sospesa, nel caso di Pomponazzi, la spiegazione della causalità che ha l’intelletto agente nel nostro stesso processo intellettivo. Averroè, come sappiamo, stabilisce che è l’intelletto agente quello che astrae le specie intelligibili dalle specie dell’immaginazione in modo tale da scatenare un processo di astrazione che dà luogo alla specie universale. Se si tiene conto che entrambi gli intelletti, tanto quello agente quanto quello materiale, che in realtà non sono se non due facce – una attiva e l’altra passiva – dello stesso intelletto per se, non sono parte costitutiva dell’essere umano, è evidente che questa concezione di Averroè deve fare i conti con l’esperienza comune e corrente per la quale il pensiero è l’attività di un individuo concreto. Per lui, senza dubbio, l’uomo possiede la facoltà immaginativa, la capacità di richiamare alla memoria le immagini immagazzinate nella facoltà immaginativa e infine possiede la facoltà cogitativa con la quale può classificare, ordinare, differenziare, vincolare, etc., le immagini. Nel caso di Alessandro di Afrodisia una tale attività era sufficiente per generare una certa conoscenza astratta e universale; secondo la sua opinione l’anima può autonomamente generare un abito intellettivo che conduce dalle immagini sensibili alla forma astratta e universale: «L’abito di tal sorta comincia a formarsi nell’intelletto per un passaggio dalla continua attività intorno agli oggetti sensibili, acquistando da essi quasi come uno sguardo capace di vedere l’universale. Quello che agli inizi si chiama ‘un pensiero’ e una ‘nozione’, quando si moltiplica, si arricchisce e si diversifica tanto che si può compiere questa operazione anche senza il sostegno del senso, è ormai intelletto».125 Per Averroè, senza dubbio, l’uomo non possiede in sé stesso l’intelletto materiale, cioè non possiede il potere di elevare il singolare alla categoria dell’universale, perciò deve

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unirsi in qualche modo all’intelletto materiale e acquisire da esso tale potere: questo è esattamente ciò che occorre, cioè che l’intelletto materiale, unico per tutti, si unisca individualmente a questo o a quell’individuo e produca in lui la conoscenza. Infatti, quando questa unione giunge a compimento si può dire che l’individuo acquisisce la conoscenza e lo fa attraverso quello che Averroè chiama ‘intellectus adeptus’, che ormai appartiene intrinsecamente all’uomo che pensa ed è sotto il dominio della propria volontà. Questo intelletto, tuttavia, non è se non la realizzazione concreta e appropriata dell’intelletto materiale. Già nel De immortalitate Pomponazzi riteneva che questa dualità postulata da Averroè nel cuore stesso della sua psicologia era completamente insostenibile dal punto di vista aristotelico, perché si finirebbe con l’attribuire ad una stessa natura due modi di operare non solo distinti, ma addirittura in sé contraddittori: uno nello stato di unione con l’uomo, in dipendenza dalla sensibilità, e l’altro quello dell’intelletto per se, completamente svincolato dalla sensibilità. Questa duplice modalità presupporrebbe, secondo i principi naturali, la necessaria postulazione di due essenze completamente distinte. Sicché, per salvare questa contraddizione e guadagnare una interpretazione coerente della psicologia di Aristotele, Pomponazzi svincola completamente l’intelletto agente dall’anima umana. Ma ancora rimane insoluta la difficoltà di sapere come si produce in noi il passaggio dalle immagini sensibili alle specie intelligibili. D’altro canto, si pone anche il problema della paternità del processo intellettivo: se l’intelletto agente non ci appartiene ed è, secondo Pomponazzi, completamente estraneo alla nostra volontà, come è possibile che noi pensiamo quando vogliamo? Questa è l’obiezione che, a nostro avviso, nel libro II dell’Apologia muove a Pomponazzi Pietro Manna126: In secondo luogo nel capitolo X si dice che l’intelletto agente non è una forma, ma solo un motore. Ma nasce un dubbio perché se così si suppone non sarà in nostro potere astrarre.127

Pomponazzi risponde nel capitolo successivo nei seguenti termini: Riguardo al secondo dubbio diciamo che l’astrazione è in nostro potere come lo è il pensare. Infatti, come noi pensiamo quando vogliamo – fermo restando che l’atto naturale dell’intelletto è sempre pre-esistente perché in assoluto precede la volontà, almeno

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per origine – noi astraiamo quando vogliamo – fermo restando che l’atto di astrazione è pre-esistente in assoluto – altrimenti, com’è evidente, non si darebbe la prima astrazione. C’è tuttavia una differenza tra atto intellettivo e astrazione perché l’atto intellettivo è formalmente l’atto dell’intelletto possibile, che è una parte di noi, l’astrazione invece è l’atto non formale dell’intelletto agente, che non è una parte di noi. Diciamo tuttavia di astrarre quando vogliamo, perché è in nostro potere di applicarci nell’astrazione, come diciamo ‘ci riscaldiamo quando vogliamo’ perché è in nostro potere di riscaldarci, anche se ciò che ci riscalda sia fuori di noi; ma quella proposizione ‘astraiamo quando vogliamo’ è di Averroè e non di Aristotele.128

L’impronta di Averroè è qui evidente: nel commento 36 al libro del De anima egli affermava che, una volta che l’intelletto per se si unisce a noi, dando luogo all’intelletto acquisito o intelletto in abito, l’attività intellettiva, e in concreto, la facoltà di astrarre, è sotto la nostra volontà e perciò l’intelletto che si genera in noi per via dell’unione dell’intelletto materiale ha le medesime caratteristiche di questo, cioè, ha un lato passivo (ricevere gli intelligibili) e un lato attivo (produrli per astrazione): questo lato attivo è realmente presente in noi e per questo possiamo espletarlo volontariamente.129 Pomponazzi, naturalmente, non può ammettere in alcun modo che la facoltà attiva di astrazione, vincolata alla natura dell’intelletto agente, possa essere presente de facto nell’anima umana. Per questo egli sostiene ben chiaramente che la facoltà di astrazione appartiene unicamente all’intelletto agente, che non è in alcun modo parte della nostra anima. Ciò non toglie – egli dice – che l’astrazione sia sotto la nostra volontà: è sotto la nostra volontà come riscaldarci quando vogliamo, sebbene il principio del riscaldamento non sia in noi, ma sia esterno. Allo stesso modo in cui ci avviciniamo ad un falò, ci uniamo alla facoltà astrattiva dell’intelletto agente. Ciò fa nascere nuove domande che lo stesso Pomponazzi non sembra disposto a fare. Sorvolando sulla differenza che c’è tra un atto organico e materiale, come il riscaldarsi, e un atto immateriale per definizione, come è quello di astrarre le forme universali, ci si chiede se il riscaldarci quando sentiamo freddo sia qualcosa che veramente dipende dalla nostra volontà: è possibile che qualcuno che sente freddo non si avvicini al falò se non c’è qualcosa che glielo impedisca? In questo modo, la facoltà astrattiva e in generale il pensiero astratto dovrebbero darsi in tutti gli uomini, o almeno dovrebbero essere in essi in potenza e, se non ci sono ostacoli che lo impediscano, queIII

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sta potenza dovrebbe tradursi in atto. E Pomponazzi ha detto fin dall’inizio del capitolo XIV del De immortalitate che tutti gli uomini partecipano in qualche modo dell’intelletto speculativo: tutti in fin dei conti conoscono fino ad un certo punto i primi principi della scienza.130 Però nell’immadiato si afferma che solo pochi possono svolgere un’attività teoretica. Ora, se il riscaldarsi è, come sembra, una necessità organica, poiché non c’è nessuno che se sente freddo non abbia bisogno di riscaldarsi e poiché questa necessità è soddisfatta avvicinandosi al falò, anche l’astrarre dovrebbe essere una necessità umana e questa necessità è soddisfatta quando giunge al vertice dell’atto di astrazione; il che implica che la felicità della vita teoretica è a portata di tutti poiché tutti possono potenzialmente esercitarla, come tutti sono potenzialmente inclini ad avvicinarsi al fuoco se sentono freddo. Ma ciò entra in contraddizione con quanto Pomponazzi ha stabilito nel capitolo XIV, in cui, come sappiamo, nega che la felicità contemplativa possa convertirsi in fine naturale degli esseri umani. Ciò nonostante, se tutti possono applicarsi all’attività dell’intelletto agente, la cui identificazione con Dio o con la più bassa delle Intelligenze è qualcosa che Pomponazzi un po’ più avanti lascia al gusto dell’interprete,131 allora tutti in qualche modo possono e debbono sperare qualche tipo di contatto con la divinità; in tal modo, poiché non può esserci una speranza più alta di questa, la vita contemplativa si converte in un fine desiderabile per tutti. È deplorevole che il Peretto non abbia voluto trarre esplicitamente le conclusioni che dal suo paragone potevano essere tratte. La rapidità con cui egli chiude il paragone, nella convinzione che l’associazione tra atto intellettivo dell’astrazione e volontà sia una questione posta da Averroè e non da Aristotele, ci fa pensare che forse si tratta di una questione che vuol far passare sotto silenzio. In ogni caso, è bene tenere qui conto di talune cose su cui Luca Bianchi si è opportunamente espresso: le differenziazioni che Pomponazzi pone all’interno della specie umana, rispetto alla maggiore o minore propensione che gli uomini hanno alla pienezza di una vita razionale e integralmente morale, hanno in ultima istanza la loro ragion d’essere in una specie di attitudine, non in una volontà individuale.132 Stanti così le cose, se ciò che veramente motiva una vita umana alla pienezza della razionalità e, insieme, della moralità è la capacità di unirsi alla attività propria dell’intelletto agente, allora questa capacità non è il frutto di uno sviluppo potenzialmente presente in tutti gli uomini, ma solo in alcuni pochi privilegiati che si staccano fin dalla nascita dalla maggior parte di essi.133

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Infine nel Defensorium non incontriamo che una conferma di questa gnoseologia che abbiamo visto appena abbozzata nel De immortalitate e che con qualche dettaglio in più è presente nell’Apologia. Se ritorniamo alla conclusione dell’opera, quando confuta le argomentazioni che a mo’ di conclusioni aveva formulato Nifo, nelle quali si stabiliscono le conclusioni principali che debbono essere sostenute circa l’immortalità dell’anima entro i limiti del pensiero di Aristotele, Pomponazzi insiste una volta di più sulla natura separata e sulla unicità dell’intelletto agente, che non è forma dell’uomo, ma è solo motore esterno dei processi intellettivi; è l’intelletto passivo quello che costituisce la vera forma dell’individuo e che per ciò è diversificato in rapporto al numero degli individui.134 Sulla questione della reminiscenza, trattata nell’Apologia sulla base della conclusione De anima, III, 5, nel Defensorium si rinvia a ciò che è già stato detto nell’opera precedente e si ripete che la negazione dei ricordi dopo la morte non ha nulla a che vedere con una possibile assunzione da parte di Aristotele di una permanenza dell’anima dopo la corruzione del corpo. In effetti, la questione era stata trattata da Nifo dal punto di vista di S. Tommaso, per affermare che quello che Aristotele menzionava come oblio dell’anima dopo la morte non deve estendersi in maniera assoluta, ma solo relativa: non si nega cioè ogni operazione post mortem dell’anima separata; una siffatta negazione condurrebbe evidentemente alla negazione della esistenza dell’anima separata, poiché non c’è nulla nell’universo che sia completamente in ozio. Al contrario, si tratta di postulare implicitamente un altro modo di pensare dopo la morte, diverso da quello che si dà nello stato di unione con il corpo. In questo senso possono altresì interpretarsi altri passi di Aristotele, nei quali questi sembra affermare la natura non corruttibile della facoltà intellettiva. Secondo Nifo, Aristotele pensò che con la morte scompaiono le scienze, le arti e tutto ciò che l’anima ha pensato in vita. Ora, questa ipotesi può essere interpretata in vari modi: o Aristotele la sostiene perché crede che l’intelletto sia uno solo di numero per tutti gli uomini (interpretazione averroistica): «questo non è possibile, perché come vuole Pomponazzi, tale opinione può essere confutata per mezzo di una dimostrazione fisica ed è in contrasto con il pensiero di Aristotele»;135 o Aristotele la sostiene perché esclude l’anima intellettiva, come pensa Pomponazzi, «ma risulta che non è così perché Aristotele nei testi citati suppone con grande chiarezza che l’intelletto è immortale»;136 sicché l’anima dopo la morte perde

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completamente tutta la scienza, ma questo non implica che dopo la morte non abbia alcun tipo di intellezione (questa soluzione implicherebbe una contraddizione manifesta nello stesso discorso di Aristotele, giacché egli non accetta l’esistenza in natura di un essere ozioso). A partire da ciò Nifo si impegna in un’ardua discussione su ciò che realmente presuppone il pensare umano e se si può stabilire in qualche modo una continuità di natura tra il pensare proprio dell’anima dentro e fuori del corpo. Riassumendo, il Suessano giunge a sostenere che il pensare essenziale dell’uomo si dà per mezzo delle specie intelligibili, la cui rappresentazione, senza dubbio, cambia a seconda che l’anima si trovi dentro o fuori del corpo. Per lui si può dire che l’anima dopo la morte ha un’operazione intellettiva e questa operazione è essenzialmente la stessa che ha nel corpo, ma in una modalità diversa: «L’anima però dopo la morte pensa anche per mezzo delle medesime specie conservate in se stessa, non però in quanto rappresentano gli universali nelle immagini, ma in quanto rappresentano gli universali in assoluto; è questa la ragione per cui essa, pur pensando per specie, non lo fa tuttavia attraverso un pensiero volto verso le immagini».137 Pomponazzi respinge decisamente tutto questo discorso. Richiamandosi, come abbiamo detto, a ciò che aveva già segnalato nell’Apologia rispetto alla questione della dimenticanza post mortem, ripete che la sua intenzione è stata quella di trattare la materia entro i limiti della filosofia naturale, perché come verità rivelata non c’è alcun dubbio che l’anima sopravvive e porta con sé il bagaglio accumulato in vita, in virtù del quale sarà premiata o riceverà un castigo. È indubbio che Nifo e, in generale, i tomisti sostengono che Aristotele non si domanda se dopo la morte abbiamo ricordi, se non presupponendo che dopo la morte noi pensiamo come pensiamo nello stato di unione, cioè per conversione alle immagini sensibili. A dire il vero, la domanda sarebbe completamente inutile, poiché già in precedenza Aristotele aveva constatato che l’immaginazione è, in effetti, corruttibile, perché dopo la separazione dell’anima è evidente che questa è corrotta: «Ora a che serve chiedersi se l’anima dopo la morte si volge alle immagini sensibili, se già si è concluso che la stessa immaginazione non sussiste e che non può pertanto esserci nessuna conversione verso il nulla?».138 D’altro canto, se le parole ‘se abbiamo ricordi dopo la morte’ sono intese nel senso ‘se noi ci ricordiamo nello stesso modo in cui ricordiamo ora’, per Pomponazzi significa distorcere seriamente il testo di Aristotele. Lo stesso accade con la proposizione seguente: se si suppone che con le parole ‘senza

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l’intelletto passivo l’anima non pensa nulla’, Aristotele intende forse che ‘l’anima non pensa nel modo come pensiamo ora’, significa distorcere sensibilmente e stravolgere le citazioni, non interpretarle. Insomma, questa questione della reminiscenza è per Pomponazzi razionalizzabile: «Infatti, avendo Aristotele sopra concluso l’indagine se l’intelletto, tanto il possibile quanto l’agente, sia immateriale, a buon diritto qualcuno avrebbe potuto credere che quegli intelletti siano immateriali in egual misura».139 E questo è esattamente ciò che Aristotele tenta di chiarire, per dimostrare che solo l’intelletto agente è veramente immateriale e immortale, «quoniam ipse est sui actio», per cui si può dire che esso è veramente eterno e immortale. In compenso l’intelletto passivo non è veramente immateriale e immortale, posto che la sua attività – dice Pomponazzi – dipende dall’intelletto passivo; ne consegue, come fa notare Aristotele, che una volta si trova in atto intellettivo e un’altra volta no, per cui non può essere né veramente immateriale, né veramente immortale, ma può esserlo solo in modo improprio e relativo; e, sebbene l’intelletto passivo di per sé non si corrompa, la concomitanza che ha con il corpo lo condiziona e lo conduce alla scomparsa. Perciò, dice Aristotele nel libro II del De anima, esso si corrompe quando qualcosa si corrompe dall’interno. Questa interpretazione è – prosegue Pomponazzi – la più coerente con il pensiero di Aristotele. In un altro passo del Defensorium Pomponazzi risponde all’argomento di Nifo secondo cui la natura degli universali è immortale e incorruttibile non per sé stessa (così si cadrebbe nelle braccia del platonismo, il quale, come si evince dalla critica aristotelica alle idee di Platone, è inconcepibile), ma per partecipazione a qualcosa che è veramente immortale e incorruttibile, come è l’anima intellettiva.140 Per Pomponazzi, senza meno, l’universalità e la perpetuità dei concetti è dovuta al fatto che possono rappresentare un contenuto determinato senza condizionamenti materiali, cioè senza il qui e ora; ora, l’intelletto che può fare ciò in assoluto è l’intelletto agente, che è propriamente immateriale e può farlo anche in modo relativo l’intelletto possibile, che è immateriale secundum quid: «Ma la vera immaterialità è negli enti astratti per la cui partecipazione l’intelletto umano possiede qualcosa della immaterialità, perché è la suprema delle forme materiali».141 Pertanto è falso che l’intelletto umano sia immateriale per essenza, come diceva Nifo. Per Pomponazzi solo l’intelletto divino è tale. Tutt’al più non è incompatibile con la natura di forma materiale, propria dell’intelletto umano, il fatto che possa rappresentarsi concetti universali senza il qui ed ora,

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poiché in realtà una facoltà più bassa di esso, come la cogitativa, la cui natura organica è accolta da tutti, può già conoscere la sostanza senza la qualità e la quantità. Di conseguenza, non c’è nulla di strano se l’intelletto umano, che è superiore alla facoltà cogitativa, proprio perché non è organico, può recepire e conoscere in questo modo. Ancora una volta si insiste su ciò che è ripetuto tanto nel De immortalitate, come nell’Apologia e nel Defensorium; in questo il parere di Pomponazzi non è cambiato neppure di un millimetro negli anni che passano tra queste tre opere; secondo il pensiero di Aristotele, cioè, l’intelletto, in quanto intelletto umano, non lascia per nulla la forma materiale, non si libera mai completamente della materia e per ciò pensa sempre l’universale nel singolare. Insomma da questa sintesi che abbiamo fatto del De immortalitate animae e delle opere apologetiche di Pomponazzi si debbono trarre le seguenti conclusioni evidenti: a) Pomponazzi si è dichiarato sempre aristotelico perché credeva di aver compreso il nucleo centrale della psicologia aristotelica; b) dal terreno del puro aristotelismo, ed emarginando altre intepretazioni, che egli si incarica di confutare, perviene solo ad una visione naturalistica dell’essere umano: non c’è in lui niente più che un composto di materia e di forma la cui dissoluzione significa niente più niente meno che la scomparsa del soggetto. Non abbiamo motivo, almeno sul piano testuale e documentario, per affermare che Pomponazzi non fosse sincero quando diceva che le contraddizioni che potevano essere segnalate nei testi aristotelici fossero solo apparenti; è poi solo apparente il dilemma tra i testi aristotelici che proclamano la dipendenza del nostro pensiero dalle immagini sensibili e gli altri che postulano la natura impassibile e immortale dell’intelletto o tra i testi aristotelici che dicono che la felicità che è raggiungibile dall’essere umano riguarda il composto e gli altri in cui la felicità è collocata nella perfetta pienezza della vita teoretica che solo pochi possono conseguire. Tutto ciò può spiegarsi, pensava Pomponazzi, se siamo capaci di collocare l’essere umano nella sua vera dimensione ontologica, a cavallo tra le bestie e le Intelligenze celesti, di modo che la sua esistenza possegga in sé stessa una certa dignità relativa che le consente di possedere in maniera incompleta ciò che è esclusivamente divino. Questa tesi, esposta a grandi linee, rappresenta in realtà il grande lascito teorico di Pomponazzi, ma analizzata nei suoi elementi più minuti presenta un gran numero di perplessità come quelle che deve affrontare il ricercatore moderno. Tra queste, in effetti, c’è la questione dell’intelletto agente.

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Antonino Poppi pone l’accento su qualcosa che a me sembra singolarmente importante: per lui è strano che una mente così rigorosa come quella di Pomponazzi non si rendesse conto che questa immaterialità relativa non ha un significato pienamente comprensibile, mentre la materialità sostanziale dell’essere umano esclude la possibilità di una conoscenza universale.142 Lo studio che abbiamo condotto sulla concezione dell’intelletto agente ci permette di insistere su questo stesso concetto rispetto a tale questione. In effetti, se l’intelletto umano, materiale per essenza, può conseguire una conoscenza universale, è perché, per un altro verso, possiede una immaterialità relativa; ciò lo lega in qualche modo alla natura incessantemente in atto dell’intelletto agente e anche perché questa conoscenza immateriale è sempre limitata ad essere sempre in contatto con una rappresentazione singolare. Le insufficienze di questa immaterialità si manifestano in modo troppo evidente quando Pomponazzi abborda la questione dell’intelletto agente: non fa parte dell’anima umana, ma la illumina; non interviene al principio né alla fine del processo conoscitivo, però è esso il depositario dell’attività astrattiva che esercita l’anima intellettiva. L’uomo in definitiva, non può aspirare a possedere dentro di sé niente che sia imparentato con il divino, ma possiede sì la capacità di essere illuminato da esso. La domanda è: com’è possibile che ci sia una qualche connessione tra una cosa e l’altra, se esse sono l’una estranea all’altra? Pomponazzi non dà a questa domanda una risposta che vada oltre la formula del secundum quid. Forse allora dobbiamo ricorrere alle parole di M. Pine il quale dice che quando Pomponazzi tenta di risolvere le contraddizioni interne all’aristotelismo finisce col provocare la morte di questa filosofia, senza per ciò scorgere la necessità di un nuovo modello esplicativo.143 Lo stesso ci dice Bruno Nardi, citato da Pine. Una sola cosa occorrerebbe aggiungere. Pomponazzi è capace di concepire una posizione diversa dell’aristotelismo filosoficamente percorribile; questo può evincersi chiaramente nelle sue Quaestiones,144 in cui da un lato considera possibile respingere la psicologia dello Stagirita, da lui identificata con l’interpretazione di Averroè e, dall’altro, giudica ragionevole la posizione di Alessandro di Afrodisia. Più tardi, senza dubbio, l’evoluzione del suo pensiero lo induce a pensare che il vero Aristotele non è quello rappresentato da Averroè o Tommaso, ma quello che è latente nei testi di Alessandro.

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Francesco Paolo Raimondi L’ESPLORAZIONE DELL’ANIMA VEGETATIVA 8.1. Dalla polemica anti-immortalistica al De nutritione: il De incantationibus, il De fato e la sperimentazione della via metafisica Finito di scrivere il 3 settembre 1521 nella cappella di S. Barbaziano Confessore, pubblicato il 20 ottobre 1521 con il titolo Tractatus de nutritione et auctione e riprodotto con il titolo Libellus de nutritione et augmentatione nell’edizione del 1525, il trattato era probabilmente già pronto nel mese di agosto, perché la lettera dedicatoria al Cardinale Domenico Grimani reca la data del 17 agosto 1521. La sua composizione – se dobbiamo credere a ciò che l’autore scrive al Grimani – fu contenuta in tempi strettissimi e fu approntata in poco più di un mese dalla notizia della elezione al dogato di Antonio Grimani (6 luglio 1521)1 alla metà di agosto. Ma è assai verosimile che l’idea di scrivere un trattato sulla nutrizione e sull’accrescimento sia maturata nel corso dell’anno accademico appena scaduto (15201521), nel quale il Pomponazzi si era cimentato, come egli stesso ci fa sapere, nella lettura e commento del De generatione et corruptione.2 Se ne deduce che il trattato fu pensato e composto subito dopo la conclusione del De incantationibus e del De fato rispettivamente il 16 agosto e il 25 novembre 1520 e prima dei corsi universitari dedicati al De partibus animalium, ai Meteorologica e al De sensu et sensato con cui si chiude la vicenda speculativa del filosofo mantovano. L’esigenza di affrontare il tema del prodigioso era emersa nel corso della polemica anti-immortalistica la quale aveva lasciata aperta la possibilità di salvare la tesi dell’immortalità per effetto di un intervento immediato della divinità ovvero per effetto di un miracolo.3 Il Contarini in particolare aveva rimproverato il Peretto per aver trascurato molte questioni di carattere per lo più metafisico, tra cui anche quella di non aver preso in considerazione l’ipotesi che i miracoli possano essere prodotti dai corpi celesti.4 D’altro canto l’indagine condotta nel De immortalitate era stata, per deliberato proposito, contenuta entro i confini della filosofia naturale con esclusione dei miracoli e della rivelazione.5 Il De incantationibus, cui qui

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per ragioni di spazio accenniamo sommariamente, rappresenta un capovolgimento dell’impianto con cui era stata trattata fino ad allora la problematica psicologica. Con esso l’asse speculativo si sposta dalla filosofia naturale alla metafisica. E lo slittamente non manca di avere ulteriori conseguenze: da una parte la filosofia aristotelica perde la propria centralità e il ruolo di esclusivo paradigma ermeneutico; dall’altra l’approccio metafisico comporta margini di incertezza e procedure probabili e congetturali più che dimostrative. Ciò trova conferma nella Expositio super primo et secundo De partibus animalium. In proposito è interessante la lectio XVIII del libro I, da cui emerge che i limiti della conoscibilità degli enti separati risiedono nel fatto che essi non cadono sotto le determinazioni della sensibilità. Egli [Aristotele] dice che quelle sostanze che sono eterne, come Dio e le Intelligenze e i corpi celesti, sono da noi poco conosciute, perché tutto ciò che l’uomo conosce lo conosce per mezzo dei sensi e il senso è relativo agli accidenti… Ma a Dio non accade nulla ed Egli non ha accidenti. Lo stesso vale per le Intelligenze… Per cui Diogene vedendo che due disputavano intorno al cielo, disse loro: quando siete venuti dal cielo per saperne tanto?6

Ne consegue che nell’ambito della metafisica non è possibile una rigida prevalenza della via peripatetica, ma è necessario un confronto con altre posizioni dottrinali e in particolare con la via legum. Ciò spiega perché i due trattati del 1520 non furono inseriti nella edizione veneziana del 1525: questa era stata progettata dallo stesso autore o dai suoi discepoli, come una raccolta di testi di filosofia naturale, da cui erano ovviamente esclusi il De incantationibus e il De fato, che invece sconfinavano sul terreno delle congetture metafisiche.7 Perciò quel mere peripatetici del titolo acquista il significato di ‘trattati fisici condotti nell’ottica della sola filosofia peripatetica’. Ma ciò che soprattutto ci preme segnalare è che tra metafisica e filosofia naturale si apre un varco in ordine alla maggiore o minore attendibilità del loro statuto epistemologico. Nel commento al De partibus animalium, ove Pomponazzi mostra di aver maturato una più articolata concezione della enciclopedia del sapere, alla filosofia naturale è riconosciuta una maggiore certezza dimostrativa, ma anche una minore nobilità rispetto al sapere del metafisico che è incerto ed oscuro, ma è in compenso più nobile per la perfezione del suo oggetto di indagine: «Possiamo sapere poco – egli scrive – intorno a Dio e alle Intelligenze, tuttavia tale scienza è da coltivare e desiderare in massima misura, poiché ci diletta in massima misura;

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e anche se conosciamo Dio e le Intelligenze in modo oscuro, nessun piacere è così eccellente quanto quello dato da tale scienza, perché niente è più nobile di Dio. Dopo la scienza divina viene la scienza naturale che comprende sia Dio sia le cose corruttibili e generabili».8 La stessa lectio XVIII traccia una linea di demarcazione tra la metafisica, che è un sapere perfetto in ragione del proprio oggetto (ratione obiecti), ma è anche leviter (ovvero è un sapere meramente probabilistico: «scire de Deo… idest probabiliter») per le sue modalità conoscitive (ex modo cognoscendi), e la filosofia naturale, che se non è perfetta ratione obiecti, lo è per la pluralità delle conoscenze e per i procedimenti dimostrativi («est… perfecta ratione pluralitatis rerum cognitarum et ex modo cognoscendi, quoniam naturalia perfectius cognoscimus»).9 Se dunque il trattato nasce per una esigenza interna al pensiero pomponazziano, la lettera al Panizza, che funge da proemio e richiama l’attenzione sulle guarigioni miracolose dall’erisipela, dalla scottatura e dalla estrazione di un ferro infisso nella carne, non è che un espediente letterario per introdurre il tema dell’admirandum, dei mirabilia e infine dei miracula vera, con l’obiettivo di spingere la ricerca fin nel cuore delle cause universalissime e di stabilire quali sono i limiti dell’azione divina o comunque degli enti superiori sul mondo. Nella lettera è già chiaramente delineato lo svolgimento dell’opera. Viene sollecitato un confronto tra alternative equamente probabili, tra la via legum, per la quale l’azione divina è mediata dagli angeli e dai demoni, quella avicenniana, la quale ipotizza un’azione senza contatto delle species spirituales,10 e la via peripatetica, che non sembra disporre di una capacità di risposta per il fatto che non ammette né l’esistenza dei demoni, né l’azione priva di contatto (Quare nulla respondendi via Peripateticis videtur esse relicta).11 In assenza di riferimenti testuali, la soluzione aristotelica, fondata sulla causalità astrologica (l’azione divina è mediata dalla Intelligenze e dai corpi celesti), è formulata come possibile o verisimile12 risposta che lo Stagirita avrebbe dato nella materia in questione. Ovviamente la soluzione para-peripatetica è privilegiata, sebbene quella proposta dalle religioni sia dichiarata più sicura (tutior).13 La via avicenniana è presto accantonata per essere stata condannata dalla Chiesa. Di conseguenza il confronto interessa le altre due soluzioni e procede nel corso del trattato ad una progressiva esplicitazione dei rispettivi presupposti metafisici. Le due viae sono poste su un piano di sostanziale pariteticità o di equipollenza,14 nel senso che sono equiprobabili, possiedono una pari efficacia esplicativa e sono

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entrambe in grado di experimenta salvare. Si tratta tuttavia di una pariteticità apparentemente sbilanciata a vantaggio della soluzione peripatetica, come per altro si evince dalla formulazione pressoché costante con cui essa è espressa e che consiste nel dire che se un effetto prodigioso, quale può essere una guarigione apparentemente miracolosa, può essere compiuta dal demone, intelligendo et volendo, non vi sono ragioni che impediscano di ricondurre quello stesso effetto alla causa naturale. Lo svolgimento del trattato è sapientemente studiato: esso si apre con una apparente sconfitta della via legum e si chiude con il riconoscimento di una insufficienza ermeneutica e interpretativa della via peripatetica. Nel primo capitolo è demolita la causalità demonologica o angelologica e l’elemento di criticità è individuato nell’impossibilità della conoscenza dei singoli da parte delle Intelligenze angeliche o demoniache. La situazione, come vedremo tra breve, si capovolge nel capitolo XI ove si riconosce che la medesima impossibilità gnoseologica sussiste per le Intelligenze celesti della metafisica aristotelica. Nel secondo capitolo Pomponazzi abbozza l’ipotetica soluzione aristotelica, il cui punto cardine consiste nella esclusione dell’occulto e del magico e conseguentemente nella legittimazione della sola causalità fisica, da cui deriverebbe l’alterazione dei corpi. In breve si ammette che le erbe, le pietre, ecc., possono alterare i corpi per mezzo di qualità manifeste (intendi percettibili) o immediatamente (come il calore prodotto dal fuoco o il freddo prodotto dall’acqua) o mediatamente (come il rabarbaro che agisce convertendosi in vapore) o per mezzo di una qualità occulta (non nel senso di magica, ma nel senso di impercettibile, come è il caso dell’attrazione del ferro da parte del magnete). In tal modo l’admirandum o il mirabile è fatto rientrare in toto nell’ordinamento naturale. Il presunto mago che opera la guarigione non ricorre affatto ad un potere magicoocculto, ma semplicemente applica le cause naturali perché ne ha una conoscenza più immediatamente pratica, comunque acquisita. In realtà lo schema esplicativo è agostiniano: la guarigione apparentemente prodigiosa consiste nell’applicare principi attivi a corpi che sono disposti a subirne l’azione. Perciò se tali azioni possono essere compiute dal demone, possono essere a maggior ragione compiute dall’uomo, sfruttando gli stessi principi attivi utilizzati dal demone. Nel capitolo quarto la proposta para-peripatetica è vagliata, come dire sul campo, in riferimento alle guarigioni miracolose citate nella lettera al Panizza. In tutti e tre i casi essa regge il confronto e sembra essere più soddisfacente di quella elaborata dalle leges. Il

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principio di equivalenza delle due viae è confermato anche quando si tenta una spiegazione sine auxilio daemonum et angelorum; si riconosce che l’effetto prodigioso «è indotto per alterazione»; che certe proprietà analoghe a quelle delle erbe possono essere possedute individualmente da taluni uomini e infine che le species intentionales operano per mezzo degli spiriti e del sangue ovvero che la loro azione si spiega in termini di contatto. Di conseguenza, il prodigio, che solitamente è ritenuto di origine magica, è il prodotto di un’arte di cui si rivelano capaci solo pochissimi uomini, i quali l’hanno acquisita o ex studio et industria o attraverso il commercio con gli spiriti immondi o per dono di angeli buoni. Ma proprio in quanto dipende da proprietà individuali, tale arte non potest cadere in scientiam.15 Nel capitolo VI la fenomenologia dell’admirandum si estende fino a comprendere anche quella dei miracula. La soluzione aristotelica sembra ancora reggere sulla base del parere di Tommaso il quale non esclude che due effetti della stessa specie possono essere interpretati l’uno come miracolo e l’altro come prodotto da cause naturali. Il discrimine tuttavia è dato dai miracula vera (la resurrezione dei morti, la restituzione della vista ai ciechi), che non possono essere ridotti alle cause naturali («aliqua facta fuisse quae nullo modo in causam naturalem reduci possunt, veluti mortuorum resurrectio, illuminatio caeci nati»).16 Qui il modello esplicativo dell’aristotelismo comincia a rivelarsi inadeguato e a cedere il passo a quello delle leges: Ci sono infatti molti eventi prodigiosi che non possono essere in alcun modo prodotti dall’uomo, per quanto sia dotato di scienza, acquisita per via di ricerca o attraverso i libri; questi prodigi non possono essere prodotti senza l’aiuto divino, angelico o demoniaco… davvero i filosofi non hanno proposte verosimili da fare; perciò è necessario ricorrere a Dio, agli angeli e ai demoni.17

Nasce da ciò la magna dubitatio che mette in discussione il paradigma della metafisica aristotelica: Il dubbio è conseguente a ciò che si è detto alla fine del precedente capitolo cioè che tutti i prodigi ivi addotti provano pienamente ed efficacemente che gli angeli e i demoni esistono e, come si è detto a proposito della resurrezione, Dio agisce immediatamente e crea qualcosa di nuovo. Ora è strano e incredibile che un filosofo così illustre, quale in coro professano essere tutti i popoli, non abbia compreso

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questo e lo abbia apertamente negato. Ciò è certamente incredibile, giacché tanto gli uomini volgari quanto quelli non volgari dicono qua e là che questi prodigi dimostrano l’esistenza dei demoni.18

Com’è evidente, il recupero della via peripatetica è condotto in sede metafisica: viene riproposto, sia pure in termini ipotetici (supponimus), l’impianto già teorizzato fin dai corsi universitari giovanili. Dio è l’archetipo dell’universo ed è causa universale, finale, efficiente ed esemplare di tutti gli enti materiali e immateriali. Essendo il mondo eterno, la causa efficiente si configura come causa conservante. Dio acquisisce la connotazione della provvidenza che si esplica attraverso i corpi celesti i quali sono, a loro volta, causa o totale o parziale o cogente o disponente di tutti gli enti inferiori. In quanto atto semplice e privo di potenzialità, Dio non può agire immediatamente sul mondo, ma può agire attraverso i suoi ministri (mediantibus eius ministris), che sono le Intelligenze. Dio, infatti, ordina e dispone ordinatamente e soavemente; conferisce alle cose una legge eterna cui è impossibile derogare… perché Aristotele credette che se Dio agisse immediatamente, muterebbe e perciò Dio non sarebbe Dio; in Lui, infatti, tanto secondo le religioni quanto secondo i veri filosofi non può esserci affatto un mutamento o una vicissitudine… Vediamo ora gli altri, cioè gli angeli e i demoni. Dico che ci si deve chiedere come essi diano tali responsi, se informando e istruendo i vati oppure utilizzando i loro corpi come fa lo zampognaro con la zampogna.19

La provvidenza divina non è intesa nei termini di quella cristiana, come soccorso prestato a ciascuna creatura, ma si identifica con l’ordine necessario e universale delle cose; nel Dio perettiano prevale la potestas ordinaria (o causalità necessitante), più che quella absoluta (o causalità libera e contingente), tanto da coincidere con il fato, se non fosse per la sua connotazione antropomorfica di Ente dotato di pensiero e di volontà. In ogni caso per tutta la fenomenologia del prodigio, dall’incantesimo alla divinazione, dalla profezia alle apparizioni miracolose, continua ad essere proclamata con più insistenza di prima la pariteticità teoretica tra le due viae. Se infatti l’immaginazione del vate può essere sollecitata dagli angeli o dai demoni, nulla vieta che possa essere sollecitata anche dalle Intelligenze che agiscono per il tramite della causalità astrale.20 Il vantaggio della soluzione aristotelica è per lo più di tipo economico, perché consente di salvare l’esperienza sine illa numerosa multitudine.21

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Nel capitolo X l’equivalenza teoretica tra le due viae è invocata ben otto volte.22 In quello successivo Pomponazzi ritorce contro la tesi aristotelica le stesse obiezioni che nel capitolo I erano state mosse contro la dottrina delle leges: Gli argomenti addotti contro l’ipotesi che i demoni operino tali prodigi sembrano procedere anche contro questa opinione [aristotelica]. Perciò, per dirla in una parola: che cosa costituisce una difficoltà per coloro che ammettono i demoni, che non rappresenti un ostacolo anche per la nostra posizione?23

Ciò significa che non si riesce a giustificare la funzione determinante o determinatrice delle Intelligenze sia che esse abbiano una intellezione universale delle cose sia che ne abbiano una particolare. Tra l’altro l’esplorazione della fenomenologia dell’admirandum non sembra essere stata completa, poiché emerge che taluni incantesimi «non sembrano riconducibili alle cause naturali, per cui oltre le Intelligenze e i corpi celesti è necessario ammettere che Dio agisca immediatamente e che esistano gli angeli e i demoni».24 L’obiezione cruciale, che per dirla con Kuhn decide della validità di un paradigma scientifico-teoretico, è quella che introduce il conflitto tra la contingenza dell’effetto e la necessità della causa. Se la causa che ha prodotto gli oracoli della religione pagana è quella naturale data dai corpi celesti, essa è necessaria e dovrebbe produrre effetti aut semper aut in pluribus.25 Il conflitto riemerge in riferimento alla funzione della preghiere. Ma forse qualcuno incalzerà ragionevolmente osservando che in merito all’esempio addotto [l’apparizione ad Aquila di Celestino dopo un violento nubifragio] la disparità tra le due soluzioni è massima. Infatti, secondo la risposta dei filosofi la serenità è prodotta dal cielo e, poiché il cielo agisce necessariamente, la serenità fu necessaria. Le preghiere non furono necessarie; ma se così fosse esse non sarebbero state meritorie e pregare non sarebbe stato in potere degli Aquilani; ciò che è manifestamente falso. Per le religioni le preghiere furono contingenti come fu contingente la serenità. Perciò c’è disparità tra le due soluzioni e non c’è tra esse accordo; anzi la soluzione proposta dalle religioni è idonea. Infatti, in presenza di una causa contingente e di un mezzo contingente, è contingente anche l’effetto e contingente deve essere anche il fine. Ma secondo la soluzione dei filosofi il mezzo è contingente e la causa finale, ovvero l’effetto, è necessaria. E ciò è contro ogni principio della posterioristica.26

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Da una parte entra in crisi il modello della causalità necessaria, incardinata nell’ordine universale e nella potestas ordinaria, dall’altra, stretti nella morsa del determinismo di matrice aristotelica, rischiano di venir meno il libero arbitrio e l’autonomia etica.27 In breve si prepara il fallimento di entrambe le soluzioni che ricorrono alle cause mediate e seconde, sia che si tratti delle essenze angelico-demoniache della tradizione religiosa sia che si tratti delle Intelligenze motrici della metafisica aristotelica. La soluzione cristiana entra in crisi perché le leges, in quanto prodotti naturali, sono soggette alla legge del divenire che presiede a tutti gli enti corruttibili e generabili: tutte le cose che cominciano ad esistere, cessano di esistere. Le religioni come gli Stati sono individualità che hanno una vita propria: nascono, crescono, raggiungono lo stato maturo e poi decadono. Ad una religione segue un’altra; un nuovo profeta si professa figlio di Dio e produce un mutamento radicale nei costumi e nella vita civile. La soluzione peripatetica è in grado di dar conto delle religioni, relativizzandole come prodotti storici, nella misura in cui è in grado di spiegare la loro perenne vicissitudine. Poiché tale vicissitudine è continua ed eterna – scrive Pomponazzi – deriva da una causa eterna e per sé autonoma; essa non può essere ricondotta a nessun’altra causa se non ai corpi celesti, a Dio e alle Intelligenze: perciò le religioni dipendono naturalmente dai corpi celesti.28

Se la causalità astrologica sembra avere ragione sulle leges tanto da riuscire a ricondurle ad un ordine naturale, lo scoglio insuperabile resta quello dell’azione divina che quanto più si espleta intelligendo et volendo, tanto più coincide col volere di un soggetto libero e contingente a differenza del Dio aristotelico che è oggetto e non soggetto dell’ordine universale. Ed è proprio sul fronte della contingenza che gli aristotelici tradiscono in pieno la loro inadeguatezza (in aliquibus evadere videantur), tanto più che lo stesso aristotelismo è travolto dall’ipotesi vicissitudinale e relativizzato come prodotto storico. Nella misura in cui entrambe le soluzioni, fondate sulle cause seconde e sull’azione divina mediata, entrano in crisi, il recupero della via legum avviene sul versante dell’azione immediata di Dio sul mondo. Gli ultimi capitoli del De incantationibus puntano a valutare la convenientia tra le due vie della potestas ordinaria e di quella absoluta in relazione alla possibilità di salvare il libero arbitrio. Il predeterminismo delle geniture e degli oroscopi è ritenuto falso proprio

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perché mette a rischio la libertà umana: «periret liberum arbitrium».29 Ma il passo decisivo è quello di andare oltre le limitazioni imposte dalla filosofia naturale del De immortalitate e di imboccare più coerentemente la strada della metafisica. Il tentativo di salvare la libertà umana è condotto ancora entro gli schemi concettuali dell’aristotelismo. Si ammette che la volontà non può agire sine re corporali, ma si puntualizza che essa è in eligendo capace di stagliarsi supra res corporales.30 Sebbene la formula utilizzata sia quella della dipendenza dal corpo ut obiecto e non ut subiecto, l’idea che nella scelta si delinei una operatio supra corpus sembra forse accentuare la dimensione immateriale che il De immortalitate poneva in perfetta pariteticità con quella materiale; e forse non è casuale il rinvio al De fato con la promessa di districare l’ardita difficultas de terminante ipsam voluntatem.31 Il problema dell’immortalità dell’anima riaffiora con talune sfumature che non sembrano essere del tutto in linea con il De immortalitate. Così si osserva che se si dovesse ricondurre la creazione dell’anima alle cause seconde, la si sottoporrebbe totalmente alla materialità del corpo. Per di più il capitolo XIII del De incantationibus pone un più forte accento sulla separatio: «l’anima – ci vien detto – non dipenderà dal corpo così da non poter essere senza il corpo, come risulta dopo la separazione».32 Ne consegue che l’anima ha con il corpo un rapporto per habitudinem; si può perciò postulare che il suo essere senza il corpo nulla toglie alla sua essenza: «modo faciendo animam sine corpore, nihil aufert ab eius essentia».33 Essendo per se existens, l’anima precede per natura l’atto di informare il corpo con la conseguenza che nella creazione essa non dipende né dal corpo né dalle cause seconde, altrimenti non potrebbe essere naturaliter priva della corporeità: «infatti – scrive il Pomponazzi – se non fosse in sé prima che nel corpo, non potrebbe naturalmente essere senza il corpo».34 A prescindere dal fatto che quel naturaliter sia in profondo contrasto con il De immortalitate, l’elemento innovativo sta ora nel fatto che, per Pomponazzi, la natura dell’anima postula l’azione diretta di Dio, esattamente come i miracula vera.35 Insomma i temi della immortalità, della libertà del volere e della provvidenza si intrecciano sempre più strettamente tra loro proprio nel momento in cui l’interpretazione fatalistica e stoicizzante dell’aristotelismo entra in crisi. Se nel mondo sublunare c’è un qualche effetto che può essere spiegato solo attraverso l’intervento immediato di Dio, i Peripatetici sono fuori causa, perché non sono in grado di salvare tutti gli experimenta.36 Ne consegue

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che «doctrinam peripateticam non esse veram sed deficientem» e che la mens philosophorum è «falsa et erronea».37 Con una strategia non dissimile da quella approntata nel passaggio dalla prima alla seconda parte del De fato, anche il De incantationibus, assodato che la ratio humana e le auctoritates di Platone e di Aristotele sono soggette all’errore,38 si affida alla testimonianza saldissima di Cristo che è ipse veritas.39 Traendo le somme, il De incantationibus se per un verso indica la soluzione dell’immortalità dell’anima come miracolo prodotto dall’azione diretta e immediata di Dio, dall’altro lascia insoluta la questione del carattere contingente o necessario dell’intervento divino sul mondo e, non riuscendo a salvare in toto il libero arbitrio, non si rivela in grado di fondare l’autonomia dell’etica. D’altro canto, il confronto tra la via peripatetica e quella delle leges riporta in primo piano il problema del rapporto tra fede e ragione e della conseguente reazione contro la teologia razionale.40 L’opposizione alla teologia, però, non significa opposizione alla fede. L’una e l’altra sono tenute ben distinte nella riflessione pomponazziana. La ragione può prendere a bersaglio la teologia, ma è impotente di fronte alla fede. Se tra teologia e ragione vi è un rapporto di conflittualità; tra fede e ragione vi è un rapporto di subordinazione. La fede è soprarazionale e non può essere messa in crisi con i deboli strumenti della ratio naturalis. Si riconferma, cioè, la stessa impostazione che abbiamo già riscontrato nel De reactione: le materie di fede quae de diis affirmantur, sebbene non siano necessarie e non confermabili verisimilibus rationibus, conservano una loro indiscutibile validità. Gli articoli della fede, poiché «pro maiori parte probari non possunt», debbono perciò essere accettati sine dubitatione come provenienti a Deo et apostolis. Sottoporli al grimaldello critico della ragione significa sottoporli al dubbio. Il De fato, del quale diamo solo scheletrici cenni, prende le mosse da quello che è il punto d’arrivo del De incantationibus: l’azione immediata di Dio sul mondo e il suo carattere necessitante o contingente. Esso perciò nasce, come ha opportunamente rilevato il Pine,41 da una motivazione interna al pensiero pomponazziano e non sotto la spinta di fattori esterni, quali possono essere quelli connessi alla Riforma protestante.42 Nei primi due libri, scritti forse tra il ‘18 e il ‘19, si delinea un aristotelismo stoicizzato con una compattezza dottrinale che non ha confronti con le altre solutiones prese in esame nel secondo libro. I punti essenziali di tale proposta si possono così sintetizzare: Dio è causa che agisce ex necessitate naturae;

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l’ordine dell’universo è eterno e non ammette deroghe di sorta; la scienza di Dio è certa ed immutabile, perché ha a proprio oggetto non l’individuo (che è mutevole), ma le specie o essenze, non il particolare, ma l’universale. In tale contesto Pomponazzi recupera tutti i temi del suo pessimismo antropologico: il bene e il male, il potente e l’oppresso, la povertà e la ricchezza, la vita vegetale, quella animale e quella umana sono travolte da un divenire ciclico, in cui si capovolgono le sorti, i regni, i valori, le credenze religiose, i rapporti di potere. La varietas dell’universo è una ripetizione, un ritorno vicissitudinale, perché tutto rientra nell’ordine: lo richiede la perfezione e la bellezza dell’universo in una prospettiva tetra in cui tutto è sempre stato così e tutto sarà sempre così.43 Emerge in tale ottica pessimistica il tema del ludus deorum, del gioco degli dèi per il quale la vita umana e terrena perde ogni finalità. Si potrebbe pensare che esso sia il segno della insufficienza del teleologismo aristotelico, che ha il suo cardine in un Dio impassibile e impersonale, ma l’alternativa cristiana non appare migliore. Essa corre il rischio di ascrivere a Dio l’insania o l’insipientia o addirittura la crudelitas se lo si intende come causa libera che costruisce e demolisce successiva et perpetua vicissitudine, genera una creatura così ingegnosa come l’uomo per poi distruggerla, edifica, come un sapiente architetto, un meraviglioso palazzo per poi farlo crollare. Se l’universo è buono, in quanto uscito dalle mani di Dio, buona è anche la sua disparitas e buono è persino il ludus: «Quare si universum bonum est, omnia haec videntur esse bona». L’insania, di contro, dà alla condizione etica dell’uomo una connotazione di irrazionalità.44 Negli ultimi tre libri del De fato si sviluppa un nucleo teorico che in apparenza è teologico,45 ma in realtà è filosofico. Essi costituiscono il naturale approdo di una riflessione maturata attraverso il De immortalitate e il De incantationibus per il bisogno di dare risposte alle questioni rimaste irrisolte. Si tratta di problematiche che certamente hanno punti di tangenza con la teologia, ma interessano il Mantovano solo per la loro pregnanza filosofica. Il tema centrale della seconda parte del De fato è quello della fondazione della libertà del volere; le altre questioni che riguardano la causalità libera di Dio e la provvidenza, la predestinazione e la grazia, sono tutte calibrate sulla problematica della libertà umana che è il vero e proprio filo conduttore del testo perettiano. Non è un caso che nell’Apologia, imbattendosi nella questione del rapporto tra novità dell’effetto e novità della causa, Pomponazzi rinvii al De fato, ponendo però

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l’accento sulla volontà e sul libero arbitrio: «non è ora oggetto di discussione, ma mi riservo di parlarne in un apposito trattato che intendo scrivere sulla volontà e sul libero arbitrio».46 È significativo che nel 1518, quando forse il De incantationibus era già in cantiere, l’originario progetto pomponazziano verteva solo sulla libertà umana e non ancora su quello della provvidenza. Gli ulteriori sviluppi in tale direzione maturarono verosimilmente in seguito alle difficoltà incontrate nel De incantationibus, ove la via peripatetica si era rivelata manchevole e inefficace, proprio quando, nello stesso arco di tempo, a seguito della polemica antialessandrina il fatalismo stoicoaristotelico risultava del tutto inadeguato a fondare il libero arbitrio. Ne consegue che il ricorso alla tradizione evangelica non deve essere visto come un cedimento verso la teologia. Pomponazzi non procede al recupero del complesso apparato dogmatico-dottrinario della tradizione cristiana, ma è solo interessato ad una prospettiva filosofica47 in cui forse può essere giustificata la libertà umana, dopo il fallimento della precedente apertura di credito nei confronti dello stoicismo. Il passaggio decisivo che il filosofo mantovano opera nella seconda e più matura parte del De fato è quello per cui nella linea evolutiva del suo pensiero si determina uno slittamento dal Dio impersonale e impassibile dell’aristotelismo al Dio inteso come causalità libera e contingente. Ciò tuttavia non significa che per lui la tradizione cristiana rappresenti una teologia consolidata o una verità già compiuta e definita, ma è solo l’occasione per rimettere in discussione i principi dell’aristotelismo che non sembrano essere più consoni con la ratio naturalis. Non a caso nel terzo libro si concretizza il progetto squisitamente filosofico di una revisione delle strutture portanti dell’aristotelismo per adattarle alle istanze della dottrina cristiana della causalità contingente. Non si tratta cioè di sostituire una soluzione teologica ad un’altra, né di dar corpo ad un surrogato della teologia,48 ma di stabilire un nuovo rapporto, non di convergenza ma di compatibilità, tra la ratio e la fides. Pomponazzi è perfettamente conscio di esplorare un terreno minato. Le sue cautele sono moltiplicate rispetto agli altri testi a stampa; le dichiarazioni di modestia, la disponibilità ad essere corretto, la sottomissione alle determinazioni della Chiesa sono quasi ossessivamente ripetute ad ogni capitolo o comunque ogni volta che egli si accinge ad esporre più liberamente il suo pensiero.49 Il libro III si apre con una dichiarazione di fallimento del percorso esplorato nei primi due libri. Poiché l’indagine condotta sulla base della ratio naturalis ha approdato a sei soluzioni più o meno

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insufficienti e inadeguate, non resta altro da fare che rivolgersi alla sapienza divina e tentare la strada della tradizione evangelica. Tale drastico giudizio è, a mio avviso, esteso allo stesso aristotelismo stoicizzato. Se così non fosse non avrebbe senso tutto il travaglio teoretico degli ultimi tre libri. Fallito il progetto di irrigidire il pensiero dello Stagirita intorno al principio della causalità necessitante, Pomponazzi è costretto ad aprire una breccia nei suoi nuclei portanti. L’incompatibilità della filosofia peripatetica con la fede resta immutata: «Non condivido – egli scrive – il parere di chi ritiene che la dottrina della fede si accordi con Aristotele; mi sembra infatti che le due posizioni siano reciprocamente incompatibili». Ma proprio per questo al fine di stabilire un accordo con la fede cristiana occorre sradicare due cardini fondamentali dell’aristotelismo: quello della causalità necessaria (Deum de necessitate agere), che rende impossibile la provvidenza che agisce intelligendo et volendo, e quello della univocità del rapporto causale (quod causa eodem modo se habente non possunt provenire diversi effectus) che è in contraddizione con la libertà del volere (quod libertati voluntatis aperte repugnat).50 Sono questi i due principi che escludono la contingenza. Perciò la nuova soluzione va trovata postulando da un lato un Dio come causalità libera e dall’altro, limitatamente agli atti volontari, la possibilità che la volontà si determini per l’una o per l’altra delle due opposte direzioni. Detto in termini più sintetici: bisogna ammettere che tanto Dio quanto la volontà umana agiscono in modo contingente.51 Il sesto capitolo del quarto libro del De fato ripropone il confronto tra la soluzione stoico-aristotelica e quella compatibile con la fede cristiana. Esso si pone in posizione di specularità rispetto al settimo capitolo del secondo libro, ma i termini del confronto sono invertiti. La palinodia della solutio stoica porta ad una rivalutazione di quella cristiana. La fondazione metafisica della libertà del volere nella causalità libera di Dio esclude che alla divinità possano imputarsi la crudeltà e la responsabilità del male morale; gli si può addebitare tutt’al più un malum naturae, incardinato nelle gradazioni della latitudo entis, ma non un malum moris che è ascrivibile direttamente all’uomo. Men che mai gli si può imputare la stultitia, poiché egli ha scelto un ordine universale che consente di trarre il bene dal male. Ma soprattutto il Dio della fede non è un Dio che zoppica volontariamente. In lui non c’è alcuna imperfezione. Per quanto le sue decisioni siano per noi inaccessibili e si celino come in un abisso, egli è esente da qualsivoglia difetto o peccato. I peccati sono o di commissione o di omissione, ma Dio non ha commesso

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alcunché di male, né ha omesso alcunché nel suo atto creativo; anzi, ha creato un ordine universale compatibile con la libertà dell’uomo. Cade anche il determinismo insito nella causalità astrologica, la quale è sì necessitante e determinante rispetto agli eventi naturali, ma ha solo un effetto di inclinazione sugli atti volontari.52 Per la fede, dunque, l’ordine dell’universo non è più un gioco, ma è l’assetto che Dio ha liberamente e finalisticamente scelto in funzione dell’uomo. La finalità elimina il ludus. Nell’atto creativo la natura divina si comunica al mondo secondo gradi e modalità diversi. Entro la ricchezza e la varietà della natura l’uomo non è più un fumo, non un nulla privo di qualsivoglia valore; appartiene sì all’ordine delle cose generabili e corruttibili, ma include in sé una qualche perfezione. E se può apparire un nulla rispetto agli enti eterni, ha un grande valore rispetto agli altri enti generabili. Insomma il Dio della fede non zoppica né per natura, né per volontà. Anzi la bilancia pende a favore della soluzione cristiana perché la zoppìa per natura del Dio dello stoico implica in Lui una qualche imperfezione. Deriva da qui l’estrema enigmaticità del quinto libro. Un testo scritto da filosofo e con l’intento di denunciare i deliramenta53 della teologia. Tutto il De fato non è che una complessa costruzione improntata al rigore della ragione. L’impressione che se ne ricava è che l’autore voglia mettere il lettore di fronte ad una scelta o, meglio, alla responsabilità di una scelta. Egli esplora due vie alternative, ciascuna con le sue carenze e le sue manchevolezze, ma entrambe sostanzialmente equipollenti. Da una parte v’è la compattezza dottrinale stoico-aristotelica, che esclude un universo teleologicamente pensato in funzione dell’uomo, mette in serio rischio i principi della fede, ma non è in grado di fondare l’autonomia etica e la libertà umana; dall’altro v’è il percorso filosofico ispirato alla tradizione cristiana il quale può dare un fondamento alla libertà del volere umano a patto che si scrolli di dosso le vuote, irragionevoli e controproducenti complicazioni di un sapere teologico che fa più danni che bene alla fede. È la stessa alternativa cui il lettore è sottoposto nell’epilogo. Da una parte si ribadisce che sul piano razionale l’ipotesi stoica è la più coerente e magis remota a contradictione, dall’altra si afferma che quella cristiana è in qualche modo soddisfacente. La soluzione stoico-aristotelica ha una sua intrinseca forza: è meno aggrovigliata perché priva di una escatologia e di una teodicea. Posto che gli stoici ammettano la mortalità dell’anima, perde senso l’accusa di crudeltà mossa a Dio, perché l’oppressione dell’uomo sull’uomo è

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della stessa natura della violenza esercitata dal lupo sulla pecora. Se invece essi ammettono l’immortalità dell’anima possono fare ricorso alla dottrina pitagorica della metempsicosi, in cui le sorti buone e le cattive si ridistribuiscono nella periodicità vicissitudinale di tutte le cose fino a determinare una sorta di giustizia compensativa e una sorta di parificazione dei destini umani. Qui il ludus deorum finisce col caricarsi di una funzione di riequilibrio delle sorti umane forse più di quanto nella prospettiva cristiana faccia la giustizia divina. Nell’ottica dello stoicismo ciò che conta è la perfezione delle sostanze eterne e delle sfere celesti; rispetto ad esse il mondo sublunare non è paragonabile che a stercora. Per ciò stesso Dio non ha conoscenza dei particularia, ma solo delle specie. L’estremo rigore della tesi stoica esercita un fascino sul Pomponazzi: magis mihi placet – egli dice. Ma quel placet esprime solo un compiacimento intellettuale per la coerenza interna di una mirabile costruzione logico-filosofica; un compiacimento forse non dissimile da quello intellettuale che il matematico sente per l’eleganza delle sue dimostrazioni. Può esserci forse qualche lieve sfumatura tra il placet riferito alla soluzione stoica e il satisfacit riferito a quella cristiana, ma in realtà la conclusione del De fato è probabilmente aporetica; esso si chiude, come il De incantationibus, con un nulla di fatto. Il terreno minato della metafisica non dà le certezza della filosofia naturale. Le due viae esplorate, quella stoico-peripatetica e quella cristiana, sconfinano entrambe nel determinismo fatalistico. Né l’una né l’altra riescono a dare una razionale fondazione dell’etica e della libertà del volere. L’immortalità dell’anima, almeno nelle funzioni superiori di anima intellettiva, resta un punto interrogativo privo di una soddisfacente risposta. Pomponazzi non sembra schierarsi né per l’una né per l’altra soluzione e la sua indagine metafisica sembra chiudersi con un sostanziale fallimento. Il Peretto ritorna sul terreno più solido della filosofia naturale. E questa volta l’indagine sull’anima parte dal livello più basso della vita vegetativa in una prospettiva meramente biologica. Ciò spiega da un lato la ripresa della lettura del De generatione et corruptione nel corso accademico del 1520-1521 e dall’altro l’interesse per le problematiche zoologiche con il corso sul De partibus animalium, seguito da quello sul De sensu et sensato.

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8.2. Il De nutritione: il ritorno alla filosofia naturale e l’esplorazione delle funzioni vegetativo-biologiche dell’organismo vivente Si è detto che probabilmente il progetto di scrivere il De nutritione deve essere maturato durante il corso accademico del 1520-1521, quando sotto l’impulso delle ricerche sulla generazione, il filosofo mantovano sposta la sua attenzione dall’anima intellettiva a quella vegetativa e, nell’ottica di un approfondimento dei precedenti trattati della polemica anti-immortalistica, si propone di studiare a fondo il rapporto tra la materia e la forma negli esseri viventi, nel tentativo di comprendere entro quali limiti la forma permane nel fluire della materia ed entro quali limiti è possibile la sua perpetuabilità. Il trattato si divide in due libri: il primo, composto di 28 capitoli, è dedicato all’accrescimento e alla nutrizione degli esseri viventi, il secondo, di 13 capitoli, è di assai minore interesse ed è dedicato alle problematiche della rarefazione e della condensazione dei corpi inanimati. La gran parte del testo è concentrata sulla confutazione delle proposte ermeneutiche di autori antichi (Alessandro e Filopono) o moderni (Alberto, Tommaso, Benzi, Burley, Inghen, Paolo Veneto). A differenza degli altri trattati di filosofia naturale, la posizione perettiana emerge gradualmente attraverso le argomentazioni confutatorie, che puntano ad un duplice obiettivo: da un lato mirano ad escludere l’ipotesi della separabilità dell’anima, sia a livello inferiore della vita vegetativa che a quello superiore della vita intellettiva; dall’altro reagiscono contro ogni ipotesi riduzionistica o comunque materialistica, fondata sulla continuità tra il mondo dell’inanimato e la vita organica. L’aristotelismo continua ad essere la cartina di tornasole, utile per la validazione o falsificazione delle soluzioni prese in esame, ma è ormai un aristotelismo ingiallito dal tempo, per avere subito i contraccolpi del De incatationibus e del De fato. Esso è ormai ridotto, anche a causa della specificità della materia trattata, a pochi essenziali principi, come le tre condizioni del processo nutritivo-accrescitivo o i cardini fondamentali della dottrina della mistione. L’esplorazione della via metafisica ha minato ancor più la fiducia nelle capacità conoscitive della ragione umana. Le frequenti dichiarazioni sulle difficoltà e l’oscurità insite nelle questioni esaminate non sono di contorno, ma denunciano l’insinuarsi di un larvale scetticismo, frutto di una crisi intellettuale, poiché sembra che nel Pomponazzi si sia nel frattempo attenuata la fiducia nella possibilità di raggiungere certezze dimostrative e ultimative tanto nel dominio della metafisica quanto in quello della filosofia naturale. Ciò però non implica una rinuncia alla ricerca

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o alla conoscenza. L’attività speculativa resta la prerogativa propria dell’uomo e il discrimine che lo separa dalla vita animale. Più verosimilmente sulla certezza scientifica delle dimostrazioni aristoteliche sembra avere aggio il sapere pratico maturato con l’esperienza. Nel libro II, così si esprime il Pomponazzi: È una cosa non lieve, ma oscura e difficilissima, stabilire il modo con cui si generano la rarità e la densità… E per chi trae profitto dalla filosofia è vergognoso ignorare ciò, perché se non saremo in grado di giungere in tale materia ad una conoscenza esatta e puntuale, guadagneremo almeno la consapevolezza di quanto sia difficile sviscerare questa materia. D’altronde anche avere una conoscenza di una questione così difficile significa conoscere non poco. Chi, infatti, ha navigato molte volte, pur avendo patito un naufragio, avrà comunque una maggiore conoscenza dell’arte di navigare di chi non ha mai navigato. Perciò bisogna affidarsi alle proprie forze per non condurre la vita da pecore; solo l’attività speculativa, infatti, ci separa dalle bestie.54

In una digressione del capitolo III, il filosofo mantovano esprime tutta la sua delusione verso il sapere del metafisico. Il bersaglio immediato della digressione è quella sorta di ‘delirio teoretico’ rappresentato dalla dottrina averroistica della copulazione dell’intelletto attivo e dell’intelletto passivo e dalla pretesa di accedere in un istante ad un sapere totale. Se si considera quanto sia complessa e di difficile soluzione la questione della nutrizione e dell’accrescimento «che dipendono da noi», «com’è possibile che enti così remoti da noi, come le sostanze superiori, delle quali non percepiamo quasi nessun accidente, o enti così numerosi, quali sono quelli inferiori, possano essere dai noi conosciuti in un unico e semplice atto intuitivo?».55 Incapaci di prendere atto della nostra ignoranza, pecchiamo di superbia: Per il fatto che sentiamo di avere in noi qualcosa dell’intelletto, tosto ci reputiamo pari agli dèi. Ma come gli uccelli cadono nella rete ingannati dagli uccellatori che mostrano loro uccelli falsi, così noi credendo di essere dèi, rimaniamo imbrigliati in errori inestricabili e ne restiamo miseramente prigionieri.56

Ma si tratta di uno scetticismo che non riesce a prendere corpo: il De nutritione conferma, come il coevo De partibus animalium, la dignità e l’eccellenza della filosofia, come dono offerto dagli dèi agli uomini. Anzi, dopo una sferzata antiepicureistica («nessuno, che abbia un minimo di sapere, porrà la felicità nella vita voluttuosa, che coincide con quella delle pecore»),57 Pomponazzi colpisce anche la felicità connessa

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alle attività di governo, svelando così il suo marginale interesse per la politica e la preferenza da lui accordata alla sfera della vita etica: Questi sono gli uomini che il volgo proclama felicissimi! Questi sono temuti da tutti! Questi sono ammirati e venerati! Ma per Dio immortale! Omettiamo di parlare della loro grettezza e delle loro inquietudini che l’esperienza ci mette ogni giorno davanti agli occhi! Come può accadere che si riponga la tranquillità in ciò che non può essere in alcun modo sereno? Che ci sia beatitudine in ciò che non so se sia impossibile più che difficile separare dall’ignoranza, dall’ingiustizia e infine da ogni sorta di delitti? Per quanto il regno e il potere siano in sé positivi, tuttavia sono, a mio parere, così pericolosi che chiunque li conosce preferisce evitarli piuttosto che perseguirli. E in così grande pericolo non cadrà se non chi è costretto. Ciò fa sì che la nostra beatitudine sia posta senz’altro nella sola virtù. E sebbene la virtù a noi dovuta non sia quella degli dèi, tuttavia non dobbiamo affatto disprezzarla.58

È ormai entrato in crisi il modello epistemico dello Stagirita. Tutto il sapere, tanto quello del metafisico, quanto quello del filosofo naturale, non possiede più il crisma della scienza certa, ma è un sapere congetturale, che si traduce in un confronto tra posizioni teoretiche diverse, divergenti e forse teoreticamente equipollenti. Il polo negativo è dato da chi trancia giudizi senza cognizione di causa: Esprimere un giudizio fermo e determinato nell’ambito della filosofia naturale è da uomini temerari e ignoranti che non sanno dove sta la difficoltà della questione e somigliano a inesperti belligeranti che si sottopongono alla battaglia senza cognizione del pericolo. Di conseguenza la filosofia naturale, come penso, è più un insieme di congetture che una scienza certa. Né deve sorprendere se Socrate, abbandonato lo studio della natura, si dedicò totalmente alla morale. Anch’io approvo di più coloro che si dedicano alla religione e che vivono in modo pio e santo più di quelli che si dedicano alla scienza; costoro, infatti, mentre meditano di diventare sapienti, diventano insipienti.59

Ancor più emblematicamente nel commento al De partibus animalium la dialettica tra le opposte opinioni è confinata in un puro ‘giochare’60 e nel libro II la decidibilità tra posizioni divergenti diventa una mera questione di gusto, per risolversi nella provvisorietà delle dottirne da noi formulate o accettate: Poiché ciascuno non può giudicare del dolce e dell’amaro e dei sapori a questi intermedi, se non per ciò che risulta alla sua degusta-

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zione, a ciascuno è anche lecito dire ciò che risulta al proprio gusto, senza pregiudicare migliori degustazioni, così anch’io, con il decoro di sottostare a coloro che pensano meglio di me e che hanno il sensorio del gusto più puro, dirò quale di queste opinioni mi sembra più vera e mi atterrò alla regola di conservare questa soluzione tanto a lungo finché mi sembrerà migliore di un’altra e se mi sembrerà che da me o da qualcun altro sarà formulata un’opinione migliore, lascerò questa e mi affretterò a seguire la migliore. Infatti, Aristotele alla fine del VI Topicorum dice che questa è stata la consuetudine degli antichi legislatori.61

Il De nutritione si apre con un taglio prettamente esegetico poiché si propone di stabilire la differenza tra l’accrescimento proprio, che consiste nella crescita e nella decrescita degli esseri viventi, e quello improprio, che consiste nei processi di espansione e contrazione, ovvero di rarefazione e condensazione dei corpi inanimati. Aristotele nel I De generatione aveva individuato i tre seguenti requisiti o le tre seguenti condizioni dell’accrescimento proprio: 1) l’identità del soggetto accrescibile («il soggetto che cresce è numericamente lo stesso dal principio alla fine»); 2) l’estensione del processo di crescita alla totalità del soggetto («con la crescita il soggetto cresce in ogni sua parte»); 3) l’origine esterna della crescita («il processo di crescita si verifica per il sopraggiungere di qualcosa dall’esterno»).62 I tre requisiti, che costituiscono un costante punto di riferimento in tutto il trattato, consentono di distinguere l’accrescimento propriamente detto dall’accumulazione, che si produce per giustapposizione, come nel caso della crescita di un fiume o di un cumulo di pietre o di frumento. Nell’accumulazione manca, com’è facilmente intuibile, il requisito fondamentale che è dato dalla identità del soggetto accrescibile. D’altro canto l’accrescimento si distingue dalla rarefazione, nella quale manca il terzo requisito, perché non si produce per sopraggiunta di materia esterna. Dal primo requisito si evince che l’accrescimento è un moto, in quanto l’unità numerica del moto presuppone, come è confermato dal V Physicorum,63 l’unità numerica del soggetto. Date queste premesse Pomponazzi procede alla prima definizione dell’accrescimento, il quale, a differenza della rarefazione, che è un moto qualitativo (perché la rarità è una qualità), è «il moto quantitativo del medesimo accrescibile per cui ciò che è mobile rimane numericamente lo stesso dal principio dell’accrescimento fino alla fine e ciascuna sua parte viene accresciuta per il sopraggiungere di una materia dall’esterno».64 La seconda definizione, in forma più

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ellittica, consiste nel dire che l’accrescimento è «un moto verso una maggiore quantità».65 Da tali definizioni si evince che l’accrescimento è un moto distinto dall’improvviso cangiamento sia della sostanza sia dei predicati e perciò si distingue sia dalla generazione sia dall’alterazione qualitativa. Poiché il soggetto accrescibile è costituito di parti formali e di parti materiali, la permanenza della sua identità va intesa come permanenza della forma, mentre la materia fluisce e rifluisce. L’esempio classico di tale processo, suggerito nel I De generatione, è quello dell’acqua misurata dall’otre: la misura, ovvero l’otre (la forma), permane sempre identica al variare dell’acqua (la materia). Se il flusso riguardasse la forma, se cioè si trasformasse la forma stessa, si avrebbe una generazione e non un accrescimento. Tuttavia il fluire della materia suscita problematiche che investono la stessa forma, perché tanto la materia che recede quanto quella che sopraggiunge possiedono una propria forma. Ne consegue che l’indagine verte sui due opposti versanti della forma, al fine di stabilirne l’identità e la permanenza, e della materia, al fine di stabilirne le modalità di flusso e di riflusso. Nel capitolo IV Pomponazzi, sulla scorta del I De generatione,66 stabilisce uno stretto legame tra la nutrizione e l’accrescimento: la prima è il presupposto del secondo ed anzi in un certo senso l’una e l’altro in qualche modo coincidono. Ne consegue che la definizione dell’accrescimento presuppone un’indagine preliminare sulla nutrizione. Reagendo al riduzionismo biologico tardo-medioevale, che tende ad assimilare la nutrizione degli esseri viventi a quella del fuoco o più in generale del mondo inorganico, Pomponazzi nega, sulla scorta di Tommaso e del De longitudine et brevitate vitae di Aristotele,67 la nutrizione degli esseri inanimati. Il processo nutritivo è – egli dice – proprio del mondo organico e si fonda su un equilibrio instabile tra calore innato e umido radicale. Poiché il calore si consuma, per la permanenza della vita negli esseri viventi è necessario ripristinarlo e il suo nutrimento è l’umido. Il fuoco non si nutre realmente, perché il suo processo di accrescimento è assimilabile all’accumulatio e procede per giustapposizione di nuovo fuoco al fuoco precedente. Il processo nutritivo, invece, per sua natura implica l’interna assunzione dell’alimento esterno. In breve nella presunta nutrizione degli enti inorganici viene meno il primo requisito dell’accrescimento, perché, essendo la crescita del fuoco, una pura e semplice giustapposizione di materia a materia, il soggetto del processo non è il medesimo dal principio alla fine. I campioni del riduzionismo medievale sono individuati

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dal Pomponazzi nel suo conterraneo Petrus Mantuanus o Pietro degli Alboini, autore di un Tractatus intitolato De instanti, e in Marsilio di Inghen. Secondo Gianfranco Zanier68 Pomponazzi ha scambiato il De instanti dell’Alboini con il De primo et ultimo instanti… in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum di Apollinare Offredi, entrambi stampati nella medesima edizione scotiana del 1482 della Logica dell’Alboini. In realtà Pomponazzi attribuisce al trattato del suo conterraneo il titolo De primo et ultimo instanti sulla base della materia in esso trattata, che verte appunto sul nascere e perire delle forme e quindi sul loro primo ed ultimo istante. Ed è ovviamente la stessa materia trattata da Offredi nella sua confutazione del trattato alboiniano. Ciò che in ogni caso è indubbio è che Pomponazzi non cade in alcuna confusione tra i due autori, poiché tutte le sue citazioni e le tesi da lui citate sono tratte dal De instanti dell’Alboini, il quale era fermo sostenitore della identità e continuità del processo nutrizionale dal mondo inorganico a quello organico.69 Pur muovendosi nell’ottica del riduzionismo, del tutto diversa è la posizione di Marsilio di Inghen, il quale mira a salvaguardare la separabilità dell’anima.70 Egli suppone che l’identità del processo nutrizionale tra gli essere inanimati e quelli viventi sussiste solo nelle parti non porose, che sono proprie del vivente. E ciò per la semplice ragione che il fuoco è privo di pori. Marsilio, infatti, identifica le parti porose e quelle non porose del corpo organico rispettivamente con le parti formali e materiali, con l’avvertenza che nelle prime la nutrizione avviene per interna assunzione (intus susceptio) e nelle seconde per giustapposizione (iuxta positio).71 Pomponazzi respinge drasticamente entrambe le soluzioni: quella dell’Alboini è temeraria e da uomo poco esperto di filosofia naturale; quella dell’Inghen è ridicola.72 All’uno e all’altro egli replica che tra le due nutrizioni c’è una differenza sostanziale perché i corpi inanimati sono privi di una struttura biologica e fisico-organica; gli esseri viventi invece hanno una complessa articolazione di funzioni o di operazioni, come quella attrattiva, la conservativa, l’espulsiva, l’assimilatrice, ecc., le quali presuppongono una differenziazione delle parti corporee in dominanti e asservite (servientes).73 La nutrizione del fuoco è meramente materiale e riguarda solo la quantità del fuoco che non ha un termine stabilito, ma può procedere all’infinito attraverso la continua somministrazione del combustibile; quella dei viventi è invece un processo che interessa le parti differenziate delle strutture dell’organismo, quali sono la carne, le

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ossa, il nervo, la cartilagine, ecc. Per di più l’essere animato ha una propria determinata figura e una propria determinata operazione e non può né nutrirsi né crescere all’infinito. Scrive Pomponazzi: Diciamo che la facoltà nutritiva è peculiare e propria dei viventi in quanto sono dotati di anima vegetativa; la sua funzione è di ristabilire la sostanza che è andata perduta, fino a quando lo stesso vivente perdura nella propria natura e per quanto si addice alla sua stessa natura e non per farlo perdurare in eterno, giacché nessuno degli enti corruttibili può essere eterno.74

In breve il vivente ha un proprio ciclo vitale: nasce, cresce, giunge all’età matura e poi subisce il declino della vecchiaia. Il principio del suo essere dipende da un altro essere: nessuno genera sé stesso, ma ciascun vivente riceve l’essere da un suo simile. Rispetto alla crescita, alla maturità e al declino invece l’essere vivente è autonomo e dipende opportunamente da sé a differenza degli esseri inanimati che non hanno autonomia neppure nel moto. Proprio per ciò la nutrizione è essenziale nel vivente, che ha bisogno del sopraggiungere di nuova materia per sopperire a quella perduta. La vita è la permanenza del calore, del quale partecipiamo fin dalla nascita; durante la giovinezza si accresce l’organo primario del raffreddamento, nella maturità si stabilisce un equilibrio tra il calore e l’umidità naturale e nella vecchiaia si ha il definitivo disfacimento del calore. Ne consegue che la nutrizione e l’accrescimento nell’ottica del vitalismo aristotelico si identificano in assoluto e si differenziano solo concettualmente e per essenza. Ciò significa che la facoltà nutritiva è alla base delle altre operazioni vitali, come la generativa (perché la procreazione e la nascita dipendono dall’ultimo nutrimento, ovvero dal seme), la sensitiva (perché gli spiriti animali provengono dalle parti nutritive) e persino la razionale (perché l’intelletto dipende dal senso). Data la sostanziale identità di nutrizione e accrescimento i tre requisiti del secondo valgono anche per la prima. Perciò nel processo di nutrizione accade: 1) che il soggetto nutribile permane lo stesso dal principio alla fine; 2) che si nutre ogni sua parte; 3) che il nutrimento viene dall’esterno. Nel capitolo V la confutazione delle tesi di Marsilio di Inghen serve ad escludere ogni tentativo di ammettere una migrazione della forma di materia in materia fino a sconfinare in una identità del soggetto per equivalenza o per analogia. L’inadeguatezza della tesi marsiliana sta nel far cadere la prima condizione dell’accrescimento. Il fisico parigino, infatti, prevede due distinti processi nutritivoaccrescitivi sulla base della netta differenziazione degli esseri viventi

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dotati di un’anima extensa et mortalis dall’uomo dotato di un’anima indivisibilis et immortalis.75 Nel primo caso, che riguarda le anime estese e mortali, nel processo nutritivo varia tanto la forma quanto la materia con la conseguenza che varia anche il composto e che l’identità numerica del soggetto si definisce in termini di aequivalentia, come può essere quella di un fiume o di un popolo in cui tanto le parti formali quanto quelle materiali sono soggette a una continua variazione. Nel secondo caso, che concerne l’anima umana, l’identità del soggetto è reale, ma è data dalla permanenza della parte dominante, perché l’anima umana, in quanto indivisibile e immortale, è sempre identica a sé stessa, proviene da fuori e può migrare di materia in materia, così come può separarsi del tutto dalla materia. Nella posizione marsiliana non sussiste neppure la seconda condizione dell’accrescimento perché Marsilio distingue, come si è già detto, le parti del soggetto in parti formali e parti materiali per le quali prevede processi nutritivi differenziati. Pomponazzi è fortemente critico nei confronti del fisico parigino perché scorge nella sua proposta un tentativo camuffato per far passare l’immortalità dell’anima in contrasto con Aristotele. Se si ammette l’identità del soggetto per equivalenza, nulla vieta – osserva il Peretto – che come gli Stati possono corrompersi per una causa intrinseca, anche il vivente possa corrompersi per una causa intrinseca e per converso nulla vieta che il vivente possa anche perpetuarsi per una causa intrinseca. Inoltre gli Stati sono soggetti a vicissitudini continue; dopo il declino possono tornare all’antico splendore. Ciò non è possibile per gli esseri viventi, i quali non possono ritornare alle età precedenti, né dopo la vecchiaia possono riavere la verde età della giovinezza. Insomma Marsilio non è in grado di individuare la causa per cui il vivente non può perpetuarsi con una nutrizione continua e se crede di poter evincere dal testo aristotelico che la nutrizione del vivente sia assimilabile a quella del fuoco, si deve dedurre o che Aristotele si è contraddetto o che deve essere interpretato in modo più conveniente. Ed in effetti il senso che si deve dare al testo del I De generatione è che il fuoco non è soggetto né a vera nutrizione né a vero accrescimento. Di contro nella vera nutrizione, che è propria dei viventi, si determina una unità del pre-esistente e del sopraggiungente e ciò presuppone che in essa ci sia veramente una sola anima. Pertanto – obietta Pomponazzi – parlare di identità per equivalenza nel vivente significa fare affermazioni deliranti e degne di risate.76 E per dimostrare che la tesi di Marsilio è in contrasto con l’esperienza egli ricorda, in una pagina brillante e letterariamente felice, l’episodio del

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suo cagnolino che, abbandonato cucciolo, lo riconobbe a Mantova dopo un’assenza di quattro anni.77 La soluzione marsiliana, in ogni caso, è in conflitto con l’aristotelismo perché pone un arbitrario discrimine all’interno del regno animale: riconosce all’uomo una identità reale e agli altri animali una identità per equivalenza. E la frattura si estende alle rispettive anime, poiché agli esseri viventi mortali è attribuita un’anima materiale, estesa e divisibile e all’uomo una indivisibile e immortale. Insomma – rileva Pomponazzi – il ragionamento del fisico parigino è contraddittorio, perché se l’anima vegetativa e quella sensitiva sono divisibili a differenza dell’anima razionale che è indivisibile si finisce col negare, contro il parere di Aristotele, l’indivisibilità dell’anima di tutti i viventi, la quale è, come si evince dal De iuventute et senectute, una in atto e molteplice in potenza.78 Ne consegue che secondo Marsilio risulterebbero differenziate la stessa nutrizione e la stessa crescita dell’uomo, per cui l’uomo sarebbe identico per equivalenza nelle sue funzioni vegetative e sensitive e identico in assoluto nelle sue funzioni razionali e intellettive. Ma questo significa postulare una frattura all’interno dell’unità della stessa anima umana. Ed è proprio in questo senso più profondo che Marsilio fa venir meno la prima condizione del processo di nutrizione-accrescimento. Non meno incongruente è il fisico parigino a proposito della seconda condizione dell’accrescimento. Distinguendo nettamente le parti formali da quelle materiali ed ammettendo che le une si nutrono per intus susceptionem e le altre per iuxta positionem, egli finisce col postulare due distinti processi nutritivo-accrescitivi all’interno del medesimo organismo, con l’aggravante che per il primo la forma permarrebbe nel variare della materia, nel secondo la forma varierebbe col variare della materia. Di fatto Marsilio attribuisce all’anima una funzione assistenziale come quella del nocchiero nella nave oppure postula uno stato di separazione dell’anima rispetto all’organismo vivente, come quello di una nave attraccata al palo in un fiume. Ciò che egli sacrifica ineluttabilmente è il principio aristotelico della permanenza della forma.79 Dopo Marsilio, Pomponazzi passa in rassegna la tesi di Averroè e di Alessandro o meglio di Alessandro in versione arabizzata attraverso l’interpretazione averroistica. Sfortunatamente non siamo in grado di verificare la correttezza di tale lettura perché non ci è pervenuto il commento alessandrino al De generatione. Ad ogni modo il filosofo arabo parte dal presupposto che la forma non può abbandonare né in tutto né in parte la materia. Ne deriva che nei processi di nutrizione-accrescimento la materia recedente e quella sopraggiungente possiedono una propria forma, per cui dalle forme di entram-

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be le materie si produce un’unica nuova anima agente, che compie un’unica operazione ed è mossa da un’unica intenzione, come in un esercito o in uno Stato tutti agiscono per un unico fine.80 In realtà Averroè e Alessandro suppongono che l’essere vivente sia dotato fin dalla nascita di una materia contratta che permane in tutto l’essere e in ciascuna sua parte fino alla fine. Tale materia è concepita come una radix et fundamentum vitae,81 nel senso che in essa sussiste l’anima dalla nascita fino alla morte. L’anima d’altro canto genera per sé altra materia (ed è questa la ragione del processo di nutrizione e accrescimento), differenziata per ciascuno degli organi del corpo. La differenza tra la prima radice e le parti successive sta nel fatto che la radix è la parte dominante e le parti successive sono asservite, dipendono dalla prima e si dispongono secondo le sue disposizioni. Ma la stessa radice non è esente dal processo di decomposizione, poiché è simile ad una lampada che diventa secca fino al punto di non potere più mantenere la fiamma. Perciò quando la prima umidità contratta viene meno, viene meno la vita. Questa soluzione, a parere di Pomponazzi, è una pura imaginatio,82 ma non si imbatte nelle difficoltà della proposta marsiliana, perché salva l’identità numerica del soggetto sia sul versante della forma che su quello della materia contratta. Per un altro verso essa è affine alla tesi marsiliana perché finisce con l’ammettere una identità formale e una variazione materiale come quella di uno Stato o di un fiume; ma a differenza di Marsilio pone come necessaria la permanenza della umidità radicale. L’accrescimento si produce per Averroè o per conversione o per accumulazione o per compenetrazione. La conversione consiste nella trasformazione del nutrimento nella sostanza del soggetto che se ne alimenta e si produce a causa della forma, perché ciò che si converte è la forma e non la materia; di contro la compenetrazione o l’accumulazione riguardano la materia e non la forma. Contro l’ipotesi alessandristica Pomponazzi obietta che la radice contratta fin dalla nascita è troppo minuscola tanto che negli aborti che si verificano dopo pochi giorni dal concepimento il feto è quasi impercettibile. Come può dunque essere possibile che una quantità così modica si mescoli a tutti gli organi che crescono fino ad una grande quantità? Lo stesso accade per gli alberi e per le piante, che hanno radici appena percettibili all’inizio, ma raggiungono dimensioni considerevoli e sono per giunta perpetuabili all’infinito per effetto di espiantazioni e di innesti. Respinta è altresì la tesi averroistica poiché non è in linea con il pensiero di Aristotele né per la prima condizione dell’accrescimento (poiché l’accrescimento avviene per giustapposizione, non

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è chiaro quale sia il soggetto permanente), né per la seconda (cresce solo la parte pre-esistente e non quella aggiunta).83 Jean de Jandun e Walter Burley definiscono l’accrescimento come «un moto o una conversione del nutrimento o un’espansione del nutrimento convertito».84 La loro soluzione non è meno sostenibile di quella alessandrino-averroistica, perché l’accrescimento non può essere inteso né come conversione del nutrimento nella sostanza del soggetto che se ne alimenta né come espansione conseguente alla materia convertita dal calore e dall’anima dell’essere vivente. Essi sostengono che l’accrescimento nel suo primo significato (conversione del nutrimento) non è un moto, sia perché il soggetto del moto è un ente in atto, sia perché ogni moto è continuo e la conversione non può essere continua. Se invece si assume l’accrescimento nel secondo significato (espansione del nutrimento convertito), esso è un moto di espansione. Tale soluzione è tuttavia insostenibile sotto entrambi i profili. L’accrescimento, infatti, non può essere spiegato in termini di conversione perché nella conversione non è implicito il concetto di quantità, tant’è che essa può essere pensata anche senza pensare la quantità. D’altro canto l’accrescimento non è neppure definibile in termini di moto di espansione, perché l’espansione non è un’acquisizione quantitativa, ma qualitativa. La rarefazione è, infatti, secondo il dettato averroistico, una qualità e non una quantità,85 ed essendo propria degli esseri inanimati, non può essere attribuita agli esseri viventi. Le tesi di Giovanni Filopono, di Alberto Magno, di Tommaso e di Paolo Veneto,86 sono così sintetizzate dal Pomponazzi: nell’accrescimento c’è una forma che permane numericamente la stessa dal principio alla fine; dalla potenza del nutrimento sopravveniente non è tratta una nuova anima; la forma della materia recedente non si corrompe, ma si conserva nella materia residua; infine la forma permanente nel processo accrescitivo unifica la materia pre-esistente e quella sopravveniente. Tale tesi induce ad una riflessione sulla indivisibilità dell’anima. L’indivisibile, infatti, può essere inteso in tre accezioni. Per la prima, indivisibile è ciò che è in atto indiviso, ma divisibile in potenza (tale è per esempio la linea); in una seconda accezione l’indivisibile è ciò che non può essere diviso né in atto, né in potenza (tale è il punto); per la terza accezione l’indivisibile si accorda con l’indivisibilità del punto, ma se ne differenzia perché astrae in tutto dalla quantità e dal luogo. Tale è l’indivisibilità di Dio e delle Intelligenze e, secondo gli autori citati, di ogni anima, da quella vegetativa alla sensitiva e alla razionale. Si ripropone in proposito la gerarchia ormai nota che va dalle Intelligenze, che non

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dipendono affatto dal corpo (al contrario il corpo dipende da esse) e non informano una materia corruttibile e generabile, all’anima irrazionale che invece dipende da una materia generabile e corruttibile. Tra i due estremi si collocano le anime intermedie, tra cui l’anima umana, la quale è dagli stessi autori concepita come assimilabile alle Intelligenze, in quanto può sussistere senza la materia, ma è distinta da esse, perché possiede o in atto o per attitudine una dipendenza essenziale dalla materia e nello stato di separazione possiede una tendenza verso la stessa. Questa soluzione, pur essendo in sintonia con la verità della fede, non è conforme al pensiero di Aristotele, perché non è possibile che l’anima umana sia separabile dalla materia.87 Il vincolo con la materia è implicito nella funzione vegetativa ed ogni anima – dice Pomponazzi – o è vegetativa o possiede una facoltà vegetativa. L’anima vegetativa, inoltre, è nutritiva e accrescitiva e, in quanto tale, non può sussistere senza il sopraggiungere di nuova materia. Ciò significa che l’anima è inseparabile dalla materia e che il soggetto del processo nutritivo-accrescitivo è lo stesso composto di anima e corpo.88 Con il capitolo XI il discorso si sposta sul tema della divisibilità degli esseri viventi. In pratica si passa all’esame delle tesi porfiriane e plotiniane per le quali, essendo le anime indivisibili, gli animali divisi non vivono. La medesima opinione è condivisa da Alberto Magno e da Tommaso. Ma Ficino89 nella Theologia platonica sostiene che gli animali vivono divisi, senza che l’anima pre-esistente subisca una divisione. L’anima, infatti, si divide come si divide la linea nel punto medio: il punto medio – sostiene Ficino – non si divide, ma genera da sé altri due punti. Allo stesso modo l’anima non si divide, ma genera da sé due altre anime indivisibili; queste, infatti, si generano dal medio in cui ha sede il calore del sole e delle stelle, che è in grado di creare tali sostanze. Più in generale l’ipotesi ficianiana si caratterizza per una sorta di tetrelementarismo animistico, perché gli stessi elementi risultano animati. Ciò che Ficino deve spiegare – dice Pomponazzi – è come si introduce una nuova anima nelle parti divise degli insetti o delle piante. Le ipotesi possibili sono due: o il medio di cui egli parla ha una potenza generativa in ragione dell’anima preesistente oppure la possiede in ragione di una disposizione; in entrambi i casi il medio o trova già pronta la materia per le due nuove anime o ne produce esso stesso le disposizioni. La seconda ipotesi è impossibile perché le disposizioni si producono nel tempo. La prima ipotesi non regge perché Ficino non è in grado di spiegare perché il medio può generare gli animali imperfetti e non quelli perfetti.

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Alberto e Tommaso ritengono che per Aristotele sia divisibile l’anima degli insetti e delle piante, la quale è una in atto e molteplice in potenza, e siano invece indivisibili le anime degli animali perfetti, le quali costituiscono una unità in misura massima, perché ciò che è indivisibile è massimamente uno. In tale postulazione essi tendono a far coincidere la tesi aristotelica con quella della fede. Diversa è la posizione di Averroè90 che nel De substantia orbis sostiene che tutte le anime perfezionanti la materia sono divisibili. Dello stesso avviso è Temistio. Ma la loro interpretazione non è coerente con il dettato del II De anima ove Aristotele afferma chiaramente che l’anima vegetativa è una in atto e molteplice in potenza. Ciò dà modo a Pomponazzi di elaborare una più coerente dottrina vitalistica e unitista dell’anima, che talvolta è stata interpretata forse troppo sbrigativamente in chiave materialistica.91 In realtà a mettere in guardia da una interpretazione materialistica della psicologia perettiana può essere sufficiente ricordare che in essa le funzioni psichiche superiori non sono localizzate (secondo la formula della dipendenza dal corpo non ut subiecto, ma ut obiecto). Dire che l’anima vegetativa è una in atto e molteplice in potenza significa dunque dire che la nutritiva è nella sensitiva e che entrambe sono nella intellettiva, come il triangolo è nel quadrato. Di conseguenza se la nutritiva è estesa e materiale, tali sono anche le altre anime. Supporre che il dettato del II De anima abbia una portata particolare e si riferisca solo alle anime delle piante, significa compiere un’operazione arbitraria, perché quando Aristotele enuncia una proposizione particolare ricorre a quelli che nella logica contemporanea si chiamerebbero i quantificatori logici esistenziali, mentre quando enuncia una proposizione di portata universale utilizza i quantificatori universali. Perciò il II De anima si riferisce all’anima vegetativa in generale e l’affermazione vale tanto per l’anima vegetativa delle piante quanto per quella degli animali e dell’uomo.92 C’è tuttavia una differenza tra il sensitivo e il nutritivo. Nelle piante il nutritivo, quando è diviso, vive nelle parti; negli animali invece il sensitivo non vive nelle parti divise, perché queste non possono durare a lungo. Ciò è dovuto anche al fatto che la struttura organica degli animali è più complessa, perché si articola in organi per la conservazione, per il cibo e per le altre funzioni biologiche. «Gli animali – scrive Aristotele – somigliano a molti animali uniti insieme».93 Ne consegue che quando gli animali sono divisi, l’anima si corrompe. Quando dunque Aristotele afferma che gli animali che hanno un’ottima costituzione non tollerano la divisione perché la

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loro natura è «una in massima misura», non va inteso nel senso che l’anima è per natura massimamente una sola e indivisibile, ma nel senso che gli animali perfetti hanno «una natura unita e connessa, in quanto le parti hanno una grande dipendenza reciproca».94 Se si può credere che il toro e l’ariete, di cui ci danno notizia Galeno e Averroè, dopo la divisione fecero qualche passo prima di stramazzare a terra, è invece di scarsa affidabilità la storia dell’apostolo Paolo che, dopo la decollazione avrebbe invocato ad alta voce il nome del Cristo. L’episodio è respinto sulla base della indivisibilità dell’anima.95 Se Aristotele ha proposto la tesi della indivisibilità di tutte le anime, il Plusquam Commentator, alias Torregiani, e, più specificatamente Paolo Veneto,96 hanno tentato la soluzione opposta della divisibilità dell’anima, che è una dalla nascita alla morte di ogni essere vivente, fatta eccezione per l’anima intellettiva che è invece da essi considerata indivisibile. Paolo Veneto, sulla scorta del Burley, sostiene che l’anima, pur essendo estesa, migra da una materia all’altra sia in tutto sia in parte, ma non nello stesso tempo, in modo che la forma che informa la materia recedente informa anche la nuova materia sopravveniente, perché la materia del nutrimento si libera della propria forma per assumere quella pre-esistente. In questa prospettiva la crescita e la diminuzione sono fatte dipendere dalla quantità della materia; se questa è della stessa quantità precedente l’organismo si conserva stabile; se invece la quantità di materia aumenta o diminuisce, si ha l’accrescimento o la decrescita. Si spiega così che la forma è sempre la stessa al variare della materia. Essa però si espande nell’accrescimento in una maggiore quantità e si contrae nella decrescita in una minore quantità. L’equivoco di questa posizione, come si è già visto, sta nella confusione tra l’accrescimento, che è un moto verso la quantità, e l’espansione che invece è un moto verso la qualità. Nell’espansione e nella contrazione, infatti, non c’è un incremento o un decremento di materia, ma v’è solo il passaggio della stessa quantità di materia in maggiori o in minori dimensioni. Insomma nel processo nutritivo-accrescitivo non si verifica nessuna rarefazione o condensazione della materia e la forma che informa la nuova materia sopraggiungente non è soggetta ad alcuna espansione.97 Nel capitolo XVI Pomponazzi passa all’esame della tesi di Ugo Benzi da Siena.98 Questi parte dal medesimo presupposto della migrazione dell’anima da una materia all’altra, ma a differenza di Paolo Veneto, per il quale la materia pre-esistente si mantiene distinta da quella sopraggiungente, suppone che le due materie si compenetrino e che nella materia pre-esistente si incorpori la nuova. La posizione di Benzi non è dissimile da quella di Alberto, per il quale si conserva

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la quantità della materia del nutribile mentre si corrompe la quantità della materia dell’alimento sopraggiungente. Benzi ritiene che la materia del nutrimento penetri nella forma del nutribile, conservandone la quantità. Per Pomponazzi, l’ipotesi della compenetrazione è ancor meno convincente di quella di Paolo Veneto, perché non è sostanzialmente in grado di giustificare l’accrescimento. Ed invero non si capisce come due materie distinte, compenetrandosi, possano trovarsi esattamente sotto la stessa quantità del nutribile. È evidente che se la quantità del nutribile si conserva nella stessa misura, non c’è accrescimento. D’altra parte la proposta di Benzi è in conflitto con Aristotele il quale esplicitamente afferma che nel processo nutritivo-accrescitivo si produce non solo una determinata quantità, ma anche una determinata sostanza. Pertanto a differenza di quanto sostiene il filosofo senese, la commistione delle due materie si determina per mezzo della corruzione di entrambe le quantità, sia di quella del nutribile che di quella del nutrimento. Ma il nutribile è più potente del nutrimento; esso corrompe non solo la qualità e la quantità del nutrimento, ma ne corrompe anche la forma sostanziale, sicché la forma del nutribile assume per proprio substrato l’una e l’altra materia.99 Non meno complessa è la questione relativa all’incorporamento, perché non è facile stabilire a quale tipologia di mutamento esso appartenga. Infatti l’incorporamento non rientra né nella generazione o corruzione, che sono relative alla sostanza, né nell’alterazione, che riguarda la qualità, né nell’accrescimento, che è un incremento di quantità, né nel moto locale, che si riferisce unicamente al dove. Riemergono di conseguenza le stesse difficoltà di prima, perché bisogna stabilire se le due materie, quella recedente e quella aggiunta, conservano le rispettive quantità o se se ne liberano o se si liberano di una sola di esse. Se le quantità si conservano o se si dividono in parti minime, non si capisce come due quantità della stessa natura possono sussistere nel medesimo luogo. Se ciò fosse possibile, è scritto nel IV Physicorum,100 tutto l’universo potrebbe stare in un minuscolo granello di senape e la quantità non produrrebbe una distanza. Se poi supponiamo che entrambe le materie si liberano della quantità è ancor più difficile capire che cosa sia l’incorporamento, che evidentemente non può prescindere dalla quantità. Infine, c’è il problema di stabilire quale sia la causa efficiente dell’incorporamento. Per risolvere tutte queste questioni Pomponazzi parte dal presupposto che il processo di incorporamento sia analogo a ciò che si verifica nella nutrizione e nella mistione. In fondo la nutrizione è essa stessa una sorta di mistione non dissimile dalla mescolanza del

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vino e dell’acqua. Nella mistione si realizza una compenetrazione dei quattro elementi che si dividono in parti minime e si mescolano in modo tale che il senso non riesce a distinguere la natura dell’uno da quella dell’altro. Le forme sostanziali degli elementi si corrompono e si produce una forma intermedia dei quattro elementi, in cui comunque c’è la dominanza di uno di essi sugli altri. Lo stesso accade nella nutrizione. Le materie del nutribile e del nutrimento si mescolano, ma nella mescolanza il nutribile esercita un ruolo dominante. Perciò nella nutrizione la forma sostanziale non è una forma intermedia tra il nutribile e il nutrimento, perché di fatto il nutribile predomina sul nutrimento. In quest’ottica si comprende altresì che causa efficiente dell’incorporamento sono da una parte il calore naturale, che divide il cibo, e dall’altra la forza attrattiva, che attrae la materia del nutrimento nei pori impercettibili dell’organismo vivente. Di contro la forma sostanziale è generata dagli elementi i quali a loro volta sono prodotti da Dio o dalla colcodea o dal datore delle forme.101 Il capitolo XVII contiene la definizione di nutrizione. Pomponazzi introduce dapprima il concetto di definizione desunto dal IV Physicorum e dal I De anima: la definizione corretta è quella che esplicita tutto ciò che inerisce al definito.102 Ciò posto, la definizione di nutrizione è la seguente: La nutrizione è l’acquisizione di una parte di materia a compensazione di quella andata perduta e tale acquisizione è prodotta dal vivente per mezzo dell’anima e del calore naturale affinché la vita dello stesso vivente perduri per tutto il tempo che gli è stato dato dalla natura.103

La completezza di tale definizione è dimostrata dal fatto che i definienti esauriscono interamente il concetto del definito. Infatti, il termine ‘acquisizione’ indica il genere di mutamento a cui la nutrizione appartiene; gli altri termini ne indicano le differenze prossime. Così le parole ‘di una parte di materia’ ci dicono che la nutrizione si differenzia dalla generazione e dalla corruzione, perché non concerne la sostanza nella sua totalità, ma ne interessa solo una parte. Le parole ‘a compensazione di ciò che è andato perduto’ si riferiscono all’occasione della nutrizione; le parole ‘affinché la vita dello stesso vivente perduri’ segnalano il fine della nutrizione, che è evidentemente la prosecuzione della vita. La causa efficiente è espressa dalla parola ‘vivente’ e dalle parole ‘per mezzo dell’anima e del calore naturale’; infatti il vivente nella sua totalità è la causa

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efficiente che opera per mezzo degli agenti come l’anima, che è l’elemento egemone che sta rispetto al corpo come il nocchiero nella nave, e il calore naturale che è invece l’elemento strumentale e che sta al corpo come il timone rispetto alla nave. La completezza della definizione data può essere verificata anche sulla base delle quattro cause aristoteliche, proprio perché essa esprime tutte le cause della nutrizione. Infatti, la causa formale è data dall’acquisizione come genere; la causa materiale è espressa dalla ‘parte di materia’ e dalla compensazione; la causa finale è data dalla prosecuzione dell’esistenza e la causa efficiente è espressa dagli agenti prossimi e remoti. Infine le parole ‘il tempo dato dalla natura’ esprimono il fatto che nessun composto di materia e di forma può durare in eterno.104 Il capitolo XXI affronta i dubbi insiti nel concetto di incorporamento, che, si è detto, implica la divisione in parti minime. Se si tiene conto della seconda e della terza condizione dell’accrescimento, si genera la seguente aporia: se ad ogni parte minima si aggiunge dall’esterno una parte minima, ne consegue che ogni accrescimento parziale è necessariamente doppio. L’opposto accade nel caso della decrescita, per cui se ogni parte minima si riduce del minimo, l’accrescibile stesso si ridurrà al non quanto. A tale dubbio Alberto risponde che è sì vero che la parte minima che si aggiunge è tanta quanta quella pre-esistente, ma da ciò non segue il raddoppiamento dell’accrescibile, perché la materia del nutrimento penetra esattamente nella materia del nutrito. Tuttavia la soluzione di Alberto è inadeguata perché se il nutribile conserva la medesima quantità precedente, evidentemente viene meno l’accrescimento.105 Burley tenta di risolvere la questione ricorrendo al concetto di espansione che, come si è già visto, è estraneo a quello di accrescimento. Inghen invece ritiene che l’aggiunta di materia nuova si verifica solo nelle parti formali e porose che sono più piccole delle parti solide. Perciò l’accrescimento parziale non potrà mai essere doppio. La soluzione pomponazziana è che ogni accrescimento parziale è impercettibile, come è dimostrato dal fatto che nessuno è in grado di valutare o di stimare percettivamente la crescita di un fanciullo in un giorno. Un secondo dubbio verte sulla perpetuabilità della specie per via di espianti o di innesti. L’ipotesi riguarda la perpetuazione della specie degli alberi: poiché l’anima vegetativa è presente nell’albero fin dalla nascita ed è presente anche nei rami, se un ramo viene espiantato e trapiantato nascerà un altro albero e dal ramo del secondo ne nascerà un terzo ancora per espianto e trapianto. Di conseguenza l’anima dell’albero, che è numericamente una, si perpetuerà all’infinito

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in una sua parte. Per sciogliere il dubbio è necessario ripartire dal concetto di generazione. Esistono molti modi di perpetuazione delle forme riproducibili. Talune forme nascono dalla materia putrida, come molte piante e taluni animali che si perpetuano per mezzo di un generante della stessa specie. Altre forme si generano dal simile quale può essere il genitore, ma si riproducono a partire da uno strumento che è detto ‘seme’. Un’ulteriore modalità di riproduzione è quella delle forme che si riproducono immediatamente dallo stesso generante: tale è il caso dell’espianto e dell’innesto ed è tipico delle piante. La modalità più perfetta è quella propria degli esseri viventi, quella più imperfetta è la riproduzione degli esseri inanimati; quella intermedia è la riproduzione per espianto. A queste tre modalità di riproduzione corrispondono tre modi d’essere. Infatti ci sono taluni viventi, come le piante, che sezionati, vivono a lungo (ciò dipende dal fatto che essi hanno bisogno di pochissimi organi e posseggono un’anima che non è niente affatto unita; le piante in fondo somigliano in qualche modo agli esseri inanimati); ci sono poi gli esseri viventi che, sezionati, vivono per un tempo abbastanza percettibile, ma comunque non a lungo (tali sono gli insetti, le anguille, i serpenti); infine, altri esseri viventi, pur dotati di anime divisibili, se sono sezionati non vivono (tale è il genere perfettissimo dei viventi).106 Sebbene la pianta possa perpetuarsi per via del trapianto, non si perpetua come singolo individuo, ma come specie, perché nessuna pianta individua può perdurare all’infinito nelle sue radici. È però possibile che attraverso il trapianto essa perduri come specie. Pertanto si deve ammettere che una forma può perpetuarsi all’infinito in tutto o in parte a condizione che passi attraverso infinite materie distinte. Se tale processo prosegue all’infinito, all’infinito perdura anche l’anima. Viceversa se l’anima non può perpetuarsi, la causa è data dalla difettosità della materia o dalla persistenza di uno strumento continuamente debilitato. L’anima che si trova in questa materia determinata può trasmigrare in un’altra e può evidentemente perpetuarsi quando è separata. Contro tale ipotesi che potrebbe dirsi alessandristica, sorgono alcuni dubbi. Il primo è che nelle piante si conserverebbe la genealogia e la paternità più che negli altri esseri viventi. Il secondo è che uno solo sarebbe stato l’albero da cui sarebbero derivati tutti gli altri della medesima specie e che lo stesso sarebbe accaduto per l’uomo per cui Adamo sarebbe stato il padre di tutti gli uomini. Il terzo dubbio è che il ramo, che è un effetto dell’albero, sembra essere più duraturo di esso e tale possibilità di perpetuazione potrebbe estendersi a tutti gli animali e

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agli uomini. Al primo dubbio Pomponazzi risponde osservando che la genealogia e la paternità implicano la cura della prole da parte dei genitori e questa può sussistere in taluni animali e negli uomini, ma non nelle piante. Contro il secondo dubbio fa presente che non abbiamo la possibilità di sperimentare la durata della vitalità del seme. Contro il terzo dubbio obietta che il ramo riceve dalle radici il nutrimento, ma non l’essere; perciò, producendo nuove radici, può vivere separato dal tutto, come un figlio emancipato.107 Il capitolo XXIII ritorna sul tema della divisibilità o indivisibilità dell’anima razionale. La questione è affrontata a partire dall’anima nutritiva, tenuto conto che tra le anime, materiali o immateriali, divisibili o indivisibili, ci sono gradazioni. L’anima nutritiva rappresenta il grado più basso: essa non è né materiale né indivisibile, ma ha bisogno di strumenti materiali e reali e produce effetti reali come la nutrizione e l’accrescimento. La sensitiva si eleva al di sopra della materia, per cui coglie il sensibile non nel suo essere reale, ma nel suo essere spirituale, secondo il dettato del II De anima, per il quale ciascun senso riceve le immagini senza la materia. Più elevata al di sopra della materia è l’anima intellettiva, che si identifica con gli intelligibili, come la sensitiva si identifica con i sensibili. L’intelletto pensa tutto e conosce sia ciò che è materiale, sia ciò che è immateriale, ma conosce il materiale nella forma dell’immateriale, poiché lo astrae dal luogo e dal tempo. Il senso, in quanto è localizzato in un organo corporeo, si identifica con una quantità determinata e con una qualità determinata; l’intelletto, invece, non si serve del corpo come soggetto e pertanto l’attività intellettiva è insita nell’essenza dell’anima, che, come afferma il III De anima, è il «luogo delle specie». Poiché le anime inferiori si unificano e si integrano nelle superiori, la vegetativa e la sensitiva sono tutt’uno con l’intellettiva. In quanto tale, l’intellettiva è estesa e materiale, ma poiché nel pensare e nel ricevere gli intelligibili non si serve del corpo, è capace di elevarsi al disopra della materia per compiere le sue operazioni. Se, infatti, il processo di astrazione può essere compiuto dalla cogitativa, che è nella materia e si serve di un organo quantitativo e se la sua funzione discorsiva è limitata ai termini particolari, quanto più è possibile che l’intelletto sia in grado di elevarsi sopra la materia! L’anima intellettiva è, dunque, materiale e immateriale. Quando nel I De generatione Aristotele afferma che l’intelletto viene da fuori,108 il testo va inteso nel senso che «il grado intellettivo si accorda con le sostanze separate dalla materia. Non avendo bisogno della materia né di un organo come soggetto, l’intelletto sembra venire dall’ester-

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no e sembra essere eterno; ma di fatto né viene da fuori, né è eterno, perché se così fosse talvolta penserebbe senza il corpo».109 Si è affermato da più parti che Pomponazzi resta fedele alla propria posizione già delineata fin dal De immortalitate animae, in cui la dipendenza dell’anima dal corpo è fissata nella formula ‘non ut subiecto, ma ut obiecto’. Va tuttavia detto che nel De nutritione Pomponazzi consegue un più alto livello di coerenza in ordine alla unità e indivisibilità dell’anima. Infatti, nel capitolo XIII del libro II egli sviluppa una sorta di dottrina dell’inglobamento delle funzioni psichiche inferiori e più imperfette in quelle superiori e più perfette. L’anima vegetativa si corrompe, ma resta incardinata e perfezionata in quella sensitiva. E così accade all’anima sensitiva, la quale si corrompe per essere incardinata e perfezionata nella intellettiva. Ciò significa che le funzioni del vegetativo si conservano nel sensitivo come quelle del sensitivo si conservano nell’intellettivo. In proposito è necessario ricorrere al testo perettiano che è davvero illuminante: Aristotele ammette che nella riproduzione dell’uomo dapprima viene prodotta l’anima della pianta, poi essa si corrompe ed è prodotta l’anima dell’animale e, benché con l’arrivo dell’anima dell’animale si corrompa quella della pianta, questa tuttavia non si corrompe del tutto, ma resta in potere dell’anima dell’animale; e l’anima vegetativa ha il suo essere più perfetto nell’anima sensitiva piuttosto che là dove essa è sola. E la natura fa questo perché sempre tra i possibili (come è detto nel libro II del De caelo e in molti altri luoghi) sceglie ciò che è meglio. E poiché il vegetativo e il sensitivo non possono coesistere simultaneamente, come due sostanze, la natura corrompe il vegetativo e creando il sensitivo gli conferisce anche la facoltà del vegetativo; ma non produce il sensitivo all’esordio della sua attività, perché l’attività della natura, come è detto nel capitolo I del libro VIII del De naturis animalium, è ordinata e procede per gradi e cominciando dall’imperfetto tende verso il perfetto, come vediamo nelle altre attività della medesima natura. Perciò essa non comincia dal perfettissimo. E come sta il vegetativo rispetto al sensitivo, così sta il sensitivo rispetto all’intellettivo. Infatti, con l’arrivo dell’intellettivo, il sensitivo si corrompe, ma il vegetativo e il sensitivo sono nella facoltà dell’intellettivo… ne consegue che il grado intellettivo sta nella estensione delle gradazioni delle anime, come il grado sommo sta nella estensione delle qualità. Infatti, l’anima intellettiva è la più perfetta delle anime e contiene eminentemente tutti i gradi dell’anima e nella sua produzione la natura comincia dal grado più basso finché raggiunge quello supremo; ma sempre con l’arrivo del successivo si corrompe il precedente; però il successivo contiene eminentemente il precedente.

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La tesi mortalistica enucleata nel De immortalitate animae e nell’Apologia110 è confermata nel De nutritione in una formulazione che lega più strettamente l’intellettivo al vegetativo, oltre che al sensitivo, senza tuttavia giungere ad una sua localizzazione nella struttura dell’organismo. Il nodo centrale della trattazione si può dire concluso. Gli ultimi capitoli del primo libro sembrano fungere da corollari; in essi l’indagine verte sulla trasferibilità dell’anima da una materia all’altra, secondo la tesi di Filopono, Paolo Veneto ed Averroè, i quali propongono, come esempi di trasferibilità, la permanenza dell’albero in un fiume soggetto al continuo flusso dell’acqua, il flusso di immagini proiettate da uno stesso agente su uno specchio e il flusso di calore trasmesso all’acqua corrente di un fiume da un fuoco posto sulla riva. Tali autori sembrano riprendere l’opinione pitagorica della trasmigrazione delle anime, perché ritengono che gli accidenti, come le immagini, sono di natura spirituale come l’anima, e quindi possono trasmigrare da una materia all’altra. Di conseguenza sostengono che il passaggio dell’anima da un individuo di una specie in un individuo di un’altra specie è provato dal fatto che l’anima informa organi, come il cuore e il cervello, che differiscono più di quanto differiscano il cuore dell’uomo e quello del leone. Burley e Simplicio credono, invece, che tale trasmigrazione possa essere compiuta solo dall’anima e non dagli accidenti, che non possono sussistere senza il soggetto, e ritengono che quella presunta continuità dell’immagine non è che un inganno dei sensi. Il confronto tra la trasmigrazione dell’anima e quella dell’accidente serve comunque ad acquisire un primo risultato: per l’unità dell’accidente è sufficiente la dipendenza dal soggetto; ma questa è una dipendenza di ordine generale e non particolare. Il fatto che l’immagine, come accidente spirituale, non possa sussistere senza il soggetto non significa che non possa sussistere senza ‘questo’ soggetto. Lo stesso vale per l’anima. Il fatto che essa non possa sussistere senza la materia non significa che non possa sussistere senza ‘questa’ materia. Ma la similitudine tra l’immagine e l’anima vale solo fino ad un certo punto, perché l’accidente riceve l’essere dal soggetto, l’anima invece fornisce l’essere alla materia. L’anima, cioè, è una sostanza, l’immagine è un accidente. Insomma il trasferimento dell’immagine è un puro moto locale, l’anima invece non informa una nuova materia se non dopo averla predisposta e aver mescolato la materia pre-esistente con la nuova, come accade nel processo di nutrizione. Essa dunque non può trasmigrare da un corpo intero all’altro, sia che si tratti di corpi della stessa specie sia che si tratti di corpi di specie diversa, perché se

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ciò accadesse potrebbe sussistere senza la materia e potrebbe muoversi di moto locale. E queste sono ipotesi del tutto stonate in filosofia (quae omnia sunt absona in philosophia).111 Per la stessa ragione è irrealizzabile il desiderio di chi vorrebbe essere nato da un’altra madre, perché una forma, che è numericamente una, sia essa sostanziale o accidentale, non può essere generata che da una materia determinata. Se Socrate fu generato da Fenarete non poté essere generato da un’altra donna. L’unione della forma e della materia è sempre determinata: ‘questa’ forma si unisce a ‘questa’ materia e non a ‘quella’ perché ‘questa’ è la forma e ‘questa’ è la materia. È la materia prima che è in potenza rispetto a tutte le forme, non una materia numericamente determinata. Se una sola materia determinata fosse sufficiente per tutte le forme, tutte le altre materie sarebbero superflue. Per la stessa ragione è respinta l’ipotesi alessandrino-averroistica, nonché filoponiano-albertiana, secondo cui la materia radicale contratta dall’anima fin dal primo momento della nascita si conserva per tutta la vita e addirittura si perpetua all’infinito. Una porzione modica di materia può essere sì necessaria alla generazione, ma non alla conservazione della vita. Insomma ciò che garantisce l’identità delle cose materiali non è la materia contratta, ma l’identità della forma. E la forma è la stessa se è prodotta da uno stesso agente in una stessa materia e in uno stesso tempo. Perciò Socrate non poté essere generato da un altro padre, né da un’altra madre né in un altro tempo… La natura nella sua attività produttiva ha deciso che un effetto determinato esiga un determinato agente e un determinato tempo; altrimenti ci sarebbe stata una confusione e una discordia tra le cose e tutto sarebbe stato confuso e indeterminato.112

Come sono determinate la materia e la forma, così sono determinate le ore e gli istanti del tempo. Se un’ora non precede un’altra è perché ‘questa’ è un’ora e ‘quella’ è un’altra. I teologi, alla domanda perché un’ora precede l’altra e perché l’uomo che nasce in questi tempi è posteriore a quelli che sono stati prima di lui e viene prima di coloro che saranno dopo di lui, rispondono che non c’è altra causa di siffatto ordinamento che non sia la volontà divina che così dispone. E il punto fermo per cui l’oggi viene prima del domani è perché Dio così ha disposto fin dall’eternità e tale decisione è un punto fermo, perché la volontà divina non ha altra causa. In questa materia bisogna attenersi senza dubbio alle decisioni della Chiesa.113

NOTE

ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA I.

POMPONAZZI E LA POLEMICA ANTICALCULATORIA

1 Trattasi del ms. Oxford, Bodl. Canon. Misc. 177, f. 228 (Cfr. M. CLAGETT, The Science of Mechanics in the Middle Ages, Madison, The University of Wisconsin Press, 1959 (tr. it. di L. Sosio: La scienza della meccanica nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 704). Composto nel 1346 (come risulta dall’explicit del ms. Firenze, Bibl. Riccard. 117, ff. 135r-144v) il De velocitate motus alterationis di Giovanni da Casale è pubblicato da Bassiano Politi nell’edizione veneziana del 1505. (Sui problemi della datazione del trattato, cfr. A. MAIER, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 19522, p. 360; ID., Die ‘Quaestio de velocitate’ des Johannes von Casale, O.F.M., «Archivum Franciscanum Historicum», LIII, 1960, pp. 276-306; M. CLAGETT, La scienza, cit., p. 356). Per la Quaestio de proportionibus motuum, composta da Francesco da Ferrara nel 1352, come rielaborazione dell’omonimo lavoro del Bradwardine, v. ms. Oxford, Bodl. Canon. Misc. 226, ff. 58r-63r. Su Francesco di Marchia e sul suo scritto In libros sententiarum, datato 1323, cfr. A. MAIER, Zwei Grundprobleme der scholastischen Naturphilosophie, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,19683, pp. 164-180; E. J. DIJKSTERHUIS, De Mechanisering van het Wereldbeeld, Amsterdam, J. M. Meulenhoff, 1950 (tr. it. dall’inglese di A. Carugo: Il meccanicismo e l’immagine del mondo dai Presocratici a Newton, Milano, Feltrinelli, 19802, pp. 239-240). 2 Cfr. ms. Venezia, Marc. lat. VI, 160, f. 108r. 3 Del De intensione et remissione formarum si conoscono i mss. Oxford, Bodl. Canon, Misc. 177, ff. 24r-39r, e Venezia, Marc. lat. VI, 62, ff. 1r-18r. Per le Quaestiones dialecticae, cfr. ms. Venezia, Marc. lat. VI, 63. Per le Quaestiones super tractatu Thomae Bradwardini de proportionibus, cfr. mss. Venezia, Marc. lat. VIII, 38, ff. 8v-37r; Oxford, Bodl. Canon, Misc. 177, ff. 69r-97v; Vat. lat. 3012, ff. 137v-163v; Milano, Ambr. F. 145 sup., ff. 5r-18r. Le Quaestiones super tractatu de latitudine formarum (di cui si conoscono i mss. Venezia, Marc. lat. VI, 155, ff. 88r-92r; Milano, Ambros. F. 145 sup., ff. 1r-5r; Oxford, Bodl. Canon, Misc. 177, ff. 97v-100v) furono stampate da Bassiano Politi nell’edizione veneziana del 1505. Su Biagio Pelacani da Parma, cfr. F. AMODEO, Appunti su Biagio Pelacani da Parma, «Atti del IV Congresso Internazionale dei Matematici», III, 1908, pp. 549-553; L. THORNDIKE, A History of magic and experimental science, New York-London, Columbia University Press, 1966, vol. IV, pp. 65-79; E. GRANT, voce Blasius of Parma, in Dictionary of Scientific Biography, II, 1970, pp. 192-195; G. FEDERICI VESCOVINI, La dottrina astrologica di Biagio Pelacani da Parma e le sue connessioni con l’opera di Albumasar, «Rivista di Filosofia», LXIII, 1972, pp. 300-317 e Astrologia e scienza. La crisi dell’aristotelismo sul cadere del Trecento e Biagio Pelacani da Parma, Firenze, Vallecchi, 1979.

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

Acutissimi sophiste MESSINI, Quaestio de literali expositione totius tractatus Hentisberi de tribus praedicamentis, Impressa Venetiis per Bonetum Locatellum Bergomensem, sumptibus Nobilis viri Octaviani Scoti Modoetiensis, 1494, sexto kalendas iunias, pp. 52v-64v (f. 62v l’explicit recita: Explicit tractatus de tribus praedicamentis compositus per famosissimum doctorem Mesinum expositorem optimum Tisberi qui non fuit completus per ipsum Mesinum. Sed completus fuit per famosissimum doctorem Gaetanum de Tienis, ut in sequentibus). Cfr. anche il ms. Venezia, Marc. lat. VI, 105, ff. 47r-65r. Di lui si conoscono anche le Quaestiones super quaestione Johannis de Casali, mss. Bologna, Univ. 1227, ff. 101-163; Venezia, Marc. lat. VI, 225, ff. 1r-76r. Sul Messinus cfr. M. CLAGETT, La scienza, cit., pp. 706-708. 5 Di Angelo da Fossombrone si conoscono il De inductione formarum (cfr. mss. Vat. lat. 2130, ff. 188r-194v; Vat. lat. 3026, ff. 115r-121r), il De reactione (cfr. ms. Venezia, Marc. lat. VI, 160, ff. 248r-252r) e il De tribus praedicamentis Hentisberi, Venetiis, per Bonetum Locatellum, sumptibus Nobilis viri Octaviani Scoti Modoetiensis, 1494, pp. 64r-73r (a p. 64r l’incipit: «Angelus Forsemproniensis supra tractatu de motu locali incipit»; a p. 73r l’explicit: «Et sic est finis de motu locali. Quod super capitulo de motu augmentationis additum fuerat in alio codice ex quo Messini sublatum erat quod de motu locali inscribitur. Ibi id reperies eaque de causa curatum est ut huic operi annecteretur questio illa»). Cfr. anche mss. Venezia, Marc. lat. VI, 30, ff. 1r-13r; VI, 71, ff. 113r-128v; VI, 105, ff. 65r-79r; VI, 155, ff. 159r-178r; VI, 160, ff. 224r-239r; VII, 7, 55v-80r). Per il De intensione et remissione formarum di Iacopo da Forlì, stampato a Venezia, 1496, pp 16r-42v, cfr. anche mss. Venezia, Marc. lat. VI, 155, ff. 134r-159r e VII, 7, ff. 1r-55r. Per la Quaestio de instanti et tempore di Bartolomeo da Mantova, cfr. ms. Venezia, Marc. lat. VI, 62. Su Angelo da Fossombrone, cfr. G. FEDERICI VESCOVINI, ‘Arti’ e Filosofia nel secolo XIV. Studi sulla tradizione aristotelica e i ‘moderni’, Firenze, Vallecchi, 1983, pp. 57-73. 6 Per le Regulae solvendi sophismata di William Heytesbury, cfr. l’edizione veneziana del 1494, pp. 4v-52r; altre ed.: Venezia 1483, 1491, 1500, 1517. Per le Consequentiae dello Strode, cfr. mss. Copenaghen, Bibl. Reg. Thott. 581, ff. 1-12; Oxford, Bodl. Canon. Misc. 219, ff. 13-52. Per gli altri autori citati, cfr. Summa naturalium, per reverendum artium et theologiae doctorem magistrum PAULUM DE VENETIIS ordinis fratum heremitarum sancti Augustini, transumpta ex proprio originali manu propria praefati magistri confecto Venetiis, impressionem habuit impensis Iohannis de Colonia sociique eius Johannis Mathen de Therrethmem, Anno a natali christiano MCCCCLXXVI. Di Gaetano da Thiene, cfr. De intensione et remissione formarum, Venezia, De Gregoriis, 1491; le Recollectae super Consequentias Strodi (ms. Venezia, Marc. lat. VI, 160, ff. 109r-119r) e la Declaratio super tractatu Hentisberi regularum, nella citata edizione veneziana del 1494, pp. 7r-52r. Di Paolo della Pergola, cfr. Dubia in Consequentias Strodi nelle edizioni di Padova 1477 e di Venezia 1493. Su William Heytesbury, cfr. C. WILSON, William Heytesbury: Medieval logic and the rise of mathematical physics, Madison, University of Wisconsin Press, 1956; P. DUHEM, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, voll. 10, Paris, Hermann, 1914-1959, vol. VII, 1956, pp. 602-604 e 640-648; A. MAIERÙ, Il ‘tractatus de sensu composito et diviso’ di Guglielmo Heytesbury, «Rivista Critica della Storia della Filosofia», XXI, 1966, pp. 243-263. Su Paolo Veneto, cfr. F. 4

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MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo, Torino, Bocca, 1907; B. NARDI, Paolo Veneto e l’averroismo padovano, in Saggi sull’aristotelismo podovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 75-94; T. K. SCOTT, voce Paul of Venice, in Dictionary of Scientific Biography, X, 1975, pp. 419-421; A. D. CONTI, Alcune note sull’Expositio super universalia Porphyrii et artem veterem Aristotelis di Paolo Veneto. Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di W. Burley, in English Logic in the 14. and 15. Centuries: «Atti del V Simposio Europeo sulla Logica e Semantica nel Medioevo (Roma 10-14 novembre 1980)», a c. di A Maierù, Napoli, Bibliopolis, 1982, pp. 54-61; R. VAN DER LECQ, Paul of Venice on Composite and divided sense, in English Logic, cit. pp. 211-223; G. F. PAGALLO, Nota sulla logica di Paolo Veneto: la critica alla dottrina del ‘complexe significabile’ di Gregorio da Rimini, in Aristotelismo padovano e filosofia aristotelica, «Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia», vol. IX, Firenze, Sansoni, 1960, pp. 183-191; C. VASOLI, Profezia e ragione, Napoli, Morano, 1974, pp. 405-475; L. POZZI, La teoria delle ‘Consequentiae’ nella logica di Paolo Veneto, in Aristotelismo veneto e scienza moderna («Atti del 25° Anno Accademico del Centro per la Storia della Tradizione Aristotelica nel Veneto»), a c. di L. Olivieri, voll. 2, Padova, Antenore, 1983, vol. II, pp. 873-886. Su Gaetano da Thiene, cfr. SILVESTRO DA VALSANZIBIO, Vita e dottrina di Gaetano da Thiene, filosofo della Studio di Padova, 1387-1465, Padova, Studio Filosofico ff. mm. Cappuccini, 1949;2 su Paolo della Pergola, cfr. B. NARDI, Divagazioni sulla scuola di Rialto, l’umanesimo, in Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano, a c. di V. Branca, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 95-139. 7 Per le critiche di Biagio Pelacani da Parma al Bradwardine, cfr. Tractatus proportionum, ms. Venezia, Marc. lat. VIII, 38, ff. 14rb-va e 86rb. Sulla questione importanti contributi sono quelli di G. FEDERICI VESCOVINI, Astrologia e scienza, cit., pp. 356-363 e 430-431, e L’importanza della matematica tra Aristotelismo e scienze moderne in alcuni filosofi padovani della fine del secolo XIV, in Aristotelismo veneto… cit., vol. II, pp. 661-684. Per le critiche del Marliani si veda la Quaestio de proportione motuum in velocitate l’incipit: «Ad preclarissimum philosophum ac medicum equitemque auratum dominum magistrum Benedictum Reguardatum, invictissimi Francisci Sforcie ducis Mediolani phisicum et senatorem dignissimum. Iohannis Marliani sua aetate philosophorum et medicorum principis et ducalis phisici primi, De proportione motuum in velocitate questio subtilissima incipit»; l’explicit recita: impressum Papiae per Damianum de Conphalonerijs de Binascho. Die 16 decembris anni 1482»). Per le critiche dell’Achillini e del Vittori, cfr. Magni Alexandri ACHILLINI Bononiensis, De proportionibus motuum, Quaestio impressa Bononiae a Hieronymo de Benedictis Bononiensi, Anno Domini 1515; B. VITTORI, Commentaria in tractatum proportionum Alberti de Saxonia, Bononiae, per Benedictum Hectoris, 1506; ID., In Tysberum de Sensu composito ac de sensu diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones Pauli Veneti. Nec non tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini Petri de Laduciis, Pauli Pergolensis et Baptistae da Fabriano in eundem Tysberum, Venetiis, impensa heredum quondam Octaviani Scoti, 1517. Del Vittori si veda anche il ms. Defensio Aristotelis in ultimo capitulo septimi Physicorum, Paris, Bibl. Naz., lat. 6533, ff. 359r-361v. Su Giovanni Marliani, cfr. M. CLAGETT, Giovanni Marliani and late medieval physics, New York, Ams Press, 1941; A. MAIER, Die Vorläufer Galileis im 14. Jahrhundert, Roma, Edizioni di Storia e

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Letteratura, 19492, pp. 107-110. Su Alessandro Achillini, cfr. B. NARDI, Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 179279; HERBERT S. MATSEN, Alessandro Achillini (1463-1512) and his doctrine of ‘universals’ and ‘transcendentals’, Lewisburg, Buchnell University Press, 1974; G. BARONCINI, Forma e ruolo dell’esperienza nel sapere di un medico e filosofo dello studio bolognese: A. Achillini (1465-1512), in Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari, De Donato, 1977, pp. 441-463. 8 Sui calculatores e sui fisici parigini, v. G. C. BRODRICK, Memorials of Merton College, Oxford , Clarendon Press, 1885; K. MICHALSKI, Les courants philosophiques à Oxford et à Paris pendant le XIV siècle, «Bulletin International de l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres, Classe d’Histoire et de Philosophie et de Philologie», 1919-1920 (Cracovia 1922), pp. 59-88; M. CLAGETT, Some general aspects of medieval physics, «Isis», XXXIX, 1948, pp. 29-44; E. J. DIJKSTERHUIS, Il meccanicismo, cit., pp. 238-266; M. CLAGETT, Medieval mathematics and physics: a checklist of microfilm reproductions, in «Isis», XLIV, 1953, pp. 371-381; P. DUHEM, Le système du monde, cit., vol. VII, 1956, pp. 60-153; E. SYLLA, Medieval quantifications of qualities: the ‘Merton School’, «Archive for History Exact Sciences», VIII, 1971, pp. 9-39; A. C. CROMBIE, Augustine to Galileo, 1952 (tr. it. di V. Di Giuro, Da S.Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo, Milano, Feltrinelli, 19722; E. SYLLA. Medieval concepts of the latitude of forms: the Oxford calculators, «Archives d’Histoire Doctrinal et Littéraire du Moyen Âge», XL, 1973, pp. 223-283; M. CLAGEIT, Studies in Medieval Physics and Mathematics, London, Variorum Reprints, 1979; A MAIER, Die Vorläufer, cit.; J. E. MURDOCH, The medieval Language oJ Proportions, in A. C. CROMBIE. Scientific Change, London, Heinemann, 1963, pp. 237-271; W. A. WALLACE, The ‘Calculatores’ in early sixteenth-century physics, «British Journal for the History of Science», IV, 1969, pp. 221-232; J. A. WEISHEIPL, Repertorium mertonense, in «Medieval Studies», XXXI, 1969, pp. 174-224. 9 Del Liber calculationum di Richard Swineshead si conoscono tre edizioni italiane: Padova 1477, Pavia 1498 e Venezia 1520. Di William Heytesbury, oltre le edizioni di Pavia 1481 (a cura di Johannes Petrus de la Porta, lettore di filosofia ordinaria a Pavia) e Venezia 1483 a cura di Franciscus Agubiensis, lettore di medicina teorica a Pavia), va ricordata l’edizione veneziana del 1494 delle Probationes conclusionum tractatus regularum solvendi sophismata (pp. 188v203v), di dubbia attribuzione e delle Regulae solvendi sophismata (pp. 4v-52), curate da Giovanni Maria Mappello e accompagnate dai commenti di Gaetano da Thiene, Angelo di Fossombrone, Simone di Lendinara, Bernardo Torni e Messino. Del Bradwardine compare nell’edizione veneziana del 1505 del Politi il Tractatus proportionum. Nella medesima edizione si trova il De proportionibus proportionum (pp. 17r-26v) dell’Oresme. D’altronde, ampia diffusione ebbe il Tractatus de latitudinibus formarum composto da Jacopo de Sancto Martino, probabilmente sulla scorta della dottrina di Nicola Oresme (cfr. edizioni: Padova 1482; Padova 1486; e quella veneziana del 1505 curata da Bassiano Politi). Di Alberto di Sassonia vengono pubblicati a Venezia il Tractatus de proportionibus (Venezia 1480 e Venezia 1496) e le Quaestiones subtilissimae in libros de caelo et mundo Aristotelis (Venezia 1492). 10 Cfr. in proposito C. LEWIS, The Merlon tradition and Kinematics in late sixteenth and early seventeenth century Italy, Padova, Antenore, 1980. Dopo

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aver rilevato il declino della tradizione calculatoria in Italia (After the first two decades of the sixteenth century, however there appears to have been a drastic decline in the publication of the more important expositions of the Merton works, p.18) ed averne indicato la causa nell’emergenza di nuovi e diversi interessi (Although there may have been a number of auxiliary causes. It is difficult not to construe this decline as an indication of a real diversion of interest away from the Merton tradition), il Lewis nel suo lavoro si attarda – senza un apprezzabile successo – a ricercare, nell’attività intellettuale ed accademica sviluppatasi tra il 1570 e il 1620 nel Collegio Romano e nelle Università di Pisa e di Padova, tracce, sia pure deboli ed insicure, di una continuità tra la fisica oxoniense e la scienza galileiana. 11 Ad un esaurimento della tradizione calculatoria in Italia nel primi decenni del Cinquecento accenna E. J. DIJKSTERHUIS, Il meccanicismo, cit., p. 295. 12 Sul Balduino e sul filone degli studi logici interessati all’approfondimento dell’analitica aristotelica, cfr. G. PAPULI, Girolamo Balduino. Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento, Bari, Adriatica, 1965; Dal Balduino allo Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazione, «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce», X, 1990-1992 (ma 1993), pp. 33-65. Sull’alessandrismo, cfr. P. O. KRISTELLER - J. H. RANDALL, Story of Renaissance Philosophies, «Journal of the History of Ideas», II, 1941, p. 490; P. O. KRISTELLER, Paduan averroism and Alexandrinism in the light of recent studies in Aristotelismo padovano, cit., pp. 147-156; J. H. RANDALL, Paduan aristotelianism: an appraisal, in Aristotelismo padovano, cit., pp. 199-206; G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima nel Rinascimento, Torino, Sei, 1953; T. GREGORY, Anstotelismo in Grande Antologia filosofica, voll. 35, Milano, Marzorati, 1988, vol. VI, pp. 607-641. 13 In particolare il Crombie vede nell’Umanesimo e nel suo orintamento fondamentalmente letterario un elemento di rottura rispetto alla tradizione scientifica oxoniense e parigina dei secoli XIII e XIV. Cfr. A. C. CROMBIE, Da S. Agostino a Galileo, cit., pp. 299-313. Suggeritore di tale ipotesi fu P. DUHEM, Le système du monde, cit., vol. X, Paris 1959. Cfr. anche R. KLEIN, Les humanistes et la science, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXIII, 1961. Per un esame critico di tutta la problematica, cfr. E. GARIN, Gli umanisti e la scienza, in L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XIII al XVII secolo, Napoli, Morano, 1969, pp. 449-475. 14 P. DUHEM, Etudes sur Léonard de Vinci, voll. 3, Paris, Hermann, 19061913, vol. III, 1913, pp. 120-123. 15 C. WILSON, Pomponazzi’s Criticism of Calculator, «Isis», XLIV, 1953, pp. 355-362. Cfr. anche C. OLIVA, Note sull’insegnamento di Pietro Pomponazzi, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», VII, 1926, pp. 83-103, 179-190, 254275. 16 Cfr. ms. De maximo et minimo ad Laurentium Molinum, Milano, Ambr. Pirelliano, R 96 sup., ff. 152r-159v, sul quale v. B. NARDI, Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 61-63. Il testo è stato pubblicato da A. Poppi, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti dell’insegnamento padovano, II, Padova, Antenore, 1970, pp. 219-242. 17 Per l’epistola pomponazziana al Pio, cfr. P. POMPONAZZI, De intensione: «Cum tecum essem Ferrariae, tractatumque Calculatoris de intensione et remis-

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sione legeremus, mirifice te in eius ingenio delectatum. Verum etsi eius rationes, cum violentissimae tum apparentissimae tibi viderentur, asserebas tamen eius positionem minime dictis Aristotelis convenire. Quare inter nos longa est disputatio». 18 Per la Quaestio de minimis, cfr. ms. Laurenziano Ashburn 1048 ff. 45r-50r (v. B. NARDI, Studi, cit., pp. 291-292). Per la Quaestio a quibus moveantur gravia et levia, cfr. ms. Laurenziano Ashburn 1048 ff. 51r-57r (v. B. NARDI, Studi, cit., p. 292) e ms. Napoli, Bibl. Naz. VIII D 81 ff. 131r-135r (Quaestio de motu gravium et levium, su cui v. B. NARDI, Studi, cit., pp. 64-65). Entrambi i testi sono pubblicati da A. Poppi, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., rispettivamente a pp. 243-268 e 269-296. 19 Per le Quaestiones breves n. XX4, cfr. ms. Ambr. (Pinelliano) R 96 sup. ff. lr-3r: v. B. NARDI, Studi, cit., pp. 74-75. 20 P. POMPONAZZI, De reactione, Proem.: «Verum cum superioribus annis in infelicissima academia patavina hoc etiam munus docendi exercerem, circa propositam materiam memini quaedam dixisse, quae dum attentiori studio in praesentiarum considerarem, mihi visum est satisfieri». 21 P. POMPONAZZI, Epistola al Pio, in. P. POMPONAZZI, De intensione. 22 P. POMPONAZZI, De reactione, proem.: «Quapropter anno quingentesimo decimo quarto supra millesimum, cum in florentissimo Gymnasio Bononiensi mihi partem hanc [intendi il III libro della Physica] legere contigisset, a tantae difficultatis pertractatione temperavi ne forte aliorum merus recitator haberer, aut si quid ex me ipso dicerem involutionem involutionibus adderem, remque obscuram obscuriorem redderem… Quare optimum ratus hoc nostrum inventum aliis communicare, hoc tractatulum compilavi». 23 Epistola di Virgili a Pomponazzi, in. P. POMPONAZZI, De intensione. 24 P. POMPONAZZI, De intensione, VI, XII, 4. 25 Ivi, proem.: «Deum namque testor cum frequenter id aggredi temptassem, id mihi contigisse quod in proverbio dici solet: qui magis manu anguillam stringit, minus retinet, quoniam aptius labitur. Sic ego quoque cum plus volui intelligere, minus intellexi». 26 P. POMPONAZZI, De reactione, proem.: «In hac autem assumpta propositione, quantum scio, nullus ex graecis neque aliquis ex priscis nostratibus dubitavit. Verum posteriores, et praecipue anglici, adeo subtiliter dubitaverunt, adversusque concessam propositionem adeo difficillimas rationes invenerunt, ut quantumcumque praeclarissimi viri solvere eas laboraverint, mea tamen sententia, perfecte non satisfecerint». 27 P. POMPONAZZI, De intensione, V, VII, 5. Sul Bradwardine, cfr. E. STAMM, Tractatus de continuo von Thomas Bradwardine, «Isis», XXVI (1936), pp. 13-32; J. E. HOFMANN, Zum Gedanken an Thomas Bradwardine, «Centaurus», I, 1951; H. LAMAR CROSBY, Thomas Bmdwardine, his Tractatus de proportionibus. Its Significance for the Development oJ Mathematical Physics, Madison, The University od Wisconsin Press, 1955; P. DUHEM, Le système du monde, cit., vol. VII, 1956, pp. 467-473; E. GRANT, Bradwardine and Galileo: equality of velocities in the void, «Archive for History of Exact Science», II, 1965, pp. 344-364; J. E. MURDOCH, voce Thomas Bradwardine, in Dictionary oJ Scientific Biogrophy, ed. C. C. Gillispie, New York 1970-1980, vol. II, 1970; M. MC VAUGH, Arnald of Villanova and Bradwardine’s Law, «Isis», LVIII, 1967, pp. 56-64; W. A. WALLACE, Mechanics from Bradwardine to Galileo, «Journal of the History of Ideas», XXXII, 1971, pp. 15-28.

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28 Su Alberto di Sassonia, cfr. P. DUHEM, Le système du monde, vol. VII, 1956, pp. 148-152, 279-285, 399-403, 474-488, 565-569; vol. VIII, 1958, pp. 56-57, 215-219, 287-299, 341-342; H. H. L. BUSARD, Der ‘Tractatus proportionum’ von Albert von Sachsen, «Österreichische Akademie der Wissenschaften, mathematisch-naturwissenschaftliche Klasse: Denkschriften», 116, 1971, pp. 41-72. 29 P. POMPONAZZI, De intensione, III, VII, 3: «Quae dicuntur a divo Boethio in arithmetica sua et etiam lucide collecta sunt ab Alberto de Saxonia in tractatu de proportionibus, qui est communiter in usu». 30 Ivi, IV, III, 3: «Quare conterraneus noster et nominis nostri consors Petrus de Mantua, vir certe acutissimi ingenii in tractatu suo de primo et ultimo instanti multoties ea usus est». Sul titolo del trattato, cfr. infra, p. 2688. 31 P. POMPONAZZI, De intensione, V, II, 4. 32 Ivi, proem. 33 Ivi, III, I, 1: «Sicut in accumulationibus lapidum: ut ex appositione lapidis supra lapidem, utrisque remanentibus, crescat cumulus lapidum. Sic ex superadventu alterius gradus caliditatis ad gradum priorem, utrisque remanentibus, fiat illa intensio». 34 R. SWINESHEAD, Calculationum Liber, per Egregium Artium et Medicinae Doctorem Magistrum Iohannem de Cipro diligentissime emendatus, Paduae, s.d. (ma 1477), p. 1vb. Su Richard Swineshead, cfr. M. CLAGETT, Richard Swineshead and late Medieval physics, «Osiris», IX, 1950, pp. 131-161; P. DUHEM, Le système du monde, cit., vol. VII, 1956, pp. 608-615, 627-631; J. E. MURDOCH - E. D. SYLLA, voce Richard Swineshead, in Dictionary of Scientific Biography, vol. XIII, 1976, pp. 184-213; M A. HOSKIN - A. G. MOLLAND, Swineshead on the falling bodies: An example of fourteenth-century physics, «British Journal for the History of Science», III, 1966, pp. 150-182; Ch. LEWIS, The Fortunes oJ Richard Swineshead in the time oJ Galileo, «Annals of Science», XXXIII, 1976, pp. 561-584; C. DIONISOTTI, Ermolao Barbaro e la fortuna di Suiseth, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, voll. 2, Firenze, Sansoni, 1955, vol. I, pp. 217-253. 35 Sui fondamenti geometrici delle dottrine calculatorie, cfr. A. G. MOLLAND, The geometrical background to the ‘Merton School’: An exploration into the application of mathematics to natural philosophy in the fourteenth century, «British Journal for the History of Science», IV, 1968, pp. 108-125. 36 P. POMPONAZZI, De intensione, I, IX, 1. 37 Ivi, II, I, 10. Cfr. anche R. SWINESHEAD, Calculationum, p. 1a-b. 38 R. SWINESHEAD, Calculationum, pp. 1ra-lva: «Contra primam positionem arguitur sic. Ex illa sequitur quod gradus summus sit infinite intensus. Nam intendatur aliqua caliditas usque ad summum; tunc ista caliditas erit intensa aliqualiter et in duplo et in infinitum. Quia aliqualiter erit propinqua gradui summo et in duplo propinquior et in infinitum. Et sic proportionaliter sicut propinquior erit gradui summo secundum illam positionem erit intensior, ergo in infinitum intensa erit ista caliditas ante finem horae et in fine erit intensior quam unquam ante finem. Ergo caliditas summa erit in infinitum intensa; quod fuit probandum… Ex illa sequitur quod caliditas summa sit caliditas remissa. Quia capiatur caliditas summa quae sit b, tunc b finite distat a non gradu latitudinis, quia inter b et non gradum est dare medium. Sed nullius infiniti est dare medium; ergo latitudo caliditatis est solum finita. Contra patet cum minori quia medium est quod

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equaliter distat ab extremis. Sed nihil equaliter distat a gradu infinito et non gradu; quia a gradu infinito omne finitum per infinitum distat, et a non gradu solum per finitum ut constat. Patet ergo quod gradus summus finite distat a non gradu». 39 Ivi, p. 1ra: «Item ex illa positione sequitur quod quelibet caliditas citra summum sit in infinitum remissa… quia omnis gradus finitus per infinitum distat a gradu infinito. Cum ergo penes appropinquationem gradui summo iuxta illam positionem habeat intensio caliditatis attendi, sequitur quod omnis gradus caliditatis est in infinitum remissus». 40 Ivi, pp. 2rb-2va: «Et sic notandum est quod ab omni gradu remissionis usque ad non gradum remissionis est latitudo infinita, et usque ad gradum infinitum remissionis solum finita latitudo, quia non est alius gradus infinitus remissionis quam non gradus intensionis. Et ab omni gradu intensionis est latitudo solum finita. Ergo et cetera. Ex his est notandum etiam quod ab omni gradu remissionis usque ad suum duplum remissionis, privative accipiendo remissionem, est in duplo minor latitudo quam inter ipsum et suum subduplum remissionis quia non est aliud gradus duplus remissionis quam gradus subduplus intensionis, et gradus subduplus remissionis quam gradus duplus intensionis. Sed ab omni gradu intensionis usque ad suum subduplum est in duplo minor latitudo quam inter ipsum et suum duplum. Ergo inter omnem remissionem et suum duplum ad ipsum est in duplo minor latitudo quam inter illam et suum subduplum. Et consimiliter est de omni latitudine privative considerata, cuius oppositum est de omni latitudine positiva si ipsam positive consideres». 41 Cfr. C. WILSON, Pomponazzi’s criticism, cit., p. 355: «I wish to show that Pomponazzi does not differ with Calculator as to the possibility of a quantitative treatment of qualities, but rather as to the way in which this quantification should be carned out». 42 P. POMPONAZZI, De intensione, V, III, 2. 43 Ivi, I, I, 8-10. 44 Ivi, I, I, 11; cfr. ARISTOTELE, De anima., I, 5, 411 a 4-5. 45 Cfr. G. ZERBI, Quaestiones metaphysicales, Bologna 1482, I, qu. I, pp. 3vb-4ra; X, qu. III, pp. 3rb-4rb; XII, qu. X, pp. 5ra-6rb; G. CONTARENI, Primae philosophiae compendium, in Opera, Parisiis, apud Sebastianum Nivellium, 1571, II, pp. 106-107; IV, pp. 141-143; VI, pp. 161-162; M. A. ZIMARAE, Annotationes in Joannem Gandavensem super quaestionibus metaphysicae, eleganter discussae in via Aristotelis et sui magni Commentatoris Averrois, in J. de JANDUNO, Quaestiones in duodecim libros Metaphysicae, Venetiis, her. Octaviani Scoti, 1505, pp. 170rb-170va. Per il Grimani, cfr. PEARL KIBRE, Cardinal Domenico Grimani, ‘Quaestio de intensione et remissione qualitatis’: a commentary on the tractate of that title by Richard Suiseth (Calculator), in Didascaliae: Studies in honor of Anselm M. Albareda, ed. S. Prete, New York, Rosenthal, 1961, pp. 187-194. 46 P. POMPONAZZI, De intensione, I, VI, 3. 47 Ivi, V, II, 1. 48 Ibidem. 49 Ivi, V, II, 2. 50 Ivi, I, VI, 7: «Non fit comparatio inter aliqua nisi ut conveniunt in aliquo communi, quare si caliditas est remissa caliditas respectu velocitatis motus, velocitas motus est caliditas. Neque si caliditas est remissa qualitas sequitur quod sit remissa caliditas, sicut si maximus homo est parvum animal respectu elephantis non sequitur quod sit parvus homo. Sicut etiam non sequitur quod si est maximus homo ut sit maximum animal. Quare neque sequitur si est summa caliditas quod sit summa qualitas».

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Ivi, III, I, 1. Ivi, III, I, 2. 53 ARISTOTELLS, De physico auditu libri octo, cum AVERROIS cordubensis variis in eosdem commentariis, quae omnia, a summis huius aetatis Philosophis, a mendis quamplurimis expurgata cernuntur, vol. IV, Venetiis, apud Iuntas, 1562, III, com. 60, p. 114rb. 54 P. POMPONAZZI, De intensione, V, II, 3. 55 Ivi, I, XI, 1. 56 Ivi, I, XI, 2: «Sed non videtur in qualitatibus esse distantia nisi metaphorice, sed quae est ista metaphora cum trasferentes transferant nisi secundum similitudinem». 57 Met., VII, 10, 1036 a 9-10. Cfr. ARISTOTELIS, Metaphysicorum libri XIV, cum AVERROIS Cordubensis in eosdem commentariis, et epitome, Venetiis, apud Iuntas, 1562, t. VIII, lib. VII, Summa II, cap.12, p. 185vb. Cfr. anche AVERROIS, Met., VII, com. 34, p. 185ra; com. 35, pp. 186rb-187vb; com. 39, pp.191ra-192rb; VIII, com. 15, p. 224ra. 58 P. POMPONAZZI, De intensione, III, V, 3. Va detto che nella tradizione medievale non è difficile incontrare questa concezione del carattere fittizio delle proposizioni matematiche. Si veda in proposito, GREGORII DE ARIMINO In secundum sententiarum, Mediolani, impressum opere ac impensa magnifici viri domini Petri Antonii de Castelliono Mediolanensis per Magistrum Undericum Scinzenzeler, 1494, dist. II, qu. II, p. 36rb, ove si dice che i termini matematici «significant magnitudines fictas et imaginarias, seu imagines magnitudinum quas apud se, non quidem in virtute aliqua sensitiva, sed in ipso intellecto anima fingit». 59 P. POMPONAZZI, De intensione, V, II, 3. 60 Ivi, III, V, 5. 61 Ivi, II, V, 2: «Cum quaeritur penes quid attenditur magnitudo rei, sensus est per quid mensuramus quantitatem, hoc est: quae est mensura metiendi ipsas quantitates et quis est modus cognoscendi finitatem vel infinitatem et quanta unaqueque sit… Et haec consideratio est magis mathematica quam physica vel metaphysica. Prima (consideratio) vero e contrario et de secunda se multum intromittunt isti Calculatores, ut patet inspicienti libros suos; parum autem aut nihil de prima. Sunt etenim hae scientiae (si nomen scientiae merentur) mediae inter physicas et mathematicas et magis appellantur mathematicae quam physicae. Et sunt sicut caeterae scientiae mediae de quibus dicitur secundo physicorum». Per il riferimento ad ARISTOTELE, Phys., II, 2, 194 a 10-12, cfr. ARISTOTELIS, De physico auditu, II, summa II, cap. 2, Venetiis, Iuntas, 1562, t. IV, p. 55va. Più chiaro il commento averroistico, cfr. AVERROIS, cit., II, com. 20, p. 55vb. 62 P. POMPONAZZI, De reactione, II, VIII, 2: «Error igitur istorum provenit quia comparant naturalia mathematicis putantque quod omnia dicta in mathematicis conveniant in naturalibus; quod est falsissimum». 63 P. POMPONAZZI, De intensione, II, I, 7: «Huic quidem dicitur quod inter ultimum punctum terminans pedale et non quantum infinite sunt partes mediae: quod quidem conceditur, sed hoc non est mediare inter pedale et non quantum, sed inter partes et extrema, quasi per sinedochen accipiendo pro parte totum. Sicut dicimus domum distare a terra, quia eius summitas distat a terra, cum tamen domus tangat terram». Cfr. anche II, III, 2. 51 52

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64 Ivi, II, I, 15:. «Ideo alter ponatur modus, pro cuius intellectu accipiendum est quod quaelibet quantitas saltem continua habet facere distare… quare cuiuscumque continui proprium est facere distare… Verum quantumcumque qualitas non faciat per se distare, tamen considerata per modum quantitatis videtur facere distare. Potest autem ipsa qualitas secundum quantitatem isto modo considerari; quia cum in caliditate, verbi gratia, imaginamur magis et minus, de necessitate imaginamur quasi quoddam continuum… sic gradus… secundum quendam ordinem imaginati videntur facere distantiam». 65 Ibidem. 66 Ivi, II, I, 21. 67 Ivi, II, III, 1. 68 Ivi, II, III, 4. Cfr. R. SWINESHEAD, Calculationum, p. 4va. 69 P. POMPONAZZI, De intensione, II, III, 4. 70 Ivi, II, III, 5. 71 Ivi, III, II, 3. 72 Ivi, II, III, 5. 73 Ivi, III, III, 2. 74 Ivi, II, III, 3: «Et quemadmodum dictum est de magno et parvo, sic dicendum est de intenso et remisso. Neque aliqua differentia est nisi ex parte fundamenti, quia fundamentum magni et parvi est quantitas, intensi autem et remissi qualitas. Quia sicut proprium est quantitatis esse aequale vel inaequale et inaequalitas est causa magni et parvi, sic proprium est qualitatis esse simile vel dissimile et dissimile in eadem specie facit intensum vel remissum. Intensum ergo est quale continens et excedens aliud quale. Remissum vero quale est quod ab altero quali continetur et exceditur. Ex his igitur apparet penes quid cognoscuntur magnum et parvum, intensum et remissum formaliter accipiendo ea tanquam per diffinitionem, sive quod quid est». 75 Ivi, I, VI, 13. 76 Ivi, III, IV, 16. 77 Ivi, III, X, 4: «Calculator cum suis sequacibus devenerunt in apertissimos errores. Adeo ut negaverint ea quae sunt quasi per se nota… Sed nihil mirum: quia etsi extremis labijs calculatores isti logicam ac philosophiam attigerunt, nihil tamen de metaphysica gustavere; quare nemini mirum videri debet si in manifestos errores inciderint». 78 P. POMPONAZZI, De reactione, II, I, 1: «Articuli namque fidei vel pro maiori parte probari non possunt, quia tamen a Deo vel a sanctis apostolis habiti sunt sine dubitatione aliqua, a nobis accipiendi sunt. Etenim ad principia non est ratio; et si aliquae adversus ea adducerentur rationes, quas solvere nesciremus, non rei ipsi, sed nobis cecutientibus adscribendum esset». 79 Ibidem: «Quapropter in naturalibus eodem modo dicendum censeo. Etenin cum omnis naturalis cognitio aut per sensum aut per rationem conformem sensui habeatur… ideo quae sensui manifesta sunt a naturali sine ratione aliqua sunt accipienda. Quod si aliquae sunt rationes quae sensui contradicant, quantumcumque sint validissima, sensui et non rationi adhibenda est fides». 80 Ivi, II, I, 2: «Siquis autem quaerat cur antiqui istas dubitationes non moverunt. Ut existimo, multipliciter responderi potest: forte fecerunt sed non ad nos pervenerunt, vel quia ut dicit Plato in decimo de republica nullus homo potest scire omnia… Scientiae fiunt per additamenta vel melius quia his ipsis non fa-

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ciebant dubitationem: non enim, ut existimo, est valde grave vel obscurum has obiectiones solvere. Sicut videmus et in aliis Aristotelem omisisse dubitationem vel responsionem de qua tamen moderni garruli vani litigiosi digladiantur». 81 P. POMPONAZZI, De intensione, IV, II, 4. 82 Ivi, I, VI, 19. 83 Ivi, I, VI, 18. 84 Ivi, IV, II, 4: «Sed hanc regulam et mensuram ignoraverunt isti Calculatores, si eam namque cognovissent suam aliquantulum arrogantiam comprehensissent, cum ausi sint contradicere tantis philosophis; nihilque veri dicentes in hac materia: sed ut in proverbio dicitur: ubi plus de ignorantia, ibi plus de temeritate. Nam et temeritas causat sive parit ignorantiam et ignorantia presumptionem sive temeritatem». 85 Ivi, I, VI, 20; V, III, 8. 86 Ivi, IV, I, 2. 87 A. NIFO, Destructiones destructionum Averroys cum Augustini Niphi de Sessa expositione. Eiusdem Augustini questio de sensu agente, Venetiis, Octaviani Scoti, 1497, III, dub. 12, pp. 35rb-36vb; dub. 16, pp. 42vb-43ra; dub. p. 52ra. 88 P. POMPONAZZI, De intensione, IV, I, 10: «His accedit quod in ydiomate latinorum, non latine dicitur intensio, sed intentio latine debet dici… Modo intentio est actus voluntatis secundum finem… ut cum quis vult aliquem finem ut domum vel argentum vel aliquid aliud, illud dicitur esse eius intentio. Quare finis rei dicitur intentio volentis, sed finis est ultimum… unde intentio in voluntate importat ultimum… Quare non inconvenienter intentio dicta in qualitatibus summum dicet, et sic penes summum attendetur». 89 Cfr. R. SWINESHEAD, Calculalionum, pp. 3vb-4vb. 90 P. POMPONAZZI, De intensione, IV, III, 5: «Ex quibus apparet quam ignoranter argumentatus est praedictus Calculator contra primam et secundam opinionem. Primo quidem non intellexit quid sit illud appropinquare, secundo vero credidit quod sicut proportionabilter magis appropinquat, ita fiat intensius; quod falsum est... Sed hoc isti calculatores immo revera intricatores et involutores non intellexerunt impugnantes quae non intelligunt». 91 Ivi, V, III, 8. La fonte pomponazziana è R. SWINESHEAD, Calculationum, p. 3va: «Et proportio maioris inequalitatis non est maior nec minor proportione minoris inequalitatis, distinguendo proportionem maioris inequalitatis contra proportioncm minoris inaequalitatis ut venerabilis magister Thomas de Berdeuerdino in suo libro de proportionibus liquide declarat». 92 P. POMPONAZZI, De intensione, V, IV, 6. 93 P. POMPONAZZI, De reactione, II, VII, 7: «Amplius: quia non sequitur quod per infinitum tempus durat illa reactio, quia exempli gratia prima durabit per unam horam, secunda per medietatem, tertia per quartam, et sic discorrendo. Quare etsi isto modo procedatur in infinitum, non tamen sequitur quod numquam finietur, quoniam semper subduplatur tempus, immo tempus correspondens primae parti aequatur tempori corrispondenti omnibus aliis partibus. Omne namque continuum, divisum in partes proportionales secundum duplam proportionem, est tantae quantitatis secundum primam partem, sicut est aggregatum ex omnibus illis partibus, sicut apertissimum est. Quapropter non sequitur quod, si illae partes sint infinitae, non consumantur, cum semper una est subdupla ad alteram, estque divisio secundum potentiam et non secundum

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actum; quae divisio secundum potentiam et non secundum actum; quae divisio secundum potentiam consumitur, quamvis sit infinita; nam si pertranseo pedale, pertranseo primam partem proportionalem, et secundam et sic in infinitum, possumque pertransire illud pedale et talia multa; aliter enim contingerent sophismata Zenonis, posita in VI Physicorum». 94 Ivi, V, V, 6. 95 Ivi, V, VII, 6. 96 Ivi, V, VI, 11. 97 Ivi, V, IV, 6. 98 Ivi, V, V, 7: «Et mirum est quod dicti calculatores viderint hoc in contrariis positivis et non in privativis. Verum causa sui erroris fuit eo quod universaliter credebant in latitudine finita et infinita quod ubi est non gradus intensionis, ibi sit infinitus gradus remissionis, quod est nedum falsum, immo implicans contradictionem». 99 Ivi, V, VII, 6. 100 Ivi, V, IV, 9. 101 Ivi, V, VII, 6. 102 Cfr. E. P. MAHONEY, Il concetto di gerarchia nella tradizione padovana e nel primo pensiero moderno, in Aristotelismo veneto, cit., II, pp. 729-741. 103 P. POMPONAZZI, De intensione, VI, XI, 1. 104 Ivi, VI, XII, 1. 105 Ivi, VI, XI, 2. 106 Cfr. P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 79. 107 P. POMPONAZZI, De intensione, VI, XII, 3: «Verum quia multi calumniatores reprehendunt nos, quia asserimus ideas nedum secundum veritatem fidei, verum etiam secundum mentem Aristotelis, ideo de hoc ordinavimus unam quaestionem sive disputationem separatam, in qua disputamus numquid sit necessarium dari ideas et an Aristoteles ponat ideas et quomodo ponuntur in Deo. Ideo qui voluerit complete secundum mentem nostram istam materiam eam quaestionem videat». Infatti la Quaestio de universalibus, edita da A. Poppi, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., pp. 95-151, è appunto divisa in due parti, rispettivamente intitolate: An dentur universalia more platonico e An dentur universalia more peripatetico. 108 P. POMPONAZZI, De reactione, I, XIII, 8. 109 P. POMPONAZZI, De reactione, I, III, 14. 110 Ivi, I, XV, 13. 111 Ivi, I, XV, 14 112 Ivi, II, II, 3. 113 Ivi, II, I, 1. 114 Ibidem. 115 Ivi, II, II, 1-3. 116 Ivi, II, II, 4. 117 Ibidem: «Duo vel plura agentia approximata mutuo se assimilare vel simplicter vel secundum quid, sic quod unum faciat alterum actu tale quale ipsum est, et e contra». 118 Ivi, II, III, 2: «impedire simpliciter vel secundum quid agens, quod est aptum agere in tale impedimentum a suo intento». 119 Ivi, II, VI, 1-6.

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Ivi, II, VIII, 2. P. POMPONAZZI, De reactione, I, III, 15. 122 Ivi, I, III, 19, 11, 20. 123 Ivi, II, VIII, 4. 124 Ibidem: «Sed ad probationem quia homo cognoscit omnia, huic dicitur quod hominem aliquem cognoscere distincte omnia est mendacium super omnia mendacia. Quapropter Plato tertio et decimo De Republica dixit: «Dicens se scire omnia aut est extreme fatuus aut callidissimus praestigiator, sed ad illud Averroes dicitur: quod illud fortassis dixit secundum suam fictam opinionem de copulatione intellectus agentis cum possibili in postremo; quae non currit cursu naturali, ut dicit ipse, 36 commento tertii De anima, in naturali autem cognitione hoc non videtur possibile cum hoc quod apud me illa copulatio est impossibilis, ut diximus in examine illius commenti. Secundum tamen veritatem omnia cognoscuntur ab omnibus (collective intelligendo) conceptu communi; distincto autem admodum pauca et a paucis, licet forte anima beata in verbo haec distincte cognoscere possit, ut promittit religio cristiana». 125 P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, in L. OLIVIERI (a c. di), Aristotelismo veneto e scienza moderna, cit., vol. II, p. 1083; A. POPPI, Consenso e dissenso del Pomponazzi con il ‘subtilissimus et religiosissimus Ioannes Scotus’, in M. SGARBI (a c. di), Pietro Pomponazzi. Tradizione e dissenso, Atti del Congresso Internazionale di Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze, Olschki, 2010, pp. 5-6. L’influenza di Alessandro è evidente già nella Quaestio utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., pp. 7-19. 126 Cfr. P. O. KRISTELLER, La tradizione aristotelica nel Rinascimento, Padova, Antenore, 1962, p. 19; Renaissance Concepts of Man and Other Essays, New York 1972 (tr. it. Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1978. pp. 113, 117-118, 121; Aristotelismo e sincretismo, cit., pp. 1077-1099 (in quest’ultimo saggio il precedente giudizio appare in qualche modo attenuato); J. H. RANDALL, Paduan aristotelianism, cit., The School of Padua and the emergence of Modern Science, Padova, Antenore, 1961, pp. 124-127. 127 Ch. LEWIS, The Merton tradition, cit. 128 F. DE TOLEDO, Commentaria una cum quaestionibus in octo libros Aristotelis de physica auscultatione, Venetiis, apud Iuntas, 1576; Benedicti PERERII De communibus omnium rerum naturalium principiis et affectionibus libri XV, Roma, apud Franciscum Zanettum et Bartholomaeum Tosium, socios, 1576; F. SUÁREZ, Disputationes metaphysicae, in Opera Omnia, Paris, Vivès, 1856, t. XXVI. 129 F. BONAMICI, De motu libri X quibus generalia naturalis philosophiae principia summo studio collecta continentur. Necnon universae quaestiones ad libros de physico auditu, de coelo, de ortu et interitu pertinentes explicantur, Florentiae, apud Bartholomaeum Sermartellium, 1591; Hieronymi BORRI, Peripatetica disputalio de motu gravium et interitu, Florentiae, in officina Georgii Marescotti, 1576. 130 I. ZABARELLA, D rebus naturalibus libri XXX. Quibus quaestiones, quae ab Aristotelis Interpretibus hodie tractari solent, accurate discutiuntur, ed. tertia, Coloniae, sumptibus Lazari Zetzneri, 1597. Sui rapporti tra la cinematica pregalileiana e la scienza moderna, cfr. C. B. SCHMITT, Experience and Experiment: a Comparison of Zabarella’s view with Galileo’s ‘De motu’, «Studies in the Renaissance», XVI, 1969, pp. 80-138;. F. P. RAIMONDI, La filosofia naturale di G. Za120 121

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barella e la scienza moderna: connessioni e divergenze, «Physis», XXXI, 1994, pp. 371-391. 131 Sulla assoluta ascientificità delle calculationes oxoniensi, cfr. O. PEDERSEN, The development of natural philosophy 1250-1350, «Classica et Mediaevalia», XIV, 1953, pp. 149-151. 132 Sostanzialmente tale mi pare sia anche la posizione di V. PERRONE COMPAGNI, Introduzione, in P. POMPONAZZI, De incantationibus, Firenze, Olschki, 2011, p. XVIII. 133 Sulle influenze platoniche in Pomponazzi, cfr. A. CORSANO, Il Pomponazzi nella storia religiosa del Rinascimento, «Nuova Rivista Storica», XIX, 1935, pp. 370-378; P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, cit., pp. 1084-1085, 1089-1090. 134 Sebbene si riferisca al caso specifico di conciliare, sia pure in un contesto ironico, la posizione cristiana con quella alessandristica in materia di ricezione dell’universale, il passo della Quaestio utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., p. 15, può essere indicativo di una più generale attitudine eclettica o sincretistica: «Et, domini, ut solvam hoc argumentum faciam sicut faciebat Mahumetus, qui modo istorum dicta, modo aliorum dicta accipiebat ac aggregabat legesque condebat: accidia dicta aliqua christanorum et aliqua dicta Alexandri et rationem solvam». 135 P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 1: «Unde Averroes XII Metaphysicae, commento 51, dixit: «Scientia Dei est secundum contrariam dispositionem nostrae scientiae; nostra etenim causatur a rebus, sed Dei scientia causat res». Huiusmodi autem scientia non est speculativa, cum VI Metaphysicae et III De anima, speculativa non est de agibilibus neque factibilibus; erit igitur factiva, sed faciens per scientiam gerit similitudinem facti, sicut domificator, faciens domum habet similitudinem domus apud se, cum VII Metaphysicae domus extra animam fit a domo in anima. Quapropter si Deus est totius entis factor per suam scientiam factivam, quae non potest esse absque similitudine rei factae; Deus habet similitudinem omnium rerum fiendarum, talis autem similitudo est species. Nihil enim aliud est species quam rei similitudo, ut hic de specie loquimur. Ergo Deus per species omnium entium causat omnia entia». 136 P. POMPONAZZI, De intensione, I, I, 11; cfr. ARISTOTELE, De anima, I, 5, 411 a 4-5. 137 P. POMPONAZZI, Utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, p. 32. 138 P. POMPONAZZI, An anima intellectiva sit unica vel numerata, pp. 65, 75. 139 P. POMPONAZZI, Quaestio de universalibus, in Corsi inediti, II, cit., p. 96: «Ideae nihil aliud sunt nisi immagines et similitudines rei fiendae in mente divina existentes. Sed iste modus certe ponendi ideas non est ille qui ab Aristotele impugnatur… immo Aristoteles ipsemet hunc modum idearum concedit. Unde XII Met., 18, ad calcem, Averroes dicit omnia esse in primo motore, ut primo efficiente tamquam exemplar fiendorum et factorum, et omnia in materia prima sunt in receptibili. Et hoc est evidens, namque sicut in factoris particularis mente prius exemplar rei fiendae esse debet… ita et in mente divina quae factrix rerum omnium et mundi archetipus est agens per intellectum et voluntatem». 140 Si noti come le medesime citazioni di Boezio e dell’Octogintatairus di Agostino siano presenti nella Quaestio de universalibus, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., p. 96.

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P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 2. Ivi, I, 3. 143 Ibidem. 144 Ivi, I, 4. 145 Ivi, I, 7. 146 Ivi, I, 15. 147 P. POMPONAZZI, De incantationibus, III, Basileae 1567, p. 36 (ed. V. Perrone Compagni, p. 24): «Quare nihil inconvenit si idea, quae est in mente nostra, quae est species, producat aliquando suum ideatum secundum esse reale mediantibus instrumentis corruptibilibus, quae sunt spiritus et sanguis, ubi passum fuerit dispositum». 148 P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 8. 149 Tale è l’interpretazione di C. INNOCENTI, Una fonte neoplatonica del De incantationibus di Pietro Pomponazzi: Marsilio Ficino, «Interpres», I, 1997, pp. 440-446, e di F. GRAIFF, I prodigi e l’astrologia nei commenti di Pietro Pomponazzi al De caelo, alla Meteora e al De generatione, «Mediovo», II, 1976, cit., pp. 332, 336. 150 P. POMPONAZZI, De incantationibus, V, pp. 63-64 (ed. V. Perrone Compagni, p. 38): «Sexta dubitatio contingit primum modum positum, quoniam secundum illum modum (immo, et secundum ponentes haec fieri arte daemonum) sic magica et necromantia non minus essent scientiae quam medicina et naturali philosophiae et astrologiae subalternata, quoniam, cum in huiusmodi artibus demones nihil aliud operentur nisi quoniam res naturales, activa scilicet, applicant propriis et proportionatis passivis, quod est opus naturae, et in determinatis temporibus et determinatis signis coeli, quod est astronomicae scientiae, cum scientia naturalis et astronomica non sint hominibus denegatae – quandoquidem per intellectum agente possint omnes species facere et per intellectum possibilem omnes species recipere (sunt enim… istae operationes reductae ad nostram voluntatem) – ergo similes erunt medicinae, agriculturae et aliis consimilibus». 151 Ivi, VI, p. 73 (ed. V. Perrone Compagni, p. 45): «Si magicum appellari licet». 152 Ibidem. 153 Ivi, VI, pp. 76-77 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 46-47). 154 V. PERRONE-COMPAGNI, Introduzione a P. POMPONAZZI, De incantationibus, cit., pp. XVII-XVII. 155 P. POMPONAZZI, De incantationibus, VI, Basileae, 1567, p. 79 (ed. V. Perrone Compagni, p. 47). 156 TOMMASO, De an., Lect. XIV, t. 70. 157 EGIDIO ROMANO, De an., II, text,. 67, Venetiis, impensis Domini Andreae Torresani de Asula, 1500, p. 38vb. 158 P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 13: «Non solum ut sunt instrumenta animae possunt alterare corpus, verum quod sunt immediata principia actionum realium». 159 Ivi, I, 15. 160 AVERROÈ, Phys., VIII, com. 46. 161 P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 16: «Amplius quoniam species non videntur esse instrumenta nisi animae pro eius comprehensione; quod 141 142

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patet quoniam idola et simulacra et imagines nuncupantur quod non est absque anima intelligibile cum respectum dicant ad cognoscens. Quapropter totum esse istarum videtur ordinari ad animam; dempta igitur anima, ad nihil essent species; sed, dempta anima, adhuc esset actio primarum qualitatum ut patet in Praedicamentis, capitulo De ad aliquid, cum dicat, dempto sensibili, aufertur sensus, sed, dempto sensu, non aufertur sensibile. Et Commmentator, commento 125 II De anima, dicit quasi opinatus est quod quaedam sensibilia sunt de capitulo actionis et quaedam relationis. Et quae sunt de capitulo actionis sunt primae qualitates, quare qualitates primae non primo ordinantur in animam. Ex quo sequitur quod, dempta anima, non minus agerent primae qualitates, sed, dempta anima, non essent species». 162 Ivi, I, 18. 163 Fin dai trattati anticalculatori è evidente che il Pomponazzi non è semplicemente un puro esegeta, ma altresì un teoreta. Anche G. DI NAPOLI, Libertà e fato in Pietro Pomponazzi, in Ada LAMACCHIA (a c. di), Studi in onore di Antonio Corsano, Manduria, Lacaita, 1970, p. 175, e P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, cit., p. 1082, si muovono in tale direzione e riconoscono che il compito di Pomponazzi è «in parte filologico e in parte filosofico». Insistere sulla tesi di un Pomponazzi puro esegeta, come fanno E. GILSON, Autour de Pomponazzi. Problématique de l’immortalité de l’âme en Italie au début du XVIe siècle, «Archives d’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Âge», XXXVI, 1961; B. NARDI, Filosofia e religione, cit., e P. O. KRISTELLER, Otto pensatori del Rinascimento italiano, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970) si rischia di perderne di vista l’originalità. 164 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXX, 30. 165 P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, cit., pp. 1090-1093. In realtà non mancano tanto nei corsi accademici, quanto nelle opere a stampa, prese di posizione critica nei confronti dello Stagirita, cfr. Quaestio utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., p. 20: «Et miror de Philosopho qui adduxit hoc argumentum, quod nullius est valoris… argumentum Philosophi est puerile»; p. 21: «Quare miror de Aristotele, fortassis fuit de illis qui aliud sentiunt in anima et aliud scribunt»; Quomodo anima intellectiva sit forma hominis, ivi, p. 42: «Ipse Aristotelis fuit homo et potuit errare»; p. 49: «Nec timeo hoc dicere contra Aristotelem, quia in hoc erravit»; cfr. anche P. POMPONAZZI, De incantationibus, VI, Basileae, 1567, pp. 316, 321 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 165 e 168). 166 Tale specularità tra ordine politico-sociale e ordine cosmico-metafisico è esplicitamente confermata da Pomponazzi. Cfr. in proposito P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. XX, ed. a c. di S. Perfetti, Firenze, Olschki, 2004, p. 113: «Unde fecit deus sicut solent facere reges et domini, qui secreta parva communicant omnibus familiaribus et populo, secreta vero magna et importantia non comunicant nisi illis quos magnopere amant. Quare signum est quod Deus amat magis nomine quam alia mortalia». 167 S. PERFETTI, Introduzione a P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, Firenze, Olschki, 2004, pp. XXXV-XLII. 168 P. POMPONAZZI, Utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, cit., p. 13: «Quam enim cognitionem habet ipse intellectus de ipsis Intelligentiis? Nullam profecto nisi imperfecta et plenam marza…nos cognoscimus sub quibusdam

I. NOTE 162-185

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accidentibus substantiarum abstractarum discorrendo, syllogizando, componendo etc., et modo quo possumus ipsas Intelligentias cognoscimus imperfecte». 169 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. XVIII, cit., pp. 100-103. 170 P. POMPONAZZI, Expositio libelli De substantia orbis, cit., p. 173. Contrario il parere di F. GRAIFF, Aspetti del pensiero di Pietro Pomponazzi nelle opere e nei corsi del periodo bolognese, «Annali dell’Istituto di Filosofia. Università di Firenze», I, 1979, per il quale Pomponazzi ricava «da Platone in particolare… l’idea dell’infinita perfezione della causa prima, una soluzione che risponde in fondo alla tesi, fondamentale nel pensiero del Pomponazzi, della onnipotenza della causa prima, alla quale vengono riportate, attraverso le cause intermedie, tutti i fenomeni del mondo inferiore». 171 P. POMPONAZZI, Questio an anima intellectiva sit unica vel numerata, p. 69: «a causa antiqua potest provenire effectus novus immediate, cum in ipsa nulla rerum vicissitudo, nulla novitas… non enim videtur ergo quod possit produci immediate a Deo… Aristoteles demonstravit quidquid agit, agit mediantibus corporibus caelestibus». Lo stesso concetto è ribadito nella Quaestio de universalibus, pp. 112-113. 172 P. POMPONAZZI, Expositio libelli De substantia orbis, p. 109. 173 Ivi, pp. 189-190. 174 Ivi, p. 117. 175 Cfr. P. POMPONAZZI, Utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, in A. POPPI, Corsi inediti, II, cit., p. 24; Quomodo anima intellectiva sit forma hominis, cit., p. 32 (in quest’ultima Quaestio per esempio Pomponazzi prende le distanze dai ferrarienses et bononienises, che fanno di Dio un principio ontologico); an anima intellectiva sit unica vel numerata, cit., pp. 69, 81, 83, 85; Quaestio de speciebus intelligibilibus et intellectu speculativo, cit., p. 195. 176 P. POMPONAZZI, Quaestio quomodo anima intellectiva sit forma hominis, in cit., pp. 44-47, 61; Expositio libelli De substantia orbis, cit., pp. 54, 87, 105, 130; Utrum Deus sit causa efficiens omnium rerum et non solum finalis, p. 300. 177 P. POMPONAZZI, De actione reali, I, 1. 178 Lo stesso concetto è nella Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. VIII, cit., p. 47. 179 P. POMPONAZZI, Quaestio de actione reali, I, 5: «Si vero solus Deus creare potest, sive ab aeterno, sive de novo». 180 P. POMPONAZZI, Expositio libelli de substantia orbis, cit., p. 126. 181 Cfr. in proposito, P. POMPONAZZI, Utrum Deus sit causa efficiens omnium rerum et non solum finalis, cit., pp. 302-304. 182 Sulla provvidenza coincidente con il fatalismo, cfr. N. BADALONI, Filosofi utopisti, scienziati (P. Pomponazzi, F. Patrizi, B. Telesio, G. Bruno), in N. BADALONI – R. BARILLI – W. MORETTI, Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma, Bari, Laterza, 1973, p. 17; F. GRAIFF, I prodigi e l’astrologia, cit., p. 338. 183 P. POMPONAZZI, Expositio libelli de substantia orbis, cit., p. 111: «In omni genere est unum quod est metrum et mensura omnium existentium in eo… unde peripatetici omnia mensurant penes gradum summum». 184 Ivi, pp. 110-111. 185 P. POMPONAZZI, Utrum Deus sit causa efficiens omnium rerum et non solum finalis, p. 302.

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186 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, cit., p. 108: «Unde sicut luminosum producit lumen et magis participat de luminoso quod magis propinquum est, ita quae magis distant a Deo, minus participant de numine divino et de honestate et pulchritudine… habemus arguere quod illa res est nobilior, quae plus partecipat de divinitate, honestate et pulchritudine. Sed sic est, ut probabimus, quod philosophia naturalis et metaphysica et ispi philosophi inter entia omnia plus participant de divinitate, honestate et pulchritudine». 187 Ivi, p. 109: «Totus mundus dividitur in duas partes, scilicet in partem aeternam et in partem generabilem et corruptibilem… Sed quoniam ista duo sunt duo extrema, et cum de extremo ad extremum non sit transitus sine medio, deveniendum est ad aliquid quod sit partim aeternum, partim caducum et tale est homo, qui medius est inter aeterna et non aeterna… Unde homo est compositus ex duabus naturis, scilicet ex natura terrena et ex natura caelesti». Cfr. in proposito, F. GRAIFF, I prodigi e l’astrologia, p. 340, il quale cita anche l’Expositio super libros de generatione, f. 271r-v; cfr. anche C. INNOCENTI, Una fonte neoplatonica, cit., pp. 460 e 464, la quale cita la Quaestio quomodo philosophia omnia humana excedat. 188 P. POMPONAZZI, De immortalitate, IV, 3; IX, 28; X, 3. 189 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, cit., p. 110: «Homo autem, qui est medius, cui natura et Deus dedit quod respiciat inferiora et superiora, et est imaginandum quod Deus et natura dixerit homini: ‘o homo, ego posui te in medio generabilium et corruptibilium et posui in arbitrio tuo quod possis videre et aspicere aeterna et non aeterna et posui in tuo arbitrio, quod possis te transmutare in Deum et in bestias». 190 Ivi, p. 111: «Tria perpiscua sunt in Deo benedicto, scilicet operatio et factura mundi, regimen eius et intellectio, unde Deus antequam produxit mundum intellexit mundum et habebat ideam et archetipum mundi, ad quam similitudinem produxit mundum ad extra. Nam si non intellexisset istum mundum, non potuisset producere. Cognoscimus ergo Deum ex factura sua, in regimine (quoniam regit istum mundum) et in intellectione. Unde Deus fecit istum mundum, regit istum mundum et intellegit. Unde per intellectum factivum fecit mundum, per intellectum activum regit, per intellectum speculativum intelligit eum. Modo, ut homo assimiletur Deo in istis tribus, Deus dedit homini intellectum activum, intellectum factivum et speculativum. Unde homo est ad similitudinem Dei iuxta illa tria». 191 P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, cit., pp. 1095-1096. A. MAURER, Between and faith: Sigier of Brabant and Pomponazzi on the Magic Arts, «Medieval Studies», XVIII, 1956, p. 18: «Siger and Pomponazzi… they both accept – at least verbally – the truth of the Christian Faith, but faith is kept entirely within its own sphere, which is separated from that of reason. Without vital contact with each other, reason and faith thus go their own way and generally in opposite directions. This divorce between faith and reason, destructive of the theology so dear to the Middle Ages, was the legacy of Averroes to his medieval followers and their most significant contribution to the Renaissance». 192 P. POMPONAZZI, Defensorium, II, 2; V, 8; XXX, 26. 193 P. POMPONAZZI, Apologia, III, I, 1-4. 194 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XV, 8.

I. NOTE 186-224

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195 TOMMASO DE VIO, Commentaria […] in libros Aristotelis de anima, impressum Florentiae in officina Bartholmei Francisci de Libris, sumptibus nobilis viri Federici Strozae, 1509. 196 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXXVII, 11. 197 P. POMPONAZZI, De immortalitate, proem., 1 e XIV, 42. 198 P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 79. 199 Ivi, I, I, 83. Sullo stesso tema, cfr. P. POMPONAZZI, An anima intellectiva sit unica vel numerata, in Corsi inediti, II, cit., p. 69: «Quomodo a causa antiqua potest provenire effectus novus immediate, cum in ipsa nulla rerum vicissitudo, nulla novitas, omnino immobilis, etc». 200 P. POMPONAZZI, Apologia, I, II, 29 e 60; P. POMPONAZZI, Defensorium, V, 18; VI, 31. 201 P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 32; I, II, 93; II, V, 15-19. 202 P. POMPONAZZI, Apologia,, I, I, 55 e 58; P. POMPONAZZI, Defensorium, XIX, 5 e 11. 203 P. POMPONAZZI, Defensorium, XIX, 12. 204 P. POMPONAZZI, Apologia, I, VII, 16. 205 Ivi, II, VII, 7. Cfr TOMMASO, Quaestio de veritate, qu. XII, a. 3, Sum. theol., II-II, qu. CLXXII, a. 1. 206 P. POMPONAZZI, Defensorium, XIX, 11; cfr. anche P. POMPONAZZI, Quomodo anima intellectiva sit forma hominis, in Corsi inediti, II, cit., p. 28. 207 P. POMPONAZZI, Apologia, II, VI, 11. 208 Ivi, 11; II, VII, 15. 209 Ivi, II, VII, 16 e 17; cfr. anche P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIV, 34. 210 P. POMPONAZZI, Apologia, II, VII, 19. 211 Ibidem. 212 Ivi, I, VI, 23. 213 P. POMPONAZZI, Apologia, II, VII, 7; Defensorium, XIV, 16; XIX, 3. 214 TOMMASO, Quaestio de potentia Dei, qu. VI, a. 1; a. 2; TOMMASO, De humanitate Christi, a. 15. 215 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIV, 37. 216 Ivi, XV, 6; Apologia, I, IX, 8; 217 P. POMPONAZZI, Apologia, I, IX, 8. L’argomento, di matrice agostiniana, della resurrezione di Cristo come prova dell’immortalità dell’anima è presente anche nella Quaestio utrum anima rationalis sit immaterialis et immortalis, in P. POMPONAZZI, Corsi inediti, II, cit., p. 10: «Et, domini, ut dicit divus Augustinus, solus Christus, cum ad nos venerit, demonstravit immortalitatem animae intellectivae, quando resurrexit». Cfr. anche P. POMPONAZZI Quomodo anima intellectiva sit forma hominis, in Corsi inediti, II, cit., p. 54. 218 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIII, 8; Apologia, I, II, 90; Defensorium, XX, 18. 219 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIV, 28; Defensorium, XVIII, 1. 220 P. POMPONAZZI, Apologia, I, II, 90. 221 Ivi, II, VII, 5. 222 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIV, 29; cfr. anche XIV, 44; I, 2. 223 P. POMPONAZZI, Apologia, II, V, 15-19; III, III, 14, Defensorium, XX, 22. 224 G. PAGANINI, L’anthropologie naturaliste d’un esprit fort et problèmes pomponaciens dans le Theophrastus Redivivus, «XVII siècle», 1985, p. 352, il

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

quale interpreta la ratio ex sensatis probans come espressione di un «aristotélisme radical»; per G. ZANIER, La biologia teoretica nell’ultima fase del pensiero pomponazziano, in D. FACCA - G. ZANIER, Filosofia, filologia, biologia: itinerari dell’aristotelismo cinquecentesco, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, cit., p. 116, l’ipotesi non è ‘peregrina’. 225 G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., p. 293, A. POPPI, Saggi sul pensiero inedito di Pietro Pomponazzi, Padova, Antenore, 1970, pp. 90-91. 226 Cfr. P. POMPONAZZI, Quomodo anima intellectiva sit forma hominis, cit., p. 49; Quaestio de speciebus intelligibilibus et intellectu speculativo, cit., p. 202; Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. VIII, cit., p. 42. 227 Cfr. in proposito M. DE ANDREA, Fede e ragione nel pensiero del Pomponazzi, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 1946, pp. 278-297. 228 P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 1; Apologia, I, II, 92; cfr. AGOSTINO, Contra Epist. Manichaei, 5, 6. 229 P. POMPONAZZI, Apologia, I, V, 11; Defensorium, XXXVII, 23. 230 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXX, 30: «Absit a philosopho et magis a viro christiano unum in corde, et alterum in ore habere». 231 P. POMPONAZZI, Apologia, III, I, 1; Defensorium, XXX, 30; Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. VIII, cit., p. 48. 232 P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 1; XV, 5; Apologia., I, II, 92, 99 e 100; III, I, 1; Defensorium, XVIII, 3; XIX, 9; XXVI, 8; XXXII, 12; XXXVI, 1, 2; XXXVII, 24. 233 P. POMPONAZZI, Apologia., I, II, 100; III, III, 6. 234 P. POMPONAZZI, Defensorium, XI, 31; cfr. AGOSTINO, In Ev. Ioann., XL, 9. 235 Sulla presenza di ragioni scotiane in Pomponazzi cfr. POPPI, Consenso e dissenso, cit., pp. 11-13. 236 V. PERRONE COMPAGNI, Introduzione, in P. POMPONAZZI, Trattato sull’immortalità dell’anima, Firenze, Olschki, 1999, p. LXXXVIII. Per A. POPPI, Consenso e dissenso, cit., pp. 11-13: «Il fallimento di Tommaso nel voler piegare la ragione a favore della fede non significa che… divenga certissima l’opinione della mortalità: semplicemente ne deriva che qui la ragione incontra meno difficoltà e quindi la conclusione è probabilior».

II. NOTE 1-9 II. IL

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DE IMMORTALITATE ANIMAE E I TRATTATI APOLOGETICI

1 Il testo della bolla si può leggere in G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., 1963, pp. 220-221; B. NARDI, Studi, cit., p. 25. 2 Cfr. G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., pp. 177-264; A. POPPI, Introduzione all’aristotelismo padovano, Padova, Antenore, 1970, p. 22; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi: radical philosopher of Renaissance, Padova, Antenore, 1986, pp. 55 ss. 3 Cfr. P. O. KRISTELLER, Aristotelismo e sincretismo, cit. 4 CH. B. SCHMITT, Aristotle and the Renaissance, Cambridge Massachussets, Harvard Univ. Press 1983; (citiamo dalla traduzione francese: ID., Aristote et la Renaissance, trad. Luce Girad, Paris, PUF, 1992). 5 Ivi, pp. 110-111. 6 Schmitt sottolinea che a partire dalla enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII i tomisti hanno insistito sui fondamenti aristotelici della filosofia di S. Tommaso e, trasformandola in philosophia perennis, ne hanno trascurato la matrice platonica e neoplatonica (Etienne Gilson è un buon esempio di questo punto di vista nel secolo passato). 7 Un rappresentante di questo punto di vista può essere ritenuto, secondo Schmitt, A. R. HALL, The Scientific Revolution 1500-1800: The Formation of the Modern Scientific Attitude, London, Longmans, 1954. 8 P. O. Kristeller, sulla preponderanza del platonismo rispetto all’aristotelismo nella filosofia rinascimentale, segnala che una tesi come questa deve essere sostenuta con molta cautela proprio come quella che si deve tenere quando si afferma che la filosofia medievale ha un fondamento quasi esclusivamente aristotelico a fronte del fondamento platonico della filosofia rinascimentale (cfr. P. O. KRISTELLER, Renaissance Thought and its Sources, New York, Columbia Univ. Press, 1979, pp. 32 ss.). 9 Paul Moraux ha spiegato che la differenza del sostegno testuale dei suoi due fondatori contraddistinse molto presto le tendenze espressive e teoriche dei platonici e degli aristotelici, per le molte differenze che si producevano dentro ciascuno dei due gruppi. Una volta fissata la ‘rinascita’ dell’aristotelismo nel secolo I d. C. con la prima edizione del Corpus Aristotelicum da parte di Andronico di Rodi, la parte più importante della produzione peripatetica era costituita da commentari, parafrasi, epitomi e compendi generali delle opere dello Stagirita o dalle monografie che si basavano sui problemi impostati nel seno di quegli scritti. In nessun’altra scuola dell’Epoca Imperiale si conosce un orientamento analogo a questa. È anche vero che i platonici si dedicarono allo studio dei dialoghi di Platone – o almeno di alcuni di essi – ma al di là della diversità che sussiste entro il platonismo, sembra che gli autori che si riconobbero in questa corrente erano soprattutto impegnati a ricavare dagli scritti di Platone un sistema filosofico. Questo interesse derivava fondamentalmente dalla natura propria dei dialoghi: il loro svolgimento più o meno spontaneo e la polivalenza dei loro contenuti resero necessario un cosiderevole sforzo di confronti, coordinamento e riordinamento in un unico sistema filosofico o almeno in una parte di esso. Tale sistemazione artigianale della filosofia platonica non significa che i platonici non concentrarono la loro attenzione sulla esegesi dettagliata di alcuni dialoghi, come è il caso del Timeo, ma senza dubbio questa attenzione è

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

a stento comparabile con l’enorme sforzo esegetico che si produsse intorno agli scritti di Aristotele. Le ragioni di questa differenza sono spiegate da Moraux sulla base del fatto che mentre in Platone si avvertiva, in una forma più o meno cosciente, la mancanza dell’elemento sistematicamente dogmatico e la costruzione del platonismo era per lo più corrispondente alle esigenze accademiche e alla coerenza filosofica, Aristotele sembrava al contrario dare soddisfazione a questa necessità. Ma non per questo la lettura dei suoi scritti era esente da difficoltà. Anzi, al contrario, l’impiego di un linguaggio pieno di neologismi, di espressioni tecniche originali, di un’aprezza stilistica considerevole e infine di una grande densità speculativa, rendeva l’accesso alla sapienza racchiusa negli scritti di Aristotele qualcosa di straordinariamente difficoltoso e richiedeva un aiuto imprescindibile specialmente da parte dei principianti (cfr. P. MORAUX, La rinascita dell’Aristotelismo del I secolo a. C., in L’Aristotelismo presso i Greci, vol. I, trad. S. Tognoli, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 4-5). 10 Cfr. B. NARDI, I corsi manoscritti di lezioni e il ritratto di Pietro Pomponazzi, in Studi, cit., pp. 77-78. 11 Cfr. B. NARDI, La miscredenza e il carettere morale di Nicoletto Vernia, in Studi, cit., pp. 95-96. 12 M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 41. 13 Cfr. B. NARDI, Ancora qualque notizia sui mss. pomponazziani, in Studi, cit., pp. 288-289; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 43. 14 Cfr. B. NARDI, I corsi manoscritti di lezioni e il ritratto di P. Pomponazzi, cit., pp. 23 ss.; E. GILSON, Autour de Pomponazzi, cit., pp. 212-221; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., pp. 138 ss. 15 B. NARDI, I corsi manoscritti di lezioni e il ritratto di P. Pomponazzi, cit., p. 26. 16 Lo stesso Ambrogio Fiandino pubblicherà la sua risposta nel 1518. Bartolomeo Spina, uno dei più importanti teologi domenicani del XVI secolo, scrisse due trattati contro Pomponazzi, la Tutela veritatis contro il De immortalitate, e il Flagellum contro l’Apologia, entrambi del 1519. Marcantonio Zimara, per non citare altri autori, scrisse un breve trattato che però non vide mai la luce. 17 Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., pp. 128 ss. 18 ARISTOTELE, De an., II, 1, 412 a 29. 19 Ivi, I, 1, 403 a 6-9. 20 Ivi, III, 8, 432 a 9. 21 Ivi, III, 5, 430 a 10-14. 22 ARISTOTELE, De caelo, I, 12, 282 a 25 - 283 b 22; cfr. B. NARDI, Studi, cit., pp. 195-199, dal quale si ricava il frammento del commentario cui qui si fa allusione. 23 P. POMPONAZZI, De immortalitate, Proem., 1: «Carissime praeceptor, superioribus diebus, cum primum De caelo nobis exponeres, pervenissesque ad locum illum in quo Aristoteles ingenitum et incorruptibile converti pluribus argumentationibus contendit ostendere, dixisti Divi Thomae Aquinatis positionem de animorum immortalitate, quamquam veram et in se firmissimam nullo pacto ambigeres, Aristotelis tamen dictis minime consonare censebas». 24 ARISTOTELE, De gen. an., II, 3, 736 b 27-29; cfr. TOMMASO, Sum. Theol., I, q. CXVIII, a. 2, co. 25 Cfr. B. NARDI, Studi su Pietro Pomponazzi, cit., pp. 143 ss.; A. POPPI, Saggi sul pensiero inedito, cit.

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26 P. POMPONAZZI, De immortalitate, IX, 20: «Verum cum ipsa sit materialium nobilissima, in confinioque immaterialium, aliquid immaterialitatis odorat, sed non simpliciter. Unde habet intellectum et voluntatem, in quibus cum diis convenit, verum satis imperfecte et aequivoce, quandoquidem dii ipsi totaliter abstrahunt a materia, ipsa vero semper cum materia, quoniam cum phantasmate, cum continuo, cum tempore, cum discursu, cum obscuritate cognoscat. Quare in nobis intellectus et voluntas non sunt sincere immaterialia, sed secundum quid et diminute». 27 Ivi, IX, 16: «Quapropter potest intellectus reflectere supra se ipsum, discurrere et universaliter comprehendere, quod virtutes organicae et extensae minime facere queunt; hoc autem totum provenit ex essentia intellectus, quoniam, qua intellectus est, non dependet a materia neque a quantitate. Quod si humanus intellectus ab ea dependet, hoc est, ut sensui coniunctus est; quare accidit sibi, qua intellectus est, a materia et quantitate dependere. Unde et eius operatio non est magis abstracta quam essentia; nisi enim intellectus haberet quod ex se posset esse sine materia, intellectio ipsa non posset exerceri nisi modo quantitativo et corporali; at quamvis intellectus humanus, ut habitum est, intelligendo non fungatur quantitate, attamen quoniam sensui coniunctus est, ex toto a materia et quantitate absolvi non potest, cum numquam cognoscat sine phantasmate». 28 Le affermazioni di Galeno circa la natura dell’anima in generale sono per lo più dubbie, anche se è certo che in molte occasioni egli ha espresso un serio sospetto circa l’idea della sua immortalità e della sua indipendenza, perché nella sua esperienza di medico poté comprendere come in tutte le sue operazioni, anche in quelle superiori, l’anima è soggetta alle affezioni corporee: «Questo fa nascere un grande sospetto circa l’essenza dell’anima intera, cioè che essa non sia incorporea. Com’è possibile che si verifichi la sua unione con il corpo contro la sua natura, se non ha né qualità, né forma, né affezione, né potenza del corpo?» (GALENO, Quod animi mores corporis temperamenta sequantur, Kühn IV, p. 788). 29 Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 77. 30 ALESSANDRO, De anima, 83, 3-13. 31 Simile sì, ma non identica, poiché Alessandro concorda con Aristotele (De an., III, 4, 429 a 30) nell’affermare che l’impassibilità dell’intelletto non è come quella dei sensi; perciò egli afferma che l’intelletto materiale, in quanto pura potenza di recepire gli intelligibili, non è realmente in atto: «Per questo l’intelletto materiale è solo una sorta di pura attitudine ad accogliere le forme e somiglia ad una tavoletta non scritta, o meglio al ‘non essere scritta’ della tavoletta» (ALESSANDRO, De anima, 84, 24-28). 32 ALESSANDRO, De anima, 85, 21-24. 33 Ivi, 86, 28. 34 Su questo particolare cfr. PH. MERLAN, Monopsychism, Mysticism, Metaconsciousness: Problems of the Soul in the Neoaristotelian and Neoplatonic Tradition, The Hage, Martinus Nijhoff, 1963, pp. 14-17; 38-47. 35 Cfr. ALESSANDRO, De anima, 90, 12 ss. 36 ARISTOTELE, De an., III, 5, 430 a 10-13. 37 Cfr. F. NUYENS, L’évolution de la psychologie d’Aristote, Louvain, Éditions de l’Inst. Sup. de Philosophie, 1973, p. 317.

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

E. RENAN, Averroès et l’Averroïsme, Paris, M. Lévy, 1882, p. 353. Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 345. 40 Pomponazzi mantiene, senza incertezze, l’anonimato sull’autore e in ogni momento a lui si rivolge come «hic noster Contradictor». Egli incluse anonimamente il suo De immortalitate animae in appendice alla prima edizione dell’Apologia. Più tardi il Contarini scrisse un secondo libro: cfr. G. CONTARINI, Opera, Parisiis apud Sebastianum Nivellium, 1571, in cui il De immortalitate animae occupa le pagine 177-231. 41 Cfr. E. GILSON, Autour de Pomponazzi, cit., pp. 183ss.; B. NARDI, Studi, cit., pp. 23ss.; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, pp. 124-234; ci sia consentito di citare il nostro Estudio Preliminar in P. POMPONAZZI, Tratado acerca de la inmortalidad del alma, Madrid, Tecnos, 2010. 42 Cfr. AMBROSIUS NEAPOLITANUS, De animorum immortalitate a Reverendo sacre theologie doctore magistro Ambrosio Neapolitano episcopo lamosense ... nuper editus liber contra assertorem mortalitatis feliciter incipit, Impressum est hoc opus Mantuae ..., 1519. Sulla posizione dottrinale del Fiandino nella polemica sulla immortalità dell’anima, vedi: E. GILSON, Autour de Pomponazzi, cit., pp. 230-236; G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., pp. 300-301; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., pp. 133-134. 43 Gli Scolastici distinguevano tre tipi di ignoranza. La prima è l’ignotantia simplicis negationis che si attribuisce a chi ignora qualcosa che non ha l’obbligo di conoscere. La seconda è l’ignorantia privationis che si attribuisce a chi ignora qualcosa che dovrebbe sapere. E infine c’è l’ignorantia dispositionis, la quale è attribuita a chi commette l’errore coscientemente ed è colpevole di non voler conoscere una cosa che deve conoscere. (Cfr. A. BLAISE, Lexicon latinitatis Medii Aevi, Corpus Christianorum. Continuatio Medievalis, Turnhout, Brepols, 1975). 44 P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 6: «Amplius si ipsam intellectionem inspexeris, maxime eam, quae de Diis est, quid de Diis? Immo de ipsis naturalibus et quae subiacent sensui, adeo obscura adeoque debilis est, ut verius utraque ignorantia, scilicet negationis et dispositionis, nuncupanda sit quam cognitio. Adde, quantum modicum temporis apponant circa intellectum et quam plurimum circa alias potentias; quo fit, ut vere huiusmodi essentia corporalis et corruptibilis sit vixque sit umbra intellectus. Haec etiam videtur esse causa, cur ex tot mille hominibus vix unus studiosus reperiatur et deditus intellectuali». 45 P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 29: «Si namque teneamus illam reunitionem, cum in statu isto secundum naturam nullus possit esse felix, ut concedit positio et experimentum docet, ubi igitur, quaeso, erit illa requies? Fietque infinities de bona mala, et de mala bona? Anima igitur bona hoc de se cognoscens, quantis igitur praemetur angustiis, cum sciat se redituram tandem in malam? Rexque dubitabit fieri servus, dives mendicus, gloriosus infamis, et sic discurrendo? O ridiculosa et infelix felicitas! O voluntas inquietissima! O timor et spes aeterna!» 46 Cfr. P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 22. 47 La questione rinvia al complesso tema teologico relativo alla creatio nova se cioè essa presuppone una novità nella causa creativa, tale da compromettere l’impassibilità e l’immutabilità proprie di Dio. Il tema sarà effettivamente trattato nell’opera che viene preannunciata nell’Apologia (Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione), la quale fu completata da Pomponazzi nel 38 39

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corso del 1520 (appena due anni dopo la pubblicazione dell’Apologia); senza dubbio l’autore non riuscì a farla stampare durante la vita; ma essa trovò di contro un’ampia e rapida diffusione attraverso i manoscritti: cfr. V. PERRONE COMPAGNI, Critica e riforma del cristianesimo nel De fato di Pomponazzi, in P. POMPONAZZI, Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, Saggio introduttivo, traduzione e note di V. Perrone Compagni, testo latino di R. Lemay, Milano, Nino Aragno, 2004. 48 Cfr. P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 94: «Anima humana non est intellectus nisi per participationem, ergo non erit immortalis nisi per participationem; non igitur erit absolute immortalis». 49 ARISTOTELE, Phys., V, 1, 224 a 30-33. 50 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XII, 3: «Etsi inter proprie et improprie non datur medium, tamen per participationem proprietatum datur medium; sicuti licet inter substantiam et accidens non detur medium –nihil enim est, quod non sit vel substancia vel accidens–, tamen aliquid ponitur participare de proprietatibus utriusque; sicut et moveri secundum partem ponitur medium inter moveri per se et moveri per accidens, ut dicitur quinto Physicorum. Quare animus humanus, etsi improprie dicatur immortalis, quia vere mortalis est, participat tamen de proprietatibus immortalitatis, cum universale cognoscat, tametsi eiusmodi cognitio valde tenuis et obscura sit». 51 P. POMPONAZZI, Apologia, I, II, 4. 52 Cfr. P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 23. 53 P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 22: «Quomodo igitur fieri poterit, ut sit actus et perfectio materiae, cum tale, scilicet actus materiae, sit, non quod est, sed quo aliquid est, ut patet septimo Metaphysicae? Quodsi dicitur hoc esse peculiare animae intellectivae, hoc est valde suspectum et voluntario dictum. Sic etiam Averroistae dicere possent, quod anima intellectiva est forma dans esse et non tantum operari. Cuius oppositum ipse credit secundum eos. Esset quoque difficultas de esse compositi, quod ponitur distinctum ab esse animae: quod est illud esse et quod corrumpitur. De quo etsi ipsi multa dicant, fateor me eorum verba tenere, sed non sensum». 54 P. POMPONAZZI, Apologia, I, III, 2. 55 Ibidem. 56 P. POMPONAZZI, Apologia, I, III, 9: «Forte dicitur sermonem intelligendum esse de potentiis et non essentiis. Verum istud nedum impossibile, verum et absurdum esse videtur, quandoquidem essentia et potentia sunt inseparabilia, sive potentia ponatur identificari essentiae, sive eius accidens. Quod si iterum dicatur sensitivas potentias et vegetativas post separationem remanere in anima, sed non fungi proprio officio, quoniam eis desunt propria instrumenta, sed quid stultius, quidve magis in philosophia dici potest irrationabilius, quam potentiam in aeternum non posse uti suo munere, vixque per instans possit exire in opus? Sic etenim tempus accidentale esset infinitum, naturali existente momentaneo». 57 TOMMASO, Sum. theol., I, qu. LXXVI, a. 5, ad. 2; Sent., II, dist. I, qu. II, a. 5, ad. 4; Sum. contra Gent., II, 69, n. 5. 58 P. POMPONAZZI, Apologia, I, III, 25-26: «Inimaginabile enim est quod aliquid perficiat aliquod, et eius accidentia non perficiant illud, essentia namque unitur materiae propter operationem. Sed forte dicitur quod humanus animus non perficit materiam secundum gradum intellectivum, quoniam intellectus

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nullius corporis est actus, sed tantum secundum vegetativum et sensitivum, quoniam sunt actus corporis physici organici. Hancque responsionem dare videtur Divus Thomas in plerisque locis. Respondens namque quod intellectus videatur esse organicus, quoniam est actus corporis organici, dicit quod non actuat nisi ratione sensitivae et vegetativae. Hoc autem mea quidem sententia penitus est irrationabiliter pronuntiatum. In primis quidem, quoniam haec materia essentialiter actuatur ab hac anima quae secundum positionem est intellectus; igitur realiter intellectus est actus corporis». 59 Ivi, III, 52. 60 Ibid. La forma dubitativa con la quale si esprime Pomponazzi con questo argomento può essere dovuta al fatto che implicitamente rappresenta una modificazione del discorso che era stato sviluppato nel De immortalitate animae sulla natura dell’intelletto umano del quale si diceva che subiective non dipende dal corpo (cioè non ha un sostrato organico come quello della facoltà sensibile), ma ne dipende solo obiective (cioè ha bisogno delle immagini sensibili per espletare la sua funzione). Di fatto, su questo testo dell’Apologia ha richiamato l’attenzione Giovanni di Napoli (cfr. L’immortalità dell’anima, cit., p. 293) per sottolineare come nel pensiero di Pomponazzi può scorgersi una tendenza più naturalistica e più materialistica di quella che gli si attribuisce o quanto meno è in contraddizione con i principi dell’aristotelismo il fatto che l’intelletto abbia una costituzione corporea. Alla medesima conclusione è giunto anche Antonino Poppi: cfr. Saggi sul pensiero inedito, cit., pp. 90-91. 61 P. POMPONAZZI, Apologia, I, III, 78: «Dicit enim manifestum esse humanas animas esse immateriales et multiplicatas, verum dubium esse de earum praecessione quo ad corpus. Sed, vir doctissime, animae secundum tenentes esse immateriales et multiplicatas distinguuntur per materias, veluti Avicenna, Thomas, reliqui confitentur; cum itaque distinctum non praecedat distinguens, quomodo igitur animae poterunt praecedere suas materias?». 62 Cfr. P. POMPONAZZI, Apologia, I, IV, 2: «Nam posteaquam Aristoteles comparavit intellectum sensui quantum ad ea in quibus conveniunt, faciens deinde intellectum differre a sensu dicit: ‘Necesse est ipsum’, scilicet intellectum, ‘esse immixtum et immaterialem’». 63 Ivi, V, 2: «Anima igitur tantum praeconizata ut immaterialis et divina dicatur quo modo tam vilia opera tamque foeda exercere poterit. Qui igitur fieri poterit ut materiae nullo modo misceatur, cum tamen habeat innumeras operationes penitus materiae immersas, vixque una a materia separata ei attribuatur?». 64 Ivi, VI, 2. 65 Ivi, VI, 13. 66 P. POMPONAZZI, Apologia, I, VII, 1. 67 Ibid. 68 Ivi, VII, 5: «Dicimus itaque intellectum et posse praecedere, et posse subsequi corpus, loquendo de intellectu per se; cum enim nullus intellectus indigeat corpore ut subiecto, non sibi repugnat qua intellectus est, et praecedere, et subsequi, veluti omnis motus, qua motus est, potest in infinitum velocitari et tardari, ut VI Physicorum dicitur, at qua humanus, neque potest praecedere, neque subsequi, cum simul sit et non sit cum corpore». 69 P. POMPONAZZI, Apologia, I, VIII, 1. 70 Ivi, VIII, 5.

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Ivi, VIII, 11. Si tratta in entrambi i casi di veri topos della filosofia platonica, molto presenti per esempio nella Theologia platonica di Marsilio Ficino. Ad essi Pomponazzi risponde in diversi momenti del De immortalitate animae sulla base della premessa che la natura intermedia dell’essere umano non è in sé garanzia di immortalità; anzi al contrario, l’uomo è collocato nell’ordine degli esseri mortali, perché essendo la natura più perfetta di questo ordine non partecipa in alcun modo delle entità superiori: cfr. MIGUEL A. GRANADA, Cosmología, religión y política en el Renacimiento. Ficino, Savanarola, Pomponazzi, Maquiavelo, Barcelona, Anthropos, 1988, pp. 196ss. 73 P. POMPONAZZI, Apologia, I, X, 1. 74 Ivi, II, I, 1: «Superest modo ut in hoc secundo volumine ad reliquos respondeamus, qui etsi nostrae adversentur opinioni, rationabiles tamen sunt, cum dictorum suorum causas assignent». 75 Cfr. ARISTOTELE, De an., II, 2, 413 b 25-27. 76 Ivi, II, 1: «cum ipsa intellectiva dicatur esse potior et nobilior, debemus tenere ipsam immaterialem et immortalem penes operationes intellectivas, et non vegetativas et sensitivas, quia ipsae intellectiva includuntur tamquam in perfectiori». 77 Cfr. P. POMPONAZZI, De immortalitate, VIII, 5. 78 P. POMPONAZZI, Apologia, II, III, 2. 79 Ivi, III, 3: «Dicimus enim quod quilibet homo habet aliquid rationis, verum cum illud sit oblaesum et diminutum, operationibus vegetativae et sensitivae integris remanentibus, non vere est immortalis, licet vere sit rationalis, veluti dictum est». 80 Ivi, III, 4. 81 Ivi, IV, 3. 82 P. POMPONAZZI, Apologia, II, V, 1. 83 E di fatto questo spiega sicuramente perché Pomponazzi non riuscì a stampare la sua opera De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, scritta 1520 ma pubblicata postuma nel 1556 nella città di Basilea. Questa è in realtà l’unica opera del Peretto ufficialmente condannata, poiché occupa una sua posizione nel famoso Index dei libri proibiti (Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 239; M. BERTOLOTTI, «Pomponazzi tra streghe e inquisitori. Il De incantationibus e il dibattito sulla stragoneria intorno al 1529», in M. SGARBI (ed.), Pietro Pomponazzi. Tradizione e dissenso, Firenze, Olschki, 2010, pp. 385-406). 84 P. POMPONAZZI, Apologia, II, V, 10. 85 P. POMPONAZZI, Apologia, III, I, 1: «Statim ipsi Ambrosio litteras dedi, admonuique ipsum in primis mihi falsum ascribere, videlicet me affirmare humanos animos esse mortales, quandoquidem paratus sim mori pro animorum immortalitate». 86 Agostino Nifo, antico collega di Pomponazzi nella Università di Padova scrisse, in effetti, un De immortalitate animae adversus Pomponatium, stampato originariamente nel 1518, il quale meritò da parte di Pomponazzi una estesa risposta nel Defensorium del 1519. Per uno studio sulla polemica tra Nifo e Pomponazzi vedi: JOSÉ M. GARCÍA VALVERDE, Introduzione, in A. NIFO, L’immortalitá dell’anima, a c. di J. M. García Valverde e F. P. Raimondi, Torino, Aragno, 2009; ID., Nifo versus Pomponazzi: la discusión exegética sobre los textos aristotélicos”, in M. SGARBI (ed.), Pietro Pomponazzi cit., pp. 181-215. 72

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87 P. POMPONAZZI, Apologia, III, 3, 29: «Sed quod dependet ex mera Dei voluntate, a creatura sciri non potest nisi ipso manifestante. Non igitur ex puris naturalibus tenemur studiose operari propter paradisum, quandoquidem quod ex studiosis operibus paradisus consequatur sciri non potest nisi ipso revelante; igitur quod studiose operemur propter paradisum est ex sola fide cognitum, non igitur ex natura». 88 P. POMPONAZZI, Apologia, III, 1, 4. 89 Ibid.: «Ast tunc ego ad Ambrosium dixi: hanc rem non mihi ingratam fore existimaret; sciebam enim nihil nisi doctum ab Augustino conflari posse. Quare si me falsum dixisse monstraverit, Deo in primis, deinde ipsi Augustino immortales gratias habebo, quod a tanta caecitate me liberaverint. Si autem, veluti spero, ipsum errare monstravero, maiorem laudem mihi parabo, quapropter, quomodocumque se habebit res, in lucrum deputabo. Haec itaque sunt quae adversus me Ambrosius Episcopus attulit et haec est sua disputatio». 90 P. POMPONAZZI, Defensorium, IV, 5: «Verum suum erat magis rationibus hoc ostendere, ut decet philosophum, et maxime gravissimum, qualem se praedicat. Quod autem haec omnia tam graviter, tam luculente, tam denique copiose habeantur in illis libris ab eo editis, neque affirmo, neque nego. Deus enim et conscientia mea testes sunt me numquam aliquid huius viri legisse, nisi tantum hunc tractatum ad quem respondere rogatus sum». 91 Cfr. G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., pp. 325-326; M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., pp. 128-129. 92 Tanto la lettera di Pomponazzi quanto le Solutiones di Javelli sono effettivamente presenti in appendice alle due edizioni del Defensorium. 93 Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 153. 94 Cfr. GIROLAMO, In librum Job, Preaf. (PL, XXVIII, 1079a). 95 Cfr. AGOSTINO, In Ioann. VI, 44 (PL, 35, 1607); TOMMASO, Sum. theol., I, qu. CXI, a. 1, ad 1. 96 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXX, 30: « Quod autem postea dicit secundum Catholicos iam hoc protestati sumus, quod quicquid affirmat Scriptura Canonica, illud sine dubio ponimus, dicimusque rationes naturales, et quicquid est dictum per Aristotelem, adversus eam Scripturam esse vanum, cassum et nullius momenti. Sed hoc non est de quo est disceptatio. Quod quaeritur est quid senserit Aristoteles, quidve per rationes naturales de hoc haberi potest; ut namque inquit Hieronymus in Prologo Super librum Iob, aliud est officium interpretis, aliud vero vatis. Ex mandato enim Leonis X et Senatus Bononiensis teneor legere, interpretari et secundum iudicium meum sententiare quid senserit Aristoteles, quid per principia naturalia haberi potest, et de hoc quaesito et de aliis astrictus sum ex iuramento fideliter mentem Aristotelis aperire. Mandata sequor, iuramentum observo. Non est nostri arbitrii dicere ‘Aristoteles sic vel non sic tenuit’, sed iudicium sumitur ex rationibus et verbis suis. Secundum enim suas rationes oportet iudicare. Ast quae sunt fidei, quoad credere nostra sunt, ut namque dixit Augustinus, nullus credet nisi volens. Cum itaque haec credere redacta sint ad voluntatem nostram, ideo haec credo, haec praedico, haec observo, pro hisque paratus sum crucem subire cum Domino Iesu Salvatore nostro, me ipsum abnegare, ingenium captivare in servitium Domini mei. Ast alia non sunt in potestate nostra. Datis enim praemissis, si consequentia conceditur, non est nostrum dissentire conclusioni. Bene est nostrum non considera-

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re, sed non est nostrum, si concedamus antecedens, ut negemus consequens. Absit a philosopho et magis a viro christiano unum in corde, et alterum in ore habere. Cum itaque officium nostrum sit Aristotelem interpretari, sicque mihi videtur Aristotelem intellexisse et quod nullo alio modo intellexit. Mentiar ne, ut aliter dicam quam sentiam, at scandalum est audientibus: ipsi non audiant, vel me legere prohibeant. Mentiri nolo, minus volo esse infidelis, bonis haec non sunt scandalum, sed malis. Quare obsecro hos viros qui in tabernis et in conventibus virorum vulgarium me de haeresi damnant iam suis latratibus finem imponere, longe enim maiorem haeresim ipsi profitentur, cum innocentem accusent. Verum aequalem et parem verbis vitam ducunt. Sunt enim viri flagitiosissimi, adulatores, detractores, invidi, inflati, omnique vitiorum genere referti». 97 Cfr. P. POMPONAZZI, Defensorium, XXXVI, 2-3. 98 Per un’analisi più dettagliata della struttura e dei contenuti dell’opera si può vedere l’Introduzione alla nostra edizione del De immortalitate di Nifo: cfr. A. NIFO, L’immortalità dell’anima, cit., pp. XIII sgg. 99 P. POMPONAZZI, Defensorium, II, 4. 100 Ivi, XX, 22. 101 Cfr. A. NIFO, L’immortalità dell’anima, cit., pp. XXXV sgg. 102 P. POMPONAZZI, Defensorium, V, 10: «quare proprie Intelligentia ab eo caelo non dependet, quanto minus Deus a creaturis. At humanus intellectus effective movetur a phantasmate, phantasmaque ipsum non habet esse effective ab humano intellectu, quare longe dispar est inter ea similitudo». 103 Ivi, V, 18. 104 P. POMPONAZZI, De immortalitate, X, 13: «Ibi enim dicit Aristoteles, quod solus intellectus agens vere est immortalis et semper est in actu, passivus vero non, cum quandoque intelligat et quandoque non. Quare cum perpetuam non habeat operationem, neque perpetuam habet essentiam; unde ad rationem dicitur, quod intellectus possibilis est secundum quid immortalis, sed ipse agens vere immortalis est, cum sit una intelligentiarum; neque ipse est pars aliqua humanae animae, sicut Themistius et Averroes existimaverunt, sed tantum motor». 105 Ivi, 14: «Sic intellectus humanus, cum eam proportionem habeat in genere intelligibilium, qualem habet materia prima in genere sensibilium, ut etiam Themistius et Averroes confitentur, movebitur ad suscipiendum omnes species ab aliquo, quod non est pars eius neque ei coniunctum; et hoc dicitur intellectus agens, sicut quod universaliter movet materiam, dicitur movens naturale». 106 M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 77. 107 Il fatto che il Pomponazzi respingeva la psicologia di Averroè, proprio per la mancanza di un supporto aristotelico, non significa che egli rinunciava a tutti e a ciascuno degli elementi presenti nella sua particolare lettura del De anima o che derivano in maniera più o meno diretta da essi. Questa osservazione è stata fatta chiaramente da Antonino Poppi (Saggi sul pensiero inedito, cit., p. 54) e più recentemente da Leen Spruit, il quale pone la questione della influenza di Averroè su Pomponazzi su un piano più generico: in effetti il rapporto tra il Commentatore di Cordova e le personalità più accreditate dell’aristotelismo rinascimentale si è concentrato in modo quasi esclusivo nella respinzione da parte del primo della immortalità individuale e spesso si è trascurato o si è sottostimato il gran numero di riferimenti averroistici che le dottrine gnoseologiche di questi filosofi contengono: cfr. L. SPRUIT, Species Intelligibilis: From Percep-

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tion to knowledge, vol. II: Renaissance Controversies, Later Scholarship, and the Elimination of the Intelligible Species in Modern Philosophy, Leiden, Brill, 1995, pp. 95-96. 108 Cfr. G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima, cit., p. 261. 109 P. POMPONAZZI, De immortalitate, X, 13. 110 Ivi, X, 14. 111 P. POMPONAZZI, De immortalitate, IX, 20: «cum ipsa sit materialium nobilissima in confinioque immaterialium, aliquid immaterialitatis odorat, sed non simpliciter. Unde habet intellectum et voluntatem, in quibus cum diis convenit, verum satis imperfecte et aequivoce, quandoquidem dii ipsi totaliter abstrahunt a materia, ipsa vero semper cum materia, quoniam cum phantasmate, cum continuo, cum tempore, cum discursu, cum obscuritate cognoscat». 112 Cfr. V. PERRONE COMPAGNI, Introduzione a P. POMPONAZZI, Trattato sull’immortalità dell’anima, cit., p. LXVI. 113 Cfr. P. POMPONAZZI, Apologia, I, 6, 2. 114 ARISTÓTELES, De anima, III, 5, 430a23. 115 P. POMPONAZZI, Apologia, I, 6, 2: «Si primum – inquit – manifestum etiam est id facere pro immortalitate, et quamvis ipse non declaret hoc, puto tamen deductionem esse, quoniam si agens et possibilis sint partes animae, sive sint essentiales, sive potestativae, apertum est si una illarum est aeterna, et altera erit aeterna. Si vero ponamus non esse partem animae, quod dicit sibi placere magis, non minus sequitur intellectum possibilem esse immaterialem, neque littera destruitur». 116 Ibid. 117 Ibid. 118 P. POMPONAZZI, Apologia, I, 6, 4. 119 ARISTÓTELES, De anima, III, 5, 430 a 24. 120 P. POMPONAZZI, Apologia, I, 6, 12: «Agens namque intellectus vere immortalis est, quoniam semper actu est, et est sua scientia; quare et actionem et esse habet perpetua. Possibilis autem intellectus, cum nullius corporis videatur esse actus, qua intellectus est, neque in suo opere indiget organo ut subiecto, videtur etiam esse immortalis; unde et post mortem videtur posse reminisci, extendendo nomen reminiscentiae ad intellectionem praeteritarum». 121 AVERROES, In De an., III, comm. 20, ed. Crawford, p. 449. 122 Ibid. 123 Delle diverse traduzioni latine riprodotte nell’edizione latina Apud Iunctas, questa è quella denominata Antiqua translatio, la quale non è altro che la versione di Guglielmo di Moerbeke, accolta anche da S. Tommaso nel suo commento: cfr. F. E. CRANZ, «The Renaissance Reading of the De Anima», in J.C. MARGOLIN e M. DE GANDILLAC (eds.), Platon et Aristote a la Renaissance, XVIe Colloque International de Tours, Vrin, Paris, 1976, pp. 359-376. 124 D. Ross cita nella Introduction della sua edizione della Metafisica alcune di queste letture, anche se curiosamente non tiene conto di quella di Averroè: cfr. ARISTOTLE, Metaphysics, vol. I, Oxford, Clarendon Press, 1997, p. CXLVII. 125 ALESSANDRO, De anima, 85, 20-25. 126 In realtà, si tratta di una obiezione seria che frequentemente si fa agli averroisti. Imponendo come soluzione definitiva delle difficoltà esegetiche dei testi aristotelici l’assoluta impersonalità del noûs, essi non potevano in alcun

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modo dar conto della individualità del pensiero e più in generale della dignità della persona: cfr. A. POPPI, Introduzione all’aristotelismo padovano, cit., p. 37. 127 P. POMPONAZZI, Apologia, II, 4, 3: «Secundo, quoniam in capitulo decimo dicitur intellectum agentem non esse formam, sed tantum motorem. Sed oritur dubium, quoniam sic ponendo non erit in potestate nostra abstrahere». 128 P. POMPONAZZI, Apologia, II, 5, 3: «Ad secundam autem dubitationem dicimus quod, veluti intelligere est in potestate nostra, sic et abstrahere, nam quemadmodum intelligimus quando volumus, semper praesupposito actu naturali intellectus, cum intellectus simpliciter sit prior voluntate, saltem origine, sic abstrahimus quando volumus, praesupposito tamen actu abstractionis simpliciter. Aliter enim non daretur prima abstractio, sicut manifestum est. Est tamen differentia inter intellectionem et abstractionem, quoniam intellectio formaliter est in intellectu possibili, qui est pars nostri, ast abstractio est intellectus agentis, tamquam producentis et denominati, qui non est pars nostri. Verum dicimur abstrahere quando volumus, quoniam in nostra potestate est applicare nos abstractioni, veluti dicimus ‘calefimus quando volumus’, quoniam est in potestate nostra nos applicare calefacienti, quamquam calefaciens non sit in nobis, licet illa propositio, scilicet ‘abstrahimus quando volumus’, sit Averrois et non Aristotelis». 129 Cfr. AVERROES, De an., III, comm. 36, ed. Crawford, p. 495. 130 P. POMPONAZZI, De immortalitate, XIV, 6. 131 Cfr. POMPONAZZI, Apologia, II, 5, 4. 132 Cfr. L. BIANCHI, Studi sull’aristotelismo del Rinascimento, Padova, Il poligrafo, 2003, pp. 81-83. 133 Per ovvie ragioni di spazio non possiamo addentrarci qui nell’interessante dibattito che ha avuto come protagonisti Bianchi e Perrone Compagni sulla questione se la proposta di Pomponazzi presupponga una differenziazione ontologica all’interno della specie umana. Pur essendo i filosofi veri uomini rispetto alla semibestialità degli altri loro simili o pur costituendo quasi una specie di superuomini, la verità è che dal punto di vista della filosofia aristotelica tutti possediamo, secondo Pomponazzi, un’anima mortale. Su questo punto non c’è differenza intraspecifica; altra cosa è la perfezione che si può ottenere nelle attività proprie delle diverse funzioni psichiche e in concreto in quelle proprie dell’anima razionale. 134 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXXVI, 9. 135 A. NIFO, L’immortalità dell’anima, cit., p. 373. 136 Ibid. 137 A. NIFO, L’immortalità dell’anima, cit., p. 376: «At anima post obitum intelligit etiam per easdem species in ipsa reservatas, non tamen ut repraesentant universalia in phantasmatibus, sed ut repraesentant universalia simpliciter; quo argumento fit ut ipsa, licet per species intelligat, tamen non per intelligere conversum ad phantasmata». 138 P. POMPONAZZI, Defensorium, XXX, 10: «modo quid oportet quaerere an anima post mortem convertatur ad phantasmata, si iam conclusum est ipsam phantasiam non esse et ad nihil nulla potest esse conversio?» 139 Ivi, XXX, 11. 140 A. NIFO, L’immortalità dell’anima, cit., p. 165. 141 P. POMPONAZZI, Defensorium, X, 10: «Vera autem immaterialitas est in

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

abstractis per quorum participationem intellectus humanus habet de immaterialitate, quoniam est suprema formarum materialium». 142 Cfr. A. POPPI, Saggi sul pensiero inedito, cit., p. 65. 143 Cfr. M. L. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 23. 144 Le Quaestiones, in effetti, toccano direttamente tematiche afferenti alla immortalità e immaterialità dell’anima intellettiva, la costituzione della specie intelligibile e il ruolo che ha in esse l’intelletto speculativo: cfr. P. POMPONAZZI, Corsi inediti dell’insegnamento padovano, vols. 2, a c. di A. Poppi, Antenore, Padova, 1970. Intorno a questi scritti nel corso del secolo XX si è sviluppato tra gli studiosi della filosofia di Pomponazzi un interessante dibattito sulla questione se si può parlare di una evoluzione del Peretto da un iniziale averroismo fino ad un aperto alessandrismo. Già B. NARDI, Studi, cit., p. 168, aveva segnalato che la posizione di Pomponazzi in quegli scritti, datati tutti entro la prima decade del XVI secolo, poteva riassumersi in quattro punti: a) accettazione della gnoseologia di Averroè come interpretazione fedele dei testi aristotelici sulla questione; b) respinzione della posizione di Duns Scoto secondo cui dal punto di vista aristotelico il tema dell’immortalità dell’anima è un problema indefinibile (problema neutrum); c) la posizione aristotelico-averroista salva l’immortalità dell’intelletto affermando la sua unità e la sua separazione essenziale dall’anima umana, alla quale si unisce non come forma informante, ma come motore estrinseco; questo significa per Pomponazzi che tale posizione non è in grado di salvaguardare l’unità totale dell’essere umano; d) ci sono alternative capaci di spiegare questa unità integrale e tra queste occupa un posto rilevante la posizione di Alessandro di Afrodisia. In seguito A. POPPI, Saggi sul pensiero inedito, cit., pp. 90-91, ha approfondito e completato questa analisi giungendo alla conclusione che tra le Quaestiones e il Tractatus de immortalitate animae (1516) non c’è una vera e propria evoluzione: la posizione di Pomponazzi è alessandristica sia all’inizio che alla fine, e questo, sottolinea Poppi, perché «il Pomponazzi aveva già scelto a Padova la sua strada di un materialismo antropologico con il quale doveva coerentemente accordarsi un sensismo gnoseologico».

III. NOTE 1-11 III.

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L’ESPLORAZIONE DELL’ANIMA VEGETATIVA

1 Lettera a Domenico Grimani: «Cum itaque ea die, qua Ioannes Antonius Saracenus… per nuntium de tam expectata electione certiorem fecisset, nescio qua sorte contigerit, ut omnium quaestionum difficillimam de augmento examinare coeperim». 2 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XVII, 5; I, XXV, 18. 3 P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 40, 55, 62; I, II, 20; I, III, 30, 60, 91, 92; I, IX, 1, 8; II, VII, 7; Defensorium, V, 18; VI, 31; XIX, 9. 4 P. POMPONAZZI, Apologia, I, III, 91: «Ulterius autem dictus Contradictor nos arguebat quoniam diximus immortalitatem animae sola fide et miraculis esse probandam. Dicit ipse nihil prohibere alicuius esse scientiam per se cuius tamen est fides per accidens, appellans eorum fidem per accidens, iuxta modum loquendi Divi Thomae, quae non sunt directe articuli, sed tantum ad articulos consequuntur, qualem dicit esse animae immortalitatem: hoc enim in Symbolo non ponitur, sed tantum ad mortuorum resurrectionem sequitur, quae manifeste in Symbolo cantatur». 5 P. POMPONAZZI, De immortalitate, I, IX, 91 e I, I, 1. 6 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. XVIII, pp. 100-101: «Et dicit [Aristoteles] quod illae substantiae quae sunt aeternae, ut Deus et Intelligentiae et corpora celestia, parum a nobis possunt intelligi, quoniam quidquid homo conosci, per sensum conosci; sensus autem… est accidentium… Sed Deo nihil accidit et Deus non habet accidentia. Similiter de Intelligentiis… Unde Diogenes videns semel duos disputantes de celo, Diogenes dixit illis: ‘Quando venistis de celo, ut sciatis dicere de eo?’». Giustamente R. RAMBERTI, Esegesi del testo aristotelico e naturalismo nel ‘De nutritione et augmentatione’, in M. SGARBI (a c. di), Pietro Pomponazzi. Tradizione e dissenso, cit., p. 321, rileva che tale impostazione deriva da Aristotele, De partibus animalium, I, 5, 644 b 22-27. 7 R. RAMBERTI, Esegesi del testo aristotelico, cit., pp. 316-317, ritiene che Pomponazzi «scelse di ripubblicare soltanto opere già edite», svolte «secondo i procedimenti della filosofia aristotelica». 8 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, I, lect. XVIII, p. 101: «Licet ita sit quod paucam scientiam possimus habere de eis, tamen talis scientia est maxime amplectanda et desideranda, quoniam maxime delectamur in ista scientia; et esto quod obscure cognoscatur de Deo et Intelligentiis, nulla tamen delectatio est adeo excellens quam talis, quia nihil Deo nobilius; ideo scientia de Deo nobilissima. Post scientiam divinam est scientia naturali, quae comprehendit et de Deo et de generabilibus et corruptibilibus». 9 Ivi, I, lect. XVIII, p. 102. Cfr. in proposito le acute osservazioni sulla asimmetria tra metafisica e scienza naturale di S. PERFETTI, Introduzione a P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, cit., p. LV. Se di asimmetria si tratta, non sembra che si possa parlare di «stretta unione della scientia divina con la scientia naturalis», tanto che «i due ambiti finiscono per essere sovrapposti» (Cfr. R. RAMBERTI, Esegesi del testo aristotelico, cit., p. 322). 10 P. POMPONAZZI, De incantationibus, lettera a Ludovico Panizza, Basileae, 1567, p. 2 (ed. V. Perrone Compagni, p. 4). 11 Ibidem.

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

Che la via peripatetica sia ricostruita per verisimiglianza è chiaramente esplicitato sia nel capitolo III («petis… quid verisimiliter de hoc Aristotelem sensisse») che nella Peroratio («Habes itaque… quae, ut mea fert opinio, Peripatetici aad ea quae quesivisti dicere verisimiliter haberent. Habes et quae veritati et religioni christianae consana sunt»). Generalmente gli studiosi ritengono che il ricorso alla causalità astrologica permetta «di ricondurre anche i miracoli all’ambito naturale» (G. ZANIER, La biologia teoretica, cit., p. 110), ma non va trascurato il fatto che essa presuppone in realtà l’azione di Intelligenze astratte che sono di natura metafisica, come lo stesso Zanier non manca di sottolineare. 13 P. POMPONAZZI, De incantationibus, I, Basileae, 1567, p. 6 (ed. V. Perrone Compagni, p. 7). 14 Come rileva V. PERRONE COMPAGNI, Introduzione a P. POMPONAZZI, Apologia, Firenze, Olschki, 2011, p. XXI, si tratta di una strategia di equipollenza che non manca di avere «carattere confutatorio». 15 P. POMPONAZZI, De incantationibus, VI, Basileae, 1567, p. 79 (ed. V. Perrone Compagni, p. 47). 16 Ivi, VII, p. 94 (ed. V. Perrone Compagni, p. 56). La definizione perettiana del miracolo come «ciò che è inconsueto» induce F. GRAIFF, I prodigi e l’astrologia, cit., p. 332, a ridimensionare tutta la relativa problematica. «Il miracolo – egli scirve – non è… più tale per il filosofo naturale», sicché «le conclusioni [di Pomponazzi] sono assai radicali e a nulla valgono in fondo le distinzioni che ricorrono ad esempio nel De incantationibus sui veri e falsi miracoli». Si tratta - a suo dire - di conclusioni che di per sé escludono il miracolo (p. 334). 17 P. POMPONAZZI, De incantationibus, VII, Basileae, 1567, pp. 98-102 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 57-59): «Sunt enim multa quae nullo pacto ab homine fieri possunt, quamcumque scientiam habeat, sive ex inquisizione sua, sive ex libris; et absque divino auxilio vel angelico vel demoniaco haec fieri nullo modo possunt… Vere philosophi nihil verisimile habent ad haec; quare necessarium est ad Deum, ad angelos et ad daemones recurrere». 18 Ivi, IX, p. 107 (ed. V. Perrone Compagni, p. 63): «Dubitatio autem haec est, quoniam dictum est in fine praecedentis capituli omnia illa quae adducta fuerunt plene et efficaciter probare angelos et daemones esse et, veluti in resurrectione dictum est, Deum immediate agere et de novo. Modo mirum est et monstruosum tantum philosophum, quales omnes nationes uno ore Aristotelem fuisse confitentur, istud non vidisse et aperte haec negasse. Istud profecto videtur esse incredibile, quandoquidem et vulgares et non vulgares passim dicant ista probare esse daemones». 19 Ivi, X, p. 134 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 78-79): «Omnia enim Deus ordinat et disponit ordinate et suaviter legemque aeternam rebus indidit, quam praeterire impossibile est… quoniam credidit Aristoteles Deum mutari si immediate ageret; quo dato, Deus non esset Deus: in eo enim et secundum leges et secundum veros philosophos nulla prorsus potest mutatio vel vicissitudo cadere… Videamus modo de aliis, videlicet de angelis et daemonibus. Et dico quod quaerendum est: quomodo angeli sive daemones dant talia responsa? An docendo sive istruendo tales vates aut utendo corporibus suis instrumentis – sicut tubicen per tubam». 20 In realtà la soluzione proposta è assai poco aristotelica o è assai meno aristotelica di quanto Pomponazzi crede o vuole farci credere. A prescindere dal

III. NOTE 12-28

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fatto che le Intelligenze sono antropomorfizzate, in quanto sono concepite come sostanze dotate di pensiero e volontà, non diversamente dalle essenze angeliche e demoniache, non è ben chiaro in che modo l’azione dei corpi astrali rientri nella tipologia dell’azione diretta o a contatto, che è – come lo stesso Pomponazzi riconosce – la sola ammessa dallo Stagirita. Sicché la causalità astrologica, da lui invocata, è assia poco compatibile con i canoni del sapere scientificonaturale cui pretende di ricondurre l’ipotetica soluzione para-peripatetica. Ciò conferma che il De incantationibus, soprattutto nella sua seconda parte (capp. VI-XIII) si muove nell’ottica della metafisica più che della filosofia naturale. 21 Ivi, X, 136 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 79-80). 22 Ivi, pp. 136, 139, 143, 147, 158 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 79, 80, 81, 84, 89, 98, 101, 103). L’equipollenza è infine giustificata in rapporto alla natura propria della ragione umana, p. 98: «Cum enim homo ex intellectus sui imperfectione de eventibus consilium capere non potest (non enim ratio humana ad omnia per inquisitionem se estendi, quandoquidem stat ad utramque partem rationes esse aeque valentes)». 23 Ivi, XI, 209 (ed. V. Perrone Compagni, p. 115): «Immo argumenta, quae facta sunt adversus daemones ista operantes, pariter videntur procedere contra hanc opinionem. Quare, ut uno verbo dicamus, quid apud ponentes demones est quod in hoc proposito difficultatem faciat, quod etiam huic nostrae positioni non adversetur?». 24 Ivi, XI, 218 (ed. V. Perrone Compagni, p. 119): «Haec autem in aliquam causam naturalem non videntur posse referri: quare praeter Intelligentias et corpora caelestia necessarium est dare Deum agere immediate agentem et dare angelos et daemones». 25 Ibidem. 26 Ivi, XII, p. 246 (ed. V. Perrone Compagni, p. 133: «Sed fortassis non irrationabiliter aliquis instabit non convenienter exemplum fuisse adductum esseque maximam disparitatem inter ipsa. Nam secundum philosophos, cum serenitas fiat secundum hanc secundam responsionem a coelo, cum coelum de necessitate agat, serenitas fuit necessaria. Preces autem non fuerunt necessariae: aliter enim non fuissent meritoriae et non fuisset in potestate Aquilanorum orare; quod manifeste falsum est. Apud vero leges, veluti preces fuerunt contingentes, sic et serenitas fuit contingens. Quare disparitas est in utrisque et non est in utrisque eadem convenientia; immo, quod ponitur secundum leges est conveniens. Nam, causa existente contingente et medio, effectus et finis est contingens et debet esse contingens. Verum secundum responsionem datam secundum philosophos medium est contingens et causa finalis, sive effectus est necessarius; quod et omni rationi posterioristicae adversatur». 27 L’emergere della problematica di una causa libera e contingente mette in crisi l’idea di una causa necessitante, sulla quale ha puntato l’attenzione la gran parte degli studiosi del De incantationibus, a partire da E. CASSIRER, Individuo e cosmo, Firenze, La Nuova Italia, 1963, pp. 164-174. 28 P. POMPONAZZI, De incantationibus, XII, Basileae, 1567, pp. 290-291 (ed. V. Perrone Compagni, p. 153: «Quare, cum continua et aeterna sit talis vicissitudo, habet causam aeternam et per se; in nullam autem aliam causam reduci potest, nisi in corpora coelestia, Deum et Intelligentias: igitur ista naturaliter sunt a corporibus coelestibus».

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

29 Ivi, XI, p. 210, 216; XII, p. 254, (ed. V. Perrone Compagni, pp. 116, 118. 136). Il tema del libero arbitrio e della libertà etica costituisce uno dei nuclei intorno a cui ruotano il De incantationibus e il De fato. È forse troppo semplice risolverlo negativamente come fa C. INNOCENTI, Una fonte neo-platonica, cit., p. 462: «Nel De incantationibus, e più ancora nel De fato, Pomponazzi è costretto a negare assolutamente qualsiasi libertà all’uomo». 30 P. POMPONAZZI, De incantationibus, XII, Basileae, 1567, XII, p. 224 (V. Perrone Compagni, p. 123). 31 Ibidem. 32 Ivi, XIII, p. 311 (ed. V. Perrone Compagni, p. 163): «Anima non dependet a corpore sic quod non possit esse sine corpore, ut patet post separationem». 33 Ibidem. 34 Ivi, XIII, p. 312 (ed. V. Perrone Compagni, p. 164): «Nam si non prius esset in se quam in corpore, non posset esse naturaliter sine corpore». 35 Ivi, XIII, p. 315 (ed. V. Perrone Compagni, p. 165). 36 Ivi, XIII, p. 310 (ed. V. Perrone Compagni, p. 163): «Si in hoc mundo inferiori aliquis est effectus, qui de necessitate sine causis secundis fiat a Deo, hunc effectum Peripatetici salvare non possunt». 37 Ivi, XII, p. 295 (ed. V. Perrone Compagni, p. 155). 38 Ivi, XIII, p. 319 (ed. V. Perrone Compagni, p. 167): «Ratio humana vel auctoritas aliqua [...] quoniam ab homine procedit, qui ut in pluribus est in errore, et in hoc caliginoso et umbratili mundo verum discernere non potest»; XIII, p. 320 (ed. V. Perrone Compagni, p. 168): «Mortales, ignorantes et peccatores... Fatuum est in omnibus fidem eis adhibere, et praecipue in his in quibus Christianae religioni adversantur». 39 Ivi, XIII, pp. 316, 318, 319 (ed. V. Perrone Compagni, pp. 166, 167, 168). 40 La teologia razionale è certamente per Pomponazzi una contradictio in adiecto perché le verità di fede non sono suscettibili di dimostrazioni razionali. Discordi sono i pareri sulla possibilità di intendere la seconda parte del De fato come un tentativo di costruire una teologia razionale. M. PINE, Pietro Pomponazzi, cit., p. 5, che pure non trascura di segnalare l’opposizione tra ragione e teologia in Pomponazzi, crede che nel De fato tale conflitto si attenui e che l’intento del Peretto sia quello di ricostruire una teologia razionale. Non diversa è l’opinione di V. PERRONE COMPAGNI, Critica e riforma, cit., pp. CIX-CLVIII. R. RAMBERTI, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi: la dottrina etica del De fato: spunti di critica filosofica e teologica nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 2007, p. 112, fa risalire l’interesse teologico di Pomponazzi alla Quaestio de voluntate, ma ritiene che il tentativo di costruzione di una teologia razionale fosse votato al fallimento, poiché scrive a p. 147: «sui problemi insolubili della teodicea si infrange ogni tentativo di fondare una teologia razionale». Secondo M. E. SCRIBANO, Il problema del libero arbitrio nel De fato di Pietro Pomponazzi, «Annali dell’Istituto di Filosofia», III, 1981, p. 51: «La possibilità di una teologia razionalmente soddisfacente ha già mostrato la corda nel terzo e nel quarto libro, ma il crollo definitivo della dottrina cristiana avverrà nel quinto libro sul problema contro il quale ogni teologia che postuli la libertà divina deve infine fallire: la teodicea». Il De fato – aggiunge – è «costruito in modo da dimostrare l’impossibilità di una teodicea razionale all’interno di qualunque dottrina che sostenga la creazione libera».

III. NOTE 29-52

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41 M. PINE, Pomponazzzi and the Scholastic Doctrine of the Free Will, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», XXVIII, 1973, pp. 26-27. Sulla stessa linea interpretativa F. P. RAIMONDI, Ragione e fede, necessità e libertà: possibili chiavi di lettura del De fato, in M. SGARBI, Pietro Pomponazzi tradizione e dissenso, cit., pp. 215-260. Per V. PERRONE COMPAGNI, Critica e riforma, cit., p. CXIV, invece, «non è un’esigenza interna al sistema di Pomponazzi a rendere necessario il suo tentativo di ricostruire una teologia razionale; al contrario, la ricostruzione è imposta dalla realtà esterna, dal dato oggettivo di una società composta di individui diversi per le disposizioni fisiche, psicologiche, intellettuali e culturali». In tale prospettiva il De fato acquista un taglio politico e al Pomponazzi è assegnato il ruolo di un riformatore religioso. Va però detto che il pessimismo antropologico è una costante del pensiero perettiano e rimane intatto anche nel De fato senza che l’autore riesca a superarlo né in chiave politica, né in quella di una nuova prospettiva religiosa. 42 Dello stesso avviso mi pare G. DI NAPOLI, Libertà e fato, cit., p. 182; contra: V. PERRONE COMPAGNI, Critica e riforma, cit., pp. CXIX e CXLV, per la quale Pomponazzi, convinto che la Riforma fosse destinata a sfociare nel predestinazionismo, si impegna a «ricostruire la teologia cristiana con intenti antiluterani». 43 P. POMPONAZZI, De fato, Ivi, I, 11, 436 (V. Perrone Compagni, p. 160): «Semper sic fui, semper sic erit; quare neque aliter esse potest». 44 Ivi, II, 7, p. 615; I, 13, p. 481 (V. Perrone Compagni, pp. 402 e 222). 45 Di tale avviso è G. ZANIER, La biologia teoretica, cit., p. 107. 46 P. POMPONAZZI, Apologia, I, I, 82: «Pro nunc non discutio – scrive – verum reservo ad specialem tractatum quem facere intendo de voluntate et libero arbitrio». 47 È questa la ragione per cui G. DI NAPOLI, Libertà e fato, cit., p. 185, nega che gli ultimi tre libri del De fato abbiano un contenuto prettamente teologico. 48 V. PERRONE COMPAGNI, La teologia di Pomponazzi: Dio e gli dei, in M. SGARBI, Pietro Pomponazzi, Tradizione e dissenso, cit., pp. 107-129. 49 Vedi in particolare De fato, pp. 583, 661, 710, 727, 733, 752, 761, 779, 802, 832, 846, 856, 865, 923, 975, 1014 (V. Perrone Compagni rispettivamente, pp. 362, 462, 526, 548, 556, 576, 588, 608, 634, 676, 692, 704, 714, 784, 850, 898). 50 Ivi, III, 1, p. 653 (V. Perrone Compagni, p. 452): «Neque eis consentio, qui viam fidei cum Aristotele convenire credunt, mihi namque videtur has vias incompossibiles esse». Cfr. anche la Expositio super VIII Physicorum, f. 395r, citata da F. GRAIFF, Aspetti del pensiero di Pietro Pomponazzi, cit., 1979, p. 83: «Quare debetis [...] non facere Aristotelem Christianum [...] Isti appellant me hereticum et ego dico quod ipsi sunt, quoniam nolunt credere in fide nisi quae habentur in philosophia ab Aristotele et ego credo fidei quoniam Deus dixit per evangelia et prophetias, non autem per philosophiam»; v. Apologia, I, 7, 16: «Conatus namque eius [Divi Thomae] fuit facere Aristotelem Christianum». 51 Secondo V. PERRONE COMPAGNI, Critica e riforma, cit., p. XXXIX, con tale revisione dell’aristotelismo Pomponazzi compie il tentativo di rifondare la credibilità delle leges, riconducendo la religione a guida morale e coinvolgendo il filosofo nella vita politica. 52 Secondo M. E. SCRIBANO, Il problema del libero arbitrio, cit., p. 36, nel De fato Pomponazzi avrebbe espunto «dal proprio sistema la possibilità della

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

libertà umana teorizzata nel De incantationibus. In quel luogo, come è noto, Pomponazzi affermava che di un’influenza diretta degli astri sulla volontà umana si potesse parlare solo per gli uomini la cui ragione fosse ‘legata’». Ma vanno tenute distinte le posizioni assunte nelle due rispettive parti del De fato. In effetti sia nel De incantationibus, sia nel De fato, quando si pone nell’ottica dell’aristotelismo stoicizzato Pomponazzi accentua la dipendenza della volontà dalla causalità astrologica (tale è il caso della convergenza tra De fato, I, 9, 407 e De incantationibus, XII, p. 264: ed. V. Perrone Compagni, p. 141). Il concetto di libertà proposto in De incantationibus, XII, pp. 224-225 (ed. V. Perrone Compagni, p. 123), si riferisce agli sviluppi che essa avrà nel De fato, implicitamente citato nel rinvio alla trattazione sulla determinazione della volontà: «de determinante ipsam voluntatem; sed de hoc alibi [De fato]». Il riferimento è al De fato, IV, 6, p. 898 (V. Perrone Compagni, p. 754). 53 P. POMPONAZZI, De fato, V, 9, p. 1010 (V. Perrone Compagni, p. 892). 54 P. POMPONAZZI, De nutritione, II, I, 7: «Amplius, de modo generationis raritatis et densitatis, et quomodo aliquod de maiori secundum istum modum fieri potest maius, et de maiori minus, nullo addito vel subtracto, hoc enim non leve sed obscurum et difficillimum est. Turpe est enim philosophiam profitenti hoc ignorare. Quia si exactam et adamussim cognitionem in hoc habere non valebimus, saltem quantum difficile sit hoc cognoscere, lucrabimur. Nam et sic de re difficili cognoscere non parum est cognoscere. Qui namque navigaverit multoties, quamquam naufragium passus sit, plus de navigandi arte cognoscet quam is qui numquam navigaverit. Quare pro viribus initendum est, ne vitam ut pecudes ducamus, sola enim rerum speculatione a bestiis separamur». 55 Ivi, I, III, 1: «Qui igitur fieri potest ut tam a nobis remota, veluti sunt supera, et de quibus nulla fere sentimus accidentia, aut tam numerosa sicuti sunt infera a nobis sincere unoque intuitu cognosci possint?». 56 Ibidem: «Quoniam namque in nobis sentimus aliquid intellectus, illico nos ipsos deos facimus. Ac veluti aves ab aucupibus deceptae dum eis simulatas aves ostendunt in retia incidunt, sic nos, dum nos ipsos deos esse credimus, ab erroribus inexplicabilibus capimur et misere continemur». 57 Ibidem: «Etenim nullus, qui aliquid sapit, in vita voluptuosa felicitatem ponet, quandoquidem illa sit vita pecudum». 58 Ibidem: «Hos enim homines vulgus felicissimos praedicat, hos metuunt universi, hos admirantur atque colunt! Sed proh deum immortalem! Missa faciamus eorum angustias et inquietudines, quas quotidiana docet experientia! Sed qui fieri potest in eo constituatur tranquillitas quod nullo modo quietum esse potest, in eoque sit sita beatitudo, quod ab ignorantia, iniustitia et denique quod ab omni scelere, nescio an sit potius impossibile an difficile separare. Etenim, ut mea fert opinio, quamquam regnum et potestas secundum se bona sint, adeo tamen periculosa sunt, ut quicumque sapit magis ea fugiet quam prosequetur; neque quis nisi coactus ad tantum periculum accedet. Quo fit ut proculdubio nostra beatitudo in sola virtute collocetur. Et quamquam non ea virtus nobis debetur, quae diis ipsis, minime tamen a nobis spernenda est». 59 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XXV, 5: «Ad haec dicendum quod in naturalibus firmum et certum iudicium dare est hominis temerarii et ignorantis, qui nescit ubi stat rei difficultas et est similis bellatori inexperto, qui se committit pugnae absque periculi cognitione. Quare magis in naturalibus, ut opinor, sunt

III. NOTE 53-75

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coniecturae quam certa scientia. Unde non est mirum, si Socrates, relictis naturalibus, tradidit se totum moralibus. Quapropter et ego magis approbo eos, qui se religionibus dicarunt, et pie ac sancte vivunt quam illos, qui se scientiis tradunt, hi enim dum sapientes fieri student, insipientes fiunt». 60 P. POMPONAZZI, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, cit., p. 122. 61 P. POMPONAZZI, De nutritione, II, XIII, 2: «Cum unusquisque de dulci et amaro et horum intermediis, iudicare non potest, nisi secundum quod suae gustationi videtur, et unicuique liceat dicere quod suo gustui appareat, non praeiudicando meliori gustationi et cum praetextu me subiciendi melius sentientibus et habentibus sensorium gustus sincerius; ita quoque ego dicam quae harum opinionum mihi videtur verior, hac tamen lege, me hanc sententiam tandiu observaturum, donec videam meliorem ea, quod si mihi, aut ex me, aut ex alio, melior sententia videbitur, hanc praesentem relicturum et meliorem secuturum polliceor. Aristoteles namque in fine VI Topicorum, dicit hanc fuisse consuetudinem priscorum conditorum legum». 62 ARISTOTELE, De gen. et corr., I, 5, 320 b 29 - 321 a 6, ove le tre condizioni sono esposte nello stesso ordine di Pomponazzi; nel successivo riepilogo in I, 5, 321 a 18-24, esse sono enunciate in un ordine diverso: la seconda e la terza precedono la prima). 63 ARISTOTELE, Phys., V, 4, 227 b 21-28. 64 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, I, 3: «Est etenim augmentatio proprie dicta motus eiusdem augmentabilis ad quantitatem, quod mobile remanet idem numero a principio augmentationis usque ad finem, cuiusque quaelibet pars est aucta propter materiam extrinsecus advenientem». 65 Ibidem: «motus ad maiorem quantitatem». 66 ARISTOTELE, De an., II, 4, 415 b 25-28; De gen. et corr., I, 5, 322 a 22-24. 67 TOMMASO, De anima, II, lect. IX; ARISTOTELE, De longitudine et brevitate vitae, 5, 466 b 13-15. 68 G. ZANIER, La biologia teoretica, cit., p. 121, e R. RAMBERTI, Esegesi del testo aristotelico e naturalismo nel De nutrizione et augumentatione, in M. SGARBI, Pietro Pomponazzi. Tradizione e dissenso, Firenze, Olschki, 2010, p. 336. 69 PIETRO DI MANTOVA, De instanti, Venetiis, Impressum per Bonetum Locatellum ad instantiam nobilis viri Octaviani Scoti Modoetiensis, 1482, cit., p. n.n. 128a-b. 70 MARSILIO DI INGHEN, Super libris de generatione et corruptione, I, qu. XI: Utrum cuiuslibet quod augetur quaelibet pars augeatur, Venetiis, mandato et expensis Nobilis viri Luceantonii de Giunta, florentini, 1518. 71 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, VI, 5. 72 Ivi, I, IV, 6: «Prima est temeraria et hominis parum exercitati in naturalibus. Altera vero penitus est ridicula». 73 Ibidem. 74 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, IV, 7: «Dicimus virtutem nutritivam peculiarem et propriam esse viventibus qua vegetabilia sunt, eiusque opus esse restaurare substantiam deperditam, quatenus vivum ipsum perduret in propria natura quantum sibi ex natura convenit, non quod aeternum faciat, quandoquidem nihil corruptibilium possit in aeternum esse». 75 Ivi, I, V, 1.

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NOTE ALLA MONOGRAFIA INTRODUTTIVA

Ivi, I, VI, 9. Ibidem. 78 ARISTOTELE, De iuventute et senectute, 2, 468 b 3-6. 79 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, VI, 13. 80 Ivi, I, VII, 1. 81 Ibidem. 82 Ibidem. 83 Ivi, I, VII, 14. 84 JEAN DE JANDUM, Utrum augmentatio sit motus continuus, in ARISTOTELIS Physicorum libros preclarissimi Johannis de Ganduno, Questiones cum additionibus annexis declarativis quorundam latinorum et aliorum supra dicta Commentatoris (Colophon: Joannes Lucilius Santritter helbronensis et Hieronymus de Sanctis Venetus socii virorum quidem solertissimorum Petri Benzon et Petri cremonensis impensis non minimis at curis suis et solicitudinibus diligentissimis impressione compleverunt anno saluti 1488, 12 calendae decembris Venetiis). p. 128va-b; W. BURLEY, Aristotelis et sui Commentatoris Averrois expositio in libros octo de physico auditu, III, tract. II, cap. 4, p. 81rb; VIII, Venetiis 1501, pp. 249vb-250rb; P. POMPONAZZI, De nutritione, I, IX, 5. 85 AVERROÈ, Phys., IV, com. 84, ed. Venetiis 1562, t. IV, pp. 171vI-172rF; Phys., VII, com. 15, ed. Venetiis 1562, t. IV, pp. 318vM-319rA. 86 Giovanni FILOPONO, De gen. et corr., Venetiis, Apud Hieronymum Scotum, 1543, I, text. 35, com. 94, p. 54; text. 36, com. 96, pp. 63-64; ALBERTO MAGNO, De homine, tract. I, qu. X, a. 3, ed. Lugduni 1651, p. 63; qu. XI, a. 4, p. 67; tract. I, qu. XI, a. 5, ivi, p. 68; TOMMASO, De gen. et corr., I, lect. XV; PAOLO VENETO, De generatione et corruptione, in Summa Naturalium, Venetiis, impensis Johannis de Colonia sociique eius Iohannis Mathen de Therrethmem 1476, p. nn. 151. 87 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, X, 3. 88 Ivi, I, X, 6. 89 M. FICINO, Theol. Plat., VII, cap. II. 90 AVERROÈ, De substantia orbis, cap. I, ed. Venetiis 1562, suppl. I, pp. 3vM4rA. 91 Il fatto che nel De nutritione sono presi in esame i presupposti biologici della vita psichica e del rapporto anima-corpo ha indotto a pensare che il trattato abbia un taglio materialistico. Tale è per esempio la tesi di F. GRAIFF, Aspetti del pensiero di Pietro Pomponazzi, pp. 85 e 95; contra, B. NARDI, Studi, cit., p. 237. 92 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XII, 1. 93 Ivi, I, XI, 3: «Assimilantur enim talia animalium, multis animalibus simul iunctis». ARISTOTELE, De iuventute et senectute, 2, 468 b 3-12. 94 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XI, 9. 95 Ivi, I, XI, 10. 96 Plusquam Commentum in parvam Galeni artem, TURISANI Monachi Carthusiensi cum Laurentiani et Leoniceni interpretationibus, Venetiis, apud heredes Luceantonii Iuntae, 1543, II, com. 12, p. 31vI; PAOLO VENETO, De generatione et corruptione, Venetiis 1476, p. nn. 149. 97 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XIII, 3. 98 U. BENZI, Subtilissima questio de modo augmentationis, in In primam quar76 77

III. NOTE 76-113

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ti Canonis Avicennae, quae de febribus dicitur, impressa Venetiis, per Georgium Arrivabenum, 1515. 99 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XIV, 5. 100 ARISTOTELE, Phys., IV, 12, 221 a 22-24; P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XVI, 1. 101 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XVI, 10. 102 ARISTOTELE, Phys., IV, 13 222 B 27-29; De an., II, 2, 413 a 14-16. 103 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XVIII, 1: «Nutritio est acquisitio partis materiae in recompensationem eius quod deperditum est, facta a vivente per animam et calorem naturalem, ut vivens ipsum perduret quantum sibi ex natura datum est». 104 Ivi, I, XVIII, 1. 105 Ivi, I, XVIII, 1-2. 106 Ivi, I, XXII, 3. 107 Ivi, I, XXII, 11. 108 ARISTOTELE, De gen. anim., II, 3, 736 b 28. 109 P. POMPONAZZI, De nutritione, I, XXIII, 4: «Gradum intellectivum in hominibus convenire cum separatis a materia, quantum ad aliquas condiciones, utpote quod non indiget materia vel organo ut subiecto, quare quasi extrinsecus venire videtur, et quoniam sic operando non continetur, neque quanto, neque tempore, ut sic videtur esse aeternus, quamquam re vera non sit aeternus. Si namque vere esset aeternus aliquando intelligeret sine corpore». Cfr. R. RAMBERTI, Esegesi del testo aristotelico, cit., pp. 341-342. 110 Cfr. P. POMPONAZZI, De immortalitate, X, 11; Apologia, I, I, 41. 111 Ivi, I, XXV, 19. 112 Ivi, I, XXVIII, 9: «Forma autem est eadem, quoniam ab uno agente in una materia et in eodem tempore producitur. Unde Socrates neque ex alio patre, neque ex alia matre, neque in alio tempore potuit produci quam fuerit productus… Ex quibus colligi potest naturam fuisse optime consultam faciendo, ut determinatus effectus exigat determinatum agens, determinatam materiam et determinatum tempus, aliter enim fuisset confusio et rerum discordia, et omnia essent confusa et indeterminata». 113 Ivi, I, XXVIII, 10: «Scire non minus oportet, quod quidem theologi aliter respondent quam nos responderimus, videlicet, cur una hora praecedat alteram, et homo qui nascitur in istis temporibus est posterius natus his qui fuerunt ante ipsum, et prius his qui erunt post se, dicunt enim quod huiusmodi nulla alia est causa nisi voluntas divina sic disponens, et ibi est status; unde dies hodierna est ante crastinam, quoniam Deus sic disposuit ab aeterno et ibi est status, quoniam voluntas non habet aliam causam. Verum in hoc sine dubio standum est determinationi Ecclesiae».

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE 1462 Il 16 settembre nasce a Mantova Pietro Pomponazzi, figlio di Giovanni Nicola, da una famiglia agiata. Ha un’infanzia felice e nutre fin da giovane un profondo amore per la sua città natale che lo accompagna per tutta la vita, come si può evincere dai suoi scritti, in cui si mostra orgoglioso delle sue origini mantovane e non perde occasione per citare con piacere i versi di un altro celebre mantovano, Virgilio Marone, ricordandolo spesso come ‘Vergilius noster’. 1484 Inizia i suoi studi nell’Università di Padova, ove riceve l’insegnamento, tra gli altri, di tre illustri professori che influiscono profondamente sul suo pensiero e verso i quali manifesta sempre un grande affetto: Francesco Sicuro da Nardò (il Neritone), Pietro Trapolin e Pietro Roccobonella. Il Neritone gli insegna la metafisica in via Thomae e gli dà le basi teoriche del tomismo: non è qui il caso di rilevare l’importanza che l’Aquinate avrà in seguito sulla filosofia del Pomponazzi, anche quando sarà critico nei suoi confronti soprattutto in merito alla interpretazione tomistica della dottrina aristotelica. Riceve l’insegnamento di filosofia naturale da Pietro Trampolin, che gli fornisce la conoscenza degli elementi fondamentali della psicologia di Aristotele. Infine, Pietro Roccobonella, professore di medicina, lo addottrina in merito alla interconnessione tra il corpo e l’anima e gli fa comprendere la necessità di tener conto di tale connessione ai fini dell’efficacia dei procedimenti terapeutici: il De incantationibus darà in seguito testimonianza dell’interesse che destano in Pomponazzi tali procedimenti. 1487 Ottiene il dottorato in Artibus e quasi immediatamente inizia il suo insegnamento di filosofia naturale a Padova, guadagnandosi ben presto il rispetto e la stima dei suoi discepoli: in una epistola che Francesco Gonzaga di Mantova scrive a Tommaso Lippomanno, in data 4 ottobre 1489, si fa menzione della «opinione grande già concepta e stabilita» che gli studenti avevano per il sapere e la personalità del loro

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Maestro. Secondo il programma accademico dell’Università di Padova, Pomponazzi era tenuto ad esporre i libri naturali di Aristotele (De anima, Physica, De caelo e De generatione et corruptione) e i relativi commenti di Averroè; nei giorni festivi si commentavano i Meteorologica e i Parva naturalia. Ottiene la cattedra di filosofia ordinaria ‘secundo loco’. Consegue il dottorato in Medicina e ottiene la cattedra di filosofia ordinaria ‘primo loco’. Il suo concurrens è il filosofo suessano Agostino Nifo, che diventerà in seguito uno dei suoi più fieri oppositori nel dibattito sulla immortalità dell’anima; per lui Pomponazzi nutrirà sempre una profonda avversione, appena mascherata dietro la cortesia accademica. Dopo otto anni di docenza a Padova, abbandona la città per recarsi alla corte di Alberto Pio di Carpi, dove insegna logica e approfondisce con Alberto Pio le dottrine del matematico oxoniense Richard Swineshead (il Calculator). In conseguenza del conflitto con suo fratello, Alberto si vede costretto ad abbandonare la città e a recarsi in esilio a Ferrara, dove si stabilisce tutta la sua corte; lì Pomponazzi rimane fino al 1499. Si sposa a Padova con Cornelia Dondi, figlia di Francesco Dondi dell’Orologio, la quale gli dà due figlie, Lucia e Ippolita. Morto Nicoletto Vernia, Pomponazzi è nuovamente chiamato a Padova, dove rimarrà ininiterrottamente per dieci anni. In questo secondo periodo padovano ha illustri concorrenti come Achillini, Nifo, Fracanzano e Baccilieri. Nello stesso periodo frequentano i suoi corsi discepoli che più tardi emergeranno in ambiti diversi, come è il caso di Gasparo Contarini, futuro cardinale, con il quale Pomponazzi avrà in seguito divergenze dottrinali in materia di immortalità dell’anima, pur mantenendo sempre con lui una cordiale e affettuosa amicizia. Sono altresì suoi discepoli Andrea Mocenigo, Antonio Surian e l’umanista Lazzaro Bonamico. In questi anni il successo accademico di Pomponazzi è grande: nel 1504 il Senato gli conferisce l’esenzione dall’obbligo di sottoporsi alle ballottazioni degli studenti alla fine del corso. Grazie ai suoi discepoli è giunta fino a noi una collezione di corsi da lui dettati in questo periodo di docenza e di maturazione del suo pensiero: tra gli altri manoscritti abbiamo i suoi commenti al libro III del De anima di Aristotele, una Quaestio de materia coeli, una Lectura super 8 physicorum e alcune

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Quaestiones de immortalitate animae, de unitate intellectus, quomodo fiat intellectio, etc. 1507 Morta sua moglie Cornelia Dondi, che gli lascia due figlie in età infantile, Pomponazzi si sposa con Lodovica Montagnana, figlia del nobile Pietro da Montagnana, dal quale riceve una cospicua dote. La giovane Lodovica morrà presto senza lasciargli figli. 1509 È chiamato dal Duca di Ferrara, Alfonso d’Este, per occupare una cattedra nella locale Università. Nel contempo ottiene dall’Università di Padova, attraverso il Senato Veneto, la dispensa dal suo contratto e si stabilisce a Ferrara, ove rimane solo un anno. A causa della guerra tra Venezia e la Lega di Cambrai lo Studio di Ferrara viene chiuso (come qualche anno prima era accaduto a quello di Padova). 1510 Ritorna a Mantova, dove rimane un anno. 1511 Muore Lodovica, sua seconda moglie. È chiamato dall’Università di Bologna come professore di filosofia nella cattedra ordinaria. Comincia ad esercitare nel 1512 e non abbandonerà lo studio bolognese fino alla morte nel 1525. 1514 Sollecita le autorità accademiche di Bologna per avere un rinnovo del suo contratto e l’aumento dello stipendio. Non riceve alcuna risposta. Nel frattempo da Firenze gli giunge l’allettante offerta di insegnamento a Pisa. L’accoglimento dell’offerta pisana suscita l’ira delle autorità bolognesi, che avviano immediatamente trattative con Nifo per occupare la sua cattedra; nello stesso tempo gli vengono bloccati i conti bancari e gli viene proibito di asportare dalla città i suoi libri e il suo mobilio. Alla fine dell’anno pubblica in Bologna il De intensione et remissione formarum, già concluso nell’agosto. 1515 Firma un nuovo contratto con l’Università di Bologna per quattro anni con uno stipendio di 400 ducati annui. Anche se mancano dati affidabili, è probabile che in questo stesso anno si sposi con la terza moglie, Adriana della Scrofa, di Vicenza, la quale gli sopravvivrà per più di dieci anni, poiché da talune testimonianze risulta che era ancora in vita nel 1537. In questo anno compare a Bologna il Tractatus de reactione insieme alla Quaestio de actioni reale. 1516 Pubblica a Bologna il Tractatus de immortalitate animae, che provoca immediatamente un’aspra polemica dalla quale si difenderà nei tre anni successivi.

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1517 Ambrogio Fiandino, vescovo suffraganeo di Mantova, è il primo di cui si ha notizia che rivolge dal pulpito una critica severa alla dottrina contenuta nel De immortalitate animae. Ma in un approccio diretto tra accusatore e accusato, svoltosi nel medesimo anno a Bologna, il vescovo nega di averlo attaccato e lo informa che Agostino Nifo sta preparando uno scritto contro di lui. Nel contempo a Venezia alcuni frati domenicani lo denunciano come eretico davanti al Patriarca, Antonio Contarini. Il Patriarca, ricevuta la denuncia, lo condanna e la condanna viene ratificata dal Senato Veneto, che di suo aggiunge la decisione di dare alle fiamme in pubblica piazza il trattato e di vietarne la vendita nel territorio veneziano. Il libro viene inviato al Cardinale Pietro Bembo per gli opportuni provvedimenti; ma questi non riscontra alcuna traccia di eresia. Nello stesso tempo, in Bologna alcuni teologi eminenti attaccano il trattato pomponazziano nelle loro letture pubbliche, ma non scrivono nulla contro di lui. Tra questi vi sono Vincenzo Colzade, che dirige la scuola domenicana di Bologna ed è maestro di Bartolomeo Spina, il quale sarà uno dei suoi più feroci oppositori. Anche Pietro Manna, rinomato teologo tomista, critica Pomponazzi e tiene con lui un importante carteggio sulla questione dell’immortalità. 1518 Subisce ulteriori attacchi dai vertici ecclesiastici. Uno di essi viene dal Maestro di Palazzo Silvestro Mazzolini da Prierio, il quale probabilmente sollecita il papa Leone X ad assumere una posizione ufficiale nei confronti di Pomponazzi: il 13 giugno 1518 il papa intima al filosofo di attenersi nella sua attività docente alla dottrina del Laterano se non voleva essere processato. Forse il discreto intervento del cardinale Pietro Bembo, segretario pontificio, ottiene la revoca del bando e blocca l’iter processuale prima che avesse inizio. Tuttavia lo scandalo non ha ripercussioni sulla sua carriera accademica, tant’è che nello stesso anno gli viene concesso il privilegio di essere libero dall’obbligo di insegnare con un concurrens e gli viene altresì riconosciuta la facoltà di scegliere liberamente i libri e i passi da commentare nelle sue pubbliche letture. A questo anno risale l’Apologia, stampata a Bologna il 3 febbraio anche se terminata l’anno precedente. L’opera si compone di tre libri di varia estensione. Molto importante dal punto di vista biografico è il terzo libro, in cui Pomponazzi

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narra in prima persona i diversi episodi in cui si era articolata la polemica sulla immortalità dell’anima. 1519 Le difficoltà relative alla polemica non cessano. La pubblicazione del Defensorium (vale a dire l’ampia risposta difensiva scritta contro il De immortalitate animae di Nifo, edito a Venezia nell’ottobre 1518) è bloccata dalle autorità ecclesiastiche. L’inquisitore Giovanni Torfanini e il Vicario Generale Alessandro de Peracinis ordinano che la pubblicazione del libro sia accompagnata da una refutazione formale delle sue dottrine. Pomponazzi si mette in contatto con Crisostomo Javelli, eminente teologo domenicano, e lo prega di scrivere alcune Solutiones sulle questioni suscitate nel Defensorium a conferma dell’idea che l’immortalità dell’anima è un articolo di fede. Nella lettera a Javelli Pomponazzi protesta di non essere stato compreso e dice di non aver mai voluto dimostrare la tesi mortalistica, ma solo di aver voluto segnalare che essa è conforme alla dottrina di Aristotele; inoltre dichiara di accettare senza riserve di nessun tipo l’immortalità dell’anima come articolo di fede. Javelli, convinto della sincerità del Mantovano, ne accoglie la richiesta e compila le Solutiones che garantiscono la pubblicazione del Defensorium. In ogni caso, né nell’Apologia né nel Defensorium Pomponazzi ritratta in alcun modo la dottrina esposta nel Tractatus de immortalitate animae. 1520 Durante questo anno lavora a due delle sue opere destinate ad avere più ampia risonanza, il De naturalium effectuum causis sive de incantationibus e il De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei. Nella prima analizza gli effetti prodigiosi con il sospetto che si tratti di semplici inganni o di fenomeni che vanno ricondotti al corso della natura e alle cause naturali. Nella seconda nega, in polemica con Alessandro di Afrodisia, che sulla base dei presupposti teorici dell’aristotelismo ci sia spazio per la libertà individuale. Forse per evitare una recrudescenza della polemica suscitata dal De immortalitate animae, decide di lasciare manoscritte entrambe le opere, le quali furono pubblicate postume a Basilea, la prima nel 1556 e la seconda 1567. Nel corso del 1520 muore suo fratello, Pier Giovanni, e Pomponazzi si assume il carico dei figli, Marco e Giulio; si prende cura del loro mantenimento e della loro educazione e lascerà ad essi in eredità una parte dei propri beni, come risulta dal suo testamento, che ci è pervenuto integralmente.

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1521 Compare a Bologna il Tractatus de nutritione et auctione (poi ristampato nell’esizione scotiana con il titolo De nutritione et augmentatione libellus) ampio trattato in cui affronta alcune tematiche aristoteliche del De generatione et corruptione. Pomponazzi lo aveva terminato nei primi giorni di settembre. 1522 Giunge a Bologna il giovane Ercole Gonzaga, figlio di Francesco II Gonzaga e di Isabella d’Este (marchesa di Mantova), per ricevere gli insegnamenti di Pietro Pomponazzi. Ercole, futuro cardinale (fu uno dei presidenti del Concilio di Trento), professò sempre una grande ammirazione e un grande rispetto per il suo maestro ed eresse in suo nome un monumento che, sfortunatamnente, non ci è pervenuto. 1524 Pomponazzi si ammala di calcoli renali e il 6 aprile è costretto a interrompere i suoi corsi, che avevano come oggetto la lettura del De sensu et sensato. Il manoscritto di questo corso, pervenutoci come reportatio di un discepolo, conferma l’interruzione dell’attività docente del Maestro. Probabilmente prima dell’aggravamento della sua infermità, detta nel maggio dello stesso anno il suo testamento. 1525 Il 18 maggio Pietro Pomponazzi muore a causa dei calcoli renali che si erano manifestati l’anno precedente. Due giorni dopo un testimone diretto dei suoi ultimi giorni, Antonio Brocardo, narra in una lettera le terribili sofferenze del Maestro, che si rifiutò di mangiare e di parlare; infine, l’ultima notte, rianimatosi, affermò di andarsene felicemente. Ad uno dei suoi discepoli che gli chiese dove andava, rispose: «dove vanno tutti i mortali». Appena un mese prima aveva visto la luce a Venezia l’edizione dei Tractatus acutissimi, che raccoglieva la quasi totalità delle sue opere, fatta eccezione dei citati De incantationibus e De fato e delle Dubitationes in quartum meteorologicorum, che compariranno postumi nel 1563.

NOTA EDITORIALE Nella trascrizione del testo si è privilegiata l’edizione scotiana del 1525 (indicata nelle note filologiche con T) rispetto alle edizioni originali dei singoli trattati (indicati nelle note filologiche con P). È assai verosimile che il lavoro di stampa di tale edizione sia stata attentamente seguito dallo stesso Pomponazzi; in ogni caso in essa risultano inglobate tutte o quasi tutte le correzioni segnalate negli errata corrige delle edizioni originali. Naturalmente si sono tenute nel debito conto le editiones principes quando la loro lezione è risultata più corretta o più utile alla intelligenza del testo. Ovviamente di tutte le varianti relative all’una e alle altre edizioni si è data indicazione nelle note filologiche in calce al testo latino. La presenza di numerose sviste, errori, difformità, refusi tipografici, ecc., ha reso necessario un intervento di ammodernamento del testo nell’intento di uniformarlo soprattutto sotto il profilo dell’uso di determinate forme lessicali. In particolare gli interventi effettuati si riferiscono ai seguenti criteri: – Aggiornamento della punteggiatura: gli interventi più consistenti riguardano l’uso della virgola, la quale è stata eliminata nei casi in cui risultava pletorica ed è stata aggiunta o sostituita da altri segni di interpunzione nei casi in cui lo richiedevano esigenze di chiarezza. I due punti, che nel latino cinque-secentesco corrispondono ad una pausa più prolugata, sono stati per lo più sostituiti dal punto o dal punto e virgola a seconda della consistenza della pausa richiesta nel contesto del discorso. In generale essi sono stati conservati e qualche volta introdotti in corrispondenza di citazioni o di elencazioni o per l’introduzione del discorso diretto. Le citazioni di autori o di testi, soprattutto se fedeli all’originale citato, sono state aperte e chiuse da appositi caporali. I discorsi diretti o comunque talune parole o frasi o espressioni che nel contesto del discorso sono oggetto di analisi e di attenzione sono state aperte e chiuse da apici. – Uso della maiuscola e delle minuscola. Si è conservata l’iniziale maiuscola per i nomi di persone e di città o geografici, per i titoli (es. Princeps, Cardinalis, ecc.), per i nomi di correnti filosofiche e di sette religiose (es. Averroistae, Peripatetici) e per gli appellativi

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NOTA EDITORIALE

del tipo Commentator, Conciliator, Calculator, Contradictor. Per il nome Deus si è fatto uso della maiuscola solo in riferimento al Dio cristiano; nei casi in cui ci si riferisce a divinità pagane si è usata la minuscola. L’uso della minuscola si è esteso a tutti i nomi relativi a professioni: es. medici, theologi, philosophi (escluso Philosophus per Aristotele). Per il termine divus si è conservata la minuscola che risulta prevalente nei testi. – Riproduzione, entro i limiti del possibile, della originaria divisione dei testi in capoversi (in generale si tratta dei capoversi presenti nell’edizione scotiana). In qualche caso si è preferito introdurre dei nuovi capoversi per isolare meglio le parti in cui si articola l’argomentazione pomponazziana. – Per agevolare la consultazione dell’opera sono state introdotte in parentesi quadre, tanto nel testo latino quanto in quello italiano, rispettivamente le numerazioni delle pagine della edizione scotiana e delle editiones principes. Per evitare confusione tra le rispettive impaginazioni si sono usati metodi diversi di segnalazione delle colonne dei testi originali. Per l’edizione scotiana si sono usate le indicazione r per il recto, v per il verso e a e b rispettivamente per la prima e la seconda colonna della pagina (es. 32ra, 32rb, 32va, 32vb). Per le editiones principes, se il testo è diviso in colonne (Apologia, Defensorium, De nutritione, De reactione, Quaestio), si sono usate a e b per la pagina del recto; c e d per quella del verso (es. 32a, 32b, 32c, 32d) – Rettificazione delle forme lessicali. È questa l’area che ha richiesto il maggior numero di interventi per l’esigenza di uniformare il testo. In particolare le rettifiche riguardano: forme dittongate (aegritudo] egritudo; Aeneidos] Eneidos; Aesopus] Esopus; Burlaeus] Burleus; daemon] demon; hemisphaerium] hemispherium; praeterea] preterea; quaero] quero; quaesitio] quesitio; repraesento] represento; saeculum] seculum; sphaera] sphera; Timaeus] Timeus) o prive di dittongo (atheus] athaeus; felix] foelix; premo] praemo); forme aspirate (Boethius] Boetius; chorda] corda; hepar] epar; humidus] umidus; hypothesis] ipotesis; mathematicus] matematicus; orthodoxus] ortodoxus) o prive di aspirazione (abominatio] abhominatio; abundo] habundo; atomalius] athomalius; auctor] author; mancus] manchus; peripateticus] peripatheticus; prooemium] proemium] prohemium; superabundare] superhabundare; Timaeus] Thimaeus; Topica] Thopica), forme con sostituzione di nasali (dumtaxat] duntaxat; namque] nanque; numquam] nunquam; numquid] nunquid; quamquam] quanquam; quantuscumque] quantuscunque; qui-

NOTA EDITORIALE

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cumque] quicunque; tamquam] tanquam; ubicumque] ubicunque); forme con raddoppio consonantico (aufero] auffero; caliditas] calliditas; causa] caussa; defectus] deffectus; deficio] defficio; directe] dirrecte; elementum] ellementum; infero] inferro; milia] millia; quotidianus] quottidianus; sequela] sequella; stilus] stillus); forme prive di raddoppio consonantico (acceptio] aceptio; adduco] aduco; appello] apello; assento] asento; attentus] atentus; attingo] atingo; Commentator] Comentator; commentus] comentus; commixtus] comixtus; communico] comunico; commuto] comuto; deterrimus] deterimus; difformis] diformis; dissimilis] disimilis; imbecillitas] imbecilitas; impossibilis] imposibilis; littera] litera; necessarius] necesarius; quattuor] quatuor; seco] secco; sigillatim] sigilatim), sostituzioni di forme arcaiche (cum] quum; augmentum] augumentum); sostituzioni di forme principali a forme secondarie (caelestis] coelestis; caelo] coelo; complexio ] complectio; definitio] diffinitio; immo] imo; multoties] multotiens; saltem] saltim); sostituzioni di forme che prediligono: i per y (Hippocrates] Hyppocrates; idea] ydea; idioma] ydioma; imagino, imaginabilis] ymagino ymaginabilis; Mosaicus] Mosaycus; philosophus] phylosophus; siccitas] syccitas; siccus] syccus; sincerus] syncerus; sophistes] sophystes) y per i (amethystus] amethistus; Elysium] Elisium; nycticorax] nicticorax; paralogismus] paralogysmus; physicus] phisicus; pythagoricus] pithagoricus; abyssus] abissus; syllogizo] sillogyzo), ph per f (fas] phas; nefas] nephas; olfatio] olphatio), f per ph (aphorismus] aforismus; phantasia] fantasia;), ti per ci (inspicio] inspitio; condicio] conditio; condicionalis] conditionalis; fallacia] fallatia; mendacium] mendatium; species] speties; sufficiens] suffitiens; sufficienter] suffitienter; sufficio] suffitio; velocius] velotius), ci per ti (negotium] negocium; operepraetium] operepraecium; otior] ocior; otiosus] ociosus), s per x (admixtus, admixtio] admistus, admistio; sesquialter] sexquialter; sesquitertius] sexquitertius); qu per cu (secutus] sequutus); varianti di nomi propri (Aristoteles] Aristotiles; Averroes, Averrois] Averois] Averroys Hentisberus] Hentisberi] Hentisber] Entisber; Hervaeus] Herveus; Inghen] Inghem; Marlianus] Marilianus; Nyssenus] Nicenus; Nazianzenus] Naziançenus). Infine, si sono uniformate in ii, tutte le uscite genitivali o nominativali in ij; si è altresì rettificato in i l’uso di ii nelle forme verbali come subicio] subiicio; conicio] coniicio; reicio] reiicio, ecc. Il lavoro di trascrizione del testo latino, con relative note filologiche e storico-esegetiche è stato condotto da Francesco Paolo Raimondi (per il De intensione et remissione formarum, per il De reactione e l’annessa Quaestio de actione reali e per il De nutritione

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NOTA EDITORIALE

et augmentatione) e da José Manuel García Valverde (per il De immortalitate animae, per l’Apologia e per il Defensorium). Il saggio introduttivo è stato diviso tra i due curatori sulla base dei trattati curati da ciascuno dei due. La bibliografia primaria e secondaria e la cronologia della vita e delle opere sono state curate da José Manuel Garcia Valverde. Il lavoro di traduzione italiana è stato condotto da Francesco Paolo Raimondi. Fatta eccezione per il De immortalitate animae e per l’Apologia, gli altri trattati sono tradotti per la prima volta in una lingua moderna. La traduzione del De immortalitate animae e dell’Apologia è stata agevolata dalla esistenza di ottimi lavori di traduzione (a partire dalla versione inglese di William Hay, rettificata da Randall, a quella tedesca di Mojsisch, alla italiana di Vittoria Perrone Compagni, e alla spagnola di José Manuel García Valverde per il De immortalitate animae e a quella di Vittoria Perrone Compagni per l’Apologia)1. La traduzione dallo spagnolo delle note esegetiche dei tre trattati curati da Valverde e delle relative parti introduttive è stata effettuata da Francesco Paolo Raimondi. In ogni caso nella compilazione del volume abbiamo proceduto di comune accordo e in stretta collaborazione, scambiandoci frequentemente suggerimenti e consigli in modo da dare una maggiore uniformità al lavoro di entrambi. Si dà qui di seguito l’elenco dei testi che sono stati collazionati nella presente edizione: – PETRI POMPONATII MANTUANI, Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici, De intensione et remissione formarum ac de parvitate et magnitudine, De reactione, De modo agendi primarum qualitatum, De immortalitate animae, Apologie libri tres, Contradictoris tractatus doctissimus, Defensorium auctoris, Approbationes rationum 1 P. POMPONAZZI, Tractatus de immortalitate animae, translated by W. H. Hay II, followed by a fasimile of the editio princeps, Haverford, Haverford College, 1938; P. POMPONAZZI, Tractatus de immortalitate animae, a c. di G. Morra, Bologna, Nanni e e Fiammenghi, 1954; E. CASSIRER, P. O. KRISTELLER, J. H. RANDALL, The Renaissance Phylosophy of man, Chicago, The University Chicago Press, 1956, pp. 255-381; P. POMPONAZZI, Abhandlung über die Unsterblichkeit der Seele. Übersetzt und mit einer Einleitung herausgegeben von B. Mojsisch, Hamburg, Meiner, 1990; P. POMPONAZZI, Trattato sull’immortalità dell’anima, a c. di Vittoria Perrone Compagni, Firenze, Olschki, 1999; P. POMPONAZZI, Tratado sobre la inmortalidad del alma, estudio preliminar, traducción y notas de José M. García Valverde, Madrid, Tecnos, 2010; P. POMPONAZZI, Apologia, Introduzione, traduzione e commento di V. Perrone Compagni, Firenze, Olschki, 2011.

NOTA EDITORIALE

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defensorii, per fratrem Chrysostomum theologum ordinis divinum, De nutritione et augmentatione, Venetiis, haeredibus Octaviani Scoti, 1525 (T nelle note filologiche). – PETRI POMPONATII MANTUANI, Tractatus utilissimus in quo disputatur penes quid intensio et remissio formarum attendantur, nec minus parvitas et magnitudo, Impressum Bononiae per Hieronymum Platonidem de Benedictis civem Bononiensem... anno Domini MDXIV, die decimo decembris (P nell’apparato filologico). – PETRI POMPONATII MANTUANI, Tractatus de reactione, impressum Bononiae in aedibus Benedicti Hectoris Bononiensis, di quinta septembris MDXV (P nell’apparato filologico). – PETRI POMPONATII MANTUANI, Quaestio an actio realis immediate fieri potest per speties spirituales, impressum Bononiae in aedibus Benedicti Hectoris Bononiensis, di quinta septembris MDXV (P nell’apparato filologico). – PETRI POMPONATII MANTUANI, Tractatus de immortalitate animae Magistri Petri Pomponatii Mantuani, impressum Bononiae per Iustinianum Leonardi Ruberiensem, anno salutis MCCCCCXVI, die sexta novembris (P nelle note filologiche) – PETRI POMPONATII MANTUANI, Apologia Petri Pomponatii Mantuani, Impressum Bononiae, per magistrum Iustinianum Leonardi Ruberiensem, 1518 (P nell’apparato filologico). – Defensorium Petri Pomponatii Mantuani, Bononiae, Impressum per Magistrum Iustinianum De Ruberia, die XVIII maii MDXIX (P nell’apparato filologico). – PETRI POMPONATII MANTUANI, Tractatus de nutritione et auctione, impressum Bononiae per Hieronymum de Benedictis, Bononiensem, Anno Domini MDXXI die XX mensis octobris (P nell’apparato filologico). – Opuscula [sic] edita per fratrem Bartholomeu[m] de spina pisanum ordinis predicatorum de obseru[an]tia lectorem sacre theologie : que in hoc volumine continentur hec sunt. Propugnaculu[m] Aristo. de imortalitate anime contra Tho. Caietanum cu]m] littera eiusdem Caietani ex c[om]mentatione sua super libros Aristo. de A[n]i[m]a quantum proposito deseruit assumpta. Tutela veritatis de imortalitate anime contra Petru[m] po[m]ponacium Mantuanu[m] cognominatum Perettum cu[m] eiusdem libro de mortalitate anime fideliter toto inserto. Flagellu[m] in tres libros apologie eiusd[em] Peretti de eadem materia. Utilis Questio de ordine sacro, Venetiis, per Gregorium de Gregoriis, 1519 (la Tutela veritatis occupa la pagine 38r-68r: (P1 nell’apparato filologico).

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NOTA EDITORIALE

– P. POMPONATII MANTUANI, Tractatus de immortalitate animae, 1534 (data falsa) 1590? (S1 nell’apparato filologico). – P. POMPONATII MANTUANI, Tractatus de immortalitate animae, 1534 (data falsa) 1650 ca. (S2 nell’apparato filologico). – P. POMPONATII MANTUANI, Tractatus de immortalitate animae, 1534 (data falsa) 1730 ca. (S3 nell’apparato filologico; le tre edizioni con datazione falsa sono indicate insieme con {S}) – P. POMPONATII MANTUANI, Tractatus de immortalitate animae, collatis tribus editionibus denuo edidit (...), M. Christ. Godofr. Bardili, Tubingae, sumptibus Joh. Georg. Cotta, 1791 (C nell’apparato filologico). – P. POMPONAZZI, De immortalitate animae, a cura di G. Gentile, Messina-Roma, G. Principato, 1925 (g nell’apparato filologico). – P. POMPONATIUS, Tractatus de immortalitate animae, a cura di G. Morra, Bologna, Nanni & Fiammenghi, 1954 (m nell’apparato filologico). – P. POMPONAZZI, Abhandlung über die Unsterblichkeit der Seele, Übersetzt und mit einer Einleitung herausgegeben von B. Mojsisch, Hamburg, Meiner, 1990 (j nell’apparato filologico).

RINGRAZIAMENTI È doveroso esprimere i più sentiti ringraziamenti a coloro che hanno reso possibile questo lavoro. In particolare sentiamo l’obbligo morale di ringraziare il Prof. Giovanni Reale, il Prof. Giuseppe Girgenti e il Prof. Enzo Cicero per la disponibilità dimostrata nei nostri confronti e per aver fortemente voluto questo volume pomponazziano. Un ringraziamento non meno doveroso va espresso alla Fondazione Arnone Bellavite Pellegrini per la meritoria iniziativa di finanziare le ricerche in ambito rinascimentale. Ci sia consentito esprimere il più sentito ringraziamento all’indimenticabile amico Marco Arnone, stimolo incessante alla ricerca e straordinario esempio di amore per il sapere e per la filosofia italiana in particolare, improvvisamente venuto a mancare mentre questo lavoro, da lui fortemente caldeggiato, era in dirittura di arrivo. F. P. R. e J. M. G. V.

Pietro Pomponazzi

TUTTI I TRATTATI PERIPATETICI

TRACTATUS IN QUO DISPUTATUR PENES QUID INTENSIO E REMISSIO FORMARUM ATTENDANTUR, NEC MINUS PARVITAS ET MAGNITUDO

TRATTATO SULL’INTENSITÀ E SULL’ATTENUAZIONE DELLE FORME

[2a/1v] Ioannes Vergilius, Urbinas, Domino Petro Pomponatio, praeceptori optimo, salutem dicit. Ne tua quandoque modestia, praeceptor eminentissime, maximam iacturam viris doctioribus pareret, eam sane quaestionem quam tu non multo laborare, magna tamen diligentia, paulo ante elucubrasti, in publicum tuo nomine proficisci curavimus. Nam etsi compertum haberem quantopere id semper fieri vetueris, ne ipse famam venari, neve plus aequo de te polliceri videreris, quia tamen fore perspeximus ut plurimum utilitatis afferret hisa qui, hactenus perplexis ambagibus illius Suiseth involuti, veritatem inspicere nequiverunt, tum quia probe noveram quantum alioqui infamiae huius quaestionis auctori a malevolis imminebat, quippe qui te bonum aliis potius invidere, quam tibi perennem gloriam praedicassent, nequaquam diutius in tenebris latitare permisimus. Quapropter tuum esse autumo, mi praeceptor, ut quemadmodum caeteri ob eam, quam enavavimusb operam, quo sincerius tuum hoc opusculum cuderetur, immodicas agunt gratias, ita ipse veniam libenti animo largiaris. Vale. [2b]

a

his] iis P.

b

enavimus] anavimus T.

[2a/1v] Giovanni Virgili,1 urbinate, al Sig. Pietro Pomponazzi, ottimo precettore, salute. Affinché talvolta la tua modestia, precettore eminentissimo, non sembri agli uomini più dotti una grandissima iattura, ci siamo preoccupati di dare alle stampe, a tuo nome, quella questione che tu hai elaborato da poco con non molta fatica, ma certamente con grande diligenza. Infatti, pur avendo compreso con quanto impegno tu avessi vietato che ciò accadesse, per non sembrare di andare a caccia di fama né di farti promesse più del dovuto, poiché ci siamo resi conto che essa avrebbe recato grandissima utilità a coloro che fino ad oggi, impigliati nei tortuosi giri di parole di quel famoso Swineshead,2 non hanno potuto scorgere la verità, ben sapendo quanta infamia sarebbe altrimenti ricaduta sulla testa dell’autore di questa questione da parte di persone malevole, le quali senz’altro più che inneggiare alla tua gloria perenne andavano dicendo che nutrivi invidia per il bene altrui, non abbiamo permesso che essa si celasse più a lungo nelle tenebre. Perciò mi dichiaro tuo, mio precettore, e come gli altri mi ringraziano moltissimo per quell’impegno che ho profuso per dare alla luce nel modo più corretto questo tuo opuscolo, così tu stesso elargisci volentieri il tuo perdono. Stammi bene. [2b]

Illustrissimo et Excellentissimo Domino, Alberto Pio de Sabaudia, Carpi Principi, Petrus Pomponatius de Mantua, salutem dicit. Memini, Alberte, Princeps Illustrissime, cum tecum essem Ferrariae, tractatumque Calculatoris De intensione et remissione legeremus, mirifice te in eius ingenio delectatum. Verum etsi eius rationes, cum violentissimae tum apparentissimae tibi viderentura, asserebas tamen eius positionem minime dictis Aristotelis convenire, quare inter nos longa habita est disputatio. Sed cum in disputationibus circularibus transactis de hoc sermo haberetur, dixissemque Calculatorem et a vero et ab antiquis philosophis longe remotum esse, quasi ab omnibus ridiculusb habitus sum. Quapropter auditores mei me rogaverunt ut quid sentirem eis aperirem et ut de hoc tractatum compilarem. Ego, tametsi hoc multum recusassem, victus tandem praecibus Pauli Bartholi, nobilis Florentini, cui omnia debeo, morem gessi. Et quoniam existimavi non iniucundum tibi fore, si eam quaestiunculam ad te transmisissem, praesertim quod, dum tecum essem, enodationem desiderabas, ideo te, hilari fronte, eam suscepturumc spero. Verum si rei ipsi non satisfacero, te caeterosque ad complementum excitabo. Vale. Ex Bononia VI Idus Septembris MDXIIII. [3a/2ra]

a b

viderentur] videretur P. ridiculus] rediculus P.

c

suscepturum] suscepturam P.

All’Illustrissimo ed Eccellentissimo Don Alberto Pio3 di Savoia, Principe di Carpi, Pietro Pomponazzi di Mantova, salute. Ricordo, Alberto, Principe Illustrissimo, che trovandomi con te a Ferrara e leggendo il trattato De intensione et remissione del Calcolatore, tu eri rimasto mirabilmente affascinato dal suo ingegno. Ma sebbene le sue argomentazioni ti sembrassero tanto più impetuose quanto più vistose, tuttavia tu sostenevi che la sua posizione non concordasse affatto con le parole di Aristotele, ragion per cui tra noi ci fu una lunga disputa. Ma, avendo discusso di ciò nelle passate dispute circolari4 ed avendo sostenuto che il Calcolatore fosse assai lontano dal vero e dalle opinioni degli antichi filosofi, sono stato ridicolizzato da quasi tutti. Perciò i miei discepoli mi hanno chiesto di compilare su questa materia un trattato e di esporre loro il mio pensiero. Sebbene avessi a lungo respinto tale impegno, vinto alla fine dalle preghiere di Paolo Bartoli,5 nobile fiorentino, cui devo tutto, obbedii. Ritenendo che non ti sarebbe dispiaciuto, se avessi dedicato a te questa questioncella, in particolar modo perché, finché sono stato con te, eri desideroso di una spiegazione, spero che tu l’accolga con gioia. Ma se non mi riuscirà di dare soddisfazione alla questione, solleciterò te e gli altri a completarla. Stammi bene. Bologna, 13 settembre 1514. [3a/2ra]

PETRI POMPONATII MANTUANI TRACTATUS IN QUO DISPUTATUR PENES QUID INTENSIO ET REMISSIO FORMARUM ATTENDANTUR, NEC MINUS PARVITAS ET MAGNITUDO PROOEMIUM Quoniam quidam anglus origine, nomine Suiseth, cognomento Calculator, vir certe acerrimi ingenii, tractatum quendam composuit, in quo penes quid intensio et remissio formarum habeant attendi, subtilissime disputat, recitatisque duabus opinionibus et eis impugnatis, suam tertiam posuit quae his temporibus communiter tenetur. Et quoniam existimatur prima esse Aristotelis et ante eum Platonis (sicut Ficinus noster in undecimo suae Theologiae contendit ostendere), immo et omnium antiquorum theologorum sicut Dionysii Ariopagitae, Augustini et multorum aliorum, ideo multi ex fratribus et filiis nostris admirati sunt, quo pacto tam doctissimi viri sic aperte erraverint, mihique retulerunt se vidisse librum celeberrimi viri Ioannis Marliani Mediolanensis, in quo Aristotelis partes tuetur. Verum defensionem suam ipsis non satisfacere, quare instantissime me rogaverunt ut, quid in hoc sentirem, eis aperirem. Ego vero saepius recusavi, cum mihi opus hoc difficillimum videretur. Deum namque testor, cum frequenter id aggredi temptassem, id mihi contigisse quod in proverbio dici solet: «Qui magis manu anguillam stringit, minus retinet, quoniam aptius labitur». Sic ego quoque, cum plus volui intelligere, minus intellexi. Verum cum quanto magis recusarem, tanto magis me infestarent; suis praecibus volens obtemperare, sententiam meam posui, non quidem per modum certae et demonstrabilis conclusionis, sed magis per modum dubitantis et veritatem scire cupientis. Et me, magistrum renuens, comitem spondeo.

PIETRO POMPONAZZI TRATTATO IN CUI SI DISCUTE DA CHE COSA SI ATTENDONO L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE DELLE FORME, NONCHÉ LA LORO PICCOLEZZA E LA LORO GRANDEZZA PROEMIO Poiché un tale di origine inglese, di nome Swineshead, soprannominato il Calcolatore, uomo d’ingegno indubbiamente vivacissimo, compose un certo trattato in cui discusse con grande sottigliezza da che cosa si debbono attendere l’intensità e l’attenuazione delle forme, dopo aver esposto ed altresì confutato due opinioni, egli propose la sua come terza, la quale in questi tempi è comunemente attecchita. La prima di tali opinioni è reputata di Aristotele e, prima di lui, di Platone6 (così il nostro Ficino tenta di dimostrare nel libro undicesimo della sua Theologia),7 anzi anche di tutti gli antichi teologi, come Dionigi l’Areopagita, Agostino8 e molti altri, sicché molti tra i nostri discepoli e fratelli si sono meravigliati come siano caduti così apertamente in errore uomini dottissimi e mi hanno riferito di aver visto un libro del celeberrimo Giovanni Marliani,9 milanese, nel quale sono difese le tesi di Aristotele. Ma, a loro avviso, la difesa di costui non era soddisfacente e perciò con grandissima urgenza mi chiesero di aprire loro il mio pensiero. Io per la verità più spesso mi rifiutai di farlo, sembrandomi tale compito difficilissimo. Mi è testimone Dio che, avendo frequentemente tentato di aggredire la questione, mi capitò ciò che di solito si dice nel proverbio: «Chi più stringe con la mano un’anguilla, meno la trattiene, poiché più agevolmente gli sfugge». Così anch’io, quanto più mi prefissi di capire, meno compresi. Ma poiché quanto più ricusavo, tanto più gli amici mi incalzavano, volendo ottemperare alle loro preghiere, proposi la mia tesi non al modo di una conclusione certa e dimostrabile, ma al modo di chi dubita ed è desideroso di conoscere la verità. E mi associo di buon grado nella confutazione del maestro [inglese].

252

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

SECTIO I PRAESENTIS TRACTATUS CONTINENS

11

CAPITA, IN QUIBUS RECITAN-

TUR OPINIONES RATIONABILES CUM SUIS FUNDAMENTIS ET RATIONES CONTRA EAS ET SIGILLATIM ET UNIVERSALITER.

CAPUT I IN QUO PONITUR PRIMA OPINIO ET RATIONIBUS QUIBUSDAM MUNITURI

1. Prima itaque opinio ab eodem Calculatore recitata est quod intensio et remissio habent attendi penes gradum summum suae latitudinis. Verum intensio penes appropinquationem et accessum ad summum, remissio vero penes distantiam et recessum ab eo[3b]dem. Et quamvis dictus Calculator nudam pronuntiaverit opinionem, ego tamen sic eam munio. 2. Primo quia Aristotelis in Praedicamentis, in capitulo De substantia, probans substantiam, «quae est species, esse magis substantiam ea, quae est genus», probat per hoc, quia magis appropinquat primae substantiae quae maximea substantia est. Amplius: primo Posteriorum, ubi probat demonstrationem universalem esse potiorem particulari, dicit: «Ideo universalis est evidentior et certior quia magis appropinquat primis principiis, quae evidentissima et certissima sunt». 3. Item textu commenti 54, primi Physicorum, dicit: «Intermedium inter elementa est magis materia quam aliquod elementorum» et inter elementa aër, deinde aqua, quia magis appropinquant naturae materiae primae. 4. Praeterea primo De caelo, textu commenti centesimi, dicit: «Unicuique communicatum est esse a primo ente, sed his quidem clarius, illis vero obscurius, secundum maiorem et minorem appropinquationem ad ipsum». 5. Amplius: textu commenti 66, secundi De caelo, dicit: «Secundum quod aliquod magis appropinquat optimo, sic est me[2rb]lius». 6. Item, textu commenti quarti secundi Metaphysicae, dicit:

a

maxime] maximo P.

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SEZ. I, CAP. I

SEZIONE I SI ESPONGONO LE OPINIONI RAZIONALI CON I LORO FONDAMENTI E

LE ARGOMENTAZIONI CONTRO LE STESSE, SIA IN PARTICOLARE CHE IN GENERALE.

CAPITOLO I ESPOSIZIONE DELLA PRIMA OPINIONE, RAFFORZATA CON TALUNE ARGOMENTAZIONI

1. La prima opinione esposta dal medesimo Calcolatore10 è che l’intensità e l’attenuazione si debbono attendere in rapporto al grado sommo della loro estensione. Più precisamente l’intensità per approssimazione e avvicinamento al sommo, l’attenuazione per allontanamento e distanza dal medesimo. [3b] E, sebbene il detto Calcolatore si sia limitato ad enunciare la semplice opinione, io la rafforzerò in questo modo. 2. In primo luogo perché Aristotele nei Praedicamenta, nel capitolo De substantia, per provare che la sostanza, che è specie, è sostanza in misura maggiore di quella che è genere, si serve di questo argomento: perché si approssima di più alla sostanza prima, che è sostanza in misura massima.11 Inoltre nel I Posteriorum, dove prova che la dimostrazione universale è migliore di quella particolare, dice: «La dimostrazione universale è più evidente e più certa perché si approssima di più ai principi primi che sono evidentissimi e certissimi».12 3. Anche nel testo del commento 54, del I Physicorum, dice che il medio tra gli elementi è un sostrato più di ciascuno degli elementi e tra gli elementi pone l’aria, poi l’acqua, perché più si approssimano alla natura della materia prima.13 4. Inoltre nel I De caelo, nel testo del commento 100, dice: «A ciascun soggetto l’essere è comunicato, agli uni più chiaramente, agli altri in modo più oscuro, dal primo ente secondo la maggiore o minore vicinanza ad esso».14 5. Ancora: nel testo del commento 66 del II De caelo, dice: «Ciò, per cui ciascuna cosa si approssima all’ottimo, è anche migliore».15 [2rb] 6. Ancora: nel testo del commento 4 del libro II della Me-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

«Sicut magis aliquod appropinquat primo calidissimo sic est calidius». 7. Item, textu commenti 7, decimi Metaphysicae, dicit: «In unoquoque genere est unum quod est metrum et mensura omnium quae sunt in illo genere, quod est primum in illo genere». Ubi Commentator, in calce illius commenti, dicit: «In genere substantiae, immo totius entis, est Deus et innumerae auctoritates adduci possent quae sonant hanc fuisse mentem Aristotelis et omnium suorum expositorum approbatorum». 8. Plato quoque videtur fuisse huius opinionis. In Phylebo enim sic dicit: «Si uniuscuiusque speciei naturam velimus conoscere, velut duri naturam, utrum ad durissima respicientes sic maxime cognosceremus». Ficinus etiam, in undecimo suae Theologiae, ostendit hanc fuisse eius opinionem. 9. Dionysius quoque in De caelesti hierarchia ordinat angelos in perfectione penes accessum ad primum. 10. Augustinus quoque, in undecimo Confessionum, dicit: «Domine duo fecisti, unum prope te quod est natura angelica, et alterum prope nihil et est materia prima. Ecce ergo quodquoda appropinquat magis perfectissimo, illud est perfectius». Et sic de aliis doctoribus celeberrimis dici posset, sed haec paucula pro nunc sufficiant. 11. Ratione quoque sic probatur: quia primum et summum in unoquoque genere est primo tale et causa quare omnia illius generis sint talia, ut textu commenti quarti, secundi Metaphysicae, scribitur: «Ergo secundum quod aliquod alicuius generis magis participat de summo illius generis et accedit et appropinquat illi, sic dicitur esse magis tale»; et hoc aperte dicit Commentator ibi in commento. Ex quo ulterius sequi[4a]tur quod si aliquod in aliqua latitudine est magis tale, quia magis appropinquat summo illius latitudinis, sic etiam erit cognoscibile. Nam sicut ibidem dicit Philosophus «uniuscuiusque rei dispositio in entitate, est dispositio in veritate». Ex quibus sequitur quod si perfectio habet attendi penes appropinquationem ad summum, imperfectio debet attendi penes distantiam a summo. Nam summum et perfectum dicuntur esse regula perfecti et imperfecti. Quia primo

a

quodquod] quod P.

SEZ. I, CAP. I

255

taphysica, dice: «Così ciò che più si approssima al primo ente caldissimo è più caldo».16 7. Ancora: nel testo del commento 7 del libro X della Metaphysica, dice: «In ciascun genere uno è il metro e la misura di tutte le cose che sono in esso ed è il primo nel medesimo genere».17 In calce al medesimo commento Averroè aggiunge: «Nel genere della sostanza, anzi della totalità dell’ente, c’è Dio».18 E si possono proporre innumerevoli citazioni che concordano nel dire che questo fu il pensiero di Aristotele e di tutti i suoi commentatori più accreditati. 8. Anche Platone sembra sia stato di tale opinione. Nel Filebo, infatti, dice: «Se vogliamo conoscere la natura di ciascuna specie, come la natura di ciò che è duro, forse rivolgendo l’attenzione a ciò che è durissimo, lo conosceremo nella misura massima».19 Anche Ficino, nel libro undicesimo della sua Theologia, mostra di aver nutrito la stessa opinione.20 9. Anche Dionigi, nel De caelesti hierarchia, ordina secondo perfezione gli angeli in relazione al loro avvicinamento a Dio.21 10. Anche Agostino, nell’undicesimo libro delle Confessiones, dice: «Signore due cose hai creato: una presso di te, che è di natura angelica, e l’altra presso il nulla ed è la materia prima».22 Ecco, dunque, tutto ciò che si approssima di più all’ente perfettissimo è più perfetto. E lo stesso si può dire degli altri dottori celeberrimi, ma per ora questi pochi citati siano sufficienti. 11. La medesima opinione si dimostra anche con la ragione nel modo seguente: ciò che è primo e sommo in ciascun genere è il primo ad essere tale ed è la causa per cui tutte le altre cose dello stesso genere sono tali, come è scritto nel testo del commento 4 del libro II della Metaphysica: «Ciò che di un determinato genere partecipa di più del sommo di quello stesso genere e si avvicina e si approssima ad esso è detto essere tale in misura maggiore»;23 e Averroè ripete chiaramente la stessa cosa nel relativo commento.24 Ne consegue che se [4a] qualcosa in una data estensione di gradazioni è tale in misura maggiore, perché più si approssima al sommo di quella estensione, sarà anche conoscibile come tale. Infatti, come dice ivi Aristotele, «come ciascuna cosa è nella realtà, tale è anche nella verità».25 Ne consegue che se la perfezione va attesa per l’approssimazione al sommo, l’imperfezione va attesa per l’allontanamento dal sommo. Infatti, si dice che il sommo e il perfetto sono la regola del perfetto e dell’imperfetto, perché

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

De anima: «Rectus est iudex sui et obliqui», sed non eodem modo. Si ergo summum est utriusque mensura, scilicet perfecti et imperfecti, et perfectum opponitur imperfecto et distantiae propinquitas, perfectio autem attenditur penes appropinquationem, igitur imperfectio penes distantiam attendetur. Multa sunt pro ista opinione quae inferius videbuntur. CAPUT II IN QUO PONUNTUR QUINQUE ARGUMENTA CALCULATORIS CONTRA DICTAM OPINIONEM

1. Antedictus autem Calculator quinque subtilissimis rationibus contra dictam opinionem argumentatur. Prima est quoniam «Ex illa sequitur quod gradus summus sit infinite intensus. Nam intendatur aliqua caliditas a usque ad summum, igitur ista caliditas erit intensa aliqualiter et in duplo et sic in infinitum, quia aliqualiter erit propinqua gradui summo et in duplo etiam in infinitum; et sic proportionabiliter, sicut erit propinqua gradui summo, sic erit intensior. Ergo in infinitum intensa erit ista caliditas ante finem horae et in fine erit intensior quam umquam ante finem; ergo caliditas summa erit in infinitum intensa, quod fuit probandum». 2. Secundo «Sequitur quod non est aliquis gradus in duplo minus intensus quam gradus medius totius latitudinis, quia non gradus solum per in duplo plus distat a gradu summo quam gradus medius inter summum et non gradum; eo quod medium est quod aequaliter distat ab extremis. Cum igitur nullus gradus per tantum distat a summo sicut non gradus, sequitur quod nullus gradus in duplo plus distat a summo quam medius totius latitudinis; ergo non gradus est in duplo minus intensus quam gradus medius totius latitudinis caliditatis. Consequens est falsum, quia aliquis gradus est aliqualiterb intensus et aliquis in duplo minus intensus et sic in infinitum, sicut aliqua quantitas est aliquanta et aliqua in duplo minor et sic in infinitum. Ergo quaestio falsa».

a

in hora] textus Calculatoris.

b

aliqualiter] equaliter P.

257

SEZ. I, CAP. II

nel I De anima si dice: «Il giusto è giudice di sé e dell’ingiusto»,26 ma non allo stesso modo. Se, dunque, il sommo è misura dell’uno e dell’altro, cioè del perfetto e dell’imperfetto, e se il perfetto è l’opposto dell’imperfetto e la vicinanza è l’opposto dell’allontanamento, la perfezione si attende per l’approssimazione e l’imperfezione per l’allontanamento. Più avanti27 si prenderanno in considerazione molti argomenti a sostegno di questa opinione. CAPITOLO II CINQUE ARGOMENTI PROPOSTI DAL

CALCOLATORE CONTRO LA CITATA

OPINIONE

1. Il Calcolatore sopra menzionato propone cinque sottilissime argomentazioni contro l’opinione citata. La prima è che «da essa segue che il grado sommo è infinitamente intenso. Infatti, posto che un certo calore si intensifichi [in un’ora] fino al sommo, esso sarà intenso in una qualche misura, poi sarà doppiamente più inteso e così via all’infinito, perché sarà prossimo al grado sommo in una qualche misura, poi sarà doppiamente prossimo e così via all’infinito; così proporzionalmente quanto più sarà prossimo al sommo, più sarà intenso. Quindi questo calore sarà intenso all’infinito prima della fine dell’ora e alla fine dell’ora sarà più intenso che prima; quindi il calore sommo sarà intenso all’infinito, che è ciò che si doveva dimostrare».28 2. Seconda argomentazione: «Segue inoltre che non esiste un grado che sia doppiamente meno intenso del grado medio di tutta l’estensione, perché solo il non grado dista doppiamente dal sommo più del grado medio tra il sommo e il non grado per il fatto che il grado medio è ciò che dista ugualmente dagli estremi. Poiché, dunque, nessun grado dista dal sommo tanto quanto il non grado, ne deriva che nessun grado dista doppiamente dal sommo più del grado medio di tutta l’estensione di gradazioni; quindi il non grado è doppiamente meno intenso del grado medio di tutta l’estensione del calore. La conseguenza è falsa, perché qualche grado è intenso in qualche misura e qualche altro è doppiamente meno intenso e così via all’infinito; così una quantità è di una qualche misura, un’altra è doppiamente minore e così via all’infinito. Quindi la questione posta è falsa».29

258

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

3. Tertio «Sequitur quod quilibet gradus motus est in infinitum remissus quia omnis gradus motus per infinitam distantiam distat a gradu infinito motus. Cum ergo nullus sit gradus intensissimus citra gradum infinitum motus, sequitur quod quilibet gradus motus per infinitum distat a gradu summo suae [2va] latitudinis. Sed consequens est falsum, ergo et antece[4b]dens». 4. Quarto «Sequitur quod quaelibet caliditas citra summum sit in infinitum remissa, quia vel est gradus summus finite intensus vel infinite; si infinite intensus, ergo omnis gradus citra summum per infinitum distat a summo. Consequentia patet, quia omnis gradus finitus per infinitum distat a gradu infinito. Cum ergo penes appropinquationem gradui summo iuxta illam positionem habeat intensio caliditatis attendi a, sequitur quod omnis gradus caliditatis est in infinitum remissus. Si finite intensus est gradus summus, tunc sit a aliquis gradus remissus; tunc in infinitum propinquior est aliquis gradus gradui summo, quam sit a, quia per infinitum modicum distat aliquis gradus a gradu summo ut patet. Ergo si penes appropinquationem gradui summo intensio caliditatis vel gradus attenditur, sequitur quod in infinitum intensior est aliquis gradus a gradu, et cum quilibet gradus citra summum et gradus summus sit solum finite intensus, sequitur quod a gradus sit in infinitum remissus. Ista conclusio est falsa, ergo positio. Quod ista conclusio sit falsa patet quia, si quilibet gradus foret infinite remissus, nullus foret aliqualiter intensus et, per consequens, nullus gradus foret altero intensior; quod est impossibile». 5. Quinto «Sequitur ista conclusio, quod aliqua incipiunt a non gradu intendi et continue aeque velociter intenduntur, et in fine erit unum altero infinite intensius. Probatur quia incipiat a caliditas intendi a non gradu et intendatur ad summum, et intendatur b motus a non gradu et intendatur continue aeque velociter cum a, tunc sequitur conclusio quod a et b incipiunt a non gradu intendi, et continue aeque velociter intenduntur,

a

et penes distantiam a gradu summo remissio caliditatis habeat attendi] textus Calculatoris.

SEZ. I, CAP. II

259

3. Terza argomentazione: «Segue che qualsivoglia grado del moto è infinitamente rallentato perché ogni grado del moto dista di una distanza infinita dal grado infinito del moto. Poiché, dunque, nessun grado è intensissimo al di sotto del grado infinito del moto, ne deriva che qualsiasi grado del moto dista all’infinito dal grado sommo della propria [2va] estensione di gradazioni. Ma il conseguente è falso; quindi lo è anche l’antecedente».30 [4b] 4. Quarta argomentazione: «Segue che qualsivoglia calore al di sotto del sommo è infinitamente attenuato, perché il grado sommo o è intenso in misura finita o in misura infinita. Se è infinitamente intenso, allora ogni grado inferiore al sommo dista infinitamente dal sommo. La conseguenza è evidente perché ogni grado finito dista infinitamente dal grado infinito. Poiché, dunque, secondo quell’opinione l’intensità del calore va attesa dall’approssimazione al grado sommo [e l’attenuazione dalla distanza dal sommo], ne deriva che ogni grado di calore è infinitamente attenuato. Se il grado sommo è intenso in misura finita, allora posto che a sia un grado attenuato, c’è sempre qualche grado che è infinitamente più vicino al grado sommo di quanto sia il grado a, perché, com’è evidente, qualche grado dista dal sommo per una quantità infinitamente modica. Quindi se l’intensità o il grado del calore si attende dall’avvicinamento al grado sommo, segue che c’è qualche grado che è infinitamente più intenso del grado a; e poiché tale grado è inferiore al sommo e il sommo è intenso solo in misura finita, ne consegue che il grado a è infinitamente attenuato. Questa conclusione è falsa, quindi lo è anche la tesi del Calcolatore. Che la conclusione sia falsa emerge dal fatto che se qualsivoglia grado fosse infinitamente attenuato, nessun grado sarebbe intenso in qualche misura e di conseguenza nessun grado sarebbe più intenso di un altro e ciò è impossibile».31 5. Quinta argomentazione: «Segue che alcune qualità cominciano ad intensificarsi a partire dal non grado e si intensificano continuamente e con un moto di uguale velocità. Alla fine l’una sarà infinitamente più intensa dell’altra. Ciò si dimostra nel modo seguente: si supponga che il caldo a cominci a crescere dal non grado e cresca fino al sommo; cresca anche il moto b a partire dal non grado e cresca continuamente e con la stessa velocità di a; segue allora la conclusione che a e b cominciano a crescere dal non grado e crescono continuamente e con uguale

260

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

ut ponitur in casu, et quod in fine erit unum altero a intensius; probatur quia in fine erit a summum et b in infinitum remissum, quia per infinitum distabit a gradu infinito; ergo erit in fine a gradus in infinitum intensior ipso b. Tenet consequentia et consequens est falsum; ergo et positio falsa». Haec Calculator. CAPUT III IN QUO PONITUR SECUNDA OPINIO ET RATIONIBUS MUNITUR

1. Secunda vero opinio ibidem recitata est quod intensio habet attendi penes distantiam a non gradu, remissio vero penes distantiam a summo eiusdem latitudinis. Auctor huius opinionis apud me ignoratur. Haec quoque opinio nude a Calculatore narratur. 2. Verum quia in remissione convenit cum prima opinione, ideo quaecumque, quantum ad remissionem, faciunt pro prima opinione, faciunt et pro secunda. Quantum vero ad intensionem, convenit cum tertia recitanda; ideo quae probant tertiam in intensione, probant et hanc secun[5a]dam. 3. Quia tamen fortassis propter illas rationes non mota fuit haec secunda opinio, ideo specialiter sic argumentor pro ea. 4. Et primo quantum ad remissionem sic: quia ‘distare a summo’ et ‘esse remissum’ convertuntur. Nam omne remissum distat a summo et omne distans a summo est remissum; ergo unum per alterum potest cognosci, licet in diversis generibus cognitionis. Tenet consequentia, quia omnia dicta ad convertentiam sic se habent: quod vel unum est subiectum et alterum est definitio, et tunc definitio a priori facit cognoscere definitum; e contra vero definitum facit cognoscere definitionem; vel unum est subiectum et alterum passio, et sic idem quod prius; vel unum est definitio

a

infinite] textus Calculatoris.

261

SEZ. I, CAP. III

velocità, come si propone nel caso in esame; alla fine l’uno sarà [infinitamente]32 più intenso dell’altro; ed è provato perché alla fine a sarà sommo e b infinitamente rallentato, perché disterà all’infinito dal grado infinito; quindi alla fine il grado a sarà infinitamente più intenso dello stesso b. Il ragionamento regge, ma la conseguenza è falsa, quindi è falsa anche la premessa».33 Questo è ciò che scrive Swineshead. CAPITOLO III ESPOSIZIONE DELLA SECONDA OPINIONE RAFFORZATA CON ARGOMENTAZIONI

1. La seconda opinione ivi esposta è che l’intensità si deve attendere dalla distanza dal non grado, l’attenuazione, invece, dalla distanza dal sommo della medesima estensione. Io ignoro chi sia l’autore di questa tesi, che è anch’essa semplicemente esposta dal Calcolatore. 2. Poiché riguardo all’attenuazione la seconda opinione si accorda con la prima, ne consegue che, quanto all’attenuazione, tutto ciò che milita a favore della prima opinione, milita anche a favore della seconda. Riguardo all’intensità, invece, la seconda opinione si accorda con la terza che si dovrà esporre; perciò le argomentazioni che provano la terza in ordine all’intensità, provano anche la seconda. 3. Poiché forse quelle argomentazioni non hanno fatto vacillare questa seconda opinione, argomenterò a suo favore in modo particolare. [5a] 4. In primo luogo in merito all’attenuazione argomenterò come segue: ‘allontanarsi dal sommo’ e ‘essere attenuato’ si convertono l’uno nell’altro. Infatti, tutto ciò che è attenuato è lontano dal sommo e tutto ciò che è lontano dal sommo è attenuato; quindi l’uno si può conoscere per mezzo dell’altro, sebbene per generi diversi di conoscenza. La conseguenza è valida, perché tutto ciò che si è detto in ordine alla convertibilità sta in questi termini: che l’uno è il soggetto definito e l’altro è una definizione; quindi la definizione permette di conoscere in anticipo il definito e di contro il definito fa conoscere la definizione, oppure il primo è un soggetto e il secondo è un’affezione e così si ricade nel caso

262

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

subiecti et alterum passio eiusdem et sic iterum unum quoquo modo notificabit alterum; vel ambo sunt passiones unius tertii subiecti et sic etiam unum poterit notificare alterum, quia passio posterior est effectus passionis prioris; quare si ad convertentia dicuntur, unum poterit certificare alterum, quod fuit propositum. 5. Secundo, quia penes illud attenditur remissio, penes quod solum omnia remissa cognoscuntur, qua remissa sunt; sed solum penes distare a summo omnia remissa cognoscuntur esse remissa. Si enim in latitudine caliditatis, quae ponantur secundum extremum intensiusa ut octo, accipiatur gradus ut sex, talis gradus non est universalis regula ad cognoscendam remissam caliditatem, quia si caliditas ut septem, vel aliqua supra 6, accipiatur et comparetur caliditati ut sex, iam non dicetur remissa respectu illius, sed dicetur intensa, cum tamen vere omnis infra sex et octo dicatur esse remissa. Sed bene si comparetur caliditati ut octo cognoscetur esse remissa et idem est iudicium de quacumque alia infra octo; vera ergo regula cognoscen[2vb]di aliquod esse remissum est ipsius summum secundum quod aliquod distat ab eo. 6. Consimiliter arguitur quod intensio habet attendi penes distantiam a non gradu, quia distare a non gradu et esse intensum convertibiliter se habent, ut patet discurrenti. Omne enim distans a non gradu est intensum et e converso; vel igitur unum est definitum et alterum definitio, vel unum definitio et alterum passio unius et eiusdem tertii, vel unum est subiectum et alterum passio, vel ambo sunt passiones unius tertii; sed, ut supra dictum est, semper unum potest certificareb alterum, secundum aliquem modum cognitionis; ergo penes unum cognoscetur alterum. 7. Confirmatur penes illud habet attendi intensio, penes quod solum omnia intensa cognoscuntur esse intensa. Sed solum penes distantiam a non gradu omnia intensa cognoscuntur esse intensa. Si enim in superiori latitudine caliditatis sumatur aliquis gradus, verbi gratia, ut quattuor, certe in habitudine ad ipsum omnia in[5b]fra quattuor dicuntur remissa et non intensa, sed

a

intensius] intensionis P.

b

certificare] certificari P.

SEZ. I, CAP. III

263

precedente; oppure l’uno è la definizione del soggetto e l’altro un’affezione del medesimo e così di nuovo l’uno farà conoscere in qualche modo l’altro; oppure sono entrambi affezioni di un terzo soggetto e anche così l’uno farà conoscere l’altro, perché l’affezione successiva è l’effetto di quella precedente; perciò se si dicono convertibili, l’uno farà conoscere l’altro. Tale è la proposta della seconda opinione. 5. In secondo luogo si osserva che l’attenuazione è dovuta solo a ciò per cui tutte le cose attenuate, in quanto attenuate, si conoscono; ma tutto ciò che è attenuato è conosciuto come attenuato solo per l’allontanamento dal sommo. Se, infatti, nell’estensione di gradazioni del calore il cui estremo più intenso si suppone di grado otto, si prende il grado sei, possiamo dire che tale grado non rappresenta la regola universale per conoscere il caldo attenuato, perché se si prende il caldo di grado sette o un altro grado sopra il sei e si paragona al caldo di grado sei, non si dirà attenuato rispetto ad esso, ma si dirà più intenso, sebbene per la verità ogni grado tra il sei e l’otto si dica essere attenuato. Ma, opportunamente comparato al caldo di grado otto, il grado sei sarà conosciuto come attenuato; lo stesso giudizio vale per qualunque altro grado di caldo inferiore all’otto; quindi la vera regola per conoscere [2vb] che qualcosa è attenuato è il grado sommo come ciò da cui si è allontanato. 6. Analogamente si arguisce che l’intensità va attesa per la distanza dal non grado, perché ‘allontanarsi dal non grado’ ed ‘essere intenso’ sono reciprocamente convertibili, come è evidente a chi ne fa oggetto di analisi. Infatti, tutto ciò che si allontana dal non grado è intenso e viceversa; quindi o l’uno è il definito e l’altro è la definizione oppure l’uno è la definizione e l’altro è l’affezione di un medesimo soggetto terzo oppure l’uno è un soggetto e l’altro è un’affezione o entrambi sono affezioni di un terzo; ma, come si è detto sopra,34 sempre l’uno fa conoscere l’altro secondo una qualche modalità di conoscenza; quindi per l’uno si conosce l’altro. 7. Si conferma che l’intensità va attesa solo da ciò per cui tutte le cose intense si conoscono come tali. Ma le cose intense si conoscono come tali solo per la distanza dal non grado. Perciò se nella parte superiore dell’estensione del calore si prende qualche grado, per esempio il caldo di grado quattro, certamente in relazione ad esso tutti i gradi inferiori [5b] a quattro si dicono

264

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

bene in habitudine ad non gradum; et idem dicatur de quocumque alio gradu a quarto sive sit supra sive infra. Ergo solum per distantiam a non gradu omnia intensa cognoscuntur esse intensa. Haec ergo est universalis regula ad cognoscendum aliquod esse intensum. Haec mihi verisimiliter videntur posse dici pro ista opinione. CAPUT IV IN QUO PONUNTUR QUATTUOR ARGUMENTA

CALCULATORIS

CONTRA

DICTAM OPINIONEM

1. Contra dictam opinionem sunt omnia argumenta quae sunt contra alias opiniones secundum quod haec convenit cum illis. Verum quia praedictus Calculator quattuor ponit argumenta contra dictam opinionem, parum tamen distantia ab illis contra primam factis, ideo ea hic subnecto. 2. Primum est: «Ex positione sequitur quod nullus est gradus medio gradu in duplo remissior, quia nullus gradus per in duplo plus distat a summo quam gradus medius, ut patet. Consequens est falsum, quia aliquis gradus est a in duplo remissior et in quadruplo et sic in infinitum; sicut quantacumque quantitate data est aliqua in duplo minor et aliqua in quadruplo et sic in infinitum; ergo etc». Istum autem argumentum differt a secundo facto contra primam, quia in prima inferebat quod nullus esset in duplo minus intensus gradu medio, istud vero quod nullus esset in duplo remissior gradu medio; qui modi sermonum apud ipsum Calculatorem non differunt. Utrum vero secundum veritatem differant, discutiemus infra. 3. Secundum argumentum est quia «Sequitur quod aliqua sunt aequaliter intensa, quae non sunt aequaliter remissa, quia caliditas summa per finitum tantum distat a non gradu. Capiatur igitur unus motus qui per tantum distat a non gradu motus, sicut ista caliditas summa distat a non gradu caliditatis; tunc iste motus et ista caliditas sunt aeque intensa, quia aequaliter distant

a

alio] textus Calculatoris.

265

SEZ. I, CAP. IV

attenuati e non intensi, ma solo in rapporto al non grado; lo stesso si dica di qualunque altro grado diverso dal quarto sia che si trovi sopra sia che si trovi sotto. Quindi solo per la distanza dal non grado si conoscono come intense tutte le cose intense. Questa è, dunque, la regola universale per conoscere che qualcosa è intenso. Ciò è quanto mi sembra si possa dire verosimilmente a favore di questa opinione. CAPITOLO IV QUATTRO ARGOMENTI PROPOSTI DAL

CALCOLATORE CONTRO LA CITA-

TA OPINIONE

1. Contro la citata opinione, nella misura in cui essa è in sintonia con le altre opinioni, militano tutti gli argomenti che sono contro di esse. Ma poiché il predetto Calcolatore propone contro la citata opinione quattro argomentazioni un po’ differenti da quelle addotte contro la prima opinione, ne faccio qui menzione. 2. Prima argomentazione:35 «Dalla opinione segue che non c’è nessun grado che è doppiamente più attenuato del grado medio, perché, com’è evidente, nessun grado è doppiamente più lontano dal sommo del grado medio. Il conseguente è falso perché qualche grado [rispetto ad un altro]36 è più attenuato del doppio, del quadruplo e così via all’infinito; così data una quantità, grande quanto si voglia, ce n’è sempre un’altra che è più piccola del doppio e un’altra che è più piccola del quadruplo e così via all’infinito; quindi etc». Questo argomento differisce dal secondo o contro la prima opinione, perché con la prima opinione si deduceva che non ci fosse nessun grado doppiamente meno intenso del grado medio ovvero che nessun grado fosse più attenuato del grado medio. Questi modi di dire per il Calcolatore non sono affatto diversi l’uno dall’altro. Se poi differiscano rispetto alla verità, sarà oggetto di discussione più avanti.37 3. Seconda argomentazione: «Segue che alcune qualità, che non sono attenuate in egual misura, sono intense in egual misura, perché il caldo sommo dista dal non grado solo per una grandezza finita. Si prenda, dunque, un moto che dista dal non grado tanto quanto questo caldo sommo dista dal non grado di calore; allora questo moto e questo caldo sono intensi in egual misura,

266

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

a suis non gradibus, et non sunt aequaliter remissa, quia infinite modice remissa est aliqua caliditas citra summum; sed nullus gradus citra summum est aeque intensus cum gradu summo; ergo ista caliditas summa non est aeque remissa cum isto gradu motus. Sed conclusio est falsa, quia omnia, quae sunt aequaliter magna, sunt aeque parva; ergo omnia, quae sunt aeque intensa, sunt aeque remissa. Igitur conclusio falsa». 4. Tertium argumentum est praecise tertium factum contra primam opinionem. Ideo non repeto. 5. Quartum argumentum «Sequitur quod omnis gradus caliditatis citra summum est infinite remissus, quia caliditas summa est finite intensa, ergo et finite remissa. Probo consequentiam quia [6a] omne quantum finitum est parvum; igitur, per idem, omnis gradus finite intensus est remissus. Sequitur ergo quod caliditas summa est remissa: a sit igitur a una latitudo caliditatis quae per certam latitudinem distet a summo, quae latitudo dividatur in partes proportionales versus summum. Tunc per infinitum minus distat aliqua pars a gradu summo quam distet a gradus, quia in infinitum propinquior est aliqua istarum partium gradui summo. Cum igitur remissio habeat attendi penes distantiam a gradu summo, sequitur quod in infinitum minus remis[3ra]sa est aliqua pars illarum quam a gradus et quaelibet illarum partium est remissior quam gradus summus. Igitur infinite remissus est a gradus. Consequens est falsum, ergo et positio». Haec Calculator. CAPUT V IN QUO PONITUR

CALCULATORIS

OPINIO CUM SUO FUNDAMENTO ET

ADDUNTUR CONFIRMATIONES

1. Tertia opinio est ipsius Calculatoris ponentis quod intensio habet attendi penes distantiam a non gradu, remissio vero penes appropinquationem eidem non gradui.

a

Iam probo priorem consequentiam (textus Calculatoris).

267

SEZ. I, CAP. V

perché sono ugualmente distanti dai rispettivi non gradi e non sono attenuati in egual misura, perché qualche grado di caldo inferiore al sommo è attenuato di una quantità infinitamente modica; ma nessun grado inferiore al sommo è intenso come il grado sommo; quindi questo caldo sommo non è attenuato come questo grado del moto. Ma la conclusione è falsa, perché tutte le cose che sono ugualmente grandi, sono ugualmente piccole; quindi tutte quelle che sono ugualmente intense, sono ugualmente attenuate. Di conseguenza la conclusione è falsa».38 4. La terza argomentazione coincide esattamente con la terza addotta contro la prima opinione. Perciò non la ripeto. 5. Quarta argomentazione:39 «Segue che ogni grado di caldo inferiore al sommo è infinitamente attenuato, perché il caldo sommo è intenso in misura finita e quindi è anche attenuato in misura finita. Dimostro la conseguenza in questi termini: [6a] ogni quantità finita è piccola, quindi per la stessa ragione ogni grado intenso in misura finita è attenuato. Ne consegue che il caldo sommo è attenuato… Sia, dunque, a un grado40 di calore il quale disti dal sommo per una determinata estensione di gradazioni e si divida questa estensione in parti proporzionali verso il sommo. Allora qualche parte dista infinitamente meno dal grado sommo di quanto disti il grado a, perché è infinitamente più vicina al grado sommo di qualcuna di quelle parti. Poiché, dunque, l’attenuazione si attende dalla distanza dal grado sommo, ne consegue che qualcuna di quelle parti è infinitamente meno attenuata [3ra] del grado a e qualsivoglia di quelle parti è più attenuata del grado sommo. Quindi il grado a è infinitamente attenuato. Il conseguente è falso, quindi lo è anche la premessa». Queste le argomentazioni del Calcolatore. CAPITOLO V ESPOSIZIONE DELLA TESI DEL CALCOLATORE CON IL SUO FONDAMENTO E RELATIVE CONFERME

1. La terza opinione è quella dello stesso Calcolatore il quale ritiene che l’intensità debba essere attesa per la distanza dal non grado e che l’attenuazione debba essere attesa per la vicinanza al medesimo non grado.41

268

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

2. Pro prima parte sic ipse argumentatur: «sicut aliquid plus distat a non quanto, sic dicitur maius; igitur per idem, sicut aliquid plus distat a non gradu suae intensionis, sic dicitur intensius. Et sic patet prima pars positionis». 3. Secundo «arguitur sic. Remissio opponitur intensioni; igitur si intensio habet attendi penes a appropinquationem ad non gradum; vel oportet quod remissio attendatur penes distantiam a non gradu vel penes distantiam a gradu perfectissimo, vel penes accessum gradui perfectissimob, vel penes accessum non gradui intensionis. Sed non primum, quia penes idem attenditur intensio; ergo non remissio. Nec secundo modo, ut probatum est prius nec tertio modo, quia sicut aliquid appropinquat gradui perfectissimo, ita dicitur esse intensius et non remissius. Relinquitur ergo quartus modus penes quemc remissio gradus attenditur. Patet ergo tertia positio quantum ad quamlibet sui partem». Haec Calculator. 4. Verum quia tota probatio innititur huic, quod sicut est in quantitate quoad magnitudinem vel parvitatem, ita est in qualitate quoad intensionem et remissionem; et quod sicut aliquid plus distat a non quanto, sic dicitur maius; et ipse reliquit hoc pro manifesto cum sit aeque dubium sicut in intensione. Ideo sic probabiliter probo ‘distare a non quanto’ et ‘esse magnum’ dicuntur ad convertentiam, quia omne magnum distat a non quanto et e converso, ut liquet; vel ergo unum est definitio alterius, vel unum est subiectum et alterum passio, vel unum est definitio et alterum passio unius et eiusdem tertii, vel ambo sunt eiusdem tertii passiones; sed, quicquid detur, unum potest per alterum cognosci. Ergo etc. 5. Amplius penes illud [6b] habet attendi magnitudo penes quod attenditur augmentatio. Patet quia augmentatio est ad magnitudinem tamquam ad terminum per se; sed augmentatio attenditur penes distare et recedere a non quanto, ut patet V Physicorum. Augmentatio enim est de non perfecta quantitate

a

Distantiam a non gradu, sequitur quod remissio habet attendi penes] textus Calculatoris. Omissio sensum textus corrumpit.

b c

perfectissimo] perfactissimo P. quem] quod P.

SEZ. I, CAP. V

269

2. A favore della prima parte egli argomenta in questo modo: «Si dice che qualcosa è più grande in quanto è più lontano dal non quanto; quindi per la stessa ragione qualcosa si dice più intenso in quanto è più lontano dal non grado della sua intensità. E in tal modo è chiara la prima parte della tesi del Calcolatore».42 3. Per la seconda parte «si procede nel modo seguente. L’attenuazione si oppone all’intensità; quindi se l’intensità si attende dalla distanza dal non grado, segue che l’attenuazione deve attendersi dalla vicinanza al non grado43 oppure è necessario che l’attenuazione sia attesa o dalla distanza dal non grado o dalla distanza dal grado perfettissimo o per l’avvicinamento al grado perfettissimo o per l’avvicinamento al non grado dell’intensità. Non si dà la prima ipotesi perché dalla distanza dal non grado si attende l’intensità, non l’attenuazione; non si dà la seconda, come si è dimostrato in precedenza,44 né si dà la terza perché ciò che si avvicina al grado perfettissimo è detto più intenso e non più attenuato. Resta, dunque, che l’attenuazione del grado si attenda dalla quarta ipotesi. Posta così la terza opinione è chiara in relazione ad ognuna delle sue parti».45 Questo dice il Calcolatore. 4. Tutta la dimostrazione poggia sul presupposto che la qualità stia alla intensità e all’attenuazione come la quantità sta alla grandezza e alla piccolezza; per cui qualcosa è detto più grande nella misura in cui è più lontano dal non quanto; e, pur essendo ciò dubbio in riferimento alla grandezza, il Calcolatore lo dà ugualmente per certo anche in riferimento all’intensità. Perciò preferisco dimostrarlo come probabile in questo modo: ‘allontanarsi dal non quanto’ e ‘essere grande’ si dicono convertibili, perché, come è evidente, ogni ‘grande’ è lontano dal non quanto e viceversa; quindi o l’uno è la definizione dell’altro o l’uno è il soggetto e l’altro la passione o l’uno è la definizione e l’altro la passione di un medesimo soggetto terzo o entrambi sono passioni dello stesso soggetto terzo; in ogni caso, comunque stia la cosa, l’uno può essere conosciuto per mezzo dell’altro. Quindi ecc. 5. Inoltre la grandezza [6b] deve attendersi da ciò da cui si attende l’accrescimento. Ciò è evidente perché l’accrescimento sta alla grandezza come al proprio completamento; ma l’accrescimento è atteso per l’allontanamento e per la recessione dal non quanto, come si evince dal V Physicorum; infatti, l’accrescimento è il passaggio da una quantità non perfetta ad una per-

270

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

ad perfectam quantitatem, quod nihil aliud est quam continue magis distare a non quanto. Ergo etc. Eodem modo arguitur de parvitate: quia omne appropinquans non quanto est parvum et e contra. Ergo ut supra. Confirmatur, quia parvitas proportionatur diminutioni, diminutio autem est accessus et propinquatio non quanto. Nam, V Physicorum, diminutio est de perfecta quantitate ad imperfectam mutatio, quod est non quanto appropinquare. CAPUT VI IN QUO PONUNTUR RATIONES CONTRA DICTAM OPINIONEM

1. Contra istam opinionem, praeter dicta pro duabus primis opinionibus, sic arguitur. 2. Primo. Quia si magnitudo habet attendi penes distantiam a non quanto, tunc aliqua esset distantia inter quantum et non quantum. Seda distantia est medium cadens inter ea quae distant. Sed quantum et non quantum sunt contradictorie opposita inter quae nihil mediat, cum Posteriorum primo contradictio sit oppositio cuius non est medium secundum se. 3. Confirmatur quia si quantum distat a non quanto per medium aliquod, vel igitur distantia illa est finita vel infinita. Si infinita, ut communiter dicitur, sic enim dicunt multi theologi – quod entis ad non ens est distantia infinita; quare solius Dei est creare, quia solius infiniti est infinita pertransitare et solus ipse infinitus est – sed tunc omnia sunt aequaliter magna, quia omne quantum per infinitum distat a non quanto et tertio Physicorum unum infinitum non est maius alio. Si vero finita non est fingere sub quo numero comprehendatur, quia non magis erit pedalis quam alterius termini. Amplius, quia illud intermedium neque erit quantum neque non quantum, cum medians inter aliqua nullum est extremorum, et multa alia adduci possent.

a

Sed] Nam P.

271

SEZ. I, CAP. VI

fetta46 e quindi non è altro che il continuo allontanarsi di più dal non quanto. Perciò ecc. Allo stesso modo si procede per la piccolezza; infatti, tutto ciò che si approssima al non quanto è piccolo e viceversa. Quindi come sopra. Se ne ha una conferma, perché la piccolezza è rapportata alla diminuzione e la diminuzione è l’avvicinamento o l’approssimarsi al non quanto. Infatti, nel V Physicorum è detto che la diminuzione è il mutamento dalla quantità perfetta a quella imperfetta,47 che coincide con l’approssimarsi al non quanto. CAPITOLO VI ESPOSIZIONE DELLE ARGOMENTAZIONI CONTRO LA DETTA OPINIONE

1. Contro questa opinione, oltre a ciò che si è detto a favore delle prime due, si procede così. 2. Prima argomentazione. Se la grandezza è dovuta alla distanza dal non quanto, allora dovrebbe esserci una qualche distanza tra il quanto e il non quanto. Ma la distanza è lo spazio intermedio che intercorre tra le cose che distano. Il quanto e il non quanto invece sono termini contraddittoriamente opposti tra i quali non c’è nessun intermedio. E nel I Posteriorum si dice che la contraddizione è l’opposizione priva di un termine medio del medesimo genere.48 3. È confermato perché se il quanto dista dal non quanto per un qualche spazio intermedio, allora la distanza è finita o infinita. Se è infinita, come comunemente si afferma e come ripetono molti teologi – i quali ritengono che la distanza tra l’essere e il non essere è infinita e che solo Dio ha il potere di creare, perché solo un infinito può percorrere infiniti oggetti e solo Dio è infinito – allora tutte le cose sono grandi in egual misura, perché ogni grandezza si allontana infinitamente dal non quanto e nel III Physicorum si dice che un infinito non può essere più grande di un altro infinito.49 Se, invece, la distanza è finita non è immaginabile sotto quale numero possa essere compresa, poiché tale distanza non sarà della misura di un piede più che di un altro termine. Per di più il medio non sarà né un quanto né un non quanto, perché, non essendoci nessuno degli estremi, non potrà mediare tra essi.

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4. Secundo ad principale, quia si magnitudo et parvitas attenderentur penes non quantum [3rb] modo dicto, tunc vel tamquam penes causam vel tamquam penes effectum sive signum, ut manifestum est. Non enim tamquam penes causam, quia non quantum nullam potest habere causalitatem ad quantum; non enim secundum formam, quia forma est per quam res est quod est, ut patet per omnes definientes causam formalem; quantum autem non est quod est per non quantum; neque potest esse causa materialis, quia neque in qua neque ex qua per se, neque secundum ali[7a]quem modorum nominatorum ab Aristotele in II Physicorum et V Metaphysicae, neque effectiva causa est cum omne quod agit, agit secundum quod est in actu, neque finalis cum sit propter quam res est vel agit. Modo quantum non ordinatur ad non quantum quarea ad genus nullumb causae reduci potest. Neque etiam attenditur penes non quantum tamquam penes effectum; quis enim effectus est non quantum quanti? Neque signum, ut patet: ergo nullo modo habent attendi penes habitudinem ad non quantum. 5. Confirmatur, quia quantum contradictorie vel privative opponitur non quanto, modo habitus per se non cognosciturc per privationem; praeterea magnum et parvum dicuntur relative, ut in Praedicamentis dicitur capitulo De quantitate: modo unum relativum cognoscitur per alterum; IX Metaphysicae: ergo magis magnum cognoscitur per parvum, et e converso, quam per non quantum. 6. Et confirmatur, quia ex quo sunt relativa cognoscuntur per fundamenta et terminos; modo neque non quantum est fundamentum, neque terminus quanti, ut patet; ergo non facit ad cognitionem eorum. 7. Tertio ad principale sequitur quod gradus summus sit remissus. Tenet consequentia per ipsum, quia finite appropinquat non gradui. Licet autem consequens ab ipso Calculatore concedatur, probatur tamen esse falsum. Quia remissum est respectu alicuius intensiorisd remissum, modo in sua latitudine nil est respectu cuius gradus summus dicatur remissus. Quod

a b

quare] quia P. nullam] nullum T.

c d

cognoscitur] cognoscit T. alicuius intensioris] elicuius P.

SEZ. I, CAP. VI

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4. Seconda argomentazione in merito alla questione principale: se la grandezza e la piccolezza fossero dovute al non quanto [3rb] nel modo detto, allora il non quanto, com’è evidente, si comporta o come causa o come effetto o segno. Non si comporta come causa, poiché il non quanto non può esercitare alcuna causalità sul quanto; non può farlo secondo la forma, perché la forma è ciò per cui la cosa è ciò che è, come è manifesto a tutti coloro che definiscono la causa formale – il quanto d’altra parte non sussiste a causa del non quanto – né il non quanto può essere una causa materiale, poiché per sé non è né in una materia, né viene da una materia, né è secondo alcuno [7a] dei modi nominati da Aristotele nel II Physicorum e nel V della Metaphysica.50 Non è neppure una causa efficiente, poiché ciò che agisce agisce secondo ciò che è in atto; né è causa finale, poiché questa è ciò per cui una cosa è o agisce. Dunque, il quanto non dipende dal non quanto, perché quest’ultimo non può essere ricondotto ad alcun genere di causa. Non è neppure possibile che il non quanto si comporti come effetto; quale è, infatti, l’effetto quantitativo del non quanto? Né è segno, come è evidente; quindi la grandezza e la piccolezza non hanno alcuna dipendenza dal non quanto. 5. Ed è confermato perché il quanto si oppone in termini contraddittori e privativi al non quanto; ma il possesso non si conosce per sé attraverso la privazione. Inoltre il grande e il piccolo si dicono relativi, come è scritto nei Praedicamenta, nel capitolo De quantitate:51 «Un termine relativo si conosce per mezzo di un altro relativo». E nel IX della Metaphysica si dice: «Il grande si conosce più attraverso il piccolo e viceversa che attraverso il non quanto».52 6. Ed è confermato perché, per il fatto che sono relativi, si conoscono attraverso i rispettivi fondamenti e i loro limiti; ma il non quanto, com’è evidente, non è né il fondamento né il limite del quanto; quindi non ha nulla a che fare con la loro conoscenza. 7. Terza argomentazione in merito alla questione principale. Segue che il grado sommo è attenuato. Secondo il Calcolatore la conseguenza regge per il fatto che il grado sommo è prossimo in misura finita al non grado.53 Sebbene il conseguente sia concesso dallo stesso Calcolatore, si dimostra tuttavia che è falso, perché ciò che è attenuato è attenuato rispetto a qualcos’altro che è più intenso, ma nella sua estensione di gradazioni non c’è nulla rispetto a cui il grado sommo si dica attenuato. Il Calcolatore dice

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

autem dicit Calculator quod respectu velocitatis motus est remissus, quia velocitas motus intenditur in infinitum. Apparet manifeste peccatum eius, quia respectu velocitatis motus, caliditas summa non est remissa caliditas, sed est remissa qualitas. Si enim, respectu velocitatis motus, esset remissa caliditas, tunc esset caliditas velocitas; quod est manifeste falsum, et patet illa consequentia, scilicet quod velocitas motus esset caliditas, quia, ut inquit Commentator primo Physicorum, commento 48, non fit comparatio inter aliqua nisi ut conveniunt in aliquo communi. Quarea si caliditas est remissa caliditas respectu velocitatis motus, velocitas motus est caliditas. Neque si caliditas est remissa qualitas sequitur quod sit remissa caliditas; sicut si maximus homo est parvum animal respectu elephantis, non sequitur quod sit parvus homo; sicut etiam non sequitur quod si est maximus homo, ut sit maximum animal; quare neque sequitur, si est summa caliditas, quod sit summa qualitas. 8. Secunda etiam responsio ab eo data non minus est disconveniens, cum dicitur quod est remissa respectu caliditatis cuib non repugnat esse intensior, primo falsum est quod possit esse intensior caliditas, quia sic aliquando aliqua fuisset intensior, quod falsum est, et tenet consequentia, quia, ut [7b] dicit Commentator primo Caeli, definitio impossibilis est ut numquam exeat ad actum, saltem secundum speciem, cum ut dicitur in eodem primo: «Deus et natura nihil agunt frustra». 9. Secundo quia si alia potest esse intensior, tunc ista non est summa secundum posse esse, sed est summa secundum esse actuale; quarec si esset remissa in actu, haberet terminum in actu, quia relatio realis habet terminum realem; sed ea nulla est intensior actu, ergo actu non est remissa, quared si ea caliditas potentia potest intendi, potentia non est summa. 10. Quod autem ulterius adducit in fundamentum sui erroris iste homo, quia omne finite magnum, est parvum, quare finite intensum est remissum, hic multiplex est error. Primo enim assumit falsum et contra Aristoteles primo De caelo, quia caelum est

a b

Quare] Quia P. cui] que P.

c d

quare] quia P. quare] quia P.

SEZ. I, CAP. VI

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che esso è attenuato rispetto alla velocità del moto, perché la velocità del moto cresce all’infinito.54 Il suo errore appare manifestamente perché rispetto alla velocità del moto il calore sommo non è un calore attenuato, ma è una qualità attenuata. Se, infatti, rispetto alla velocità del moto, il calore fosse attenuato, allora esso si identificherebbe con la velocità, cosa che è manifestamente falsa; e la conseguenza, che cioè la velocità del moto finirebbe con l’identificarsi con il calore, è evidente perché, come afferma Averroè nel I Physicorum, commento 48, non si dà comparazione tra termini se non in quanto convengono in alcunché di comune.55 Perciò se il calore è un calore attenuato in rapporto alla velocità del moto, la velocità del moto si identifica con il calore. Neppure se il calore è una qualità attenuata è possibile dedurre che si tratti di un calore attenuato; così se un uomo grande in misura massima è un animale piccolo rispetto all’elefante, non consegue che sia un piccolo uomo; così anche non segue che se è un uomo grandissimo sia anche un animale grandissimo; perciò neppure segue che se il calore è sommo, è anche una qualità somma. 8. La seconda risposta data da Swineshead non è meno incongrua; poiché egli dice che il calore sommo è attenuato rispetto ad un grado che non esclude la possibilità di essere più intenso.56 Innanzi tutto è falso che possa esserci un calore più intenso per il fatto che talvolta ce n’è stato uno così intenso. L’ipotesi è falsa e questa conseguenza regge perché, come [7b] dice Averroè nel I De caelo, la definizione impossibile è tale da non tradursi mai in atto, almeno secondo la specie; e nel medesimo libro I dice: «Dio e la natura non fanno nulla invano».57 9. In secondo luogo perché se un altro calore può essere più intenso, allora questo non è sommo secondo il poter essere, ma è sommo secondo l’essere attuale; perciò se fosse attenuato in atto, avrebbe un limite in atto, perché la relazione reale ha un termine reale; ma nessun calore è in atto più intenso di quello, quindi non è attenuato in atto; perciò se quel calore può crescere in potenza, non è sommo in potenza. 10. Ciò che poi quest’uomo adduce a fondamento del proprio errore, cioè che tutto ciò che è grande in misura finita è piccolo e che l’intenso in misura finita è attenuato, è un errore sotto molti punti di vista.58 In primo luogo perché parte da un assunto falso e contrario ad Aristotele, il quale nel I De caelo ha affermato che

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maximum et eo non potest dari maius, quare ipsum nullo modo est parvum, cum parvum referatur ad magnum. Secundo quia non sequitur ‘omnis motus finite velox est remissus, ergo omnis alia qualitas finita est remissa’; quiaa, concesso quod motus velocitatur in infinitum, quod videtur concedere Aristoteles VI et VII Physicorum, non tamen concedit de aliqua alia qualitate saltem permanente. Ostendit enim II De generatione quod caliditas et frigiditas et sic de caeteris sunt terminatae. Et primo et IV De caelo, quod gravitas et levitas, quae sunt qualitates motivae, non possunt esse infinitae, sicut neque alterativae; quod si in IV Physicorum, tractatu De vacuo, admittat raritatem crescere in infinitum, hoc facit vel ex concesso ab adversario, vel loquitur in universali et mathematiceb sicut dicimus [3va] quod caelum in quantum corpus est quiescibile, sed non in quantum caelum. Sed tunc non datur, sic sumendo raritatem abstracte, summa raritas, quia numquam summo, qua summum est, datur intensius vel maius. 11. Quarto principaliter arguitur quia a summo omnia alia, quae sunt citra summum, capiunt suam intensionem. A non gradu vero nullo modo dependent, et secundum quod magis vel minus appropinquant summo, sic magis sunt intensa et minus intensa; ergo intensio et remissio habent attendi in habitudinem ad summum. Tenet consequentia per illud II Metaphysicae: «Uniuscuiusque dispositio in entitate est dispositio in veritate». Si ergo a summo dependent inesse et a non gradu, nullam prorsus habeant dependentiam, quomodo ergo fieri potest quod sua cognitio dependeat a non gradu? Probatur autem antecedens, scilicet quod a summo ea, quae sunt citra summum, capiant entitatem. Si enim latitudo entis accipiaturc summum, est Deus benedictus, qui est causa totius entis, ut in duodecimod Metaphysicae demonstratum est: «Et unumquodque maxime aliorum dicitur secundum quod aliorum est causa secundum univocationem», ut secundo Metaphysicae dicit Aristoteles et primo Posteriorum, «Propter unumquodque tale est et [8a] illud magis»;

a b

quia] quare P. mathematice] mathematicae T.

c d

accipiatur] accipiat P. duodecimo] secundo P.

SEZ. I, CAP. VI

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il cielo è grandissimo, che di esso non si può dare il ‘più grande’ e che non è in alcun modo ‘piccolo’, essendo il piccolo correlato al grande.59 In secondo luogo non è conseguente dedurre ‘ogni moto veloce in misura finita è rallentato; quindi ogni altra qualità finita è attenuata’; perché, posto che la velocità del moto cresca all’infinito, come sembra concedere Aristotele nel VI e nel VII Physicorum,60 non sembra che egli lo conceda in relazione a qualche altra qualità, tranne che per quella permanente. Nel II De generatione, infatti, mostra che il caldo e il freddo – e lo stesso vale per le altre qualità – sono quantità determinate.61 Nel I e nel IV De caelo dice che la gravità e la leggerezza, che sono qualità che producono un moto locale, non possono essere infinite, come non possono esserlo le qualità che producono un’alterazione;62 e se nel IV Physicorum, nel trattato De vacuo, Aristotele ammette che la rarità cresce all’infinito,63 lo fa o sulla base di un’ipotesi ammessa da un oppositore oppure parla in generale e in termini matematici, come quando diciamo [3va] che il cielo, in quanto corpo, ma non in quanto cielo, è suscettibile di quiete. Ma allora, se si assume la rarità in termini così astratti, non si dà la rarità somma, perché non si dà niente di maggiore e di più intenso del sommo, in quanto sommo. 11. Quarta argomentazione in ordine alla questione principale: dal sommo prendono la propria intensità tutte le cose che gli sono inferiori. Esse non dipendono in alcun modo dal non grado e si approssimano al sommo secondo il più e il meno e così sono più o meno intensi; quindi l’intensità e l’attenuazione si comprendono in rapporto al sommo. La conseguenza regge per ciò che è detto nel libro II della Metaphysica: «come ciascuna cosa si dispone nell’essere, così si dispone nella verità».64 Se, dunque, dipendono dal sommo per l’essere e se non hanno proprio nessuna dipendenza dal non grado, come è possibile che la loro conoscenza dipenda dal non grado? Si dimostra l’antecedente, cioè che le cose che sono inferiori al sommo, prendono dal sommo il loro essere. Se, infatti, si considera l’estensione di gradazioni dell’essere il sommo è Dio benedetto, che è la causa di tutto l’essere, come è dimostrato nel XII della Metaphysica: «Ciascuna cosa è detta ‘la più grande’ delle altre per ciò che è causa delle altre che sono ad essa sinonime», come afferma Aristotele nel II della Metaphysica e nel I Posteriorum: «Ciò, per cui una cosa qualsiasi è tale, è tale [8a] in misura maggiore»;65 perciò è l’ente

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

quare est maxime ens et omnia alia habent esse ab illo primo, sicut dictum est primo Caeli «A primo ente derivatum est omne esse, sed his quidem clarius, illis vero obscurius», quia summum ens est causa secundum univocationem totius entis et videmus quod prima Intelligentia post ipsum est perfectissima ut omnes concedunt, quia est ipsi maxime propinqua. Nam propinqua sunt inter quae non cadit medium. Sed inter creatorem et primam creaturama non mediat aliquid, cum nihil sit medium inter creatum et increatum sive inter dependens et independens. Illud enim quod mediaret nullorum istorum esset quod omnino impossibile est; quare prima creatura maxime Deo propinquabit. Secunda vero minus propinqua est, quia inter illam et creatorem cadit prima, et sic ulterius procedendob ut liquet, ad non gradum vero entis quod est nihil purum, habitudinemc creatura; neque creatorid aliquam habent similitudinem; igitur nullo modo neque cognoscibilitatem. 12. Amplius manifeste probatur quod haec positio Calculatoris est omnino erronea, quia sicut dicit Commentator, commento 78, secundi De anima, agentia naturaliae, ubi passum sit aequaliter dispositum et aliunde non habeant impedimentum, agunt sphaerae in modum per certam distantiam latitudinem uniformiter difformiter, in cuius latitudinis puncto immediato est intensissimus gradus, in remotissimo vero est non gradus et est terminatio latitudinis exclusive, in puncto vero medio est gradus medius inter non gradum et gradum intensissimum, et inf puncto medio inter medium totius latitudinis et remotissimum punctum erit gradus medius inter non gradum et medium gradum totius latitudinis. 13. Disponamus ergo in terminis: sit a unum luminosum, quod producat suum lumen per distantiam octo pedum ab octo usque ad non gradum, et hoc uniformiter difformiter; tunc in puncto a immediato producet lumen ut octo, in distante per unum pedale tantum ab ipso erit lumen ut septem, in distante per duo pedalia erit ut sex, et sic ordinate procedendog usque ad non gradum medii. Si quaeratur quare in puncto terminante primum pedale versus a est lumen ut septem, in puncto vero termia

e

b

f

creaturam]creturam P. procedendo] producendo T. c habitudinem] om. P. d creatori] creator PT.

naturalia] naturali T. in] om. P. g procedendo] producendo T.

SEZ. I, CAP. VI

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in misura massima e tutte le altre cose hanno l’essere da quel primo ente, come è detto nel I De caelo: «Dal primo ente è derivato ogni altro ente, agli uni più chiaramente, agli altri in modo più oscuro», perché il sommo ente è la causa per sinonimia di tutto l’essere e vediamo che la prima Intelligenza, che è dopo di lui, è, come tutti ammettono, perfettissima, perché è ad esso vicina nella misura massima. Infatti, sono vicine le cose tra le quali non intercorre un termine intermedio. Ma tra il creatore e la prima creatura non c’è un termine intermedio, non essendoci alcuna mediazione tra il creato e l’increato o tra il dipendente e l’indipendente. È del tutto impossibile che tra questi enti ci sia qualcosa in grado di mediare; perciò la prima creatura sarà prossima a Dio nella misura massima. La seconda è meno prossima, perché tra essa e il creatore cade la prima creatura, e così procedendo più oltre, com’è evidente, la creatura non ha rapporto con il non grado dell’essere che è il puro nulla, né queste hanno qualche somiglianza con il creatore; quindi non hanno in alcun modo la possibilità di conoscerlo. 12. Inoltre si dimostra chiaramente che questa tesi del Calcolatore è affatto erronea, perché, come dice Averroè nel commento 78 del II De anima; «Gli agenti naturali, se ciò che patisce è opportunamente disposto e se non hanno un impedimento esterno, agiscono con uniformità difforme nel modo di una sfera per una distanza determinata e secondo una estensione di gradazioni nella quale nel punto immediato [ovvero al centro della sfera] c’è il grado intensissimo, in quello che è il più lontano dal centro c’è il non grado, il quale segna il confine che esteriormente chiude l’estensione sferica; nel punto medio c’è il grado medio tra il non grado e il grado intensissimo e nel punto medio tra il medio di tutta l’estensione e il punto più lontano ci sarà il grado medio tra il non grado e il grado medio di tutta l’estensione».66 13. Procediamo, dunque, con ordine: sia a un punto luminoso che proietti in modo uniformemente difforme la propria luce per una distanza di otto piedi dal grado otto fino al non grado, allora nel punto immediato a sarà proiettata la luce di grado otto, in quello distante da esso solo di un piede ci sarà la luce di grado sette, in quello distante due piedi la luce di grado sei e così procedendo ordinatamente fino al non grado del mezzo. Se ci si chiedesse perché nel punto in cui termina il primo piede a partire da a la luce è di grado sette e nel punto in cui termina il

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nante secundum pedale versus idem a est tantum ut sex, apparet quod nulla rationabilis causa adduci potest nisi secundum propinquitatem ad suum principium et distantiam, quia quod magis appropinquat plus recipit de influxu, quod vero minus minus recipit de influxu et virtute agentis. 14. Unde Aristoteles II Meteororum in parte de locis habitabilibus secundum plagas caeli, dicit aliqua esse inhabitabilia propter [8b] nimiam frigiditatem, aliqua vero propter nimiam caliditatem; sicut poeta in primo Georgicorum etiam voluit; nimia autem frigiditas est ex elongatione a fonte caloris, nimia autem caliditas est per appropinquationem ad eundema fontem, licet et aliae causae concurrant sicut directio radiorum et mora solis, sicut abunde Commentator ibi declarat in Paraphrasi. Sed semper caeteris paribus quod magis appropinquat suo principio plus recipit de illo principio. 15. Hinc nata est illa quasi communis animi conceptio ‘Agens intensius agit in propinquium quam in remotum’. Et propter hoc multi, de quorum numero fuit divus Thomas, existimaverunt terram intensive esse frigidiorem aqua, quia magis distat a fonte caloris. 16. Medicique dicunt extrema magis prius infrigidari, quia sunt magis remota [3vb] a fonte caloris, scilicet, ab ipso corde. O quam vana et perridicula esset medici responsio si interrogaretur quare extrema prius frigent, spiritualia vero posterius vel forte non frigent, et dicerentb quia in extremis ille gradus caliditatis minus distat a non gradu, scilicet qui est in pede, qui vero est in pectore magis distat a non gradu! Quare aperte videtur quod ista opinio proculdubio est erronea. 17. Quinto principaliter arguitur, quia est contra omnem experientiam et videtur huiusmodi opinio esse penitus ridicula. Videmus enim omnes mechanicos, emptores, venditores, pictores et cuiusvis rei opifices mensurare rerum perfectiones in habitudine ad perfectissimum. Immo est maxima deceptio nedum ad non gradum, qui omnino nil, est comparare, verum ad imperfectissimum, et universaliter ad imperfectius se. Habent enim

a

eundem] aundem P.

b

dicerent] diceret P.

SEZ. I, CAP. VI

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secondo piede a partire dal medesimo a la luce è solo di grado sei, è evidente che non si può addurre alcuna ragionevole causa se non quella della vicinanza al proprio principio e della distanza da esso, perché ciò che più si approssima al principio più ne recepisce l’influsso e ciò che gli si approssima meno, meno recepisce l’influsso e il potere dell’agente. 14. Per questa ragione Aristotele, nel II Meteororum, nella parte in cui tratta dei luoghi abitabili in relazione alle regioni celesti, dice che talune zone sono inabitabili a causa [8b] dell’eccessivo freddo, altre per l’eccessivo caldo.67 Allo stesso modo volle esprimersi anche il Poeta nel I Georgicon; il freddo eccessivo viene dalla lontananza dalla fonte del calore, l’eccessivo caldo viene dall’avvicinamento alla medesima fonte, sebbene concorrano altre cause quali la direzione dei raggi e la sosta del sole,68 come abbondantemente chiarisce Averroè nella relativa Paraphrasis. In ogni caso sempre, a parità di condizioni, ciò che più si approssima al proprio principio più recepisce da esso.69 15. Da qui si è originata quella concezione, pressoché comune, secondo cui ‘ciò che agisce in modo più intenso, agisce in vicinanza più che in lontananza’. E per questo molti, tra i quali va annoverato San Tommaso, stimarono che la terra fosse intensamente più fredda dell’acqua, a causa della maggiore distanza dalla fonte del calore.70 16. I medici dicono che le estremità si raffreddano di più perché sono più [3vb] lontane dalla fonte del calore, cioè dallo stesso cuore. Quanto sarebbe vano e ridicolo se i medici, alla domanda perché le estremità si raffreddano prima e gli spiriti dopo o addirittura non si raffreddano, rispondessero: «perché nelle estremità il loro grado di calore dista meno dal non grado, che è nel piede, e dicessero che ciò che è nel petto dista di più dal non grado!». È manifestamente evidente che questa opinione è erronea oltre ogni dubbio. 17. Quinta argomentazione in ordine alla questione principale: siffatta opinione è contro ogni esperienza e sembra essere profondamente ridicola. Vediamo, infatti, che tutti gli ingegneri, i compratori, i venditori, i pittori e gli artigiani di qualsiasi arte misurano la perfezione delle cose in relazione a ciò che è perfettissimo. Anzi trae nel massimo inganno la comparazione non solo con il non grado, che non è niente affatto, ma anche con ciò che è imperfettissimo e in generale con ciò che è più imperfetto

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emptores colorum ut in genere albi vel viridis vel cuiusvis coloris summum in illo quod iudicatorium sive exemplar appellari potest et in lingua nostra vulgari appellant parangone et per collationem ad illud mensurant illa in illo genere. Sic enim faciunt aurifices in cognoscendo aurum et argentum; nam in habitudine ad talia exemplaria iudicant de perfectione auri et argenti sibi oblati et mensurant quantum sit et quantum non sit; nam per quantum participant de illo tantae perfectionis existimantur et hoc per rem inclusam, per quantum vero non participant, per tantum dicuntur deficere a vera natura, et hoc per rem exclusam, ut infra dicemus. Eodem modo etiam pictores, domificatores et denique reliqui artifices faciunt. 18. Galenus quoque medicorum princeps in libro Complexionum et secundo Artis parvae docuit mensurare perfectiones et imperfectiones humanorum corporum per accessum et recessum ad corpus temperatissimum, quem omnes medici postea secuti sunt. 19. Tactus quoque temperatus ponitur regula qualitatum tangibilium, temperatus gustus saporum, vir ho[9a]nestus virtutis et vitii. Quare si recte considerabitur haec Calculatoris opinio remota est ab omni experientia. 20. Sexto principaliter quia per huiusmodi regulam positam a Calculatore numquam homo erit certus de rei perfectione; nam si perfectio purpurae, verbi gratia, attenditur penes distantiam a non gradu eius, cum perventum erit ad summam fortassis sciri poterit quod est ut 8, sed quod ista sit perfecta per illam regulam minime scietur. CAPUT VII IN QUO PONITUR QUARTA OPINIO SATIS RATIONABILIS

1. Post dictas vero opiniones mihi visum est quod posset adiungi quarta opinio, forte non minus rationabilis illis tribus, videlicet quod intensio attenditur penes appropinquationem ad

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di sé. Infatti, i compratori di colori hanno come punto di riferimento un grado sommo esemplare nel genere del bianco o del verde o di qualsivoglia colore il quale può essere chiamato campione o esemplare, che nella nostra lingua volgare è chiamato paragone, per cui essi misurano nel confronto con tale esemplare tutte le cose che sono dello stesso genere. Così fanno gli orefici nel riconoscimento dell’oro e dell’argento. Infatti, giudicano della perfezione dell’oro e dell’argento sottoposti al loro parere e misurano quanto siano perfetti e quanto non lo siano e stimano che siano di tanta perfezione di quanto partecipano di quel campione – e ciò per inclusione – e per quanto non partecipano di esso per tanto dicono che sono distanti dalla vera natura – e ciò per esclusione – come diremo più avanti.71 Allo stesso modo fanno anche i pittori, i costruttori e infine tutti gli altri artigiani. 18. Anche Galeno, principe dei medici, nel libro delle Complexiones e nel II dell’Ars parva, insegnò a misurare la perfezione e l’imperfezione dei corpi umani per avvicinamento o per allontanamento rispetto al corpo temperatissimo.72 Tutti i medici che sono venuti dopo di lui se ne sono fatti seguaci. 19 Anche il tatto moderato è proposto come regola delle qualità tangibili e il gusto moderato come regola dei sapori e l’uomo onesto [9a] come norma per giudicare la virtù e il vizio. Perciò, se considerata correttamente, questa opinione del Calcolatore è lontana da ogni esperienza. 20. Sesta argomentazione in ordine alla questione principale: per mezzo di siffatta regola proposta dal Calcolatore73 l’uomo non sarà mai certo della perfezione di una cosa. Infatti, se la perfezione della porpora, per esempio, è dovuta alla distanza dal suo non grado, quando sarà pervenuta al grado sommo si potrà forse sapere che è di grado otto, ma che essa sia perfetta non si saprà affatto attraverso quella regola. CAPITOLO VII ESPOSIZIONE DELLA QUARTA OPINIONE SUFFICIENTEMENTE RAZIONALE

1. Dopo le citate opinioni mi è sembrato che se ne potesse aggiungere una quarta, forse non meno ragionevole delle altre tre, secondo la quale l’intensità è spiegabile in termini di appros-

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summum – in quo convenit cum prima, differtque a secunda et tertia – remissio vero penes appropinquationem ad non gradum, in quo convenit cum tertia et differt a prima et secunda. 2. Speciales autem rationes possunt adduci pro hac opinione. Primo: quia primum in unoquoque genere est causa omnium, quae sunt illius generis. Cum ergo in latitudine caliditatis summum sit primum in intensione et non gradus sit primum in remissione; ergo summum erit causa omnis intensionis, et non gradus erit causa cuiuslibet remissionis; sed sicut se habet ad esse, ita ad cognosci II Metaphysicae; ergo penes summum attendetur intensio et penes non gradum remissio. 3. Secundo: quia omnes propositiones affirmativae post primam reducuntur in primam affirmativam, et negativae in negativam, ut primo Priorum et primo Posteriorum docet Aristoteles et non minus IV Metaphysicae. Ergo et omnes gradus intensi in latitudine debent reduci in primum intensum, qui est gradus summum, et omnes remissi, qua remissi, sunt in primum remissum, qui est non gradus; et quemadmodum omnes affirmativae per accessum ad primam affirmativam mensurantur, et negativae per accessum ad negativam, sic intensi per accessum ad primum intensum et remissi per accessum ad primum remissum habet mensurari. 4. Pro hac opinione etiam videntur facere verba Augustini in XI Confessionum; dicit enim: «Domine duo fecisti unum prope te quod est natura angelica; et alterum prope nihil, et est materia prima»; modo natura angelica videtur perfectissima creaturarum, quia maxime propinqua perfectissimo; materia autem prima imperfectissima, quia appropinquat non gradui perfectionis. 5. Videtur quoque esse propositio concessa ab omnibus philosophis, scilicet «quod appropinquat puro actui perfectius est, quod appropinquat potentiae purae imperfectius est». Eam enim ponit Commentator in quampluribus locis. Quare etc. [9b/4ra]

SEZ. I, CAP. VII

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simazione al sommo – e in questo essa concorda con la prima opinione e differisce dalla seconda e dalla terza – e l’attenuazione, invece, è spiegabile in termini di approssimazione al non grado, e in questo concorda con la terza e differisce dalla prima e dalla seconda. 2. Si possono proporre specifiche argomentazioni a favore di questa opinione. Innanzi tutto perché ciò che è primo in ciascun genere è la causa di tutte le cose dello stesso genere. Essendo, dunque, il sommo il primo per intensità nella estensione di gradazioni del calore ed essendo il non grado il primo per attenuazione, il sommo sarà di conseguenza la causa di ogni intensità e il non grado sarà la causa di qualsivoglia attenuazione. Ma, come sappiamo dal libro II della Metaphysica, le cose sono nel loro essere così come sono conosciute;74 quindi dal sommo si attenderà l’intensità e dal non grado l’attenuazione. 3. In secondo luogo, tutte le proposizioni affermative successive alla prima si riconducono alla prima; anche le proposizioni negative si riconducono alla negativa, come insegna Aristotele nel I Priorum e nel I Posteriorum, nonché nel libro IV della Metaphysica.75 Quindi anche tutti i gradi dell’intenso nella estensione debbono ricondursi al primo intenso, che è il grado sommo, e tutti i gradi attenuati, in quanto attenuati, dipendono dal primo attenuato, che è il non grado. E come tutte le affermative si misurano per avvicinamento alla prima affermativa e le negative per avvicinamento alla negativa, così nella misura dell’intenso si deve procedere per avvicinamento al primo intenso e nella misura dell’attenuato per avvicinamento al primo attenuato. 4. A vantaggio di questa tesi sembrano essere di supporto le parole di Agostino nel libro XI delle Confessioni. Egli, infatti, dice: «Signore hai creato due cose: una vicina a te, ed è la natura angelica, l’altra vicina al nulla, ed è la materia prima»;76 ora la natura angelica sembra la più perfetta delle creature e la materia prima la più imperfetta perché più si approssima al non grado della perfezione. 5. Sembra anche che sia ammessa da tutti i filosofi la proposizione ‘ciò che si approssima all’atto puro è più perfetto, ciò che si approssima alla pura potenza è più imperfetto’. Averroè, infatti, la propone in moltissimi luoghi. Perciò ecc. [9b/4ra]

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT VIII IN QUO NUMERANTUR QUAE SUNT CONTRA PRAEDICTAM OPINIONEM

1. Contra vero praedictam opinionem, quantum convenit cum prima in intensione, sunt argumenta quae fiunt contra primam; quantum vero convenit cum secunda, sunt argumenta quae fiunt contra secundam in remissione. Specialia autem argumenta non adduco. Quare etc. CAPUT IX IN QUO PONITUR QUINTA OPINIO, QUAE VIDETUR ESSE

ARISTOTELIS

1. Praeter istas opiniones videtur esse una alia secundum quod intensio habet attendi penes minorem admixtionem cum suo contrario, remissio autem penes maiorem admixtionem. Et hanc expresse ponit Aristoteles III Topicorum, Physicorum etiama V et in multis aliis locis; immo fuit haec positio Platonicorum et Peripateticorum, et mirum est quomodo Calculator ita spreverit eam. Fundamenta autem huius opinionis infra ponentur. CAPUT X IN QUO ARGUITURb CONTRA PRAEDICTAM OPINIONEM

1. Contra istam opinionem arguitur. Primo: quia non universaliter quaecumque intenduntur et remittuntur habent contrarium, ut patet de lumine. 2. Secundo: quia non est apud omnes concessum in habentibus contrarium. Quod contraria se compatiantur secundum aliquem gradum, quantumcumque remissum, cum secundum eos contrarietas insequatur speciem sicut divus Thomas et multi alii tenuerunt.

a

etiam] et P.

b

arguitur] arguit P.

287

SEZ. I, CAPP. VIII-X

CAPITOLO VIII ARGOMENTI CONTRO LA PREDETTA OPINIONE

1. Contro la predetta opinione, per quanto essa concorda con la prima in merito alla intensità, militano gli argomenti contro la prima; per quanto, invece, concorda con la seconda in merito all’attenuazione, militano gli argomenti contro la seconda. Non aggiungo altri argomenti particolari. Perciò ecc. CAPITOLO IX ESPOSIZIONE DI UNA QUINTA OPINIONE CHE SEMBRA ESSERE DI

ARI-

STOTELE

1. Oltre a queste opinioni sembra essercene un’altra secondo cui l’intensità deve attendersi da una minore mescolanza con il proprio contrario, l’attenuazione, invece, da una maggiore mescolanza. E questa opinione è esplicitamente proposta da Aristotele nel III Topicorum77 ed anche nel V Physicorum78 e in molti altri luoghi; anzi questa fu la tesi dei Platonici e degli Aristotelici ed è sorprendente come essa sia stata così disprezzata dal Calcolatore.79 Più avanti80 porremo le basi di questa opinione. CAPITOLO X CONFUTAZIONE DELLA PREDETTA OPINIONE

1. Contro tale opinione la confutazione procede in questi termini. In primo luogo perché le cose che tendono ad intensificarsi e ad attenuarsi non hanno in generale un contrario, come è evidente a proposito della luce. 2. In secondo luogo perché non tutti ammettono la mescolanza in riferimento alle cose che hanno un contrario, poiché i contrari si compatiscono secondo un certo grado, per quanto possibile attenuato, dal momento che secondo costoro la contrarietà viene dopo la specie, come sostennero S. Tommaso81 e molti altri.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

3. Tertio quia, etiam dato quod contraria secundum aliquem gradum se compatiantur, ut communiter creditur de sententia Commentatoris, tamen admixtio cum suo contrario non videtur esse per se causa intensionis et remissionis. Nam si albedo ut duo est remissior ea quae est ut 4 quia est magis admixta nigredini – nam in ea ut duo, est nigredo ut 6 vel saltem in subiecto in quo est albedo ut duo, est nigredo ut 6, et ubi est albedo ut 4 est nigredo ut 4 – tunc restat quaerere itidem cur nigredo ut 6 est intensior nigredine ut 4. Et oportet respondere quia in nigredine ut 6 est albedo ut duo et in nigredine ut 4 est albedo ut 4. Quare nigredo ut 6 est intensior ea ut 4 et tunc ulterius quaerere de ea, et sic idem dabitur in responsione ad seipsum, et erit circulus quod impugnatum est primo Posteriorum. 4. Amplius ex ista positione sequi videtur quod si album ut duo intendatur ad summum fiet in infinite album, quia intensio fit per minorem admixtionem cum suo contrario; sed in infinitum minus admiscebitura cum suo contrario, quia nigredo deveniet ad non gradum, ex quo fiet summe album; sed sicut minus admiscebitur cum suo contrario, sic fiet intensius; ergo in infinitum intensius fiet quam nunc fit. [10a] Et nunc est intensum ut duo, ergo fiet infinite intensum; quod est impossibile. 5. Praeterea valde ridiculum videtur quod albedo fiat intensior ex minori admixtione cum nigredine. Nam haec sunt duo entia positiva realiter distincta, quorum alterum non intrat in constitutione alterius. Quomodo ergo possibile est quod unum intendatur per solam alterius corruptionem? Quod enim albedo fiat purior ex remotione nigredinis sola hoc satis imaginabile est; sed quod augeatur in qualitate per solam realem corruptionem, istud nedum est impossibile, verum inimmaginabile, sicut quod cumulus frumenti fiat purior per solam subtractionem extranei, sed non quod fiat maior.

a

admiscebitur] admiscetur P.

SEZ. I, CAP. X

289

3. In terzo luogo, perché, anche ammesso che i contrari si compatiscano secondo qualche grado, come comunemente si crede che sia il parere di Averroè, tuttavia la mescolanza con il proprio contrario non sembra essere di per sé causa di intensità e di attenuazione. Infatti, se il bianco di grado due è più attenuato di quello di grado quattro, perché è più mescolato con il nero – infatti, in quello di grado due il nero è di grado sei o almeno è di grado sei in un soggetto in cui il bianco è di grado due e nel bianco di grado quattro il nero è di grado quattro – allora allo stesso modo c’è da chiedersi perché il nero di grado sei è più intenso di quello di grado quattro. Ed è necessario rispondere che nel nero di grado sei c’è il bianco di grado due e che nel nero di grado quattro c’è il bianco di grado quattro. Perciò il nero di grado sei è più intenso di quello di grado quattro; allora bisognerà nuovamente porre la domanda sul bianco e così nel rispondere si cadrà nella medesima trappola di prima e si cadrà in quella circolarità impugnata nel I Posteriorum.82 4. Inoltre da questa tesi segue che se il bianco di grado due cresce fino al sommo, diventerà infinitamente bianco, perché l’intensità si produce per minore mescolanza con il proprio contrario; ma il processo di minore mescolanza con il proprio contrario procederà all’infinito perché il nero dovrà giungere al non grado, per il quale il bianco diventerà sommo; così diventerà più intenso quanto meno sarà mescolato al proprio contrario; quindi diventerà infinitamente più intenso di quanto lo sia ora. [10a] Ma ora è intenso nel grado di due, quindi sarà infinitamente intenso; il che è impossibile. 5. Inoltre sembra affatto ridicolo che il bianco diventi più intenso a seguito di una minore mescolanza con il nero. Infatti, questi sono due enti positivi realmente distinti, ciascuno dei quali non entra nella costituzione dell’altro. Come, dunque, è possibile che l’uno cresca solo attraverso la corruzione dell’altro? Che il bianco diventi più puro unicamente a seguito della rimozione del nero è cosa sufficientemente immaginabile, ma che aumenti nella qualità unicamente a seguito di una reale corruzione, è non solo impossibile, ma anche inimmaginabile. Allo stesso modo è possibile che un cumulo di frumento diventi più puro a seguito della sola estrazione di ciò che estraneo, ma non è possibile che con ciò diventi più grande.

290

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT XI IN QUO ARGUUNTUR OMNES DICTAE OPINIONES DE INSUFFICIENTIA

1. Videtur etiam quod omnes dictae opiniones insufficienter loquantur. Namque apud tenentes intensionem attendi penes distantiam a non gradu non determinant in primis quid istud distare sit. Etiam si datur maior et minor distantia, scire oportet mensuram metiendi istam distantiam. Et in qualitatibus non videtur saltem in eis proprie esse distantia cum proprie sit in loco ut dicit Commentator X Metaphysicae. 2. Sic itaque signato a gradu caliditatis, si voluero scire quantae intensionis sit, oportet videre quantum distet a non gradu. Sed non videtur in qualitatibus esse distantia nisi metaphoricea, sed quae est ista metaphora cum transferentes non transferant nisi secundum similitudinem VIb Topicorum; et quomodo scitur quanta sit, verbi gratia, an ut unum, an ut duo, an secundum aliquem [4rb] alium numerum, et quae est illa mensura. 3. Consimiliter dicatur de appropinquare non gradui quid est illud appropinquare, et quomodo se habet ad distare, an sint oppositae, an disparataec vel secundum aliquem alium modum; et si opposita, an relative, an privative, an secundum aliquam aliam speciem oppositionis; quae est enim mensura metiendi illam propinquitatem, an sit eadem cum ea quae mensurat distantiam, an diversa. Hoc enim modo vel alio non parum interest. 4. Non minus quaerendum est hoc ab illis qui mensurant per distantiam a summo vel propinquitatem; quid sit distare a summo et eidem appropinquare; quomodo se habeant propinquitas et distantia, scilicet an opposita et huiusmodi; qua mensura mensurantur, an utriusque eadem est mensura vel diversa. Eodem modo secundum tenentes remissionem fieri ex admixtione contrarii; quid est ista admixtio per quid mensuratur ista admixtio, et sic ut supra. Haec enim necessaria sunt ad intellectum propositi negotii et sine eorum intellectione, impossibile est veritatem cognoscere. Quare primo haec declaranda sunt. [10b]

a b

metaphorice] metaphoricae T. VI] VIII P.

c

disparatae] disperatae P.

291

SEZ. I, CAP. XI

CAPITOLO XI TUTTE LE DETTE OPINIONI SONO ACCUSATE DI INSUFFICIENZA

1. Sembra altresì che tutte le citate opinioni siano argomentate in modo insufficiente. Infatti, coloro che ritengono che l’intensità si attende dall’allontanamento dal non grado non definiscono prima di tutto che cosa sia questo allontanarsi. Anche se si dà una distanza più grande e una più piccola, è necessario sapere qual è il metro con cui si misura questa distanza. E non sembra che essa sussista nelle qualità, almeno in quelle che sono propriamente in un luogo e per le quali è più appropriato parlare di distanza, come dice Averroè nel X della Metaphysica.83 2. Così, contrassegnato con a un grado di calore, se vorrò sapere quanta è la sua intensità, è necessario stabilire di quanto dista dal non grado. Ma poiché non sembra che le qualità siano suscettibili di una distanza se non in senso metaforico, non è dato sapere quale sia questa metafora, poiché coloro che ricorrono ad una trasposizione lo fanno secondo una certa somiglianza, come è detto nel VI Topicorum;84 né è dato sapere quanto tale somiglianza sia grande, se per esempio sia di grado uno o due o di qualche [4rb] altro numero e quale sia quella misura. 3. Allo stesso modo dell’avvicinarsi al non grado si dica che cosa è questo avvicinarsi e in che rapporto sta con l’allontanarsi, se sono opposti o se sono in qualche modo separati. E nel caso siano opposti, se lo sono in senso relativo o privativo o secondo qualche altra specie di opposizione; qual è il metro per misurare quella vicinanza, se è lo stesso che misura la distanza o se è diverso. Ciò in un modo o nell’altro importa non poco. 4. Né meno debbono indagare su che cosa sia l’allontanarsi dal sommo e l’avvicinarsi ad esso coloro che misurano la distanza dal sommo o la vicinanza ad esso; e debbono indagare in che rapporto stanno la vicinanza e la distanza, cioè se sono opposti e altre questioni siffatte; con quale metro si misurano, se la misura di entrambe sia la stessa o diversa. Allo stesso modo coloro che ritengono che l’attenuazione sia prodotta dalla mescolanza con il contrario, debbono indagare su che cosa sia questa mescolanza e attraverso che cosa essa sia misurata e così via come sopra. Queste cose, infatti, sono necessarie per la comprensione della questione proposta e senza la loro comprensione è impossibile conoscere la verità. Perciò esse debbono essere chiarite per prima. [10b]

292

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

SECTIO II CONTINENS QUINQUE CAPITULA IN QUIBUS DISPUTATUR DE NOMINIBUS

PERTINENTIBUS AD DICTAM MATERIAM.

CAPUT I IN QUO DISPUTATUR QUID EST DISTARE A NON GRADU ET EIDEM NON GRADUI APPROPINQUARE ET QUOMODO SE HABENT ADINVICEM DISTANTIA ET PROPINQUITAS

1. Sed quoniam, ut dicit Aristoteles textu commenti 10 et Metaphysicae, principium in disputationea omni est in terminis convenire, hinc est quod veritatem perscrutaturi praesentis negotii primo a terminorum intellectu sive expositione initium faciemus. Et primo quid intelligitur per ‘distare a non gradu’ et ‘eidem non gradui appropinquare’. Sed quoniam in dictis secundum proprietatem et secundum transumptionem, primo oportet incipere a vero et proprio, transireb deinde ad dictum secundum transumptionem. Est enim impossibile intelligere secundum sine primo, ut clarum est. Cum autem distantia et propinquitas secundum propriam et veram significationem, dicantur in loco, sicut dicit Commentator X Metaphysicae, ideo videndum est an ista reperiantur in his. 2. Dicamus igiturc primo de distantia a non quanto, cum magis in quantitate reperiatur quam in qualitate. Et X Metaphysicae prima ratio mensurandi est in quantitate et primo in discreta. 3. Dicamus ergo cum distantia proprio dicatur in loco, quod illa vere distant, quae secundum locum simul non sunt, simul autem dicuntur esse secundum locum quaecumque sunt in eodem loco proprio. Sic enim definit Aristoteles V Physicorum. Quare si distare opponitur privative ipsi appropinquare, ut dicit ipse Calculator, tunc illorumd quae distant secundum locum, inter locum unius et alterius mediat spatium, inter propinqua vero non mediat aliquod tale spatium. IV

a b

disputatione] disputione P. transire] om. P.

c d

igitur] autem P. illorum] illa P.

293

SEZ. II, CAP. I

SEZIONE II SI DISCUTE DEI TERMINI CHE SONO PERTINENTI ALLA MATERIA TRATTATA.

CAPITOLO I DISCUSSIONE SU CHE COSA SIA ‘ALLONTANARSI DAL NON GRADO’ E

‘AVVICINARSI

AL MEDESIMO NON GRADO’ E IN CHE RAPPORTO SIANO

RECIPROCAMENTE LA VICINANZA E L’ALLONTANAMENTO

1. Ma poiché, come dice Aristotele nel testo del commento 10 del libro IV della Metaphysica, l’inizio di ogni disputa è dato dall’accordo sui termini,85 è necessario che noi, in procinto di esaminare la verità intorno alla presente questione, cominciamo innanzi tutto dalla spiegazione e comprensione dei termini. E in primo luogo che cosa s’intende per ‘allontanarsi dal non grado’ e ‘approssimarsi allo stesso’. Ma poiché nei discorsi si può parlare con proprietà o in senso traslato, è necessario cominciare chiaramente innanzi tutto dal significato vero e proprio e poi passare al senso traslato. Infatti, è impossibile comprendere il secondo senza il primo, com’è evidente. E poiché la distanza e la vicinanza nel loro significato vero e proprio si dicono in un luogo, come afferma Averroè nel libro X della Metaphysica,86 si deve capire se anch’esse sussistono tra le cose che sono in un luogo. 2. Della distanza dal non quanto diciamo innanzi tutto che è reperibile più nella quantità che nella qualità. Infatti, per il libro X della Metaphysica la prima ragione del misurare è nella quantità e in primo luogo nella quantità discreta.87 3. Diciamo, dunque, che se la distanza si definisce come ciò per cui sono veramente distanti le cose che non sono simultaneamente nel proprio luogo, si dicono, invece, simultanee secondo il luogo quelle che sono primariamente nel proprio luogo.88 Questa è appunto la definizione data da Aristotele nel V Physicorum. Perciò se l’allontanarsi si oppone in senso privativo all’approssimarsi, come asserisce lo stesso Calcolatore,89 allora si dice che distano localmente le cose tra le quali, tra il luogo dell’una e quello dell’altra, c’è uno spazio intermedio; tra quelle prossime, invece, non c’è uno spazio siffatto.

294

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

4. Sed sic non possunt sumi distantia et propinquitas, cum dicitur quod magnitudo habet attendi penes distantiam a non quanto et intensio penes distantiam a non gradu, parvitas vero penes appropinquationem ad non quantum et remissio penes appropinquationem ad non gradum, primo quidem, quia neque non quantum neque non gradus sunt in loco. 5. Secundo quia, etsi geometria non abstrahat a loco, ut dicitur primo De generatione, arithmetica tamen abstrahit ab eo, sicut dicit Commentator XII Metaphysicae et Aristoteles primo Posteriorum dicit quoda punctus superaddit situm unitati, quare minus abstracta redditur geometria ipsa arithmetica. Non ergo in numeris invenientur sive reddentur magnum et parvum, immo neque in continuis successivis, neque etiam in qualitatibus. 6. Praeterea: esto quod quantitas permanens sit in loco, pe[11a]dale tamen non est tantum, quia tantum distat a non quanto. Per quid enim distat pedale a non quanto, illud enim secundum hunc sensum, per quod aliquod distat ab aliquo, est medium inter illa. Sed quod est medium, per quod pedale distat a non quanto? Nil enim mediat inter pedale et non quantum, sicut nil inter quantum et non quantum potest mediare, et universaliter inter ens et non ens. 7. Quod si dicatur omne minus pedali mediare inter pedale et non quantum, quia pedale si deveniat successive ad non quantum deveniet per illa minora – et V Physicorum medium est in quod prius transmutatur transmutans quam in extremum – huic quidem dicitur quod inter ultimum punctum terminans pedale et non quantum infinite sunt partes mediae, quod quidem conceditb, sed hoc non est mediare inter pedale et non quantumc, sed inter partes et extrema, quasi per synedochend, accipiendo pro parte totum. Sicut dicimus domum distare a terra, quia eius summitas distat a terra, cum tamen domus tangat terram. 8. Praeterea, dato sibi illo modo, videlicet quod pedale distat a pedali, [4va] quia illa praedicta intermediant appropinquare, ergo non quanto cum privative opponitur ad distare, et quod

a b

dicit quod] om. P. concedit] conceditur P.

c d

et non quantum] om. P. synedochen] sinedochem P.

SEZ. II, CAP. I

295

4. Ma la distanza e la vicinanza non si possono assumere in questo modo, perché quando si dice che la grandezza dipende dalla distanza dal non quanto e la piccolezza dalla vicinanza al non quanto e che l’attenuazione dipende dall’approssimarsi al non grado, innanzi tutto va tenuto presente che né il non quanto né il non grado sono in un luogo. 5. In un secondo modo: sebbene la geometria non astragga dal luogo, tuttavia l’aritmetica, come è detto nel I De generatione, astrae da esso;90 così dice anche Averroè nel libro XII della Metaphysica e Aristotele nel I Posteriorum dice che il punto aggiunge una posizione all’unità,91 ragion per cui la geometria è meno astratta della stessa aritmetica. Dunque, il grande e il piccolo non si troveranno nei numeri né saranno ridotti ad essi; anzi non si troveranno né nei continui successivi né nelle qualità. 6. Inoltre, ammesso che la quantità permanente sia in un luogo, tuttavia la lunghezza di un piede [11a] non è tanto grande perché tanto dista dal non quanto. Ciò per cui la lunghezza di un piede dista dal non quanto è, secondo questo significato di ‘distare’, ciò per cui qualcosa dista da un’altra e cioè l’esistenza di un termine intermedio tra i due estremi. Ma quale è l’intermedio per il quale un piede dista dal non quanto? Non c’è nessun intermedio tra il piede e il non quanto, così come non c’è tra il quanto e il non quanto e più in generale tra l’essere e il non essere. 7. Se poi si dice che tutto ciò che è minore della lunghezza di un piede è intermedio tra la lunghezza di un piede e il non quanto, perché la lunghezza di un piede, se perviene in tempi successivi al non quanto, attraversa quelle grandezze minori – anche nel v Physicorum il medio è ciò in cui l’oggetto cangiante muta prima di pervenire all’estremità92 – a ciò si risponde che tra il non quanto e l’ultimo punto in cui termina la lunghezza di un piede ci sono infinite parti medie – cosa che il Calcolatore concede93 – ma questo non significa che ci sia un intermedio tra il piede e il non quanto, ma tra le parti e gli estremi, quasi per sineddoche, assumendo il tutto per la parte. Così diciamo che la casa dista da terra, perché la sua sommità dista da terra, sebbene poi la casa tocchi il suolo. 8. Inoltre: una volta concessa al Calcolatore quella modalità, cioè che un piede sia distante da un piede, [4va] perché quelle predette grandezze sono intermedie nell’avvicinamento, poiché il non quanto si oppone per privazione all’allontanarsi e la pri-

296

INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

ponit habitus negat privatio, tunc appropinquare non quanto erit non habere talia intermedia; et sic parvum non distabit a non quanto, quia intermedia non habebit, quod omnino impossibile est, quia tunc parvum nullam haberet quantitatem, quia non haberet tale intermedium. 9. Ex quibus omnibus patere potest quod magnitudo non potest attendi penes distantiam a non quanto, et parvitas penes appropinquationem eidem, sumendo distantiam et propinquitatem proprie ut reperiuntur in loco. 10. Idem quoque dicatur de intensione et remissione, sumendo etiam distantiam largius ut se extendit ad quodcumque interceptum sive clausum inter aliqua, sive illud interceptum sit quantitas sive non, sive sint illa intercipientia in loco sive non; non possunt etiam neque magnitudo neque parvitas neque intensio neque remissio penes talem distantiam et appropinquationem attendi. Quia in primis nihil mediat inter quantum et non quantum, nihilque inter gradum aliquem et non gradum, sed bene inter aliquam partem sui. Cum omne quantum, saltem finitum, terminatur ad non quantum, et inter terminum et rem terminatam nihil mediat, ut patet. Consimiliter etiam quiliber gradus finitus terminatur ad non gradum; statim enim post recessum a non quanto fit quantum et recessum a non gradu fit gradus; quare vere nihil potest mediare. 11. Secundo. Quia si intensio attenditur penes tale spatium intermedium, large extendendo nomen spatii. Quod apud ipsum est distare propinquitas ei opposita excludet illud; et sic nullo modo neque parvum erit magnum, neque remissum aliquod in[11b]tensum; quod est impossibile. Omne enim parvum est magnum respectu suae medietatisa et consimiliter remissum est intensum respectu etiam suae medietatis. 12. Transumptive igitur potest esse distantia a non quanto vel a non gradu et eodem modo propinquitas. Quis igitur est iste modus? Forte dici potest quod per distantiam intelligimus differentiam et per propinquitatem convenientiam. Sic quod sensus erit: magnitudo attenditur penes differentiam a non quanto, parvitas vero penes convenientiam cum non quanto. Intensio penes differentiam a non gradu, remissio vero penes convenientiam cum eodem non gradu. a

medietatis] medietis P.

SEZ. II, CAP. I

297

vazione nega ciò che pone il possesso, allora l’avvicinarsi al non quanto equivarrà a non avere tali intermedi. Così il piccolo non sarà distante dal non quanto perché non avrà termini medi; ciò che è del tutto impossibile, perché allora il piccolo, non avendo un tale intermedio, non avrebbe nessuna quantità. 9. Da tutte queste osservazioni può emergere che la grandezza non dipende dalla distanza dal non quanto e la piccolezza dalla vicinanza allo stesso, se si assumono la distanza e la vicinanza in senso proprio ovvero come sono reperibili in un luogo. 10. Lo stesso si dica anche dell’intensità e dell’attenuazione, assumendo la distanza in un significato più ampio così da estendersi a tutto ciò che è intercettato o racchiuso tra alcune cose, tanto se si tratta di una quantità quanto che non lo sia, tanto se le cose intercettate sono in un luogo, quanto che non lo siano: da tale distanza e da tale vicinanza non si possono attendere né la grandezza e la piccolezza né l’intensità e l’attenuazione. Innanzi tutto perché non c’è alcun termine intermedio tra il quanto e il non quanto e non c’è nulla tra un grado e il non grado, ma c’è se mai tra un grado ed una sua parte, perché ogni quanto, almeno se è finito, termina con il non quanto e tra il termine e la cosa terminata non c’è, com’è evidente, nessun intermedio. Analogamente ogni grado finito termina con il non grado. Infatti, subito dopo l’allontanamento dal non quanto si ha il quanto e dopo l’allontanamento dal non grado si ha il grado; perciò tra essi non ci può essere nulla di intermedio. 11. In secondo luogo se l’intensità si attende da tale spazio intermedio, si assume la parola ‘spazio’ in un significato ampio. Ma ciò che per tale spazio è la distanza è escluso dalla vicinanza ad esso opposta; e così in nessun modo il piccolo sarà grande né alcunché di attenuato sarà intenso. [11b] Ma ciò è impossibile. Infatti, tutto ciò che è piccolo è grande rispetto alla propria metà e analogamente l’attenuato è intenso rispetto alla propria metà. 12. Dunque, una distanza dal non quanto o dal non grado può essere ammessa in senso traslato e lo stesso vale per la vicinanza. Qual è, dunque, questo senso traslato? Forse si può dire che per distanza intendiamo la diversità e per vicinanza la concordanza. Così il significato sarà questo: la grandezza si intende come differenza dal non quanto e la piccolezza come concordanza con il non quanto. L’intensità come differenza dal non grado e l’attenuazione come concordanza con il medesimo non grado.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

13. Similitudo autem est quia quae adinvicem distant secundum locum, videtur multum differre secundum locum, quae vero appropinquant, magis videntur convenire. Sed tunc non videtur verum quod magnum non conveniata sive differat a non quanto et parvum cum eo non quanto conveniat; quia omne quantum sive magnum sive parvum differt a non quanto et, per consequens, sic sumendo distantiam, omne quantum distat a non quanto. 14. Praeterea non quantum nihil est aut punctus est; modo nulla videtur proportio vel convenientia inter ens et non ens, et divisibile et indivisibile, quare parvum et remissum non magis conveniunt cum non quanto et non gradu quam magnum vel intensum. Nullus ergo videtur iste modus de distare a non quanto vel a non gradu vel eisdem appropinquare. 15. Ideo alter ponatur modus, pro cuius intellectu accipiendum est quod quaelibet quantitas, saltem continua, habet facere distare; V namque Metaphysicae, capitulo De quanto, dicit Aristoteles quod quantum est quod est divisibile in partes, quarum quaelibet nata est esse hoc aliquid. Sed differt continuum a discreto, quia partes continui non solum dicuntur habere differentiam adinvicem, sic quod una non sit altera (hoc enim et in discretis est necessarium), verum debent distare locob; quod intelligitur proprie in quantitatibus habentibus positionem in partibus. Sic enim docet Philosophus VI Physicorum ad principium, ubi probat quod ex indivisibilibus, utputa ex punctis non constituatur linea, quia puncta non faciunt distare et differre loco, quod est necessarium in continuis permanentibus. Et hoc idem dicit idem Philosophus IV Physicorum, tractatu De vacuo, ubi dicit quod si corpus cubum, separatum ab omni forma sensibili, poneretur in aqua, tantum faceret distare de aqua quantum ipsum est. Quare quantitas permanens facit distare loco, successiva vero quantitas facit distare secundum tempus, sic quod duae partes temporis non possunt simul esse ut docet Philosophus IV Physicorum et divus Augustinus in libro Confessionum, sic etiam dicitur de motu, sicut etiam de tempore. Quare cuiuscumque

a

conveniat] cumveniat P.

b

loco] a loco P.

SEZ. II, CAP. I

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13. La somiglianza sta nel fatto che le cose che distano reciprocamente secondo il luogo sembrano essere molto differenti per il luogo, quelle che, invece, si approssimano sembrano maggiormente concordanti. Ma allora non sembra vero che il grande non si accordi con il non quanto o se ne diversifichi e che il piccolo si accordi con il non quanto, perché ogni quanto, sia grande che piccolo, si differenzia dal non quanto e di conseguenza, assumendo in tali termini la distanza, ogni quanto dista dal non quanto. 14. Inoltre il non quanto o non è nulla o è un punto. Ma non v’è alcun rapporto o corrispondenza tra l’essere e il non essere e tra il divisibile e l’indivisibile; perciò il piccolo e l’attenuato non sono in corrispondenza con il non quanto e il non grado più di quanto lo siano il grande e l’intenso. Quindi nullo sembra essere anche questo modo di considerare l’allontanarsi dal non quanto o dal non grado e l’approssimarsi allo stesso. 15. Si ponga perciò un secondo modo per la cui comprensione si deve ammettere che ogni quantità, almeno quella continua, è in grado di produrre una distanza. Infatti, nel libro V della Metaphysica, nel capitolo De quanto, Aristotele dice che la quantità è ciò che è divisibile in parti, ciascuna delle quali è naturalmente ‘questo alcunché’.94 Ma la grandezza continua differisce da quella discreta, perché le parti del continuo non solo si dicono reciprocamente differenti, così che l’una non sia l’altra – ciò è necessario anche nelle grandezze discrete – ma debbono altresì essere localmente distanti; cosa che si intende propria delle quantità le cui parti hanno una posizione in un luogo. Così, infatti, insegna Aristotele all’inizio del VI Physicorum, dove prova che un continuo, come una linea, non è composto da indivisibili come i punti,95 perché i punti non producono la distanza e la differenza di luogo che è necessaria nei continui permanenti. La stessa cosa dice Aristotele nel IV Physicorum nel trattato De vacuo, ove afferma che se un corpo a forma di cubo, liberato da ogni forma sensibile, fosse posto nell’acqua, produrrebbe una distanza dall’acqua tanta quanto è esso stesso. Perciò una quantità permanente produce una distanza locale, una quantità che è in una successione produce una distanza nel tempo e due parti di tempo, come insegnano Aristotele nel IV Physicorum e S. Agostino nelle Confessiones, non possono essere simultanee.96 Lo stesso si dica del moto, come del tempo. Perciò è proprio di ciascun

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continui proprium est facere distare, licet haec secundum locum, illa vero secundum tempus. Verum quantumcumque qualitas non faciat per [12a] se distare, tamen, considerataa per modum quantitatis, videtur facere distare; potest autem ipsa qualitasb, secundum quantitatem isto modo considera[4vb]ri; quia cum in caliditate, verbi gratia, imaginamur magis et minus, de necessitate imaginamur quasi quoddam continuum, ut quod in uno puncto sit non gradus, in uno magis distante, gradus ut unum, in altero ut duo et sic discorrendo. Unde sicut in continuo diversae denominationes faciunt distantiam – nam si ponimus pedalia, bipedalia, tripedalia et quadrupedalia, ponimus distantiam – sic gradus ut unum tantum, ut duo tantum, ut tria tantum, id est, non plus quam ut unum, et quam ut duo secundum quendam ordinem imaginari videntur facere distantiam, quantumcumque gradus non dicatur esse in loco. Hinc est quod communiter in unaquaque natura suscipiente magis et minus, ut caliditatis aut frigiditatis, aut cuiusvis alterius incipientisc a non gradu, protense in infinitum vel finitum tantum, secundum diversitatem naturarum, ponuntur aliquae figurae, quas latitudines appellamus ad exprimendum diversos gradus et dispositiones ipsarum naturarum. Sic etiam in discretis facere consueverunt arithmetici, ut patet perspicienti Arithmeticam Boethii. Disponunt enim numeros per formulas quasi locum occupantes, licet numeri, ut ibidem dicit Boethius, abstrahant a loco. Sed haec ponuntur ad facilitatem intellectionis, ut ex his sensatis ad insensata vel minus sensata deveniamus. 16. Quapropter concludere possimus quod in omnibus in quibus fit comparatio secundum magis et minus, sive secundum maius et minus, est ibi distantia et diversitas. Quare in omnibus talibus potest esse distantia a non quanto sive a non gradu; quia est continuum vel saltem ad modum continui, cuius proprium est facere partes distare; dicitur autem a non quanto vel a non gradu distare, non quia inter ipsum et non quantum vel non gradum mediat aliquod – illud enim omnino impossibile est – sed quia ipsum sic faciens distare differt a non quanto vel a non gra-

a b

considerata] confracta P. ipsa qualitas] om. P.

c

incipientis] incipientes P.

SEZ. II, CAP. I

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continuo produrre una distanza, sebbene l’una sia in relazione al luogo e l’altra, invece, in relazione al tempo. Per quanto la qualità di per sé [12a] non produca una distanza, tuttavia, considerata sotto l’aspetto della quantità, sembra produrla; infatti, la qualità stessa può essere considerata in questo modo nel suo aspetto quantitativo, [4vb] perché quando per esempio immaginiamo nel calore il più e il meno, necessariamente immaginiamo un certo continuo, come se in un punto ci sia il non grado, in un altro più distante ci sia il grado uno ed in un altro il grado due, e così via discorrendo. Perciò, come in un continuo, le diverse denominazioni si riferiscono alla distanza. Infatti, se poniamo le lunghezze di un piede, di due piedi, di tre piedi e di quattro piedi, poniamo le relative distanze; così i gradi di uno soltanto, di due soltanto, di tre soltanto, cioè non più di uno e non più di due, secondo qualunque ordine sono pensati, sembrano produrre una distanza, sebbene il grado non si dica essere in un luogo. Da ciò segue che comunemente in ogni natura suscettibile del più e del meno, come il caldo e il freddo o qualsiasi altra qualità che cominci dal non grado e si estenda all’infinito o solo in modo finito, a seconda della diversità delle nature, si pongono talune configurazioni, cui diamo l’appellativo di estensioni,97 per esprimere i diversi gradi e le disposizioni di quelle stesse nature. Così solitamente fecero i matematici anche in relazione alle grandezze discrete, come appare evidente a chi dà uno sguardo all’Arithmetica di Boezio. Essi, infatti, dispongono i numeri per schemi come se occupassero lo spazio, sebbene i numeri – come ivi dice Boezio – astraggano dal luogo.98 Ma questi schemi sono posti per agevolare la comprensione in modo da passare dalle cose sensibili a quelle insensibili o meno sensibili. 16. Perciò possiamo concludere che in tutte le grandezze in cui si stabilisce una comparazione secondo il più e il meno o secondo il maggiore e il minore, c’è una distanza e una diversità. Perciò in tutte le grandezze che sono tali può esserci una distanza dal non quanto o dal non grado, perché sono grandezze continue o almeno sono nella modalità di una grandezza continua, la cui proprietà è di ‘produrre una distanza’ tra le parti. Ma si dice ‘dista dal non quanto o dal non grado’ non perché tra essa e il non quanto o il non grado ci sia alcunché di intermedio – ciò, infatti, è del tutto impossibile – ma perché, producendo in tal modo una distanza, ‘si differenzia’ dal non quanto o dal non gra-

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du, et per tantum distat, id est, per tantum differt, per quantum ipsum est. Unde, accepto pedali, dicitur distare a non quanto per pedale, non quia inter pedale eta non quantum mediat pedale, sed quia ipsum pedale differt a non quanto per unum pedale, quod pedale facit distare per unum, quia occupat locum unius mensurae. 17. Bipedale vero dicitur distare a non quanto per duo, quia differt a non quanto per continuum faciens distare per duo. Sensus ergo erit magnitudo habet attendi penes distantiam a non quanto, id est, penes continuitatem facientem distare a non quanto, quod est per rem tantum differentem a non quanto, quantum est ipsummet cuius proprium est facere distare, vel habet attendi per distantiam a non quanto, id est per ipsammet rem cuius proprium est distare, cuius mensuratio debet inchoari a non quanto, sive a primo puncto. Nam mensuraturi lignum vel aliquod aliud quantum incipiunt a primo puncto et terminant in ultimum punctum, quae puncta non sunt quanta, aliter enim perfecta non fieret mensura, ut satis notum est. Infinita ergo [12b] mensurari non possunt, cum ultimis careant, quia mensura in quantitate incipit a non quanto et terminatur in non quantum, quia a primo puncto in ultimum punctum et in qualitatibus a non gradu terminando in non gradum, id est, a primo indivisibili in actu terminando in ultimum indivisibile, et hoc supposito quod ita in qualitate dentur indivisibilia, quemadmodum conceduntur in quantitate. Quod an verum sit non disputamus, sed ad maiorem intellectionem supponitur, cum accipiantur qualitates secundum istam considerationem, quasi quantitates continuae; immo, secundum hunc sensum, dicere possumus quod pedale mensuratur penes distantiam a non quanto, id est, penes interceptum inter duo puncta in actu, scilicet, inter primum et ultimum. Aristoteles etenim solum primum et ultimum appellat in actu, ut patet VIII Physicorum et in multis aliis locis; a ergo quantitas est unius pedis, quia distat a non quanto per pedale, quia inter duo puncta in actu cadit distantia pedalis et gradus caliditatis ut 4 est ut 4 quia inter primum et ultimum indivisibile mediat mensura

a

et] er P.

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do e per tanto dista, cioè per tanto se ne differenzia, per quanto è essa stessa. Perciò, presa la lunghezza di un piede, si dice che essa dista dal non quanto di un piede, non perché tra il piede e il non quanto ci sia un piede intermedio, ma perché lo stesso piede differisce dal non quanto di un piede; cioè il piede produce una distanza di uno, perché occupa il luogo di un’unica misura. 17. Si dice invece che la lunghezza di due piedi dista dal non quanto di due piedi, perché si differenzia dal non quanto per un continuo che produce una distanza di due. Il significato, dunque, sarà che la grandezza è attesa dalla distanza dal non quanto, cioè da un continuo che produce una distanza dal non quanto, nel senso cioè che la differenza dal non quanto è tanta quanto è la cosa stessa che ha la proprietà di produrre una distanza, oppure deve attendersi per la distanza dal non quanto, cioè per la cosa stessa che ha la proprietà di distare e la cui misurazione deve cominciare dal non quanto come dal primo punto. Infatti, coloro che si accingono a misurare il legno o qualche altra quantità cominciano dal primo punto e terminano con l’ultimo punto, i quali punti non sono quantità, altrimenti la misura non sarebbe perfetta, come è abbastanza noto. Quindi gli infiniti, [12b] essendo privi di estremi, non possono essere misurati perché la misura di una quantità comincia dal non quanto e termina nel non quanto, perché comincia dal primo punto e termina nell’ultimo punto; nelle qualità la misura comincia dal non grado per terminare nel non grado, cioè comincia dal primo indivisibile in atto per terminare con l’ultimo indivisibile in atto e tutto sul presupposto che nella qualità si ammettano gli indivisibili come si ammettono per la quantità. Non discutiamo se ciò sia vero, ma lo supponiamo ai fini di una maggiore comprensione, poiché in tal modo di considerare le cose, si assumono le qualità come se fossero quantità continue; anzi, secondo questo significato, possiamo dire che la lunghezza di un piede si misura per la distanza dal non quanto, cioè per ciò che è intercettato tra i due punti in atto, ovvero tra il primo e l’ultimo.99 Aristotele, infatti, stabilisce che sono in atto solo il primo e l’ultimo punto, come risulta dall’VIII Physicorum e da molti altri luoghi. Quindi a è una quantità di un solo piede, perché dista dal non quanto di un piede e perché tra i suoi due punti in atto intercorre una distanza di un piede e il grado di calore quattro è quattro perché tra il primo e l’ultimo punto indivisibile c’è una misura di calore di grado

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caliditatis ut 4. Sic igitur omnibus istis modis potest aliquod distare a non quanto vel distare a non gradu. 18. Sed advertendum est quod, etsi intellectus iste verus sit et ad mentem doctorum, non tamen videtur proficere ad mentem Calculatoris, quia si magnitudo attenditur penes distantiam a non quanto, parvitas vero penes appropinquationem eidem non quanto. Modo si distare a non quanto est proprium magnitudinis, tale autem distare a non quanto est esse continuum, cuius [5ra] proprium est distare. Appropinquare, enim, ut ipse concedit, opponitur privative ipsi distare; oppositum autem privative negat et destruit quod ponit habitus, sicut patet de caecitate et de visione. Ergo appropinquare non quanto, destruit talem distantiam. Quarea cum parvum fit per appropinquare non quanto, parvum non faciet distare; sed quod non facit distare non est quantum continuumb cum ex positis proprium est quantitatis continuae facere distare. Nullum ergo parvum erit continuum. Sed hoc est impossibile, quia omne continuum quantum, proprium autem est quantitatis esse aequale vel inaequale, inaequale autem omne aut magnum aut parvum; quare aliquod continuum parvum et sic aliquod parvum continuum, cuius oppositum sequitur ex dictis Calculatoris. 19. Huic autem fortassis respondetur quod appropinquare non quanto opponitur ad distare; sed non tollit omne id quod distare dicit, sed sufficit quod partem tollat. Decimo namque Metaphysicae declaratum est quod aliquando privatio tollit totum quod ponit habitus et huiusmodi oppositio potest appellari contraria, quia contraria sunt quae maxime distant, et privatio quae totum tollit maxime distat, sicut se habent caecitas et visio. Aliquando vero partem tantum tollit, sicut [13a] videns et semicaecus vel orbiculus, quae ex toto non negant visionem, sed solum partem. Haec autem privative opposita non placuit Aristoteli appellare contraria, quia non maxime distant, neque totam auferunt naturam. Sic in proposito appropinquare non quanto opponitur ad distare, sed non sicut caecus et videns, verum sicut videns et male videns. Quare parvitas attenditur

a

Quare] Quia P.

b

continuum] om. P.

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quattro. Così, dunque, in tutti questi modi qualcosa può distare dal non quanto e distare dal non grado. 18. Ma bisogna osservare che, pur essendo questo concetto esatto e corrispondente al pensiero dei dotti, non sembra tuttavia giovare alle tesi del Calcolatore, perché se la grandezza si attende dalla lontananza dal non quanto, anche la piccolezza si attende dall’avvicinamento al medesimo non quanto. Ma se l’allontanamento dal non quanto è proprio della grandezza, tale allontanarsi dal non quanto è una quantità continua che [5ra] ha la proprietà di allontanare. L’avvicinarsi, infatti, come ammette il Calcolatore, si oppone per privazione all’allontanarsi e l’opposto per privazione nega e distrugge ciò che è posto dal possesso, come risulta a proposito della cecità e della visione. Quindi l’avvicinarsi al non quanto distrugge tale allontanamento. Di conseguenza il piccolo, che si genera per avvicinamento al non quanto, non produrrà una distanza; ma ciò che non produce una distanza non è un quanto continuo perché, per ciò che si è premesso, è proprio di una quantità continua produrre una distanza. Quindi nessuna quantità piccola sarà continua. Ma ciò è impossibile, perché ogni continuo è una quantità ed è proprio della quantità essere uguale o disuguale; tutto ciò che è disuguale o è grande o è piccolo; perciò qualche continuo sarà piccolo e qualche piccolo sarà continuo. Ma dalle parole del Calcolatore segue l’opposto. 19. A questo si risponderà forse dicendo che l’approssimarsi al non quanto è opposto all’allontanarsi, esso tuttavia non esclude tutta la distanza, ma è sufficiente che ne escluda una parte. Infatti, nel libro X della Metaphysica è detto che talvolta la privazione toglie tutto ciò che pone il possesso e che una opposizione siffatta può essere chiamata contraria, perché contrarie sono le cose che distano in misura massima;100 la privazione che toglie il tutto determina una distanza in misura massima, come quella che c’è tra la cecità e la visione. Talvolta però la privazione toglie solo una parte, come accade al vedente [13a] e al semicieco o miope, che non sono la negazione totale della visione, ma solo di una parte di essa. Questi opposti per privazione Aristotele non amò chiamarli contrari, perché non distano in misura massima, né tolgono tutta la natura di una cosa. Così secondo l’argomento proposto l’avvicinare il non quanto si oppone all’allontanare, non però come il cieco si oppone al vedente, ma come il vedente si oppone al semivedente. Perciò la piccolezza è attesa dall’avvi-

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penes appropinquare non quanto, id est non tantum distare, sed minus distare; magnitudo ergo et parvitas attenduntur penes distare non quanto et eidem appropinquare, non quia ambo non distent a non quanto, ut in oppositum argumentabatur, immo, ex quo sunt continua, distant ambo a non quanto; sed quia ista suis non quantis comparata unum magis distabit, quod erit magnum, alterum vero minus, quod erit parvum. Quare sensus est magnitudo et pervitas attenduntur penes magis et minus distare. Verum quia minus distare ad magis distare comparatum dici potest appropinquare, sicut remisse album, comparatum intense albo, dicitur nigrum, cum sit parvum per minus distare. Hinc est quod dicitur parvitatem attendi penes appropinquare. Idem quoque simili modo dicatur de distantia et propinquitate ad non gradum. Quare etc. 20. Haec quidem, tametsi multum subtiliter dicta sunt et fortassis vera – de quo postea diceremus – minime tamen possunt stare cum dictis Calculatoris, quia secundum hanc responsionem magnum dicetur relative ad parvum et intensum ad remissum. Nam ideo a est magnum, quia magis distat a non quanto, et b parvum, quia minus distat. Sed omne quod magis distat respectu alicuius minus distantis magis distat, et omne minus distans respectu magis distantis minus distat. Nam magis dicitur ad minus et minus ad magis, quia relative dicuntur, sicut rei veritas est. Et Aristoteles hoc affirmavit in Praedicamentis, in capitulo De quantitate. Quare secundum ipsum idem est iudicium de intenso et remisso, sicut aperte dicit in illo tractatu et manifeste sequitur ex suis dictis et secundum istam responsionem, quia intensio attenditur penes distare a non gradu, remissio vero penes eidem non gradui appropinquare, quod, secundum concessa, est secundum magis et minus distare. Sed hoc stare non potest, quia remissum secundum ipsum non dicitur respectu intensi sive intensioris. Nam in quaestiuncula quae est prima annexa principali, qua quaerit an gradus summus sit remissus, tenens partem affirmativam, in respondendo ad secundum contra se oppositum, dicit: «Dico quod gradus summus est remissus neque ex

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cinarsi al non quanto, cioè non solo dall’allontanarsi, ma dall’allontanarsi di meno; quindi la grandezza e la piccolezza si attendono dall’allontanarsi dal non quanto e dall’avvicinarsi ad esso, non perché entrambi non si allontanino dal non quanto, come all’opposto si era argomentato, anzi, per il fatto che sono continui, distano entrambi dal non quanto. Ma poiché, comparati ciascuno al proprio non quanto, l’uno di essi disterà di più e quindi sarà grande e l’altro disterà di meno e quindi sarà piccolo, il significato è che la grandezza e la piccolezza si attendono dal distare di più e di meno. Ma il distare di meno, paragonato al distare di più, essendo minore per essere meno distante, può essere detto avvicinarsi, come il bianco attenuato, paragonato al bianco intenso, è detto nero. Da qui si deduce che la piccolezza si attende dall’avvicinamento. Lo stesso si dica per affinità a proposito della distanza e della vicinanza al non grado. Perciò ecc. 20. Queste osservazioni, sebbene siano state enunciate con molta sottigliezza e forse siano vere – ma di ciò diremo in seguito101 – non possono accordarsi affatto con le affermazioni del Calcolatore, perché secondo questa soluzione il grande è detto relativamente al piccolo e l’intenso relativamente all’attenuato. Infatti, a è grande per il fatto che dista di più dal non quanto e b è piccolo perché dista di meno. Ma tutto ciò che dista di più dista di più rispetto a qualcosa che dista di meno e tutto ciò che dista di meno dista di meno rispetto a qualcosa che dista di più. Infatti, il più si dice in riferimento al meno e il meno in riferimento al più, poiché entrambi si dicono relativi; così è in effetti. Anche Aristotele affermò ciò nei Praedicamenta, nel capitolo De quantitate.102 Perciò secondo il Calcolatore allo stesso modo si devono giudicare l’intenso e l’attenuato, come apertamente egli dice in quel trattato e come si evince chiaramente dalle sue affermazioni e da questa soluzione, perché l’intensità è attesa dall’allontanamento dal non grado e l’attenuazione dall’avvicinamento al medesimo non grado, ciò che, secondo le premesse, equivale al distare di più e di meno. Ma questo non può accordarsi con la tesi del Calcolatore, perché, secondo lui, l’attenuato non è detto tale rispetto all’intenso o al più intenso. Infatti, nella questioncella che è la prima annessa alla principale, in cui egli si chiede se il grado sommo sia attenuato, sostenendo la tesi affermativa nella risposta al secondo quesito proposto contro di lui, dice: «Affermo che il grado sommo è attenuato non per mescolanza con il

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admixtione sui contrarii, neque quia aliquis sit intensior, neque respectu alicuius, sed dicitur esse remissus, quia tantum continet de intensione; et si gradus intensior summo produceretur iste non esset remissior quam nunc [13b] est, sed praecise esset sub tanta remissione sicut nunc». Ex quibus verbis manifeste apparet quod non vult quod dicatur remissus penes minus distare a non gradu; si enim minus distaret, aliquis magis distaret, et si aliquis magis distaret, esset aliquis magis intensus summo. Sed, per ipsum, gradus summus non dicitur remissus, quia aliquis sit eo intensior; ergo responsio non stat cum suis dictis. 21. Amplius: manifeste apparet quod per ‘distare’ non accipit ‘magis distare’, et sic non comparative sed positive accepit, quia ipse, in [5rb] quaestiuncula citata, probans quod gradus summus sit remissus, sic argumentatur: gradus summus finite appropinquat non gradui, quia finite distat; finite autem distat, quia a finito numero fit denominatio, dicitur enim, verbi gratia, distare per octo, quare concluditur quod sit remissus. Ecce ergo per simpliciter distare et non per magis distare, probat quod gradus summus sit remissus. 22. Confirmatur, quia si intellexisset comparative et non positive, tunc sensus esset cum dicit ‘gradus summus finite propinquat, quia ipse finite distat’, ‘gradus summus finite minus distat a non gradu, quia ipse finite magis distat a non gradu’. Qui sermo est inintelligibilis. 23. Probans etiam ipsum finite distare probat quia distat per octo, sed oportebat quod probaret respectu cuius magis distat; immo secundum ipsum, respectu alicuius non minus distat, quia respectu nullius intensioris est remissus, sicut ex sua sententia dictum est. 24. Praeterea vana esset illa particula ‘finitum’; sufficiebat enim dicere summus est remissus, quia minus distat a non gradu quam aliquis datus, utputa b. Sed ex ista responsione videtur

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proprio contrario, né perché qualcosa sia più intenso, né rispetto a qualcos’altro, ma si dice che è attenuato perché contiene una quantità finita di intensità; e se si producesse un grado più intenso del sommo questo non sarebbe più attenuato di quanto lo sia ora, [13b] ma sarebbe esattamente sotto la stessa misura di attenuazione come è ora».103 Da queste parole emerge chiaramente che egli non vuole che il sommo sia detto ‘attenuato’ per distare di meno dal non grado; se, infatti, distasse di meno, qualcosa disterebbe di più e se qualcosa distasse di più sarebbe più intenso del sommo. Ma – a suo avviso – il grado sommo non è detto attenuato per il fatto che qualche grado sia più intenso di esso; quindi la sua risposta non si accorda con le sue stesse affermazioni. 21. Inoltre è evidente che al ‘distare’ egli non dà l’accezione di ‘distare di più’, sicché la sua accezione non è di carattere comparativo, ma positivo. Infatti, a proposito della [5rb] questioncella citata, per dimostrare che il grado sommo è attenuato il Calcolatore argomenta in questo modo: il grado sommo si approssima in misura finita al non grado, perché dista in misura finita; ma dista in misura finita perché prende la denominazione da un numero finito; si dice, infatti, che dista per esempio di otto e perciò si conclude che è attenuato. Ecco, dunque, che egli prova che il grado sommo è attenuato per ‘distare’ in assoluto e non per ‘distare di più’. 22. Ed è confermato perché se lo avesse inteso in termini comparativi e non positivi, allora quando dice ‘il grado sommo si approssima in misura finita, perché dista in misura finita’ il senso sarebbe ‘il grado sommo dista di meno in misura finita dal non grado, perché in misura finita dista di più dal non grado’. Ma questo discorso è incomprensibile. 23. Inoltre, per provare che il sommo dista in misura finita, dimostra che dista di otto, ma sarebbe stato opportuno che lo avesse provato rispetto a ciò che dista di più; anzi che lo avesse provato, secondo la sua posizione, rispetto a qualcos’altro che non dista di meno, perché, come si evince dalla sua tesi, il sommo è attenuato non rispetto ad alcunché di più intenso. 24. Pertanto sarebbe vana quella parola ‘finito’, perché sarebbe stato sufficiente dire che il sommo è attenuato perché dista dal non grado meno di un altro grado dato, per esempio b. Ma da questa risposta sembra che si debba dedurre che il grado

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sequi quod minus distat quam ipsemeta. Quae omnia cum hoc quod sunt impossibilia, sunt extranea et improbabilia etiam. Quare concluditur quod nulla videtur esse via rationabilis pro dicto Calculatore. 25. Epilogantes ergo de distare a non quanto et eidem appropinquare, sive a non gradu, dicimus quod secundum veram significationem et propriam est, quod quae distant sunt in diversis locis, quae vero appropinquant, secundum significationem oppositam, est quod sint in eodem loco, quod vere dici non potest in proposito propter causas assignatas. Altera significatio est quod aliquod intermedium cadat inter illa et non quantum, sive non gradum, et declaratum est hoc esse impossibile, cum immediata sint non quanto vel non gradui, licet secundum aliquod sui potest esse medium; et etiam dato illo modo, tunc propinquare negaret illud medium quod si conceditur in uno, et in altero concedendum est, et si negatur in uno et in alio. Alter intellectus fuit quod. per ‘distare a non quanto’ intelligebatur ‘differre’ et per ‘propinquare’ ‘convenire’ e ‘non differre’, et ostensum est quod etiam modus iste non est conveniens. Ultimus fuit intellectus et verus quod distat a non quanto, id est, continuum cuius proprium est facere distare, incipiens a non quanto. Et dictum est quod [14a] hoc non magis convenit magno quam parvo (cum tam magnum quam parvum sint continua), nisi per ‘distare’ intelligatur ‘magis distare’, et per ‘appropinquare’ ‘minus distare’. Sed cum iste intellectus sit verus, repugnat tamen dictis ipsius Calculatoris. Quare nulla videtur conveniens via pro ipso. Sed etiam de hoc post. CAPUT II IN QUO DISPUTATUR QUID EST DISTARE A SUMMO VEL EIDEM APPROPINQUARE

1. Non minus necessarium est videre, quid est distare a summo et ei appropinquare. Et secludendo distantiam secundum locum, cum in his veritatem non contineat nisi in quantitate per-

a

ipsemet] ipsaemet T.

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sommo dista meno del grado dato. Tutte queste argomentazioni, oltre che impossibili, sono fuorvianti ed altresì improbabili. Se ne conclude che non c’è nessuna soluzione razionale a sostegno del Calcolatore. 25. Concludendo, dunque, in merito al distare dal non quanto e all’approssimarsi ad esso o al non grado, diciamo che il significato vero e proprio di ‘distare’ è che le cose che sono lontane sono in luoghi diversi; quelle, invece, che sono vicine, secondo il significato opposto, sono nel medesimo luogo; ma questo per le ragioni stabilite non può essere ammesso. Il secondo significato è che tra le cose distanti e il non quanto o non grado intercorre qualche intermedio, ma si è detto che ciò è impossibile quando esse sono immediatamente vicine al non quanto o al non grado, sebbene in qualcuna delle loro parti possa esserci un intermedio. Ma, anche ammessa tale soluzione, l’approssimarsi negherebbe quell’intermedio; e se ciò è ammesso per l’uno [ovvero per l’allontanarsi], deve essere ammesso anche per l’altro [ovvero per l’avvicinarsi] e se è negato per l’uno deve esserlo anche per l’altro. Un ulteriore significato è che il ‘distare’ dal non quanto si intenda nel senso di ‘differenziarsi’ e che ‘approssimarsi’ si intenda nel senso di ‘concordare’ e ‘non differenziarsi’; ma si è dimostrato che anche questa soluzione non è conveniente. L’ultimo e vero significato è che ciò che dista dal non quanto è il continuo che ha la proprietà di produrre la distanza, cominciando dal non quanto. E si è detto che [14a] ciò non vale per il grande più che per il piccolo – perché tanto il grande quanto il piccolo sono continui – a condizione che per ‘distare’ si intenda ‘distare di più’ e per ‘approssimarsi’ si intenda ‘distare di meno’. Ma questo, pur essendo il significato autentico, non trova corrispondenza nelle parole del Calcolatore. Perciò nessuna soluzione sembra conforme alle sue tesi. Ma di ciò diremo anche più avanti.104 CAPITOLO II ESAME DI CHE COSA SIA IL DISTARE DAL SOMMO E L’AVVICINARSI AD ESSO

1. Non è meno necessario esaminare che cosa sia il distare dal sommo e l’approssimarsi ad esso. Escludendo la distanza, che è secondo il luogo, in quanto non conduce alla verità in riferi-

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manente, dicimus quod verus intellectus, et universalis ad propositum faciens, est habere aliquod intermedium, per quod non contangit summum, accipiendo ‘contactum’ et pro ‘vero contactu’ et pro ‘immediatione’, ut etiam se extendit ad formas; unde dicimus caliditatem ut octo contangere eam ut octo et nihil mediare inter unam et alteram, cum sint aequales et omnino similes. Ergo distantia sunt inter quae aliquod mediat. Scias tamen quod cum dicimus pedale distare a bipedali per unum pedale et quod unum pedale mediat inter utrumque, ex virtute sermonis est sermo falsus, quia intermedium inter aliqua non est pars alicuius eorum, sicut distantia inter te et me nihil est mei, neque aliquid tui. Sed pedale, quod dicitur inter illa mediare, est pars ipsius bipedalis, cum sit eius medietas; sed pro tanto dicitur pedale mediare inter illa quia, aequatis illis secundum prima puncta, ultimum punctum minoris distat ab ultimo puncto maioris per unum pedale et est quasi dictum per synedochena cum dicimus pedale distare a bipedali per unum pedale. Verum tale per quod maius superat minus, ultra hoc quod est tale intermedium, est etiam illud per quod idem maius differt a minori; hinc est quod non inconvenienter distantia sumitur pro differentia. Quare dicimus quod pedale distat, id est, differt a bipedali per unum pedale et e contra, sed diversimode, quia bipedale differt positive a pedali per unum pedale; sed pedale differt privative extendendo no[5va]men differentiae etiam ad non esse idem. Eo modo quo etiam dicimus habitum differre a privatione, et e contra. Sumitur etiam aliquando distare pro magis distare. Eo modo quo dicimus Ferrariam distare a Venetiis et Clodiam appropinquare eisdem Venetiis, non quia ambae non distant, sed comparative, quia Clodia dicitur appropinquare, id est, minus distare. Sumitur etiam, ut in alio capitulo dictum est, distare, id est, esse continuum, cuius proprium est facere distare, sumendo proprietatem pro re, [14b] eo modo quo dicimus calidissimum est tangens lunam,

a

synedochen] sinedochem P.

SEZ. II, CAP. II

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mento alle quantità a meno che non siano quantità permanenti, diciamo che il significato autentico e universale che fa a proposito è l’avere qualcosa di intermedio per il quale il quanto non è a contatto con il sommo, se si assume la parola ‘contatto’ sia nel senso di ‘contatto vero’ sia nel senso di ‘immediatezza’, estensibile anche alle forme. Per cui diciamo che il caldo di grado otto si sovrappone per contatto a quello di grado otto e che tra l’uno e l’altro non c’è alcunché di intermedio, essendo entrambi uguali e affatto simili. Dunque, distanti sono le cose tra le quali c’è qualcosa di intermedio. Sappi tuttavia che quando diciamo che la lunghezza di un piede dista di un piede da quella di due piedi e che tra l’una e l’altra c’è un piede intermedio, il discorso, per la natura stessa del linguaggio, è falso, perché l’intermedio tra due estremi non è parte di nessuno dei due, come la distanza tra me e te non è nulla di me né è alcunché di te; ma il piede, che è detto intermedio tra quei due estremi, è parte della stessa lunghezza di due piedi, essendone la metà. Tuttavia il piede è detto intermedio tra essi solo per ciò che, soprapposte quelle due grandezze a partire dai primi punti di entrambe, l’ultimo punto della grandezza più piccola dista di un piede dall’ultimo punto della grandezza più grande e, quando diciamo che la lunghezza di un piede dista di un piede da quella di due piedi, lo diciamo quasi per sineddoche. Ma ciò per cui il maggiore supera il minore, oltre ad essere l’intermedio, è anche ciò per cui lo stesso maggiore si differenzia dal minore.105 Ne consegue che non è sconveniente assumere la distanza nel senso di differenza. Per questo diciamo che il piede dista, cioè si differenzia di un piede dalla lunghezza di due piedi e viceversa, ma lo diciamo in modo diverso, perché due piedi si differenziano effettivamente di un piede dal piede. Ma il piede differisce per privazione, se si estende il termine differenza [5va] anche al non essere identico. Nello stesso modo diciamo anche che il possesso differisce dalla privazione e viceversa. Talvolta si assume il ‘distare’ anche per ‘distare di più’, proprio come diciamo che Ferrara dista da Venezia e Chioggia è più vicina alla stessa Venezia, non perché non siano entrambe distanti, ma per comparazione, perché si dice che Chioggia si approssima nel senso che dista di meno. Come si è detto in un altro capitolo, si assume il distare anche come il continuo che ha la proprietà di produrre la distanza, assumendo la proprietà per la cosa stessa, [14b] allo stesso modo in cui diciamo che caldissimo è ciò che

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

id est, ignis. Cum autem appropinquare opponatur privative vel relativea ad distare, secundum modos distantiae, erunt et modi propinquitatis oppositi. 2. Primusb ergo modus distantiae secundum propositum, erat esse medium. Si ergo sumatur appropinquare ei oppositumc negabit tale medium. Verum ut dicitur X Metaphysicae, privatio aliquando negat totum habitum, sicut caecitas; et dicit Aristoteles quod talis privatio potest appellari contrarietas, cum contraria sint quae maxime distant ut in eodem decimo dicitur. Et sic privatio totam distantiam negat, quare tale appropinquans est quod nullum habet medium; et sic propinqua sunt inter quae nihil mediat. Sed omnino ut sic adaequantur et quod taliter appropinquat summo, est etiam ipsum summum. Aliquando vero privatio non interimit totum habitum, sicut male videns vel semicaecus vel orbiculus, non enim quod male videt, nihil videt, sed negat partem visionis. Et Aristoteles in eodem decimo noluitd ista contraria appellari, quia non maxime distant; quare si appropinquatio non negat totum medium negat partem medii. Dicetur ergo appropinquare summo quod non per totam distantiam distat a summo. 3. Secundo autem significato distantiae quod erat differre opponitur appropinquare; prout dicit convenientiam et similitudinem; et hoc aut pere perfectam autf imperfectam. Caliditas enim ut octo perfecte convenit et assimilatur ei ut octo; sed quae est infra octo, imperfecte et secundum quid. 4. Tertio autem significato distantiae quod est ‘magis distare’ opponitur ‘appropinquare’, quod est ‘minus distare’. Quod quidem solum partem negat et non totum. Sed distantiae, quae est proprietas continui, potest opponi appropinquare, prout negat illam separationem partium, sicut unitas et indivisibilia distare non faciunt secundum hunc sensum.

a

privative et relative] privativae et relativae PT. b Primus] Primo P. c ei oppositum] om. P.

d

noluit] nolluit T. per] om. P. f aut] et P. e

SEZ. II, CAP. II

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tocca la luna, cioè il fuoco. Ma poiché l’approssimarsi si oppone privativamente o relativamente al distare, a seconda delle modalità della distanza si determineranno anche le modalità opposte della vicinanza. 2. Dunque, il primo modo di definire, secondo il nostro proposito, la distanza era quello di ammettere un termine intermedio. Se quindi l’approssimarsi è assunto come opposto ad essa, negherà tale termine medio. Ma come dice il libro X della Metaphysica, la privazione talvolta nega tutto il possesso,106 com’è il caso della cecità. Aristotele dice che tale privazione si può chiamare contrarietà, perché i contrari sono quelli che distano in massima misura,107 come si afferma nel medesimo libro X. Sicché la privazione esclude tutta la distanza e, di conseguenza, ciò che si approssima è ciò che non ha alcun termine intermedio; così sono prossime le cose tra le quali non sussiste niente di intermedio. Ma in tal modo esse si eguagliano del tutto e ciò che approssima il sommo in modo siffatto è esso stesso sommo. Talvolta però la privazione non sopprime tutto il possesso, come accade a chi vede male o è semicieco o miope; infatti, non è che costui non vede nulla per il fatto che vede male; ma la privazione nega una parte della vista. Nel medesimo libro X Aristotele non volle dare a questi l’appellativo di contrari, perché non sono distanti in massima misura;108 perciò l’approssimazione, se non nega del tutto l’intermedio, ne nega una parte. Si dirà, quindi, che si approssima al sommo ciò che non si allontana dal sommo per tutta la distanza. 3. Il secondo significato di distanza era il ‘differenziarsi’ opposto all’avvicinarsi inteso come accordo e somiglianza; e ciò può accadere o per una somiglianza perfetta o per una imperfetta. Infatti, il caldo di grado otto si accorda perfettamente con quello di grado otto e gli è simile; ma i gradi che sono inferiori a otto si accordano imperfettamente e rispetto ad alcunché. 4. Il terzo significato di ‘distanza’ è che il distare equivale a ‘distare di più’ e si oppone all’approssimarsi, che equivale a ‘distare di meno’. Il che significa che esso nega una parte e non il tutto. Ma la distanza, che è una proprietà del continuo, può opporsi all’avvicinarsi, per ciò che questo nega quella separazione delle parti; sicché l’unità e gli indivisibili non ammettono il distare in questo significato.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT III IN QUO OSTENDITUR

CALCULATOREM ET EUM SEQUENTES NON RECTE

ACCEPISSE QUID SIT DISTARE A SUMMO ET EIDEM APPROPINQUARE;

IMMO NEQUE QUID SIT DISTARE A NON GRADU ET EIDEM NON GRADUI APPROPINQUARE

1. Ex his autem quae dicta sunt non difficile est videre Calculatorem istum et communiter opinantes non bene accepisse quid sit distare a summo et eidem appropinquare et inconcinne, sive non consequenter ad sua dicta, dixisse de distantia a non gradu et propinquitate ad eundem non gradum. Dicit enim antedictus Calculator, verbi gratia, quod in latitudine caliditatis, quae ponitur incipere a non gradu et terminari ad gradum ut octo, quod caliditas, verbi gratia, ut sex, distat ab ea ut octo, ut duo sive per duo; ob id quia inter eam, quae est ut sex, et eam, quae [15a] est ut octo, ad modum superius expressum, mediant duo, est etiam data caliditas ut sex eidem ut octo propinqua et non est fingere, nisi etiam ut duo propter eandem causam, scilicet, quia inter sex et octo mediant duo. 2. Verum in primis quaeratur cur ut sex distent a non gradu ut sex et eidem non gradui appropinquanta per sex et tamen, comparando ad summum, non distent sex nisi per duo; et cum nihil potest magis vel minus distare vel appropinquare non gradui, nisi per quantum ipsum est; quare magis vel minus potest distare vel appropinquare summo quam ipsum sit, cum demonstratum est quod inter non gradum et quemcumque gradum nil proprie potest mediare. Nam gradus minor non vere mediat inter non gradum et gradum maiorem; cum minor sit pars maioris et medium vere inter aliqua non est pars illorum. sed hoc erit per synedochenb, sicut dictum est prius. 3. Secundo. Quia si distare et appropinquare ad summum habent sumic penes intercepta inter illa et summum, tunc sequitur quod quanto aliquod magis distat a summo, tanto magis ei appropinquat; quod omnino impossibile est. Hoc autem sic patet: quia, sumptis duobus gradibus, utputa a et b, sit a ut quattuor, b ut sex; tunc a magis distat a summo quam b, quia a distat per

a b

appropinquant] appropinquat P. synedochen] sinedochem P.

c

sumi] assumi P; summi T.

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SEZ. II, CAP. III

CAPITOLO III IL

CALCOLATORE

E I SUOI SEGUACI NON HANNO ASSUNTO IN UN’AC-

CEZIONE CORRETTA CHE COSA SIA IL DISTARE DAL SOMMO E L’APPROS-

SIMARSI AD ESSO; ANZI NEPPURE CHE COSA SIA IL DISTARE DAL NON GRADO E L’APPROSSIMARSI AL MEDESIMO NON GRADO

1. Da quanto si è detto non è difficile rendersi conto che questo Calcolatore e coloro che ne condividono l’opinione hanno inteso in modo non corretto che cosa sia il distare dal sommo e l’approssimarsi ad esso e hanno parlato goffamente e in modo non coerente con le loro stesse affermazioni della distanza dal non grado e della vicinanza allo stesso. Dice, infatti, a titolo di esempio, il predetto Calcolatore che nella estensione di gradazioni del calore, che si suppone cominciare dal non grado e terminare al grado otto di calore, il caldo di grado sei dista di due o per due da quello di grado otto. Perciò tra il caldo di grado sei e [15a] quello di grado otto, secondo il significato esplicitato più sopra,109 c’è un intermedio che è due, che è anche il caldo dato per cui il grado sei è prossimo al grado otto; e questo intermedio non può essere immaginato se non come due per la stessa ragione per cui tra sei e otto c’è un intermedio che è due. 2. Ma innanzi tutto ci si chiede perché il grado sei dista di sei dal non grado e al medesimo non grado si approssima di sei e, tuttavia, in rapporto al sommo, il grado sei non dista che di due. E poiché nulla può distare o approssimarsi al non grado se non per quanto è esso stesso, ne consegue che nulla può distare o approssimarsi al sommo di più o di meno di quanto sia esso stesso, essendosi dimostrato che tra il non grado e un grado qualunque non c’è propriamente nessun intermedio. Infatti, un grado minore non è veramente intermedio tra il non grado e il grado maggiore, essendo esso parte del maggiore; di contro ciò che è intermedio tra alcune cose non è veramente parte di esse, ma è detto tale per sineddoche, come si è spiegato in precedenza. 3. In secondo luogo se distare e approssimarsi al sommo sono assunti per sottrazione tra essi e il sommo, allora segue che qualcosa dista dal sommo tanto quanto si avvicina ad esso. Ma questo è affatto impossibile. E che sia impossibile si dimostra così: presi due gradi, per esempio a e b, sia a di grado quattro e b di grado sei, allora a dista dal sommo più di b, perché a dista di quattro, b

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

quattuor, b vero per duo; distantiam namque sumitur per intercepta inter aliqua, ut dictum est; sed per idem a appropinquat ut quattuor, b vero ut duo tantum. [5vb] Ergo sicut a magis distat sic a magis appropinquat. 4. Praedictus autem Calculator, fortassis videns hanc difficultatem, finxit quod propinquitas denominata a minori termino est maior ea quae a maiori termino denominatur. Dicit enim habitum opposito modo se habere ad privationem, quia ubi maior denominatio, ibi maior habitus in positivisa; in privativis vero e contrario: ubi minor denominatio, ibi maior privatio; nam remissio ut unum – inquit ipse – est maior ea ut duo. Contra quem instare stultius est quam ipsa opinio, cum ponat in maiori causa formali minorem effectum formalem; quod enim a maiorem remissionem habeat b, et tamen ipsum a sit minus remissum, est in extremo fatuitatis. Sed ipsum decepit, quia accepit remissionem pro intensione. Ubi enim est minor intensio, bene est ibi maior remissio; et quod est minus intensum est magis remissum et maiorem remissionem habet. Sed impossibile est quodquod est minus remissum maiorem remissionem habeat; quare remissum ut unum non potest esse magis remissum remisso ut duo, neque appropinquans ut duo, magis potest appropinquare appropinquante ut quattuor, ut praedictus Calculator fingit. 5. Praeterea si calidum ut quattuor appropinquat summo per interceptum inter quattuor et octo, propinquitas autem privativeb opponitur distantiae ut ipse confitetur, vel ergo negat omnem distantiam sicut [15b] caecitas visionem – et patet quod non; quia sic inter quattuor et octo nihil distaretc – vel negat partem, non autem illam, quae est inter quattuor et octo – quia sic nulla esset distantia – ergo negat illam quae est inter non gradum et quattuor; et sic formaliter per illam, quam quattuor includit, appropinquat, non autem per illam quam excludit. Alias confirmaturd. Consimiliter sex appropinquante octo per sex et distant per duo, quia appropinquatio negat distantiam cum ei opponatur privative, non autem illam, quae est inter sex et octo, quia distat per duo, ergo illam, quae est a non gradu usque ad sex, quare sex appropinquant octo per sex, et unumquodque per a

d

b

e

in positivis] impositivis P. privative] privativae T. c distaret] distare P.

Alias confirmatur] om. P. appropinquant] appropinquat P.

SEZ. II, CAP. III

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invece, di due; la distanza, infatti, è presa per sottrazione tra essi, come si è detto; ma proprio per lo stesso motivo a si approssima di quattro e b di due soltanto. [5vb] Quindi a dista di più così come si avvicina di più. 4. Il predetto Calcolatore, scorgendo forse questa difficoltà, suppose che la vicinanza denominata da un numero minore è maggiore di quella denominata da un numero maggiore.110 Egli dice, infatti, che il possesso sta in termini di opposizione con la privazione, perché dove c’è una denominazione maggiore, c’è un possesso maggiore nelle realtà positive; in quelle privative, invece, accade il contrario, dove c’è una denominazione minore, c’è una maggiore privazione; infatti, l’attenuazione di grado uno – egli dice – è maggiore di quella di grado due. Insistere contro di lui è stolto quanto lo è la sua stessa opinione, poiché egli pone in una maggiore causa formale un minore effetto formale. Infatti, che l’attenuazione di a sia maggiore di b e che tuttavia a sia meno attenuato è il colmo della stoltezza. Egli si è ingannato perché ha scambiato l’attenuazione per l’intensità. Infatti, dove minore è l’intensità, c’è veramente una maggiore attenuazione e ciò che è meno intenso è più attenuato ed ha una maggiore attenuazione. Ma è impossibile che qualcosa sia meno attenuato ed abbia una maggiore attenuazione. Perciò ciò che è attenuato di grado uno non può essere più attenuato di ciò che è attenuato di grado due, né ciò che si avvicina di due può essere più vicino di ciò che si avvicina di quattro, come ha creduto il Calcolatore. 5. Inoltre si supponga che il caldo di grado quattro si approssimi al sommo per la differenza tra quattro e otto; ma la vicinanza si oppone per privazione alla distanza, come riconosce lo stesso Calcolatore; quindi essa o nega tutta la distanza, [15b] come la cecità nega del tutto la visione – ma evidentemente non è così, perché altrimenti tra quattro e otto non ci sarebbe nessuna distanza – oppure nega una parte, ma non quella che intercorre tra quattro e otto, perché altrimenti si annullerebbe la distanza; quindi nega quella che è tra il non grado e il grado quattro e così formalmente si approssima per la distanza che include il quattro e non per quella che lo esclude. Se ne dà conferma in altro modo. Il sei si avvicina all’otto di sei e dista di due, perché la vicinanza nega la distanza, che è ad essa opposta per privazione, ma non nega quella che c’è tra il sei e l’otto, che è pari a due, bensì nega quella che è dal non grado fino a sei, perché il sei si approssima

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

tantum appropinquat summo per quantum est. Similiter si sumatur ‘distare’ pro ‘differre’ vel ‘disconvenire’, ‘appropinquare’ vero pro ‘convenire’ et ‘assimilari’. Nam sex distant ab octo per duo; ablatis enim duobus, nulla esset, secundum sic, differentia inter octo et sex, convenit autem per sex quantum ipsum est. Caliditas enim ut sex differt ab ea ut octo per duo (quae non sunt in caliditate ut sex quae dicitur latitudo exclusa), et convenit cum caliditate ut octo per sex, quae est latitudo inclusa. Quare sic appropinquatio attenditur secundum latitudinem inclusam, distantia vero penes latitudinem exclusam. Sumendo autem ‘distare’ pro ‘magis distare’ et ‘appropinquare’ pro ‘minus distare’, ambo attenduntur secundum exclusum, sed unum minus et alterum plus. Sic enim caliditas ut quattuor appropinquat caliditati ut octo et caliditas ut unum distat, quia ambae distant, sed ea ut unum magis distat. Verum nulli secundum istum modum potest appropinquare gradus summus, id est minus distare; non enim respectu alterius, quiaa nullus cum sit summus magis distat quam ipse; ergo respectu suimet magis distaret et minus distaret; quod est impossibile. Et confirmatur principale, sed reddit quasi in idem; quia gradus ut sex appropinquat et distat a summo; sed appropinquare privative opponitur ad distare; ergo opposita verificabuntur de eodem. Quiab si dicatur quod opponuntur relative quae dici possunt de eodem, tunc multiplex est error. 6. Primo: quia sic sumendo distare et appropinquare ut dicuntur absolutec et non ut distare dicit magis distare et appropinquare minus distare, nullo modo dicuntur relative, quia neque appropinquare hoc ipsum quod est, est distantis appropinquare, vel secundum alium casum, neque e converso. Sed esse relativi hoc ipsum quod est, alterius est vel quomodolibet aliter ad aliud. 7. Secundo: quia si essent relative opposita non possent dici de eodem, quia, licet idem sit magnum et parvum, tamen mag-

a b

quia] quare P. Quia] Quod P.

c

absolute] positive P.

SEZ. II, CAP. III

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all’otto di sei e ciascuna quantità di tanto si approssima al sommo di quanto è essa stessa. Analogamente accade se si assume il ‘distare’ per ‘differenziarsi’ o ‘essere discordante’ e l’approssimarsi per ‘accordarsi’ o ‘assimilarsi’. Infatti, sei dista da otto di due; tolto il due, non ci sarebbe, secondo tale ipotesi, una differenza tra otto e sei; dunque, la vicinanza si accorda per sei, cioè per quanto è la quantità stessa. Infatti, il caldo di grado sei differisce da quello di grado otto di due gradi – che sono i due gradi che mancano al caldo di grado sei e si definiscono pertanto ‘estensione esclusa’ – e si accorda con il caldo di grado otto per sei gradi, i quali sono l’estensione inclusa. Perciò la vicinanza è intesa in termini di estensione inclusa e la distanza in termini di estensione esclusa. Assumendo il ‘distare’ per ‘distare di più’ e l’avvicinarsi per ‘distare di meno’, entrambi si intendono per esclusione, ma l’uno di più e l’altro di meno. Così, infatti, diciamo che il caldo di grado quattro si approssima al caldo di grado otto e che il caldo di grado uno dista da esso. In realtà entrambi distano; ma quello di grado uno dista di più. Secondo questa soluzione il grado sommo non può approssimarsi a nessun grado ovvero non può distare da nessun grado; infatti, non può essere distante da un altro grado, perché, essendo massimo, nessun grado può distare di più del sommo; quindi disterebbe di più e di meno di sé stesso, ma tale conseguenza è impossibile. Si conferma sì l’assunto principale, ma è quasi un ripetere le stesse cose, perché il grado sei si approssima e si allontana dal sommo; ma l’avvicinarsi si oppone per privazione all’allontanarsi; quindi si predicheranno della medesima cosa termini opposti. Se poi si dicesse che i termini che si possono predicare della stessa cosa sono opposti in senso relativo, allora l’errore diventa molteplice. 6. In primo luogo perché, se si assumono il distare e l’avvicinarsi in termini assoluti e non nel senso che ‘distare’ significa ‘distare di più’ e ‘avvicinarsi’ significa ‘distare di meno’, in tal caso essi non si dicono affatto relativi, perché né l’avvicinarsi è ciò che esso è effettivamente, ovvero l’avvicinarsi di ciò che è distante o secondo un’altra modalità, né viceversa. L’essere relativo, invece, è di per sé l’essere rispetto ad un altro o l’essere in qualunque modo diverso da un altro. 7. In secondo luogo perché se fossero opposti in senso relativo non potrebbero predicarsi della medesima cosa, perché, sebbene la stessa cosa sia grande e piccola, tuttavia il grande e

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

num et parvum non sunt opposita relative nisi respectu eiusdem; et tunc sequitur, secun[16a]dum opinionem, quod si dicuntur relative distans et propinquum cum respectua eiusdem, quia gradus ut sex dicitur distare et appropinquare per respectum ad summum, opposita dicentur de eodem. Et scias quod, quamvis distans sit relativum et propinquum similiter, non tamen ista relative adinvicem dicuntur, sicut aequale et inaequale unumquodque per se est relativum, tamen adinvicem non referuntur, quia neque aequale [6ra] est inaequali aequale, neque e converso; immo, sic adinvicem collata, opponuntur privative. Quare distans et propinquum etsi unumquodque de se sit relativum, tamen adinvicem collata, opponuntur secundum habitum et privationem. Si ergo idem appropinquat summo et ab eodem distat, ergo privative opposita dicuntur de eodem. Quod si dicitur, ut dicendum est, non inconvenire ubi unum non negat totum habitum, sicut idem est videns et male videns, tunc quaeratur quid privat an exclusam an inclusam; et reddit argumentum quod appropinquatio habet attendi penes illud quod includit et non illud quod excludit. 8. Quare concludendo dicitur quod distare a summo potest intelligi vel quod mediat aliquod inter ipsum et summum secundum modum dictum, vel quod differt a summo – per illud enim quod mediat differt a summo – vel et tertio quod magis distet quam certum datum. Et cum appropinquare opponatur ad distare. Primo igiturb significato distare opponetur appropinquare; et hoc vel absolute negabit omne medium – et sic quod summo appropinquat est aequale summo; et est ipsum summum, unde omnis caliditas inter quam et caliditatem summam non est medium, est ei aequalis et sic est summa – si autem negabit non omne medium sed partem, sic non erit summa sed aliquid de summa non habebit et ab ea deficiet et per tale distabit et aliquid habebit, et sic appropinquabit quod erit per negationem distantiae a non gradu usque ad gradum in quo est et sic per tantum dicetur appropinquare. Verbi gratia, caliditas ut sex per duo distat a caliditate ut octo, sed eidem gradui ut octo appropinquat

a

respectu] dicuntur respectu P.

b

igitur] om. P.

SEZ. II, CAP. III

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il piccolo non sono opposti in senso relativo se non rispetto alla medesima cosa; ne consegue, secondo [16a] tale opinione, che se il distante e il vicino si dicono in senso relativo rispetto alla stessa cosa, poiché del grado sei si dice che dista e si approssima al sommo, accadrà che della stessa cosa si predicheranno gli opposti. E sappi che, sebbene il distante sia relativo al pari del vicino, tuttavia questi termini non si dicono reciprocamente relativi; allo stesso modo ogni uguale e ogni disuguale è di per sé relativo, tuttavia non lo sono reciprocamente, perché l’uguale [6ra] non è uguale al disuguale né viceversa; anzi rapportati l’uno all’altro si oppongono per privazione. Perciò anche il distante e il vicino, pur essendo ciascuno di per sé relativo, rapportati l’uno all’altro, si oppongono come il possesso e la privazione. Se diciamo che lo stesso grado si avvicina al sommo e si allontana da esso, allora gli opposti in senso privativo si predicano della medesima cosa. Se poi si dice, come si deve dire, che tra essi non c’è discordanza nell’ipotesi che l’uno non neghi tutto il possesso, com’è il caso del vedente e del semivedente, allora ci si chiede cos’è che causa la privazione, se la parte esclusa o quella inclusa. E così ritorna l’argomentazione secondo cui l’avvicinamento va atteso da ciò che include e non da ciò che esclude. 8. Perciò concludendo si dice che il distare dal sommo può essere inteso o in quanto c’è un intermedio tra un grado determinato e il sommo nel modo che si è detto o in quanto differisce dal sommo – infatti, differisce dal sommo per l’intermedio – o in terza ipotesi in quanto dista più di un certo dato. L’approssimarsi poi si oppone al distare. Dunque, per il primo significato il distare si opporrà all’approssimarsi; e ciò o negherà in assoluto ogni termine intermedio – in tal caso ciò che si approssima al sommo è uguale al sommo ed è lo stesso sommo e ogni caldo, che non ha un intermedio tra sé e il caldo sommo, è uguale al caldo sommo, anzi è lo stesso caldo sommo – se, invece, non negherà tutto l’intermedio, ma solo una parte, non si identificherà con il sommo, ma semplicemente non avrà del sommo qualcosa per il quale sarà manchevole e distante da esso e insieme avrà del sommo qualcosa per il quale si avvicinerà ad esso per negazione della distanza dal non grado fino al grado in cui si trova e per il quale sarà detto approssimarsi di tanto al sommo. Per esempio il caldo di grado sei dista di due dal caldo di grado otto, ma non si approssima in assoluto al medesimo grado otto, perché,

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

non simpliciter, quia non privat omne medium, cum distet per duo, sed privat illam distantiam, quae est ante se. Et quoniam illa est ut sex, ideo negat illam ut sex, sed quantum negat de illa distantia, tantum ponit de habitu; ideo appropinquat per sex. Et breviter quia non gradus solum distat ab octo per octo et gradus ut sex occupavit sex gradus illius distantiae et hoc privat appropinquatio, quia appropinquare est medium negare; immo gradus ut sex appropinquat per sex gradui ut octo; et sic dicatur de omnibus aliis. 9. Secundo vero significato distare, quod est differre, opponitur appropinquare, quod est convenire; sed quoniam ex toto nihil convenit cum aliquo si aliquo modo differt, quod simpliciter enima convenit [16b] cum summo, nullo modo differt vel distat ab ipso summo; quod vero secundum aliquid convenit cum eo, et non ex toto, illud quoquo modo differt et quoquo modo non differt. Caliditas ergo ut sex, quae ex toto non est similis caliditati summae, quoquo modo convenit et quoquo modo differt. Differt autem per illud quod non habet, convenit autem per illud quod habet. Cum ergo non habeat duos ultimos gradus, scilicet septimum et octavum, per illos differt; cum habeat autem sex per illos convenit; sed tale est appropinquare; ergo caliditas ut sex, per sex appropinquat et per duos distat. 10. Tertio autem significato distare quod est magis distare opponitur appropinquare quod est minus distare, et haec ambo habent fieri per exclusum et illud quod non habent, sed secundum magis et minus; verbi gratia, caliditas ut quattuor magis distat a summa caliditate quam caliditas ut sex, quia illa ut quattuor per quattuor, illa ut sex per duo tantum et unum dicitur distare et alterum appropinquare, sed ambo per exclusa et per ea quae non habent. Quomodo autem opinio prima accipiat appropinquare et distare inferius dicetur. Sed de distantia et appropinquatione ad non gradum dictum est in altero capitulo et qui modi sunt possibiles et qui impossibiles.

a

enim] om. P.

SEZ. II, CAP. III

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essendo distante di due, non toglie ogni intermedio, ma toglie quella distanza che precede sé stesso. E poiché questa è di grado sei, nega la distanza di grado sei, ma quanto nega di quella distanza, tanto pone in essere; infatti, si approssima di sei. In breve solo il non grado dista di otto da otto; il grado sei occupa sei gradi di quella stessa distanza; la vicinanza esclude quella distanza perché l’avvicinamento è la negazione dell’intermedio; anzi il grado sei si approssima di sei al grado otto e così si dica di tutti gli altri gradi. 9. Per il secondo significato, che è ‘differenziarsi’, il distare si oppone all’avvicinarsi che ha il significato di ‘concordare’; ma poiché nulla concorda del tutto con qualcosa se in qualche modo se ne differenzia, ciò che in assoluto concorda [16b] con il sommo non si differenzia in alcun modo né dista dallo stesso; ciò che, invece, concorda con esso rispetto ad alcunché e non del tutto, in qualche modo si differenzia e in qualche modo non se ne differenzia. Il caldo di grado sei, che non è del tutto simile al caldo sommo, in qualche modo si accorda e in qualche modo se ne differenzia. Si differenzia per ciò che non ha e concorda per ciò che ha. E poiché non ha i due ultimi gradi, cioè il settimo e l’ottavo, per essi si differenzia; e poiché ha sei gradi, per essi concorda; ma quest’ultimo è l’avvicinarsi; quindi il caldo di grado sei si avvicina di sei e dista di due. 10. Per il terzo significato il distare è ‘distare di più’ e si oppone all’avvicinarsi che è ‘distare di meno’, ed entrambi si verificano per esclusione e per ciò che non hanno, ma secondo il più e il meno; per esempio il caldo di grado quattro dista di più dal caldo sommo del caldo di grado sei, perché quello di grado quattro dista di quattro, quello di grado sei dista soltanto di due e l’uno è detto distare e l’altro approssimarsi, ma entrambi distano per ciò che è escluso e per ciò che non hanno. In che accezione poi la prima opinione assuma l’approssimarsi e il distare si dirà più avanti.111 Ma della distanza e dell’avvicinamento al non grado si è detto in un altro capitolo e si è detto altresì quali sono possibili e quali impossibili.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT IV DE MULTIPLICITATE NOMINUM MAGNITUDO PARVITAS, INTENSIO ET REMISSIO

1. Sed quia nominum aequivocatio paralogismuma facit, ideo cum magnitudo et parvitas, intensio et remissio, multis modis accipiantur, distinguendum est de eis. 2. Dico ergo quod magnitudo, secundum communem usum, sumitur pro spatio quod est quid continuum habens positionem in partibus; et sic multoties sumitur parvitas. Hoc autem provenit quia re vera magnitudo et parvitas sunt relationes fundatae in illis quantitatibus et sic multoties sumitur respectivumb pro absoluto, quia proprium pro subiecto accipi potest, et e contra. Et quia magnum et parvum reperiuntur in omni quantitate, ideo omnis quantitas potest dici magnitudo et parvitas. Dicimus enim et magnitudinem nu[6rb]meri et magnitudinem motus et temporis; et sic magnitudo et parvitas erunt convertibiliter idem cum quantitate, neque sic adinvicem referuntur vel opponuntur. Scire tamen oportet quod verius et minus improprie magnitudo potest appellari quantitas quam parvitas; quia omne quantum, sive finitum sive infinitum, est magnum quoquo modo; sed non omne quantum est parvum, quia si quantitas augetur in infinitum, quia saltem motus et tempus secundum Aristotelem, sic infinitum omne est magnum et nullum tale potest esse parvum ut refertur ad maius, ut patet. Aliquando vero sumitur magnitudo pro relatione et consimiliter parvitas et sic non sunt absoluta, sed dicuntur [17a] ad aliud. Non minus de intensione distinguendum est et de remissione. 3. Verum scire oportet quod magnitudo et parvitas, saltem in idiomate nostro, non significant motum in quantitate, sed tales motusc dicimus augmentationem et diminutionem, quarum una, scilicet augmentatio, est motus de imperfecta quantitate ad perfectam, illa vero, scilicet, diminutio, de perfecta ad imperfecteam, sicut V Physicorum dicitur; sed in qualitate est unum

a b

paralogismum] perologismum P. respectivum] respectivuum T.

c

tales motus] om. P.

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SEZ. II, CAP. IV

CAPITOLO IV DELLA MOLTEPLICITÀ DEI NOMI ‘GRANDEZZA’ ‘PICCOLEZZA’ ‘INTENSITÀ’ E ‘ATTENUAZIONE’

1. Poiché l’omonimia dei nomi genera paralogismi e poiché la grandezza e la piccolezza, come l’intensità e l’attenuazione, si dicono in molti modi, è necessario fare in proposito talune distinzioni. 2. Dico, dunque, che la grandezza nell’uso comune è assunta nel senso di spazio continuo le cui parti hanno una posizione; allo stesso modo è assai frequentemente assunta la piccolezza. Ciò deriva dal fatto che nella realtà la grandezza e la piccolezza sono relazioni fondate sulle quantità e così molte volte si assume per assoluto ciò che è relativo, perché la proprietà di una cosa può essere assunta per la cosa stessa e viceversa. E poiché il grande e il piccolo si trovano in tutte le quantità, ne consegue che ogni quantità può essere detta ‘grandezza’ e ‘piccolezza’. Infatti, parliamo di grandezza del numero [6rb] e di grandezza del moto e del tempo; in questi termini la grandezza e la piccolezza si identificano e sono convertibili con la quantità e in tal modo non si rapportano né si oppongono reciprocamente. Occorre però sapere che corrisponde di più al vero ed è meno impropria la possibilità di dare alla quantità l’appellativo di grandezza piuttosto che di piccolezza, perché ogni quanto, sia esso finito o infinito, è in qualche modo grande; ma non ogni quanto è piccolo, perché se la quantità aumenta all’infinito, cosa che secondo Aristotele112 accade almeno per il moto e per il tempo, allora ogni infinito è grande e nessun infinito, com’è evidente, può essere piccolo in relazione al più grande. Talvolta, però, la grandezza è assunta nell’accezione di relazione e similmente accade per la piccolezza e in tal modo i due termini non sono assoluti, ma si dicono relativi. [17a] Non diversamente bisogna distinguere a proposito dell’intensità e dell’attenuazione. 3. Ma è opportuno sapere che la grandezza e la piccolezza, almeno nel nostro idioma, non indicano un moto quantitativo, poiché tali moti li definiamo accrescimento e diminuzione, dei quali l’uno, l’accrescimento, è il moto dalla quantità imperfetta a quella perfetta, l’altro, cioè la diminuzione, è il moto dalla quantità perfetta alla imperfetta, come è detto nel V Physicorum;113 ma

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

nomen utrumque significans. Dicitur etenim intensio motus in qualitate de imperfecta in perfectam et remissio motus in qualitate de perfecta in imperfectam; et intensio et remissio dicuntur etiam de qualitate ipsa; quia idem est nomen motui et formae quiescenti. Et iterum, sumendo intensionem non pro motu, sed pro forma quiescente, dupliciter sumi potest, ut supra dicebatur de ipsa magnitudine. Nam et pro ipsa qualitate suscipiente intensionem et remissionem, quae se habent ut subiecta et absoluta, et pro ipsis respectibus fundatis in ipsa qualitate. 4. Illud quoque observandum est in intensione et remissione, quod observabatur in magnitudine et parvitate; quod etsi intensio et remissio sumantur pro re intensa et remissa, verius tamen intensio quam remissio sic sumitur, quia omnis talis qualitas est intensa, sed non omnis est remissa, quia neque infinitum, neque summum possunt esse remissa. Quare intensum convertibiliter se habet cum tali qualitate suscipiente magis et minus, non autem remissum. Quo fit quod cum intensio cum tali qualitate convertatur, unum potest accipi pro altero, non sic autem remissum, cum non omnis talis qualitas sit remissa. De omnibus autem istis modis separatima dicendum est. CAPUT V IN QUO DISTINGUITUR DE MULTIPLICI ACCEPTIONE HORUM NOMINUM PENES QUID HABENT ATTENDI INTENSIO ET REMISSIO ET HUIUSMODI

1 Non minus huiusmodi nomina penes quid intensio vel aliquod huiusmodi habeant attendi distinguendum est. Nam apud me et secundum communem usum, quem debemus imitari, iuxta illud Philosophi primo Topicorum, loquendum ut plures. Potest enim hoc multis modis intelligi. Unus sensus esse potest penes quid attenditur intensio, id est, per quod cognoscitur intensio, et hoc vel tamquam per definitionem eius, vel per causam, vel

a

separatim] separati PT.

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SEZ. II, CAP. V

nella qualità un unico nome ha entrambi i significati. Infatti, si dice intensità il moto della qualità che da imperfetta diventa perfetta e attenuazione il moto della qualità che da perfetta diventa imperfetta. L’intensità e l’attenuazione si dicono in relazione alla qualità stessa, perché lo stesso è il nome del moto e della forma quiescente. Inoltre, l’intensità, se è assunta non nell’accezione del moto ma della forma quiescente, può avere due significati, come sopra114 si diceva della stessa grandezza. Infatti, può essere assunta sia per la qualità stessa suscettibile di intensità e di attenuazione, che tra loro stanno come soggetti e in termini assoluti, sia per le relazioni che si fondano sulla stessa qualità. 4. A proposito dell’intensità e dell’attenuazione si debbono fare le stesse osservazioni che si sono fatte a proposito della grandezza e della piccolezza. Sebbene l’intensità e l’attenuazione siano assunte per la cosa intensa e per quella attenuata, tuttavia nel significato più autentico questa assunzione vale più per l’intensità che per l’attenuazione, perché ogni qualità, in quanto tale, è intensa, ma non ogni qualità è attenuata, perché né l’infinito né il sommo possono essere attenuati. Perciò l’intenso è convertibile con una qualità che è tale da essere suscettibile del più e del meno, non così accade per ciò che è attenuato. Per questo accade che l’intensità può convertirsi con una qualità tale e l’una può essere scambiata per l’altra; non così l’attenuato, poiché non tutte quelle qualità sono attenuate. Ma intorno a tutte queste modalità bisognerà dare distinti ragguagli. CAPITOLO V DISTINZIONI TRA LE MOLTEPLICI ACCEZIONI DEI NOMI DA CUI SI ATTENDONO L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE E SIMILI

1. Non è meno necessario distinguere siffatti nomi e stabilire da che cosa debbano attendersi l’intensità e simili. Infatti, secondo me e secondo l’uso comune, che dobbiamo imitare, in sintonia con il suggerimento dato da Aristotele nel I Topicorum, bisogna parlare come la maggior parte delle persone.115 Tale distinzione può essere intesa in molti modi. Un significato può essere da che cosa si attende l’intensità, cioè da che cosa essa è conosciuta, se è conosciuta per mezzo della sua definizione o della

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

per signum eius. Sic enim solemus dicere per quid cognoscitur eclipsis. Etenim per privationem luminis in luna cognoscitur esclipsis tamquam per quid et per definitionem; est etenim eclipsis defectus luminis in luna, loquendo de eclipsi lunae. Quare si quaera[17b]tur per quid cognoscitur eclipsis lunae tamquam per definitionem, respondetur quod per deficere lumen in ipsa. Ulterius si quaeratur propter quid tale lumen deficit, respondetur quia terra interponitur inter solem et lunam. Terram enim interponi inter solem et lunam est penes quod cognoscitur lunam deficere, tamquam penes causam, sive tamquam per causam. Eodem modo si tempore plenilunii, aëre existente sereno, opacum opposituma lunae non causat umbram, cognoscitur lunam eclipsari, non tamquam per definitionem proprieb, neque per causam, sed per signum sive effectum, penes hoc igitur etiam cognoscetur lunam deficere. Consimiliter si quaeratur penes quid attenditur velocitas in motu, id est, per quod cognoscitur aliquem motum esse velocem, primum indagandum est intelligere quid sit moveri velociter; verbi gratia, dicimus quod est motus multus in quali; causa autem quare est multus in quali est quia magna victoria est motoris supra mobile. Ex effectu autem cognoscitur, quia in parvo tempore multum pertransitur sive de spatio, sive de quantitate, sive de qualitate. Ecce quod penes haec omnia et per haec omnia attenditur sive cognoscitur velocitas in motu. Quare similiter cum de intensione quaeritur penes quid attendatur, potest intelligi quid est formaliter intensio, qua causa est intensio, quod signum vel quis est effectus intensionis. Eodem modo dicatur de magnitu[6va]dine et remissione et parvitate. 2. Aliquotiens tamen et non minus in usu est, quod per huiusmodi interrogationes quaerimus certificari de mensura, verbi gratia, cum quaeritur penes quid attenditur magnitudo rei; sensus est per quid mensuramus quantitatem rei, hoc est, quae est mensura metiendi ipsas quantitates, et quis est modus cognoscendi finitatem vel infinitatem, et quanta unaquaeque sit et etiam, duobus comparatis adinvicem, quam habitudinem habeant secundum aequalitatem et inaequalitatem; et si inaequalia, quod horum est maius et quod minus et in qua proportione, et arithmetice et geometrice, unum se habet ad alterum; et huiusmodi consideratio est magis mathematica quam physica vel a

oppositum] om. P.

b

proprie] propriae T.

SEZ. II, CAP. V

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sua causa o di un suo effetto. Così, infatti, siamo soliti dire da che cosa si conosce l’eclissi. Infatti, dalla privazione della luminosità l’eclissi lunare si conosce per l’essenza e per definizione; infatti, se si parla di eclissi di luna si sa che è una mancanza di luminosità nella luna. Perciò se si chiede [17b] per che cosa si conosce l’eclissi lunare e quale ne sia la definizione, si risponde che essa è una mancanza della luminosità nella luna. E se ancora si chiede per quale causa tale luminosità viene meno, si risponde che la terra si frappone tra il sole e la luna. Infatti, l’interposizione della terra tra il sole e la luna è ciò da cui si conosce l’eclissi lunare sia come causa ‘da cui’ sia come causa ‘per mezzo di cui’. Allo stesso modo nella fase del plenilunio, stante la limpidezza dell’aria, se l’opposta opacità della luna non causa un’ombra, si conosce che la luna si eclissa non propriamente per definizione, né per la causa, ma per un segno o un effetto, poiché anche da tale effetto si arguisce che la luna viene meno. Analogamente se si chiede da che cosa si attende la velocità del moto, cioè da che cosa si conosce che un moto è veloce, la prima cosa da indagare è quella di capire che cosa sia il muoversi velocemente. Diciamo per esempio che in una qualità il moto è intenso, ma la causa per la quale è tale è che è grande la vittoria del motore sul mobile. Ma ciò si conosce dall’effetto, perché in un tempo breve si percorre molto spazio o molta quantità o molta qualità. Ecco dunque che da tutte queste cose e per mezzo di tutte queste cose si attende o si conosce la velocità nel moto. Allo stesso modo quando si chiede da che cosa si attende l’intensità, si può intendere che cos’è in senso formale l’intensità, per quale causa essa sussista, quale ne sia il segno o l’effetto. Lo stesso si dica della grandezza, [6va] dell’attenuazione e della piccolezza. 2. A volte, tuttavia, non è meno frequente nell’uso di chiedere con siffatti interrogativi la certificazione della misura. Per esempio quando chiediamo da che cosa si attende la grandezza di un oggetto, il significato della domanda è ‘con che cosa misuriamo la quantità di un oggetto’, cioè qual è il metro di misura delle stesse quantità e qual è il modo per conoscere la finitezza o l’infinità e quanto grande sia ciascuna e anche, comparate tra loro due cose, in che relazione sono rispetto all’uguaglianza o alla disuguaglianza; e se sono disuguali, quale di esse è più grande e quale è più piccola e in che rapporto, aritmetico o geometrico, l’una sta all’altra. Un’indagine di questo tipo è più matemati-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

metaphysica. Prima vero e contrario, et de secunda se multum intromittunt isti Calculatores, ut patet inspicienti libros suos; parum autem aut nihil de prima. Sunt etenim huiusmodi scientiae (si nomen scientiae merentur) mediae inter physicas et mathematicas et magis appellantur mathematicae quam physicae. Et sunt sicut caeterae scientiae mediae, de quibus dicitur II Physicorum. Istis igitur modis potest intelligi penes quid intensio et remissio attendantur. [18a]

SECTIO III IN QUA RESPONDETUR AD QUAESITUM. CAPUT I IN QUO DECLARATUR SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM SUMANTUR INTENSIO ET REMISSIO IN PRAESENTI NEGOTIO

1. Cum autem dictum sit intensionem et remissionem posse sumi et pro motu et pro formis quiescentibus, tametsi subtilissimae fiunt disputationes, considerando eas secundum quod sunt motus; tamen in praesenti negotio nihil de illis intendimus, cum propter hoc hunc laborem non subivimus; neque praedictus Calculator aliquid in praesenti suo tractatu dicit. Et quamvis multae adduci possent difficultates circa intensionem et remissionem, sic sumptas, una tamen est praecipua de modo intendenti et remittendi, scilicet cum, verbi gratia, caliditas de non gradu devenit ad certum gradum, immo magis de gradu imperfecto devenit ad perfectum, an sic fiat illa intensio, sicut in accumulationibus lapidum, ut ex appositione lapidis supra lapidem, utrisque remanentibus, crescat cumulus lapidum. Sic ex superadventu alterius gradus caliditatis ad gradum priorem, utrisque remanentibus, fiat illa intensio, vel fit aliquis alter modus.

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SEZ. III, CAP. I

ca che fisica o metafisica. A differenza della prima [matematica], questi Calcolatori si occupano molto della seconda [fisica], come è evidente a chi dà uno sguardo ai loro libri; della prima si occupano poco o nulla. Queste, infatti, sono scienze – se pure meritano il nome di scienze – medie tra la fisica e la matematica e sono chiamate più matematiche che fisiche; e sono come le altre scienze medie, di cui si parla nel II Physicorum.116 Dunque, in questi modi si può intendere da che cosa si debbono attendere l’intensità e l’attenuazione. [18a]

SEZIONE III SI RISPONDE ALLA QUESTIONE PROPOSTA.

CAPITOLO I SI DICHIARA SECONDO QUALE SIGNIFICATO SONO ASSUNTI NEL PRESENTE LAVORO L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE

1. Poiché si è detto che l’intensità e l’attenuazione si possono assumere sia come movimenti sia come forme quiescenti, sebbene siano sottilissime le discussioni sul modo di considerarle come movimenti, tuttavia nel presente lavoro non ci occupiamo di tali discussioni, perché non per questo ci siamo sobbarcati a questa fatica né nel suo trattato dice qualcosa in proposito il predetto Calcolatore. E si possano addurre molte difficoltà intorno all’intensità e all’attenuazione, assunte come moti; una è tuttavia specifica del modo di intensificarsi e di attenuarsi, cioè per esempio quando il caldo dal non grado giunge ad un grado determinato, anzi quando dal grado imperfetto giunge a quello perfetto, ci si chiede se quell’intensità sia come nell’accumulazione delle pietre, così che per giustapposizione di una pietra all’altra, permanendo l’una e l’altra, cresca il cumulo delle pietre. E così per aggiunzione di un determinato grado di calore ad un grado precedente, permanendo entrambi i gradi, si determina quella intensità oppure si produce in qualche altro modo.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

2. Et animadvertas quod etsi in augmentatione, quae est accumulatio, manifeste apparet modus ille, tamen, sumendo augmentationem proprie prout in solis viventibus anima vegetativa reperitur et augmentationem pro rarefactione in qua eadem remanente materia, fit maior dimensio. Hoc est non minus latens, immo fortassis plus, saltem de augmentatione propria, quam de intensione et remissione. Tribus etenim modis dicitur augmentatio, ut intuit Commentator, 22 commento, primi De caelo. Hanc autem quaestionem subtiliter pertractavit vir celeberrimus et divini ingenii Jacobus Forliviensis, in quodam tractatu, qui inscribitur De intensione et remissione formarum. Multique alii illustres Peripatetici de hoc disseruerunt, quorum dicta taxare vel laudare non est praesentis negotii. Multae etiam aliae solemnes difficultates contingunt circa intensionem et remissionem, augmentationem et diminutionem, quae non sunt ad propositam inquisitionem. Quare, eis relictis, dumtaxat de intensione et remissione pro formis quiescentibus dicemus. CAPUT II IN QUO DECLARAT PENES QUID INTENSIO ET MAGNITUDO, REMISSIO ET PARVITAS HABEANT ATTENDI SUMENDO OMNIA EA PRO SUBIECTIS ET ABSOLUTIS, NON AUTEM FORMALITER ET PRO RESPECTIBUS

1. Relictis igitur intensione et remissione pro motu, dicemus de eis ut sunt formae quiescentes et primo sumendo eas pro subiectis et rebus suppositis intensioni et remissioni sive magnitudini et parvitati. 2. Dicimus ergo secundum ea quae in ante[18b]habitis dicta sunt, dicere penes quid intensio et remissio attendatur sive magnitudo et parvitas, potest uno modo intelligi, quid est qualitas vel quae est illa qualitas, quae suscipit intensionem et remissionem, vel propter quam causam sic suscipit intensionem et remissionem, vel quod est signum sic intendi vel remitti. Et quantumcumque istae [6vb] sinta egregiae et subtilissimae inquisitiones, tamen in proposito nolob me in his intromittere, quia a

sint] sunt P.

b

nolo] nollo T.

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SEZ. III, CAP. II

2. E puoi osservare che anche nell’accrescimento, che è un’accumulazione, questa modalità si manifesta chiaramente, se si assume l’accrescimento in senso proprio, come è il caso dell’anima vegetativa che si trova nei soli viventi, o se si assume l’accrescimento come rarefazione in cui, permanendo la medesima materia, si determina una maggiore dimensione. Questo processo è non meno latente, anzi forse lo è più, almeno per l’accrescimento in senso proprio, che per l’intensità e per l’attenuazione. L’accrescimento si dice in tre modi, come ha ben compreso Averroè, nel com. 22 del I De caelo.117 Ha trattato in modo sottilissimo tale questione Iacopo di Forlì,118 uomo celeberrimo, dotato di divino ingegno, in un trattato intitolato De intensione et remissione formarum. Molti altri Peripatetici ne discussero, ma non rientra nel presente lavoro lodare o censurare i loro scritti. Molte difficoltà, altresì solenni, si verificano a proposito della intensità e dell’attenuazione, dell’accrescimento e della diminuzione, che esulano dall’indagine proposta. Perciò, lasciatele da parte, tratteremo soltanto della intensità e dell’attenuazione come forme quiescenti. CAPITOLO II DA CHE COSA L’INTENSITÀ E LA GRANDEZZA, L’ATTENUAZIONE E LA PICCOLEZZA DEBBONO ATTENDERSI SE SI ASSUMONO PER SOGGETTI E PER TERMINI ASSOLUTI E NON FORMALMENTE E IN SENSO RELATIVO

1. Messe, dunque, da parte l’intensità e l’attenuazione, intese come movimenti, tratteremo di esse in quanto forme quiescenti, assumendole in primo luogo come soggetti e come sostanze suscettibili di intensità e di attenuazione o di grandezza e di piccolezza. 2. Procediamo, dunque, secondo quanto che si è stabilito [18b] in precedenza. Dire da che cosa si attendono l’intensità e l’attenuazione o la grandezza e la piccolezza, si può intendere in un solo modo, cioè che cos’è la qualità o quale è la qualità che è suscettibile di intensità e di attenuazione o quale è l’effetto di tale intensificarsi e attenuarsi. E per quanto queste siano [6vb] indagini egregie e sottilissime, tuttavia nel trattare la questione proposta non voglio occuparmi di esse sia perché devierei trop-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

nimis diverterem a principali proposito, et longa indigeret disputatione. Hoc enim negotium physicum vel verius metaphysicum est. Alter vero intellectus est penes quid intensio et remissio, sic pro subiectis sumptis sive pro fundamentis intensionis et remissionis, id est, per quid habent mensurari, auta quae est earum mensura, qua cognoscuntur finitas et infinitas earum, sub quo termino vel quomodo cognoscitur terminus et ultimum earum. 3. Ad quod respondentes dicimus primo accipiendum esse quod nihil proprie mensuratur nisi quantum, ut X Metaphysicae dicit Aristoteles, quare si substantia vel qualitas vel aliquod aliud a quantitate mensuratur, hoc est non secundum se, sed pro quanto ipsa substantia, vel qualitas vel ad aliquid, vel quicquid sit illud quantum induit. Primo namque Physicorum dicit Philosophus, quantitatem quidem secundum se finitam vel infinitam esse, substantiam autem aut qualitatem secundum accidens. Quantitas autem ex Praedicamentis partitur in continuam et discretam; sed prima ratio mensurandi reperitur in discretis, secundo vero in continuis ut idem Philosophus X Metaphysicae testatur. Nam arithmetica est prior et abstractior geometria, quare prima mensurandi ratio in ea reperitur. Hinc est quod cum mensura debet esse minima et indivisibilis, hoc solum reperitur in unitate, quae est primum cuiuslibet numeri. In aliis vero intantum invenitur indivisibilitas, quatenus induunt unitatem. Unde unitas arithmetica indivisibilis est simpliciter, sed in continuis sua unitas est divisibilis potentia, licet actu sit indivisibilis. Quare redditur secundum quid indivisibilis, cuius oppositum contingit in unitate arithmetica, cum ipsa et secundum actum et secundum potentiam sit indivisibilis. Mensuraturus ergo in quocumque genere debet habere arithmeticam. Quare Plato, in X De Republica, multum magnificavit eius necessitatem. 4. Habitis igitur regulis arithmeticae, transituro ad alia numeranda, opus est intelligere illud quod mensurandum est, et si non perfecta cognitione, saltem aliquali, quantum sifficit pro ratione metiendi. Verbi gratia, mensuraturus oleum, licet non

a

aut] ut P.

SEZ. III, CAP. II

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po dall’intento principale sia perché la questione necessiterebbe di una lunga discussione. Questo lavoro, infatti, è fisico o più verosimilmente metafisico. Il secondo modo di intendere da che cosa si attendono l’intensità e l’attenuazione è quello di assumerle come soggetti o come fondamenti dell’intensità e dell’attenuazione, cioè per che cosa si debbono misurare o quale sia la loro misura o con quale misura si conosce la loro finitezza o infinità, sotto quale termine o in che modo si conosce il loro termine ultimo. 3. Rispondendo a tali interrogativi diciamo che in primo luogo bisogna accettare che nulla si misura in senso proprio se non la quantità, come dice Aristotele nel libro X della Metaphysica.119 Perciò se si misura una sostanza o una qualità o altra cosa diversa dalla quantità, queste non sono prese in considerazione per sé, ma sono considerate per quanto hanno di quantitativo quelle stesse sostanze o qualità o termini relativi o qualunque altra cosa, dotata di quantità. Infatti, nel I Physicorum Aristotele dice che la quantità è di per sé finita o infinita e la sostanza o la qualità lo sono per accidente. Nei Praedicamenta, egli afferma che la quantità è divisa in continua e discreta,120 ma la prima ragione del misurare si trova nelle grandezze discrete e secondariamente in quelle continue, come attesta lo stesso Aristotele nel libro X della Metaphysica.121 Infatti, l’aritmetica precede ed è più astratta della geometria; perciò in essa si trova la prima regola della misurazione. Da ciò segue che la misura, dovendo essere minima e indivisibile, è data solo dall’unità, che è il primo termine di ogni numerazione. Nelle altre misure, in tanto si rinviene l’indivisibilità, in quanto esse si dotano di una unità. L’unità aritmetica è indivisibile in assoluto, ma nelle grandezze continue è divisibile in potenza, pur essendo in atto indivisibile. Perciò essa è resa indivisibile rispetto a qualcosa; l’opposto accade all’unità aritmetica, la quale è indivisibile sia in potenza che in atto. Chiunque si accinge a misurare qualunque genere di cose deve, dunque, possedere l’aritmetica. Perciò Platone nel libro X della Repubblica ne magnificò in molti modi la necessità.122 4. Una volta possedute le regole dell’aritmetica, colui che vuole passare alla misurazione delle altre cose, ha bisogno di capire che cosa deve misurare e ne deve avere, se non una perfetta cognizione, almeno una in qualche modo sufficiente in funzione della misurazione. Per esempio colui che si accinge a misurare

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

cognoscat quidditative oleum et causas olei, de quibus naturalis habet considerare, tamen aliquam cognitionem habet olei, et sic de aliis. Verum, cum X Meta]19a]physicae, mensura debet esse unigenea mensurato et minima, quia aliter non esset certissima, quod tamen est de ratione mensurae, sicut dicit Aristoteles, IV Physicorum, tractatu De tempore, et X Metaphysicae. Cum autem oleum sit continuum, et III Phyisicorum non datur minimum continuum. Cum sexto eiusdem demonstratum est quod continuum est divisibile in semper divisibilia, et continuum non potest mensurari nisi a continuo. Quomodo ergo fieri poterit quod oleum mensuretur? Quare Aristoteles, X Metaphysicae, docuit ut in unaquaque tali natura sumatur minimum unum quod secundum naturam est minimum vel secundum sensum vel secundum institutionem. Dicitur autem secundum naturam vel propter ipsam unitatem et binarium, quae ex natura sunt minima; sicut III Physicorum, tractatu De infinito, docuit Aristoteles – ubi dixit in numeris dari primum et minimum sed non maximum; in continuis vero, saltem permanentibus, dari maximum et non minimum – vel ut exposuit divus Thomas propter opinionem suam et Commentatoris qui tenent res naturales, quatenus naturales, esse terminatas ad maximum et minimum, iuxta illud secundi De anima. Omnium natura constantium determinata est ratio magnitudinis, parvitatis et augmenti, licet quatenus continua sunt, non sunt sic terminata. Dicitur autem minimum secundum sensum quia fortassis ex natura non erit minimum, sed secundum sensum, quia simpliciter vel fere ex cuiuscumque partis ablatione redditur insensibile, vel erit secundum institutionem gentium minimum, quod non est ita certum sicut aliquod priorum. Et ideo videmus libras, uncias et multas alias mensuras diversificari, secundum diversitatem gentium et locorum, sed ut idem in eodem decimo dicit Aristoteles, conandum est accipere minimum quantum est possibile. Neque existimandum est omnibus continuis et naturis esse idem minimum, sed aliud in tempore, aliud in motu, aliud in liquoribus, aliud in per se

SEZ. III, CAP. II

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l’olio, benché non conosca l’olio nella sua sostanza, né ne conosca le cause, che debbono essere prese in considerazione dal filosofo naturale, tuttavia ha una qualche cognizione di esso; così accade per le altre cose. Nel libro X della Metaphysica [19a] si dice che la misura deve essere minima e omogenea al misurato,123 perché altrimenti non sarebbe certissima, come si conviene alla natura della misura, come dice Aristotele nel IV Physicorum, nel trattato De tempore124 e nel libro X della Metaphysica. Ma l’olio è un continuo e nel III Physicorum si afferma che non si dà un continuo minimo.125 Nel libro VI della medesima opera si dimostra che il continuo è sempre divisibile in parti a loro volta divisibili e che il continuo non può essere misurato se non da un continuo.126 Come sarà, dunque, possibile misurare l’olio? Aristotele nel libro X della Metaphysica suggerì di assumere in ciascuna realtà siffatta una unità minima che sia tale o per natura o secondo i sensi o per comune consenso.127 Si dice secondo natura o per la stessa unità e per il due, che sono le quantità minime per natura, come ci fa sapere Aristotele nel III Physicorum, nel trattato De infinito, ove dice che nei numeri si dà il primo e il minimo, ma non il massimo, e che nelle grandezze continue, almeno in quelle permanenti, si dà al contrario il massimo e non il minimo,128 oppure si dice, come ha commentato S. Tommaso, dal suo punto di vista129 e dal punto di vista di coloro che seguono l’opinione di Averroè, i quali ritengono che le grandezze fisiche, in quanto fisiche, sono determinate da un massimo e da un minimo, come risulta dal II De anima.130 È nella natura di tutte le cose permanenti l’essere determinate in grandezza, in piccolezza e nell’accrescimento, sebbene esse, in quanto continue, non siano così determinate. Si dice minimo secondo la sensazione forse perché non è il minimo per natura, ma secondo la sensazione, perché in assoluto o per sottrazione di ciascuna delle sue parti si rende insensibile. Oppure sarà minimo secondo il consenso universale, anche se questo non è così certo come il precedente. Così vediamo che le libbre, le once e molte altre misure si diversificano in rapporto alla diversità dei popoli e dei luoghi, ma, come dice Aristotele nel medesimo libro X,131 bisogna tentare di assumere lo stesso minimo per quanto è possibile. Non si deve però credere che il minimo sia lo stesso in tutti continui e in tutte le nature, ma uno è il minimo secondo il tempo, un altro secondo il moto, uno nei liquidi e un altro nelle cose di per sé determinate. Anzi

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

terminatis. Immo in his quae sunt diversarum specierum potest contingere oppositum. Nam existimandum est alterius mensurae esse minimum ignis a minimo aëris, si quidem totum elementum ignis est maius toto elemento aëris, et Meteororum primo, sicut totum ad totum, ita particula ad particulam. Haec autem minima Aristoteles appellat partes in actu, horum [7ra] partes appellat partes in potentia; sic itaque mensura qua quantitates et qualitates, eta universaliter omnia mensurabilia metimur sunt minima, vel simpliciter vel secundum quid. 5. Dictum est autem alia a quantitatibus mensurari quod intelligendum est secundo; quia (ut IV Physicorum dicitur) si pannus [19b] mensuratur, primo eius quantitas mensuratur, secundo substantia. Nam primo mensuratum est quantitas. Considerandum autem est quod secundum tales partes res dicitur esse finita vel infinita a partibus enim potentialibus, id est, minoribus ipso minimo, non iudicatur res finita vel infinita, cum unumquodque continuum infinitas partes contineat potentiales, et unum infinitum non est maius altero. Secundum etiam numerum istarum partium res dicitur esse tanta vel tanta ut duo vel tria vel quattuor vel secundum aliquem alium numerum. Quod si contingat aliquid habere plus quam unum vel multa minima, quia unum cum medietate vel cum tertia vel cum quarta et sic ulterius discurrendo, non aufert etiam quin illud dicatur primum in ratione mensurandi illius generis. Nam et si dicitur medietas minimi quae est minor minimo saltem secundum inexistentiam, non tamen habet rationem mensurandi nisi in habitudine et secundum denominationem ad ipsum minimum. Unde, verbi gratia, si granum apud aromatarios dicitur minimum, et detur minus hoc; tamen non capit cognitionem nisi quatenus est una partium grani, et sic etiam habemus praeter mensuram modum mensurandi, quia finitas et infinitas, et numerus secundum replicationem minimi, vel partis eius, et secundum istum modum dicere possumus quod magnitudo et parvitas attenduntur penes distantiam a non quanto, et intensio et remissio penes distantiam a non gradu, sumendo magnitudinem et parvitatem pro quantitate subiecta illis respectibus, et intensionem et remissionem

a

et] om. P.

SEZ. III, CAP. II

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nelle nature che sono di genere diverso può accadere l’opposto. Infatti, si deve ritenere che il minimo del fuoco sia di altra misura rispetto al minimo dell’aria, se è vero che la totalità dell’elemento fuoco sia maggiore di quella dell’aria e, come si dice nel I Meteororum, il tutto sta al tutto, come la parte sta alla parte.132 Questi minimi sono chiamati da Aristotele parti in atto, le cui [7ra] parti sono in potenza;133 così i minimi, o in assoluto o in senso relativo, sono la misura con la quale misuriamo le quantità, le qualità e in generale tutto ciò che è misurabile. 5. Si è detto che in secondo luogo bisogna capire che altre cose possono essere misurate dalle quantità, perché, come si dice nel IV Physicorum,134 se si misura un panno, [19b] in primo luogo si misura la sua quantità, in secondo luogo si misura la sostanza. Infatti, il misurato è innanzi tutto una quantità. Bisogna poi considerare che quando secondo tali parti la cosa si dice finita o infinita a partire dalle parti potenziali, cioè da quelle minori del minimo, essa non è giudicata finita o infinita poiché ciascun continuo contiene infinite parti potenziali e un infinito non è più grande di un altro infinito. Infatti, secondo il numero di queste parti la cosa si dice così e così grande, per esempio di due o tre o quattro o secondo qualche altro rapporto numerico. Che se accade che qualcosa abbia più di un minimo o ne abbia molti, poiché l’unità può coincidere con la metà o con il terzo o con il quarto e così via discorrendo, ciò non esclude che anche quel minimo sia detto la prima unità in relazione alla modalità di misurare le cose di quel genere. Infatti, anche se si dice che è la metà del minimo, la quale è minore del minimo, almeno sotto il profilo della non esistenza, tuttavia essa non ha la proprietà di misurare se non in rapporto e secondo la denominazione di quel minimo. Per cui, per esempio se un granello per i profumieri si dice minimo, si dà anche ciò che è più piccolo; tuttavia non è conosciuto se non in quanto è una delle parti del granello e così abbiamo anche oltre la misura il modo di misurare, perché la finitezza e l’infinità hanno una misura secondo la moltiplicazione dell’unità minima o di una sua parte e secondo questi modi possiamo dire che la grandezza e la piccolezza si attendono dalla distanza dal non quanto e che l’intensità e l’attenuazione si attendono dalla distanza dal non grado, dando alla grandezza e alla piccolezza l’accezione di quantità soggette a quelle relazioni e all’intensità e all’attenuazione l’accezione di qualità intensificabili e attenua-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

pro qualitate intensibili et remissibili. Isto modo intelligendo videlicet quod quantitas cui convenit facere distare mensuratur incipiendo a non quanto secundum numerum primae mensurae in suo genere, sic quotiens adaequabitur prima mensura tali distantiae, id est, tali quantitati sic facienti distare incipiendo a non quanto, tanta dicetur distantia, id est, quantitas distans, quod si per unum tantum dicetur ut unum, si per duo ut duo, si consumetur, finita; si non consumetur, infinita. Quod si contingeret praeter mensuram integram aliquid partis mensurae continere ultra mensuram vel mensuras integras, secundum illud etiam fiet denominatio. Et quod dictum est de magnitudine proportionabiliter intelligatur de intensione et remissione. CAPUT III IN QUO DISPUTATUR PENES QUID HABEANT ATTENDI MAGNITUDO ET

PARVITAS, INTENSIO ET REMISSIO, SUMPTIS IPSIS FORMALITER ET PRO RESPECTIBUS

1. Dicto de intensione et remissione, de magnitudine et parvitate, accipiendo eas pro fundamentis et subiectis ipsorum respectuum, modo conveniens est de ipsis dicere respectibus. Et [20a] hoc rationabiliter cum cognitio absoluti, VII Metaphysicae praecedat cognitionem respectivi, et fundamentum praecedat id quod in eo fundatur. Et quoniam, ut in sectione praecedente dictum est, cum dicitur ‘penes quid habet attendi intensio vel aliquod consimile’, multis modis intelligi potest, quorum unus erat ‘per quid cognoscitur intensio tamquam per definitionem exprimentem quid est’, ideo cum haec sit prima, ab ea fiet exordium. Prima etenim haec est, cum primo De anima, ipsum quod quid est, omnis demonstrationis est principium; et Posteriorum secundo ipsum si est, immediate subsequitur quid est; III quoque Metaphysicae: «Unumquodque maxime videtur cognosci cum suum quod quid est cognoscitur». Primo autem dicamus de magno et parvo tamquam de notioribus.

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SEZ. III, CAP. III

bili. Allo stesso modo si comprende che la quantità che ha la proprietà di produrre una distanza si misura cominciando dal non quanto secondo il numero di volte con cui è presa la prima misura del suo genere; così quante volte la prima misura eguaglierà tale distanza o la quantità di ciò che produce la distanza a partire dal non quanto, tanta si dirà la distanza, cioè la quantità che produce la distanza; sicché se la quantità è uno, la distanza è uno, se è due, la distanza sarà due, se giungerà alla fine, la distanza sarà finita, altrimenti sarà infinita. Se poi accadesse che, oltre la misura intera, contenesse alcunché di una parte della misura in aggiunta alla misura intera o alle misure intere, allora la denominazione sarà fatta in relazione a ciò. E quanto si è detto a proposito della grandezza si intende nelle dovute proporzioni in ordine all’intensità e all’attenuazione. CAPITOLO III SI DISCUTE DA CHE COSA SI DEBBONO ATTENDERE LA GRANDEZZA E LA

PICCOLEZZA, L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE, ASSUNTE FORMALMENTE E IN SENSO RELATIVO

1. Dopo avere parlato della intensità e dell’attenuazione, della grandezza e della piccolezza, assumendole per fondamenti e per soggetti rispetto ai quali sono considerate, ora è conveniente pronunciarci su di esse nella loro relatività. E questo procedimento [20a] è ragionevole perché la conoscenza dell’assoluto, come si evince dal libro VII della Metaphysica, precede la conoscenza di ciò che è relativo,135 come il fondamento precede ciò che su di esso si fonda. Nella sezione precedente si è detto che l’espressione ‘da che cosa si debbono attendere l’intensità e simili’, si può intendere in molti modi, dei quali uno è ‘per che cosa si conosce l’intensità attraverso la definizione che stabilisce che cosa essa è’; anzi essendo questa modalità la prima, da essa sarà l’esordio. Ed essa è la prima perché nel I De anima è detto che l’essenza stessa è il principio della dimostrazione;136 nel II Posteriorum si osserva che se c’è un principio, c’è immediatamente un’essenza;137 anche nel libro III della Metaphysica è detto: «ciascuna cosa è conosciuta in massima misura quando se ne conosce l’essenza».138 Trattiamo in primo luogo del grande e del piccolo come cose più note.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

2. Dicamus igitur secundum sententiam Aristotelis II Posteriorum, capitulo De modo venandi definitiones, primo oportet videre in quo genere sit ipsum definibile, et postea, dividendo ipsum genus in differentias, tantum dividere et componere ut quaelibet pars se habeat in plus et totum in aeque, et hoc saltem ubi ultima differentia non inveniatur. Quod an sit verum vel non, non est praesentis negotii. Cum igitur magnum et parvum definibilia sint, videamus igitur in quo genere reponuntur. Aristoteles, autem in Praedicamentis, in capitulo De quantitate, dixit ea non esse quantitates sed relativa. Et dat ibi rationes, quia esse relativi est ad alterum esse. Nam ad aliquid talia sunt quaecumque hoc ipsum quod sunt, aliorum sunt; modo esse magni est ad parvum et esse parvi ad magnum. Erunt ergo magnum et parvum de capitulo [7rb] Ad aliquid, relationes autem, ut dicit Philosophus in Praedicamentis, capitulo proprio, sunt debilis entitatis. Immo intantum debilis quod Commentator, XII Metaphysicae, commento 19, dixit quidam propter sui debilitatem eas existimaverunt esse de secundis intellectis. Quare ad cognoscendum eas necessarium est sua fundamenta cognoscere. Fundamentum autem magnitudinis est quantitas. Nam quantitatis proprium est esse aequale et inaequale. Inequale autem duplex, vel excedens, et sic est magnum vel excessum, et sic est parvum. Aequale autem nec est excedens, neque excessum, ut X Metaphysicae scribitur. Quare magnitudo et parvitas fundantur in quantitate. 3. Modo autem videre oportet quae sunt complentia suas rationes, cum tantum scire sua fundamenta non sufficiat. Verum consideranti apparebit duo rationes magni, et illis duobus duo opposita rationem parvi integrare. Excessus enim et continentia rationem magni complent. Magnum enim est quod aliud continet et excedit. Contineri vero et excedi rationem parvi perficiunt. Nam parvum est quantum ab alio contentum et excessum.

SEZ. III, CAP. III

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2. Diciamo, dunque, secondo il parere espresso da Aristotele nel II Posteriorum, nel capitolo De modo venandi definitiones, che è opportuno prima stabilire a quale genere appartenga lo stesso definibile e poi, dividendo quello stesso genere nelle differenze, bisogna procedere dividendole e componendole così che qualsiasi parte sia inclusa nel genere più ampio e la totalità nella differenza più idonea, almeno fino a che non sia stata trovata la differenza ultima.139 Se poi tale espressione definitoria sia vera o meno non è materia del presente lavoro. Essendo, dunque, definibili il grande e il piccolo, vediamo in quale genere sono da collocare. Aristotele, nei Praedicamenta, nel capitolo De quantiate, ha detto che non sono quantità, ma termini relativi e fornisce ivi le ragioni osservando che l’essere relativo si identifica con l’essere l’uno in riferimento all’altro.140 Infatti, quali che siano, essi sono tali in riferimento ad alcunché e sono ciò che sono in riferimento ad altro,141 sicché l’essere del grande è in riferimento al piccolo e l’essere del piccolo è in riferimento al grande. Perciò il grande e il piccolo sono oggetto del capitolo [7rb] Ad aliquid, le relazioni, invece, come dice Aristotele nei Praedicamenta, nello specifico capitolo, sono di debole entità.142 Anzi sono così deboli che Averroè nel commento 19 del libro XII della Metaphysica, ha detto che taluni a causa della loro debolezza le stimarono di secondaria intellezione.143 Perciò per conoscerle è necessario conoscerne il fondamento. Ma il fondamento della grandezza è la quantità. Infatti, è proprio della quantità l’essere uguale e disuguale. Il disuguale è poi duplice: o è ciò che eccede – e in tal caso è grande – o è ciò che è ecceduto, e in tal caso è piccolo. L’uguale, invece, né eccede né è ecceduto, come è scritto nel libro X della Metaphysica.144 Perciò la grandezza e la piccolezza si fondano sulla quantità. 3. Ma occorre capire quali sono le proprietà che costituiscono le loro nature, poiché conoscere il loro fondamento non è sufficiente. A chi considererà la questione risulterà chiaro che due sono le proprietà che costituiscono il grande e che a quelle due se ne oppongono altre due che rientrano nella natura del piccolo. Infatti, l’eccesso e il contenimento costituiscono la natura del grande. Grande è ciò che contiene ed eccede un altro; l’essere contenuto e l’essere ecceduto costituiscono la natura del piccolo. Infatti, piccola è una quantità che è contenuta ed ecceduta da un’altra. Al medesimo risultato si può pervenire anche nel modo

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

Haec autem sic est videre. [20b] Duae sunt magni condiciones: una est quod sit totum, respectu cuius dicitur magnum. Illud vero pars, sed totum ut totum est plus ex parte et ipsam excedit, quare magnum excedet parvum et ipsum parvum excedetur. Altera vero condicio est quod magnum est forma respectu parvi; ipsum vero parvum est ut materia; modo formae est continere, quia ut dicit Philosophus IV Physicorum, tractatu De loco, quidam existimaverunt locum esse formam, quia locus continet locatum, materia vero continetur. Quare magnum continebit parvum et parvum ipsum continebitur. Ex quibus concluditur tria complere rationem magni, quantum scilicet tamquam fundamentum, continere, ut differentia remota, et excedere tamquam proxima. Tria quoque rationem parvi: quantum, scilicet, tamquam fundamentum utrisque commune, quod et materia et quasi genus appellari potest, contineri opposito modo se habens ad continere, quod est differentia remota, et excedi tamquam ultimum completivum. Erit igitur magnum quantum continens et excedens aliud quantum. Parvum vero quantum contentum et excessum ab alio quanto. Ex quibus est videre quod et si magnum de ratione sua dicat continere et excedere, magis tamen dicit excedere quam continere, sicut homo magis dicit intellectivum quam sensitivum; et sic parvum magis dicit excedi quam contineri. Testantur autem his quae dicta sunt, scilicet, quod vera est definitio magni. Quia multi conati sunt probare quod omne totum est maius sua parte, per hoc quod totum continet partem et aliquid ultra, tamquam illud sit definitio maioris vel magni. Et quemadmodum dictum est de magno et parvo, sic dicendum est de intenso et remisso. Neque aliqua differentia est, nisi ex parte fundamenti, quia fundamentum magni et parvi est quantitas. Intensi autem et remissi qualitas; quia sicut proprium est quantitatis esse aequale vel inaequale et inaequalitas est causa magni et parvi, sic proprium est qualitatis esse simile vel dissimile, et dissimile in eadem specie facit intensum vel remissum. Intensum ergo est quale continens et excedens aliud quale. Remissum vero quale est quod ab altero quali continetur vel exceditur. Ex his igitur apparet penes quid cognoscuntur magnum et parvum,

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seguente. [20b] Due sono i prerequisiti del grande: la prima è che sia una totalità rispetto a cui è detto grande. Esso è una parte, ma il tutto, in quanto tutto, è più della parte e la eccede, perciò il grande eccede il piccolo e questo a sua volta è ecceduto. Il secondo prerequisito è che il grande funge da forma rispetto al piccolo e questo a sua volta funge da materia; ora è proprio della forma il contenere, poiché, come dice Aristotele nel IV Physicorum, nel trattato De loco, taluni ritennero che il luogo fosse forma, per il fatto che contiene ciò che vi è collocato;145 di contro la materia è contenuta. Perciò il grande conterrà il piccolo e il piccolo sarà contenuto. Se ne deduce che la natura del grande è costituita di tre elementi, cioè dal quanto, come fondamento, dal contenere, come differenza remota, e dall’eccedere come differenza prossima. Tre anche sono gli elementi che costituiscono la natura del piccolo: cioè il quanto, come fondamento comune ad entrambi, il quale, che si può anche denominare materia e quasi genere, l’essere contenuto, che sta in termini opposti al contenere ed è la differenza remota e l’essere ecceduto che è il completamento ultimo. Grande sarà, dunque, il quanto che contiene ed eccede un altro quanto; piccolo, invece, il quanto che è contenuto ed ecceduto da un altro quanto. Ne consegue che anche se del grande per sua natura si dice che contiene ed eccede, tuttavia si dice che eccede più che contiene; così l’uomo si dice più intellettivo che sensitivo e del piccolo si dice che è ecceduto più che contenuto. Ne sono una testimonianza le osservazioni che si sono fatte a proposito della definizione vera del grande. Molti hanno tentato di dimostrare che ogni totalità è maggiore della sua parte per il fatto che il tutto contiene la parte e qualcos’altro, sebbene questa sia la definizione di maggiore o del grande. E come si è detto del grande e del piccolo, così si deve dire dell’intenso e dell’attenuato. Né c’è altra differenza se non sul versante del fondamento, perché il fondamento del grande e del piccolo è la quantità, quello dell’intenso e dell’attenuato è la qualità; perché come è proprio della quantità l’essere uguale o disuguale e la disuguaglianza è la causa del grande e del piccolo, così è proprio della qualità l’essere simile o dissimile nella medesima specie e la dissomiglianza è la causa dell’intenso e dell’attenuato. L’intenso, dunque, è il quale che contiene ed eccede un altro quale, l’attenuato è, invece, un quale che è contenuto e ecceduto da un altro quale. Da quanto si è detto risulta da che cosa si conoscono il

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

intensum et remissum, formaliter accipiendo ea tamquam per definitionem sive quod quid est. CAPUT IV IN QUO DISPUTATUR AN ALIQUA QUINQUE POSITIONUM REMEMORATARUM DAT QUID SIT MAGNITUDO ET PARVITAS, INTENSIO ET REMISSIO, SECUNDUM MODUM NUNC DEMONSTRATUM

1. Modo operepraetium est videre an aliqua dictarum quinque opinionum rememoratarum expresserita formales rationes magni et parvi, intensi et remissi. Et primo de primis quattuor, cum videantur esse magis unigeneae. 2. Dicamus ergo quod omnes illi modi [21a] ad quattuor reduci possunt. Primus est ut intensio attendatur penes appropinquationem ad summum, et in hoc conveniunt prima et quarta opinio. Secundus est quod remissio attendatur penes distantiam a summo, et in hoc conveniunt prima et secunda opinio. Tertius est quod intensio attenditur penes distantiam a non gradu, et in hoc conveniunt secunda et tertia opinio. Quartus est quod remissio attenditur penes appropinquationem non gradui, et in hoc conveniunt secunda et quarta opinio. 3. Sigillatim discurramus per unumquemque modorum. Et primo circa primum. Et manifeste ap[7va]paret quod appropinquare summo, nullo modo potest esse formalis ratio intensi, quia appropinquare summo, vel sumitur secundum primum significatum, quod est negare distantiam inter talem gradum et summum, et hoc vel negando totum vel negando partes, et quomodocumque accipiatur, non verificabiturb, quia si negat totam distantiam, illud erit verum solum de summo. Infra, enim, quemcumque gradum et summum cadit distantia, quare sic solum summum intensum est; quod est falsum, nisi antonomastice sumatur, quod non est quod quaeritur. Si vero negat partem distantiae, tunc nihil erit intensum, nisi ut consideratur in habitudine ad summum; quod falsum est. Possum enim intelligere gradum ut quattuor esse intensum respectu gradus ut duo, quantumcumque nullam

a

expresserit] expraesserit T.

b

verificabitur] verfificabitur P.

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SEZ. III, CAP. IV

grande e il piccolo, l’intenso e l’attenuato, assumendoli formalmente per definizione ovvero per essenza. CAPITOLO IV SI DISCUTE SE TALUNA DELLE CINQUE OPINIONI MENZIONATE SPIEGHI CHE COSA SIA LA GRANDEZZA E LA PICCOLEZZA SECONDO IL MODO TESTÉ DIMOSTRATO

1. Ora vale la pena di capire se una delle dette cinque opinioni ricordate ha espresso la natura formale del grande e del piccolo, dell’intenso e dell’attenuato. E innanzi tutto trattiamo delle prime quattro, poiché sembrano essere più omogenee. 2. Diciamo, dunque, che tutte quelle opinioni [21a] si possono ricondurre a quattro alternative. La prima è che l’intensità si attende dalla vicinanza al sommo e in ciò si accordano la prima e la quarta opinione. La seconda alternativa è che l’attenuazione si attende dalla distanza dal sommo e in ciò concordano la prima e la seconda opinione. La terza è che l’intensità si attende dalla distanza dal non grado e in ciò convengono la seconda e la terza opinione. La quarta alternativa è che l’attenuazione si attende dalla vicinanza al non grado e in ciò convergono la seconda e la quarta opinione. 3. Esaminiamo nei dettagli ciascuna delle quattro alternative. E innanzi tutto parliamo della prima. Risulta evidente [7va] che l’avvicinarsi al sommo non può essere in alcun modo la causa formale dell’intenso, perché l’avvicinarsi al sommo può essere assunto secondo il primo significato, che è quello di negare la distanza tra tale grado e il sommo o negandola totalmente o negandola in parte. In qualunque modo sia assunta, la negazione non troverà riscontro, perché se nega tutta la distanza, ciò è vero solo del sommo. Infatti, tra un grado determinato e il sommo intercorre una distanza, perciò in tal caso solo il sommo è intenso. Tale conclusione è falsa a meno che non si assuma l’intensità per antonomasia, ma non è ciò che si chiede. Se, invece, l’avvicinarsi al sommo nega parte della distanza, allora nessuna cosa è intensa, se non in quanto è considerata in relazione al sommo; ma anche questa conclusione è falsa, perché, io posso pensare che il grado quattro sia intenso rispetto al grado due, senza considerar-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

habeam considerationem ad summum, ut patet communi experimento. Sed si appropinquare ad summum esset formalis ratio intensi, minime sine illo cognosci posset. Et quantumcumque omne intensum appropinquet summo et e converso, non tamen sequitur quod illa sit formalis ratio eius. Plus enim requiritur ad hoc quod sit eius ratio formalis, sicut quantumcumque omne productum ab homine et a sole fit homo et e converso; non tamen sequitur quod produci ab homine et a sole sit de intrinseca ratione hominis, licet fortassis est de extrinseca. Si vero ‘appropinquare summo’ sumatur pro ‘non differre’ sive ‘convenire cum summo’, vel totaliter vel secundum quid, non etiam sic summo appropinquare est intrinseca ratio intensi; nam si est totaliter summo convenire et nullo modo differre, sic tantum ipsi summo conveniet, nihil enim est tale nisi summum. Si vero secundum partem intelligatur, verum est quod nihil est intensum nisi simpliciter vel secundum quid conveniat cum summo, sed ex hoc non sequitur quod sic convenire, sit eius ratio formalis, sicut etsi nihil est homo nisi assimilatur Deo; tamen Deo assimilari non est eius ratio formalis. Si autem sumatur appropinquare pro minus distare a summo, tunc removebitur ipsum summum a ratione intensi, et non oportet etiam quod et si omne intensum, quod non est summum, minus distat a summo, aliquo certo dato; quod propter hoc illa sit sua ratio formalis cum intrinsece aliquod potest cognosci esse intensum quantumcumque non intelligatur sic minus distare a summo. Ex quibus sequitur quod secundum quemcumque modum acci[21b]piendi appropinquare summo non est formalis ratio intensi ut intensum dicitur de quocumque intenso. 4. Restat modo disserere an distare a summo sit de intrinseca ratione remissi. Et eodem modo discurrenti ut in priori, apparet quod non; quia vel sumitur distare eo quod medium inter ipsum et summum cadit, vel quia differt a summo, vel quia magis distat quam unum certum datum, sed nihil horum est de intrinseca ratione remissi universaliter, id est, respectu cuiuscumque suae latitudinis, quia etsi omne remissum in sua latitudine distet a

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lo in rapporto al sommo, come risulta dalla comune esperienza. Ma se l’avvicinarsi al sommo fosse la natura formale dell’intenso, questo non potrebbe essere affatto conosciuto senza di quello. E per quanto ogni intenso si avvicini al sommo e viceversa, tuttavia non si evince che quell’avvicinamento sia la natura formale dell’intenso. Per stabilire quale sia la natura formale dell’intenso si richiede qualcosa di più; così per quanto ogni uomo sia prodotto dal sole e dall’uomo, tuttavia non segue che l’essere prodotto dall’uomo e dal sole attenga alla natura intrinseca dell’uomo, sebbene forse attenga alla sua natura estrinseca. Se poi ‘avvicinarsi al sommo’ si assume per ‘non differire’ o per ‘concordare con il sommo’, o totalmente o relativamente, neppure così inteso l’avvicinarsi al sommo attiene alla natura intrinseca dell’intenso. Infatti, se la vicinanza è concordare totalmente e non differenziarsi in nessun modo, ciò vale solo per il sommo e niente è tale se non il sommo. Se poi si intende secondo una parte, allora è vero che niente è intenso se non concorda con il sommo o in assoluto o in senso relativo; ma da ciò non segue che tale concordanza sia la sua natura formale; analogamente nessuna sostanza è uomo se non si assimila a Dio e tuttavia assimilarsi a Dio non è la natura formale dell’uomo. Se, invece, si assume l’avvicinarsi per il distare di meno dal sommo, allora si escluderà lo stesso sommo dalla natura formale dell’intenso; e non è altresì opportuno che ogni intenso, che non è sommo, disti dal sommo meno di un determinato grado, poiché proprio per questo la sua natura formale è la seguente: che cioè qualcosa può essere intrinsecamente conosciuto come intenso per quanto grande sia pensato così da essere meno distante dal sommo. Ne consegue che, in qualunque accezione sia assunto, [21b] l’approssimarsi al sommo non è la natura formale dell’intenso nel senso in cui di qualunque intenso si dice che è intenso. 4. Resta ora da discutere se il distare dal sommo attenga alla natura intrinseca dell’attenuato. A chi esamini la questione nello stesso modo di prima risulta che non lo è, perché o si assume il distare nel senso che tra ciò che è attenuato e il sommo ci sia un termine intermedio o nel senso che si differenzia dal sommo o nel senso che dista di più di un certo dato; ma nessuno di questi significati attiene alla natura intrinseca dell’attenuato in generale, cioè rispetto a qualunque sua estensione di gradazioni, perché, sebbene ogni attenuato nella propria estensione disti e

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

summo et differat a summo, et magis distat quam certum datum, cum non sit assignare minimam distantiam, cum non detur minima quantitas; non tamen oportet quod illud sit de sua formali ratione. Multa enim intelliguntur esse remissa, et non comparantur per distantiam a summo, quia scio perfecte quantum sit pro ratione intrinseca, quod gradus ut duo est remissus respectu gradus ut quattuor, quamvis non comparetur ad ipsum summum; nihil tamen dearticulate potest sciri esse remissum respectu summi nisi comparetur per distantiam ad summum; sed haec non est universalis ratio remissi, sed remissi respectu summi; quare neque iste secundus modus est verus, ut in proposito sumitur. 5. Tertius autem modus, scilicet quod intensio habet attendi penes distantiam a non gradu; verum cum distare a non gradu, tribus modis intelligi potest, ut dictum est in proprio capitulo, nullus dari potest nisi tertius qui est comparative sumptus, scilicet, magis distare; et quoniam comparativa, sicut nulla relativa, possunt intelligi in habitudine ad alterum cum eius esse, est ad alterum esse; ideo intensum erit quod magis distat a non gradu altero vel quam aliud. Et ex quo illud aliud minus distat quoda minus distare est appropinquare illud erit remissum quod minus distat. Intensio ergo habet attendi in comparatione ad unum aliud, scilicet ad remissum, quae sic se habent quod intensum, comparatum suo non gradui, magis distatb ab eo non gradu quam remissum, eidem non gradui comparatum, distet quod est, scilicet quoniamc maiorem includit latitudinem intensum, incipiendo a non gradu, quam ipsum remissum includat ab eodem non gradu incipiendo; et re vera iste potest esse verus et formalis intellectus intensi et remissi, vel verius causalis ratio intensi et remissi. Nam si ideo a est intensum quia [7vb] plus de latitudine qualitatis includit quam b; quare b redditur remissum, a continet b et excedit; b vero continetur et exceditur ab ipso a, sed ex declaratis in superiori capitulo, hae erant rationes formales intensi et remissi, quare distare a non gradu et eidem appropinquare, scilicet magis et minus distare, quod est plus et minus includere, erunt de ratione intrinseca intensi et remissi,

a illud aliud minus distat quod] illud aliud minus quod distat P.

b c

distat] distant T. scilicet quoniam] om. P.

SEZ. III, CAP. IV

353

si differenzi dal sommo e disti di più di un certo dato, poiché non si può stabilire una distanza minima in quanto non si dà una quantità minima, non è necessario che quel significato attenga alla sua natura formale. Infatti, molte cose si intendono attenuate e non sono paragonate per distanza dal sommo, perché so perfettamente quanto sia pertinente alla sua natura intrinseca il fatto che il grado due sia attenuato rispetto al grado quattro, sebbene essi non siano paragonati al sommo. Tuttavia nulla può essere distintamente conosciuto come attenuato rispetto al sommo, se non è paragonato per la distanza con il sommo; questo però non è il concetto universale dell’attenuato, ma dell’attenuato rispetto al sommo, per cui neppure questa seconda modalità è vera così come è assunta nella proposta. 5. La terza alternativa è che l’intensità si attende dalla distanza dal non grado. Ma poiché il distare dal non grado può essere inteso in tre modi, come si è detto nell’apposito capitolo, non si può dare se non nel terzo modo, che è quello di assumere il distare in senso comparativo, cioè come distare di più; e poiché i comparativi, come d’altronde i relativi, si possono intendere in relazione ad altro, perché il loro essere è l’essere rispetto ad un altro, così l’intenso sarà ciò che dista di più dal non grado o che dista di più di un altro. E per il fatto che questo ‘altro’ è ciò che dista di meno, il distare di meno equivale ad avvicinarsi e l’attenuato sarà ciò che dista di meno. L’intensità, dunque, si deve attendere in paragone ad altro, cioè ad un attenuato; il loro rapporto è tale per cui l’intenso, paragonato al proprio non grado, dista di più dell’attenuato da quel non grado e, paragonato al non grado, dista per quanto esso è, cioè perché l’intenso, a partire dal non grado include una estensione maggiore di quella inclusa dallo stesso attenuato a partire dal medesimo non grado. E questo può essere realmente il vero e formale significato o più verosimilmente la causa formale dell’intenso e dell’attenuato. Infatti, se a è intenso perché [7vb] include più estensione qualitativa di b, allora b è attenuato; a contiene b e lo eccede; b a sua volta è contenuto e ecceduto dallo stesso a. Ma da quanto si è dichiarato nel capitolo precedente, queste erano le nature formali dell’intenso e dell’attenuato, perciò distare dal non grado e avvicinarsi ad esso, cioè distare di più e di meno, che significa includere di più e di meno, sono pertinenti alla natura intrinseca dell’intenso e dell’attenuato, anzi sono, almeno più verisimilmente, pertinenti

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

vel immo verius saltem fundamenta immediata intensi et remissi. Sicut habere unam quantitatem secundum denominationem est causa aequalitatis et unam qualita]22a]tem causa similitudinis; V etenim Metaphysicae aequalia sunt quorum quantitas est una, similia quorum qualitas est una, inaequalia quorum non est una quantitas sed maioris gradus, sua denominatio est a numero posteriori, minoris vero a numero priori; dissimilia enim sunt quorum non est una qualitas, sed unius sua denominatio est a numero posteriori, alterius vero a numero priori. Sic in proposito intensum est quod, alteri comparatum, plus includit, remissum vero quod minus includit; sed quod plus includit quam alterum continet illud et excedit, quod vero minus continet sive includit quam aliud continetur ab illo et exceditur. Quare sic distare a non quanto, vel a non gradu, et eidem appropinquare, vel est de intrinseca ratione intensi et remissi, vel est proximum et immediatum fundamentum eius, sicut unitas qualitatis est proximum fundamentum et causa similitudinis; nam, ut dictum est, similia sunt quorum qualitas est una, sic intensa et remissa sunt quorum non est qualitas unius denominationis, sed una plus includit de distantia a non gradu, id est sua distantia denominatur a numero posteriori et est illud intensum, alterius vero a numero priori, et est illud remissum. 6. Unde hic attendendum est, quod non recte dicitur illud est maius respectu alterius quod maiorem distantiam continet etc. quia idem per idem diceretur. Nam restat dicere quare maior est illa distantia, et in definitione maioris poneretur maius. Quare caute dictum est ‘cuius quantitas denominatur a numero posteriori’. Quod non vident Calculatores. 7. Verum quantumcumque hoc sit verum et magistraliter dictum, iste tamen non fuit intellectus Calculatoris, ut superius aperte ostendimus, quia non sumpsit distare et appropinquare pro magis distare et minus distare, sed accepit ea sine comparatione ad alterum, cum nolita remissum esse secundum habitudi-

a

nolit] nollit PT.

SEZ. III, CAP. IV

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ai fondamenti immediati dell’intenso e dell’attenuato. Così avere la stessa quantità [22a] per denominazione è causa dell’uguaglianza e avere la stessa qualità è causa della somiglianza; infatti, secondo il libro V della Metaphysica uguali sono le cose delle quali la quantità è una; simili sono, invece, quelle di cui è una la qualità;146 disuguali sono quelle delle quali la quantità non è una, ma o è di grado maggiore, e prende la propria denominazione dal numero superiore, o è di grado minore, e prende la propria denominazione dal numero inferiore; dissimili, invece, sono le cose delle quali la qualità non è una, ma la denominazione dell’una è assunta sulla base di un numero superiore e quella dell’altra sulla base di un numero inferiore.147 Così nella proposta l’intenso è ciò che, paragonato ad altro, include di più, l’attenuato è ciò che include di meno. Ma ciò che include più di un altro lo contiene e lo eccede e ciò che, invece, include e contiene meno di un altro è da esso contenuto ed ecceduto. Perciò, così intesi, il distare dal non quanto o dal non grado e l’approssimarsi al medesimo attengono alla natura intrinseca dell’intenso e dell’attenuato o ne sono il fondamento prossimo e immediato, come l’unità della qualità è il fondamento prossimo e la causa della similitudine. Infatti, come si è detto, simili sono le cose delle quali una sola è la qualità. Così intense e attenuate sono le cose la cui qualità non ha la stessa denominazione, ma l’una include una maggiore distanza dal non grado, cioè la sua distanza prende il nome da un numero superiore – e questo è l’intenso – l’altra prende la denominazione da un numero inferiore, e questo è l’attenuato. 6. Pertanto si deve osservare che non è corretto dire che è più grande rispetto ad altro ciò che contiene una maggiore distanza ecc., poiché si definirebbe la stessa cosa per mezzo della stessa cosa. Infatti, resta da dire perché è ‘più grande’ quella distanza e si finirebbe col porre il ‘più grande’ nella definizione del ‘più grande’. Per questa ragione si è usata con cautela l’espressione ‘la cui quantità prende il nome da un numero superiore’. Tale inconveniente sfugge ai Calcolatori. 7. Ma per quanto tale alternativa sia vera e magistralmente esposta, non coincide tuttavia con il pensiero del Calcolatore, come abbiamo più sopra148 chiaramente dimostrato, perché egli non ha assunto il distare e l’avvicinarsi nell’accezione di ‘distare di più’ e ‘distare di meno’, ma li ha assunti senza confrontarli l’uno all’altro, poiché egli non vuole che l’attenuato sia in rela-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

nem ad intensum et ex simpliciter finite distare a non gradu et eidem finite appropinquare conclusit unum impossibile, scilicet quod gradus summus, qua summus est, est remissus. Quare dictum est istum non fuisse eius intellectum, cum tamen debebat esse. Immoa et si recte aspexeris neque illa est conveniens causa, scilicet quod a sit maius b, quia magis distat a non quanto quam b, quia sic maius definitur per maius, sed causa materialis, quare a est maius b, est quia quantitas a a posteriori numero denominatur quam b; quare nullo modo ille modus est conveniens. 8. Quartus autem modus, scilicet quod remissio attenditur penes appropinquationem ad non gradum, nullus est modus qui potest verificari nisi antedictus, scilicet minus distare de quo satis abunde dictum est. Nunc vero supersedeamus. 9. Reliquum est videre de quinta opinio[22b]ne, quae ponit fieri secundum maiorem et minorem admixtionem cum suo contrario an scilicetb data opinio expressit formalem intellectum intensi et remissi. 10. Et dicendum est quod cum Aristoteles et Plato dixerunt remissionem fieri per admixtionem cum suo contrario, per contrarium non intellexerunt contrarium, quod opponitur secundum speciem distinctam ad oppositionem secundum privationem et habitum. Quoniam, ut bene argumentatum est, non omnia intensibilia et remissibilia habent tale contrarium. Et in habentibus tale contrarium apud omnes non verificatur illud, scilicet quod qualitates eiusdem speciei cum contrariis secundum aliquos gradus se compatiuntur; neque secundum tenentes tales qualitates se adinvicem compati secundum aliquos gradus, causa intrinseca et per se intensionis et remissionis est admixtio cum suo contrario, sed magis est concausamc et causa concomitans; sed per admixtionem cum suo contrario intelligunt privative oppositum; volunt ergo esse causam remissionis admixtionem ex habitu et privatione sibi opposita, sic quod nulla natura vere potest esse remissa secundum illam naturam, nisi partim habeat de habitu et de perfectione illius naturae, et partim sit privata ab

a b

Immo] Imo P. scilicet] om. P.

c

cancausam] cumcausam P.

SEZ. III, CAP. IV

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zione all’intenso; e dal distare in misura finita dal non grado e dall’avvicinarsi al medesimo in misura finita, presi entrambi in assoluto, egli è giunto ad una conclusione impossibile, cioè che il grado sommo, in quanto sommo, è attenuato. Per questa ragione si è detto che non fu questo il suo pensiero, anche se tale doveva essere. Così, se considererai correttamente la questione, ti renderai conto che non è conveniente neppure quella causa, cioè che a sia più grande di b, perché dista dal non grado più di b, perché in tal caso il più grande è definito per mezzo del più grande; ma la causa materiale, per cui a è più grande di b, è che la quantità a prende il nome da un numero superiore rispetto a b; perciò quell’alternativa non è affatto conveniente. 8. La quarta alternativa, che cioè l’attenuazione si attende dalla vicinanza al non grado, non può trovare nessun riscontro se non come si è detto in precedenza, cioè nel senso del distare di meno, di cui si è detto in abbondanza e su cui ora soprassediamo. 9. Rimane da esaminare la quinta opinione, [22b] la quale ricorre alla mescolanza del maggiore e del minore con il proprio contrario, per stabilire se tale opinione ha espresso il concetto formale dell’intenso e dell’attenuato. 10. E bisogna dire che quando Aristotele e Platone affermarono che l’attenuazione si produce per mescolanza con il proprio contrario,149 per contrario non intesero il contrario che si oppone, come specie distinta, alla opposizione tra privazione e possesso. Perché, come si è ben argomentato, non tutti gli intensificabili e gli attenuabili hanno tale contrario. E secondo tutti gli autori nelle cose che hanno tale contrario non si verifica che le qualità della medesima specie siano tra loro compatibili con i contrari secondo alcune gradazioni; neppure per coloro i quali ritengono che tali qualità siano reciprocamente compatibili secondo alcune gradazioni, la causa intrinseca e assoluta dell’intensità e dell’attenuazione è la mescolanza con il proprio contrario, ma è piuttosto una concausa o una causa concomitante. Però essi intendono per mescolanza con il proprio contrario l’opposto in senso privativo; vogliono quindi che sia causa dell’attenuazione la mescolanza del possesso e della privazione che ad esso si oppone, così che nessuna natura possa veramente essere attenuata rispetto a quell’opposto, se non avendo in parte il possesso e la perfezione della natura di quell’opposto ed es-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

illa natura, secundum quod [8ra] convenit illi naturae, qua talis natura est. Unde omnino caecus non dicitur remisse videns, quia nihil habet de perfectione et habitu visus; neque etiam perfectissimi visus dicitur remisse videre, quia nihil habet de defectu visionis, sed orbiculus sive semividens, sive semicaecus, quia utrumque habet, scilicet de habitu et de privationea. 11. Modo ex his, quae dicta sunt, patet Aristotelem et Platonem bene tetigisse naturam remissi, eo modo quo definivimus superius. Nam remissum, secundum nunc dicta, est quod habet de habitu et de defectu. Si ergo deficit ab aliquo, illud, a quo deficit, excedit ipsum, et ubi hoc deficit, illud respectu huius superabundat; ex eo autem quod habet de habitu, sed deficiente ab illo, istud continetur ab illo, quare si ex eo remissum est quia habet habitum et perfectionem deficientem ab aliquo, illud aliud continet et excedit istum, et sic hoc continetur et exceditur; sed haec erat ratio remissi quare componi ex habitu et privatione est contineri et excedi. 12. Hoc igitur quod est componi ex privatione et habitu, vel est totaliter idem quod contineri et excedi, vel est causa proxima ad contineri et excedi. Sicut minus continere erat idem vel causa quod contineretur et excederetur. Remissum igitur est quod minus includit de distantia a non gradu et quod est compositum ex habitu et privatione et quod continetur et exceditur; unde quasi sunt synonyma, vel verius unum est causa adaequata alterius, si autem remisso opponitur intensum, et remissum, qua remissum est, est per deficere, intensum, qua intensum est, est per superabundare ab eo in quo deficit remissum. 13. Signanter autem dicitur ‘qua intensum est’, quia stat intensum [23a] aliquod, ut quod non est summe intensum, deficere; sed hoc non est, qua intensum est, sed qua remissum est. Intensumb igitur est quod superabundat ubi deficit remissum. Non ergo intensum, qua intensum est, est ex admixtione habitus et privationis, sic enim omne intensum esset admixtum cum suo privative opposito, quod quidem de summo nullo modo concedi

a

privatione] perfectione T.

b

Intensum] Intensio P.

SEZ. III, CAP. IV

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sendone in parte priva nella misura in cui [8ra] è conveniente a quella stessa natura, in quanto è tale. Perciò colui che è del tutto cieco non è detto debolmente vedente, perché non ha nulla della perfezione e del possesso della vista, né si dice ‘vedere debolmente’ la vista di che vede perfettissimamente, perché non ha nessuna deficienza visiva; lo si dice però a proposito del miope o del semivedente o semicieco, perché ha entrambe le cose, cioè il possesso e la privazione. 11. Ora, da quanto si è detto, risulta che Aristotele e Platone intuirono correttamente la natura dell’attenuato nel modo che abbiamo più sopra150 definito. Infatti, l’attenuato, per quello che si è testé detto, è ciò che ha il possesso e la mancanza. Se manca di qualcosa, ciò di cui manca lo eccede e ove questo manca, manca rispetto a ciò che ne è sovrabbondante; per il fatto che ha il possesso, ma ne è anche manchevole, è contenuto da esso. Perciò se è attenuato per il fatto che ha il possesso e la perfezione manchevole di qualcosa, il possesso contiene ed eccede la mancanza e viceversa la mancanza è contenuta e ecceduta; ma questa era la natura dell’attenuato per la quale l’essere composto di possesso e di privazione equivale ad essere contenuto ed ecceduto. 12. Dunque, ciò che si compone di possesso e di privazione o è interamente ciò che è contenuto e ecceduto o è la causa prossima all’essere contenuto ed ecceduto. Analogamente il contenere di meno o era la cosa stessa o era la causa di ciò che era contenuto ed ecceduto. Dunque, l’attenuato è ciò che meno include della distanza dal non grado ed è ciò che è composto di possesso e di privazione ovvero è ciò che è contenuto ed ecceduto; per cui tali espressioni sono quasi sinonime o più semplicemente l’una è la causa adeguata dell’altra. Ma se all’attenuato si oppone l’intenso e l’attenuato, in quanto attenuato, è tale per mancanza, l’intenso, in quanto intenso, è tale per sovrabbondanza di ciò di cui l’attenuato manca. 13. Si dice opportunamente ‘in quanto è intenso’ perché si dà per certo che ciò che è intenso, [23a] in quanto non è sommamente intenso, manchi di qualcosa; ma ciò non accade in quanto è intenso, ma in quanto è attenuato. L’intenso, dunque, è ciò che sovrabbonda in ciò di cui manca ciò che è attenuato. Non, dunque, l’intenso, in quanto è intenso, viene dalla mescolanza del possesso e della privazione, altrimenti ogni intenso sarebbe mescolato con il proprio opposto in senso privativo; cosa che non

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

potest. Erit igitur intensum, qua intensum est, habitus superabundans ubi deficit alterum, scilicet remissum; quia si remissum includit privationem, intensum, qua intensum, excludit illam privationem et defectum, quem remissio ponit. Hoc autem est esse non admixtum ut sic cum suo contrario, id est cum privatione opposita. Quare fit inensio per minorem admixtionem cum suo contrario, id est excludendo defectum, et ideo remissio dicit defectum, intensio superabundantiam ab illo defectu. 14. Hoc autem est illud continere et excedere, et magis a non gradu distare, id est, plus de distantia illa includere. Intensum ergo est quod continet et excedit aliud. Quare plus de distantia a non gradu includit, hoc autem est superabundare a defectu alterius, quare vel sunt ista synonyma, vel unum est causa proxima alterius. Magis autem admisceri cum suo contrario non est causa proxima remissi, sed magis remissi; et maxime admisceri est causa maxime remissi, iuxta illud topicum; sicut se habet simpliciter ad simpliciter, ita magis ad magis et maximum ad maximum, sic enima intensum est habere superabundantem et magis intensum magis superabundantem, et maxime intensum maxime superabundantem; remissio igitur fit per admixtionem sui contrarii, id est privativeb oppositi. Intensio vero per minorem admixtionem, id est per privationem sive exclusionem illius defectus, qua intensio est; quod si aliquando (ut III Topicorum, 9° capitulo) dicitur albius esse per impermixtionem cum nigredine, per nigredinem secundum suam consuetudinem intelligitur privatio albedinis. 15. Haec autem privatio necessaria est in omni gradu citra ultimum et perfectissimum cuiuscumque latitudinis. Ideo dicit Commentator, commento 5 tertii De anima, quod omne propter primum principium, id est Deum, habet privationem sibi admixtam, non quidem secundum propriam naturam illius entis, sed secundum quod ens est. 16. Quare theologi dixerunt quod omne, praeter primum, est compositum ex perfecto et imperfecto, quia omne propter primum deficit ab ente simpliciter et perfectissimo. Ex quibus

a

enim] om P.

b

privative] privativae P.

SEZ. III, CAP. IV

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si può in alcun modo concedere a proposito del sommo. Quindi l’intenso, in quanto intenso, sarà il possesso sovrabbondante di ciò che manca all’altro, cioè all’attenuato, perché se l’attenuato include la privazione, l’intenso, in quanto intenso, esclude quella privazione e quella mancanza che è posta dall’attenuazione. Ma questo è essere non mescolato come tale con il proprio contrario, cioè con l’opposto per privazione. Perciò l’intensità si verifica per minore mescolanza con il proprio contrario, cioè per esclusione della mancanza e così l’attenuazione indica una mancanza, l’intensità una sovrabbondanza rispetto a quella mancanza. 14. Questo dunque è il contenere ed eccedere e distare di più dal non grado, cioè includere di più quella distanza. L’intenso, dunque, è ciò che contiene ed eccede l’altro. Perciò include più distanza dal non grado, ovvero è sovrabbondante rispetto alla mancanza dell’altro; pertanto queste espressioni o sono sinonime oppure sono l’una causa prossima dell’altra. L’essere più mescolato con il proprio contrario non è la causa prossima dell’attenuato, ma del più attenuato; e l’essere mescolato in misura massima è causa di ciò che è attenuato in misura massima, secondo il noto luogo comune.151 Così il più sta in relazione al più e il massimo al massimo, come l’essere assolutamente sta all’essere assolutamente. Infatti, come l’intenso è ciò che ha una sovrabbondanza, il più intenso è ciò che ha più sovrabbondanza e l’intenso in misura massima ha una sovrabbondanza in misura massima. L’attenuazione, dunque, avviene per mescolanza con il proprio contrario, cioè con ciò che è opposto per privazione. L’intensità, invece, avviene per minore mescolanza, ovvero per privazione o esclusione di quella mancanza, per la quale si ha l’intensità. Perciò se talvolta, come è scritto nel III Topicorum, capitolo IX,152 si dice più bianco ciò che non ha commistione con la nerezza, per nerezza si intende, secondo il consueto modo di esprimersi, la privazione della bianchezza. 15. Questa privazione è necessaria in ogni grado inferiore all’ultimo e perfettissimo di ciascuna estensione. Così Averroè nel commento 5 del III De anima, dice che tutto, a causa del primo principio, che è Dio, ha la privazione a sé mescolata, non certo secondo la natura propria di quell’ente, ma per ciò che è.153 16. Perciò i teologi dissero che tutto, tranne il primo, è composto di perfetto e di imperfetto, perché tutto ciò che esiste in virtù del primo manca dell’essere assoluto e perfettissimo. Da

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

est videre quod sola tertia opinio et quinta declarant formales rationes intensi et remissi, vel causas proximas formalis rationis intensi et [23b] remissi. Sed illa tertia non est ea Calculatoris secundum istum intellectum quem dedimus; quia longe aliter sensit, ut declaratum est. Et cum non puduit negare Aristotelem et Platonem, quod fortassis fuit, [8rb] quia non vidit hoc ab Aristotele, vel si vidit, ex sua ignorantia neglexit, cum ipsum minime intellexerit. Sicut autema dictum est de intenso et remisso, sic suo modo dicatur de magno et parvo; nulla etenim differentia est, nisi quia magnum et parvum sunt in quantitate, sed intensum et remissum in qualitate. CAPUT V IN QUO DISPUTATUR PENES QUID ATTENDANTUR INTENSIO ET REMISSIO, MAGNITUDO ET PARVITAS, TAMQUAM PENES CAUSAM

1. Viso igitur quae sunt formales rationes intensi et remissi, magnitudinis et parvitatis, et his sumptis pro respectibus, quod est penes quid tamquam penes definitionem et causam formalem extendendo nomen causae formalis ad formam nedum perficientem, sed et declarantem quid est, eo modo quo III Metaphysicae dicitur mathematicalia demonstrare per causam formalem, sicut etiam citat Commentator commento primo primi Physicorum. 2. Restat modo videre penes quid tamquam penes alia genera causarum. Et primo de causa materiali, sumendo materiam pro fundamento. Dicamus igitur sicut supra visum est, quod aequalitatis et inaequalitatis causa est quantitas, nam V Metaphysicae dicitur aequalia sunt, quarum una secundum denominationem numeri est quantitas. Quare causa proxima materialis aequalitatis sunt duae quantitates eiusdem denominationis secundum numerum; inaequalitatis vero duae quantitates diversae secundum numeri denominationem, cum inaequalia sunt quorum

a

autem] om. P.

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SEZ. III, CAP. V

ciò emerge che solo la terza e la quinta opinione dichiarano o la natura formale dell’intenso e dell’attenuato o le cause prossime della natura formale dell’intenso e [23b] dell’attenuato. Ma la terza opinione non è quella del Calcolatore secondo il significato che abbiamo dato, perché egli, come abbiamo detto, la pensò molto diversamente e non si vergognò di contraddire Aristotele e Platone. E forse ciò accadde perché [8rb] non vide questo principio in Aristotele o se lo vide, lo trascurò a causa della sua ignoranza, perché non lo comprese affatto. Come si è detto dell’intenso e dell’attenuato, si dica allo stesso modo del grande e del piccolo; infatti, non c’è differenza se non per il fatto che il grande e il piccolo sono quantità e l’intenso e l’attenuato sono qualità. CAPITOLO V SI DISCUTE DA CHE COSA SI ATTENDONO L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE, LA GRANDEZZA E LA PICCOLEZZA IN QUANTO CAUSE

1. Si è, dunque, visto quali sono le nature formali dell’intenso e dell’attenuato, della grandezza e della piccolezza e, assunti questi nei loro reciproci rispetti, si è visto in virtù di che cosa sono come definizioni e come causa formale, estendendo il nome di causa formale ad una forma che non solo è perfezionante, ma è altresì dichiarativa di ciò che è, allo stesso modo in cui nel libro III della Metaphysica Aristotele dice che le dimostrazioni matematiche si fondano sulla causa formale;154 lo stesso passo è citato da Averroè nel primo commento al I Physicorum.155 2. Resta ora da esaminare da che cosa l’intensità e l’attenuazione si attendono rispetto agli altri generi di cause. Innanzi tutto partiamo dalla causa materiale, assumendo la materia per fondamento. Diciamo, dunque, come si è visto sopra,156 che la causa dell’uguaglianza e della disuguaglianza è la quantità. Infatti, nel libro V della Metaphysica si dice che uguali sono le cose delle quali una è la quantità secondo la denominazione del numero.157 Perciò la causa prossima materiale dell’uguaglianza sono due quantità che hanno la medesima denominazione secondo il numero; causa prossima della disuguaglianza sono due quantità diverse per denominazione del numero, poiché disuguali sono

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

non est una quantitas, sed magni semper denominatio est a posteriori numero respectu parvi. Huius vero a priori numero, respectu magni, ut bipedale est parvum respectu tripedalis, et parvum denominatur in hoc a binario, magnum vero a ternarioa; sed binarius ternariumb natura praecedit. Eodem modo dicatur de omnibus aliis; in intenso etiam et remisso per totum eodem modo dicatur, exceptis quia hoc est in qualitate, illud vero in quantitate, licet talis qualitas se habeat per modum quantitatis, sicut supra dictum est. 3. Haec autem materia sive causa materialis est a qua non abstrahit mathematicus, quia est materia imaginabilis sive intelligibilis, de qua VII Metaphysicae dicitur mathematicum ab ea non abstrahere, ut patet inspicienti libros mathematicorum. Quare Aristoteles, Posteriorum II, docens demonstrare per genus causae materialis, exemplificavit in mathematicis tamquam de certioribus, cum II Metaphy[24a]sicae sint in primo gradu certitudinis. 4. Attendendum autem est quod causa materialis magni non assignatur per magis distare a non quanto vel maiorem quantitatem includere, sicut isti Calculatores inepte dicunt, quia sic esset declarare magnum per magnum. Nam si a est maius b quia magis distat a non quanto quam b, sic a est maior distantia, quia est maior distantia. Nam a nihil aliud est quam distantia illa. 5. Praeterea esto quod distantia a distingueretur ab a, tunc restat quaerere penes quid attenditur maior distantia et nulla potest esse resolutio nisi quia denominatio suae mensurae est secundum numerum posteriorem, illius vero secundum priorem. Quare dicendumc est quod causa magni est quantitas denominata a numero posteriori; parvi vero e contra. Sed de causa effectiva et finali non se intromittunt mathematici; et ideo III Metaphysicae et Physicorum II dicitur quod in eis non est bonum, id est non considerant bonum, quia abstrahunt ab efficiente; sicut etiam Commentator, primo commento, primi Physicorum, reme-

a b

ternario] trinario P. ternarium] trinarium P.

c

Quare dicendum] Quia dictum P.

SEZ. III, CAP. V

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le cose di cui non è una sola la quantità e di cui la denominazione del grande è sempre data da un numero superiore rispetto a quella del piccolo. Quest’ultimo prende la denominazione da un numero inferiore rispetto al grande, come la lunghezza di due piedi è piccola rispetto a quella di tre piedi; in questo caso il piccolo prende la denominazione dal due, il grande, invece, dal tre; e il due precede per natura il tre. Allo stesso modo si dica per tutti gli altri numeri e lo stesso si dica per l’intenso e per l’attenuato sotto tutti i punti di vista, tranne per il fatto che i primi sono nella quantità e i secondi nella qualità, sebbene, come si è detto sopra,158 tale qualità sia assunta in termini quantitativi. 3. Ma questa materia o causa materiale è ciò da cui non fa astrazione il matematico, perché è la materia immaginabile o pensabile, dalla quale – si dice nel libro VII della Metaphysica – il matematico non fa astrazione,159 come risulta a chi consulta i libri dei matematici. Perciò Aristotele nel II Posteriorum, per insegnare a dimostrare attraverso il genere della causa materiale, trasse esempi dalle matematiche come dalle scienze più certe,160 essendo esse, per il libro II della Metaphysica, [24a] nel primo grado di certezza. 4. Si deve poi fare attenzione perché la causa materiale del grande non è contraddistinta dal distare di più dal non quanto o dall’includere una maggiore quantità, come dicono inettamente questi Calcolatori, perché in tal caso il grande sarebbe definito attraverso il grande. Infatti, se a è più grande di b perché dista dal non quanto più di b, allora a si trova ad una distanza maggiore, perché maggiore è la distanza. Infatti, a non è nient’altro che quella distanza. 5. Posto che la distanza a sia distinta da a, allora resta da chiedersi da che cosa si attende una distanza più grande. E la soluzione non può essere se non quella per cui la denominazione della sua misura è presa da un numero superiore, quella dell’altra da un numero inferiore. Perciò si deve dire che la causa del grande è la quantità denominata da un numero superiore, quella del piccolo al contrario. Ma i matematici non si occupano della causa efficiente e di quella finale;161 così nel libro III della Metaphysica e nel II Physicorum si dice che in essi non c’è il bene, nel senso che i matematici non prendono in considerazione il bene162 perché astraggono dalla causa efficiente, come ha ricordato anche Averroè nel primo commento al I Physicorum.163 Perciò par-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

moravit. Quare satis breviter de his et in cursu dicemus. Causa igitur quare caliditas ut quattuor est intensior ea ut duo secundum causam efficientem est ex victoria motoris supra motum, ut quia agens quod produxit caliditatem ut quattuor maiorem victoriam habuit supra suum passum quam quod produxit caliditatem ut duo. Et hoc computando omnia quae faciunt ex parte agentis et ex parte passi, ut contrarietas, potentia, approximatio; et sic de caeteris requisitis, quae faciunt ad intensiorem actionem sive fortiorem, sive debiliorem. De quibus nunc non est praesens propositum. Eodem modo dicatur in causa finali, quia maior fuit finis unius quam alterius non deficientibus aliis causis requisitis; fuit in uno producta intensior caliditas quam in altero, ut maior mensura caloris fuit in corde animalis quam in hepate vel cerebro; quia cor est fons caloris et gignitivum spiritus vitalis; deinde in hepate, quia productivum est hepar spiritus naturalis, autem in cerebro; quia cerebrum facit spiritus [8va] animales, sed spiritus vitalis est calidior nutritivo, et nutritivus calidior est animali. Haec autem dicta sint per modum exempli et secundum cursum medicorum, quia in omnibus non conveniunt medici in his cum philosophis, sicut est videre et in De partibus animalium et in De generatione animalium. Averroes quoque in II Colligeta satis acute deb hoc disputat, sed quoniam, ut diximus, de huiusmodi causis non se intromittunt mathematici, et valde parum Calculatores, ideo ne videamur a principali discedere, haec breviter dicta sint et magis ad excitandum homines, ut praeter formale et materialem considerent etiam alias causas. Quare etc. [24b] CAPUT VI IN QUO DISPUTATUR PENES QUID, TAMQUAM PENES EFFECTUM, ATTENDANTUR MAGNITUDO ET PARVITAS, INTENSIO ET REMISSIO

1. Posset etiam inquiri penes quid, tamquam penes effectum, magnitudo et parvitas; intensio et remissio attendantur; et cum varia possint esse signa, per quae illa possumus cognoscere,

a

Colliget] Colligeth P.

b

de] ce P.

367

SEZ. III, CAP. VI

leremo molto brevemente di ciò nel corso della nostra indagine. Dunque, la ragione per cui il caldo di grado quattro è più intenso di quello di grado due secondo la causa efficiente è data dalla vittoria del motore sul mosso, poiché l’agente che ha prodotto il caldo di grado quattro ha riportato una vittoria più grande sul paziente che ha prodotto un caldo di grado due. Ed è così, tenuto conto di tutto ciò che attiene alla natura dell’agente e a quella del paziente, come la contrarietà, la potenza, l’approssimazione e così anche di tutti gli altri requisiti che rendono un’azione più intensa più potente o più attenuata. Ma queste materie non rientrano nel presente lavoro. Allo stesso modo si dica a proposito della causa finale, perché, pur non venendo meno le altre cause richieste, il fine di una cosa è più grande di quello di un’altra; in una si è prodotto un caldo più intenso che nell’altra, come più grande è la misura del calore nel cuore che nel fegato e nel cervello dell’animale, perché il cuore è la fonte del calore e genera lo spirito vitale; poi viene il fegato che produce lo spirito naturale e infine il cervello che produce gli spiriti [8va] animali, ma lo spirito vitale è più caldo del nutritivo, il nutritivo è più caldo di quello animale. Queste cose sono dette a titolo di esempio e secondo il linguaggio dei medici, poiché i medici in ciò non si accordano con i filosofi, come si può vedere nel De partibus animalium e nel De generatione animalium.164 Anche Averroè nel secondo libro del Colliget discute assai acutamente di questo,165 ma poiché, come abbiamo detto, i matematici non si occupano di siffatte cause e pochissimo se ne occupano i Calcolatori, per non sembrare di allontanarci dalla questione principale, abbiamo detto brevemente queste cose per stimolare di più gli uomini a prendere in esame, oltre alla causa formale e a quella materiale, anche le altre cause. Perciò ecc. [24b] CAPITOLO VI SI DISCUTE DA CHE COSA, INTESO COME EFFETTO, SI ATTENDONO LA GRANDEZZA E LA PICCOLEZZA, L’INTENSITÀ E LA DIMINUZIONE

1. Si potrebbe anche indagare da che cosa, inteso come effetto, si attendono la grandezza e la piccolezza, l’intensità e l’attenuazione. E poiché sono vari e pressoché innumerevoli i segni

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

et fere innumerabilia, ideo illa non recensebo, nisi secundum quandam generalitatem, et per modum exempli, quod enim una qualitas sit altera intensior, si est de activis cognosci potest ex immutatione sensus tactus, caeteris paribus, ut an caliditas pueri et iuvenis sint aequales vel inaequales. Sic enim docet Galenus in capituloa illius Aphorismi primae particulae: «qui crescunt plurimum habent innatum calorem»; albedines autem aequales et inaequales, quia aequaliter vel inaequaliter, caeteris paribus, disgregant visum, soni autem quia aequaliter vel inaequaliter immutant sensum auditus; et proportionabiliter suo modo de aliis dicatur; unde existimandum est quod, causa suscipiente magis et minus, effectus etiam suscipiat magis et minus. Quare ex effectu possumus arguere causam et e contra, secundum diversos modos cognitionis, sicut docet Aristoteles in primo Posteriorum, in capitulo De convenientia et differentia, inter demonstrationem quia et propter quid. Ex aequaliter ergo congregare et disgregare visum, cum paritate aliorum ponemus albedines et nigredines aequales, et exb inaequalibus congregationibus et disgregationibus inaequales albedines et nigredines, et e converso. 2. Et sic dicendum est de quantitatibus; unde breviter suscipiantur effectus cuiusvis suscipientis maius et minus, sive magis et minus. Ex effectu infertur causa et e contra. Verum quia, ut dictum est, huiusmodi fere innumerabilia esse possunt, ideo sufficiat in universali sic commemorasse. Et altera est causa, quia huiusmodi cognitio non est essentialis, et ad immediata non resolvit, quod est alienum a doctrina perfecta. Quod autem non sit essentialis, patet quia, ut X Metaphysicae habetur, mensura et mensuratum debent esse unigenea, cum multitudo unitatum unitate mensuretur, et numerus numero et linea linea et sic de caeteris. Modo caliditas et operatio caliditatis non sunt unigenea, ut patet cum in diversis praedicamentis reponantur. Neque etiam ad immediata deducit, quia si dixero a albedo est intensior b albedine, quia cum aliorum paritate magis disgregat, restat adhuc dubitatio, per quid scitur disgregatio a esse maior disgregatione b. Cum in effectibus, saltem essentialiter ordinatis, non est procedere in infinitum, oportet tandem devenire ad

a

capitulo] comento P.

b

et ex] om. P.

SEZ. III, CAP. VI

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attraverso i quali possiamo conoscerle, non ne parlerò se non in termini generali. A titolo esemplificativo, che una qualità sia più intensa di un’altra, a parità di condizioni e se si tratta di qualità attive, si può conoscere dalla modificazione del senso del tatto, come si fa quando si vuol stabilire se il calore di un fanciullo e di un giovane siano uguali o disuguali. Così, infatti, insegna Galeno in quell’aforisma della prima sezione:166 «Coloro che crescono moltissimo hanno il calore innato». Le cose bianche sono uguali o disuguali, perché a parità di condizioni, disgregano la vista in modo uguale o disuguale; i suoni perché modificano in modo uguale o disuguale l’udito; analogamente si dica a suo modo delle altre cose. Sicché si deve ritenere che, data una causa suscettibile del più e del meno, anche l’effetto sia suscettibile del più e del meno. Perciò dall’effetto possiamo risalire alla causa e viceversa, come insegna Aristotele nel I Posteriorum, nel capitolo De convenientia et differentia inter demonstrationem quia et propter quid.167 Per il fatto che, a parità di condizioni, aggregano e disgregano la vista in modo uguale, supporremo che il bianco e il nero sono uguali; se le aggregazioni e disgregazioni sono disuguali supporremo che il bianco e il nero sono disuguali e viceversa. 2. E così si deve dire della quantità: da questa in breve dipendono gli effetti di tutto ciò che è suscettibile del ‘più grande’ e del ‘più piccolo’ o del più e del meno. Dall’effetto si inferisce la causa e viceversa. Ma, poiché, come si è detto, siffatti effetti possono essere pressoché innumerevoli, è sufficiente averli ricordati in generale. La seconda causa è che una siffatta conoscenza non è essenziale e non si risolve in principi immediati; e questo è disdicevole per una dottrina perfetta. Che non si tratti di una conoscenza essenziale risulta perché, come è detto nel libro X della Metaphysica, la misura e il misurato debbono essere dello stesso genere,168 sicché il moltiplicarsi dell’unità è misurato dall’unità, il numero è misurato dal numero, la linea dalla linea e così le altre cose; ma il calore e l’azione del calore non sono omogenei, come si evince dal fatto che sono collocati tra predicati diversi. Non si risolve in principi immediati, perché se dico che il bianco a è più intenso del bianco b, perché a parità di condizioni disgrega di più, resta ancora il dubbio da che cosa si sa che la disgregazione di a è maggiore di b. Poiché negli effetti, almeno se sono disposti essenzialmente, non si può procedere all’infinito, è necessario

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

rationem for[25a]malem ad quam stat immediatio, de qua supra dictum est. Unde disgregatio a est maior disgregatione b, quia eam continet et excedit, ad quam stat immediatio. Quare his de causis haec quae dicta sunt sufficiant quantum ad cognitionem per effectum. CAPUT VII IN QUO DECLARATUR PENES QUID ATTENDUNTUR MAGNITUDO ET PARVI-

TAS, INTENSIO ET REMISSIO, UT SUNT FORMALITER RESPECTUS QUO AD MODUM MENSURANDI

1. Cum igitur dictum sit penes quid attenduntur intensio et remissio, magnitudo et parvitas penes causam formalem, nec non penes alia genera causarum, consimiliter etiam quantum ad effectus restat modo dicere de regula, sive de modo mensurandi eas, et hoc secundum quod dicuntur esse respectiva, sive respectus. Dictum est enim quod formalis ratio magni erat excedere et continere; e contrario modo parvi, quia contineri et excedi. Modo conveniens est ponere mensuras, et quoad excessum, nec minus quoad continentiam, et sic proportionabiliter de excedi et contineri, quae non differunt adinvicem, nisi secundum activum et passivum, et secundum super[8vb]abundantiam et defectum. 2. In primis sciendum est, secundum omnes scribentes de proportionibus, excessum quidem facere proportionem arithmeticam, continentiaa vero geometricam. Si igitur a est magnum ad b cum a ipsum contineat et excedat b, aliqua continentia continet et aliquo excessub excedit; igitur vel infinito vel finito. Cognoscitur autem an finito excessu excedat vel infinito per regulas superius assignatas, quia, accepta minima mensura illius generis, si per finitas replicationes non consumitur excessus ille redditur infinitus; si vero per finitas replicationes consumitur, erit finitus et secundum numerum replicationum per tantum dicetur excedere, verbi gratia, sicut quinque dicuntur excedere tria per duo, quia ultra tria continet duo et talis excessus appel-

a

continentiam] continentia P.

b

aliquo excessu] aliqua excessa P.

371

SEZ. III, CAP. VII

alla fine pervenire alla natura formale [25a] in cui consiste l’essere immediato, di cui si è detto sopra.169 Perciò la disgregazione di a è maggiore della disgregazione b, perché la contiene e la eccede ed è ciò in cui consiste l’essere immediato. Pertanto intorno a queste cause è sufficiente quanto si è detto in merito alla conoscenza per mezzo degli effetti. CAPITOLO VII SI CHIARISCE DA CHE COSA SI ATTENDONO LA GRANDEZZA E LA PICCOLEZZA, L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE, COME SI PRESENTANO FORMALMENTE RISPETTO AL MODO DI MISURARE

1. Poiché si è detto da che cosa si attendono l’intensità e l’attenuazione, la grandezza e la piccolezza, rispetto alla causa formale, nonché rispetto ad altri generi di cause, analogamente ora in merito agli effetti resta da dire qualcosa intorno alla regola ovvero al modo di misurarle; e sono misurabili per ciò che si dicono l’una in relazione o rispetto all’altra. E poiché si è detto che la natura formale del grande è quella di eccedere e contenere al contrario di quella del piccolo, che è quella di essere contenuto ed ecceduto, ora conviene porre le misure in riferimento all’eccedere e altresì al contenere e così analogamente all’essere ecceduto e all’essere contenuto, che non differiscono reciprocamente se non per azione e passione, sovrabbondanza [8vb] e mancanza. 2. Innanzi tutto – secondo il parere di tutti coloro che scrivono sulle proporzioni – bisogna sapere che l’eccesso produce una proporzione aritmetica, il contenimento, invece, genera una proporzione geometrica;170 se, dunque, a è grande rispetto a b e se lo stesso a contiene ed eccede b, allora lo contiene per un certo numero di volte e lo supera per un qualche eccesso o infinito o finito. Si conosce se eccede di un eccesso finito o infinito attraverso le regole più sopra171 stabilite, perché, assunta una misura minima di quello stesso genere, se l’eccesso non si esaurisce per un numero finito di ripetizioni, allora è infinito; se, invece, si esaurisce per un numero finito di ripetizioni sarà finito e si dirà che eccede tanto quanto è il numero delle ripetizioni. Per esempio si dice che il cinque supera il tre di due, perché oltre il

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

latur differentia, quia, demptis duobus a quinque, ipsa quinque quoad numerum non differenta a tribus; quod si non esset una mensura integra ut se habent quinque cum dimidio ad dicta tria, sumetur integrum cum interrupto, vel si solum est interruptum, tantum interruptum sumetur. Scietur ergo proportio quam magnum habet ad parvum, in quantum magnum excedit parvum per talem differentiam et per talem modum, quae communiter proportio arithmetica nuncupari solet. 3. Quantum vero ad continentiam recurratur ad ea, quae dicuntur a divo Boethio, in Arithmetica sua, et etiam lucide collecta sunt ab Alberto de Saxonia, in tractatu De proportionibus, qui est communiter in usu. Quia omne [25b] habens proportionem maioris inaequalitatis secundum continentiam vel geometrice, ‘ultra’ hoc quod continet semel ipsum oportet aliquid ultra continere; illud ‘ultra’ autem, vel ad minus est tantum quantum contentum vel non est. Si ad minus est tantum, vel praecise vel plus; si praecise, sic est duplum. Et non ponam librum in quinternione, illuc recurre ad auctores citatos, ubi haec intelligere potes, sed tantum sufficiat intelligere pro praesenti negotio, quod magnum ut refertur ad parvum, continet et excedit illud, e contra vero parvum continetur et exceditur ab ipso magno. 4. Cognoscitur autem quantus sit excessus per minimam mensuram illius generis, sive per partem illius minimaeb mensurae, si illa mensura est de genere continuorum, quia si esset unitas arithmetica, ut frequenter dictum est, esset simpliciter indivisibilis, et quod talis cognitio sive mensuratio dicitur arithmetica proportio, sive secundum proportionem arithmeticam, continentia autem quam habet magnum ad parvum cognoscitur per numerum continentiae eiusdem magni ad parvum, ut per semel, vel bis, vel ter vel per solum semel continere, parvum et partem eius vel etiam per multoties continere, et partem secundum regulas datas in libro Proportionum, quas ego non pono, cum eas praesupponam esse satis notas hunc tractatum intelligere cupienti. Huiusmodi autem comparatio geometrica secundum communem appellationem nuncupatur. Quare scire poterimus

a

different] differunt P.

b

minimae] minime T.

SEZ. III, CAP. VII

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tre contiene il due e tale eccesso è chiamato differenza, perché, sottratto il due da cinque, lo stesso cinque non è diverso dal tre. Se la misura non fosse integra, come è il caso del cinque e mezzo rispetto al tre, si prenderà in considerazione la parte intera con quella frazionaria e se c’è solo quella frazionaria, si prenderà solo la frazionaria. Si conoscerà il rapporto tra il grande e il piccolo, in quanto il grande eccede il piccolo per tale differenza e in questo modo si conosce quella che comunemente si suole definire proporzione aritmetica. 3. Per quanto riguarda il contenere si fa ricorso a ciò che è stato detto dal divino Boezio nella sua Arithmetica,172 ed alla collazione che ne ha fatto lucidamente Alberto di Sassonia,173 nel trattato De proportionibus, che è comunemente in uso. Ivi si stabilisce che tutto ciò [25b] che ha un rapporto di maggiore disuguaglianza per contenimento e in ragione geometrica, ‘oltre’ a contenere qualcosa una volta deve contenerlo un certo numero di altre volte. La parola ‘oltre’ si riferisce al termine che o è contenuto un determinato numero di volte o non lo è. Se è contenuto un determinato numero di volte o è contenuto esattamente o presenta un eccesso. Se è contenuto esattamente tante volte è, per esempio, il doppio.174 Ma non farò crescere il libro in quinterni: per queste cose rivolgiti agli autori citati dai quali potrai apprenderle. Ai fini del presente lavoro è sufficiente comprendere che il grande, riferito al piccolo, lo contiene e lo eccede e di contro il piccolo è contenuto ed ecceduto dallo stesso grande. 4. Si conosce altresì quanto sia grande l’eccesso attraverso la misura minima di quel genere o attraverso una parte di quella misura minima, se essa è del genere delle grandezze continue, perché se fosse una unità aritmetica, come si è detto frequentemente, sarebbe in assoluto indivisibile e tale conoscenza o misurazione si dice rapporto aritmetico o secondo un rapporto aritmetico; invece, quanto al contenere il rapporto tra il grande e il piccolo si conosce per il numero di volte in cui il grande contiene il piccolo, cioè per una volta o per due o per tre oppure lo contiene per una sola volta e per una parte di esso o anche per molte volte e per una parte di esso, secondo le regole date nel libro De proportionibus,175 che tralascio nella convinzione che esse siano sufficientemente note a chi desidera comprendere questo trattato. Tale è la comparazione geometrica come comunemente è chiamata. Perciò potremo conoscere la proporzione del gran-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

proportionem magni ad parvum et arithmetice et geometrice, parvi autem ad magnum praecise secundum denominationem quoad utrumque, scilicet et geometrice et arithmetice est eadem, nisi quia una, scilicet magni ad parvum dicit superabundantiama, altera, scilicet parvi ad magnum dicit defectum, unde quattuor ad duo arithmetica est per excessum ut duo, duo vero ad quattuor est per excedi et per defectum ut duo, quattuor ad duo est dupla proportio geometrice, duo vero ad quattuor est subdupla. Quemadmodum autem dictum est de magno et parvo, sic proportionabiliter dicendum est de intenso et remissob, nisi quia haec sunt in qualitate et illa erant in quantitate; et sic satis in generali dictum est de comparatione magni ad parvum, intensi ad remissum et e contra, quomodo se habeat secundum excessum et continentiam, et secundum excedi et contineri, quod est arithmetice et geometrice adinvicem comparare. CAPUT VIII IN QUO DISPUTATUR DE COMPARATIONE MAGNI ADc MAGNUM ET PARVI

AD PARVUM, EODEM MODO DE INTENSO ET REMISSO, OMNIBUS FORMALITER SUMPTIS

1. Ostensum est superius quod si duae quantitates eiusdem generis adinvicem comparentur, vel erunt aequales, vel inaequales. Causa autem proxima et fundamentalis aequalitatis, a qua etiam mathematici non abstrahunt, est unitas quantitatis, cum V Me[26a]taphysicae aequalia sunt quorum una est quantitas; inaequalitas vero est diversitas in quantitate, cum inaequalia sunt quorum non est una quantitas, secundum cuius quantitatis denomina]9ra]tio est a numero posteriori, illa est magna ad alteram quantitatem, cuius est denominatio a numero priori. Haec dicitur parvam ad illam. Dictum est etiam de comparatione quam habent magnum et parvum inter se et arithmetice et geometrice, sive secundum continentiam et excessum. Modo viden-

a b superabundantiam] superhabuonde intenso et remisso] de intensio dantiam P. et remissio P. c ad] ap P.

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SEZ. III, CAP. VIII

de rispetto al piccolo sia aritmeticamente che geometricamente e quella del piccolo rispetto al grande esattamente secondo la denominazione per cui ciascuno è rispetto all’altro aritmeticamente e geometricamente. E tale rapporto è il medesimo salvo che l’uno, quello del grande rispetto al piccolo, indica una sovrabbondanza, e l’altro, quello del piccolo rispetto al grande, indica una mancanza. Perciò il rapporto aritmetico tra quattro e due è per eccesso di due, quello di due a quattro è per ‘essere ecceduto di due’ e quindi per una mancanza di due; il rapporto tra quattro e due è un rapporto geometrico doppio e quello tra due è quattro è un rapporto geometrico della metà. Come si è detto del grande e del piccolo si deve dire anche per analogia dell’intenso e dell’attenuato, salvo che questi sono qualità e quelli quantità. Così in generale si è detto a sufficienza intorno alla comparazione tra il grande e il piccolo e tra l’intenso e l’attenuato e viceversa, in che modo stanno tra loro in ordine all’eccesso e al contenimento e all’essere ecceduto e contenuto, che cosa è la reciproca comparazione in termini aritmetici e in termini geometrici. CAPITOLO VIII SI ESAMINA LA COMPARAZIONE DEL GRANDE RISPETTO AL PICCOLO E DEL PICCOLO RISPETTO AL GRANDE, TUTTI ASSUNTI SUL PIANO FORMALE

1. Si è mostrato più sopra176 che se due quantità dello stesso genere sono reciprocamente comparate saranno o uguali o disuguali. La causa prossima e fondamentale dell’uguaglianza, dalla quale i matematici non fanno astrazione, è l’unità della quantità, poiché secondo il libro V della Metaphysica [26a] uguali sono le cose di cui una sola è la quantità; la disuguaglianza, invece, è una diversità nella quantità, poiché sono disuguali le cose di cui non è una sola la quantità. La quantità la cui denominazione è data da un numero superiore è grande rispetto ad un’altra quantità la cui denominazione [9ra] è data da un numero inferiore.177 Questa si dice piccola rispetto a quella. Si è detto della reciproca comparazione tra il grande e il piccolo e in termini aritmetici e in termini geometrici e rispetto al contenere e all’eccedere. Ora bisogna

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

dum est de comparatione magni ad magnum et parvi ad parvum et, his formaliter sumptis, secundum quod significant respectus. Nam quemadmodum duae quantitates absolutae eiusdem generis adinvicem comparatae vel sunt aequales vel inaequales; ita duo magna vel parva adinvicem comparari possunt secundum aequalitatem vel inaequalitatem. Possunt enim esse aequaliter magna et inaequaliter magna. Et duo parva possunt esse aequaliter parva et inaequaliter parva. Quemadmodum enim si Socrates est similis Platoni et Cicero eidem Platoni sit etiam similis; Socrates et Cicero assimilantur ambo Platoni et eidem Platoni, isti duo, Socrates scilicet et Cicero, possunt comparari secundum aequalitatem similitudinis et inaequalitatem, ut dicatur Socrates tantum assimilatur Platoni quantum Cicero eidem Platoni assimilatur, vel minus vel plus idem Socrates assimilatur Platoni quam Cicero eidem Platoni assimiletur. Sic etiam non minus vere et apte dicere possumus tantum a est magnum respectu c quantum sit b magnum respectu eiusdem c vel a est plus vel minus magnum respectu c quantum sit b magnum respectu eiusdem c. Neque inconvenit aliquando respectum habere pro proximo fundamento alium respectum. Nam proportionabilitas habet pro fundamento proportiones, cum proportionabilitas sit aequalitas proportionum et aequalitas similitudinis fundatur super similitudinibus. Quare et ipsa magna et parva comparari possunt adinvicem, ut dicunt respectus secundum aequalitatem et inaequalitatem. 2. Dicamus igitur quod aeque magna dicuntur illa quae ad aliqua comparata sive eadem sint illa ad quae fit comparatio, sive sint diversa; habent eandem proportionem arithmeticam et geometricam; quod est habere aequalem proportionem continentiae et aequalem excessum. 3. Scire tamen oportet quod aliqua aeque magna duobus modis esse possunt et aeque perfecte et non aeque perfecte. Aeque magna perfecte sunt illa quae utrumque habent; etenim magnum est quod continet et excedit, quare aeque magnum est quod aequaliter continet et aequaliter excedit. Sunt et aliqua quae simpliciter et perfecte non dicuntur aeque magna, sed secundum quid, id est secundum unum tantum; et tunc sufficit vel quod aequalis sit [26b] continentia vel aequalis excessus, et hoc multum est in usu. Dicimus enim quod octoa sunt a

octo] duo P.

SEZ. III, CAP. VIII

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esaminare la comparazione del grande al piccolo e del piccolo al grande, assumendoli formalmente come termini che sono relativi. Infatti, due quantità assolute e omogenee, comparate reciprocamente, possono essere o uguali o disuguali. Così due quantità grandi o piccole possono essere comparate per uguaglianza o per disuguaglianza; possono essere, infatti, o ugualmente grandi o grandi in misura disuguale. Anche due quantità piccole possono essere piccole o in misura uguale o in misura disuguale. Allo stesso modo se Socrate è simile a Platone e Cicerone è altresì simile al medesimo Platone, Socrate e Cicerone sono entrambi simili a Platone ed entrambi, cioè Socrate e Cicerone, possono paragonarsi allo stesso Platone per uguaglianza o disuguaglianza della similitudine, così da dire che Socrate somiglia a Platone tanto quanto Cicerone somiglia allo stesso Platone oppure che Socrate somiglia a Platone di più o di meno di quanto Cicerone somigli a Platone. Così non è meno vero e idoneo dire che tanto è grande a rispetto a c quanto è grande b rispetto allo stesso c oppure che a è grande di più o di meno rispetto a c quanto b è grande rispetto allo stesso c. Né è disdicevole che talvolta il relativo abbia come fondamento prossimo un altro relativo. Infatti, la proporzionalità ha per fondamento i rapporti ed essendo la proporzionalità l’uguaglianza di rapporti, anche l’uguaglianza della similitudine si fonda sulle similitudini. Perciò anche il grande e il piccolo si possono comparare reciprocamente in quanto sono indicativi di una relazione secondo l’uguaglianza e la disuguaglianza. 2. Diciamo, dunque, che sono ugualmente grandi le cose che, comparate ad altre, o sono uguali a quelle cui sono comparate o sono diverse ed hanno uno stesso rapporto aritmetico e geometrico; il che significa essere in un rapporto uguale rispetto al contenere e all’eccedere. 3. Si deve tuttavia sapere che alcune cose possono essere ugualmente grandi in due modi: o per perfetta uguaglianza o per uguaglianza non perfetta. Sono grandi in egual misura quelle che stanno perfettamente l’una all’altra; infatti, il grande è ciò che contiene ed eccede, perciò grande in egual misura è ciò che contiene in egual misura e in egual misura eccede. Ci sono alcune cose che in assoluto e perfettamente non si dicono grandi in egual misura, ma si dicono in senso relativo, cioè solo rispetto ad una cosa, e allora è sufficiente che sia uguale il contenimento [26b] o l’eccesso; e ciò è di uso frequente. Diciamo, infatti, che

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

aeque magna ad quattuor, sicut quattuor ad duo, ubi solum est aequalitas geometrica, cum utrobique sit aequalitas proportionis, scilicet dupla; est tamen ibi inaequalitas excessus, cum octo excedatur quattuor per quattuor et quattuor excedatur duo per duo tantum; aliquando e contra quia erit aequalitas excessus, existente inaequalitate continentiae. Sic enim se habent sex ad quattuor et quattuor ad duo; ibi enim est aequalitas excessus, existente inaequalitate continentiae. Inaequaliter etiam magna dupliciter sumia possunt, quia et perfecte inaequalia, et secundum quid inaequalia accipi possunt. Appello autem inaequalia perfecte quae negant utramque aequalitatem, sic quod et geometrice et arithmetice sunt inaequales; secundum quid autem, quae secundum unam illarum considerationum dicuntur inaequalia. Erunt igitur illa perfecte inaequaliter magna, quae neque aequaliter continent, neque aequaliter excedunt; secundum quid inaequalia quae vel non aequaliter continent vel non aequaliter excedunt; magis autem magnum perfecte quod magis continet et magis excedit secundum quod magis magnum quod vel magis continet vel magis excedit. 4. Idem dicatur secundum terminatam proportionem. In duplo magis magnum perfecte, quod in duplo magis continet et in duplo magis excedit. Secundum quid quod secundum alterum istorum tantum. Eodem quoque modo dicatur de parvis; aeque parva perfecte, quae aequaliter continentur et aequaliter exceduntur; secundum quid aeque parva, quae vel aequaliter continentur vel aequaliter exceduntur; inaequaliter parva perfecte, quae neque aequaliter continentur, neque aequaliter exceduntur; secundum quid, vero quae secundum alterum illorum tantum; magis parva perfecte, quae magis continentur excedunturque; imperfecte, secundum alterum tantum; minus parva quae vel secundum utrumque vel secundum alterum tantum; sed haec quidem perfecte, illa vero secundum quid. Eodem modo proportionabiliter dicatur de intenso et remisso, nisi quia haec sunt in qualitate quae propter brevitatem omitto. [9rb]

a

sumi] summi PT.

SEZ. III, CAP. VIII

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otto rispetto a quattro è grande in egual misura quanto quattro rispetto a due, ove l’uguaglianza è solo geometrica perché in entrambi i casi c’è un’uguaglianza del rapporto che è doppio. Tuttavia lì c’è una disuguaglianza di eccesso, perché quattro è superato da otto di quattro, ma due è superato da quattro solo di due. Talvolta al contrario, in presenza di una disuguaglianza di contenimento ci sarà un’uguaglianza di eccesso. Così stanno tra loro il sei e il quattro e il quattro e il due, ove c’è una uguaglianza di eccesso in presenza di una disuguaglianza di contenimento. Anche le cose che sono grandi in misura disuguale si possono assumere in due modi, perché possono essere prese o come perfettamente disuguali o come disuguali in senso relativo. Dico che sono disuguali perfettamente quelle che negano l’una e l’altra uguaglianza così da essere disuguali sia geometricamente sia aritmeticamente; sono, invece, disuguali in senso relativo quelle che sono disuguali sotto l’uno o l’altro aspetto. Quindi saranno disugualmente e perfettamente grandi quelle che né contengono né eccedono in modo uguale; saranno relativamente disuguali quelle che o non contengono in misura uguale o non eccedono in misura uguale; ma è perfettamente grande di più ciò che contiene di più ed eccede di più perché ciò che è più grande è ciò che o contiene di più o eccede di più. 4. Lo stesso si dica in relazione ad una determinata proporzione. È perfettamente più grande del doppio ciò che contiene di più nella misura del doppio o che eccede nella misura del doppio. È più grande in senso relativo ciò che è solo in uno di questi modi. Analogamente si dica del piccolo. Sono uguali perfettamente le cose che sono contenute ed eccedute in misura uguale; sono ugualmente piccole in senso relativo le cose che sono ugualmente contenute ed eccedute; sono perfettamente disuguali le cose piccole che non sono né contenute né eccedute in misura uguale; lo sono in senso relativo quelle che sono solo nel secondo di questi modi. Sono in perfezione più piccole quelle che sono contenute ed eccedute di più; sono meno piccole quelle che sono o secondo l’uno e l’altro di questi modi o solo nel secondo modo; le prime lo sono perfettamente, le seconde in senso relativo. Allo stesso modo si dicono rispettivamente l’intenso e l’attenuato salvo che questi riguardano la qualità e quelli la quantità. Perciò per brevità ometto di parlarne. [9rb]

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT IX IN QUO MOVENTUR MULTA DUBIA CIRCA EA QUAE DICTA SUNT

1. Contra tamen ea quae in capite immediato et in aliis dicta sunt, multae insurgunt dubitationes. Primo quidem quia secundum ea quae dicta sunt de formali intellectu parvi et magni, et ex communi modo exponendi maius et minus, sequitur primo quod [27a] binarius non est maior unitate; quod si conceditur, tunc destruitur illa communis conceptio, sciliceta quod omne totum sit maius sua parte, cum unitas sit pars binarii et binarius ipse sit totum. Probatur tamen illud sequi quia si binarius esset maior unitate, tunc, secundum communem modum exponendi, binarius esset magnus et unitas magna. Sed secundum dicta magnum est quod formaliter continet et excedit, nihil autem continetur vel exceditur ab ipsa unitate, quia sic illud esset pars unitatis, quod est contra Euclidem primo Elementorum et Boethium, quia si punctus est, cuius pars non est, cum unitas sit absolutior puncto, unitas partem nullo modo habebit. 2. Secundo sequitur quod finitum non est minus infinito. Quod quidem nullo modo videtur posse concedi, quia omnis quantitas eiusdem generis vel speciei, alteri comparata, vel est ei aequalis vel minor ea, vel maior. Quare si hora, toti tempori comparata, non est eo minor, aequabitur vel erit maior; quod omnino improbabile est, si impossibile dici potest improbabile. Deducitur autem sequela, quia si finitum est minus infinito secundum communem expositionem, infinitum erit parvum, sed, per ea quae dicta sunt, parvum est quod continetur et exceditur; infinitum ergo exceditur ab aliquo, sed non a finito, ergo ab infinito; et sic unum infinitum erit maius altero, quod tamen existimatur esse impossibile et contra Aristotelem in pluribus locis. 3. Tertio sequitur quod nullus gradus citra summum est remissior summo, quod tamen falsum est, quia non est aeque intensus, ergo intensior (quod impossibile est) vel remissior (quod de

a

scilicet] om. P.

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SEZ. III, CAP. IX

CAPITOLO IX SI SOLLEVANO MOLTI DUBBI CIRCA LE COSE CHE SI SONO DETTE

1. Contro le considerazioni fatte nel capitolo precedente e in altri sorgono molti dubbi. In primo luogo perché da ciò che si è detto intorno alla comprensione formale del piccolo e del grande e dal comune modo di spiegare il maggiore e il minore, segue innanzi tutto che il due [27a] non è più grande dell’uno. Ma se si concede ciò si distrugge la comune concezione per la quale il tutto è più grande della parte, essendo l’unità parte del due e il due la totalità stessa. Si dimostra tuttavia tale conseguenza perché se il due [non] fosse più grande dell’unità, allora, attenendoci alla comune interpretazione, il due sarebbe grande e sarebbe grande anche l’unità. Ma da quanto si è detto il grande è ciò che formalmente contiene ed eccede; ma niente è contenuto ed ecceduto dalla stessa unità, perché altrimenti ci sarebbe una parte dell’unità. E questa conclusione è contro il I Elementorum di Euclide e contro Boezio, perché se il punto è ciò che non ha parti, essendo l’unità più assoluta del punto, anche l’unità non avrà parti.178 2. In secondo luogo segue che il finito non sarebbe minore dell’infinito.179 Tale affermazione che non si può concedere in alcun modo perché ogni quantità dello stesso genere o della stessa specie, paragonata ad un’altra, o è ad essa uguale o è minore o è maggiore. Perciò se l’ora, paragonata alla totalità del tempo, non è minore di esso o sarà uguale o maggiore; tale alternativa è del tutto improbabile se pure si può dire improbabile ciò che è impossibile. Si deduce quindi la conseguenza perché se il finito è minore dell’infinito, secondo la comune interpretazione, l’infinito sarà piccolo; ma per ciò che si è detto, piccolo è ciò che è contenuto ed ecceduto, allora l’infinito sarà ecceduto da qualcosa, ma non da un finito, quindi da un infinito; e così ci sarà un infinito maggiore di un altro. Ma questa conclusione è ritenuta impossibile e contraria a ciò che è stato detto da Aristotele in molti luoghi. 3. In terzo luogo segue che nessun grado inferiore al sommo è più attenuato del sommo. Questa affermazione è falsa perché se non è ugualmente intenso o è più intenso del sommo – e ciò è impossibile – o è più attenuato e ciò si deve necessariamente

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

necessitate concedi debet). Amplius quia summus est quolibet citra summum intensior, ergo quilibet citra summum remissior est eo. Et probatur quod illud sequatur, quia si aliquis citra summum est remissior summo, secundum communem expositionem summus erit remissus. Sed omne remissum ab alio continetur et exceditur; summum autem a nullo exceditur, quia sic non esset summum. Ergo. 4. Quarto sequitur quod creatura non esset imperfectior creatore, quod videtur falsum, quia creator est perfectior creatura; ergo creatura imperfectior creatore. Patet autem quod illud sequatur quia si creatura esset imperfectior creatore, creator esset imperfectus, quod nefas est dicere. Quia, ut dicit Commentator, V Metaphysicae capitulo De perfecto: «Solus Deus est simpliciter perfectus», cui nulla perfectio addi potest, nec aliqua imperfectio apponi. Et commento 5, III De anima, declaratum est quod prima Intelligentia, quae nihil intelligit ex se, est liberata a potentia simpliciter et privatione. 5. Quinto, quia expresse apparet quod ille non est intellectus maioris, neque minoris, quia dicimus quod quadrupedale est maius bipedali, nona habendo respectum [27b] ad plus continere vel plus excedere, sed quia ipsum quadrupedale continet et excedit bipedale, dicimusque esse ipsum in duplo maius bipedali, quia ipsum bis continet, non autem quia quadrupedale et bipedale, ad aliqua comparata, utputa ad c, sic se habeant quod quadrupedale in duplo magis contineat et excedat c quam bipedale contineat et excedat idem c. Sic enim ut manifestum est illa propositio «Quadrupedale est in duplo maius bipedale», esset falsa, cum tamen communiter et universaliter ab omnibus concedatur. Consimiliter etiam dicatur de intenso et remisso, quare ea, quae dicta sunt, non videntur veritatem continere.

a

non] no P.

SEZ. III, CAP. IX

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ammettere. Inoltre, è un’affermazione falsa perché il sommo è più intenso di qualsiasi grado inferiore ad esso, quindi ogni grado inferiore al sommo è più attenuato di esso. E così è provato che tale è la conseguenza, perché se qualche grado inferiore al sommo è più attenuato del sommo, allora, secondo la comune interpretazione, anche il sommo sarà attenuato. Ma tutto ciò che è attenuato è contenuto ed ecceduto; il sommo, invece, non è ecceduto da nessun grado, perché altrimenti non sarebbe sommo. Quindi. 4. In quarto luogo segue che la creatura non sarebbe più imperfetta del creatore; ipotesi che è palesemente falsa, perché il creatore è più perfetto della creatura. Quindi la creatura è più imperfetta del creatore. La conseguenza risulterebbe evidente perché se la creatura fosse più imperfetta del creatore, allora sarebbe imperfetto anche il creatore. Ciò che non è lecito dire, perché, come afferma Averroè, nel libro V della Metaphysica, nel capitolo De perfecto: «Solo Dio è perfetto in assoluto»,180 al quale non si può aggiungere nessuna perfezione, né gli si può attribuire alcuna imperfezione. E nel capitolo V del III De anima, si dichiara che la prima Intelligenza, che non intende nulla da sé, è assolutamente e privativamente libera dalla potenza.181 5. In quinto luogo emerge chiaramente che non è quello il concetto di maggiore né di minore, perché diciamo che una grandezza di quattro piedi è più grande di una di due piedi, senza avere riguardo [27b] al contenere di più e all’eccedere di più, ma perché la prima contiene e eccede la seconda. Diciamo che la lunghezza di quattro piedi è più grande al doppio della lunghezza di due piedi, perché la contiene due volte, non perché i quattro piedi e i due piedi, paragonati ad altro, poniamo a c, stiano tra sé in modo tale che i quattro piedi contengono ed eccedono del doppio c più di quanto i due piedi contengano ed eccedano il medesimo c. In tal caso, com’è evidente, la proposizione ‘la lunghezza di quattro piedi è due volte più grande di quella di due piedi’ sarebbe falsa, pur essendo comunemente e universalmente condivisa da tutti. Allo stesso modo si dica anche dell’intenso e dell’attenuato. Perciò quanto si è detto non sembra contenere la verità.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT X IN QUO RESPONDETUR AD EA QUAE IN OPPOSITUM ADDUCTA SUNT

1. Ad haec non difficile est respondere si ea, quae superius dicta sunt, ad memoriam revocentur. Quare dicendum est, quod si non est differentia inter esse a maius b, et ipsum a esse magis magnum, ut mihi multi grammaticorum retulere, et, admisso illo communi modo exponendi, omnes illae [9va] propositiones, vel maior pars illarum, secundum proprietatem sermonis et, sumptis formaliter, sunt falsae, ut bene ostensum est in argumentationibus prioris capituli; secundum sensum tamen, in quo accipiuntur, sunt verae. Quare nihil contra eos, sic eas concedentes. 2. Ad primum igitur, cum dicitur quod binarius non esset maior unitate, quia sic unitas esset magna et, per consequens, divisibilis, huic dicitur quod vel sumitur comparativum pro positivo, ut sit sensus ‘binarius est maior unitate’, id est, ‘binarius est magnus ad unitatem, quia eam continet et excedit’. Sic enim et oratores et poetae multoties accipiunt, unde et Vergilius, VI Aeneidos: Iam senior sed cruda Deo viridisque senectus,

ubi exponitur senior, id est senex; et in infinitis aliis locis est reperire. Vel cum dicimus est magnus et unitas est magna, secundum superiora sumitur magnum pro quanto, extendendo nomen quanti etiam ad principa in quantitate, sicut sunt punctus et unitas; sic enim dicimus materiam et formam substantialem esse substantiam, extendendo nomen substantiae ad principia substantiae, ut multoties facit Aristoteles cum dicat partes substantiae esse substantias. Sic non inconvenit principia quantitatis esse quantitates, licet analogice dicatur quantitas, sicut et substantia; sed quomodocumque dicatur, nihil est con[28a]tra dignitatem.

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SEZ. III, CAP. X

CAPITOLO X RISPOSTA A CIÒ CHE SI È ADDOTTO CONTRO

1. A questi dubbi non è difficile rispondere se richiamiamo alla memoria quanto si è detto più sopra. Perciò si deve dire che se non c’è una differenza tra ‘l’essere a maggiore di b’ e ‘l’essere a più grande’, molti grammatici mi hanno riferito che, ammessa la comune interpretazione, tutte quelle [9va] proposizioni o la maggior parte di esse, sono false sotto il profilo della proprietà del linguaggio e secondo un’accezione formale, come si è ben dimostrato dalle argomentazioni e nel capitolo precedente. Tuttavia nel significato in cui esse sono assunte, sono vere. Perciò non diciamo nulla contro coloro che le accettano secondo tale significato. 2. Al primo dubbio per il quale si dice che il due non sarebbe maggiore dell’unità, perché altrimenti l’unità sarebbe grande e di conseguenza divisibile, si risponde che o si assume il comparativo per positivo, in modo tale che il senso della proposizione ‘il due è maggiore dell’unità’, sia ‘il due è grande rispetto all’unità, perché la contiene e la eccede’. Così, infatti, molto spesso si esprimono gli oratori e i poeti, per cui anche Virgilio nel sesto libro dell’Eneide, scrive: ormai è più vecchio, ma vegeta come in dio, e verde la sua vecchiaia182

dove ‘più vecchio’ è inteso nel senso di ‘vecchio’; lo stesso può rinvenirsi in molti altri luoghi. Oppure quando diciamo che il due è grande e che è grande anche l’unità, il termine ‘grande’ è assunto per la quantità rispetto ai numeri superiori, estendendo il nome ‘quantità’ anche ai principi della stessa quantità, come il punto e l’uno. Così, infatti, diciamo che la materia e la forma sostanziale sono sostanza, estendendo il nome ‘sostanza’ ai principi della sostanza, come fa molto spesso Aristotele quando dice che le parti della sostanza sono sostanza.183 Così non è disdicevole che i principi della quantità siano quantità, sebbene in questo caso si dica ‘quantità’ per analogia, come si fa per la sostanza; ma comunque si dica non c’è nulla [28a] contro la posizione del Calcolatore.

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

Ad secundum autem dicitur quod si finitum est minus infinito, non conceditur, quia infinitum dicatur parvum proprie cum a nullo excedatur; sed vel sumitur ibi parvum pro quantitate, ut sensus sit ‘utrumque tam finitum quam infinitum est quantum’, sed finitum non tantam continet quantitatem, quantam infinitum; vel ut supra sumitur comparativum pro positivo, id est finitum est parvum ad infinitum, vel et melius sumitur minus, id est minus magnum, ut sit sensus: ‘finitum est minus magnum infinito’. Sic enim est in usu, ut Ovidius in Epistolis: Mitius inveni quam te genus omne ferarum

mitius id est minus crudele, neque verum est quod ibi assumebatur, videlicet quod omne comparatum alteri eiusdem speciei cum ipso vel est sibi aequale vel maius vel minus, sumendo proprie maius et minus, ut formaliter important tales respectus, de quibus supra dictum est, sed bene vel est magnum vel est parvum respectu illius. Nam inaequale ut ex superius patet, faciunt magnum vel parvum, non autem maius vel minus, sed maioritas est inter duo magna et minoritas inter duo parva. Quare etc. 4. Ad tertium, cum infertur quod nullus gradus citra summum esset remissior summo, huic dicitur quod omnino hoc est necessarium et suum oppositum formaliter infert quod summum est remissum; quod implicat contradictionem, sicut dicit Philosophus, X Metaphysicae, ubi inquit quod summo non datur ultra et remissum non potest esse nisi per defectum ab aliquo intensiori, ut demonstratum est. Sed potest illa propositio concedi: ‘quod gradus citra summum est remissior’, id est remissus respectu summi vel est minus intensus vel minus habet de gradu et qualitate. Neque gradus citra summum est aeque intensus cum summo, neque intensior ut patet, neque remissior, sed est remissus, id est minus intensus, et non aeque habens de gradu. Neque valet illa consequentia ‘gradus summus est intensior gradu citra

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3. Al secondo dubbio si risponde che se il finito è minore dell’infinito non si concede che l’infinito sia detto propriamente piccolo, non essendo ecceduto da nulla. Perciò in tal caso o il piccolo è assunto in relazione alla quantità così che il significato sia ‘l’uno e l’altro, tanto il finito, quanto l’infinito, sono una quantità’, ma il finito non contiene tanta quantità quanta ne contiene l’infinito, oppure, come sopra, si assume il comparativo per positivo nel senso cioè che ‘il finito è piccolo rispetto all’infinito’ o, ancor meglio, si assume il minore nel senso di ‘meno grande’ e così il significato della proposizione è ‘il finito è meno grande dell’infinito’. Anche questa espressione è nell’uso, come si evince dalle Epistolae di Ovidio: ho trovato più mite di te tutto il genere animale184

dove ‘più mite’ equivale a ‘meno crudele’. Né è vero ciò che ivi si assumeva cioè che tutto ciò che è paragonato ad un altro della sua specie o è uguale ad esso o è maggiore o minore di esso, assumendo propriamente il maggiore e il minore come è formalmente richiesto da tali termini relativi dei quali si è detto sopra;185 ma è ben vero che è o grande o piccolo rispetto ad esso. Infatti, l’ineguaglianza, come si evince da quanto si è detto più sopra,186 produce il grande o il piccolo, non il maggiore o il minore, ma l’essere maggiore sussiste tra due grandi e l’essere minore tra due piccoli. Perciò ecc. 4. Al terzo dubbio per il quale si inferisce che nessun grado inferiore al sommo sarebbe più attenuato del sommo, si risponde che ciò è del tutto necessario e che il suo opposto porta formalmente ad inferire che il sommo è attenuato. Il che implica una contraddizione, come osserva Aristotele nel libro X della Metaphysica, ove afferma che non si dà ciò che è oltre il sommo e che l’attenuato non può essere tale se non per una mancanza rispetto ad un altro più intenso,187 com’è stato dimostrato. Ma si può ammettere la proposizione ‘il grado inferiore al sommo è più attenuato’, cioè attenuato rispetto al sommo o è meno intenso o ha un grado e una qualità minore. Né un grado inferiore al sommo ha uguale intensità del sommo, né, com’è evidente, è più intenso, né più attenuato, ma è attenuato, cioè meno intenso ed avente una gradazione non uguale. Né vale la conseguenza: ‘il grado sommo è più intenso del grado inferiore al sommo; quin-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

summum; ergo gradus citra summum est remissior summo’; sed solum sequitur quod gradus citra summum sit minus intensus. Cum enim dico summum esse intensiorem gradu citra summum, ambo comparantur in intensione, sed cum dicitur ‘gradus citra summum est remissior summo’, ambo comparantur in remissione. Quod alienum est a gradu summo, neque intensius refertur ad remissus, sed ad minus intensum. Unde intensius est minus intenso intensius, sicut minus intensum est magis intenso minus intensum. Unde licet intensum sit, respectu remissi, intensum, et [28b] e contra, non tamen intensius respectu remissioris, quia variatur comparatio de intensiori ad remissius; unde licet omne minus intensum aliquo sit remissum respectu illius, non tamen est remissius illo, quia sic poneret ipsum, respectu cuius fit comparatio, esse remissum; quod non est necessarium et in multis impossibile, ut patebit clarius in responsione ad argumentum sequens, et ex ignorantia huius rei Calculator cum suis sequacibus devenerunt in apertissimos errores, adeo ut negaverint ea, quae sunt quasi per se nota, ut infra etiam ostendemus, sed nil mirum, quia etsi extremis labiis Calculatores isti logicam [9vb] ac philosophiama attigerunt, nihil tamen de metaphysica gustavere; quare nemini mirum videri debet, si in manifestos errores inciderint. 5. Ad quartum dicitur quod nullo modo, proprie loquendo, creatura est imperfectior creatore, si comparentur creatura et creator in imperfectione, ut signat illa propositio; neque creatura est aeque perfecta neque perfectior neque imperfectior, sed bene est imperfecta respectu creatoris et est minus perfecta creatore; neque sequitur creator est perfectior creatura, ergo creatura est imperfectior, sed bene ergo est minus perfecta. 6. Ad ultimum dicitur quod de virtute sermonis ille est sensus illarum propositionum, ut formaliter sumuntur; sed ad illud quod obicitur, dicitur esse verum, quod illae propositiones conceduntur secundum illum sensum ab eis expressum, quia sumitur maius et magnum non quidem ut sunt respectus vel dicunt respectum, sed pro ipso quanto et communiter in tali sensu

a

philosophiam] philophiam P.

SEZ. III, CAP. X

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di il grado inferiore al sommo è più attenuato del sommo’. La sola conseguenza legittima è che il grado inferiore al sommo è meno intenso. Quando, infatti, dico che il sommo è più intenso del grado inferiore al sommo, entrambi sono paragonati in intensità, ma quando si dice ‘il grado inferiore al sommo è più attenuato del sommo’ entrambi sono paragonati in attenuazione. Ma l’attenuazione è estranea al grado sommo né il più intenso è correlato al più attenuato, ma al meno intenso. Per cui il più intenso è meno intenso del più intenso, come il meno intenso è più intenso del meno intenso. Sebbene l’intenso sia intenso rispetto all’attenuato e [28b] viceversa, tuttavia non è più intenso rispetto al più attenuato, perché ciò fa slittare la comparazione dal più intenso al più attenuato. Ragion per cui anche tutto ciò che è meno intenso di qualcosa è attenuato rispetto ad esso, ma non è più attenuato di esso, altrimenti si supporrebbe che è attenuato quello stesso rispetto a cui si fa la comparazione; cosa che non è necessaria ed è in molti casi impossibile, come risulta più chiaramente dalla risposta all’argomento successivo. Il Calcolatore e i suoi seguaci a causa dell’ignoranza di ciò caddero in errori evidentissimi, tanto da negare principi che sono quasi per sé noti, come mostreremo più avanti.188 Ma non c’è di che meravigliarsi, perché tali Calcolatori, sebbene abbiano attinto alla logica [9vb] e alla filosofia, sfiorandole appena con le labbra, tuttavia non hanno avuto affatto il gusto della metafisica; perciò nessuno deve sorprendersi se sono caduti in errori manifesti. 5. Al quarto dubbio si risponde che parlando con proprietà di linguaggio in nessun modo la creatura è detta più imperfetta del creatore, se la creatura e il creatore vengono comparati in imperfezione, come è suggellato da quella proposizione; né la creatura è ugualmente perfetta, né più perfetta né più imperfetta, ma è imperfetta rispetto al creatore ed è meno perfetta del creatore; né dal fatto che il creatore è più perfetto della creatura segue che la creatura è più imperfetta, ma solo che è meno perfetta. 6. All’ultimo dubbio si risponde che in un discorso corretto il senso delle proposizioni è quello per il quale esse sono assunte formalmente. Per ciò che, invece, riguarda quelle obiezioni si replica che è vero che quelle proposizioni sono assunte nel significato da esse espresso, perché il maggiore e il minore sono assunti non certo in quanto sono relativi e in quanto indicano una relazione, ma sono assunti per la quantità stessa e comunemente

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

accipiuntur, sed non sequitur ex hoc quin ille sit suus formalis intellectus, licet alia acceptio sit magis in usu sicut Aristoteles quasi semper sumit magnitudinem pro spatio et quantitate permanente, cum tamen in Praedicamentis dicat esse de capitulo Ad aliquid. Quare etc.

SECTIO IV IN QUA DETERMINATUR PENES QUID HABEANT ATTENDI QUAEDAM ALIA PRAEDICTIS ANNEXA. CAPUT I IN QUO DISPUTATUR PENES QUID HABEANT ATTENDI PERFECTIO ET IMPERFECTIO REI

1. In prioribus sectionibus visum est penes quid intensio et remissio, magnitudo et parvitas attendi habeant. Quae quidem certum quid non respiciunt neque determinatum. Quare Aristoteles et Commentator magnum et parvum, X Metaphysicae, textu commento 19, noluerunt esse contraria, quia contraria sunt quae maxime distant. Verum non sic se habent magnum et parvum, quia ut ibi dicit Commentator, [29a] quocumque parvo datoa, datur minus et, quocumque magno, datur maius, si illud finitum est et mathematice sumatur. Quo fit ut neque magnum neque parvum respiciant determinata, quare neque per appropinquationem ad summum, neque per distantiam ab eodem summo, neque per distantiam sive propinquitatem ad non quantum, sive ad non gradum magnitudo vel parvitas, intensio sive remissio habent attendi. Possum enim (ut supra ostensum est) scire a esse maius b et b esse minus a, nulla habita consideratione de non quanto sive de maximo, immo nesciendo quantum sit b, neque quantum sit a; immo amplius quod a est duplum ad b, et ignorando quantae quantitatis sit b et quantae sit a, ut quotidiana

a

dato] om. P.

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SEZ. IV, CAP. I

sono assunti in tal senso; ma da ciò non segue che sia quello il loro concetto formale, sebbene l’altra accezione sia di uso più frequente e Aristotele quasi sempre assume la grandezza nel senso di spazio e di quantità permanente; tuttavia nei Praedicamenta dice che essa appartiene al capitolo Ad aliquid.189 Quindi ecc.

SEZIONE IV SI DETERMINA DA CHE COSA SI DEBBANO ATTENDERE TALUNE ALTRE COSE CONNESSE ALLE PRECEDENTI.

CAPITOLO I SI DISCUTE DA CHE COSA SI DEBBONO ATTENDERE LA PERFEZIONE E L’IMPERFEZIONE DI UNA COSA

1. Nelle sezioni precedenti si è visto da che cosa si attendono l’intensità e l’attenuazione e la grandezza e la piccolezza, prese però non rispetto ad alcunché, né a ciò che è determinato. Infatti, Aristotele e Averroè nel testo del commento 19 del libro X della Metaphysica, non vollero che il grande e il piccolo avessero l’appellativo di contrari, perché i contrari sono separati in misura massima.190 Ma non sono tali il grande e il piccolo, perché, come dice Averroè [29a] nel relativo commento, data una qualunque quantità piccola, se essa è finita e se è assunta in termini matematici, ce n’è sempre una più piccola e, data una quantità grande, ce n’è sempre una più grande.191 Per cui accade che né il grande né il piccolo si riferiscono ad una quantità determinata e perciò la grandezza e la piccolezza e l’intensità o l’attenuazione non debbono attendersi né per approssimazione al sommo né per distanza dallo stesso sommo, né dalla distanza o dalla vicinanza al non quanto o al non grado. Infatti, come si è mostrato sopra,192 posso sapere che a è maggiore di b e che b è minore di a, senza prendere in considerazione il non quanto o il massimo, anzi ignorando quanto sia b e quanto sia a; anzi posso sapere ancora di più, cioè che a è il doppio di b, e posso ignorare quale sia la quantità di b e quale sia quella di a, come si evince dall’e-

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

experientia patet, quia video medietatem unius ligni demonstrati (sic enim nota vel signata medietas illius ligni), et unus pannus duplicetur secundum aequale; scio, inquama, quod totus ille pannus est duplus ad illam medietatem et ignoro quantae quantitatis sit ille pannus et etiam illa medietas. Quod si in superioribus dictum est quod magnum magis distat a non quanto quam parvum, immo verius a posteriori numero denominatur quam parvum, quia ille primus modus est vanus et nugatorius, ut prius ostensum est; hoc quidem dictum est secundum causam, non autem secundum rationem formalem. Possum enim intelligere lunam deficere et quid est defectus lunae, dato quod nesciam propter quid deficit; sic sciam a esse maius b, quantumcumque nesciam vel advertam a ipsum a posteriori numero denominari quam ipsum b; immo, ut dicit Philosophus in Praedicamentis, capitulo De quantitate, stat quod a multo minori numero denominetur maius quam minus, sicut ipse ibi exemplificat, quia dicit, dicimus montem illum esse parvum et granum milii esse magnum. Cum absque proportione mons sit maior grano milii et dicimus paucos homines esse in civitate, et multos in vico, cum multo plures sint hi qui sunt in civitate iis qui sunt in vico; sed in istis non fit comparatio ad ea, quae sunt eiusdem generis, quia mons et granum milii non sunt proxima, neque civitas et vicus et non fit huiusmodi comparatio respectu eiusdem. Unde si dicitur mons parvus et granus milii magnum, mons non dicitur parvus respectu grani milii, neque granum milii dicitur magnum respectu montis, sed hoc in ordine ad alia grana milii, illud vero ad alios montes. Quare dictum illud, scilicet quod «magnum denominatur a posteriori numero quam parvum», intelligendum est si fiat [10ra] collatio respectu eiusdem, quare universaliter illud dictum non est verum, nisi sic coarctatumb. 2. Verum quaedam sunt quae certos fines et determinata dicunt. Quare de his oportet habere sermonem, de quorum numero sunt perfectio et imperfectioc, sive perfectum et imper[29b]fectum. Immo sciendum est sicut dicit Philosophus

a b

inquam] om. P. coarctatum] coartatum P.

c

imperfectio] imperfectum P.

SEZ. IV, CAP. I

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sperienza quotidiana. Infatti, conosco la metà di un legno che mi viene mostrato – la conosco come essa è nota e determinata – e so che un panno si duplica in due panni uguali; so, dico, che quel panno nella sua interezza è doppio rispetto alla metà e ignoro quale sia la quantità del panno e quale quella della sua metà. Se poi nei precedenti capitoli si è detto che il grande dista di più dal non quanto rispetto al piccolo – anzi che più correttamente prende la denominazione da un numero superiore rispetto al piccolo, poiché quella prima soluzione è vana e ridicola, come si è dimostrato in precedenza – tutto ciò è detto secondo la causa, ma non secondo la natura formale. Posso, infatti, intendere che la luna viene meno e che cosa sia la defezione della luna, anche se ignoro per che cosa essa viene meno. Così so che a è maggiore di b, sebbene ignori o percepisca che a prende la denominazione da un numero superiore rispetto a b; anzi, come dice Aristotele nei Praedicamenta,193 nel capitolo De quantitate, accade che il maggiore prenda la denominazione da un numero molto più piccolo del minore. In quel luogo Aristotele fornisce gli esempi, poiché, osserva, che noi diciamo che quel monte è piccolo e che quel granello di miglio è grande, pur essendo il monte senza proporzione più grande del granello di miglio. Diciamo che pochi uomini sono nella città e molti nel villaggio, sebbene siano molti di più quelli che sono nella città di quelli che sono nel villaggio. Ma in questi casi non si paragonano cose che appartengono allo stesso genere, perché il monte e il granello di miglio non sono generi prossimi, né lo sono la città e il villaggio e siffatta comparazione non è condotta rispetto al medesimo genere. Perciò se si dice piccolo il monte e grande il granello di miglio, il monte non è detto piccolo rispetto al granello di miglio, né il granello di miglio è detto grande rispetto al monte, ma lo è rispetto ad altri granelli di miglio e il monte lo è rispetto ad altri monti. Perciò quella proposizione ‘il grande prende la denominazione da un numero superiore rispetto al piccolo’ si deve intendere vera se si riferisce ad [10ra] un confronto rispetto al medesimo genere; ma essa non è vera universalmente, lo è solo se costretta entro tale limitazione. 2. Ma ci sono talune cose che indicano confini certi e che sono determinate. Perciò è necessario che si discuta di queste cose, tra le quali si annoverano la perfezione e l’imperfezione o il perfetto e l’imperfetto. [29b] Anzi si deve sapere, come dice

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

Physicorum, tractatu De infinito, et primo Caeli, 5, et X Metaphysicae et fere in innumerabilibus locis; quod perfectum est quod dicit complementum in una natura, ita quod nihil deficit, quod ad illam naturam pertineat, neque, ut in omnibus locis citatis dicit Aristoteles, potest fieri secundum illam naturam additio; quare si in tali natura est variabilitas secundum maius et minus, sive secundum magis et minus, nihil dicitur esse perfectum in illa natura, nisi quod omnia illa continet et totam distantiam pertransivit et totum occupavit. Quare cum natura caliditatis suscipiat augmentum extendendo nomen augmenti ad ipsam intensionem, nulla caliditas dicetur esse perfecta caliditas nisi totam distantiam pertransiverit, et sit in ultimo, cuius oppositum contingebat in intenso, quia aliqua caliditas poterat dici intensa respectu alterius, esta quod ad summum non pervenisset et in aliquo distaret a summo, quod nullo pacto fieri potest in perfecta caliditate. Quare si per aliquod deficeret a summo non dicetur perfecta caliditas, quia non est in ultimo, et ita non completa, et per consequens nec perfecta. 3. Ex quibus manifeste apparet quod perfectum, in quacumque natura sit, dicit determinationemb duorum extremorum, quare perfecta caliditas est, quae, incipiedo a non gradu, totum habet usque ad summum inclusive, imperfecta autem caliditas est quae non habet totum illud, neque illud continet. Et quoniam imperfectum perfecto opponitur privative, quae (ut X Metaphysicae dicitur) privativa talia dupliciter se habere possunt, vel enimc negant totum illud quod suum positivum ponit, vel solum partem. Si quidem negat totum, tunc non potest dici imperfecta caliditas, quia sic non est caliditas, sed bene potest esse frigiditas, quae pro nunc totam negat caliditatem, et per totam latitudinem distat a summo caliditatis, incipiendo etiam a non gradu eiusdem caliditatis. Quare talia opposita privative Aristoteles in eodem X Metaphysicae, dixit quod possunt appellari contraria, cum maxime distent, quia per perfectam distantiam distant. Si vero imperfectum non negat totum, sed solum III

a

est] esto P. determinationem] detererminationem P. b

c

enim] om. P.

SEZ. IV, CAP. I

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Aristotele nel III Physicorum, nel trattato De infinito, nel I De caelo, testo 5, nel libro X della Metaphysica e in pressoché innumerevoli luoghi, che il perfetto è ciò che esprime il completamento in una determinata natura, così che non viene a mancare nulla di ciò che appartiene a quella natura,194 né, come dice Aristotele in tutti i luoghi citati, può accadere che ci sia un’aggiunzione secondo quella natura; perciò se in essa c’è variazione secondo il maggiore e il minore o secondo il più e il meno, non vi è nulla che possa essere detto perfetto in quella natura a meno che non contenga tutte quelle variazioni e non ne abbia percorso tutta la distanza fino ad occupare il tutto. Perciò, poiché la natura del calore è suscettibile di accrescimento, estendendo il nome dell’accrescimento alla stessa intensità, nessun calore sarebbe detto calore perfetto a meno che non abbia attraversato tutta la distanza e sia giunto al termine ultimo. L’opposto accadeva in riferimento all’intenso, perché qualche grado di calore poteva dirsi intenso rispetto ad un altro, anche supposto che non fosse pervenuto al sommo e che in qualche modo distasse dal sommo; ciò non può accadere in alcun modo al calore perfetto, perché se manca di qualcosa rispetto al sommo non si dirà calore perfetto, perché non è giunto al termine ultimo e così non è completo e di conseguenza non è perfetto. 3. Da queste osservazioni appare manifestamente che il perfetto, in qualunque natura sia, indica la determinazione dei due estremi, per cui il calore perfetto è quello che, cominciando dal non grado, occupa l’intera estensione di gradazioni fino al sommo incluso e, invece, il calore imperfetto è quello che non occupa la totalità dell’estensione né la contiene. L’imperfetto si oppone al perfetto in termini di privazione, ma la privazione, come dice il libro X della Metaphysica, può essere di due tipi: o nega tutto ciò che il positivo corrispondente pone o nega solo una parte.195 Se nega il tutto, allora il caldo non può dirsi imperfetto, perché in tal caso non è caldo, ma può ben essere freddo che per ora nega la totalità del caldo e si allontana dal sommo per tutta l’estensione di gradazioni, cominciando anche dal non grado del medesimo caldo. Perciò Aristotele nel medesimo libro X della Metaphysica ha detto che tali opposti per privazione non possono avere l’appellativo di contrari perché, essendo separati in misura massima, distano tra loro per una distanza perfetta.196 Se, invece, l’imperfetto non nega il tutto, ma solo la parte, in tal caso

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

partem, ita quod intelligatur imperfecta caliditas, non quae nihil habet de caliditate, sed solum quae partem caliditatis habet, sed non completam, quia adhuc non devenit ad ultimum gradum et complementum; tunc igitur partem habet illius distantiae sive occupavit et partem occupatura est. Cum autem, ut dicitur in II De generatione animalium, natura incipiat ab imperfecto et tendit in perfectum, sicut in generatione hominis, primo vita est plantae, deinde bestiae, deinde hominis, et I et IX Metaphysicae, quae tempore sunt priora perfectione sunt posteriora et, quae tempore posteriora, perfectione priora. Sic deficiens a perfecta caliditate et partem retinens ipsius caliditatis habet aliquod de distantia incipiente a non gradu, sive occupavit de illa et quantum de illa occupavit, tantae perfectionis dicetur esse, ut si medietatem illius dicetur quidem perfecta caliditas, non quidem simpliciter, sed secundum quid, quia secundum medietatem; si quartam occupa]30a]verit, dicetur perfecta secundum quartam et sic de aliis suo modo dicatur per quantum vero deficiet per tantum dicetur esse imperfecta et defectuosa, quare si deficiet et distabit per medietatem, dicetur defectuosa per medium, si per quartam per quartam, et sic de aliis proportionabiliter. 4. Perfectio igitur caliditatis habet attendi penes appropinquationem ad summum. Nam perfectum et imperfectum opponuntur privative, quod autem nihil habet de perfectione caliditatis illud per totam latitudinem incipientem a non gradu usque ad summum distat. Quare perfecta caliditas nihil distabit a summa caliditate, per nihilque differet a summa caliditate, cum ipsa sit summa, quare perfecte appropinquabit, quia nihil inter summum et ipsum cadit medium, quae quidem erat prima significatio propinquitatis superius posita, maxime etiam appropinquabit summae, quia non differet ab ea in gradu, cum maxime cum ea conveniat, cum sit omnino similis; quare perfectio habet attendi penes appropinquare ad summum, id est nihil distare a summo et a fine et ab ultimo, eo quod nihil cadit medium, nullaque est dissimilitudo, quae erat secunda significatio appropinquationis; imperfectio autem (si privatio negat totum) sensus est quod nihil

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per caldo imperfetto si intende non quello che non ha nulla del calore, ma quello che ne ha solo una parte, ma non è completo perché non è ancora giunto all’ultimo grado e al completamento; quindi possiede o ha occupato una parte di quella distanza, ma è in procinto di occuparne un’altra parte. Ma la natura, come è detto nel II De generatione animalium, comincia dall’imperfetto e tende al perfetto, come accade nella generazione dell’uomo; dapprima c’è la vita delle piante, poi quella delle bestie e infine quella dell’uomo.197 Nel libro I e nel IX della Metaphysica Aristotele dice che le cose che sono anteriori nel tempo sono posteriori per perfezione e quelle che sono posteriori nel tempo sono anteriori per perfezione.198 Così l’imperfetto, essendo manchevole del caldo perfetto e possedendo una parte di quello stesso caldo, ha qualcosa della distanza che comincia dal non grado ovvero l’ha occupata, e per quanto ne ha occupata, per tanto si dirà essere perfetto; così se si dirà caldo perfetto la sua metà, non si dirà in assoluto, ma in senso relativo, ovvero si dirà perfetto per la metà; se ha occupato [30a] un quarto della distanza si dirà perfetto per la quarta parte e così si dica per le altre parti nel modo dovuto; per quanto, invece, sarà manchevole per tanto si dirà imperfetto e difettoso; perciò se mancherà della metà o se disterà della metà si dirà difettoso per la metà, se mancherà della quarta parte si dirà manchevole per la quarta parte e così analogamente per le altre parti. 4. Dunque, la perfezione del calore va attesa dalla vicinanza al sommo. Infatti, il perfetto e l’imperfetto si dicono opposti per privazione. Ciò che non ha nulla della perfezione del calore dista per tutta l’estensione che comincia dal non grado e termina al sommo. Perciò il caldo perfetto non si allontanerà affatto dal caldo sommo, essendo esso stesso il caldo sommo, ma si avvicinerà perfettamente ad esso, perché tra sé stesso e il sommo non intercorre nessun intermedio; e questo era il primo significato più sopra199 proposto. Il caldo perfetto si avvicina in misura massima al sommo perché non differisce da esso in gradazione, concordando in misura massima con esso ed essendo del tutto simile ad esso; pertanto la perfezione si deve attendere dall’avvicinarsi al sommo, cioè dal non distare per nulla dal sommo, dal fine e dal termine ultimo, perché non intercorre nessun intermedio e la dissomiglianza è nulla; questo era il secondo significato di ‘vicinanza’. Il significato dell’imperfezione, invece, se la privazione

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habet de caliditate, quare per totam latitudinem distat, et ex toto, qua caliditas est, dissimilis est, et sic habet attendi penes distantiam maximam, quia tota clauditur et nulla pars excluditur, quod erat secundum primum significatum distantiae et ex toto differt in ratione caliditatis, quod erat secundum significatum [10rb] distantiae. 5. Si vero per imperfectum non intelligamus negationem totius distantiae et perfectionis, erit igitur secundum quid perfecta et secundum quid imperfecta; per tantum autem erit perfecta per quantum occupaverit de latitudine incipiente a non gradu usque ad gradum, in quo reperitur. Hoc autem est pro appropinquare tantum ad summum, unde per tantum appropinquat summo per quantum negat de distantia a non gradu usque ad summum. Nam gradus ut sex dicitur appropinquare gradui ut 8, non quidem per duos, ut superius demonstratum est, quia per illos distat, sed per sex, quia appropinquare privative opponitur ad distare, privatio negat habitum vel illud quod habitus ponit. Cum ergo distantia perfecta sit illa quae est inter non gradum et summum, appropinquatio negat illam, non autem totam, quia gradus ut sex, adhuc per duo distat a summo. Ergo totam illam quae est ante sex, haec autem est ut sex, quia si appropinquatio negat distantiam, non illam, quae est inter sex et octo, ergo illam, quae est inter sex et non gradum. Ergo ista erit appropinquatio ut sex, quod erat secundum primum significatum appropinquationis. Appropinquat etiam per sex, quia convenit per sex. Nam caliditas ut sex convenit cum ea ut octo per sex, ut satis patet, quod era secundum significatum appropinquationis. Et sic perfectio ista in caliditate diminuta attenditur secundum appropinquationem ad ultimum, id est per negationem distantiae a non gradu et per convenientiam quam habet cum [30b] summo. Imperfectio vero secundum distantiam a summo, id est per quantuma deficiet a summo et differet a summo, quae sunt duo prima significata distantiae. Sumatur ergo caliditas ut sex, haec non est perfecta, quia simpliciter non appropinquat summae, dumb mediat aliquid inter ipsam et summam et cum differat a summa, neque est extremaliter imperfecta, quia per totum distaret a summa, sed secundum quid perfecta et secun-

a

quantum] qaantum P.

b

dum] cum P.

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nega il tutto, è che essa non ha nulla del calore, perché ne è lontano per tutta l’intera estensione ed è del tutto dissimile da ciò che è il caldo, e così deve attendersi dalla distanza massima, che è del tutto compiuta, nessuna parte esclusa. Tale era l’imperfetto secondo il primo significato di distanza; esso differisce del tutto dalla natura del calore, che era il secondo significato [10rb] di distanza. 5. Se, invece, con imperfetto non intendiamo la negazione di tutta la distanza e di tutta la perfezione, allora sarà perfetto rispetto ad alcunché e imperfetto rispetto a qualcos’altro; sarà tanto perfetto quanta sarà l’estensione occupata a partire dal non grado fino al grado in cui esso si trova. Ma ciò significa che esso approssima di tanto il sommo; perciò per tanto si avvicina al sommo per quanto nega della distanza dal non grado fino al sommo. Infatti, il grado sei si dice avvicinarsi al grado otto non certo per due, come più sopra si è dimostrato, perché per due dista, ma si avvicina per sei perché l’approssimarsi si oppone privativamente al distare e la privazione nega il possesso o ciò che è posto dal possesso. Poiché, dunque, la distanza perfetta è quella che c’è tra il non grado e il sommo, l’avvicinarsi nega quella distanza, ma non tutta intera, perché il grado sei dista ancora dal sommo di due, quindi nega tutta quella che è prima del sei, cioè quella che è di grado sei, perché, se l’avvicinarsi nega la distanza, non nega quella che è tra il sei e l’otto, ma nega quella che è tra il sei e il non grado. Questo, dunque, sarà l’avvicinamento del grado sei che era tale secondo il primo significato di vicinanza. Si avvicina di sei perché si accorda per sei. Infatti, il caldo di grado sei si accorda con quello di grado otto per sei, com’è abbastanza evidente; e questo era il secondo significato di vicinanza. E così questa perfezione di calore attenuato si attende dall’approssimazione al termine ultimo, cioè dalla negazione della distanza dal non grado e dalla concordanza con [30b] il sommo. L’imperfezione, invece, è attesa dalla distanza dal sommo, cioè per quanto mancherà e si differenzierà dal sommo, che sono i primi due significati di distanza. Si prenda, dunque, il caldo di grado sei, questo non è perfetto perché non si approssima del tutto al caldo sommo. Poiché tra sé e il sommo c’è un intermedio, si differenzia dal sommo, né è estremamente imperfetto, perché altrimenti disterebbe del tutto dal caldo sommo, ma è perfetto rispetto ad alcunché e imperfetto rispetto a qualcos’altro: è

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dum quid imperfecta; est autem perfecta ut sex et per consequens secundum quid, quia appropinquat per sex ad summam; nam cum summa distantia quae esse possit in tali latitudine sit ut octo, occupavit ista sex gradus et sex pertransivit; quare negat sex gradus illius distantiae; hoc autem est appropinquatio, quia opponitur privativea ipsi distantiae, appropinquat etiam per sex quia convenit per sex per tantum enim convenit per quantum ipsa est. Est autem data caliditas ut sex imperfectionis ut duo, quia distat per duo; differt etiam per duo et ita proportionabiliter dicatur de omnibus aliis gradibus. 6. Et sicut dictum est de caliditate, ita dicatur de frigiditate, humiditate, lumine et de quacumque natura taliter variabili secundum magis et minus, sive secundum maius et minus, scilicet quod perfectio habet attendi penes appropinquationem ad summum, imperfectio vero penes defectum et distantiam ab eodem summo. Sic quod illud erit perfectum absolute, quod nihil a summo deficiet, et ex toto erit simile summo, immo erit ipsum summum. Imperfectum vero quod ab eo deficiet et ab ipso differet et hoc dupliciter vel simpliciter vel secundum quid. Simpliciter quidem quod per totum distabit, sic quod nihil latitudinis occupavit et ut sic ex toto differt. Secundum quid autem imperfectum est quod partem occupavit et partem non occupavit, per quantum vero occupaverit incipiendo a non gradu distantiae per tantum dicetur perfectum. Hoc autem est appropinquare, quia negare illam distantiam per quantum autem non occupaverit, per tantum dicetur imperfectum et defectuosum, quia per tantum distabit a summo. Quare universaliter perfectio attenditurb penes appropinquationem ad summum. Imperfectio et defectus penes distantiam ab eodem summo. 7. Verum scire oportet quod, etsi perfectum dicat ultimum et finem et perfectionem, ut expresse vult Aristoteles III Physicorum, tractatu De infinito, et X Metaphysicae (ubi vult quod contingit antiquis ponentibus infinitum esse principium, quia solum infinitum est perfectum, cum finito possit fieri additio), dico eis contingit oppositum, quia perfectum inquit ibi est quod ad ultimum et ad finem venit; dico tamen quod etiam infinitum apud Aristotelem capit denominationem quoquo modo perfecti. a

privative] privatio P.

b

attenditur] om. P.

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perfetto nella misura di sei e di conseguenza è perfetto in senso relativo, perché si approssima di sei al caldo sommo. Infatti, poiché la distanza somma che può esserci in tale estensione è otto, esso ne ha occupato sei gradi, ovvero ha attraversato sei gradi; perciò nega sei gradi di quella distanza. Ma ciò coincide con la vicinanza; e poiché questa si oppone per privazione alla stessa distanza, si avvicina anche di sei perché concorda per sei. Infatti, per tanto concorda per quanto è esso stesso. È, dunque, un caldo determinato di grado sei e di imperfezione di due, perché dista dal sommo di due e differisce di due. Così analogamente si dica per tutti gli altri gradi. 6. Come si è detto del caldo così si dica del freddo, dell’umidità, della luminosità e di qualunque altra natura variabile in tal modo secondo il più e il meno o secondo il maggiore e il minore. In tutti i casi il perfetto si deve attendere dalla vicinanza al sommo e l’imperfetto dalla mancanza e della distanza dal medesimo sommo. Così sarà perfetto in assoluto ciò che non mancherà di nulla rispetto al sommo e sarà ad esso del tutto simile, anzi sarà esso stesso il sommo. L’imperfetto, invece, è ciò che manca del sommo, se ne differenzia sia in assoluto sia relativamente. È imperfetto in assoluto se dista per intero dal sommo, per non aver occupato nulla dell’estensione e per esserne del tutto differente. È imperfetto relativamente se occupa una parte di quella estensione e per quanta distanza occupa partendo dal non grado per tanto si dirà perfetto. Ma questo è avvicinarsi, perché è negare quella distanza. Per quanto, invece, non occupa quella distanza per tanto si dirà imperfetto e manchevole, perché per tanto dista dal sommo. Perciò in generale la perfezione si attende dalla vicinanza al sommo, l’imperfezione e il difetto dalla distanza dal medesimo sommo. 7. Ma è necessario sapere che anche se il perfetto coincide con il termine ultimo, con il fine e con la compiutezza, come esplicitamente vuole Aristotele nel III Physicorum, nel trattato De infinito,200 e nel libro X della Metaphysica – ove spiega ciò che capitò agli antichi i quali supponevano che l’infinito è un principio e che solo l’infinito è perfetto, essendo il finito suscettibile di aggiunzione – dico che ad essi capitò di sostenere l’opposto, poiché perfetto è, come egli scrive, ciò che viene a compimento e a termine.201 Ma io aggiungo che anche per Aristotele l’infinito assume in qualche modo la denominazione di perfetto, perché

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V namque Metaphysicae cum definivisset perfectum dicens esse perfectum id extra [31a] quod non est aliquid accipere quod sit eius particula exemplificat de tempore; modo apparet quod simpliciter nullum tempus potest esse perfectum nisi infinitum, quod si dicatur de tempore determinato esse sermonem, utputa quod una dies est perfecta, sicut expo[10va]sitor exposuit vel de tempore mensurante aliquod finitum, ut vitam humanam, ut Commentator ibi declaravit, saltem non possumus fugere illud octavi De physico auditu, ubi declaravit quod solus motus circularis perfectus est, qui quidem motus secundum Aristotelem infinitus est. Quare negare non possumus quin illud, cuius natura in infinitum protenditur, dicatur esse perfectum; unde tempus est perfectum, non quidem quod pervenit ad finem, sed quod totum continet. Nam solum tempus aeternum perfectum est, quia in se omne tempus continet. Diciturque esse completum, non quia positive ad finem perveniat, sed quia nihil deest, extraque ipsum non potest fieri additio, cum extra non habeat. Consimiliter solus motus aeternus dicitur esse perfectus hoc modo, quia totum continet. 8. Qualiter autem solvi habeat illud tertii Physicorum non est praesentis negotii. Nam aequivocatio est de perfecto, et pleni sunt codices theologorum. Nam (ut divus Thomas in primo articulo quaestionis quartae partis primae dicit ex sententia Gregorii) balbutiendo ut possumus excelsa Dei resonamus; perfectio Deo attribuitur improprie, quia proprie perfectum est quod complete factum est, quod minime de Deo excogitari potest; tamen transumptive perfectio Deo attribuitur, quia nihil deest, quod ad naturam deitatis pertineat, sicut caliditas quae est in ultimo, habet quicquid naturae caliditatis conveniat. Quare infinito perfectio attribui potest, si quicquid ad rationem infiniti pertineat, habet. Si qua igitur latitudo infinita est, sicut aliqui credunt latitudinem velocitatis motus esse infinitam, et latitudinem entis, cum Deum infinitae perfectionis ponant, dicemus perfectionem entis attendi penes accessum ad summum, quia penes habere quicquid est in tali latitudine, et nihil deficere de illa latitudine, imperfectionem vero penes non habere quicquid in tali est lati-

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nel libro V della Metaphysica, avendo definito il perfetto dicendo che esso è ciò fuori [31a] del quale non c’è altro che sia una sua minuscola parte, adduce esempi relativi al tempo;202 anzi se ne deduce che assolutamente nessun tempo può essere perfetto, tranne quello infinito. Ché se si dicesse che il discorso verte sul tempo determinato, quale è quello di un giorno compiuto, come spiega Averroè, [10va] o se ci si riferisce ad un tempo che misura alcunché di finito, come la vita umana, come ivi dichiara lo stesso Averroè, non potremmo neppure sfuggire alla ben nota osservazione dell’VIII Physicorum, ove Aristotele dichiara che è perfetto solo il moto circolare, che dal medesimo filosofo è ritenuto infinito.203 Perciò non possiamo negare che si dica perfetto ciò la cui natura si protende all’infinito. Pertanto il tempo è perfetto non perché giunge alla fine, ma perché contiene tutto. Infatti, solo il tempo eterno è perfetto, perché contiene in sé tutto il tempo. Si dice che è completo non perché pervenga positivamente al completamento, ma perché non manca di nulla e perché fuori di esso, non essendoci un ‘fuori’, non può esserci nessuna aggiunzione. Similmente solo il movimento eterno è detto perfetto in questo modo, perché contiene il tutto. 8. Quale poi possa essere la soluzione di ciò che è detto nel III Physicorum non rientra nella presente trattazione. Infatti, del perfetto si parla in termini di omonimia e i codici dei teologi ne sono pieni. Come dice S. Tommaso nell’articolo I della questione IV della prima parte,204 riprendendo una opinione di Gregorio: balbettando, come possiamo, esaltiamo la dignità di Dio, ma la perfezione si attribuisce impropriamente a Dio, perché perfetto è ciò che è stato prodotto in maniera completa; in questi termini essa non può essere affatto attribuita a Dio. La perfezione si attribuisce a Dio in senso traslato, perché Dio non manca di nulla e ciò è pertinente alla natura divina; così il caldo, che è completo, possiede qualcosa che si accorda con la natura del calore. Perciò la perfezione può essere attribuita a ciò che è infinito se ha alcunché della natura dell’infinito. Se c’è un’estensione infinita di gradazioni – e taluni ritengono sia infinita l’estensione della velocità del moto – infinita è anche l’estensione dell’essere, e poiché essi suppongono che Dio sia di perfezione infinita, diremo che la perfezione dell’essere deve attendersi dall’accesso al sommo, cioè per il fatto di avere qualche gradazione in tale estensione e dal non mancare di nulla di tale estensione; l’imperfezione, in-

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tudine, et si imperfecta est, quia non totum habeat, per quantum igitura continebit de tali latitudine tantae dicetur esse perfectionis per quantum vero deficiet, tantae dicetur esse imperfectionis. Quare universaliter in omni latitudine sive sit finita, sive infinita. Si quaeb infinita dari potest, perfectio habet attendi penes totum continere, imperfectio vero penes ab illo distare. Sed ulterius advertendum est quod si intensio et remissio, qua talia sunt, non respiciunt determinatos terminos, sicut supra dictum est, quod tamen faciunt perfectio et imperfectio; tamen multoties sumitur in[31b]tensio pro perfectione et remissio pro imperfectione. Quare sicut dicitur quod perfectio habet attendi penes appropinquationem ad summum, imperfectio vero penes distantiam a summo, sic dicitur intensionem attendi penes appropinquationem ad summum. Remissio vero penes distantiam ab eodem summo, accipientes intensionem pro perfectione, remissionem vero pro imperfectione. Quare si prima opinio, in principio recitata et a Calculatore reprobata, est opinio Aristotelis (ut communiter existimatur) per intensionem intellexit perfectionem et per remissionem imperfectionem. 9. Immo secunda opinio est praecise eadem cum prima, nam in latitudine caliditatis, verbi gratia, accepto gradu ut sex, dicimus esse intensionis, id est perfectionis ut sex secundum primam opinionem, quia appropinquat gradui ut octo per sex, quia cum tota distantia quae est inter non gradum et summum sit ut octo, ut nunc supponitur. Sextus gradus occupavit sex partes, et ita negat sex partes distantiae, quod est appropinquare, nam per sex appropinquare opponitur privative ad distare, et privativum interimit quod habitus ponit; placuit autem secundae opinioni talem appropinquationem appellare distantiam, sed non a summo, quia penes illud attenditur remissio et imperfectio, sed a non gradu, nonc quia inter gradum ut sex et non gradum mediant sex gradus. Hoc enim omnino impossibile est, ut demonstratum est superius. Sed quia sex continet sex gradus, sive sex mensuras illius latitudinis incipientis a non gradu, eo modo superius declaratum est, gradus ergo ut sex appropinquat gradui ut octo [10vb] per sex, quia negat distantiam latitudinis ut sex, et distat a non gradu per sex, id est latitudo ut sex sive

a

igitur] om. P.

b

quae] qua P.

c

non] om. P.

SEZ. IV, CAP. I

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vece, si deve attendere dal non avere alcuna gradazione in tale estensione; e se è imperfetta perché non ha tutta l’estensione, per quanto conterrà di essa per tanto si dirà perfetta e per quanto ne mancherà per tanto sarà detta imperfetta. In generale in ogni estensione le gradazioni sono o finite o infinite. Se si può ammettere un’estensione infinita di gradazioni, la perfezione si deve attendere dal contenere la totalità, l’imperfezione dall’esserne distante. Ma oltre a ciò si deve volgere l’attenzione al fatto che se l’intensità e l’attenuazione, in quanto tali, non si riferiscono a termini determinati, come sopra si è detto, la perfezione e l’imperfezione, invece, si riferiscono a tali termini. Tuttavia molto spesso l’intensità [31b] è presa nell’accezione di perfezione e l’attenuazione di imperfezione. Perciò, come la perfezione deve attendersi dalla vicinanza al sommo e l’imperfezione dalla distanza da esso, allo stesso modo l’intensità si deve attendere dalla vicinanza al sommo e l’attenuazione dalla distanza dal medesimo, prendendo l’intensità nell’accezione di perfezione e l’attenuazione nell’accezione di imperfezione. Perciò se la prima opinione esposta all’inizio e respinta dal Calcolatore è di Aristotele, come comunemente si crede, allora lo Stagirita ha inteso per intensità la perfezione e per attenuazione l’imperfezione. 9. Anzi, la seconda opinione è esattamente identica alla prima. Infatti, preso, per esempio, il grado sei nell’estensione del calore, diciamo che è di intensità, cioè di perfezione, sei secondo la prima opinione, perché si avvicina al grado otto di sei, posto che otto, come ora supponiamo, sia la distanza totale che c’è tra il non grado e il grado sommo. Il sesto grado occupa sei parti e così nega sei parti della distanza, e questo è avvicinarsi; infatti, l’avvicinarsi di sei si oppone per privazione al distare e la privazione sopprime ciò che il possesso pone. Ai sostenitori della seconda opinione piacque chiamare tale avvicinamento distanza, ma non dal sommo, perché da essa si attende l’attenuazione e l’imperfezione, ma dal non grado e non perché tra il grado sei e il non grado ci sono sei gradi intermedi (ciò che, come si è dimostrato più sopra,205 è affatto impossibile), ma perché il sei contiene sei gradi, cioè sei misure di quell’estensione che comincia dal non grado, nel modo che si è sopra stabilito, cioè nel senso che il grado sei si avvicina al grado otto [10vb] di sei, perché nega la distanza dell’estensione di grado sei, dista dal non grado di sei, cioè nega l’estensione di sei gradi ed è una qualità di grado

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qualitas ut sex, cuius numeratio a non gradu incipit. Quo fit ut secunda in sententia non differat a prima, nisi in modo loquendi, liceta primus modus sit magis appropriatus. Sed quod non sine ratione intensio pro perfectione accipiatur et remissio pro imperfectione, apparere potest et ratione et ex communi usu. Nam dicimus caliditatem quamcumque deficientem a summa esse remissam absolute, quia non perfectam. Unde Aristoteles, et in fine primi De generatione et in secundo eiusdem, dicit qualitates elementorum esse intensas et perfectas. Mixtorum vero remissas refractas et imperfectas, quasi intensum et perfectum accipiens pro synonymis et remissum et imperfectum similiter, licet hoc magis appareat in remisso quam in intenso; communiter enim cum dicimus aliquod aurum aut argentum aut caliditatem aut huiusmodi esse remissamb, statim in intellectu concipitur in ordine ad summum non essec summa. Ratio quoque adiuvat ad hoc. Nam vere illud dicitur esse magnum quod nulli comparatum est parvum et nullo modo suscipit denominationem sui oppositi. Sic enim solus mundus dicitur magnus simpliciter, quia, primo De caelo, nul[32a]li est parvus. Solus Deus est dominus, quia nulli servus, ut quotidie cantat orthodoxa ecclesia, sic solum illud dicitur intensum quod nulli remissum est. Hoc autem solum potest esse summum, quod solum perfectum est. Quare perfectum et intensum absolute idem sunt. 10. Ex quibus ulterius sequitur quod si perfectum imperfecto opponitur et remissum intenso, si intensum et perfectum convertuntur, remissum et imperfectum convertentur. His accedit quod in idiomate latinorum non latine dicitur intensio, sed intentio latine debet dici. Nam derivatur ab intentus intenta intentum, et a genitivo eius intenti. Unde addito o fit intentio et non intensio. Modo intentio est actus voluntatis secundum finem, ut dicitur tertio Ethicorum, ut cum quis vult aliquem finem ut domum vel argentum, vel aliquod aliud illud dicitur esse eius intentio. Quare finis rei dicitur intentio volentis, sed finis est ultimum, II Physicorum, unde intentio in voluntate importat ultimum. Si

a b

licet] nisi P. remissam] remissa P.

c

esse] est P.

SEZ. IV, CAP. I

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sei, la cui numerazione comincia dal non grado. Per cui accade che la seconda opinione non differisce dalla prima se non nel modo di esprimersi, sebbene il primo dei due modi sia quello più appropriato. Che poi non senza ragione l’intensità sia presa nell’accezione di perfezione e l’attenuazione di imperfezione, può risultare evidente sia con la ragione sia per l’uso comune. Infatti, diciamo che qualunque calore che manchi del sommo è in assoluto attenuato, perché non è perfetto. Perciò Aristotele alla fine del I De generatione e nel secondo libro della stessa opera dice che le qualità degli elementi sono intense e perfette,206 quelle dei misti sono invece opposte e imperfette, come se assumesse come sinonimi l’intenso e il perfetto e similmente l’attenuato e l’imperfetto, sebbene ciò sia più evidente nell’attenuato che nell’intenso. Comunemente, infatti, quando diciamo che qualcosa di oro o di argento o di caldo o di qualità siffatte è attenuato, subito nella mente è concepito come non sommo in relazione al sommo. Anche la ragione ci viene incontro in ciò. Ed invero si dice grande ciò che non è piccolo nel confronto con nient’altro e non assume in nessun modo la denominazione del proprio opposto. In tali termini, infatti, solo il mondo si dice grande in assoluto, perché, come è scritto nel I De caelo, non è piccolo [32a] rispetto a nient’altro.207 Solo Dio è il signore, perché non è servo di nessuno, come quotidianamente ripete la chiesa ortodossa. Così si dice intenso solo ciò che non è attenuato rispetto a nient’altro. Solo, dunque, ciò che è perfetto può essere sommo. Perciò il perfetto e l’intenso sono assolutamente la medesima cosa. 10. Da quanto si è detto segue che, se il perfetto si oppone all’imperfetto, anche l’attenuato si oppone all’intenso; se il perfetto e l’intenso sono convertibili l’uno nell’altro, lo sono anche l’attenuato e l’imperfetto. A questo si aggiunge che nella lingua latina si dovrebbe dire più propriamente intentio e non intensio. L’intensità, infatti, deriva da intentus intenta intentum e dal genitivo intenti, che con l’aggiunta di una o diventa intentio e non intensio.208 Ora intentio è l’atto della volontà in funzione di un fine, come è detto nel libro III dell’Ethica:209 «Ciò che qualcuno persegue come fine, come la casa o l’argento o qualsiasi altra cosa, è ciò che è detto il suo proponimento». Perciò si dice fine della cosa l’intenzione del volente; ma il fine, come emerge dal II Physicorum, è il termine ultimo,210 ragion per cui l’intenzione

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autem, ut sexto Topicorum dicitur, transferentes transferunt secundum similitudinem, et immotibus et in qualitatibus dicatur intentio proprie intentio dicetur in ultimo et in gradu summo. Quare non inconvenienter intentio dicta in qualitatibus, summum dicet, et sic penes summum attendetur. Verum philosophi magis de rebus quam nominibus curam habentes, dixerunt intentionem in mente et intensionem in qualitatibus ut facerent differre unum ab alio. Veruntamen aliqui volunt quod intentio in voluntate sumatur ab intentione in qualitate, sed adhuc nostrum propositum magis confirmatur. 11. Utrum autem sumendo distare et appropinquare pro magis et minus distare respectu summi, quod erat secundum tertium significatum, possit attendi perfectio et imperfectio, inferius declarabitur quia etsi etiam penes illud possit fieri mensuratio, non tamen essentialiter et per se, sed de hoc in capitulo mediatea subsequente. CAPUT II IN QUO OSTENDITUR IN UNAQUAQUE MATERIA VARIABILI SECUNDUM MAIUS ET MINUS SIVE SECUNDUM MAGIS ET MINUS ESSE DUAS MENSURAS SIVE DUO GENERA MENSURANDI

1. Ex his, quae in capitulo praecedente dicta sunt et quae in tertia sectione declarata sunt, apparere potest quod in unaquaque natura taliter variabili secundum maius et minus, sive secundum magis et minus sunt duae mensurae, immo verius duo genera mensurandi. Dictum est enim superius quod in latitudine caliditatis est una minima caliditas, vel secundum naturam vel secundum sensum vel secundum institutionem. Hac autem mensuramus quanta sit unaquaeque caliditas, an finita vel infinita, an duorum vel trium graduum, vel secundum alium numerum, neque per hanc possumus scire quae caliditas sit perfecta vel imperfecta, nisi sciverimus quanta sit tota latitudo [32b] caliditatis, scilicet numerus, qui requiritur ad complendum naturam caliditatis. Alia vero est mensura in ipsa caliditate, quae est illa

a

mediate] mediante P.

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SEZ. IV, CAP. II

implica nella volontà un termine ultimo. Se, invece, come si dice nel VI Topicorum, coloro che ricorrono ad una metafora fanno una trasposizione sulla base di una somiglianza,211 si parlerà di intenzione anche a proposito dei movimenti e delle qualità e si dirà che l’intenzione è propriamente nel termine ultimo e nel grado sommo. Perciò non è assurdo che si parli di intenzione a proposito della qualità e si dirà che essa è il sommo e che si attende dal sommo. Ma i filosofi che si preoccupano più delle cose che dei nomi, usarono il termine intenzione per la mente e intensità per le qualità in modo da distinguere l’una dall’altra. Altri vogliono che l’intenzione riferita alla volontà sia derivata dall’intensità riferita alla qualità; ma anche posta in questi termini la loro soluzione conferma ancor più il nostro proposito. 11. Più avanti212 si dichiarerà se, assumendo il distare e l’avvicinarsi nell’accezione di ‘distare di più’ e ‘distare di meno’ rispetto al sommo – questo era il terzo significato – si possano attendere la perfezione e l’imperfezione. Ma anche se in virtù di tale assunzione può esser fatta una misurazione, non la si può fare per essenza e di per sé. Parleremo di ciò nel capitolo seguente. CAPITOLO II SI DIMOSTRA CHE IN QUALUNQUE MATERIA SOGGETTA AD ALTERAZIO-

NE, SECONDO IL MAGGIORE E IL MINORE O SECONDO IL PIÙ E IL MENO, DUE SONO LE MISURE O DUE SONO I GENERI DEL MISURARE

1. Da ciò che nel capitolo precedente si è detto e da ciò che è stato chiarito nella terza sezione, emerge che in ciascuna natura, soggetta a tali alterazioni secondo il maggiore o minore o secondo il più o il meno, ci sono due tipi di misure, anzi più correttamente due generi di misurazioni. Si è, infatti, detto più sopra213 che nell’estensione del calore c’è un caldo minimo o secondo natura o secondo la sensazione o per convenzione. Con questo caldo minimo misuriamo quanto sia ciascun caldo, se è finito o infinito, se sia di due o tre gradi o di un altro numero di gradi, ma non possiamo sapere per suo mezzo quale caldo sia perfetto o imperfetto, se non sapremo quanto sia grande tutta l’estensione di gradazioni del calore [32b], cioè quale sia la misura richiesta a completamento della natura del calore. Un’altra misura del-

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quae totam continet naturam et est gradus summus, per hanc autem non [11ra] mensuramus per se quanta sit aliqua caliditas, sed mensuramus per hanc perfectionem et imperfectionem caliditatis. Sic quod illa quae huica adaequabitur, dicetur esse perfecta; quae vero ab hac deficiet, dicetur esse imperfecta, et sic secundum appropinquationem ad ipsam et eius distantiam iudicabitur de perfectione et imperfectione eius ad modum in anteriori capitulo assignatum. 2. Differunt autem haec duo genera mensurarum penes multa. Primo quia stat aliquem habere perfectam cognitionem unius, ignorando alteram et e contra, sicut in multis est manifeste videre. Nam aliquis potest habere cognitionem ulnae, quia panni mensurantur et qua ligna mensurantur; ignorare tamen quantus esse debet unus pannus integer et aliquis miles experientia cognoscet quod lancea perfecta debet esse tanta sicut estb illa; ignorare tamen quot ulnarumc sit illa lancea, cognitio tamen unius mensurae perficit cognitionem alterius mensurae. Differunt etiam prima et secunda mensura, quia prima est minima in illo genere, secunda vero est maximad. Differunt tertio, quia prima potest certificarie quanta sit illa maxima, ut an finita vel infinita, an decem an viginti mensurarum; secunda vero non certificat de prima, nisi de eius imperfectione. Differunt et quarto, quia prima est mensura cognoscendi quantum est, secunda est regula cognoscendi an sit perfectum vel sit imperfectum. Quare prima potest appellari mensura numerandi, secunda mensura certificandi de perfectione. De his duabus mensuris Aristoteles mentionem fecit in X Metaphysicae. Nam textuf commenti tertii dicit unitatem esse certissimam mensurarum ex eo quod est simpliciter indivisibilis; in continuis autem oportet devenire ad unum quod sit minimum vel secundum naturam, vel secundum sensum vel secundum institutionem quantum possibile sit, quia mensura debet esse certa. De secunda autem mensura Aristoteles dixit in textu commenti septimi eiusdem decimi, ubi dicit quod in unoquoque genere est unum quod est metrum et mensura aliorum omnium, quae sunt illius generis, et illud est primum. Sicut in genere colorum est albedo. Sicut idem Arisa

d

b

e

huic] om. T. est] et T. c ulnarum] vulnarum T.

secunda vero est maxima] om. P. certificari] certificare P. f textu] textus P.

SEZ. IV, CAP. II

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lo stesso calore è quella che contiene tutta la sua natura ed è il grado sommo; per questa però non [11ra] misuriamo quanto sia per sé un certo caldo, ma misuriamo per mezzo di questa perfezione o imperfezione del calore. Sicché quello che è uguale al sommo, sarà detto perfetto, quello, invece, che manca rispetto ad esso sarà detto imperfetto, e così per approssimazione al sommo e per distanza da esso si giudicherà della sua perfezione e imperfezione nel modo indicato nel capitolo precedente. 2. Differiscono altresì questi due generi di misure per molti aspetti. In primo luogo è certo che si possa avere conoscenza di una cosa, ignorandone un’altra e viceversa, come si può constatare chiaramente in molti casi. Infatti, qualcuno può avere conoscenza di un braccio, perché con esso si misurano i panni e la legna e tuttavia può ignorare quanto deve essere grande il panno intero. Anche un soldato conoscerà per esperienza che la lancia perfetta deve essere così grande come è quella e tuttavia può ignorare di quante braccia sia quella lancia. Tuttavia la conoscenza di una misura perfeziona la conoscenza della misura dell’altra. La prima e la seconda misura differiscono anche perché la prima è la più piccola nel proprio genere, la seconda, invece, è la massima. In terzo luogo quelle misure differiscono perché della prima si può dire con certezza quanto sia grande quella misura massima, se sia finita o infinita, se sia di dieci o venti misure; la seconda, invece, non dà certezza della prima, tranne che della sua imperfezione. Differiscono anche in un quarto modo, perché la prima è la misura che ci fa conoscere la quantità, la seconda è la norma che ci fa conoscere se sia perfetta o imperfetta. Perciò la prima può avere l’appellativo di misura del calcolo, la seconda di misura certificante la perfezione. Di tali due misure Aristotele fece menzione nel libro X della Metaphysica. Infatti, nel testo del commento 3 dice che l’unità è la più certa delle misure per il fatto che è assolutamente indivisibile.214 Nelle grandezze continue, invece, occorre postulare un’unità che, secondo natura o secondo la sensazione o per convenzione, sia minima per quanto è possibile, perché la misura deve essere certa. Della seconda misura, invece, Aristotele ha parlato nel testo del commento 7 del medesimo libro X, ove ha detto che in qualunque genere c’è un’unità che è il metro e la misura di tutte le altre cose che sono nel medesimo genere; e questa unità è prima rispetto ad esse,215 come nel genere dei colori è il bianco. In quello stesso luogo

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toteles ibidem exemplificat. Modo albedo non est mensura metiendi quanta sit nigredo ut unum, vel ut duo ut satis patet, sed est regula cognoscendi perfectionem cuiuscumque coloris per accessum vel recessum ab ipsa albedine tamquam summa et prima in genere colorum et eminenter continente omnes colores. Unde Commentator in fine illius commenti septimi dicit: cum autem demonstratum fuerit quod illud, quod in fine [33a] octavi Physicorum demonstratum est, esse primum motorem, esse primam formam et ultimum finem et primum in toto ente, tunc erit primum in substantia quod mensurat omnes substantias. Immo verius dixisset Commentator quod tale est primum et mensura in tota latitudine entis; XII enim Metaphysicae ad finem demonstrat Aristoteles quod Deus in toto universo est sicut dux in exercitu. Quare est primum nedum in substantia, immo in toto ente. Sequitur enim hoc. Nam VII Metaphysicae ostensum est quod accidens non est ens, nisi quia entis, quare si Deus est primum in substantia, et substantia est causa accidentis. Deus ergo erit causa et principium in toto ente. Modo si Deus est metrum totius entis, non iam est metrum quo scimus aliquod quantum sit, sed est mensura perfectionis; per eius enim appropinquationem et recessum cognoscitur perfectio uniuscuiusque, sed per primum genus mensurae scitur per suppositionem et replicationem, quantum sit Deus, etiam est maximus, cui nihil adequari potest; prima autem mensura est minima. 3. Quare Aristoteles, fere in omnibus auctoritatibus citatis, a principio mensurat rei perfectionem. Sic enim mensurat perfectionem substantiae, quae est species, per appropinquare primae substantiae; perfectionem propositionum per appropinquare primis notissimis; perfectionem creaturarum per appropinquare ipsi optimo. Sed per primum genus mensurae, scitur quanta est perfectio uniuscuiusque creaturae, per tot minimas mensuras perfectionis continere, quod est dicere per tantum distare a non gradu perfectionis, id est per tot gradus latitudinis talis facientis distare sive differre a non gradu continere, sive quia volens mensurare inchoat a non gradu, sicut saepius dictum

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Aristotele adduce molti esempi. Ma il bianco non è il metro per misurare quanto sia grande la nerezza di grado uno o due, come è sufficientemente chiaro, ma è la norma per conoscere la perfezione di ciascun colore per vicinanza o lontananza dalla stessa bianchezza, perché il bianco è la qualità somma e prima nel genere dei colori e contiene in grado eminente tutti i colori. Pertanto Averroè alla fine di quel commento 7 dice: poiché si è dimostrato ciò che era stato dimostrato alla fine [33a] dell’VIII Physicorum,216 cioè che c’è un primo motore, una prima forma e un fine ultimo e primo della totalità dell’essere, ci sarà un primo nella sostanza che dà la misura di tutte le sostanze. Anzi, più precisamente Averroè ha detto che ciò che è il primo è anche la misura della totalità dell’essere.217 Infatti, Aristotele alla fine del libro XII della Metaphysica dimostra che Dio sta rispetto a tutto l’universo come un comandante rispetto all’esercito.218 Perciò è primo non solo rispetto alla sostanza, ma lo è rispetto a tutto l’essere. Ne consegue altresì, come chiarisce il libro VII della Metaphysica, che l’accidente non sussiste se non in virtù di un ente.219 Perciò se Dio è primo nella sostanza, anche la sostanza è causa dell’accidente. Dio, dunque, sarà causa e principio di tutto l’essere. Ma se Dio è il metro di tutto l’essere, non è il metro con il quale sappiamo quanto è una cosa, ma è la misura della perfezione. Infatti, per la vicinanza a Lui e per la distanza da Lui si conosce la perfezione di ciascuna cosa, ma con il primo genere di misura si sa per supposizione e replicazione quanto grande sia Dio e sappiamo anche che è l’ente massimo che non può essere uguagliato da nessuna cosa; invece, la prima misura è una quantità minima. 3. Perciò Aristotele in quasi tutti i luoghi citati misura la perfezione di una cosa a partire dal principio. Infatti, misura la perfezione della sostanza, che è specie, per approssimazione alla sostanza prima; la perfezione delle proposizioni per vicinanza ai primi principi più noti; la perfezione delle creature per approssimazione all’eccellente. Ma per il primo genere di misura si conosce quanta è la perfezione di ciascuna creatura, si sa che contenere tante misure minime di perfezione significa distare di tanto dal non grado di perfezione, cioè contenere tanti gradi di una estensione tanto da produrre una distanza o da produrre una differenza dal non grado, oppure perché chi vuole misurare comincia dal non grado, come troppo spesso si è detto. Questa

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est. Haec autem mensu[11rb]ra perfectionis est illa, qua utuntur aurifices, venditores, emptores et cuiuscumque rei opifices, quae indicantia sive indicatoria, sive exemplaria appellantur et vulgari sermone parangone nuncupantur. Aurifices enim habent apud se aurum vel argentum vel quodvis aliud, quod est perfectissimum quantum haberi potest et per collationem ad illud cognoscunt quod aurum est perfectum, utputa illud quod ei adaequatur, quod autem ei non adaequatur est imperfectum. Sciuntque quantae perfectionis sit per tantum appropinquare ipsi, id est tantum participare de eo, et per negationem distantiae a non gradu secundum primam opinionem, secundum vero secundam opinionem per tantum distare a non gradu incipiendo. Scitur autem eius imperfectio per distantiam a summo. Haec est etiam illa mensura quam posuit Galenus in libro Complexionum et in secundo Artis parvae, quod corpus temperatum est regula cognoscendi perfectionem et imperfectionem omnium corporum humanorum. Haec est mensura [33b] de qua dicunt medici, quod medium in tota substantia est regula cognoscendi calida, frigida, humida et sicca etc. Haec est etiam illa de qua dicunt pictores sive scupltores quod statua Polycleti est regula omnium statuarum. Platonis quoque ideae sunt regula omnium ideatorum. Nam homo qui magis appropinquat ideae hominis in mente divina est perfectior. 4. Sed hanc regulam et mensuram ignoraverunt isti Calculatores, si eam namque cognovissent suam aliquantulum arrogantiam compressissenta, cum ausi sint contradicere tantis philosophis, nihilque veri dicentes in hac materia, sed ut in proverbio dicitur, ubi plus de ignorantia, ibi plus de temeritate. Nam et temeritas causat sive parit ignorantiam et ignorantia praesumptionem sive temeritatem. Scire autem oportet quod diversae naturae, diversas habent mensuras et ex parte minimi et ex parte maximi, unde X Metaphysicae, dicitur alia est mensura temporis, alia motus, alia liquidorum, alia non liquidorum, et fortassis quod aliud est, secundum denominationem, minimum caliditatis et aliquod frigiditatis. Et sic de maximo, si natura illa est terminata ad maximum, sicut manifestum est de etherogeneis et multi tenuerunt etiam de homogeneis, sed latitudo completa, id est cui nihil deficit, si in infinitum protenditur, dicitur esse talis a

compressissent] comprehendissent T.

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misura della perfezione è quella [11rb] di cui si servono gli orefici, i venditori, i compratori e qualunque artigiano; essi chiamano indicatori o campioni o esemplari ciò che nella lingua volgare è chiamato ‘termine di paragone’. Anche gli orefici hanno presso di sé un campione di oro o di argento o qualsivoglia altra cosa che è il più possibile perfetta e conoscono per paragone ad esso che l’oro è perfetto, in quanto più si adegua a quel campione; quello che, invece, non si adegua è imperfetto. Sanno quant’è la sua perfezione perché di tanto si avvicina al campione cioè di tanto partecipa di esso, e lo sanno altresì per negazione della distanza dal non grado, come sostiene la prima opinione e per tanto distare dal non grado cominciando da esso, come sostiene la seconda opinione. Si conosce anche la sua imperfezione per la distanza dal sommo. Tale è anche l’unità di misura che propose Galeno nelle Complexiones e nel libro II dell’Ars parva, ove propose il corpo temperato come la regola per conoscere la perfezione e l’imperfezione di tutti i corpi umani.220 Questa è la misura [33b] di cui parlano i medici, cioè che ciò che è medio in tutta la sostanza è la regola per conoscere le cose calde, fredde, umide e secche. Questa è anche quella di cui parlano i pittori o gli scultori, cioè che la statua di Policleto è la regola di tutte le statue.221 Anche le idee di Platone sono la regola di tutto ciò che è ideato. Infatti, l’uomo che più si approssima all’idea di uomo è più perfetto nella mente divina. 4. Ma questi Calcolatori ignorarono tale regola; se ne avessero avuto cognizione avrebbero tenuto un po’ più a freno la loro arroganza per aver osato contraddire un così grande filosofo. Essi in questa materia non dicono nulla di vero e, come si ripete nel proverbio, dove c’è più ignoranza, c’è più temerarietà. Infatti, anche la temerarietà causa o genera l’ignoranza e l’ignoranza la presunzione o la temerarietà. È necessario sapere che nature diverse hanno diverse misure sia per il minimo sia per il massimo, ragion per cui nel libro X della Metaphysica si dice che una è la misura del tempo, un’altra del moto, un’altra dei liquidi, un’altra dei non liquidi e forse uno è il nome del minimo del caldo e un altro è quello del freddo.222 Lo stesso si dica del massimo, se quella natura è determinata rispetto al massimo, come risulta evidente a proposito delle cose eterogenee; e molti pensarono che lo stesso valesse per le omogenee. Ma l’estensione completa, cioè quella che non manca di nulla,

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mensura. Nam posito quod Deus sit infinitus, ipse est mensura perfectionis, si velocitas crescit in infinitum, perfecta velocitas, cui nihil deest de velocitate, est tota latitudo velocitatis. Quod si quaeratur quae est regula cognoscendi maximam et minimam caliditatem, huic dicitur quod principia, ut principia sunt, non cognoscuntur per alia, sed sunt sumpta; unde quod sit a vel b minima caliditas, ut dictum est, hoc est per sui naturam et per sui naturam cognoscitur etiam vel ex sensu vel ex institutione. In omni enim genere est devenire ad unum primum quod non cognoscimur per alterum, aliter enim esset processum ad infinitum. Quod igitur hoc sit minimum et illud sit maximum, vel est ex se notum, vel ex aliquo alio declaratur, ut inductione vel experimento vel ex communi conceptione, de quibus Aristoteles, in fine secundi Posteriorum, declarat. Sed quomodocumque sit, non est praesentis negotii, cum non deceat ponere capitulum in capitulo, sufficiat enim quod sic volenti mensurare accipiat illas mensuras tamquam per se notas, unam ex parte maximi, aliam vero ex parte minimi. Quomodo vero illa sit maxima, alia autem sit minima, vel accipitur tamquam per se notum vel ex inductione vel experimento vel auctoritate, neque inconvenit quod in una scientia suppositum tamquam principium demonstretur in alia scientia. Unde geometer ut dicit Phi[34a]losophus. primo Physicorum, supponit continuum dividi in infinitum, et tamen existimatur quod Aristoteles, sexto Physicorum, demonstraverit illud principium; quod quomodo habeat hoc dictum veritatem, cum mathematica sit magis abstracta naturali, non est nostri negotii hic. Ex his igitur apparet duas esse regulas mensurandi et quomodo haec adinvicem differant et conveniant. [11va]

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si dice essere completa in misura massima se tende all’infinito. Infatti, posto che Dio sia infinito, Egli è la misura della perfezione. Se la velocità cresce all’infinito è la velocità perfetta, cui non manca nulla della velocità ed è l’estensione totale della velocità. Se si chiede qual è la regola per conoscere il calore massimo e quello minimo, si risponde che i princìpi, in quanto tali, non si conoscono per mezzo di altro, ma sono assunti come tali. Perciò che il caldo minimo sia a o b, ciò, come si è detto, dipende dalla sua natura e si conosce per la sua natura o per la sensazione o per convenzione. In ogni genere di cose si deve pervenire ad un unico primo principio che non si conosce per mezzo di altro, altrimenti ci sarebbe un processo all’infinito. Che, dunque, questo sia minimo e quello sia massimo o è per sé noto o è dichiarato tale a partire da qualche altra cosa o per induzione o per esperienza o per comune modo di pensare. Di tutto questo tratta Aristotele alla fine del II Posteriorum.223 Ma in che modo ciò accada non rientra nel presente lavoro, poiché non è conveniente aggiungere capitolo a capitolo, ma è sufficiente che chi vuole misurare quelle cose assuma le misure per sé note, una per il massimo e l’altra per il minimo. D’altronde non è conveniente che il principio presupposto da una scienza sia dimostrato per mezzo di un’altra scienza né che si dimostri in che modo una misura sia massima e l’altra minima o in che modo il minimo si assuma come cosa per sé nota o per induzione o per esperienza o sulla base di autorità. Per questa ragione il geometra, come dice Aristotele [34a] nel I Physicorum, suppone che il continuo si divida all’infinito;224 in ogni caso si ritiene che Aristotele nel VI Physicorum abbia dimostrato tale assunto.225 In che modo poi tale affermazione sia vera, essendo la matematica più astratta della filosofia naturale, non è qui materia del nostro trattato. Da quanto si è detto risulta che due sono le regole della misurazione e si è mostrato come esse siano reciprocamente divergenti e convergenti. [11va]

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INTENSITÀ E ATTENUAZIONE DELLE FORME

CAPUT III IN QUO OSTENDITUR INTENSIONEM ET REMISSIONEM IN ALIQUIBUS DE NECESSITATE ATTENDI PENES APPROPINQUATIONEM ET DISTANTIAM AD SUMMUM ET HOC SUMENDO APPROPINQUATIONEM PRO MINUS DISTARE, QUOD ERAT TERTIA SIGNIFICATIO APPROPINQUATIONIS

1. Scire autem oportet quod in aliquibus et secundum aliquam acceptionem intensio et remissio, perfectio et imperfectio non directe et apte cognosci possunt, nisi in habitudine ad summum, sive ad unum primum et secundum appropinquationem et distantiam ab illo, id est secundum exclusive magis vel minus distare ab illo summo cognoscitur eorum intensio vel remissio, sive perfectio et imperfectio, quod quidem erat secundum tertiam significationem propinquitatis et distantiae, quod in aliis non conveniebat dicere. Diximus enim quod absolute intensio et remissio non respiciunt neque non gradum, neque summum, sicut magnum et parvum non respiciunt non quantum neque maximum, ut Commentator dicit X Metaphysicae commento 19, perfectum autem et imperfectum respiciunt totam latitudinem, ut dictum est. Hic vero volumus ostendere quod haec aliquando determinate respiciunt summum et secundum magis distare et minus distare ab illo summo, secundum istam considerationem dicuntur intensiora vel remissiora, perfectiora vel imperfectiora. Differt autem iste modus a secundo quia quod deficiebat a summo per appropinquare summo, id est per negationem distantiae a non gradu, id est per quantum occupabat de distantia, incipiendo a non gradu, dicebatur esse perfectum et per quantum non occupabat, dicebatur esse imperfectum, et secundum primam opinionema. Secundum autem secundam opinionem per quantum distabat a non gradu dicebatur esse perfectum, quod idem est re, quod appropinquare summo, sed differt voce, per quantum vero distabat a summo est imperfectum, sed secundum istam alteram considerationem praesentem, totum sumitur penes distare [34b] a summo, nulla habita consideratione ad non gradum. Quare totum exclusive sumitur. Unde ut exemplo intelligatur, caliditas ut sex est intensa respectu caliditatis ut quattuor, quia illa ut sex continet eam ut quattuor et eam excedit, ipsa eadem caliditas ut sex est perfectior a

et secundum primam opinionem] om. P.

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SEZ. IV, CAP. III

CAPITOLO III SI DIMOSTRA CHE L’INTENSITÀ E L’ATTENUAZIONE IN ALCUNE COSE SI ATTENDONO NECESSARIAMENTE DALLA VICINANZA E DALLA DI-

STANZA DAL SOMMO, ASSUMENDO LA VICINANZA NELL’ACCEZIONE DI DISTARE DI MENO, CHE ERA IL TERZO SIGNIFICATO DELLA VICINANZA

1. È necessario inoltre sapere che in alcune cose e secondo una certa accezione di intensità e di attenuazione, la perfezione e l’imperfezione non possono essere conosciute direttamente e in modo idoneo, se non in rapporto al sommo o ad un primo principio e per vicinanza e distanza da esso; cioè si conosce la loro intensità e la loro attenuazione o la loro perfezione e imperfezione esclusivamente per distare di più o di meno da quel sommo, che era il terzo significato di vicinanza e di distanza; affermazione questa che era opportuno fare in riferimento agli altri significati. Abbiamo puntualizzato, infatti, che in assoluto l’intensità e l’attenuazione non si riferiscono né al non grado, né al sommo, ma, come dice Averroè nel commento 19 del libro X della Metaphysica, il perfetto e l’imperfetto si riferiscono all’estensione totale, come si è detto.226 Qui vogliamo però mostrare che l’intensità e l’attenuazione talvolta sono determinate rispetto al sommo per essere più o meno distanti dallo stesso sommo e sono dette da tal punto di vista più intense o più attenuate, più perfette o più imperfette. Questo significato differisce dal secondo per il quale ciò che è manchevole rispetto al sommo si dice perfetto per la vicinanza ad esso, cioè per la negazione della distanza dal non grado, vale a dire per quanta distanza occupa a partire dal non grado, e si dice imperfetto per quanta non ne occupa. Così è per la prima opinione. Per la seconda invece si dice perfetto per quanto dista dal non grado, che è, di fatto, la vicinanza al sommo, ma differisce dalla prima per il nome, perché per essa si dice imperfetto per quanto dista dal sommo. Ma per questo secondo modo di considerare la questione tutto è rapportato alla distanza [34b] dal sommo, senza alcun riferimento al non grado. Perciò la totalità è assunta in senso esclusivo. Per comprendere la cosa con un esempio, poniamo il caldo di grado sei, che è intenso rispetto a quello di grado quattro, perché lo contiene e lo eccede: lo stesso caldo di grado sei è più perfetto di quello di grado quattro per-

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caliditate ut quattuor, quiaa plus participat de latitudine caliditatis quam ea ut quattuor cum plus appropinquat, hoc est plus includat et plus neget de tota distantia quam ea ut quattuor. Hic autem volumus declarare quod aliquando caliditas ut sex est intensior ea ut quattuor, non propter aliquam illarum habitudinum recitatarum, sed ex eo quod caliditas ut sex minus distat a summa quam ea ut quattuor, et quia minus medium cadit inter octo et sex quam inter octo et quattuor, quod, ut visum est, non contingebat in aliis, accipiendo enim intensum ut non determinat neque respicit aliquem terminum et simpliciter secundum suam rationem formalem. Ideo a utputa gradus ut sex est intensus ad gradum ut quattuor, quia ipsum includit et excedit, est etiam intensior eo, quia plura includit et magis excedit quam includat vel excedat gradus ut quattuor, et hoc proprie sumendo intensius sicut fuit supra dictum. Est autem gradus ut sex intensior gradu ut quattuor, sumendo intensionem pro perfectione, quia plus participat de latitudine caliditatis, incipiendo a non gradu quam participet gradus ut quattuor, quod participare est plus appropinquare gradui summo eo plus de distantia a non gradu negat et etiam tale est magis distare a non gradu. 2. Volentes autem hoc declarare, accipiamus unum per se notum, quod scilicet agens naturale agit per determinatam sphaeram, latitudinem uniformiter difformem sui effectus. In cuius sane puncto immediato est intensissimus gradus sui effectus, in puncto vero remotissimo non quidem simpliciter, sed illius sphaerae est non gradus illius effectus. In puncto vero intermedio inter punctum remotissimum et punctum immediatum ipsi agenti, gradus medius inter non gradum et gradum intensissimum productum a tali agente, et hoc ubi passum sit uniforme, et aliunde non habuerit impedimentum, quam propositionem ponit Commentator, 78 commento, secundi De anima, et dicit propositionem veritatem habere non solum in actione reali, verumetiam in actione spiritua]11vb] li. Sicut exemplificat in qualitatibus cuiuscumque sensus. Nam odorabile sentitur non secundum distatiam infinitam, quia res naturales sunt terminatae et secundum virtutem et quantitatem et actionem. Sed ad certam distantiam per modum sphaerae in punctoque remotissimo illius sphaerae non sit olphatus, sed secundum maiorem et minorem appropinquationem ad ipsum odorabile fit a

quia] quod P.

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ché più del primo partecipa dell’estensione del calore, si avvicina più del caldo di grado quattro e nega una parte maggiore della distanza totale. Qui vogliamo anche chiarire che talvolta il caldo di grado sei è più intenso di quello di grado quattro, non a causa di uno di quei rapporti che si sono citati, ma per il fatto che il caldo di grado sei dista di meno dal sommo di quello di grado quattro e perché è minore l’intermedio che cade tra otto e sei di quello che cade tra otto e quattro; cosa che, come si è visto, non accadeva per le altre opinioni, in cui l’intenso è assunto nell’accezione non di ciò che determina o è relativo a qualche termine, ma semplicemente nella sua natura formale. Così per esempio a di grado sei è intenso rispetto al grado quattro perché lo include e lo eccede ed è anche più intenso di esso perché include di più e eccede di più di quanto includa o ecceda il grado quattro e ciò assumendo propriamente il più intenso, come si è detto sopra. Ma, assumendo l’intensità come perfezione, il grado sei è più intenso del grado quattro, perché cominciando dal non grado partecipa dell’estensione del caldo più del grado quattro e questo partecipare significa approssimarsi di più al grado sommo per il fatto che nega più distanza dal non grado; e tale è il ‘distare di più dal non grado’. 2. Volendo far chiarezza su questo punto, partiamo da una cosa per sé nota, cioè che l’agente naturale agisce secondo una determinata sfera e secondo un’estensione uniformemente difforme dei suoi effetti. Nel punto immediato [il centro] della sfera è intensissimo il grado del suo effetto, nel punto più lontano, non in senso assoluto, ma relativo alla stessa sfera c’è il non grado di quell’effetto. Nel punto medio tra quello più remoto e quello più vicino allo stesso agente c’è il grado medio tra il non grado e il grado intensissimo prodotto dall’agente, a condizione che esso sia passivo e che non abbia fuori di sé un impedimento. Questa è l’idea di Averroè nel commento 78, del II De anima, ove dice che tale idea contiene la verità non solo in relazione all’azione reale, ma anche a quella spirituale.227 [11vb] E fornisce esempi in riferimento alle qualità relative a ciascun senso. Infatti, l’odorabile è sentito non ad una distanza infinita, perché le cose naturali sono determinate sia per potere, sia per quantità sia per azione, ma è sentito ad una certa distanza nella modalità di una sfera nel cui punto più remoto non è più percepito, ma nei punti di maggiore o minore approssimazione allo stesso odorabile la

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melior [35a] sensatio, caeteris tamen existentibus paribus, et ubi aliunde non habuerit impedimentum. Nam secundum suam opinionem sensibile, positum supra sensum, non causat sensationem, sicut est etiam sententia Aristotelis ubique, et sicut dictum est de odorabili, eodem modo de aliis sensibilibus intelligendum est, et in commento 97 eiusdem secundi, repetit eandem sententiam. Unde orta est quasi illa communis animi conceptio, quod agens naturale intensiorem producit effectum in partem propinquam sibi quam in partem remotam et hoc ubi caetera paritatem habeant. 3. Quare conterraneus noster et nominis nostri consors, Petrus de Mantua, vir certe acutissimi ingenii in tractatu suo De primo et ultimo instanti multoties ea usus est, licet ipse non tantum dicat de intensione, scilicet quod intensius agit, sed etiam quod prius et velocius agit, quae sane opinio vera sit, vel falsa non nostri est nunc instituti discurrerea, unum est quod si aeque primo agat in remotum et in propinquum, sicut in corpore luminoso et in quocumque agente sine contrarietate et resistentia propositio veritatem continet; si verob prius in propinquum quam in remotum, ut in agente cum contrarietate, saltem secundum minima verificatur, quia secundum tenentes minima, sicut datur primum generatum, ita datur primum alteratum, cum primo De generatione alteratio ordinatur ad generationem, semper igitur verificabitur quod, caeteris paribus, intensior gradus inducitur in propinquo quam in remoto. Disposito ergo uno luminoso producente latitudinem sui luminis, ab octo usque ad non gradum per distantiam pedalem, sive accipiturc unum corpus producens caliditatem ab 8 usque ad non gradum per distantiam pedalem. In puncto illius distantiae immediato agenti erit caliditas ut 8, in puncto remotissimo illius distantiae erit non gradus caliditatis; in puncto vero intermedio erit gradus ut quattuor, quia etiam est intermedius inter octo et non gradum; in puncto autem intermedio inter punctum medium illius distantiae pedalis et punctum immediatum ipsi agenti, erit gradus ut sex; qui gradus ut sex est etiam intermedius inter gradum ut quattuor et gradum ut octo. Modo si quaeratur cur in puncto immediato inducitur intensissimus gradus, non quidem simpliciter, sed qui potest induci a tali a

discurrere] discutere P. propositio veritatem continet; si vero] contingit sive P. b

c

accipitur] accipiatur P.

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sensazione è migliore, [35a] a parità di altre condizioni e in assenza di un impedimento esterno. Infatti, secondo l’opinione di Averroè il sensibile, che supera il senso, non causa la sensazione; anche Aristotele dice dappertutto la stessa cosa. E come si è detto dell’odorabile si deve intendere allo stesso modo delle altre sensazioni e nel commento 97 del libro II Averroè ripete la stessa opinione.228 Da ciò è derivata la comune concezione secondo cui l’agente naturale produce un effetto più intenso nella parte prossima a sé che in quella più remota a parità di altre condizioni. 3. Perciò il nostro conterraneo, che con noi condivide il nome, Pietro di Mantova,229 uomo certamente di acutissimo ingegno, nel suo trattato De primo et ultimo instanti,230 spesso si è servito di tale concetto, sebbene egli intorno all’intensità non dica solo che l’agente naturale agisce più intensamente, ma anche che agisce prima e più velocemente. Se questa opinione sia vera o falsa non è ora oggetto della nostra discussione. La proposizione è vera se uno solo è ciò che agisce per primo e in egual modo su ciò che è lontano e su ciò che è prossimo, come accade in un corpo luminoso e in qualunque agente che agisce senza contrarietà e senza resistenza; se, invece, agisce prima su ciò che è vicino che su ciò che è lontano e se all’azione dell’agente si oppone una qualche contrarietà, la proposizione è vera almeno in relazione ai minimi, poiché secondo coloro che sostengono l’esistenza dei minimi, come si dà il primo generato, si dà il primo alterato, e poiché nel I De generatione si dice che l’alterazione è in funzione della generazione,231 si verificherà sempre che, a parità di condizioni, il grado più intenso si muove verso ciò che è prossimo più che verso ciò che è remoto. Sia dato, dunque, un punto luminoso che produce un’estensione di gradazioni della propria luminosità da otto fino al non grado per una distanza di un piede oppure un corpo che produce un caldo da otto al non grado per la distanza di un piede. Nel punto di quella distanza, immediatamente vicino all’agente, ci sarà un caldo di grado otto, nel punto più lontano di quella distanza ci sarà il non grado del caldo; nel punto medio ci sarà il grado quattro, perché è medio tra otto e il non grado; nel punto medio tra il medio di quella distanza di un piede e quello immediatamente vicino allo stesso agente, ci sarà il grado sei che è medio tra il grado quattro e il grado otto. Ora se si chiede perché nel punto immediato si determina un grado intensissimo, non certo in assoluto, ma quale può essere prodot-

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agente, in puncto autem remotissimo non gradus est, in medio vero puncto gradus medius inter non gradum et intensissimum; in puncto vero medio inter medium et immediatum gradus medius, inter medium et intensissimum, cum idem sit agens et passum consimiliter dispositum, ut suppono; certe nulla potest rationabilis causa assignari, nisi ex parte inaequalitatis approximationis, et ex maiori et minori distantia ab ipso agente, infra tamen sphaeram suae activitatisa, nam quod [35b] immediatum est ipsi agenti melius, ex tali applicatione recipit influxum ipsius agentis. Quod vero mediatum est et distat ab ipso agente, minus recipit eiusdem agentis influxum. Quod autem est in extremo distantiae datae sphaerae, nullum influxum ab ipso agente suscipere potest. Quare Terentius in Eunucho dixit: Accede ad hunc ignem et magis calesces,

quia approximatio ad suam causam et ad suum principium magis dat de influxu causae, ut experientia docet, neque tamen secundum quod aliquod agens magis approximatur, id est minus distat et sit magis immediatum agenti proportionabiliter et geometrice sic plus recipit de illo influxu, quia sic tale fieret infinite quale et infinite intensus, et agens finitum in qualitate et quoad gradum et quoad potentiam, infinitum effectum produceret; quod est omnino imaginabile. 4. Verum isto modo intelligi habet quod, accepta locali distantia et qualitateb, per quam agit et, accepta latitudine qualitatis, et divisa ipsa distantia in partes aequales secundum denominationem, ut utrisque divisis in duas medietates, vel in tres tertias, vel in quattuor quartas, vel octavas, vel decimas, vel cuiuscumque alterius numeri. Namc, quibuscumque duabus quantitatibus assignatis continuis finitis, possunt illae dividi in partes aequales secundum deno[12ra]minationem, licet non semper aequales secundum quantitatem, ut acceptis pedali et bipedali, possumus utrumque dividere in medietates, in quartas, in octavas et sic in infinitum, licet illae medietates, quartae et octavae non sint aequales inter se, scilicet comparando medie-

a b

activitatis] actvitatis P; acuitatis T. et qualitates] om. P.

c

Nam] om. P.

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to da quell’agente, e nel punto più remoto si determina, invece, il non grado, nel punto medio si determina il grado medio tra il non grado e quello intensissimo, nel punto medio tra il medio e il punto immediato si determina il grado medio tra il medio e l’intensissimo, fermo restando che l’agente sia lo stesso e che il paziente sia disposto in modo simile, suppongo che a tutto ciò non si può certo assegnare ragionevolmente altra causa che non sia quella della disuguaglianza della vicinanza e della maggiore o minore distanza dallo stesso agente entro la sfera della sua attività. Infatti, ciò [35b] che è immediato allo stesso agente meglio recepisce da tale vicinanza l’influsso dello stesso agente; ciò che, invece, è medio ed è distante dallo stesso agente, meno recepisce l’influsso dello stesso agente. Ciò che, invece, è nella distanza estrema della sfera data non può ricevere alcun influsso da parte dello stesso agente. Perciò Terenzio nell’Eunuchus232 dice: avvicinati a questo fuoco e ti riscalderai di più

perché la vicinanza alla propria causa e al proprio principio, come insegna l’esperienza, determina un maggiore influsso della causa. Ma non è possibile affermare che ciò che si approssima di più all’agente, cioè che dista di meno ed è più vicino all’agente, più recepisce proporzionalmente e geometricamente il suo influsso, perché, se così fosse, la qualità sarebbe infinita e infinito l’intenso; e l’agente finito per qualità, sia per ciò che concerne il grado sia per ciò che concerne la potenza, produrrebbe un effetto infinito; questo effetto infinito esiste solo nel pensiero. 4. Perciò l’influsso si deve intendere in questo modo: sia data una distanza locale ed una qualità per la quale l’agente agisce; sia data altresì un’estensione della qualità e sia divisa la distanza in parti uguali per denominazione così che tanto l’estensione quanto la distanza siano divise in due metà o in tre terzi o in quattro quarti o in ottavi o in decimi o in qualsivoglia altro numero. Infatti, quali che siano le quantità dei due estremi, assegnate ai continui finiti, l’estensione e la distanza si possono dividere in parti uguali per denominazione, [12ra] sebbene non siano sempre uguali per quantità; sicché, prese le lunghezze di un piede e di due piedi, possiamo dividere entrambe in metà, in quarte parti, in ottave e così via all’infinito; e quelle metà, quarte e ottave parti non sono tra sé uguali, non sono cioè uguali mettendo a confron-

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tatem pedalis medietati bipedalis. In p